Giovani e percorsi professionalizzanti. Un gap da colmare? Rapporto di ricerca

Autore: 
Claudia Donati - Luigi Bellesi
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2007
Numero pagine: 
183
A cura di Claudia DONATI - Luigi BELLESI Giovani e percorsi professionalizzanti: un gap da colmare? Rapporto finale CIOFS/FP La ricerca è stata affidata dal CNOS-FAP e dal CIOFS/FP al CENSIS. L’indagine è stata realizzata da un gruppo di lavoro coordinato da Claudia Donati e composto da: Luigi Bellesi, Sergio Vistarini e Vittoria Coletta. L’équipe ha operato sotto la responsabilità di Claudia Donati (CENSIS) d’intesa con i Presidenti del CNOS-FAP e del CIOFS/FP. 3 PRESENTAZIONE Le Sedi nazionali del CNOS-FAP e del CIOFS/FP hanno avviato, nel corrente anno, una collaborazione con il CENSIS per intraprendere un’azione di ricerca sui giovani che rappresentano il segmento fondamentale che influisce sia sull’offerta formativa successiva al completamento del primo ciclo di istruzione (istruzione se- condaria di secondo grado e formazione professionale iniziale per il diritto-do- vere), sia quella post-secondaria, accademica e non. Questa prima ricerca tende ad approfondire le dinamiche, i fattori, i condizio- namenti ed i percorsi che sottostanno alle scelte dei giovani a conclusione del primo ciclo di istruzione, offrendo spunti interpretativi sia di coloro che tendenzial- mente optano per percorsi di studio generalisti destinati a proseguire perlopiù in ambito universitario, sia di coloro che, in misura più contenuta, optano per per- corsi di studio di tipo professionalizzante, orientati al conseguimento di un titolo spendibile sul mercato del lavoro. Il presente volume, dal titolo “Giovani e percorsi professionalizzanti: un gap da colmare? Rapporto finale”, contiene i risultati di una rilevazione effettuata su 1.000 giovani in età compresa tra i 14 e i 19 anni, rappresentativi dell’universo per area geografica, sesso e Comune di residenza. Gli spunti contenuti in questa prima ricerca sono interessanti per quanti ope- rano, a vario titolo, sia nel sistema educativo di istruzione e formazione che nel più specifico (sotto)sistema di istruzione e formazione professionale, dal momento che, affermano i ricercatori del CENSIS, “affiorano, anche da questa rilevazione, se- gnali che potremmo interpretare come proxy della scarsa mobilità tuttora caratte- rizzante la società italiana, la quale opera come elemento ordinatore di scelte e percorsi”. Al fine di avere una visione più completa delle sollecitazioni a cui il comples- sivo sistema di offerta formativa viene sottoposto, il CNOS-FAP ed il CIOFS/FP hanno promosso una seconda ricerca (che sarà oggetto di una successiva pubbli- cazione), prendendo in considerazione il punto di vista del modo imprenditoriale. Da tempo, infatti, si assiste ad uno scollamento tra la richiesta di una cultura tec- nico-professionale di livello intermedio proveniente dal mondo imprenditoriale e l’opzione generalista che caratterizza le scelte scolastiche delle giovani genera- zioni. Gli enti promotori delle due iniziative si augurano di poter offrire anche ai de- cisori politici stimoli utili ad accompagnare il processo di riforma che investe tutto 4 il sistema educativo, dal momento che “varrebbe forse la pena interrogarsi – affer- mano sempre i ricercatori del CENSIS – sulla complessiva architettura del sistema di offerta formativa, al fine di capire quale ne sia il grado di aderenza rispetto a esigenze ed aspettative di utenti diretti ed indiretti, intendendo con questi ultimi anche le famiglie. Sarebbe altrettanto opportuno verificare, sotto il profilo dell’in- tensità, il fabbisogno di metodologie di apprendimento altre da quelle immanente- mente scolastiche ed aventi un più alto potenziale di attrattività per gli stessi stu- denti”. Il CNOS-FAP e il CIOFS/FP 5 CONSIDERAZIONI DI SINTESI:un fabbisogno latente di formazione professionalizzante tra derive liceali ed universitarie In questa sede si presentano i risultati di una rilevazione, realizzata dal Censis per conto del CNOS-FAP e del CIOFS/FP nazionali, su 1.000 giovani studenti in età compresa tra i 14-19 anni, rappresentativi dell’universo per area geografica, sesso e Comune di residenza. Attraverso un questionario strutturato, somministrato telefonicamente a giugno 2007, sono state analizzate le seguenti tematiche: – il percorso scolastico e formativo finora intrapreso; – il vissuto scolastico e formativo (opinioni, atteggiamenti e motivazioni); – l’atteggiamento rispetto al lavoro e allo studio, in prospettiva. Parallelamente, è stato sentito, se disponibile, anche un genitore del giovane intervistato, al fine di contestualizzare i dati raccolti e di rilevare le opinioni del nu- cleo familiare in merito alle scelte pregresse e future del figlio. La lettura trasversale dei dati raccolti deve essere compiuta tenendo conto della ratio sottesa alla ricerca stessa, ovvero comprendere e possibilmente definire i contorni qualiquantitativi del fabbisogno di percorsi formativi professionalizzanti da parte di utenti e stakeholder del sistema dell’istruzione e della formazione pro- fessionale. Da un’analisi di primo livello, i giovani intervistati si caratterizzano prevalen- temente per il loro essere fortemente “istituzionalizzati”, intendendo con tale attri- buto un agire giovanile connotato da comportamenti, opinioni e scelte, se non ste- reotipati, quanto meno condizionati da convenzioni sociali e strutturazione scuola- centrica del vigente sistema di istruzione-formazione complessivamente conside- rato. Leggendo, invece, tra gli interstizi dei dati è possibile intercettare aspettative ed esigenze più articolate che meritano di essere poste in evidenza, sebbene non sempre ricomponibili all’ interno di un quadro logico esplicito e coerente. Nonostante il processo di cetomedizzazione che ha caratterizzato il nostro paese nei decenni passati, rendendo i percorsi di studio più eterogenei sotto il pro- filo dell’appartenenza sociale, tuttavia affiorano, anche da questa rilevazione, se- gnali che potremmo interpretare come proxy della scarsa mobilità sociale tuttora caratterizzante la società italiana, la quale opera come elemento ordinatore di scelte e percorsi. Procediamo per esempi: 6 – all’interno degli stessi nuclei familiari più abbienti risiedono i 3/4 di coloro che hanno conseguito ottimo o distinto all’esame di licenza media mentre oltre il 60% di coetanei meno abbienti ha riportato buono o sufficiente come votazione finale; – l’84,1% dei figli dei genitori più abbienti opta per un indirizzo liceale, percen- tuale che diminuisce, lasciando spazio agli indirizzi tecnici (39,4%) e profes- sionali (23,5%), nel caso di nuclei familiari medio bassi o alla formazione pro- fessionale che interessa il 12,4% dei nuclei di estrazione più bassa; – tra i primi, coloro che affermano di avere un giudizio molto al di sopra della media sono il 41,9%, mentre tra gli ultimi la quota corrispondente è significati- vamente inferiore (26%). I dati sopra esposti, considerati nella loro consequenzialità, devono pertanto indurci a credere che l’influenza esercitata dalla rete parentale/amicale nella formu- lazione delle scelte tra i diversi percorsi del secondo ciclo di studi pesi di più del 15,6% indicato dai giovani intervistati, e che, pertanto, l’enfasi attribuita all’inte- resse per le discipline di studio (73,4%), quale fattore di scelta, debba essere consi- derato al lordo di ulteriori condizionamenti ambientali non consciamente elaborati al momento dell’intervista. D’altro canto, è noto che nel passaggio dal primo al secondo ciclo la rete pri- maria (famiglia/conoscenti/coetanei) gioca un ruolo dirimente nell’orientamento agli studi dei giovani, spesso occupando una vacatio dei soggetti istituzionalmente deputati ad erogare servizi orientativi. Al riguardo, vale dunque la pena mettere in rilievo come i giovani intervistati, sulla base della loro esperienza, non valutino adeguato il ruolo svolto in proposito da parte dalle scuole medie di I grado ritenuto troppo generale o generico nel 57,7% o del tutto assente nel 15,4% dei casi. A prescindere dagli esiti dell’orientamento i giovani hanno comunque introiet- tato come valore quello della progressione negli studi, funzionale all’acquisizione di conoscenze e competenze di base per affrontare la complessità del presente, comprenderne i nuovi linguaggi ed inserirsi proficuamente nel mercato del lavoro. Basti considerare che il 97,5% del campione ha manifestato l’intenzione di conclu- dere il corso di studi frequentato, che il 64,7% intraprenderà un percorso post-se- condario, che nel 93,6% consisterà nell’iscrizione ad un corso di laurea. Sono diversi, però, i fattori che rafforzano l’impressione che gli stessi affidino il compimento di tale processo all’azione di spinte inerziali, piuttosto che ad atti di auto-consapevolezza. In primo luogo, ordinando nello spazio cartesiano i desiderata dei giovani in- tervistati dopo la conclusione degli studi secondari o dei percorsi di istruzione for- mazione professionale rispetto a due fattori (fig. 1), quali grado di consapevolezza e motivazione della scelta (lavoro versus interesse per gli studi), è dato osservare come la scelta di continuare gli studi da parte dei giovani avvenga sulla scia di una deriva fatta di dichiarato interesse per gli studi e scarsa elaborazione personale, so- prattutto se gli stessi sono di estrazione sociale medio-alta. Viceversa, in coloro che 7 F ig . 1 - M ot iv az io ni d el l’ is cr iz io ne p er o pi ni on e ci rc a le s ce lte d a fa re d op o la c on cl us io ne d el l’ at tu al e pe rc or so 8 manifestano ancora indecisione sul loro futuro o che hanno un’estrazione medio bassa il maggiore orientamento al lavoro si accompagna a meccanismi di scelta in cui la componente soggettiva e, quindi, i livelli di consapevolezza sono maggiori. Diverso è il caso di coloro che non pensano di riuscire a finire il corso attualemente frequentato, in quanto si collocano nello spazio semantico dell’orientamento al la- voro associato alla realtà di una scelta del percorso effettuata per volontà altrui. La stessa trasposizione spaziale (fig. 2) compiuta in relazione al percorso se- condario attualmente frequentato evidenzia che i giovani che hanno optato per indi- rizzi tecnico-professionalizzanti (comprendendo al loro interno anche gli allievi del- la formazione professionale) si collocano prevalentemente nel primo quadrante, do- ve la consapevolezza della scelta si interseca con l’orientamento al lavoro. Vicever- sa, la maggioritaria sottopopolazione liceale, si colloca nel quarto quadrante, dove l’interesse per gli studi si intreccia con livelli di consapevolezza negativi, che com- provano la presenza di condizionamenti esterni all’origine delle decisioni prese. In secondo luogo, alla visione scuolacentrica tracciata dai soggetti intervistati, che nel 31,5% dei casi ritengono che tutti gli studenti dovrebbero andare a scuola fino a 18 anni, mentre nel 21,9% dei casi dovrebbero proseguire in un biennio unico fa da contraltare un vissuto scolastico spesso percepito come demotivante ed istituzionalmente imposto, rispetto al quale vengono a mancare valide alternative. Significativi sono, infatti, i livelli di accordo circa la scarsa attrattività dei percorsi scolastici, giudicati noiosi e poco stimolanti e di cui ne viene sottolineata la sostan- ziale, se non ancora formalizzata obbligatorietà. Analogamente anche la formazione universitaria che, come visto sopra, attrae massivamente gli studenti in uscita dall’istruzione secondaria di II grado nasconde in realtà un bisogno di formazione superiore alternativa a quella accademica, attra- verso cui conseguire titoli e competenze equipollenti al diploma di laurea (ritenuto, comunque, da oltre il 70% del campione una qualifica importante per trovare un buon lavoro). Così la pensa il 55,4% dei rispondenti che valuta l’università una scelta obbligata per i giovani che non hanno alternative. Date tali contrapposizioni di giudizio varrebbe forse la pena interrogarsi sulla complessiva architettura del sistema di offerta formativa, al fine di capire quale ne sia il grado di aderenza rispetto a esigenze ed aspettative di utenti diretti ed indi- retti, intendendo con quest’ultimi anche le famiglie. Sarebbe altrettanto opportuno verificare, sotto il profilo dell’intensità, il fabbisogno di metodologie di apprendi- mento altre da quelle immanentemente scolastiche ed aventi un più alto potenziale di attrattività per gli stessi studenti. Dovrebbe essere rafforzata l’azione dei servizi di orientamento, al fine di fare chiarezza sulle diverse componenti del sistema di offerta con particolare riferi- mento al sottosistema della formazione professionale che presso l’universo giova- nile non sembra né godere di grande evidenza, né essere valutato in modo coerente. Se gli intervistati riconoscono sostanziale parità di stima alla qualifica profes- sionale rispetto al diploma, asserendo, ad un tempo, che la formazione professio- nale rappresenta un’offerta di “seconda chance”, ma che i suoi corsi sono utili “per 9 F ig . 2 - M ot iv az io ni d el l’ is cr iz io ne p er is tit ut o fr eq ue nt at o 10 imparare un mestiere o per apprendere concretamente le cose”, risulta spontaneo chiedersi quale sia la loro idea complessiva della formazione professionale a quale segmento della formazione professionale si riferiscano le loro opinioni e quale col- locazione gli attribuiscano rispetto all’istruzione scolastica. Del resto sono gli stessi genitori intervistati, anch’essi consapevoli al pari dei figli della necessità di un innalzamento del livello culturale di base dei giovani, preferibilmente attraverso percorsi scolastici lunghi orientati al diploma, a denun- ciare un difetto di informazione circa l’offerta di corsi di formazione professionale. Tale gap informativo più forte al Sud che in altre ripartizioni geografiche viene se- gnalato dal 51,4% dei genitori intervistati. 1. IL PROFILO DEGLI STUDENTI Il campione di popolazione oggetto della rilevazione è composto da 1.006 gio- vani iscritti a percorsi scolastici o di istruzione e formazione professionale, di età compresa tra 14 e 19 anni (tab. 1). Tab. 1 - Profilo dei giovani intervistati (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 11 Gli individui intervistati risiedono per quasi il 60% in comuni di piccole medie dimensioni (34,3% in comuni da 1 a 10mila abitanti e 23,8% in comuni da 10 a 30mila abitanti), per il restante 40% in comuni compresi tra i 30mila e gli oltre 250mila abitanti (24,3% in comuni con 30-100mila abitanti, 5,5% in comuni con 100-250mila abitanti e 12,5% in comuni con oltre 250mila abitanti). Dal punto di vista della dislocazione geografica risultano distribuiti per il 45,2% nel Sud e nelle isole, per il 21,9% nel Nord-Ovest, per il 18,9% nel Centro e per il 14% nel Nord-Est. Rispetto all’appartenenza di genere il campione risulta essere sostanzialmente bilanciato, essendo il 51,9% degli intervistati di sesso maschile ed il 48,1% di sesso femminile. 2. IL PERCORSO SCOLASTICO E FORMATIVO 2.1. La distribuzione dei giovani tra scuola e FP In linea con quanto stimato dall’ISFOL, che attribuisce alla formazione profes- sionale circa il 4% dei giovani inseriti in percorsi scolastici o professionali, il 96,5% del campione è iscritto attualmente a un percorso di studi scolastico e per il restante 3,5% frequenta un corso di formazione professionale (fig. 3). Come evi- denziati nella tab. 2, gli intervistati si distribuiscono equamente su tutti gli anni di corso, con una lieve prevalenza dei primi tre anni; ciò è dovuto, da un lato, alla ef- fettiva maggiore scolarità riscontrabile tra i 14 ed i 16 anni, dall’altro, alla sia pur piccola quota di allievi dell’istruzione e formazione professionale, i cui corsi hanno una durata al massimo pari a tre anni e che, solo in alcune realtà, prevedono anche un quarto anno sperimentale. Tra i giovani iscritti a percorsi scolastici prevalgono gli studi liceali (59%) se- guiti, nell’ordine, da quelli tecnici (27%) e da quelli professionali (14%). Guar- dando alle specialità di indirizzo, prevalgono, nel primo come nel secondo caso, quelle del comparto dei servizi rispetto a quelle del comparto industriale (tab. 3). Nello specifico, l’indirizzo più frequentato nell’istruzione tecnica è quello commer- ciale con il 45% di iscritti a fronte del 29,4% rilevati per l’indirizzo industriale, mentre nell’istruzione professionale il gruppo servizi raccoglie una quota di iscritti di poco inferiore al 60%, ovvero quasi tripla al numero di studenti dei corsi di istru- zione professionale per l’industria e l’artigianato. Gli allievi dell’Istruzione e Formazione professionale (tab. 4) sono concentrati nei percorsi triennali (62,4%) e biennali (25%) e solo residualmente in corsi an- nuali o al quarto anno sperimentale dei corsi triennali che in entrambi i casi regi- strano il 6,3% di intervistati. Nel 53,1% dei casi si tratta di corsi organizzati all’in- terno del sistema della FP, mentre per il 46,9% in integrazione con quello scola- stico. 12 Fig. 3 - Percorso di studi attualmente frequentato dai giovani intervistati (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 Tab. 2 - Anno di corso frequentato - Scuola e Fp (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 scuola secondaria superiore centro di formazione professionale 13 Tab. 3 - Tipo di scuola secondaria superiore frequentata (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 Tab. 4 - Alcune caratteristiche del corso di Fp frequentato (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 14 È opportuno segnalare che il 33,3% degli intervistati dichiara di non sapere se il corso che sta frequentando sia funzionale all’assolvimento dell’obbligo forma- tivo (diritto/dovere alla formazione); per il resto, il 54,6% dei rispondenti sta effet- tivamente frequentando un corso legato al suddetto obbligo mentre il 12,1%, avendo probabilmente già acquisito una qualifica o avendo compiuto i diciotto anni, si trova fuori dalla normativa dell’obbligo. I percorsi liceali, dunque, costituiscono l’opzione di scelta più diffusa tra le giovani generazioni; tuttavia la scelta del percorso di studio rimane fortemente in- fluenzata dal livello socio-economico-culturale della famiglia d’origine del ra- gazzo. Più specificamente, come riportato nella fig. 4, se l’84,1% dei figli di geni- tori più abbienti opta per un indirizzo liceale, a mano a mano che si scende la scala sociale tale percentuale diminuisce lasciando spazio agli indirizzi tecnici e profes- sionali (39,4% e 23,5%) nel caso di nuclei familiari medio bassi, o alla formazione professionale, che interessa il 12,4% dei nuclei alla base della scala sociale. 2.2. Soddisfatti delle scelte fatte: tra interesse per i contenuti e voglia di an- dare all’università La gran parte dei giovani (85,7%) non ha mai avuto intenzione di cambiare il percorso di studi intrapreso (fig. 5). Per il 14,3% che ha manifestato opinione contra- ria, un simile intendimento si sarebbe dovuto realizzare, quasi nella totalità dei casi, come passaggio ad altro indirizzo di studi all’interno della stessa istruzione scolastica (12,1%) e non, invece, come passaggio dalla scuola superiore alla formazione profes- sionale (1,7%), o, viceversa, dalla formazione professionale alla scuola (0,5%). Fig. 4 - Tipo di scuola secondaria superiore frequentata, per livello socioculturale (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 15 Come più volte osservato in numerose indagini sulle scelte dei percorsi scola- stici e professionali, il principale fattore di scelta è costituito dall’interesse per le discipline di studio (73,4%), seguito a distanza, dal desiderio di proseguire con gli studi universitari (29,6%) e dall’influenza esercitata dalla rete parentale/amicale costituita da genitori, familiari e amici (15,6%), che, come è noto, sono soliti avere, soprattutto nel passaggio tra il primo ed il secondo ciclo di istruzione un ruolo spesso dirimente nell’orientamento dei giovani adolescenti (fig. 6). Al fine di approfondire l’analisi sulle spinte motivazionali che stanno alla base delle scelte di studio dei giovani intervistati è senza dubbio interessante verificare le differenziazioni che sussistono rispetto ad alcune variabili strutturali quali il ge- nere, il territorio di residenza, il percorso di studi intrapreso. Le femmine (fig. 7) sono più interessate ai contenuti di studio (77,8%), più orientate verso il proseguimento degli studi universitari (32,6%) e meno influen- zate da genitori, parenti ed amici (14,1%) dei coetanei maschi (rispettivamente, 69,2%, 26,9% e 16,9%). Questi ultimi, d’altro canto, manifestano una più precoce inclinazione al lavoro, avendo scelto in misura maggiore delle loro coetanee di iscriversi al corso attuale, in quanto propedeutico per la professione che intendono svolgere (10%) o utile per trovare lavoro più facilmente (10,6%) (femmine rispetti- vamente 7,9% e 8,1%). Sebbene l’interesse per i contenuti sia ovunque prioritario (fig. 8), tale motiva- zione acquisisce un peso maggiore nel Centro (77,4%) e nel Sud e nelle isole (75,4%), rispetto alle regioni settentrionali (Nord-Ovest 69,1% e Nord-Est 68,1%), così come la tendenza a proseguire per l’università è massima nel Sud e nelle Isole Fig. 5 - Intenzione di cambiare il percorso di studi intrapreso (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 16 con il 34,1% di risposte e minima nel Nord-Est con il 20,6% (Centro 33,2%, Nord- Ovest 23,2%). L’influenza dei nuclei familiari è, altresì, più alta nel Sud (18,8%) e nelle Isole e più bassa di quasi la metà nel Centro (9,5%), mentre nelle ripartizioni settentrio- nali assume valori intermedi (Nord-Ovest 16,8%, Nord-Est 11,3%). I giovani del Nord, infine, si caratterizzano, probabilmente su impulso dei contesti territoriali di riferimento, per una maggiore propensione a scegliere il percorso di studi che riten- gono idoneo ad un successivo inserimento nel mercato del lavoro. In particolare, dichiarano di aver operato la propria scelta con lo scopo di trovare lavoro più facil- mente il 14,1% degli studenti residenti nel Nord-Ovest ed il 13,5% di quelli del Nord-Est; gli analoghi valori scendono al 7,4% per i giovani residenti nelle aree centrali del paese ed al 6,7% per gli studenti meridionali. Inoltre, il 12,3% e il 14,2% dei giovani, rispettivamente del Nord-Ovest e del Nord-Est dichiarano di aver scelto il corso attualmente frequentato perché riguarda Fig. 6 - Motivi principali di iscrizione al corso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 17 F ig . 7 - M ot iv i p ri nc ip al i d i i sc ri zi on e al c or so , p er s es so (v al . % ) F on te : in da gi ne C en si s, 2 00 7 18 F ig . 8 - M ot iv i p ri nc ip al i d i i sc ri zi on e al c or so , p er r ip ar tiz io ne g eo gr af ic a (v al . % ) F on te : in da gi ne C en si s, 2 00 7 19 F ig . 9 - M ot iv i p ri nc ip al i d i i sc ri zi on e al c or so , p er ti po d i i st ru zi on e (v al . % ) F on te : in da gi ne C en si s, 2 00 7 20 la professione che vorrebbero svolgere, mentre tale motivazione è espressa solo dal 5,3% dei residenti in Centro Italia e dal 6,7% di quelli del Sud e delle isole. Infine, proporzioni analoghe si registrano anche in relazione al desiderio di in- serirsi il prima possibile nel mondo del lavoro, con quote che si attestano all’11,8% per i giovani del Nord-Ovest e al 12,1% per quelli del Nord-Est e scendono al 6,3% per gli studenti del Centro e al 5,8% per quelli del meridione. L’analisi dei fattori motivazionali disaggregata per percorso di studi, evi- denzia, infine, come per la relazione tra percorso scelto e prosecuzione universi- taria sia ovviamente più netta ed intensa per i liceali (48,2%) che non per i colleghi dell’istruzione tecnica (6,5%) e professionale (3,7%), che, invece, evidenziano l’in- clinazione al lavoro e l’esercizio di una professione come criteri guida alla base del loro orientamento negli studi. Diversamente le altre due motivazioni principali: in- teresse per i contenuti e influenza dei nuclei familiari riportano valori di ordine pressoché equivalente a prescindere dall’indirizzo di studi (fig. 9). Con specifico ri- guardo agli allievi della formazione professionale, sebbene la loro scarsa numero- sità non permetta disaggregazioni significative del dato, appare evidente la più alta frequenza di motivazioni legate a progetti di inserimento nel mondo del lavoro. Se da un lato, più della metà di tali allievi ha segnalato l’interesse generico per i con- tenuti, dall’altro, numerose sono le indicazioni relative alla preparazione al mondo del lavoro e alla volontà di svolgere una specifica professione (fig. 10). Fig. 10 - Motivazioni sottese alla scelta del percorso di studi per gli allievi della FP (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 21 2.3. Il percorso di studi pregresso: stabile e lineare? Coerentemente con la scarsa inclinazione al cambiamento manifestata sul piano dell’intenzionalità, i percorsi di studio pregressi si caratterizzano per una so- stanziale linearità, giacché l’86,5% dei rispondenti ha frequentato la scuola o il centro attuale di Formazione Professionale senza cambiare sede o indirizzo (tab. 5). Quando ciò è avvenuto, l’evento scatenante è stata, in primo luogo, la boccia- tura (42,9%) ed, in secondo luogo, il disinteresse per le materie studiate (37,1%, tab. 6). Tab. 5 - Percorso scolastico e formativo pregresso (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 Tab. 6 - Principali motivi di cambiamento del percorso di studi (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 22 Per gli studenti intervistati, la bocciatura (tab. 7) è una circostanza avvenuta soprattutto nelle scuole secondarie superiori e prevalentemente una sola volta (12,2%), raramente più volte (1,4%). Tale fenomeno è più frequente tra i maschi che tra le femmine. Infatti, tra i primi le quote di ripetenti e di pluriripetenti sono pari al 13,6% ed al 2,1% del totale dei rispondenti di sesso maschile, mentre tra le seconde le quote corrispondenti sono più basse, ovvero pari a10,7% e 0,6%. Solo nel Nord-Ovest, infine, si riscontra una quota (10,2%) di ripetenti inferiore di due punti percentuali al valore di riferimento nazionale (Nord-Est 12,1%, Centro 13,5%, Sud e Isole 12,2%). In effetti, la composizione del campione risente già degli effetti dovuti alla dis- persione scolastica e formativa: si ricordi che si tratta di giovani inseriti in percorsi scolastici e di istruzione e formazione professionale, quindi di una parte ben conno- Tab. 7 - Regolarità nel percorso di studi, per sesso e area geografica (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 23 tata dell’universo del 14-19 enni1. Anche l’analisi del giudizio che gli intervistati hanno conseguito all’esame di licenza media rafforza tale scenario (tab. 8): il giu- dizio più ricorrente è infatti buono (30,9%), seguito da distinto (26,6%). Come già noto le femmine sono più diligenti e brave dei maschi. La quota di licenziate dalla scuola media di I grado con ottimo è di oltre 11 punti percentuali superiore a quella maschile (33,5% contro 22,2%). È nei percorsi liceali che si concentra la più alta quota di studenti licenziati con ottimo (42,5%) e distinto (30,3%). Quelli con giudizio finale buono si sono orientati prevalentemente verso i per- corsi dell’istruzione tecnica (42,9%), professionale (41,2%) e della formazione pro- fessionale (42,9%). Netta la prevalenza di licenziati con votazione sufficiente nei corsi di formazione professionale (45,6%), che, nel caso dei licei, rappresentano una quota marginale di iscritti (4,8%). Anche i giudizi di licenza media come le scelte post licenza media risultano essere connotati socialmente (tab. 9). Infatti, se i giovani con estrazione sociale alta che hanno conseguito ottimo o distinto, sono quasi 3/4 del totale di pari livello, ov- vero il 72,3% dei casi (di cui 43,9% con ottimo), lo stesso non accade per i co- etanei con bassa estrazione, il 60,6% dei quali ha conseguito buono o sufficiente (di cui il 27,7% sufficiente). Tab. 8 - Giudizi conseguiti agli esami di licenza media, per sesso e percorso di studi (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 1 Non sono contemplati nell’universo considerato sia i giovani con contratto di apprendistato sia coloro che, nonostante la vigenza di un diritto/dovere alla formazione al momento dell’intervista non risultavano inseriti in alcun percorso formativo sia a causa di una precisa volontà di eludere tale “ob- bligo” sia in quanto l’intervista è stata condotta nel mese di giugno, tipico momento di transizione da un status ad un altro (ad esempio, un giovane può aver appena deciso di abbandonare la scuola ma ancora non è inserito in un percorso di formazione professionale o non ha trovato posto come appren- dista). 24 3. IL VISSUTO SCOLASTICO E FORMATIVO: OPINIONI, ATTEGGIAMENTI E MOTIVA- ZIONI 3.1. Le scelte (disorientate) dopo la terza media Sulla base della loro esperienza i giovani intervistati non ritengono adeguate le attività di orientamento espletate dalle scuole medie di I grado (tab. 10). Tali atti- vità nel 57,7% dei casi vengono infatti ritenute troppo generali e generiche o del tutto assenti (15,4%). Ciò è particolarmente vero al Sud (60,1%: orientamento ge- nerale e generico; 16,1%: alcun orientamento) e nei comuni di ampiezza superiore ai 250mila abitanti (60,7%: orientamento generale e generico; 18%: alcun orienta- mento). Nei casi minoritari in cui si ritiene che le scuole medie di I grado orientino ed informino sulle scelte successive, si tratta prevalentemente di un orientamento tarato sulla scuola secondaria di II grado (11,8%) che solo per il 3,3% dei rispon- denti ha riguardato anche la formazione professionale. La visione che i giovani hanno del ciclo di studi secondario riflette la struttura- zione scuolacentrica da loro conosciuta e vissuta. Secondo il 31,5% dei rispondenti, tutti gli studenti dovrebbero andare a scuola fino a 18 anni, mentre per il 21,9% degli stessi dovrebbe proseguire in un biennio scolastico unico. Tuttavia, non è da sottacere che un significativo 31,3% di giovani auspica un regime di libertà di scelta tra percorsi scolastici e formazione professionale (tab. 11). 3.2. Le materie umanistiche sono quelle preferite Nel complesso, le materie umanistiche raccolgono la più ampia quota di prefe- renza da parte degli studenti intervistati (tab. 12). Il 22,5% infatti indica come ma- teria preferita l’italiano ed un altro 8,0% segnala le altre materie di tipo umanistico (storia, filosofia, ecc.), per un totale pari al 30,5% del totale. Tab. 9 - Giudizi conseguiti agli esami di licenza media, per livello socioculturale (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 25 T ab . 1 0 - O pi ni on i s ul le a tti vi tà d i o ri en ta m en to d el la s cu ol a m ed ia in fe ri or e, p er s es so , a re a ge og ra fi ca e a m pi ez za c om un e di r es id en za (v al . % ) F on te : ri le va zi on e C en si s, 2 00 7 26 Al secondo posto, si collocano la matematica (21,1%) e le materie scientifiche in genere (6,9%), con una quota complessiva pari al 28,0%. A seguire, troviamo le lingue straniere, con il 14,25 di segnalazioni e le materie tecniche (11,9%). Attività di laboratorio ed esercitazioni pratiche si attestano su livelli analoghi a quelli delle materie tecniche (11,7%). Disaggregando i dati per sesso si può osservare come alcune preferenze ab- biano connotazioni di genere. È il caso dell’italiano (maschi 16,1%; femmine 29,8%) e delle lingue (maschi 11,3%; femmine 17,4%) maggiormente preferite dalle femmine o delle attività pratiche laboratoriali di gran lunga predilette dai ma- schi (14,4% contro 8,7%). Sono soprattutto gli studenti residenti nelle aree centrali e meridionali del paese a preferire lo studio delle discipline umanistiche, mentre nel settentrione la maggiore diffusione di una “cultura del lavoro” trova riscontro nella maggiore in- clinazione dei ragazzi verso le materie tecniche e le attività pratiche. In particolare l’Italiano è la materia preferita dal 26,5% di giovani residenti nelle regioni centrali e dal 26,0% di quelli meridionali, contro un dato che nel Nord-Ovest scende al 19,2% e, nel Nord-Est, addirittura al 12,1%. Le materie tecniche sono predilette dal 17% di studenti residenti nel Nord-Est, seguiti dal 15% di studenti del Nord-Ovest. Per gli studenti del Sud Italia la corrispondente quota è pari al 10,6% e scende al 7,4% di indicazioni tra gli studenti delle aree centrali. Valori analoghi si riscontrano in relazione alle attività di laboratorio e alle esercitazioni pratiche. Il maggiore o minore interesse per un ambito disciplinare piuttosto che per un altro deve indurre a chiedersi se le preferenze espresse sottendano un reale inte- resse o inclinazione o se, invece, non siano anche solo effetto della stessa offerta didattica. In altre parole, se non si ha conoscenza di una cosa o di un’esperienza è probabile che neanche se ne senta il bisogno. Non è un caso allora che l’italiano e la matematica siano le discipline preferite nei licei (30,3% e 25,1%), mentre le atti- vità di laboratorio siano più gradite in quelle scuole ove hanno un peso più signifi- cativo all’interno del complessivo monte ore di docenza: istituti professionali 33,9% e corsi di formazione professionale 59,9%. Tab. 11 - I percorsi di studio dopo la terza media (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 27 T ab . 1 2 - D is ci pl in e di s tu di o pr ef er ite d ag li st ud en ti pe r se ss o, a re a ge og ra fi ca e p er co rs o di s tu di (v al . % ) F on te : ri le va zi on e C en si s, 2 00 7 28 3.3. Scuola e formazione palestre di vita L’ambiente formativo sia esso scolastico o afferente alla formazione professio- nale sembra essere percepito dai giovani, in primo luogo, come un’occasione per sviluppare un proprio saper essere che va al di là di conoscenze e competenze tec- niche. Colpisce, infatti, che il 26,3% dichiari di imparare ogni giorno a comportarsi onestamente (36,7% spesso) e che il 52,9% ritenga di imparare spesso cose utili per la vita di tutti i giorni (tab. 13). Tali giudizi sono del resto coerenti con l’accordo espresso circa alcune opi- nioni su ruolo e funzione di scuola e formazione professionale (tab. 14). Utiliz- zando una scala di valore che va da 1=nessun accordo a 10= completamente d’ac- cordo, le risposte dei giovani studenti intervistati si sono concentrate soprattutto sull’affermazione che “è importante andare a scuola per confrontarsi con coetanei” (punteggio medio pari a 7,4), e sul fatto che “la scuola aiuta a crescere come per- sona, a realizzarsi” (7,1); emerge invece una scarsa fiducia, espressa da un pun- teggio medio di 5,5, nelle possibilità che la scuola fornisce rispetto al reperimento del lavoro. Valori di sostanziale accordo, espressi da punteggi superiori al 6, emergono in relazione alla scarsa attrattività dei percorsi scolastici, che vengono giudicati me- diamente noiosi e poco stimolanti (punteggio: 6,2) e di cui ne viene sottolineata la sostanziale se non ancora formalizzata obbligatorietà (6,3). Si tratta di uno scenario da cui trapela come una parte degli studenti intervistati abbia una percezione del proprio vissuto scolastico come demotivante ed istituzionalmente imposto, ma allo stesso tempo non riesca a individuare valide alternative. Tab. 13 - Situazioni e stili di comportamenti in ambito scolastico e formativo (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 29 3.4. Profitto e soddisfazione per lo studio In base all’autovalutazione dei giovani prevale un andamento scolastico posi- tivo che nel 32,7% dei casi è molto al di sopra della sufficienza e nel 37,5% più che sufficiente (tab. 15). Solo il 4,5% dei rispondenti dichiara performance al di sotto della sufficienza, soglia che viene superata nelle regioni del Sud (5,3%) e nei co- muni con oltre 250mila abitanti (5%). I dati di genere confermano ancora una volta quanto già noto: le femmine sono più brave dei maschi, avendo nel 40,5% ancora una volta dei casi un profitto molto al di sopra della sufficienza (maschi 25,5%). I più critici nei confronti dei risultati raggiunti sono gli allievi della formazione professionale, che si collocano al di sotto della sufficienza nel 14,3% dei casi o a li- vello di tale valore soglia nel 31,4%. I più diligenti sono i liceali che ritengono di conseguire risultati molto al di sopra della sufficienza nel 43,4% dei casi, mentre gli studenti degli istituti tecnici e professionali si concentrano prevalentemente tra co- loro che conseguono risultati più che sufficienti (45,1% e 41,5%, rispettivamente). I dati sul profitto negli studi incrociati con i livelli socioculturali di apparte- nenza risultano essere coerenti con quanto osservato sulla concentrazione di giudizi di licenza media elevati tra i giovani più abbienti e di giudizi più bassi tra quelli meno abbienti. Tra i primi coloro che affermano di avere un andamento scolastico molto al di sopra della media sono il 41,9% del totale, mentre tra i coetanei a bassa estrazione sociale il corrispondente valore percentuale è pari al 26% (tab. 16). Cultura generale (86,3%), convivenza civile (68,7%) e lingue straniere (68,6%) costituiscono gli ambiti disciplinari per i quali, più che per altri, i giovani intervistati dichiarano di essere più soddisfatti (tab. 17). Lo stesso ordine di preferenze è riscontrabile anche disaggregando le risposte in base all’appartenenza per percorso di studio con le sole eccezioni degli studenti dell’istruzione tecnica che manifestano una maggiore soddisfazione per la prepara- zione acquisita per l‘utilizzo di strumenti informatici (65,2%) in luogo della forma- zione alla convivenza civile (56,5%) e degli allievi della formazione professionale Tab. 14 - Grado di accordo su alcune opinioni sulla scuola espresse da coetanei punteggio (1 = nessun accordo; 10 massimo accordo) (valori medi) Fonte: rilevazione Censis, 2007 30 T ab . 1 5 - A nd am en to s co la st ic o/ fo rm at iv o ne l co rs o de ll ’u lt im o an no , p er s es so , a re a ge og ra fi ca e a m pi ez za c om un e di r es id en za e t ip ol og ia d i pe rc or so f re qu en ta to e p er co rs o di s tu di ( va l. % ) F on te : ri le va zi on e C en si s, 2 00 7 31 più soddisfatti delle competenze maturate per il lavoro (80,1%) che non in ambito linguistico (57,1%). Quest’ultimo dato, infine, pone in netto rilievo come la soddi- sfazione in relazione alla preparazione per il mondo del lavoro sia ampiamente dif- fusa solo tra gli allievi della formazione professionale. Tab. 16 - Definizione dell’andamento scolastico e formativo di quest’anno, per livello sociocul- turale (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 Tab. 17 - Percentuale di “Molto+abbastanza soddisfatti” su alcuni aspetti dell’attuale esperienza nella scuola/centro di FP, per tipologia di corso (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 4. LAVORO, STUDIO E FUTURO 4.1. Il lavoro un’esperienza rara Il 77,1% dei giovani non ha avuto precedenti esperienze di lavoro, valore che sale all’80% nella componente femminile del campione di intervistati (tab. 18). Le opportunità lavorative sembrano essere più frequenti a livello ripartizionale nel 32 T ab . 1 8 - G io va ni e e sp er ie nz e di la vo ro , p er s es so , a re a ge og ra fi ca , a m pi ez za d el c om un e di r es id en za e p er co rs o di s tu di f re qu en ta to (v al . % ) F on te : ri le va zi on e C en si s, 2 00 7 33 Nord-Est (34%) e nei comuni di media grandezza (24,8% nei comuni da 10 a 30mila abitanti e 24,6% nei comuni da 30 a 100 abitanti). Con riferimento al pre- sente, la quota di coloro che non stanno sperimentando situazioni di lavoro cresce arrivando all’87,8%, e denota differenziazioni analoghe a quanto rilevato per le eventuali esperienze di lavoro pregresse, in relazione al sesso dell’intervistato, al- l’area geografica ed all’ampiezza del comune di residenza. La presenza di studenti con esperienza di lavoro – attuale o pregressa – è signi- ficativa nella formazione professionale, riguardando più del 30% degli allievi e più in generale tutti i percorsi tecnico-professionali. Nella maggioranza dei casi (tab. 19) il lavoro svolto è di tipo irregolare, ov- vero saltuario e non regolato da un contratto (64,2% per le precedenti esperienze lavorative e 55,1% per le esperienze attuali). Nel complesso, l’esperienza lavora- tiva non sembra aver influito sulla scelta del percorso di studi tranne nel caso degli allievi della formazione professionale (tab. 20). Tab. 19 - Tipologia di rapporto intercorso nelle esperienze lavorative precedenti e attuali (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 Tab. 20 - Influenza delle esperienze lavorative sulla scelta del percorso di studi (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 34 4.2. Dopo lo studio ancora lo studio, possibilmente universitario Il 97,5% del campione manifesta l’intenzione di concludere il corso di studi at- tualmente frequentato (tab. 21). Alla conclusione dell’attuale percorso formativo, la scelta più probabile sarà quella della progressione negli studi. Tale opzione è condivisa dal 64,7% dei ri- spondenti, contro il 18,5% di coloro che andranno a lavorare e il 16,8% di coloro che non hanno ancora deciso che fare (tab. 22). Le femmine hanno una propen- sione al riguardo superiore a quella dei coetanei maschi (71,4% a fronte del 58,5%). La più marcata inclinazione verso l’ingresso nel mondo del lavoro si registra tra i residenti nel Nord-Est (23,3%) e tra gli studenti dei percorsi professionaliz- zanti (il 66,7% di coloro che sono inseriti in percorsi di istruzione e formazione professionale ed il 41,0% degli studenti degli istituti professionali). A parte i liceali, fermamente proiettati verso la prosecuzione degli studi (88,9%), la quota di indecisi è abbastanza significativa in tutti gli altri percorsi ed, in particolare, tra i futuri periti, equamente ripartiti tra futuri studenti, futuri lavora- tori ed indecisi. La principale motivazione alla base della decisione di andare a lavorare risiede nel desiderio di guadagnare per essere indipendente ed emanciparsi, espresso dal 70% del campione (tab. 23). La scelta del percorso di studi da intraprendere sembra di per sé automatica, considerato che quasi la totalità di coloro che proseguiranno ha intenzione di iscri- versi ad un corso di laurea (93,6%), senza prendere in considerazione le esistenti alternative di formazione superiore (tab. 24). Tab. 21 - Scelte future di lavoro o studio (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 35 T ab . 2 2 - Sc el te f ut ur e al te rm in e de lla s cu ol a su pe ri or e o de l c or so d i F P, p er s es so , a re a ge og ra fi ca e p er p er co rs o di s tu di f re qu en ta to (v al . % ) F on te : ri le va zi on e C en si s, 2 00 7 36 4.3. Voglio un lavoro vicino ai miei interessi Sebbene, come già visto, l’esperienza lavorativa sia un bene raro tra i giovani, tuttavia, più della metà degli intervistati dichiara di voler lavorare in modo sal- tuario/occasionale durante gli studi (54,4%), soprattutto se donne (57% contro 51,6% di maschi) e se residenti nel Nord-Est (64,8%, tab. 25). Il 41,6% non ha però ancora deciso se intraprendere un lavoro autonomo (22,8%) o dipendente (35,6% tab. 26). Sono i maschi a dimostrare una maggiore propensione a mettersi in proprio (25,9% a fronte del 17,6% di donne). Autonomo o dipendente che sia il lavoro, la componente motivazionale nel la- voro è dirimente. Infatti, secondo gli intervistati, il lavoro deve essere, in primo luogo, vicino ai propri interessi (47,1%), assicurare personale autorealizzazione (10,3%), essere coerente con gli studi fatti (9,8%). L’eventualità che il lavoro ga- rantisca anche elevato guadagno è contemplata solo nel 10,2% dei casi (tab. 27). Tab. 23 - Motivazioni alla base della decisione di andare a lavorare dopo il conseguimento del diploma di scuola secondaria superiore o dell’attestato di qualifica (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 Tab. 24 - Tipo di percorso successivo alla scuola superiore/corso FP (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 37 L’appartenenza di genere risulta essere una variabile di differenziazione delle aspettative lavorative degli intervistati. Le giovani intervistate paiono essere più idealiste dei coetanei maschi, in quanto più inclini alla ricerca di un lavoro vicino ai propri interessi (49,2% contro 45%), in grado di assicurare autorealizzazione (11,8% contro 9%) e coerente con gli studi fatti (11,2% contro 8,5). I maschi, da parte loro, sembrano guidati da un maggiore pragmatismo inseguendo un lavoro che permetta loro di conseguire elevati guadagni (13,3% contro 7%), di imparare una professione (5% contro 2,1%) ed eventualmente di avere anche successo (7,3% contro 5,4%) Tab. 25 - Disponibilità a svolgere attività lavorativa durante gli studi, per sesso e area geografica (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 Tab. 26 - Tipologia di lavoro preferito, per sesso e area geografica (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 38 4.4. Formazione, Università e mercato del lavoro: le idee non sono del tutto chiare Nell’immaginario giovanile rispetto ai temi della formazione, dell’università e del lavoro convivono opinioni talvolta contraddittorie che testimoniano probabil- mente la mancanza di una compiuta elaborazione di valori e concetti in materia di formazione e mercato del lavoro (tab. 28). Volendo tracciare una mappa del consenso giovanile rispetto alle tematiche sopra indicate si riscontra che il 78,2% dei rispondenti si dichiara d’accordo sul fatto che la laurea è un titolo importante per trovare un buon lavoro, mentre quote pressoché equivalenti di intervistati ritengono che qualifica professionale e diploma superiore siano titoli più che sufficienti, per inserirsi sul mercato del lavoro (56% e 51,4% rispettivamente). La sostanziale parità di stima riconosciuta alla qualifica professionale rispetto al diploma sembra però essere nei fatti attenuata dalla convinzione che i corsi di formazione professionale sono percorsi formativi più semplici per chi ha poca vo- glia di studiare (67,4%), ovvero un tipo di offerta formativa di “seconda chance”. Ad un tempo, le opinioni secondo cui per imparare un mestiere bisogna iscri- versi a corsi di formazione professionale e che in quest’ultimi si imparano le cose concretamente e, quindi, con maggiore soddisfazione aggregano quote di consenso superiori al 60% (61,2% e 68,4% rispettivamente) inducono a chiedersi quale sia il segmento di formazione professionale cui i giovani fanno riferimento e quale collo- cazione gli attribuiscano in rapporto all’istruzione scolastica. Infine, se dal 92,2% di soggetti che concordano sull’esistenza di una richiesta da parte del mercato di figure sempre più specializzate emerge una consapevolezza diffusa circa la necessità di una progressione negli studi, non è detto che questa debba avvenire in ambito accademico, visto che il 55,4% dei giovani concorda nel- Tab. 27 - Le caratteristiche più importanti del lavoro futuro, per sesso (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 39 Tab. 28 - Opinioni e atteggiamenti degli studenti rispetto alla formazione all’università e al la- voro, per livello socioculturale (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 40 l’affermare che l’università è una scelta obbligata per i giovani che non hanno va- lide alternative. Al riguardo, resta pertanto da chiedersi se la succitata polarizza- zione di consenso non nasconda un bisogno di formazione superiore, alternativa a quella universitaria, attraverso la quale conseguire titoli e competenze equipollenti al diploma di laurea, che come osservato sopra, viene ritenuto da oltre il 70% del campione una qualificazione importante per trovare un buon lavoro. La lettura dei dati incrociata con l’estrazione sociale non evidenzia particolari differenziazioni di opinione se non rispetto al valore attribuito alla laurea per il re- perimento di un buon lavoro, che risulta essere direttamente correlato al livello so- ciale, giacché concordano al riguardo i giovani più abbienti nell’84,1% dei casi ed i giovani meno abbienti nel 67,6%, a seguito, forse, di meno ambiziose aspettative occupazionali. 5. FAMIGLIA DI ORIGINE E PERCORSI DI STUDIO 5.1. Il nucleo familiare Il 90% dei giovani intervistati vive in una famiglia tradizionale con entrambi i ge- nitori (tab. 29). Le condizioni professionali di quest’ultimi rispecchiano la stratifica- zione sociale del paese, caratterizzata dalla prevalenza di ceti medi e da una signifi- cativa percentuale di mogli/madri casalinghe. Infatti, il 54% dei padri è occupato come impiegato o operaio, il 7% è imprenditore/libero professionista ed il 12,7% Dirigen- te/Quadro/ Funzionario. Il 40,1% delle madri svolge il lavoro di impiegata o inse- gnante ed il 29,4% delle stesse è impegnata nella gestione della casa, il 12,4% è ope- raia e solo il 3,9% occupa la posizione di Dirigente/Quadro/Funzionario (tab. 30). Il diploma di scuola media superiore è il titolo di istruzione prevalente (46,2% dei padri e 48,2% delle madri), mentre la licenza media è il titolo più alto detenuto da una quota di popolazione intorno al 30%, ovvero 25% dei padri e 31% delle madri. Prevalgono i padri laureati sulle madri (24,3% e 17,4% rispettivamente; tab. 31). Tab. 29 - Composizione del nucleo parentale (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 41 Tab. 31 - Titolo di studio dei genitori (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 Tab. 30 - Condizione professionale dei genitori (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 42 T ab . 3 2 - R uo lo s vo lto d ai g en ito ri n el le s ce lte d i s tu di o de i f ig li do po la s cu ol a m ed ia , p er li ve llo s oc io cu ltu ra le e p er a re a ge og ra fi ca (v al . % ) F on te : ri le va zi on e C en si s, 2 00 7 43 Il 57,4% dei genitori intervistati ritiene di aver avuto un ruolo importante nelle scelte di studio dei propri figli dopo la scuola media di I grado, il 14,1% deci- sivo, il 28,5% insignificante (tab. 32). Incrociando tale autovalutazione con il li- vello socioculturale dei nuclei familiari intervistati si osserva che sono gli estremi della distribuzione che fanno la differenza. Infatti, se, da un lato, a prescindere dal livello di appartenenza, i genitori ritengono di aver svolto prevalentemente un ruolo importante, dall’altro, in corrispondenza del livello alto cresce significativamente l’influenza familiare nell’orientamento degli studi, percepita come decisiva nel 21,6% dei casi, a fronte di valori dell’ordine dell’11% per tutti gli altri livelli. Vice- versa, nel caso delle famiglie collocabili all’opposto della distribuzione, ovvero di livello socioculturale basso, la quota di genitori che valutano il loro ruolo insignifi- cante sale quasi al 40% (39,7%), distanziandosi sensibilmente dal 14,4% di fami- glie di livello alto che indicano di aver avuto un peso analogo. I dati, pertanto, dimostrano che contesti familiari socialmente e cultural- mente più affluenti esercitano un ruolo più dirimente nella formulazione delle scelte dei figli di quanto possa accadere in ambiti a più alto potenziale di depri- vazione. Anche la lettura territoriale dei dati fa emergere una distribuzione delle fre- quenze analoga a quella precedente. Infatti, sebbene in ciascuna delle ripartizioni geografiche padri e madri classifichino il loro ruolo prevalentemente come im- portante (indicando valori compresi tra il 50 ed oltre il 60%), tuttavia, una diffe- renziazione geografica emerge, differenziazione che contrappone le regioni del Nord-Ovest al Sud e alle Isole. Nelle prime prevalgono le percezioni che valu- tano il ruolo genitoriale come decisivo (25,7%), nelle seconde quelle che lo repu- tano insignificante (33,1%). In altre parole, anche il territorio di appartenenza costituisce una variabile sensibile delle dinamiche decisionali dei nuclei fami- liari. 5.2. La formazione professionale come alternativa alla scuola I genitori indotti a riflettere su possibili percorsi formativi entro i quali inserire i giovani alla conclusione del ciclo primario, sebbene concordino prevalentemente sull’ipotesi di scenari educativi centrati sulla scuola, esprimono, comunque, un ele- vato grado di accordo anche per quelle proposte che prevedono dei momenti di snodo dalla scuola alla formazione professionale, affidando a quest’ultima un ruolo paritetico e alternativo a quello dell’istruzione scolastica (tab. 33). Infatti al 58,5% di genitori favorevoli ad iscrivere i propri figli a percorsi sco- lastici lunghi, orientati al conseguimento del diploma di “maturità” e al 35% degli stessi favorevole all’iscrizione a percorsi scolastici biennali, con prosecuzione degli studi, sia nella scuola, sia nella formazione professionale, si contrappone un com- plessivo 35,6% che concorda sull’eventualità di corsi professionalizzanti o finaliz- zati all’inserimento nel mondo del lavoro (21%) o aperti alla prosecuzione degli studi (14,6%). 44 T ab . 3 3 - Po ss ib ili p er co rs i d i s tu di o de i f ig li do po la s cu ol a m ed ia , p er li ve llo s oc io cu ltu ra le e p er a re a ge og ra fi ca (v al . % ) F on te : ri le va zi on e C en si s, 2 00 7 45 Anche disaggregando i dati per livello socioculturale e per ripartizione geogra- fica, sebbene con alcune differenziazioni si rileva una sostanziale preponderante opzione per percorsi lunghi orientati al diploma di maturità. Ciò però è condiviso soprattutto tra le famiglie di livello socioculturale alto (67,5%) o medio alto (60,1%) o residenti nelle regioni meridionali o insulari (63,1%). Diversamente, la seconda opzione, quella nei fatti corrispondente all’attuale obbligo di istruzione, trova spazi di consenso più ampi tra i nuclei meno abbienti o residenti nel Nord-Ovest di Italia (38,1% e 31,7% rispettivamente). Allo stato attuale, comunque, secondo il 51,4% degli intervistati, le informa- zioni disponibili sulla possibilità di frequentare corsi nell’istruzione-formazione professionale sono insufficienti, diversamente da quanto avviene per i percorsi della scuola secondaria superiore. Il gap informativo è percepito più al Sud (60,8%) che nelle altre ripartizioni geografiche (tab. 34). Questo dato è indice del fatto che per scegliere bisogna prima conoscere. Per- tanto, accrescendo le informazioni sui percorsi formativi alternativi a quelli scola- stici, è presumibile che si verifichi anche un incremento della propensione alla scelta di percorsi alternativi. 5.3. Dopo la terza media è importante proseguire negli studi Al di là dei possibili percorsi formativi, sembra oramai condivisa dai genitori la necessità di indurre i giovani al proseguimento degli studi, facendo acquisire loro titoli, qualifiche, competenze per un proficuo inserimento nel mondo del la- voro e per innalzare il generale livello culturale della popolazione. Non è un caso, infatti, che il 64,4% dei rispondenti si sia dichiarato contrario all’abolizione di ogni obbligo di formazione dopo la terza media, opinione condi- visa in misura pressoché equivalente dai nuclei familiari, a prescindere dalla strati- ficazione socioculturale di appartenenza (67,1% per rispondenti di livello alto e 61,1% per rispondenti di livello basso). Tab. 34 - Giudizio sulla disponibilità di informazioni sull’offerta di corsi di istruzione e forma- zione professionale rispetto a quelle disponibili sulla scuola secondaria superiore, per area geo- grafica (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 46 Per questa ragione le ipotesi di percorso presentate: obbligo di istruzione fino a 16 anni esclusivamente nella scuola (70,3%); obbligo di istruzione fino a 16 anni, da svolgersi sia nella scuola sia nella formazione professionale (65,3%) e, infine, diritto/dovere di frequentare un percorso scolastico o di formazione professionale fino a 18 anni o fino al conseguimento di una qualifica/diploma (63,3%) hanno ri- portato percentuali di assenso dello stesso ordine di grandezza (tab. 35). A prescindere dalla natura e dall’articolazione dei percorsi, il valore condiviso sembra essere quello della progressione formativa. È in questa prospettiva, quindi, che deve essere letto il favore, espresso dal 67,1% dei genitori intervistati, manifestato in favore della possibilità di espletare il Tab. 35 - Accordo su possibili scenari di istruzione e FP per i giovani, per livello socioculturale (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 47 diritto/dovere all’istruzione formazione professionale tramite lo strumento dell’ap- prendistato, quota che per le famiglie meno abbienti sale al 70,1%. 5.4. Cultura generale e lingue straniere Come evidenziato nella tab. 36, cultura generale e lingue straniere costitui- scono per i genitori gli ambiti di conoscenze e competenze da rafforzare nei gio- vani in uscita dalla terza media (95,2% e 92,4% rispettivamente); seguono nell’or- dine le competenze tecnico professionali (89,3%), più preparazione su strumenti in- formatici (88%), più preparazione per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro (87,7%), formazione alla convivenza civile e alla democrazia (87,3%) ed, infine, preparazione per andare all’università (83,6%). Se si considerano però solo le percentuali di massimo accordo, i maggiori con- sensi si concentrano sulle abilità linguistiche (53,0%) e sulla formazione alla convi- venza civile e alla democrazia (51,2% di genitori molto d’accordo). Le famiglie di livello socioculturale alto concordano maggiormente sull’op- portunità di rafforzare di più cultura generale e competenze linguistiche e meno competenze tecnico professionali, informatiche o, comunque, strumentali ad age- volare l’ingresso nel mondo del lavoro, mentre, specularmente, quelle con bassa estrazione sociale privilegiano quest’ultime in luogo delle prime. Per quanto riguarda la geografia del consenso sui possibili interventi di poten- ziamento delle competenze, si osserva, invece: – una minore enfasi su competenze tecnico professionali e informatiche nel Nord-Est e nel Sud ed isole, rispetto alle altre ripartizioni; – un sensibile minore accordo in favore delle competenze linguistiche al Sud ed isole rispetto al resto di Italia; – un più elevato interesse in favore di una preparazione più orientata al mondo del lavoro nel Nord-Ovest; – un minore evidenza, infine, per la formazione alla convivenza civile e alla de- mocrazia nell’Italia meridionale ed insulare. 6. UNA TIPOLOGIZZAZIONE DEGLI STUDENTI INTERVISTATI Al fine di evidenziare eventuali tendenze ed atteggiamenti che riuscissero a “scompattare” l’immagine anodina e scarsamente differenziata dei giovani studenti intervistati, i dati raccolti sono stati elaborati anche utilizzando metodologie di ana- lisi statistica multivariata (analisi fattoriale). In particolare, è stato possibile indivi- duare cinque gruppi tipologici, corrispondenti ad altrettanti profili e traiettorie di studio e di lavoro: i “liceali per inerzia” (23,5%), i “tecnici disorientati” (15,7%), i “brillanti e soddisfatti” (27,2%), quelli “in attesa di altro” (14,9%) e i “cultori del lavoro (18,7%). La seguente tipologizzazione è comunque semplificatrice della realtà, rappresentandone una schematizzazione utile a fini descrittivi. 48 Tab. 36 - Opinioni dei genitori su conoscenze e/o competenze da rafforzare dopo la terza media, per area geografica (val. %) Fonte: rilevazione Censis, 2007 49 6.1. Liceali per inerzia Il primo gruppo raccoglie il 23,5% del totale degli intervistati. Comprende in gran parte studenti liceali, tendenzialmente portati a continuare gli studi, dopo il conseguimento del titolo di scuola secondaria di II grado, iscrivendosi ad un corso universitario. Figli di genitori istruiti, non hanno particolari problemi di rendimento scolastico e sono convinti dell’importanza dell’istruzione, anche se si rilevano non particolarmente soddisfatti della preparazione fornita dalla scuola, anche in termini di preparazione all’università. Pur ritenendo che il diploma di scuola superiore, in genere, non fornisca una preparazione sufficiente per l’ingresso nel mondo del la- voro, non sembrano esprimere idee molto precise sulle prospettive di lavoro future, anche se vorrebbero un lavoro vicino ai loro interessi o coerenti con gli studi fatti. Non sono invece interessati ad esperienze di lavoro anche saltuarie contemporanee alla frequenza scolastica o universitaria. 6.2. Tecnici disorientati Il secondo gruppo, in cui si colloca il 15,7% di intervistati, è composto per lo più da studenti di istituti tecnici, che prediligono le materie tecniche proprie del loro percorso di studio. Anche loro non hanno però un’idea precisa di quale dire- zione prendere al termine degli studi secondari e soprattutto si dichiarano insoddi- sfatti della loro esperienza scolastica da vari punti di vista. Se anche la scelta dell’i- stituto tecnico o professionale è stata dettata da motivi riconducibili alla prospettiva di inserirsi, al termine degli studi, nel mondo del lavoro, manifestano in gran parte una opinione critica circa la preparazione al lavoro conseguita durante gli studi. Esprimono poi insoddisfazione anche rispetto al bagaglio culturale generale, alla formazione alla convivenza civile e alla democrazia e spesso non si sentono ap- prezzati dai propri docenti. Il rendimento scolastico complessivo si colloca al di sopra della sufficienza, pur non raggiungendo i livelli massimi. In prevalenza di sesso maschile, sono figli di persone che hanno conseguito ti- toli di studio bassi o medio-bassi e dal lavoro futuro si aspettano di ottenere suc- cesso e guadagno o, più vagamente, la propria autorealizzazione. 6.3. Brillanti e soddisfatti Il gruppo più numeroso rappresenta il 27,2% degli studenti intervistati, con una lieve prevalenza delle femmine. Comprende per lo più ragazzi che intendono proseguire negli studi fino al conseguimento di un diploma di laurea. Si dimostrano ampiamente soddisfatti della loro esperienza scolastica, soprattutto per quanto ri- guarda la preparazione funzionale all’iscrizione all’università, ma anche più in ge- nerale il bagaglio culturale acquisito e la preparazione sulle lingue straniere. Cre- dono fermamente nella importanza della scuola e dell’università sia dal punto di vista della futura immissione nel mondo del lavoro sia in relazione alla crescita personale. Si distinguono per gli ottimi voti, partecipano attivamente alle lezioni e 50 si sentono apprezzati dai docenti. Non hanno mai lavorato, ma sono disponibili ad esperienze di lavoro che permettano loro di continuare contemporaneamente a stu- diare. 6.4. In attesa di “altro” Il quarto gruppo è composto dal 14,9% del totale di intervistati e si caratterizza per la predominanza di studenti che si sono iscritti alle superiori (soprattutto ai licei) non per una scelta ponderata ma su consiglio altrui. D’altra parte, ritengono che non vi fosse alternativa. Per il futuro auspicano di trovare un lavoro “sicuro” e, nel complesso, sono sufficientemente soddisfatti dell’esperienza scolastica, sia in funzione della preparazione generale sia in relazione all’inserimento nel mondo del lavoro. 6.5. I cultori del lavoro Il quinto ed ultimo gruppo (18,7%) comprende in massima parte iscritti ad isti- tuti tecnici professionali e centri di formazione professionale, in prevalenza di sesso maschile. Non sono motivati allo studio e vogliono entrare nel mondo del la- voro per essere indipendenti. Sono soddisfatti della preparazione al lavoro fornita dalla scuola e dal Cfp, alle discipline teoriche preferiscono le esercitazioni pratiche, e vedono l’università come una perdita di tempo, così come lo studio fine a sé stesso. In particolare, ritengono che i giovani si iscrivano all’università perché non vi sono alternative valide. 51 Allegati 1. QUESTIONARIO 2. NOTA METODOLOGICA SU RILEVAZIONE 3. NOTA METODOLOGICA SU DETERMINAZIONE DEI LIVELLI SOCIO-CULTURALI DEI NUCLEI FAMILIARI DI ORIGINE 4. NOTA METODOLOGIA SU CLUSTER ANALYSIS 5. ALLEGATI STATISTICI 53 ALLEGATO 1 IL QUESTIONARIO Questionario GIOVANI E PERCORSI PROFESSIONALIZZANTI: UN GAP DA COLMARE? Indagine sulle scelte formative dei giovani studenti di età compresa tra i 14 ed i 19 anni Roma, 2007 54 LEGENDA • Le istruzioni nelle parentesi […] sono riferite alla programmazione CATI • Il simbolo indica che l’informazione appare automaticamente all’intervi- statore da file o in base a risposte precedenti. • Le istruzioni nelle parentesi (…) sono riferite agli intervistatori e appariranno a video come suggerimento durante l’intervista • All’intervistatore è segnalato (…) se la domanda prevede risposte singole o multiple, se suggerite o spontanee (aperte o parzialmente pre-codificate). PREMESSA Buongiorno/Buonasera sono [nome-cognome] dell’Istituto di Ricerca_____________. Stiamo conducendo un’indagine, per conto del Censis, rivolta agli studenti frequen- tanti corsi scolastici o di formazione professionale, al fine di approfondire le motivazioni alla base delle decisioni passate e di quelle future di entrare nel mondo del lavoro o di con- tinuare gli studi. Vorrei intervistare, se presente tra i suoi familiari, un ragazzo/a di età compresa tra i 14 ed i 19 anni ATTUALMENTE ISCRITTO ad una classe di scuola secondaria superiore (licei, istituti professionali o tecnici, ecc.), o ad un corso di formazione professionale regio- nale. L’intervista non ha alcuna finalità di vendita. 1. sono studente ❑ CONTINUARE con PRIVACY 2. le passo la persona ❑ ricominciare da PREMESSA 3. assente / non immediatamente disponibile ❑ prendere APPUNTAMENTO 4. in famiglia non c’è nessun studente ❑ ringraziare, CHIUDERE e registrare esito “nessuno” in target” (Se necessario rilanciare:) La collaborazione all’indagine è molto importante perché contribuirà a migliorare il nostro sistema d’istruzione, offrendo percorsi più adatti e migliori…. D.LGS. 196/2003 - LETTURA DATA PRIVACY E RICHIESTA CONSENSO Prima di cominciare, le preciso che Lei è libero di accettare l’intervista o di interrom- perla nel momento in cui lo ritenga opportuno. Le garantisco che qualsiasi informazione ci darà sarà trattata in forma strettamente riservata e senza l’uso del suo nome o numero di te- lefono, come previsto dal decreto legislativo 196/2003 sulla “protezione dei dati personali”. Per il breve periodo in cui le risposte saranno elaborate, Lei potrà in qualsiasi momento chiederci di consultare le risposte che ci ha dato, modificarle o opporsi al loro trattamento scrivendo a: Dott.ssa Monica Altieri Fondazione Censis – piazza di Novella, 2 - 00199 ROMA 1. Accetta ....................................................................................... CONTINUARE 2. Rifiuta ........................................................................................ Ringraziare e CHIUDERE registrare esito “rifiuto privacy” 55 1. SCREENING E CONTROLLO CAMPIONE Caratteristiche socio-demografiche dell’intervistato. Registrazione automatica da file (no domande dirette - estrazione anagrafica famiglia random) c) Ampiezza centro (Registrare, senza chiedere) [quota] 1. fino a 4.999 abitanti ❑ 2. da 5.000 a 9.999 abitanti ❑ 3. da 10.000 a 29.999 abitanti ❑ 4. da 30.000 a 99.999 abitanti ❑ 5. oltre 100.000 abitanti ❑ d) Sesso (Registrare, senza chiedere) [quota] 1. Maschio ❑ 2. Femmina ❑ 56 e) Puoi indicarmi il tuo mese e anno di nascita? [quota] Mese Anno 1. gennaio ❑ 2. febbraio ❑ 3. marzo ❑ 4. aprile ❑ 5. maggio ❑ 6. giugno ❑ 19 __/__/ [min. 1988 – max 1993] 7. luglio ❑ 8. agosto ❑ 9. settembre ❑ 10. ottobre ❑ 11. novembre ❑ 12. dicembre ❑ 57 2. PERCORSO SCOLASTICO E FORMATIVO ATTUALE 1. Mi hai detto di essere studente. Frequenti: [quota] 1. una scuola secondaria superiore ❑ ÖD2 2. un centro di formazione professionale ❑ ÖD3 [se D1=1] 2. Quale scuola secondaria superiore? 1. liceo ❑ 2. Istituto professionale (compresi istituti d’arte) ❑ 3. Istituto tecnico ❑ [se codice 2 a D2: istituto professionale] 2.1. E in particolare, un istituto con un indirizzo legato al settore…. (leggere, una sola risposta) - agrario e ambientale (es. indirizzo agro-ambientale / agro-industriale / agrituristico) ❑ - industria e artigianato (es. indirizzo edile / elettrico / elettronico / telecomunicaz/ meccanico / termico / tessile-moda / chimico e biologico ❑ - servizi (es. indirizzo gestione aziendale/impresa turistica / grafico-pubblicitario / servizi di ristorazione e ricevimento / dei servizi sociali) ❑ - sanitario ausiliario (es. indirizzo meccanico ottico / meccanico odontotecnico) ❑ - Istituto d’arte ❑ - altro (spec. ________________________________________________________) ❑ [se codice 3 a D2:istituto tecnico] 2.2. E in particolare, un istituto con indirizzo? (leggere, una sola risposta) - agrario ❑ - commerciale (es. ragioneria, perito aziendale, corr. lingue estere, ❑ - industriale (es. informatica, elettronica, meccanica, ecc.) ❑ - geometra ❑ - turismo ❑ - attività sociali ❑ - indirizzo di altro settore ❑ [se D1=2, risponde a domande 3, 3.1, 3.2, 3.3] 3. E in particolare, stai frequentando un corso di formazione professionale di durata (leggere, una sola risposta) - annuale (o inferiore all’anno) ❑ - biennale ❑ - triennale ❑ - quarto anno sperimentale dei corsi triennali ❑ 3.1. Si tratta di un corso (leggere, una sola risposta): - integrato con la scuola ❑ - tutto nella formazione professionale ❑ 3.2. Il corso che stai frequentando è valido per l’assolvimento dell’obbligo-diritto/dovere alla formazione fino a 18 anni? - si ❑ - no ❑ - no, ma ho già assolto l’obbligo, conseguendo una qualifica professionale ❑ - non so ❑ - altro (spec.__________) ❑ 58 3.3. E in particolare, stai frequentando un corso con un indirizzo legato al settore…. (una sola risposta) - agrario e ambientale ❑ - edile ❑ - elettrico-elettronico, telecomunicazioni ❑ - indirizzo meccanico ❑ - indirizzo termo-idraulico ❑ - indirizzo tessile-moda ❑ - chimico e biologico ❑ - grafico ❑ - commercio ❑ - aziendale- amministrativo ❑ - turismo ❑ - ristorazione ❑ - servizi sociali ❑ - sanitario ausiliario ❑ - artistico ❑ - altro (spec. ______________________________________________) ❑ [per tutti] 4. Quale anno di corso stai frequentando? [per la Fp non appare il 5° anno] - primo o unico ❑ - secondo ❑ - terzo ❑ - quarto ❑ - quinto ❑ [per tutti] 5. Qual è il motivo principale per cui ti sei iscritto a questo corso? Ed un altro motivo qual è? (spontanea, max due risposte, se necessario leggere item a rotazione) - perché mi interessano i contenuti ❑ - per tenermi occupata la giornata ❑ - perché voglio far carriera ❑ - per influenza di familiari/genitori/amici ❑ - su consiglio di docenti/formatori ❑ - perché è l’unico tipo di corso che prepara alla professione che vorrei svolgere/nel settore in cui mi piacerebbe lavorare ❑ - perché voglio inserirmi il prima possibile nel mondo del lavoro ❑ - perché è proposto da un istituto/centro prestigioso, valido ❑ - perché riguarda la professione che vorrei svolgere ❑ - per trovare lavoro più facilmente ❑ - perché voglio andare all’università ❑ - perché è gratuito ❑ - perché ancora non so cosa voglio fare dopo ❑ - perché è la scelta meno impegnativa ❑ - altro (spec. _______________________________) ❑ 6. Hai mai pensato di cambiare il corso che frequenti? (leggere, una sola risposta) - sì, pur rimanendo sempre all’interno della [D1=1] scuola secondaria superiore [D1=2] formazione professionale ❑ - sì, per passare dalla formazione professionale alla scuola secondaria superiore [D1=2] ❑ - sì, per passare dalla scuola secondaria superiore alla formazione professionale [D1=1] ❑ - no, mai, sto bene dove sono ❑ 59 3. PERCORSO SCOLASTICO E FORMATIVO PREGRESSO 7. Dopo la scuola media, prima di iscriverti al corso attuale…(scuola o FP) (leggere, una sola risposta) - hai sempre frequentato la scuola / il centro attuale senza cambiare né sede né indirizzo di studi ❑ - eri iscritto ad un altro tipo di scuola [se D1=1] (liceo, tecnico, professionale) ❑ - hai frequentato un corso scolastico [se D1=2] ❑ - hai frequentato un corso di Fp [se D1=1] - hai cambiato l’indirizzo di studio, pur continuando il tipo di scuola/nella FP ❑ - non hai cambiato né tipo di scuola/centro, né indirizzo, ma hai cambiato sede/istituto/centro ❑ - hai lavorato con un contratto di apprendistato ❑ - hai lavorato con altri contratti/senza contratto/ nell’impresa familiare ❑ - hai passato un periodo di tempo senza studiare né lavorare ❑ - altro (spec. ___________) ❑ [se ha cambiato INDIRIZZO e/oTIPO SCUOLA/CENTRO e/o SEDE, cod. 2-4-5 a D7 o se è passato da scuola a Fp o viceversa, cod. 3 a D7] 8. Per quale motivo hai cambiato? E per quali altri motivi? (spontanea, multipla: registrare 1ª risposta citata, poi la 2ª e la 3ª - max 3 risposte) - trasferimento residenza / domicilio ❑ - più comodo / vicino a casa ❑ - in seguito a bocciatura ❑ - troppo difficile / eccessivo impegno richiesto ❑ - andavo troppo male / non riuscivo a stare in pari con altri ❑ - corso troppo facile ❑ - il corso non forniva una preparazione adeguata ❑ - il corso era troppo teorico ❑ - insegnanti poco preparati ❑ - problemi con insegnanti ❑ - problemi con compagni di classe o di scuola/Cfp ❑ - non interessavano materie studiate ❑ - salute / problemi di malattia personali ❑ - problemi di altri familiari ❑ - la scuola/Cfp ha sedi diverse/più sedi ❑ - la scuola/il centro di Fp ha cambiato sede ❑ - il corso non era utile per il lavoro ❑ - altro (spec._____________) ❑ - Non indica ❑ 9. Durante gli studi ti è mai capitato di perdere uno o più anni di Scuola o della Formazione Professionale per bocciature o per altre cause? (una risposta per riga) Mai 1 volta più volte 1. alle elementari ❑ ❑ ❑ 2. alle medie ❑ ❑ ❑ 3. alle superiori ❑ ❑ ❑ 4. nella Formazione Professionale ❑ ❑ ❑ 10. Al termine della scuola media quale giudizio hai riportato? (spontanea, una sola risposta) - Ottimo ❑ - Distinto ❑ - Buono ❑ - Sufficiente ❑ - Insufficiente/non valutato ❑ 60 4. VISSUTO SULLA SCUOLA E SULLA FORMAZIONE PROFESSIONALE. ATTEGGIAMENTI / MOTIVAZIONI 11. Pensa ora al momento della scelta dopo la scuola media. Tu diresti che, in generale, la scuola media (leggere, una sola risposta) - fornisce un orientamento generale e generico ❑ - indica il percorso successivo degli studi sulla base delle materie in cui riesci o non riesci ❑ - orienta ed informa solo sulla scuola superiore ❑ - orienta ed informa anche sulla formazione professionale ❑ - aiuta a conoscere se stessi, così da poter elaborare un progetto di vita ❑ - non svolge alcun orientamento ❑ - altro (spec. ___________________________) ❑ 11.1. Secondo te, quali dovrebbero essere le scelte dopo la terza media? (leggere, una sola risposta) - dovrebbero andare tutti ad un biennio scolastico unico ❑ - chi vuole, dovrebbe poter andare subito a lavorare ❑ - dovrebbero andare tutti a scuola fino ai 18 anni ❑ - occorrerebbe la libertà di scelta tra scuola e istruzione-formazione professionale ❑ 12. Pensando alle materie che studi, quale ti piace di più? (leggere, una sola risposta) - Italiano ❑ - Matematica ❑ - Lingue ❑ - Materie tecniche ❑ - Laboratorio / esercitazioni pratiche ❑ - Altra materia (spec. _____________________) ❑ 13. Ti leggerò ora alcune situazioni che possono capitare quando sei a scuola o nel centro di formazione professionale. Per ciascuna dimmi con quale frequenza ti capita. Puoi rispondere con sempre, spesso, a volte, mai [ruotare lista] SI NO Sempre Spesso A volte (mai) - Imparare cose utili per la vita di tutti i giorni ❑ ❑ ❑ ❑ - Chiederti che senso ha per te stare a scuola/nel CFP ❑ ❑ ❑ ❑ - Intervenire e fare domande durante la lezione ❑ ❑ ❑ ❑ - Chiedere aiuto nelle materie in cui incontri problemi ❑ ❑ ❑ ❑ - Renderti conto che alcune materie proprio non fanno per te ❑ ❑ ❑ ❑ - Sentirti apprezzato dai docenti ❑ ❑ ❑ ❑ - Imparare cose utili per inserirsi nel mondo del lavoro ❑ ❑ ❑ ❑ - Imparare a comportarsi onestamente ❑ ❑ ❑ ❑ 14. Pensando ai voti e ai giudizi che hai riportato nel corso di quest’ultimo anno, come definiresti il tuo andamento scolastico/formativo? (leggere, una sola risposta) - Sotto la sufficienza ❑ - Sufficiente ❑ - Più che sufficiente ❑ - Molto al di sopra della sufficienza (buono/ottimo) ❑ 61 15. Pensando alla tua attuale esperienza nella scuola/centro di Fp, dimmi se sei molto, abbastanza, poco o per nulla soddisfatto rispetto a…..? (leggere, una risposta pr riga) [lista random] Molto Abbastanza Poco Per nulla - bagaglio culturale generale ❑ ❑ ❑ ❑ - preparazione su strumenti informatici (programmi, internet) ❑ ❑ ❑ ❑ - preparazione su lingue straniere ❑ ❑ ❑ ❑ - preparazione per l’ingresso nel mondo del lavoro ❑ ❑ ❑ ❑ - preparazione per accedere alla formazione professionale, post diploma ❑ ❑ ❑ ❑ - preparazione per andare all’università ❑ ❑ ❑ ❑ - formazione alla convivenza civile e alla democrazia ❑ ❑ ❑ ❑ 16. Ti leggerò alcune affermazioni sulla scuola fatte da altri ragazzi intervistati prima di te. Usa un voto da 1 a 10, compresi i voti intermedi, per indicare quanto sei d’accordo con ciascuna, tenendo presente che 1 significa “per niente” e 10 “completamente” d’accordo. Ti ricordo che non ci sono risposte giuste o sbagliate e che i dati saranno elaborati in modo completamente anonimo. (leggere) [ item #, ruotare lista] Grado di accordo 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 - È importante andare a scuola per confrontarsi con i coetanei ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ - La scuola richiede troppo sacrificio, è troppo pesante ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ - La scuola aiuta a crescere come persona, a realizzarsi ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ - La scuola è spesso noiosa, poco stimolante ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ - Si va a scuola solo per avere meno difficoltà a trovare lavoro ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ - Si va a scuola perché non ci sono valide alternative ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ - Con le nuove leggi si è obbligati ad iscriversi a scuola ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ ❑ 62 5. L’ESPERIENZA DI LAVORO E LA RILEVANZA DEL LAVORO NELLE SCELTE [A tutti] 17. Hai avuto nel passato esperienze di lavoro? 1. sì ❑ 2. no ❑ [se D17=1] 17.1. Se sì, con quale tipo di rapporto si è svolto il tuo lavoro? - con contratto di lavoro (apprendista, tempo indeterminato, tempo determinato…) ❑ - saltuario, senza contratto ❑ - nella azienda familiare ❑ 18. Svolgi attualmente attività di lavoro? 1. sì ❑ 2. no ❑ [se D18=1] 18.1. Con quale tipo di rapporto si svolge il tuo lavoro? - con contratto di lavoro (apprendista, tempo indeterminato, tempo determinato…) stabile ❑ - saltuario, senza contratto provvisorio ❑ - nella azienda familiare familiare ❑ [se lavora/ha lavorato D17 e D18 cod. 1] 19. L’esperienza lavorativa ha influito nella scelta del corso scolastico [D1=1] di formazione professionale [D1=2]che stai attualmente frequentando? - sì, mi ha fatto capire meglio cosa vorrei fare in futuro ❑ - no, perché è successiva al momento della scelta ❑ - no, non ha influito 63 6. SCELTE FUTURE: LAVORO O STUDIO 20. In prospettiva, hai intenzione di: - Finire il corso di studi che stai attualmente frequentando ❑ - [se D1 cod. 1 scuola] cambiare il tipo di scuola, se verrai bocciato ❑ - [se D1 cod. 1 scuola] cambiare il tipo di scuola comunque ❑ - [se D1 cod. 1 scuola] lasciare la scuola e frequentare un corso di FP ❑ - [se D1 cod. 2 Fp] passare ad un altro corso di FP ❑ - [se D1 cod. 2 Fp] passare da un corso di FP ad un corso scolastico ❑ [Se codice 1 a D20] 21. Quando avrai terminato la scuola superiore o il corso di FP cosa pensi di fare? (leggere, sollecitare risposte - singola) - continuerò a studiare ❑ - andrò a lavorare ❑ - (non suggerire, ma registrare) non sa, non ha ancora deciso ❑ [se continuerà a studiare - codice 1 a D21] 21.1. Che tipo di corso pensi di frequentare? (spontanea, una sola risposta) - corso di laurea ❑ - corsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS) ❑ - corsi post qualifica (sia scuola sia FP) ❑ - corsi post-diploma ❑ - il quarto anno della formazione professionale iniziale ❑ - l’apprendistato ❑ - altri corsi di formazione, in genere ❑ - corsi di specializzazione, aggiornamento nell’ambito dell’indirizzo di studi già seguito ❑ - (non suggerire, ma registrare) non sa ❑ [se continuerà a studiare - codice 1 a D21] 21.2. Pur continuando a studiare, saresti disposto a svolgere qualche attività lavorativa? (leggere, una sola risposta) - Sì, intendo lavorare in modo saltuario, occasionale/stagionale ❑ - Sì, intendo lavorare in modo continuativo e studiare ❑ - No, penso di concentrarmi solo sugli studi ❑ - Sto già lavorando e studiando ed intendo continuare ❑ [se andrà a lavorare - codice 2 a D21] 22. Prima mi hai detto di voler lavorare. Anche se non hai ancora scelto, orientativamente, preferiresti un lavoro come … - autonomo / in proprio ❑ - dipendente ❑ - (non suggerire, ma registrare) non sa/non ha ancora deciso ❑ 64 [se andrà a lavorare - codice 2 a D21] 22.1. Puoi indicare il principale motivo per cui pensi che andrai a lavorare? Per …(leggere, una sola risposta) - esigenze familiari ❑ - guadagnare e essere indipendente ❑ - pensi sia sufficiente il tuo percorso di studi ❑ - non hai più voglia di studiare ❑ - esprimere te stesso e realizzarti come persona ❑ - vuoi crearti una famiglia ❑ [per tutti] 23. Ti leggerò ora alcune frasi che sintetizzano opinioni espresse da altri su scuola e formazione. Potresti dire quanto sei d’accordo con ciascuna di esse? [Random] Molto Abba- Poco Per stanza nulla - I corsi della formazione professionale richiedono una frequenza costante, ma poco studio individuale ❑ ❑ ❑ ❑ - Per avere un buon lavoro è necessario arrivare a conseguire una laurea ❑ ❑ ❑ ❑ - La formazione professionale offre corsi più semplici, per chi ha poca voglia di studiare ❑ ❑ ❑ ❑ - Per imparare un mestiere bisogna iscriversi ai corsi di formazione professionale. ❑ ❑ ❑ ❑ - Il mercato del lavoro chiede figure sempre più specializzate ❑ ❑ ❑ ❑ - Il diploma superiore è un titolo più che sufficiente per poter trovare lavoro ❑ ❑ ❑ ❑ - Nei corsi di formazione professionale si studiano le cose concretamente, quindi con maggiore soddisfazione ❑ ❑ ❑ ❑ - La qualifica professionale è un titolo più che sufficiente per trovare lavoro ❑ ❑ ❑ ❑ - Non serve avere un titolo di studio/qualifica per trovare lavoro ❑ ❑ ❑ ❑ - I giovani si iscrivono all’università perché non ci sono valide alternative per imparare una professione ❑ ❑ ❑ ❑ 24. In futuro, dovendo scegliere, qual è la caratteristica del lavoro che conta di più in assoluto? Un lavoro… [random] (leggere, una risposta) - vicino ai propri interessi ❑ - coerente con gli studi fatti ❑ - con orario flessibile ❑ - che garantisca il posto fisso/sicuro ❑ - con elevata utilità sociale ❑ - di successo ❑ - elevato guadagno ❑ - che consenta di imparare davvero un mestiere/una professione ❑ - che assicuri la mia autorealizzazione ❑ 65 6. ULTERIORI ELEMENTI DI CLASSIFICAZIONE INDIVIDUO E FAMIGLIA D’APPARTENENZA 25. Parliamo ancora della tua famiglia, vivi con (leggere) - entrambi i genitori ❑ - 1 solo genitore (es., divorziati, ecc.), e cioè il padre ❑ - 1 solo genitore (es., divorziati, ecc.), e cioè la madre ❑ - nessun genitore /altri parenti ❑ Potrei per favore parlare con uno dei tuoi genitori per rivolgergli alcune domande? Se il genitore non è immediatamente disponibile, fare le domande da 26 a 28.2 direttamente al ragazzo. Altrimenti riformularle in base al rispondente (padre o madre) [Se vive con altri D25=4 chiudere intervista] [se vive con entrambi i genitori o capofamiglia il padre - codici 1 e 2 a D24] 26. E tuo padre lavora come dipendente, come autonomo oppure non lavora? [Rilanciare, leggere] ed è… Lavoratori dipendenti 1. Dirigente/Quadro/Funzionario ❑ 2. Impiegato / Insegnante ❑ 3. Operaio / altra figura simile (commesso, ecc.) ❑ Lavoratori indipendenti/autonomi 4. Imprenditore/Libero professionista ❑ 5. Artigiano/Commerciante ❑ 6. Altro autonomo ❑ Non lavora 7. Pensionato ❑ 8. Studente ❑ 9. Si occupa della gestione della casa ❑ 10. Disoccupato/In cerca di occupazione ❑ 11. Altro non lavora ❑ 12. (non suggerire) Non sa/non risponde ❑ [se vive con entrambi i genitori o capofamiglia la madre - codici 1 e 3 a D25] 27. E tua madre lavora come dipendente, come autonomo oppure non lavora? [Rilanciare, leggere] ed è… Lavoratori dipendenti 1. Dirigente/Quadro/Funzionario ❑ 2. Impiegata / Insegnante ❑ 3. Operaia / altra figura simile (commessa, ecc.) ❑ Lavoratori indipendenti/autonomi 4. Imprenditrice/Libera professionista ❑ 5. Artigiana/Commerciante ❑ 6. Altro autonoma ❑ Non lavora 7. Pensionata ❑ 8. Studentessa ❑ 9. Si occupa della gestione della casa ❑ 10. Disoccupata/In cerca di occupazione ❑ 11. Altro non lavora ❑ 12. (non suggerire) Non sa/non risponde ❑ 66 28.1. Qual è il titolo di studio di tuo padre? 28.2. E di tua madre? (spontanea) PADRE MADRE - Laurea o superiore (Master, ecc.) ❑ ❑ - Medie Superiori ❑ ❑ - Medie Inferiori ❑ ❑ - Elementari / Nessun titolo ❑ ❑ - (non suggerire) Non risponde/Non sa ❑ ❑ 67 (domande da rivolgere direttamente ad uno dei genitori dell’intervistato) 29. Rispetto alle scelte di studio compiute da suo figlio dopo la conclusione della scuola media ritiene di aver svolto un ruolo (leggere - una sola risposta): 1. Decisivo ❑ 2. Importante ❑ 3. Insignificante ❑ 30. Secondo lei, quali dovrebbero essere le possibilità di scelta per i giovani dopo la terza media? (leggere - solo possibili più risposte) 1. Iscrizione a percorsi scolastici lunghi, per il conseguimento del diploma di “maturità” ❑ 2. Iscrizione a percorsi scolastici biennali, che poi permettono la prosecuzione negli studi, sia nella scuola sia nella formazione professionale ❑ 3. Iscrizione a corsi brevi di formazione professionalizzante finalizzati l’inserimento nel mondo del lavoro ❑ 4. Iscrizione a percorsi professionalizzanti anche brevi ma aperti alla prosecuzione negli studi, fino a livelli universitari e/o analoghi a quelli universitari ❑ 31. Attualmente la normativa relativa alla istruzione e alla formazione dei giovani prevede alcuni adempimenti finalizzati a far acquisire loro titoli di studio, qualifiche e competenze per un proficuo inserimento nel mondo del lavoro e per innalzare in generale il livello culturale della popolazione. A questo proposito lei è d’accordo con i seguenti scenari: - obbligo di istruzione fino a 16 anni, da svolgersi esclusivamente nella scuola ❑ - obbligo di istruzione fino a 16 anni, da svolgersi sia nella scuola sia nella formazione professionale ❑ - diritto/dovere di frequentare un percorso scolastico o di formazione professionale fino a 18 anni o fino al conseguimento di una qualifica/diploma ❑ - possibilità di espletare il diritto/dovere anche tramite lo strumento dell’apprendistato ❑ - non ci dovrebbero essere obblighi. Dopo la terza media se vuole un giovane dovrebbe poter scegliere di andare a lavorare ❑ 32. Secondo lei, le informazioni disponili sulla possibilità di frequentare corsi nell’istruzione-formazione professionale rispetto ai percorsi della scuola secondaria superiore sono (leggere - una sola risposta) 1. Insufficienti ❑ 2. Adeguate ❑ 33. Secondo lei, nella prosecuzione degli studi dopo la terza media i giovani quale tipo di conoscenze e/o competenze dovrebbero rafforzare di più rispetto a quanto avviene al momento (leggere, una risposta per riga): [lista random] Molto Abba- Poco Per stanza nulla - Una maggiore cultura generale ❑ ❑ ❑ ❑ - Competenze tecnico e professionali ❑ ❑ ❑ ❑ - Più preparazione su strumenti informatici (programmi, internet) ❑ ❑ ❑ ❑ - Più preparazione su lingue straniere ❑ ❑ ❑ ❑ - Più preparazione per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro ❑ ❑ ❑ ❑ - Preparazione per andare all’università ❑ ❑ ❑ ❑ - Formazione alla convivenza civile e alla democrazia ❑ ❑ ❑ ❑ 68 ALLEGATO 2 NOTA METODOLOGICA SULLA RILEVAZIONE L’universo di riferimento oggetto di analisi è costituito dal totale degli studenti tra i 14 e i 19 anni residenti sull’intero territorio nazionale. La rilevazione, svolta in collaborazione con la società Codres, è stata effettuata selezionando in modo casuale 44 comuni campione, all’interno dei quali sono state realizzate nel complesso 1.006 interviste. Le unità intervistate sono state scelte casualmente all’interno di ciascuno strato (i comuni) e ripartite per quote secondo le caratteristiche demografiche dell’intervi- stato (sesso e classe d’età). A ciascun soggetto contattato è stato chiesto se aveva un’età compresa tra i 14 ed i 19 anni e se attualmente iscritto ad una classe di scuola secondaria superiore (licei, istituti professionali o tecnici, ecc.), o ad un corso di formazione professionale regionale. Le interviste sono state condotte con metodologia CATI (Computer Assisted Telephone Interviewing), una tecnica in grado di garantire affidabilità dei risultati e rapidità dei tempi di elaborazione, grazie al salvataggio automatico delle risposte su supporto informatico e alla possibilità di verifiche automatiche. La numerosità campionaria assicura, ad un livello di confidenza del 95%, un errore campionario del +/–3,1%. Nella tab. 1 vengono riportate le principali caratteristiche strutturali del cam- pione. Tab. 1 - Caratteristiche del campione per classi d’età e sesso (numero di interviste e valori %) 69 ALLEGATO 3 NOTA METODOLOGICA SULLA ELABORAZIONE DI UN INDI- CATORE SINTETICO RELATIVO AI LIVELLI SOCIO CULTURALI La variabile “livello socioculturale” è stata costruita a partire da due altre va- riabili: appartenenza sociale e livello di scolarizzazione. La variabile appartenenza sociale, a sua volta, si articola in 5 livelli: – “dirigenziale”: gli individui nelle cui famiglie almeno uno dei genitori è diri- gente o imprenditore; – “impiegatizio”: dove entrambi i genitori sono impiegati di concetto o inse- gnanti, oppure uno dei due svolge una di queste professioni e l’altro è un ope- raio, oppure pensionato, disoccupato; – “autonomo”: uno dei due genitori è un lavoratore in proprio, commerciante, ar- tigiano, oppure uno svolge una di queste occupazioni e l’altro è un pensio- nato/disoccupato; – “operaio”: comprende i casi in cui entrambi i genitori sono operai, oppure solo uno dei due lo è e l’altro è pensionato oppure non lavora; – infine, per contemplare tutte le alternative possibili, è stata inserita come quinta modalità di risposta “non lavoro”, che comprende quelle situazioni in cui entrambi i genitori non sono occupati. Il livello di scolarizzazione invece è stato costruito a partire dal titolo di studio dei genitori e si compone di 4 sottolivelli: – “alto”, in cui almeno uno dei due genitori ha una laurea o un titolo superiore e l’altro un titolo di studio inferiore; – “medio” con almeno uno dei due genitori con il diploma di scuola superiore e l’altro un titolo di studio inferiore; – “basso-medio basso”: almeno uno dei due genitori ha la licenza media e l’altro un titolo di studio inferiore. È stata inserita una quarta modalità per considerare i casi in cui non è stata for- nita altresì risposta circa il titolo di studio dei genitori. La variabile “livello socioculturale” è, pertanto, la risultante delle seguenti combinazioni delle suddette variabili: 70 ALLEGATO 4 NOTA METODOLOGICA SULLA CLUSTER ANALYSIS L’analisi fattoriale è una tecnica di statistica multivariata che, in genere, viene utilizzata per ridurre il numero di variabili considerate per rappresentare un feno- meno complesso, mediante l’individuazione di nuove variabili che esprimono in forma sintetica le informazioni contenute nel set originario di dati (ovvero le ri- sposte fornite al questionario). Il metodo (Analisi delle corrispondenze multiple) permette di sintetizzare le in- formazioni di tipo qualitativo attraverso la costruzione di nuove variabili (i fattori) che hanno una relazione lineare con quelle originarie e spiegano quote via via de- crescenti della variabilità originaria. In sostanza, tali fattori sono variabili comple- tamente nuove, indipendenti tra di loro, ciascuna delle quali riassume un aspetto particolare del fenomeno in questione; inoltre, con la minima perdita di informa- zioni, offrono un quadro sintetico della realtà indagata. Una volta individuati i fattori principali – quelli interpretabili, che rappresen- tano cioè una particolare dimensione del fenomeno considerato – è possibile proce- dere al raggruppamento delle unità in base a criteri di omogeneità rispetto alle sud- dette caratteristiche (cluster analysis). Il metodo di clustering che è stato utilizzato opera con l’obiettivo di minimizzare la variabilità interna ai singoli gruppi e di massimizzare quella esistente tra i diversi raggruppamenti ottenuti. Le variabili originarie scelte per l’individuazione dei fattori principali (varia- bili attive) sono quelle ritenute maggiormente rilevanti nel determinare le aspetta- tive dei giovani per il futuro e le propensioni dichiarate; le altre variabili del que- stionario (variabili illustrative) sono state usate per descrivere i raggruppamenti ot- tenuti. L’analisi delle corrispondenze multiple è stata condotta sul seguente set di va- riabili: 1) Quando avrai terminato la scuola superiore o il corso di Fp cosa pensi di fare? 2) Motivi principali per cui ti sei iscritto al corso frequentato: scelta su influenza altrui. 3) Motivi principali per cui ti sei iscritto al corso frequentato: scelta basata su in- tenzioni di studio e carriera futuri. 4) Motivi principali per cui ti sei iscritto al corso frequentato: rapido inserimento nel mondo del lavoro. 5) Motivi principali per cui ti sei iscritto al corso frequentato: per tenermi occu- pato o per mancanza di alternative 6) Materia preferita 7) A scuola /CFP ti capita di: imparare cose utili per inserirsi nel mondo del lavoro 71 8) Pensando all’esperienza nella scuola/centro FP, sei soddisfatto della prepara- zione per accedere alla formazione professionale post diploma? 9) Pensando all’esperienza nella scuola/centro FP, sei soddisfatto della prepara- zione per andare all’università? 10) In futuro, dovendo scegliere, qual è la caratteristica del lavoro che conta di più in assoluto? Il numero di modalità rilevanti è complessivamente pari a 28. Le prime 4 com- ponenti principali individuate hanno mostrato una capacità esplicativa pari al 34.34% dell’inerzia complessiva. Dal punto di vista interpretativo, le prime 4 componenti principali (assi fatto- riali) possono essere descritte come segue. La prima componente principale separa chiaramente le modalità indicanti chi va a scuola per imparare un mestiere e chi intende andare a lavorare una volta ter- minato il ciclo di studi (lato destro dell’asse) da chi ci va con l’intento di prose- guire l’istruzione per prospettive di carriera (lato sinistro). La seconda componente principale separa le modalità indicanti scarsa soddi- sfazione e scarsa convinzione relativamente all’utilità degli studi (che hanno coor- dinate negative), da quelle che identificano individui motivati allo studio (che si posizionano sul semiasse positivo), indipendentemente dallo sbocco del ciclo di studi intrapreso. La terza componente principale discrimina le modalità indicanti il fatto di aver scelto di andare a scuola ed il tipo di scuola da frequentare sulla base di consigli od influenza altrui, e quelle indicanti un elevato livello di incertezza sulle proprie pro- spettive future (lato sinistro dell’asse), da quelle che caratterizzano individui più decisi e consapevoli delle proprie scelte presenti e future (lato destro dell’asse). La quarta componente principale separa le modalità indicanti le preferenze verso le materie tecnico-scientifiche e la ricerca del successo nella vita (che hanno coordinata negativa) da quelle indicanti la ricerca di qualcosa che interessi ed ap- passioni, soprattutto in ambito umanistico (che si posizionano sul semiasse posi- tivo). In entrambi i semiasse, comunque, si posizionano modalità indicanti un certo grado di confusione sulle aspettative future. Successivamente è stata condotta una cluster analysis, che ha consentito di in- dividuare una suddivisione ottimale in 5 gruppi che si collocano sugli assi fattoriali come descritto nelle figg. 1, 2 e 3. 72 F ig . 1 - L a ra pp re se nt az io ne d ei g ru pp i s ug li as si f at to ri al i – I e I I as se f at to ri al e 73 F ig . 2 - L a ra pp re se nt az io ne d ei g ru pp i s ug li as si f at to ri al i – I e I II a ss e fa tto ri al e 74 F ig . 3 - L a ra pp re se nt az io ne d ei g ru pp i s ug li as si f at to ri al i – I e I V as se f at to ri al e 75 Variabili che sono state ricodificate per la cluster analysis A causa del fatto che un elevato numero di modalità di risposta aumenta la va- riabilità dei dati e rende difficile una sintesi adeguata con un umero basso di fattori latenti, alcune variabili che permettevano una scelta tra possibili risposte molto vasta (ad esempio un punteggio da 1 a 10 come grado di “accordo” con un’affer- mazione), sono state sintetizzate, in modo da ridurre il problema della dispersione delle unità statistiche. Allo stesso modo, alcune domande che invece offrivano un ventaglio di possibili risposte molto ampio (ad esempio una scelta tra oltre 10 mo- tivazioni di iscrizione alla scuola frequentata) sono state trattate accorpando diverse possibilità, giudicate in qualche modo analoghe, sotto la stessa modalità. Di seguito è riportato l’elenco delle variabili che sono state modificate in ma- niera significativa per la trattazione multivariata. DS. Qual è il motivo principale per cui ti sei iscritto a questo corso? Ed un altro motivo qual è? È stata ricondotta alla serie di 5 domande “Motivi iscrizione corso frequenta- to”, cui sono state assegnate le risposte Sì e No a seconda che l’individuo avesse in- dicato o meno le modalità possibili. Le modalità sono state raggruppate come segue. La numero I è stata lasciata sola, ricodificata con “Interesse per contenuti”. Le Modalità 2, 12, 13, 14, 15 sono state raggruppate sotto la dicitura “No alterna- tive/altro”, Le modalità 4, 5, 8 sono state raggruppate sotto la dicitura “Scelta in- fluenza altrui”. Le modalità 3 e 11 sono state raggruppate sotto la dicitura “Scelta studi/carriera”. Le modalità 6, 7, 9, l0 sono state raggruppate sotto la dicitura “Inse- rirsi mondo lavoro”. D8. Per quale motivo hai cambiato? E per quali altri motivi? È stata ricondotta alla serie di 12 domande “Motivi del cambiamento scuola”, cui sono state assegnate le risposte Sì e No, a seconda che l’individuo avesse indi- cato o meno le modalità possibili. Le modalità 9, 13-18 non sono state selezionate da nessun individuo, per cui sono state eliminate. D12. Pensando alle materie che studi, quale ti piace di più? Sul questionario sono indicate meno modalità di quelle che sono effettiva- mente presenti nel data set: infatti, la dicitura “altra materia” è stata suddivisa in “Materie Umanistiche”, “Materie Scientifiche”, “Materie Artistiche”, “Educazione Fisica”. Le modalità di risposta sono state raggruppate come segue: Italiano e Ma- terie Umanistiche sono state aggregate nella modalità “Materie Umanistiche”, Ma- tematica e Materie·Scientifiche sono state aggregate nella modalità “Materie Scien- tifiche”, Materie Tecniche e Materie Artistiche sono state aggregate nella modalità “Materie Tecniche”, Laboratorio ed Educazione Fisica sono state raggruppate nella modalità “Esercitazioni Pratiche”. Lingue è stata lasciata da sola. 76 D13. Ti leggerò ora alcune situazioni che possono capitare quando sei a scuola o nel centro di formazione professionale. Per ciascuna dimmi con quale frequenza ti capita. Puoi rispondere con sempre, spesso, a volte, mai. Le quattro opportunità di risposta sono state aggregate ponendo “Sempre” e “Spesso” nella dicitura “Si”, “A volte” e “Mai” nella dicitura “No”. D1S. Pensando alla tua attuale esperienza nella scuola/centro di Fp, dimmi se sei molto, abbastanza, poco o per nulla soddisfatto rispetto a...? Le quattro opportunità di risposta sono state aggregate ponendo “Molto” e “Abbastanza” nella dicitura “Si”, “Poco” e “Per nulla” nella dicitura “No”. D16. Ti leggerò alcune affermazioni sulla scuola fatte da altri ragazzi in- tervistati prima di te. Usa un voto da 1 a 10, compresi i voti intermedi, per in- dicare quanto sei d’accordo con ciascuna, tenendo presente che 1 significa “per niente” e 10 “completamente” d’accordo. La scala da 1 a l0 è stata sintetizzata, includendo i voti da l a 4 nella dicitura “Poco”, da 5 a 7 nella dicitura “Abbastanza” e da 8 a l0 nella dicitura “Molto”. D24. In futuro, dovendo scegliere, qual è la caratteristica del lavoro che conta di più in assoluto? Un lavoro ... Le possibilità di risposta sono state raggruppate come segue: le modalità l e 2 sono state aggregate nella modalità “Interesse e coerenza”, le modalità 6, 7 e 9 sono state raggruppate nella modalità “Realizzazione personale”, la modalità 4 è stata ricodificata con “Sicurezza”, le modalità 3, 5 e 8 sono state aggregate nella modalità “Altro”. 77 A. Distribuzioni per classi di età 1) Dati strutturali e informazioni su percorso scolastico e formativo Tab. 1a - Ripartizione geografica (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 2a - Ampiezza demografica (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 3a - Sesso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 ALLEGATO 5 ALLEGATI STATISTICI 78 Tab. 4a - Scuola frequentata (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 5a - Scuola secondaria superiore frequentata (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 6a - Indirizzo dell’istituto di istruzione professionale frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 79 Tab. 7a - Indirizzo dell’istituto di istruzione tecnica frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 8a - Durata del corso di FP frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 9a - Il corso di FP è: (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 80 Tab. 10a - Il corso di FP è valido per assolvimento obbligo-diritto/dovere alla formazione (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 11a - Indirizzo del corso di FP frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 81 Tab. 12a - Anno di corso frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 13a - Motivi principali di iscrizione al corso di studi (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 82 Tab. 14a - Intenzione di cambiare il corso di studi frequentato (val. %) 2) Percorso scolastico e formativo pregresso Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 15a - Percorso scolastico e formativo pregresso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 16a - Primo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 83 Tab. 17a - Secondo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 18a - Terzo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 19a - Principali motivi del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 84 Tab. 20a - Bocciature nella Scuola o nella FP (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 21a - Giudizio riportato al termine della scuola media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 85 Tab. 22a - Opinioni sull’orientamento in uscita dalla scuola media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 23a - Scelte da fare dopo la terza media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 24a - Materie preferite (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 3) Vissuto nella scuola e nella formazione professionale. Atteggiamenti e motivazioni 86 Tab. 25a - Vissuto scolastico (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 87 Tab. 26a - Definizione dell’andamento scolastico/formativo di quest’anno (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Segue Tab. 27a - Grado di soddisfazione della attuale esperienza nella scuola/centro di FP (val. %) 88 Segue Tab. 27a Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 28a - Grado di accordo su affermazioni di coetanei relativamente alla scuola (valori medi) Fonte: indagine Censis, 2007 89 Tab. 29a - Precedenti esperienze di lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 30a - Tipo di rapporto del lavoro svolto (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 31a - Attività lavorative svolte attualmente (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 4) L’esperienza di lavoro e la rilevanza del lavoro nelle scelte 90 Tab. 32a - Tipo di rapporto con il quale si svolge il tuo lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 33a - L’esperienza lavorativa ha influito nella scelta del corso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 91 Tab. 34a - Scelte future di lavoro o studio (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 35a - Scelte al termine della scuola superiore o del corso di FP (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 36a - Tipo di corso che si intende frequentare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 5) Scelte future: lavoro o studio 92 Tab. 37a - Disponibilità a svolgere qualche attività lavorativa continuando a studiare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 38a - Tipologia di lavoro preferito (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 39a - Principali motivi della scelta di andare a lavorare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 93 Tab. 40a - Grado di accordo su alcune opinioni espresse da altri su scuola e formazione (val. %) Segue 94 Segue Tab. 40a Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 41a - Caratteristiche del lavoro che contano di più (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 95 B. Distribuzioni per sesso di appartenenza 1) Dati strutturali e informazioni su percorso scolastico e formativo Tab. 1b - Ripartizione geografica (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 2b - Ampiezza demografica (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 3b - Età (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 96 Tab. 4b - Scuola frequentata (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 5b - Scuola secondaria superiore frequentata (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 6b - Indirizzo dell’istituto di istruzione professionale frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 97 Tab. 7b - Indirizzo dell’istituto frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 8b - Durata del corso di formazione frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 9b - Il corso di FP è: (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 98 Tab. 10b - Il corso di FP è valido per assolvimento obbligo-diritto/dovere alla formazione (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 11b - Indirizzo del corso di FP frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 99 Tab. 12b - Anno di corso frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 13b - Motivi principali di iscrizione al corso di studi (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 100 2) Percorso scolastico e formativo pregresso Tab. 14b - Intenzione di cambiare il corso di studi frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 15b - Percorso scolastico e formativo pregresso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 101 Tab. 16b - Primo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 17b - Secondo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 102 Tab. 18b - Terzo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 19b - Principali motivi del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 103 Tab. 21b - Giudizio riportato al termine della scuola media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 20b - Bocciature nella Scuola o della FP (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 104 3) Vissuto nella scuola e nella formazione professionale. Atteggiamenti e motivazioni Tab. 22b - Opinioni sull’orientamento in uscita dalla scuola media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 23b - Scelte da fare dopo la terza media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 105 Tab. 24b - Materie preferite (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 25b - Vissuto scolastico (val. %) Segue 106 Segue Tab. 25b Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 26b - Definizione dell’andamento scolastico/formativo di quest’anno (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 107 Tab. 27b - Grado di soddisfazione della attuale esperienza nella scuola/centro di FP (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 108 Tab. 28b - Grado di accordo su affermazioni di coetanei relativamente alla scuola (valori medi) Fonte: indagine Censis, 2007 4) L’esperienza di lavoro e la rilevanza del lavoro nelle scelte Tab. 29b - Precedenti esperienze di lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 30b - Tipo di rapporto del lavoro svolto (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 109 Tab. 31b - Attività lavorative svolte attualmente (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 32b - Tipo di rapporto con il quale si svolge il tuo lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 33b - L’esperienza lavorativa ha influito nella scelta del corso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 110 5) Scelte future: lavoro o studio Tab. 34b - Scelte future di lavoro o studio (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 35b - Scelte al termine della scuola superiore o del corso di FP (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 36b - Tipo di corso che si intende frequentare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 111 Tab. 37b - Disponibilità a svolgere qualche attività lavorativa continuando a studiare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 38b - Tipologia di lavoro preferito (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 39b - Principali motivi della scelta di andare a lavorare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 112 Tab. 40b - Grado di accordo su alcune opinioni espresse da altri su scuola e formazione (val. %) Segue 113 Segue Tab. 40b Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 41b - Caratteristica del lavoro che contano di più (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 45b - Titolo di studio dei genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 114 C. Distribuzioni per ripartizione geografica 1) Dati strutturali e informazioni su percorso scolastico e formativo Tab. 1c - Ampiezza demografica (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 2c - Sesso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 3c - Età (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 115 Tab. 4c - Scuola frequentata (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 5c - Scuola secondaria superiore frequentata (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 6c - Indirizzo dell’istituto di istruzione professionale frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 116 Tab. 7c - Indirizzo dell’istituto di istruzione tecnica frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 8c - Durata del corso di FP (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 9c - Il corso di FP è (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 117 Tab. 10c - Il corso di FP è valido per assolvimento obbligo-diritto/dovere alla formazione (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 12c - Anno di corso frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 11c - Indirizzo del corso di FP (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 118 Tab. 13c - Motivi principali di iscrizione al corso di studi (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 14c - Intenzione a cambiare il corso di studi frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 2) Percorso scolastico e formativo pregresso 119 Tab. 15c - Percorso scolastico e formativo pregresso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 16c - Primo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 120 Tab. 17c - Secondo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 18c - Terzo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 121 Tab. 19c - Principali motivi del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 20c - Bocciature nella Scuola o nella FP (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 122 Tab. 21c - Giudizio riportato al termine della scuola media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 22c - Opinioni sull’orientamento in uscita dalla scuola media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 3) Vissuto nella scuola e nella Formazione professionale. Atteggiamenti e motivazioni 123 Tab. 23c - Scelte da fare dopo la terza media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 24c - Materie preferite (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 25c - Vissuto scolastico (val. %) Segue 124 Fonte: indagine Censis, 2007 Segue Tab. 25c 125 Tab. 26c - Definizione dell’andamento scolastico/formativo di quest’anno (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 27c - Grado di soddisfazione della attuale esperienza nella scuola/centro di FP (val. %) Segue 126 Segue Tab. 27c Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 28c - Grado di accordo su affermazioni di coetanei relativamente alla scuola (valori medi) Fonte: indagine Censis, 2007 127 Tab. 29c - Precedenti esperienze di lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 30c - Tipo di rapporto del lavoro svolto (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 31c - Attività lavorative svolte attualmente (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 4) L’esperienza di lavoro e la rilevanza del lavoro nelle scelte 128 Tab. 32c - Tipo di lavoro con il quale si svolge il tuo lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 33c - L’esperienza lavorativa ha influito nella scelta del corso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 34c - Scelte future di lavoro o studio (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 5) Scelte future: lavoro o studio 129 Tab. 35c - Scelte al termine della scuola superiore o del corso di Fp (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 36c - Tipo di corso che si intende frequentare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 130 Tab. 38c - Tipologia di lavoro preferito (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 39c - Principali motivi della scelta di andare a lavorare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 37c - Disponibilità a svolgere qualche attività lavorativa continuando a studiare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 131 Tab. 40c - Grado di accordo su alcune opinioni espresse da altri su scuola e formazione (val. %) Segue 132 Segue Tab. 40c Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 41c - Caratteristiche del lavoro che contano di più (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 133 Tab. 42c - Persone con cui vive (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 43c - Condizione professionale del padre (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 44c - Condizione professionale della madre (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 6) Ulteriori elementi di classificazione individuo e famiglia d’appartenenza 134 Tab. 45c - Titolo di studio dei genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 47c - Possibilità di scelta per i giovani dopo la terza media, secondo i genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 46c - Ruolo svolto rispetto alle scelte di studio dei figli dopo la scuola media, secondo i genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 135 Tab. 48c - Accordo dei genitori con le affermazioni sulla normativa dell’istruzione e formazione professionale (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 49c - Le informazioni sulla possibilità di frequentare corsi istruzione-formazione professionale, secondo i genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 136 Tab. 50c - Conoscenze e/o competenze da rafforzare dopo la terza media, secondo i genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 137 D. Distribuzioni per tipo di percorso di studi 1) Dati strutturali e informazioni su percorso scolastico e formativo Tab. 1d - Anno di corso frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 2d - Motivi principali di iscrizione al corso di studi (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 138 Tab. 3d - Giudizio riportato al termine della scuola media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 2) Percorso scolastico e formativo pregresso Tab. 4d - Materie preferite (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 3) Vissuto sulla scuola e sulla formazione professionale. Atteggiamenti e motivazioni 139 Tab. 5d - Definizione dell’andamento scolastico/formativo di quest’anno (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 6d - Grado di soddisfazione della attuale esperienza nella scuola/centro di FP (val. %) Segue 140 Segue Tab. 6d Fonte: indagine Censis, 2007 141 Tab. 7d - Precedenti esperienze di lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 8d - Attività lavorative svolte attualmente (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 9d - L’esperienza lavorativa ha influito nella scelta del corso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 4) L’esperienza di lavoro e la rilevanza del lavoro nelle scelte 142 Tab. 10d - Scelte al termine della scuola superiore o del corso di FP (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 11d - Tipologia di lavoro preferito (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 12d - Principale motivo della scelta di andare a lavorare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 5) Scelte future: lavoro o studio 143 Tab. 13d - Caratteristica del lavoro che contano di più (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 14d - Condizione professionale del padre (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 15d - Condizione professionale della madre (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 144 E. Distribuzioni per ampiezza del Comune di residenza 1) Dati strutturali e informazioni su percorso scolastico e formativo Tab. 1e - Ripartizione geografica (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 2e - Sesso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 3e - Età (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 145 Tab. 4e - Scuola frequentata (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 5e - Scuola secondaria superiore frequentata (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 6e - Indirizzo dell’istituto frequentato di istruzione professionale (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 146 Tab. 7e - Indirizzo dell’istituto di istruzione tecnica frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 8e - Durata del corso di Fp frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 9e - Il corso di FP è (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 147 Tab. 11e - Indirizzo del corso di FP frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 10e - Il corso di FP è valido per assolvimento obbligo-diritto/dovere alla formazione (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 148 Tab. 12e - Anno di corso frequentato (val.%) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 13e - Motivi principali di iscrizione al corso di studi (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 149 Tab. 14e - Intenzione di cambiare il corso di studi frequentato (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 15e - Percorso scolastico e formativo pregresso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 2) Percorso scolastico e formativo pregresso 150 Tab. 16e - Primo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 17e - Secondo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 151 Tab. 18e - Terzo motivo del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 19e - Principali motivi del cambiamento (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 152 Tab. 20e - Bocciature nella scuola e nella FP (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 21e - Giudizio riportato al termine della scuola media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 153 Tab. 22e - Opinioni sull’orientamento in uscita dalla Scuola media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 23e - Scelte da fare dopo la terza media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 3) Vissuto sulla scuola e sulla formazione professionale. Atteggiamenti e motivazioni 154 Tab. 24e - Materie preferite (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 25e - Vissuto scolastico (val. %) Segue 155 Fonte: indagine Censis, 2007 Segue Tab. 25e 156 Tab. 26e - Definizione dell’andamento scolastico/formativo di quest’anno (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 27e - Grado di soddisfazione della attuale esperienza nella scuola/centro di FP (val. %) Segue 157 Tab. 28e - Grado di accordo su affermazioni di coetanei relativamente alla scuola (valori medi) Fonte: indagine Censis, 2007 Fonte: indagine Censis, 2007 Segue Tab. 27e 158 Tab. 29e - Precedenti esperienze di lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 30e - Attività lavorative svolte attualmente (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 31e - Attività lavorative svolte attualmente (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 4) L’esperienza di lavoro e la rilevanza del lavoro nelle scelte 159 Tab. 32e - Tipo di rapporto con il quale si svolge il tuo lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 33e - L’esperienza lavorativa ha influito nella scelta del corso (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 34e - Scelte future di lavoro o studio (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 5) Scelte future: lavoro o studio 160 Tab. 35e - Scelte al termine della scuola superiore o del corso di FP (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 36e - Tipo di corso che si intende frequentare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 161 Tab. 37e - Disponibilità a svolgere qualche attività lavorativa continuando a studiare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 38e - Tipologia di lavoro preferito (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 39e - Principali motivi della scelta di andare a lavorare (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 162 Tab. 40e - Grado di accordo su alcune opinioni espresse da altri su scuola e formazione (val. %) Segue 163 Tab. 41e - Caratteristica del lavoro che conta di più in assoluto sul lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Fonte: indagine Censis, 2007 Segue Tab. 40e 164 Tab. 42e - Persone con cui vive (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 43e - Condizione professionale del padre (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 44e - Condizione professionale della madre (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 6) Ulteriori elementi di classificazione individuo e famiglia di appartenenza 165 Tab. 45e - Titolo di studio dei genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 46e - Ruolo svolto rispetto alle scelte di studio dei figli dopo la scuola media, secondo i genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 47e - Possibilità di scelta per i giovani dopo la terza media, secondo i genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 166 Tab. 48e - Accordo dei genitori con le affermazioni sulla normativa dell’istruzione e formazione (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 49e - Le informazioni sulla possibilità di frequentare corsi di istruzione-formazione professionale, secondo i genitori sono: (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 167 Tab. 50e - Conoscenze e/o competenze da rafforzare dopo la terza media, secondo i genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 168 F. Distribuzioni per livello socioculturale di appartenenza Tab. 1f - Scuola secondaria superiore frequentata (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 2f - Giudizi conseguiti al termine della scuola media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 3f - Scelte da fare dopo la terza media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 169 Tab. 4f - Definizione dell’andamento scolastico/formativo di quest’anno (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 5f - Precedenti esperienze di lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 6f - Grado di accordo su alcune opinioni espresse da altri su scuola e formazione (val. %) Segue 170 Segue Tab. 6f Fonte: indagine Censis, 2007 171 Tab. 7f - Caratteristiche che contano di più sul lavoro (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 8f - Ruolo svolto rispetto alle scelte di studio dopo la scuola media, secondo i genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 9f - Possibilità di scelta dopo la terza media, secondo i genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 172 Tab. 10f - Accordo con le affermazioni sulla normativa dell’istruzione e formazione professionale (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 11f - Le informazioni sulla possibilità di frequentare corsi di istruzione-formazione professionale, secondo i genitori sono: (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 173 Tab. 12f - Conoscenze e competenze da rafforzare dopo la terza media, secondo i genitori (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 174 G. Distribuzioni per tipo di genitore e titolo di studio dei genitori Tab. 1g - Possibilità di scelta per i giovani dopo la terza media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 2g - Accordo con le affermazioni sulla normativa dell’istruzione e formazione professionale (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 175 Tab. 4g - Conoscenze e/o competenze da rafforzare dopo la terza media (val. %) Tab. 3g - Le informazioni sulla possibilità di frequentare corsi di istruzione-formazione professionale sono: (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Segue 176 Fonte: indagine Censis, 2007 Segue Tab. 4g Tab. 5g - Ruolo svolto rispetto alle scelte di studio dei figli dopo la scuola media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 6g - Possibilità di scelta per i giovani dopo la terza media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 177 Tab. 7g - Accordo con le affermazioni sulla normativa dell’istruzione e formazione (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 Tab. 8g - Le informazioni sulla possibilità di frequentare corsi di istruzione-formazione professionale sono: (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 178 Tab. 9g - Conoscenze e/o competenze da rafforzare dopo la terza media (val. %) Fonte: indagine Censis, 2007 179 INDICE Presentazione..... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 Considerazioni di sintesi: un fabbisogno latente di formazione professionalizzante tra derive liceali ed universitarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 1. Il profilo degli studenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10 2. Il percorso scolastico e formativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 2.1. La distribuzione dei giovani tra scuola e FP . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 2.2. Soddisfatti delle scelte fatte: tra interesse per i contenuti e voglia di andare all’università . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 2.3. Il percorso di studi pregresso: stabile e lineare? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 3. Il vissuto scolastico e formativo: opinioni, atteggiamenti e motivazioni . . . . . . . . 24 3.1. Le scelte (disorientate) dopo la terza media . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 3.2. Le materie umanistiche sono quelle preferite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 3.3. Scuola e formazione palestre di vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28 3.4. Profitto e soddisfazione per lo studio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 4. Lavoro, studio e futuro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 4.1. Il lavoro un’esperienza rara . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 4.2. Dopo lo studio ancora lo studio, possibilmente universitario . . . . . . . . . . . . 34 4.3. Voglio un lavoro vicino ai miei interessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 4.4. Formazione, Università e mercato del lavoro: le idee non sono del tutto chiare 38 5. Famiglia di origine e percorsi di studio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 5.1. Il nucleo familiare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 5.2. La formazione professionale coma alternativa alla scuola . . . . . . . . . . . . . . 43 5.3. Dopo la terza media è importante proseguire negli studi . . . . . . . . . . . . . . . 45 5.4. Cultura generale e lingue straniere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 6. Una tipologizzazione degli studenti intervistati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 6.1. Liceali per inerzia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 6.2. Tecnici disorientati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 6.3. Brillanti e soddisfatti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 6.4. In attesa di “altro” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50 6.5. I cultori del lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50 Allegati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 Allegato 1. - Il questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53 Allegato 2. - Nota metodologica su rilevazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68 Allegato 3. - Nota metodologica su determinazione dei livelli socio-culturali dei nuclei familiari di origine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69 Allegato 4. - Nota metodologica su cluster analysis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70 180 Allegato 5. - Allegati statistici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 A. Distribuzioni per classi di età . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 B. Distribuzioni per sesso di appartenenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 C. Distribuzioni per ripartizione geografica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114 D. Distribuzioni per tipo di percorso di studi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137 E. Distribuzioni per ampiezza del Comune di residenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144 F. Distribuzioni per livello socioculturale di appartenenza . . . . . . . . . . . . . . . . . 168 G. Distribuzioni per tipo di genitore e titolo di studio dei genitori . . . . . . . . . . . 174 Indice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179 181 Pubblicazioni 2002-2007 nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” ISSN 1972-3032 1. Nella sezione “studi” 1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. La formazione professio- nale per lo sviluppo del territorio. Castel Brando (Treviso), 9 - 11 settembre 2002, 2003 2) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XV seminario di formazione europea. Il sistema dell’istruzione e formazione professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi, 2004 3) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVI seminario di formazione europea. La formazione professio- nale fino alla formazione superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, 2005 4) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orientativi, 2003 5) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Ca- tania, Noto, Modica, 2004 6) CNOS-FAP (a cura di), Gli editoriali di “Rassegna CNOS” 1996-2004. Il servizio di don Stefano Colombo in un periodo di riforme, 2004 7) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, 2002 8) MALIZIA G. - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto sul follow - up, 2003 9) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale, 2004 10) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, 2004 11) D’AGOSTINO S. - G. MASCIO - D. NICOLI, Monitoraggio delle politiche regionali in tema di istru- zione e formazione professionale, 2005 12) PIERONI V. - G. MALIZIA (a cura di), Percorsi/progetti formativi “destrutturati”. Linee guida per l’inclusione socio-lavorativa di giovani svantaggiati, 2005 13) NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale nell’anno formativo 2004-2005, 2006 14) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale. II edizione, 2006 15) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Rapporto di ricerca, 2007 16) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVIII seminario di formazione europea. Standard formativi nell’i- struzione e nella formazione professionale. Roma,7-9 settembre 2006, 2007 17) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, Ristampa 2007 18) COLASANTO M. - R. LODIGIANI (a cura di), Il ruolo della formazione in un sistema di welfare at- tivo, 2007 19) MALIZIA G. et alii, Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere, 2007 20) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Rapporto di ricerca, 2007 21) NICOLI D. - R. FRANCHINI, Costruzione dell’identità personale e sociale negli adolescenti e nei giovani. La proposta dell’Istruzione e formazione professionale, 2007 22) NICOLI D., La rete formativa nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP, 2007 23) MALIZIA G. et alii, Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Pro- blemi e prospettive, 2007 24) PELLEREY M. (a cura di), Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona. Dare senso e prospettiva al proprio impegno nell’apprendere lungo tutto l’arco della vita, 2007 182 2. Nella sezione “progetti” 25) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 26) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio meto- dologico e proposte di strumenti, 2003 27) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003 28) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004 29) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 30) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e pro- poste di strumenti, 2003 31) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale alimentazione, 2004 32) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004 33) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004 34) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale estetica, 2004 35) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004 36) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale tessile e moda, 2004 37) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003 38) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffu- sione di una buona pratica, 2004 39) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004 40) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale grafica e multimediale, 2004 41) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale legno e arredamento, 2005 42) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale meccanica, 2004 43) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004 44) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, 2003 45) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa. Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d. 46) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003 47) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003 48) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003 49) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istru- zione e della formazione professionale, 2004 50) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel si- stema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 51) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003 52) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui per- corsi formativi, 2003 53) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il percorso quadriennale, 2005 54) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005 55) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005 183 56) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Percorsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005 57) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006 58) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006 59) D’AGOSTINO S., Apprendistato nei percorsi professionalizzanti (in stampa) 3. Nella sezione “esperienze” 60) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003 61) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in itinere, 2003 62) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento fi- nale, 2003 63) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage, 2003 64) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti, 2003 65) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordina- tore delle attività educative del CFP, 2005 66) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i per- corsi di istruzione e formazione professionale, 2006 67) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro polifunzionale diurno di Roma, 2006 68) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei per- corsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006. Rapporto finale, 2006 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net Dicembre 2007

Diritto-dovere all'istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Problemi e prospettive

Autore: 
Guglielmo Malizia (a cura di)
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2007
Numero pagine: 
191
A cura di Guglielmo MALIZIA Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Problemi e prospettive Rapporto di ricerca redatto da D. Nicoli - M. Palumbo - D. Sugamiele - C. Torrigiani CIOFS/FP 3 SOMMARIO SIGLE .......................................................................................................................... 5 INTRODUZIONE ............................................................................................................... 7 Parte I LE PREMESSE TEORICHE Capitolo 1 - Il quadro istituzionale e normativo di riferimento dall’obbligo formativo al diritto dovere................................................................. 15 Capitolo 2 - Sistemi informativi e politiche contro la dispersione........................ 51 Parte II LO STATO DELL’ARTE DEL SISTEMA INFORMATIVO PER IL DIRITTO-DOVERE ALL’ISTRUZIONE E ALLA FORMAZIONE Capitolo 3 - L’implementazione del sistema informativo per il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione: rete nazionale ed esperienze locali 77 Capitolo 4 - Regione Emilia Romagna .................................................................. 93 Capitolo 5 - Il caso della Regione Liguria e della Provincia di Genova ............. 109 Capitolo 6 - Regione Toscana e Provincia di Pisa................................................ 141 Parte III CONCLUSIONI Capitolo 7 - La proposta: una corretta gestione dell’anagrafe formativa entro un sistema educativo pluralistico ed integrato, finalizzato al successo formativo dei giovani, nessuno escluso.............................. 159 BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................ 183 INDICE ........................................................................................................................ 185 5 SIGLE CFP = Centro di Formazione Professionale CPI = Centro per l’Impiego CSA = Centro Servizi Amministrativi USR = Ufficio Scolastico Regionale USP = Ufficio Scolastico Provinciale 7 INTRODUZIONE Guglielmo MALIZIA L’introduzione dell’obbligo formativo prima e poi il riconoscimento del di- ritto-dovere all’istruzione e alla formazione per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età, hanno rappre- sentato un indubbio avanzamento, quanto meno in linea di principio, sulla strada della elevazione dei livelli educativi di base della nostra popolazione giovanile e della diminuzione della dispersione. 1. Il quadro di riferimento Dalla fine degli anni ‘70 esisteva già un largo consenso sull’opportunità di pro- lungare l’obbligo di istruzione da 8 a 10 anni, fino cioè ai 16 di età, per fornire a tutti i giovani una formazione in linea con gli altri Paesi dell’Europa e corrispon- dente alle esigenze culturali e professionali sempre più elevate della società indu- striale (Malizia, 2005). Nonostante ciò, l’elevazione è stata realizzata solo negli anni ‘90. L’introduzione dell’obbligo formativo con la legge 144/99, che sanciva l’obbligo di frequenza di attività formative fino al compimento del 18° anno di età da assolvere in percorsi anche integrati di istruzione e formazione nel sistema di istruzione scolastica, nel sistema della formazione professionale di competenza re- gionale o nell’esercizio dell’apprendistato, riconosceva la pari dignità a tutti gli iti- nerari formativi previsti dopo l’obbligo di 8 anni. In altre parole, l’uscita dalla scuola per iscriversi alla formazione professionale non era più vista come un ab- bandono, ma come un completamento normale del proprio curricolo formativo in vista del conseguimento della qualifica. Ma la riforma Berlinguer (legge 30/00) ha continuato a mantenere la forma- zione professionale in una posizione di fondamentale marginalità e di subalternità rispetto al percorso scolastico. Quasi contemporaneamente veniva innalzato l’ob- bligo scolastico di un anno con la legge 9/99, e in prospettiva di due anni con la legge 30/2000: questo ha fortemente penalizzato gli adolescenti, soprattutto i più svantaggiati e in difficoltà, per effetto sia dello spostamento della scelta dell’ob- bligo formativo al secondo anno della scuola secondaria superiore, sia soprattutto dell’imposizione dell’obbligo scolastico e di frequenza ad una scuola che li costrin- geva a un parcheggio di un anno nelle aule scolastiche. Al contrario, la riforma Moratti (legge 53/03) ha compiuto il vero salto di qua- 8 lità assicurando a ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età. In altre parole, la legge si muove nella linea della tendenza che è emersa recentemente in Europa al superamento del concetto stesso di obbligo sco- lastico. Dal punto di vista storico questa strategia ha esercitato una funzione essen- ziale nel passaggio da una scuola per pochi a una per tutti, ma al presente sembra costituire piuttosto un impedimento alla piena realizzazione dei diritti di cittadi- nanza. In una società complessa come l’attuale la focalizzazione scolasticistica perde di senso perché ciò che conta è il risultato e la sua qualità, e non i percorsi con cui si ottengono, che possono essere i più vari. Inoltre, l’istruzione e la forma- zione, prima che dei doveri, sono dei diritti della persona e vanno assicurate a tutti in modo pieno. Pertanto, le varie istituzioni che le garantiscono devono operare in rete, in una prospettiva di solidarietà cooperativa piuttosto che come alternative tra loro escludentisi. Il salto di qualità realizzato in materia dalla riforma Moratti ha trovato la sua attuazione concreta con l’approvazione del D.lgs. 76/05 che definisce la norme ge- nerali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. Nel quadro dell’apprendi- mento per tutto l’arco della vita, esso ribadisce l’impegno della legge 53/03 a ga- rantire a tutti eguali opportunità di conseguire livelli culturali elevati e di svilup- pare capacità e competenze adeguate a una transizione soddisfacente nella società e in particolare nel mondo del lavoro. L’obbligo scolastico e l’obbligo formativo non vengono dimenticati, trascurati o indeboliti, ma trovano un loro inveramento più pieno nella nuova normativa, nel senso che sono ridefiniti e ampliati come diritto all’istruzione e alla formazione: in altre parole, la fruizione dell’offerta educativa viene a rappresentare per tutti, includendo anche i minori stranieri, sia un diritto soggettivo sia un dovere sociale. Più precisamente, la “Repubblica assicura a tutti il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età. Tale diritto si realizza nelle istituzioni del primo e del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione, costituite dalle istituzioni scola- stiche e dalla istituzioni formative accreditate” (art. 1 c. 3). I giovani incominciano a fruire concretamente del diritto-dovere con l’iscri- zione alla scuola primaria e nella secondaria di 1° grado; tale tutela si traduce al- meno nella organizzazione da parte delle scuole di iniziative di orientamento. Quanti poi ottengono il titolo del 1° ciclo si iscrivono ad un istituto scolastico o formativo fino al conseguimento di un diploma liceale o di un titolo o di una quali- fica professionale di durata almeno triennale sino al diciottesimo anno di età. Sul piano informativo, a sostegno dell’attuazione del diritto-dovere, viene creato il sistema nazionale delle anagrafi degli studenti. L’anagrafe nazionale che si trova presso il MPI realizza il trattamento dei dati sui percorsi scolastici, forma- tivi e in apprendistato dei singoli studenti a partire dal I anno della scuola primaria. A loro volta, le anagrafi regionali contengono i dati sui percorsi scolastici, forma- 9 tivi e in apprendistato dei singoli studenti a partire sempre dal I anno della scuola primaria; le Regioni devono assicurare l’integrazione di queste anagrafi con le ana- grafi comunali della popolazione e anche il coordinamento con le funzioni svolte dalla Province. I genitori dei minori e coloro che a qualsiasi titolo ne facciano le veci sono re- sponsabili dell’assolvimento del dovere di istruzione e di formazione e pertanto sono obbligati a iscriverli alla istituzioni scolastiche e formative, anche se una dis- posizione del citato D.lgs., l’art. 1 c. 4, riconosce il diritto dei genitori di provve- dere privatamente o direttamente all’istruzione e alla formazione dei propri figli, dimostrando però al tempo stesso di averne capacità tecnica o economica. A un gruppo numeroso di soggetti individuali e istituzionali viene affidata la vigilanza sull’adempimento del dovere di istruzione e di formazione: il Comune di residenza; il dirigente dell’istituzione scolastica o il responsabile dell’istituzione formativa di riferimento; la Provincia attraverso i servizi per l’impiego; i soggetti responsabili dello svolgimento dell’apprendistato. Le responsabilità e la vigilanza non restano affidate alla buona volontà delle persone, ma la normativa stabilisce che le sanzioni previste finora in caso di mancato assolvimento dell’obbligo scolastico si appli- chino ai soggetti che non abbiano adempiuto al dovere di istruzione e di forma- zione. 2. La ricerca Il tema dell’anagrafe formativa è uno degli aspetti (assieme agli standard for- mativi, ai crediti, al portfolio ed ai passaggi) di quella tendenza delle norme attuali che tenta di risolvere il dilemma istruzione/educazione, in cui oggi è imprigionata la scuola, vittima della epistemologia delle discipline e della visione “insegnamen- tale” della professionalità docente, non direttamente ma attraverso una serie di pro- cedure di natura tecnica sperando in tal modo di far passare, per questa via più “neutra” dal punto di vista dei valori, una maggiore “cura” della persona dello stu- dente. Se si guarda alla situazione concreta, il livello attuale dell’applicazione dell’a- nagrafe è piuttosto desolante e ripropone le contraddizioni del mancato “sistema educativo” ovvero l’autoreferenzialità delle istituzioni, la mancata cura del per- corso personale, la carenza di conoscenza e di applicazione delle norme, la ten- denza a considerare questa come una questione “amministrativa” e non pedagogica e di servizio, la visione gerarchica delle varie offerte formative cosicché la forma- zione professionale è sempre residuale e non prevista nelle statistiche. Più in particolare, per quanto riguarda lo stato di avanzamento delle anagrafi regionali solo le Regioni del Nord, tranne il Friuli Venezia Giulia, si trovano nella condizione di fornire informazioni quasi complete sulla situazione formativa dei giovani in obbligo. A sua volta, il Centro presenta un panorama differenziato, 10 mentre nel Sud unicamente il Molise fornisce al momento dati completi. Inoltre, se la percentuale delle Province che dispone di un’anagrafe tocca oltre l’80%, è anche vero che la situazione predominante consiste nel possesso di informazioni parziali. Va inoltre sottolineato che il divario tra i dati dell’ISTAT e quelli dei monitoraggi regionali riguarda ben 850 mila giovani, pari ad oltre il 37% della coorte di giovani considerata. Eppure il totale di coloro che sono rimasti fuori dall’obbligo, e che sa- rebbe opportuno conoscere più in profondità, raggiunge quasi la cifra di 100.000 che, tradotta in percentuale, significa il 4,5% dei giovani in obbligo. Da ultimo, e si tratta del limite più serio, le anagrafi esistenti si pongono sostanzialmente solo sul piano informativo. Entro tale quadro la ricerca si è proposta i seguenti obiettivi: 1) dichiarare esplicitamente i criteri educativi, pedagogici e sociali che giustifi- cano l’introduzione di un’anagrafe formativa ovvero la personalizzazione, il pluralismo formativo, la diretta responsabilità dei vari attori (genitori, sindaci, Province…) entro una “comunità educativa” che coinvolge l’intero territorio ed esige l’unione di forze e talenti “per il miglior bene dei giovani”; 2) fornire un quadro interpretativo esatto dell’attuale normativa, dei problemi cui cerca di dare risposta, dei profili di responsabilità che delinea, delle metodo- logie che presuppone, dei benefici che intende realizzare in prima (giovani) e seconda (operatori) istanza; 3) dare conto delle varie esperienze in corso, specie quelle migliori, evidenzian- done le positività ma anche le criticità ed individuando le responsabilità ed i metodi di lavoro. Al fine di realizzare le finalità appena elencate, il progetto della ricerca ha pre- visto tre tipi di metodologie. 1) Anzitutto si è trattato di presentare le informazioni esistenti riguardo alla con- dizione formativa dei giovani in età dell’obbligo formativo e del diritto-do- vere. 2) Si è anche analizzato il processo con cui vengono raccolti concretamente i dati dalle anagrafi e, più in generale, i loro sistemi informativi. 3) Si è inteso anche avanzare proposte per una organizzazione veramente educa- tiva dell’anagrafe formativa. Lo studio è stato messo a punto nel mese di luglio 2006. Tra il settembre e il dicembre, si è proceduto a definire il quadro istituzionale e normativo e a delineare la problematica dei sistemi informativi e si è realizzato un primo seminario tra i componenti dell’équipe di ricerca, mentre a descrivere lo stato dell’arte è stato de- dicato il mese di gennaio 2007. Febbraio e marzo sono stati impiegati per predi- sporre lo studio dei casi e marzo per un altro seminario, mentre in aprile sono state preparate le proposte e messa a punto la pubblicazione finale. Lo studio ha portato alla redazione di un rapporto essenziale, scritto a più 11 mani e con metodi differenti, che dovrebbe essere utilizzabile da chi intenda porre mano anche sul piano dell’anagrafe ad un disegno di vero e proprio “sistema edu- cativo” che veda una reale cooperazione a pari dignità tra i diversi attori in gioco, avendo al centro la preoccupazione del bene dei giovani. Dopo l’introduzione, la prima parte del testo è dedicata a delineare le pre- messe teoriche dell’investigazione. Più specificamente, il capitolo 1, che è stato steso da Domenico Sugamiele, illustra il quadro istituzionale e normativo di riferi- mento, i problemi cui cerca di dare risposta, i profili di responsabilità che delinea, le metodologie che presuppone, i benefici che intende realizzare in prima (giovani) e seconda (operatori) istanza, mentre nel secondo Mauro Palumbo e Claudio Torri- giani presentano la problematica dei sistemi informativi in tema di sistema educa- tivo: risorse, criticità, indicazioni per una corresponsabilità educativa di rete territo- riale. La seconda sezione del rapporto si focalizza sulla situazione del sistema infor- mativo per il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. Il capitolo 3, che è opera di Domenico Sugamiele e di Claudio Torrigiani, presenta le linee generali dello stato dell’arte e del processo evolutivo delle anagrafi nel quadro delle espe- rienze nazionali e regionali in corso. Gli altri tre capitoli sono dedicati all’Emilia- Romagna (Domenico Sugamiele), alla Ligura (Claudio Torrigiani) e alla Toscana (Domenico Sugamiele): infatti, si tratta di tre di realtà che, come emerge dai Rap- porti di monitoraggio sull’obbligo formativo condotti dall’ISFOL, sono considerate all’avanguardia rispetto alla tematica delle anagrafi nel panorama nazionale e che presentano un’evoluzione del processo di integrazione istituzionale che ha attraver- sato le problematiche tipiche di questo tipo di sistema e che può essere di aiuto per comprendere quali siano le criticità nell’implementazione di una rete nazionale e le possibili soluzioni. Da ultimo, la parte terza fornisce le conclusioni dello studio. Il capitolo 7, cu- rato da Dario Nicoli, avanza la proposta di una corretta gestione dell’anagrafe for- mativa entro un disegno di vero e proprio “sistema educativo” che veda una reale cooperazione a pari dignità tra i diversi attori in gioco, avendo al centro la preoccu- pazione del bene dei giovani. A mio parere i risultati principali dello studio possono essere sintetizzati nelle due osservazioni che seguono, tratte dal capitolo 7 di Dario Nicoli: 1) “È evidente, sia dalla parte normativa che inizia il presente lavoro, sia dalla presentazione dei diversi casi di studio, come l’anagrafe formativa rappresenti uno strumento fondamentale per disegnare un sistema educativo autentica- mente pluralistico, ovvero articolato in più percorsi, tutti di pari dignità, all’in- terno di un sistema integrato per ciò che concerne gli aspetti fondamentali del- l’ordinamento, degli standard, delle metodologie di gestione dei crediti e dei passaggi da un percorso all’altro. In un certo senso, l’anagrafe rappresenta uno strumento dell’orientamento e nel contempo dell’attività di regolazione del si- stema a livello territoriale. […] Non solo, il sistema informativo è uno stru- 12 mento che deve consentire il passaggio da una logica adattiva ad una di tipo proattivo, ovvero promozionale […]. 2) Da qui si coglie la necessità di un salto di qualità nelle pratiche relative all’a- nagrafe del diritto-dovere di istruzione e formazione, per dar vita ad un sistema informativo veramente inserito nel sistema educativo di istruzione e forma- zione avente carattere unitario, organico e di supporto ai processi di program- mazione, monitoraggio e verifica, tali da alimentare un sistema decisionale e di intervento mirante al successo formativo”. Parte I LE PREMESSE TEORICHE 15 Capitolo 1 Il quadro istituzionale e normativo di riferimento dall’obbligo formativo al diritto-dovere Domenico SUGAMIELE 1. La prima fase di legislazione: obbligo scolastico e obbligo formativo La problematica dell’obbligo di istruzione e di formazione è stata interessata nell’ultimo decennio da un processo evolutivo che ha condotto ad un ampliamento dei diritti della persona all’interno di un contesto di riferimento sempre più ampio. Contesto che si è venuto a caratterizzare per la presenza di iniziative di ammoder- namento del sistema educativo nella direzione dell’integrazione delle politiche del- l’istruzione, della formazione e del lavoro. Processo di integrazione teso a rendere il sistema formativo del nostro Paese più rispondente ai bisogni dei giovani e del si- stema produttivo e che si è innestato in una fase di cambiamento delle politiche co- munitarie e nel quadro di profonde riforme istituzionali. E in questo contesto si è venuto a collocare il tema della durata della scolarità e del periodo di formazione. Tema che va inserito, senza ombra di dubbio, nel quadro dei diritti fondamentali della persona. 1.1. Il quadro istituzionale di riferimento La legislazione di riferimento si è mossa, fin dai primi atti normativi (leggi 9/99 e 144/99), con l’intento dichiarato di coniugare questo diritto con la sua esigi- bilità e, quindi, con il successo formativo di ciascun giovane. In questa prospettiva risulta evidente l’influenza che hanno avuto le politiche europee nell’individuazione di alcune priorità quali, in primo luogo: l’inserimento nel sistema educativo dell’obbligo/diritto di istruzione e formazione che traguarda i diciotto anni di età; l’introduzione di istituti formativi in ambito lavorativo; lo svi- luppo di un sistema di formazione tecnica professionale superiore; l’apertura al ter- ritorio dei centri di istruzione e formazione; la promozione di processi di intera- zione istituzionale tra università e istituzioni scolastiche e formative; lo sviluppo di un sistema di certificazione per garantire la comparabilità; la trasparenza e la tra- sferibilità delle competenze professionali a livello nazionale ed europeo. A partire dal 1997, con l’approvazione della legge 59 di riforma dell’apparato amministrativo statale, il sistema di istruzione è stato al centro di profondi inter- venti riformatori che hanno investito tutte le sue componenti. Il processo riforma- 16 tore ha portato alla ridefinizione dei compiti dell’Amministrazione, centrale e peri- ferica, al suo ridisegno organizzativo e alla riforma del sistema educativo di istru- zione e formazione professionale. Un processo che tenta di risolvere il dilemma istruzione/educazione introducendo l’aggettivazione “educativo” e immettendo ele- menti di pluralismo tesi a liberare la scuola dalla sua cronica autorefenzialità e dal disciplinarismo. Un’azione che fa riferimento ad una molteplicità di rimandi legislativi, appa- rentemente slegati, che hanno il filo conduttore comune della costruzione di un si- stema nazionale di istruzione policentrico e poliarchico, per superare la concezione del sistema scolastico come “funzione dello Stato”. Il sistema scolastico italiano, infatti, si è sviluppato come funzione dello Stato, in quanto riservata esclusivamente allo Stato e al suo apparato amministrativo, piuttosto che come servizio pubblico rispetto al quale allo Stato sono riservate fun- zioni di indirizzo, controllo ma non di gestione diretta. Una concezione che ha in- ciso sui modelli organizzativi (e sulla loro scarsa evoluzione) e che ha condotto alla emarginazione dell’iniziativa privata e degli stessi Enti locali. La concezione di pubblico come servizio collettivo, ormai acquisita per molti servizi – dai trasporti, alla sanità e ai servizi sociali –, non ha ancora permeato il sistema scolastico. La scuola italiana è diretta emanazione della concezione ereditata dallo Stato liberale, rafforzata in termini autoritativi da quella del fascismo, secondo le quali l’istru- zione rientra nelle piene attribuzioni, non delegabili, della sovranità statale e questo spiega anche la bassissima incidenza, nel nostro Paese, di istituzioni educative non statali. Una diffidenza che è continuata nell’era repubblicana e che ha portato alla completa scomparsa delle scuole civiche (promosse dagli Enti locali e di ispira- zione socialista) e alla cronica difficoltà delle istituzioni educative cattoliche che resistettero all’omologazione del ventennio. L’emarginazione degli Enti locali dalla gestione del sistema educativo è anche il frutto dei ritardi determinati dalla precarietà di molte strutture istituzionali del governo locale nei confronti del sistema scolastico e ciò rappresenta un fattore di freno allo sviluppo e alle condizioni di vita, in particolare, delle Regioni del Mez- zogiorno. Nelle Regioni del Centro-Nord si è registrato un buon attivismo e la pre- disposizione di servizi di supporto alle istituzioni e ai diversi soggetti. Gli Enti lo- cali hanno sviluppato un ruolo ancillare, rivendicativo e conflittuale nei confronti dell’Amministrazione centrale e sono stati relegati a semplici “fornitori” delle scuole e dell’amministrazione scolastica nel suo complesso. Il sistema di istruzione ha continuato a svilupparsi come “servizio statale” e non come “sistema nazionale” è ciò rappresenta un’anomalia nel quadro europeo e internazionale. Cassese sostiene che «il sistema scolastico, per le sue caratteristiche di servizio pubblico “a rete”, è un servizio autonomo, che va considerato come ser- vizio nazionale, piuttosto che come un servizio statale». In altre parole, si tratta di «un sistema dove l’organizzazione è diffusa su diversi soggetti, distribuiti sul terri- torio e il centro deve svolgere una attività di “normalizzazione” e di “standardizza- 17 zione”». (Cassese, 1991, 216). Tutta la recente legislazione sugli ordinamenti si fonda su questo principio sussidiario. La legge 62 del 2000, in particolare, afferma che “il sistema nazionale di istruzione è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie e dagli enti locali” (art. 1 comma 1) e la legge 53 del 2003 amplia il riferi- mento alla longlife learning istituendo “il sistema educativo di istruzione e forma- zione” (art. 2) che comprende “il sistema nazionale di istruzione”. Tuttavia, già la legge 30 del 2000 (Berlinguer), abrogata dalla legge 53 del 2003 (Moratti), aveva inserito la dizione “sistema educativo”. La legge 53 inter- preta il nuovo dettato costituzionale secondo cui l’istruzione rappresenta una “macro materia” che contiene l’istruzione e formazione professionale (art. 117 Cost.). Essa parla di “sistema educativo” per indicare che il ruolo della scuola è più ampio della sola istruzione degli studenti. Ed in questo senso raccoglie le indica- zioni della legge 30/2000, amplia e integra in un unico “sistema nazionale” il com- plesso delle politiche educative di istruzione e formazione. L’ex Ministro Berlin- guer afferma che “un sistema educativo moderno deve avere un impianto unitario fra scuola ed educazione continua, istruzione e formazione permanente” (2002, XXIV e XXVII). E per questo ritiene che un ostacolo per “la nuova domanda di istruzione” è rappresentato dall’“autoreferenzialità scolastica”. Autorefenzialità che non consente l’emersione del “nuovo diritto per tutti, per ciascuno, di poter impa- rare sempre di più. È inutile nasconderlo: questo diritto non c’è nella bella costitu- zione italiana del 1948, non c’è nella tradizione della sinistra”. Le recenti riforme istituzionali, dell’istruzione e del lavoro hanno posto le isti- tuzioni pubbliche e gli attori del sistema di istruzione e formazione professionale di fronte a processi di cambiamento che prefigurano modelli di gestione nuovi e di forte impatto innovativo, soprattutto per la dimensione organizzativa del territorio in termini di rete. Lo stesso dibattito sulla riforma del sistema educativo e della sua riorganizza- zione risente, come era prevedibile, delle difficoltà di un approccio, anche teorico, al quale non siamo abituati anche perché le problematiche relative all’organizza- zione di reti di scuole, tuttora non risolte, fanno parte di un processo in atto, ma non ancora compiutamente strutturato. Gli approcci non sono a direzione univoca e tendono a sviluppare iniziative che vedono il cambiamento più come adattamento dell’esistente, ancora in una logica autorefenziale, che come processo capace di im- primere al sistema educativo nel suo complesso un ritmo di sviluppo che lo proietta in una nuova dimensione territoriale. Il nucleo concettuale a partire dal quale si può riuscire ad elaborare un modello che, anziché limitarsi a rispondere all’esigenza di cambiamento, una volta che questa sia emersa, abbia invece la capacità di anticipare questa esigenza, coglien- done le potenzialità e introducendo in esso significativi elementi di innovazione e cambiamento è quello di prefigurare un modello proattivo che si contrappone ai tradizionali modelli puramente adattivi: per esempio l’estensione delle buone prassi. Il modello proattivo si connota per la sua capacità di empowerment, cioè di 18 mettere i soggetti coinvolti nella condizione di potere intervenire e incidere nel pro- cesso che si intende attivare. Esso si basa sul rinnovamento delle forme di governo in chiave pluralista, cioè dal passaggio dal government alla governance. L’evidente difficoltà nel nostro Paese di affrontare questi temi in ambito gene- rale e di ordinamento complessivo fa propendere spesso (ne è, a tratti, un positivo esempio l’azione dell’attuale Ministro Fioroni) per un’azione che si sviluppa attra- verso procedure amministrative e, comunque, di natura tecnica con la speranza e la volontà di far progredire il sistema, depotenziando le resistenze dell’apparato buro- cratico e sindacale. 1.2. La legislazione per l’anagrafe dell’obbligo formativo La costituzione dell’anagrafe degli studenti può aiutare in questa direzione anche in considerazione che essa è stata ripresa e rafforzata dalla legislazione più recente in un quadro di intervento che interessa aspetti importanti del processo edu- cativo. L’esigenza di realizzare un’anagrafe degli studenti è legata all’introduzione dell’obbligo formativo, con l’art. 68 della legge 144/99 – “Misure in materia di in- vestimenti, delega al Governo per il riordino degli incentivi all’occupazione e della normativa che disciplina l’INAIL, nonché disposizioni per il riordino degli enti previdenziali” – che si aggiunge alle disposizioni relative all’assolvimento dell’ob- bligo di istruzione che la legge 9/99 – “Disposizioni urgenti per l’elevamento del- l’obbligo di istruzione” – aveva, in prima applicazione, innalzato fino al 15° anno di età. In particolare l’articolo 68 della legge 144 istituisce “l’obbligo di frequenza di attività formative” fino ai diciotto anni di età e al comma 1 si legge: “Al fine di po- tenziare la crescita culturale e professionale dei giovani, ferme restando le disposi- zioni vigenti per quanto riguarda l’adempimento e l’assolvimento dell’obbligo del- l’istruzione, è progressivamente istituito, a decorrere dall’anno 1999-2000, l’ob- bligo di frequenza di attività formative fino al compimento del diciottesimo anno di età. Tale obbligo può essere assolto in percorsi anche integrati di istruzione e for- mazione: a) nel sistema di istruzione scolastica; b) nel sistema della formazione professionale di competenza regionale; c) nell’esercizio dell’apprendistato”. E il comma 3 del medesimo articolo affida ai Servizi per l’impiego importanti responsabilità nell’organizzazione di iniziative di orientamento per i soggetti della fascia di età 15-17 anni anche con la costituzione di una specifica banca dati ana- grafica. La norma prevede, infatti, che i “Servizi per l’impiego decentrati organizzano, per le funzioni di propria competenza, l’anagrafe regionale dei soggetti che hanno adempiuto o assolto l’obbligo scolastico e predispongono le relative iniziative di orientamento”. È evidente come la norma lega la costruzione dell’anagrafe dell’obbligo for- mativo ad iniziative di orientamento. E ciò anche per la considerazione che dopo il 19 15° anno di età non sono previste “norme sanzionatorie” per il mancato “assolvi- mento” dell’obbligo formativo. L’orientamento e la riorganizzazione dell’offerta formativa sono gli elementi di maggiore impatto nelle politiche territoriali anche per le competenze delegate alle Regioni sulla programmazione dell’offerta integrata di istruzione e formazione e alle Province nel campo della formazione professionale. Si tratta di un processo che, come accennato, fa riferimento ad un quadro legis- lativo complesso ma che delinea un disegno policentrico del sistema di governo delle politiche pubbliche nel campo della formazione e fa emergere prepotente- mente il ruolo delle Regioni e degli Enti locali nell’organizzazione dell’offerta e nell’erogazione di servizi ai diversi soggetti. La legge 59 del 1997 (“Legge Bassanini”) avvia il processo di decentramento dell’intervento pubblico, definendo un sistema di attribuzione delle deleghe a li- vello locale che prevede il conferimento alle Regioni del ruolo di organizzazione, programmazione e controllo, mentre alle Province quello di erogatore dei servizi sul territorio. Tuttavia la riforma dei Servizi per l’impiego, non identifica, in questa prima fase, un modello di gestione univoco, ma attribuisce a ciascuna Regione il compito di delineare un proprio disegno. Il D.lgs. 112 del 1998 (Norma attuativa della legge 59) delega alle Regioni, fra le altre cose, la programmazione dell’offerta formativa integrata e completa il tra- sferimento delle competenze in materia di formazione professionale. Il D.lgs. 469 del 1997 trasferisce alle Regioni e agli altri Enti Locali i compiti in materia di mercato del lavoro. La legge 196 del 24/6/1997 individua un processo di rinnovamento della for- mazione professionale e del rapporto formazione lavoro e delinea le premesse per la riforma complessiva della stessa formazione professionale. In particolare: – L’articolo 16 contiene importanti modifiche alla disciplina dell’apprendistato, tese a rilanciarlo come percorso formativo utile a sostenere l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Con questo articolo si è avviato un complesso processo di costruzione di un nuovo canale di formazione esterna per l’appren- distato, che impegna Regioni e parti sociali nella costruzione di modelli di pro- grammazione e gestione (cfr. DM 8.04.99; DM 179/99; DM 357/99; DM 22/2000). – L’articolo 17 individua nell’integrazione del sistema della formazione profes- sionale con il sistema scolastico e con il mondo del lavoro gli obiettivi di rior- dino della formazione professionale stessa. Un processo che tende al supera- mento dell’autoreferenzialità dei sistemi ma che, tuttavia, nel percorso di at- tuazione non riesce a scardinare lo scuola-centrismo del nostro sistema educa- tivo. Rappresenta, comunque, un primo passo verso quel processo di integra- zione sistemica che sarà delineato dalle leggi 53 e 30 del 2003. – L’articolo 18 viene incontro alle esigenze da tempo auspicate di una regola- mentazione normativa in materia di tirocini formativi e di orientamento che si 20 vanno ormai generalizzando all’interno sia dei percorsi scolastici sia della for- mazione professionale (cfr. DM 142/98). 1.3. Il Regolamento di attuazione dell’obbligo formativo: l’art. 68 della Legge 144/99 Per mettere i Servizi per l’impiego in condizione di offrire agli studenti attività di informazione e di orientamento adeguate alle loro scelte, il regolamento di attua- zione dell’articolo 68 della legge 144 (D.P.R. 257 del 12 luglio 2000) stabilisce, in particolare: gli adempimenti delle istituzioni scolastiche (art. 3); le iniziative for- mative e di orientamento per l’assolvimento dell’obbligo di attività formative (art. 4); le modalità di assolvimento dell’obbligo nell’apprendistato (art. 5); il passaggio tra i sistemi (art. 6); le tipologie dei percorsi integrati (art. 7); le modalità di certifi- cazione (art. 8). Ai fini della costruzione dell’anagrafe dei giovani in obbligo for- mativo, il Regolamento fornisce indicazioni precise in merito agli adempimenti delle istituzioni scolastiche e prefigura un sistema di orientamento che, a partire dall’anagrafe, fa perno sui Servizi per l’impiego per svilupparsi a livello provin- ciale e regionale. L’amministrazione scolastica periferica, Uffici scolastici regionali e provin- ciali, è chiamata a promuovere intese per snellire le modalità operative di trasferi- mento dei dati e, in questo senso, con la Circolare del 18/05/2001, il Ministero ha fornito una soluzione tecnologica che fa capo al proprio sistema informativo. In merito agli adempimenti si riportano i commi 2-6 dell’articolo 3 del Regola- mento. 2. Le istituzioni scolastiche ovvero, qualora già funzionanti, l’anagrafe degli alunni a li- vello provinciale, gli uffici dell’amministrazione scolastica periferica, comunicano, ove possibile anche in via telematica, ai competenti servizi per l’impiego decentrati, entro il 31 dicembre di ogni anno, i dati anagrafici degli alunni che compiono nel- l’anno successivo il quindicesimo anno di età, con l’indicazione del percorso scola- stico da essi seguito. 3. All’atto delle iscrizioni per l’anno scolastico successivo, le istituzioni scolastiche ri- levano le scelte degli alunni soggetti all’obbligo formativo, con riferimento alla pro- secuzione dell’itinerario scolastico ovvero all’inserimento nel sistema della forma- zione professionale anche attraverso i percorsi integrati ovvero all’accesso all’ap- prendistato e comunicano entro quindici giorni i relativi esiti ai servizi per l’impiego decentrati per gli adempimenti di loro competenza, unitamente ai nominativi degli alunni che non hanno formulato alcuna scelta. 4. Le istituzioni scolastiche comunicano, altresì, tempestivamente ai servizi per l’im- piego decentrati i nominativi degli alunni che, nel corso dell’anno scolastico, hanno chiesto ed ottenuto il passaggio ad altra scuola, di quelli che sono passati nel sistema della formazione professionale e di quelli che hanno cessato di frequentare l’istituto prima del 15 marzo. Analoga comunicazione è fatta dall’istituzione scolastica per la quale l’alunno ha ottenuto il passaggio. 5. Almeno trenta giorni prima del termine delle lezioni, le istituzioni scolastiche comu- nicano ai servizi per l’impiego i dati di coloro che hanno frequentato l’istituto, unita- mente a quelli definitivi di cui al comma 3. 21 6. Le istituzioni scolastiche concordano con i servizi per l’impiego e con l’ente locale competente le modalità di reciproca collaborazione ai fini delle comunicazioni di cui al presente articolo e ai fini dell’istituzione e della tenuta dell’anagrafe regionale dei soggetti che hanno adempiuto o assolto l’obbligo scolastico, di cui all’articolo 68, comma 3, della legge 17 maggio 1999, n. 144. E in riferimento alle iniziative di orientamento si riporta l’art. 4 (Iniziative for- mative e di orientamento per l’assolvimento dell’obbligo di frequenza di attività formative): 1. Gli istituti di istruzione secondaria superiore attivano le iniziative finalizzate al suc- cesso formativo, all’orientamento e al riorientamento, previste in attuazione delle norme sull’elevamento dell’obbligo di istruzione, anche nelle classi successive a quelle dell’adempimento dell’obbligo stesso. A tale fine detti istituti coordinano o in- tegrano la propria attività con quella dei servizi per l’impiego e degli enti locali, nonché degli altri servizi individuati dalle regioni. 2. Attività di istruzione finalizzate all’assolvimento dell’obbligo formativo per i giovani che vi sono soggetti e che sono parte di un contratto di lavoro diverso dall’apprendi- stato possono essere programmate dalle istituzioni scolastiche nell’esercizio della loro autonomia, anche d’intesa con gli enti locali. 1.4. Le procedure per la raccolta dei dati Con la citata Circolare del 18/05/01 il Ministero della pubblica istruzione, a se- guito di un confronto con il Ministero del lavoro, ha individuato una soluzione tec- nica per la raccolta dei dati sull’obbligo formativo, individuando un tracciato re- cord con le informazioni ritenute necessarie per la costruzione della banca dati ana- grafica. Il Ministero ha previsto di raccogliere i dati anagrafici dei giovani dai 15 ai 17 anni da ogni scuola attraverso il proprio Sistema informativo (SISSI) e di renderli disponibili alle Regioni, agli Enti Locali, alle Agenzie formative e ai Servizi per l’impiego. La soluzione tecnica prescinde dagli assetti dei vari contesti territoriali e dalle specificità con cui in ciascuna Regione si è deciso di gestire il processo di raccolta e di distribuzione dei dati. Possono essere adottati, infatti, strategie, modelli orga- nizzativi e flussi di comunicazione diversi per dare attuazione, nei vari ambiti re- gionali, alla normativa sull’obbligo formativo. Le fasi procedurali prevedono specifiche intese tra gli Uffici scolastici regio- nali e le Regioni al fine di comunicare, all’allora Sevizio per l’automazione infor- matica e l’innovazione tecnologica del Ministero, le modalità di raccolta dati e le procedure di distribuzione adottate. In particolare, come si vede dalla successiva fig. 1, è prevista un’applicazione WEB che consente una doppia possibilità di scari- care i dati a seconda dei soggetti: via Intranet per gli Uffici Scolatici regionali e provinciali del Ministero e via Internet, con autenticazione di User Id e password, per gli altri soggetti (Regioni, Province, ecc.). 22 Le tabelle 1 e 2, allegate alla citata Circolare, descrivono, rispettivamente, i compiti e le funzioni dei soggetti interessati alla costruzione delle informazioni anagrafiche concordate per la raccolta dei dati e il tracciato record del file conte- nente i dati sugli alunni e che le scuole devono rispettare indipendentemente dal si- stema, diverso da SISSI, che utilizzano. Fig. 1 - Schema del processo di raccolta e di distribuzione dei dati 23 Ta b. 1 - A tt or i, co m pi ti e f un zi on i ne l Si st em a F or m at iv o In te gr at o 24 Ta b. 2 - Tr ac ci at o re co rd d el f il e co nt en en te i d at i su gl i al un ni 1 S i pr ec is a ch e tu tt i i da ti i nd ic at i ne ll a co lo nn a so no o bb li ga to ri a i fi ni d el l’ O bb li go F or m at iv o; p er ta nt o oc co rr e ve ri fi ca re c he s ia no s ta ti t ut ti ac qu is iti n el la b as e da ti di S IS SI . se gu e 25 se gu e 26 2. La seconda fase di legislazione: le leggi 30 (Biagi) e 53 (Moratti) del 2003 Il sistema di istruzione e formazione prospettato dalle leggi 9/99, 144/99 e 30/2000 viene profondamente modificato dalle leggi 53 e 30 del 2003, anche alla luce dell’importante cambiamento costituzionale determinato alla modifica del Ti- tolo V della Costituzione. 2.1. Il policentrismo istituzionale e sociale Il nuovo quadro legislativo e istituzionale delineato consente di attivare pro- cessi di decentramento e di revisione dei sistemi che possono condurre ad un de- ciso miglioramento dell’efficacia del sistema pubblico di istruzione e formazione e all’effettiva partecipazione dei cittadini alla gestione dello stesso. Da un lato, il filo conduttore dell’azione legislativa e amministrativa della scorsa legislatura ha delineato un modello di governo policentrico delle politiche integrate tra istruzione, formazione e lavoro teso alla regolazione della domanda e dell’offerta, facendo giocare un ruolo attivo agli utenti, famiglie e giovani, e al si- stema produttivo del territorio. Modello di governo, basato sul principio di sussi- diarietà, che supera l’attuale struttura “adattiva” delle politiche pubbliche in campo educativo prefigurando un sistema “proattivo” capace di sostenere e antipare le ten- denze del sistema produttivo. Ed in questo senso si è modificato il complesso si- stema dei servizi formativi, di orientamento e di transizione al lavoro per consen- tire alle Regioni di predisporre strumenti normativi di governo dei processi che po- tessero favorire il pieno sviluppo dell’organizzazione reticolare dei soggetti che a vario titolo partecipano alla realizzazione del sistema pubblico di istruzione, forma- zione e lavoro. Una direzione, quella prospettata dalle leggi Biagi e Moratti, che invita a porre molta attenzione alla domanda, sia dell’utenza (giovani e famiglie) sia del sistema produttivo e sociale: la persona viene messa al centro del processo formativo e di transizione al lavoro. Così come l’alternanza scuola lavoro e l’apprendistato pon- gono il sistema delle imprese nelle condizioni di diventare soggetti attivi dei pro- cessi formativi. Si sono poste, in questo modo, le basi per una società attiva, in cui la persona è al centro dei processi sociali, esaltandone la responsabilità nei con- fronti del proprio progetto di vita e del benessere della comunità. 2.2. Il secondo ciclo e il modello di riferimento della Istruzione e Formazione Professionale La legge 28 marzo 2003 n. 53 ha l’ambizione di condurre all’interno di un si- stema educativo unitario il sistema di istruzione e quello della formazione profes- sionale. La formazione professionale non è ritenuta estranea al processo educativo, ma è inserita a pieno titolo nel campo della conoscenza scientifica e tecnologica. La consapevolezza, cioè, che nella società della conoscenza la formazione profes- 27 sionale non è ascrivibile alla funzione di addestramento al lavoro ma concorre alla formazione della persona e al più ampio sistema educativo. La costruzione di un sistema secondario unitario e di pari dignità dei percorsi si basa: – sulla circolarità tra cultura generale e cultura professionale; – su un profilo educativo, culturale e professionale unitario; – sulla possibilità che tutti i percorsi consentono di accedere all’università e alla formazione professionale superiore; – sull’innalzamento dei livelli qualitativi dell’istruzione e formazione professio- nale; – sulla valorizzazione della formazione lungo tutto l’arco della vita (longlife learning) e sul potenziamento della formazione tecnica superiore. Si apre, cioè, la prospettiva della creazione di un sistema di istruzione e forma- zione professionale molto ampio che, da un lato, sia in grado di dare risposte con- crete ai giovani che oggi non conseguono alcun titolo di studio e, dall’altro, pre- veda un’ampia gamma di qualifiche e titoli di studio tecnico professionali raccor- dati allo sviluppo del sistema produttivo territoriale e alla domanda di formazione dei giovani. Il riferimento è la nuova concezione del diritto dovere in cui si amplia il con- cetto di obbligo formativo ed, in questo senso, è di grande rilevanza l’introduzione dell’alternanza scuola lavoro che consente ai giovani di misurarsi con modalità nuove di apprendimento. Alternanza scuola lavoro che assieme ai nuovi istituti del- l’apprendistato, previsti dalla legge Biagi, rappresenta uno strumento importante della transizione dalla formazione al lavoro e alla vita attiva. L’obiettivo è quello di ampliare le prospettive e le opportunità dei giovani e tutte sono finalizzate al suc- cesso formativo e all’innalzamento dei livelli di formazione. Si avvia, in questo modo, una nuova stagione che punta sulla costruzione di un sistema stabile di formazione professionale all’interno di un processo di inte- grazione delle politiche pubbliche dell’istruzione, della formazione e del lavoro. La programmazione regionale è chiamata a definire nuovi percorsi di formazione professionale, iniziative di orientamento e azioni di coordinamento istituzionale. Le istituzioni scolastiche e formative dovranno prospettare ai ragazzi percorsi di varia durata che portano a titoli e diplomi, di cui la qualifica professionale (trien- nale) rappresenta il primo tassello di una filiera che si sviluppa in percorsi di formazione tecnico professionale superiore, nella prospettiva della longlife learning. Il disegno dell’offerta formativa del sistema dei percorsi di Istruzione e forma- zione professionale prevede che l’organizzazione dei percorsi potrà svilupparsi con attività a tempo pieno, comprensivi della modalità di formazione in alternanza scuola lavoro, o con contratti di apprendistato. Il quadro generale dell’offerta prevede: 28 1) La qualifica di istruzione e formazione professionale di durata triennale che consente l’inserimento nel mondo del lavoro e il proseguimento negli studi. Essa sancisce l’assolvimento del diritto-dovere di istruzione e formazione. 2) Il diploma di istruzione e formazione tecnico-professionale, di durata qua- driennale e quinquennale, che consente l’inserimento nel mondo del lavoro e il proseguimento degli studi. 3) Il diploma di istruzione e formazione tecnico-professionale superiore, di durata variabile da 1 a 3 anni, che consente l’inserimento nel mondo del lavoro e la prosecuzione degli studi anche universitari. 4) La specializzazione professionale successiva alla qualifica e ai diplomi che ap- profondisce la preparazione specialistica al fine di un migliore inserimento nel mondo del lavoro. 2.3. La rete dell’Istruzione e Formazione Professionale La riforma mette in gioco aspetti consolidati sia del sistema di istruzione che di formazione professionale regionale. Essa determina condizioni di profondo cam- biamento degli assetti organizzativi delle istituzioni scolastiche e formative che oggi realizzano percorsi di tipo professionalizzante. Il sistema della formazione professionale regionale viene integrato nel più ampio sistema di istruzione e formazione professionale e ciò pone una prima esi- genza: fare assumere alle istituzioni scolastiche (istituti professionali e tecnici) al- cune caratteristiche dei Centri di formazione professionale e viceversa. In questo nuovo contesto, i Centri di formazione professionale sono chiamati, in particolare, a modificare la natura della loro azione formativa. La natura stabile dei corsi e la durata almeno triennale portano, inevitabilmente, ad una selezione dei Centri ba- sata su parametri che possano garantire stabilità organizzativa e continuità didat- tica: il problema investirà sia le strutture che il personale. Per realizzare le indicazioni poste dalla riforma, soprattutto nella prospettiva del raccordo tra le politiche formative e del lavoro, le Regioni sono state chiamate a rivedere le loro politiche sia rispetto ai processi di decentramento amministrativo sia rispetto alle politiche di integrazione sistemica approntando iniziative legisla- tive e regolamentari affinché gli attori in gioco sviluppino azioni di partenariato, coinvolgendo i soggetti sociali e istituzionali del territorio e favorendo reti organiz- zative fondate sull’interazione di più soggetti: istituzioni scolastiche, istituzioni for- mative (enti di formazione), strutture per l’orientamento, servizi per l’impiego, isti- tuzioni di formazione superiore e di ricerca. Ciò per consentire il disegno di una mappa organizzativa dell’offerta formativa capace di garantire i fabbisogni del territorio, evitando duplicazioni, valorizzando le migliori esperienze dei diversi soggetti, sviluppando e rafforzando modelli ge- stionali di rete che garantiscano l’autonomia delle singole istituzioni e nel con- tempo siano in grado di rispondere compiutamente alla programmazione dell’of- ferta formativa, secondo requisiti di qualità e funzionalità. 29 2.4. L’Accordo quadro Stato Regioni per la sperimentazione dei percorsi di Istru- zione e formazione professionale Il 19 giugno 2003 è stato siglato in Conferenza Unificata un importantissimo Accordo quadro tra Stato, Regioni e Autonomie locali che rappresenta il primo passo di un rapporto istituzionale che ha favorito una riflessione sul ruolo delle Re- gioni e delle Autonomie territoriali in campo educativo per accompagnare il pro- cesso di transizione al nuovo assetto istituzionale e mettere a fuoco alcune proble- matiche organizzative e istituzionali decisive ai fini della strutturazione del sistema di istruzione e di formazione. Un rapporto teso, da un lato, a favorire una interazione tra Regioni, Autonomie territoriali e Autonomie funzionali in campo educativo, a seguito dell’attuazione della legge costituzionale 3/01 e della legge 59/97, e, dall’altro, a tentare di dare una risposta positiva al problema degli abbandoni scolastico e formativo. L’accordo, anche nell’ottica di una efficace e mirata azione di prevenzione, contrasto e recupero degli insuccessi, della dispersione scolastica e formativa, pre- vede di: – individuare modelli di innovazione didattica, metodologica ed organizzativa che coinvolgano l’istruzione e la formazione professionale, rispettando il ruolo delle istituzioni scolastiche autonome e quello delle strutture formative accre- ditate; – realizzare forme di interazione e/o di integrazione fra i soggetti operanti nei ci- tati sistemi; – promuovere le capacità progettuali dei docenti della scuola e della formazione professionale, per motivare l’apprendimento dello studente attraverso il sapere ed il saper fare. L’accordo rappresenta la cornice nazionale per l’attuazione di una speri- mentazione del sistema di istruzione e formazione professionale che risponde alla necessità di riattualizzare al nuovo disegno istituzionale e ordinamentale le norme sull’obbligo formativo anche in considerazione del vuoto legislativo creatosi con l’abrogazione della legge 9/99 e alla modifica dei contratti di ap- prendistato. All’Accordo sono seguite intese bilaterali siglate con ogni Regione finalizzate alla definizione delle modalità attuative dell’Accordo stesso in ciascuna Regione. Dall’anno scolastico 2003/2004, i ragazzi in possesso della licenza media si sono potuti iscrivere direttamente nei percorsi sperimentali regionali, di durata al- meno triennale e svolti anche in integrazione tra scuola e formazione professio- nale. La fase di attuazione dell’Accordo quadro ha portato alla definizione degli standard sulle competenze di base relativi ai percorsi sperimentali che sono artico- lati in quattro aree: area dei linguaggi; area scientifica; area tecnologica; area sto- rico-socio-economica. 30 2.5. Il raccordo tra istruzione/formazione e lavoro La legge 30 del 14 febbraio 2003 (Legge Biagi), di riforma del mercato del la- voro, si pone l’obiettivo ambizioso di garantire la massima occupabilità nella pro- spettiva della valorizzazione della persona. La centralità della persona è l’obiettivo che accomuna le leggi 30 e 53 del 2003. Centralità che, nella legge 30, viene evi- denziata dalla nuova struttura del collocamento allorquando costituisce una rete fondata sull’anagrafe del singolo lavoratore, giovane o adulto, e sul libretto forma- tivo personale. Centralità della persona che si concretizza nel segno dell’occupabi- lità con i nuovi contratti che coniugano formazione e lavoro in raccordo con le dis- posizioni del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione previste dalla legge 53/03. I principi delineati hanno trovato attuazione con il decreto legislativo 276 del 2003. La riforma ridisegna, nel quadro dei nuovi poteri istituzionali, le politiche dei contratti di lavoro e dei servizi di sostegno al processo di intermediazione e di transizione al lavoro. La Regione e gli Enti locali sono investiti di responsabilità nuove con partico- lare riferimento allo sviluppo delle politiche attive del lavoro e alle azioni di preven- zione della dispersione scolastica e formativa, all’organizzazione dei nuovi servizi per l’impiego, all’adeguamento del sistema di formazione professionale e di istru- zione. Per queste ragioni il legislatore regionale è chiamato a programmare nuovi assetti istituzionali nel territorio tesi a integrare le politiche dell’istruzione, della for- mazione e del lavoro e del più complessivo sistema dei servizi alla persona. La regolazione tra domanda e offerta di lavoro viene completamente rinnovata con la previsione di una nuova rete di servizi, con la creazione di una banca dati in- formatizzata, con l’organizzazione di un unico sistema autorizzatorio per i soggetti deputati alla gestione del collocamento. La riorganizzazione del collocamento pre- vede la creazione di una “Borsa Continua del Lavoro”, con informazioni utili ad in- centivare l’incontro tra domanda e offerta sul mercato, liberamente accessibile sia da parte dei lavoratori che delle imprese. Al nuovo collocamento potranno partecipare agenzie private, Comuni, istituti scolastici, università, consulenti del lavoro. La legge 30, in raccordo con le disposizioni della legge 53 in tema di diritto dovere all’istruzione, ridisegna i tempi e le modalità di ingresso al lavoro, interve- nendo sui contratti a contenuto formativo. Il quadro delineato dalle due leggi por- terà, a regime, allo slittamento dopo i diciotto anni dei tradizionali contratti di la- voro. Tutte le esperienze lavorative dei giovani al di sotto dei diciotto anni rien- trano esclusivamente nell’alveo del diritto-dovere e quindi sono riconducibili al- l’alternanza formativa (art. 4, L. 53/03), programmata e gestita dalle istituzioni sco- lastiche e formative, o al contratto di apprendistato per il conseguimento del diritto dovere (art. 48 del D.lgs. 276/03). La formazione rappresenta un profilo fondamentale del provvedimento in chiave di rafforzamento delle tutele del lavoro e di prevenzione dei fenomeni di 31 esclusione sociale. Si tende a coniugare, cioè, la flessibilità con interventi in forma- zione anche al fine di evitare la precarietà e l’emarginazione sociale. 2.6. Contratti di apprendistato e contratto di inserimento Sono previste tre tipologie di contratto di apprendistato (artt. 47-50 del D.lgs. 276/03): 1) contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione. Esso “ha durata non superiore a tre anni ed è finalizzato al conse- guimento di una qualifica professionale. La durata del contratto è determinata in considerazione della qualifica da conseguire, del titolo di studio, dei crediti professionali e formativi acquisiti, nonché del bilancio delle competenze rea- lizzato dai servizi pubblici per l’impiego o dai soggetti privati accreditati”; 2) contratto di apprendistato professionalizzante per il conseguimento di una qua- lificazione attraverso una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico- professionale; 3) contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione. Gli articoli 54-58 del D.lgs. 276/03, infine, definiscono il contratto di inseri- mento lavorativo. Si tratta di un istituto contrattuale che sostituisce il contratto di formazione e lavoro ed è destinato all’inserimento o reinserimento nel mondo del lavoro di “fasce deboli” della popolazione giovanile ed adulta. In particolare, ap- pare utile, ai fini della presente ricerca, sottolineare come fra le categorie di per- sone che possono usufruirne sono compresi i giovani da 18 a 29 anni. E ciò risulta di grande rilievo nella realizzazione di basi di dati anagrafiche per le politiche di orientamento, di raccordo e di placement che si possono mettere in essere nel terri- torio. 3. Una nuova frontiera per il sistema educativo La legge 28 marzo 2003, n. 53 abroga la legge 9/99, che innalzava l’obbligo scolastico, e porta in un contesto unitario l’obbligo scolastico e formativo defi- nendo il diritto dovere all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, fino al conseguimento di una qualifica professionale entro il diciotte- simo anno di età. 3.1. L’introduzione del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione In effetti, il sistema prospettato dall’art. 68 della legge 144 presentava una vi- stosa incongruenza allorquando riduceva l’obbligo di istruzione a “obbligo scola- stico” (comma 3) – come se solo la scuola di Stato potesse promuovere la cultura e 32 l’educazione dei giovani – e rendeva residuale l’obbligo formativo, destinandolo solo agli espulsi dalla scuola, ai drop out. Si trattava del disegno di un sistema di accentuata dualità nei rapporti tra scuola e formazione. Disegno che emergeva con evidenza dalla natura stessa dei dispositivi legislativi che lo hanno delineato: le leggi 9/99 e 30/2000, da un lato, e le leggi 196/97 e 144/99, dall’altro. La legge 30/2000 separava nettamente il sistema educativo di istruzione da quello di formazione dichiarando esplicitamente che la legge 30 riguardava l’istru- zione mentre per il sistema della formazione si rinviava alle leggi 196/97 e 144/99. Nel comma 2 dell’articolo 1, si leggeva testualmente: il “sistema educativo di for- mazione si realizza secondo le modalità previste dalla legge 24 giugno 1997 n. 196 e dalla legge 17 maggio 1999 n. 140”. All’articolo 17 della legge 196, si afferma che allo “scopo di assicurare ai la- voratori adeguate opportunità di formazione ed elevazione professionale […], il presente articolo definisce i seguenti principi e criteri generali”. Nel contesto dato, il sistema di formazione e, conseguentemente, l’obbligo for- mativo non si pongono l’obiettivo della formazione della persona, ma fanno parte di un sottosistema della formazione per il lavoro (“assicurare ai lavoratori ade- guate opportunità di formazione”), la formazione continua, che non è annoverabile nell’alveo proprio del sistema educativo. Sistema educativo che continua ad essere individuato esclusivamente nel sistema scolastico statale. Il concetto di diritto-dovere esalta l’aspetto valoriale dell’istruzione e non mette in discussione il processo di democratizzazione avviato con la scolarizza- zione di massa. Semmai la legge 53 allarga e diversifica le opportunità formative riferendosi all’obbligo all’istruzione e non all’obbligo “scolastico”. D’altronde, le posizioni di valore simbolico per cui l’obbligo debba essere soltanto “scolastico” non rispondono a questioni educative, pedagogiche o di formazione e non coniu- gano l’obbligo della frequenza con il diritto allo studio e al successo formativo. Il decreto legislativo 76 del 2005 all’articolo 1 definisce il diritto-dovere come ampliamento del concetto di obbligo di istruzione portando ad unità l’obbligo sco- lastico e l’obbligo formativo. La “Repubblica promuove l’apprendimento in tutto l’arco della vita e assicura a tutti pari opportunità di raggiungere elevati livelli cul- turali e di sviluppare le capacità e le competenze, attraverso conoscenze e abilità, generali e specifiche, coerenti con le attitudini e le scelte personali, adeguate all’in- serimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro, anche con riguardo alle dimen- sioni locali, nazionale ed europea” e “assicura a tutti il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età”. E l’articolo 4 prevede la predisposizione di “piani di intervento per l’orientamento, la preven- zione ed il recupero degli abbandoni, al fine di assicurare la piena realizzazione del diritto-dovere all’istruzione ed alla formazione, nel rispetto delle competenze attri- buite alla regione e agli enti locali per tali attività e per la programmazione dei ser- vizi scolastici e formativi”. 33 3.2. L’ampliamento degli obiettivi e delle funzioni dell’anagrafe degli studenti Per realizzare questi obiettivi, l’articolo 3 del D.lgs. sul diritto dovere prevede la costituzione di un sistema di anagrafi, nazionale e regionali. In particolare le anagrafi dovranno contenere “dati sui percorsi scolastici, formativi e in apprendi- stato dei singoli studenti a partire dal primo anno della scuola primaria” assicu- rando “l’integrazione delle anagrafi […] nel Sistema nazionale delle anagrafi degli studenti”. A tal fine si dovrà provvedere a: “a. definire gli standard tecnici per lo scambio dei flussi informativi; b. assicurare l’interoperabilità delle anagrafi; c. definire l’insieme delle informazioni che permettano la tracciabilità dei percorsi scolastici e formativi dei singoli studenti”. I punti a e b indicano le linee di sviluppo dei sistemi informativi sia dal punto di vista tecnologico che di filosofia di fondo: un sistema “federato”. Il punto c apre scenari nuovi nell’azione didattica, pedagogica e del sistema dei servizi perché la “tracciabilità dei percorsi” mette in evidenza la necessità di affron- tare il fenomeno dispersione con nuovi paradigmi e fa emergere, di conseguenza, il problema della lacunosità delle informazioni presenti nelle attuali basi di dati. L’obiettivo del raggiungimento del successo formativo da parte di tutti ha in- dotto il legislatore a superare la funzione coercitiva dello Stato in tale ambito affer- mando una nuova cultura dei diritti di cittadinanza che si traduce nel “diritto do- vere” di istruzione e formazione: a tutti i nostri giovani si garantisce l’opportunità di conseguire, entro il 18° anno di età, almeno un titolo di studio professionale triennale utile all’inserimento nel mondo del lavoro o per il proseguimento degli studi. D’altro canto affrontare il tema della dispersione con procedure sanzionatorie, come se il sistema sociale non fosse soggetto a processi evolutivi e tutto fosse stan- ziale e immutabile, sarebbe come evitare il confronto con la realtà. Realtà che regi- stra una evoluzione della domanda sociale che deve far riflettere sulle risposte che il sistema educativo è chiamato a fornire. Il sistema scolastico non ha saputo dare una risposta esauriente alle molteplici aspettative che il processo riformatore ha de- lineato non riuscendo ad incidere sul tasso di abbandono e di ritardo di scolarità. Nel primo triennio di attuazione delle leggi 9 e 144 del 1999 la dispersione è au- mentata. 4. I problemi sottesi e le politiche di prospettiva Una risposta politica mirata al contrasto della dispersione, al suo contenimento ed eliminazione, presuppone un’analisi preliminare sulla natura del problema e sui modi del suo manifestarsi: quindi sul target dell’intervento e sull’evoluzione delle sue caratteristiche demografiche e territoriali. 34 4.1. La dispersione: una problematica in continua evoluzione La dispersione è un fenomeno complesso ed articolato che non può essere ri- dotto, banalmente, al dato sugli abbandoni o al recupero dei “fuggitivi”. E per questo la costruzione dell’anagrafe deve traguardare obiettivi più complessi che la semplice segnalazione di “assenza” dal sistema. Innanzitutto la dispersione non investe in ugual misura tutte le aree del terri- torio nazionale, regionale e provinciale ed incide selettivamente su diversi seg- menti della popolazione. È un fenomeno dinamico perché variabile nel corso del tempo. Variabilità determinata da vari fattori endogeni ed esogeni al sistema di istruzione e forma- zione. Ne consegue in primo luogo che le misure di contrasto, per essere efficaci ed evitare sprechi di risorse, debbono seguire il processo evolutivo possibilmente in forma preventiva e pro-attiva. In un contesto sociale in profondo mutamento i con- torni del fenomeno cambiano continuamente e velocemente. I cambiamenti sociali, le trasformazioni del mercato del lavoro, nel rapporto domanda offerta e nei pro- cessi di innovazione e di riorganizzazione, fanno sì che le fasi di transizione rap- presentino degli elementi di snodo dove la dispersione è più difficile da prevenire, da contrastare e da individuare: i giovani di cui si perdono le tracce. È in queste fasi di transizione, scuola-scuola (elementare-media, media-superiore, superiore- università), scuola-lavoro, lavoro-lavoro, che l’azione di contrasto deve essere molto più attenta nel fornire strumenti e servizi ai soggetti. In estrema sintesi, l’a- zione di contrasto non può essere limitata all’“obbligo scolastico” e al suo “assolvi- mento/proscioglimento” ma il sistema deve consentire di indagare il settore della formazione e della stessa formazione continua. E in secondo luogo sarebbe illusorio pensare ad una politica impostata una volta per tutte e che la costituzione di uno strumento tecnico di raccolta dati da solo sia sufficiente a risolvere il problema. Cioè senza la predisposizione di servizi alla persona e alle strutture (enti e soggetti erogatori del servizio) il sistema rischia di continuare a produrre dispersione occulta che è di gravità pari se non superiore al semplice abbandono, in quanto difficilmente individuabile e indagabile. Bisogna, quindi, pervenire ad un quadro coerente di informazioni sul feno- meno che travalichi l’ambito della scolarizzazione e ciò anche per avere elementi di confronto con i benchmark europei definiti nella strategia di Lisbona per il 2010. Uno dei cinque benchmark è la riduzione al 10% della quota degli early school lea- vers. L’indicatore misura la quota dei giovani della fascia di età tra i 18 e i 24 anni che sono in possesso soltanto del titolo di studio della secondaria di primo grado e che non frequentano nessun percorso di istruzione o formazione professionale. Esso si differenzia dai normali indicatori sulla dispersione utilizzati a livello nazio- nale che si riferiscono agli anni della scolarità. Tuttavia, anche volendo riferirsi al periodo della scolarizzazione, la dispersione non si identifica esclusivamente con l’abbandono dagli studi ma è determinata dall’intreccio fra bocciature, irregolarità 35 di frequenze, ritardi, ripetenze, interruzioni di frequenza. Un insieme di fenomeni che conducono con molta facilità all’uscita precoce dei giovani dal sistema forma- tivo. 4.1.1. L’indicatore europeo L’analisi dell’indicatore europeo degli early school leavers, muovendosi nella prospettiva della longlife learning, può offrire interessanti spunti di riflessione sia sul fenomeno dispersione sia, più significativamente, sulle politiche dell’offerta formativa, dell’orientamento, del placement e dell’integrazione tra istruzione/for- mazione e lavoro. Il confronto europeo vede l’Italia agli ultimi posti, seconda solo al Portogallo e alla Spagna (grafico 1). Nel 2005 la percentuale di dispersione media europea è del 14,9%, in Italia è del 21,9%, in Francia e in Germania si attesta attorno al 12%, in Danimarca e in Finlandia è già sotto il 10%. È interessante notare che nel periodo 2000-2006 l’Italia ha ridotto sensibil- mente la percentuale degli early school leavers passando dal 25,3% del 2000 al 21,9% del 2005 e al 20,6% del 2006 (grafico 2). Miglioramento registrato in tutti i Paesi, ad eccezione della Spagna2, e che nel nostro appare il frutto della sperimen- tazione dei percorsi di formazione professionale della riforma Moratti, avviata in tutte le Regioni e che ha interessato circa 90.000 giovani, e dello sviluppo dei con- tratti di apprendistato. 2 La Spagna è l’unico Paese in cui la tendenza degli early school leavers è al rialzo, allontanan- dosi ancora di più dall’obiettivo del 10%. Non si hanno dati di confronto che possono, con sicurezza, delineare le cause del fenomeno. Tuttavia, non appare priva di fondamento la considerazione che si tratta degli effetti della riforma che prevedeva l’estensione del biennio unico fino al sedicesimo anno. Ciò parrebbe avvalorato anche dalle iniziative di modifica che sono state avviate negli ultimi 3 anni, con l’introduzione di una forma di apprendistato per i drop out 14-16enni e con la recente modifica dei curricoli. Grafico 1 - Giovani della fascia di età 18-24 anni in possesso della sola licenza media e non più in formazione in alcuni Paesi europei (per 100 coetanei). Anni 2000 e 2005 Fonte: EUROSTAT 36 Se si passa all’analisi comparativa dei dati a livello nazionale emerge un Paese profondamente diviso: le Regioni del Centro sono prossime al raggiungimento del- l’obiettivo del 10%, mentre le Regioni del Mezzogiorno e, in particolare, le Isole hanno livelli di dispersione di vera drammaticità (grafico 2). In Sicilia e in Sar- degna il 30% dei giovani si ferma alla licenza media, percentuale che si attesta al 27,7% in Puglia e al 25% in Campania. Valori che difficilmente consentiranno a queste Regioni di raggiungere l’obiettivo europeo nel medio periodo. D’altro canto emerge che nelle Regioni a maggiore industrializzazione la per- centuale dei giovani che si fermano al diploma di secondaria di primo grado, an- corché inferiore alla media nazionale, è ancora lontana dal benchmark europeo del 2010: in Lombardia si attesta al 20%, in Piemonte e nelle Marche intorno al 19%. In questi casi l’abbandono dagli studi può essere determinato sia dalle immediate offerte di lavoro per i giovani in possesso della licenza media, sia dal fatto che si tratta di Regioni che hanno una consistente e qualificata formazione professionale regionale che consente ai giovani di conseguire, a 16-17 anni, qualifiche professio- nali di breve durata e che non sono riconosciute come titoli successivi alla licenza media. È interessante notare come il dato della Provincia autonoma di Trento, dove esiste un sistema di formazione professionale strutturato, si attesti al 9,5% (cfr. nota al Graf. 2) collocandosi al di sotto del benchmark di Lisbona per il 2010. Grafico 2 - Giovani 18-24enni in possesso della sola licenza media e non più in formazione per Regione (per 100 coetanei). Anno 2006 Fonte: ISTAT - Rilevazione forze lavoro * Il dato del Trentino Alto Adige è comprensivo delle Province di Trento e Bolzano che presentano situazioni profondamente diffe- renti. A Bolzano l’incidenza degli early school leavers è del 27,7% mentre a Trento assume il valore minimo del 9,5%. 4.1.2. Gli indicatori sulla dispersione scolastica Nel nostro Paese non siamo ancora in grado di avere dati integrati tra i diversi sistemi, omogenei e comparabili, sul fenomeno della dispersione. Appare, tuttavia, utile indagare il fenomeno nel sistema scolastico, statale e paritario, sia per la 37 grande massa di dati in nostro possesso sia perché, fino ai 14-15 anni, interessa la quasi totalità della popolazione giovanile. Per avere elementi di analisi più com- pleti si dovrebbe integrare questa massa di dati con le basi informative regionali della formazione professionale e dell’apprendistato. Integrazione che è possibile, peraltro ancora in modo parziale, solo in alcune regioni del Centro-Nord. Nella descrizione del fenomeno si utilizzano i dati del Ministero dell’istru- zione riferiti alla “Rilevazione sugli esiti degli scrutini ed esami di licenza e degli esami di Stato”3. Si tratta di un insieme di indicatori che danno la misura dell’ano- malia dei processi di formazione, soprattutto nelle fasi di passaggio tra i cicli. In generale il rischio di uscita dal sistema appare determinato principalmente dalla mancanza di regolarità degli studi. Gli insuccessi degli studenti aumentano con il livello scolastico e passano dal 2,7% della scuola media e al 11,4% della secondaria di secondo grado e le maggiori difficoltà si manifestano all’inizio dei cicli. Infatti, il numero degli insuccessi al pri- mo anno della scuola media è del 2,9% e al primo anno della secondaria superiore si attesta sul 18,1%. Si confermano, inoltre, i risultati nettamente migliori delle ragaz- ze rispetto ai maschi in tutti i livelli scolastici e tipologie di corsi. Al primo anno della secondaria superiore la percentuale dei maschi non ammessi alla classe suc- cessiva raggiunge la cifra del 21,1% contro il 14,8% delle femmine (cfr. tabella 3). 3 Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione generale studi e programmazione: La dispersione scolastica, indicatori di base per l’analisi del fenomeno, anno scolastico 2004/05, Dicembre 2006. Tab. 3 - Studenti non ammessi alla classe successiva / non diplomati-non licenziati per livello scolastico, sesso e anno di corso (per 100 scrutinati). Scuola statale e non statale. Anno scola- stico 2004/05 * Tra i non ammessi del terzo anno sono inclusi i non qualificati degli istituti professionali e d’arte. Fonte: MPI - Rilevazione sugli esiti degli scrutini e Rilevazione sugli esami di Stato. I dati riferiti alla scuola media evidenziano una situazione di apparente norma- lità per l’insieme degli indicatori. Se, infatti, il numero dei ritirati è trascurabile, tuttavia, la percentuale degli insuccessi è significativa soprattutto al secondo anno, dove raggiunge la cifra del 3,6. Nonostante il 99,7% degli ammessi all’esame di 38 fine ciclo si licenzi, tuttavia, oltre la metà (63%) consegue il diploma con giudizi medio bassi, cioè con quelle carenze che sono la principale causa degli insuccessi negli studi successivi. In particolare il 37% si licenzia con sufficiente, il 26,1% con buono, il 19,1% con distinto e il 17,7% con ottimo4. Le ripetenze sono una delle principali conseguenze degli insuccessi scolastici e determinano un ritardo nel proseguimento degli studi. Il tasso di ripetenza nella scuola media si attesta al 2,3% mentre nella secondaria superiore è del 6,9%, con va- lori che oscillano dal 6% dei Licei al 10,1% degli istituti professionali (cfr. tabella 4). Tab. 4 - Studenti ripetenti per livello scolastico, tipo di indirizzo e anno di corso (per 100 iscritti). Scuola statale e non statale. Anno scolastico 2004/05 Fonte: MPI - Rilevazioni integrative In generale, la secondaria superiore è il ciclo che presenta i risultati più allar- manti. Soltanto uno studente su due è promosso allo scrutinio finale senza insuffi- cienze. In generale, su 100 iscritti soltanto 48 studenti concludono positivamente l’anno di studi. Dei rimanenti, il 35% viene promosso con debiti formativi (studenti promossi con carenze in una o più materie), il 13% viene respinto allo scrutinio fi- nale e il 4% si ritira nel corso dell’anno. Il numero dei ripetenti al primo anno raggiunge cifre consistenti (8,9%) e de- cresce negli anni successivi mantenendo, tuttavia, valori elevati in seconda (7,7%) e terza (7,8%). Il dato relativo ai licei si attesta al 7,7% in prima e al 6,7% in se- conda mentre negli istituti tecnici e professionali raggiunge le ragguardevoli cifre di 10,7% e 12,7% in prima e 9,5% e 11,9% in seconda, rispettivamente. I promossi con debito formativo rispetto agli scrutinati si attestano sul 36,3% con oscillazioni che vanno dal 30% dei Licei, al 39,4% degli istituti tecnici e al 41,8% degli istituti professionali (cfr. tabella 5). Dati che aumentano dal primo al quarto anno. Il numero dei promossi con debito passa dal 34,8% del primo al 4 Dati relativi all’indagine campionaria sugli esiti degli scrutini e degli esami di licenza riferiti all’anno scolastico 2005/06. Dal confronto con i dati del precedente anno scolastico si nota come il numero degli insuccessi al secondo anno sia aumentato dello 0,8% e ciò potrebbe essere determinato dall’applicazione del D.lgs. 59/04 sul primo ciclo che prevede il recupero nel primo biennio delle ca- renze in tutte le discipline. 39 37,9% del secondo e al 37,1% del quarto anno; nei Licei passa dal 29,2 in prima al 31,2% in seconda e al 28,7% in quarta; negli istituti tecnici va dal 36,5% in prima al 40,2% in seconda e al 41,3% in quarta; negli istituti professionali passa dal 39,2% in prima al 43,9% in seconda e al 43,1% in quarta. Fattori che determinano la scarsa capacità di raggiungere il traguardo finale: circa un terzo dei giovani che si iscrive alla secondaria superiore non raggiunge il diploma. 5 Da un primo raffronto con l’indagine svolta nell’anno scolastico 2005/06 sul medesimo cam- pione di scuole secondarie emerge un aumento tra i non valutati dal 2004/05 al 2005/06 pari allo 0,5% nel secondo grado e allo 0,3% nel primo grado. Tab. 5 - Studenti ammessi alla classe successiva con debito formativo per tipo di indirizzo e anno di corso (per 100 scrutinati). Scuola statale secondaria di II grado statale e non statale. A.S. 2004/05 Fonte: MPI- Rilevazione sugli esiti degli scrutini Per descrivere in modo più esaustivo i fenomeni di abbandono e/o evasione appare opportuno rilevare il numero degli studenti che non sono valutati in sede di scrutinio finale per interruzioni di frequenza. È in questo ambito, infatti, che bi- sogna intervenire tempestivamente integrando le basi dati della scuola, della forma- zione professionale e dell’apprendistato. Le interruzioni di frequenza rilevate sono classificabili in due tipologie: interruzioni formalizzate, dovute a trasferimenti ad altre scuole, alla formazione professionale, all’apprendistato o a motivi di salute; interruzioni non formalizzate, ossia alunni che hanno interrotto la frequenza du- rante l’anno senza fornire alcuna motivazione o che hanno raggiunto un numero elevato di assenze non giustificate. È evidente che la seconda tipologia è quella meno controllabile se non si attiva- no azioni tempestive da parte delle istituzioni scolastiche e formative. I soggetti in- teressati sono rinvenibili nelle fasce più deboli della società e negli studenti stranie- ri. E in questo senso occorre definire i tempi e le modalità di aggiornamento delle basi dati anagrafiche e le relative segnalazioni ai soggetti istituzionali competenti. Il dato sugli abbandoni nella secondaria di primo grado è dello 0,5% equivalente a circa 8.500 studenti, di cui 5.069 (0,3%) si ritirano con atto formale entro i termini di legge mentre 3.480 (0,2%) si allontanano dalla scuola senza darne motivazione. Nella scuola secondaria di secondo grado il numero degli studenti non valutati agli scrutini dell’anno scolastico 2004/05 è di 93.747, pari al 3,7% (cfr. tabella 6)5. 40 Ta b. 6 - In te rr uz io ni d i fr eq ue nz a. S tu de nt i no n va lu ta ti a gl i sc ru ti ni p er t ip o di i nd ir iz zo , ri pa rt iz io ne g eo gr af ic a e ti po d i in te rr uz io ne . Sc uo la se co nd ar ia d i se co nd o gr ad o st at al e e no n st at al e. A .S . 2 00 4/ 05 Fo nt e: M PI - R ile va zi on i s ug li es iti d eg li sc ru tin i 41 Le interruzioni di frequenza si concentrano principalmente nel primo anno della se- condaria superiore. Si tratta di 38.256 studenti pari al 6% degli iscritti al primo anno e al 40,8% delle interruzioni. Questa tipologia di interruzione, se opportuna- mente seguita, non porta necessariamente all’abbandono definitivo dalla scuola, perché può essere l’effetto di una scelta sbagliata dell’indirizzo di studi intrapreso. Il numero degli studenti ritirati formalmente nel primo anno è pari a oltre la metà delle interruzioni dello stesso anno di corso (3,3% degli iscritti). In questa ca- tegoria risultano incluse le seguenti tipologie: a) studenti che, pur mantenendo lo stesso indirizzo di studi, si iscrivono ad un’altra scuola; b) studenti che, avendo ri- pensamenti sul tipo di studi intrapreso, cambiano indirizzo tra gennaio e giugno; c) studenti che si ritirano nei tempi previsti dalla normativa e si presentano come can- didati esterni. In particolare, nell’indagine, per rappresentare il fenomeno in ambito territo- riale si sono individuate tre classificazioni delle percentuali di abbandono: livello di abbandono “alto” quando, su 100 iscritti, la percentuale dei non valutati al I anno per interruzioni non formalizzate è maggiore del 3%; livello di abbandono “medio” se le percentuali sono comprese tra 1,5% e 3%; livello di abbandono “basso” per valori inferiori all’1,5%. Nel livello alto si collocano le Regioni Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna; nel livello medio si collocano le Regioni del Centro, la Basilicata, la Liguria e il Friuli; nel livello basso si collocano le rimanenti Re- gioni del Nord e le Marche. Rispetto agli indirizzi di studio la maggior parte delle interruzioni si concentra negli istituti professionali con il 7,2% degli iscritti e anche in questo caso le Regioni del Mezzogiorno presentano dati preoccupanti (8% al Sud e 9,9% nelle Isole) rag- giungendo, al primo anno, il 14,4% e il 17,2% al Sud e nelle Isole rispettivamente. 4.2. La presenza degli alunni stranieri6 La presenza nel sistema scolastico di alunni con cittadinanza non italiana è ormai un fenomeno molto diffuso. Le situazioni che si presentano sono molto va- riegate e sono il frutto di contesti familiari estremamente differenziati. Ogni alunno fa storia a sé e l’analisi statistica non potrà mai cogliere la complessità delle storie personali che ogni ragazzo si porta dentro. In alcuni casi i figli raggiungono i geni- tori dopo che questi hanno consolidato una posizione lavorativa o hanno un am- biente adeguato ad accoglierli. Ragazzi che arrivano con esperienze di studio com- pletamente diversificate e con problemi linguistici per l’inserimento. Problemi che, 6 Nella stesura del presente paragrafo si è fatto riferimento ai dati elaborati dal MPI sugli alunni stranieri e pubblicati in: Ministero della Pubblica Istruzione, Alunni con cittadinanza non italiana – presenze, esiti e confronti in Europa – scuole statali e non statali, A.S. 2005/06 - dicembre 2006. Il te- sto al quale si rimanda per ulteriori approfondimenti è disponibile nel sito del Ministero della Pubblica Istruzione all’indirizzo: http://www.pubblica.istruzione.it/mpi/pubblicazioni/2006/cittadinanza_ non_italia.shtml. 42 tuttavia, permangono anche per i figli nati in Italia da molte famiglie straniere che, nonostante la loro stabilizzazione, continuano a mantenere un’identità forte del Paese d’origine. Ci sono poi i casi più difficili dei figli di famiglie nomadi o di pas- saggio. La presenza di alunni stranieri è ormai un dato strutturale del nostro sistema scolastico, e in progressivo aumento: nell’anno scolastico 2005/2006 gli allievi con cittadinanza non italiana sono stati circa 430.000, con un’incidenza di quasi il 5% rispetto alla popolazione scolastica complessiva; nel triennio 2003-2005 l’incre- mento è stato di circa 60/70 mila unità all’anno, e, nell’anno scolastico in corso, è prossimo a 500 mila iscritti. Una crescita che comincia ad interessare anche la scuola secondaria superiore, con una marcata tendenza verso gli istituti tecnici e professionali: dei 100 mila iscritti in questo ordine di scuola circa 80 mila hanno scelto istituti tecnici e professionali. Il 40,6% degli studenti stranieri iscritti nelle scuole secondarie di secondo grado sceglie gli istituti professionali, più del doppio degli studenti italiani nella stessa tipologia di istruzione (19,9%), e il 37,9% si iscrive negli istituti tecnici. La prosecuzione degli studi dopo il primo ciclo rappresenta uno dei nodi più problematici per i ragazzi stranieri, sia in termini di successo scolastico sia per quanto riguarda l’orientamento e la scelta tra i diversi indirizzi di scuola. La situazione che emerge dall’indagine nazionale è disomogenea e differen- ziata sul territorio nazionale: la presenza di studenti stranieri è prevalentemente concentrata nelle aree del Centro-Nord del Paese. Un divario tra Nord e Sud d’I- talia che negli ultimi anni si è notevolmente accentuato. Si va dalla percentuale massima della Regione Emilia Romagna, che si avvicina al 10%, all’ 8% di Lom- bardia, Veneto e Marche, fino all’1% della Regione Campania. L’area geografica del Paese con l’incidenza maggiore di alunni stranieri è il Nord-Est con l’8,4%. Tra le grandi città metropolitane, le incidenze più alte di alunni stranieri si registrano a Milano con il 12,7% e a Torino con l’11,2%. Le Province con la più alta incidenza di alunni stranieri sono Mantova con l’11,9%, Piacenza con l’11,8%, Reggio Emilia 11,5%, Prato 11,4%, Modena 10,9%. Dall’analisi dei dati sulle iscrizioni e dalle esperienze e segnalazioni che arri- vano dalle istituzioni scolastiche emergono preoccupazioni per la progressiva forte concentrazione di alunni stranieri in singole scuole e territori. Segno delle difficoltà di integrazione e del pericolo di marginalizzazione. Il rischio è quello di creare scuole degli immigrati, scuole ghetto in quartieri ghetto. È necessario studiare il fe- nomeno per comprendere quali variabili siano sottostanti ai casi di concentrazione (libera scelta, costruzione di reti comunitarie da parte degli stranieri, tipologie di cittadinanze, volontà familiari...), e quali siano le situazioni nelle quali i processi di concentrazione si possano tradurre in segregazione, in disagio personale e insuc- cesso scolastico. È dunque necessario un grande impegno delle istituzioni locali per promuo- vere forme efficaci e diffuse di accoglienza e integrazione. 43 I dati nazionali non consentono di effettuare analisi particolari perché, in linea generale, si fermano al raggruppamento della cittadinanza: la presenza di alunni stranieri nella scuola italiana è caratterizzata da 191 cittadinanze su 194 Stati del mondo. Si conferma un aumento significativo dell’incidenza delle cittadinanze dei Paesi dell’Est europeo, Romania soprattutto, che passa in due anni dal 9,7% al 12,4%, con 52.821 presenze. L’Albania e il Marocco sono i Paesi più rappresentati con 69.374 (17,7%) e 59.489 (16,3%) presenze, rispettivamente. La presenza di stranieri in Italia è caratterizzata, inoltre, da un forte dinamismo e da una mobilità sul territorio. Fattori che in molti casi comportano interruzioni di frequenza difficilmente individuabili – anche perché i trasferimenti delle famiglie possono non avvenire, in linea generale, con scadenze coincidenti con l’inizio o la fine dell’anno scolastico – e che influiscono sul successo scolastico degli allievi stranieri nei diversi ordini di scuola. Nelle scuole secondarie di secondo grado oltre il 25% degli allievi stranieri non è promosso alla classe successiva, contro il 15% degli allievi italiani (cfr. ta- belle 7 e 9). Un divario di circa 13 punti percentuali che negli altri ordini di scuola si attesta al 3,2% nella scuola primaria e al 7,9% nella secondaria di primo grado (cfr. tabella 7). Tab. 7 - Tassi di promozione degli alunni con cittadinanza non italiana per ordine di scuola - (a.s. 2003/04 e a.s. 2004/05) Fonte: MPI- Alunni con cittadinanza non italiana Gli allievi stranieri che completano il corso di studi e giungono al diploma sono stati 6.005 nell’anno scolastico 2005/06, il 42,4% negli istituti tecnici e il 32% negli istituti professionali. Una ulteriore conferma della preferenza per questa tipo- logia d’istruzione da parte degli studenti stranieri. Questi dati nazionali sono tuttavia l’esito di situazioni diverse e frastagliate tra tipologie di scuole, Province e Regioni. Anche il paesaggio degli esiti e dei percorsi 44 scolastici è disomogeneo, a macchie di leopardo, come quello della concentrazione e della distribuzione sul territorio degli allievi stranieri. Uno dei fattori di maggiore criticità è senza dubbio il ritardo di scolarità (cfr. tabella 8). Ritardo che per gli alunni stranieri non è sempre dovuto agli insuccessi ma spesso si determina già all’atto dell’inserimento nel percorso scolastico. Il mo- mento dell’ingresso continua ad essere critico soprattutto per chi arriva a metà di un percorso scolastico, da adolescente, o a metà di un anno scolastico e non co- nosce la lingua italiana. Già in partenza, nella prima classe della scuola primaria, si evidenzia un ritardo degli alunni stranieri di circa il 10,7%. Divario che cresce con il progredire del livello di scolarità. Nella terza classe della scuola secondaria di primo grado il ritardo della popolazione scolastica straniera è del 60,5%. Nella scuola secondaria di secondo grado, al terzo anno, si registra la percentuale più elevata di ritardo scolastico fra tutti gli anni di corso di ogni ordine e grado: 74,6%. Tab. 8 - Alunni con cittadinanza non italiana regolari o in anticipo e in ritardo nel percorso sco- lastico per ordine di istruzione (per 100 iscritti) - a.s. 2005/06 Fig. 2 - Tassi di ammissione per ordine scuola - a.s. 2004/05 Fonte: MPI- Alunni con cittadinanza non italiana Fonte: MPI- Alunni con cittadinanza non italiana 45 L’Osservatorio scolastico provinciale di Pisa, descritto nel successivo capitolo III, ha cominciato ad indagare il fenomeno in modo più approfondito distinguendo all’interno del raggruppamento dei “Non italiani”. Il livello di dettaglio dei dati in possesso dell’Osservatorio di Pisa consente un maggiore approfondimento quanti- tativo e qualitativo delle variabili statistiche. In una pubblicazione specifica, Alunni con cittadinanza non italiana nelle scuole pisane: presenze e risultati7, si analiz- zano gli esiti, i ritardi e la distribuzione territoriale degli alunni in base alla cittadi- nanza e all’essere nati in Italia o all’estero, ripartendo gli alunni tra: italiani nati in Italia; italiani nati all’estero; non italiani nati in Italia; non italiani nati all’estero. Si tratta di un primo studio che può essere preso a riferimento per ulteriori sviluppi di ricerca e al quale si rimanda per l’analisi dei confronti sui tassi di promozione, sul ritardo negli studi e sugli abbandoni. Infine appare utile evidenziare il dato delle presenze degli adulti stranieri nei centri di educazione per adulti. Nell’anno scolastico 2003/04 sono stati rilevati circa 120.000 iscritti, pari al 26% del totale dei partecipanti. Anche in questo caso la gran- de maggioranza di iscritti stranieri si concentra nelle Regioni del Nord: 24,7% in Lombardia, 13,7% in Veneto, 13,6% in Emilia Romagna e 13% in Piemonte. 7 Il testo è a disposizione nel sito dell’Osservatorio all’indirizzo: http://osp.provincia.pisa.it/osp/ pubblica-zioni.asp?Azione=31. Tab. 9 - Tassi di promozione degli alunni con cittadinanza non italiana per tipo istituto della scuola secondaria di II grado (a.s. 2003/04 e a.s. 2004/05) Fonte: MPI- Alunni con cittadinanza non italiana 46 La maggior parte (61.749) degli iscritti ha frequentato corsi per l’integrazione linguistica e sociale, e oltre 34 mila sono risultati i frequentanti a corsi finalizzati al conseguimento della licenza elementare e media. 4.3. Il sistema regionale di orientamento Le considerazioni precedenti portano alla necessità di sviluppare, nel territorio, un sistema di orientamento, costituito dalla rete dei soggetti, istituzionali e non, operanti in ambito scolastico, formativo e sociale, che assicuri un insieme di ser- vizi, accessibili a tutti e in modo decentrato, che vanno dall’accoglienza, al so- stegno, alla consulenza, all’accompagnamento. L’azione di counselling appena de- lineata dovrà essere una componente strutturale del processo formativo di tutte le istituzioni scolastiche e formative del sistema di istruzione e formazione e avrà il compito principale di: – potenziare negli studenti la conoscenza di se stessi, delle offerte e diverse op- portunità formative aiutandoli a coniugare il percorso formativo con la realiz- zazione del proprio progetto di vita; – sostenere i passaggi nel sistema di istruzione e formazione e i processi di scelta verso l’istruzione terziaria, universitaria e non; – favorire la transizione scuola-lavoro e lavoro-lavoro attraverso l’integrazione dei servizi educativi con i servizi al lavoro, individuando le azioni di politica attiva del lavoro che aiutino a migliorare il grado di occupabilità di soggetti inoccupati e disoccupati; – promuovere azioni positive di lotta alla dispersione scolastica e sostenere le istituzioni scolastiche e formative a realizzare percorsi in alternanza scuola – lavoro, anche istituendo borse formative per i giovani più bisognosi; – definire linee guida e modelli di certificazione delle competenze e riconosci- mento dei crediti formativi; – sviluppare l’educazione degli adulti come l’insieme delle opportunità forma- tive ed educative formali e non formali rivolte ai cittadini con l’obiettivo di ac- crescere le loro competenze personali, trasferibili e certificabili sia nell’ambito del sistema di istruzione e formazione che in ambito lavorativo. 4.4. Conoscenza del territorio Alla luce della programmazione degli interventi fino ad ora effettuati la cono- scenza che abbiamo risulta insufficiente e disomogenea come si evince dai rapporti ISFOL sull’obbligo formativo (cfr. cap. 3). Le conoscenze sono insufficienti perché ci si è limitati esclusivamente al seg- mento finale dei percorsi come se bastasse puntare esclusivamente a “riempire” il contenitore del sistema formativo. Il fatto che nel 1999, prima dell’innalzamento dell’obbligo scolastico e dell’introduzione dell’obbligo formativo, quasi il 95% dei licenziati dalla scuola media si iscriveva nei percorsi secondari è il segno evidente 47 che la domanda di una maggiore formazione, mirata al conseguimento di una quali- fica professionale o di un diploma secondario, fosse ormai un fatto acquisito nella società. Le famiglie italiane avevano compreso che l’investimento nella formazione dei figli era importante e non avevano bisogno di essere “obbligate” per effettuare questa scelta per i loro figli. Sarebbe stato più proficuo concentrarsi, quindi, sugli strumenti per fare permanere i giovani nei percorsi di studio piuttosto che sul “tutti dentro”. E se il sistema non è attrattivo e rispondente ai bisogni e alle aspettative dei giovani questi fuggono dal sistema e non bastano (forse neanche servono) i ca- rabinieri e le sanzioni amministrative e penali. Quindi un sistema di anagrafi che si ponesse solamente l’obiettivo di essere funzionale a rincorrere i “fuggitivi” fallirebbe miseramente. Avremmo creato un si- stema inutile con dispendio di risorse umane e finanziarie ingenti. Ecco, allora, che il sistema delle anagrafi previsto dall’articolo 3 del D.lgs. 76 amplia il loro raggio di utilizzo. Le informazioni contenute nella maggior parte delle attuali anagrafi non sono adeguate ad affrontare il tema della dispersione nelle sue più ampie sfaccettature. Servono basi di dati capaci di consentire l’analisi del percorso di ogni studente, giovane, con la strutturazione del portfolio/libretto formativo personale. Cioè un data warehousing organizzato in modo da consentire la ricostruzione di tutto il per- corso scolastico e formativo delle coorti demografiche a partire dalla scuola ma- terna fino all’inserimento nel mondo del lavoro e anche oltre. Non si vuole soste- nere che le differenze si annullano con una adeguata conoscenza delle condizioni di partenza e neanche la retorica che tutti alla nascita siano uguali. Ma proprio il con- trario. Se le differenze sono una ricchezza allora il primo obiettivo da perseguire è quello di rimuovere gli ostacoli affinché le famiglie assolvano al diritto dovere co- stituzionale di istruire i propri figli e, quindi, mettere in essere azioni che condu- cano alla valorizzazione delle attitudini e delle capacità di ciascuno aiutandolo a scoprire e sviluppare con coerenza il proprio progetto di vita. Ed infine va considerata la disomogeneità della conoscenza di cui si dispone. Le situazioni di conoscenza territoriali, regionali, provinciali e sub provinciali sono notevolmente difformi e ciò è il riflesso, in generale, delle rispettive situazioni socio ambientali. Una cosa è indagare il fenomeno in grandi aree metropolitane e altra cosa è farlo in aree suburbane e agricole. Anche se in entrambi i casi, per esempio, il dato sulla mobilità potrebbe creare disagio e difficoltà. Ma si tratta, con tutta evidenza, di fattori diversi che incidono sui tempi e sul tempo di studio. Così come le condizioni strutturali dell’organizzazione sociale delle varie aree territo- riali porta a differenti scelte nella domanda di istruzione con differenze radicali tra aree regionali e provinciali ma anche tra aree suburbane limitrofe. L’analisi delle scelte dei percorsi secondari e la relazione con gli esiti sono, per esempio, fattori che vanno indagati per consentire iniziative di orientamento, di programmazione dell’offerta, di predisposizione di strutture edilizie e interventi sulla mobilità in am- biti provinciali e suburbani. Le differenze nelle aree suburbane spesso sono deter- 48 minate dall’esclusività dell’offerta: piccoli Comuni dove esiste solo una tipologia di percorso, liceo o di istituto tecnico-professionale. Esclusività dell’offerta che co- stringe all’uniformità formativa e conseguentemente alla marginalità di molti gio- vani nella transizione alla vita attiva. Se il sistema delle anagrafi non serve a rispondere a questi problemi l’investi- mento tecnologico e di sviluppo dei sistemi informativi dedicati rappresenterebbe soltanto un spreco di risorse che potrebbero essere più proficuamente investite, per esempio, nell’orientamento. Ciò anche per il semplice fatto che la base dati delle scuole è sufficiente a risolvere il problema del “non uno di meno” inteso come “tutti obbligati” a sostare nelle aule scolastiche. 4.5. Alcune riflessioni e ipotesi di sviluppo e di prospettiva L’azione politica che si vuole sviluppare con la costituzione delle anagrafi degli studenti è quella di affrontare i diversi problemi legati alla dispersione, colle- gandoli tra loro, in maniera che i limiti e gli elementi di crisi del sistema siano in- dagati in un contesto unitario e siano individuate soluzioni efficaci per la realizza- zione degli obiettivi del “non uno di meno” inteso come possibilità di successo e di inserimento attivo nella società. Perché questo ultimo è il vero snodo per cui si giu- stifica un consistente investimento politico, finanziario e di risorse umane qualifi- cate. Si tratta, infatti, dell’implementazione di modelli nuovi dei sistemi informativi delle istituzioni nazionali, regionali e locali che puntano ad uno sviluppo federativo degli stessi con processi di cooperazione applicativa e programmi di interscambio di informazioni. Su queste basi le ipotesi di lavoro da prospettare sono quelle di individuare una strategia di gradualità, di processo. Facendo emergere con forza che anche la sem- plice costituzione di un sistema tecnologico di cooperazione tra sistemi informativi non può risolversi in un momento dato. Esso richiede una continua elaborazione ed evoluzione proprio per seguire, come si diceva prima, il processo evolutivo del fe- nomeno dispersione. Il primo obiettivo che l’indagine si propone è quindi quello di fare emergere nelle esperienze di studio come la costruzione di un sistema di “monitoraggio” dei processi sulla dispersione sia quelli sviluppati storicamente, a seguito di iniziative locali spontanee, sia quelle del più recente passato, per effetto dei dispositivi legis- lativi dell’Obbligo formativo, siano rispondenti agli obiettivi del quadro di riferi- mento prima delineato. Il secondo obiettivo si concentra sulla sintesi di queste esperienze per fornire strumenti di standardizzazione o normalizzazione dei contenuti informativi pre- senti, sulle strategie utilizzate per aiutare a comprendere il problema e a definire gli elementi di riferimento per la riorganizzazione dei sistemi informativi. Sistemi in- formativi che dovranno consentire una lettura dinamica delle informazioni per fa- vorire il processo prima delineato. Gli attuali sistemi informativi, anche nelle espe- 49 rienze di attuazione dell’anagrafe per l’obbligo formativo e la più recente anagrafe degli studenti del MPI, forniscono una visione statica dell’informazione, peraltro li- mitata a specifici settori e a particolari tipologie di soggetti, che non consente un’a- nalisi dei processi che sia esaustiva del fenomeno della dispersione sia a livello re- gionale che sub-regionale. Un sistema delle anagrafi capace di perseguire gli obiettivi esposti comporta la reingegnerizzazione in modalità ASP (Internet) dei sistemi informativi del MPI e delle Regioni, il potenziamento della rete telematica per la rilevazione in tempo reale delle informazioni presso le istituzioni scolastiche e formative e la costru- zione di una banca dati “federata” cioè costruita dal basso verso l’alto. Ciò implica un piano di investimenti significativo perché si tratta di consentire il collegamento di tutte le sedi scolastiche, non solo quelle amministrative, alla rete internet a banda larga e ciò non interessa soltanto o esclusivamente il parco tecnologico. Anzi, l’in- vestimento più significativo dovrà essere fatto sulla formazione del personale sia delle istituzioni scolastiche e formative che delle pubbliche amministrazioni. In estrema sintesi un sistema delle anagrafi deve essere funzionale all’attiva- zione di politiche sul sistema formativo in maniera che le informazioni servano allo sviluppo di servizi ai vari soggetti istituzionali, focalizzando l’azione territoriale su progetti di contrasto al fenomeno della dispersione e, più in generale, di program- mazione dell’offerta formativa nel territorio in relazione ai bisogni e alla domanda del sistema sociale e produttivo. Senza pretesa di esaustività si elencano alcuni progetti-obiettivo che si pos- sono realizzare dall’analisi delle informazioni che un data warehouse dinamico potrà consentire: – Costituzione del sistema delle anagrafi comprendente gli studenti della scuola statale e non statale, del sistema di IeFP e dell’apprendistato. – Rafforzamento dell’informazione, dell’orientamento e del tutorato, anche at- traverso l’interazione con i Centri per l’impiego. – Iniziative di coinvolgimento delle famiglie e formazione di mediatori tra scuole e famiglie. – Costituzione di reti istituzionali di Centri risorse, Centri di servizio, Osserva- tori provinciali e regionali di sostegno alle attività e alle iniziative per lo svi- luppo di azioni mirate nel territorio. – LARSA: interventi di sostegno e di recupero scolastico e formativo; interventi integrativi; formazione e recupero delle competenze di base e trasversali. – Interventi di counselling (accoglienza, orientamento e accompagnamento) nelle fasi di transizione con particolare attenzione alle fasi di passaggio dal primo al secondo ciclo e alla transizione dalla scuola al lavoro. – Costituzione di Campus o Poli formativi che permettano di concentrare in “cit- tadelle degli studi” (realizzate anche in ambiti territoriali che possano interes- sare Province limitrofe) un’offerta plurima di istruzione e formazione tecnico professionale con la predisposizione di mense, biblioteche, LARSA, e la pro- 50 grammazione di un sistema di trasporti che faciliti gli studenti soprattutto nelle aree suburbane. – Formazione di operatori nella progettazione di azioni per il recupero e lo svi- luppo degli apprendimenti e nella gestione di base di dati. – Creazione di un sistema di monitoraggio e valutazione a livello provinciale e regionale: anagrafi degli studenti, data base delle attività formative, valuta- zione degli apprendimenti e dell’efficienza ed efficacia. 51 Capitolo 2 Sistemi informativi e politiche contro la dispersione Mauro PALUMBO - Claudio TORRIGIANI1 Premessa La definizione, la strutturazione e l’implementazione di un sistema informa- tivo per il diritto/dovere all’istruzione e alla formazione si colloca nel quadro di un processo di ampio respiro, promosso dalla politica di coesione e dalla Strategia Eu- ropea per l’Occupazione (SEO)2. Il coordinamento delle politiche nazionali in ma- teria di occupazione è volto essenzialmente ad impegnare gli Stati membri in una serie di obiettivi comuni incentrati su quattro pilastri il primo dei quali, interessante ai fini della nostra riflessione, è l’idoneità al lavoro. Per realizzare tale obiettivo gli Stati membri devono impegnarsi nella lotta alla disoccupazione di lunga durata e alla disoccupazione dei giovani, nella moderniz- zazione dei sistemi di istruzione e formazione, nel monitoraggio attivo dei disoccu- pati, proponendo loro un’alternativa nel campo della formazione o dell’occupa- zione (prima di raggiungere i sei mesi di disoccupazione per i giovani disoccupati e i 12 mesi per i disoccupati di lunga durata), nella riduzione del 50% dell’abban- dono scolastico, nonché l’attuazione di un accordo quadro fra i datori di lavoro e le parti sociali finalizzato all’apertura delle imprese alla formazione e all’acquisi- zione di un’esperienza. Rispetto ai percorsi di istruzione e formazione dei giovani assume crescente importanza – a livello nazionale e a livello europeo – il riconoscimento e la certifi- cazione delle conoscenze e delle competenze acquisite, a diversi livelli, con riferi- 1 Per quanto concerne l’attribuzione delle parti ai due Autori si segnala che la premessa e il para- grafo 1 sono stati elaborati da Claudio Torrigiani, mentre il paragrafo 2 è opera di Mauro Palumbo. 2 Nel Trattato di Amsterdam, nel 1997, è stato introdotto dagli Stati membri un capitolo “Occu- pazione”, che è divenuta in questo modo “una questione di interesse comune” e uno degli obiettivi della Comunità, pur preservando la competenza degli Stati membri nel settore della politica dell’occu- pazione. Nel corso del vertice europeo sull’occupazione di Lussemburgo – del novembre 1997 – i capi di Stato e di governo hanno deciso di applicare una strategia coordinata per l’occupazione senza attendere l’entrata in vigore del trattato di Amsterdam (1° maggio 1999): è quindi nata la Strategia Europea per l’Occupazione (SEO). Tale strategia – che deve essere coerente con le disposizioni rela- tive alla politica economica e monetaria e con gli orientamenti generali delle politiche economiche – istituisce un quadro di sorveglianza multilaterale che esorta gli Stati membri ad attuare delle politiche più efficaci in questo settore e poggia quindi su alcuni meccanismi di coordinamento che concernono la definizione e la messa in campo delle politiche e azioni comunitarie. 52 mento sia agli apprendimenti formali, sia a quelli informali e non formali. Nel marzo 2005 i capi di Stato europei hanno concordato la creazione di un “Quadro europeo delle Certificazioni Professionali”, con l’obiettivo di mettere in relazione i quadri e i dispositivi di certificazione a livello nazionale e settoriale e facilitare in tal modo il riconoscimento delle certificazioni e delle competenze degli individui ed in particolare dei giovani. Alcune tra le finalità e i macro-obiettivi stabiliti in ambito europeo sono stati fatti propri dai Paesi membri e introdotti in Italia con la legge 9/99, che innalza l’obbligo scolastico al 15° anno di età e con la legge 144/99, che introduce l’ob- bligo formativo fino al 18° anno. Dopo qualche tempo la legge 53/2003 abroga la legge 9/99 e porta in un con- testo unitario l’obbligo scolastico e formativo, definendo il diritto-dovere all’istru- zione e alla formazione per almeno 12 anni o comunque fino al conseguimento di una qualifica professionale entro il 18° anno di età. Il concetto di diritto-dovere – introdotto dalla legge 53/2003 – esalta l’aspetto valoriale dell’istruzione allargando e diversificando le opportunità formative con il riferimento all’obbligo di “istru- zione” piuttosto che all’obbligo “scolastico”. Infine, il decreto legislativo 76 del 2005 definisce il concetto di diritto-dovere come ampliamento del concetto di obbligo di istruzione e riconduce quindi a unità l’obbligo scolastico e l’obbligo formativo; sottolinea in particolare la funzione di promozione di una cittadinanza attiva e responsabile da parte delle istituzioni edu- cative. All’art. 1 si legge infatti che: “la Repubblica promuove l’apprendimento in tutto l’arco della vita e assicura a tutti pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali e di sviluppare le capacità e le competenze, attraverso conoscenze e abi- lità, generali e specifiche, coerenti con le attitudini e le scelte personali, adeguate all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro, anche con riguardo alle dimensioni locali, nazionale ed europea”. In questo contesto si inserisce l’importanza assegnata alla prevenzione e al re- cupero degli abbandoni, che a nostro avviso è inscindibile dalla concezione unitaria e di pari dignità che la legge assegna all’istruzione e formazione, superando, al- meno sul piano dei principi, la separatezza tra i due mondi, che sta alla base di un’impostazione penalizzante dell’approccio induttivo al sapere rispetto a quello deduttivo, di un’implicita squalificazione del sapere contenuto nel fare rispetto al sapere che precede (quando non sostituisce) il fare. È in questa prospettiva che ha senso parlare di programmazione unitaria dei sistemi di istruzione e formazione e di prevenzione, basata sulla necessità di assicurare a tutti i giovani un adeguato in- serimento nella vita e nel lavoro, assegnando pari dignità alle diverse predisposi- zioni all’apprendimento e priorità allo sviluppo di percorsi educativi, di istruzione e formazione, appunto, a tutti i giovani. In questa logica, l’articolo 4 prevede la pre- disposizione di: «piani di intervento per l’orientamento, la prevenzione ed il recu- pero degli abbandoni, al fine di assicurare la piena realizzazione del diritto-dovere all’istruzione ed alla formazione, nel rispetto delle competenze attribuite alla Re- 53 gione e agli enti locali per tali attività e per la programmazione dei servizi scola- stici e formativi». Riportiamo per esteso il contenuto di questi articoli, già bene illustrati nel capi- tolo precedente, perché essi rappresentano il quadro di finalità generali e macro- obiettivi che fanno da riferimento cardine, da un lato, per i processi decisionali e at- tuativi degli attori istituzionali coinvolti nei processi di istruzione e formazione, di orientamento e di transizione al lavoro, e come logica conseguenza costituiscono al tempo stesso il riferimento obbligato per la costruzione di un sistema informativo sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. Di qui la previsione, nell’articolo 3 del D.lgs. 76/2005 sul diritto dovere, della costituzione di un sistema di anagrafi, nazionale e regionali. In particolare, le ana- grafi dovranno contenere «dati sui percorsi scolastici, formativi e in apprendistato dei singoli studenti a partire dal primo anno della scuola primaria», assicurando «l’integrazione delle anagrafi […] nel Sistema nazionale delle anagrafi degli stu- denti». A tal fine si dovrà provvedere a: “a. definire gli standard tecnici per lo scambio dei flussi informativi; b. assicurare l’interoperabilità delle anagrafi; c. definire l’insieme delle informazioni che permettano la tracciabilità dei per- corsi scolastici e formativi dei singoli studenti”. I punti a. e b. indicano le linee di sviluppo dei sistemi informativi sia dal punto di vista tecnologico che di filosofia di fondo: un sistema “federato”. Il punto “c.” apre scenari nuovi nell’azione didattica, pedagogica e del sistema dei servizi perché la “tracciabilità dei percorsi” mette in evidenza la necessità di af- frontare il fenomeno dispersione con nuovi paradigmi e fa emergere, di conse- guenza, il problema della lacunosità delle informazioni presenti nelle attuali basi di dati. In particolare, unisce l’utilizzabilità del dato statistico al fine di program- mare gli interventi e i servizi alla centralità della persona, concetto chiave per personalizzare il servizio educativo in funzione del successo formativo e profes- sionale di ogni giovane. Il processo di costruzione e implementazione del sistema informativo e delle relative anagrafi dei giovani soggetti al diritto-dovere all’istruzione e alla forma- zione si innesta dunque in tale quadro politico e normativo non solo come stru- mento di controllo dell’adempimento di questo “dovere”, ma anche come mezzo atto a garantire ai cittadini di “poter imparare sempre di più” anche attraverso un intervento pubblico, puntuale e tempestivo, che veda nella “centralità dell’utente” e dei suoi bisogni il principio cardine su cui imperniare il processo di programma- zione, progettazione e implementazione delle azioni necessarie a garantire questo diritto. È infatti possibile considerare il sistema informativo, in senso stretto, come uno strumento che permette di controllare il percorso dei giovani nell’ambito del sistema istruzione-formazione – ma questo sarebbe riduttivo e si adatta più propria- 54 mente al concetto di anagrafe –; in senso più ampio il sistema informativo può es- sere considerato come uno strumento che supporta gli attori istituzionali nel garan- tire il diritto/dovere all’istruzione e alla formazione, che è pensato e strutturato, sia dal punto di vista del dato che esso fornisce, sia da quello delle analisi che su tale dato possono essere effettuate, come input dell’azione pubblica di tali attori, anche in un’ottica preventiva. In prima battuta il sistema informativo si rende quindi necessario per meglio programmare l’offerta formativa ai diversi livelli (nazionale, regionale, provinciale, di Istituto Scolastico Autonomo e di Sede formativa), nonché per rendere esigibile il diritto allo studio. Per questo acquista particolare importanza conoscere il feno- meno della dispersione, e quindi l’abbandono dei canali di istruzione, formazione e apprendistato da parte dei giovani soggetti al diritto-dovere. In un’ottica di garanzia dei diritti e in una logica proattiva, piuttosto che adattiva dell’azione pubblica, il sistema informativo non dovrebbe quindi servire solo a sapere chi non è più a scuola: questo è e sarebbe un fatto tutto sommato banale. Il sistema informativo deve costituire piuttosto un supporto fruibile per i di- versi soggetti istituzionali per l’implementazione dell’azione pubblica e quindi deve essere alimentato e strutturato in funzione dell’utilizzo che può essere fatto dell’informazione che esso veicola: dalla definizione dell’offerta di istruzione e formazione e dalla pianificazione delle attività (oltre che di altre attività a queste legate, come la gestione dei trasporti e l’edilizia scolastica), alla definizione e atti- vazione di idonei percorsi di orientamento, di percorsi di recupero finalizzati al reinserimento scolastico e formativo, alla costruzione e implementazione di per- corsi praticabili tra mondo dell’istruzione/formazione e mondo del lavoro. Va inoltre aggiunto che, in una prospettiva di long life learning, è da ripensare anche il ruolo delle aziende e delle rappresentanze di categoria non solo in quanto fruitori di questo sistema informativo, ma anche quale parte integrante di esso. Non si può dimenticare infatti che le normative vigenti riconoscono i mondi dell’istru- zione, della formazione, dell’università e dell’impresa come protagonisti a pieno ti- tolo del sistema formativo nazionale e quindi chiamano in causa i quattro soggetti nella sua programmazione e gestione. Più in particolare, è piuttosto evidente che un sistema informativo che consente alle aziende di segnalare quali siano i fabbisogni formativi da soddisfare per adeguare le competenze dei lavoratori permette alle istituzioni scolastiche e formative di rivedere “in tempo reale” i programmi e i per- corsi di istruzione e formazione, tenendo conto anche delle esigenze del mondo delle imprese. D’altro canto, se le imprese potessero fruire di un archivio “unifi- cato” dei percorsi di formazione dei propri dipendenti, questo consentirebbe di avere il polso sulla competenza degli occupati3 in ogni settore di attività economica 3 Questa riflessione si lega direttamente al Libretto formativo del cittadino, finalizzato tra l’altro alla riconoscibilità dei suoi percorsi di apprendimento e dei risultati conseguiti e quindi alla certifica- 55 in un contesto dato e quindi di pensare in modo realmente rispondente alle esigenze del contesto non solo la programmazione e la progettazione di iniziative di forma- zione continua, ma anche la programmazione e l’implementazione di politiche di sviluppo economico che trovino nelle competenze dei lavoratori e dei giovani in uscita dal sistema di istruzione e formazione l’humus adatto a garantire un successo duraturo. Per questo il concetto di Osservatorio, che possa mettere in relazione e analiz- zare le informazioni registrate dall’anagrafe formativa e da altre basi di dati, corre- landoli con i risultati di indagini campionarie come la Rilevazione Continua delle Forze di Lavoro, è un concetto centrale e importante, in quanto esso comprende al suo interno gli attori coinvolti nel problema in esame, che costituiscono una rete per conoscere appieno, a tutti i livelli e da tutti i punti di vista implicati, il feno- meno e poter intervenire tempestivamente su di esso. Il sistema informativo deve quindi essere strutturato per il governo del sistema istruzione e formazione ed è opportuno pensare a un modello “federato” perché il governo ai diversi livelli (scuola/ente, Comune, Provincia, Regione, Uffici centrali del Ministero) impone un’articolazione del sistema informativo congrua con le esi- genze di governo di soggetti autonomi, ma coordinati. Tale articolazione, inoltre, assicura la migliore economia di risorse per la costruzione, l’implementazione e l’alimentazione del sistema informativo, oltre alla ricchezza di informazioni ivi convogliate; una ricchezza che si accresce con l’uso. Il presente contributo intende delineare - dopo aver descritto brevemente i principali riferimenti teorici (paragrafo 1, “Quadro teorico”) - le caratteristiche otti- mali di un sistema informativo di supporto al diritto / dovere all’istruzione e alla formazione (paragrafo 2, “Il sistema informativo: attori, flussi informativi e usi del- l’informazione”) utilizzando come punti di riferimento chiave: – gli attori istituzionali (scuole, enti, uffici centrali e periferici dell’amministra- zione) e non (famiglie, studenti, imprese) implicati nei processi di alimenta- zione e di fruizione del sistema informativo e i flussi informativi in entrata e in uscita da questo sistema informativo (paragrafo 2.1.), – gli utilizzi delle informazioni restituite dal sistema in funzione delle compe- tenze istituzionali di ciascuno degli attori coinvolti e delle rispettive mission (paragrafo 2.2.). zione delle competenze, questione non risolta dagli interventi promossi e finanziati dalla Programma- zione 2000-2006 dell’Obiettivo 3 del FSE e oggetto anche della prossima Programmazione 2007- 2013. Tra l’altro il problema della certificazione delle competenze potrebbe essere centrale anche ri- spetto ai fenomeni di dispersione: spesso i giovani che abbandonano il sistema di istruzione e forma- zione sono quelli che “non vedono la fine” e per i quali il riconoscimento “ufficiale” di obiettivi par- ziali più facilmente raggiungibili (e “spendibili”) potrebbe essere un fattore motivante che favorisce il successo scolastico e/o formativo e invoglia alla prosecuzione del percorso stesso. 56 1. QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO Il primo elemento di complessità da tenere in considerazione per la costruzione di un sistema informativo è lo stesso termine sistema, che fa riferimento ad una ben precisa prospettiva di lettura e analisi della realtà che si vuole conoscere o sulla quale si vuole intervenire. 1.1. Sistema, livelli di sistema e controllo di sistema Nella prospettiva sistemica i sistemi sociali sono sistemi viventi (Maturana - Varela, 1980), composti da elementi e funzioni in relazione reciproca, tali che la to- talità non è riducibile alla somma delle parti, che sono capaci di auto-regolazione, autofinalizzazione e autonomia rispetto all’ambiente. I sotto-sistemi possono essere in conflitto rispetto alle finalità parziali di ciascuno: ne seguono, in questo caso, in- certezza, disordine, cambiamento e continua ridefinizione. Assume quindi rilevanza strategica il ruolo dell’osservatore, che seleziona gli elementi del sistema anche alla luce di propri interessi e valori. In questo paradigma, chi analizza il sistema pensa ed esplora un insieme di relazioni complesse, dalla con- figurazione mutevole in ragione di interferenze casuali, che si alimenta di disordine e disequilibrio che producono continui mutamenti. In questo quadro si adotta una ra- zionalità processuale, che esclude la possibilità di una comprensione completa e cer- ta; anche l’intervento su tali sistemi risulta problematico. Questi primi elementi sono immediatamente riconducibili alla pluralità di attori istituzionali del sistema di istru- zione e formazione e ai diversi livelli territoriali che fanno capo a tali attori. Occorre infatti sottolineare che la progettazione dei sistemi informativi si ispira spesso ad una prospettiva di razionalità sinottica, che pretende di padroneg- giare a priori la realtà su cui si intende intervenire, grazie ad una perfetta cono- scenza del contesto, delle leggi di trasformazione del reale (le cosiddette covering laws), delle diverse alternative praticabili. In breve, come osservano molti studiosi (cfr. Cipolla, 1988; Palumbo, 2001), i sistemi informativi sono fortemente correlati con una concezione di programmazione che presume di poter derivare da una com- pleta e tempestiva conoscenza della realtà la scelta degli interventi più adeguati. Una pretesa che non è solo vanificata dal principio della razionalità limitata, for- mulato da Simon già nel 1947, e dall’impossibilità di postulare un decisore collet- tivo dotato di tali poteri, dimostrata da Arrow quindici anni dopo4, ma complicata 4 Simon ha osservato in particolare che “è impossibile per il comportamento di un singolo, isola- to individuo di raggiungere qualsiasi elevato grado di razionalità. Il numero di alternative che deve esplorare è così grande, l’informazione necessaria per valutarle così elevata, che perfino un’approssi- mazione all’obiettivo della razionalità è difficile da concepire” (1947, 79), mentre Arrow (1963) so- stiene che le procedure di voto democratico impediscono che le scelte collettive corrispondano alle preferenze individuali aggregate, perché la proprietà transitiva delle preferenze individuali non si ap- plica a quelle derivanti da decisioni collettive (paradosso dei votanti: le preferenze individuali sono transitive, quelle collettive sono cicliche). 57 anche dal fatto che di norma il processo decisionale conosce l’interazione tra sog- getti diversi, portatori ciascuno di modi diversi di impostare i problemi, in un con- testo in cui “decidere significa prima di tutto scegliere tra definizioni alternative di un problema” (Bobbio, 1996, 28). In questo quadro la razionalità, come si è detto sopra, non scompare, ma da so- stanziale (capace cioè di dettare le soluzioni per ogni problema) diviene procedu- rale: razionali non sono più le decisioni, ma può esserlo il processo di assunzione delle decisioni, che si configura anche come “un processo di apprendimento, che si realizza con continui aggiustamenti tra mezzi e fini” (Bobbio, 1996, 26). Di conseguenza, l’impegno rivolto alla realizzazione di un sistema informativo completo e aggiornato non può occultare una concezione costruttivistica della realtà, secondo cui la conoscenza è sempre parziale, influenzata dal contesto e co- stantemente negoziata all’interno delle relazioni sociali tra attori, che concorrono a produrla e strutturarla. In questa prospettiva, la conoscenza viene prodotta in modo interattivo, in quanto presiede all’azione, ma viene anche prodotta nel corso dell’a- zione (cfr. Sgritta, 1988; Crosta, 1993; Palumbo, 2003) e i sistemi informativi di- vengono una componente essenziale di processi di apprendimento collettivo che impegnano tutti gli attori che partecipano alla costruzione dei programmi e degli interventi. Una seconda prospettiva teorica che è bene tenere presente pensando ad un si- stema informativo che supporta il decisore nell’intervento in base ai feed-back re- stituiti dal sistema stesso è quella cibernetico-gerarchica: l’attenzione si sposta in questo caso sul controllo costante del processo d’azione come meccanismo capace di provocare certi stati futuri basandosi su uno stato di arrivo, un sistema in grado di conseguirlo, un mezzo in grado di influenzare il sistema. In base a certi obiettivi si scandiscono i programmi in sequenze, a ogni snodo corrisponde un momento di controllo: abbiamo così circuiti ricorrenti di retroazione, che accordano importanza alle prestazioni parziali del sistema in ogni fase. La valutazione diviene un disposi- tivo di governo del programma, che può essere riformulato, con il grosso vantaggio della flessibilità, che si presenta soprattutto se esistono, e sono praticati, spazi per una programmazione negoziata che permette di innescare processi di apprendi- mento cooperativo e di accrescere ad un tempo la riflessività degli attori, ossia la loro capacità di controllare sistemi complessi incorporando nelle loro strategie di azione la conoscenza degli esiti delle azioni intraprese (cfr. Palombo, 2003; 2004). In questo caso il riferimento è, da un lato, agli obiettivi degli attori istituzionali del sistema di istruzione e formazione e, dall’altro, al sistema informativo come stru- mento che fornisce agli attori un feed-back che deve essere utilmente spendibile per retro-agire sul sistema controllato. Un ulteriore riferimento importante per la determinazione delle caratteristiche che dovrebbe avere un sistema informativo è il livello di generalità della politica, del programma o del progetto specifico alla cui implementazione, al cui ri-orienta- mento o alla cui valutazione questo sistema deve servire, fatto ovviamente stretta- 58 mente collegato alla prospettiva sistemica sopra accennata: la policy infatti si arti- cola in strategie, politiche specifiche, singoli obiettivi e singoli progetti (Palumbo, 1998), e le informazioni richieste ai diversi livelli avranno certamente caratteri- stiche differenti, in termini di approccio e tecniche utilizzabili, ma anche di grado di approfondimento dell’analisi, in funzione del livello preso in considerazione. Inoltre questi diversi livelli potranno essere coordinati o dipendenti, ma non ricon- ducibili in modo meccanico l’uno all’altro, anche perché, nel caso in questione, ai diversi livelli di generalità o specificità delle politiche educative concorrono livelli decisionali diversi, dotati ciascuno, come si è detto, di una specifica autonomia. La programmazione e la valutazione vanno condotte a livelli differenti (C.E., 1999): i numerosi progetti che entrano a far parte di un programma tentano di raggiungere obiettivi specifici che sono orientati alla realizzazione dell’obiettivo generale del programma, la cui valutazione, peraltro, non corrisponde alla somma o alla sintesi di quelle dei singoli progetti, e richiede di conseguenza informazioni diverse per poter essere condotta; sarà necessario del resto, oltre che importante, avere ben pre- sente lo stretto legame logico esistente tra i differenti livelli in cui una policy si ar- ticola nel momento in cui si procederà alla strutturazione di un sistema informativo di supporto all’implementazione e alla valutazione delle politiche. La programmazione integrata richiede infatti che a qualsiasi livello si operi venga mantenuta una visione globale della policy presa in considerazione e del contesto più generale in cui essa si inserisce; del resto “i programmi sono un mezzo per conseguire più ampi obiettivi di policy e la valutazione dei programmi contri- buisce alla valutazione di policy. I programmi, poi, comprendono numerosi inter- venti e progetti, e la valutazione a livello di singola misura/intervento/progetto co- stituisce parte della valutazione di programma pur non coincidendo con essa. Nu- merosi programmi con i loro elementi costitutivi contribuiscono a obiettivi tematici e le valutazioni tematiche si reggono su valutazioni di progetti e programmi” (Tavi- stock Institute, 2003). Un ulteriore elemento di complessità che dovrebbe essere tenuto ben presente nella strutturazione di un sistema informativo, adeguato ad alimentare la defini- zione di politiche integrate finalizzate a garantire il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione, è “il problema di stabilire un nesso tra policy, programmi e pro- getti [...] Non sempre buoni programmi sfociano in buone policy, validi documenti di programmazione non sempre si traducono in buoni progetti e progetti validi non sempre assicurano il successo di un programma. La valutazione dei programmi resta comunque un input per la valutazione di policy così come la valutazione dei progetti è un input per la valutazione dei programmi” (ibidem, 9-10). Ove si consi- deri poi la sovrapposizione dell’azione pubblica ai diversi livelli istituzionali di competenza, emerge chiaramente che uno dei maggiori elementi di complessità nei processi di pianificazione/programmazione e valutazione delle politiche educative è rappresentato proprio dalla definizione dell’intreccio tra i diversi livelli di pro- grammazione e tra questi e la valutazione in relazione al loro dipanarsi nella di- 59 mensione temporale, come verrà meglio specificato oltre. In riferimento al sistema informativo questo significa che l’informazione raccolta e imputata a livello micro (ad esempio nell’istituto scolastico o nella sede formativa) non necessariamente sarà utile a un livello meso/macro di governo del sistema (ad esempio la Regione o il Ministero). Va quindi pensato un sistema informativo in funzione dell’utilizzo che può essere fatto dell’informazione che esso fornisce ai diversi livelli di go- verno. Il problema dei livelli di generalità della politica oggetto di pianificazione, programmazione e valutazione è strettamente connesso con quello della gerarchia di obiettivi perseguiti dalla politica stessa, infatti “ il processo decisionale può es- sere immaginato come un percorso dall’alto in basso lungo la scala di astrazione, da un livello alto di definizione di obiettivi generali fino al livello più basso, la de- finizione delle azioni, che si incista direttamente nel processo implementativo” (Bezzi, 2001, 205). Come mostrano le frecce nello schema sotto riportato, un sistema informativo adeguato dovrebbe essere funzionale ad alimentare il ciclo di programmazione e valutazione a ciascun livello, sia di politica, sia di programma, sia di singolo pro- getto e relativamente alle sue diverse dimensioni (bisogni, obiettivi, risultati, ri- sorse e azioni). Il livello a cui l’informazione viene fornita e a cui l’analisi viene effettuata ha comunque delle ripercussioni sia sul tipo di informazioni che dovrebbero essere fornite, sia sulla fruibilità di tali informazioni e sulle analisi e decisioni che grazie ad esse potranno essere sviluppate: se, infatti, al livello generale del programma, è più facile un ri-orientamento dell’azione intrapresa, in quanto essa risponde ad un obiettivo generale successivamente operazionalizzato in sotto obiettivi, al livello dei singoli progetti, la possibilità di re-impostare l’intervento sarà fortemente con- dizionata dal grado di flessibilità/rigidità previsto dagli interventi stessi, oltre che, naturalmente, dalla tempestività nell’effettuazione dell’analisi e dall’autonomia de- cisionale del soggetto che opera a questo livello (Moro, 2000). È importante consi- derare che così come “il carattere pubblico di una politica […] ne rende possibile la riconducibilità alle competenze istituzionali dei decisori da cui discendono […] le finalità dell’intervento e in una certa misura i percorsi o vincoli nell’azione” (Pa- lumbo, 2001, 112-117) allo stesso modo tali competenze istituzionali e la lettura specifica delle finalità e degli obiettivi di policy che ne derivano dovrebbero costi- tuire il criterio guida per stabilire, a ciascun livello, quale informazione deve essere fornita, con che tempi e in quale modalità. A ciò si aggiunga che la schematizza- zione proposta riguarda livelli gerarchicamente ordinati, ancorché dotati di legami causali “laschi” verso l’alto e verso il basso (lo stesso obiettivo generale è conse- guibile attraverso diversi obiettivi specifici e viceversa). Di contro, nel caso in esame ogni elemento del sistema gode di un’autonomia superiore e di competenze concorrenti, mentre l’unità elementare di osservazione (il singolo allievo) è anche titolare del diritto-dovere alla cui realizzazione concorrono i livelli sovra ordinati. 60 Fi g. 1 - A rt ic ol az io ne “ a ca sc at a” d i ob ie tt iv i, ri su lt at i e az io ni Fo nt e: R ip re so e a da tta to d a Pa lu m bo , 1 99 8; B ez zi , 2 00 1 61 1.2. Sistema informativo e dimensione cronologica delle politiche Un secondo elemento di grande rilievo per la strutturazione di un sistema in- formativo di supporto alla programmazione e alla valutazione di politiche, pro- grammi e progetti finalizzati alla programmazione didattica e alla prevenzione e al contrasto della dispersione scolastica e formativa è la dimensione cronologica. Dal punto di vista delle pratiche di valutazione è nota la distinzione tra valutazione ex- ante, in itinere, conclusiva ed ex-post; questa articolazione cronologica è, per così dire, riflesso delle fasi di snodo della policy: alla decisione di intervenire – conse- guenza dell’individuazione di un problema – con l’individuazione di determinati obiettivi, segue il processo di implementazione, in cui dei mezzi vengono destinati a conseguire i risultati attesi dall’intervento. Si giunge così alla conclusione dell’in- tervento programmato, dopo la quale si potranno naturalmente riscontrare effetti ed impatti attesi (e non): vi è quindi una sorta di parallelismo tra il ciclo di vita di una politica e valutazione, ma si tratta di una “parallelismo sfasato”, in cui “la valuta- zione si modella in vario modo sull’azione, sia per le fasi temporali […] sia per l’oggetto della sua attenzione” (Stame, 1998, 19). Tale “parallelismo sfasato” non riguarda solo la relazione tra valutazione e po- litiche o programmi da valutare, ma anche la relazione “interna” tra politiche, pro- grammi attuati nell’ambito di tali politiche, e singoli progetti implementati nell’am- bito dei programmi. Lo stesso “parallelismo sfasato” riguarda anche le relazioni tra questi elementi e il sistema informativo che essi alimentano e che poi alimenterà i successivi processi di pianificazione strategica, di programmazione e progetta- zione: il dato relativo all’alunno iscritto (non pre-iscritto) può essere infatti fornito solo dopo che è iniziata l’attività programmata… (!). Il problema è quello di ridurre al minimo questa sfasatura, e le tecnologie dell’informazione sono il mezzo che do- vrebbe consentire di fare ciò. Questa stretta relazione tra attività di programmazione e di valutazione della politica si potrebbe e dovrebbe avvalere proprio dei dati forniti da un sistema infor- mativo che, quindi, per essere di reale supporto a entrambi i processi, deve tenere conto del tipo di informazione utile sia al soggetto pianificatore/programmatore della politica, del programma o del singolo intervento, sia al dirigente di un ser- vizio incaricato della realizzazione del programma sia, infine, agli operatori. Tale sistema informativo, poi, dovrebbe tenere in debito conto anche le esigenze infor- mative di coloro i quali sono incaricati di valutare l’andamento, le realizzazioni e i risultati degli interventi attuati anche in un’ottica “previsionale”: se infatti un pro- gramma viene strutturato e approvato oggi, ma i progetti che potranno essere at- tuati nel quadro di tale programma potranno essere presentati anche tra sei o sette anni, è possibile che nel tempo le esigenze informative del decisore, degli attuatori e degli operatori subiscano delle modifiche, ed è quindi importante che il sistema informativo abbia una flessibilità sufficiente a poter recepire tali nuove esigenze e consentire nuovi e più fini criteri di controllo e valutazione. In realtà dovrebbero essere tenuti in attenta considerazione «tre diversi “cicli” 62 temporali […] in primo luogo il ciclo della valutazione, che interviene in diversi “momenti” e fasi all’interno di un secondo ciclo, quindi il ciclo del programma, che genera esso stesso le “domande” per questi diversi “momenti” di valutazione. C’è anche un terzo ciclo, il ciclo di policy che plasma e condiziona i programmi e inevi- tabilmente anche i fabbisogni di valutazione. Tipicamente il ciclo di policy è più lungo del ciclo di programma» (Tavistock Institute, 2003, 6). Questa puntualizza- zione ci pare di estremo interesse perché pone con chiarezza all’attenzione del deci- sore, del programmatore e del valutatore, quindi a chi deve costruire e implementa- re il sistema informativo che supporta tali attori, la multidimensionalità della com- plessità sui cui deve intervenire, mettendo in relazione la dimensione temporale e i diversi livelli di generalità che – anche implicitamente – sono sempre racchiusi nel- le politiche e nel loro ciclo di vita. È forse interessante notare che dall’intersezione di queste dimensioni nasce un’ulteriore dimensione problematica, rappresentata dal- la causalità che lega, da un lato, uno all’altro i diversi livelli di intervento pubblico e, dall’altro, la valutazione agli interventi: in particolare si dovrebbe parlare in que- sto caso di una causalità multi-livello o causalità ricorsiva, che potrebbe essere rap- presentata dalle frecce che collegano i tre cicli dello schema sopra riportato. Non si dimentichi infine l’esigenza informativa che fa capo agli allievi, alle fami- glie e agli operatori a diretto contatto con questi. Esigenza connessa, in primo luogo, all’orientamento scolastico, come tale legata ai cicli più lunghi delle policies e affetta da sfasature temporali (nel caso della post secondaria si sceglie oggi in base alle in- formazioni di ieri cosa accadrà fra 3-5 anni ad un giovane). In secondo luogo al moni- toraggio dell’iter scolastico del giovane sul quale si sviluppa l’attività della famiglia e degli operatori del sistema di istruzione e formazione e si intessono le loro relazioni. Questi elementi di complessità ben evidenziano quanto sia problematico il compito di un sistema informativo che dovrebbe supportare sia la programmazione, a tutti i livelli, sia la valutazione dell’azione pubblica implementata in risposta ai bisogni espressi dal contesto; si tratta di problematiche che si riverberano sui pro- cessi di aggregazione e di trattamento delle informazioni. Al livello di politica generale, infatti, si rendono necessari pochi dati aggregati, ma tali informazioni derivano evidentemente dall’aggregazione di dati ad un livello di dettaglio possibile solo nell’attuazione del singolo intervento formativo sul sin- golo utente. Similmente, al livello intermedio saranno necessari dati aggregati con un dettaglio superiore a quello necessario per la politica generale (in specie rispetto al livello territoriale di riferimento), ma inferiore a quello indispensabile per il pro- getto specifico. E dotati di una ricchezza informativa sufficiente a programmare in- terventi specifici (si pensi ad esempio alle nuove problematiche emergenti dalla crescita degli utenti stranieri, con ridotte competenze linguistiche). Non dobbiamo dimenticare, dunque, che ai diversi livelli fanno capo soggetti che hanno esigenze conoscitive specifiche, in relazione alla realtà su cui sono chia- mati a decidere e/o operare e che tali differenti esigenze spiegano perché sia neces- sario prevedere molteplici possibilità di aggregazione e trattamento dell’informa- 63 zione elementare. A titolo di esempio, il docente di una scuola o il tutor di un corso di formazione possono essere interessati a conoscere i dettagli del percorso scola- stico e formativo di un singolo allievo, mentre il dirigente scolastico o il dirigente regionale o provinciale responsabile dell’attuazione di un programma definito per macro-obiettivi sarà interessato a dati più generali riferiti al territorio di compe- tenza della sua struttura di appartenenza. Il dirigente che fa capo all’Amministra- zione centrale sarà infine interessato a conoscere dati aggregati a livello nazionale ed eventualmente riferiti a periodi medio-lunghi di attuazione della politica di cui è responsabile (dati di trend). 1.3. Sistema informativo e indicatori Una delle finalità più comuni di un sistema informativo è quella di costruire un sistema di indicatori in relazione alle specifiche esigenze conoscitive degli attori interessati. Si intende qui, per indicatore, un’elaborazione elementare di dati che produca un accrescimento conoscitivo: “un indicatore produce un’informazione quantificata per aiutare gli attori dell’intervento pubblico a comunicare, negoziare o decidere […]” e più in particolare “un indicatore fornisce un’informazione numerica su un elemento considerato pertinente per il monitoraggio o la valutazione di un pro- gramma” e dà “un’informazione semplice, facilmente comunicabile e compresa nello stesso modo da chi fornisce e chi utilizza l’informazione stessa”. La nozione di indicatore, inoltre, non rimanda a qualsivoglia dato statistico o altra informa- zione quantitativa, ma “si applica solamente ad una informazione che i responsa- bili del programma considerano pertinente e necessaria per aiutarli nelle loro de- cisioni, nelle loro negoziazioni o nelle loro comunicazioni…[corsivo nostro]”. Nel quadro del monitoraggio e della valutazione “gli indicatori più importanti sono [ov- viamente] quelli che fanno riferimento ai criteri di riuscita del programma” (C.E., 1999, 17; Tavistock Institute, 2003, 127). 2. Il sistema informativo: attori, flussi informativi e usi dell’informazione Per la definizione, la strutturazione e implementazione di un sistema informa- tivo è opportuno tenere in conto di alcuni fattori cruciali. In primo luogo gli attori del sistema, ossia i soggetti, istituzionali o meno, che concorrono ad alimentarlo, producendo le informazioni di base, ovvero strutturan- dole ed elaborandole secondo criteri legati al loro utilizzo. Tali attori possono con- figurarsi prevalentemente come utenti del sistema o come produttori dei dati; vanno quindi considerati sia gli usi possibili dei dati, sia i vincoli di varia natura (normativa, tecnica, ecc.) che si pongono al sistema (es. tutela della privacy, moda- lità di costruzione e gestione dei sistemi di trattamento delle informazioni, caratte- ristiche dei flussi e degli archivi, ecc.). 64 Nel caso in questione si deve tener conto del fatto che, a livello istituzionale, ci sono diversi soggetti, dotati di norma di un grado più o meno elevato di autonomia, cui sono connesse finalità in parte diverse e in parte sovrapposte o concorrenti, quali risultano dalle normative vigenti e dalla più generale architettura istituzionale del sistema. Tali soggetti hanno responsabilità diverse in ordine all’alimentazione del si- stema e interessi diversi rispetto all’utilizzo delle informazioni che esso contiene. In termini più specifici, dal punto di vista verticale, si possono identificare i se- guenti livelli: a) nazionale, finalizzato sia alla produzione di dati affidabili per la programma- zione, gestione e valutazione del sistema ai diversi livelli territoriali, sia alla disponibilità di dati di sintesi per il governo del sistema a livello nazionale e per effettuare comparazioni internazionali; b) regionale, con finalità analoghe al livello nazionale, ma rapportate alle speci- fiche competenze delle Regioni e al loro livello territoriale; c) provinciale, come sopra, anche in relazione all’ampiezza dei trasferimenti di competenze regionali (si pensi ad esempio al ruolo strategico dei centri per l’impiego); d) comunale, interessato alla garanzia del godimento effettivo del diritto allo studio, ma anche referente privilegiato per la costruzione di un’anagrafe com- prensiva di tutti i giovani che rientrano nella fascia di età prevista dal diritto- dovere di istruzione e formazione; e) di singolo istituto, sede formativa o altro soggetto del sistema formativo e di istruzione, interessato a dati che permettano una corretta programmazione degli interventi, gestione dell’utenza, valutazione dei risultati, comparazione con realtà analoghe in una logica di benchmarking. Inoltre, tali soggetti non sono strutturati in forma gerarchica, ma piuttosto ac- comunati da finalità convergenti ma non coincidenti e dotati di autonomia istituzio- nale e statutaria (Regioni, Province), ovvero riconosciuta dalle norme (istituti sco- lastici e altri Enti); è anche per questa ragione – oltre che per una considerazione realistica di quella che è stata la “storia” dell’implementazione delle anagrafi – che pare opportuno fare riferimento ad un modello di sistema informativo “federato”. Ad ognuno dei livelli sopra detti corrispondono peraltro diritti e legittimi interes- si dei cittadini, in particolare dei giovani e delle loro famiglie, al fine, a livello di sin- golo istituto, di godere dell’effettiva esigibilità del diritto-dovere di istruzione e for- mazione e, a livello territoriale decentrato, di conoscere le opportunità formative che consentano di effettuare una scelta responsabile in ordine al futuro dei giovani stessi. Ai livelli territoriali superiori, cittadini e imprese, attraverso le loro rappresentan- ze, debbono poi poter effettuare valutazioni in ordine allo stato effettivo di realizzazio- ne del diritto-dovere all’istruzione e formazione e poter intervenire nei modi appro- priati per migliorare i servizi ed assicurare la loro congruità rispetto ai loro bisogni. 65 Sullo sfondo resta poi l’esigenza prioritaria di conoscere il grado effettivo di attuazione del diritto-dovere di istruzione e formazione, nonché gli indirizzi entro i quali tale diritto viene esercitato, ovvero l’ammontare, la distribuzione territoriale e sociale dei drop-out, per contrastare la dispersione e la conseguente esclusione so- ciale, programmando di conseguenza gli interventi. Va anzi osservato che il dato quantitativo, nella sua distribuzione per territorio e fasce sociali, si traduce anche in dato qualitativo, in quanto il superamento o meno di certe soglie e l’esistenza di de- terminate concentrazioni territoriali (o di gruppi sociali particolari) può suggerire interventi di carattere diverso. Ad esempio, una dispersione quantitativamente mo- desta può essere fronteggiata con un potenziamento dei servizi di orientamento e di sostegno agli utenti, mentre una dispersione grave può richiedere l’attivazione di interventi e percorsi specifici. Del pari, una costante influenza dell’origine sociale sulle scelte formative può rivelare la persistenza di una segmentazione per classe sociale piuttosto che per attitudini e vocazioni dei diversi percorsi di istruzione e formazione. In linea generale un sistema informativo deve tener conto degli interessi di cui sono portatori i singoli attori, al fine di strutturare la produzione e l’impiego dei dati secondo le loro esigenze e a partire dalla titolarità delle informazioni stesse, in modo che tutti siano interessati a cooperare non solo alla produzione dei dati, ma anche alla loro qualità e alla loro utilizzabilità per l’assolvimento delle diverse esi- genze di cui sono portatori. Normalmente si reputa che la produzione, elaborazione e uso dei dati debbano avvenire al livello più appropriato di un sistema; quindi il livello dei Comuni e degli istituti e delle sedi formative costituisce il livello di base, al quale va prestata la massima attenzione al fine di ottenere dati attendibili e utilizzabili per le scelte degli utenti. Al tempo stesso, il livello provinciale e quello regionale sono i primi livelli di programmazione e governo più generale del sistema che sono anche dotati di poteri/doveri di coordinamento e di governo dei sistemi informativi, anche perché possono e debbono emanare norme direttive e provvedimenti per assicu- rarne il funzionamento e debbono garantire risorse perché questo accada. Inoltre, un certo livello di ridondanza assicura l’efficienza del sistema, quindi Comuni e Regioni, come dimostrano i casi di buone pratiche analizzati nel seguito, possono produrre una ridondanza informativa che, attraverso la comparazione delle basi di dati, permette di evidenziare l’esistenza di soggetti esclusi dai circuiti formativi. Nello specifico, gli studi di caso condotti mostrano ruoli diversi delle anagrafi comunali e delle anagrafi sanitarie regionali nel costruire l’anagrafe dei giovani in- teressati al diritto-dovere: questo è un tipico esempio di ridondanza del sistema, che permette di utilizzare basi di dati diverse residenti a livelli territoriali e di go- verno diversi, in ragione di un criterio di completezza dei dati e tempestività degli aggiornamenti. Le osservazioni di cui sopra vanno poi coordinate con l’architettura istituzio- nale del sistema e con il rispetto di una serie di vincoli normativi che possono in- 66 fluenzare le scelte tecniche e le possibilità di utilizzo dei dati lasciate aperte dalla configurazione astratta del sistema. Il sistema attivato dal Ministero può ad esempio costituire un buon punto di partenza, assumendo che questo possa essere integrato e utilizzato a livello regio- nale o provinciale, in relazione anche al modo in cui questa competenza è stata dalle Regioni trasferita in tutto o in parte alle Province. Un buon modo per ragionare sul sistema informativo è dunque quello di raffron- tare il modello di produzione dei dati conseguente all’architettura istituzionale del si- stema e alla dinamica reale dei flussi informativi con gli utilizzi possibili dei dati da parte dei diversi attori significativi, incrociando poi i risultati di questa analisi con le esperienze di buone pratiche descritte nel testo, in modo da proporre un modello pra- ticabile che permetta il conseguimento degli obiettivi generali del lavoro. La pluralità di attori e la pluralità dei produttori e degli utilizzatori dei dati, unita alla sovrapposizione fra questi (diversi soggetti producono lo stesso dato e di- versi utenti ne fanno impieghi analoghi) e al principio di sussidiarietà orizzontale e verticale, rendono impossibile e inutile proporre un unico modello ottimale, quindi sarà cura degli autori cercare di definire dei percorsi e dei modelli preferibili ad altri sotto certe condizioni, evidenziando peraltro le alternative più interessanti o più agevoli da realizzare ai diversi livelli e nelle diverse situazioni. Il principio di sussidiarietà, costituzionalmente riconosciuto, ha fatto sì, ad esempio, che in certi casi i dati degli istituti scolastici affluiscano alle Regioni at- traverso il Ministero, mentre in altri casi le Province fungono da collettore delle in- formazioni e in altri ancora sono mobilitati maggiormente i Comuni. 2.1. Gli attori del sistema informativo Come accennato sopra, il sistema informativo per il diritto-dovere all’istru- zione e alla formazione è caratterizzato dalla partecipazione di una pluralità di at- tori collocati a diversi livelli territoriali, peraltro non ordinati in modo gerarchico, in quanto ogni livello è dotato di autonomia istituzionale e statutaria (Regioni, Pro- vince), ovvero riconosciuta dalle norme (istituti scolastici e altri Enti). Nella tabella riportata di seguito tentiamo di enucleare quali sono gli attori coinvolti nel sistema informativo per il diritto-dovere e quale sia in particolare la posizione di ciascuno di tali soggetti rispetto all’alimentazione e/o alla fruizione del sistema. I diversi attori coinvolti alimentano il sistema informativo per quanto dipende dalla loro competenza istituzionale; ad ogni attore che alimenta il sistema informa- tivo, tuttavia, deve corrispondere un ritorno in termini di servizio; questo servizio, ovviamente, deve essere fornito sulla base del tipo di utilizzo che l’attore coinvolto può/vuole fare dell’informazione. Gli utilizzi dell’informazione sono legati agli attori a seconda delle loro compe- tenze e responsabilità istituzionali, in quanto ad ogni livello sono legati tipi di azione diversi che richiedono informazioni diverse; trattate ed aggregate in maniera diversa. 67 Ta be ll a 1 - A tt or i de l Si st em a In fo rm at iv o ai d iv er si l iv el li t er ri to ri al i: a li m en ta zi on e e fr ui zi on e de l si st em a in fo rm at iv o 5 Q ue st o ci p ar e un e le m en to f on da m en ta le s e il q ua dr o le gi sl at iv o e is ti tu zi on al e si i nd ir iz za a p ro m uo ve re l a pa rt ec ip az io ne d ei c it ta di ni n el la ge st io ne d el s is te m a pu bb lic o di is tr uz io ne e f or m az io ne . se gu e 68 6 L a sc el ta d el li ve llo p ro vi nc ia le c om e ba se d i r ac co lta e m an ut en zi on e de i d at i è d a co ns id er ar si o pp or tu na n ei c as i i n cu i l a R eg io ne a bb ia d el eg at o al le P ro vi nc e le p ro pr ie c om pe te nz e su l d ir itt o al lo s tu di o, f or m az io ne p ro fe ss io na le e d ap pr en di st at o; le P ro vi nc e po ss on o in fa tt i s vo lg er e az io ne d i c oo r- di na m en to d ei C om un i e co nt ro lla no i C en tr i pe r l’ im pi eg o ch e fo rn is co no i d at i re la ti vi a i gi ov an i ch e se gu on o i ca na li d el la f or m az io ne p ro fe ss io na le e de ll ’a pp re nd is ta to . L ’a rt ic ol az io ne p ro vi nc ia le , i no lt re , r is pe tt o a qu el la r eg io na le , c on se nt e di c on tr ol la re l a co m pl et ez za e l a qu al it à de i da ti r ac co lt i co n m ag gi or e ff ic ac ia e d i av er e qu in di u na b an ca d at i al im en ta ta c on c on ti nu it à e co n in fo rm az io ni c or re tt e, c om pl et e e st an da rd iz za te . I l li ve ll o pr ov in ci al e, in fi ne , p ar e pi ù ad eg ua to d i qu el lo r eg io na le p er p ot er o ff ri re s er vi zi a de gu at i ai b is og ni i nf or m at iv i de ll a m ol te pl ic it à di s og ge tt i ch ia m at i ad o pe ra re n el - l’ is tr uz io ne , n el la f or m az io ne p ro fe ss io na le e n el l’ ap pr en di st at o e so st en er e co sì le is ti tu zi on i p ub bl ic he e p ri va te c he o pe ra no a li ve ll o lo ca le . se gu e se gu e 69 se gu e 70 2.2. Gli usi dell’informazione La tabella riportata di seguito evidenzia che ogni “stakeholder” interno al si- stema di istruzione e formazione è interessato, ai diversi livelli territoriali, a utilizzi diversi delle informazioni relative alla frequenza, alle iscrizioni, agli abbandoni e ai passaggi tra diversi soggetti del sistema di istruzione e formazione, agli esiti occu- pazionali e formativi alla conclusione di ogni ciclo formativo. L’organizzazione di un sistema informativo deve tenere conto dei potenziali usi da parte di ogni soggetto, perché solo in questo modo è possibile avere, da un lato, la massima cooperazione da parte dei soggetti implicati nella costruzione dei dati alla tempestiva ed efficace produzione degli stessi, e, dall’altro, avere la mas- sima ricaduta di utilizzo del sistema, che evidentemente concorre a giustificare il costo della realizzazione e manutenzione dello stesso. Quale premessa fondamentale ad una riflessione sugli usi dell’informazione restituita dal Sistema Informativo è bene tenere presente che ci sono tre dimensioni principali di interesse dei diversi attori coinvolti corrispondenti alle direzioni possi- bili di lettura della “matrice dei dati”: a) una dimensione “orizzontale”, relativa cioè al progetto scolastico e formativo di ciascun ragazzo e della famiglia da cui esso proviene (singolo “record” ov- vero “riga della matrice”): - questa dimensione è di fondamentale interesse in primo luogo proprio per il ragazzo e la sua famiglia di origine: le tecnologie attuali rendono possibile e forse anche auspicabile un controllo/monitoraggio diretto dell’andamento della carriera scolastica dello studente da parte dei suoi genitori, che potreb- bero in tal modo essere tempestivamente messi al corrente del successo/in- successo scolastico del figlio e quindi attivarsi anche in prima persona per trovare direttamente delle risposte adeguate al problema o per lo meno con- cordare con il corpo docente una strategia comune d’intervento; - la stessa “dimensione orizzontale” interessa ovviamente dall’altro lato l’isti- tuto scolastico/la sede formativa, che in tal modo potrebbe facilmente co- struire una reportistica relativa all’andamento dell’attività didattica sia rispet- to al singolo studente/allievo, sia rispetto all’insieme dei ragazzi. A questo li- vello “micro” non sarebbe poi così difficile realizzare il sistema informativo7; b) una dimensione “verticale”, relativa cioè al successo scolastico e formativo, o, di contro, alla dispersione, dei giovani soggetti al diritto-dovere in un determi- nato contesto (lettura delle “colonne della matrice” ovvero distribuzione della popolazione di riferimento tra le diverse modalità della/delle variabili di inte- resse dell’attore coinvolto). Questa dimensione “verticale” è di interesse degli 7 Sarebbe sufficiente un PC collegato in rete su ciascuna cattedra in cui vengano imputati diretta- mente i dati relativi alle presenze / assenze degli studenti e i giudizi riportati per ogni prova valutata dal docente. 71 attori del sistema di istruzione e formazione a tutti i livelli, con ovvie distin- zioni legate all’ambito territoriale di competenza istituzionale degli stessi; c) infine, una dimensione “trasversale”, di lettura dei dati individuali o variamente raggruppati (a livello di classe, di Istituto o sede formativa, di area territoriale, di tipo di studente), per conoscere l’evoluzione nel tempo dei fenomeni analiz- zati e valutare l’impatto delle politiche attuate ai diversi livelli (misure contro la dispersione rivolte a categorie particolari o attuate in alcuni Istituti o sedi, inter- venti sviluppati a livello provinciale o regionale, riforme introdotte a livello na- zionale…). Questa dimensione potrebbe rivelarsi, una volta avviato a regime il sistema informativo, la più rilevante per finalità valutative e programmatorie. Tabella 2 - Utenti, dati e livello dei dati, utilizzo dell’informazione (*) pur se dotati di poteri e competenze diverse, gli Enti elettivi e gli organi decentrati del Ministero sono considerati congiunta- mente per livello territoriale di pertinenza. 72 Nella tabella si sottolineano in particolare, rispetto agli utilizzi più scontati, quali quelli di programmazione e finanziamento delle attività da parte delle Istitu- zioni preposte (Province, Regioni, Stato), quelli che interessano gli Istituti o sedi formative, le famiglie, gli operatori economici ai vari livelli territoriali, i servizi so- ciali e di orientamento e, più in generale, i servizi di politica attiva del lavoro di li- vello regionale o provinciale. L’autonomia degli Istituti scolastici richiede infatti che questi sappiano pren- dere in carico la gestione delle relazioni con gli allievi e con le loro famiglie in chiave sia di programmazione formativa e di rapporti con il territorio, sia di con- trollo e prevenzione degli abbandoni. Occorre quindi che sappiano utilizzare le in- formazioni relative alle frequenze degli allievi, ai passaggi a o da altro istituto o soggetto formativo, alle bocciature, ripetenze e abbandoni per poter riconfigurare in modo dinamico l’offerta formativa e per poter contrastare il disagio scolastico, combatterlo tempestivamente attivando i servizi sociali del territorio, concorrere alla definizione di misure atte a rimediare all’abbandono, una volta verificatosi, collaborando con gli altri soggetti del sistema provinciale di istruzione e forma- zione, partecipare in modo più consapevole alla progettazione dei corsi sperimen- tali triennali di istruzione e formazione o alle iniziative in alternanza scuola lavoro. Anche il mondo della formazione, chiamato spesso ad intervenire per rimediare al- meno in parte ai problemi nati nei percorsi scolastici tradizionali, non può che trarre giovamento da una conoscenza più approfondita e tempestiva del fenomeno degli abbandoni, per meglio programmare i propri interventi. D’altro lato, anche le famiglie possono usare queste informazioni sia in chiave preventiva, di orientamento delle scelte scolastiche dei loro figli, sia di monito- raggio della loro frequenza, nella prospettiva di relazioni più strette ed efficaci con la scuola, soprattutto nei casi maggiormente problematici. Un altro utilizzo che di norma non viene adeguatamente considerato riguarda la connessione tra i dati del sistema informativo scolastico e la programmazione dei servizi sociali e delle politiche attive del lavoro, a livello regionale e provin- ciale, nonché con l’attivazione di specifici servizi sociali necessari per far fronte ai casi di maggiore difficoltà. Basti pensare alla crescente presenza di studenti stra- nieri nelle varie filiere formative, messa in luce da tutte le ricerche in argomento (cfr. da ultimo, Fondazione ISMU, 2007). In linea generale i dati relativi alla dis- tribuzione, territoriale e per filiera formativa, degli abbandoni e dei casi a rischio di abbandono o dei casi di evasione dell’obbligo scolastico sono necessari per strutturare politiche mirate di prevenzione, orientamento, inserimento lavorativo o formativo nella fase di assolvimento dell’obbligo. Allo stesso titolo questi dati, a livello locale, sono necessari per attivare specifici interventi integrati, in accordo con i Comuni o con le associazioni di terzo settore che operano in questi campi. Questi dati possono essere anche inclusi in Osservatori sul disagio sociale (di norma la frequenza scolastica, gli abbandoni, le ripetenze, sono ad un tempo sin- tomo e concausa del disagio sociale e prodromi dell’esclusione sociale) o in una 73 specifica partizione di Osservatori scolastici regionali o provinciali e la tempesti- vità e completezza dei dati è sicuramente funzionale ad un efficace utilizzo dei dati degli Osservatori. Da ultimo, nel campo degli utilizzi meno evidenti dei dati del sistema, va con- siderato quello che possono farne gli operatori economici a livello locale e regio- nale, sia per concorrere alla programmazione degli interventi in modo più infor- mato e consapevole, sia per attivare specifici interventi di alternanza scuola la- voro, di inserimento lavorativo di apprendisti, di promozione di stage professiona- lizzanti. Parte II LO STATO DELL’ARTE DEL SISTEMA INFORMATIVO PER IL DIRITTO-DOVERE ALL’ISTRUZIONE E ALLA FORMAZIONE 77 Capitolo 3 L’implementazione del sistema informativo per il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione: rete nazionale ed esperienze locali Domenico SUGAMIELE - Claudio TORRIGIANI1 1. Il governo territoriale del sistema: evoluzione e nodi critici Il presente capitolo intende presentare le linee generali dello stato dell’arte e del processo evolutivo delle anagrafi nel quadro delle esperienze nazionali in corso e, in particolare, l’analisi di alcune realtà regionali: Emilia Romagna, Li- guria e Toscana. Si tratta di tre di realtà che, come emerge dai Rapporti di monito- raggio sull’obbligo formativo condotti dall’ISFOL, sono considerate all’avan- guardia rispetto alla tematica delle anagrafi nel panorama nazionale e che presen- tano un’evoluzione del processo di integrazione istituzionale che ha attraversato le problematiche tipiche di questo tipo di sistema e che può essere di aiuto per com- prendere quali siano le criticità nell’implementazione di una rete nazionale e le possibili soluzioni. Nello specifico si è cercato di indagare lo stato di avanzamento delle anagrafi e dell’implementazione dei sistemi informativi regionali al fine di individuare mo- delli che possano essere ripresi in ambito nazionale per la realizzazione degli obiet- tivi posti dalla recente legislazione sul diritto-dovere che prevede la costituzione delle anagrafi regionali e nazionali di tutti i giovani fino al diciottesimo anno di età. La scelta delle Regioni e delle Province di indagine è stata attenta a individuare le realtà territoriali che si prestano a modelli di integrazione istituzionale sistemica e di sviluppo di governance territoriale e non risponde a giudizi di valore rispetto ad altre realtà. La scelta della Toscana è stata dettata dalla particolare organizzazione incen- trata sugli Osservatori scolastici provinciali (OSP). Organizzazione che è antece- dente alla stessa normativa sull’obbligo formativo e che è il frutto dall’iniziativa spontanea della Provincia di Pisa. Parimenti la scelta della Regione Liguria si è ba- sata sul fatto che la spinta alla strutturazione della base dati regionale è stata gene- rata da una realtà provinciale, la Provincia di Genova. La scelta della Regione Emilia Romagna è stata operata perché rappresenta un modello avanzato di ana- 1 I paragrafi 1 e 3 sono stati redatti da D. Sugamiele, il paragrafo 2 da C. Torrigiani. 78 grafe regionale che si è sviluppato in corrispondenza di una legislazione regionale (unico caso in Italia) che ha interessato tutto il sistema educativo, di istruzione e formazione. Si è voluto focalizzare l’attenzione su due modelli che pur presentando caratteristiche simili si differenziano per le modalità di costruzione e implementa- zione: una, quella Toscana e della Liguria, costruita a partire dalle realtà provinciali e l’altra, quella Emiliana, costruita su base regionale e strutturata, comunque, come un sistema di governance territoriale imperniato sul livello provinciale. Nelle analisi delle realtà regionali e provinciali si è posta l’attenzione sui nodi quali: la struttura del sistema informativo e della banca dati; la mappa dei flussi dell’anagrafe; il modello di responsabilità e di servizio. Gli studi di caso intendono fornire, senza esprimere giudizi di valore, elementi di analisi per individuare le po- sitività ma anche le criticità dei sistemi informativi regionali. Criticità che possono derivare anche dallo sviluppo del Sistema informativo del Ministero dell’istruzione che, come accennato nel capitolo 2, si sta modificando nell’ottica di un sistema aperto e “federato”. 1.1. I nodi problematici dell’integrazione istituzionale Per un’analisi comparativa dello stato di avanzamento delle anagrafi sull’ob- bligo formativo e sui fattori che ne hanno consentito l’implementazione nelle sin- gole Regioni si può fare riferimento ai rapporti di monitoraggio dell’obbligo for- mativo realizzati dall’ISFOL. In particolare, il paragrafo successivo, Lo stato di avanzamento delle anagrafi, rielabora quanto desunto dal Sesto rapporto di moni- toraggio del giugno 2006 (ISFOL, 2006). Dall’analisi dei rapporti di monitoraggio e dalle rilevazioni fatte nelle realtà oggetto di specifica indagine sono emerse le difficoltà che hanno avuto i sistemi re- gionali nell’implementazione delle politiche dell’obbligo formativo/diritto-dovere. Difficoltà indotte sia dal quadro legislativo in continua evoluzione sia dalla fatica di molte istituzioni locali a sviluppare azioni nelle zone di “confine” tra istruzione e formazione professionale. E ciò appare causato anche dal gravoso impegno nel campo del sistema scolastico e formativo a cui sono state chiamate le amministra- zioni locali con il processo di delega di competenze. I nodi critici che hanno frenato l’azione delle Regioni e che in alcune realtà re- gionali non sono ancora completamente sciolti possono essere circoscrivibili in: – problemi legati all’aumento e allo sviluppo del grado di integrazione interisti- tuzionale a livello locale e non solo e del dialogo tra Regioni, Province, Organi decentrati del Ministero dell’istruzione, nuovi Servizi per l’Impiego, ecc.; – costruzione delle anagrafi regionali dei giovani in obbligo e la creazione di flussi informativi stabili tra il sistema regionale e il sistema dell’istruzione; – riqualificazione funzionale dei Centri per l’Impiego (CPI) necessaria all’acco- glimento dei nuovi compiti di informazione, orientamento e tutorato diretti al- l’utenza; 79 – riqualificazione e ripensamento profondo delle caratteristiche e della qualità della formazione di base per l’assolvimento dell’obbligo; – problematiche relative alla formazione aggiuntiva per gli apprendisti in ob- bligo. L’integrazione istituzionale si è sviluppata in modo significativo nel Centro Nord (nelle Regioni dove si è avviato subito il processo di decentramento alle Pro- vince) con la creazione di Cabine di regia e di Gruppi di lavoro interistituzionali che, a fianco delle problematiche sulle anagrafi, hanno visto un attivo coinvolgi- mento delle amministrazioni provinciali nella organizzazione dei CPI. Le Regioni che hanno prima sviluppato il dialogo istituzionale hanno tratto vantaggio sia nell’organizzazione delle anagrafi regionali per l’obbligo formativo sia nella creazione di reti informative intraregionali, che hanno messo in comunica- zione Regione, Province, CPI e Agenzie formative, Uffici scolastici regionali e pro- vinciali e istituzioni scolastiche. In questo senso è stata di rilevante importanza la soluzione individuata nel 2001 dal Ministero dell’Istruzione per la raccolta di dati presso le scuole, attraverso la rete Internet. Una soluzione che ha consentito la dif- fusione dei dati verso i sistemi regionali, ha favorito le amministrazioni regionali che non avevano organizzato forme di collegamento alternative con il sistema sco- lastico, ed ha consentito di razionalizzare il lavoro delle scuole da un lato e degli utilizzatori dei dati dall’altro. Per quanto riguarda, invece, i flussi informativi intraregionali e la costruzione delle anagrafi locali, ciascuna Regione si è organizzata in modo autonomo. Tuttavia, dai Rapporti annuali dell’ISFOL sembrano prevalere due modelli: uno caratterizza- to dalla creazione di un archivio centrale a livello regionale e uno caratterizzato dal- la creazione di archivi provinciali. In entrambi i casi il sistema è collegato con le banche dati del Ministero dell’Istruzione per il carico dei dati, con le Agenzie for- mative e le banche dati regionali dell’apprendistato per il controllo dei percorsi for- mativi dei giovani in diritto dovere, con il sistema dei CPI. Nella maggior parte del- le Regioni si opera il riscontro dei dati provenienti dal sistema scolastico con le ana- grafi comunali dei residenti e in alcuni casi si utilizzano le anagrafi sanitarie. Lo stato di avanzamento complessivo si caratterizza per una elevata disomoge- neità territoriale sia per la costruzione delle anagrafi sia per le attività della rete dei Centri per l’impiego. Le Regioni del Sud sono in grande ritardo e il loro quadro in- formativo sulla riforma e sulle attività correlate, dalle azioni di orientamento alla stessa offerta formativa, risulta scarso e frammentario. 1.2. Il coordinamento dei sistemi regionali per l’obbligo formativo In questo processo di sviluppo di governance territoriale il ruolo dei CPI appare quello che più di tutti vada indagato per definirne meglio le funzioni e i ruoli. L’in- troduzione del diritto dovere fino ai 18 anni di età comporta la ridefinizione delle po- litiche dell’offerta formativa in modo da rendere, in prospettiva, sempre più residua- 80 le il ruolo dei CPI. Nelle realtà regionali più attive, le istituzioni scolastiche e forma- tive sono state chiamate, infatti, a rivedere i loro modelli organizzativi in termini di rete territoriale e, in questo senso, hanno sviluppato progetti interistituzionali, azioni e attività di orientamento nel territorio. Sono sempre più frequenti le attività di orien- tamento realizzate dalla rete delle istituzioni scolastiche e dai Centri di formazione professionale mirate a moduli formativi e target specifici, sviluppando al loro inter- no professionalità per funzioni di accoglienza, orientamento e tutoraggio. Negli ultimi anni si è registrato un consolidamento delle strutture di regia del- l’attuazione del diritto-dovere nel governo del sistema e un progresso nelle moda- lità di collaborazione territoriale nelle Regioni che già avevano consolidato forme di coordinamento. Mentre, nelle Regioni dove il processo di decentramento è in ri- tardo si registra una preoccupante impasse nelle modalità di collaborazione e, con- seguentemente nella realizzazione della riforma. Insomma, nelle Regioni dove i processi di delega alle Province sono avvenute in ritardo o sono rimaste allo stato iniziale si registrano le maggiori lentezze e sono evidenti le difficoltà del dialogo istituzionale. Nelle Regioni del primo gruppo è interessante osservare come il processo di coordinamento dei flussi di comunicazione e delle attività abbia dato luogo a forme di cooperazione di più servizi e istituzioni per lo svolgimento di azioni specifiche, siano esse di monitoraggio, di definizione di standard e della certificazione, oppure di sensibilizzazione ed informazione degli operatori. Così come appare interessante notare che, nelle Regioni del Nord e in alcune del Centro, esistono livelli di colla- borazione ed iniziative volte a creare nuovi servizi integrati, a partire da quelli esi- stenti, favorendo il processo di scambio di competenze degli operatori, sia a livello regionale, che provinciale, per giungere a ridefinire i confini dei singoli servizi e a creare staff integrati che presidiano tutto il ciclo di programmazione e monito- raggio dell’offerta formativa. Ne sono un esempio il modello degli Osservatori sco- lastici provinciali della Toscana. Questi processi appaiono strettamente legati alla diffusione dell’attribuzione della delega alle Province che ha spostato le responsabilità attinenti la programma- zione e la gestione dell’offerta formativa e ha favorito il coordinamento delle atti- vità e l’organizzazione delle anagrafi. Tab. 1 - Responsabilità operative attribuite alle Province per ripartizione territoriale. Valori %. Fonte: dati ISFOL 2005 81 Dal sesto Rapporto ISFOL 2006 sull’obbligo formativo emerge che nelle Re- gioni del Centro si è operato il massimo trasferimento di responsabilità alle Pro- vince riguardante la gestione dell’offerta formativa, il monitoraggio, la gestione dell’apprendistato e dell’anagrafe mentre nelle Regioni del Sud si realizza il mas- simo della centralizzazione delle competenze a livello regionale. 2. L’evoluzione delle anagrafi nel quadro nazionale2 La realizzazione delle anagrafi dei giovani in obbligo formativo risulta cen- trale rispetto all’implementazione di un sistema informativo per il diritto-dovere alla istruzione ed alla formazione. Se infatti, sul versante dell’azione pubblica in ri- sposta ai bisogni espressi dal contesto, l’offerta di istruzione e formazione e le azioni a contrasto della dispersione costituiscono il cuore del sistema, le anagrafi possono davvero essere considerate come il presupposto del suo funzionamento: senza data base completi ed aggiornati non può infatti esistere un modello effi- ciente di intervento volto al recupero dei giovani in obbligo, se si eccettuano realtà molto circoscritte, dove i contatti interistituzionali tra i soggetti possono sopperire alla mancanza di un disegno di sistema, ad esempio attraverso la segnalazione tem- pestiva degli abbandoni. 2.1. Lo stato di avanzamento delle anagrafi regionali Come si può osservare nella tabella 2, riportata sotto, le Regioni del Nord ap- paiono in grado di fornire informazioni pressoché complete sullo stato formativo dei giovani in obbligo, con l’unica eccezione del Friuli Venezia Giulia, che ancora non dispone di un sistema completo di anagrafe. Il Centro presenta situazioni diversificate, in quanto a fronte di un sistema completo della Toscana, e della presenza di data base abbastanza completi nelle Marche ed in Umbria – dove mancano alcune informazioni – il Lazio fornisce solo pochi dati. Al Sud infine solo il Molise fornisce al momento informazioni complete, mentre la Puglia possiede informazioni a livello regionale e la Campania dispone di dati completi solo per le Province di Avellino e Benevento. La Sardegna è in condi- zione di fornire i dati sui giovani a scuola e in formazione professionale e l’A- bruzzo trasmette i dati relativi ai giovani inseriti nei percorsi scolastici nelle diverse Province. 2 Il presente paragrafo riprende, rielaborandolo in forma sintetica, quanto desunto sullo stato di avanzamento delle anagrafi regionali e provinciali in ISFOL, Verso il successo formativo - Sesto Rap- porto di monitoraggio dell’obbligo formativo, Roma, 2006b, in http://www.isfol.it/BASIS/web/prod/ document/DDD/sfn_pub27.htm, (21.04.07). 82 Dalla lettura dei dati regionali emergono alcune considerazioni. – Sebbene prevalga il modello di anagrafe organizzata a livello provinciale, al- cune Regioni (Veneto, Molise, Sicilia) hanno scelto di gestire le informazioni a livello regionale, mentre altre (Toscana, Emilia Romagna, Marche, Liguria, e, in prospettiva Friuli Venezia Giulia, Abruzzo) prevedono la compresenza dei due sistemi (regionale e provinciale) considerando più funzionale il livello provinciale per acquisire e gestire i dati ma realizzando, al tempo stesso, una piattaforma regionale in grado di interfacciarsi con quelle provinciali. – Non esiste una equivalenza assoluta tra il possesso di un adeguato sistema di anagrafe e la capacità dell’Amministrazione regionale di fornire tutte le infor- mazioni necessarie al monitoraggio dei giovani (ad esempio Regioni quali la Sardegna o il Friuli Venezia Giulia, pur non disponendo di sistemi efficienti di anagrafe, risultano comunque in condizione di fornire alcune informazioni). D’altra parte la possibilità di attivare immediati interventi di recupero dei gio- vani fuoriusciti dai canali formativi è del tutto condizionata dal possesso di un sistema integrato ed efficiente di anagrafe in grado di informare tempestiva- mente sullo stato formativo di ciascun ragazzo. Appare quindi evidente l’esi- genza di un ulteriore sforzo delle Amministrazioni regionali per la costruzione Tab. 2 - Disponibilità di informazioni relative allo stato formativo dei giovani 14-17enni presso le anagrafi regionali Fonte: Rapporti regionali di monitoraggio. (1) = con alcune eccezioni (2) = solo per la Provincia di Perugina (3) = per alcune Province (4) = solo a livello regionale (5) = solo per Potenza 83 di sistemi di anagrafe, attività che non tutte le Regioni sembrano ancora perce- pire come prioritaria. – Negli ultimi anni alcune Amministrazioni hanno avviato progetti che potranno conseguire risultati nel prossimo periodo, come ad esempio nel caso della Re- gione Sicilia, che ha impegnato risorse significative su un progetto regionale di anagrafe dell’obbligo che costituisce un banco di prova della capacità di un si- stema regionale di governare e gestire un’anagrafe di grande mole e comples- sità quale quella siciliana che, tra l’altro, non poteva contare in partenza su una rete moderna ed efficiente di CPI come avviene per altre amministrazioni del Centro-Nord3. 2.2. Lo stato di avanzamento delle anagrafi provinciali L’indagine4 svolta dall’ISFOL con la collaborazione del CESOS sulle Province presenta alcuni elementi di interesse, soprattutto in considerazione del fatto che il livello provinciale è quello presso il quale negli ultimi anni si è registrata una con- sistente attivazione sul fronte della costruzione delle basi dati informative sull’u- tenza (2006a). Come si osserva nella tab. 3, riportata di seguito, la percentuale di Province in possesso di una anagrafe risulta superiore all’80% (64 casi). Gli scostamenti tra le quattro ripartizioni territoriali non sembrerebbero molto accentuati; è tuttavia pro- babile che, tra quelle che non hanno risposto, poche Province possiedano una ana- grafe; il Centro è l’area territoriale che registra il massimo sviluppo – quasi il 90% delle Province possiede l’anagrafe – il Nord è sopra la media nazionale mentre le Province del Sud si attestano al 70%. 3 Questo progetto prevede, oltre alle attività a carattere tecnico relative alla creazione dei data ba- se, numerose azioni di sensibilizzazione degli attori locali, attraverso seminari informativi presso tutte le Province, azioni di formazione degli operatori coinvolti nel progetto (ed in particolare la formazione dei dipendenti di tutti i Comuni siciliani che gestiscono i dati sui residenti, tramite formazione diretta e a distanza, con il coinvolgimento di 450 dipendenti degli Uffici comunali interessati), nonché un’atti- vità di assistenza tecnica al territorio che appare particolarmente rilevante se si considera la mole di operatori interessati in tutta la Regione. 4 I dati desunti da questa indagine non fanno riferimento a tutte le Province, ma solo alle 78 che hanno risposto al questionario. Tab. 3 - Presenza di un’anagrafe provinciale dei giovani in obbligo formativo per ripartizione territoriale - valori % Fonte: dati ISFOL 2005 84 La gestione di questa fondamentale infrastruttura è affidata nella maggior parte dei casi ad Assessorati ed uffici provinciali o a Società controllate dalla Provincia (50%) mentre nel 30% dei casi sono i CPI a occuparsene; per 12 casi su 70, infine, la gestione è riconducibile direttamente alla Regione o a Società strumentali pro- mosse dalle Regioni (cfr. tab. 4). Tab. 4 - Tipo di struttura che gestisce la banca dati dell’anagrafe provinciale dell’obbligo formativo* Fonte: dati ISFOL 2005 * 64 Province hanno fornito una sola risposta, 10 Province ne hanno fornite due Tab. 5 - Supporto utilizzato per la banca dati dell’anagrafe provinciale dell’obbligo formativo - valori % Fonte: dati ISFOL 2005 Per quanto riguarda poi il supporto tecnologico della banca dati dell’anagrafe dall’indagine risulta che esso è in larga parte informatizzato (64%); pochissimi sono i casi in cui viene utilizzato il solo materiale cartaceo (8%), mentre la gestione dei dati attraverso Internet riguarda per ora poco più di un quarto delle Province (28%), concentrate soprattutto nel Nord Ovest (cfr. tab. 5). Quest’ultimo dato risulta di estrema importanza: la collocazione sul Web delle anagrafi costituisce infatti una vera e propria “soglia tecnologica” che consente di promuovere l’interoperatività tra le istituzioni, cioè la possibilità, per la moltepli- cità di istituzioni coinvolte, di gestire in termini trasparenti ed in tempo reale pro- cessi decisionali ed operativi complessi. Indipendentemente dalla presenza di un’anagrafe finalizzata alla gestione del- l’obbligo formativo, è stato richiesto alle Province di valutare il grado di comple- tezza delle informazioni contenute nelle banche dati da loro gestite. Le tre dimen- sioni esplorate sono: 85 – la consistenza delle leve anagrafiche (intesa come informazioni relative alla quantità, sesso, nominativi, indirizzi, ecc. dei giovani in età di obbligo forma- tivo), – le scelte del percorso formativo, – lo stato formativo dei giovani. Le risposte si distribuiscono in maniera omogenea, evidenziando valori simili per le tre dimensioni. Le informazioni completamente mancanti costituiscono il 12%-15% dei casi esaminati; le informazioni parziali riguardano una quota com- presa nell’intervallo fra il 47% e il 57% delle risposte, infine, le informazioni com- plete riguardano una quota compresa fra il 30% e il 38% delle Province. La situazione prevalente è quindi costituita dalla presenza di informazioni par- ziali, dato che sembrerebbe connotare una situazione di lavori ancora in corso nella costruzione dei sistemi informativi. L’analisi territoriale mostra come il livello di maggiore completezza delle in- formazioni si rilevi presso le Province del Nord Est, seguite dal Centro, dove, come avevamo visto, si riscontra la più alta percentuale di sistemi di anagrafe. Prevale in- vece la situazione di informazioni mancanti soprattutto al Sud, particolarmente con riferimento al dato inerente lo stato formativo dei giovani. Un aspetto di particolare interesse è costituito dall’esame delle basi dati utiliz- zate per l’incrocio delle informazioni sullo stato formativo dei giovani. L’analisi evidenzia che, come prevedibile: tre quarti delle Province utilizzano le banche dati dei Centri per l’Impiego e delle scuole; a queste ultime vanno ag- giunte un 18% di Province che acquisiscono informazioni, evidentemente relative ai giovani a scuola, dai Centri Servizi Amministrativi. Oltre un terzo delle Province opera il confronto con le anagrafi comunali dei residenti. Meno del 4% utilizza le anagrafi sanitarie. Interessante il dato, seppure non alto, relativo all’utilizzo (6,4 su media nazionale) delle banche dati dei servizi sociali, che abbiamo altre volte indi- cato come un elemento che denota un buon livello qualitativo dei sistemi. 2.3. I modelli Per quanto attiene ai modelli di anagrafe quello che viene confermato prevede, a partire dalle basi dati comunali sui residenti, la sottrazione nominativa dei ragazzi che sono iscritti a scuola (dati forniti dalle scuole), in formazione professionale (dati forniti dalle agenzie formative) e di coloro che sono assunti con contratto di apprendistato (dati presenti presso i CPI). I nominativi rimasti risultano corrispon- dere a ragazzi fuori dai percorsi presso i quali si devono attivare le necessarie azioni di informazione, orientamento e tutorato a cura dei CPI competenti per terri- torio. Questo indipendentemente dall’accentramento provinciale o regionale dell’a- nagrafe. Laddove si sia costruita o si stia costruendo una anagrafe a livello regionale, esistono due possibilità: la prima è che l’anagrafe regionale integri le singole ana- 86 grafi provinciali, la seconda è che l’anagrafe si collochi esclusivamente a livello re- gionale. Nel primo caso, esiste l’esigenza di raccordare le basi dati provinciali a quelle regionali, processo che si pone anche in relazione alla recente evoluzione normativa, che prefigura uno scenario in cui le banche dati locali sono collegate al- l’anagrafe nazionale degli studenti. Un elemento significativo per valutare il ruolo delle anagrafi è la correlazione tra l’anagrafe e l’osservatorio scolastico provinciale. In alcuni casi l’anagrafe nasce da un humus preesistente costituito da una tradizionale attenzione al problema del- l’istruzione e della formazione: è questo, ad esempio, il caso della Toscana dove l’anagrafe nasce sul preesistente osservatorio scolastico. Viceversa, alcune Pro- vince che sono riuscite a costruire un sistema informativo efficace, si sono succes- sivamente attivate per dar vita, a fianco dell’anagrafe per l’obbligo formativo, ad un Osservatorio scolastico provinciale, come nel caso della Provincia di Genova. Inoltre, i dati da raccogliere e monitorare sono definiti normalmente da stan- dard regionali o provinciali. I sistemi più avanzati consentono di associare a questi dati ulteriori informazioni come nel caso in cui le anagrafi svolgano appunto anche la funzione di Osservatori Scolastici Provinciali (Toscana), oppure provvedono a registrare se un giovane disperso è preso in carico dai CPI per gli interventi perso- nalizzati necessari a ricondurlo in uno dei canali per l’assolvimento dell’obbligo (Genova). L’obiettivo ultimo deve essere, in sostanza, realizzare sistemi di anagrafe che permettano verifiche tempestive dello stato formativo di ciascun giovane. In tal senso solo un sistema che registri tutte le informazioni che lo riguardano (la sua storia, i suoi contatti con le istituzioni, quali scuole, CPI, Servizi sociali, provvedi- menti legati alla Giustizia minorile - nel rispetto della normativa sulla privacy) può davvero permettere a chi di dovere (a partire dai tutor dei CPI) di ricostruire la storia formativa e personale del giovane garantendo un intervento organico ed inte- grato con i diversi attori istituzionali che si sono occupati del singolo ragazzo. Il lavoro di trasformazione delle anagrafi regionali dell’obbligo formativo in anagrafi regionali degli studenti e la creazione di una anagrafe nazionale degli stu- denti che raccoglie ed integra tutte le basi dati regionali appare una lavoro estrema- mente complesso ed articolato rispetto al quale non è possibile prevedere tempi brevi, anche perché risente della grande varietà di avanzamenti delle anagrafi lo- cali. L’unica cosa certa è che si vuole portare a compimento tale impresa bisognerà prevedere una grande mole di attività non soltanto sul fronte tecnico, ma soprat- tutto su quello delle relazioni interistituzionali tra i numerosi soggetti coinvolti, prevedendo lo stanziamento di risorse umane in particolare sul fronte dell’assi- stenza tecnica agli attori del sistema. 2.4. Le caratteristiche del sistema: i dati quantitativi L’osservazione delle caratteristiche della popolazione che rappresenta il target di riferimento per il diritto-dovere evidenzia la presenza di quasi 2 milioni e 300 87 mila giovani fra i 14 ed i 17 anni suddivisi sostanzialmente a metà fra maschi (51,4%) e femmine (48,6%) ed equidistribuiti fra le quattro classi di età. Sensibilmente diversificata è invece la composizione percentuale per riparti- zione territoriale, che si caratterizza per una forte prevalenza di popolazione giova- nile residente nelle otto Regioni meridionali (44,6%) (cfr tab. 6). I dati disponibili permettono di mettere in luce una netta discrepanza fra i dati dell’ISTAT e quelli disponibili nei monitoraggi regionali: fra i primi ed i secondi, infatti, si è rilevata una differenza di oltre 850 mila giovani, pari a ad oltre il 37% della classe di giovani considerata. L’analisi per aree geografiche di riferimento evidenzia la estrema differenzia- zione delle diverse circoscrizioni territoriali: nel solo Centro-Sud si concentra l’83,3% dei dati mancanti, mentre, al contrario, nelle Regioni nord-occidentali la mancanza di informazioni riguarda solo il 5,2% dei giovani in età. In una posizioni intermedia si colloca il Nord Est, in cui la percentuale di gio- vani non censiti per quel che concerne lo stato formativo si attesta su un valore pari al 32,3%, dunque di poco inferiore a quello medio nazionale. Per avere tuttavia una dimensione più realistica e puntuale della presenza di in- formazioni occorre analizzare il dato a livello regionale. Sulla base dei dati ricevuti dalle singole Regioni e dal confronto di questi con i dati dell’ISTAT sulla popolazione, è possibile dividere le aree regionali in 5 fasce. Essi consentono di riunire, in gruppi sostanzialmente omogenei dal punto di vista statistico, le aree regionali, ma occorre comunque sottolineare che anche all’interno delle stesse tipologie coesistono situazioni che sono assai diversificate. È evidente come le lacune informative rendono difficile ricostruire il quadro d’insieme sulla condizione formativa dei giovani in obbligo formativo/diritto-do- vere ed appare anche chiaro come il conseguente livello di conoscenza, spesso vi- ziato e ridotto dalla mancanza di importanti informazioni, possa costituire un serio ostacolo alla programmazione di attività finalizzate all’accompagnamento dei gio- vani ed al loro successo formativo. Da questo punto di vista basta riferirsi al fatto che in 9 aree territoriali, cui fa riferimento il 39% della popolazione residente (pari a circa 900.000 giovani) in età di diritto-dovere, mancano le informazioni sui gio- vani fuori da tutti i percorsi, ovvero quelle informazioni che rappresentano una Tab. 6 - Composizione percentuale dei giovani di 14-17 anni, per ripartizione territoriale Fonte: Elaborazione su dati ISTAT 88 delle basi informative necessarie per lo svolgimento delle attività da parte dei Centri per l’impiego. Dal punto di vista della composizione complessiva dello stato formativo dei giovani, il quadro che emerge è quello di seguito riportato. La classe di età relativa al diritto-dovere risulta essere nell’assoluta maggioran- za all’interno dei percorsi scolastici (90,4%), mentre il restante 10% viene suddiviso fra coloro che sono iscritti alla formazione professionale (4,1%), che sono assunti con contratto di apprendistato (1,9%), o che sono fuori da tutti i percorsi (3,6%). È evidente che nella lettura di tale distribuzione dei dati bisogna tenere pre- sente che i valori sono riferiti solo ad una parte dei giovani, quelli cioè di cui, sulla base dei dati ricevuti, è certa la collocazione in una delle tipologie di condizione formativa. Essa, comunque, rispecchia certamente, per ordine di grandezza, la dis- tribuzione reale presente nel Paese. A tale proposito è opportuno ricordare che un’elaborazione dell’ISFOL (ISFOL, 2005b, 162), relativa tuttavia all’anno scola- stico e formativo 2003-04, stimava in circa il 92% i giovani a scuola, il 3,2% gli iscritti nella formazione professionale, il 2,0% i giovani assunti con contratto di ap- prendistato, il 2,8% quelli non inseriti in alcun percorso formativo. È inoltre interessante segnalare che lo stesso Rapporto ISFOL ha sottolineato che solo una percentuale estremamente limitata degli apprendisti in obbligo ha po- tuto svolgere le ore di formazione esterna all’azienda previste dalla normativa e, pertanto, se ai quasi 66.000 giovani che sono rimasti al di fuori dei canali della scuola e della formazione professionale si aggiungono gli apprendisti che non hanno ricevuto formazione esterna, il totale di coloro che sono rimasti fuori da per- corsi formativi ammonta a circa 100.000, pari al 4,5% dei giovani in obbligo. 3. Il nuovo sistema informativo del Ministero dell’Istruzione: il SIDI Scuola Il Sistema informativo del Ministero della Pubblica Istruzione (SIDI) ha subito negli ultimi dieci anni profondi cambiamenti che hanno accompagnato i processi di trasformazione del sistema scolastico sia dal punto di vista amministrativo che delle riforme ordinamentali. L’aggiornamento continuo delle tecnologie e dell’ar- chitettura sistemica è stato indirizzato al sostegno dei nuovi processi di gestione amministrativa e a sostenere le istituzioni scolastiche nei nuovi compiti derivanti dall’attribuzione dell’autonomia. Le scuole, infatti, sono chiamate quotidianamente a sviluppare interazioni con l’esterno per rispondere a nuove istanze istituzionali e sociali del territorio in cui operano, in un contesto che vede crescere l’iniziativa degli Enti locali e la domanda degli attori sociali. 3.1. L’evoluzione del sistema informativo Negli ultimi anni, per agevolare il profondo cambiamento istituzionale cui è stato soggetto il sistema scolastico, si è avviata una profonda trasformazione del Si- 89 stema informativo, tuttora in corso, che riguarda sia l’organizzazione che la strut- tura tecnologica. La strategia di cambiamento delineata nel 2003/04 si è concentrata sulla tra- sformazione del sistema informativo da sistema di ripartizione a sistema di governo e controllo. Essa punta a superare l’attuale organizzazione centralista, incentrata sulla gestione del personale, pianificata sull’unità classe e povera di indicatori di ri- sultato verso un’organizzazione che supporta l’autonomia, orientata alla misura del risultato, quantitativo e qualitativo, pianificata sulla centralità dell’alunno, realiz- zata in modo buttom-up e in cui le anagrafi rappresentano l’elemento di integra- zione sistemico con l’esterno e le altre Amministrazioni. Le linee generali di questa strategia sono state dettate dal nuovo modello di go- verno del sistema pubblico di istruzione nella prospettiva del federalismo e dei pro- cessi di governance territoriale che vedono un ruolo sempre più pregnante delle Regioni, degli Enti locali e delle stesse scuole autonome. Una trasformazione non ancora compiuta e il cui sviluppo appare frenato dai provvedimenti di centralizza- zione amministrativa approvati in questi ultimi mesi. La trasformazione consentirà di fornire una serie di servizi più efficaci ed effi- cienti per le scuole, i docenti, le famiglie e le amministrazioni locali. Il sistema SIDI Scuola si compone di 3 sotto-sistemi: la Gestione degli alunni che comprende la gestione del curricolo, del portfolio e dell’offerta formativa; la Gestione bilancio; la Gestione delle retribuzioni e del fisco. Il nuovo sistema, realizzato completamente in ambiente internet, prevede l’ac- cesso via Web da qualunque postazione di lavoro. L’architettura finale prevede fun- zioni di cooperazione applicativa che consentono alle istituzioni scolastiche di uti- lizzare altri prodotti, anche per particolari aree di intervento. In particolare, assume rilievo la possibilità di utilizzare software delle Regioni e degli Enti locali per im- plementare l’anagrafe degli studenti che diviene una base dati autonoma ancorché connessa al SIDI (cfr. fig. 4). Il SIDI prevede numerose funzioni che, ad esempio: – consentiranno ad ogni docente e dipendente amministrativo di accedere on-line al proprio fascicolo personale, di consultare ed aggiornare on-line i dati di pro- pria competenza, autenticando con la firma elettronica i vari atti (ad esempio le domande di inserimento in graduatoria); – permetteranno alle famiglie l’accesso ai piani dell’offerta formativa delle varie scuole o le iscrizioni on-line dei propri figli alla scuola secondaria di secondo grado; – consentiranno alle amministrazioni locali l’accesso al data warehouse e l’ali- mentazione e la consultazione dei dati anagrafici degli alunni del loro terri- torio, per controllare il fenomeno della dispersione scolastica. L’iter per la gestione dell’anno scolastico nelle segreterie scolastiche, in riferi- mento agli alunni, prevede essenzialmente quattro fasi. 90 La fase di inizializzazione dell’anno scolastico nella quale si definisce il com- plesso delle operazioni di apertura e, in particolare: la predisposizione dell’anagra- fica degli alunni e dei tutori-genitori; la programmazione dei piani di studio; la de- finizione degli orari delle lezioni e l’inserimento delle nuove iscrizioni. La fase di avvio vero e proprio dell’anno scolastico nella quale si definisce: la composizione delle classi dei nuovi iscritti; la composizione automatica delle classi dei frequentanti; le procedure di rettifica e di composizione puntuale delle classi; l’associazione classe-docente-materie e la definizione degli orari settimanali. La fase di controllo nel corso dell’anno che prevede la gestione: degli esoneri; delle assenze per classe e per alunno; dei trasferimenti ad altra scuola; delle valuta- zioni intermedie e parziali. La fase di fine anno scolastico che prevede la gestione delle valutazioni finali e degli esami di Stato. Inoltre, il Sistema consente alle segreterie di accedere ad un’altra serie di fun- zioni accessorie e dati comuni. In particolare, la gestione: dei documenti in entrata- uscita; delle sedi; dei contratti con i fornitori; degli organi collegiali; delle tasse, dei contributi e dei pagamenti. 3.2. L’anagrafe nazionale degli alunni L’anagrafe nazionale degli alunni rappresenta il punto di confluenza delle in- formazioni di tutta la popolazione scolastica, prevedendo flussi adeguati sia per le scuole che utilizzano il SIDI scuola, sia per quelle che utilizzano altri prodotti. Essa sarà alimentata in coerenza con le fasi significative dell’attività scolastica e il transito delle informazioni sarà sempre governato dalle singole istituzioni scola- stiche. L’anagrafe nazionale degli alunni nasce per rispondere alle esigenze di: – disporre di informazioni complete su tutta la vita scolastica degli studenti; – garantire la permanenza dei dati anagrafici dell’alunno durante tutto l’iter sco- lastico; – gestire con automatismi alcune operazioni (es. passaggio di ciclo e trasferi- menti); – controllare fenomeni complessi quali l’abbandono, la dispersione, gli esiti, ecc.; – verificare le iscrizioni e gestire adeguatamente le risorse (umane e finanziarie). A regime il flusso di alimentazione dell’anagrafe nazionale degli alunni per- verrà solo dal SIDI scuola, direttamente per le scuole che già lo utilizzano per la gestione o tramite l’uso di apposite procedure da parte delle Istituzioni scolastiche che utilizzano altri pacchetti. È previsto che partecipino alla composizione di questi flussi anche le scuole non statali a completamento del patrimonio informativo sulla popolazione scola- stica. 91 Fi g. 2 - S is te m a In fo rm at iv o de l M P I - SI D I Sc uo la - A rc hi te tt ur a fi na le Fo nt e: M PI -R T I: E D S E le ct ro ni c D at a Sy st em s– A us el da A E D G ro up - A cc en tu re - E ne l A P E 92 La base dati centrale dell’anagrafe nazionale degli alunni diventa fonte pri- maria del Sottosistema di Governo e Controllo. È possibile prevedere che il flusso con l’esterno sia bidirezionale, e quindi l’a- nagrafe possa essere arricchita con il patrimonio informativo degli Enti Locali. Nella prospettiva della costituzione del sistema delle anagrafi previsto dal D.lgs. 76/05 sul diritto dovere, il sistema SIDI consente che le anagrafi regionali alimen- tino direttamente l’anagrafe nazionale degli studenti con i dati raccolti presso le scuole. Fig. 3 - Cooperazione applicativa e porta di dominio Fonte: MPI-RTI: EDS Electronic Data Systems - Auselda AED Group - Accenture - Enel APE Fig. 4 - Il sistema di anagrafe nazionale: i flussi di alimentazione Fonte: MPI-RTI: EDS Electronic Data Systems - Auselda AED Group - Accenture - Enel APE Nell’ottica della “Cooperazione Applicativa” e per favorire la massima interoperabilità nel- l’ambito della pubblica amministrazione, l’uso delle opportune tecnologie (“Porta di domi- nio”) consente all’Anagrafe Nazionale degli Alunni di “aprirsi” alla comunicazione verso altre Amministrazioni ed Enti che utilizzano i da- ti del sistema scolastico. 93 Capitolo 4 Regione Emilia Romagna1 Domenico SUGAMIELE 1. L’Anagrafe Regionale Studenti L’Anagrafe Regionale degli Studenti della Regione Emilia Romagna ha se- guito un processo evolutivo indotto sia da specifiche politiche locali sia dal cam- biamento del quadro legislativo nazionale che, successivamente alle disposizioni dell’obbligo formativo, ha modificato gli ordinamenti scolastici e introdotto il di- ritto-dovere all’istruzione fino al 18° anno. La prima tappa della costruzione dell’anagrafe è stata avviata nel 2001 in base alla normativa dell’obbligo formativo. Essa è stata indirizzata prioritariamente allo sviluppo di intese istituzionali tra i soggetti a vario titolo coinvolti [CPI, Province, Centri servizio amministrativi del MPI (CSA), scuole, Comuni] nell’individuazione dei giovani in obbligo formativo nella fascia di età 15-17 anni. Intese che sono state finalizzate al coordinamento della programmazione delle attività dell’obbligo formativo, di competenza delle Province, e all’implementazione di linee di inter- vento per una efficace integrazione tra i sistemi. È stato costituito un Comitato di pilotaggio regionale, coordinato dal Servizio formazione professionale della Re- gione, composto dai rappresentanti dei diversi Servizi della Regione e dai referenti provinciali per l’attuazione dell’obbligo formativo. L’anagrafe dei giovani in ob- bligo formativo è stata implementata dal Sistema informativo della Direzione gene- rale regionale cultura, formazione e lavoro. Le Province hanno ricevuto piena delega sull’obbligo formativo e sono state sostenute nello sviluppo della collaborazione interistituzionale, soprattutto con i Centri servizi amministrativi (CSA), e nella cooperazione di lavoro tra i diversi at- tori. Ciò ha consentito di pervenire in breve tempo ad un buon livello di raccordo e integrazione tra i servizi delle amministrazioni regionale e provinciali (formazione professionale, scuola, lavoro, gestione sistemi informativi, servizi per l’impiego, ecc.) e tra questi e il tessuto economico locale. Questo processo è stato, in generale, 1 Il presente capitolo rielabora i contenuti emersi da un’intervista con il dott. Stefano Cremonini, Responsabile di progetto D.G. Cultura, Formazione e Lavoro Assessorato Scuola, Formazione, Uni- versità, Lavoro e Pari Opportunità Regione Emilia Romagna, e con la dott.ssa Silvia Mossini, respon- sabile della LTT - Laboratorio di Telematica per il Territorio S.r.l., nonché i materiali forniti dagli stessi. 94 sostenuto da accordi interistituzionali e tavoli di concertazione ed ha portato allo sviluppo di reti costituite tra i soggetti coinvolti nella realizzazione e nella gestione dell’anagrafe. 2. La prima implementazione dell’anagrafe La prima fase si è caratterizzata, da un lato, per una costante azione volta a ri- muovere i problemi legati alle relazioni tra istituzioni scolastiche e CPI e, dal- l’altro, dall’avvio di iniziative di formazione degli operatori e di sostegno all’inte- razione tra Province e CSA, favorendo anche iniziative spontanee e mirate, come nel caso delle attività avviate dalla Provincia di Bologna dove si è attivata la speri- mentazione di un osservatorio provinciale sulla scolarità. La delega alle Province sull’obbligo formativo ha consentito a queste di imple- mentare una propria banca dati e di farsi carico della raccolta dei dati con la predi- sposizione di banche dati provinciali. Le scuole comunicano ai CPI i dati degli alunni interessati secondo il tracciato definito con la circolare del Ministero dell’i- struzione n. 80 del 2001. La medesima circolare ha consentito alla Regione e alle Province l’accesso alla intranet del sistema informativo SISSI del Ministero e ciò ha permesso alla Regione di predisporre uno specifico software per il trasferimento dei dati da parte delle scuole. Le linee di intervento hanno avuto come focus il perseguimento di una gene- rale condivisione del processo di sviluppo delle attività formative, nella fascia di età 15-17 anni, attraverso l’adozione di strategie organizzative condivise e lo svi- luppo di azioni di monitoraggio sull’obbligo formativo messe in campo dalla Re- gione. Le Province sono state chiamate a sviluppare la collaborazione interistitu- zionale e modalità cooperative di lavoro che hanno portato ad accordi istituzionali con i locali CSA e hanno consentito un rapporto sempre più efficace con le istitu- zioni scolastiche. In alcune realtà provinciali (come a Parma e nella accennata esperienza di Bologna) si sono sviluppate iniziative di collaborazione che hanno consentito un buon livello di integrazione dei servizi e delle azioni mirate all’orien- tamento formativo con un approccio bottom-up. La necessità di capitalizzare e condurre all’interno del sistema informativo re- gionale (SIFP) le esperienze più significative ha portato la Regione a potenziare le azioni di monitoraggio dell’offerta formativa. Azioni volte a cogliere gli elementi caratterizzanti le politiche dell’obbligo formativo e a verificarne la congruità con le attività intraprese nei diversi contesti territoriali al fine di garantire la coerenza tra i bisogni dell’utenza e quelli del contesto socio-economico locale. Ciò ha compor- tato lo sviluppo di due linee di azione. La prima indirizzata al sostegno delle poli- tiche dell’offerta formativa con la realizzazione di un sistema di monitoraggio qua- litativo dei giovani in obbligo formativo, con particolare attenzione all’analisi dei percorsi, delle caratteristiche e delle aspettative degli utenti. La seconda volta al- 95 l’integrazione e all’ampliamento dell’anagrafe già esistente e alla creazione di un sistema reticolare di cui il sistema informativo regionale costituisce il nodo centrale di raccordo. In questa prima fase le scuole segnalavano ai CPI i giovani in età di obbligo formativo, e questi venivano integrati in un’unica banca dati che comprendeva anche i giovani iscritti alla formazione professionale e in apprendistato. I Servizi provinciali che coordinano i CPI sono stati collegati al sistema informativo regio- nale. Si avvia, in questo modo, la realizzazione dell’Anagrafe Regionale dell’Ob- bligo Formativo in capo al sistema informativo regionale che si occupa del sistema di controllo e valutazione, delle procedure e della infrastruttura informatica. Un si- stema che si concretizza nella costituzione di una rete istituzionale dell’orienta- mento che fa capo ai Servizi provinciali per l’impiego che, in collaborazione con le istituzioni scolastiche, attivano, in particolare: servizi di accoglienza e informa- zione; attività di orientamento (corsi, colloqui, bilanci di competenze, ...); gestione banche dati; servizi mirati per fasce di utenza disagiata; percorsi di alternanza scuola lavoro (Provincia di Bologna); percorsi di accoglienza e di orientamento (in molte Province – Reggio Emilia, Rimini, Ravenna – sono state realizzate speci- fiche iniziative di orientamento anche per i ragazzi della scuola media), ecc. 3. Dall’Anagrafe dell’Obbligo Formativo all’Anagrafe Regionale degli Studenti Come accennato, il percorso di sviluppo dell’Anagrafe degli Studenti ha se- guito diverse fasi. Inizialmente il sistema prevedeva, in coerenza con la normativa dell’obbligo formativo, due rilevazioni per anno che interessavano i giovani della fascia 15-17 anni. Nel 2003, la legge 53 di riforma degli ordinamenti e l’abroga- zione della legge 9/99 (che aveva innalzato l’obbligo scolastico al 15° anno), la legge 30 (Biagi) sul mercato del lavoro e l’introduzione di nuove forme di appren- distato, l’Accordo quadro Stato Regioni del 16 giugno 2003 sui percorsi triennali sperimentali, l’approvazione della legge regionale n. 12 del 30/06/03 hanno posto nuove prospettive di sviluppo del sistema educativo con il superamento della con- cezione dell’obbligo formativo e l’introduzione del diritto-dovere fino al 18° anno. L’approvazione della legge regionale n. 12 ha favorito un forte processo identi- tario delle politiche della formazione professionale della Regione che si è concre- tizzato sia sulla programmazione delle attività formative, con lo sviluppo dei per- corsi integrati, sia nella revisione del repertorio delle qualifiche e dei criteri di ac- creditamento. Un processo che ha indotto lo sviluppo di azioni di monitoraggio dell’attuazione dell’obbligo formativo e in particolare dei percorsi sperimentali in- tegrati. Il primo rapporto di monitoraggio ha interessato l’analisi quantitativa delle attività di formazione professionale per l’adempimento del diritto-dovere, se- 96 gnando una inversione di tendenza nella stessa terminologia. Anche se le azioni di orientamento fanno necessariamente riferimento alla legislazione sull’obbligo for- mativo (nel 2004/05 il D.lgs. sul diritto-dovere non era stato ancora approvato) esse introducono nuove prospettive legate agli obiettivi del diritto-dovere all’istruzione secondo cui la frequenza scolastica è legata al conseguimento di un titolo di studio quale, almeno, la qualifica professionale triennale e non al semplice “prosciogli- mento” dall’obbligo. Pur non volendo entrare nel merito delle valutazioni e dei risultati del monito- raggio, ai fini della presente ricerca preme sottolineare come l’iniziativa della Re- gione Emilia Romagna rappresenti un modello di riferimento per tutto il territorio nazionale. Essa consente di creare le basi per analisi qualitative dei percorsi af- finché le Regioni possano esercitare un proprio ruolo attivo di governance territo- riale. L’obiettivo dell’analisi era quello di fornire elementi di riflessione e di appro- fondimento delle azioni formative e di orientamento per il diritto-dovere. L’analisi qualitativa del monitoraggio è stata indirizzata sulla rilevazione della soddisfazione dell’utenza con l’obiettivo di: raccogliere indicazioni utili per la ri- programmazione dell’offerta formativa; disporre di informazioni sull’efficacia dei percorsi integrati; avviare iniziative di valutazione. Inoltre, la diffusione in tutte le realtà provinciali del sistema di rilevazione ha consentito alla Regione di avviare un ulteriore ampliamento della base dei soggetti in anagrafe, estendendola ai 14enni. Nel 2004 la Regione, con la delibera di Giunta n. 1948 del 6 ottobre, ha pro- grammato una seconda fase di sviluppo dell’anagrafe e del proprio sistema infor- mativo finalizzata al potenziamento degli strumenti conoscitivi sul fenomeno dis- persione, estendendo gradualmente le rilevazioni a tutto il percorso scolastico e tra- sformando l’anagrafe dell’obbligo formativo in anagrafe regionale degli studenti. La prospettiva della Regione è stata quella di sviluppare un sistema di anagrafe che fosse in grado di raccogliere i dati di tutti gli studenti interessati al diritto-dovere e rispondesse ai requisiti del D.lgs. 76/05. Prende corpo e si rafforza, in questo modo, un modello di governance che fa perno su un sistema policentrico in cui le Province rappresentano gli snodi territoriali principali e la Regione funge da Centro di supporto allo sviluppo delle iniziative provinciali. La delibera, anticipando l’articolo 3 del D.lgs. 76/05, prevede che “per consen- tire la valutazione complessiva del sistema, oltre che per disporre delle conoscenze indispensabili per la funzione di programmazione, è necessario approntare adeguati strumenti conoscitivi, a partire dall’anagrafe regionale degli studenti. A tal fine, l’a- nagrafe regionale per l’obbligo formativo – istituita ai sensi dell’art. 68 della legge 144/98 – viene trasformata in anagrafe regionale degli studenti, in grado di racco- gliere i dati più significativi relativi agli studenti dal primo anno di iscrizione al si- stema nazionale di istruzione (prima elementare) fino all’adempimento del diritto- dovere all’istruzione e alla formazione (entro il 18esimo anno di età)”. 97 Con tutta evidenza la delibera regionale cambia i riferimenti normativi e in- nova la stessa terminologia. L’anagrafe regionale degli studenti viene collocata nel più ampio contesto del sistema educativo, favorendo il processo di trasformazione del Centro regionale in Centro di servizio e snodo di supporto per gli altri soggetti istituzionali del territorio. Infatti, la delibera delinea le condizioni per individuare “le modalità per l’attivazione dell’anagrafe regionale, fondata su dispositivi di rac- cordo e di integrazione fra quanto disponibile a livello regionale e quanto attuato a livello provinciale (osservatori, servizi informativi, base dati, ecc.), nonché i criteri condivisi per la valutazione del sistema nel suo complesso”. Parallelamente si è sviluppato un intenso rapporto di collaborazione tra Re- gione e Ufficio scolastico regionale, sostenuto da specifiche intese, che ha favorito un continuo processo evolutivo del piano organizzativo, con la creazione di una rete stabile che fa riferimento al territorio provinciale, nonché lo sviluppo tecnolo- gico dell’anagrafe e del sistema informativo regionale. Oggi, all’interno del portale della Regione dedicato alla scuola (ScuolaEr) e al fine di dare attuazione alla legge regionale n. 12/03 ed al D.lgs. 76/05, è stato sviluppato uno specifico “Focus”, STUDenti In Anagrafe Regionale (STUD.I.A.RE), suddiviso in tre sezioni: ana- grafe degli studenti, anagrafe delle scuole, rilevazioni integrative. Il progetto si è posto prioritariamente gli obiettivi della semplificazione delle rilevazioni, del miglioramento della qualità dei dati sia per fornire strumenti di con- sultazione e interrogazione e di supporto e assistenza ai soggetti istituzionali inte- ressati, sia per realizzare azioni di formazione degli operatori e di informazione delle istituzioni e dei cittadini. 4. La creazione della piattaforma telematica Nella prospettiva dell’attuazione del diritto-dovere la Regione ha stipulato un’intesa con l’Ufficio scolastico regionale che ha consentito di estendere le rile- vazioni a tutti gli studenti della scuola secondaria, di primo e secondo grado e l’inserimento di una terza rilevazione da effettuare a settembre-ottobre. In questo senso, nel novembre del 2005 la Regione, per le rilevazioni dei dati anagrafici re- lativi all’anno 2006, ha avviato un’ulteriore fase di sviluppo del proprio sistema informativo che consente alle scuole di utilizzare procedure on-line per l’invio dei dati. Il passaggio delle rilevazioni in modalità on-line e l’ampliamento delle leve giovanili del sistema scolastico, statale e paritario, del sistema della formazione e dell’apprendistato ha comportato la revisione degli applicativi informatici, il poten- ziamento della rete e la predisposizione di uno specifico help-desk. L’avvio delle ri- levazioni telematiche ha consentito l’incrocio immediato delle banche dati anagra- fiche: scuola, formazione professionale, apprendistato e residenti. E ciò facilita no- tevolmente le azioni di controllo dei dispersi. 98 L’implementazione è stata assegnata ad un RTI di cui l’azienda capofila è il L.T.T. (Laboratorio di Telematica per il Territorio) S.r.l. L’RTI è incaricato di for- nire assistenza tecnica on-line e telefonica alle istituzioni scolastiche e ai referenti provinciali. Il progetto è stato realizzato in modalità ASP (Active Server Pages) e consente a tutte le scuole statali e non statali dell’Emilia Romagna di inviare i dati mediante procedure on-line: la scuola accede al sito http://anagrafestudenti.scuolaer.it per il login; una volta identificata, con codice utente e password, effettua l’upload di un file secondo il tracciato definito; la procedura fa una serie di controlli di con- gruenza (dati mancanti, codici fiscali incongruenti o dubbi, e visualizza i risultati in termini di numero di record acquisiti, record incompleti o errati). Viene data la pos- sibilità di effettuare la correzione on-line visualizzando in schermate successive i singoli record errati, con l’indicazione delle incongruenze rilevate e, se possibile, con la proposta di correzione. Il primo controllo dei dati avviene a livello provinciale: i referenti provinciali controllano, in tempo reale, anomalie, errori, duplicazioni rinvenibili nell’ambito provinciale effettuando anche il controllo con l’anagrafe dei residenti. Fig. 1 - Il sistema informativo dell’anagrafe e l’integrazione regionale 99 Si tratta della realizzazione di un sistema informativo che consente: – la costruzione di un’unica base di dati con un più ampio patrimonio di infor- mazioni sul sistema di istruzione e formazione regionale; – l’incrocio automatico dei vari data warehouse provinciali e l’importazione dei dati dalle anagrafi dell’apprendistato, della Formazione professionale e dalle anagrafiche comunali dei residenti; – l’interrogazione e l’esportazione dei dati, con possibilità di interrogazione (query) per rispondere alle diverse esigenze dei soggetti interessati [Regione, Province, Ufficio Scolastico Regionale (USR), Ufficio Scolastico Provinciale (USP), Istituzioni scolastiche, CPI, Centro di Formazione Professionale (CFP), ecc.]; – l’offerta di analisi, tabelle e dati di sintesi; – la costruzione di report analitici e sintetici (ricostruzione curriculum/percorsi formativi individuali e altre analisi delle informazioni possedute); – la predisposizione e la gestione di azioni sulla dispersione scolastica a livello provinciale. Come tutte le precedenti fasi anche questa è stata accompagnata da un intenso processo di formazione degli operatori delle segreterie di ciascuna scuola e delle Province. L’allargamento delle funzionalità del sistema ha consentito di semplificare, ve- locizzare e ampliare le rilevazioni provenienti dalle scuole e di migliorare la qualità e la “pulizia” dei dati raccolti. Nelle rilevazioni dell’anno 2006 l’ampliamento delle leve scolastiche ha portato ad interessare circa 610 scuole e 250.000 studenti. Le ri- levazioni hanno interessato quasi il 100% degli studenti dagli 11 ai 18 anni. È stato ampliato il tracciato dati che ora registra 30 campi, sono state ampliate le banche dati inserendo gli studenti extra Regione, si è completata la banca dati dell’appren- distato con l’inserimento di tutti i giovani con contratto attivo e sono state accre- sciute le funzioni di monitoraggio. Lo sviluppo a regime comporterà l’ampliamento del tracciato record con l’ag- giunta dei campi necessari all’attivazione di specifiche iniziative formative, di orientamento e di erogazione di servizi. In prospettiva si dovrebbe pervenire alla completa interoperabilità delle banche dati e allo sviluppo di applicazioni coopera- tive tra i sistemi informativi secondo gli obiettivi fissati dall’articolo 3 del D.lgs. 76/05. 5. Procedure e modalità di accesso all’anagrafe regionale L’accesso al portale è differenziato a seconda della tipologia di utente: scuole e altri soggetti istituzionali (Regioni/USR, Province/USP, Comuni). Mentre le prime possono accedere solo per l’inserimento e la validazione dei dati anagrafici, le se- 100 conde possono accedere per fruire di una serie di servizi specifici limitatamente ai soggetti del proprio territorio. La figura 2 descrive la procedura che le scuole seguono per la registrazione delle rilevazioni. Fig. 2 - Procedura per la correzione e la validazione dei dati inviati dalle scuole 101 La figura 3 rappresenta la pagina di accesso al portale per le scuole subito dopo l’identificazione dell’operatore abilitato. Fig. 3 - Pagina di accesso al portale per le scuole La figura successiva mostra il report che viene inviato alle scuole come ritorno dei record con dati incongruenti o mancanti. Le incongruenze sono segnalate tra- mite un diverso colore dei campi. In generale si tratta di anomalie o errori o dati mancanti nella banca dati della scuola dalla quale il file viene scaricato. L’opera- tore provvede alle correzioni, invia il file validato in uno dei formati permessi e successivamente corregge le anomalie nella propria banca dati del sistema SISSI del MPI. 102 6. Linee di sviluppo per il 2007 Le linee di sviluppo per il 2007 prevedono un ulteriore ampliamento della banca dati scuola, in particolare: l’estensione del tracciato dati per aumentare le in- formazioni per ricerche mirate ed erogazione di servizi; l’estensione delle leve sco- lastiche, includendo la scuola primaria; la rilevazione dettagliata dei plessi scola- stici per il monitoraggio della mobilità; la rilevazione dei percorsi integrati scuola e formazione professionale. L’estensione del tracciato record si ritiene fondamentale per ampliare il si- stema di servizi al territorio e dare risposta alle iniziative intraprese da alcune realtà provinciali che hanno avviato la realizzazione di osservatori provinciali sulla scuola. La Provincia di Bologna, per esempio, ha chiesto l’ampliamento delle in- formazioni aggiungendo il dato dell’anno di corso e dell’indirizzo di studio. L’ori- ginario tracciato dell’obbligo formativo si è rilevato, nel corso dell’implementa- zione del sistema dell’anagrafe regionale, inadeguato. Rispetto al tracciato utiliz- zato dal MPI sono stati aggiunti i campi relativi alla cittadinanza, al domicilio e alla residenza. La fig. 5 mette in evidenza l’evoluzione del tracciato regionale e la compara- zione con il tracciato del MPI relativo alle rilevazioni del 2006. Fig. 4 - Lista dei record con dati incongruenti 103 7. L’Anagrafe Regionale come Centro di servizi L’Anagrafe Regionale degli Studenti si va sempre di più caratterizzando come Centro servizi per diverse tipologie di utenti (Regione/USR, Provincia/USP, Co- muni, scuole, famiglie/studenti...) e con l’obiettivo di essere strumento di supporto per i servizi di orientamento, programmazione, monitoraggio, analisi statistiche, azioni di prevenzione della dispersione e per il successo formativo. L’espansione in “verticale” e in “orizzontale” ha indotto un ampliamento dei riferimenti di rete del sistema e la formazione degli addetti anche per sostenere lo sviluppo di organizzazioni di reti provinciali. È proprio per favorire questo processo che la Regione e l’USR hanno diramato una circolare congiunta alle Province e agli USP con la quale si invitano le Pro- vince e i CSA ad organizzare percorsi di formazione dei referenti e a facilitare le ri- levazioni anche attivando propri servizi di assistenza, con il sostegno della struttura tecnica della Regione. La figura 6 mostra la pagina di accesso al portale evidenziando le tre principali funzioni e servizi ai quali ciascun utente può accedere limitatamente ai dati di sua pertinenza: il monitoraggio e il controllo dei dati; le analisi statistiche dei soggetti in anagrafe di propria competenza; le ricerche sui singoli settori formativi, l’in- crocio delle basi dati e il confronto con l’anagrafe dei residenti. Fig. 5 - Confronto tra i tracciati record dell’Anagrafe regionale (ARS) e il tracciato record del Ministero della pubblica istruzione concordato secondo la normativa dell’obbligo formativo (*) In corsivo i campi aggiuntivi. (**) Il campo interessa soltanto gli studenti 14-18enni della secondaria di secondo grado soggetti all’obbligo formativo e indica le scelte formative: scuola, formazione professionale, apprendistato, nessuna scelta. 104 Le azioni di supporto messe in opera sono riconducibili essenzialmente a quattro tipologie: tutoraggio per i soggetti interessati tramite un supporto continuo alle scuole durante le rilevazioni; piano di formazione degli operatori con seminari per gli operatori delle segreterie delle scuole e per i referenti provinciali, Province e CSA, e regionali; la predisposizione di una guida interattiva; help desk on-line e te- lefonico per gli operatori scolastici e provinciali. L’Anagrafe Regionale degli Studenti è oggi un sistema informativo che per- mette di monitorare i percorsi formativi di tutti i giovani residenti in Emilia Ro- magna ed in particolare di individuare i giovani a rischio di dispersione scolastica e formativa. In un’unica banca dati sono consultabili i dati anagrafici dei giovani nei tre ca- nali formativi: Scuola, Formazione Professionale, Apprendistato. Le tre banche dati vengono incrociate tre volte l’anno con l’Anagrafe dei residenti: a gennaio-feb- braio, all’atto dell’iscrizione e della scelta dei successivi indirizzi di studio, alla fine dell’anno scolastico, nei mesi di giugno-luglio, e all’inizio del successivo, nei mesi di settembre-ottobre. La fig. 7 mostra la pagina per la selezione delle ricerche sulle basi dati della scuola, formazione professionale, apprendistato, e l’incrocio delle stesse con l’ana- grafe dei residenti. La ricerca interessa i giovani della fascia di età 14-17 anni. Fig. 6 - Pagina di accesso al portale per tutti gli operatori 105 Le figure 8 e 9 mostrano i risultati ottenuti a seguito delle scelte operate nella precedente figura 7 e con l’incrocio con l’Anagrafe Nazionale della Scuola Statale. Fig. 7 - Pagina per la scelta dell’interrogazione delle basi dati 106 Fig. 8 - Risultato dell’incrocio delle basi dati regionale Fig. 9 - Riepilogo scelte e confronto con la base dati nazionale 107 L’Anagrafe Regionale degli Studenti sta diventando la base per la costruzione di un sistema integrato di servizi on-line che negli obiettivi di sviluppo previsti dalla Regione dovrà consentire: – alle istituzioni preposte alla programmazione dell’offerta formativa, di avere elementi utili per sviluppare politiche di servizi e di sostegno ai giovani; – alle istituzioni scolastiche e formative coinvolte nelle rilevazioni delle scelte degli studenti, di inviare i dati mediante semplici procedure on-line; – lo scambio e la condivisione di informazioni tra le istituzioni e gli enti interes- sati al complesso processo di raccolta, consultazione, monitoraggio delle infor- mazioni anagrafiche dei giovani nei tre canali formativi – scuola, formazione professionale, apprendistato – e di incrocio dei dati con l’anagrafica dei resi- denti, al fine dell’individuazione dei giovani dispersi o a rischio di dispersione scolastica e formativa; – ai servizi competenti delle Province e ai referenti dei CSA, di accedere in tempo reale al monitoraggio delle rilevazioni e alla consultazione dei dati a li- vello provinciale: schede anagrafiche di dettaglio, analisi statistiche di sintesi, grafici dinamicamente generati delle ricerche impostate; – a tutti i soggetti interessati – istituzioni scolastiche, Province, CPI, Enti di for- mazione professionale, CSA, Regione, Ufficio scolastico regionale, IRRE – di accedere on-line ad informazioni e servizi per monitorare i percorsi formativi dei giovani residenti in Regione; – a tutti gli operatori abilitati, di consultare il sistema integrato di archivi anagra- fici per ottenere un’unica base dati aggiornata che riporti la “storia” formativa dei giovani. Nella successiva figura 10 si mostra il risultato di un’analisi statistica degli studenti della Provincia di Modena. Le tabelle evidenziano l’Anagrafe dei residenti della Provincia suddivisi per Comune, per sesso, per anno di nascita e la riparti- zione delle frequenze scolastiche in base alla residenza, da fuori Regione, in altre Province e in altre Regioni. 108 Fig. 10 - Esempio di interrogazione statistica su base provinciale 109 Capitolo 5 Il caso della Regione Liguria e della Provincia di Genova Claudio TORRIGIANI In Liguria l’obbligo formativo rientra tra le competenze del Dipartimento Ricer- ca Innovazione Istruzione Formazione e Politiche giovanili della Regione. La strut- tura competente per l’obbligo formativo è il Settore Sistema Educativo Regionale. Le Province liguri (Genova, Imperia, La Spezia, Savona), a norma della Legge regionale n. 52 del 5/11/1993 e successive modificazioni e integrazioni, sono i sog- getti delegati sul territorio per la realizzazione delle politiche attive del lavoro. Qui come in altre Regioni (cfr. ad esempio il caso di studio relativo alla Re- gione Toscana) il processo di costruzione di un’anagrafe dell’obbligo formativo, poi diritto-dovere all’istruzione e alla formazione, ha seguito un percorso “bottom- up”, dal basso verso l’alto: in particolare è stata la Provincia di Genova che, già a partire dal 2000, ha iniziato – in stretta collaborazione con i Comuni del territorio, da un lato, e con gli uffici dell’amministrazione scolastica dall’altro – la costru- zione di un’anagrafe dei giovani in obbligo formativo. Tale esperienza è stata successivamente individuata dall’amministrazione re- gionale quale buona prassi da estendere alle altre amministrazioni provinciali del territorio per la creazione di un sistema di livello regionale (ed è tra l’altro stata og- getto di trasferimento in altre amministrazioni regionali e provinciali). Pare quindi opportuno presentare questo caso di studio partendo dalla descri- zione di quanto realizzato dalla Provincia di Genova, seguendo l’evoluzione del si- stema dal livello provinciale a quello regionale, come esso si è effettivamente svi- luppato. 1. IL CASO DELLA PROVINCIA DI GENOVA2 In tema di dispersione scolastica e formativa la Provincia di Genova ha svilup- pato alcune originali esperienze, tra le quali un sistema informativo concernente quello che, nel tempo, è divenuto il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. 1 Il paragrafo 1 rielabora i contenuti emersi da alcune interviste realizzate con il Dott. Giuseppe Scarrone - Responsabile programmazione Formazione professionale della Provincia di Genova; sono 110 La Provincia di Genova ha infatti realizzato un sistema anagrafico che inizial- mente ha raccolto i dati dei ragazzi in obbligo formativo e, successivamente, è stato esteso a comprendere tutta la popolazione scolastica, dalla prima media all’ultimo anno di scuola superiore, oltre agli allievi della formazione professionale di base e agli apprendisti. L’esigenza di costruire un sistema anagrafico deriva infatti dall’introduzione dell’obbligo formativo con l’art. 68 della legge n. 144 del 1999; i termini di realiz- zazione operativa sono stati meglio specificati nel Decreto del Presidente della Re- pubblica n. 257 del 2000, in cui vengono individuate le attività di competenza dei singoli soggetti interessati, con l’individuazione di alcune caratteristiche del nuovo sistema (Scarrone, 2004). In particolare, la legge 17 maggio 1999, n. 144 “Misure in materia di investi- menti, delega al Governo per il riordino degli incentivi all’occupazione e della nor- mativa che disciplina l’INAIL, nonché disposizioni per il riordino degli enti previ- denziali”, con l’art. 68 attribuisce ai servizi per l’impiego la responsabilità di orga- nizzare, nell’ambito delle funzioni di loro competenza, l’anagrafe regionale dei soggetti che abbiano adempiuto o assolto l’obbligo scolastico e di predisporre le re- lative iniziative di orientamento. L’articolo 3 del Decreto del Presidente della Repubblica 12 luglio 2000, n. 2572 attribuisce alle istituzioni scolastiche – in assenza di un’anagrafe provinciale degli alunni già funzionante – il compito di comunicare ai servizi per l’impiego de- centrati i dati anagrafici ed il percorso scolastico degli alunni in entrata nel 15° anno di età e le scelte effettuate dagli alunni soggetti all’obbligo formativo all’atto dell’iscrizione e nel corso dell’anno scolastico3; le stesse istituzioni scolastiche avrebbero poi concordato con i servizi per l’impiego e con gli enti locali compe- tenti le modalità di collaborazione per l’istituzione e la messa a regime dell’ana- grafe regionale dei soggetti che hanno adempiuto o assolto l’obbligo scolastico. Su queste basi legislative nasce l’Anagrafe dell’Obbligo Formativo. Successivamente, con l’approvazione della legge 28 marzo 2003, n. 53 di “De- lega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli inoltre stati utilizzati alcuni testi, in particolare: Scarrone 2004, e Anagrafe scolastica e Osservatorio Pubblica Istruzione Sistema Informativo per il Diritto Dovere alla Istruzione ed alla Formazione (S.I.D.D.I.F.), 2006. 2 “Regolamento di attuazione dell’articolo 68 della legge 17 maggio 1999, n. 144, concernente l’obbligo di frequenza di attività formative fino al diciottesimo anno di età”. Nel decreto vengono in- dividuate le attività di competenza dei singoli soggetti interessati, con l’individuazione di alcune ca- ratteristiche del nuovo sistema: a) la raccolta dei dati viene realizzata tramite intese tra scuole, ente lo- cale competente (di norma la Provincia) e servizi per l’impiego (gestiti anch’essi dalla Provincia); b) la dimensione territoriale della banca dati deve essere regionale, per cui si presuppone un accordo di coordinamento tra Regione, Province e Ufficio Scolastico Regionale. 3 Prosecuzione dell’itinerario scolastico, inserimento nel sistema della formazione professionale anche attraverso percorsi integrati, accesso all’apprendistato, passaggi ad altra scuola/al sistema della formazione professionale, cessazioni di frequenza. 111 essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale”, viene abrogata la legge n. 9/1999 (in base alla quale l’obbligo scolastico ha durata di otto anni) e viene definito il nuovo diritto-dovere all’istruzione e alla formazione per almeno 12 anni, tramite i decreti applicativi della medesima legge 53/2003. Nelle more dell’emanazione dei suddetti decreti attuativi restano in vigore e sono quindi ancora applicabili l’art. 68 della legge n. 144/1999 e il DPR n. 257/2000. Nel frattempo, inoltre, sono in corso di sperimentazione, in quasi tutte le Regioni, i percorsi formativi di istruzione e formazione professionale, sulla base dell’Ac- cordo4 del 2003 tra Ministeri dell’Istruzione e del Lavoro, Regioni, Province e Co- muni. Con l’articolo 3 del Decreto Legislativo 15 aprile 2005, n. 76 avviene quindi la “Definizione delle norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla forma- zione, a norma dell’articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 28 marzo 2003, n. 53” e si stabilisce che: – l’Anagrafe Nazionale degli Studenti presso il Ministero dell’istruzione opera il trattamento dei dati sui percorsi scolastici, formativi e in apprendistato dei sin- goli studenti, a partire dal primo anno della scuola primaria; – le Anagrafi Regionali per l’Obbligo Formativo, già costituite ai sensi dell’arti- colo 68 della legge 17 maggio 1999, n. 144, e successive modificazioni, sono trasformate in Anagrafi Regionali degli Studenti, che contengono i dati sui per- corsi scolastici, formativi e in apprendistato dei singoli studenti a partire dal primo anno della scuola primaria; – le Regioni assicurano l’integrazione delle Anagrafi Regionali degli Studenti con le Anagrafi Comunali della Popolazione, anche in relazione a quanto pre- visto dagli articoli 4 (azioni per il successo formativo e la prevenzione degli abbandoni) e 5 (gradualità dell’attuazione del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione) del decreto medesimo, nonché il coordinamento con le fun- zioni svolte dalle Province attraverso i servizi per l’impiego in materia di orientamento, informazione e tutoraggio; – con apposito accordo tra Ministero dell’istruzione e Ministero del lavoro, in sede di Conferenza unificata (D.lgs. n. 281/1997)5, viene assicurata l’integra- zione delle anagrafi regionali con il sistema nazionale delle anagrafi degli stu- denti (definizione di standard tecnici per lo scambio dei flussi informativi, in- 4 “Accordo quadro tra il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, le Regioni, le Province autonome di Trento e Bolzano, le Province, i Comuni e le Comunità montane per la realizzazione dell’anno scolastico 2003-2004 di un’offerta for- mativa sperimentale di istruzione e formazione professionale nelle more dell’emanazione dei decreti legislativi di cui alla legge 28 marzo 2003, n. 53” - Repertorio Atti n. 660/C.U. del 19 giugno 2003. 5 Decreto Legislativo 28 agosto 1997, n. 281 “Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle Regioni, delle Province e dei Comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali”. 112 teroperabilità delle anagrafi, definizione dell’insieme delle informazioni che permettano la tracciabilità dei percorsi scolastici e formativi dei singoli stu- denti). La costruzione del sistema anagrafico dell’obbligo formativo poggerebbe quindi interamente su dati provenienti dalle scuole, in quanto si potrebbe pensare che sia sufficiente raccogliere da queste i dati relativi all’ultimo anno di obbligo scolastico per avere la base completa delle informazioni relative ai ragazzi che do- vranno assolvere all’obbligo formativo. La realtà è diversa, soprattutto perché una considerevole parte dei ragazzi fre- quenta la scuola superiore fuori del Comune di residenza, o addirittura in altra Pro- vincia o Regione: per questo motivo già l’ISFOL – che ha predisposto a suo tempo un manuale per la costruzione dell’anagrafe e l’individuazione degli interventi dei servizi per l’impiego – ha evidenziato come elemento indispensabile il coinvolgi- mento dei Comuni per una verifica attendibile dell’adempimento o meno dell’ob- bligo formativo, attraverso un incrocio tra i dati raccolti nelle scuole e quelli in possesso delle anagrafi comunali. 1.1. L’esperienza della Provincia di Genova dal 2000 al 2006 In Provincia di Genova la prima banca dati alunni di coloro che, avendo adem- piuto o assolto l’obbligo scolastico sono da considerarsi soggetti all’obbligo forma- tivo, viene costituita nel corso del 2000, con la costituzione di un team composto da 6 referenti facenti capo alle diverse aree direttamente o indirettamente implicate in questa attività6. Questa prima rilevazione dei dati mette in luce un elemento fortemente critico, cioè l’insufficienza dell’afflusso dei dati dalle scuole, stimato al 50% del totale (circa 3.000 su 6.000 nominativi). Visto l’esito della prima raccolta nel corso del 2001, il metodo di rilevazione viene perfezionato, anche grazie alla diffusione di una scheda tecnica elaborata dal Centro Intermedio Servizi per l’autonomia (CIS) – dell’USR – contenente le indi- cazioni per l’importazione dei dati dai diversi software in uso nelle scuole. Nel contempo viene avviata per la prima volta la richiesta dei nominativi alle anagrafi dei singoli Comuni, tramite una nota informativa sull’obbligo formativo e sugli adempimenti di competenza della Provincia. La risposta ottenuta è nel com- plesso soddisfacente, anche se non completa: rispondono infatti 45 Comuni su 67. Questo primo contatto, tra l’altro, mette in luce che i responsabili e gli addetti dei Comuni hanno una scarsa conoscenza dell’obbligo formativo. Nel frattempo si osserva, da parte delle scuole, un netto miglioramento rispetto 6 In particolare le aree coinvolte sono: Programmazione Formazione professionale, Attività per portatori handicap, Formazione iniziale, Attività per minori a rischio, Gestione anagrafe, Controllo e monitoraggio. 113 al 2000, tanto che dalle sedi scolastiche pervengono i dati relativi a circa il 90% degli alunni. A partire dal 2002 la Provincia di Genova si avvale, per la raccolta dei dati, del supporto del Centro di Eccellenza per l’Innovazione Formativa “Atene” – società controllata dalla Provincia stessa – che riceve l’incarico di realizzare un’Anagrafe dell’Obbligo Formativo da utilizzarsi anche per le competenze in materia di Osser- vatorio Scolastico Provinciale e programmazione dell’offerta scolastica e forma- tiva. Nel settembre del 2002, viene definito un progetto operativo che pone partico- lare attenzione a due specifiche esigenze che il sistema dovrà consentire di soddi- sfare: 1) rendere acquisibili le informazioni direttamente dalle scuole, senza neces- sità di ridigitare i dati già inseriti dalle scuole stesse per fini propri; 2) garantire un’acquisizione dinamica delle informazioni in modo che i dati registrati nel nuovo anno possano interagire con quelli relativi agli anni precedenti e consentano quindi, da un lato di ricostruire la storia di ogni individuo e di programmare interventi per- sonalizzati contro la dispersione e, dall’altro, di monitorare l’andamento generale del fenomeno e di produrre analisi ad hoc. Le prime sperimentazioni mettono in luce che una raccolta dei dati limitata ai soli tre anni dell’obbligo è di scarsa utilità, sia ai fini del monitoraggio generale, sia per quelli più specifici legati ai fenomeni di dispersione. La Provincia si orienta quindi a raccogliere le informazioni su un arco temporale più ampio, che com- prenda la scuola media e almeno i 5 anni successivi (anche per avere a disposizione basi dati significative per analisi di carattere comparativo). In relazione alle compe- tenze delegate alla Provincia in materia di diritto-dovere all’istruzione e alla forma- zione, il sistema consente di espletare una serie di funzioni più ampie rispetto al solo monitoraggio dell’obbligo formativo. Nel corso del 2003, la rilevazione dei dati, sempre supportata dal Centro “Atene”, subisce alcune innovazioni coerenti con quanto richiamato sopra: ven- gono richiesti i dati relativi a tutti gli alunni frequentanti le scuole medie inferiori e superiori, e non solo di quelli in obbligo formativo; la scelta dell’allievo per il suc- cessivo anno di obbligo formativo non viene richiesta nella prima fase di raccolta dati, ma è stata inserita dalle scuole successivamente, direttamente via Internet, tra- mite l’accesso on-line al data base relativo all’Anagrafe dell’Obbligo Formativo. A partire dal 2004-05 il sistema dell’anagrafe on-line è stato utilizzato a re- gime anche per la rilevazione dei dati dell’Osservatorio della Pubblica Istruzione, operativo già dal 1994 e finalizzato alla rilevazione dei dati relativi all’istruzione secondaria di 2° grado (numero di classi; numero di iscritti; mobilità sul territorio; studenti stranieri7; ripetenti; titoli di studio acquisiti; corsi serali; scuola in car- cere). La Provincia di Genova ha quindi a disposizione – per la gestione dell’ana- 7 A partire dal 2002. 114 grafe e dell’osservatorio in riferimento al fenomeno della dispersione scolastica e formativa – una banca dati accessibile a differenti “profili utenti”, in cui sono rag- gruppati in un unico software tutti i dati degli alunni (ad oggi sono inseriti circa 50.000 nominativi, relativi ad otto classi di età). Nasce così, anticipando di qualche tempo l’ultimo intervento normativo in ma- teria, rappresentato dal D.lgs. n. 76/2005, l’Anagrafe scolastica e l’Osservatorio della Pubblica Istruzione: le “vecchie” Anagrafi locali dell’Obbligo Formativo di- vengono Anagrafi degli Studenti – interfacciate con il livello nazionale – in grado di fornire non solo dati utili ad intercettare i dispersi, ma anche una “fotografia complessiva” di tutto il mondo scolastico. Sino al 2005-06, la rilevazione dei dati relativi ad ogni singola scuola veniva effettuata direttamente dalla Provincia (via Internet) presso ogni istituzione scola- stica. Nell’estate del 2006 sono stati avviati contatti con il Ministero dell’Istruzione per valutare la possibilità, da parte del sistema provinciale, di ricevere i dati diretta- mente dal Ministero, che a sua volta già li rileva presso ogni scuola. In questo nuovo assetto (non ancora operativo al momento della stesura del presente documento), la Provincia si potrebbe limitare alla raccolta diretta (sempre via Internet) dei dati relativi alle strutture private e a quelle pubbliche non statali, alla formazione professionale e all’apprendistato. Nelle more dello sviluppo a livello regionale, la Provincia di Genova: – stipula un accordo con quella di Savona, che inizia ad utilizzare il sistema a partire dall’anno scolastico 2004-05; – avvia contatti con la Regione Campania e la Provincia di L’Aquila, interessate ad adottare il sistema. 1.2. Lo sviluppo del sistema in relazione agli assetti organizzativi a livello provin- ciale Nel corso degli anni ‘90 l’Anagrafe per l’Obbligo Formativo era stata pensata come funzione precipuamente in capo ai CPI che, soprattutto in seguito ai processi di riforma avviati nella seconda parte del decennio sia a livello nazionale che lo- cale, sembravano rappresentare il “perno” attorno a cui far ruotare ed incontrare le politiche formative e quelle occupazionali. In base alla L.R. 27/1998, i Centri costituiscono infatti la sede entro cui si rea- lizza il sistema integrato di servizi che comprende informazione e analisi del mer- cato, orientamento, formazione professionale, incentivi occupazionali e colloca- mento, con particolare riguardo alle fasce deboli. Coerentemente con questo approccio ed anche in relazione agli assetti organiz- zativi della Provincia di Genova, il primo nucleo dell’Anagrafe viene quindi svi- luppato nell’Area della formazione professionale, scarsamente collegata/coordinata con l’Area dell’istruzione. È bene precisare che per quanto riguarda il livello politico: 115 – fino a tutto il 2004 le competenze in materia di istruzione facevano capo al medesimo Assessorato, che si occupava di economato e patrimonio, mentre quelle in materia di formazione professionale e lavoro erano affidati al Presi- dente della Provincia; – a partire dal 1° gennaio 2005, l’istruzione e la formazione professionale desti- nata ai giovani nell’ambito del diritto-dovere vengono raggruppate sotto una delega unica (Assessorato all’istruzione, politiche scolastiche, politiche rela- tive all’obbligo formativo e all’orientamento lavorativo, edilizia scolastica), mentre lavoro e CPI insieme alla formazione professionale per gli adulti conti- nuano ad essere attribuiti al Presidente della Provincia. Per quanto riguarda poi livello tecnico-amministrativo: – fino al 2002 era presente un’unica Area che si occupava di politiche del lavoro e formazione professionale; tale scelta per altro trovava riscontro anche nel- l’impostazione della Regione Liguria in materia: con la delega alle Province in materia di collocamento e incontro tra domanda e offerta di lavoro, i CPI di- ventavano infatti uno degli snodi principali per individuare le linee program- matorie della formazione professionale. L’istruzione afferiva ad un’Area a sé stante; – con il cambio di Giunta, nel gennaio 2003, avviene la separazione tra l’Area (10A) delle Politiche formative e l’Area (10B) dei Servizi per l’impiego. Viene tuttavia mantenuta la funzione di staff delle Politiche attive del lavoro, diretta- mente dipendente dal Presidente della Giunta, come link tra le due Aree; – dal 2004, i Servizi per l’impiego e le Politiche attive del lavoro vengono riuni- ficati in un’unica Area; attualmente quindi le due Aree di riferimento sono co- stituite dall’Area 9 “Politiche del lavoro” (macro-struttura) e dall’Area 10A “Politiche formative e istruzione” (micro-struttura). Con quest’ultimo passaggio, anche l’Anagrafe dell’obbligo, nel frattempo di- venuta Anagrafe scolastica, in procinto di essere “unificata” in un unico sistema/software con l’Osservatorio sulla Pubblica Istruzione, viene ad essere ge- stita unitariamente dalla formazione professionale e dall’istruzione: l’elemento di collegamento prima rappresentato esclusivamente sul piano operativo dai contatti tra operatori, assume così un carattere più marcatamente istituzionale. Viene invece per certi versi attenuato il ruolo dei CPI (se non altro in termini di progettazione e gestione del sistema), che tuttavia rimangono uno degli “utenti” principali dell’Anagrafe, utilizzata per l’individuazione e l’intercettazione dei ra- gazzi “dispersi”. A livello più generale, comunque, nonostante lo scorporo delle due Aree (politiche del lavoro da una parte e politiche formative e istruzione dal- l’altra), esse continuano a mantenere un livello di collaborazione intenso e perma- nente (per quanto spesso “informale”, che cioè non si sviluppa nell’ambito di sedi e momenti propri, specificamente strutturati in vista di questo fine), sia a livello pro- grammatorio (in particolare nell’ambito del Piano biennale dei servizi per l’im- 116 piego e delle politiche formative e del lavoro), sia dell’offerta finale (in particolare per quanto riguarda l’organizzazione di alcuni servizi come la formazione ad ac- cesso individuale – “Cataloghi formativi e Voucher” – ed appunto i percorsi di in- serimento nella formazione professionale di minori “a rischio”). 1.3. Le criticità emerse in relazione all’implementazione del sistema e alla risposta in termini di programmazione ed erogazione di servizi agli utenti Riportiamo di seguito alcune delle criticità emerse dai colloqui avuti con i re- ferenti della Provincia di Genova per l’anagrafe scolastica in relazione all’imple- mentazione del sistema e alla risposta dell’Amministrazione in termini di program- mazione ed erogazione di servizi agli utenti. Da tali colloqui è emerso in primo luogo che la “risposta” ai dati sui giovani dispersi o a rischio di dispersione non può venire dal soggetto che sarebbe istituzio- nalmente preposto a darla: i CPI, infatti, soffrono di un “eccesso di competenze istituzionali”, mentre gli operatori che vi operano spesso mancano delle sensibilità e delle competenze necessarie per affrontare questo specifico tipo di problematica; sarebbe forse necessario costituire dei “Centri orientativi” preposti ad intervenire sui fenomeni della dispersione e del disagio sociale dei giovani. Per capitalizzare le competenze e l’esperienza delle stesse istituzioni scola- stiche si potrebbe pensare alla costituzione di “centri risorse” – costituiti da una scuola “grande” e da scuole “piccole” satelliti della prima, che potrebbero costi- tuire lo snodo ideale tra livello micro e livello meso: il centro risorse può interve- nire tempestivamente sul singolo individuo che manifesti delle problematiche evi- denziate anche dal sistema informativo, mentre un ritorno informativo aggregato a livello provinciale può consentire l’intervento appropriato a livello di gestione e coordinamento dell’attività. Sul versante operativo uno dei tentativi di risposta della Provincia di Genova a queste problematiche è stato il cosiddetto “tirocinio tutorato”: in un primo tempo si era pensato di mettere l’esperienza in capo al CPI, ma successivamente sono stati individuati tre poli (zone) gestiti da una rete di enti di formazione professionale che stanno costruendo una fitta rete di rapporti con le scuole, con il risultato che il 75% dei giovani a rischio di dispersione alla fine rientra nel circuito scolastico. Un secondo elemento che è emerso con forza è la necessità di prevedere un ri- torno informativo alle istituzioni scolastiche e formative ai diversi livelli del si- stema: ad esempio l’anagrafe dovrebbe essere utilizzata anche per fornire alle scuole medie le informazioni relative agli esiti dei ragazzi che sono passati alle scuole superiori, fatto che potrebbe essere utile a riprogettare le attività per favorire il successo scolastico dei ragazzi, anche in considerazione delle forti differenze in termini di didattica tra i diversi cicli di istruzione, in cui si passa da un approccio basato sull’esperienzialità e sull’induzione a uno centrato sulla settorializzazione e segmentazione dei saperi. A questo proposito sarebbe auspicabile che anche la scuola primaria fosse in- 117 clusa nel sistema dell’anagrafe, anche perché fenomeni di disagio scolastico che di- vengono allarmanti nelle scuole medie inferiori o superiori spesso hanno origine nei primi anni della scuola primaria. L’anagrafe tra l’altro dovrebbe essere pensata anche in relazione alla costru- zione del libretto personale del cittadino e del portfolio, con la necessità di arric- chirla con ulteriori informazioni. L’anagrafe scolastica “lato studenti” ha delle forti implicazioni anche rispetto ai luoghi in cui il servizio formativo viene erogato (anagrafe edilizia) e a come tali luoghi possono essere raggiunti dai ragazzi (politiche dei trasporti). L’implementazione del sistema informativo impone un’attenta riflessione sui tempi: la tempistica ottimale prevede la raccolta dei dati relativi agli iscritti entro novembre; a gennaio-febbraio possono essere raccolte le scelte previsionali, per procedere nel mese di marzo all’integrazione dei dati e al recupero dei dispersi. Si pone comunque un problema relativo agli intervalli di tempo tra le rilevazioni: c’è infatti un flusso che non viene necessariamente registrato dal sistema, e quindi ad un pari numero di ragazzi registrati al tempo T1 e al tempo T2 potrebbero corri- spondere in realtà un certo numero di ragazzi in entrata e in uscita. Il monitoraggio, comunque, potrebbe e dovrebbe essere fatto “ora per ora”, anche per consentire un intervento tempestivo sul singolo ragazzo e dovrebbero es- sere sistematizzati e pubblicati i dati relativi alle assenze e quelli relativi alle ore di lezione fruite e quelle non fruite. 2. Lo sviluppo del sistema dal livello provinciale a quello regionale e la nascita del S.I.D.D.I.F. Nel settembre 2003 la Regione ha attivato la costruzione di un sistema infor- mativo integrato per la realizzazione dell’anagrafe dei giovani in obbligo formativo (SIDDIF – Sistema Informativo Integrato per il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione), con le seguenti finalità: 1) censire i giovani in obbligo scolastico e formativo e monitorarne il curriculum scolastico/formativo; 2) sviluppare un sistema regionale di rilevazioni statistiche; 3) favorire il collegamento con le altre reti del sistema informativo regionale. Il SIDDIF è una banca dati che consente la gestione anagrafica degli studenti in diritto-dovere all’istruzione e formazione professionale che eroga funzionalità per l’alimentazione e la gestione della base dati, per la gestione della dispersione scolastica e per l’integrazione con altri sistemi regionali. Il progetto prevede due fasi di attuazione distribuite nell’arco di un anno e ri- guarda la messa in esercizio della rete integrata di strumenti e servizi tra i diversi soggetti coinvolti: Pubblica Amministrazione (Regione, Province, Comuni), Dire- zione Scolastica ed Istituzioni scolastiche, Enti di Formazione Professionale: 118 – implementazione del software per la gestione dell’anagrafe dei giovani in ob- bligo formativo nell’ambito del territorio regionale; – integrazione dei sistemi (anagrafico regionale, banca dati apprendisti mino- renni, banca dati giovani in formazione professionale); – sviluppo e integrazione di servizi: completamento dell’integrazione dei sistemi informativi; sviluppo di funzionalità per la gestione decentrata dei dati; svi- luppo di strumenti per il Datawarehousing per l’analisi del mondo scolastico, a disposizione della Regione Liguria, delle Province liguri, della Direzione Sco- lastica Regionale e degli istituti scolastici. Più in particolare, per quanto riguarda lo sviluppo di questo sistema, come già ricordato sopra, nel “Piano regionale dell’orientamento” del 2003 la Regione Li- guria individua la sperimentazione effettuata dalla Provincia di Genova come pos- sibile modello di riferimento, senza tuttavia avviarne immediatamente lo sviluppo a livello regionale. L’Ufficio Scolastico Regionale/ CSA stipula comunque un ac- cordo con la Provincia di Genova per l’utilizzo del software. Il 5 luglio 2004 viene siglato dalla Regione Liguria, dalla Direzione Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Liguria e dalla Direzione Generale Sistemi Informativi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca un ac- cordo per la condivisione di dati e delle informazioni relative al sistema informa- tivo integrato dell’obbligo formativo diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. L’accordo prevede l’istituzione di un Gruppo di Lavoro tecnico, composto da due rappresentanti del Dipartimento Formazione Istruzione Lavoro Cultura e Sport della Regione Liguria e da due rappresentanti dell’Ufficio Scolastico Regionale; a questi sono stati aggiunti un rappresentante per ciascuna Provincia ligure ed un rap- presentante dell’ANCI. In particolare il Gruppo di Lavoro ha il compito di: – verificare la necessità di una revisione delle codifiche e delle classificazioni, con riguardo agli adempimenti previsti dalla più recente normativa; – favorire l’aggiornamento dei dati sugli esiti scolastici; – elaborare, analizzare e interpretare congiuntamente le informazioni rese dispo- nibili; – scambiare ulteriori informazioni e dati necessari al conseguimento delle fina- lità dell’accordo; – favorire l’aggiornamento costante del SIDDIF, mediante un più attivo coinvolgi- mento delle scuole anche attraverso l’utilizzo di servizi on-line o di altra natura; – studiare le modalità per pervenire all’integrazione dei sistemi informativi, anche attraverso procedure di cooperazione applicativa. I passaggi successivi che caratterizzano lo sviluppo del sistema a livello regio- nale sono descritti di seguito: – in primo luogo, con la DGR 1163/2004 la Regione Liguria affida a Datasiel S.p.A., partecipata regionale, l’incarico per la realizzazione del Sistema Infor- 119 mativo integrato per il Diritto/Dovere alla Istruzione e Formazione (di seguito S.I.D.D.I.F.); – con la DGR 440/2005, viene quindi costituito il gruppo di lavoro sul Sistema Informativo Integrato S.I.D.D.I.F., formato da funzionari del Settore Sistemi informativi e Telematici, del Dipartimento Istruzione Formazione Lavoro Cul- tura e Sport, da tecnici di Datasiel e da un funzionario designato dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Liguria, previsto dalla delibera 1163 di cui sopra; – infine, con la DGR 1047/2005, la Regione Liguria approva un accordo con la Provincia di Genova in base al quale la Provincia rende disponibile alla Regione il software realizzato per la gestione dell’Anagrafe dell’Obbligo Formativo, coerentemente con quanto previsto dalle modalità del riuso dei prodotti informa- tici derivanti dalla realizzazione dei progetti per lo sviluppo della Società del- l’informazione, consentendone le opportune modifiche per il raggiungimento degli obiettivi regionali previsti nella DGR 1163/2004, anche in attuazione del D.lgs. 76/2005. Il progetto S.I.D.D.I.F. nasce quindi come naturale prosecuzione a livello regionale del progetto “Anagrafe Scolastica Provincia di Genova”. Gli obiettivi del progetto S.I.D.D.I.F. sono: – monitorare il flusso della popolazione in diritto-dovere all’istruzione e alla for- mazione, attraverso il coinvolgimento degli Enti Locali; – monitorare i percorsi di istruzione e di formazione degli studenti in relazione alla gestione del piano dell’offerta educativa utile per la definizione del piano del dimensionamento della rete scolastica; – razionalizzare il flusso delle informazioni da e verso le scuole; – agevolare il successo formativo; – favorire l’esercizio del diritto-dovere allo studio che si espleterà anche nel- l’ambito dell’apprendistato; – creare uno strumento efficace che consenta un intervento di orientamento va- lido per il proseguimento degli studi sia nel secondo ciclo che nella Istruzione e Formazione Superiore. Nel corso del 2005 vengono anche definiti accordi tra le quattro Province li- guri per il coordinamento nella fase di realizzazione dell’anagrafe regionale. Sul piano operativo, in base ad un protocollo di intesa stipulato tra Regione Li- guria e Provincia di Genova, il Centro Atene e Datasiel S.p.A. hanno collaborato per l’estensione a livello regionale del sistema progettato dal Centro “Atene”. In particolare, Datasiel ha ricevuto dalla Regione un incarico complessivo rela- tivo al S.I.D.D.I.F. ed ha a sua volta incaricato Atene per lo sviluppo di nuove fun- zionalità dell’Anagrafe ad uso delle scuole e degli Enti di formazione professio- nale; le due società hanno operato in stretta collaborazione nelle fasi di comunica- zione e formazione sul territorio delle quattro Province Liguri. Attualmente il progetto è in fase di parziale ridefinizione, in relazione soprat- tutto a difficoltà procedurali riconducibili ai vincoli previsti dal c.d. decreto Bersani. 120 2.1. L’architettura del sistema dell’Anagrafe/Osservatorio provinciale Poiché l’Anagrafe presenta come esigenza fondamentale la possibilità di es- sere utilizzata a distanza da differenti attori, la soluzione tecnica prescelta dalla Provincia è stata quella di costruire un “sistema distribuito” basato su un’unica banca dati centralizzata gestibile a distanza da differenti “profili utente” mediante la rete Internet. I profili utente individuati sono: 1) amministratore di sistema (AS); 2) operatore provincia (OP); 3) scuola; 4) Ente di formazione professionale; 5) centro per l’impiego (CPI). Fig. 1 - Architettura del sistema provinciale La struttura della banca dati è stata progettata basandosi sui seguenti criteri principali: – disporre di un’unica “anagrafica assoluta” relativa ai soggetti; – garantire una gestione dei dati dinamica nel tempo secondo gli anni scolastici; 121 – disporre di una tabella relazionata all’anagrafica in cui sia “narrata” la storia di ciascun giovane nei vari anni scolastici; – disporre di un’unica anagrafica relativa agli istituti scolastici e agli Enti di for- mazione professionale della Provincia. Dal punto di vista procedurale, il sistema si basa su una sequenza logica di fasi/azioni riportata di seguito. 1) Inizializzazione di un nuovo anno scolastico (profili utente coinvolti: AS). 2) Raccolta dati dalle scuole. Vengono richiesti i dati anagrafici degli alunni a tutte le scuole secondo uno specifico tracciato record. La maggior parte delle scuole dispone dei tre software principali di gestione (SISSI, ARGO, AXIOS) e può quindi esportare automaticamente i dati per generare il file nel formato richiesto. Alle altre scuole viene comunque fornito un file modello in MS- Excel che dovranno compilare autonomamente (profili utente coinvolti: AS; OP). 3) Raccolta dati dagli Enti di formazione professionale. Vengono richiesti i dati anagrafici dei ragazzi a tutti gli enti di formazione professionale che organiz- zano corsi di formazione di base, secondo uno specifico tracciato record. Viene fornito un file modello in MS-Excel che essi dovranno compilare autonoma- mente (profili utente coinvolti: AS; OP). 4) Raccolta dati dai CPI. Vengono richiesti ai CPI genovesi i dati anagrafici dei giovani in apprendistato (inviati direttamente nel formato TXT generato dal software gestionale “Netlabor”, già in uso dai CPI) (profili utente coinvolti: AS; OP). 5) Normalizzazione dei dati. Ogni singolo file in arrivo viene analizzato e norma- lizzato con procedure semi-automatiche per intercettare errori o imprecisioni macroscopiche e comunque per normalizzare alcuni dati che sono disomogenei in base alla provenienza (ad esempio alcuni file in arrivo hanno la cittadinanza del ragazzo scritta per esteso [ITALIANA] mentre altri hanno solo la sigla di tre lettere [ITA]) (profili utente coinvolti: AS). 6) Importazione nella banca dati. Ogni file normalizzato viene importato me- diante procedure, differenti a seconda dei tre casi (scuole, Enti di formazione professionale o CPI), che si articolano in due fasi fondamentali: a) nuovo inserimento o aggiornamento dell’anagrafica dei giovani; b) inserimento nella tabella della “storia”, in cui viene registrata l’informa- zione relativa alla situazione di assolvimento obbligo del soggetto (scuola, formazione professionale o apprendistato) e l’informazione della scuola o Ente di formazione professionale o CPI che lo ha segnalato. Il punto 6.1 ha richiesto una fase di progettazione complessa e la definizione di un algo- ritmo raffinato per l’analisi dei dati in arrivo e il loro raffronto con quelli già presenti all’interno del data base. Risulta evidente infatti che questo si- stema, basato da un lato su un’unica anagrafica assoluta e dall’altro su una 122 tabella “storia” che evolve nel tempo, può funzionare in maniera efficace solo se con il passare degli anni i record presenti nell’anagrafica relativi ad un certo ragazzo non vengono duplicati (se ad esempio durante il primo anno di importazione dati viene inserito un certo “Paolo Rossi”, nel caso in cui venga segnalato di nuovo l’anno successivo, il sistema deve ricono- scere la sua presenza all’interno della tabella anagrafica senza creare un nuovo record ed eventualmente aggiornare le informazioni, mentre nella tabella relativa alla sua storia dovrà essere creata una nuova entry che ri- porta il suo stato attuale). È quindi necessario effettuare controlli incrociati per determinare se il ragazzo in ingresso sia già presente o meno in banca dati, in modo da minimizzare al massimo la probabilità di creare doppioni in anagrafica. In alcuni casi limite il sistema, rilevate informazioni tali da non consentire di decidere se l’anagrafica del giovane esista già o no, scarta il dato e lo registra in un apposito file di report che può essere poi consultato in qualsiasi momento successivo, al fine di contattare telefoni- camente la scuola di provenienza per verificare i dati o integrare quelli mancanti. Si tratta di un’operazione che sottrae tempo e risorse e che sa- rebbe eliminabile operando sulla correttezza/coerenza del dato in entrata (profili utente coinvolti: AS). 7) Raccolta dati da anagrafiche comunali e importazione in banca dati. Fino a questo punto sono state importate informazioni relative a giovani che risultano iscritti a scuola, a Enti di formazione professionale o presso i CPI, coloro cioè che di fatto stanno assolvendo l’obbligo formativo e non sono quindi “dis- persi” (anche se possono sempre diventarlo, in caso di ritiro dalla scuola/Ente o di licenziamento). È quindi necessario cercare di inserire nel sistema anche i dati relativi a tutti i ragazzi delle leve interessate, in modo da creare un “ter- mine di paragone” che consenta di confrontare i dati e individuare i possibili “dispersi”. È stata quindi predisposta una funzione che consente di importare nella banca dati, a partire da un formato TXT, dati provenienti anche dalle ana- grafiche comunali. Rispetto allo step 6 naturalmente viene implementata solo la fase 6.1, mentre il problema delle imprecisioni in arrivo si abbatte decisa- mente (profili utente coinvolti: AS; OP). 8) Allineamento dati. Questa procedura effettua il confronto, anno di nascita per anno di nascita, tra i ragazzi che sono stati segnalati in quell’anno e quelli già presenti in anagrafica. Se vengono trovati ragazzi di una leva in obbligo for- mativo, presenti nell’anagrafica ma non segnalati in “storia”, questi vengono inseriti anch’essi nello storico ma il loro “status” viene marcato come “dis- perso”. Al termine di questo step viene quindi fissata una precisa “fotografia” relativa all’anno scolastico in corso, in cui a tutti i soggetti presenti in banca dati che risultano in obbligo scolastico viene associato un “status” preciso, che può essere “scuola”, “formazione professionale”, “apprendistato” o “disperso” (profili utente coinvolti: AS). 123 Gli step descritti sopra hanno una sequenza logico-temporale obbligatoria e sincronizzata, mentre quelli riportati di seguito sono attuabili in maniera del tutto asincrona, ovvero possono essere effettuati o meno, in forma del tutto indipendente uno dall’altro. 9) Inserimento scelta previsionale per l’anno successivo. Ogni scuola o Ente di formazione professionale viene dotata di un accesso remoto alla banca dati (codice identificativo e password specifica per ciascuno). Entrando nel sistema attraverso Internet, con queste modalità, ogni scuola o Ente avrà accesso alla lista dei soli giovani in età di obbligo formativo che risultano iscritti presso il proprio istituto; potrà quindi, per ciascuno degli allievi, inserire nel sistema la scelta previsionale per l’anno successivo. Il vantaggio di questa soluzione ri- siede nel fatto che tale procedura può essere fatta progressivamente nel tempo, quando si siano ottenute dai ragazzi le indicazioni necessarie, senza vincoli particolari (profili utente coinvolti: Scuola; Ente FP). 10) Modifica allo “status” di un singolo ragazzo. Una volta completata la fase di importazione e allineamento dei dati, nel caso dovessero rendersi necessarie modifiche legate ad esempio al fatto che un ragazzo decide di cambiare scuola o di passare in formazione professionale o che da altre Province limitrofe ven- gono segnalati i nominativi di ragazzi residenti in Provincia di Genova che fre- quentano le loro scuole, il sistema prevede la possibilità di richiamare il record informativo di quello specifico ragazzo e consente di modificare la sua situa- zione aggiornando il suo status. Naturalmente, tutte le precedenti situazioni ri- marranno memorizzate come storico, per cui il percorso formativo del ragazzo rimarrà completo e potrà essere consultato (profili utente coinvolti: AS; OP). 11) Statistiche e monitoraggio. Sono state predisposte numerose funzioni che per- mettono di visualizzare ed esportare tabelle di report in cui vengono presentate statistiche più o meno dettagliate anno per anno e leva per leva. Inoltre, è pos- sibile monitorare costantemente l’avanzamento della fase 9 da parte delle scuole e degli Enti di formazione professionale (profili utente coinvolti: AS; OP). 12) Presa in carico per orientamento. Ogni CPI della Provincia di Genova ha un accesso riservato al sistema, protetto da uno specifico ID e Password. La fun- zione principale a disposizione dei CPI è di interrogare il sistema, con l’ausilio di alcuni filtri di ricerca, per la ricerca dei dispersi in modo da poterli contat- tare, verificarne il reale status e quindi attuare le adeguate politiche di orienta- mento alla formazione. Al fine di differenziare i giovani che sono già stati con- tattati rispetto agli altri ancora dispersi, è stato ideato un nuovo status, definito “in orientamento”; se un giovane risulta essere in questo status, significa che pur non assolvendo correttamente l’obbligo formativo (in quanto non si trova né a scuola, né in formazione professionale, né in apprendistato), tuttavia non può neanche considerarsi “disperso” ma si trova in una fase di transizione, sotto il controllo del CPI, in attesa di individuare la strada giusta per lui. Nel 124 caso poi il ragazzo decida una propria strada adeguata, mediante lo step 10 il suo status potrà essere nuovamente aggiornato (profili utente coinvolti: CPI). 13) Ricerca approfondita. È stata predisposta una funzione di ricerca di dettaglio nella banca dati, grazie alla quale è possibile impostare numerosi filtri di ri- cerca, anche di estremo dettaglio, per attuare “query” sulla banca dati (profili utente coinvolti: tutti). 14) Funzioni ausiliarie. Sono infine disponibili alcune funzioni ausiliarie per la ge- stione e la manutenzione della banca dati che permettono ad esempio di: inse- rire nuove scuole o eliminarne alcune, nel caso si verificasse questa situazione; modificare i dati anagrafici di ogni scuola o di un singolo ragazzo; inserire me- diante un’apposita interfaccia di dialogo un nuovo ragazzo nell’anagrafica e altro ancora (profili utente coinvolti: AS; OP). Le funzionalità principali di ciascun profilo utente sono quindi le seguenti: Gli sviluppi intervenuti in seguito, legati anche all’evoluzione normativa ed agli accordi nel frattempo intervenuti tra la Provincia di Genova e la Regione Li- guria, sono rivolti come si è accennato sopra alla realizzazione di un sistema di li- vello regionale. Ciò dovrebbe consentire tra l’altro l’individuazione automatica degli allievi che migrano scolasticamente da una Provincia all’altra. In questo caso si prevede un ruolo di amministratore unico, attraverso il quale i soggetti istituzionali accedono ad un data base concettualmente separato tra le varie Province, ma fisicamente localizzato su un unico server. Il vantaggio principale di questa versione è la possibilità di condividere diret- tamente i dati dei giovani residenti nelle singole Province indipendentemente dalla sede della scuola a cui sono iscritti. Questo evita automaticamente il problema delle dispersioni apparenti, almeno tra tutte le Province che partecipano a questa 125 anagrafe. Ogni utente del sistema software può quindi accedere, oltre ai dati del proprio territorio, anche ai dati delle altre Province, purché soddisfino determinati criteri (la residenza del giovane, principalmente). Uno svantaggio è legato invece alla necessità di dover quasi sicuramente di- versificare l’amministratore di sistema dal soggetto che gestisce il servizio di sup- porto operativo e organizzativo alle fasi di raccolta dati, che molto probabilmente va mantenuto a livello locale. Poiché tutti questi software applicativi viaggiano su Internet, questo problema può comunque risultare semplice da risolvere, in quanto si possono ipotizzare accessi di tipo “amministratore” con privilegi minori, nel caso della presenza di soggetti di gestione locale. Questa seconda opzione fa evolvere leggermente la prima e vede un ruolo diretto di gestione da parte di un soggetto di tipo regionale il quale, ferme restando le competenze a livello provinciale di rac- colta dei dati dalle scuole, realizza un unico data base fisicamente collocato in una sede centrale e accessibile con il tramite di un amministratore di sistema. 2.2. Il Sistema Informativo per il Diritto/Dovere alla Istruzione e Formazione (S.I.D.D.I.F.) La prima fase del progetto (avvio del sistema per l’anno scolastico 2005/06, Settembre ’05 - Febbraio ‘06) ha visto l’utilizzo del sistema nell’ambito di tutte le Province Liguri, presso: le scuole secondarie di 1° e 2° grado; i percorsi di qualifi- cazione professionale triennali; gli apprendisti minorenni. Sul piano della gestione operativa, per quanto riguarda quindi, da un lato l’ac- quisizione dei dati e, dall’altro, la loro gestione, le tappe sono state le seguenti: 1) Acquisizione dei dati: - giugno ‘05: incontro con le Province e condivisione progetto; - luglio ‘05: incontri con i Dirigenti Scolastici delle Province di La Spezia e Imperia; - novembre ‘05: attivazione del gruppo di assistenza e gestione (personale dedicato attivo presso le Province per attività di contatto, normalizzazione dati e assistenza); - novembre/dicembre ‘05: incontri di formazione con le scuole e gli Enti di formazione professionale nelle Province di Imperia, Savona, Genova e La Spezia; - dicembre/febbraio ‘06: acquisizione e normalizzazione dei dati provenienti da scuole ed Enti di formazione professionale; 2) Gestione dei dati: - gennaio ‘06: incontro con le scuole secondarie di 1° grado della Provincia di Genova per la formazione sull’inserimento iscrizioni; - marzo ‘06: incontri con scuole e Enti di formazione professionale per la formazione sull’inserimento iscrizioni e gestione alunni; - marzo ‘06: integrazione del sistema con i dati dei ragazzi in apprendistato; 126 - marzo ‘06: incontri con CPI per la formazione sulla gestione degli alunni dispersi; - maggio ‘06: incontri con scuole e Enti di formazione professionale per la gestione degli esiti; - giugno ‘06: condivisione dei dati con l’Ufficio Regionale Trasporti. Nel luglio 2006 si è finalmente conclusa questa fase del progetto. Fig. 2 - Schema S.I.D.D.I.F. Lo sviluppo del software ha comportato: – l’integrazione con i sistemi di riconoscimento utente regionale; – la gestione dei dati qualifiche dagli Enti di formazione professionale differen- ziati per percorsi; – la gestione regionale delle iscrizioni; – la gestione regionale degli arrivi/ritiri; – la gestione esiti sia per le scuole che per gli Enti di formazione professionale; – la produzione di reportistica e il monitoraggio a livello regionale; – la produzione di reportistica per le scuole (visione regionale e della scuola); – la gestione dei flussi di mobilità degli alunni a livello regionale; – il monitoraggio dei percorsi per le scuole; 127 – l’interfaccia con il Sistema Informativo del Lavoro; – la condivisione dei dati di competenza con le Province (repliche); – l’interfaccia con l’Anagrafe Sanitaria Regionale (concluso lo sviluppo in attesa di accordi tra Assessorato e AASSLL per l’utilizzo dei dati anagrafici). La seconda fase del progetto, relativa all’anno scolastico 2006-07 (novembre ‘06-marzo ‘07) prevede: – l’acquisizione dei dati relativi alla popolazione residente in Liguria coinvolta nel diritto-dovere; – l’acquisizione dei dati relativi agli alunni delle scuole statali e paritarie di ogni ordine e grado di tutte le Province Liguri; – l’acquisizione dei dati relativi agli alunni dei percorsi di qualificazione profes- sionale triennali tenuti dagli Enti di formazione professionale; – l’acquisizione dei dati relativi agli alunni che ottemperano il diritto-dovere nel- l’ambito dell’apprendistato. Il tutto da realizzare con la seguente scansione: – luglio ‘06: incontri con i referenti del MPI per accordi sui dati delle scuole sta- tali che verranno scambiati; – novembre ‘06: acquisizione dati da AASSLL; – novembre/dicembre ‘06: incontri di formazione con le scuole di 1° grado pari- tarie sui territori delle Province di Imperia, Savona, Genova e La Spezia; – dicembre/febbraio ‘07: acquisizione e normalizzazione dei dati provenienti da Ministero, scuole paritarie ed Enti di formazione professionale; Lo sviluppo del software dovrebbe consentire, a questo punto: – la gestione dei dati di tutte le scuole statali, sfruttando la raccolta dati effettuata dal MPI; – la gestione dei dati integrativi delle scuole statali di 2° grado (percorsi scola- stici, titoli conseguibili e plessi); – l’acquisizione delle iscrizioni per le scuole secondarie di 1° grado. 128 2.3. Presentazione dell’interfaccia del S.I.D.D.I.F. Nel seguito descriviamo brevemente l’interfaccia che si presenta all’ammini- stratore/operatore che accede al S.I.D.D.I.F. e le opzioni di utilizzo supportate (in parte già descritte con riferimento alla costruzione dell’anagrafe provinciale). Fig. 3 - Architettura S.I.D.D.I.F. 129 L’operatore che accede al Sistema Informativo per il diritto-dovere all’istru- zione e alla formazione ha a sua disposizione un ventaglio di funzionalità e di op- zioni di utilizzo. In relazione alla gestione e all’uso della banca dati sul diritto/do- vere, l’operatore può: – effettuare inserimenti e modifiche di dati; – importare nuovi file di dati forniti dai soggetti interessati (scuole, Enti di for- mazione professionale ecc.); – operare azioni “avanzate” di gestione e controllo dei dati presenti nell’ana- grafe; – monitorare l’alimentazione del sistema da parte dei soggetti interessati; – accedere ad una varietà di reportistiche che vedremo in dettaglio sotto. Per quanto riguarda l’opzione “inserimenti”, l’operatore può inserire nel si- stema informativo una nuova scuola, un nuovo plesso, un nuovo ente di formazione professionale o un nuovo centro per l’impiego, un nuovo studente o un nuovo ope- ratore (funzione, quest’ultima, accordata al profilo amministratore). Relativamente alle “modifiche” l’operatore può modificare i dati già presenti all’interno del sistema e relativi alle scuole, ai plessi, agli Enti di formazione pro- fessionale, ai CPI. Fig. 4 - La schermata iniziale del S.I.D.D.I.F. - menù inserimenti 130 Il sistema consente inoltre di importare file dalle scuole, dagli Enti, dai CPI e quindi di alimentarlo e aggiornarlo periodicamente: come si è precisato in prece- denza, infatti, il sistema viene alimentato – per quanto riguarda ad esempio i dati relativi agli alunni del sistema scolastico – attraverso l’importazione di file norma- lizzati, ottenuti dall’estrazione dai sistemi già in uso presso gli uffici amministrativi delle scuole. Le opzioni “avanzate” sono funzionali all’allineamento dei dati presenti nel si- stema informativo, esse permettono infatti dei controlli di coerenza, nella gestione e correzione degli ambiti. Fig. 5 - La schermata iniziale del S.I.D.D.I.F. - menù importa file Il “monitoraggio”, poi, fa riferimento al controllo del processo di alimenta- zione del sistema da parte dei diversi attori a questo titolati, ed in particolare nel controllo dell’avanzamento rispetto alla registrazione delle iscrizioni: il ritorno dunque è un dato sulla percentuale di scuole che hanno già trasmesso i dati che quindi sono stati normalizzati, puliti ed importati nel sistema. L’aspetto forse più interessante ai fini del presente lavoro è la possibilità di ac- cedere ad una serie di “reportistiche”. Tra queste figura in primo luogo il “resoconto generale”, che permette all’ope- 131 ratore di sapere quanti sono – in ciascuna Provincia e per ognuna delle leve interes- sate – i giovani che risultano a scuola, quelli inseriti nella formazione professionale e nell’apprendistato, quelli in orientamento e, infine, i “dispersi”, i “non rilevati” e i “ritirati”. Il dato è disponibile per ogni anno scolastico. La somma delle ultime tre “voci” appena menzionate potrebbe essere la proxy più attendibile del fenomeno “dispersione” nel territorio di volta in volta conside- rato. Fig. 6 - Il S.I.D.D.I.F. - Reportistiche - Resoconto Generale Il sistema fornisce all’operatore anche i particolari relativi a ciascuno dei “sot- tosistemi”: ad esempio, per le scuole, restituisce il numero dei giovani di ciascuna leva iscritti alle scuole secondarie di primo grado e negli istituti comprensivi sta- tali, il numero di quelli iscritti presso i centri territoriali permanenti, di quelli pre- senti negli istituti superiori statali, nei civici e nelle medie e superiori paritarie o le- galmente riconosciute. Per quanto riguarda la formazione professionale, il sistema fornisce poi il det- taglio di quanti giovani sono iscritti ai percorsi triennali e quanti agli altri canali della formazione professionale; viene infine restituito un dettaglio degli studenti provenienti da altre Province e iscritti in una delle Province liguri. 132 Il resoconto sociale permette all’amministratore e all’operatore di sapere, nel- l’anno scolastico considerato, dove si trovano i giovani nati in un certo anno per ogni Provincia e Comune del territorio. Anche in questo caso vengono forniti i particolari relativi al canale in cui sono inseriti i giovani della leva considerata sia rispetto al tipo di scuola, alla tipologia formativa, all’apprendistato. Fig. 7 - Il S.I.D.D.I.F. - Reportistiche - Resoconto Sociale 133 Il resoconto per anno scolastico permette poi di conoscere il dettaglio relativo alla cittadinanza dei giovani in diritto-dovere (cittadinanza italiana, comunitaria ed extracomunitaria). Da alcune prove emerge come la percentuale dei giovani allievi iscritti ai corsi di formazione professionale, così come la percentuale dei dispersi, siano decisa- mente maggiori nel caso degli studenti con cittadinanza extracomunitaria: ad esempio, nell’anno scolastico 2005-06, la percentuale dei “dispersi” è pari al 29,6% per gli extracomunitari nati nel 1988, mentre il dato complessivo è pari all’1,17%, e sale al 7,34% se consideriamo anche i “non rilevati” e i “ritirati”. Fig. 8 - Il S.I.D.D.I.F. - Reportistiche, resoconto per anno scolastico - extracomunitari 134 La funzionalità “curricula” consente poi di ricostruire la carriera scolastica e formativa del giovane, compresa la scuola/Ente di provenienza, le eventuali ripe- tenze, ecc., oltre a fornire le informazioni anagrafiche utili a rintracciare il giovane. Fig. 9 - Il S.I.D.D.I.F. - Reportistiche, curricula 135 La reportistica relativa alla scelta previsionale dei giovani fornisce, per ogni anno, il numero di giovani che intendono proseguire nella scuola, nella formazione professionale o nell’apprendistato. Fig. 10 - Il S.I.D.D.I.F. - Reportistiche, scelta previsionale 136 Le statistiche automatiche relative ai “flussi di mobilità” consentono di cono- scere il numero di giovani “coerenti” e “non coerenti”, ovvero dei giovani che ri- sultano iscritti in una scuola situata nello stesso “ambito” di residenza e di quelli che, invece, sono iscritti in scuole collocate in altri “ambiti” (con riferimento ai plessi scolastici). Fig. 11 - Il S.I.D.D.I.F. - Reportistiche, flussi mobilità 137 Il sistema consente infine di effettuare delle interrogazioni specifiche rispon- denti ad esigenze conoscitive puntuali dell’operatore/amministratore che accede ai dati (Provincia, anno scolastico, anno di nascita, nazionalità, tipo di corso, indirizzo di corso e tipo di scuola, classe, ecc.) attraverso la funzione report generale. Le statistiche relative alla mobilità regionale restituiscono – per ogni Provincia – il dettaglio del numero di giovani, maschi e femmine, iscritti presso scuole o Enti di formazione professionale situati in altre Province della Regione. Fig. 12 - Il S.I.D.D.I.F. - Reportistiche, mobilità regionale 138 2.4. Le funzioni specifiche dell’Osservatorio Pubblica Istruzione della Provincia di Genova (OPI) Il 2006-07 è il terzo anno che l’OPI “viaggia” all’interno del sistema dell’ana- grafe (il primo anno scolastico è stato infatti il 2004-05). I dati erano raccolti già in precedenza, fin dal 1998, ma in modo più semplice e “artigianale”; dal momento in cui è nata l’anagrafe dell’obbligo formativo si è posta l’esigenza di non duplicare le richieste di dati alle scuole, da un lato, e di ottimizzare tempi, risorse e risultati conseguibili, dall’altro. Rispetto ai dati già raccolti dai CPI all’OPI serviva anche avere la sezione, la classe e il titolo di studio conseguibile dal singolo allievo, campi che sono stati ag- giunti a quelli richiesti. L’Osservatorio si avvale del sistema informativo ma, allo stesso tempo, molte elaborazioni legate alle funzioni di coordinamento e programmazione vengono compiute “al di fuori” di esso, utilizzando i dati esportati per effettuare ulteriori analisi che non sono previste dalla reportistica automatizzata. Trattandosi di una banca dati “dinamica” è infatti necessario esportare e elabo- rare i dati per avere un dato “certo” ad una data specificata: per l’elaborazione dei Fig. 13 - Il S.I.D.D.I.F. - Reportistiche, report generale 139 dati presenti nel sistema vengono quindi richieste delle estrazioni che consentono di restituire una “fotografia” dei dati al momento dell’estrazione. Vediamo le funzioni previste dalla reportistica e legate direttamente all’OPI. 1) Pre-iscrizioni La banca dati nasce con la rilevazione delle scuole secondarie di 1° grado e delle scuole secondarie di 2° grado, e prevede di poter dare a queste ultime un ritorno informativo relativo al numero di studenti che accederanno dalle secon- darie di 1° grado. Una visione generale restituisce, quindi, il numero di allievi (maschi e femmi- ne) pre-iscritti ad ogni scuola secondaria di 2° grado e, cliccando sulla scuola scelta al momento della pre-iscrizione, vengono visualizzate sia le scuole di provenienza, sia i nominativi dei ragazzi che andranno in quella scuola. Fig. 14 - Il S.I.D.D.I.F. - Osservatorio pubblica istruzione 2) OPI - report generale Il report generale restituisce, sulla base del grado di istruzione (scuole secon- darie di 1° e di 2° grado) e della Provincia, i dati relativi: - allo stato di importazione dei dati; - al totale studenti; 140 - al numero di maschi e femmine; - al numero di italiani, di stranieri comunitari ed extracomunitari; - al numero di iscritti a corsi serali, diurni; - ai numero di studenti carcerati; - al numero di iscritti per titolo di studio conseguibile; - al numero di iscritti per tipologia di scuola (civico, paritario, statale); - al numero di studenti per classe; - al numero di studenti per ambito scolastico; - al numero di studenti per ambito di residenza. Dall’incrocio del dato relativo al sito scolastico e quello relativo al quartiere di provenienza degli studenti si può ricostruire il flusso di mobilità. 3) OPI - report scuola Per ogni plesso di quella scuola il sistema restituisce in questo caso il numero di studenti e di classi per classe e corso diurno e serale. 4) OPI - report flussi In questo caso il sistema suddivide gli studenti in “coerenti” e “non coerenti” rispetto all’incrocio tra ambito di residenza e ambito del plesso scolastico in cui sono iscritti. 141 Capitolo 6 Regione Toscana e Provincia di Pisa Domenico SUGAMIELE 1. Sistema Informativo Scolastico Regionale (SISR) La Regione Toscana, ancora prima dell’introduzione della normativa sull’ob- bligo formativo, ha sviluppato il proprio Sistema Informativo con l’obiettivo di inte- grare le iniziative e le politiche pubbliche nel campo del sistema scolastico della Re- gione. Il progetto è stato indotto dall’attivismo di alcune realtà provinciali, prima fra tutte la Provincia di Pisa, che hanno avviato iniziative di coordinamento territoriale, anche con la costituzione di osservatori scolastici provinciali, per ottimizzare il si- stema dei servizi scolastici, in primo luogo quelli relativi all’edilizia e ai trasporti. 1.1. Anagrafe Regionale degli Studenti Nel 1996, con la stipula di una convenzione tra la Regione, le Province, i Prov- veditorati agli Studi, la Sovrintendenza Scolastica Regionale (struttura soppressa con l’introduzione degli USR) e l’IRRSAE (oggi IRRE), nasce il Sistema Informa- tivo Scolastico Regionale (SISR) con lo scopo della costruzione di una banca dati comprendente le istituzioni scolastiche pubbliche e private presenti nel territorio, la loro consistenza in alunni e classi e la loro offerta formativa. In tale struttura, le informazioni relative all’andamento della popolazione sco- lastica si legano strettamente a quelle relative all’edilizia scolastica e ai trasporti, e queste ultime condizionano il complesso dell’offerta formativa di un territorio. In questo senso è stato realizzato un censimento delle strutture edilizie, culminato con la costruzione della banca dati regionale sull’edilizia scolastica. In seguito all’approvazione della legge n. 59 del 1997, la politica regionale si è sempre di più caratterizzata per un forte attivismo sui temi del decentramento am- ministrativo e delle politiche pubbliche nel campo dell’istruzione e, più in generale, del coordinamento e dello sviluppo di iniziative a sostegno del diritto allo studio. Nel 2000 la Regione ha sottoscritto un protocollo d’intesa con il Ministero dell’I- struzione per avviare la sperimentazione dell’autonomia scolastica, con uno svi- luppo particolare nella Provincia di Pisa. In questa prima fase, il SISR si è sviluppato come strumento di supporto alle politiche del dimensionamento delle sedi scolastiche e dell’offerta formativa dell’i- struzione. 142 1.2. L’avvio dell’Anagrafe Regionale dell’Obbligo formativo Nel 2001, il Piano di indirizzo regionale per il diritto allo studio, in seguito al- l’estensione dell’obbligo scolastico (legge n. 9/1999) e all’entrata in vigore dell’ob- bligo formativo (legge n. 144/1999 art. 68) e del regolamento applicativo (DPR n. 257/2000), ha proceduto ad un aggiornamento degli obiettivi del SISR e alla sua ri- organizzazione anche alla luce delle nuove competenze devolute alle Regioni e agli Enti locali dal D.lgs. 112 del 1998, in particolare gli articoli 138 e 139 che affidano a Comuni, Province e Regioni competenze che è possibile esercitare solo con una approfondita conoscenza dei sistemi scolastici locali. L’Assessorato all’Istruzione, Formazione e Politiche del Lavoro della Regione svolge la funzione di coordinamento e supporto alle istituzioni locali. In particolare, il Servizio Educazione segue le iniziative relative all’obbligo formativo e coordina gli interventi delle anagrafi provinciali mentre il Servizio Lavoro gestisce le attività di coordinamento con i Centri per l’impiego e di formazione in apprendistato. Per rimodulare il SISR è stato attivato un gruppo di lavoro tra Regione e USR che ha organizzato una serie di seminari con l’obiettivo di rivedere il piano di indi- rizzo per il diritto allo studio e promuovere l’attivazione degli Osservatori Scola- stici Provinciali (OSP). Il modello di anagrafe si basa sul flusso di dati fornito dalle scuole, che rappre- sentano la fonte primaria dell’informazione, agli OSP. La scuola invia l’archivio completo (tutte le informazioni anagrafiche degli alunni presenti nella banca dati della scuola e non solo le informazioni del tracciato relativo all’obbligo formativo) della popolazione scolastica soggetta all’obbligo formativo all’OSP, evitando sia operazioni di parziale digitazione che successive trasmissioni di dati ad altri enti. L’OSP sarà il riferimento per successive elaborazioni, report e analisi statistiche, da fornire ai soggetti esterni alla scuola. La banca dati regionale diventa, quindi, nominativa di tutti gli alunni che, avendo assolto l’obbligo scolastico, entrano nell’obbligo formativo fino al suo as- solvimento o fino al 18° anno. Essa si alimenta attraverso i dati forniti dalle istitu- zioni scolastiche agli OSP che trasmettono i tracciati relativi all’obbligo formativo ai CPI. Per facilitare la raccolta dati e rendere più fluido il processo di integrazione delle anagrafi, la Regione, in accordo con l’Ufficio scolastico regionale, ha deciso di fornire alle scuole un pacchetto software AXIOS, da affiancare al sistema SISSI del Ministero. Si tratta di un sistema utilizzato per la raccolta dei dati dalle scuole dall’Osservatorio provinciale di Pisa. Al fine della costruzione della banca dati regionale, il flusso delle informazioni del SISR parte dalle istituzioni scolastiche che sono libere di utilizzare diversi ap- plicativi software, purché contengano tutte le informazioni necessarie alla gestione della banca dati provinciale. Per favorire l’uniformità dei dati è stata predisposta una procedura di conversione dei dati provenienti da vari pacchetti applicativi (cfr. figura 1). 143 L’obiettivo che la Regione Toscana si è posta nel 2001 è stato quello di creare uno strumento di supporto a tutte le istituzioni che operano nel settore dell’istru- zione affinché possano farlo con efficacia e in sinergia, integrandosi con il sistema della formazione professionale e dell’apprendistato. L’azione della Regione si è orientata a raccogliere e valorizzare le esperienze avviate nel proprio territorio per costruire una banca dati degli alunni che non si li- mitasse al censimento dei 15-18enni ma comprendesse gli alunni di tutto il sistema scolastico. Su queste basi, come si approfondirà in seguito, dal 2001 la Regione ha avviato un processo di trasferimento del know how accumulato dall’OSP di Pisa alle altre Province. L’OSP della Provincia di Pisa gestiva già dal 1992 gli alunni di ogni ordine e grado di scuola. Fig. 1 - Procedura di standardizzazione dei dati provenienti da diverse applicazioni Proprio nell’ottica di valorizzare le esperienze territoriali, anche a seguito delle deleghe alle Province e all’avvio dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, il SISR è articolato a livello territoriale negli OSP. Le motivazioni della scelta pro- vinciale come base di raccolta e manutenzione dei dati, descritte nel Piano regio- nale del 2001, si concentrano essenzialmente su tre aspetti. In primo luogo la Regione ha delegato le sue competenze su diritto allo studio, formazione professionale e apprendistato, edilizia scolastica, alle Province che 144 svolgono in ciò azione di coordinamento dei Comuni. Ed inoltre i CPI che svol- gono le funzioni di rapporto con l’obbligo formativo, dipendono dalle Province. In secondo luogo un’articolazione sub regionale come quella provinciale con- sente un controllo di completezza e qualità dei dati più efficace e meno dispersivo e di avere una banca dati alimentata con continuità con informazioni complete, cor- rette e standardizzate. L’esperienza della Provincia di Pisa ha senza ombra di dubbio favorito questa scelta in quanto si è assunto un progetto consolidato e che aveva dato buoni risultati. In terzo luogo, per sviluppare un sistema di servizi di supporto alla moltepli- cità dei soggetti che operano nel sistema scolastico, la dimensione regionale appare non essere adeguata ad offrire servizi efficaci e tempestivi. Molteplicità di soggetti ai quali le norme chiedono di operare nei settori dell’istruzione, della formazione professionale e dell’apprendistato e i cui bisogni informativi, necessari ad assolvere alle competenze previste dalla legge, richiedono una forte capacità di collabora- zione e di sinergia tra di essi anche attraverso lo sviluppo di reti locali di servizi condivisi. La dimensione provinciale consente, in questo senso, di fornire un sostegno migliore e diretto a tutte le istituzioni, pubbliche e non, che operano a livelli sub provinciali e in primis ai Comuni e alle istituzioni scolastiche e formative. Presso l’OSP sono attivate le procedure di estrazione dei dati da ogni pacchetto gestionale e sono rese omogenee e coerenti con quelle di tutte le banche dati pro- dotte dagli OSP delle altre Province. Ogni Osservatorio ha a disposizione i dati delle anagrafiche dei Comuni, corri- spondenti alle leve scolastiche poste sotto controllo. La banca dati per la gestione dell’obbligo formativo, alla quale affluiranno anche i dati relativi agli alunni che assolvono l’obbligo nei percorsi di formazione professionale e apprendistato, è previsto sia allocata presso i CPI e, qualora questi non fossero attrezzati a ciò, essa potrà essere gestita dall’OSP. Le banche dati provinciali alimentano la banca dati regionale che avrà la fun- zione di garantire lo scambio di informazioni tra le varie Province, rispetto alla mo- bilità degli alunni, e il confronto e lo scambio di informazioni con il sistema infor- mativo nazionale. La Regione ha assunto, in questo senso, il ruolo di soggetto di indirizzo del SISR, coordinandosi con USR del Ministero della pubblica istruzione. I soggetti su cui poggia la costruzione del SISR sono le istituzioni scolastiche autonome, sulle quali grava il carico della gestione dei dati degli alunni nel loro percorso di istruzione, e i Comuni. Il Comune, oltre ad essere il diretto garante dei diritti di cittadinanza, è chiamato ad assolvere i compiti di garanzia che, nel caso della scuola, riguardano le pari opportunità, l’eliminazione delle sperequazioni, l’e- ducazione alla salute e la lotta alla dispersione scolastica. Funzioni di controllo che sono possibili solo con l’incrocio dei dati provenienti dalle scuole con quelli delle anagrafi comunali. 145 La Provincia è l’istituzione che ha il compito, insieme all’USP, di creare le condizioni organizzative e strumentali per la gestione della banca dati provinciale del SISR, garantendo il supporto alle istituzioni scolastiche e territoriali con la pre- disposizione di strutture logistiche e personale adeguato alla gestione dell’OSP. Il SISR rappresenta, in questo senso, uno strumento di programmazione degli interventi e di controllo della loro efficacia, nelle materie di competenza della Re- gione e degli Enti locali. Esso è anche uno strumento di supporto per le istituzioni scolastiche per il miglioramento e l’ampliamento dell’offerta formativa e la lotta alla dispersione scolastica. 1.3. Dall’Anagrafe dell’Obbligo Formativo all’Anagrafe degli Studenti Questa struttura organizzativa è stata consolidata e potenziata sia con il Piano regionale del 2003, che ha definito gli indirizzi generali per il funzionamento del- l’anagrafe regionale e i compiti affidati agli OSP, sia con il Piano del 2006 che rac- coglie le indicazioni normative apportate dal decreto n. 76/2005 sul diritto-dovere. Il Piano del 2003 assegna, inoltre, all’OSP di Pisa “le funzioni di Centro di riferi- mento regionale per lo sviluppo e il coordinamento del SISR”. L’OSP di Pisa rap- presenta l’esperienza di riferimento della Regione Toscana. Esso è stato istituito nel 1992 e la sua struttura tecnologica e organizzativa è stata trasferita a tutte le altre realtà provinciali della Regione. In tempi rapidi, si dovrebbe pervenire alla com- pleta operatività di tutti gli OSP in modo che la banca dati del SISR sia in grado di consentire che i ragazzi siano seguiti da quando entrano nel sistema scolastico fino a che non ne escono, in maniera da comprendere e studiare gli elementi di criticità dei percorsi di istruzione e favorire iniziative di prevenzione della dispersione sco- lastica. Gli strumenti individuati per realizzare il SISR sono convenzioni o protocolli di intesa, prevalentemente in ambito provinciale, tra i soggetti istituzionali, com- prese tutte le istituzioni scolastiche. La Regione e le Province hanno assicurato alle scuole, tramite gli OSP e con specifici finanziamenti, i sostegni necessari, sia di na- tura professionale che tecnica in modo che il SISR possa garantire alle scuole i ne- cessari supporti alle decisioni utili a migliorare la qualità del loro servizio. La messa a regime degli OSP secondo le convenzioni stabilite dalla Regione comprende l’obbligo, per ciascun Osservatorio, sia dell’invio ai CPI dei dati com- pleti relativi ai giovani in obbligo formativo, sia dell’invio ai sindaci e ai dirigenti scolastici dei dati sull’evasione dell’obbligo scolastico. La trasmissione dei dati da parte delle scuole agli Osservatori avviene: all’atto dell’iscrizione, entro il mese di febbraio, per fornire i dati riguardanti la scelta degli alunni che, nel caso di giovani dai 14 ai 18 anni, comprende anche la formazione professionale e l’apprendistato; alla fine dell’anno scolastico/formativo, entro il mese di luglio, per fornire i dati relativi agli esiti scolastici; all’inizio dell’anno sco- lastico/formativo, entro il mese di ottobre, per fornire i dati sulle frequenze (rile- vare gli iscritti che non frequentano). Durante l’anno le scuole segnalano ai CPI e 146 agli OSP gli alunni ritirati o trasferiti ad altre istituzioni scolastiche o formative e coloro che interrompono il percorso scolastico. Ai fini dell’implementazione del proprio sistema e renderlo coerente con il si- stema informativo del MIUR, nel 2004 la Regione ha sottoscritto uno specifico protocollo d’intesa con il Ministero dell’istruzione volto a “favorire lo scambio in- formativo tra le istituzioni e gli enti interessati mediante la condivisione di tutte le informazioni sulla rete delle scuole – di ogni ordine e grado pubbliche e private – e sull’intero sistema formativo utili a corrispondere con continuità, tempestività e completezza agli adempimenti di rispettiva competenza”. L’obiettivo principale dell’accordo è quello di studiare procedure di coopera- zione applicativa per pervenire all’integrazione dei sistemi informativi e per condi- videre codici e classificazioni. La base dati del Sistema Informativo nazionale (SIDI) del MIUR è stata assunta quale fonte informativa univoca relativamente ai dati del sistema scolastico statale e non statale paritario con l’impegno reciproco di avviare una revisione delle codifiche e delle classificazioni, conformemente alle esigenze degli enti locali (in particolare la codifica delle succursali e sedi staccate), e le modalità operative per consentire alla Regione l’accesso al Data Warehouse del SIDI, relativamente ai dati di interesse regionale. Gli OSP hanno accesso, con specifiche password, al Data Warehouse del SIDI. Non si sono ancora sviluppate le applicazioni di cooperazione applicativa tra i Sistemi informativi regionale e nazio- nale, anche in considerazione del fatto che l’anagrafe degli studenti nazionale è an- cora in fase di completa definizione. Così come non si è ancora pervenuti alla revi- sione delle codifiche delle sedi scolastiche. Nel seguito, ai fini dell’analisi del sistema dell’anagrafe della Regione To- scana, si farà riferimento all’esperienza della struttura dell’OSP di Pisa che, come prima specificato, è stato assunto a riferimento per le altre Province e svolge la fun- zione di coordinamento regionale. 2. L’Osservatorio Scolastico Provinciale (OSP) di PISA1 L’OSP è un organismo di supporto statistico fondamentale non solo per la Pro- vincia, ma per tutti i soggetti, pubblici e non, che operano nel mondo della scuola. Esso è nato da una convenzione stipulata nel 1992 tra Provincia, il Provveditorato agli studi (oggi USP) e l’Istituto Tecnico “Fermi” di Pontedera, e mette da anni a disposizione delle amministrazioni locali, delle singole scuole, organi collegiali, in- segnanti ed operatori scolastici, le sue elaborazioni sui dati del sistema scolastico provinciale. Dati che riguardano la natalità, la struttura del sistema, la consistenza delle scuole in classi e alunni, la mobilità territoriale degli studenti, i risultati della 1 Il paragrafo rielabora i materiali prodotti dall’OSP di Pisa e i contenuti emersi dal colloquio avuto con il prof. Rino Picchi, coordinatore dello stesso, che si ringrazia per la cortese collaborazione. 147 scuola dell’obbligo e della scuola secondaria superiore, sulle pari opportunità, sul disagio e gli abbandoni. Dal prossimo anno scolastico 2007/08 sarà avviata anche la comparazione degli esiti, per Comune e scuola, rispetto agli studi universitari. Si tratta di una base di dati messa a disposizione di chi deve operare e gover- nare il sistema scolastico provinciale, anche con analisi e ricerche su aree e settori diversi, implementata in un sistema informativo che si è costantemente evoluto e oggi è collegato in rete. L’OSP ha prodotto un apposito portale Internet2 che è in grado di fornire in tempo reale informazioni su tutto il ciclo scolastico, da quello di base a quello superiore. Il reperimento dei dati avviene direttamente presso la singola istituzione scola- stica tramite trasferimento, su supporto magnetico o direttamente via internet, delle basi dati degli alunni. La convenzione è stata rinnovata nell’anno 2000, recependo le innovazioni le- gislative nel frattempo intervenute e, in particolare, la normativa sull’obbligo scola- stico e formativo e sull’autonomia scolastica. Successivamente la convenzione è stata adeguata ai dispositivi legislativi e regolamentari di attuazione della legge n. 53 del 2003 quali l’Accordo quadro sui percorsi sperimentali triennali del giugno 2003, il decreto legislativo n. 76/2005 sul diritto-dovere e a specifici protocolli d’intesa stipulati dalla Regione e dal MIUR. Come già accennato, l’OSP di Pisa co- stituisce, insieme alle analoghe strutture delle altre Province Toscane, la base del sistema informativo scolastico regionale (SISR) e svolge “le funzioni di Centro di riferimento regionale per lo sviluppo e il coordinamento del SISR”. 2.1. La struttura della convenzione La convenzione è sottoscritta dalla Provincia, dall’USP (ex Provveditorato) dalle Istituzioni scolastiche e dai Comuni della Provincia. Essa definisce le finalità, le funzioni e i compiti dell’Osservatorio, i doveri e gli obblighi delle istituzioni nonché i diritti delle parti in termini, essenzialmente, di servizi resi. Le finalità che determinano l’oggetto prioritario della convenzione sono indi- viduabili nella raccolta di dati e informazioni al fine di scambiarsi analisi che con- sentano di approfondire la conoscenza dei rapporti tra scuola e società che siano ef- ficace supporto all’adozione degli interventi di competenza di ciascuna istituzione in merito ai seguenti temi: espletamento dell’obbligo scolastico e dell’obbligo for- mativo; dispersione scolastica e formativa; mobilità territoriale; integrazione tra si- stema scolastico e sistema della formazione professionale; percorsi ed esiti scola- stici anche in relazione alle caratteristiche della famiglia di provenienza; studenti figli di famiglie immigrate; studenti portatori di handicap; diritto allo studio; pro- grammazione dell’offerta formativa. In questo senso l’Osservatorio è una struttura di servizio per il complesso degli 2 http://osp.provincia.pisa.it/osp/ 148 attori del sistema educativo e per i cittadini. Un’organizzazione che si sviluppa sul modello della rete di servizi per la scuola e che risponde alle esigenze delle istitu- zioni preposte al governo della stessa. L’investimento della Provincia nel sistema scolastico e formativo si configura come un intervento di prospettiva in cui la co- noscenza dei dati e delle informazioni del sistema assumono un ruolo strategico nello sviluppo di politiche sociali che puntano a rimuovere gli elementi di crisi che determinano disagio e dispersione. L’Osservatorio, attraverso analisi delle informazioni raccolte e tramite pubbli- cazioni annuali, supporta, in particolare: – le istituzioni scolastiche nel percorso di sviluppo dell’autonomia con partico- lare attenzione ai processi di programmazione dell’offerta, di valutazione e au- tovalutazione e di progettazione di innovazioni didattiche volte al migliora- mento degli esiti scolastici dei propri allievi; – l’Amministrazione provinciale e gli altri Enti locali nell’analisi dei dati e dei flussi di informazioni per la pianificazione e la programmazione degli inter- venti in materia scolastica, dalla distribuzione dell’offerta nel territorio all’edi- lizia scolastica, tramite il collegamento alla relativa banca dati, e al sistema dei trasporti, tramite analisi dei flussi di mobilità degli studenti; – gli Organi collegiali di scuola e territoriali nella loro funzione propositiva sulla dislocazione delle unità scolastiche, sull’orientamento e sulle politiche dell’ar- ricchimento dell’offerta formativa, proprio in relazione agli spazi di autonomia concessi alle istituzioni scolastiche; – i soggetti sociali nell’ottica del diritto di accesso alle informazioni e ai risultati del sistema scolastico. 2.2. La raccolta dei dati La popolazione statistica che incrementa la banca dati dell’OSP è formata dagli studenti frequentanti le scuole della Provincia. I dati relativi agli alunni sono raccolti direttamente dalle Istituzioni scolastiche per assolvere ai compiti istituzio- nali di gestione didattica e amministrativa delle scuole e degli altri soggetti firma- tari la convenzione. La prima convenzione tra Provincia e Provveditorato agli Studi per la costitu- zione dell’OSP consentì l’acquisto e la fornitura alle scuole di ogni ordine e grado dei pacchetti gestionali della ditta Infoschool (oggi AXIOS). Successivamente, dal 1998, il MPI ha fornito a tutte le Istituzioni scolastiche, tramite il gestore EDS, un sistema informativo in rete geografica nazionale che contiene i pacchetti gestionali denominati SISSI. In seguito all’informatizzazione della rete scolastica ad opera del MPI si sono sviluppati software applicativi che emulano il sistema SISSI e che rilasciano file compatibili con esso. Le convenzioni che si sono succedute hanno lasciato libertà alle scuole firma- 149 tarie di utilizzare per la gestione alunni indifferentemente il pacchetto AXIOS o il pacchetto SISSI o gli altri pacchetti gestionali purché compatibili con la base dati e comunque dopo aver concordato, con la struttura tecnica dell’Osservatorio, le pro- cedure di estrazione delle informazioni per la banca dati provinciale (cfr. fig. 1). Oltre ai campi previsti dai pacchetti gestionali sopra menzionati, le informazioni necessarie allo svolgimento dei compiti istituzionali dei firmatari saranno inserite negli archivi utilizzando la funzione “campi aggiuntivi”, disponibile nei pacchetti AXIOS. 2.3. Il flusso dei dati I dati raccolti dalle segreterie scolastiche secondo le modalità prima descritte verranno inviati tramite floppy disk o direttamente tramite rete all’OSP. La trasmis- sione dei dati avviene alle seguenti scadenze: 1) nel periodo 1-15 febbraio di ogni anno per la fornitura ai Centri per l’Impiego e ai Comuni degli elenchi nominativi degli alunni soggetti rispettivamente al- l’obbligo formativo e all’obbligo scolastico; 2) entro il mese di agosto di ogni anno per l’implementazione della banca dati provinciale completa degli esiti scolastici degli alunni, al fine di fornire a tutti i soggetti firmatari gli altri servizi previsti dalla presente convenzione; 3) saranno possibili prelievi parziali, durante l’anno scolastico, di dati relativi a casistiche particolari (ritirati, trasferiti, ecc.); tali prelievi saranno concordati con le singole unità scolastiche. Prima dell’invio dei dati all’OSP, le segreterie scolastiche, coadiuvate dal per- sonale dell’OSP, controllano la completezza e la correttezza dei dati presenti nel pacchetto “alunni” di interesse per la banca dati dell’OSP. In ogni caso, l’OSP effettuerà un ulteriore controllo dei dati trasmessi e segna- lerà alle scuole eventuali anomalie. Il controllo dell’abbandono scolastico viene fatto essenzialmente analizzando, fino al 18° anno, la presenza dell’alunno nell’anno successivo. Questo in quanto l’anagrafe è ormai storicizzata fin dalla scuola materna, frequentata da quasi il 100% dei bambini, e il dato di “evasione” dalla scolarità è storicamente trascura- bile. Tuttavia, come schematizzato nelle successive figure 2 e 3, vengono analizzati i flussi degli studenti soggetti all’obbligo scolastico e all’obbligo formativo, incro- ciando le rispettive basi dati con la base dati dei residenti, riprese dalle anagrafi co- munali. Il flusso relativo all’obbligo scolastico riguarda essenzialmente gli studenti del primo ciclo di istruzione mentre quello relativo all’obbligo formativo interessa i giovani dai 14 ai 17 anni. Nel primo caso si prendono a riferimento le base dati dei frequentanti le scuole e le segnalazioni vengono inviate ai dirigenti scolastici e ai sindaci; nel secondo caso alle base dati delle scuole si sommano le base dati della formazione professionale e dell’apprendistato e le segnalazioni vengono inviate ai Centri per l’impiego. 150 Le figure 2 e 3 descrivono il flusso delle informazioni per il controllo dell’ob- bligo scolastico e formativo, rispettivamente. Fig. 2 - Flusso per il controllo dell’obbligo scolastico 151 2.4. La struttura della banca dati e le caratteristiche dei campi Gli archivi alunni delle singole Istituzioni scolastiche verranno inseriti in un’u- nica banca dati provinciale, storicizzata, che sarà detenuta presso l’OSP con ade- guate protezioni HW e SW, e inaccessibile alla rete internet. L’esistenza di tale ar- chivio è comunicata periodicamente alla Prefettura e agli altri organismi di con- trollo previsti dalla normativa. La registrazione e la gestione dei dati anagrafici degli alunni è un aspetto molto delicato sia per la tutela delle informazioni sia per la completezza delle in- formazioni. La Regione per il tramite dell’Osservatorio di Pisa ha predisposto un manuale fornito alle scuole con il quale si indicano le procedure per il controllo delle informazioni anagrafiche. Informazioni che sono di particolare importanza sia per la gestione del diritto dovere (ex obbligo scolastico e formativo) sia per la co- struzione della banca dati dell’OSP ai fini delle azioni di contrasto alla dispersione. Fig. 3 - Flusso per il controllo dell’obbligo formativo 152 La struttura della scheda anagrafica di ogni alunno è costituita da 79 campi di informazione, con chiave di accesso codice fiscale, che rispettano l’impostazione del sistema del MPI. Tuttavia, le analisi statistiche e di ricerca dell’Osservatorio hanno posto la ne- cessità di integrare il record con ulteriori 4 campi non previsti nel sistema SISSI del MPI. In questo senso, il programma alunni AXIOS consente ad ogni Istituzione scolastica di integrare il tracciato record con campi aggiuntivi, in base alle esigenze della singola scuola, tra i quali quelli necessari per il controllo dell’assolvimento dell’obbligo. In particolare, per necessità legate alla banca dati provinciale insieme al campo codice fiscale, le istituzioni scolastiche del secondo ciclo devono inserire il campo relativo al giudizio di scuola media, non presente tra quelli base, e quello relativo all’obbligo formativo, campo che, dopo l’introduzione del diritto-dovere, viene uti- lizzato per i percorsi sperimentali di formazione professionale e per l’apprendistato entro il 18° anno. Un altro campo aggiuntivo richiesto è quello relativo alla “data ritiro/trasferi- mento” per gestire, per la parte didattico-amministrativa, eventuali studenti ritirati e trasferiti. L’anagrafe storicizzata consente di effettuare controlli sulle carriere scolastiche di ciascun residente nella Provincia e, tramite analisi statistiche e report, fornire ai soggetti istituzionali interessati informazioni e servizi. In particolare appare di in- dubbio interesse la possibilità di avviare iniziative di placement sui percorsi scola- stici e sulle fasi di transizione scuola-scuola, scuola-lavoro, lavoro-lavoro fornendo alle scuole, ai Comuni e alle Province strumenti di intervento sul diritto allo studio e sull’orientamento. La fig. 4 descrive il flusso di dati e il sistema di controlli e di standardizza- zione degli stessi che, a partire dall’anagrafe annuale delle scuole, porta alla costru- zione dell’anagrafe provinciale annuale e all’anagrafe storicizzata. 2.5. I servizi offerti La convenzione prevede una serie di servizi che l’Osservatorio fornirà ai sog- getti istituzionali in forma di dati statistici nel rispetto della normativa sulla sicu- rezza dei dati. Essa, inoltre, declina i diritti delle parti e, in particolare, consente ai soggetti convenzionati di fruire dei seguenti servizi/diritti. 1) Le istituzioni scolastiche potranno: a) utilizzare l’OSP per il supporto all’esercizio delle competenze e delle deci- sioni del dirigente scolastico e degli organi collegiali della scuola; b) richiedere copia del materiale eventualmente pubblicato dall’Osservatorio; c) utilizzare i dati raccolti per le esigenze di programmazione didattica e ge- stionale dell’istituto; d) delegare l’OSP per gli adempimenti relativi all’obbligo scolastico e forma- 153 Fi g. 4 - F lu ss o da ti d al le s cu ol e al l’ an ag ra fe s to ri ci zz at a 154 tivo, in particolare nel fornire ai CPI competenti per territorio, i dati nomi- nativi degli alunni soggetti all’obbligo formativo, e, ai Comuni, quelli rela- tivi all’obbligo scolastico. 2) La Provincia di Pisa: a) avrà la proprietà esclusiva dei programmi informatici prodotti o elaborati dall’Osservatorio per la raccolta, il controllo e la elaborazione dei dati; b) potrà utilizzare i dati nella forma grezza e nella forma elaborata provenienti dalle scuole e trattati dall’Osservatorio per esigenze di programmazione e di studio inerenti le proprie competenze istituzionali; c) potrà svolgere indagini e commissionare analisi per conto degli enti con- venzionati secondo il programma annuale di attività di cui all’articolo 5, previo accertamento delle disponibilità di bilancio. 3) I Comuni potranno: a) richiedere all’OSP l’elenco dei cittadini residenti nel proprio territorio fre- quentanti le scuole della Provincia di Pisa per verificare l’assolvimento del- l’obbligo scolastico, ovvero delegare tale verifica all’OSP in base alla pro- cedura tecnica definita nell’allegato A; b) richiedere i dati sulla mobilità scolastica, sulla scelta di indirizzo di studio, di successo scolastico e di quanto di loro pertinenza, in particolare tutti i dati utili all’esercizio delle proprie funzioni in base a quanto previsto dal D.lgs. n. 112/98, in forma di analisi statistica. 4) La Direzione regionale e l’Ufficio scolastico provinciale potranno: a) richiedere il supporto conoscitivo per tutte le operazioni di loro competenza previste dalla riforma del MPI. 2.6. I rapporti periodici e le pubblicazioni L’Osservatorio pubblica rapporti annuali contenenti i dati statistici del sistema scolastico provinciale e analisi quali-quantitative sui percorsi e sui fattori che pos- sono indurre dispersione. Si tratta di raccolte di dati che interessano l’organizza- zione della scuola sia a livello provinciale che a livello delle aree territoriali, corri- spondenti alle Zone sociosanitarie, nelle quali è suddiviso il territorio provinciale. In particolare, ai fini della presente ricerca, appaiono di notevole interesse le analisi statistiche e i report che in varia misura hanno effetti sul fenomeno della disper- sione: la mobilità; la scelta dell’indirizzo di studio; gli esiti scolastici; il ritardo nei percorsi scolastici. L’analisi territoriale degli spostamenti degli alunni appare utile per la program- mazione dell’offerta, per la predisposizione di sistemi di trasporto e per compren- dere le motivazioni della mobilità sovracomunale, distinguendo tra primo ciclo e ciclo secondario. La scelta dell’indirizzo dipende dalle aspettative e aspirazioni dei singoli ma 155 potrebbe essere condizionata dall’offerta presente nel Comune o nell’area di riferi- mento e in questo caso essere fattore di insuccesso. Fornire ai Comuni e alle scuole elementi di analisi comparativa, anche rispetto allo spazio provinciale, può favorire la predisposizione di azioni di orientamento e di revisione della stessa offerta scola- stica del territorio. Sul fenomeno circoscrivibile con la dispersione, l’Osservatorio fornisce una ricca analisi statistica suddivisa anche per Zone e, su richiesta, offre analisi di det- taglio per ciascuna scuola. Le analisi tendono a mettere in evidenza come la dispersione comprenda un in- sieme di fenomeni che sono connessi con l’organizzazione del sistema scolastico, con gli esiti in uscita dai vari percorsi, con il ritardo di scolarità, con le assenze e la frequenza irregolare, ecc. E in questo senso l’Osservatorio fornisce una serie di in- formazioni storicizzate (a partire dal 1993) sugli esiti scolastici in relazione al giu- dizio del percorso precedente, al titolo di studio dei genitori, all’area geografica, al sesso, ecc. e suddivisi per istituzione scolastica (orientamento nella scelta del se- condo ciclo rispetto al giudizio della scuola media, voto medio di maturità per tipo- logia di scuola e per indirizzo di studio) e per territorio (Comune, Zone, Provincia). Infine, l’Osservatorio ha prodotto uno studio sulla presenza degli alunni stra- nieri nella realtà provinciale che, come anticipato nel capitolo 1, consente di inda- gare le problematiche degli alunni non italiani in modo dettagliato e approfondito. Parte III CONCLUSIONI 159 Capitolo 7 La proposta: una corretta gestione dell’anagrafe formativa entro un sistema educativo pluralistico ed integrato, finalizzato al successo formativo dei giovani, nessuno escluso Dario NICOLI 1. Caratteri del sistema educativo in cui si colloca l’anagrafe È evidente, sia dalla parte normativa che inizia il presente lavoro, sia dalla pre- sentazione dei diversi casi di studio, come l’anagrafe formativa rappresenti uno strumento fondamentale per disegnare un sistema educativo autenticamente plurali- stico, ovvero articolato in più percorsi, tutti di pari dignità, all’interno di un sistema integrato per ciò che concerne gli aspetti fondamentali dell’ordinamento, degli standard, delle metodologie di gestione dei crediti e dei passaggi da un percorso al- l’altro. In un certo senso, l’anagrafe rappresenta uno strumento dell’orientamento e nel contempo dell’attività di regolazione del sistema a livello territoriale. Essa non è fine a se stessa, né mira semplicemente a produrre statistiche che consentano di rilevare ex post le dinamiche del sistema, ma è un punto di snodo dell’intervento dei vari attori istituzionali e formativi al fine di assicurare a tutti, nessuno escluso, il successo formativo. È evidente in tutto questo l’influsso dell’Unione europea, specie là dove la componente di istruzione e formazione professionale – sia tramite percorsi forma- tivi sia tramite l’esperienza dell’apprendistato – viene considerata una delle opzioni in grado di assolvere l’obbligo formativo prima, poi il diritto-dovere infine l’ob- bligo di istruzione. Non solo, il sistema informativo è uno strumento che deve consentire il pas- saggio da una logica adattiva ad una di tipo proattivo, ovvero promozionale, come correttamente indica D. Sugamiele nel primo capitolo. L’anagrafe si colloca quindi entro un sistema educativo che si vuole forte- mente innovativo, ovvero centrato effettivamente sul destinatario cui vanno rivolte le diverse opportunità ed i servizi necessari a far sì che sia in condizione di elabo- rare il proprio progetto di vita e di inserimento sociale e lavorativo. Ciò contrasta con la logica usuale, che mira alla selezione delle persone così da costituire, per 160 esclusioni progressive specie nel biennio, il gruppo classe “ideale” ovvero omo- geneo dal punto di vista della motivazione, dei livelli, del metodo del supporto per lo studio. L’esito di questa impostazione conduce ad un effetto deleterio definibile come “onda di rimbalzo”, costituita da giovani che, o direttamente o per indica- zione degli insegnanti, vengono indirizzati verso percorsi scolastici e formativi considerati più “facili” secondo una rappresentazione gerarchica e non vocazionale degli stessi. I requisiti di un intervento autenticamente promozionale in tema di diritto-do- vere di istruzione e formazione, che non si traduca nella imposizione di frequenza ad un percorso di cui il soggetto non coglie il senso né l’utilità, ma che abbia effet- tivamente un carattere di reciprocità fra i due elementi in gioco, il diritto ed il do- vere appunto, sono i seguenti: 1) Articolazione dell’offerta, che comporta la predisposizione di tutte le offerte possibili, di istruzione, di istruzione e formazione anche nella formula dell’ap- prendistato, così da aumentare il potenziale di risposta alle diverse esigenze dei destinatari. 2) Affermazione della pari dignità fra le diverse opportunità, così da evitare il co- stituirsi di fenomeni di differenziazione. 3) Ruolo attivo di governo e regolazione da parte della Provincia al fine di deli- neare un sistema di regole, condividerle e rispettarle, oltre che di attivazione dei servizi per l’impiego in tema di diritto-dovere e di un osservatorio sulle di- namiche in atto. 4) Attivazione di un sistema di orientamento effettivo e di natura vocazionale. 5) Attivazione di un sistema di supporto con azioni correttive e di accompagna- mento specie in riferimento alla quota di popolazione che presenta maggiori difficoltà. Il cambio previsto è notevole, e riguarda non solo gli aspetti organizzativi e orientativi, ma ha a che fare con la stessa natura del servizio scolastico e formativo, oltre alla rappresentazione del compito della Repubblica circa i diritti ed i doveri dei cittadini. Siamo di fronte ad un insieme di mutamenti relativi al servizio pub- blico che comportano un’assunzione di responsabilità politica, amministrativa e tecnica di notevole rilevanza, non facilmente disponibile in ogni contesto a causa della diversa evoluzione dei governi locali. Il modello di sistema che viene disegnato presenta le seguenti caratteristiche: – attivazione dei soggetti responsabili per l’applicazione del diritto-dovere – ob- bligo formativo – obbligo di istruzione, in particolare i Comuni e le Province per ciò che concerne i servizi per l’impiego in vista del loro indispensabile ser- vizio orientativo e di indirizzo dei giovani che non svolgono alcuna delle atti- vità previste; – realizzazione di un’intesa a livello territoriale (indicativamente: Provincia) che definisca le modalità della presentazione dell’offerta formativa comune e coor- 161 dini le modalità ed i tempi per la raccolta e la comunicazione delle iscrizioni a tutti gli organismi coinvolti nel diritto-dovere; – attivazione di un servizio di orientamento che consenta ad ogni destinatario ed utente interessato di avere consapevolezza di tutte le diverse opportunità e di approfondirle anche in forma diretta tramite incontro con esperti, visite e mini- stage di orientamento; – creazione di uno strumento di supporto per favorire la scelta orientativa specie da parte dei soggetti in maggiore difficoltà, caratterizzato da moduli di orienta- mento e di pre-formazione da attivare in presenza di un nucleo significativo di persone in stato di dispersione. Sul piano tecnico, si impone la necessità di disporre di un sistema di monito- raggio anagrafico centrato sulle singole persone (e non solo di stock), attendibile, puntuale, efficiente, con un chiaro impegno da parte di tutti gli attori della rete for- mativa coinvolta. In sostanza, si propone di porre in atto tutte le potenzialità per cui è stato co- struito tale sistema, ovvero: il carattere “federato” che comporta l’attivazione e la cooperazione di tutti gli attori coinvolti, innanzitutto quelli istituzionali; i fattori tecnici che consentono la raccolta e la lettura sistematica dei dati, lo scambio dei flussi informativi; i fattori organizzativi e tecnici che consentono la “tracciabilità” dei percorsi scolastici e formativi dei singoli studenti. Ma si ricorda che sullo sfondo vi è la concezione educativa del sistema, es- sendo volto a valorizzare le potenzialità buone di ciascuno, per trasformarle, tra- mite le esperienze didattiche, in vere e proprie competenze. Non si tratta quindi di affermare il primato dell’istituzione sul cittadino, come se questi fosse una sorta di proprietà della Repubblica o delle istituzioni scolastiche e formative che svolgono il servizio pubblico, alle cui esigenze è tenuto obbligatoriamente ad adattarsi. Il cambio che è richiesto dalla normativa in materia di diritto-dovere prevede una componente tecnica ed organizzativa, ma questa trova il suo senso pieno solo entro una visione educativa del servizio e su una concezione matura della cittadinanza, così come indicato anche dalla normativa europea che punta a formare una persona consapevole dei suoi mezzi, in grado di elaborare un progetto di vita e di lavoro, capace, tramite le opportunità formative offerte, di delineare e di intraprendere un percorso coerente con le mete desiderate, e quindi soddisfacente a partire dai criteri (buoni) che essa esprime. Ciò comporta una serie di azioni in grado di consentire che le informazioni servano effettivamente allo sviluppo di servizi ai vari soggetti istituzionali e non, così da focalizzare l’intervento territoriale su progetti che mirino a contrastare il fe- nomeno della dispersione e, più in generale, consentano di delineare una effettiva programmazione dell’offerta formativa nel territorio in relazione ai bisogni e alla domanda del sistema sociale e produttivo, secondo una logica partecipativa, rego- lata, migliorabile continuativamente. 162 2. Mete, criteri, opzioni metodologiche Il sistema educativo di istruzione e formazione, così come si viene delineando nel processo normativo in corso, non rappresenta un processo amministrativo con- seguente alla elaborazione normativa; esso è piuttosto un “cantiere aperto” nel quale i soggetti, tenendo conto dei vincoli e delle opportunità previste dal nuovo quadro normativo, definiscono un modello di azione congiunto, coerente con le disposizioni normative ma nel contempo in grado di corrispondere alle caratteri- stiche del contesto territoriale cui si riferisce. Tale sistema richiede una serie di requisiti da parte degli attori coinvolti, con particolare riferimento all’ente Provincia che assume un ruolo di governo e nel contempo di regolazione dell’intero sistema: – in primo luogo la condivisione delle mete, – inoltre l’individuazione di criteri comuni, – infine la definizione di riferimenti circa il metodo da adottare. Si presentano di seguito tali requisiti, sotto forma di “patto di fondo” da sotto- scrivere tra gli attori del sistema educativo territoriale. 2.1. Mete di fondo Due sono le mete cui si riferisce l’intera attività di governance territoriale del sistema: successo formativo; sviluppo territoriale. 1) Successo formativo Le attività che a vario titolo vengono attuate in tema di sistema educativo di istruzione e formazione mirano a perseguire il successo formativo di tutti, nes- suno escluso. Questo consiste di due componenti: - da un lato l’intento di valorizzare nella misura massima possibile le capa- cità o potenzialità di ciascuno, in modo da trasformarle in vere e proprie competenze, occasione di crescita personale, di integrazione sociale, di piena cittadinanza attiva; - dall’altro la garanzia dell’elevamento culturale di tutti in corrispondenza del diritto-dovere di istruzione e formazione, consentendo a tutti di acqui- sire almeno una qualifica di istruzione e formazione professionale. 2) Sviluppo territoriale Le attività che si effettuano nel contesto provinciale debbono riferirsi in modo esplicito e programmato alle dinamiche di sviluppo del territorio, ovvero: - corrispondere alle vocazioni socio-economiche e culturali del contesto pro- vinciale; - essere coerenti con le politiche di sviluppo esplicite (della Provincia e degli altri soggetti dello sviluppo) e con i progetti o le azioni che vi operano. In tal modo, si definisce in forma intenzionale e programmatica la relazione 163 fondamentale intercorrente tra investimento sulle risorse umane (o “risorse persona”) e le opportunità e le dinamiche di sviluppo sostenibile e progressivo del territorio, evitando nel contempo l’autoreferenzialità dell’offerta formativa e il perseguimento del mero “gradimento” degli utenti che potrebbe anche non essere coerente con una dinamica di sviluppo. Le due mete sopra indicate debbono essere concepite in modo contestuale, per evitare da un lato di cadere nella logica della programmazione discendente, e dal- l’altro la moltiplicazione di iniziative formative interessanti solo perché percepite come “piacevoli” da parte degli utenti o corrispondenti alle mode del momento. Soprattutto il concetto di successo formativo rende più prezioso ogni inter- vento in grado di venire incontro a coloro che più sono in difficoltà personale, so- ciale, formativa. 2.2. Criteri di riferimento I criteri di riferimento dell’azione di governance locale sono così delineati: 1) Trasparenza L’offerta formativa deve essere formulata in modo tale da consentire da parte dei destinatari e degli operatori una sua piena comprensione, in riferimento a stan- dard comuni di presentazione che rendano possibile la comparazione tra offerte differenti, evitando così la proliferazione di pratiche che tendono ad evidenziare solo ciò che può apparire piacevole all’utenza potenziale. Tale offerta deve poter essere quindi accessibile nei modi e nei tempi necessari a scelte consapevoli ed inoltre alla definizione di un piano complessivo dell’offerta provinciale. 2) Percorribilità Ogni percorso formativo deve consentire al destinatario di poterlo percorrere dall’inizio alla fine, ma anche di potervi accedere e pure di modificarlo lungo l’iter tramite un meccanismo condiviso di riconoscimento dei crediti. Inoltre, ogni percorso deve avere uno sbocco verso l’alto nella logica della filiera for- mativa e ciò deve poter valere lungo tutto il corso della vita della persona. Ciò comporta l’adozione di una prospettiva di personalizzazione formativa, ovvero della massima apertura verso cammini formativi corrispondenti al progetto di vita e di formazione-lavoro di ciascun destinatario. 3) Razionalizzazione L’offerta formativa necessita di sottostare ad una procedura che miri alla razio- nalizzazione delle risorse e delle potenzialità. Ciò comporta: - il superamento delle situazioni di proliferazione della medesima offerta in capo alla stessa tipologia di utenza; - la copertura delle diverse aree di domanda potenziale; - la presenza di un’offerta forte anche in territori connotati da modelli di svi- luppo più deboli. 164 4) Eccellenza Si intende con ciò il “fare bene le cose” in ogni attività: innanzitutto nell’atten- zione alle persone che richiedono accoglienza, ascolto e servizio mirato al suc- cesso formativo, in particolare per coloro che hanno minori risorse culturali e necessitano di una metodologia attiva, coinvolgente; inoltre nella dotazione di risorse conoscitive, tecnologiche ed organizzative adeguate con particolare – ma certo non esclusivo – riferimento ai livelli alti del sistema (formazione su- periore, alta formazione); ancora, in relazione alle necessarie intese o reti che vanno definite tra istituti, imprese, enti locali e forze sociali; infine, nella crea- zione di un sistema di valutazione che consenta di migliorare continuamente l’offerta formativa sul territorio provinciale. 2.3. Opzioni metodologiche Quanto affermato, ci consente – per ultimo – di indicare due opzioni metodo- logiche fondanti l’intero progetto: servizio; rete. 1) Servizio Per “logica del servizio” si intende l’orientamento dell’offerta al massimo per- seguimento delle mete di fondo - successo formativo e sviluppo locale - evi- tando in tal modo di procedere in riferimento prevalente alla mera sopravvi- venza o espansione dell’organismo erogativo. A tale scopo, occorre che nel più generale “pacchetto di servizi” si evidenzi un nucleo centrale ed altri servizi concepiti come periferici. L’organizzazione erogatrice deve garantire la qualità soprattutto nel nucleo centrale. Essa dovrebbe pensarci due volte prima di ag- giungere ex novo elementi periferici o prima di migliorare il livello di qualità in qualche elemento. Ciò perché è facile aumentare le aspettative, ma è molto difficile farle uscire dalla testa del cittadino-destinatario; di conseguenza, prima di intraprendere una innovazione del genere, occorre essere assoluta- mente certi di poter gestire il servizio periferico aggiuntivo (o il miglioramento del livello di qualità) con la coerenza e l’efficienza gestionale necessarie. Occorre quindi guardarsi dalla trappola di aumentare a dismisura il numero degli elementi periferici poiché questa scelta distoglierebbe troppe energie dallo sviluppo del servizio centrale. Ciò perché risulta necessario garantire i seguenti elementi: - capacità di fornire servizi specializzati - legami e rapporti sociali - trasferimento e know-how - management e organizzazione. 2) Rete La rete rappresenta il quadro di riferimento organizzativo di un modo di svi- luppare servizi formativi aperto ad ogni persona e contestualizzato nel sistema locale. 165 Non si tratta solo di sopperire alle inevitabili debolezze: anche l’organismo più ricco e di qualità non può ritenere di far fronte in forma autarchica all’insieme della domanda formativa potenziale. Ciò perché la logica del servizio richiama la necessità per ognuno di scegliere il proprio ambito di intervento, evitando di porsi come “offerta totale”, ma interagendo e nel caso integrandosi con altri. D’altra parte taluni progetti, per la loro complessità, possono essere perseguiti solo in partnership: si pensi al recupero della dispersione, al supporto circa i grandi progetti di sviluppo, alla creazione di servizi per l’autoformazione e la formazione continua e permanente dei lavoratori. Lo snodo decisivo sta nella capacità di dar vita ad un “sistema di qualità” in grado di soddisfare i cittadini-utenti a fronte di un’offerta che corrisponda alle loro attese. Tale soddisfazione va oltre i significati più tradizionali di conformità alle specifiche e di idoneità all’uso; un adeguato orientamento alla qualità si deve pre- figgere - tra l’altro - di imporre nella percezione di tutti gli attori coinvolti, di quelli sociali particolarmente, il valore aggiunto o, se si preferisce, il vantaggio competi- tivo della offerta formativa. 3. Il modello di intervento proposto Il modello di intervento delineato dalla normativa, e qui sollecitato sotto forma di proposta di intervento, risulta molto impegnativo per due motivi fondamentali: – innanzitutto, sia perché introduce una capacità di governo e di regolazione da parte dell’ente Provincia, sia perché richiede l’attivazione di una serie di ser- vizi di supporto (tra cui l’osservatorio, l’orientamento, le azioni di supporto e di sostegno specie per i soggetti posti in maggiore difficoltà); – in secondo luogo, perché tale modello risulta in più punti disomogeneo rispetto alle mentalità ed alle pratiche usuali, specie nel campo dell’orientamento e del governo e regolazione locale dei sistemi educativi. Per questo motivo si propone un percorso di intervento – a partire dal ruolo della Provincia per poi coinvolgere tutti gli altri attori scolastici e formativi, oltre che istituzionali – secondo un approccio flessibile e graduale e nel contempo per- seguibile tramite una pluralità di metodi, a seconda delle caratteristiche del con- testo, della cultura amministrativa dell’ente locale e della attivazione di servizi di accompagnamento e di supporto, specie per il contrasto attivo – ed il più possibile preventivo – della dispersione scolastica, il fenomeno chiave che indica in forma sintetica molte delle aporie del nostro sistema educativo. Si sollecita quindi la Provincia ad assumere un ruolo di responsabilità in tema di sistema educativo a carattere promozionale, ponendo in atto una serie di deci- sioni secondo lo schema di seguito presentato. 166 Lo schema indica i fattori essenziali che compongono l’azione della Provincia, ovvero: il piano dell’offerta formativa; il sistema di orientamento; le azioni di sup- porto. Nel contempo, richiede di collocare queste azioni entro un quadro organico e consapevole circa il modello di intervento richiesto ad un ente di governo territo- riale. Infine, tale proposta esige che, da parte della Provincia, sia messo in atto un approccio razionale di governo ovvero un’attività di natura processuale e relazio- nale – agita secondo la logica della governance e in collaborazione con i soggetti che compongono il sistema di riferimento – volta a indirizzare, sostenere, favorire e realizzare l’incontro tra la domanda e l’offerta di istruzione e formazione. Ciò ri- chiede un modello di programmazione e di monitoraggio e valutazione che porti al miglioramento continuativo dello stesso modello e del sistema. In modo più specifico, tale modello prevede i seguenti quattro passaggi: 1) Modello di intervento a) Definizione del profilo strategico da adottare, scegliendo fra due opzioni: - amministrativa - anticipatoria 167 b) Definizione del modello di regolazione che si intende configurare, sulla base dei seguenti scenari: - regole minime di partecipazione - regole di associazione - poli di sviluppo - reti evolute c) Definizione del sistema di valutazione. 2) Piano dell’offerta formativa territoriale Definizione delle regole e delle metodologie che concorrono a delineare un piano unitario dell’offerta formativa, secondo requisiti omogenei specie per il comparto professionalizzante, in tempi certi ed utili alla scelta da parte dei de- stinatari. 3) Piano dell’orientamento a) Definizione di un sistema di orientamento che consenta a tutti di ottenere informazioni puntuali ed occasioni di approfondimento, anche attivo, sul- l’insieme dell’offerta e sulle sue effettive caratteristiche e potenzialità at- tuali, così da superare gli stereotipi sia negativi relativi a taluni settori, specie industriali, ed in genere nei confronti del sistema di istruzione e for- mazione professionale, sia positivi specie in riferimento alle proposte “alla moda” com’è il caso della comunicazione. b) Definizione del quadro di attività dei centri per l’impiego in tema di diritto- dovere. 4) Azioni di supporto a) Definizione di un Osservatorio su fenomeni del sistema educativo, che con- senta di svolgere un monitoraggio anagrafico centrato sulle singole persone (e non solo di stock) e che sia attendibile, puntuale, efficiente, con un chiaro impegno da parte di tutti gli attori della rete formativa. b) Definizione di azioni di contrasto alla dispersione ed al disorientamento, anche tramite moduli orientativi e formativi ad hoc rivolti alla componente di giovani che si trovano maggiormente in difficoltà. 3.1. Modello di intervento Il sistema è sottoposto ad una forte tensione riformatrice; ciò esige una prima scelta di fondo sul profilo che la Provincia vuole mantenere o adottare. QUALE PROFILO ADOTTARE? 168 Ipotesi 1 Ipotesi 2 Indicazione Profilo “amministrativo” Tale ipotesi presuppone un modus operandi limitato alla mera amministrazione del- l’esistente, sviluppando quelle attività che via via si palesino chiaramente come competenze proprie della Provincia. Vantaggi: il profilo amministrativo consente di prendere tempo, sostenere una posi- zione di attesa e di pressione verso le altre istituzioni nazionali e regionali, di con- solidare l’esistente. Svantaggi: non si colgono le opportunità presenti nell’attuale situazione che evolve premiando le condotte impegnate (vedi sperimentazioni); inoltre le pressioni dei vari organismi formativi – in particolare le scuole – mirano a sollecitare un più di- retto impegno della Provincia nelle nuove dinamiche; infine l’attestarsi sull’esi- stente in questa fase significa mantenersi su un profilo incerto ed attendistico, senza la possibilità di proporsi nel nuovo scenario. Profilo “anticipatorio” Si tratta di prevedere l’evoluzione del sistema ed attestarsi sullo scenario a venire, costruendo le condizioni per il passaggio ad un governo-regolazione e superando così la logica amministrativa tradizionale. Esistono due versioni di tale scenario: a) consiste nella prospettiva autonomistica, rivendicando la specificità della Pro- vincia e comportandosi come una piccola regione in grado di svolgere la sua po- litica di sistema educativo; b) prevede invece di entrare in una logica di confronto aperto con la Regione per sviluppare la posizione della Provincia entro una logica di cooperazione istitu- zionale. Vantaggi: in generale il profilo anticipatorio consente di cogliere le opportunità e di non disperdere le energie, oltre che di acquisire competenze; nell’ipotesi a) il van- taggio è di distinguersi e di giocare le proprie carte su un “modello varesino”; nel- l’ipotesi b) di sviluppare una leadership provinciale nell’intesa con la Regione. Svantaggi: in generale tale profilo impone una navigazione in parte intuitiva ed un atto di fiducia nel processo riformatore; nell’ipotesi a) si rischia l’errore e l’isola- mento; nell’ipotesi b) il rischio è dato dalla incertezza dell’attuale quadro normativo globale ed in genere regionale. Si suggerisce l’ipotesi 2 nella versione b), poiché consente di giocare un ruolo di stimolo e di proposta attiva verso la Regione in una logica cooperativa. Inoltre si ri- tiene che l’attuale assetto riformatore stia procedendo e sia irreversibile, nella lo- gica sostanziale fissata dalla legge n. 53/03 con interventi di correzione e di adatta- mento lungo il percorso attuativo. Successivamente a questa, si impone una seconda scelta relativa allo scenario decisionale che si intende configurare. Nell’ambito dei servizi di natura promozionale, è necessario cogliere i caratteri del “campo organizzativo” che si viene stabilendo, che risulta caratterizzato da una struttura a rete multipla connotata da almeno tre dinamiche di fondo: 1) Livello di coesione; 2) Indirizzo dell’offerta; 3) Controllo e valutazione di efficacia. 1) Livello di coesione Tale campo può essere costituito fondamentalmente su due livelli: - il primo di natura essenziale, che impegna i soggetti nella condivisione di un linguaggio comune e di un insieme minimo di regole condivise; - il secondo consiste in un livello più evoluto che prevede l’adozione di un “comportamento di rete” comune e condiviso (tramite procedure di coope- razione) che consenta di superare la logica autoreferenziale, quella concor- 169 renziale di natura dequalificante1 ed infine la logica di trust, e che permetta la valorizzazione dei soggetti e delle loro potenzialità nella prospettiva della reciprocità che contempla l’accettazione di una riduzione di sovranità in riferimento alla qualificazione del servizio a favore dei destinatari diretti ed indiretti. 2) Indirizzo dell’offerta Si tratta di una procedura che consente di delineare la mappa dei servizi effet- tivi che non rappresenti semplicemente la mera somma delle offerte dei singoli organismi, ma si definisca in forma condivisa. Ciò può essere svolto ad un li- vello minimo in riferimento alle necessità rilevate attraverso la lettura dei fab- bisogni (copertura territoriale e delle tipologie di servizio), oppure in riferi- mento a criteri di qualità sostanziale. Questi ultimi possono prevedere, in parti- colare, l’urgenza di sviluppare servizi qualificati di eccellenza in rapporto ai poli di sviluppo del sistema socio-economico territoriale, in forma condivisa entro le micro-reti di attori in essi interessati. Inoltre, il sistema dell’offerta “validato” dovrebbe favorire la creazione di stili di servizio a carattere flessi- bile e personalizzato, specie in relazione a quella componente di destinatari come pure a quei territori che, a causa della loro particolare condizione di disagio, fatalmente finiscono per non essere oggetto di attenzione. Infine, il si- stema degli attori che costituiscono l’offerta dei servizi deve poter prevedere la presenza di una linea di intervento in forma di sussidiarietà là dove l’inter- vento primario non sia soddisfacente in rapporto ai livelli essenziali delle pre- stazioni previste. 3) Controllo e valutazione di efficacia Si tratta di un’attenzione che può svolgersi in forma leggera, oppure più impe- gnativa nella logica del monitoraggio e dell’accompagnamento. Ciò presup- pone gradi progressivi di competenze: conoscenza dei fattori in gioco, crea- zione di modelli di relazione tra i servizi ed i bisogni; capacità di agire in fun- zione della analisi, di utilizzare gli esiti del controllo e della valutazione in forma discrezionale in modo premiante/stigmatizzante in riferimento agli ope- ratori. In ogni caso, un modello razionale di intervento richiede necessaria- mente un’attività di valutazione che si avvalga dell’informazione e dell’ac- compagnamento e che consenta di sviluppare un feed-back complessivo sul- l’intero processo di regolazione del sistema. Ciò non in una logica programma- toria di antica data, ma per poter avere sotto controllo ciò che accade e sotto- porre il tutto ad una verifica circa il perseguimento delle mete concordate, se- condo i criteri condivisi. 1 È tale la concorrenza tra istituzioni formative che si basa non tanto sulla qualità dei fattori cen- trali del servizio, quanto sulla capacità di attrazione degli studenti in relazione alle “piacevolezze” rappresentate dallo scarso impegno di studio, dalle attività opzionali, dal clima giovanilistico, fino anche dalla presenza di locali di ritrovo e di ricreazione. 170 Tutto quanto esposto richiede la definizione di una strategia di riferimento che può essere collocata a livello formale entro la seguente tipologia di modelli confi- gurata sull’intreccio di due fattori-chiave: – l’enfasi della regolazione, che può essere mirata ad accentuare la conformità degli attori in rapporto ad un disegno “forte” dell’autorità pubblica, oppure alla eccellenza degli interventi in presenza di una varietà di stili di azione; – l’intensità dell’intervento che può essere leggero (mirato ad un livello minimo essenziale) oppure forte verso forme di regolazione più intense connesse ad obiettivi di qualità. Dallo schema elaborato emergono quattro modelli-tipo di regolazione: QUALE MODELLO DI REGOLAZIONE DEL SISTEMA? Ipotesi 1 Regole minime di partecipazione L’intervento è volto alla “amministrazione” del campo organizzativo ovvero alla definizione delle procedure essenziali: - di accesso alle risorse da parte dei diversi enti coinvolti nel servizio, - di attribuzione delle stesse agli vari enti - di controllo e valutazione (essenziale). Il processo regolativo avviene quindi in forma indiretta e leggera, privilegiando l’intervento ex post sia pure non in modo sistematico, ma centrato in particolare sulle problematiche. Il fattore omologante è dato dalla convenienza degli operatori ad assumere un profilo conforme ai criteri che sottostanno alle procedure con un ef- fetto di livellamento sul livello minimo accettabile: l’eccellenza viene poco a poco abbandonata perché non razionale, specie se la logica della convenzione si basa so- prattutto sul prezzo e sulla facilità nell’approntamento del servizio e sulla limitata problematicità dei fattori che lo connotano. 171 Rispetto alle quattro ipotesi presentate, risulta preferibile la tipologia di riferi- mento nell’ipotesi 3 (Poli di sviluppo). Ciò per il fatto che si tratta di un modello di regolazione essenziale che non disperde le energie nella costruzione di un sistema eccessivamente pesante e sofisticato, e perché supera la tentazione di elaborare un pacchetto proprio di standard di competenza, per privilegiare la costruzione di reti di eccellenza di istituzioni formative centrate su una visione sostanziale della qualità. Ipotesi 2 Ipotesi 3 Ipotesi 4 Regole di associazione L’intervento è volto alla associazione dei vari attori alla Pubblica amministrazione tramite una logica centrata sulla adozione di procedure forti di convergenza degli stessi, in una forma che accentua l’assimilazione piuttosto che la differenziazione. L’autorità pubblica opera in modo da sviluppare una sorta di affiliazione forte degli operatori in una logica che mira ad una consistente “cessione di sovranità” degli stessi verso i pubblici poteri, i quali si pongono pertanto nella prospettiva di inter- venire in modo intenso e costante nel delineare una politica di servizi coerente con le prospettive della politica istituzionale. Uno degli strumenti che viene utilizzato in tal senso è la “carta dei servizi”, che presuppone la definizione di una forte adesione ideologica e culturale e la formaliz- zazione dei vari processi che puntano alla definizione di un sistema di offerta di ser- vizi coerente con standard di qualità specificati in indicatori e sistematicamente controllati con intenti non solo di accompagnamento, ma anche di giudizio e san- zionamento (sia positivo che negativo). Poli di sviluppo Si tratta di un modello di regolazione che mira essenzialmente a creare punti di at- trazione della qualità dei servizi intorno ai poli di sviluppo del contesto socio-eco- nomico territoriale. A tal fine, piuttosto che esaurire le energie proprie e degli attori coinvolti in una logica di “standard minimi” del servizio – logica che spesso con- duce ad un effetto omologante verso il basso – l’attore istituzionale pubblico privi- legia la creazione di micro-reti di eccellenza in modo da porre l’intero sistema in modo quasi-naturale in una tensione imitativa tale da creare un circolo virtuoso verso la qualità sostanziale e condivisa. I poli di sviluppo, associando i soggetti erogatori dei servizi con quelli portatori di interessi, danno vita ad una tensione che può favorire la qualità degli interventi o perlomeno il gradimento sociale verso gli stessi. Reti evolute È un modello di regolazione che si pone l’obiettivo di dare vita ad una vera e pro- pria comunità di attori che condividono una comune visione del servizio e tendono in forma autonoma allo sviluppo della qualità dello stesso. A differenza del modello definito “regole di associazione”, questo vede l’istituzione pubblica in una funzione maieutica, volta a stimolare l’azione autonoma dei soggetti intorno ad una visione consistente delle necessità del contesto e quindi delle caratteristiche dei servizi. Va detto che solo in questa prospettiva è possibile superare la natura esclusivamente distributrice della leva pubblica, per poter procedere verso una compartecipazione multipla degli attori alla formazione del capitale necessario alla strutturazione degli interventi. È questa una questione rilevante specie in campo formativo, poiché non pare sostenibile una socializzazione delle responsabilità regolative a fronte del per- manere di un esclusivo carattere pubblico delle fonti finanziarie. La compartecipazione dei vari attori al finanziamento dell’attività (le imprese, le as- sociazioni, gli utenti, ma anche gli enti locali) comporta non solo un aumento delle risorse, ma anche una maggiore valorizzazione del servizio, un controllo diretto e quindi una razionalizzazione degli interventi. Tale scelta può rappresentare quindi il passo decisivo delle politiche promozionali e disegna un ruolo delle istituzioni pub- bliche che si evidenzia in due grandi fasi conseguenti: la prima di avvio e di volano, mentre la seconda di vero e proprio accompagnamento. 172 Occorre ricordare che alcuni caratteri critici del sistema, come l’estrema fram- mentazione ed il suo carattere fortemente autoreferenziale, con la tendenza a costi- tuirsi secondo una visione gerarchica dell’offerta formativa che vede gli istituti più “rilevanti” procedere secondo meccanismi di selezione e di differenziazione per “scarti” progressivi ai livelli inferiori (l’“onda di rimbalzo” di cui si parlava all’i- nizio), non possono essere superati attraverso pratiche di natura soltanto normativa, ma richiedono una spinta alla cooperazione tra strutture appartenenti a territori e ad ambiti omogenei, così come indicato nell’ipotesi 3. Si tratta peraltro di uno scenario di riferimento, che va perseguito transitando gradualmente dalla prima tappa – l’ipotesi che richiede regole minime di partecipa- zione – alla seconda che indica la definizione di un vero e proprio patto associativo tra le istituzioni scolastiche e formative operanti nel territorio. Il livello 4 è quello dell’eccellenza, un obiettivo che si può perseguire solo puntualmente, nel tempo, e sulla base di livelli diffusi di buona offerta formativa. 3.2. Piano dell’offerta formativa territoriale La decisione circa il Piano dell’offerta formativa provinciale risponde alla do- manda: “Quali azioni e percorsi vengono offerti alla popolazione in quest’anno for- mativo?”. La definizione di un piano dell’offerta formativa unitario a livello provinciale costituisce una condizione indispensabile per: – rappresentare l’intera offerta sul territorio secondo criteri di classificazione co- muni e quindi in grado di favorire la presa di visione d’insieme dell’offerta oltre che dei suoi dettagli; – consentire di rilevare la frequenza delle varie tipologie di offerta in relazione alle caratteristiche geografiche, economico-sociali e delle propensioni dei gio- vani e delle loro famiglie; – rilevare le incongruenze dell’offerta caratterizzate sia dalla sovrapposizione di talune tipologie sia dall’assenza di altre, considerate necessarie per motivi con- nessi al territorio, alla domanda o all’offerta. Per delineare questo piano occorre dare vita ad un processo che prevede perlo- meno un incontro preliminare tra le istituzioni scolastiche e formative al fine di co- gliere le tendenze, rilevare le incongruenze ed indicare i punti di intervento per giungere ad un piano più organico e coerente. Inoltre, è necessaria la definizione delle regole e delle metodologie che sotto- stanno al lavoro di elaborazione del piano unitario dell’offerta formativa, secondo requisiti omogenei specie per il comparto professionalizzante nel quale vi sono per- corsi triennali, quadriennali, quinquennali che vanno posti in condizione di compa- rabilità, definendo la scansione dei tempi così da consentire certezza e utilità in re- lazione alle scelte che debbono assumere i destinatari. Costituiscono elementi rilevanti per la definizione del piano i requisiti per la 173 distribuzione di soggetti extracomunitari, così da non gravare solo su alcuni istituti, oltre alle regole per l’inserimento di soggetti portatori di handicap. Vi è infine da affrontare la questione relativa alla gestione dei passaggi, al rico- noscimento dei crediti formativi, alla realizzazione di LARSA che facilitino i pro- cessi di cambio di percorso da parte degli studenti. 3.3. Piano dell’orientamento La decisione circa il piano di orientamento risponde alla domanda: “Quali azioni orientative pongo in atto per favorire le scelte dei destinatari?”. Esso com- prende due ambiti: uno di accompagnamento (e progetti pilota) ed uno di servizio agli utenti finali (informazione, formazione e consulenza). Tale piano ha valenza annuale. Si tratta in primo luogo di fornire a tutti due tipologie di offerta: le informa- zioni puntuali; le occasioni di approfondimento anche attivo ovvero tramite in- contri con esperti, visite, moduli orientativi reali… Ciò al fine di fornire elementi in grado di illuminare il quadro d’insieme del- l’offerta e le sue effettive caratteristiche e potenzialità attuali. Vi sono infatti incongruenze e criticità nel modo in cui tali realtà vengono rap- presentate, specie nell’ambito della scuola media, che ha il compito prevalente del- l’orientamento: gli stereotipi negativi che riguardano spesso taluni settori, specie quelli di ambito industriale, e si riferiscono in genere al sistema di istruzione e for- mazione professionale, visto come un insieme di attività “pratiche” da rivolgere a chi non riesce negli studi; gli stereotipi positivi perché legati alle proposte “alla moda” come nel caso delle offerte nell’ambito della comunicazione. Si ricorda che l’attività dell’orientamento si è sempre più resa complessa a par- tire dalle numerose innovazioni organizzative e metodologiche che contribuiscono ad aumentare i diritti dei cittadini in quest’ambito, e precisamente: diritto ad usu- fruire di un servizio di orientamento; diritto alla scelta fra opzioni alternative ed equivalenti; diritto a veder riconosciuto il proprio bagaglio; diritto alla continuità formativa; diritto alla reversibilità delle scelte. Occorre confrontarsi con il nuovo sistema educativo e le novità che esso pre- senta e che comportano alcune conseguenze importanti: – maggiore varietà di opportunità formative agli adolescenti ed ai giovani specie per ciò che concerne il secondo ciclo degli studi, compresa la possibilità di svolgerlo in alternanza e la possibilità di valorizzare l’apprendistato come stru- mento formativo; – la logica della personalizzazione consente un maggiore accompagnamento della singola persona in base alle sue peculiari caratteristiche; – il riferimento delle pratiche pedagogiche alla centralità della competenza for- nisce la possibilità di rilevare il valore delle esperienze formative e di avvici- nare maggiormente la scuola alla realtà sociale ed economica; 174 – la presenza del coordinatore-tutor e la pratica del portfolio e della valutazione “autentica” consente di dare sostanza alla corresponsabilità tra famiglia e scuola. Una parte consistente delle attività orientative è posta a carico dei CPI, che presentano compiti rilevanti in ordine al tema del diritto-dovere e delle azioni di contrasto della dispersione e dell’evasione dall’obbligo. 3.4. Azioni di supporto Le azioni di supporto sono la risposta alla domanda: “Con quali strumenti ac- compagno il sistema?”. Particolarmente rilevanti sono due strumenti: 1) L’Osservatorio su fenomeni del sistema educativo. Esso non deve essere con- cepito come una sorta di struttura “pesante” del tipo centro studi, che sforna rapporti e grafici come fosse un servizio unicamente informativo, ma rappre- senta un punto essenziale di un processo di intervento che appoggi su una co- noscenza rigorosa e nel contempo essenziale del sistema e delle sue dina- miche. In sostanza, l’osservatorio è uno strumento che consente di svolgere un vero e proprio monitoraggio anagrafico avente al centro non le dinamiche di stock, bensì le singole persone nei loro percorsi di studio e di lavoro. Il lavoro prodotto deve essere pertanto attendibile, quindi sorretto da una metodologia rigorosa in ogni punto del sistema; inoltre deve essere puntuale, ovvero in grado di fornire le informazioni ai soggetti di riferimento ed in tempi certi; an- cora, deve essere efficiente, quindi in grado di fornire informazioni al livello più basso di costo (quindi espresse dalla fonte diretta: i Comuni e le istituzioni scolastiche e formative). In esso si deve riscontrare un chiaro impegno da parte di tutti gli attori della rete formativa. 2) Le azioni di contrasto alla dispersione ed al disorientamento sono costituite soprattutto da moduli orientativi e formativi ad hoc rivolti alla componente di giovani che si trovano maggiormente in difficoltà. In particolare: a) gli interventi orientativi si riferiscono a colloqui, attività di orientamento in gruppo, momenti di formazione orientativa volti a sostenere il processo di decisione della persona, iniziando dal bilancio personale, dalla individua- zione dei riferimenti per un progetto personale di formazione e lavoro, pas- sando per la presentazione delle differenti opportunità, specie quelle che consentono un inserimento nel mondo del lavoro dopo l’acquisizione di una qualifica professionale, comprese le opportunità formative che consentono anche l’inserimento attraverso il contratto di apprendistato; b) gli interventi formativi propedeutici ai percorsi finalizzati, specie quelli mi- ranti all’acquisizione di competenze personali e sociali considerate sempre più rilevanti per l’ingresso nel mondo del lavoro. 175 L’ipotesi che sottostà a questi interventi è duplice: – che si tratti di giovani poco interessati a percorsi formativi lunghi, e quindi che possono essere invogliati dai percorsi triennali di qualifica o percorsi di ap- prendistato; – che risulti rilevante un tipo di relazione non formale e non scolastico, quindi centrata su legami significativi e su piccoli gruppi di intervento. 4. Questioni critiche relative al sistema informativo Naturalmente, per perseguire gli scopi fin qui evidenziati, e per sostenere una crescita graduale della competenza degli attori in tema di sistema educativo a carat- tere promozionale, è necessario disporre di un’anagrafe avente caratteristiche ade- guate circa: – l’impostazione di fondo di servizio nell’ambito di attività orientative e forma- tive, – il riferimento alle singole persone e non agli stock, – la capacità di sostenere un’offerta formativa unitaria a livello territoriale cen- trata sui percorsi formativi e non solo sulle istituzioni, – la possibilità di dare vita ad un’intesa metodologica e tecnica tra tutti gli attori sulla base di un protocollo comune, – la possibilità di cogliere i punti salienti del sistema tramite un insieme di indici essenziali. 4.1. Anagrafe come parte di un servizio orientativo e formativo La questione fondante il tema dell’anagrafe, in un quadro come quello tratteg- giato, è il superamento della logica in cui essa è intesa come strumento dagli esiti meramente informativi, per passare ad una logica che ne fa uno strumento parte in- tegrante di un servizio di orientamento e di formazione mirante al contrasto della dispersione ed alla promozione del successo formativo delle singole persone coin- volte. Da questo punto di vista, tre sono le questioni che sorgono a partire dalla let- tura degli studi di caso elaborati: 1) in che modo l’anagrafe è in grado di cogliere la realtà effettiva della disper- sione? a quanto ammonta il “buco nero” ovvero soggetti presenti nell’anagrafe comunale, ma che non risultano in nessuna delle attività del diritto-dovere? quanti di questi sono effettivamente evasori? 2) il ruolo dei Comuni in tema di anagrafe e di contrasto alla dispersione: si tratta di una semplice fornitura di dati anagrafici, di intervento per la “normalizza- zione” dei dati (quando emergono incongruenze o assenze di dati), oppure 176 anche di intervento diretto sui soggetti in stato di evasione per ricondurli entro una delle opzioni previste? 3) il ruolo dei servizi per l’impiego nell’azione di contrasto alla dispersione: chi invia loro l’elenco dei dispersi? quali azioni pongono in atto (orientamento...)? quali proposte rivolgono loro? con quali esiti? In sostanza, pare decisivo capire se l’anagrafe si pone solo sul piano mera- mente informativo, oppure se nelle esperienze documentate si è adottato un taglio di vero e proprio intervento sui processi di successo/insuccesso formativo. I casi di studio indicano una dinamica della dispersione piuttosto bassa. Ciò può essere realistico, se viene accompagnato da un lavoro di contatto e di orienta- mento da parte dei CPI. Il ruolo di questi ultimi, purtroppo, appare piuttosto lento se non carente, ragione per cui ci troviamo in una situazione di parziale attivazione del dispositivo previsto dalle norme attualmente in vigore. In effetti, in alcuni casi positivi, il ruolo dei CPI viene per così dire surrogato da altri attori con competenze più chiaramente orientative, anche perché, con il 98% di ragazzi che proseguono gli studi nei percorsi previsti per il secondo ciclo (almeno questo dicono i dati uffi- ciali), il problema centrale pare essere quello di fornire servizi che aiutino a predi- sporre azioni volte a prevenire la dispersione e quindi l’insuccesso e la fuga di co- loro che abbandonano il sistema educativo. Ma, salvo poche esperienze di eccellenza, emerge dalla ricerca e dalle cono- scenze dirette del sistema, come l’anagrafe sia perlopiù intesa come un intervento a natura prettamente informativa, senza una chiara impostazione di servizio a sup- porto di attività di natura chiaramente di recupero e di promozione. Da qui si coglie la necessità di un salto di qualità nelle pratiche relative all’a- nagrafe del diritto-dovere di istruzione e formazione, per dar vita ad un sistema in- formativo veramente inserito nel sistema educativo di istruzione e formazione avente carattere unitario, organico e di supporto ai processi di programmazione, monitoraggio e verifica, tali da alimentare un sistema decisionale e di intervento mirante al successo formativo. 1) Unitario Il sistema informativo comprende, a regime, tutte le componenti attualmente “sparse”, collocando in un unico contesto strutturato organicamente le diverse banche dati esistenti, avendo la possibilità di un’interazione con le banche dati delle politiche del lavoro ed anche quelle anagrafiche comunali. 2) Organico Il sistema informativo prevede due livelli di aggregazione dei dati: a) livello persona, tramite il quale seguire gli itinerari di ogni soggetto titolare del diritto-dovere, partendo dall’anagrafe comunale, per poi rilevare il suo percorso formativo ed eventualmente lavorativo, fino ad individuare – con incroci tra banche dati delle istituzioni scolastiche e formative, compreso l’apprendistato – l’area critica dei soggetti a rischio di insuccesso e co- 177 munque di evasione, su cui coinvolgere la famiglia, i Sindaci dei Comuni ed i Servizi per l’impiego così da dar vita alle iniziative di contrasto pre- viste per legge; b) livello offerta formativa centrata innanzitutto sui percorsi e poi sulle istitu- zioni formative2, da individuare secondo un modello di classificazione uni- tario, comprendente sia i percorsi liceali sia quelli di istruzione e forma- zione professionale, compresi quelli in apprendistato ed eventualmente altre opportunità destrutturate (LARSA), che consenta di presentare ai destina- tari potenziali ed agli operatori un quadro di insieme in base al quale assu- mere consapevolmente e responsabilmente le proprie decisioni. 3) Di supporto Il sistema informativo così delineato non rappresenta solo uno strumento cono- scitivo ai fini statistici, ma consente di sostenere il ruolo di programmazione, monitoraggio, intervento e verifica della Provincia, con riferimento a due com- piti di notevole rilevanza, come sopra accennato: a) il compito di programmazione, in una logica di governance, che coincide di fatto con il processo di elaborazione del piano territoriale dell’offerta for- mativa da sottoporre ai destinatari in modo da ottenere una procedura con- divisa e partecipata che consenta di garantire il soddisfacimento della do- manda dell’utenza e contemporaneamente – ma non in modo meccanici- stico – la corrispondenza alle caratteristiche della domanda di professiona- lità emergenti dal contesto economico e del lavoro, avendo anche atten- zione nel contempo alla razionalizzazione dell’offerta sia dal punto di vista settoriale sia da quello territoriale; b) il compito di vigilanza sull’assolvimento del diritto-dovere di istruzione e formazione e di intervento di contrasto alla dispersione e all’evasione, che delinea un quadro di responsabilità piuttosto articolato, entro cui si coglie la responsabilità della famiglia, ma anche del Sindaco e dei Servizi per l’im- piego, oltre che delle istituzioni scolastiche e formative. Quanto in precedenza indicato richiede un’impostazione fortemente rinnovata dell’intero sistema informativo connesso alle dinamiche del sistema educativo in- teso in senso lato. Tale rinnovamento dell’intero sistema informativo dovrebbe presentare due va- lenze: – informativa, tesa alla rilevazione sistematica dei dati al fine di realizzare una conoscenza della realtà utile anche ai fini delle scelte dei vari attori in gioco, in primo luogo la Provincia; 2 La stessa istituzione scolastica o formativa può presentare una varietà di percorsi, chiaramente di- stinti nei due sottosistemi; inoltre sono possibili aggregazioni del tipo Campus o Polo formativo con una varietà ancora più ampia di offerte, sempre rispettando la regola della distinzione dei due sottosistemi. 178 – gestionale, tesa a sostenere un servizio rinnovato a favore degli utenti, nella prospettiva del successo formativo e dell’elevazione educativa, culturale e pro- fessionale dell’intera popolazione, nessuno escluso. 4.2. L’anagrafe delle persone soggette a diritto-dovere È evidente la necessità di non basare esclusivamente il sistema informativo per la parte “persone” sull’anagrafe delle istituzioni scolastiche e formative, perché questa non permette di ottenere una base certa dei cittadini residenti e che sono sot- toposti al diritto-dovere. Occorre quindi privilegiare l’anagrafe comunale, tramite un protocollo che consenta di acquisire in forma unitaria e completa le informa- zioni nei tempi dovuti. Successivamente, sulla base di questa banca dati anagrafica di origine comu- nale, si rende possibile un lavoro di verifica del rispetto del diritto-dovere, attra- verso l’incrocio con le basi dati degli iscritti nelle varie istituzioni scolastiche e for- mative, compreso l’apprendistato, in modo da rintracciare chi, pur essendo in di- ritto-dovere, non è presente in nessuna delle condizioni possibili, e quindi può es- sere potenzialmente un evasore, in modo da consentire lo svolgimento delle azioni previste per tale situazione. Dal punto di vista gestionale, il sistema può fornire in tempi definiti l’elenco dei soggetti critici circa la dispersione e l’evasione del di- ritto-dovere, da inviare alle famiglie ed ai sindaci dei Comuni della Provincia così da avere un riscontro circa la loro effettiva condizione e poter procedere per suc- cessivi scorpori fino a delimitare la categoria degli evasori, su cui procedere con le iniziative di contrasto a cura dei Servizi per l’impiego. Ciò significa piegare il sistema informativo, per il livello persona, in funzione della vigilanza dell’assolvimento del diritto-dovere. 4.3. La mappa dell’offerta formativa provinciale È inoltre evidente la necessità di superare l’attuale aggregazione dei dati sotto la voce “scuola” per passare ad una aggregazione centrata sul “percorso forma- tivo”. Circa quest’ultimo, va garantita la rintracciabilità e l’omogeneità delle infor- mazioni, operando sul campo “Indirizzo”, che deve divenire obbligatorio, creando una tipologia unitaria in cui sia specificato sia il titolo di studio (costruito ponendo alla radice la denominazione formale del titolo e successivamente l’indirizzo) sia la durata in anni, quest’ultima da riportare su una serie ordinata per cinque anni3 visto che i percorsi possono iniziare al completamento del primo ciclo degli studi, sia dopo uno o più anni del ciclo secondario (es.: percorsi biennali di IFP). Il sistema informativo dei percorsi formativi, deve svolgere peraltro una fun- 3 In questo caso, ad esempio, il primo anno del liceo coincide con l’anno I, il primo anno del bien- nio dell’istruzione professionale coincide con l’anno IV, il primo anno del biennio “riallineato” della formazione professionale con l’anno II. 179 zione di supporto a livello di programmazione. Tale scelta comporta di conse- guenza la creazione di un sistema di raccolta di dati che preveda una struttura infor- mativa in grado di alimentare, su base temporale, la produzione di una mappa del- l’offerta formativa provinciale che proceda progressivamente per approssimazioni e correzioni successive così da dare vita ad un cammino secondo la progressione indicata nella tabella seguente. 4 Ad esempio: LARSA territoriale. 4.4. Il protocollo tra tutte le istituzioni coinvolte Tale scelta comporta di conseguenza la creazione di un sistema di raccolta di dati che preveda un’intesa, con relativi protocolli, con tutte le istituzioni scolastiche e formative, compresi gli organismi per la formazione esterna dell’apprendistato, in grado di garantire la fornitura di informazioni certe e puntuali – sulla base di stru- menti di raccolta omogenei – che seguano la successione temporale necessaria. Tale prospettiva gestionale mira a delineare un accordo tra i vari organismi – sostenuto da uno specifico protocollo e dalla presenza di procedure definite e di personale accreditato – finalizzato all’accompagnamento puntuale dei percorsi delle persone in modo da rilevarne le condizioni (iscritto attivo, iscritto inattivo, ri- tirato, in fase di uscita verso…, in fase di ingresso da…, inserito in un progetto ad hoc…)4, che consenta, indicativamente sulla base di tre scadenze chiave, una al- l’avvio dei percorsi (settembre), la seconda nel mese di febbraio e l’ultima nel mese di giugno, di avere un quadro reale della popolazione collocata in età di di- ritto-dovere. 180 Circa il livello persona, occorre operare sul campo “Comunicazioni” (ovvero le variazioni fornite volta a volta dall’istituzione formativa) in modo da coprire tutte le possibili condizioni relative al diritto-dovere5; per fare ciò occorre necessa- riamente coinvolgere anche la scuola media inferiore per avere i dati relativi ai quindicenni con ripetenza e i dati delle preiscrizioni. Si tratta di accorgimenti di natura tecnica, ma decisivi per: – passare da una logica puramente informativa ad una di servizio – avere come punto di riferimento i percorsi personali e non tanto il dato dell’i- scrizione e della frequenza nelle singole istituzioni – mirare a una serie di modalità di successo formativo che possono prevedere anche il cambio dei percorsi, oppure il cambio di residenza in altri contesti. In definitiva, un sistema informativo gestito entro una approccio di natura pro- mozionale non può che avere un carattere di personalizzazione ovvero di cura della vicenda di ciascuno, specie quando questa rischia di concludersi con una delle forme in cui si definisce il fenomeno della dispersione che, in definitiva, significa mancata corrispondenza tra impegno (anche solo relativo al tempo impiegato) e ri- sultato. 4.5. Il tema degli indici essenziali Per ultimo, si propone un elenco di indici essenziali che possono servire per ottenere un quadro completo e nel contempo mirato circa le dinamiche più rilevanti riferite al sistema formativo nel contesto territoriale. Si tratta di indici aventi per oggetto differenti criteri: – coerenza risposta – efficienza – partnership – successo/insuccesso – disagio – eccellenza. 5 a) Studente della III media inferiore pre-iscritto a…; b) Studente della... classe... della media in- feriore in ritardo; c) Studente della... classe... del percorso... frequentante; d) Studente della... classe... del percorso... non frequentante o ritirato; e) Studente in ingresso alla... classe... del percorso... ; f) In apprendistato presso... . 181 183 BIBLIOGRAFIA AA.VV., Anagrafe scolastica e Osservatorio Pubblica Istruzione. 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La ricerca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Parte I - LE PREMESSE TEORICHE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 Capitolo 1 - IL QUADRO ISTITUZIONALE E NORMATIVO DI RIFERIMENTO DALL’OBBLIGO FORMATIVO AL DIRITTO DOVERE (D. Sugamiele) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 1. La prima fase di legislazione: obbligo scolastico e obbligo formativo . . . . . . 15 1.1. Il quadro istituzionale di riferimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 1.2. La legislazione per l’anagrafe dell’obbligo formativo . . . . . . . . . . . . . . . . 18 1.3. Il Regolamento di attuazione dell’obbligo formativo: l’art. 68 della Legge 144/99 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 1.4. Le procedure per la raccolta dei dati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 2. La seconda fase di legislazione: le leggi 30 (Biagi) e 53 (Moratti) del 2003 . . 26 2.1. Il policentrismo istituzionale e sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26 2.2. Il secondo ciclo e il modello di riferimento della Istruzione e Formazione Professionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26 2.3. La rete dell’Istruzione e Formazione Professionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28 2.4. L’Accordo quadro Stato Regioni per la sperimentazione dei percorsi di Istruzione e formazione professionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 2.5. Il raccordo tra istruzione/formazione e lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30 2.6. Contratti di apprendistato e contratto di inserimento . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 3. Una nuova frontiera per il sistema educativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 3.1. L’introduzione del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione . . . . . . . . 31 3.2. L’ampliamento degli obiettivi e delle funzioni dell’anagrafe degli studenti . 33 4. I problemi sottesi e le politiche di prospettiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 4.1. La dispersione: una problematica in continua evoluzione . . . . . . . . . . . . . 34 4.1.1. L’indicatore europeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 4.1.2. Gli indicatori sulla dispersione scolastica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 4.2. La presenza degli alunni stranieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41 4.3. Il sistema regionale di orientamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 4.4. Conoscenza del territorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 4.5. Alcune riflessioni e ipotesi di sviluppo e di prospettiva . . . . . . . . . . . . . . . 48 186 Capitolo 2 - SISTEMI INFORMATIVI E POLITICHE CONTRO LA DISPERSIONE (M. Palumbo - C. Torrigiani) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 1. Quadro teorico di riferimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 1.1. Sistema, livelli di sistema e controllo di sistema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 1.2. Sistema informativo e dimensione cronologica delle politiche . . . . . . . . . . 61 1.3. Sistemi informativo e di indicatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63 2. Il sistema informativo: attori, flussi informativi e usi dell’informazione . . . . 63 2.1. Gli attori del sistema informativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66 2.2. Gli usi dell’informazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70 Parte II - LO STATO DELL’ARTE DEL SISTEMA INFORMATIVO PER IL DIRITTO-DOVERE ALL’ISTRUZIONE E ALLA FORMAZIONE . . . . . 75 Capitolo 3 - L’IMPLEMENTAZIONE DEL SISTEMA INFORMATIVO PER IL DIRITTO DOVERE ALL’ISTRUZIONE E ALLA FORMAZIONE: RETE NAZIONALE ED ESPERIENZE LOCALI (D. Sugamiele - C. Torrigiani) . . . . . . . . . . . . . . . 77 1. Il governo territoriale del sistema: evoluzione e nodi critici . . . . . . . . . . . . . . 77 1.1. I nodi problematici dell’integrazione istituzionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78 1.2. Il coordinamento dei sistemi regionali per l’obbligo formativo . . . . . . . . . . 79 2. L’evoluzione delle anagrafi nel quadro nazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 2.1. Lo stato di avanzamento delle anagrafi regionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 2.2. Lo stato di avanzamento delle anagrafi provinciali . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83 2.3. I modelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85 2.4. Le caratteristiche del sistema: i dati quantitativi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 86 3. Il nuovo sistema informativo del Ministero dell’Istruzione: il SIDI Scuola . . 88 3.1. L’evoluzione del sistema informativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 88 3.2. L’anagrafe nazionale degli alunni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90 Capitolo 4 - REGIONE EMILIA ROMAGNA (D. Sugamiele) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 1. L’Anagrafe Regionale Studenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 2. La prima implementazione dell’anagrafe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94 3. Dall’Anagrafe dell’Obbligo Formativo all’Anagrafe Regionale degli Studenti 95 4. La creazione della piattaforma telematica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 97 5. Procedure e modalità di accesso all’anagrafe regionale . . . . . . . . . . . . . . . . . 99 6. Linee di sviluppo per il 2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102 7. L’Anagrafe Regionale come Centro di servizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103 187 Capitolo 5 - IL CASO DELLA REGIONE LIGURIA E DELLA PROVINCIA DI GENOVA (C. Torrigiani) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109 1. Il caso della Provincia di Genova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109 1.1. L’esperienza della Provincia di Genova dal 2000 al 2006 . . . . . . . . . . . . . 112 1.2. Lo sviluppo del sistema in relazione agli assetti organizzativi a livello pro- vinciale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114 1.3. Le criticità emerse in relazione all’implementazione del sistema e alla risposta in termini di programmazione ed erogazione di servizi agli utenti . 116 2. Lo sviluppo del sistema dal livello provinciale a quello regionale e la nascita del S.I.D.D.I.F. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 2.1. L’architettura del sistema dell’Anagrafe/Osservatorio provinciale . . . . . . . 120 2.2. Il Sistema Informativo per il Diritto/Dovere alla Istruzione e Formazione (S.I.D.D.I.F.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 2.3. Presentazione dell’interfaccia del S.I.D.D.I.F. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128 2.4. Le funzioni specifiche dell’Osservatorio Pubblica Istruzione della Provincia di Genova (OPI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 138 Capitolo 6 - REGIONE TOSCANA E PROVINCIA DI PISA (D. Sugamiele) . . . . . . . . . . . 141 1. Sistema Informativo Scolastico Regionale (SISR) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 1.1. Anagrafe Regionale degli Studenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 1.2. L’avvio dell’Anagrafe Regionale dell’Obbligo formativo . . . . . . . . . . . . . . 142 1.3. Dall’Anagrafe dell’Obbligo Formativo all’Anagrafe degli Studenti . . . . . . 145 2. L’Osservatorio Scolastico Provinciale (OSP) di PISA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 146 2.1. La struttura della convenzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147 2.2. La raccolta dei dati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 148 2.3. Il flusso dei dati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149 2.4. La struttura della banca dati e le caratteristiche dei campi . . . . . . . . . . . . 151 2.5. I servizi offerti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 152 2.6. I rapporti periodici e le pubblicazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 154 Parte III - CONCLUSIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157 Capitolo 7 - LA PROPOSTA: UNA CORRETTA GESTIONE DELL’ANAGRAFE FORMATIVA ENTRO UN SISTEMA EDUCATIVO PLURALISTICO ED INTEGRATO, FINALIZZATO AL SUCCESSO FORMATIVO DEI GIOVANI, NESSUNO ESCLUSO (D. Nicoli) . . . . 159 1. Caratteri del sistema educativo in cui si colloca l’anagrafe . . . . . . . . . . . . . . 159 2. Mete, criteri, opzioni metodologiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162 2.1. Mete di fondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162 2.2. Criteri di riferimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163 2.3. Opzioni metodologiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 164 3. Il modello di intervento proposto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165 3.1. Modello di intervento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167 188 3.2. Piano dell’offerta formativa territoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172 3.3. Piano dell’orientamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 173 3.4. Azioni di supporto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174 4. Questioni critiche relative al sistema informativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175 4.1. Anagrafe come parte di un servizio orientativo e formativo . . . . . . . . . . . . 175 4.2. L’anagrafe delle persone soggette a diritto-dovere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178 4.3. La mappa dell’offerta formativa provinciale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178 4.4. Il protocollo tra tutte le istituzioni coinvolte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179 4.5. Il tema degli indici essenziali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 180 BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183 INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185 189 Pubblicazioni 2002-2007 nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” ISSN 1972-3032 1. Nella sezione “studi” 1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. La formazione professio- nale per lo sviluppo del territorio. Castel Brando (Treviso), 9 - 11 settembre 2002, 2003 2) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XV seminario di formazione europea. Il sistema dell’istruzione e formazione professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi, 2004 3) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVI seminario di formazione europea. La formazione professio- nale fino alla formazione superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, 2005 4) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orientativi, 2003 5) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Ca- tania, Noto, Modica, 2004 6) CNOS-FAP (a cura di), Gli editoriali di “Rassegna CNOS” 1996-2004. Il servizio di don Stefano Colombo in un periodo di riforme, 2004 7) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, 2002 8) MALIZIA G. - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto sul follow - up, 2003 9) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale, 2004 10) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, 2004 11) D’AGOSTINO S. - G. MASCIO - D. NICOLI, Monitoraggio delle politiche regionali in tema di istru- zione e formazione professionale, 2005 12) PIERONI V. - G. MALIZIA (a cura di), Percorsi/progetti formativi “destrutturati”. Linee guida per l’inclusione socio-lavorativa di giovani svantaggiati, 2005 13) NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale nell’anno formativo 2004-2005, 2006 14) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Rapporto di ricerca, 2007 15) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVIII seminario di formazione europea. Standard formativi nell’i- struzione e nella formazione professionale. Roma, 7-9 settembre 2006, 2007 16) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Rapporto di ricerca, 2007 17) NICOLI D., La rete formativa nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP, 2007 18) NICOLI D. - R. FRANCHINI, L’educazione degli adolescenti e dei giovani. Una proposta per i per- corsi di istruzione e formazione professionale, 2007 19) MALIZIA G. et alii, Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere, 2007 20) MALIZIA G. et alii, Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Pro- blemi e prospettive (in stampa) 21) COLASANTO M. - R. LODIGIANI (a cura di), Il ruolo della formazione in un sistema di welfare at- tivo, 2007 2. Nella sezione “progetti” 22) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 23) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio meto- dologico e proposte di strumenti, 2003 190 24) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003 25) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004 26) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 27) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e pro- poste di strumenti, 2003 28) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale alimentazione, 2004 29) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004 30) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004 31) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale estetica, 2004 32) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004 33) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale tessile e moda, 2004 34) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003 35) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffu- sione di una buona pratica, 2004 36) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004 37) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale grafica e multimediale, 2004 38) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale legno e arredamento, 2005 39) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale meccanica, 2004 40) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004 41) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, 2003 42) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa. Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d. 43) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003 44) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003 45) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003 46) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istru- zione e della formazione professionale, 2004 47) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel si- stema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 48) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003 49) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui per- corsi formativi, 2003 50) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il percorso quadriennale, 2005 51) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005 52) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005 53) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Percorsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005 54) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006 55) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006 191 3. Nella sezione “esperienze” 56) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003 57) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in itinere, 2003 58) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento fi- nale, 2003 59) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage, 2003 60) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti, 2003 61) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordina- tore delle attività educative del CFP, 2005 62) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i per- corsi di istruzione e formazione professionale, 2006 63) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro polifunzionale diurno di Roma, 2006 64) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei per- corsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006. Rapporto finale, 2006 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net Ottobre 2007

Il ruolo della formazione in un sistema di welfare attivo

Autore: 
Michele Colasanto - Rosangela Lodigiani
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2007
Numero pagine: 
180
A cura di Michele COLASANTO - Rosangela LODIGIANI Il ruolo della formazione in un sistema di welfare attivo CIOFS/FP La ricerca è stata affidata dal CNOS-FAP e dal CIOFS/FP alla Fondazione Pastore. Il lavoro è stato condotto da una équipe mista, composta da ricercatori afferenti alla Fondazione Pastore, al Dipartimento di Sociologia dell’Università cattolica di Milano, all’Associazione Irene. L’équipe ha operato sotto la responsabilità scientifica di Michele Colasanto, d’intesa con i Pre- sidenti del CNOS-FAP e del CIOFS/FP. Fatte salve le attribuzioni della redazione dei singoli ca- pitoli, il lavoro è frutto di uno sforzo comune che ha visto coinvolti: Andrea Ciarini, Mariapaola Colombo Svevo, Massimiliano Cossi, Marcello D’Amico, Elena Garavaglia, Rosangela Lodi- giani, Giulio Marini, Egidio Riva. 3 SOMMARIO PRESENTAZIONE di Mario Tonini e Lauretta Valente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 1. Welfare, cittadinanza attiva, formazione di Rosangela Lodigiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 2. Quattro Paesi europei a confronto. Indicatori su mercato del lavoro, investi- mento in capitale umano e politiche formative di Giulio Marini ed Egidio Riva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 3. Il learnfare danese tra mito e realtà di Rosangela Lodigiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 4. Un sistema di protezione sociale ibrido. La via francese all’attivazione delle politiche del lavoro di Andrea Ciarini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 5. Dal workfare al welfare to work. La path dependency del sistema di politiche di attivazione in Inghilterra di Andrea Ciarini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 6. I paradossi del welfare to work italiano di Rosangela Lodigiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109 7. Conclusioni. Dall’employability alla capability di Rosangela Lodigiani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133 Allegati Allegato 1 - Le tappe fondative della strategia europea per l’occupazione di Marcello D’Amico, Elena Garavaglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147 Allegato 2 - Rassegna bibliografica a cura di Massimiliano Cossi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163 Indice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175 5 PRESENTAZIONE Una premessa necessaria La formazione professionale, come sistema, sta cambiando in termini non per- cepiti forse dall’opinione pubblica, ma invece ben percepiti dagli attori sociali coinvolti. C’è da tempo un tentativo, con alterne vicende, di rivederne il ruolo nella fase iniziale della vita delle persone in relazione alla loro entrata nel mercato del lavoro. C’è il crescere delle attività formative durante il corso della vita. Le due cose, formazione iniziale e continua si richiamano, la seconda soprattutto presup- pone una buona qualità della prima. Questo volume costituisce un tentativo di approfondire tutti i significati, legati al lavoro e non, della seconda, cioè la formazione continua e permanente. Progressivamente occorrerà disporre di un quadro di riferimento sempre più organico, che chiarisca e rafforzi il senso di un sistema complessivo di formazione professionale che sembra oggi essere a un bivio: affermare una sua autonomia, che può solo derivarle da un carattere sistemico, di pari dignità con la sfera scolastica, o frantumarsi in attività segmentate e separate. Per venire all’oggetto di questo contributo, il tema della cosiddetta cittadi- nanza attiva e quello connesso del welfare attivo sono al centro dell’agenda politica europea da diversi anni, almeno a partire dalla definizione della Strategia Europea per l’Occupazione avvenuto nel celebre vertice di Lussemburgo del 1997. Il lancio della SEO, infatti, indica nel concetto di “attivazione” il fulcro di un ampio disegno di riforma del welfare che dalle politiche del lavoro si allarga alle politiche forma- tive e alle politiche sociali, prevedendone non solo una rimodulazione, ma anche una loro crescente integrazione. A partire dall’esigenza di individuare strategie effi- caci per combattere la disoccupazione, ridurre la spesa sociale, promuovere l’in- nalzamento generalizzato dei tassi di attività e di occupazione, combattere l’esclu- sione dal mercato del lavoro dei soggetti più deboli e svantaggiati, l’attivazione di- viene sinonimo di un processo di innovazione che, mentre mira a coniugare ragioni di efficienza ed equità sociale (come è nel dettato di quello che viene definito il “modello sociale europeo”), agisce sulla responsabilizzazione dei soggetti e sul loro empowerment, al fine di renderli protagonisti attivi e responsabili nel fronteg- giamento delle situazioni di disagio occupazionale e sociale in cui possono trovarsi. Emblematicamente il welfare attivo si traduce, con riferimento ai rischi connessi al lavoro, nei programmi di welfare to work, i quali, pur conservando specificità na- zionali, vedono i Paesi europei convergere verso politiche comuni o, quantomeno, verso una comune convinzione: occorre sostenere il soggetto in situazione di disa- gio per favorirne il passaggio dal welfare al lavoro secondo i principi del welfare to work, mediante politiche ad hoc che prevedono dispositivi di diverso tipo come gli in work benefit (che agiscono soprattutto attraverso la leva fiscale ed econo- 6 mica: per es. come i crediti di imposta e i lavori sussidiati), job to job benefit (che sostengono la mobilità e la flessibilità del lavoro con servizi di accompagnamento, orientamento, inserimento; formazione, …). Si tratta di dispositivi generalmente subordinati – seppure in modo più o meno accentuato a seconda dei Paesi – al vin- colo della “condizionalità”, ovvero all’accettazione da parte del soggetto che ne beneficia delle condizioni poste dai programmi di attivazione e reinserimento attivo nel mercato del lavoro: l’obiettivo è quello di realizzare una “protezione sociale attivante”. Come tale convinzione si declini sul piano delle policies è materia di opzione politica e di fatto rimanda al patto di cittadinanza che lega Stato e cittadini in ciascun contesto nazionale. Volano di questo reinserimento attivo sono considerate le azioni di manuten- zione e promozione dell’occupabilità del lavoratore, azioni che passano attraverso lo sviluppo di politiche formative rivolte alla popolazione attiva, occupata e non, e che si rivelano essere uno dei pilastri più importanti di questo nuovo sistema di pro- tezione, il quale – non riuscendo (o non volendo) garantire in merito al posto di la- voro, in uno scenario di crescente flessibilizzazione del mercato del lavoro e incer- tezza delle traiettorie di vita – punta a garantire una “sicurezza nella mobilità”. Da qui discenderebbe cioè la possibilità di configurare un welfare che offre protezione nella misura in cui garantisce opportunità di partecipazione attiva, e che per questo investe nel capitale umano dei propri cittadini, nell’istruzione, nella formazione professionale, nella formazione permanente. Con quale ruolo ed efficacia dipen- derà, come si è detto all’inizio, dal carattere, sistemico e no, che si vorrà dare in particolare alla formazione professionale. La ricerca presentata in questa sede, affidata dal CNOS-FAP e dal CIOFS/FP alla Fondazione Pastore, mira precisamente a indagare i temi qui brevemente evo- cati, cercando di individuare i fattori di sostenibilità, le potenzialità e le ambiva- lenze di questo nuovo modello di welfare attivo, andando ad approfondire in modo particolare il ruolo che in tale contesto può essere giocato dalla formazione e dalle politiche di capitale umano, invocate come il vero pilastro dell’attivazione, ma non di rado piegate a fini meramente funzionali rispetto all’occupazione. Muovendo in questa prospettiva, la ricerca conduce nell’analisi dei modelli di welfare attivo e dei programmi di attivazione messi in atto in quattro Paesi europei (Danimarca, Francia, Inghilterra, Italia), e in particolare invita a puntare l’atten- zione sul ruolo che in essi giocano le politiche formative. Dentro questo percorso, sono molti gli spunti di riflessione che emergono e che non mancano di sollecitare il mondo della formazione professionale, anche iniziale, e in generale il sistema educativo, come del resto lo stesso paradigma del lifelong learning suggerisce. L’ottica del lifelong learning infatti, puntando l’attenzione sulle esigenze di promuovere un apprendimento continuo, lungo l’arco della vita at- tiva, in qualsiasi contesto formativo, lavorativo e sociale, valorizza anziché diluire il ruolo dell’istruzione e della formazione iniziali. Mario TONINI Lauretta VELENTE (Presidente CNOS-FAP) (Presidente CIOFS/FP) 7 Capitolo 1 Welfare, cittadinanza attiva, formazione Rosangela LODIGIANI La libertà esprime se stessa come resistenza all’oppressione, come “forza critica” In questa definizione, il ruolo decisivo viene assegnato alla capacità di fare e alla capacità di resistere; ma tale capacità richiede di più di una semplice acquisizione di diritti. La capacità è una qualità pratica che non è distribuita in modo eguale tra tutti gli individui che godono dei diritti del cittadino. Z. Bauman (1999) Il paniere di politiche necessarie per sostenere il modello sociale europeo e assicurare un equo bilanciamento tra crescita economica e giustizia sociale dovrebbe contenere anche, oltre a una garanzia di protezione alla salute, un’universale garanzia sul capitale umano, garantendo l’accesso a un alto livello educativo e formativo. M. Ferrera et al. (2000) 1. Nuove forme di vulnerabilità, nuove esigenze di protezione Da qualche tempo in Italia, e con evidenza ancora maggiore a livello europeo, è in atto un ridisegno del welfare ai fini, come si sostiene, di una sua moderniz- zazione. A spingere in questa direzione è anzitutto una ragione di tipo economico. Lo stato sociale “tradizionale”, passivo e assistenziale non è più in grado di mantenere la propria copertura finanziaria. Di qui l’esigenza di effettuare tagli alle spese, in- crementare la selettività e inasprire i criteri di eleggibilità, accrescere l’efficienza redistributiva. Una lettura meramente economicista, tuttavia, sarebbe alquanto ri- duttiva. Così come lo sarebbe una lettura che considerasse solo la dimensione del- l’efficienza, entrata anch’essa in crisi a fronte di una eccessiva centralizzazione e burocratizzazione dello stato sociale, che a sua volta ha originato un impulso al decentramento a livello locale e al targeting delle risposte sino alla loro persona- lizzazione. Occorre invece tener conto delle spinte innescate dalle trasformazioni in atto su più fronti: nel mondo lavoro, attraversato da una crescente flessibilizzazione, precarizzazione, e femminilizzazione; nell’economia, che superando l’assetto indu- striale fordista si trasforma in una economia dei servizi, centrata sul sapere e sulle tecnologie dell’informazione; nella struttura demografica, che registra un progres- sivo invecchiamento della popolazione; nelle strategie e nei modelli familiari, che vanno incontro a fenomeni di diversificazione, pluralizzazione, fragilizzazione; nel rapporto tra individuo e società, all’insegna di un processo di individualizzazione sempre più marcato, correlato a esigenze di autorealizzazione ma anche a senti- menti di vulnerabilità e incertezza. Sono queste tutte trasformazioni che hanno gio- cato un ruolo determinante nel sollecitare il cambiamento del welfare, il quale nel suo assetto moderno non appare più in grado di rispondere ai rischi sociali emer- genti né alle esigenze di protezione dei cittadini (cfr. Castel 2004; Hemerijck 2002; Esping-Andersen 2000, Naldini 2006; Paci 2005; Ranci 2002, 2004; Ferrera 2004). Basti pensare che: – sul fronte del lavoro il mito della piena occupazione, vera e propria “pro- messa” del welfare moderno, incentrato sulla figura del male breadwinner (il lavoratore maschio, adulto, unico percettore di reddito del nucleo familiare), è sfidato sia dalla crescente pluralizzazione delle condizioni occupazionali, dal diffondersi di percorsi di carriera discontinui, incerti, che lasciano sempre aperta la porta verso la disoccupazione, la sotto-occupazione, l’insicurezza; sia dalla crescente partecipazione al lavoro delle donne. Quest’ultima, non solo rende la piena occupazione più difficile da realizzare, ma va a incidere pesan- temente sugli equilibri di welfare consolidati, specie in un Paese come il nostro nel quale, proprio la famiglia – e la donna al suo interno – è a lungo stata un pilastro del welfare stesso, assolvendo in proprio tutta una serie di funzioni di tutela, protezione, cura, senza che sia stata mai prevista una vera e propria po- litica per la famiglia o di sostegno alla cura familiare (Saraceno 2003). Tra l’altro proprio la femminilizzazione del mercato del lavoro si intreccia con lo sviluppo della service economy, dando vita a un circolo che si autoalimenta, laddove stimola la domanda per un certo tipo di sevizi di cura e insieme offre sbocchi occupazionali prevalentemente al femminile (Esping-Andersen 2000). – Sul fronte demografico, l’invecchiamento della popolazione pone crescenti problemi in termini di assistenza delle persone anziane non autosufficienti, problemi resi ancor più urgenti proprio dal lavoro femminile per il mercato che comprime la disponibilità di tempo delle donne per tali prestazioni di cura. Tale invecchiamento pone crescenti sfide anche in termini di sostenibilità del sistema pensionistico, a fronte di uno sbilanciamento tra le persone non più at- tive e quelle attive che di fatto mantengono tale sistema con la loro contribu- zione, ingenerando non pochi problemi sul versante delle biografie individuali (Marcaletti 2007). – Sul fronte familiare, l’instabilità delle relazioni, l’incidenza crescente di sepa- razioni e divorzi, di figli nati fuori dal matrimonio vedono aumentare, per por- tare solo un esempio, le famiglie monoparentali (con figli a carico), spesso al femminile, dove cioè la donna è capofamiglia e da sola si trova a dover fron- teggiare le esigenze di mantenimento economico e di cura del nucleo fami- liare, configurando un nuovo modello di breadwinner spesso difficile da soste- nere per i soggetti coinvolti, dove si definiscono percorsi di marginalizzazione, 8 9 esclusione e povertà correlati alla debolezza del capitale sociale (Ranci 2002; Naldini 2006). – Sul fronte dell’economia, lo scivolamento verso la knowledge economy tanto cara all’Unione Europea che se ne propone come avanguardia competitiva, produce un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, fa della cono- scenza il motore dello sviluppo, la principale forza produttiva nella misura in cui tutto, o quasi, il valore prodotto è da essa mediata (Rullani 2004). Ma ci si dimentica a volte, che il discorso sull’economia della conoscenza, come dice Dahrendorf (2003), non è per sua natura “neutrale”: esso implica una visione di società che, mentre promette questo cambiamento epocale e ne sottolinea le potenzialità, a volte sembra sottacere che indirettamente produce nuove forme di esclusione, per quanti non hanno eguale accesso alla conoscenza. Nuovi rischi sociali dunque: incertezza lavorativa, vulnerabilità sociale, vec- chiaia, povertà, malattia; e nuove esigenze di protezione, prevenzione, assistenza: per i lavoratori temporanei, per le donne e le donne-madri in particolare, per le per- sone anziane. Rischi sociali che mutano nella natura, nella possibilità di una loro rappresentanza, nella loro estensione: diventando sempre più trasversali, indivi- duali, e tali per cui è difficile persino individuare una popolazione di riferimento ampia e omogenea (Paci 2005; Busilacchi 2006). E nuovi bisogni di servizi: di accompagnamento sul mercato del lavoro, di conciliazione famiglia-lavoro, di cura, in specie per bimbi piccoli, malati, persone non autosufficienti. A ben vedere, il quadro sociale che si configura è quello di una situazione di disagio diffuso sempre meno inquadrabile in termini di “rischio” – quest’ultimo in- teso come evento aleatorio e circostanziale –, e sempre più definibile in termini di “vulnerabilità”, laddove essa riguarda fasce ampie di popolazione esposte a situa- zioni critiche (vulneranti, appunto) in termini continuativi nel tempo (Pavolini 2002). Le trasformazioni nel lavoro, nella famiglia, nelle istituzioni di regolazione sociale, e ancor prima nella sfera culturale, fanno emergere ampi processi di “disar- ticolazione sociale” che mutano le linee di stratificazione sociale ed evidenziano forme di disuguaglianze inedite (Ranci 2002). In risposta alle trasformazioni appena tratteggiate i processi di ridisegno del welfare muovono in tutta Europa nella direzione di un welfare attivo, proteso a svi- luppare la promozionalità dei cittadini, la loro responsabilità, il loro empowerment, ossia la loro capacità di fronteggiare le situazioni, agire con consapevolezza ed effi- cacia accrescendo le proprie conoscenze e le competenze personali, facendo leva sulle proprie risorse, puntando sul lavoro e sulla formazione. In linea con un cam- biamento culturale di vasta portata, che è stato collocato sotto il nome di “indivi- dualizzazione”, il welfare attivo sembra cioè voler prendere sul serio la volontà dei soggetti di affrancarsi da vincoli istituzionali, da risposte precodificate, per valoriz- zare il desiderio di muoversi in autonomia e in modo proattivo nel progettare la propria vita pur tra le difficoltà, in poche parole rendendoli protagonisti, artefici e in ultima istanza unici responsabili del proprio destino. Anzi, l’enfasi sulla respon- 10 sabilità individuale nell’uscita dalla condizione di bisogno, nella ricerca di un’oc- cupazione, nella contribuzione al benessere collettivo è presentata come la chiave di volta della riforma avviata. Tuttavia, come sostiene Sennett (2004), investire il soggetto delle scelte che lo riguardano tende a delineare un welfare “corto” (e così può configurarsi anche il welfare attivo, almeno in certe sue declinazioni) che finisce col produrre disugua- glianze tra coloro che hanno bisogno di consigli per sapere quali risorse esistono e come le possono utilizzare e coloro che richiedono solo che le risorse siano date, perché sanno già come sfruttarle al meglio. Di fronte a tale diversità, anzi disugua- glianza tra le persone, invocare la responsabilità individuale come criterio norma- tivo di ridisegno del welfare nasconde non poche insidie, prima fra tutte che l’as- sunzione di responsabilità si configuri in qualche caso più come una condanna che come un’opportunità legittima. Specie laddove il soggetto non disponga delle ri- sorse cognitive, sociali e materiali per affrancarsi. Ne discende la domanda di nuovi “beni primari”, per dirla con Rawls (1991), tra i quali spiccano per impor- tanza il caring e la formazione (Busilacchi 2006). 2 Le coordinate dell’active welfare state nel modello sociale europeo Superando l’ottica di un’assistenza di tipo solamente passivo, tesa a tutelare i soggetti nei momenti di difficoltà in una prospettiva riparatoria per il danno subito (la perdita del lavoro, la malattia, l’invalidità, la fuoriuscita dal mercato del lavoro per limiti età), l’approccio del welfare attivo mira a sostenere la persona nello sviluppo di capacità di auto-protezione e responsabilizzazione rispetto alla gamma variegata dei rischi sociali. Esso propone dunque un passaggio dalle azioni di sostegno del reddito a quelle di promozione del soggetto nel fronteggiamento delle situazioni di bisogno, anche se l’integrazione con i trasferimenti monetari (le cosid- dette politiche passive) non può venire meno, anzi ne rappresenta una delle chiavi di successo, come vedremo. È questa l’impostazione sottesa al cosiddetto modello del welfare-to-work, il cui obiettivo è quello di sostenere una cittadinanza attiva, in primo luogo aiutando i soggetti esclusi dal mercato del lavoro a rientrarvi, considerando quindi il lavoro come principale ambito di integrazione sociale. Si tratta di un approccio chia- ramente rintracciabile sia nella Job Strategy dell’OCSE sia nella Employment Strategy dell’Unione Europea, le quali assumono sostanzialmente tre postulati (Lodigiani 2005a): – l’approdo al lavoro costituisce sempre (salvo poche eccezioni) un migliora- mento rispetto alla situazione di assistenza e dipendenza dal welfare; – l’accesso a forme di indennità deve essere selettivo e dunque corrisposto dopo la verifica della reale condizione di bisogno; – l’accesso a forme di indennità deve essere promozionale e dunque richiedere l’attivazione dei soggetti per uscire dalla situazione di disagio in cui versano, 11 per questo l’erogazione dei sussidi viene subordinata alla partecipazione ai programmi di reinserimento lavorativo, all’accettazione di un lavoro alle con- dizioni di mercato, alla frequenza di una iniziativa formativa. Le conseguenze di questo mutamento di prospettiva non sono di poco conto sia per quanto concerne l’elaborazione delle politiche, il ridisegno dei sistemi di welfare, le persone che ne sono beneficiarie effettive o potenziali; sia – ciò che in questa sede interessa maggiormente – per quanto concerne le politiche formative che in tale scenario vengono investite di attese molto elevate. La lotta alla disoccu- pazione e la promozione della piena occupazione, pur declinata secondo le diverse categorie che compongono la forza lavoro, si realizzano anzitutto attraverso la ri- motivazione e la riqualificazione delle persone che sono senza un impiego, favo- rendo il passaggio dall’assistenza (welfare) al lavoro (work), ossia il passaggio dalla percezione passiva di un sussidio – che relega i soggetti in una posizione di dipendenza – al lavoro nel settore pubblico o in ambito privato grazie a incentivi per determinati target di lavoratori, a una indennità garantita solo a fronte di un im- pegno “certificato” nella ricerca attiva di un impiego, alla partecipazione ad azioni di orientamento (counselling) e soprattutto di formazione (lifelong learning) per migliorare l’occupabilità (employability) dei soggetti in difficoltà, all’accettazione di una occupazione “adeguata” alle caratteristiche della persona che la cerca, o di un lavoro magari meno qualificato e poco remunerato, ma temporaneo e capace di fungere da trampolino di lancio verso il reingresso stabile nel mondo del lavoro. Ciò secondo il principio della “condizionalità”, il quale, sulla scorta del “patto” che si viene esplicitamente a siglare tra il lavoratore e lo Stato (per tramite dei Centri dell’impiego che erogano i servizi di attivazione), impone al lavoratore stesso il rispetto delle condizioni poste, pena la perdita di accesso ai benefici garantiti. Si tratta di un nuovo paradigma che postula l’esigenza di un raccordo stretto, funzionale e vitale tra politiche del lavoro e politiche sociali. Significativamente l’OCSE (2005) ha recentemente indicato nel passaggio dalle politiche sociali passive alle politiche sociali attive la via per la modernizza- zione dei sistemi di protezione sociale dei Paesi più avanzati. Le politiche sociali attive vengono propriamente definite come lo strumento necessario per contribuire a conciliare l’esigenza della crescita economica (e degli aggiustamenti strutturali necessari per l’economia) con quella dello sviluppo sociale. L’ambizione è spostare l’accento da un approccio “correttivo” basato sui trasferimenti monetari e sociali, ad uno più “attivo” basato sull’investimento e mirato a massimizzare il potenziale degli individui perché possano diventare membri autosufficienti e autonomi della società. In altri termini, l’intento è quello di sviluppare un nuovo sistema di welfare che, partendo dall’esigenza di una revisione del suo impianto di sostenibilità finan- ziaria, finisce col rivedere la relazione tra welfare e cittadini sin dalle sua fonda- menta, riscoprendo alla base il rapporto con il lavoro, e nello stesso tempo asse- gnando al principale attore del welfare – lo Stato – un ruolo nuovo. Siamo certo av- vertiti della distinzione sottolineata da Esping-Andersen (2000) tra “regimi di wel- 12 fare” e “modelli di stato sociale”, laddove i primi non riguardano solo il ruolo dello Stato in quanto costruttore del benessere dei propri cittadini, ma riconoscono la compartecipazione di almeno altri tre attori: il mercato, la famiglia, il Terzo settore; tuttavia qui l’attenzione si concentra proprio sul cambiamento dei modelli di wel- fare state che la svolta in senso attivo dei sistemi di protezione sta producendo nei Paesi dell’Unione Europea. A livello europeo si sta radicando, infatti, l’idea di uno “stato sociale attivo e dinamico”, come si legge nei documenti comunitari a partire dal vertice di Lisbona del 2000: tale idea rimanda a un intervento pubblico di tipo “abilitante”, ovvero di- retto a potenziare le capacità di scelta, azione, partecipazione attiva dei cittadini. Un intervento che, nella definizione di active welfare state resa celebre dal Mini- stro belga per il lavoro, gli affari sociali e le pensioni Frank Vanderbrouke (1999), e divenuta ormai di uso comune in letteratura, è considerato fondamentale per pro- muovere la responsabilità individuale e l’autorealizzazione personale congiunta- mente con le responsabilità e la solidarietà collettive, considerando gli uni e gli altri quali tasselli irrinunciabili di un progetto di riforma del welfare che voglia a un tempo promuovere la riduzione dei costi e l’innesco di processi di autotutela senza perdere di vista l’orizzonte della coesione sociale. Un intervento, precisa lo stesso Vanderbrouke, che non misconosce l’istituto del welfare state come da alcuni pa- ventato, poiché sottende almeno tre principi di fondo che ne conservano l’impianto costitutivo: a) è lo Stato, ovvero una pubblica autorità, a rappresentare il soggetto cardine (ancorché non unico) del welfare e tale autorità è chiamata ad assumere un approccio innovativo di governo a livello locale, nazionale ed europeo; b) lo scopo è rendere i cittadini in grado di partecipare attivamente alla vita socioeconomica; c) resta intatta la tradizionale mission del welfare di provvedere a una adeguata prote- zione sociale dei cittadini stessi (ibidem). Tale modello di stato sociale si incentra su un tentativo di “riallineamento tra lavoro e welfare”, di ridefinizione del rapporto tra occupazione e protezione sociale, laddove l’occupazione retribuita rappresenta l’asse portante del diritto alla prote- zione e più radicalmente della cittadinanza stessa, così come predicato nel modello sociale europeo (Hemerijck 2002): ne sono i pilastri fondativi da un lato i principi dell’occupabilità, della formazione permanente, dell’inserimento lavorativo, del- l’impiego sussidiato, dall’altro lato quelli dell’attivazione e della responsabilità in- dividuale, che solo in questo modo possono continuare a intessere legami di solida- rietà collettiva. Invero, il nesso tra lavoro e welfare è sempre stato al centro del patto di cittadinanza, ma in questo nuovo approccio tale nesso pare radicalizzarsi. Volendo indicarne le coordinate di fondo, si può rilevare che esso mira ad ab- binare (condizionare) l’esigibilità di determinate prestazioni e il sostegno all’inseri- mento lavorativo con l’attivazione del soggetto attraverso strumenti di azione diffe- renti: dallo sviluppo della formazione al potenziamento dei Servizi di impiego e in- contro domanda offerta per favorire la (ri)collocazione nel mercato del lavoro; dai crediti di imposta agli incentivi alle assunzioni, alle integrazioni di reddito (in work benefit) volti a rendere il lavoro vantaggioso (make work pay) rispetto all’inattività 13 o alla disoccupazione e alla dipendenza dal welfare. A ben vedere si configura una nuova rete di protezione che si regge però su alcuni presupposti, i quali devono es- sere compresenti e tra loro interdipendenti, pena l’insostenibilità del modello stesso. Ovvero la capacità del sistema politico-economico di: creare posti di lavoro; implementare un efficiente sistema di incontro/domanda e offerta di lavoro (i Ser- vizi per l’impiego); sviluppare l’offerta di formazione e orientamento; non ultimo, finanziare economicamente un corposo pacchetto di incentivi (Lodigiani 2005a). L’active welfare state mette dunque l’occupazione retribuita al centro del pro- prio funzionamento, ma l’incremento dei tassi di occupazione e partecipazione al lavoro non ne può rappresentare l’unico obiettivo, poiché quest’ultimo deve proce- dere di pari passo con un adeguato sviluppo dei sistemi di protezione sociale dal momento che – come chiosa Vanderbroucke (2003) – una cosa è promettere l’occu- pazione, altra cosa è garantire l’occupabilità. Con altre parole: un conto è offrire un posto di lavoro, un’altra è offrire l’opportunità di sviluppare nel soggetto le condi- zioni per potersene guadagnare uno, nonché promuovere nel mercato chance suffi- cienti e adeguate per essere colte. Ciò implica che, come già evidenziato, la riforma del welfare non va necessariamente in direzione di una sua marginalizzazione e ri- duzione; al contrario, la sua ridefinizione ne dovrebbe implicare una sua espan- sione, seppure secondo modalità inedite, quantomeno nella misura in cui esige di realizzare un mix tra le politiche sociali e le politiche del lavoro (attive, ma anche passive), prevedendo che le misure di sostegno al reddito e gli ammortizzatori so- ciali diventino anche strumenti per permettere ai lavoratori di affrontare periodi di formazione e riqualificazione, di rientrare con rinnovate competenze nel mercato del lavoro uscendo dalla situazione di assistenza. Si tratta di una opzione molto co- stosa, come avverte Solow (2001). Certo potrebbe essere realizzata prestando uni- camente attenzione ai costi economici, limitandosi dunque a individuare le oppor- tunità di risparmio insite nella diminuzione delle persone dipendenti dal welfare (e dunque nella diminuzione delle indennità erogate): ma un simile approccio co- struisce una rete minimale, e accresce i rischi di marginalizzazione per quanti si trovano a dipendere da essa. Se si vuole che tale rete di protezione configuri invece un fair welfare, un’assistenza “equa”, allora occorrono investimenti ingenti tanto nella creazione di posti di lavoro pubblici, quanto nel sostegno degli incentivi, quanto nella formazione e nei Servizi per l’impiego, ecc. (ibidem). In particolare, afferma il premio Nobel per l’economia, occorre puntare risorse nel “packaging” che unisce insieme il welfare e il lavoro nei casi in cui la transizione al lavoro non può compiersi del tutto, quando cioè l’impiego trovato non offre livelli di reddito adeguati a consentire uno standard di vita “decente”, nel senso dato all’Ilo (2003) a questo termine, associando agli aspetti economici quelli di sicurezza e protezione. Solo a queste condizioni può realmente realizzarsi l’obiettivo europeo della flexicurity, chiamata a fare sintesi tra le esigenze di flessibilità economica e del mercato del lavoro, e quelle di sicurezza e protezione sociale. Nella definizione di- venuta “classica” di Wilthagen e Tros (2004), la flexicurity è una strategia politica che cerca in modo sincronico e deliberato di aumentare la flessibilità del mercato 14 del lavoro, delle imprese e delle relazioni di lavoro da un lato, e di aumentare la sicurezza – occupazionale e sociale – soprattutto per i soggetti deboli dentro e fuori il mercato del lavoro, dall’altro lato. Il che, però, come nota Lang (2006), implica almeno due fattori: la presenza di una strategia politica che sia realmente in grado di mirare a entrambi gli obiettivi; che l’attenzione sia rivolta anche agli esclusi, ai soggetti ai margini, e non solo agli insider del mercato del lavoro. Appare chiaro sin da questi brevi cenni introduttivi che l’idea di uno stato so- ciale attivo rimandi a una determinata visione del rapporto tra cittadino e Stato, tra bene individuale e bene comune, tra responsabilità individuale e responsabilità col- lettive. In sintesi rimanda a una opzione normativa e dunque valoriale, come sempre inevitabilmente accade quando si ha a che fare con un modello di welfare. Significativamente, il modo in cui tale ridisegno è stato interpretato a livello eu- ropeo non è univoco, e lascia intravedere una diversa declinazione proprio del prin- cipio normativo che lo informa, almeno in due direzioni. I modelli che emergono, che semplificando un po’ possono essere considerati l’uno di matrice scandinava, l’altro di matrice anglosassone, trovano a loro volta una loro specifica declinazione nei diversi Paesi europei. Anche se l’ambizione di costruire un “modello sociale europeo” accomuna tutti nella convinzione che la politica sociale sia un fattore es- senziale per promuovere la regolazione economica, e che non esista contraddizione tra competitività economica e coesione sociale (Hemerijck 2002). In questa sede lo verificheremo con riferimento all’esperienza di quattro Paesi: Danimarca, Francia, Italia, Regno Unito. In termini generali i due distinti modelli di active welfare state appena evocati – entrambi legati all’approccio del welfare to work (WTW), teso a promuovere il passaggio dal welfare al lavoro in un’ottica di attivazione – possono essere così sintetizzati: – il primo considera il ruolo dello stato sociale attivo una forma di investimento sociale basato su strategie e politiche orientate al capitale umano (Ambrosini- Beccalli 2004; Barbier 2004; Giddens 1999), teso ad attivare le capacità dei soggetti (la loro libertà di scelta sostanziale, la responsabilità, le possibilità di autorealizzazione); un investimento rispetto al quale l’inserimento nel mercato del lavoro assume un significato peculiare. Esso è una condizione fondamen- tale ma non necessaria né peraltro sufficiente per garantire una cittadinanza at- tiva: è cioè uno degli strumenti possibili per realizzare uno sviluppo umano (Bosi 2003; Busilacchi 2006). Tale modello richiede un elevato riconosci- mento e la valorizzazione della formazione (a tutti i livelli e nelle sue diverse declinazioni: formale, non formale, informale) come veicolo di empowerment e di capacitazione del soggetto. Grazie allo sviluppo di tale capacitazione il soggetto può arrivare a esercitare la sua cittadinanza attiva in ambiti diversi dal lavoro per il mercato, come ad esempio nel lavoro di impegno civile indicato da Beck (2000) nel quadro di una società pluriattiva (Paci 2005); ma qui, in- vero, si fuoriesce dal modello scandinavo e si allarga lo sguardo ai risvolti che 15 la visione del ruolo dello stato sociale come “investimento” potrebbe esercitare sulla ridefinizione dello stesso concetto di cittadinanza attiva, laddove – come afferma Supiot (2003) – la concezione di “condizione lavorativa” che ne è a fondamento supererebbe l’impegno contrattuale del lavoro salariato per inclu- dere altre forme, eterogenee, di impiego non di mercato; – il secondo vi identifica una forma efficientista di welfare to work, come nel workfare (Barbier 2004; Busilacchi 2006), secondo il quale il godimento dei diritti sociali è invece subordinato alla attivazione dei cittadini sul mercato del lavoro e al rapido inserimento lavorativo (in un impiego “purché sia”), e nel quale la formazione viene considerata in termini strumentali e di breve periodo come politica attiva del lavoro e dell’occupazione 1. La centralità assegnata al lavoro e la convinzione che esso sia, in tutti i casi, preferibile alla condizione di dipendenza dal welfare porta nei dispositivi di workfare a creare la figura del “lavoratore sussidiato” (per esempio, ma non solo, in lavori di pubblica uti- lità), laddove il sussidio è offerto in sostituzione o integrazione del reddito da lavoro (in work benefit). In sostanza riconverte i sussidi alla disoccupazione in incentivi all’occupazione (ciò che si intende con “attivazione delle politiche passive”) in specie per le categorie svantaggiate, con l’obiettivo di rompere la dipendenza dalle indennità e rendendo più redditizio il lavoro, anche se poco qualificato e remunerato dal mercato 2. Tali modelli di fatto propongono una dicotomia tra due regimi di welfare: l’uno riduttivo, residuale, marginale tipico di un’interpretazione “produttivista” del workfare, l’altro inclusivo, universalistico, che pone al centro l’obiettivo dello svi- luppo umano nei termini sopra detti. Invero la dimensione produttivista non è estranea nemmeno al secondo, nella misura in cui l’obiettivo è sempre massimiz- zare le capacità produttive dell’individuo, ma mentre in questo secondo caso è lo stato sociale a doversi impegnare per garantire ai cittadini risorse e motivazioni al lavoro nonché reali opportunità di impiego, nel primo caso allo stato sociale spetta essenzialmente l’erogazione di sussidi, subordinandola alla disponibilità degli eventuali beneficiari ad accettare una occupazione (Esping-Andersen 2000). La stessa occupabilità intesa come pacchetto di risorse che a livello istituzio- nale uno stato sociale ridisegnato deve garantire (Ferrera 1998) può essere interpre- tata in modi differenti. Si può convenire sul fatto che i pilastri dell’occupabilità 1 Distinguiamo il welfare to work, inteso come approccio che mira a ridurre la dipendenza pas- siva dai sussidi portando al lavoro il maggior numero di disoccupati, dal workfare che ne rappresenta un modello di attuazione: letteralmente il termine significa work for welfare; esso prevede nello speci- fico la promozione di misure miste che erogano sussidi “in cambio” di lavoro, e obbliga le persone che richiedono i benefici del welfare ad acquisire “requisiti occupazionali” accettando di partecipare a programmi di formazione e reinserimento lavorativo (Barbier 2004). 2 L’efficacia di tali dispositivi viene a dipendere da diversi fattori: che l’integrazione del reddito sia tale da consentire di sfuggire alla trappola della povertà per quanti trovano lavori scarsamente re- munerati (i cosiddetti working poors); che si prevedano sistemi di mobilità che consentano di sfuggire all’intrappolamento nelle fasce più basse e dequalificate del mercato del lavoro (Solow 2001). 16 siano – come sostiene l’Unione Europea – almeno quattro: una protezione sociale “amichevole” verso il lavoro (in termini di incentivi, sgravi, agevolazioni…); un mercato del lavoro più equo e flessibile; servizi per l’impiego efficienti ed efficaci; ampio investimento in istruzione e formazione; politiche di promozione della mo- bilità. Ma ciò non basta. Come sostiene Ferrera (ibidem), occorre ragionare sugli obiettivi che tramite essi si vogliono perseguire. La preoccupazione di garantire l’uguaglianza dei risultati (piena occupazione) va superata in vista di un traguardo diverso: l’equità nelle opportunità di partenza e soprattutto lungo l’arco della vita attiva, cercando di restituire in modo permanente i mezzi per rimettersi in carreg- giata. Fronteggiando in modo particolare le disuguaglianze che si tramandano e cumulano in chiave intergenerazionale: è questo il vero problema in una società che tende a invecchiare, modificando i presupposti dei patti tra le generazioni; una società che continua a vedere pesare enormemente sui processi di stratificazione e disuguaglianza le differenze di tipo ascrittivo (Esping-Andersen 2005). Basti pen- sare a quanto, almeno in alcuni contesti, la famiglia continui a caratterizzare un ac- cesso differenziato alle risorse, essendo essa stessa un’istituzione né meritocratica né egualitaria (Benadusi 2006, 20). Le politiche di occupabilità e i programmi di attivazione inscritti nel quadro del welfare attivo non sempre sono in grado di mirare a questo traguardo dell’u- guaglianza delle opportunità lungo il corso dell’esistenza, né sembrano aprire il varco alla riflessione sulle condizioni alle quali sia realmente possibile costruire una società più giusta e inclusiva, poiché non sempre sono realmente impostate a favorire lo sviluppo delle capacità personali necessarie per fronteggiare le situa- zioni di disagio, rischio, esclusione che continuamente si possono presentare nelle traiettorie di vita (Bonvin - Farvaque 2005). La stessa occupabilità non è solo fun- zione delle caratteristiche personali e della responsabilità del soggetto come troppo spesso si pensa, bensì anche delle reali opportunità che il contesto istituzionale e il mercato del lavoro offrono, chiamando dunque in causa le responsabilità collettive. Ma per progredire nella nostra riflessione occorre guardare più da vicino il concetto di attivazione. 3. Modelli di attivazione e soluzioni path dependency Nella prospettiva sin qui descritta l’attivazione viene assunta non solo come parola chiave, ma insieme come tratto distintivo e obiettivo prioritario di sviluppo di un nuovo sistema di protezione sociale. Anch’essa però può essere declinata in diverse direzioni, che non attengono la sola ricerca attiva dell’occupazione e il reinserimento immediato nel mercato del lavoro (come alcune varianti nazionali suggerirebbero), ma che rimandano ai diversi gradi di empowerment del cittadino che sono promossi dalle politiche nazionali. Nel primo dei due modelli sopra richiamati, infatti, tale concetto si applica a una visione di cittadinanza attiva più ampia di quella sostenuta nel secondo, che la 17 interpreta in prospettiva economicista e occupazionale: essa suppone un individuo coinvolto in prima persona nella costruzione di un percorso di (re)inserimento in- sieme lavorativo e sociale, dunque sia nei termini di una maggiore propensione alla ricerca attiva di un impiego, sia in quelli (non meno importanti) di una maggiore possibilità di incidere nel rapporto con il soggetto pubblico nella definizione stessa dei programmi di reinserimento attivo. Cercando di essere più precisi sul piano definitorio, è indubbio che il concetto di attivazione rimandi anzitutto all’instaurarsi di un nesso esplicito tra la protezione sociale e l’attività lavorativa, retribuita, dell’individuo (Barbier 2005). In questa prospettiva si può affermare, come sopra accennato, che per quanto già i moderni sistemi di welfare siano sorti ponendo il lavoro come fulcro della cittadinanza, l’at- tuale ridisegno dei sistemi di protezione radicalizza ulteriormente il rapporto tra welfare e lavoro, tra cittadinanza e lavoro 3. In quest’ottica, seguendo Barbier (2006), l’attivazione si può applicare empiri- camente a tre grandi categorie dell’azione politica: 1) le prestazioni, che comprendono l’assicurazione-disoccupazione e le presta- zioni sociali per le persone in età di lavoro, il prepensionamento e le pensioni in genere, 2) le politiche per l’impiego, dalle misure di sostegno ai giovani disoccupati agli impieghi temporanei nel settore pubblico o nel Terzo settore, le politiche attive del lavoro e della formazione in particolare, 3) le politiche a scavalco tra politiche fiscali e politiche sociali (come per es. il Working Families Tax Credit britannico o il reddito minimo di inserimento francese). Tuttavia, il modo in cui tali categorie di azione e gli strumenti di intervento si combinano dà vita a diversi modelli di attivazione dentro ai quali questa defini- zione strictu sensu si amplia sino a ricomprendere altre dimensioni, legate alla par- tecipazione in termini di corresponsabilità nella definizione delle politiche, nella scelta delle strategie di fronteggiamento dei bisogni, nella stessa erogazione dei servizi. Se si adotta questa prospettiva, applicando l’attivazione alle esigenze di ri- forma dello stato sociale, gli obiettivi non possono più essere solo di contenimento della spesa, bensì di sviluppo dell’autorealizzazione, passando attraverso mecca- nismi di autotutela e responsabilizzazione individuale. Come sottolineato da Paci (2005), in tale senso si può dire che il welfare state attivo vada incontro ai processi di individualizzazione della società, assecondandone – almeno in linea di principio – il lato positivo, che conduce i soggetti a ricercare maggiori spazi di realizzazione 3 Occorre peraltro rilevare che la cittadinanza economica si configura come requisito necessario ma non sufficiente a garantire la piena cittadinanza sociale e politica, o quantomeno non sufficiente a garantire il godimento dei diritti politici che, assieme a quelli civili e sociali e ai doveri ad essi associati, compongono le dimensioni della cittadinanza nella definizione marshalliana. Ne è un caso emblematico quello dei cittadini extracomunitari che lavorano nei Paesi dell’Unione Europea (Zanfrini 2004). 18 e affermazione di sé, caricandoli anche di ampie responsabilità. Si tratta però di far convergere la responsabilità verso di sé e il proprio benessere con una responsabi- lità collettiva, inscritta in un disegno di solidarietà sociale. L’ampliamento di significato del concetto di attivazione è ben evidenziato dall’analisi dei singoli casi nazionali. Seguendo ancora Barbier (2006) si può distinguere tra diversi modelli di attivazione. Il modello neo-liberale nel quale sono le dinamiche di mercato a garantire i maggiori livelli di efficacia ed equità: l’obiettivo è quello di mettere il lavoro al centro del sistema di welfare, il quale è orientato a fornire una rapida informazione, servizi essenziali di incontro tra domanda e offerta, formazione di breve durata per far uscire il più velocemente possibile le persone dalla situazione di disoccupazione (o inoccupazione) al lavoro. Anche i dispositivi di sostegno “in work” sono tesi a esortare le persone a essere il più attive possibile, promuovendo la figura del lavo- ratore sussidiato (emblematico al riguardo il caso inglese). Il modello universalistico socialdemocratico, nel quale il mercato ha un ruolo relativo nell’assicurare il benessere delle persone, che resta invece la mission del welfare: un welfare di tipo universalistico, le cui provvidenze sono cioè rivolte a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro posizione occupazionale; esso assicura servizi complessi e ampi, riconoscendo una centralità alle politiche attive del la- voro, e alla formazione in modo particolare (ne è un esempio il caso danese). Questa tipologia dell’attivazione ricalca in parte la nota tipologia dei tre modi del capitalismo del benessere di Esping-Andersen (2000), laddove l’autore di- stingue tra: regime liberale, residuale e selettivo; regime socialdemocratico, uni- versalistico e “produttivistico” (spetta allo Stato garantire tutte le condizioni neces- sarie affinché il soggetto possa assumere una posizione attiva nella società e nel mercato del lavoro); regime conservatore, corporativistico e familistico (con una possibile variante mediterranea, che vede accentuare il carattere familistico). Come è immediatamente evidente, se si procede in questo parallelismo, alla tipologia di Barbier mancherebbe però la definizione di un terzo tipo ideale. Secondo l’autore, dal punto di vista dell’attivazione, quest’ultimo tipo è ancora insufficientemente delineato, nonostante cominci a emergere grazie al percorso di innovazione messo in atto dalla Francia, la quale potrebbe diventare paladina del modello conservatore, meglio definibile come continentale. L’esperienza francese tende ad associare infatti alcuni dei tratti tipici di entrambi i modelli di attivazione sopra richiamati, introducendo anche qualche elemento di novità. Per esempio: red- dito minimo di inserimento senza obbligo di ricerca di impiego; sanzioni per i be- neficiari di indennità di disoccupazione; creazione – sostenuta dallo Stato – di posti di lavoro temporanei nel settore non profit, laddove dunque lo Stato assolve il ruolo di datore di lavoro di ultima istanza. La connessione tra politiche assistenziali, volte a fornire risposta ai bisogni di cura emergenti attraverso l’articolazione dei servizi sociali, e politica occupazionale per il reinserimento dei soggetti più svan- taggiati, realizzata attraverso l’azione di organizzazioni non profit che operano nel 19 campo dei servizi sociali, sembra emergere come il tratto più interessante (speri- mentato solo in Francia in maniera effettivamente compiuta). Ancor più remota pare la possibilità di definirsi di una variante mediterranea dell’attivazione stante il ritardo su questo terreno dei Paesi che la potrebbero rap- presentare. L’Italia, su tutte, afferma Barbier, appare in difficoltà ad attuare una ri- forma di respiro in questo campo. Peraltro, se si può condividere il pessimismo circa la mancanza di un indirizzo di sistema che abbia in Italia messo mano al set- tore delle politiche del lavoro (si pensi all’attesa riforma degli ammortizzatori so- ciali e all’esiguità dei programmi di contrasto alla vulnerabilità sociale), sono da tempo in corso sperimentazioni locali che si muovono sul terreno della connessione tra politiche sociali e politiche occupazionali (si pensi al ruolo riconosciuto dalla legislazione delle cooperative di tipo B per l’inserimento occupazionale dei sog- getti svantaggiati); terreno sul quale il caso italiano potrebbe rivelare una speci- ficità tutta sua; inoltre sono molti i progressi compiuti sul piano delle politiche formative e nel raccordo con quelle occupazionali e sociali. La tipologia dei regimi di welfare individuata da Esping-Andersen e affinata negli anni, anche a fronte delle critiche ricevute, resta uno dei riferimenti per la comparazione internazionale dei sistemi di welfare, ma non è l’unica. A determinare il fiorire di modelli di classificazione è la difficoltà a individuare un set di indicatori univoci, efficaci nello spiegare da un lato il funzionamento dei singoli modelli, dal- l’altro la varianza tra di essi (Busilacchi 2006; Naldini 2006), varianza determinata soprattutto dall’insieme delle caratteristiche socio-economiche, istituzionali e cultu- rali dei singoli contesti che configurano soluzioni path dependency (Esping-An- dersen 2000). I rapporti tra flessibilità (del mercato del lavoro), sicurezza (in ter- mini di protezione sociale) e apparato istituzionale differiscono storicamente tra un Paese e un altro. La variabilità dei modelli che ne derivano si inscrive nel campo di analisi che tali rapporti definiscono (Klammer 2006). Il campo di analisi che si dispiega può essere tracciato nel triangolo sottorappresentato dalle frecce. In questa sede, la discriminante da cui moveremo per cercare di leggere le spe- cificità dei modelli nazionali è rappresentata dalle politiche formative nel loro in- treccio con le politiche sociali e occupazionali: partendo dall’assunto – fatto pro- Fonte: tratto da Klammer (2006) 20 prio dall’Unione Europea nella definizione del suo modello sociale – che le poli- tiche del capitale umano, intese in senso lato, rappresentino, o dovrebbero rappre- sentare, il cuore di un welfare attivo che voglia essere capability-friendly (Bonvin, Farvaque 2005), ovvero orientato realmente a investire nell’empowerment delle persone, dunque nella loro autorealizzazione. Detto in termini ancora più espliciti, le politiche formative si configurano a nostro avviso come uno dei pilastri princi- pali del welfare attivo, e (anche) dalla loro definizione e attuazione dipende il con- figurarsi di uno specifico “regime” di welfare, con tutto ciò che esso comporta sul piano normativo. 4. La centralità delle politiche di capitale umano Dentro questa ampia cornice di riferimento, il nostro intento è di soffermarci sul nesso che si può creare tra politiche sociali, occupazionali e formative, laddove que- ste ultime siano intese come politiche di inclusione e partecipazione attiva, lavorati- va e sociale. Laddove cioè la formazione diviene veicolo (e diritto) di cittadinanza (Colasanto 2000), di una cittadinanza attiva che fa appunto della partecipazione uno dei suoi fondamenti. Nel convincimento che la vulnerabilità sociale abbia sempre una determinate sociale sulla quale si può intervenire con appropriati investimenti, in specie nell’ambito dell’educazione e della formazione (Vanderbrouke 1999). Come abbiamo visto, il passaggio da un welfare assistenziale e assicurativo (centrato sul lavoro) a un welfare attivo, anzi attivante (centrato sull’occupabilità e la partecipazione) esige un vero mutamento di prospettiva che fa cambiare il ruolo dello stato sociale, il quale da erogatore di dispositivi di tutela e di protezione pas- siva diviene produttore di servizi promozionali ad personam in grado di stimolare e sviluppare le risorse del soggetto chiamato a fronteggiare le situazioni di rischio in cui viene a trovarsi. Quello che si dovrebbe configurare è allora un “welfare delle opportunità” (Paci 1997) o un welfare delle “capacità e delle eque opportunità” (Busilacchi 2003) che opera per garantire ai soggetti il diritto all’inclusione sociale, assumendo come assi portanti le politiche attive del lavoro e dell’occupazione, la formazione professionale, l’istruzione. Sarebbe questo uno stato sociale che “in- veste” (Giddens 1999) sul capitale umano dei suoi cittadini curando per questo tra- mite il loro “diritto all’inserimento” (Ambrosini - Beccalli 2004), un diritto non più garantito attraverso la certezza di una occupazione, ma rispetto al quale la forma- zione diviene veicolo di cittadinanza. Se le trasformazioni in atto nel lavoro e nella società non sono da leggersi solo negativamente in termini di frammentazione e rischio, ma anche come opportunità di realizzazione di sé e autonomia, ovvero ciò che sul piano socioculturale per- segue il processo di individualizzazione, esse possono anche divenire, come so- stiene Paci, il luogo il cui il soggetto recupera uno spazio di azione inscritto in una logica di libertà sostanziale, una libertà che svincola il soggetto da condizionamenti ascritti e da forme obbligate di appartenenza tanto quanto dai condizionamenti di 21 un welfare paternalistico e gli garantisce sia la possibilità di realizzarsi sia quella di contare di più nel rapporto con i servizi e gli attori che li programmano e li erogano (Paci 2005). Dentro questo quadro vengono a trovarsi in primo piano le capacità del sog- getto intese come la possibilità effettiva di riuscire trovare e sfruttare le opportunità che il contesto offre per assumere un ruolo attivo nel lavoro e nella società, per “fare la sua parte”, ma anche per autorealizzarsi. Sempre dentro questo quadro la formazione a sua volta si configura come strumento per aumentare l’occupabilità, per accedere a impieghi più sicuri, meglio remunerati, di maggior qualità e dunque anche più soddisfacenti, nonché per accrescere il grado di consapevolezza e spirito critico del soggetto, entrambi tasselli di un reale processo di empowerment, di ca- pacitazione individuale, di accrescimento delle sue chance negoziali e decisionali, oltre che occupazionali. In questo scenario, dunque, un ruolo centrale (benché non univoco, né aproble- matico) è assegnato alle politiche del capitale umano, riconosciute come punto no- dale di incontro di un complesso di politiche del lavoro, sociali (di diversa natura) e di lifelong learning. Significativamente, il Consiglio d’Europa ha così precisato gli obiettivi del be- nessere che sostanziano il principio della coesione sociale: equità, dignità, auto- nomia, partecipazione. Quest’ultima, con riferimento al welfare, può essere intesa in diverse accezioni: – di partecipazione attiva al lavoro, – di partecipazione attiva alla costruzione del welfare, nella misura in cui si prende parte ai processi decisionali che danno corpo alle risposte ai bisogni. Su questo punto si può ulteriormente distinguere tra: a) il livello della partecipa- zione nella costruzione (attraverso incentivi, voucher e altri dispositivi) della strategia di uscita dalla condizione di bisogno. In questo senso l’empowerment del soggetto conduce alla possibilità di co-partecipare all’elaborazione dell’in- tervento di formazione o ricollocazione professionale, traducendosi, per dirla con Paci (2005), in termini di negoziazione, contrattualizzazione e coinvolgi- mento diretto o indiretto alle decisioni circa i programmi sociali; b) il livello della partecipazione come possibilità per il soggetto di prendere parte alla co- struzione, non di un programma di intervento “individualizzato”, ma delle po- litiche, nel rapporto con l’amministrazione. In questo caso la partecipazione è mobilitazione della società civile, così come, per esempio, espressamente indi- cato dalla legge italiana sull’assistenza 328/2000, che apre il policy making alla partecipazione della società civile. Questo tipo di declinazione rimanda a un diverso grado di empowerment indi- viduale quando riletto alla luce del paradigma dell’attivazione: – capacità di attivazione sul piano lavorativo (occupabilità) – capacità di attivazione sul piano della definizione del percorso di uscita dalla condizione di bisogno (consapevolezza, autonomia, responsabilità per sé) 22 – capacità di attivazione sul piano della partecipazione alla programmazione (corresponsabilità, responsabilità per sé e gli altri). Si legge in questa impostazione la convinzione che le chance di vita e di parte- cipazione attiva al lavoro e alla società dipendano sempre più dalle abilità di ap- prendimento e dall’accumulazione di capitale umano (Esping-Andersen 2002), oltre che dal capitale sociale che si riesce a mobilitare. Dal grado più “basso” a quello più “alto” della partecipazione attiva e dell’empowerment, il coinvolgimento dei soggetti passa attraverso la dotazione crescente di conoscenze, competenze e capacità di leggere la situazione in cui si trovano, di diagnosticare e affrontare le eventuali difficoltà, di assumere responsabilmente un ruolo attivo su più fronti. In questo senso può certamente essere letta l’enfasi europea sul Lifelong Learning considerato quale ambito privilegiato in cui investire sulle persone, e porre le basi per lo sviluppo delle capacità necessarie per la loro attivazione nel senso più ampio del termine. Il terreno appare fecondo, ma anche colmo di insidie, e la più evidente è quella di un sovraccarico sulle politiche formative e di capitale umano, politiche chiamate a mantenere il legame di cittadinanza dove un tempo lo manteneva il lavoro, al- meno laddove la loro declinazione si gioca più sul piano dell’occupabilità e meno su quello delle capacità. Nel quadro del welfare attivo, la formazione viene a essere proposta come forma di protezione, a garanzia dell’occupabilità e del diritto di cittadinanza, specie laddove il lavoro manca: se oggi il lavoro non c’è, si offre un’opportunità forma- tiva che consenta ritrovarne uno domani. In questo senso essa, si situa al punto di incontro tra le politiche del lavoro e le politiche sociali, incarnando la promessa di garantire almeno l’opportunità di presentarsi sul mercato del lavoro con le migliori chance di trovare o mantenere un impiego (Lodigiani 2005b). Ma – e questo è il ri- schio più evidente – la formazione non può essere considerata come un sostituto funzionale del lavoro. Non può essere la formazione da sola a garantire la “conti- nuità sociale” dei cittadini-lavoratori (Accornero 2005) quando la discontinuità delle carriere lavorative la minaccia (posto che qui la questione rimanda allo status di cittadino in senso proprio, che acquista significato al di là del suo essere lavora- tore). Non può, non fosse altro per il fatto che a sua volta non è una risorsa equa- mente distribuita o equamente accessibile. Basti pensare che se le politiche di atti- vazione hanno il pregio porre in primo piano l’esigenza della cura dell’occupabilità dei soggetti, l’attenzione posta sul singolo tende sempre più ad amplificare le diffe- renze individuali, che si rivelano perfino nella capacità o meno di fruire di inizia- tive formative, al limite di riconoscerle come opportunità. In altri termini, non è sufficiente che tali opportunità siano presenti, occorre che il soggetto le sappia indi- viduare, selezionare, cogliere, e utilizzare. Se proprio le politiche formative, unita- mente alle politiche attive del lavoro e dell’inclusione sociale, possono giocare un ruolo fondamentale per supportare e incentivare le capacità di pooling dei soggetti nel combinare le risorse a disposizione (Ranci 2002), occorre verificare che esse 23 siano realmente in grado di rendere fattivi i diritti goduti in linea di principio, ov- vero di garantire l’esercizio di una libertà sostanziale, che si regge sulle capabili- ties di tradurre tali diritti in risorsa per l’azione e l’auto realizzazione (Nussbaum 2002). La difficoltà sta dunque nell’andare nella definizione di un quadro norma- tivo che garantisca la formazione come un diritto per tutti, ma che sappia anche renderla effettivamente un diritto esigibile in tutte le sue potenzialità al di là delle differenze e delle disuguaglianze. Sulla scorta di una riflessione ampiamente nota – inaugurata da autori come Ralf Dahrendorf (1988), il quale pone l’attenzione sulla differenza tra entitlements (diritti) e provisions (condizioni), o come l’economista il premio Nobel Amartya Sen (1992), il quale si sofferma sulla distinzione tra functionings (dotazioni) capa- bilities (capacità), o più di recente la Nussbaum appena citata –, possiamo evi- denziare che esistono almeno tre piani sui quali possono innescarsi i processi di disuguaglianza: il piano dei diritti, dell’accesso a tali diritti, della capacità di tra- durli in risorse per l’azione. A dire che un conto è garantire a tutti eguali diritti ed eguali opportunità, altro è garantire che diritti e opportunità siano egualmente esigi- bili e utilizzabili a proprio vantaggio. E questo non è sempre vero proprio con rife- rimento alla formazione, come ribadisce Supiot (2003): il diritto alla formazione (professionale in particolare), se pure è ormai pressoché unanimemente considerato un “diritto sociale universale”, da garantire cioè a tutti indipendentemente dal loro lavoro, rimane tale per lo più solo in forma di principio e fatica a essere pienamente realizzato. In questa prospettiva, come sostiene Rovati (2005, 34), “si comprende quanto importante sia, per ogni strategia di contrasto dell’esclusione sociale, investire sulle motivazioni, le conoscenze, i legami sociali delle singole persone: ciò che viene chiamato capitale umano è in effetti il principale destinatario e allo stesso tempo la principale risorsa di ogni politica di sviluppo”. Le proposte non mancano. L’intento della riflessione sviluppata in questa sede è quello di andare a vedere come le politiche formative si integrano nel quadro di welfare attivo nei diversi contesti nazionali, pur se a partire dagli orientamenti espressi in sede europea a espressione di un comune modello sociale. Per capire il valore della posta in gioco basti ricordare che il consenso sull’importanza della for- mazione (in specie quella continua e permanente) entra immediatamente in crisi nel momento in cui se ne deve attribuire la responsabilità e ricercare le fonti di finan- ziamento, laddove viene a cadere il confronto tra le parti sociali e ci si muove in un’ottica di breve periodo (Hemerijck 2002). Come abbiamo ricordato, la costruzione del welfare è path dependency, ov- vero dipendente dai contesti economici e socio-istituzionali in cui si radica, ma è anche dipendente una dimensione normativa (e dunque valoriale) che rimanda alla visione di società, di solidarietà e di coesione sociale, di patto tra individuo e so- cietà che ad esso è sotteso in ciascun Paese. Lo stesso può dirsi del ruolo assegnato alla formazione (all’istruzione e alla formazione professionale) nella misura in cui traduce uno specifico modello di attivazione e partecipazione. 24 È proprio sull’istruzione e sulla formazione, e in particolare sulle politiche ri- ferite al capitale umano nel nesso con il lavoro e la cittadinanza attiva, in un’ottica dunque del welfare attivo, che ci proponiamo di continuare a riflettere nei capitoli che seguono. Consapevoli che tale riflessione non può però restare confinata al ruolo delle politiche formative. Occorre indagare come, nei diversi contesti, esse si intreccino con altri dispositivi di protezione e promozione, con i servizi per l’im- piego ma anche di sostegno alle famiglie, con le forme di regolazione del mercato del lavoro e le sue caratteristiche, con il quadro istituzionale e culturale di riferi- mento, con gli attori sociali che in esso agiscono. Lo faremo addentrandoci nel- l’esperienza di quattro Paesi: Danimarca, Francia, Italia, Regno Unito. Bibliografia ACCORNERO A. (2005), Il lavoro tra la rigidità e la flessibilità. E Poi?, in “Sociologia del lavoro”, n. 100. AMBROSINI M., BECCALLI B., (2000) Introduzione, in Lavoro e nuova cittadinanza, “Sociologia del Lavoro”, n. 80, pp. 7-28. BAUMAN Z. (1999), La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna. BARBIER J.C. (2006), Cittadinanza, flessibilità e altre forme di attivazione della protezione sociale in Europa, in Farrel G., Flexicurity. Flessibilità e welfare una sfida da raccogliere, Sapere 2000, Roma. BARBIER J.C. 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L’analisi degli schemi e delle traiettorie occupazionali verrà poi intrecciata con i livelli di scolarizzazione e la formazione continua, così da fornire elementi utili per misurare e confrontare l’occupabilità e il grado di successo lavorativo dei sog- getti, in rapporto al bagaglio formativo conseguito. Si passerà, in ultima analisi, a valutare l’importanza attribuita, in ciascun con- testo, alle diverse tipologie formative; per tale ragione verrà prima proposto un ap- profondimento sul lifelong learning e quindi una disamina sull’investimento nelle istituzioni educative e, all’interno delle politiche del lavoro, nella formazione. Il termine di paragone con cui confrontare il quadro emergente nelle diverse realtà locali sarà costituito, di volta in volta, dal complesso dei Paesi OCSE o dal- l’area dell’Europa a 15 o a 25 Paesi. Questo in ragione delle diverse fonti dei dati impiegate nello studio. 1. Il mercato del lavoro: partecipazione, occupazione, disoccupazione, diffu- sione del lavoro atipico Nell’area comunitaria (Europa a 15) il tasso di attività degli adulti della fascia di età 15-64 anni è cresciuto di due punti percentuali negli ultimi cinque anni, pas- sando dal 69,3% del 2001 al 71,3% del 2005; se si allarga l’orizzonte temporale di riferimento si nota come nel decennio passato l’incremento sia stato ancora più so- stenuto e pari a quattro punti percentuali. Come ormai assodato, sono in prevalenza le condotte femminili ad essere cam- biate. I tassi di attività maschili si sono, infatti, mantenuti pressoché stabili (78,4% 4 A Giulio Marini va attribuito il paragrafo 3.3, a Egidio Riva i restanti paragrafi. 28 nel 1994; 78,3% nel 2001 e 79,1% nel 2005); al contrario il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro è cresciuto considerevolmente, dal 56,5% del 1994 al 60,3% del 2001 e quindi al 63,5% del 2005. Unitamente alla disaggregazione per genere, è interessante cogliere le diffe- renze nei modelli partecipativi a seconda della classe di età di appartenenza, così da costruire un quadro interpretativo più ricco e approfondito. Tra i giovani (15-24 anni) il tasso di attività è cresciuto lievemente nell’ultimo quinquennio, dal 47,2% al 47,6%, ma dal confronto sul medio periodo si nota un calo rispetto al valore del 49,2% registrato nel 1994; non si osservano, in questo ambito, particolari differenze di genere, in quanto la partecipazione al mercato del lavoro ha seguito il trend di sviluppo appena commentato sia tra gli uomini che tra le donne. Nella classe di età successiva (25-54 anni) l’aumento del tasso di attività a livello aggregato (+4 punti nel decennio, dall’80,5% del 1994 al 84,3% del 2005) è dovuto quasi esclusivamente all’affermarsi della presenza femminile sul mercato del lavoro: invero, i tassi di attività delle donne sono cresciuti di otto punti nel de- cennio e di tre nell’ultimo quinquennio, arrivando al 76,0%, un valore comunque nettamente inferiore al corrispettivo maschile (92,6%). È vero, ad ogni modo, che in questa fascia di età il differenziale di genere si è ridotto notevolmente nel pe- riodo in considerazione. Il maggiore protagonismo femminile è ancora più evidente tra le fasce più ma- ture della popolazione. Tra i 55-64enni il tasso di attività, pari al 39,4% nel 1994, è passato al 43,4% nel 2001 e ha subito una crescita ulteriore negli ultimi anni tanto da arrivare al 46,7%; più nel dettaglio si rileva, ad ogni buon conto, che se tra gli uomini i volumi di partecipazione sono cresciuti dal 39,4% del 1994 al 46,7% del 2005, tra le donne l’aumento occorso nell’ultimo decennio è stato ancora più so- stanzioso (+ 10 punti percentuali, dal 27,0% al 37,2%). Sempre in merito ai tassi di attività è possibile suddividere i Paesi in oggetto in due sottogruppi. Del primo fanno parte Danimarca e Regno Unito, che presentano livelli di partecipazione della popolazione decisamente elevati e pari, rispettiva- mente, al 79,4% e al 76,1%; del secondo Francia (69,1%) e Italia (62,4%), che si caratterizzano invece per valori più moderati e comunque inferiori alla media eu- ropea (Tabella 1). A spiegare le diversità intercorrenti tra questi Paesi contribuisce, innanzitutto, la variabile di genere; questo perché in Danimarca e Regno Unito, anche se i tassi di attività maschile sono comunque più elevati, è soprattutto la partecipazione delle donne al mercato del lavoro a raggiungere livelli decisamente superiori (75,1% e 69,7%) rispetto a quanto avviene in Francia (63,8%) e in Italia (50,4%). Inoltre, con riguardo all’età, mentre gli indici di partecipazione della popolazione adulta (25-54 anni) non variano in modo apprezzabile tra i Paesi – eccezione fatta per l’I- talia, che mostra, rispetto agli altri Stati, un differenziale negativo di 7-10 punti percentuali spiegato da quanto si osserva nella componente femminile –, importanti disparità emergono tra i giovani e le classi di età più mature. In particolare, in Francia e Italia i tassi di attività dei 15-24enni sono circa la metà di quelli dei co- 29 TABELLA 1: Tassi di attività per Paese, classe di età, genere, 2005 Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Employment Outlook, 2006. etanei britannici e danesi, senza distinzioni di genere; allo stesso modo, tra gli over 55, il saggio di partecipazione al mercato del lavoro è pari al 32,6% in Italia e al 43,6% in Francia, mentre raggiunge valori del 58,4% nel Regno Unito e del 62,9% in Danimarca. La crescita nel tempo nei tassi di attività si è accompagnata a un incremento nei livelli di occupazione. Nel 2005 il tasso di occupazione registrato nella media dei Paesi europei è pari al 65,4%. Il raffronto con i dati precedenti mette, pertanto, in luce un differenziale positivo di 6 punti percentuali nel decennio e uno schema di sostanziale stabilità nell’intervallo temporale più recente, sui quali influisce in pre- valenza il mutamento dell’occupazione femminile, i cui volumi passano dal 49,4% del 1994 al 57,8% del 2005 e aumentano, quindi, di oltre otto punti percentuali. Tra gli uomini il tasso di occupazione rimane stabile negli ultimi cinque anni (73,1% nel 2005 verso il 73,2% nel 2001), ma mostra una crescita di tre punti nel decennio. In quanto alla variabile età, nel decennio sono cresciuti i tassi di occupazione delle fasce centrali (dal 72,7% al 78,2%) e di quelle più mature (dal 36,1% al 43,9%), un andamento che è il risultato della performance positiva registrata tra gli uomini di età superiore ai 55 anni (+5 punti verso il 1994 e +2,5 punti verso il 2001), come pure e principalmente tra le donne 25-54enni (dal 60,3% del 1994 al 69,8% del 2005) e over 55 (dal 24,9% al 35,0%); tra i più giovani non si segnalano, invece, mutamenti di rilievo. Nei singoli Paesi oggetto di studio i livelli occupazionali aumentano ovunque, tanto tra gli uomini – seppure in misura più ridotta – che tra le donne. In particolare, occorre segnalare il notevole incremento verificatosi in Italia nei tassi di occupa- zione femminile, passati dal 35,4% nel 1994 al 41,1% nel 2001 e al 45,3% nel 2005. Come si evince dai dati riportati nella Tabella 2, lo scenario che prende forma dall’accostamento delle variabili età e genere sembra confermare l’esistenza di una reale distinzione tra Francia e Italia, da un lato, e Danimarca e Regno Unito, dal- l’altro. È vero, infatti, che i due Paesi dell’Europa mediterranea presentano tassi di occupazione molto più contenuti tanto tra le fasce più giovani quanto tra quelle più 30 mature della popolazione; in aggiunta, per ciascuna classe di età considerata, le donne italiane e francesi presentano livelli inferiori di occupazione. Per di più, oltre a presentare i tassi di occupazione più modesti, Francia e Italia fanno registrare, nel confronto interno, il divario di genere più accentuato tra le fasce centrali e più gio- vani della forza lavoro. TABELLA 2: Tassi di occupazione per Paese, classe di età, genere, 2005 Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Employment Outlook, 2006. L’andamento positivo di medio-breve periodo messo in luce dallo studio dei tassi di attività e di occupazione viene confermato anche dalla tendenza registrata nel tasso di disoccupazione. A livello aggregato, la quota di soggetti (15-64 anni) in cerca di occupazione è l’8,2%, che si declina in un tasso pari al 7,6% tra gli uomini e al 9,0% tra le donne. Soltanto la Francia registra un tasso di disoccupazione supe- riore alla media dell’Europa comunitaria a 15 Paesi (9,9%); Italia (7,8%), ma so- prattutto Danimarca (4,9%) e Regno Unito (4,6%), presentano invece valori netta- mente inferiori. In quanto alla variabile genere, in Danimarca, Francia e Regno Unito le donne presentano volumi di disoccupazione più elevati degli uomini, anche se il gap è inferiore al punto percentuale; in Italia, per contro, dove la disoc- cupazione femminile è superiore al 10,0% così come avviene solo in Francia, il di- vario di genere è più consistente ed è pari a 1,5 punti. Dall’analisi longitudinale si deduce che, sebbene le difficoltà occupazionali si siano ridotte nel corso del decennio, tanto nella media dei Paesi comunitari quanto nei contesti nazionali in questione, è comunque vero che a partire dal 2001 la dis- occupazione è tornata a crescere, seppure di poco. Solo l’Italia si discosta da questo modello, in quanto nel nostro Paese la quota di disoccupati, pari all’11,1% nel 1994, si è attestata al 9,6% all’inizio del nuovo secolo, per poi calare ulteriormente fino al 7,8% del 2005; nel Regno Unito negli ultimi cinque anni la quota di disoc- cupati è rimasta di fatto inalterata. Un ulteriore approfondimento sulle dinamiche di disoccupazione si ricava dallo studio delle classi di età, da cui si evince che, in termini generali, i tassi di disoccupazione registrano un andamento decrescente al crescere della classe di età di appartenenza. Come mostrato nella Tabella 3, infatti, nella media dei Paesi del- l’Europa a 15, così come negli Stati in analisi, le difficoltà occupazionali sono deci- 31 samente maggiori per i giovani che non per le altre fasce della forza lavoro: nel dettaglio, i volumi di disoccupazione tra i 15-24enni sono pari al 16,5%, più del doppio di quanto registrato tra le classi centrali della popolazione in età lavorativa (7,3%) e quasi il triplo dei valori che caratterizzano le fasce più mature (6,1%). Dall’incrocio dei dati per Paese e per classe di età si nota che Francia e Italia presentano volumi di disoccupazione più elevati per ciascuna fascia di età, con dif- ferenziali particolarmente accentuati tra i giovani e le classi centrali. Invero, nella classe di età 15-24 anni la disoccupazione registrata in Danimarca (7,9% comples- sivo; 6,1% tra gli uomini e 9,8% tra le donne) e Regno Unito (11,8%) è pari, in media, alla metà di quella che si osserva in Francia (22,8%) e Italia (24,0%); ugual- mente nella classe successiva (25-54 anni), i livelli di disoccupazione sono minimi nel Regno Unito (3,5%) e in Danimarca (4,2%) e massimi, su livelli doppi, in Italia (6,7%) e ancor più in Francia (8,7%). Circa le specificità dei singoli Stati, l’Italia è il contesto in cui è più elevato il differenziale di genere nei livelli di disoccupazione giovanile e adulta: le giovani donne in cerca di impiego sono infatti il 27,4% rispetto al 21,5% degli uomini, mentre tra le 25-54enni i volumi di disoccupazione sono pari al 9,0% contro il 5,1% del corrispettivo maschile. Il Regno Unito, per contro, è l’unico ambito dove la disoccupazione femminile è sempre inferiore a quella maschile, tanto tra i gio- vani (10,0% verso 13,4%), quanto nelle fasce adulte (3,3% verso 3,6%) e anziane (1,8% verso 3,4%). TABELLA 3: Tassi di disoccupazione per Paese, classe di età, genere, 2005 Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Employment Outlook, 2006. In questo scenario l’incidenza della disoccupazione di lunga durata (Tabella 4) è pari al 44,3%, un valore che ha registrato un discreto incremento nel breve pe- riodo; al contrario, rispetto al 1994, la quota di persone alla ricerca di un impiego da un periodo superiore ai 12 mesi si è ridotta di circa 4 punti. Non si osservano consi- stenti differenze di genere, dato che la quota di disoccupazione di lunga durata è pari al 43,9% tra gli uomini e al 44,8% tra le donne; si nota, invece, a partire dal 1994, una contrazione nel divario che è il prodotto di una diminuzione più marcata tra le donne nel periodo 1994-2002 a cui è seguita, più di recente, una crescita della disoc- cupazione di lunga durata tra gli uomini e una sostanziale stabilità tra le donne. 32 Rispetto al valore medio, nei Paesi in cui le difficoltà occupazionali sono più contenute risulta essere minore anche l’incidenza della disoccupazione di lungo pe- riodo: in specie, in Danimarca la quota di persone alla ricerca prolungata di un im- piego è pari al 25,9% (29,7% tra gli uomini e 22,7% tra le donne) e nel Regno Unito al 22,4% (26,2% tra gli uomini e 16,9% tra le donne) mentre è su valori de- cisamente più robusti in Francia (42,5%) e Italia (52,2%). L’analisi longitudinale rivela, ad ogni modo, che a partire dal 1994 vi è stato un ridimensionamento del dato in Italia e Regno Unito mentre in Francia e Danimarca, dopo una fase positiva tra il 1994 e il 2002, la quota di disoccupazione di lunga durata ha cominciato a crescere a ritmi sostenuti, a motivo soprattutto del peggioramento della situazione occupazionale degli uomini. Per completare lo spaccato offerto sul mercato del lavoro è utile svolgere un’ultima disamina in merito ad alcune tipologie contrattuali atipiche, così da va- lutarne il grado di diffusione in rapporto al totale occupazionale e i relativi trend di evoluzione. Il focus verterà sul lavoro a tempo parziale e sul lavoro a tempo determinato, per i quali sono disponibili una base dati aggiornata e serie storiche comparabili. Il lavoro a tempo parziale – inteso, secondo la definizione OCSE (2006b), come un rapporto di lavoro con durata inferiore alle 30 ore settimanali – costituisce un quinto (18,1%) del totale occupazionale nella media dei Paesi dell’Europa a 15 e la sua consistenza è in crescita di quasi quattro punti percentuali rispetto a quanto rilevato nel 1994 (14,6%); limitando, invece, il periodo di analisi all’ultimo quin- quennio si coglie un incremento inferiore ai due punti (Tabella 5). TABELLA 4: Incidenza della disoccupazione di lunga durata sul totale della disoccupazione, per anno, genere, Paese, 1994-2005, valori percentuali Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Employment Outlook, 2006. 33 Si tratta, in linea di massima, di una tipologia di impiego altamente caratteriz- zata per genere: l’incidenza della componente femminile è infatti pari al 78,3% del totale e anche lo sviluppo più recente conferma questo carattere gendered in quanto non vi sono segnali concreti che indichino interesse e coinvolgimento crescente da parte maschile, se non forse nella realtà danese, dove, peraltro, il tasso di fem- minilizzazione del lavoro part-time è più misurato. Per di più, secondo una diversa prospettiva, il lavoro a tempo parziale costituisce il 7,0% del totale occupazionale maschile ma interessa circa un terzo (32,3%) dell’intera forza lavoro femminile (Tabella 6). Il Paese che presenta la quota più consistente di lavoro part-time è il Regno Unito, dove un rapporto di impiego su quattro (23,6%) si svolge secondo tali mo- dalità contrattuali; questo soprattutto in ragione della forte diffusione della tipo- logia tra le donne (39,3% del totale occupazionale femminile), le quali occupano nell’insieme i due terzi del totale dei posti di lavoro a tempo parziale (77,3%). In quanto a incidenza del part-time sul totale occupazionale, al Regno Unito seguono Danimarca (18,0%), Italia (14,7%) e Francia (13,6%). Diversa è invece la gradua- toria dei Paesi con riguardo alla crescita del part-time su base longitudinale: è vero, infatti, che il Paese in cui la quota di part-time ha subito la variazione più marcata Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Employment Outlook, 2006. Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Employment Outlook, 2006. TABELLA 5: Incidenza e composizione del lavoro a tempo parziale, per anno e per Paese, 1994-2005, valori percentuali TABELLA 6: Incidenza e composizione del lavoro a tempo parziale, per genere, per anno e per Paese, 1994-2005, valori percentuali 34 (dal 10,0% del 1994 al 14,7% del 2005) è l’Italia, mentre negli altri contesti i vo- lumi di occupazione a tempo parziale si sono mantenuti pressoché immutati nel- l’ultimo decennio. Per quanto attiene al lavoro a tempo determinato – che secondo la definizione Eurostat include il lavoro stagionale, il lavoro interinale, ora somministrato, come pure i contratti a causa mista –, nella media dei 15 Paesi di prima adesione comuni- taria esso rappresenta il 14,3% sul totale occupazionale e negli ultimi cinque anni ha di fatto consolidato la propria consistenza; con riferimento, invece, al medio pe- riodo, la sua incidenza è cresciuta di circa tre punti percentuali, poiché nel 1994 era pari all’11,5%. Risulta leggermente più diffuso tra le donne (15,0%) che non tra gli uomini (13,6%), anche se l’analisi longitudinale mostra una crescita di pari inten- sità in entrambe le categorie (Tabella 7). I Paesi che più si discostano dal valore registrato a livello aggregato sono Regno Unito (5,6%) e Danimarca (9,8%), dove peraltro nel periodo in analisi si è verificata una riduzione nei volumi del lavoro a tempo determinato; al contrario in Italia (12,3%) e Francia (13,3%), i contesti in cui questa modalità di impiego risulta essere maggiormente diffusa, si è verificata nell’ultimo decennio una cre- scita consistente, seppure i volumi raggiunti siano ancora inferiori rispetto alla media europea. TABELLA 7: Percentuale di lavoratori con contratto a tempo determinato sul totale occupazionale, per anno, Paese e genere, 1994-2005 Fonte: Elaborazione su dati Eurostat - LFS. Analizzando i dati per genere emerge in ciascuna realtà territoriale, in linea con quanto discusso in precedenza, una maggiore incidenza del contratto a tempo determinato tra le donne. L’entità del differenziale varia, a ogni modo, in misura discreta tra i Paesi: vale, infatti, oltre quattro punti percentuali in Italia – dove la 35 quota del lavoro a tempo determinato è pari al 14,7% tra le donne e al 10,5% tra gli uomini – e circa tre punti in Danimarca (11,3% tra le donne e 8,5% tra gli uomini), ma solamente 1,4 punti in Francia (14,0% verso 12,6%) e un punto in Gran Bre- tagna (6,2% verso 5,2%). Su base longitudinale, sempre con riguardo alla variabile genere, si notano, in- fine, ulteriori specificità, soprattutto per quanto concerne il tasso di crescita (o il decremento) dell’impiego a tempo determinato. Il raffronto con il dato del 1994 consente di individuare due aggregati distinti. Da un lato vi sono Italia e Dani- marca, in cui si rafforza il grado di femminilizzazione di questa tipologia di im- piego, seppure in ragione di andamenti di senso inverso: in Italia la quota di lavoro a tempo determinato aumenta in modo più accentuato tra la forza lavoro femminile (+6 punti) che non tra quella maschile (+4,8 punti), mentre in Danimarca la sua incidenza si riduce maggiormente tra gli uomini (– 2,3 punti) che non tra le donne (– 1,1 punti). Dall’altro lato, invece, troviamo Francia, con una crescita nel lavoro a tempo determinato maggiore tra gli uomini (+2,2 punti rispetto al punto aggiuntivo annotato tra le donne), e Regno Unito, dove il peso relativo della componente ma- schile cresce, anche a fronte di una riduzione di quasi un punto percentuale, a mo- tivo del decremento più consistente registrato tra le donne (– 1,7 punti). 2. Il rapporto tra titolo di studio conseguito e condizione occupazionale I primi dati che vengono fatti oggetto di considerazione nello studio dei per- corsi di scolarizzazione sono il tempo speso nei sistemi di istruzione formale e i livelli di qualificazione conseguiti; si tratta di indicatori in grado di fornire valu- tazioni significative, per ciascuna realtà studiata, sul livello di capitale umano a disposizione dell’intero sistema socio-economico. Stando alle statistiche relative al 2004, nella media dei Paesi OCSE la popola- zione adulta (25-64 anni) ha trascorso circa 12 anni nell’istruzione formale, senza rilevanti differenze di genere. Significative variazioni occorrono, invece, a livello dei singoli stati. In particolare, mentre in Italia (10,1) e, seppure di poco, anche in Francia (11,6) si registrano valori inferiori alla media OCSE, Regno Unito (12,6) e ancor più Danimarca (13,4) si caratterizzano per livelli di permanenza nel circuito scolastico istituzionale tra i più elevati nelle economie avanzate. La disaggregazione del dato per classe di età mostra che, nel tempo, sono an- dati aumentando tanto la permanenza nell’istruzione formale – con un differenziale positivo più marcato tra la componente femminile – quanto i livelli di istruzione conseguiti; questo in pressoché tutti i Paesi OCSE. Il ruolo trainante delle giovani generazioni emerge con forza dai dati riportati nella Tabella 8, dalla quale si è evince che, se negli anni passati poco più della metà degli studenti riusciva a conseguire almeno un diploma di scuola secondaria supe- riore (53% tra i 55-64enni e 64% tra i 45-54enni), oggi i tassi di successo scolastico nell’istruzione secondaria sono molto maggiori: la quota di conseguimento scola- 36 stico secondario tra i giovani adulti (25-34 anni) è infatti pari al 77% del totale. Il dato medio maschera, tuttavia, forti disparità territoriali. In specie, si nota con una certa chiarezza che le differenze tra le coorti sono più evidenti – a vantaggio delle fasce più giovani della popolazione – nei Paesi in cui i livelli medi di istruzione se- condaria e terziaria sono più contenuti, mentre sono meno pronunciate laddove i tassi di conseguimento dell’istruzione superiore sono più elevati. Nel dettaglio, in contesti quali Italia e Francia – in cui la quota di adulti che ha concluso almeno un percorso di istruzione secondaria è rispettivamente pari al 48%, livello tra i più bassi, e al 65% – i tassi di istruzione superiore dei 25-34enni sono più che doppi ri- spetto a quelli dei 55-64enni; in Danimarca, dove il tasso medio di scolarizzazione secondaria è pari all’81%, il differenziale è di soli nove punti percentuali (77% verso 86%). In posizione intermedia si trova, infine, il Regno Unito in quanto, a fronte di una media di due soggetti adulti su tre (65%) che hanno conseguito al- meno il diploma di scuola superiore secondaria, le differenze nei livelli di scolarità tra le coorti più giovani e quelle di età più mature sono valutabili nell’ordine di dieci punti percentuali (70% verso 59%). Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Education at a Glance, 2006. TABELLA 8: Quota di popolazione che ha conseguito almeno un diploma di istruzione secondaria, per classe di età e per Paese, 2004 Per quanto concerne la sola istruzione terziaria (Tabella 9), nella media dei Paesi OCSE il 25% della popolazione adulta giunge al conseguimento del titolo. Netto è, anche in questo caso, lo scarto tra le generazioni: se meno di un quinto (18%) dei 55-64enni ha portato a termine un percorso di studio terziario, tale quota sale invece al 31% tra i giovani adulti (25-34 anni). In merito ai Paesi oggetto di analisi, la percentuale di soggetti che ha conseguito un livello di istruzione terziaria tra la popolazione adulta è più consistente in Danimarca (32%); seguono il Regno Unito (26%) e la Francia, che segna un dato leggermente inferiore alla media (24%). L’Italia, con un valore pari all’11% tra la popolazione adulta chiude la graduatoria dei Paesi OCSE, seguita solamente dalla Turchia. Il differenziale tra le coorti nei tassi di successo scolastico è più consistente in Francia dove, nel giro di qualche decennio, la quota dei soggetti in possesso di un titolo di livello terziario è aumentata considerevolmente, passando dal 14% tra i 55-64enni al 38% tra i 25-34enni; in Italia, Danimarca e Regno Unito si sono, invece, registrati incrementi di valore compreso tra gli otto e i dieci punti percentuali, che rapportati ai livelli di partenza assumono comunque una diversa valenza. 37 TABELLA 9: Tassi di conseguimento dell’istruzione ter- ziaria per classe di età e per Paese, 2004 Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Education at a Glance, 2006. Fonte: Eurostat, Europe in Figures, Eurostat Yearbook 2006-07. TABELLA 10: Percentuale di abbandoni scolastici prima del conseguimento dell’istruzione secondaria tra i giovani di 18-24 anni, per anno, Paese e per genere, 2000-2005 Nel complesso, dunque, compaiono profonde diversità nei tassi di scolarità, nonché nella loro variazione longitudinale, tra i quattro Paesi in analisi; in questo scenario, l’Italia occupa sicuramente una posizione marginale in quanto, oltre alla percentuale più modesta di soggetti in possesso dell’istruzione terziaria, come ap- pena visto, presenta inoltre una consistente quota di adulti che non è giunta a con- seguire neppure un diploma di scuola superiore secondaria (51%); per contro, la parte di popolazione adulta (25-64 anni) ferma ai livelli di scolarizzazione primaria è molto più contenuta tanto in Francia (35%) quanto in Danimarca (17%) e nel Regno Unito (15%). I dati di fonte Eurostat (Tabella 10) consentono di valutare anche il fenomeno dell’uscita dal sistema formativo, prima del conseguimento di un titolo di istru- zione secondaria, da parte della fascia più giovane della popolazione (18-24 anni). Secondo la rilevazione più recente, nell’Europa a 15 Paesi un giovane ogni sei (17,2%) non arriva al conseguimento del diploma; il confronto con il dato prece- dente mostra, comunque, un miglioramento del quadro generale, dato che nel 2000 il tasso di insuccesso era pari al 19,5%. Dalla disaggregazione per genere si nota, inoltre, che gli abbandoni sono più frequenti tra i ragazzi (19,5%) che non tra le ra- gazze (14,9%). Riguardo la situazione dei singoli Paesi, i tassi più elevati di uscita anticipata dall’istruzione secondaria si registrano in Italia, dove circa uno studente su cinque (21,9%) non giunge al conseguimento del diploma; seguono, a distanza, il Regno Unito con un tasso di abbandono del 14,0%, la Francia (12,6%) e la Da- nimarca (8,5%). 38 Un elemento ricorrente in ciascuna di queste realtà è la quota di insuccesso maschile, che è sempre superiore a quella femminile. I differenziali di genere più elevati si registrano in Italia, ambito in cui i tassi di abbandono dell’istruzione se- condaria tra i ragazzi sono pari al 25,9% e superiori di otto punti percentuali a quelli registrati tra le ragazze (17,8%); quelli più contenuti si ritrovano invece in Danimarca, a motivo della marcata riduzione del tasso di abbandono maschile rile- vata nell’ultimo quinquennio (dal 13,4% al 9,4%). Una volta ricostruito lo scenario di fondo dei livelli di partecipazione al si- stema dell’istruzione e del grado di successo scolastico, è interessante andare a verificare se e quanto i percorsi formativi e l’investimento in capitale umano con- tinuino a configurarsi quali importanti elementi predittivi del destino lavorativo e professionale. Per il commento verranno impiegati dati di fonte OCSE riferiti al 2004, che consentiranno di integrare il quadro complessivo già formulato nelle pagine precedenti circa la caratterizzazione dei diversi mercati del lavoro (OCSE, 2006a). Nel contesto delle economie europee più sviluppate i tassi di attività della po- polazione adulta (25-64 anni) crescono ovunque proporzionalmente all’aumento del grado di scolarizzazione, tanto per gli uomini quanto per le donne. Più nello specifico, se tra i soggetti che hanno conseguito un titolo di studio di istruzione pri- maria il tasso di partecipazione al mercato del lavoro è pari al 63,1% (76,0% tra gli uomini e 51,2% tra le donne), la quota della popolazione attiva sale al 79,8% tra i diplomati nella scuola secondaria superiore (87,2% tra gli uomini e 72,3% tra le donne) e all’88,1% tra quanti hanno completato l’istruzione terziaria (91,3% tra gli uomini e 84,6% tra le donne). Non si registrano differenze di rilievo tra i Paesi og- getto di studio, se non per quanto concerne i tassi di attività dei soggetti meno qua- lificati – che sono su livelli più elevati in Francia (67,8%) e Danimarca (67,2%) che non nel Regno Unito (56,8%) e Italia (56,0%) – e delle donne, che in Italia sono tradizionalmente meno coinvolte nel lavoro retribuito di quanto non avvenga nel contesto europeo e internazionale. Per quanto attiene al tasso di occupazione, mette conto rilevare che è quasi esclusivamente la condotta femminile a spiegare le variazioni tra i Paesi, qualunque sia il grado di scolarità conseguito. In aggiunta, si evidenzia chiaramente che tanto più elevati sono i livelli di occupazione complessivi, tanto maggiori sono le proba- bilità che le donne svolgano un lavoro retribuito. Tra i Paesi OCSE i tassi di occupazione, come i tassi di attività, aumentano considerevolmente al variare del titolo di studio conseguito, secondo un modello di crescita che è più marcato tra le donne; questo significa che la forbice nei tassi di attività per genere si riduce al crescere del tasso di scolarità della popolazione. In particolare, se i differenziali nel tasso di occupazione a livello aggregato sono pari a quasi venti punti percentuali (82% per gli uomini e 63% per le donne) e toccano il valore massimo tra i soggetti meno qualificati (72% tra gli uomini e 49% tra le donne), essi diminuiscono progressivamente fino a raggiungere il livello più conte- nuto tra i soggetti con titoli più elevati (89% tra gli uomini e 79% tra le donne). Da- 39 nimarca, Francia, Regno Unito e Italia sostanzialmente non si discostano dal mo- dello appena tratteggiato. In merito alla situazione italiana spicca la problematica condizione femminile sul mercato, testimoniata da modesti – e decisamente infe- riori rispetto al dato medio – livelli occupazionali delle donne ferme al consegui- mento scolastico primario (32,6%), come pure delle diplomate in percorsi di scuola secondaria superiore (68,3%). Anche il dato relativo ai tassi di disoccupazione (Tabella 11; Tabella 12) con- ferma la valenza del grado di scolarità raggiunto in quanto, come mostrano con una certa evidenza le informazioni statistiche a nostra disposizione, bassi livelli di istru- zione sono generalmente congiunti a situazioni di precarietà e incertezza lavorativa. Tra i Paesi OCSE, il tasso di disoccupazione dei soggetti che hanno conseguito la sola istruzione primaria è pari al 10,4%; scende al 6,2% tra i diplomati e si at- testa su livelli frizionali (3,9%) tra quanti hanno concluso un percorso di forma- zione terziaria. Sono ancora una volta le donne a mostrare le maggiori criticità; in- vero, il differenziale di genere è sempre a svantaggio della componente femminile della forza lavoro ed è massimo tra i soggetti in possesso di un diploma di scuola secondaria (1,5 punti percentuali, 5,7% tra gli uomini e 7,2% tra le donne), mentre si riduce su livelli più contenuti tra i soggetti con qualifiche formali più elevate (0,8 punti percentuali). Nei contesti territoriali studiati, il conseguimento dell’istruzione terziaria sembra garantire un ritorno più consistente nel Regno Unito, dove minimi sono i li- velli di disoccupazione tra gli adulti più qualificati (2,2%), e meno soddisfacente in Francia (6,1%); al contrario le maggiori difficoltà lavorative tra quanti dispongono di bassi livelli di scolarità si ritrovano in Francia (12,1%), mentre nel Regno Unito l’aver concluso il solo percorso di istruzione primaria non sembra comportare seri Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Education at a Glance, 2006. TABELLA 11: Tassi di disoccupazione per livello di istruzione conseguito, per Paese e per anno, 1991-2004 40 rischi di marginalità lavorativa (6,6%). Italia e Danimarca si trovano in una posi- zione intermedia, con differenze più contenute tra i tassi di disoccupazione degli adulti meno qualificati (7,8% in entrambi i Paesi) e quelli di chi ha conseguito una qualifica elevata (rispettivamente 4,8% e 3,9%). Per quanto concerne, infine, la disaggregazione per genere, in Francia e Italia la probabilità di essere disoccupato è di norma maggiore tra le donne; in Dani- marca, invece, la situazione occupazionale delle donne è lievemente migliore di quella degli uomini solo tra quanti dispongono di un titolo di istruzione terziaria (3,7% verso 4,0%). Di tenore diverso è, invece, il quadro che prende forma dallo studio del Regno Unito; in questo contesto, infatti, a parità di titolo di studio conse- guito, i tassi di disoccupazione femminile sono sempre inferiori a quelli maschili. TABELLA 12: Tassi di disoccupazione per livello di istruzione conseguito, per genere, Paese e per anno, 1991-2004 Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Education at a Glance, 2006. 41 L’analisi longitudinale mostra, nel medio periodo, una generale contrazione nei tassi di disoccupazione – e nella media dei Paesi OCSE e nell’Europa comuni- taria – che trova diversa declinazione a livello locale. In modo particolare, se in Danimarca e Regno Unito, come visto in precedenza, si sono ridotte le difficoltà occupazionali dell’intera forza lavoro, a prescindere dal livello di scolarizzazione raggiunto, in Francia e Italia lo scenario di fondo è più articolato e complesso. In Italia sono aumentati i livelli di disoccupazione degli adulti in possesso di basse qualifiche formali (dal 5,7% del 1991 al 9,1% del 1995, al 7,8% del 2005), ma è migliorata la condizione dei diplomati nell’istruzione secondaria superiore e di quanti hanno concluso un percorso di istruzione terziaria. In Francia, invece, tra il 1991 e il 2005 è netto il peggioramento della situazione occupazionale comples- siva, anche se l’analisi dell’ultimo decennio indica invece una variazione positiva. Il ritorno dell’investimento nell’istruzione formale sui percorsi lavorativi e professionali può essere misurato, in ultima analisi, anche in termini strettamente economici. L’indicatore impiegato è il livello della retribuzione annua, al lordo delle imposizioni fiscali, dalla cui disamina si evince, in primo luogo, come i sog- getti in possesso dell’istruzione terziaria percepiscano, in tutti i Paesi considerati, uno stipendio su base annua mediamente superiore a quello corrisposto a chi è in possesso di un titolo di istruzione secondaria o primaria. In secondo luogo, utiliz- zando come indice di comparazione il valore medio della retribuzione dei diplo- mati nell’istruzione secondaria si mette in luce, inoltre, che il conseguimento di qualifiche più elevate risulta particolarmente premiante: il differenziale tra le retri- buzioni annue dei soggetti che hanno conseguito un titolo di istruzione terziaria e dei diplomati è infatti molto più consistente – e si attesta su livelli costanti nel breve periodo – di quello registrato tra i salari di diplomati e soggetti con qualifiche formali inferiori (OCSE, 2006a). Poiché non si dispone, per questo approfondimento, dei dati inerenti alla media OCSE, il fuoco di indagine è costituito esclusivamente dai quattro Paesi oggetto di approfondimento specifico. Il contesto in cui si registrano i differenziali più evidenti nei livelli di retribu- zione per titolo di studio conseguito è il Regno Unito, dove chi ha compiuto un per- corso di istruzione terziaria percepisce il 58% in più dei diplomati nell’istruzione secondaria superiore e i soggetti meno qualificati arrivano a guadagnare una quota pari ai due terzi (67%) della retribuzione media dei diplomati. Il vantaggio relativo garantito dall’istruzione terziaria è su livelli significativi, ma più moderati, anche in Italia e Francia; in Danimarca, invece, le retribuzioni medie variano meno signifi- cativamente al variare del titolo di studio conseguito, tanto che i più qualificati per- cepiscono il 27% in più dei diplomati e questi ultimi guadagnano, in media, il 21,9% in più di quanti sono in possesso di un titolo di istruzione primaria. Sempre in relazione ai livelli di scolarità, di interesse è anche lo studio delle disparità retributive di genere e della loro evoluzione nel tempo. Prima di proce- dere nell’analisi, è bene comunque ricordare che i differenziali possono essere spie- gati, almeno in parte, dalla diversa distribuzione per settore e posizione nella pro- 42 fessione, nonché dal diverso grado di impegno orario nel lavoro retribuito: in questo senso anche il lavoro a tempo parziale, a connotazione prevalentemente femminile, e la sua diversa consistenza nei Paesi presi in considerazione rappre- senta sicuramente un fattore in grado di determinare variazioni consistenti, a livello aggregato, nelle retribuzioni. Misurata come quota del salario annuo lordo percepito dagli uomini (Tabella 13), la retribuzione delle donne varia significativamente a seconda del Paese preso in esame; ulteriore elemento esplicativo è poi la variabile età, visto che le donne 30-44enni presentano minori disparità reddituali rispetto agli uomini della mede- sima classe che non le 55-64enni. Il differenziale di genere è minore in Francia e Danimarca, dove le retribuzioni delle donne valgono, rispettivamente, il 74% e 71% dei salari maschili nella fascia 30-44 anni e il 64% e 68% nella classe di età successiva; all’estremo opposto troviamo il Regno Unito, in cui il gap è più accen- tuato, tanto che i salari femminili sono il 57% nella classe 30-44 anni e il 54% nella fascia successiva dei corrispettivi maschili. In Italia le donne adulte (30-44 anni) guadagnano in media il 73% del compenso degli uomini della stessa classe di età, percentuale che si riduce al 58% nella fascia 55-64 anni. TABELLA 13: Salari annui femminili, misurati come quota di quelli maschili, per livello di istru- zione conseguito, classe di età e per Paese, 2004; valori percentuali Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Education at a Glance, 2006. Gli effetti sul differenziale retributivo di genere prodotti dal conseguimento di un titolo di istruzione terziaria non sono univoci. Piuttosto, in Francia e Danimarca – e diversamente da quanto accade in altri Paesi OCSE – lo stipendio percepito dalle donne, misurato appunto come quota di quello corrisposto agli uomini, è di fatto in relazione inversa con il grado di scolarità, a testimonianza della presenza di molteplici ostacoli lungo i percorsi femminili di carriera. Solamente nel Regno Unito e, seppure in misura meno evidente, in Italia il divario tra uomini e donne si riduce al crescere del titolo di studio, tanto da attestarsi su livelli più contenuti tra i soggetti che hanno raggiunto i livelli formativi più elevati. Il confronto su base lon- gitudinale e relativo al medio periodo rivela, infine, che in un quadro di sostanziale staticità, la funzionalità economica dei titoli di studio secondari e terziari per l’uni- verso femminile è migliorata solo in Italia. 43 3. Uno sguardo sul lifelong learning A completamento dello scenario descritto riguardo al conseguimento scola- stico, è opportuno approfondire le dinamiche di partecipazione alle diverse tipo- logie di lifelong learning 5. Questo in ragione dell’importanza assegnata dalle istitu- zioni europee alla formazione e all’aggiornamento professionale quali basi per la costituzione della c.d. società della conoscenza (Eurostat, 2007). Secondo i dati di fonte Eurostat (Eurostat, 2005) e riferiti al 2003, nell’Europa a 25 Paesi il 42,5% della popolazione di età compresa tra i 25-64 anni è stato inte- ressato, nell’anno precedente la rilevazione, da esperienze formative di vario tipo, di cui il 4,4% nell’educazione formale, il 16,5% nell’educazione non formale; in aggiunta, circa un terzo dei soggetti intervistati (32,5%) dichiara di aver fruito di esperienze di informal learning. 5 Si distingue, in proposito, tra educazione formale (formal learning), non formale (non-formal learning) e informale (informal learning). L’educazione o apprendimento formale corrisponde all’in- sieme della formazione che viene impartita nel sistema istituzionale scolastico, universitario e della formazione professionale, anche di livello accademico. L’educazione non formale include le diverse modalità formative, comunque strutturate e organizzate, che non sono tuttavia classificate entro pro- grammi di educazione formale. L’educazione informale corrisponde al self-learning, una modalità di apprendimento autodiretto che si fonda sull’utilizzo di materiale didattico di diverso genere (pro- grammi di formazione mediante computer, impiego del patrimonio librario, formazione on-line,..) e che non viene considerato parte né dell’educazione formale, né di quella non formale. Fonte: Eurostat, LFS, ad hoc module on Lifelong Learning, 2003. TABELLA 14: Lifelong learning, tassi di partecipazione della popolazione di età 25-64 anni, per tipologia di apprendimento, Paese, genere, 2003 I tassi di partecipazione più elevati si registrano in Danimarca, dove quasi otto adulti su dieci (79,7%) sono stati coinvolti in iniziative di formazione e aggiorna- mento di qualsiasi genere. Su livelli più contenuti, ma comunque superiori alla 44 media europea si attestano Francia (51,0%) e Italia (48,6%); chiude la graduatoria il Regno Unito, in cui poco più di un terzo della popolazione adulta di età compresa tra 25 e 64 anni (37,6%) ha preso parte ad almeno una delle diverse tipologie for- mative. Circa la diffusione delle modalità di apprendimento nei Paesi in esame, è sempre la Danimarca a fare registrare i valori più elevati; in Italia, al contrario, si osservano i livelli più contenuti di partecipazione ad iniziative di formazione for- male (4,5%) e non formale (5,1%). Ulteriori considerazioni possono essere sviluppate a partire dallo studio della variabile di genere. Da questa si evince che di norma le donne presentano valori di partecipazione più elevati all’educazione formale e un grado di coinvolgimento più basso nella modalità informale, mentre nell’educazione non formale non si osser- vano disparità tra i generi. All’interno di questa cornice, prende forma una sostan- ziale distinzione tra Regno Unito e Danimarca, da una parte, dove si registra, tra- sversalmente alle tipologie di apprendimento in discussione, un maggiore coinvol- gimento femminile e Francia e Italia, dall’altra; questi ultimi Paesi sono i contesti in cui le donne partecipano in misura minore degli uomini tanto all’apprendimento formale che a quello informale. Oltre al genere, è importante introdurre nella disamina anche la variabile età (Tabella 15). Invero, il saggio di partecipazione ad iniziative di formazione e ag- giornamento si riduce al crescere dell’età della popolazione: è massimo (50,2%) tra TABELLA 15: Tasso di partecipazione della popolazione adulta (25-64 anni) alle diverse tipologie di formazione (formale, non formale, informale), per Paese, classe di età, genere, 2003 Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, LFS, ad hoc module on Lifelong Learning, 2003. 45 i giovani adulti (25-34 anni) e cala progressivamente nelle fasce di età successive, tanto da attestarsi al 29,5% tra i 55-64enni (31,3% tra gli uomini e 27,7% tra le donne). Anche in questo caso si mette in luce una eterogeneità di fondo tra i Paesi oggetto di approfondimento. In specie, in Danimarca la partecipazione decresce con un ritmo meno sostenuto, e anzi è massima nella fascia di età centrale (35-44 anni); nei contesti rimanenti, per contro, i tassi di partecipazione ad iniziative di formazione rilevati tra i 55-64enni sono pari alla metà di quelli dei 25-34enni sia in Francia (32,2% verso 61,1%) che nel Regno Unito (22,5% verso 44,1%) e di poco più consistenti in Italia (35,4% verso 57,4%). La contrazione, al crescere dell’età, della quota di soggetti che ricevono un qualsiasi tipo di formazione è ovunque più consistente tra le donne; il risultato è che, anche in contesti virtuosi quali Regno Unito e Danimarca, tra le fasce più mature della popolazione si rilevano importanti differenziali di genere. Dopo aver descritto, quantomeno in termini generali, gli schemi di partecipa- zione al lifelong learning, è forse più interessante focalizzare l’analisi sull’appren- dimento formale, su quello non formale e informale introducendo, e incrociando tra di loro, le informazioni relative al titolo di studio e alla condizione occupazionale; esse rivelano, infatti, un forte potere esplicativo in merito al grado di coinvolgi- mento nei differenti momenti formativi. Per quanto riguarda, innanzitutto, l’apprendimento formale, come era logico attendersi, nella media dei Paesi europei esso risulta maggiormente diffuso tra i gli inattivi (6,0%) e tra i disoccupati (5,9%), che non tra gli occupati (4,0%). Intrec- ciando questi dati con quelli relativi al titolo di studio conseguito, si rileva inoltre che il tasso di partecipazione all’apprendimento formale cresce al crescere del ti- tolo di studio: in particolare è pari all’1,4% tra i soggetti in possesso di istruzione primaria, al 5,2% tra quanti hanno conseguito un diploma di istruzione secondaria a all’8,5% tra chi è in possesso di qualifiche formali più elevate. Disaggregando ulte- riormente le informazioni a nostra disposizione si ricava che i tassi più consistenti si registrano tra i soggetti disoccupati e inattivi che hanno conseguito l’istruzione terziaria (15,1% e 14,3% rispettivamente) e tra gli inattivi in possesso di un titolo di istruzione secondaria (10,2%), mentre i volumi di partecipazione più bassi si os- servano tra gli occupati che hanno conseguito soltanto l’istruzione primaria (1,3%). Anche il coinvolgimento in momenti non formali di apprendimento (Tabella 16) aumenta proporzionalmente al crescere del titolo di studio conseguito. Esso re- gistra, in media, valori decisamente più consistenti tra chi ha conseguito un titolo di istruzione terziaria (30,9%) rispetto a quanti hanno completato un percorso di grado secondario (16,4%) o primario (6,5%). Con riguardo, poi, alla condizione occupazionale, si coglie la maggiore ade- sione alle iniziative di formazione non formali tra gli occupati (20,6%), riferibili in buona parte alla formazione continua, cui seguono i disoccupati (13,5%) e gli inat- tivi (5,6%). Incrociando, infine, la condizione occupazionale con il titolo di studio conseguito si evince una più robusta partecipazione ad iniziative non formali tra i più qualificati in condizione di occupazione (33,7%) e disoccupazione (22,7%); per 46 contro, i meno coinvolti in tali modalità di apprendimento risultano essere gli inat- tivi in possesso di basse qualifiche formali (2,8%) o di titoli di istruzione secon- daria (6,7%). Quanto sinora commentato in merito allo scenario europeo mostra una certa validità di fondo anche in ciascuno dei contesti in analisi; invero, al di là dei diffe- renti valori che si registrano in Danimarca, Francia, Italia e Regno Unito – e che sono il frutto delle specificità locali in precedenza analizzate – i tassi di partecipa- zione al formal learning seguono ovunque, e con poche eccezioni, le stesse dina- miche evidenziate a livello aggregato. In ultima battuta, indicazioni di rilievo giungono dall’approfondimento sui percorsi di apprendimento informale. La loro diffusione è massima tra gli occupati, in primo luogo, (36,9%) come pure tra i disoccupati (31,8%) e su livelli più conte- nuti tra gli inattivi (22,2%); in aggiunta, risulta anch’essa correlata positivamente con il titolo di studio conseguito, tanto che la metà (55,2%) di quanti sono in pos- sesso di un titolo di istruzione terziaria risulta impegnato in percorsi di self-lear- ning, rispetto al 34,1% dei diplomati nell’istruzione secondaria e al 18,4% dei sog- getti che dispongono di qualifiche inferiori. Più nello specifico, l’interesse in atti- vità di apprendimento informale è massimo tra gli occupati (57,3%) e disoccupati (54,9%) che hanno conseguito l’istruzione terziaria e su livelli più modesti tra gli inattivi (14,8%), i disoccupati (19,9%) e gli occupati (21,0%) in possesso di basse qualifiche formali. TABELLA 16: Tassi di partecipazione della popolazione adulta (25-64 anni) all’apprendimento non formale, per Paese, condizione occupazio- nale e titolo di studio, 2003 Fonte: Elaborazione su dati Eurostat, LFS, ad hoc module on Lifelong Learning, 2003. 47 4. Il ruolo assegnato alle politiche formative Dopo avere analizzato il grado di partecipazione della popolazione adulta alle diverse modalità formative, è ora opportuno andare a definire quale sia la valenza riconosciuta dai governi nazionali alla formazione. Ci serviremo, per questo scopo, dei dati forniti dall’OCSE sull’investimento nelle istituzioni educative (OCSE, 2006a) e di quelli elaborati dall’Eurostat sulle politiche per il mercato del lavoro e sui beneficiari di tali interventi (Eurostat, 2006). Nell’ambito di una generale azione politica di contenimento delle spese, volta principalmente a controllare e ridurre il deficit di bilancio dei diversi apparati sta- tali, gli investimenti destinati ai programmi e alle strutture educative rivelano quali siano l’importanza e la considerazione assegnate dai governi nazionali all’istru- zione e alla formazione come leva dello sviluppo socio-economico. Tra gli indici che consentono di valutare il ruolo e la valenza riconosciuti al sistema educativo vi è innanzitutto la spesa in istruzione, calcolata come quota del prodotto interno lordo 6 (Tabella 17). Secondo i dati più recenti, e riferiti al 2003, il complesso dei Paesi OCSE de- stina in media il 6,3% del prodotto interno lordo per tale finalità. Di questo am- montare, la maggior parte proviene dal finanziamento pubblico (4,9%). Il coinvol- gimento di attori privati – imprese, sicuramente, ma anche singoli soggetti e nuclei familiari – genera apprezzabili investimenti, anche se indubbiamente meno rile- vanti (1,3%). 6 L’indicatore copre il complesso delle spese sostenute in scuole, università e altre istituzioni pubbliche e private coinvolte a vario titolo nel sistema educativo, come pure l’insieme dei costi per servizi sussidiari. TABELLA 17: Spesa in istituzioni educative come quota del prodotto interno lordo, per tipologia di finanziamento, Paese e per anno, 1995, 2000, 2003; valori percentuali Fonte: Elaborazione su dati OCSE, Education at a Glance, 2006. In relazione ai singoli Stati, volumi di spesa superiori alla media OCSE si os- servano in Danimarca (7,0%); Francia (6,3%) e Regno Unito (6,1%) si posizionano a livello intermedio, mentre l’Italia figura agli ultimi posti della graduatoria, in quanto spende soltanto il 5,1% delle proprie risorse finanziarie complessive nel si- stema educativo. La quota relativa della spesa finanziata dall’attore pubblico segna livelli più elevati in Danimarca (95,7%) e Francia (92,1%); seguono poi Italia 48 (90,2%) e, a distanza, il Regno Unito (83,6%). Con riguardo alla sola istruzione terziaria, il protagonismo del pubblico è pressoché assoluto in Danimarca (96,7%), mentre in Francia (85,6%), Italia (72,1%) e Regno Unito (70,2%) gli attori privati giocano un ruolo sicuramente più rilevante, sebbene minoritario. La comparazione su base longitudinale rivela che nel periodo 1995-2003 i li- velli di spesa nell’educazione si sono mantenuti pressoché stabili a livello aggre- gato: invero, considerando la media dei 24 Paesi OCSE per i quali sono disponibili i dati, la quota di prodotto interno lordo destinata alle istituzioni educative è stata pari al 5,4% nel 1995 e al 5,3% nel 2000, per poi crescere di qualche decimale di punto fino al 5,7% registrato nel 2003. Nel dettaglio dei singoli Stati emergono, in- vece, strategie di intervento altamente diversificate: accanto a dinamiche di stabi- lità – Regno Unito (5,5% nel 1995 e 5,2% nel 2000) e Italia, seppure per il nostro Paese il dato del 1995 non sia completo e manchi della quota finanziata dai privati (4,8% nel 1995 e 4,9% nel 2000) – si segnalano, infatti, importanti incrementi nel caso della Danimarca, dove gli investimenti sono cresciuti costantemente dal 6,2% del 1995 al 6,6% del 2000 fino ai livelli discussi in precedenza; non sono invece disponibili informazioni pregresse sull’esperienza francese. Indicizzando, poi, i li- velli di spesa in educazione al valore del 1995, se nella media dei Paesi OCSE si osserva un incremento del +36%, tra gli Stati oggetto di approfondimento il Regno Unito è l’unico a presentare tassi di crescita più consistenti (+39%); valori pres- soché in linea con il dato aggregato si annotano, poi, in Danimarca (+32%), mentre Italia (+16%) e Francia (+12%) mostrano un aumento più ridotto. Le risorse destinate alle istituzioni educative e il loro utilizzo possono essere studiati ancor più nel dettaglio mediante una disaggregazione del dato per livello di istruzione. In termini generali si rileva, in primo luogo, che i due terzi della voce di spesa vengono ripartiti tra istruzione primaria e secondaria; questo anche in ragione del- l’obbligo scolastico. Nel merito dei Paesi in esame, tale percentuale è più consi- stente nel Regno Unito (80,7%) e in Italia (80%) e più contenuta, invece, in Francia e Danimarca, contesti dove è prossima al valore registrato nella media Paesi OCSE. In seconda battuta, appare in modo piuttosto chiaro che, nell’ultimo decennio, i Paesi oggetto di indagine hanno incrementato e distribuito i propri investimenti in modo molto differente tra i diversi gradi scolastici. Più precisamente, se da un lato nel Regno Unito gli sforzi si sono concentrati in misura maggiore a sostegno dell’i- struzione primaria e secondaria, in Italia si è prestata maggiore attenzione all’edu- cazione terziaria; in Francia e Danimarca, invece, le spese nelle istituzioni educa- tive sono state ugualmente incrementate e suddivise tra i diversi livelli del sistema dell’istruzione (OCSE, 2006a). Una seconda via da seguire per chiarire il significato attribuito dai diversi go- verni nazionali al tema dell’investimento in capitale umano quale misura di inte- grazione lavorativa è quella di prendere in considerazione l’insieme degli interventi formativi, rapportando questa modalità di spesa al totale dei fondi impiegati nelle politiche del lavoro e quindi nelle politiche attive. 49 In tema di politiche del lavoro è ormai noto come nel corso degli anni si sia cercato di spostare il focus di intervento da quelle passive, di protezione, a quelle attive, di promozione. Questo ha significato una crescente enfasi sulle misure di at- tivazione al lavoro e sulla loro graduale sostituzione agli strumenti di sostegno alla disoccupazione, ma soprattutto un’attenzione maggiore, almeno da parte del- l’OCSE, non tanto sui livelli di spesa in misure di politiche attive quanto piuttosto sulla garanzia della loro efficacia. Intesi come quota del prodotto interno lordo, gli investimenti in politiche del lavoro si sono ridotti negli anni, anche quelli in politiche attive; questi ultimi, tut- tavia, hanno fatto segnare variazioni negative meno pronunciate, aumentando di conseguenza la propria quota relativa sul totale delle spese in programmi di inter- vento sul mercato del lavoro. Dall’analisi della Figura 1, oltre a visualizzare la riduzione della quota di pro- dotto interno lordo destinata alle politiche del lavoro già discussa in precedenza, è possibile cogliere come si sia evoluta la ripartizione della spesa tra servizi per il mercato del lavoro, misure di attivazione e sussidi. Si coglie, in primo luogo, un calo consistente della percentuale di risorse desti- nate alla formazione: più precisamente si è passati dal 31% del 1989 al 26% del 2002, con una sostanziale stabilità nei volumi di investimento a partire dai primi anni novanta; sono diminuite, inoltre, anche le spese per i sussidi, il cui peso, dopo FIGURA 1: Composizione delle spese in politiche del lavoro nella media dei Paesi OCSE, 1985- 2002; valori percentuali e quota sul prodotto interno lordo Fonte: OCSE, Employment Outlook, 2006. 50 aver toccato il valore più elevato (27%) nel 1993, ha raggiunto il 24% nel 2002. A crescere è stata, invece, la quota relativa di risorse destinate all’integrazione dei disabili (16% nel 1993 e 19,0% nel 2002), come pure l’insieme dei servizi per il mercato del lavoro (dal 17% del 1989 al 20% del 2002), mentre le spese per i gio- vani sono rimaste di fatto invariate (12% nel 1989 e 11% nel 2002). Stando ai dati relativi al 2004 nell’Europa a 15 Paesi si sono spesi oltre 230 milioni di euro in politiche del lavoro, ovvero una cifra pari al 2,3% del prodotto interno lordo; di questi 21,8 (9,5%) in servizi per il mercato del lavoro e 63,6 (27,7%) in politiche attive, per una cifra complessiva pari allo 0,9% delle risorse finanziarie complessive. Il Paese che destina la quota più consistente del proprio prodotto interno in po- litiche del lavoro è la Danimarca (4,4%, pari a 8,6 milioni di euro), seguita da Francia (2,7%, 44,4 milioni di euro), Italia (1,4%, 18,3 milioni di euro) e Regno Unito (0,8%, 13,7 milioni di euro); per quanto concerne, invece, il peso delle poli- tiche attive, è l’Italia a riservarvi la quota maggiore di risorse sul totale di spesa (40,5%), mentre valori più contenuti si osservano in Danimarca (34,9%), Francia (27,0%) e Regno Unito (20,0%). L’analisi appena proposta può essere completata con una disamina specifica sulle risorse stanziate per la formazione che, nel complesso dell’Europa a 15 Paesi, sono pari allo 0,26% del prodotto interno lordo. Danimarca (0,54%) e Francia (0,31%) presentano valori superiori alla media mentre, al contrario, in Italia (0,23%) e Regno Unito (0,13%) si registrano volumi di investimento più ridotti e inferiori al valore rilevato a livello comunitario. Misurato, invece, come quota del totale di spesa nelle politiche del lavoro nel complesso, l’investimento in forma- zione è più consistente in Italia, dove rappresenta il 16,7% delle risorse stanziate, e nel Regno Unito (16,5%), mentre assume valori più contenuti tanto in Danimarca (12,4%) che in Francia (11,5%); si tratta, in ogni caso, di valori di spesa superiori a quelli della media comunitaria (11,2%). Prendendo, infine, a riferimento il valore di spesa destinato alle sole politiche attive 7 (Tabella 18), la formazione ne costituisce una quota maggioritaria nel Regno Unito (82,5%); negli altri contesti rappresenta, invece, una percentuale prossima al 40%. Nell’ultimo quinquennio la consistenza relativa dell’investimento in forma- zione, in lieve aumento nella media europea, è cresciuto in Francia (+5,9 punti) e nel Regno Unito (+5,2 punti), mentre ha mostrato un andamento contrastato in Italia, dove nel complesso si è registrato un calo di quasi un punto percentuale, e una forte contrazione in Danimarca (-6,6 punti). Ultimo elemento utilizzato per formulare un primo quadro descrittivo sulle po- litiche di formazione è la modalità di svolgimento; in proposito, la classificazione 7 Secondo la definizione Eurostat, l’insieme della spesa in politiche attive comprende gli inter- venti destinati a disoccupati, occupati a rischio e persone inattive che vorrebbero inserirsi nel mercato del lavoro. Più in particolare il riferimento è a sei diverse tipologie di misure: formazione per i disoc- cupati e per i soggetti a rischio; job rotation e job sharing; incentivi all’impiego; integrazione dei disabili; sostegno alla creazione di posti di lavoro; sostegno alla nuova imprenditorialità. 51 fornita dall’Eurostat distingue tra formazione istituzionale, formazione sul lavoro, formazione integrata – ovvero un mix delle forme precedenti – e misure di sup- porto all’apprendistato rivolte a disoccupati o ad altre fasce svantaggiate. A livello aggregato emerge il ruolo svolto dalla formazione istituzionale e dal supporto all’apprendistato. Per quanto attiene poi ai singoli Paesi si nota una situa- zione alquanto eterogenea. Più in particolare, stando ai dati relativi al 2003: – in Danimarca la tipologia prevalente, e pressoché esclusiva (95,9%), è la for- mazione istituzionale; – in Francia, accanto alla formazione impartita in aula (30,4%) assume una certa importanza il supporto all’apprendistato (26,4%); – in Italia la quota più consistente di spesa è destinata all’apprendistato (62,0%) e alla formazione sul luogo di lavoro (17,4%); – nel Regno Unito, infine, gran parte delle risorse vengono impiegate a supporto dell’apprendistato (75,5%). Fonte: Eurostat, Labour Market Policy database, 2005. TABELLA 18: Quota dell’investimento in formazione sul totale di spesa in politiche attive del lavoro, per anno e per Paese, 2000-2004; valori percentuali Nel complesso mette conto evidenziare che il 62,9% della spesa comunitaria in formazione sul lavoro è garantita dall’Italia, mentre la medesima percentuale di formazione integrata viene dispensata in Francia; in aggiunta, le spese sostenute in Francia, Italia e Regno Unito per il supporto all’apprendistato ammontano al 68,6% del totale investito a livello europeo in tale modalità formativa. Merita, infine, aggiungere ulteriori informazioni sulle modalità di elargizione delle somme stanziate. In merito a ciò, gli archivi dell’Eurostat sulle politiche per il mercato del lavoro consentono di individuare, innanzitutto, quali siano i diretti be- neficiari dei fondi tra i singoli partecipanti, i datori di lavoro, oppure specifici enti o agenzie formative. I dati relativi al 2003 mostrano che nell’Europa a 15 Paesi la quota più consi- stente di trasferimenti viene destinata direttamente a enti o agenzie formative (43%), mentre il 33% viene elargita a singoli individui, quale indennità o rimborso per i costi sostenuti, e solamente il 7% ai datori di lavoro, a copertura dei costi so- stenuti. L’analisi dei singoli Paesi rivela modalità di assegnazione degli investi- menti pubblici altamente diversificate. Ad un estremo troviamo la Danimarca, in 52 cui una quota superiore al 70% dei trasferimenti viene assegnata ai singoli indi- vidui, il 25% a enti o agenzie di formazione e una parte residuale ai datori di la- voro. All’estremo opposto vi sono, invece, Italia e Regno Unito, in cui non vi sono trasferimenti su base individuale: tuttavia, mentre in Italia – in ragione di quanto commentato in precedenza riguardo al prevalere della formazione sul lavoro – l’80% dei fondi viene assegnato ai datori di lavoro e il rimanente 20% a enti e agenzie, nel Regno Unito i primi destinatari degli investimenti sono enti e agenzie, a cui vengono assegnati i due terzi dei fondi impiegati per l’implementazione di in- terventi formativi. La Francia, infine, presenta una ripartizione più equilibrata delle risorse economiche stanziate tra singoli individui (40% circa), enti e agenzie (35%) e datori di lavoro (25%). La valenza delle politiche formative può essere colta non solo in rapporto al volume di spesa pubblica ad esse destinato ma anche, in ultima battuta, mediante la valutazione di quanti e quali siano i beneficiari degli interventi. A questo scopo ver- ranno presi in esame gli stock di persone interessate nel corso dell’anno da mo- menti di formazione; più nel dettaglio, si andrà a valutare, sempre in chiave com- parativa, la quota di soggetti coinvolti in progetti formativi sul totale della forza lavoro e sul totale dei beneficiari di interventi di politiche attive. Ricordato che l’insieme di quanti ricevono sussidi monetari costituisce, ovunque, la parte più consistente della forza lavoro cui vengono destinate risorse economiche sotto forma di interventi in politiche del lavoro, la quota relativa di soggetti interessati da progetti di formazione segna variazioni considerevoli nei di- versi Paesi: nel 2004 è più alta in Italia (2,6%, seppure si tratti di un dato incom- pleto) mentre in Francia (1,95%), Danimarca (1,24%) e Regno Unito (1,21%) fa re- gistrare valori significativamente inferiori. Le informazioni disponibili mostrano, in aggiunta, che sul totale dei soggetti cui vengono destinate misure di politica attiva, quelli interessati da interventi di formazione sono il 34,4% in Danimarca e ben il 69,5% nel Regno Unito; per Francia e Italia non può essere formulato un quadro completo in merito, vista l’incompletezza delle informazioni statistiche. Venendo poi alla tipologia dei beneficiari, le statistiche riportate nella Tabella 19 consentono una prima seppur parziale valutazione, dalla quale si deduce la ri- partizione delle misure formative tra i vari gruppi occupazionali e le categorie della forza lavoro. Per chiarezza espositiva è bene ricordare che le misure formative in analisi possono essere rivolte a più di un target, per cui il totale dei beneficiari potrebbe risultare superiore al 100%. Nella media dell’Europa a 15, la quota più importante delle misure formative è rivolta a persone che si trovano in condizione di disoccupazione (85,9%), in molti casi di lunga durata (23,5%); un quarto del totale degli interventi è poi rivolto a persone già occupate (27,5%) e un quinto a soggetti inattivi (18,8%). In termini ge- nerali il panorama complessivo non muta con riferimento ai diversi Paesi; invero, in ciascun contesto, tra i destinatari delle misure vi sono sempre i disoccupati, in- nanzitutto. Quello che cambia è invece la specifica attenzione prestata alla disoccu- pazione di lunga durata – che è massima nel Regno Unito (60%), su livelli più con- 53 tenuti in Danimarca (20%), residuale in Francia (5,9%) e pressoché assente in Italia – e al target degli occupati, nel Regno Unito non soggetti a nessun intervento for- mativo specifico. Con riguardo, infine, alle categorie dei beneficiari occorre rimarcare, in via preliminare, che molti sono i casi in cui non è stato possibile determinarle; questo perché non sono state specificate oppure perché il target indicato è semplicemente quello dei disoccupati, senza ulteriori precisazioni. Fatta questa premessa, nel com- plesso dei Paesi comunitari di prima adesione sono i giovani – identificati come gli under 25 – ad essere maggiormente interessati da interventi formativi: la quota delle iniziative di formazione loro destinate è, infatti, pari a circa un terzo del totale (29,5%) e presenta punte del 40% in Italia e Regno Unito; seguono, a lunga di- stanza, i programmi studiati per gli anziani (8,7%), i disabili (7,4%), gli immigrati (4,7%). 5. Alcune note di sintesi Vista la numerosità degli indicatori presi in esame, nonché la complessità di offrire uno studio comparativo tra quattro Paesi, è utile, in chiusura, riprendere e ri- condurre a sintesi gli elementi che contribuiscono a definire il quadro formulato nel presente capitolo, gettando ulteriore luce sulle peculiarità proprie di ciascuna delle realtà territoriali studiate. Tabella 19: Ripartizione delle misure di formazione per condizione occupazionale e categoria dei beneficiari, per Paese, 2003, valori percentuali ** Alcune misure possono essere multi-target, ovvero rivolte a più di un gruppo di soggetti. ** Le categorie di beneficiari sono indipendenti dallo status occupazionale. Alcune misure possono essere semplicemente rivolte a disoccupati, senza ulteriori specifiche. Fonte: Eurostat, Expenditure on training measures for the unemployed across the EU, Statistics in Focus, Population and Social Conditions, 5/2006, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg. 54 Dal punto di vista della situazione occupazionale, i dati empirici proposti e commentati consentono di costruire uno schema interpretativo che vede Italia e Francia differenziarsi in modo piuttosto netto da Danimarca e Regno Unito. Invero, nei due Paesi mediterranei emerge uno scenario simile per gli aspetti considerati e caratterizzato da tassi di attività e occupazione più contenuti, inferiori alla media dei Paesi europei e agli obiettivi di crescita; livelli di disoccupazione più elevati – specie tra i giovani e le donne – congiunti a una quota più consistente di disoccupa- zione di lunga durata; un minor grado di diffusione delle tipologie contrattuali a tempo parziale e un maggior coinvolgimento della forza lavoro in modalità di im- piego a tempo determinato. Emerge, infine, una forte disparità di genere per cia- scuna classe di età, molto meno pronunciata in Danimarca e Regno Unito. Lo stesso accade con riferimento alla partecipazione alle diverse modalità di apprendimento. In proposito, si è posto in evidenza come il coinvolgimento in ini- ziative di formal e non-formal learning sia nettamente maggiore nei contesti in cui il quadro occupazionale è migliore, a parità di status lavorativo e di titolo di studio. Va ricordato, comunque, che la condizione occupazionale e il livello di qualifiche formali a disposizione presentano, ovunque, risvolti positivi sui modelli di parteci- pazione alla formazione continua. In questo scenario, volendo passare all’approfondimento del ruolo assegnato dai governi locali alle politiche e agli interventi formativi, non è però possibile con- tinuare lungo il sentiero sinora tracciato, e dunque confrontare due raggruppamenti. Piuttosto, è importante riconoscere che, anche a fronte di situazioni occupazionali ed educative tendenzialmente confrontabili, ciascun Paese mette in atto diversi e specifici approcci in materia di investimento in formazione. In particolare: – la Danimarca è, tra i Paesi in questione, quello che destina la quota più elevata di prodotto interno lordo all’investimento in istituzioni educative e in politiche del lavoro, come pure in formazione. Le misure di politica del lavoro sono volte innanzitutto a proteggere le fasce deboli contro la disoccupazione e quindi a favorire l’occupabilità, mediante iniziative di formazione istituzio- nale, con gran parte dei fondi erogati direttamente ai soggetti interessati. – Nel Regno Unito, al contrario della Danimarca, l’investimento di risorse nelle istituzioni educative e nelle politiche del lavoro presenta i valori più contenuti, come pure la quota di spesa destinata alle misure di attivazione. Più nello spe- cifico delle misure adottate, una quota consistente dei fondi pubblici viene elargita sotto forma di sussidi economici ai disoccupati, in specie di lunga du- rata, mentre alla formazione vengono destinate gran parte delle risorse riser- vate alle politiche attive. – La Francia si caratterizza per livelli sostenuti di investimento nelle istituzioni educative e nelle politiche del lavoro. Nel quadro delle politiche attive la for- mazione, che ha accresciuto nel tempo il proprio peso relativo, viene impartita in prevalenza ai disoccupati, anche se vi è comunque una buona attenzione agli occupati e persino agli inattivi. 55 – L’Italia, infine, mostra volumi contenuti di spesa pubblica nelle istituzioni edu- cative come pure nelle politiche del lavoro. Tra i Paesi studiati, investe, ad ogni modo, la quota più consistente di politiche del lavoro in misure di attiva- zione, in particolare in formazione. Gli interventi di formazione, implementati mediante formazione sul luogo di lavoro o sostegno all’apprendistato, sono ri- volti primariamente ai giovani e ai soggetti disoccupati, ma interessano in buona parte anche gli occupati e gli inattivi. Bibliografia EUROSTAT (2005), Lifelong learning in Europe, Statistics in Focus, Population and Social Conditions, 8/2005, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg. EUROSTAT (2006), Expenditure on training measures for the unemployed across the EU, Statistics in Focus, Population and Social Conditions, 5/2006, Office for Official Publications of the Euro- pean Communities, Luxembourg. EUROSTAT (2007), Europe in Figures. Eurostat yearbook 2006-07, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg. OCSE (2006a), Education at a Glance, OCSE, Paris. OCSE (2006b), Employment Outlook. Boosting Jobs and Incomes, OCSE, Paris. 57 Capitolo 3 Il learnfare danese tra mito e realtà Rosangela LODIGIANI Non c’è quasi nessuno studio internazionale comparativo in materia di welfare che manchi di citare il caso della Danimarca tra i Paesi considerati esemplari per la capacità di combinare gli obiettivi di equità e giustizia sociale (nei confronti di tutta la popolazione, anche delle fasce più deboli e marginali), con quelli di effi- cienza economica. Si potrebbe dire quasi un mito. Sono innumerevoli i riferimenti al riguardo anche nei documenti dell’OECD, basti guardare i rapporti annuali sul- l’occupazione che, a partire in modo particolare dal 2004, si riferiscono ad esso come alla “terza via” percorribile per mediare tra la deregolazione degli approcci liberali e la regolazione troppo rigida degli approcci conservatori. Similmente l’U- nione Europea, a partire dal lancio della strategia per l’occupazione (SEO) nel già lontano 1997, ha fatto proprio l’obiettivo della flexicurity, ovvero della sintesi tra esigenze di flessibilità economica e di sicurezza sociale, promosso inizialmente, e con successo, proprio in Danimarca (Klammer 2006). Un mito al quale non è ri- masta estranea nemmeno l’Italia che ha cercato recentemente di “copiarne” alcuni aspetti (cfr. cap. 6). I fattori che lo caratterizzano sono quelli tipici del modello socialdemocratico scandinavo o nord-europeo, descritto in letteratura: universalismo, inclusività, mas- simizzazione dell’uguaglianza e minimizzazione della dipendenza dei soggetti dal mercato (“demercificazione”) e dalla famiglia (“non-familismo”), generosità nei sussidi e nei servizi offerti, ampia socializzazione dei rischi; lo stato sociale si qua- lifica come “stato dei servizi”, nella misura in cui è riuscito a costruire un’impo- nente infrastruttura di servizi rivolti in particolare ai bisogni della famiglia, i cui fiori all’occhiello sono l’assistenza ai bambini e agli anziani (Esping-Andersen 2000; Ferrera 1998). Tuttavia, il caso danese presenta anche alcune specificità (per esempio l’elevata flessibilità del mercato del lavoro e il ruolo centrale delle parti sociali) che lo rendono unico e non semplicemente assimilabile al modello scandi- navo (Amoroso 2006; Madsen 2006). Quest’ultimo del resto va considerato alla stregua di tipo ideale, e dunque sconta una certa distanza dalle realtà storico-sociali che vuole rappresentare. La classificazione tipologica, peraltro, finisce con l’essere un semplice esercizio teorico di fronte al processo di riforma radicale del welfare danese, lanciato nell’aprile del 2006 dal governo conservatore-liberale, processo di riforma sulla quale si è scatenato uno scontro molto acceso tra gli opposti schiera- menti. Sarà infranto il mito? 58 1. Il contesto socio-economico La Danimarca è certamente uno dei Paesi europei con il più alto tasso di be- nessere socio-economico in Europa. Lo attestano il suo elevato reddito pro capite (122% sulla media europea nel 2004), gli alti livelli di produttività (in linea con la media europea) e gli eccezionali risultati ottenuti sul piano dell’occupazione da ormai oltre quindici anni. A partire dal 1994 la crescita macro economica è stata pressoché costante, l’in- flazione è rimasta contenuta, l’incidenza della spesa pubblica sul prodotto interno lordo ha continuato a essere tra le più alte dell’Unione europea (attestandosi al 56%, superata solo dalla Svezia, 58%; OECD 2005). Parimenti è da oltre un de- cennio che il mercato del lavoro registra performance di segno positivo. A partire dal 1994 infatti i tassi di occupazione sono rimasti stabilmente e ampiamente al di sopra della media europea, la disoccupazione è progressivamente diminuita mentre è aumentata la mobilità nel mercato del lavoro. Secondo i dati OECD (2006), nel 2005 il tasso di occupazione (75,5%,) e atti- vità (79,4%) sono stati i più alti dell’Europa a 15 superando largamente gli obiettivi posti al vertice di Lisbona, e quello di disoccupazione ha registrato il valore più basso (4,9%, era al 12% nel 1994). La disoccupazione di lunga durata è altrettanto contenuta: meno dell’1,2% dei cittadini rimane senza lavoro per più di due anni; l’incidenza dei disoccupati da più di un anno sul totale delle persone in cerca di im- piego è dell’ordine del 26% (in Italia è al 52%). Tutti questi indicatori vedono gli uomini registrare performance migliori delle donne, ma il differenziale è relativa- mente basso se confrontato con la media europea (laddove solo la Gran Bretagna registra risultati eccellenti; cfr. cap. 5): circa dieci punti percentuali per il tasso di occupazione (80,1% per i maschi vs 70,8% per le femmine) e per il tasso di attività (83,6% M. vs 75,1% F.); meno di un punto e mezzo per quello di disoccupazione (4,2% M. vs 5,6% F.): il che rende le donne danesi tra le più attive sul mercato del lavoro in Europa. La disoccupazione giovanile si attesta al 6,6% tra i 25-29enni, al 5,2% tra i 30-34enni, con differenze di genere sostanzialmente irrilevanti e con ri- sultati ancora una volta migliori del resto dell’Europa a 15, in specie dell’Italia: nelle stesse fasce d’età, il Bel Paese registra valori rispettivamente pari a 13,1%; 8,1%; 6,2%. Il mercato del lavoro peraltro denota un elevato tasso di flessibilità (ma non di precarietà) e di mobilità. Un impiego dura in media quattro anni e ogni danese cambia almeno cinque volte datore di lavoro nel corso della sua vita (OECD 2005). Secondo i dati riportati da Per Kongshøj Madsen, uno dei più noti studiosi dell’e- sperienza danese, nel periodo tra il 1980 e il 1995 la media annua del job turnover, che tiene conto dei posti di lavoro creati e di quelli persi, è stato di circa il 30% e, dato più interessante, non ha riguardato solo una specifica fascia della forza lavoro, magari la meno qualificata e protetta come spesso accade altrove, ma trasversal- mente tutte le categorie; stime più recenti indicano inoltre che circa il 25% degli occupati ogni anno perde il lavoro entrando nella schiera dei disoccupati e il 10% 59 accede a programmi di attivazione (Madsen 2006). Tale flessibilità, come vedremo, si regge sulla peculiarità della regolazione del mercato del lavoro più che sull’uti- lizzo di contratti a tempo, a termine. I bassissimi tassi di disoccupazione registrati negli ultimi anni hanno spesso indotto a parlare di miracolo occupazionale. Come è stato notato, tuttavia, il dato non conteggia i “disoccupati registrati”, ovvero – secondo la definizione OECD – iscritti a programmi di attivazione e reinserimento lavorativo, ritirati anticipata- mente e volontariamente dal lavoro, in congedo, impegnati in attività formative o in lavori temporanei, ecc. Conteggiando questa parte di forza lavoro non occupata il tasso subirebbe un deciso rialzo, certo più ampio di quanto accadrebbe negli altri Paesi europei, nei quali l’efficacia e l’estensione delle politiche di attivazione è in- feriore (ibidem). Va notato infatti che la partecipazione a queste ultime non confe- risce lo status di disoccupato; il che, per inciso, implica non solo il mancato con- teggio nelle statistiche sulla disoccupazione, ma anche la mancata legittimazione a fruire dell’assicurazione contro la disoccupazione 8. Non è dunque solo sullo svi- luppo dell’occupazione che si incentra il “miracolo” danese, ma sull’efficienza delle politiche di lotta alla disoccupazione e all’inattività, nonché sulla specificità dell’assetto politico e istituzionale (Lang 2006), specificità che a questo punto me- rita di essere indagata (cfr. § 2, 3). Prima ancora non possiamo sottacere come i successi sin qui descritti sul piano economico e lavorativo sono sostenuti anche da alcuni fattori di ordine, potremmo dire, strutturale, i quali rendono il caso danese eccentrico rispetto alla media dei Paesi europei e di fatto evidenziano quanto il suo modello sia difficilmente esportabile. Anzitutto non possiamo dimenticare che la popolazione conta meno di 5,5 mi- lioni di abitanti (dati al 2006)9, con una forza lavoro di circa 2,9 milioni di unità, e che grazie a un prelievo fiscale tra i più alti del mondo i problemi di bilancio non sono i più urgenti al centro dell’agenda politica. Dal punto di vista amministrativo le quattordici contee in cui il Paese è attualmente suddiviso dovrebbero essere ri- comprese entro il 2007 in cinque Regioni, solo del tutto impropriamente paragona- bili a quelle italiane, al fine di consolidare i poteri pubblici decentrati a livello lo- cale, senza incorrere nell’eccessiva frammentazione delle contee, pur demandando direttamente ai Comuni 10 una serie di funzioni. L’obiettivo è di coniugare a una marcata decentralizzazione più ampie capacità di coordinamento degli interventi sul territorio. Nell’ambito di questo processo di riforma si è inscritta anche l’inno- vazione dei servizi pubblici per l’impiego, già accennata, su cui torneremo nel det- taglio più avanti. 8 Significativamente alcune indagini hanno evidenziato che, in concomitanza con l’obbligo di partecipare ai programmi di politica attiva del lavoro, una cospicua quota di disoccupati beneficiari di indennità riesce a trovare un’occupazione ordinaria prima di entrare nel programma di attivazione (Di Domenico 2005; OECD 2005; Ministry of Labour 2000). 9 www.denmark.dk. 10 Anch’essi peraltro cambiano volto: ridotti di numero da 271 a circa 100, rispondono a una cittadinanza più ampia. 60 La struttura economico-produttiva è fortemente sbilanciata verso il terziario (oltre il 64% degli occupati lavora nei servizi e ben il 30% nella pubblica ammini- strazione), ed è incentrata su un tessuto di medie e piccole imprese che per natura presentano mercati interni meno consolidati e sono più orientate a muoversi sul mercato esterno per rispondere ai propri fabbisogni occupazionali. Parallelamente la forte struttura corporativa garantisce un confronto continuo tra le Parti sociali e getta le basi per un compromesso sociale che riesce a contemperare gli opposti interessi tra capitale e lavoro. Emblematicamente quella danese è stata definita in letteratura una “economia negoziata” (Nielsen - Pedersen 1991; Pedersen 2006). L’immigrazione straniera (in prevalenza di origine turca e pakistana) non su- pera il 5% della popolazione. Popolazione che dal canto suo tende ad invecchiare secondo ritmi in linea con la media europea, ponendo qui come altrove le stesse sfide in materia di invecchiamento attivo, servizi di cura, sostenibilità del sistema previdenziale. Da ultimo, ma non meno importante, la popolazione danese è mediamente tra le più istruite dell’Unione, con i più bassi tassi di abbandono scolastico e i più ele- vati livelli di scolarizzazione. Oltre l’80% della forza lavoro ha almeno un titolo di studio secondario, il 32% raggiunge un titolo di studio di livello terziario. Solo il 8,5% dei giovani tra i 18 e i 24 non ha completato gli studi secondari (contro il 22% circa dei giovani italiani e il 17% della media europea; OECD 2006). I più elevati valori in Europa si registrano anche nel campo della partecipazione alla for- mazione continua e permanente, e ciò, come vedremo tra breve, costituisce uno dei punti di forza del modello di welfare attivo. 2. Il “triangolo d’oro” delle politiche del mercato del lavoro Grazie alla loro capacità di contemperare esigenze differenti, le politiche da- nesi del mercato del lavoro sono state descritte come un golden triangle, un “trian- golo d’oro” composto da tre elementi già in parte evocati e sintetizzabili nelle pa- role di Madsen (2001, 2002; 2006; cfr. Figura 1): 1) un mercato del lavoro flessibile, considerato parte integrante del sistema socio- economico e del welfare; un mercato che – comparativamente ad altri Paesi europei – presenta una debole protezione del lavoro dal punto di vista legisla- tivo (anche se supportato da accordi collettivi in alcuni settori). Lo caratteriz- zano due aspetti fondamentali: mobilità elevata e “flessibilità numerica” accet- tate e contrattate dalle parti sociali. Ne consegue che gli imprenditori hanno ampia libertà di licenziare con preavviso minimo, sino a soli cinque giorni, ma anche facilità nell’assumere nuova forza lavoro (hire & fire); 2) una elevata protezione del reddito in caso di disoccupazione (income security), con cash benefit, ovvero benefici monetari anche per i lavoratori non assicurati e implementazioni sempre monetarie per quelli assicurati (il sistema di assicu- razione contro la disoccupazione ha infatti base occupazionale ed è gestito 61 dalle associazioni di categoria). Come vedremo oltre più nel dettaglio, il lavo- ratore che ha perso il lavoro riceve secondo schemi automatici un’indennità fino al 90% del suo stipendio: il che significa che in luogo della sicurezza del “posto” può contare almeno sulla sicurezza del reddito; la generosità del si- stema di welfare e la flessibilità del mercato del lavoro rappresentato i cardini base del nesso tra flessibilità e sicurezza (the basic flexibility-security nexus); 3) un sistema di politiche attive ampio, includente programmi estensivi di forma- zione, orientato soprattutto a promuovere il ritorno al lavoro dei disoccupati. Due gli effetti che mira a ottenere: a) la (ri)motivazione al lavoro che può sfo- ciare nel ritorno all’occupazione o nell’ingresso in un programma di attiva- zione (motivation effect of ALMP); b) l’innalzamento della qualificazione del lavoratore e conseguentemente un miglioramento della sua occupabilità (quali- fication effect of ALMP). Il cuore dei programmi di attivazione, infatti, è rap- presentato dalle politiche educative e formative (Ministry of Labour, 2000); anche su questo torneremo. In altri termini, non potendo garantire la sicurezza dell’impiego (job security), si punta a garantire la sicurezza di poter accedere a un’occupazione (employment security). In sintesi: è relativamente semplice per le imprese licenziare un lavoratore, così come per il lavoratore decidere di lasciare l’impresa, ma al tempo stesso quanti si trovano senza impiego possono contare su un adeguato sostegno economico e dispositivi efficienti di occupabilità, a partire dalla formazione. Non solo. Va ricor- dato che la grande flessibilità del mercato del lavoro – la quale invero non è solo numerica, ma anche organizzativa, funzionale e temporale – non si situa in un con- testo di mera deregolazione neo-liberale come quella predicata da più parti, e in buona misura anche dall’OECD dalla metà degli anni Novanta in poi, ma attra- verso una gestione politica e un controllo dettagliato e concertato da parte delle organizzazioni sindacali e padronali (Amoroso 2006). FIGURA 1: The golden triangle of “flexicurity” Fonte: nostra rielaborazione da Madsen (2001; 2006). 62 Dunque, l’interazione tra il mercato del lavoro privato e pubblico nonché le istituzioni che lo regolano, nel dare forma al golden triangle, rendono unico il mo- dello di funzionamento del mercato del lavoro stesso e spiegano sia l’elevata mobi- lità e occupabilità sia l’elevata sicurezza della forza lavoro (Ilo 2003). Il mix pecu- liare di politiche sociali, formative e del lavoro che puntano a innalzare il livello di attivazione dei cittadini, da un lato passa attraverso l’investimento nel loro capitale umano, dall’altro fa leva su una legislazione del lavoro poco restrittiva, tra le più li- berali in Europa; su politiche del lavoro particolarmente articolate e ricche; su una presenza dei sindacati forte e collaborativa. Torneremo ancora su questi aspetti. Ri- leviamo intanto che, spesso presentati come “pilastri tradizionali” dell’assetto poli- tico-istituzionale danese, tali aspetti sono in parte frutto di scelte politiche piuttosto recenti: letti in una prospettiva di breve periodo, le più importanti sono “vecchie” di poco più di dieci anni; in parte invece sono frutto di una evoluzione storica di lungo periodo che ha prodotto, come spesso accade, risultati imprevisti. Indubbiamente il 1994 può a pieno titolo essere considerato come un anno svolta per questo Paese. Di fronte a inediti problemi sul fronte occupazionale, che hanno raggiunto nel 1993 il loro apice, la Danimarca ha infatti in quel frangente avviato un processo di modernizzazione del suo mercato del lavoro e del welfare e una riforma politico-amministrativa che hanno prodotto conseguenze rilevanti. Una delle principali novità è rappresentata dal decentramento della politica esecutiva in materia di lavoro a cinque “Consigli regionali tripartiti per il mercato del lavoro”, chiamati ad adattare la struttura delle politiche alle condizioni dei beneficiari e alle esigenze delle realtà locali. La composizione tripartita consente di assumere come metodo una costante negoziazione tra rappresentanti dei lavoratori, dei datori di la- voro e autorità pubbliche locali; metodo considerato determinante per mantenere efficienza e flessibilità del mercato del lavoro. Contestualmente a questa riforma è stata varata una gamma diversificata di misure di politica attiva e avviata l’innova- zione dei Servizi pubblici per l’impiego. Ma l’intero ultimo decennio è stato carat- terizzato da un intenso programma di cambiamenti normativi che hanno agito sul welfare istituendo, oltre al decentramento appena descritto, un sistema di benefici complesso e differenziato (cfr. § 2). Al di là di queste recenti e importanti novità, la dimensione liberale della rego- lazione del lavoro ha radici ben più antiche, e precisamente nell’accordo siglato tra le parti sociali nel lontano 1899: il cosiddetto “Compromesso di Settembre”. Simil- mente, la prima importante riforma del sistema di benefici e protezione contro la disoccupazione risale al 1969 e il primo programma di politica attiva del lavoro è datato 1979; una indicazione chiara di come non esistano ricette semplici e facil- mente trasferibili da un contesto a un altro (Lang 2006; Madsen 2006). 3. I pilastri del modello di welfare attivo Il modello danese è dunque tra i più universalistici d’Europa, al pari di tutti i Paesi scandinavi nei quali la protezione sociale è considerata un diritto di cittadi- 63 nanza, la copertura è universale, le prestazioni vengono erogate automaticamente all’occorrenza dei rischi considerati sociali, assunti cioè in un’ottica di solidarietà collettiva, senza la cosiddetta “prova dei mezzi”, ossia la verifica dello stato di bisogno (Ferrera 1998). Il rapporto tra responsabilità individuale e responsabilità collettiva è, tuttavia, di stretta interdipendenza, secondo il motto “da ciascuno se- condo le sue possibilità a ciascuno secondo i suoi bisogni” che ha a lungo rappre- sentato lo slogan di tale modello (Amoroso 2006). Ciò significa a ben vedere che il regime di welfare non è meramente assistenziale, ma – come nei Paesi di stampo li- berale – si incentra su un approccio “produttivista”, la cui aspirazione è comunque massimizzare la capacità produttiva degli individui. Non stupisce dunque che l’ap- proccio del welfare to work abbia preso piede da anni in questo contesto, e anzi al- cuni studiosi ritengono che sia proprio la Danimarca ad avergli dato i natali. In realtà, se è vero che il primato per la sua adozione in termini cronologici spetta agli Stati Uniti, mentre alla Gran Bretagna va la medaglia d’oro europea per la svolta in senso attivo dato al welfare, è certamente in questo Paese del nord Europa che tale svolta si è coniugata a una visione inclusiva della cittadinanza. Secondo una pro- spettiva che attribuisce allo stato sociale un ruolo centrale nel costruire le condi- zioni affinché i cittadini possano essere produttivi (attivi); un ruolo che si esplica anzitutto nell’impegnarsi a sostenere la creazione di posti di lavoro occupabili e la promozione di opportunità formative adeguate. In altri termini, diversamente da quanto accade negli approcci liberali, spetta allo Stato garantire le condizioni per lo sviluppo e il dispiegamento della capacità produttiva di ciascuno. Se in termini generali gli obiettivi del welfare sono dunque quelli tipici del welfare to work, addentrandosi nelle politiche danesi appare subito evidente che il modo di intenderli e declinarli è peculiare dell’orientamento socialdemocratico. Anche se il punto di partenza è il medesimo – un mercato del lavoro ampiamente flessibile e mobile – si punta molto più apertamente sull’obiettivo di sviluppare le capabilities dei lavoratori e sulla necessità di promuovere il loro empowerment at- traverso un pacchetto integrato ed efficace di politiche attive del lavoro (in specie la formazione), orientate alla mobilità, alla ricollocazione e all’attivazione dei lavo- ratori stessi. Un pacchetto che, come si diceva, si è sviluppato a partire dal pro- cesso di riforma varato nel 1994, in un contesto istituzionale che garantisce tutti in ordine al diritto di accesso sia ai programmi di attivazione sia a sussidi generosi, al fine di fornire una “protezione attivante” a sostegno della mobilità. È a partire da questi presupposti che la flexicurity viene intesa come matrice di un sistema che punta a prendere sul serio le esigenze di flessibilità del mondo del lavoro assieme a quelle di sicurezza dei lavoratori, assieme a quelle di efficienza economica dello Stato (Madsen 2006). Il pilastro attorno a cui ruota l’intero impianto di flexicurity, rendendolo soste- nibile per le imprese in termini di regolazione del lavoro, per i lavoratori in termini di occupabilità e di protezione nella mobilità, infine per lo Stato in termini econo- mici, è dunque quello delle politiche attive del lavoro. Non va dimenticato però che la loro efficacia dipende dalla presenza di due altri pilastri fondamentali: quello 64 assistenziale, che con riferimento al lavoro rimanda alle varie forme di indennità, e quello dei servizi che invece richiama l’importanza di forme cruciali di sostegno al- l’attivazione quali: da un lato i servizi all’impiego e la formazione, dall’altro i ser- vizi di cura che consentono alle famiglie, e alle donne in particolare, di alleggerire il proprio carico di lavoro tra le mura domestiche liberando forza lavoro in grado di attivarsi. Proviamo ad addentrarci in ciascuno di questi tre pilastri. Relativamente al pilastro assistenziale merita qui di essere approfondito il si- stema di protezione contro la disoccupazione, che delineeremo nelle sue linee es- senziali rifacendoci a una ricerca recentemente realizzata in chiave comparativa da Di Domenico (2005), che evidenzia chiaramente come tale sistema sia il più gene- roso in Europa sia per livello che per durata della prestazione. Come in quasi tutti i Paesi scandinavi, la protezione contro la disoccupazione si regge su tre pilastri: a) assicurativo, finanziato tramite contributi integrati da sus- sidi statali e gestito dai sindacati 11; b) assistenziale dedicato; c) assistenziale gene- rale; questi ultimi due, finanziati entrambi tramite la fiscalità generale, sono gestiti il primo dallo Stato centrale e il secondo prevalentemente a livello locale, attra- verso i Comuni. L’accesso al pilastro assicurativo è volontario e le formule di pre- stazione prevedono tassi di rimpiazzo fino al 90% (per i salari più bassi) per periodi che vanno fino a 5 anni. Per poter accedere a tali prestazioni è richiesto un periodo contributivo di almeno 52 settimane di lavoro a tempo pieno negli ultimi tre anni. Il pilastro assistenziale dedicato versa prestazioni a somma fissa ed è concesso esclu- sivamente alle famiglie (non ai singoli individui) come sostegno per le spese di abi- tazione. Il pilastro assistenziale generale (reddito minimo) riguarda le persone in stato di necessità che non risultano incluse negli schemi relativi all’assicurazione della malattia, della disoccupazione e di altri rischi sociali e che non possiedono ri- sorse sufficienti al loro sostentamento (ibidem 23, 24). L’erogazione di questa forma di indennità è attualmente in discussione, as- sieme all’impianto complessivo del welfare, e negli ultimi anni è stata sottoposta ad alcune norme restrittive. La più importante riguarda l’introduzione dell’obbligo, dopo un anno di disoccupazione, di accettare una proposta di lavoro pena la perdita del sussidio. I centri per l’impiego sono tenuti a garantire proposte di lavoro che prevedano un impiego di almeno 7 mesi, anche sussidiato, in lavori di pubblica uti- lità (pool jobs). Il vincolo condizionale, introdotto per motivare al reingresso nel mercato e sfuggire alla trappola della disoccupazione, si rivela secondo alcune ri- cerche penalizzante per i lavoratori più qualificati i quali vengono spinti ad accet- tare un lavoro “purché sia” al fine di non restare senza reddito e senza sussidio, nonostante ciò possa implicare, evidentemente, lo sperpero del loro capitale umano (Ministry of Labour 2000). 11 I fondi di assicurazione – circa una cinquantina quelli riconosciuti – sono privati, indipendenti, e hanno la libertà di seguire strategie autonome in base alla politica dei sindacati cui fanno riferi- mento. Ciononostante, oltre il 90% delle loro entrate è finanziato dallo Stato, sotto la supervisione di un’agenzia del Ministero del Lavoro e dell’Occupazione. 65 Relativamente al pilastro dei servizi, è noto come la Danimarca sia uno dei Paesi europei che su questo fronte offre una risposta ai bisogni tra le più articolate ed efficienti, valendole il titolo di “Stato dei servizi”, come sopra ricordato, essen- do in grado di offrire servizi accessibili a tutte le famiglie. Le statistiche internazio- nali la vedono sempre ai primi posti delle classifiche per quanto riguarda l’assi- stenza ai bambini, in particolare molto piccoli, e agli anziani, ma è tutto il sistema dei servizi pubblici di cura e sostegno alla famiglia a vantare elevati standard di qualità e di copertura (Esping-Andersen 2005). Un dato basti per tutti: la Dani- marca si situa ai vertici della graduatoria europea quanto a presenza di strumenti pubblici di sostegno alla cura dei figli sino a 3 anni di età, consentendo alle donne danesi una più agevole conciliazione tra lavoro per il mercato – anche a tempo pieno – e compiti di cura (Di Domenico 2005). Naturalmente, nel panorama dei servizi di attivazione un posto centrale è occu- pato del Servizio per l’impiego (AF, Arbejdsformidlingen), il quale, con le sue unità decentrate a livello regionale, rappresenta il braccio esecutivo del Consiglio nazio- nale per il mercato del lavoro e dei diversi Consigli regionali, incaricati rispetti- vamente di definire le linee guida di azione e di declinarle a livello territoriale nel quadro normativo fissato a livello centrale. La funzione principale servizi per l’impiego è quella di incontro tra domanda e offerta di lavoro e di collocamento dei lavoratori disoccupati. Ma gli stessi servizi sono incaricati di effettuare anche iniziative formative tramite gli uffici locali de- centrati (un centinaio di job centre comunali), monitoraggio del mercato del lavoro e informazione agli attori locali: istituzioni, imprese, associazioni, enti formativi, ecc. Funzione quest’ultima favorita dalla costruzione di una vera e propria rete di rapporti che lega i servizi per l’impiego decentrati alle associazioni datoriali, alle istituzioni formative, e agli altri soggetti pubblici, privati e di privato sociale del territorio. Nel 2002 è stato creato un sito internet per l’occupazione, il “Jobnet.dk”, nel quale i lavoratori in cerca di impiego sono tenuti a inserire il proprio curri- culum. Lo stesso sito raccoglie (o dovrebbe raccogliere) anche le offerte di lavoro. Negli ultimi anni, tuttavia, sia le azioni di collocamento che quelle formative sono in larga misura state appaltate a servizi privati o semi-privati esterni, sotto la super- visione dei Servizi per l’impiego regionali. La capillarità del servizio, ma anche il basso numero di utenti rendono l’azione di tali job centre particolarmente effi- ciente, soprattutto ne facilitano le funzioni di contatto con i lavoratori e il controllo del loro comportamento in merito agli obblighi che lo status di disoccupato com- porta. Nel 2003, una nuova riforma del mercato del lavoro (che tra proco analizze- remo), denominata More people at work, pone tra i suoi punti cardine anche la tra- sformazione del Servizio pubblico. Uno degli elementi più qualificanti, al di là della revisione delle funzioni svolte, è la promozione di una più stretta collabora- zione tra i servizi e i Comuni per favorire, nell’ottica di decentramento più volte evidenziata, il definirsi di un welfare locale. Relativamente al pilastro delle politiche attive del lavoro, che qui più ci inte- ressa, sono molte le considerazioni da fare. L’impianto di politiche attive che ha 66 reso noto il sistema danese è certamente quello disegnato dalla riforma del 1994 già richiamata, i cui elementi fondamentali sono (Madsen 2006, 16-17): – l’introduzione di un sistema di sussidi “a due tempi”, con un periodo iniziale (della durata di 4 anni) cosiddetto “passivo” e un successivo detto “periodo di attivazione” della durata di 3 anni. Durante il periodo passivo, il disoccupato ri- ceve sussidi ma può contare su programmi di attivazione per almeno 12 mesi; – un cambiamento nei dispositivi di assistenza garantiti ai disoccupati di lungo periodo, i quali passano da un sistema standardizzato a uno che mira alla per- sonalizzazione, con l’introduzione di uno strumento importante quale “i piani d’azione individuali” che specificano le misure attive sulla base delle esigenze di ciascuno; – la decentralizzazione amministrativa di cui si è discusso sopra, ovvero il trasfe- rimento dell’attuazione delle politiche del lavoro ai “Consigli regionali tripartiti per il mercato del lavoro”, incaricati di ridefinire le politiche su base territoriale; – l’abolizione della connessione tra la partecipazione alle politiche attive del mercato del lavoro e il sistema di protezione dalla disoccupazione, con l’ef- fetto che l’occupazione sussidiata non dà più diritto ai benefici di disoccupa- zione (come per esempio l’accesso alla formazione); – l’introduzione di tre dispositivi di congedo retribuito (paid leave arrange- ments) per la cura dei bambini, l’educazione e i congedi sabbatici; tali congedi sono finalizzati a garantire i diritti dei soggetti alla conciliazione famiglia-la- voro e alla formazione, ma sono tesi anche a incoraggiare la job rotation: essi prevedono infatti che il datore di lavoro possa chiamare un disoccupato a rico- prire – pur se temporaneamente – l’impiego di chi usufruisce del congedo. A tali dispositivi hanno diritto di accesso anche i disoccupati; in questo caso il congedo è calcolato come una frazione del sussidio di disoccupazione. Tale impianto è stato più volte ritoccato negli anni successivi all’insegna di un cre- scente inasprimento dei criteri di eleggibilità e di riduzione dei sussidi 12. Nel 2001 il passaggio di testimone dal governo social-democratico a quello liberal-conserva- tore non ha fatto altro che accelerare e radicalizzare questo giro di vite. Nel 2003, la riforma sopra citata, varata dal nuovo governo ed emblematicamente chiamata More people at work è di chiara impronta workfarista, anche se di fatto non risulta così innovativa rispetto alla tradizione inaugurata negli anni Novanta. Ne sono i principali elementi (ancora Madsen 2006, 17-18): – la drastica riduzione del numero di programmi individuali di politica attiva del lavoro dai trentadue dispositivi previsti nel 1994 a sole tre specifiche tipologie: orientamento, istruzione e formazione; introduzione pratica al mondo d’im- presa; integrazioni di reddito (occupazione sussidiata); 12 Nel 1996, per esempio, il periodo “passivo” del sussidio di disoccupazione è stato ridotto a due anni, e nel 1999 a un anno. Per i giovani non qualificati tale periodo passivo è stato da subito ridotto nel 1996 a soli sei mesi con l’obbligo di impegnarsi in azioni formative. 67 – l’elevata priorità data all’orientamento e ad altre forme di contatto personale tra i servizi per l’impiego e i disoccupati, da realizzarsi almeno ogni tre mesi. La richiesta ai disoccupati di incrementare la loro attività di ricerca di un nuovo impiego e la loro mobilità; – la modernizzazione (e la digitalizzazione) di tutto l’impianto amministrativo di gestione del sistema delle politiche attive e dei sussidi, che vede in prima linea i job centre; – il coinvolgimento attivo nell’attuazione delle politiche del lavoro di imprese ed organizzazioni private, inclusi i fondi di assicurazione; – la partecipazione di tutti gli adulti senza impiego in programmi di attivazione dopo solo un anno di disoccupazione (anche se per converso diventano meno chiari i criteri che definiscono intensità e durata della partecipazione esigita), e la limitazione delle azioni di ricerca del lavoro (job search) solo nel periodo di coinvolgimento in un programma, con la conseguenza imprevista però che al di fuori del programma si registra un effetto caduta della motivazione (locking- in effect, effetto di “chiusura”), come evidenziato dai rapporti di valutazione (Ministry of Labour 2000); – l’obiettivo di lungo periodo di unificare la gestione dei sussidi di disoccupa- zione per i lavoratori assicurati e non (attualmente, invece, divisa), sotto la re- sponsabilità dei job centre comunali di nuova istituzione; – la riduzione dei sussidi di protezione sociale per alcune categorie specifiche, come le coppie sposate e gli immigrati neo-arrivati, anche se l’impianto di fondo è rimasto intatto. Il cambiamento di lungo corso che si è dispiegato attraverso queste successive riforme delle politiche del lavoro ha comunque lasciato la Danimarca saldamente in cima alle classifiche europee per risorse investite sia nelle misure passive sia nelle misure attive (Lang 2006). Il governo danese investe nella protezione sociale complessivamente conside- rata quasi il 31% del prodotto interno lordo (la media UE, sia a 15 sia 25, è intorno al 28%, mentre l’Italia è al 26,4%, dati riferiti al 2003); una quota pari circa al 4,4% del PIL nelle politiche del lavoro, l’1,5% nelle sole politiche attive, lo 0,54% nella formazione, segnando un divario marcato con la media europea e il dato ita- liano: è il Paese che investe di più in termini relativi. L’Europa a 15 investe nelle politiche del lavoro il 2,3% del PIL, lo 0,7% nelle politiche attive, lo 0,26 nella for- mazione; in tutti i casi comunque più dell’Italia, la quale occupa gli ultimi gradini della graduatoria (Eurostat 2007; cfr. cap. 2 e 6). Una costante di tale sistema, che comprende, tra l’altro, incentivi all’impiego e alla creazione di impresa, così come misure specifiche per i disabili, e programmi di reinserimento, è l’enfasi sulla formazione. Si può dire che l’istruzione, la formazione professionale e l’addestramento sul lavoro in esperienze di job-training (tirocini, stage, ma anche apprendistato) rap- presentino il fulcro del sistema di politiche di attivazione. Lo scopo dei dispositivi 68 di addestramento, che di fatto valorizzano il lavoro come esperienza formativa e occasione per alimentare il capitale sociale individuale, è quello di favorire il rein- gresso nel mercato del lavoro attraverso periodi di impiego temporaneo nel pub- blico impiego o in imprese private. Durante questi periodi di job-training il lavora- tore percepisce uno stipendio regolare, ma il datore di lavoro ha diritto a un sus- sidio ad hoc che ne copre larga parte del costo, per almeno sei mesi. Esperienze di job-training possono essere attivate per disoccupati di lunga durata o con partico- lari difficoltà di ricollocazione (per esempio a bassa qualificazione) nei lavori di pubblica utilità, nel settore pubblico. Secondo le disposizioni più recenti, la parteci- pazione a iniziative di questo tipo toglie però il diritto di accesso ad altri dispositivi di sussidio per la disoccupazione. Ma è certamente l’accesso, garantito a tutti, all’istruzione e alla formazione fi- nanziata dallo Stato, erogata e/o gestita dai servizi per l’impiego pubblici a rappre- sentare il punto di forza delle politiche di attivazione. Se infatti l’occupazione è la priorità da perseguire, la via per raggiungerla mette al centro la formazione: volendo coniare un motto per rappresentare sinteticamente il sistema si potrebbe dire “lear- ning first”, per evidenziare che pur se l’obiettivo è l’occupazione la via per raggiun- gerla passa anzitutto attraverso il potenziamento delle competenze e delle capacità del lavoratore, mediante sia l’istruzione generale di base sia, in larga misura, la for- mazione continua, particolarmente sviluppata tanto per i lavoratori disoccupati quanto per gli occupati, sia infine il lifelong learning che fa della formazione perma- nente un diritto per tutti, occupati e non. Potremmo dunque riferirci a questo modello in termini di learnfare 13 per via dell’opzione di fondo di considerare la formazione come lo strumento principe per offrire protezione, dentro un mercato “transizionale”, a quanti subiscono gli effetti di un percorso lavorativo flessibile e discontinuo (Lodi- giani 2005). Questa almeno è la percezione diffusa a livello internazionale, laddove si è alimentato il mito danese. Di questo discuterà il prossimo paragrafo. Coerentemente con quanto sin qui argomentato, la cifra di tutto l’impianto dei programmi di attivazione è comunque la personalizzazione. In tale prospettiva ven- gono definiti i cosiddetti PAP – Piani di azione personalizzata – che, con una sorta di contratto, definiscono il rapporto tra il disoccupato e il centro per l’impiego, pre- cisando il programma di attività che il disoccupato dovrà intraprendere pena la perdita dello status di disoccupazione. 4. Le politiche formative in un sistema educativo aperto Il finanziamento della formazione per gli adulti è da sempre tra le proprietà di azione delle politiche pubbliche danesi. Una peculiarità dell’impegno dello Stato in tale settore è certamente rappresenta dalla duplice attenzione dimostrata sia per le politiche formative orientate allo sviluppo del capitale umano in senso lato, alle 13 Di learnfare riferito al sistema danese di politiche attive del lavoro parlano per esempio l’Ilo (2003) e Bernard Gazier (2003). 69 quali possiamo riferirci nei termini di formazione continua per occupati e forma- zione permanente, sia per quelle orientate più strategicamente alla (ri)qualifica- zione della forza lavoro a rischio di obsolescenza e al (re)inserimento lavorativo, e va dunque intesa come politica del lavoro in senso stretto. Tale priorità si è tradotta nell’istituzione di una serie di dispositivi di sostegno alla formazione continua e al lifelong learning per lavoratori occupati e disoccu- pati, giovani in cerca del primo impiego, soggetti svantaggiati, soggetti adulti indi- pendentemente dalla loro posizione sul mercato del lavoro. Gli assunti del learn- fare, infatti, rimandano alla convinzione che l’inclusione sociale e l’attivazione passino anche attraverso una partecipazione elevata al sistema formativo, e che quest’ultimo debba garantire a tutti eguali opportunità (fossero anche di “seconda chance”) di raggiungere i livelli più elevati, compatibilmente con le proprie capa- cità e aspettative 14. Concretamente ciò ha portato allo sviluppo di un sistema molto articolato di formazione per adulti, che si caratterizza rispetto al panorama europeo per il fatto che una ampia fetta di tale formazione è erogata dalle istituzioni “ordi- narie” del sistema formativo pubblico. In altri termini le istituzioni educative per l’istruzione e la formazione secondaria e terziaria (il “formal learning”) prevedono percorsi specifici per gli adulti, tesi al conseguimento di titoli di studio di istruzione generale e qualifiche professionali di diverso livello. Schematizzando, la formazione degli adulti prevede quattro percorsi: – l’educazione liberale che riguarda attività formative “non formali” in scuole popolari e scuole serali; – l’istruzione generale (Avu) che, impartita dai centri locali per l’educazione degli adulti, prepara al conseguimento di titoli di studio di livello primario o secondario; – il sistema di formazione professionale supplementare che comprende sia un li- vello di base per studenti con deficit culturali (Gvu), assimilabile all’istruzione professionale secondaria; sia un livello progredito, a sua volta articolato su tre piani: formazione di livello avanzato (Vvu); formazione finalizzata al conse- guimento di un diploma specialistico, assimilabile a un diploma di laurea breve o a un percorso di livello terziario non accademico; formazione terziaria che consente la frequenza di un Master, finalizzato al conseguimento di com- petenze elevate e orientato a professioni prestigiose. L’accesso al livello pro- gredito, nella sua triplice articolazione, prevede come prerequisito di aver ma- turato un’esperienza di lavoro di almeno due anni; in tutti i casi sono possibili modalità di frequenza flessibili e personalizzabili; – la formazione professionale continua (Amu), frutto della cooperazione tra Mini- 14 Non per caso, il termine learnfare è mutuato dai programmi (diffusi soprattutto nei contesti anglosassoni) di reinserimento scolastico dei giovani adolescenti che abbandonano la scuola perché precocemente divenuti genitori, e che si ritrovano a dipendere dal welfare, impossibilitati a comple- tare gli studi superiori o intrappolati in percorsi di disoccupazione, sottooccupazione e segregazione in lavori dequalificati. 70 stero del lavoro e parti sociali: prevede diverse tipologie di corsi per occupati e disoccupati, con finalità di orientamento, riqualificazione e ricollocazione lavo- rativa; centrati sulle esigenze dei lavoratori o su quelle delle imprese. Nel primo caso vengono definiti dei programmi personalizzati a carattere orientativo della durata di 1-2 settimane che si concludono con la definizione di un piano di azione individuale per il rientro in formazione o nel mercato del lavoro. Tale assetto è stato configurato da una recente riforma (Adult Education Re- form) entrata a regime nel 2001 con l’obiettivo di ampliare le opportunità di ac- cesso all’istruzione e alla formazione “formale” a tutte le età. Essa ha sostanzial- mente definito un sistema educativo parallelo a quello “istituzionale”, strutturato sugli stessi livelli: preparatorio (primario), secondario, terziario. Il filo rosso della riforma è stato la volontà di integrare in un unico sistema formazione professionale continua e formazione permanente, disciplinando l’intero settore secondo criteri di certificazione comuni, in grado di validare anche le esperienze lavorative e di favo- rire la conciliazione tra lavoro e formazione, di qualunque tipo essa sia. La logica di fondo inscritta nell’intero sistema è quella sancita sul piano nor- mativo nel 1993 con la legge sulla cosiddetta educazione aperta. La legge consente il rientro in formazione per chiunque, per qualunque necessità e in qualunque mo- mento della propria vita. Essa prevede l’istituzione di percorsi formativi definiti ad hoc in base alle esigenze espresse sul territorio, su qualunque argomento e a qua- lunque livello di specializzazione, impartiti dagli istituti professionali o di istru- zione superiore secondo modalità di erogazione alquanto eterogenee sul piano del tempo e della metodologia. L’unico vincolo è che tali percorsi formativi siano fina- lizzati alla preparazione di esami corrispondenti a quelli del regolare sistema scola- stico (Indire 2003). La finalità è quella di aprire ogni percorso del sistema educa- tivo agli adulti. Così quest’ultimo garantisce accesso a tutti; un accesso che è gra- tuito ai livelli inferiori, per i soggetti a bassa scolarità, e che prevede altresì dispo- sitivi di riconoscimento di crediti di “base” in rapporto alle esperienze di lavoro ef- fettuate. In tale quadro, i lavoratori occupati e disoccupati che vogliano rientrare in formazione possono optare tra strade diverse: accedere alle istituzioni formative “ordinarie”, o a corsi dedicati realizzati da enti formativi in iniziative approvate dal Ministero del lavoro (per esempio quelle promosse dei centri per l’impiego). Lo Stato incoraggia e sostiene economicamente entrambe le opzioni se il soggetto che decide per un rientro in formazione è in cerca di impiego. In particolare, se la scelta ricade sui percorsi del sistema educativo ordinario i soggetti possono ottenere un sussidio di disoccupazione fino a un massimo di cinque anni, fattore che certa- mente ne ha favorito la diffusione. Di grande rilevanza è il ricorso ai congedi formativi retribuiti, introdotti con la riforma del 1994, esigibili dai lavoratori occupati, previo accordo con il datore di lavoro. Durante il congedo retribuito, che può durare fino a un anno ed essere fruito o a tempo pieno o part-time, il datore di lavoro può impiegare come sostituto un disoccupato (job rotation). È previsto un canale preferenziale per l’assunzione 71 come sostituto di un disoccupato inserito in un programma di attivazione e in parti- colare che stia frequentando un’iniziativa formativa attinente al settore in cui si deve temporaneamente collocare. Come già accennato, a tali dispositivi possono avere accesso anche i lavoratori in cerca di impiego che nell’ambito di programmi di attivazione sono chiamati a “scambiare” il sussidio di disoccupazione con la par- tecipazione retribuita alla formazione. Dal 1996 questa opzione è garantita anche ai giovani (fino a 25 anni), ma a particolari condizioni: essi possono godere di un sus- sidio di disoccupazione per non oltre sei mesi allo scadere dei quali sono obbligati a partecipare a un’iniziativa formativa per un periodo di almeno 18 mesi, se non sono in possesso di un titolo di studio superiore o di una qualifica professionale. Altrimenti scatta l’obbligo di partecipare a un’iniziativa di job-training. In en- trambi i casi si ha diritto a un sussidio pari alla metà di quello percepito inizial- mente, ma questo diritto viene a cadere se non si rispettano tali obblighi. Questo tipo di impostazione, che valorizza il diritto di accesso alla formazione, emerge chiaramente dalla distribuzione delle risorse stanziate. Il finanziamento pubblico complessivo dell’intero sistema educativo in rap- porto al prodotto interno lordo è tra i più alti in Europa: a fronte di una media europea che (considerando l’Unione sia a 15 sia a 25) è pari al 4,9% del PIL, la Da- nimarca raggiunge il 6,7% (il valore più alto tra i Paesi considerati in questa sede; l’Italia si ferma al 4,5%) (Eurostat 2007; dati riferiti al 2004). Con riferimento alla formazione continua e permanente finanziata nel quadro delle politiche attive del lavoro, il caso danese si segnala nello scenario europeo per la quantità di risorse dedicate: circa 54 milioni di euro, cifra davvero considerevole in rapporto alla popolazione, e che, se pure in calo negli ultimi anni, dimostra come la formazione continui a essere considerata il fulcro delle politiche di attivazione e inclusione (Barbier 2005). Altrettanto distintivo, in chiave comparativa, è l’equili- brio con cui vengono distribuite le risorse tra la formazione, appunto, gli incentivi all’impiego, le misure di integrazione per soggetti disabili, i dispositivi di sostegno alla nuova imprenditorialità, job rotation, job sharing: l’incidenza della formazione infatti non supera il 35% (restano fuori da questa contabilità il finanziamento dei centri per l’impiego). Peraltro, la ricchezza delle risorse a disposizione certo faci- lita l’assunzione di comportamenti virtuosi e la distribuzione generosa delle risorse a tutte le misure previste. È interessante rilevare, soprattutto nell’ottica sopra richiamata della forma- zione come diritto soggettivo, che le risorse stanziate per la formazione continua sono dirette in larghissima misura a sostenere gli individui (quasi il 75%, con un trend di crescita negli ultimi anni), in parte minore a finanziare i servizi che ero- gano la formazione (circa il 22%) e solo in parte davvero esigua a finanziare diret- tamente le imprese (il restante 3%). Relativamente al target prioritario di tali finan- ziamenti agli individui, la quasi totalità riguarda lavoratori in cerca di impiego (95%). Indicativo è anche il fatto che la formazione finanziata sia quasi esclusiva- mente quella considerata “istituzionale”, ovvero che prevede attività in aula, esterna alle imprese (96%); in minima parte riguarda la formazione di supporto agli 72 apprendisti; mentre la formazione on the job resta sostanzialmente a carico delle imprese (Eurostat 2006; dati riferiti al 200315). Se guardiamo la partecipazione della popolazione adulta (25-64 anni) alle ini- ziative formative (formali, non-formali, informali), il dato danese si staglia sopra la media europea attestata al 42% nel 2003: oltre il 75% degli adulti in età attiva è impegnata in una qualche azione formativa, e – particolarità comune solo a pochi altri Paesi – si rileva un’incidenza leggermente maggioritaria delle donne. Del tutto in linea con quanto registrato in altri contesti, invece, la correlazione tra perma- nenza in formazione in età adulta e il titolo di studio posseduto. Delle persone con titolo di studio terziario contattate durante la rilevazione sulle forze lavoro europee da cui sono tratti questi dati ben il 93% era impegnato in una iniziativa formativa (Eurosat 2007). Nel corso della riforma avviata nel 2001 il sistema di formazione continua in senso stretto (con esclusione alle misure legate alla formazione permanente) è stata teatro di un importante progetto di revisione, finalizzato anzitutto a rendere più ef- ficiente l’allocazione e la gestione delle risorse economiche. Il finanziamento delle attività formative è gestito da un organismo trilaterale paritetico: il Fondo per la formazione nel mercato del lavoro (Arbejdsmarkedets Uddannelsesfinansiering - Auf), che finanzia la formazione sia dei lavoratori dipendenti sia dei disoccupati. La riforma ha fissato nell’8% della massa salariale il contributo che le imprese sono tenute obbligatoriamente a versare al Fondo. L’impegno finanziario delle imprese, tuttavia, non è limitato a questo. Accanto all’Auf, sin dagli anni settanta infatti, grazie all’azione congiunta delle Parti sociali, si sono costituiti una serie di Fondi settoriali per la formazione (Uddannelsesfonden), con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo delle attività di formazione continua non coperte dal sistema pubblico. La creazione di questi Fondi ha avuto nuovo impulso a partire dal 1991 quando, nel- l’ambito dei contratti collettivi, sono state inserite clausole relative al diritto del la- voratore a partecipare ad attività di formazione continua. La contribuzione a questi fondi settoriali è volontaria. I datori di lavoro partecipano con un contributo stabi- lito in sede di contrattazione e che varia dunque da settore a settore. I principali Fondi settoriali costituiti attraverso contratti collettivi di lavoro sono una quindi- cina e riguardano circa uno dei 2,9 milioni di lavoratori danesi (Grelli 2005). Le modalità di gestione della formazione continua, così come nei Consigli regionali tripartiti per il mercato del lavoro, riflettono il carattere negoziato dell’economia danese, e fanno della formazione in particolare una risorsa al centro di interessi molteplici: di imprese, lavoratori, loro rappresentanti, soggetto pubblico. Emblema- ticamente, come abbiamo visto, anche l’accesso al congedo formativo individuale va concordato con il datore di lavoro, ma viene in genere ampiamente sostenuto da quest’ultimo. 15 Si tratta di dati che vanno letti come indicativi di un trend, ma che vanno considerati con cautela nella comparazione internazionale. Come segnalato dalla stessa fonte possono subire distor- sioni a causa dei criteri di classificazione di ciascun Paese, non ancora perfettamente armonizzati (Eurostat 2006). 73 5. Per concludere: oltre il mito, una questione di coerenza societale A partire da quanto sin qui affermato si può dire in sintesi che il modello da- nese di welfare si regge da un lato su un sistema di servizi efficiente di sostegno sia ai soggetti in cerca di impiego, sia ai soggetti e alle famiglie su cui gravano compiti di cura; dall’altro lato su un sistema di dispositivi normativi specifici che favori- scono la conciliazione famiglia-lavoro (come i congedi parentali), la “manuten- zione dell’occupabilità” (come i congedi formativi), la “sicurezza attiva” (come le politiche attive del lavoro e le indennità di disoccupazione), e che di fatto consen- tono il raggiungimento di alti tassi di partecipazione al mercato del lavoro. Il tutto avviene in un quadro istituzionale che promuove un approccio negoziale alle grandi questioni sociali e in un contesto socioeconomico che per caratteristiche strutturali e grado di sviluppo offre condizioni ottimali, che rendono il caso danese unico nell’esperienza europea. Tuttavia, per quanto considerato nel dibattito scientifico e politico internazio- nale come uno dei modelli di welfare più efficaci ed equilibrati, non è esente aspetti critici, messi in evidenza soprattutto dalle difficoltà economiche e occupazionali che, nonostante le buone performance a livello comparativo europeo, anche questo Paese recentemente ha iniziato ad avvertire dopo un decennio tutto positivo, e dalle difficoltà di inclusione che incontrano le fasce più marginali della popolazione, in particolare i lavoratori immigrati. Come è stato notato, la fascia degli esclusi è quantitativamente ridotta (sono circa 900 mila le persone in età attiva senza lavoro, di cui 427 mila disoccupate involontarie), ma questo non rende meno importante il problema del loro reinserimento (cfr. Amoroso 2006). Il valore numerico assoluto non rende evidente l’incidenza relativa elevata che il fenomeno possiede in un Paese con un così basso numero di abitanti e una forza lavoro che non arriva ai 3 milioni (basti fare un raffronto col caso italiano, laddove i disoccupati dovrebbero essere tre volte tanto quelli attuali). Non solo. Alcune indagini di valutazione hanno evidenziato che i meccanismi di ricollocamento funzionano con meno efficacia quando si tratta di lavoratori qualificati, molto specializzati o di persone oltre i 50 anni. Problemi ancora maggiori sono stati registrati per gli immigrati, più facil- mente esclusi dagli ammortizzatori sociali (Ministry of Labour 2000). Tali diffi- coltà hanno acceso un dibattito piuttosto vivace interno al Paese, portando nel 2006 il governo conservatore-liberale all’istituzione di una “Commissione per la riforma del welfare”, a cui si è contrapposta una “Commissione alternativa” sostenuta da sindacati e varie organizzazioni di base: mentre la prima ha messo l’accento sulla flexicurity e il bisogno di ricondurre le forme di “reddito sociale” dentro livelli compatibili con i bisogni di riduzione dei costi e di efficienza del mercato del la- voro, la seconda ha criticato la stessa flexicurity denunciandone lo sbilanciamento a favore di una razionalità tutta economica (al servizio di asseriti criteri di efficienza e di bilancio) a discapito della sua componente sociale (Amoroso 2006). Come so- stiene Amoroso, in gioco non è tanto la valutazione di quale sia il livello ottimale di flessibilità (che peraltro è da sempre una caratteristica peculiare di questo sistema), 74 quanto una questione di principio: continuare a garantire la centralità del sistema socio-economico e dei suoi meccanismi di funzionamento collettivamente nego- ziati e solidaristici, o consentire un cambiamento di paradigma che sancisca invece la centralità del mercato del lavoro e di un sistema di rapporti sociali individualiz- zati e competitivi (ibidem). Il dibattito è in corso, ma secondo diversi osservatori, i segnali di una spinta verso il workfare anglosassone sono già evidenti: si pensi al- l’abbassamento delle soglie reddituali per l’accesso ad alcuni benefit, o all’inaspri- mento dei criteri di selettività per l’accesso al reddito minimo. Quanto questa strada porterà lontano è presto per dirlo. Di certo, continua l’autore, spingendo verso forme crescenti di decentralizzazione e individualizzazione dei rapporti di la- voro; tagli alla spesa sociale e dei contributi sociali; la fragilizzazione della rappre- sentanza sindacale, con un indebolimento della contrattazione collettiva e un’enfasi crescente sulla contrattazione aziendale 16, il cambiamento in atto apre scenari ignoti. La constatazione dell’esistenza di punti di criticità, comunque, non è tale da offuscare i meriti dell’impianto di politiche del lavoro danesi. E nonostante, come abbiamo visto sopra, l’obiettivo di trasposizione del modello in altri contesti nazio- nali soffra di una visione ingenua e parziale di tutte le connessioni socioecono- miche, politiche e istituzionali che esso possiede, è indubbio che alcune best prac- tices meritino di essere studiate a fondo, e laddove possibile, imitate. In questa pro- spettiva è certamente da conoscere meglio nei suoi dispositivi di attuazione e nei ri- sultati realmente conseguiti (attraverso l’analisi di processi di monitoraggio e valu- tazione) quello che abbiamo definito il modello di learnfare. La varietà dei percorsi formativi offerti agli adulti, l’accessibilità in larga misura gratuita, la possibilità di rientro in formazione a tutte le età e a qualunque livello del sistema educativo con- figurano un approccio che possiamo definire di “piena scolarizzazione”, che fa del- l’empowerment e dello sviluppo delle capacità il fulcro dell’inclusione e della par- tecipazione attiva alla società e al mondo del lavoro. Il dispositivo dell’educazione aperta può essere assunto a emblema di questo approccio, che pone al centro i bi- sogni formativi dell’individuo, mira a offrire risposte personalizzate, senza mai di- menticare le esigenze di conciliazione tra lavoro-formazione-famiglia. Se è possibile trarre qualche lezione da questa esperienza, specie se riletta alla luce di quella italiana, si possono evidenziare almeno quattro fattori. 1) Un approccio negoziato all’economia, una fiducia elevata nella contrattazione tripartita e un sistema di relazioni industriali consolidato. 2) L’elevato investimento economico nella realizzazione del mix tra politiche at- tive e politiche passive. Garantire la sicurezza dell’occupazione pur nella mo- bilità, in mancanza della sicurezza del posto; offrire una rete di protezione del 16 Nel settore privato i contratti collettivi regolano centralmente non più del 15% del contenuto della contrattazione salariale. Dagli inizi degli anni Novanta ad oggi la percentuale degli accordi col- lettivi che non menzionano le retribuzioni sono aumentati da circa il 4% al 20%. Il risultato di questa trasformazione è la tendenza a un calo generale degli aumenti salariali medi (Amoroso 2006, 4). 75 reddito ampia; implementare un sistema efficace di politiche formative in grado di rispondere ai bisogni specifici delle persone e sostenerle nell’assu- mersi i rischi di un mercato altamente flessibile, sono obiettivi molto costosi. 3) La presenza di un apparato di istituzioni formative, in specie legato all’educa- zione degli adulti, molto solido, a partire dall’assunto che la sicurezza non è data dall’avere lo stesso impiego per tutta la vita ma dall’avere le competenze necessarie per assicurarsi sempre un lavoro (Madsen 2006). 4) La combinazione delle misure di politica attiva del lavoro in senso stretto con le misure di assistenza pubblica e i servizi sociali – come i servizi di cura per bambini e anziani – i quali, come ricorda Esping-Andersen (2005), hanno un effetto attivante e capacitante in particolare sulle donne. Se queste possono essere considerate lezioni, intese come esempi di buone pratiche, resta il fatto che il modo in cui esse si combinano nel contesto danese sono uniche, path dependency, frutto di eredità storiche, tradizioni istituzionali, fat- tori strutturali, ecc., come ben evidenziato dagli stessi autori che hanno favorito la conoscenza del modello nella riflessione scientifica internazionale, a partire da Madsen, più volte citato. In questa prospettiva non si può che concludere con Bar- bier (2005), quando sostiene che la lezione più importante che può essere tratta dal caso danese è una lezione sociologica semplice: la riforma di un mercato del lavoro e di un sistema di protezione sociale per potersi tradurre in una realizzazione effet- tiva deve inscriversi in una sua propria “coerenza societale”. Bibliografia AMOROSO B. (2006), Luci ed ombre del modello danese, Relazione tenuta presso la Facoltà di Eco- nomia Federico Caffè - Università degli Studi Roma 3, febbraio 21. BARBIER J.C. (2006), Cittadinanza, flessibilità e forme di attivazione nella protezione sociale in Eu- ropa, in Farrell G. (a cura di), Flexicurity. Flessibilità e welfare una sfida da raccogliere, Sapere 2000, Roma. BARBIER J.C. (2005), Apprendre vraiment du Danemark: réflexion sur le “miracle danois”, WP Centre d’Etude de l’employ, n. 2. DI DOMENICO G. (2005), Le politiche di workfare in Europa. Esperienze di integrazione tra servizi al lavoro e welfare, Isfol – Monografie sul mercato del lavoro, n. 15. ESPING-ANDERSEN G. (2005), Le nuove sfide per le politiche sociali del XXI secolo. Famiglia, eco- nomia e rischi sociali dal fordismo all’economia dei servizi, Stato e mercato, n. 74. ESPING-ANDERSEN G. (2000), I fondamenti sociali delle economie postindustriali, Il Mulino, Bologna. EUROSTAT (2007), Europe in figures. Eurostat Yearbook 2006-2007. GAZIER B. (2003), Tout “Sublimes”. Vers un nouveau plein-emploi, Flammarion, Paris. GRELLI F. 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Come messo in evidenza in letteratura (Esping-Andersen 1990; 1999; Ferrera 2000), l’insieme di questi Paesi ha fondato storicamente il funzionamento degli istituti del welfare su quel sistema di assicura- zioni sociali che, in contemporanea al processo di sviluppo industriale, ha pervaso lo sviluppo dei moderni stati sociali Europei, così come li abbiamo conosciuti in Francia, in Germania, in Belgio, ma altresì in Paesi come l’Italia o la Spagna 17. Sulla base di questo tipo di sviluppo storico, il dato caratterizzante la regolazione del welfare in questi Paesi è stato cioè il vincolo attuariale del sistema dei benefici sociali. Ciò significa che le prestazioni di welfare non sono state finanziate dalla tassazione, né regolate su una base universalistica di cittadinanza sociale. Piuttosto è stato lo status professionale del lavoratore, la sua collocazione nel mercato del la- voro (e dunque il livello della contribuzione previsto dallo specifico inquadramento contrattuale) a determinare il grado e l’estensione delle tutele. Dal punto di vista dei rapporti tra le forze sociali che hanno partecipato allo sviluppo di questi modelli, una tale impostazione appare perfettamente comple- mentare con una visione dei rapporti interni al sistema di welfare, non orientata a ribaltare le differenze che si producono tra i gruppi sociali all’interno del mercato del lavoro, quanto a riprodurle anche nell’ambito della redistribuzione delle risorse di protezione sociale (Paci 1989). Il sistema francese non sfugge a questo tipo di organizzazione delle tutele. Nella sua polarizzazione tra segmenti lavorativi centrali e periferici, la regolazione 17 Sulla composizione interna del gruppo dei Paesi fondanti i loro schemi di protezione sociale sulle assicurazioni sociali, vi sono alcune diversità di posizione che attengono al ruolo della famiglia nel sistema di welfare. Se infatti nella comunemente accettata tipologia di Esping-Andersen sui Three Worlds of Welfare Capitalism (1990; 1999), i Paesi continentali si trovano a essere accomunati a quelli dell’area mediterranea, Spagna e Italia in particolare, altri autori (vedi Ferrera, 1998), hanno in- teso considerare separatamente il gruppo dei Paesi dell’Europa del sud, in virtù, non tanto del ruolo assunto dalle assicurazioni sociali (che anzi si sono sviluppate secondo meccanismi di funzionamento simili a quanto avvenuto in Francia e in Germania), ma per il maggiore ruolo giocato dalla famiglia nella produzione di prestazioni non coperte dall’intervento pubblico. In questo senso, per questo gruppo di Paesi, accanto agli schemi assicurativi hanno avuto un ruolo di primo piano le risorse di reciprocità familiare, attraverso una particolare propensione del sistema di welfare allo sviluppo dei trasferimenti monetari piuttosto che quello verso i servizi in natura. 78 del lavoro francese (come del resto quella degli altri Paesi dell’Europa continentale e mediterranea) si è caratterizzata per la presenza di forti rigidità a tutela del lavoro salariato a tempo indeterminato (Castel 1995), lasciando invece maggiormente sco- perto l’insieme dei gruppi lavorativi più ai margini dei settori centrali del mercato del lavoro, come le donne, i giovani, o quei lavoratori caratterizzati da carriere lavorative più frammentate e instabili (Esping-Andersen 2002). Questa situazione, tuttavia, non rimanda ai soli rapporti che si sono stabiliti al- l’interno del mercato del lavoro, ma più in generale può essere ricollegata anche agli equilibri socio-economici e ai rapporti di genere interni alla società. La prote- zione del lavoro salariato dipendente è stata infatti la protezione del maschio capo- famiglia adulto occupato stabilmente, secondo il modello della famiglia nucleare (male breadwinner family) fondata su una rigida divisione di genere nei compiti di cura. Nella sua configurazione di famiglia nucleare dedita alle funzioni di riprodu- zione sociale, sono state cioè in questo senso le prestazioni assicurative legate alla occupazione stabile del maschio capofamiglia a costituire il tramite per il quale la famiglia ha ricevuto protezione sociale, sia stata quest’ultima di derivazione mone- taria, o in natura attraverso lo sviluppo di servizi sociali. 1. Il contesto socio-economico Il tasso di occupazione francese si è attestato nel 2004 al 63.1%, l’1.6% al di sotto della media europea a 15. Pur all’interno di una tendenza alla crescita dell’oc- cupazione che rispetto al 2000 è salita dell’1%, il dato appare certamente non po- sitivo, soprattutto se correlato con quanto avvenuto in Paesi come l’Inghilterra (il 71.6% nello stesso anno), la Svezia (72.1%) o la Danimarca (75.7%), dove l’aumento occupazionale è stato più marcato (Eurostat 2007a). L’occupazione femminile si attesta appena al di sopra della media europea, il 57.4% contro il 56.8% dell’Europa a 15, ma anche in questo caso al di sotto del- l’Inghilterra (65.6%), della Danimarca (71.6%) e della Svezia (70.0%). In questo caso, se il divario con i Paesi anglosassoni rimanda al più basso livello fatto regi- strare dal part-time (il 30.0% nel 2004, contro il 43.9% dell’Inghilterra), quello con i Paesi scandinavi oltre al part-time, può essere fatto risalire anche al maggiore im- piego stabile che le donne ritrovano nel settore pubblico. Ma soprattutto, questo dato della bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro è strettamente con- nesso al tasso di disoccupazione che per le donne è superiore a quello degli uomini di circa 2 punti percentuali, il 10.7% contro l’8.8%. In media, il tasso di disoccupazione in Francia si è attestato nel 2005 al 9.7%, lo 0.1% in più rispetto al 2004, e l’1.8 % in più rispetto alla media dell’Europa a 15. Su questo versante la performance della Francia è una delle peggiori tra i Paesi più avanzati in Europa, in particolare se si considera il tasso di attività dei lavo- ratori compresi tra i 55 e i 64 anni (39.6%). Al contrario il tasso di attività della fascia centrale compresa tra i 25 e i 54 anni è tra i più alti d’Europa (86.6%). 79 Sul versante educativo-formativo, il livello di spesa pubblica in educazione è tra i più alti d’Europa: il 5.7% del PIL nel 2003, valore, questo, inferiore solo a quelli fatti registrare dai Paesi scandinavi, ma superiore a Inghilterra, Germania, Italia. Mi- nore è il ricorso alla spesa privata: lo 0.60%, in linea comunque con la media eu- ropea. A questo si aggiunga la percentuale del 83.1% relativa ai soggetti in possesso di alti livelli educativi 18 che nel 2003 hanno partecipato a attività di formazione (for- mali, non formali e informali) (Eurostat, 2007b). Questo valore si colloca al di sopra della media europea; solo Svezia, Finlandia e Danimarca fanno hanno fatto regi- strare percentuali più alte, rispettivamente l’87.6%, il 90.1%, il 93.4%. L’abbandono scolastico mostra livelli al di sotto della media europea, vicino al 15%, mentre il rapporto tra popolazione e livello di istruzione è tra i più alti in Europa. Nel campo della formazione professionale e continua, la spesa nel 2004 è au- mentata del 2.4%, con un incremento dell’8.1% rispetto al 1999. Relativamente al PIL si è attestata al 1.46% (Dares, 2007). È interessante notare in tale contesto come alla diminuzione dello sforzo finanziario da parte dello Stato (con una contra- zione del 6.3% rispetto all’anno precedente), abbia corrisposto un incremento delle spese in formazione sostenute dalle Regioni (per effetto del processo di decentra- mento), ma altresì un aumento della spesa delle imprese private, per effetto soprat- tutto dell’aumento del tasso obbligatorio di mutualizzazione dei Fondi per l’alter- nanza, che è arrivata al 3.0% della massa salariale (ibidem). In merito alla spesa in politiche del lavoro, il quadro appare caratterizzato da un rapporto tra politiche passive e attive a vantaggio delle prime, l’1.74% del PIL contro lo 0.82%. Il totale della spesa in politiche del lavoro è arrivato nel 2004 a coprire il 2.56% del PIL, lo 0.38% in più rispetto alla media dell’Europa a 15, il 2% circa in più rispetto all’Inghilterra (che però ha un tasso di disoccupazione tra i più bassi di Europa), e poco meno di 2 punti percentuali in meno della Danimarca (che in questo caso oltre a spendere di più mostra anche tassi di disoccupazione tra i più bassi in Europa). Quello che ad ogni modo risalta di più nella composizione della spesa in poli- tiche attive, è l’alto livello delle azioni volte alla creazione diretta di posti di lavoro con l’intervento dello Stato (Direct job creation). Rispetto a quanto fatto da altri Paesi europei, la creazione di posti di lavoro nel quadro dei partenariati locali (in parte sul modello di quelli previsti dalle stesse istituzioni europee) ha registrato tassi di utilizzo tra i più alti d’Europa (Eurostat, 2007a). Questa caratteristica del contesto francese va tenuta in debita considerazione nell’analisi del nesso tra for- mazione e lavoro. Essa contribuisce molto a chiarire l’evoluzione delle politiche di attivazione in questo Paese nell’arco di tempo che va dai primi anni Ottanta fino agli anni più recenti. Il periodo di riferimento in questo caso è quello che va dalla crisi della fine degli anni Settanta, con l’esplosione del fenomeno della disoccupa- zione strutturale e la spaccatura crescente tra esclusi e inclusi, tra outsider e insider per dirla con le parole di Ferrera (2000), nella fruizione dei benefici concessi dal 18 Educazione terziaria (ISCED 5 e 6). 80 sistema delle assicurazioni sociali, e l’avvio delle prime misure di politica sociale e occupazionale volte a contrastare gli effetti negativi della crescente vulnerabilità sociale sulle biografie lavorative e le condizioni di vita dei soggetti più a rischio di esclusione. 2. Le coordinate del welfare: priorità, attori, indicatori Come già anticipato, l’evoluzione degli schemi francesi della protezione so- ciale contro i rischi connessi alla perdita o alla mancanza del lavoro va letta alla luce dell’evoluzione del complesso degli interventi assicurativi previsti per i gruppi di lavoratori occupati stabilmente. Ma accanto a questi, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, un altro insieme di interventi sociali è stato promosso per rispondere ai bisogni di quei gruppi sociali che, per vari motivi, si sono trovati ai margini del mercato del lavoro fordista, o in una condizione di esclusione (per i bassi livelli contributivi) dai benefici connessi alla partecipazione stabile al lavoro salariato (Lafore 2000). Stiamo parlando delle politiche sociali di risposta ai feno- meni di disoccupazione strutturale che in forme assai articolate hanno avuto in Francia un considerevole sviluppo, tanto da arrivare a costituire un segmento auto- nomo del sistema di protezione sociale. Alla luce quindi di queste due macro-categorie di politiche di protezione so- ciale giocate nei due ambiti del sistema assicurativo, la prima, e in quello della “so- lidarietà sociale” in capo all’intervento dello Stato, la seconda, si può ripercorrere il funzionamento dei diversi meccanismi collegati alle politiche del lavoro. Per quanto riguarda la prima categoria di interventi, oltre a mostrare il caratte- ristico funzionamento assicurativo, questo sistema di interventi si è caratterizzato storicamente per la presenza di una particolare configurazione di rapporti tra le Parti sociali e le istituzioni politiche che non ha avuto eguali in Europa: il parita- risme. Il paritarisme prende avvio in Francia nel 1945 come forma di congiunzione tra l’organizzazione della protezione sociale e il sistema della rappresentanza del lavoro. Nella sua configurazione originaria, il paritarisme non ha identificato una sfera della regolazione del welfare e delle relazioni industriali incentrata sulla pro- gressiva istituzionalizzazione delle organizzazioni sindacali nella gestione degli istituti della protezione sociale sul modello di quanto sperimentato in quello che comunemente viene identificato come sistema Ghent 19, né ha tratto fondamento 19 Il sistema Ghent rappresenta una particolare configurazione dei rapporti tra gli attori sindacali e le amministrazioni pubbliche nella gestione degli istituti del welfare, su tutti l’indennità di disoccu- pazione. Tale sistema si è sviluppato nei Paesi dell’area scandinava e nel Belgio, e prevede un coin- volgimento diretto dei sindacati nell’amministrazione dell’indennità. Il tratto di istituzionalizzazione del sindacato che il sistema Ghent lascia intravedere si basa sulla presenza di meccanismi selettivi che favoriscono l’adesione al sindacato in virtù dei più alti rendimenti riconosciuti ai fondi sindacali ri- spetto a quelli non sindacali, e dunque su un riconoscimento “pubblico” delle prerogative di queste organizzazioni, non solo nel sistema di relazioni industriali, ma anche nella sfera dello stato sociale (vedi anche Boeri et al. 2002). 81 dalle esperienze di mutualismo sindacale dell’inizio del secolo scorso. Esso piut- tosto è scaturito dal tradizionale interventismo delle istituzioni pubbliche nella sfera del lavoro e della protezione sociale, con l’obbiettivo di creare una sfera della regolazione, autonoma, sia dalle istituzioni del mercato che da quelle dello Stato (Daniel et al. 2000), in cui le Parti sociali potessero esercitare il diritto alla parteci- pazione alla vita sociale ed economica del Paese. Secondo fasi alterne i tre attori principali dello Stato, delle rappresentanze sin- dacali e di quelle imprenditoriali hanno preso parte alla regolazione degli organismi paritari secondo formule differenziate 20. Il punto che qui preme mettere in evidenza è l’importanza assunta dagli orga- nismi paritetici nella gestione di importanti istituti del welfare (come l’indennità di disoccupazione), del sistema pensionistico e della formazione professionale soprat- tutto. Questa struttura di gestione paritaria costituisce uno degli elementi portanti di un sistema di relazioni industriali che presenta peculiarità difficilmente accomuna- bili a altre esperienze europee. Non è un mistero infatti che i sindacati francesi scontino una evidente debo- lezza sul terreno della rappresentanza degli interessi. I tassi di sindacalizzazione sono in Francia i più bassi d’Europa, intorno al 8-9%. Né, d’altra parte, è un mi- stero che su questa situazione molto abbia influito, e influisca ancora oggi, da un lato l’estrema frammentazione tra le diverse organizzazioni sindacali, e dall’altro il tradizionale interventismo statale nel sistema di relazioni industriali. Da questo punto di vista, è importante notare come proprio il sistema del paritarisme abbia rappresentato (forse) l’unico ambito di regolazione in cui il sindacato francese sembra avere evidenziato una certa capacità di radicamento e influenza sul sistema di relazioni industriali, anche se al di fuori dei confini dell’impresa e degli ambiti di contrattazione e di rappresentanza del lavoro (ovvero il tradizionale ambito di in- tervento e legittimazione sociale del movimento sindacale). Come evidente, rispetto al tipo di rapporti di lavoro su cui si è innervato il fun- zionamento del paritarisme, almeno nella sua tradizionale impostazione, è stato il lavoro salariato standard a costituire il punto di riferimento. Per questo gruppo di lavoratori (quelli della grande impresa fordista) tutti gli istituti dell’indennità di disoccupazione, del sistema pensionistico e della formazione professionale sono stati gestiti nell’ambito del paritarsime. Se questa è stata l’evoluzione del sistema di protezione sociale nel periodo for- dista, è a partire dall’esplosione del fenomeno della disoccupazione strutturale agli inizi degli anni Ottanta che ha preso il via la serie di iniziative volte a contrastare l’esclusione sociale rientranti nella seconda macro-categoria di interventi sociali che qui ci interessa. Essa nei suoi principi è venuta a costituire una sfera autonoma della regolazione del welfare francese. Non stiamo parlando infatti di istituti fon- 20 Per la ricostruzione storica delle diverse fasi attraversate dal paritarisme e dei diversi assetti di rappresentanza al suo interno, nonché del grado di autonomia di questi dall’intervento dello Stato si rimanda a Leonardi (2005). 82 dati su un vincolo attuariale, ma piuttosto, come messo in evidenza da Lafore (2000, 93), di politiche occupazionali che si sono poste a metà strada tra il lavoro, la formazione, la protezione sociale finanziata attraverso la fiscalità generale e la socializzazione al lavoro degli individui. Lungo i binari di una contaminazione reciproca tra politiche di accesso al lavoro, assistenza sociale, formazione, i diversi programmi di Insertion hanno rappresentato dei dispositivi volti all’inserimento lavorativo dei soggetti più deboli, attraverso il sostegno alla partecipazione al mercato del lavoro, e soprattutto attraverso la creazione di posti di lavoro nel comparto dei servizi di utilità pubblica e sociali con una forte interconnessione tra politiche sociali e politiche occupa- zionali. La caratterizzazione principale dei programmi di Insertion, non è stata infatti solamente quella di avere rappresentato una risposta “pubblica” al problema della disoccupazione strutturale (pur con tutta una serie di effetti inattesi non sempre po- sitivi) ma di avere anche rappresentato una via di accesso alla terziarizzazione del- l’occupazione, con un impatto differenziato rispetto ad altri contesti europei nel trade-off tra espansione occupazionale nei servizi e flessibilizzazione del mercato del lavoro. Se la creazione di posti di lavoro nel settore dei servizi nei contesti anglosas- soni ha seguito una traiettoria in cui è stata l’espansione del mercato (nel solo am- bito cioè del rapporto tra domanda e offerta di lavoro) a trainare il costante incre- mento occupazionale del terziario, soprattutto quello dei servizi a bassa produtti- vità, la via francese allo sviluppo di nuova occupazione nei servizi ha seguito so- prattutto i binari della creazione di posti di lavoro attraverso l’intervento dello Stato in connessione con il sistema dei partenariati locali, al cui interno sono stati coin- volti sia attori privati che associativi. Di fronte al problema della disoccupazione, accanto quindi a un più tradizio- nale impianto di politiche del lavoro che ha visto il ricorso a strumenti quali i pre- pensionamenti, la riduzione dell’orario di lavoro e dei contributi sociali per ridurre l’impatto della disoccupazione strutturale e diminuire il costo del lavoro, le cosid- dette strategie di Insertion hanno risposto a un diverso orientamento di intervento diretto dello Stato (potremmo dire secondo una ottica più di tipo Beveridgiana, che Bismarckiana) attraverso lo sblocco di risorse pubbliche (non dai contributi sul la- voro) che hanno tentato di mobilitare a livello locale, sia i destinatari degli inter- venti di Aide social, sia, attorno a loro, anche tutta una rete di attori pubblici, pri- vati e associativi, implicati nello sviluppo di attività di utilità pubblica, di forma- zione, e nei servizi sociali alle famiglie. Proprio nel quadro di questo doppio binario di interventi sociali vanno collo- cati i molteplici programmi di attivazione promossi dalla fine degli anni Novanta, spesso, tuttavia, sovrapposti tra loro all’interno di logiche di diverso orientamento, e per questo motivo privi in larga parte di un inquadramento di sistema. 83 3. I programmi di attivazione In tema di attivazione delle politiche del lavoro, l’esperienza francese non mo- stra i caratteri di un vero e proprio sistema di workfare. Le condizionalità legate alla ricerca attiva del lavoro non sono particolarmente stringenti. Da questo punto di vista, esse divergono molto dall’approccio anglosassone tutto orientato all’of- ferta e alla promozione dell’occupabilità, mantenendo un impianto ancora forte- mente ancorato a una visione della protezione sociale che concepisce lo stato di disoccupazione come un fenomeno incidentale, indipendente dalla volontà del sog- getto, e verso il quale è lo Stato che deve farsi carico di porre rimedio, sia attra- verso forme di indennizzo, sia promuovendo migliori opportunità di occupabilità. Ciò non di meno, almeno in questi ultimi anni, sono state introdotte misure che in parte hanno modificato le condizioni della fruizione delle indennità di disoccupa- zione, così come essa era stata concepita in passato. Con l’introduzione del PARE 21 (Plan d’aide au retour à l’emploi), dopo un processo di riforma fortemente contra- stato dai sindacati francesi (con una spaccatura in seno allo stesso movimento sin- dacale) sono state previste maggiori sanzioni e condizionalità legate alla ricerca at- tiva del lavoro. Rispetto al modello inglese, tali condizioni non presentano tuttavia quel carattere spesso punitivo e stigmatizzante proprio dell’approccio di workfare. Attualmente per ottenere l’indennità di disoccupazione occorre avere lavorato per almeno sei mesi negli ultimi ventidue (in alcuni casi è possibile contabilizzare anche le ore di formazione, come fossero periodi di lavoro), non avere rinunciato volontariamente alla precedente occupazione (a meno di gravi motivi familiari o cambiamento di residenza), essere registrato presso uno degli uffici preposti alla gestione della disoccupazione, o essere impegnato in formazione, avere una età in- feriore ai sessanta anni e, infine, mostrare di ricercare attivamente l’impiego attra- verso un contratto che si formalizza con l’amministrazione. Sul piano dei programmi di Insertion esistono invece diversi tipi di azioni di re-inserimento che legano la fruizione di un reddito minimo all’attivazione nella ri- cerca nel lavoro, e alla partecipazione ad attività di formazione professionale o di utilità pubblica nel quadro dei partenariati locali. Dall’introduzione dei primi mi- nima sociaux, tra gli anni Settanta e Ottanta con la creazione dei “lavori social- mente utili”, fino alla più recente istituzione del RMI (Revenue Minimun Insertion) nel 1988, i programmi di questo genere hanno riposto al duplice obbiettivo di for- nire una risposta alle problematiche poste dall’esclusione sociale e di creare nuovi 21 Come messo in evidenza da Barbier e Theret (2004), molte delle controversie tra sindacati e organizzazioni di rappresentanza degli imprenditori hanno riguardato in questo periodo soprattutto il tema della progressività dell’indennità di disoccupazione e del suo rapporto con la contribuzione. Se infatti alla fine degli anni Novanta, in un periodo di maggiore crescita economica, era stata introdotta una certa digressività nei livelli di prestazioni, con il risultato di ridurre il tasso di sostituzione per i beneficiari, e rendere più difficile l’accesso alle prestazioni assicurative per i lavoratori con una car- riera contributiva più instabile, è con il PARE che questa digressività viene attenuata. Successiva- mente, con il peggioramento delle condizioni dell’economia nei primi anni del 2000, sono state ri- dotte di nuovo le condizioni di indennizzazione. 84 posti di lavoro in svariati settori dei servizi sociali come strumento di prevenzione del disagio e inserimento lavorativo. Proprio l’RMI ha rappresentato il programma più importante tra i diversi che sono stati sperimentati. Il reddito minimo universale che esso ha previsto è stato legato alla stipula di un contratto tra l’amministrazione e il contraente, attraverso la definizione di un piano di re-inserimento (plan d’inser- tion). Anche in questo caso, tuttavia, le condizionalità non sono state tali da prefi- gurare un vero e proprio schema di workfare. D’altra parte come sottolineato da Barbier (2006), l’RMI negli ultimi anni ha teso a essere utilizzato soprattutto come misura di compensazione sociale, utilizzata dai giovani diplomati nel tempo di at- tesa per l’impiego; difatti il 50% dei beneficiari del RMI ne fa uso per un periodo inferiore a un anno. All’estremo opposto rimane un 20% di beneficiari che fruisce del RMI da più di tre anni. Per essi più che una misura di re-inserimento il reddito minimo è stata una vera e propria prestazione di sussistenza minima. All’interno dei dispositivi di Insertion va poi ricompresa una serie di tipologie contrattuali previste specificamente per il re-inserimento all’impiego dei soggetti svantaggiati. Tra queste, le due principali categorie rimandano, da un lato ai con- tratti volti a facilitare l’impiego delle persone disoccupate di lungo periodo, dal- l’altro alle iniziative di inserimento per favorire la formazione dei giovani. Nel primo caso il modello di riferimento è stato il CES (Contrats Emploi Solidarité), un contratto riservato ai soggetti svantaggiati per la promozione di forme di impiego a tempo parziale all’interno di organizzazioni associative di Terzo settore alle quali lo Stato riconosce esenzioni contributive. Il livello retributivo previsto è quello del salario minimo. Il numero dei partecipanti a queste iniziative è cresciuto fino a raggiungere nella seconda metà degli anni Novanta circa il 10% della popolazione attiva, 2.5 milioni di persone nel 2000, 2.1 milioni nel 2003. Al loro interno si è stimato che gli impieghi sussidiati nel settore pubblico e non profit siano stati tra i 300.000 e i 500.000 (Barbier 2006). Accanto al CES, nel settore privato sono state previste altre tipologie contrattuali sussidiate, come il CIE (Contrats Initiative Emploi), e dal 2003 il Contrat Jeuene en Entreprise. Nel 2005 la “Legge di programmazione per la coesione sociale” ha previsto il superamento dei CES, con l’avvio di due nuove formule contrattuali destinate alle persone in inserimento nel settore associativo: il Contrat d’Avenir e il Contrat d’Accompagnement dans l’Emploi. A questi bisogna aggiungere il nuovo CIVIS (Contract d’Insertions dans la vie sociale) per i giovani senza qualifiche in diffi- coltà: un programma di avviamento all’impiego individualizzato e coordinato dalle delegazioni locali per l’impiego (Missions locales) e gli uffici del PAIO (Perma- nences d’Accueil, d’Information et d’Orientation). Si tratta di un network di strut- ture legate alle agenzie ministeriali, con il compito di fornire supporto ai problemi riscontrati dai giovani disoccupati a livello locale. Sempre a livello locale occorre ricordare come in questi ultimi anni, parallela- mente al processo di decentramento amministrativo, sia stata ampliata la sfera di responsabilità delle Regioni e delle Amministrazioni locali nella costruzione di per- 85 corsi di partenariato locale per lo sviluppo di attività di utilità sociale e servizi so- ciali. Tra questi vanno menzionati i Chantiers d’Insertion, che nell’ambito di questo genere di attività hanno operato in relazione agli strumenti di inserimento previsti dai CES. Sul versante dei percorsi di inserimento tramite formazione, sono stati invece i contratti di apprendistato (Apprentissage) e di qualificazione (Qualification) a rap- presentare i due principali strumenti promossi dal governo. In particolare l’appren- distato, basato sul principio dell’alternanza formazione-lavoro, in questi anni ha guadagnato una crescente centralità nell’inserimento lavorativo dei giovani, arri- vando nel 2002 ha interessare 237.000 soggetti (Rojot e Plotino 2006). Il Piano di coesione sociale prevede da questo punto di vista di arrivare a impiegare almeno 500.000 giovani con il contratto di apprendistato entro la fine del 2007. In un tale impianto articolato (in qualche caso sovrapposto) di programmi di in- serimento, merita di essere approfondito il ruolo assunto dai soggetti associativi. Essi non solo infatti svolgono attività assistenziali, ma, come accennato, sono prio- ritariamente implicati nei programmi di inserimento. In questo senso, accanto alle tradizionali Associations che erogano servizi sociali in convenzione con il pubblico, negli ultimi due decenni sono state create nuove forme associative, con il compito, sia di sviluppare servizi di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, sia di favorire la creazione di nuova occupazione all’interno di particolari campi di atti- vità dei servizi sociali, non coperti né dalle istituzioni pubbliche, né dal mercato. In merito al primo campo di intervento, quello dell’intermediazione, il riferi- mento va qui alle Associations Mandataires; queste organizzazioni svolgono atti- vità di intermediazione per la fornitura di personale a imprese private, enti pubblici, altri organismi associativi, per il tramite di contratti a tempo determinato. Riguardo il secondo ambito, quello dei servizi sociali alle persone e alle famiglie, la connes- sione promossa tra riforme delle politiche socio-assistenziali, con l’esplosione di nuovi bisogni assistenziali legati ai mutamenti demografici e sociali (l’invecchia- mento della popolazione, l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro), e politiche del lavoro, ha dato vita a un diverso tipo di associazioni: le Associations intermediaires. Diversamente dalle prime, esse sono state implicate nella creazione di nuovi servizi e occupazione all’interno degli emergenti settori di attività dei servizi sociali. In questa via di sviluppo di nuove attività di servizi rela- zionali, le Associations intermediaires si sono viste riconoscere sgravi contributivi (a carico dello Stato) per la formazione e l’impiego di personale che in larga misura è destinatario delle misure di Insertion. Nell’analisi di tali processi di mutamento, è importante ricordare come accanto alla promozione di un settore associativo in grado di interporsi tra lo Stato e il mer- cato nella fornitura di servizi sociali e nella creazione di nuova occupazione, molto sviluppati sono stati anche i programmi volti a regolarizzare una offerta di servizi individuale, attraverso vari strumenti di sostegno alla solvibilità della domanda come i Tiket emploi-services. Grazie alle possibilità di usufruire di tali titoli di ac- quisto, oltre che sgravi fiscali e contributivi (senza necessariamente passare per una 86 associazione di intermediazione), questa offerta privata individuale ha conosciuto una rilevante crescita nel sistema dei servizi sociali francese, ma altresì, evidente- mente, nel mercato del lavoro, essendo anche in questo caso lo sviluppo dei servizi alle famiglie legato alla creazione di nuova occupazione e all’attivazione dei sog- getti in difficoltà di re-inserimento. Per tutti i tipi di programmi di Insertion qui esaminati c’è un generale accordo nel ritenere come questi strumenti si siano legati allo sviluppo di una area inter- media del mercato del lavoro, non riconducibile né ai settori centrali, né a quelli tradizionalmente considerati marginali, ma legata ad attività lavorative che si collo- cano a metà strada tra lavoro e non lavoro, tra occupazione sussidiata e inserimento professionale (Dutheillet de La Motte 2006). In un tale contesto, come sottolineato da Barbier e Theret (2004), i problemi riscontrati hanno riguardato soprattutto la qualità dell’occupazione creata e lo status socio-professionale di questo genere di lavoratori in termini di qualifiche professionali e livelli del reddito acquisiti. La tensione verso la protezione sociale e la garanzia dei livelli di reddito per le fasce degli esclusi dal mercato del lavoro o, come detto ancora da Barbier (2006), la vo- lontà di tenere nell’occupazione tali soggetti al costo del lavoro sussidiato, ha dato luogo a una area autonoma del mercato del lavoro che ha mostrato tuttavia scarsi collegamenti con il mercato del lavoro vero e proprio. Diversamente l’Insertion è venuta a costituire una ulteriore area del mercato del lavoro in cui tendono a collocarsi i soggetti più svantaggiati e dotati di scarsi li- velli di qualifica professionale. Questo, d’altra parte, è uno degli effetti di “ritorno” di un approccio di integrazione tra politiche occupazionali e sociali che solo in Francia nel panorama europeo ha conosciuto tale sviluppo. In merito a questa situa- zione, molti concordano (Laville - Enjolras, 2001; Laville 2005), come l’obbiettivo di integrare (condizionare?) la politica sociale agli obbiettivi di creazione di nuovi posti di lavoro, abbia, sì, risposto positivamente al problema della riduzione della disoccupazione strutturale (che in questo Paese ha avuto un impatto particolar- mente evidente, soprattutto a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta), ma abbia fi- nito per porre un freno allo sviluppo autonomo dell’offerta di servizi sociali da parte delle molte tradizionali realtà associative, non intermediaires né mandataires. Esse si sono trovate a concorrere per l’erogazione di servizi a fianco delle organiz- zazioni che beneficiano di sgravi fiscali per la formazione dei disoccupati, per il loro re-impiego in attività sociali o di utilità pubblica, ma non prioritariamente per lo sviluppo di servizi di assistenza sociale. 4. Il ruolo della formazione Il sistema educativo francese si è caratterizzato in passato per il forte orienta- mento allo sviluppo dell’educazione generale nell’ambito del sistema scolastico, ponendo minore attenzione al tema della effettiva spendibilità professionale del- l’output (Bednarz 2006, 247). Al pari di altri contesti nazionali, come la Spagna e 87 l’Italia, in Francia al centro del sistema educativo è stato posto il valore formale dei titoli di studio, con una minore flessibilità, quindi, nel riconoscimento della certifi- cazione nei passaggi tra i diversi percorsi di qualificazione professionale (Ibidem). In tema di formazione professionale nel mercato del lavoro e dentro l’impresa, la Francia presenta poi caratteristiche del tutto peculiari rispetto al panorama eu- ropeo, essendo stato anche in questo caso, come per altri settori delle relazioni in- dustriali, il sistema del paritarisme ad avere rappresentato l’architettura di gestione delle azioni di formazione professionale continua. È infatti dalla fine degli anni Sessanta che il modello di formazione continua francese ha assunto come punto di riferimento lo sviluppo di organismi paritetici finalizzati alla raccolta e alla ge- stione dei fondi destinati alla formazione professionale (Leonardi 2005). Dal 1993, inoltre, gli organismi paritetici gestiscono anche la formazione professionale dei la- voratori temporanei. A questo proposito sempre Leonardi (ibidem) ricorda come gli organismi paritetici francesi rappresentino uno dei pilastri fondamentali del sistema di formazione professionale del Paese, mobilitando e gestendo al proprio interno ingenti risorse economiche per i diversi tipi di formazione continua in alternanza, e per i congedi formativi individuali. Riguardo al livello organizzativo del sistema della formazione-lavoro per gli adulti, in Francia esso si articola intorno ai due grandi pilastri dell’ANPE (Agence Nationale pour l’Emploi) e dell’AFPA (Association Nationale pour la Formation Professionelle des Adultes). Il primo, con il compito di favorire quanto più possi- bile l’occupabilità e il matching tra domanda e offerta di lavoro (in competizione recentemente anche con le agenzie private di collocamento) 22; il secondo organiz- zato per predisporre piani formativi per lo sviluppo delle carriere. Nel complesso degli interventi di formazione continua, le tipologie di inter- vento seguono una logica categoriale: i giovani, i disoccupati, la popolazione in età attiva. Dato questo tipo di impianto e approccio, come hanno fatto notare Rojot e Plotino (2006), due sono stati gli interventi legislativi che di recente hanno contri- buito a modificare lo schema delle regolazione della formazione continua. Il primo, la “Legge sulla formazione professionale e continua” del 2004 ha riconosciuto ad ogni lavoratore il diritto alla formazione (Droit Individuel de Formation), con la possibilità di accumulare 20 ore di formazione l’anno (lungo un arco temporale massimo di sei anni) per svolgere attività di formazione fuori dalle aziende. Attra- verso accordi collettivi con l’impresa è diritto del lavoratore, nel caso la forma- zione avvenga al di fuori dell’orario di lavoro, vedersi riconosciuta una indennità di formazione pari al 50% dello stipendio 23. In questi nuovi percorsi di formazione continua si ritrova uno dei processi di mutamento più importanti di questi ultimi anni. Non solo si assiste infatti a un pro- 22 Si stima in circa 2,5 milioni di persone, il numero di quanti nel 2003 hanno usufruito dei servizi dell’ANPE, con un incremento del 36.9% rispetto al 2002 (Rojot-Plotino 2006). 23 Sempre i due autori ricordano che in questo stesso periodo è stata istituita la possibilità per i lavoratori in possesso di qualifiche professionali non aggiornate di conseguirne di nuove nell’ambito di corsi professionali specializzati, anche in alternanza. 88 gressivo decentramento verso il livello regionale nel finanziamento delle spese in formazione, ma anche il contributo delle imprese private è andato aumentando di importanza in un rapporto di maggiore complementarietà con le iniziative pub- bliche. Su questo si ricordi l’aumento della spesa delle imprese private che è arri- vata al 3.0% della massa salariale (vedi anche § 1) Il secondo provvedimento legislativo di maggiore importanza è stato la “Legge sulla certificazione delle conoscenze acquisite tramite esperienza” del 2002 che ha introdotto una novità rispetto al precedente rigido impianto formativo francese, ov- vero la possibilità di acquisire un diploma attraverso il riconoscimento dell’espe- rienza professionale maturata. Come gran parte della regolazione della politica sociale e del lavoro, anche le attività di formazione professionale hanno seguito uno sviluppo caratterizzato da integrazione (in parte sovrapposizione) di funzioni tra policies diverse. In questo caso, nel campo della formazione professionale, lo strumento del contratto di ap- prendistato ha rappresentato uno dei pilastri della politica di formazione professio- nale in questo Paese, in una forte integrazione anche con le misure previste dai si- stemi di attivazione e inserimento lavorativo per i giovani privi di qualifiche. Su questo terreno della formazione in alternanza, le ultime linee guida pro- mosse dai governi francesi sembrano tendere a rafforzare il portato di professiona- lizzazione degli interventi formativi, con una maggiore attenzione al riconosci- mento del rapporto tra competenze ed esperienze professionali pregresse, non solo nei piani di formazione continua, ma anche nel settore delle politiche di inseri- mento sociale destinate ai soggetti più vulnerabili, che in passato spesso sono stati destinatari di interventi scarsamente integrati dal punto di vista del rapporto tra for- mazione, inserimento sociale e lavoro. Questo d’altra parte è uno degli elementi centrali di tutto un dibattito che negli ultimi anni ha investito in pieno l’intera ar- chitettura dell’Insertion, con la necessità di arrivare a una maggiore professionaliz- zazione di una area del mercato del lavoro in cui, ad oggi, convivono impieghi sus- sidiati, attività di servizi, e scarsa professionalità del lavoro. Il punto centrale è come uscire dall’impasse venutasi a creare all’interno di questa area intermedia del mercato del lavoro, tra lavoro e non lavoro, che non solo mostra uno scarso rap- porto di osmosi con il mercato del lavoro tradizionale, ma che anche rischia di tra- dursi in una sorta di intrappolamento proprio per quelle fasce di popolazione inte- ressate dalle misure di Insertion, senza che parallelamente si sia effettivamente svi- luppato un comparto dell’offerta dei servizi (rientranti nell’Insertion) in grado di attivare percorsi di crescita professionale e di qualità del lavoro. A questo fine, il “Piano per lo sviluppo dei servizi alle persone” del febbraio 2005 ha esteso l’eso- nero completo dei contributi del datore di lavoro a tutti i tipi di fornitori di servizi certificati, non solo alle associazioni Intermediaires per l’inserimento di soggetti in difficoltà. Questo cambiamento, con la cancellazione delle precedenti asimmetrie negli esoneri contributivi tra i diversi fornitori dei servizi sociali, si colloca in una strategia di professionalizzazione del settore e degli operatori sociali che in questo sono implicati. 89 5. Per concludere. Insider e Outsider tra formazione, lavoro e inserimento sociale Il mercato del lavoro francese manca di quella dinamicità manifestata da altri contesti nazionali, come l’Inghilterra, e gli stessi Paesi scandinavi. Rispetto a questi, in Francia differiscono sia le condizioni di funzionamento del mercato del lavoro, sia soprattutto il tipo di politiche sperimentate, con un orientamento mar- cato delle policies al sostegno della domanda, piuttosto che all’occupabilità dell’of- ferta. Pur di fronte a obbiettivi comuni, come la riduzione della disoccupazione e l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro per tutte le fasce di popola- zione, la via francese ha seguito linee di politica del lavoro basate sulla riduzione dei contributi sociali, sui prepensionamenti, sulla riduzione dell’orario di lavoro. Solo in misura minore sono stati proposti piani di sostegno all’occupabilità dal lato dell’offerta di lavoro. D’altra parte il mercato del lavoro rimane ancora fortemente strutturato (se paragonato a quello di altri contesti nazionali che più hanno intro- dotto elementi di flessibilità), e in un certo senso ancora imperniato su quell’oppo- sizione tra insider e outsider (Ferrera 2000) che, nonostante i programmi di Inser- tion e la creazione dei minimi sociali, caratterizza ancora il rapporto tra il lavoro salariato dipendente e quello precario soprattutto dei giovani poco qualificati. A questo proposito si tenga conto dei dati relativi ai tassi di attività e alla disoccupa- zione giovanile. A una delle percentuali più alte nel tasso di attività della fascia centrale di età compresa tra i 25 e i 54 anni (86.6%), corrisponde uno dei tassi di disoccupazione giovanile più alti in Europa (il 22% nel 2004, contro il 12% in Gran Bretagna, e l’8% in Danimarca). In questo quadro, è interessante guardare non solo al rapporto formazione-la- voro, che certamente in Francia mostra ancora caratteri di forte rigidità rispetto agli altri contesti europei, ma anche a come questo si inserisca nel quadro delle rela- zioni tra la formazione, il lavoro e l’inserimento occupazionale per i soggetti più svantaggiati. A tale proposito è utile ricordare come a uno dei rapporti tra popola- zione e istruzione tra i più alti in Europa, e a un alto tasso di attività nella fascia dei “garantiti”, verso i quali sono previsti diversi piani di formazione continua (anche con il contributo crescente delle imprese private nel finanziamento dei piani di for- mazione), corrisponde nell’area dell’Insertion un deficit di inserimento sociale e la- vorativo che è dovuto anche a un rapporto non complementare tra il tipo di lavoro pregresso, la formazione prevista, e l’esito del re-inserimento nel lavoro. In questa discrasia evidente tra formazione e inserimento lavorativo nell’ambito dell’Inser- tion, si ritrova la tradizionale opposizione tra insider o outsider, che tende a ripro- dursi anche nelle diverse possibilità di accesso alla formazione nell’occupazione per i diversi gruppi sociali. I programmi di Insertion sono in questo senso ancora lontani dal rappresentare un trampolino di lancio verso il mercato del lavoro clas- sico. In questa area, il problema della scarsa qualificazione del lavoro prevista dai programmi di inserimento risulta oggi un fenomeno particolarmente evidente (Gomel 2006). Il contenuto della formazione legata al lavoro appare scarsamente 90 professionalizzante e scollegato rispetto al tipo di attività esercitata, oltre che di breve durata. D’altra parte in più di un caso, più che la formazione professionale legata all’Insertion, si è dimostrata maggiormente utile al re-inserimento del lavo- ratore l’esperienza lavorativa pregressa (Ibidem). Sulla presenza di queste storture nel rapporto formazione-lavoro molto ha in- fluito il tipo di approccio nella regolazione delle policies. Come detto in prece- denza, è al raggiungimento degli obbiettivi di politica occupazionale, che è stata le- gata la regolazione del settore socio-assistenziale, con la priorità accordata alla creazione di posti di lavoro (ancorché sussidiati), piuttosto che alla professionaliz- zazione di un’offerta di servizi in grado poi di intercettare e guidare la professiona- lizzazione dello stesso lavoro nell’ambito sociale. D’altro canto, questo tipo di inte- grazione (o condizionamento) ha avuto un impatto negativo sulla stessa capacità degli attori sociali (non implicati direttamente nella creazione di occupazione, ma nella sola fornitura di servizi) di attivare una crescita organizzativa e professionale indipendente dall’influenza esercitata dall’amministrazione pubblica. Rispetto ad altre esperienze nazionali – per esempio il caso inglese, dove è stato il mercato (ovvero il libero gioco del rapporto tra domanda e offerta di lavoro) a trainare la crescita occupazionale nei servizi, quelli a bassa produttività in questo caso – in Francia il rapporto tra domanda e offerta è stato in larga misura mediato dalle logiche d’azione dell’intervento statale a salvaguardia delle garanzie di mante- nimento delle persone nel lavoro, ancorché sussidiato, piuttosto che alla deregola- mentazione crescente del mercato del lavoro e alla promozione dell’occupabilità. Come in Inghilterra, tuttavia, anche in questo caso la via del re-inserimento nell’atti- vità lavorativa, almeno per le categorie più a rischio e svantaggiate in termini di qualifiche professionali, si è associata ai minori livelli retributivi conseguiti e all’e- spansione dei cosiddetti Bad jobs. Come sottolineato da Le Feuvre (2004), il 78% dell’occupazione creata nei programmi di Insertion lavorava part-time nel 2001 e il 60% percepiva uno stipendio mensile inferiore a 610 euro. Da questo punto di vista, pur partendo da posizioni differenziate nell’impostazione delle politiche del lavoro, in entrambi i Paesi gli esiti del re-inserimento si sono associati all’espansione di una area dei servizi, siano essi nel commercio, nella ristorazione, o nei servizi socio-as- sistenziali (come nello specifico il caso francese) caratterizza da più bassi livelli re- tribuiti e minori possibilità di mobilità ascensionale nel mercato del lavoro. Che si tratti di un intrappolamento in una area residuale del mercato del lavoro per effetto anche di politiche attive del lavoro che mirano soprattutto al re-inserimento imme- diato nel lavoro, piuttosto che a una formazione di più lungo periodo, come in In- ghilterra, o che si tratti di lavoro sussidiato nel quadro dei partenariati locali, come in Francia, il problema che emerge è quello della ricollocazione professionale di un gruppo di soggetti per i quali i rischi sociali e i pericoli di vulnerabilità sono con- nessi alla stessa attività lavorativa, sia essa sussidiata, legata alla formazione profes- sionale, o semplicemente lasciata al libero gioco tra domanda e offerta di lavoro. Seguendo questa linea di analisi, le differenze più evidenti tra i due Paesi ri- mandano piuttosto al rapporto tra formazione e lavoro. Se il tipo di formazione ero- 91 gata nei programmi di workfare inglese ha risposto soprattutto alla necessità di ga- rantire il re-inserimento repentino nel lavoro dei soggetti più deboli, o in possesso di livelli di competenze medie, e medie-basse, con una rilevante complementarietà nel rapporto formazione-inserimento lavorativo, in Francia il rapporto formazione- lavoro nei programmi di Insertion si è caratterizzato per la presenza di una minore complementarietà, oltre che per l’evidente priorità accordata alla creazione di nuova occupazione rispetto alle esigenze di professionalizzazione del comparto dei servizi socio-assistenziali. Va da sé che un tale impianto, pur avendo conseguito il risultato di ridurre l’impatto della disoccupazione strutturale, ha tuttavia avuto rica- dute negative sul tipo di inserimento e sulle possibilità stesse di professionalizza- zione per i soggetti implicati nei programmi di inserimento professionale all’in- terno dello stesso comparto socio-assistenziale. Solo con il “Piano per lo sviluppo dei servizi alle persone” del febbraio 2005, si è tentato di arrivare a una maggiore professionalizzazione del settore, riducendo la portata del vincolo tra Insertion e creazione di posti di lavoro. Rimediando alla precedente situazione di disparità nei livelli di esonero dai contributi sociali tra i di- versi soggetti dell’assistenza, l’esonero completo dei contributi del datore di lavoro per tutti i tipi di fornitori di servizi certificati (non solo le associazioni Interme- diaires per l’inserimento di soggetti in difficoltà, ma anche le altre realtà asociative che forniscono servizi) va in direzione dell’obbiettivo di rafforzare il portato di professionalizzazione del comparto assistenziale e del lavoro che al suo interno si crea, piuttosto che verso il solo fine di creare occupazione. In questa stessa prospettiva, la più recente legislazione francese in materia di formazione sembra avere riconosciuto la necessità di un riorientamento delle pra- tiche di formazione professionale. Si tenga presente in questo senso, anche per la diversità di approccio rispetto al tradizionale impianto regolativo, l’importanza della recente “Legge sulla certificazione delle conoscenze acquisite tramite espe- rienza”. In questa, si ritrova l’esigenza di una maggiore attenzione al riconosci- mento del rapporto tra le esperienze professionali pregresse e la formazione pre- vista nelle azioni di re-inserimento, allo scopo di ridurre il mismatching tra la do- manda e l’offerta dei profili professionali richiesti sul mercato del lavoro. Bibliografia BARBIER J. C., (2006), Le cas francais présenté en perspective comparative, Paper, 2006. BARBIER J. C., Theret B., (2004), Le nouveau système francais de protection sociale, La Découverte, Paris. BEDNARZ F., (2006), It’s a long way to Copenhagen. Modelli di formazione professionale in Europa, in “La Rivista delle politiche Sociali”, n. 4. 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La path dependency del sistema di politiche di attivazione in Inghilterra Andrea CIARINI All’interno degli studi comparativi sui welfare regimes europei, l’Inghilterra è un Paese che tradizionalmente è stato collocato nell’area dei sistemi di protezione sociale caratterizzati da una accentuata residualità delle prestazioni sociali, un li- vello basso dell’intervento pubblico e una tendenziale impostazione di mercato. Come è stato bene messo in evidenza in letteratura (Esping-Andersen 1990, 1999; Ferrera 2000), tra Stato, Mercato, e Famiglia, in questo Paese è il Mercato a rap- presentare il principale meccanismo di integrazione sociale. Questo significa che alla residualità dell’intervento pubblico finanziato su base fiscale, secondo il tipico schema “Beveridgiano” 24, corrispondono politiche sociali meno generose rispetto ad altri contesti nazionali e, in ogni caso, riservate ai soli segmenti di popolazione che non riescono a integrarsi attraverso la partecipazione al mercato del lavoro. Se si esclude il settore della sanità, che a differenza di altre importanti aree della pro- tezione sociale mostra un carattere universalista, i restanti pilastri della politica so- ciale mostrano chiaramente questo carattere selettivo-residuale degli interventi di protezione sociale. Tale impianto appare particolarmente evidente se si guarda alle politiche del lavoro. Coerentemente con un disegno volto a stigmatizzare la condizione del dis- occupato, come colui che vive alle spalle dell’assistenza, la loro impostazione non risponde ai criteri universalistici dell’intervento diretto pubblico, come diritto di cittadinanza, né può essere ricondotta ai meccanismi che hanno regolato il funzio- namento e la legittimazione sociale dei sistemi continentali delle grandi assicura- zioni sociali, fondate sui diversi inquadramenti professionali dei lavoratori all’in- 24 Per chiarire meglio le differenze tra i sistemi anglosassoni, scandinavi e continentali è impor- tante qui ricordare il senso attribuito a quella che abbiamo definito la visione Beveridgiana. Con essa si identificano politiche di welfare che al pari di quanto previsto nei contesti scandinavi sono finan- ziate dal sistema fiscale, distaccandosene tuttavia per l’impostazione non egualitaria della fruizione dei benefici sociali. Detto in altri termini, se nei contesti scandinavi l’accesso alle prestazioni sociali è garantito come diritto di cittadinanza universale, in Inghilterra la fruizione dei benefit è al contrario fortemente selettiva. Non tutti godono della possibilità di accedere al sistema di protezione sociale, ma solo coloro che si collocano al di sotto di una soglia standard (flat rate) individuata come minimo so- ciale. Le differenze con i contesti continentali e le politiche di stampo Bismarckiano rimandano invece proprio al tipo di finanziamento, essendo in questo ultimo caso i contributi sociali (e non le tasse) a finanziare gli schemi di protezione sociale. Schemi che, per i diversi livelli contributivi associati al lavoro, rispecchiano le diverse collocazioni dei lavoratori nel mercato del lavoro. 94 terno del mercato lavoro. Piuttosto, quello che appare evidente in Inghilterra è la centralità delle soluzioni di mercato e, conseguentemente, della partecipazione al mercato del lavoro nel tracciare le vie da perseguire per l’integrazione sociale. Se, d’altro canto, in questa concezione la disoccupazione non è un fenomeno strutturale connesso al funzionamento del sistema economico, ma dipende soprat- tutto dalle biografie di vita dei singoli individui che scelgono la condizione di di- pendenza dalle prestazioni del sistema di welfare, invece della ricerca di un im- piego, la risposta in termini di policy non è la solidarietà organizzata dallo Stato, ma la riduzione delle prestazioni puramente assistenziali e il ricollocamento imme- diato nel lavoro del soggetto in stato di disoccupazione che non riesce, o non vuole, integrarsi nel mercato del lavoro. 1. Il contesto socio-economico 25 Negli ultimi dieci anni l’occupazione in Inghilterra è cresciuta di 2.5 milioni (Freud 2007). Il tasso di occupazione ha raggiunto nel 2005 il 71.7%, con un in- cremento rispetto al 1995 del 3.2% (Eurostat 2007). Rispetto al livello medio del- l’occupazione dell’Europa a 15, il differenziale si colloca al di sopra dei sei punti percentuali. Lo stesso si può dire per il tasso di disoccupazione. Tra il 1995 e il 2005 esso è diminuito dal 8.5% al 4.7%, a fronte di una media europea (EU-15) del 7.9%. Positivo è poi il tasso di occupazione per le fasce di lavoratori compresi tra i 55 e i 64 anni, il 56.9% a fronte di una media europea a 15 del 44.1%. L’occupa- zione femminile si è attestata nel 2005 al 65.9%, l’1.2% in più rispetto al 2000. Il tasso di occupazione maschile ha invece raggiunto nel 2005 il 77.6%, 11.7 punti percentuali in più rispetto alle donne, le quali tuttavia, a differenza degli uomini, mostrano un trend in costante crescita rispetto ai primi anni del 2000. Si può rite- nere che la costante crescita dell’occupazione femminile sia da mettere in relazione con il crescente ricorso al part-time, che in questo Paese si colloca a livelli supe- riori rispetto alla media europea, il 43.9% nel 2004 contro il 35.1% dell’Europa a 15. L’alto livello raggiunto dal part-time in questo Paese è senz’altro indicatore di una maggiore permeabilità del mercato del lavoro alle donne. A tale proposito, è importante sottolineare come la disoccupazione femminile abbia raggiunto (proprio grazie al part-time) livelli più bassi rispetto a quelli maschili. A questo si aggiunga la riduzione del tasso di occupazione maschile che tra il 2000 e il 2005 ha cono- sciuto una contrazione dello 0.2%. Nel 2005, a fronte del 4.3% di disoccupazione femminile, il dato relativo ai maschi si è attestato al 5.1%. Tuttavia, come si avrà modo di vedere (vedi § 2), questo non significa che i problemi posti dalla segmen- tazione di genere nel mercato del lavoro siano stati risolti. Non solo infatti i diffe- renziali di reddito tra uomini e donne rimangono assai elevati, soprattutto se riferiti 25 I dati utilizzati fanno riferimento a statistiche riconducibili al sistema UK. Fatta salva questa precisazione nel proseguo del capitolo il focus sulle politiche di attivazione riguarda essenzialmente il caso dell’Inghilterra. 95 al part-time, ma anche la povertà non si distribuisce omogeneamente tra uomini e donne, con queste ultime che si ritrovano a essere più esposte dei maschi ai rischi di scivolamento nella povertà (nonostante un tasso di disoccupazione per le donne più basso rispetto agli uomini). Relativamente al quadro economico generale, l’insieme di questi dati, in parti- colare quelli relativi all’espansione occupazionale, assume una significatività an- cora maggiore, se si considera il livello della crescita economica nella prima metà degli anni 2000, soggetta in Inghilterra, come in tutti i Paesi industrializzati, a un certo rallentamento rispetto al decennio precedente. Da questo punto di vista, è im- portante sottolineare come in questo Paese, al rallentamento economico degli anni più recenti, non abbia corrisposto una parallela decrescita dei livelli occupazionali, che anzi hanno manifestato un tendenziale e continuo incremento. La tenuta del quadro occupazionale va fatta risalire, in primo luogo, al miglio- ramento delle performances delle politiche del lavoro e delle misure di re-inseri- mento. Esse hanno favorito sicuramente una crescente distribuzione delle occasioni di lavoro tra la popolazione attiva. Ma d’altra parte, in questi stessi anni, è stata re- gistrata anche una costante diminuzione nel numero dei claimants, ovvero dei sog- getti dipendenti dai vari sussidi di disoccupazione previsti dal sistema di protezione sociale. Tra il 1997 e il 2005 il numero dei soggetti dipendenti dai sussidi di disoc- cupazione è diminuito del 73%. Al loro interno, la decrescita dei claimants con una età tra i 18 e 24 anni è stata addirittura del 88% (Freud 2007). Non siamo qui di fronte a un fenomeno nuovo. La tendenza alla riduzione del numero dei beneficiari è un processo in atto in questo Paese da almeno due de- cenni. In questo quadro, se certamente, dal punto di vista dei risultati ottenuti in termini di riduzione del numero dei disoccupati e della dipendenza dall’assistenza, i governi inglesi hanno ottenuto rilevanti successi, è sul versante della formazione (che in questa sede più da vicino ci interessa) che ancora questo Paese mostra una situazione caratterizzata da aree di inefficienza. In merito ai dati di contesto relativi alla formazione, nel 2003 i livelli di ab- bandono scolastico sono stati prossimi a quelli europei, il 15-16% circa per uomini e donne. Al di sotto della media europea risulta invece la spesa pubblica in educa- zione, che ha raggiunto il 5.1% del PIL nel 2003, lo 0.6% in più rispetto all’Italia e lo 0.2% in più rispetto alla media europea a 15 (Eurostat 2007), ma al di sotto di quanto previsto da Paesi come la Francia, e soprattutto la Danimarca e la Svezia. Per contro, rispetto all’investimento privato in educazione, nello stesso anno l’In- ghilterra si è collocata al di sopra della media europea (l’1% del PIL contro lo 0.6% dell’area euro 15), e della stessa media dei Paesi scandinavi, che da questo punto di vista hanno fatto registrare valori di poco al di sopra dello 0% (lo 0.3% per la Danimarca, lo 0.2% per la Svezia 26). 26 Il dato relativo all’investimento privato in formazione risulta particolarmente significativo se si tiene conto che in questo Paese le imprese non sono tenute per legge (come avviene in altri Paesi europei) a contribuire alla formazione continua. 96 Nel rapporto tra politiche passive e attive del lavoro, le prime nel 2004 si sono attestate allo 0.34% del PIL, mentre per le seconde la spesa è risultata pari allo 0.16% (Isfol 2006). In totale la spesa per le politiche del lavoro arriva allo 0.50% PIL (la media europea a 15 è del 2.12%). Il dato più interessante in questo contesto è che al- l’interno delle misure di attivazione, la spesa in formazione ha superato nel 2004 il 75%. Tale dato, tuttavia, si scontra con il basso tasso delle attività di formazione con- tinua che si collocano al di sotto della media europea. Nel 2003 il 60.8% dei soggetti in possesso di alti livelli educativi (3)27 hanno partecipato ad attività di formazione (formali, non formali e informali) (Eurostat 2007)28. Ancora più basso è il tasso di partecipazione a questo tipo di attività di formazione, per il gruppo dei soggetti dotati di più bassi livelli di Skills, al 12.2%, contro una media UE a 25 del 23.1%. Per comprendere il senso di queste relazioni tra formazione, competenze e oc- cupazione è opportuno guardare a come questo nesso si è andato strutturando al- l’interno della regolazione generale delle politiche di welfare, nella sua evoluzione storica, e nel cambiamento organizzativo e politico che ha riguardato le misure di welfare to work degli anni più recenti che hanno tentato di rendere più efficace il rapporto tra formazione e lavoro. 2. Le coordinate del welfare: priorità, attori, indicatori In questo che possiamo considerare come il quadro di riferimento alla base del modello inglese, è interessante guardare all’evoluzione delle politiche del lavoro tra la svolta neo-liberale dei governi conservatori, tra gli anni Settanta e Ottanta, e l’approdo all’esperienza di governo del New Labour a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. È in questo periodo infatti che prende corpo e si rafforza l’im- pianto workfarista del sistema di politiche attive del lavoro inglese, così come lo conosciamo oggi. Al riorientamento dei rapporti che regolano il nesso tra la domanda di pro- tezione sociale e l’offerta di strumenti di re-inserimento attivo nel lavoro, in questo arco di tempo hanno fatto seguito importanti cambiamenti che hanno riguardato, come si avrà modo di vedere, sia il piano dei livelli organizzativi sia quello dei rapporti tra gli attori istituzionali e non, implicati nella governance delle misure di attivazione. In merito al primo arco temporale, quello dei governi conservatori, le riforme introdotte hanno mirato a un duplice obbiettivo. Il primo di questi ha riguardato l’introduzione di strumenti, in particolare di politica fiscale, volti a favorire e ren- dere maggiormente conveniente la partecipazione al mercato del lavoro, rispetto alla fruizione passiva dei sussidi. Questo genere di interventi ha riguardato soprat- tutto i segmenti lavorativi più esposti al pericolo di una collocazione instabile nel mercato del lavoro e dunque maggiormente dipendenti dalle maglie dell’assistenza. 27 Educazione terziaria (ISCED 5 e 6). 28 In Svezia questa percentuale si attesta al 87.6%, in Danimarca al 93.4%, in Francia l’83.1%, in Italia al 78%. 97 Per essere meglio compresi nella loro portata, questi mutamenti vanno collo- cati nel quadro economico produttivo emerso dal processo di ristrutturazione del- l’economia inglese a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. La crisi della produ- zione taylor-fordista e dell’occupazione standard nella grande industria, e parallela- mente, la crescita di quella nel settore dei servizi ha determinato un profondo muta- mento, non solo nella composizione del mercato del lavoro, ma anche nel tipo di regolazione dei rapporti di lavoro, nella distribuzione dei livelli dei redditi, e nei li- velli di povertà conseguenti. Come emerso chiaramente dagli studi sugli effetti della transizione verso l’e- conomia dei servizi nelle società occidentali (Sharpf 1997; Crouch 2001; Heme- rijck 2002), il trade-off tra espansione occupazionale nei servizi e flessibilizza- zione dei rapporti di lavoro ha avuto come effetto certamente l’ingresso nel mer- cato del lavoro di soggetti collocati ai margini dei tradizionali segmenti centrali del mercato del lavoro; ma anche la crescita dei livelli di disuguaglianza nella redistri- buzione dei redditi tra i segmenti lavorativi del terziario. Questo fenomeno appare chiaramente identificabile con la crescita di incidenza dei cosiddetti lavoratori po- veri, ovvero coloro, per lo più impiegati nei comparti a bassa produttività dei ser- vizi relazionali alle persone, del commercio e della ristorazione, che pur accedendo al mercato del lavoro non ne traggono risorse sufficienti a integrarsi nella società in termini reddituali e condizioni di vita. Nella risposta a questo genere di problemi, dal lato delle misure fiscali intro- dotte, il sistema degli in-work benefits, ovvero gli sgravi fiscali connessi alla parte- cipazione al mercato del lavoro, ha risposto all’obbiettivo di contrastare quel cir- cuito delle convenienze nascoste che per queste categorie di lavoratori rendeva pre- feribile la condizione di non lavoro o la percezione passiva del sussidio di disoccu- pazione, piuttosto che l’ingresso o il re-ingresso nel lavoro. In questa strategia di promozione della partecipazione al mercato del lavoro, l’altra grande direttrice di riforma promossa dai governi conservatori (non senza ef- fetti distorsivi) ha riguardato la revisione del sistema di indennizzi in caso di per- dita del lavoro. In questa si ritrovano i primi segni dell’impianto workfarista delle politiche di attivazione inglesi, con il rafforzamento delle condizionalità legate alla fruizione dei benefits e con la conseguente riduzione generalizzata del numero dei fruitori del servizio. È importante tenere in debita considerazione le caratteristiche del processo di riforma neo-liberale, perchè è alla luce di queste che si possono cogliere i tratti di discontinuità, ma anche di continuità, messi in opera dai governi del New Labour. In merito agli elementi di rottura rispetto all’approccio neo-liberale, le innovazioni in- trodotte dai governi laburisti hanno riguardato soprattutto l’avvio di programmi di riforma volti alla riduzione dei livelli di povertà nel mercato del lavoro creatisi nei decenni precedenti. La strategia perseguita ha riguardato in questo senso l’innalza- mento dei minimi salariali (nel 1999) e il tentativo rafforzare gli investimenti in capitale umano e formazione professionale (per i mancati nessi di questa azione di riforma vedi più avanti, § 5) per favorire il re-inserimento dei soggetti in stato di 98 disoccupazione. Al raggiungimento di questo scopo sono stati in primo luogo i fat- tori organizzativi, con la riorganizzazione dei JobCentre e la creazione dei Job- Centre Plus, ad avere giocato un ruolo di primo piano nel processo di riforma com- plessiva. È infatti all’interno della nuova struttura organizzativa per la gestione delle politiche di re-inserimento che si sono modificati i meccanismi dell’attivazione, in direzione del miglioramento delle condizioni della partecipazione al mercato del lavoro da parte dei soggetti a più alto rischio di “intrappolamento” nella povertà. In merito a questi cambiamenti, se nell’approccio conservatore lo stato di dis- occupazione era ricondotto agli effetti frizionali del mancato incontro tra domanda e offerta (mismatching) e alla presenza di una quota volontaria di persone che volu- tamente sceglievano di collocarsi fuori dal mercato del lavoro, con la svolta labu- rista il carattere stigmatizzante delle precedenti policy è stato in parte attenuato, ri- conoscendo il nesso esistente tra la deregolamentazione del mercato del lavoro e la crescita dei livelli di povertà e di disoccupazione. Sul piano delle policies, invece, è stato il programma New Deal ad avere rap- presentato la maggiore novità del processo di riforma laburista, con la costruzione di un articolato piano di azioni di re-inserimento per le diverse categorie di soggetti più vulnerabili sul mercato del lavoro: disoccupati di lungo periodo, giovani, per- sone con disabilità, genitori soli. I diversi programmi che al New Deal possono essere ricondotti (vedi § 3.2) hanno posto al centro della propria strategia l’assunto di una più netta distinzione tra soggetti “capaci” e soggetti “incapaci” di integrarsi stabilmente nella società attra- verso la partecipazione al mercato del lavoro. In questo senso, se per i primi gli ob- biettivi della occupabilità e della promozione delle capacità di auto-attivazione sono passati principalmente attraverso la formazione professionale e continua, per i se- condi, maggiormente esposti ai rischi posti dalla combinazione tra partecipazione instabile al lavoro e esclusione sociale, l’obbiettivo dei nuovi programmi è stato quello di rafforzare il sistema dei benefit sociali, spostando il focus degli interventi verso una maggiore e più articolata integrazione tra fruizione delle prestazioni, be- nefici fiscali e partecipazione al lavoro (Esping-Andersen 2002). Al raggiungimento di questo scopo, hanno risposto l’introduzione di maggiori benefici e crediti fiscali per la partecipazione al lavoro. In questa linea di indirizzo va considerata soprattutto la trasformazione nel 1999 del Family Tax Credit nel Working Family Tax Credit: una imposta negativa assegnata per fasce di reddito a chi ha un salario basso, sia ge- nitore o abbia più di 25 anni, ma lavori a tempo pieno. Essendo questa misura legata alla promozione del lavoro full-time, soprattutto per le donne, il tentativo è stato quello di introdurre meccanismi di incentivazione fiscale calibrati sull’obbiettivo di rompere il nesso tra lavoro instabile, bassi salari e vulnerabilità sociale che soprat- tutto per le donne passa per un alto ricorso al part-time (Erhel e Zajdela 2004)29. 29 A questo proposito è importante ricordare come il differenziale tra uomini e donne nella retri- buzione da lavoro part-time sia stata stimata nell’ordine del 40%, ben al di sopra di quello relativo al contratto a tempo di lavoro di indeterminato che si attesta intorno al 18% (Brookes et al. 2006). 99 3. I programmi di attivazione 3.1. La riforma dei JobCentre. I JobCentre plus Nei suoi principi organizzativi la politica di riforma del New Labour ha mirato a integrare in un unico sistema la gestione dei sussidi di disoccupazione e quella dei contributi previdenziali previsti per le persone in condizione di disoccupazione. A tale scopo sono state soppresse nel 2002 le due principali agenzie Employment Service e Benefits Agency, con la costituzione dei JobCentre Plus. La nuova agenzia è stata posta alle dipendenze del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, con il compito della gestione integrata del collocamento, delle politiche per l’occupazione e dell’erogazione dei sussidi di disoccupazione. Tra i benefit gestiti dai JobCentre plus figurano: – Incentivi al re-impiego nella precedente occupazione – Sussidi di disoccupazione e invalidità – Sussidi abitativi – Contributi per l’assistenza (badanti, assistenza cura dei figli genitori poveri e single) Nel conseguimento dell’obbiettivo finale del re-inserimento lavorativo sono previste non solo azioni di formazione professionale, di integrazione al reddito, e forme di incentivazione fiscale, ma anche interventi finalizzati ad intervenire sul piano del disagio psicologico. Oltre alle funzioni svolte dai consulenti del si- stema, è prevista inoltre la figura del mentor, un esperto che assiste i partecipanti ai programmi del New Deal con lo scopo di fornire indicazioni pratiche in merito ai diversi iter burocratici da perseguire per facilitare l’inserimento nel mercato del lavoro. Rispetto all’inquadramento di questo genere di attività nel sistema più generale delle politiche di welfare, è importante sottolineare che l’attività dei JobCentre Plus è strettamente legata sia alle misure di attivazione in senso lato, sia a quelle di politica sociale, la quale tuttavia è misurata e subordinata all’obbiettivo di facilitare l’inserimento lavorativo e la conciliazione vita-lavoro. Accanto a misure di incentivazione fiscale quali il Working Family Tax Credit e la Child Tax Credit (una integrazione al reddito istituita nel 2003 per i genitori che lavorano con bassi redditi), i JobCentre intervengono infatti anche nella ge- stione delle prestazioni previste dalla Child Support Agency. È questo il caso dei genitori soli (il cui figlio abbia meno di sedici anni) in stato di disoccupazione o impiegati con un monte ore non superiore alle sedici ore settimanali. Per essi è pre- vista la possibilità di usufruire della consulenza di un esperto del JobCentre nella ricerca di un lavoro adatto alle esigenze di conciliazione e nel sostegno alla cura dei figli 30. 30 In proposito occorre ricordare le linee guida di riforma del sistema dei servizi all’infanzia pro- mosso dal governo. L’obbiettivo posto dell’incremento del livello di offerta risponde alla necessità 100 La stessa impostazione di policy vale per i partner dei beneficiari dei sussidi. Se infatti fino al 1999, la presa in carico di questi rientrava nelle misure previste per il fruitore della Jobseeker’s Allowance, con l’introduzione del New Deal for Partner, questa categoria di soggetti è stata interessata da specifiche misure di re- inserimento che hanno riguardato soprattutto la consulenza nella ricerca del lavoro e la formazione. Più recentemente questo orientamento di integrazione tra politiche sociali e del lavoro (con le prime subordinate al raggiungimento degli obbiettivi previsti dalle seconde), è stato ampliato anche al sostegno abitativo. Come emerge da alcuni dei più recenti indirizzi di riforma in questo settore (vedi Department for Work and Pensions, 2006), i nuovi Housing Benefits 31 sono stati pensati nella logica di una più stringente connessione e integrazione tra l’attivazione sul mercato del lavoro e il sostegno abitativo. 3.2. Il New Deal Il programma New Deal è stato avviato nel 1997. Esso consiste di specifici programmi di re-inserimento per diversi target di utenti, per i quali sono previsti percorsi di ri-collocazione caratterizzati da differenti combinazioni di sostegno al reddito, formazione e accesso al lavoro. I target group di riferimento del New Deal sono: – giovani di età compresa tra i 18 e 24 anni; – disoccupati di lungo periodo con più di 25 anni di età; – partner di soggetti beneficiari di sussidi – disoccupati over 50; – persone disabili; – genitori soli con figli a carico. I principi cardine del New Deal rimangono all’interno dello schema contrattuale tra soggetto destinatario del servizio e amministrazione. Le condizionalità in questo caso si basano sull’assunto secondo cui, trascorso un certo periodo di tempo, un in- dividuo non può rimanere inattivo o passivo nella percezione del sussidio, ma neces- sariamente deve attivarsi nell’accettazione di un impiego, pena la perdita dell’inden- nità. Questo vale in particolare per i giovani tra i 18 e i 25 anni (New Deal for Young People) e per i disoccupati di lungo periodo (New Deal 25 Plus). di favorire un sistema di politiche per la genitorialità in grado di rafforzare la partecipazione al mercato del lavoro. Lo stesso tema della conciliazione vita-lavoro può essere ricondotto in questa linea di riforma. L’estensione dei benefici previsti per la meternità anche agli uomini è infatti indi- catrice di questo quadro, sicuramente coordinato, di politiche sociali rispondenti però a obbiettivi di politica del lavoro. 31 Attualmente l’Housing Benefit destina aiuti per la copertura delle spese abitative dei disoccu- pati che vivono in affitto. A seconda delle circostanze l’Housing benefit arriva a coprire fino al 100% delle spese per la locazione. 101 La mancata disponibilità alla ricerca attiva del lavoro, o il rifiuto a rendersi disponibile all’accettazione dell’impiego proposto, prevedono per questi target di utenti una serie di sanzioni che si collocano soprattutto sul piano finanziario, con la perdita del sussidio e l’abbassamento ai valori più bassi del sostegno al reddito. Per chi inoltre abbia perso il lavoro senza un motivo ben precisato, o lo abbia rifiutato, la sanzione può variare dal 20% al 40% per un periodo fino a 26 settimane; per 4 settimane nel caso il soggetto non abbia partecipato a programmi di inserimento al lavoro. Per altre categorie di utenti: i genitori soli con figli a carico (New Deal for Lone Parents), i disoccupati over 50 (New Deal 50 Plus), e i disabili (New Deal for Disabled People) le condizionalità sono meno stringenti. Per questi ultimi gruppi di soggetti la partecipazione al programma è infatti volontaria; le stesse finalità non attengono al re-inserimento repentino nel lavoro (talora coatto in caso di rifiuto in- giustificato all’accettazione dell’impiego proposto), ma all’obbiettivo di fornire strumenti in grado rendere più facile e più conveniente la partecipazione al mercato del lavoro. Dunque come si può vedere i programmi del New Deal identificano azioni di re-inserimento che si articolano intorno a gruppi di potenziali utenti alquanto diffe- renziati, ciascuno dei quali portatore di specifici bisogni nel rapporto con l’ammini- strazione. Va da sé che una tale articolazione risponde bene all’esigenza di preve- dere una gamma di strumenti e percorsi di re-inserimento calibrati sulle esigenze dei singoli utenti, con la possibilità di coniugare insieme il sostegno al reddito, la formazione professionale, e alcune prestazioni a carattere assistenziale, così come la possibilità di inserirsi nel mercato del lavoro, ma anche in attività fuori mercato di impegno volontario (per i genitori soli, i disabili, i disoccupati over 50). Il tratto comune a tutti i diversi programmi di attivazione (in continuità quindi con la tradizionale impostazione workfarista) è ad ogni modo il generale orienta- mento all’offerta di queste policies (con un focus di intervento indirizzato al poten- ziamento delle condizioni di occupabilità) all’interno di uno schema che non ap- pare però solo sanzionatorio, o stigmatizzante, ma anche calibrato sull’amplia- mento dei canali di accesso alla “attività” nel senso più ampio del termine. 3.3. Le Employment Zones Una delle caratteristiche più importanti del nuovo sistema di politiche di atti- vazione è il forte ancoraggio al territorio, nelle sue diverse espressioni economiche e associative. L’attività dei JobCentre Plus è inserita infatti in un network di rela- zioni che connettono l’intervento pubblico con il sistema locale delle imprese, delle società di formazione, delle organizzazioni di Terzo settore e del volontariato, dei sindacati. In questo quadro, tra le iniziative di maggiore rilievo a livello territoriale vanno menzionate le Employment Zones (EZs). Queste aree sono dirette a implementare programmi di attivazione volti a com- battere fenomeni di disoccupazione di lunga durata nei mercati del lavoro locali 102 che presentano particolari problemi di svantaggio sociale. Inizialmente (nel 2000, anno della loro entrata a regime) le azioni di inserimento previste dalle Employ- ment Zones erano rivolte a soggetti tra i 25 e i 49 anni, beneficiari della Jobseeker’s Allowance per un periodo compreso tra i 12 e i 18 mesi. Più recentemente sono state estese anche ai giovani compresi tra i 18 e i 24 anni, che abbiano già parteci- pato ai programmi del New Deal. Le Employment Zones sono organizzate secondo l’obbiettivo di arrivare a una efficace combinazione tra azioni di consulenza, orientamento al lavoro e forma- zione, all’interno di network relazionali integrati a livello locale. Questo modello territoriale di politiche di attivazione rappresenta una strategia che fa perno sulla possibilità di beneficiare di una legislazione flessibile prodotta a livello centrale, e tuttavia in grado di garantire ampi margini di coordinamento tra gli attori istituzio- nali e non coinvolti. Da questo punto di vista, l’importanza delle Employment Zones è data dall’essere a livello locale il contesto operativo all’interno del quale i Job- Centre Plus operano nelle aree svantaggiate, attraverso il tentativo di coinvolgere le aziende presenti sul territorio nelle iniziative di re-inserimento e formazione profes- sionale. Mediante un Employer Agreement, le aziende vengono coinvolte nei pro- grammi del New Deal. Con questo, le imprese si impegnano ad accogliere i lavora- tori del progetto di inserimento professionale e, dove possibile, a garantire la prose- cuzione del rapporto di lavoro una volta giunto a termine il periodo di inserimento. Dal punto di vista degli aspetti organizzativi e dei rapporti tra centro e peri- feria, è interessante notare come lo sviluppo di tali programmi sia sottoposto conti- nuamente a un processo di verifica e monitoraggio dato dalla presenza di indicatori di prestazioni misurabili sulla base degli obbiettivi fissati dal Ministero, in termini di produttività, qualità delle prestazioni ed efficienza. 4. Il ruolo della formazione Tradizionalmente il ruolo della formazione in Inghilterra è stato sviluppato al- l’interno di un contesto che, come sottolinea Bednarz (2006, 243), “Ammette alla radice la libertà (e la responsabilità) individuale nei percorsi di professionalizza- zione”. Sia la formazione professionale che quella continua sono infatti state poste, già a partire dagli anni Ottanta, soprattutto sotto la responsabilità dei singoli indi- vidui e delle imprese private. La quota di finanziamenti privati (nonostante la man- canza di una obbligo legislativo al finanziamento della formazione continua da parte delle imprese) è la più alta nel panorama europeo UE 15, l’1% contro una madia dello 0.6%. in questa ottica, bisogna ricordare l’importanza che in questo si- stema hanno i programmi di assessment e di accreditamento delle competenze ac- quisite lungo l’arco della vita, sia all’interno delle imprese che nei servizi per l’im- piego. Questa complementarietà di rapporti tra responsabilità privata nei percorsi di professionalizzazione e certificazione delle competenze è riconducibile a un tipo di regolazione (il National Qualification Framework) che pone grande enfasi sullo 103 sviluppo delle competenze individuali al di là dei percorsi più o meno istituzionali intrapresi dai soggetti. In merito al raccordo tra formazione ed esiti occupazionali, l’obbiettivo di rag- giungere un più alto livello di partecipazione al mercato del lavoro in questi anni è stato senz’altro raggiunto. Tutti gli indici relativi al tasso di occupazione femminile e maschile mostrano livelli che si collocano al di sopra delle medie europee. I pro- blemi da affrontare, semmai, attengono alla produttività e alla qualità del lavoro creato, elementi, questi, legati certamente alla regolazione del lavoro, ma anche, soprattutto, alla formazione professionale e continua. L’inadeguatezza del livello di competenze disponibili sul mercato del lavoro (Freud 2007) si riflette infatti non solo in una più bassa qualità dell’occupazione creata, ma altresì in una minore efficacia e partecipazione alle attività di forma- zione continua. Come mostrato in apertura la spesa per le politiche attive del lavoro arriva allo 0.16% PIL (su una media europea dello 0.69%). Al loro interno, se il 75% dei finanziamenti previsti è assorbito dalle attività di formazione professio- nale, esse tuttavia non sono da associarsi alla formazione continua, quanto piuttosto a quella di breve periodo legata agli obbiettivi posti dal sistema per l’impiego. In questo quadro si colloca l’impianto regolativo del sistema di formazione professionale e dei rapporti formazione-lavoro. A questo livello, le diverse azioni messe in campo dalle agenzie governative e non, fanno parte di una strategia globale di azione articolata in una rete coordinata di interventi tra i diversi livelli di governo, centrali, regionali e locali. L’ottica è stata quella di attivare linee di indirizzo di politica formativa in grado, da una parte, di raccogliere e raccordare, meglio di quanto fatto in passato, la domanda e l’offerta di competenze nei territori più svantaggiati, dall’altro di avviare un percorso di riforma volto al miglioramento del livello generale delle Skills disponibili sul mercato del lavoro. Se dunque da una parte, i programmi di formazione sono stati governati sulla base dell’obiettivo del miglioramento del mismatching tra domanda e offerta di lavoro, con tutta la serie di iniziative di promozione dell’occupabilità soprattutto, sull’altro versante l’azione di riforma (tuttora in corso, e non ancora pienamente sviluppata) ha guardato al problema delle competenze, in un Paese in cui il livello medio della formazione professionale si colloca a livelli più bassi rispetto ai partner europei più avanzati. 4.1. I programmi di Formazione e lavoro: la Skills Alliance Network Nell’ottica dell’integrazione tra le policy e tra gli attori sociali, la Skill Alliance Network del 2003 ha rappresentato uno dei processi di innovazione più importanti nel panorama della formazione professionale inglese. La partnership della Skill Alliance è formata da diversi dipartimenti governativi (Lavoro, Educazione, Com- mercio, Industria e Tesoro), organizzazioni di rappresentanza degli imprenditori e quelle delle organizzazioni sindacali. La struttura costituita è stata in seguito orga- nizzata intorno a una serie di Agenzie, governative e non, che hanno costituito i 104 cardini operativi della strategia nazionale per la formazione. Tra queste, si possono ricordare: – la Basic Skills Agency, agenzia indipendente, il cui compito è quello di svilup- pare le competenze di base tra la popolazione di tutte le età, dai bambini ai giovani, agli adulti; – la Sector Skill Development Agency, una agenzia governativa istituita nel 2002 dotata di propri referenti territoriali, i Sector Skills Councils (SSCs). L’obbiet- tivo di queste strutture, partecipate soprattutto da rappresentanti della parte da- toriale, è quello di rafforzare il complesso delle competenze dei lavoratori, nel- l’ottica della crescita della produttività del lavoro (come è stato messo in evi- denza questo rappresenta uno dei fattori di maggiore ritardo rispetto agli altri Paesi europei). A riprova dell’importanza assunta da queste unità, si consideri che solo nel 2004 sono state avviate 13 SSCs, arrivando a coprire il 75% della forza lavoro (Brookes et al. 2006). Nel campo della formazione professionale merita inoltre di essere menzionato l’Union Learnig Found. Si tratta di un programma che presenta la particolarità di essere stato pensato per rafforzare il ruolo dei sindacati, in qualità di attori partecipi del sistema della formazione. L’obbiettivo è stato in questo senso quello di pro- muovere le possibilità di apprendimento nei luoghi di lavoro, coinvolgendo il sin- dacato nello sviluppo di corsi per la “formazione sul lavoro”. 4.2. New Deal for Skills A supporto del miglioramento del raccordo tra formazione e lavoro, nel 2004 è stato lanciato il New Deal for Skills, un programma che ha previsto incentivi e forme di supporto in raccordo con i JobCentre Plus per il miglioramento delle competenze dei lavoratori scarsamente qualificati. In questo programma i Job- Centre sono stati chiamati a effettuare valutazioni sui livelli delle Skills degli utenti predisponendo in seguito piani personalizzati di formazione finalizzata all’inseri- mento lavorativo. 4.3. UK National Action Plan on Social Inclusion Sempre nell’ottica del miglioramento del livello generale delle Skills, è impor- tante ricordare il Piano Nazionale per l’Inclusione Sociale. Al suo interno, le mi- sure di inserimento lavorativo e sociale per soggetti svantaggiati fanno perno, non solo su interventi di natura fiscale o crediti di imposta, ma anche sull’idea che il pieno inserimento lavorativo e sociale debba essere perseguito attraverso una cre- scita globale dei livelli di formazione, di base soprattutto. In questa ottica, il pro- gramma Skills for life, che rientra nel Piano Nazionale, ha come obbiettivo quello di migliorare il livello di alfabetizzazione della popolazione, e soprattutto le abilità matematiche. 105 4.4. La formazione permanente La formazione permanente, o Lifelong learning, rappresenta l’altro pilastro di iniziative di riforme nel campo della formazione. In questo campo si ritrovano pro- grammi di formazione principalmente per giovani e adulti. Dal punto di vista orga- nizzativo, il monitoraggio della formazione permanente spetta al National Audit Office. Tra le azioni più interessanti sperimentate a questo livello, sicuramente me- ritano di essere messi in evidenza gli speciali prestiti concessi a coloro che, mag- giori di 18 anni, decidano di seguire corsi di formazione professionale per lo svi- luppo della propria carriera. Sempre a questo livello, occorre ricordare il Learning and Skills Council (LSC), un organismo costituito per incrementare il numero dei giovani implicati in attività di formazione e apprendistato, così come favorire la domanda di forma- zione degli adulti. Per quanto riguarda i giovani e il rapporto formazione-lavoro, è utile ricordare qui l’iniziativa del 2002 che ha visto impegnato il LSC nella realiz- zazione di progetti volti a includere il biennio formativo per i ragazzi con più di 16 anni di età in un più ampio programma di formazione/tirocinio. 5. Per concludere: occupabilità e qualità del lavoro nel welfare to work inglese. Una contraddizione apparente? In questa parte conclusiva si possono trarre alcune considerazioni circa i rap- porti tra il sistema delle politiche di attivazione e la formazione, professionale e continua, all’interno del contesto inglese. In merito alle prime, come è stato ampia- mente messo in evidenza, le riforme delle politiche del lavoro di questi ultimi anni, pur mantenendo un certo tipo di impianto workfarista, con la presenza di uno stretto legame tra godimento dei benefici sociali e attivazione nella ricerca del la- voro, hanno in effetti seguito uno sviluppo che ha ampiamente allargato le possibi- lità di re-inserimento, e le stesse opzioni tra formazione e lavoro, tra lavoro per il mercato e lavoro di impegno volontario, almeno per alcuni target di utenti. Questo mutamento, come è stato illustrato, ha risposto a una strategia che ha perseguito fortemente l’obbiettivo dell’allargamento dell’offerta di lavoro e delle occasioni di occupabilità. Certamente, dal punto di vista dei risultati ottenuti, questa linea di ri- forma (tra continuità e innovazione con il precedente indirizzo dei governi conser- vatori) ha avuto effetti positivi sulla crescita dei livelli occupazionali, così come sulla riduzione del numero dei claimants. Ma questo è avvenuto al prezzo della cre- scita dei livelli di disuguaglianza sul mercato del lavoro, essendo stata l’espansione dell’occupazione legata alla polarizzazione dei redditi, e a un incremento occupa- zionale che, accanto al settore finanziario, ha visto espandersi in larga misura le attività del terziario a bassa produttività e bassa qualificazione del lavoro. Il pro- blema della produttività del lavoro, come quello della composizione del mercato del lavoro nella transizione verso l’economia dei servizi, sono centrali in questo 106 processo. Essi non attengono solamente alle dinamiche interne al mercato del lavoro e al sistema produttivo, ma anche a quelle relative alla formazione. Il problema della crescita dei livelli di produttività del lavoro è infatti stretta- mente interrelato all’aumento dei livelli generali della formazione e delle Skills dis- ponibili (sia tra gli adulti, sia tra i giovani) che ancora, nonostante gli sforzi effet- tuati e le intenzioni manifestate dal governo, non sono paragonabili a quelli degli altri grandi Paesi europei. Questo vale in particolare per la formazione continua. Se la spesa in formazione professionale copre gran parte di quella per le politiche at- tive del lavoro, è il livello delle skills disponibili sul mercato del lavoro a mostrare una minore qualità rispetto agli altri partner europei. Certamente su questo molto influisce il basso livello del finanziamento del sistema educativo nazionale da parte dell’attore pubblico. Così come del resto gli elementi di costrittività connessi alle politiche di re-inserimento nel lavoro, con le pressanti condizionalità che legano la fruizione del sussidio di disoccupazione all’accettazione degli impieghi proposti. Ma soprattutto è importante considerare il tipo di formazione che viene erogata. Il criterio di regolazione dominante del welfare to work inglese rimane l’ob- biettivo della rapida ricollocazione nel lavoro e della riduzione degli spazi di dipen- denza dall’assistenza, più che la crescita della qualificazione del lavoro. Dunque, il tipo di formazione erogata in questi programmi risponde soprattutto alla necessità di garantire il re-inserimento repentino nel lavoro dei soggetti più deboli, o in pos- sesso di livelli di competenze medie, e medie-basse, che di più sono esposti ai pos- sibili effetti negativi dell’intrappolamento nell’instabilità del lavoro o in una occu- pazione a bassi salari. Questi soggetti, d’altra parte, costituiscono la larga parte degli individui implicati nei programmi di attivazione. Da questo punto di vista, senza dubbio, il rapporto tra domanda e offerta di formazione appare caratterizzato da una evidente complementarietà. Non ci sono, in altre parole, scollamenti tra il tipo di offerta di formazione che viene erogata in prevalenza (soprattutto una for- mazione di breve periodo pensata per essere immediatamente spesa nella ricolloca- zione al lavoro) e il tipo di domanda proveniente dai target di utenti individuati come destinatari (prioritari) delle misure di attivazione. Quello che invece sembra presidiato in misura minore è il campo dello svi- luppo delle competenze professionali lungo l’arco delle carriere lavorative, soprat- tutto ai livelli medi. Esso costituisce, ad oggi, il problema maggiore per il sistema inglese di formazione-lavoro. La discrasia tra la quota della spesa in formazione professionale nelle politiche di attivazione e il basso livello delle competenze dis- ponibili sul mercato del lavoro sta a testimoniare questo deficit di regolazione delle politiche formative. Su questo sicuramente influisce il basso tasso della spesa in educazione, che da questo punto di vista ha una influenza diretta sulla minore qua- lità globale dell’occupazione. Come noto, infatti, lo sviluppo di una formazione in grado di accompagnare il soggetto lungo tutto l’arco della carriera occupazionale, e di stimolare un percorso di mobilità ascensionale nel mercato del lavoro ha riflessi sulla produttività del lavoro, e sulla qualità della crescita economica. Ma per rag- giungere un tale obbiettivo, non appare sufficiente concentrarsi sui segmenti della 107 forza lavoro già in attività, né tanto meno limitarsi a un intervento che ha come unico metro di valutazione quello del re-inserimento nel lavoro delle fasce più vul- nerabili. Piuttosto, occorre concentrarsi anche sullo sviluppo e il miglioramento delle competenze di base per tutta la popolazione 32. Proprio il conseguimento di questo risultato costituisce uno dei punti cruciali delle linee guida future promosse dal governo nel campo della formazione. Il mi- glioramento della qualità delle Skills disponibili dovrebbe passare in questo caso dallo sblocco di risorse economiche in educazione pari al 5.6% del PIL per gli anni 2007/2008, lo 0.2% in più rispetto al 2004/2005, e lo 0.5% in più rispetto al 2003, ma ancora al di sotto dei livelli fatti segnare dai Paesi che su questo fronte spen- dono di più: Svezia e Danimarca. Tale strategia si dovrebbe inserire in un disegno più complessivo di potenziamento del sistema di Lifelong learning. In definitiva, concludendo, il caso inglese riassume in sé bene la parabola di un Paese che ha certamente ottenuto successi significativi nella capacità di ridurre i fe- nomeni di disoccupazione strutturale, attraverso un impianto articolato di politiche volte a favorire l’occupabilità, ma che tuttavia, anche per il tipo di formazione pre- vista e finanziata nel quadro delle misure di welfare to work, e il basso livello di competenze che esse tendono a riprodurre (nonostante l’efficacia dimostrata nel ri- collocare al lavoro), mostra i problemi maggiori nella qualità e nei tassi di produtti- vità del lavoro. Bibliografia BEDNARZ F., (2006), It’s a long way to Copenaghen. Modelli di formazione professionale in Europa, “La Rivista delle Politiche Sociali”, n. 4, p. 233-259. BROOKES M., DIBBEN P., SARGEANT M., (2006), Mercato del lavoro, in Esperienze internazionali, Regno Unito, Italia Lavoro, Progetto Spinn, Roma. CEDEFOP (2007), United Kingdom, Country Report. 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ESPING-ANDERSEN G., (2002), Why we Need a New Welfare State, Oxford University Press, Oxford. 32 A tale proposito è utile ricordare come in Inghilterra 4.6 milioni di persone non hanno alcun tipo di qualificazione (Freud 2007). 108 EUROSTAT, (2007), Europe in figures Eurostat Yearbook 2006-07, European Community, Luxemburg. FERRERA M., HEMERIJCK A., RHODES M., (2000), The Future of Social Europe, recasting work and welfare in the new economy, Celta Editora, Oeiras. FREUD D., (2007), Reducing dependency, increasing opportunity: options for the future of welfare to work, Department for Work and Pensions, Colegate, Norwich. HEMERIJCK A., (2002), The Self-Transformation of the European Social Model(s), in, Esping-An- dersen G., Why we need a New Welfare State, Oxford, Oxford University Press. ISFOL, (2005), Rapporto 2005 sulla formazione continua in Italia, Relazione al Parlamento. 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In quel libro si analizzavano dunque fenomeni diversi da quelli oggetto in questa sede, e tuttavia l’immagine di sintesi utilizzata per descrivere la complessità e la contraddittorietà del caso italiano ben si attaglia alla descrizione del nostro sistema di welfare attivo, agli sforzi di innova- zione che lo hanno investito in questi ultimi anni, allo scollamento che, come ve- dremo, esiste tra il piano del disegno normativo e la sua attuazione. Per molti anni la letteratura sul social policy si è interrogata sul modello ita- liano di welfare faticando non poco a inserirlo nelle tipologie elaborate. Sebbene esso presenti caratteristiche proprie della cosiddetta Europa sociale mediterranea (Ferrera 1998), non mancano aspetti che lo avvicinino anche al modello continen- tale. Significativamente nella terminologia di Esping-Andersen (2000) l’Italia, in- vero tutta l’Europa mediterranea, è derubricata al rango di variante familistica del modello continentale, coniugando un approccio corporativo, categoriale, nel quale i cittadini più protetti corrispondono a certe tipologie di lavoratori, a un’imposta- zione sussidiaria nei confronti della famiglia, chiamata in prima linea a rispondere ai suoi stessi bisogni di cura, assistenza, tutela, sostegno del reddito. Quale che sia l’etichetta sotto cui raccoglierli e pur nella loro specificità, i welfare latini (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo) paiono accomunati da alcuni tratti fondamentali (Ferrera 1998): sistemi di garanzia del reddito di impronta bismarckiana, altamente fram- mentati lungo demarcazioni occupazionali (in questo vicini ai Paesi del modello conservatore-corporativo, continentale), con prestazioni molto generose per esempio in campo pensionistico, ma senza una rete di protezione minima di base sufficientemente articolata ed estesa, nonostante alcune novità recenti (in Italia per esempio uno schema di reddito minimo è stato introdotto in via sperimentale solo per un breve periodo tra il 1998 e 2000); servizi sanitari universalistici sempre più finanziati tramite il gettito fiscale e sempre meno su base contributiva; un elevato grado di particolarismo sia sul versante delle erogazioni che del finanziamento. Relativamente all’analisi del welfare attivo e dei programmi di attivazione la considerazione appena riportata circa la debolezza di un modello sud europeo e più specificamente italiano sembra assumere un rilievo ancora maggiore. Come so- stiene Barbier (2006), addirittura stenterebbe ancora a delinearsi anche un modello continentale, nonostante qualche segnale in proposito sembri provenire dalla 110 Francia (cfr. cap. 5). Ancora più lontana appare infatti, secondo l’autore, la possibi- lità che si costituisca una variante mediterranea dell’attivazione stante il ritardo su questo terreno dei Paesi che la potrebbero rappresentare, l’Italia su tutti. Per parte nostra, cercheremo di individuare i tratti che caratterizzano il modello italiano, nel- l’ipotesi che possa emergere una sua identità distinta. 1. Il contesto socio-economico e istituzionale L’ultimo rapporto annuale ISTAT (2006) consegna l’immagine di un Paese che ha subito a partire dall’ingresso nel nuovo secolo una fase di stagnazione econo- mica. Come noto, il rallentamento ha coinvolto un po’ tutti i Paesi europei, ma al loro confronto l’Italia ha mostrato una capacità di ripresa più limitata. Cionono- stante non mancano segnali incoraggianti i quali – sulla scorta di un ciclo positivo inaugurato a livello comunitario – suggeriscono che il 2007 segna anche per l’Italia l’ingresso in una nuova fase di crescita, a cui la stessa Commissione Europea e l’OCDE non hanno mancato di dare risalto nelle rispettive sedi istituzionali. I dati del rapporto ISTAT, riferiti al 2005, confermano tuttavia lo stato di incer- tezza in cui versa non solo l’economia, ma tutto il sistema produttivo che mostra tassi di crescita decisamente contenuti, anche se la situazione pare volgere in posi- tivo. Soprattutto mostra, contraddittoriamente, aree di vulnerabilità e stagnazione, e aree vitali capaci invece di performance buone, in particolare nei settori maggior- mente innovativi. Una contraddizione che è segno della complessità del nostro si- stema produttivo che sconta come noto elevati divari territoriali, oltre che settoriali e dimensionali, stante la composizione del tessuto produttivo sbilanciata verso le piccole e piccolissime imprese. Si tratta di divari che dal piano dell’economia si estendono a quello del lavoro e a quello sociale, configurando mercati locali del la- voro altamente differenziati e disegnando una mappa eterogenea relativamente ai fenomeni della povertà, dell’esclusione sociale, e della vulnerabilità che penaliz- zano le regioni meridionali della penisola (Kazepov - Sabatinelli 2002). Contrariamente all’economia, il mercato del lavoro ha mostrato negli ultimi anni un andamento decisamente positivo. Dal 2000 a oggi l’occupazione ha mante- nuto un trend di crescita pressoché costante, con la rilevante novità dell’incremento sensibile dell’occupazione maschile e la riduzione netta della distanza da pressoché tutti i Paesi europei più avanzati, nonostante non sia poca la strada ancora da fare per annullarla e raggiungere i benchmark fissati dalla strategia Lisbona: nel 2005 il tasso di occupazione italiano era al 58,4%, otto punti percentuali al di sotto di quello dell’Europa a 15 (66,1%) e ben dodici dall’obiettivo del 70% fissato dal Consiglio Europeo. Nello stesso arco di tempo è diminuita la disoccupazione ed è cresciuta la par- tecipazione attiva al lavoro. In proposito, se i tassi di disoccupazione registrano va- lori inferiori alla media europea (rispettivamente al 7,7% e all’8,3%), confermando un andamento discendente inaugurato alle soglie del 2000 e proceduto sino ad oggi 111 a ritmi sostenuti, il tasso di attività è cresciuto, ma non altrettanto rapidamente, la- sciando ampio il divario con la media europea (al 63,3% nel 2005, contro una media del 72,1% nell’Europa a 15). Un divario che è ancora più marcato nel caso delle donne, tra le meno attive in Europa (solo una su due per un tasso del 50,7% vs 64,0% sempre nel 2005). Ne discende una partecipazione al lavoro della popola- zione in età attiva ancora contenuta, ciò che spiega in parte come si sia potuto regi- strare un calo così netto del tasso di disoccupazione. Tale fenomeno appare partico- larmente evidente soprattutto al Sud, dove la riduzione della disoccupazione fem- minile si è accompagnata alla contrazione dell’offerta di lavoro (MLPS 2007). Come è stato notato, hanno probabilmente influito sull’andamento occupazio- nale positivo l’applicazione della legge 189/2002 Bossi-Fini e la sanatoria succes- siva (L. 222/2002), le quali hanno favorito l’emersione di una parte rilevante del la- voro irregolare. Un incentivo è sicuramente provenuto anche dalla legge finanziaria del 2001 e la conseguente attivazione del credito di imposta finalizzato a incenti- vare il lavoro dipendente a tempo indeterminato, producendone una ripresa nei primi anni del decennio in corso (ISFOL 2006). Si tratta però di dispostivi che sembrano aver cessato il loro effetto di traino, e dunque anche altrove vanno ricer- cate le spiegazioni di questa crescita. È interessante rilevare per esempio che la componente principale nella crescita occupazionale riguarda i lavoratori con più di 50 anni di età per i quali incidono sia le misure adottate per allungare la perma- nenza al lavoro degli ultra cinquantenni e l’aumento dei requisiti di età e di anzia- nità contributiva per il pensionamento, sia gli effetti demografici legati all’ingresso nelle fasce d’età più alte di coloro che hanno iniziato a lavorare più tardi rispetto alle generazioni precedenti (MLPS 2007). In un’ottica di più lungo periodo, su tale crescita occupazionale hanno certa- mente influito il consolidamento e l’ampliamento delle opportunità di impiego ati- pico disciplinati dalla L. 30/2003 33, nota come “Legge Biagi”, la quale – fra l’altro – ha sancito la fine del monopolio pubblico dei Servizi per l’Impiego, ha avviato la Borsa nazionale del lavoro per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, e riordi- nato i contratti a finalità formativa. Senza voler sovrastimare il peso di questa ri- forma sulla struttura occupazionale italiana (a tutt’oggi i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato restano comunque quasi il 90% del totale dei dipendenti), va sottolineato che essa ha interessato alcune fasce peculiari della forza lavoro, in specie i giovani per i quali un impiego atipico è ormai il canale “normale” di ac- cesso al mercato del lavoro, e le donne che subiscono di più gli effetti ambivalenti della diffusione dei lavori non standard. 33 Ridefinendo le forme di lavoro non standard già esistenti – come il lavoro interinale, divenuto lavoro somministrato – e introducendo nuove formule contrattuali che non hanno poi avuto la diffu- sione immaginata: lavoro intermittente (job on call); lavoro a coppia o job sharing; lavoro a progetto, per coloro che svolgono un “lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione” e per il quale sono previste maggiori tutele; lavoro occasionale e accessorio (acquistabile tramite appositi voucher), ovvero un’attività lavorativa sporadica, svolta da soggetti a rischio di esclusione sociale o non ancora nel mercato del lavoro o prossimi all’uscita. 112 La flessibilizzazione del mercato del lavoro italiano infatti si è determinata so- prattutto in entrata, agevolando l’ingresso dei giovani, i quali però restano i più svantaggiati nell’accesso al primo impiego, i più esposti ai rischi di disoccupazione e precarizzazione almeno in questa fase iniziale della carriera, disegnando percorsi verso l’occupazione stabile spesso lunghi e frammentati (Zucchetti 2005); mentre per le donne la flessibilizzazione rappresenta soprattutto uno strumento di innalza- mento del tasso di occupazione e di partecipazione attiva al lavoro, tipicamente per le fasce d’età adulte, offrendo loro maggiori opportunità di conciliazione con le re- sponsabilità familiari. Non per caso, più che a forme di lavoro instabile e atipico, tale flessibilizzazione “al femminile” si è coniugata alla diffusione del part time. La relativa maggiore stabilità di queste opportunità occupazionali, tuttavia, non na- sconde meno lati oscuri del lavoro instabile (che comunque è più diffuso tra le donne): turni scomodi, mutevoli, difficoltà di carriera e di investimento professio- nale, limitazioni di reddito e di accantonamento ai fini previdenziali (ibidem). Un segnale positivo importante di cambiamento che interessa direttamente anche il mercato del lavoro deriva dall’innalzamento generalizzato del livello di istruzione della popolazione e della forza lavoro. Il noto gap tra l’Italia e gli altri partner europei è ancora ampio in specie sui livelli più elevati del sistema forma- tivo. L’istruzione terziaria resta appannaggio di una quota minoritaria della popola- zione (circa l’11% della popolazione adulta; OECD 2006), ma indubbiamente le ri- forme recentemente attuate nel sistema di istruzione e formazione, e soprattutto nel sistema universitario stanno producendo un prolungamento diffuso della scolarità. Il cambiamento in atto emerge con chiarezza se si guarda come è mutata la compo- sizione della forza lavoro per titolo di studio conseguito. Più in particolare ancora, l’incidenza tra gli occupati di persone in possesso di titolo di studio di livello ter- ziario (accademico e non) è salita dal 9,6% del 1995 al 12,2% del 2000 al 14,4% del 2005. La distanza con il resto dell’Europa è ancora netta (il valore dell’Unione a 15 si attesta al 26,4%), ma il tasso di crescita della scolarizzazione italiana ha am- piamente ridotto il divario nel corso dell’ultimo decennio (+ 49,7%) e il trend è de- stinato a confermarsi positivo con il progressivo ingresso nel mercato del lavoro delle nuove generazioni (ISTAT 2006). Per contro, non altrettanto incoraggiante è la constatazione che circa 3,4 milioni di occupati (il 16,6% del totale, di cui la metà giovani fino ai 34 anni d’età) svolgono un lavoro che offre un inquadramento e ri- chiede conoscenze non in linea con il titolo di studio conseguito, determinando uno sperpero di capitale umano soprattutto nella fase di ingresso nel mercato del lavoro; un fenomeno che tuttavia si riduce decisamente con il passare degli anni dal mo- mento dell’uscita dal sistema formativo, segno che dopo un avvio difficoltoso della carriera lavorativa la speranza di far valere le proprie credenziali e le proprie com- petenze cresce notevolmente: a dieci anni dal conseguimento del titolo, la quota di sotto inquadrati scende al 9,1% (ibidem). Parimenti importante per comprendere alcune dinamiche del mercato del la- voro e addentraci nelle politiche di welfare attivo è l’analisi del trend demografico che, pur a fronte di qualche piccolo segnale di cambiamento, non è di segno posi- 113 tivo. Riferendoci sempre ai dati ISTAT (2006), mentre complessivamente la popo- lazione negli ultimi anni ha ripreso leggermente a crescere, grazie al saldo positivo determinato dall’arrivo degli immigrati (in prevalenza giovani) e al leggero im- pulso registrato dalle nascite (nel 2005 erano oltre 58,7 milioni le persone residenti; 2.270mila i permessi di soggiorno per stranieri rilasciati al 1° gennaio 2004), quello italiano è un popolo che continua a invecchiare, trovandosi così saldamente all’ultimo posto della graduatoria europea. Seppure gli stessi fenomeni che hanno influito sulla crescita dei residenti (immigrazione e nuove nascite) hanno determi- nato un rallentamento del trend di invecchiamento, esso non pare in grado di inver- tire la marcia né di fermarsi. L’indice di vecchiaia, ovvero il rapporto tra le persone con oltre 65 anni e la popolazione in età attiva (15-64 anni) è salito al 137,7% nel 2005 (contro il 127,1% del 2001). Parimenti, l’indice di dipendenza, ovvero il rap- porto tra la popolazione in età non attiva (fino a 14 anni e oltre 65 anni) e la popo- lazione in età attiva si è attestato al 50,7% (contro il 48,4% del 2001), con conse- guenze evidenti, e ampiamente dibattute, sulla sostenibilità del nostro sistema di protezione sociale e in particolare del sistema pensionistico, ma anche sulle poli- tiche attive del lavoro, dentro le quali comincia a farsi spazio una sensibilità speci- fica per la questione del cosiddetto “invecchiamento attivo”. Parallelamente molto basso resta il tasso di fecondità, che lascia l’Italia tra i Paesi in fondo alla gradua- toria europea anche per numero di figli per donna (1,3 nel 2005; in leggero rialzo: era 1,2 nel 1999). In altre parole, il nostro Paese appare ancora nel bel mezzo di quella che la letteratura definisce la seconda transizione demografica, e si trova dunque a doverne fronteggiare le ricadute sul piano del welfare, in termini di nuovi bisogni e nuovi rischi sociali (Kazepov - Sabattinelli 2002). Un’ultima considerazione di quadro, che occorre porre a premessa, riguarda alcuni aspetti di tipo normativo, politico e istituzionale relativi alla regolazione del mercato del lavoro. Senza entrare nel merito dell’annosa questione sulla rigi- dità/flessibilità del mercato del lavoro e sul costo che il lavoro ha nel nostro Paese, vale la pena sottolineare che la modernizzazione del sistema di protezione dai ri- schi occupazionali è iniziata in Italia fin dalla metà degli anni Ottanta, con una vera e propria svolta verso le politiche attive. Ma è certamente negli anni Novanta che tale processo ha ricevuto una spinta determinante, grazie anche ad alcune novità: la nuova centralità assegnata alla concertazione tra Governo e Parti sociali sin dall’ac- cordo per il lavoro del 1993; il maturare di un approccio promozionale, selettivo e locale alle politiche del lavoro nel dibattito scientifico (Zucchetti 1996); il “Patto per il lavoro” del 1996 e il successivo “Patto di Natale del 1998” che hanno posto le premesse per una strategia occupazionale innovativa rispetto agli strumenti di in- tervento, in accordo con il clima che veniva delineandosi in sede comunitaria so- prattutto a partire dal lancio della strategia europea per l’occupazione (Ferrera 2006), come in tutti gli schemi di welfare to work. Sull’onda di questo nuovo orientamento sono state varate importanti riforme di tipo legislativo e istituzionale, inaugurate un lato dalla L. 196/97 in materia di pro- mozione dell’occupazione (nota come “Pacchetto Treu”), al cui centro si situano 114 l’introduzione del lavoro interinale, la liberalizzazione dell’intermediazione della manodopera e il risalto dato alla formazione come strumento di politica attiva; dal- l’altro lato dalla legge 59/97 che avvia la riforma della pubblica amministrazione; e poi dai decreti legislativi concernenti in particolare l’attuazione del trasferimento alle Regioni e alle Province di competenze in materia di mercato del lavoro e for- mazione (D.lgs. 469/97 e 112/98). Tali riforme sono state portate a compimento, quantomeno sul piano normativo (diversi aspetti attendono ancora concreta attua- zione), nel nuovo decennio: per citare solo le tappe più importanti, si pensi alla ri- forma del Titolo V della Costituzione (L. 3/2000) che disegna un nuovo assetto isti- tuzionale delle Regioni e degli Enti locali e, conferendo dignità costituzionale al principio di sussidiarietà, delinea un nuovo rapporto tra Regioni, Stato e Unione Europea; alla riforma del collocamento pubblico (D.lgs. 181/2000) dello stesso anno; nonché all’ulteriore spinta alla flessibilizzazione del mercato del lavoro rea- lizzata con la L. 30/2003 sopra ricordata; infine, alle norme che hanno innescato lo sviluppo della formazione continua e permanente, sulle quali ci fermeremo tra breve: la legge sui congedi formativi e parentali (L. 53/2000) e quella sui fondi in- terprofessionali (L. 388/2000). Nello stesso solco di riforma si inserisce il tentativo di ridefinizione delle politiche passive avviato alla fine del decennio novanta (L. 144/1999), purtroppo per molti aspetti lasciato incompleto nonostante non siano mancate le proposte. Tale legge, accanto a una razionalizzazione degli strumenti di intervento e tutela, e a una revisione delle tipologie di beneficiari, ha introdotto il principio di “condizionalità” che stabilisce l’interruzione dei trattamenti di sostegno in caso di rifiuto da parte del beneficiario di partecipare a iniziative di orientamento e formazione eventualmente proposti dai servizi per l’impiego (Ferrera 2006). Complessivamente, ne è discesa una riorganizzazione generale delle compe- tenze in materia di mercato del lavoro, in un’ottica di decentramento a livello lo- cale, ma anche una spinta verso lo sviluppo delle politiche attive, in particolare quelle formative. 2. Origini ed evoluzione del welfare attivo Ricostruire il sistema italiano di welfare attivo non è semplice. Il problema non è tanto quello di individuare i tratti che lo qualificano, e che eventualmente lo pos- sano differenziare dagli altri modelli europei. Il problema, piuttosto, è ricondurre tali elementi a un disegno complessivo. Non appena ci si addentra nell’analisi, in- fatti, subito emerge la molteplicità dei fronti di azione sviluppati in questi anni ma anche la loro frammentazione. Non mancano le riflessioni in proposito. Tra i tentativi di modellizzazione più noti – oltre a quelli già citati di Ferrera (1998), che colloca il caso italiano tra i wel- fare latini, e di Esping-Andersen (2000), che invece si riferisce alla variante medi- terranea, familistica del modello continentale corporativo – merita di essere ripresa la proposta di Kazepov (2006) che, pur riconoscendo al pari degli altri l’imposta- 115 zione familistica come elemento distintivo, ovvero la centralità della funzione di ammortizzatore sociale assegnato alla famiglia, evidenza la rilevanza del Terzo set- tore tra gli attori del welfare. Le funzioni che il no profit assolve sono molteplici anche se esso si muove prevalentemente in un’ottica di sussidiarietà e supplenza nei confronti della famiglia e dello Stato, entrando in campo quando la prima fal- lisce, e il secondo propone risposte che risultano insufficienti. Certo la configura- zione di un welfare mix (dove tutti gli attori del welfare – Stato, mercato, famiglia, società civile – sono a vario titolo coinvolti nel perseguimento del benessere dei cittadini) non è una esclusività solo italiana. Il caso italiano tuttavia si configura tra i più interessanti a livello internazionale per la capacità del privato sociale di muo- versi in un’ottica non solo suppletiva, ma anche integrativa con lo Stato, per la sua capacità di farsi interprete dei bisogni emergenti e di partecipare ai processi di po- licy making (Boccacin 2005). Una capacità riconosciuta e di fatto promossa sul piano normativo con la legge 328/2000 in materia di politiche sociali, che guarda esplicitamente alla partecipazione della società civile in un’ottica di attivazione ed empowerment dei cittadini, interpretando la nozione di cittadinanza attiva in modo ampio, non riferita al solo lavoro. Tuttavia al di là della caratterizzazione familistica e corporativa, e della rile- vanza assegnata al Terzo settore, se ci si addentra nell’analisi del welfare attivo e, con riferimento specifico alle problematiche occupazionali, al welfare to work, di- venta più difficile far emergere la specificità del modello italiano perché a ben ve- dere l’eterogeneità delle misure previste riflette, almeno sulla carta, un orienta- mento universalistico e insieme liberale, corporativo e categoriale. Se i tentativi di riforma avviati in questi anni (e gli spezzoni già realizzati) si sono spesso richia- mati apertamente all’approccio della flexicurity promosso a livello europeo, la dis- continuità di cui i processi di innovazione hanno sofferto, e ancor più la frammen- tazione che caratterizza il sistema sul piano regionale e persino provinciale (se si considerano alcuni servizi e dispositivi decentrati a livello locale) rendono difficile coglierne il disegno complessivo. Emblematicamente il sistema di cittadinanza sociale presenta differenze territoriali sostanziali, configurando pacchetti di diritti fra loro anche molto diversi (Kazepov - Sabattinelli 2002). Lo stesso accade per quanto riguarda la cittadinanza economica, e non solo per l’eterogeneità dei mer- cati locali del lavoro, ma perché i servizi legati alle politiche attive, decentrati ai livelli amministrativi inferiori, configurano standard di efficienza e qualità altret- tanto disomogenei. Si potrebbe dire che l’orientamento progressivo verso un ap- proccio locale (e federalista) perseguito sul piano normativo, se da un lato si sposa con l’articolazione territoriale del Paese, al contempo ne enfatizza – e rischia di radicalizzarne – le differenze preesistenti. Per la ricostruzione del modello italiano di welfare attivo può essere utile par- tire da due documenti pubblicati tra il 2000 e il 2001 che offrono le coordinate di lettura della transizione che ha caratterizzato il decennio Novanta, un decennio di progressiva “ricalibratura normativa” delle politiche del lavoro in direzione di un approccio decisamente più promozionale (Ferrera 2006, 154), come sostenuto a li- 34 Anche se - si segnala nel documento - nell’ambito delle politiche attive sono gli incentivi all’occupazione a concentrare la quota di risorse maggioritaria, e gli incentivi all’autoimpiego rivolti ai giovani sono stati considerati una best practice a livello europeo. 116 vello europeo. Si tratta del “Rapporto sul welfare to work in Europa e la lotta contro la disoccupazione” (Boeri - Layard - Nickell 2000) più noto come “rapporto Blair-D’Alema”, all’epoca Ministri del lavoro rispettivamente in Inghilterra e Italia, i quali se ne fecero portavoce a livello comunitario, e del “Libro bianco sul mercato del lavoro” (Biagi - Sacconi 2001) pubblicato nel nostro Paese dal Mini- stro del welfare allora in carica, Maroni. Il rapporto sul welfare to work offre una analisi sintetica dello stato del sistema italiano di protezione sociale riferito ai rischi del lavoro, denunciando come esso sia ancora troppo legato a un modello di mercato del lavoro e di società fordista, non più attuale. Tale sistema è stato a lungo incentrato sulla figura del male bread- winner, il capofamiglia maschio, adulto, occupato a tempo pieno e indeterminato, unico percettore di reddito, in un quadro di regolazione del mercato del lavoro ri- gido, che da un lato tutelava i lavoratori in merito all’occupazione, grazie a norme molto restrittive sul licenziamento e alla sicurezza del reddito garantita dall’eroga- zione di indennità elevate, mentre dall’altro lato offriva in cambio ai datori di la- voro pace sociale e dedizione della forza lavoro. Esso però mostra negli anni re- centi tutti i suoi limiti, rivelandosi anacronistico e incapace di rispondere alle esi- genze che il mutato assetto del sistema produttivo, occupazionale, familiare e so- ciale esprime. La terziarizzazione, flessibilizzazione e femminilizzazione del mer- cato del lavoro, la fragilizzazione e diversificazione delle famiglie, l’invecchia- mento della popolazione pretendono infatti una radicale revisione dei servizi, dei dispositivi di protezione che servono a tutelare dai nuovi i rischi sociali le nuove categorie di svantaggiati e bisognosi. Il rapporto citato mette a nudo tale inadegua- tezza: nel raffronto con gli altri Paesi europei, l’Italia spende troppo poco nelle po- litiche attive per il lavoro, di contrasto alla disoccupazione e di creazione di nuove opportunità occupazionali 34, con una spesa che resta sbilanciata a favore delle poli- tiche passive di sostegno del reddito. Gli imperativi emergenti in termini di poli- tiche sono allora quelli della flessibilizzazione del mercato del lavoro e della attiva- zione, in linea con la filosofia di fondo del welfare to work che nella sua proposi- zione più “alta” mira a coniugare flessibilità e sicurezza. Non più sicurezza del posto di lavoro, ma sicurezza nel mercato del lavoro, tramite l’innalzamento del tasso di occupazione – un’occupazione di qualità – e il sostegno alla piena occupa- bilità lungo l’arco della vita attiva (Supiot 2003). È questa la linea sposata esplici- tamente anche dal successivo “Libro bianco sul mercato del lavoro”, che prefigura specifiche linee di azione: rafforzare le politiche di istruzione e formazione profes- sionale, migliorare i servizi di incontro tra domanda e offerta di lavoro; mettere mano alla riforma degli ammortizzatori sociali e agli incentivi all’occupazione; au- mentare il grado di flessibilità del mercato, specie in entrata, favorendo l’utilizzo delle forme di lavoro flessibili e definendone di nuove. Linee di azione che trove- ranno in parte attuazione nella L. 30/2003 e nel relativo decreto attuativo D.lgs. 117 276/2003, e prima ancora con il D.D.L. 848/2001 che proponeva anche la revisione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori in materia di licenziamenti per le imprese con oltre 15 dipendenti. A dispetto dell’invito esplicito al dialogo sociale proposto come “metodo” dallo stesso Libro bianco secondo la logica europea, per dare mag- gior concretezza al confronto tra le parti sociali di quanto non si fosse riusciti a fare con la concertazione, gli anni che seguono sono connotati da dibattiti accesi, dalla giustapposizione fra gli schieramenti che sostengono la linea di riforma delineata e quelli che ne denunciano l’approccio eccessivamente liberale (che accentua preca- rizzazione e insicurezza sul mercato del lavoro), dalla rottura dell’unità sindacale, e dallo scontro politico esacerbato tra chi sostiene che il Libro bianco sia in linea con il piano di riforma avviato con il precedente Governo di centro-sinistra e chi invece ne intravede una deriva di segno opposto 35; un clima che il nuovo “Patto per l’Italia” del 2002 sconterà nel perdurare della divisione sindacale e nella indetermi- natezza delle proposte in esso avanzate (Ferrera 2006). In estrema sintesi, comunque, i risultati di questi anni di riforme discusse e in parte avviate possono leggersi in almeno tre direzioni: la spinta alla flessibilizza- zione del mercato del lavoro; la liberalizzazione dei soggetti titolati ad agire nelle funzioni di incontro domanda-offerta; il rafforzamento dell’intreccio tra politiche formative e politiche occupazionali e del lavoro. Sullo sfondo restano la revisione degli ammortizzatori sociali e il rafforzamento dei servizi sociali necessari a sup- portare l’attivazione della popolazione (in specie quella femminile), come quelli per la conciliazione tra lavoro e famiglia. Un rapporto di ricerca presentato da Italia Lavoro nel 2006 sul welfare to work in Europa denuncia la posizione italiana in fondo alla graduatoria dei Paesi europei per una serie di indicatori: la cifra destinata alla lotta alla disoccupazione e alla creazione di nuove opportunità raggiunge appena l’1,2% del Prodotto interno lordo (PIL), contro una media UE del 2,3%, il 3,3% della Germania e il 4,3% della Dani- marca. Certo l’Italia ha cercato di allinearsi sul piano normativo agli altri Paesi per combattere la cosiddetta “trappola della disoccupazione” attraverso dispositivi tesi al ricollocamento del lavoratore nel più breve tempo possibile, come i servizi per l’impiego e le azioni di formazione; nonché mediante prestazioni di sostegno limi- tate per entità e durata; l’istituzione della clausola della condizionalità per la frui- zione di benefici e servizi da parte di lavoratori disoccupati, in mobilità e cassa inte- grazione; l’introduzione di meccanismi sanzionatori che escludono dalle prestazioni del welfare non solo, evidentemente, quanti non presentano le caratteristiche del target di riferimento (secondo il principio della selettività), ma che non ottemperano ai doveri connessi. Ciononostante, recita il rapporto, le risorse dedicate paiono an- cora insufficienti: i finanziamenti destinati ai servizi per il lavoro rappresentano lo 0,03% del totale delle spese per le politiche del lavoro, mentre in Danimarca sono lo 0,11%, in Francia lo 0,15% e nel Regno Unito lo 0,23% (Italia Lavoro 2006). 35 In tale scenario, come noto, il 19 maggio 2002 viene tragicamente assassinato dalle Brigate Rosse il giuslavorista bolognese Marco Biagi, uno degli estensori del Libro bianco. 118 I dati più recenti non mutano il quadro. Secondo l’ultimo rapporto di monito- raggio sulle politiche occupazionali e del lavoro del Ministero del lavoro (MLPS 2007), la spesa complessiva in materia di politiche del lavoro è stimabile per il 2005 in circa 17 miliardi di euro, in leggero aumento rispetto all’anno precedente, ma con un divario crescente tra politiche attive e passive a discapito di quelle attive (le prime raccolgono il 57% della spesa complessiva): le risorse dedicate agli stru- menti di sostegno del reddito ammontano 9,8 mld di euro (0,69% del PIL) mentre quelle rivolte alla promozione dell’occupazione raggiungono quota 6,6 mld di euro (0,46% del PIL). Se pure le politiche passive assorbono la maggior parte delle ri- sorse, e in esse la quota prevalente è dedicata alle indennità di disoccupazione, ciò non significa che in rapporto al PIL e agli altri Paesi europei tale investimento sia elevato. Al contrario il nostro è il Paese con il più basso tasso di investimento nel- l’assistenza passiva alla disoccupazione. Ancora diversamente da quanto accade in altri Paesi, in Italia la spesa per le misure di promozione dell’occupazione è in ge- nere per lo più collegata agli incentivi alle assunzioni (anche se non particolar- mente mirati, essi raccolgono a tutt’oggi il 76% delle risorse investite nelle poli- tiche attive, pari a circa 5 mld di euro). In modo inaspettato, nell’attuale fase di cre- scita dell’occupazione e diminuzione della disoccupazione essi hanno subito una contrazione, scontando probabilmente un calo della tensione politica sul tema, come dimostrato anche dall’abbandono di schemi di incentivazione come il credito di imposta (il c.d. “bonus occupazione”) per nuova occupazione e lo sgravio trien- nale per le nuove assunzioni nel Mezzogiorno. Nella contabilità delle politiche at- tive rientrano anche le risorse per le politiche per l’autoimpiego e l’imprenditoria- lità (stabilizzate ai 600 milioni di euro, pari circa il 9% del totale) e le spese per orientamento e formazione professionale, largamente cofinanziate dai fondi comu- nitari (con una spesa pari a oltre 700 milioni nel 2005, ovvero oltre il 10% delle po- litiche attive). Peraltro, le spese per la formazione hanno subito un deciso calo dopo un boom nel 2003, in chiusura del primo triennio di programmazione del Fondo sociale europeo nella tornata 2000-2006 (ibidem). Secondo i dati Eurostat ri- feriti al 2004 l’Italia ha speso nella formazione lo 0,23% del PIL contro una media dell’Europa a 15 dello 0,26 (Eurostat 2007). 3. I pilastri del welfare attivo Provando a ricondurre le considerazioni sin qui svolte alle misure che conno- tano il modello di welfare attivo italiano, possiamo rifarci ai suoi tre pilastri princi- pali: le politiche attive del lavoro; le politiche passive legate alla (dis)occupazione; i servizi sociali di attivazione. 3.1. Le politiche attive del lavoro Il pilastro delle politiche attive del lavoro si mostra piuttosto articolato e com- posto, nel dettaglio, da alcuni filoni di intervento che mirano a una maggiore mobi- 119 lità occupazionale e professionale e a una maggiore flessibilità delle condizioni di ingresso e di uscita dal mondo del lavoro (cfr. Di Domenico 2005; Ferrera 2006; MPLS 2007). Esse riguardano ambiti alquanto diversificati. 1) Promozione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro attraverso azioni tese a facilitare concretamente il contatto tra imprese e lavoratori, la raccolta e l’analisi dei fabbisogni dei primi e le esigenze, le competenze, le caratteri- stiche dei secondi. Si inserisce in questa prospettiva l’istituzione della Borsa continua nazionale del lavoro per la raccolta on-line di dati e informazioni re- lativi a domanda e offerta utili per agevolare l’incontro tra i due versanti del mercato. Nella stessa direzione va la riforma dei servizi pubblici per l’impiego e del collocamento pubblico, su cui torneremo tra breve. 2) Informazione, tutoraggio, orientamento professionale, elaborazione di piani individuali di inserimento di giovani e adulti, con l’obiettivo di migliorare le capacità di scelta autonome degli individui, la loro informazione circa le carat- teristiche del mercato e la consapevolezza relativamente alle loro capacità e possibilità. 3) Sostegno dell’inserimento lavorativo dei disoccupati, dei lavoratori in mobilità e degli inoccupati di lunga durata attraverso iniziative di formazione e riquali- ficazione, informazione e orientamento, bilancio di competenze. Nel caso dei lavoratori disoccupati la partecipazione è generalmente incentivata da benefici monetari. 4) Stage e tirocini d’inserimento, a volte accompagnati da incentivi all’assun- zione per le imprese, in particolari situazioni e per specifici target di lavoratori. 5) Sostegno all’inserimento al lavoro dei giovani, tramite stage e tirocini, le forme di contrattuali a causa mista (in specie l’apprendistato), i dispositivi di alternanza scuola lavoro, i contratti di inserimento (che, introdotti in sostitu- zione dei contratti di formazione e lavoro, hanno però perso la valenza forma- tiva e sono da annoverare nel pacchetto degli incentivi all’assunzione e riguar- dano non più solo i giovani, ma in generale i soggetti deboli da (re)inserire nel mercato del lavoro in aree economicamente svantaggiate), infine i piani di in- serimento professionale (PIP) previsti per giovani che cercano lavoro in aree svantaggiate: si tratta di esperienze lavorative sussidiate (con indennità) per un massimo di 12 mesi, al termine delle quali l’impresa può godere di incentivi all’assunzione. 6) Incentivi all’autoimprenditorialità e all’autoimpiego (si pensi al D.lgs. 185/2000 in attuazione alle disposizioni della L. 144/1999; e al D.M. 295/2001), con particolare attenzione per i giovani e per le aree depresse. 7) Promozione dell’occupazione femminile, al fine di ridurre la segregazione delle donne nel mercato del lavoro, diminuire le differenze salariali tra uomini e donne a parità di mansioni, innalzare i tassi di attività femminili; il riferi- mento normativo è in particolare la legge per l’imprenditoria femminile e le pari opportunità (Legge 125/91). 120 8) Inserimento dei lavoratori disabili attraverso misure di tipo promozionale, le- gate a un sistema di collocamento mirato e nominale (L. 68/1999) e a progetti di integrazione finanziati anche con il concorso del Fondo sociale europeo. 9) Interventi a sostegno dell’invecchiamento attivo attraverso misure program- mate a livello regionale, nel solco di una sensibilità crescente inaugurata dalla L. 30 del 2003 (Mirabile 2006). Da segnalare al riguardo l’attuazione del “Pro- gramma Pari” per il reimpiego di lavoratori svantaggiati, rivolto prevalente- mente ai disoccupati over 45, attuato con il coinvolgimento delle amministra- zioni decentrate e finanziato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Esso ha esitato nell’apertura di 170 sportelli di “welfare to work” come li ha definiti Italia Lavoro, l’agenzia tecnica del Ministero che ha realizzato l’inizia- tiva, sportelli che oltre a erogare servizi ah hoc sono chiamati a monitorare i bacini di lavoratori percettori di ammortizzatori sociali e il rispetto delle condi- zionalità da parte dei beneficiari. Vero e proprio programma di attivazione, mira a sostenere il passaggio dall’assistenza sociale al lavoro, predisponendo un’azione combinata tra incentivi per le imprese che assumono i disoccupati, voucher per la formazione, dispositivi di sostegno del reddito (ISFOL 2006) 36. 10) Lavori socialmente utili, ovvero, nel linguaggio europeo, schemi di creazione diretta di lavoro. Si tratta di un istituto che, nato per supportare i disoccupati di lungo periodo, difficilmente ricollocabili, oggi è in esaurimento 37. Dopo che il Pacchetto Treu del 1997 aveva tentato un suo rilancio, valorizzandone la capa- cità di fungere come dispositivo di job creation, nel 2000 è stata sancita la sua terminalità e l’esigenza di procedere al “defintivo svuotamento del bacino”, promuovendo il riassorbimento dei lavoratori sussidiati, tramite regolare as- sunzione nel mercato. Merita comunque di essere citato come esempio di azione di lotta alla disoccupazione di lunga durata, tramite la creazione diretta di posti di lavoro e insieme la valorizzazione delle opportunità occupazionali nelle attività non di mercato, di pubblica utilità; un terreno di azione sul quale occorrerà tornare a intervenire con nuovi strumenti. 36 Qualche dato in merito: il Programma finanziato nel 2005-2006 con 70 milioni di euro, do- vrebbe concludersi nel 2007; coinvolge 25.000 lavoratori disoccupati, over 45 ma anche donne e lavoratori immigrati. Di questi, 20.000 percepiscono un ammortizzatore sociale e 5.000 non rice- vono alcuna forma di sussidio: ai primi spetta un voucher formativo di 1.000 euro, ai secondi anche un’integrazione per 10 mesi di 450 euro mensili. Sono previsti parallelamente vantaggi per le imprese che assumono lavoratori che non usufruiscono di ammortizzatori sociali. Al programma aderiscono anche con propri finanziamenti quasi tutte le Regioni italiane, mentre sono coinvolte direttamente 70 Province (ISFOL 2006). 37 Rientrano tra di essi sia le attività tese alla realizzazione di opere e alla fornitura di servizi di utilità collettiva, mediante l’utilizzo di lavoratori in mobilità o in cassa integrazione guadagni straor- dinaria o in disoccupazione speciale; sia i progetti di utilità pubblica di soggetti in cerca di prima occupazione o disoccupati. La loro prima introduzione risale al 1994 (L. 451), ma è la riforma del 1997 che ha cercato di restituire la vocazione di strumento di occupabilità e non di mero sostegno del reddito, introducendo il vincolo cogente della sanzione per i lavoratori che rifiutano di essere ricollo- cati. A scavalco del nuovo decennio si sono cercate le modalità per la loro chiusura (L. 144/99 e D.lgs. 81/2000). 121 3.2. Le politiche passive riferite al lavoro Con riferimento alle politiche passive, i dispositivi più importanti da citare sono tre: cassa integrazione guadagni (ordinaria e straordinaria), mobilità; indennità di disoccupazione. Come noto, la cassa integrazione guadagni ordinaria è un sistema di sostegno del reddito, sostitutivo della retribuzione, legato alla sospensione/contra- zione transitoria dell’attività produttiva dell’impresa in cui si è in forza; è straordi- naria in corrispondenza di particolari crisi aziendali, ristrutturazioni, ecc. Il disposi- tivo di mobilità definisce un’indennità di protezione temporanea del reddito per la- voratori licenziati per ragioni aziendali o per fine trattamento di cassa integrazione straordinaria. I lavoratori devono aver maturato una anzianità di lavoro di almeno 12 mesi e un contratto a tempo indeterminato. Sia la cassa integrazione che l’indennità di mobilità sono determinate da situazioni aziendali e la certificazione dello status dipende dunque da esse. L’indennità ordinaria di disoccupazione garantisce un so- stegno del reddito per un periodo di 6 mesi (ampliabile a certe condizioni) a quanti involontariamente privi di occupazione o sottooccupati, sono in cerca di impiego38; prevede un tasso di rimpiazzo pari all’80% dell’ultima retribuzione. Essa, come già ricordato, ha subito negli ultimi anni un’importante riforma (D.lgs. 181/2000) che ha portato alla ridefinizione dello stato di disoccupazione. Si definisce disoccupato chi risulta inoccupato, immediatamente disponibile a lavorare, immediatamente dis- ponibile a seguire il percorso di ricerca di occupazione o di formazione proposto dal centro per l’impiego presso il quale è iscritto. È il disoccupato che deve auto certifi- care il proprio status. Entro i sei mesi successivi, il Cpi è tenuto a organizzare un colloquio personalizzato con finalità di counselling, con la proposta di adesione a un programma di reingresso nel mondo del lavoro, di formazione e/o di riqualifica- zione. Se il lavoratore non accetta detta proposta può incorrere in sanzioni, sino alla perdita dello status di disoccupato ed il diritto ai benefits. Le stesse sanzioni scattano in caso di rifiuto di una proposta di lavoro. In realtà, da più parti si segnala che il “tasso di sanzionamento” effettivo è decisamente basso e il livello di tolleranza della trasgressione piuttosto alto (Di Domenico 2005). Del resto, con riferimento alla pro- posta di lavoro vi è nella normativa una clausola che consente il rifiuto laddove la proposta sia troppo distante dalle aspettative “legittime e ragionevoli” di ciascuno in termini di settore di impiego e livello di qualificazione, lontananza dal luogo di residenza (oltre i 50 km); ciò introduce un elemento di valutazione che è nei fatti soggetto alla discrezionalità degli operatori dei servizi all’impiego che si trovano a gestire personalmente il rapporto con il lavoratore. 3.3. I servizi sociali di attivazione Il terzo pilastro, quello dei servizi di attivazione, è più difficile da delineare. Se si escludono i servizi per l’impiego e quelli ad essi connessi di sostegno all’occupa- 38 Di rilievo, l’introduzione nel 2003 di una forma di credito fiscale, ovvero la definizione di un reddito minimo annuale da lavoro escluso da imposizione, valido ai fini della conservazione o della acquisizione dello stato di disoccupazione a tutela dei lavoratori sottoimpiegati. 122 bilità come per esempio i bilanci di competenza, di cui parleremo subito dopo, gli altri servizi considerati necessari per agevolare l’ingresso e la permanenza nel mer- cato del lavoro non vantano né una lunga tradizione né un grado sviluppo adeguato, secondo quanto emerge dai raffronti internazionali (Esping-Andersen 2005). Non- dimeno, va segnalato in proposito l’impegno profuso in questi anni per favorire l’attivazione delle donne, non solo attraverso gli strumenti sopra descritti afferenti alle politiche per le pari opportunità nel mondo del lavoro, ma anche quelli relativi all’agevolazione della conciliazione famiglia-lavoro, con riferimento sia alle donne sia agli uomini. In questo senso merita di essere sottolineata l’attuazione della legge 53/2000 sui congedi familiari, che dopo un avvio lento, comincia a prendere piede (anche se prevalentemente al femminile), come rileva il monitoraggio av- viato grazie alle disposizioni del D.gls. 151/01 sull’applicazione della normativa in materia. Oltre all’aumento del numero di congedi parentali, va segnalato il finan- ziamento di progetti aziendali di flessibilità organizzativa in relazione ai congedi di maternità e paternità (per esempio la sperimentazione di diverse forme di lavoro come il part-time, la flessibilità oraria, il telelavoro; particolari modalità di sostitu- zione o di formazione durante il periodo della maternità e al momento del rientro) per favorire il delinearsi di nuovi modelli di conciliazione del tempo di lavoro con quello familiare. Nondimeno va ricordato che l’impegno più consistente su questo fronte si concentra sui trasferimenti monetari alle famiglie con figli. Peraltro, il cuore dei servizi di attivazione è rappresentato dai Centri per l’im- piego provinciali, la cui modernizzazione è stata avviata nel 1997 con i decreti di attuazione del Pacchetto Treu e l’istituzione dei “Sistemi regionali per l’impiego”, e portata a compimento proprio con la riforma del collocamento (L. 181/2000), in un quadro di liberalizzazione completa dei soggetti titolati ad agire sul mercato del lavoro. In proposito si può rilevare che la riforma, aprendo agli operatori privati o convenzionati e accreditati dalle Regioni, auspica tra essi la cooperazione ma muove in un’ottica di vera e propria competizione di mercato al fine di sviluppare una rete di agenzie per l’incontro domanda-offerta. Di tale rete i Centri per l’im- piego pubblici dovrebbero rappresentare i nodi strategici; essi invece sembrano correre il rischio di ghettizzazione, configurandosi come servizi specializzati nel- l’accompagnamento e ricollocazione delle fasce più deboli (funzione del resto im- prescindibile e cruciale 39), dando luogo però a una forma di stratificazione sociale dei lavoratori. A pieno titolo considerati soggetti di politica attiva del lavoro, i centri per l’impiego sono chiamati istituzionalmente a integrare molteplici funzioni ai fini di migliorare l’occupabilità dei lavoratori e contrastare la disoccupazione di lunga durata, migliorare l’efficienza del mercato del lavoro: incontro tra domanda e offerta di lavoro, informazione, orientamento, pre-selezione, formazione professio- nale, stage, accompagnamento dei giovani in diritto-dovere di istruzione e forma- 39 Significativamente, in alcuni contesti territoriali, sono stati istituiti appositi “servizi per l’inse- rimento lavorativo dell’utenza svantaggiata”, creati direttamente all’interno dei Centri per l’impiego provinciali. 123 zione, consulenza per le imprese, ecc. Come nota Di Domenico (2005), peraltro, diversamente da quanto accade in altre realtà europee, è debole l’integrazione tra le funzioni svolte dai centri per l’impiego e la gestione delle prestazioni di protezione sociale (politiche passive): ciò che per certi aspetti contraddice, o almeno rende dif- ficilmente attuabile, l’idea di fondo della riforma stessa, che mira a considerare gli interventi di sostegno del reddito come “controprestazione” a fronte di un impegno personale finalizzato al (re)inserimento professionale, quale precondizione per poter continuare a fruire dei sussidi stessi; a completamento del quadro normativo occorrerebbe infatti che ai servizi per l’impiego fossero demandate anche la ge- stione dei dispositivi di sicurezza sociale, il monitoraggio e il controllo sui benefi- ciari. Meglio delineata, anche se differenziata a livello territoriale, è invece la co- operazione tra i centri per l’impiego e gli altri servizi locali, orientati a sostenere l’inclusione sociale dei soggetti svantaggiati. 4. Le politiche formative verso il lifelong learning La svolta verso politiche attive, decentrate e selettive, impressa negli anni No- vanta ha portato in primo piano la rilevanza della formazione continua secondo una linea che si è consolidata nel nuovo decennio, configurando un sistema di politiche formative riferite al lavoro articolato e sempre più strutturato. Vale la pena di rico- struire rapidamente l’evoluzione storica di questo processo poiché ciascuna tappa segna la definizione di un tassello di tale sistema. Il 1993 è da considerare in proposito l’anno spartiacque. È di quell’anno la Legge 236/93 “Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione” che ha introdotto la formazione continua nell’ordinamento italiano, prefigurando anche la possibilità di una formazione “a domanda” da parte dei beneficiari. Ma è con il “Patto del la- voro” del 1996 e il “Patto di Natale” del 1998 sopra citati, nonché, sul piano nor- mativo, il “Pacchetto Treu” del 1997, che si può dire che l’Italia abbia sposato la strategia europea di porre al centro delle politiche attive del lavoro la formazione lungo l’arco della vita quale la leva strategica per l’occupabilità e l’attivazione. Nasce così l’attenzione per la formazione continua, i dispositivi di alternanza e i contratti a causa mista rivolti ai giovani. Ma le tappe importanti di questa evoluzione storica sono anche altre. Ricor- diamo anzitutto l’istituzione dei Fondi paritetici interprofessionali per la forma- zione continua (388/2000, riformati nel 2002, L. 289). Si tratta di Fondi costituiti tramite accordi interconfederali fra le organizzazioni sindacali e datoriali, gestiti dalle Parti Sociali tramite appositi Enti bilaterali, articolati a livello territoriale e settoriale. Nello stesso anno viene messa a segno un’altra importante innovazione: l’istituzione – nel quadro delle misure tese alla conciliazione e al riequilibrio dei tempi di lavoro cura, formazione, relazione (L. 53/2000) – dei congedi formativi che sanciscono il diritto dei lavoratori occupati (e non) di accedere a iniziative di formazione per tutto l’arco della vita, inscrivendole in un piano formativo azien- 124 dale o in un piano personale autonomo di formazione anche non finalizzata all’oc- cupabilità. Con il riconoscimento di questo diritto vengono poste le basi per un si- stema di formazione permanente. A tal fine Stato, Regioni ed Enti locali sono chia- mati ad assicurare un’offerta formativa accessibile a tutti sul territorio, accreditata e certificabile tramite crediti riconoscibili a livello nazionale ed europeo. I soggetti coinvolti nella gestione del sistema delle politiche formative sono il Ministero del lavoro, le Regioni e gli Enti locali, le Parti sociali. Ricordiamo che, dopo la legge 3/2000 sulla riforma del Titolo V della Costituzione, le competenze in materia di istruzione e formazione professionale, nonché l’educazione degli adulti sono state delegate alle Regioni, alle quali ne spetta la pianificazione delle attività, con funzioni e compiti di programmazione e gestione demandate a Pro- vince e Comuni. La formazione continua resta in parte in capo allo Stato, ma le Re- gioni sono coinvolte nella pianificazione. Un ruolo centrale è riconosciuto inoltre alle Parti sociali che tramite la concertazione e il dialogo sociale sono chiamate ad agire sia a livello nazionale e regionale, nella definizione delle linee strategiche di sviluppo della formazione esterna alle imprese per gli apprendisti, della formazione continua, del sistema di formazione professionale iniziale; sia a livello di impresa nella definizione dei piani formativi aziendali. Gli interventi attuati negli ultimi anni sul piano normativo e istituzionale sono dunque stati orientati alla costruzione di un sistema di lifelong learning, come ri- chiesto esplicitamente all’Italia dalla Commissione Europea e come ribadito nei documenti programmatici che il nostro Paese ha dovuto stilare in merito, nel quadro del processo Bruges-Copenhagen avviato nel 2002 a livello comunitario, teso allo sviluppo dei sistemi educativi e formativi 40. Ciò ha dirottato una quota crescente di risorse sulle politiche formative. Considerando la spesa pubblica per il finanziamento dell’intero sistema educativo, l’Italia tuttavia si posiziona, con un’incidenza sul PIL del 4,5% nel 2005, al di sotto della media europea (sia a 15 che a 25 Paesi, assestata invece al 4,9%), e ben al di sotto di tutti i Paesi messi a confronto in questa sede (Francia 5,7%; Regno Unito 5,1%; Danimarca 6,7%) (Eu- rostat 2007). Se si guarda alla formazione collocata nel quadro delle politiche attive del lavoro, con riferimento prevalente dunque alla formazione degli adulti, emerge che l’Italia è uno dei Paesi che spende di più in termini relativi sul totale delle ri- sorse investite, circa il 41,3%, poco più della media dell’Unione europea a 15 (40,6%). Nella ripartizione finanziaria, la formazione è favorita dal fatto che, se si eccettua la seconda grossa voce di spesa (gli incentivi per l’occupazione ai quali va 40 Naturalmente, nella logica del lifelong learning non rientrano solo le politiche formative rife- rite direttamente al mercato del lavoro e/o alla popolazione adulta, ma anche il sistema educativo “formale” che nel linguaggio europeo indica i percorsi istituzionali di istruzione e formazione primari, secondari e terziari. Questo ambito tuttavia, non è al centro del nostro discorso, benché l’efficacia del lifelong learning evidentemente dipenda anche dalla capacità di tale sistema educativo di garantire un’offerta adeguata, contenere la dispersione, offrire una formazione di qualità. Proprio questo am- bito, come noto, è stato recentemente riformato, con la riorganizzazione dei percorsi di istruzione e formazione, e la ridefinizione del diritto-dovere all’istruzione e alla formazione per almeno 12 anni prima di entrare nel mondo del lavoro (L. 53/2003). 125 oltre il 50% delle risorse), le altre misure – creazione diretta di lavoro, integrazione soggetti disabili, incentivi all’autoimpiego, job rotation e job sharing – raccolgono una quota di finanziamento davvero minima (Eurostat 2007; dati riferiti al 2004; da queste statistiche sono escluse le spese dirette allo sviluppo dei servizi per l’im- piego). Delle risorse investite nella formazione intesa come politica attiva del la- voro, il 62% è destinata in Italia alla formazione per apprendisti e oltre il 17% alla formazione sul luogo di lavoro (Eurostat 2006; dati riferiti al 2003). Questo dato è particolarmente significativo nel confronto con gli altri Paesi qui considerati, i quali, con una diversa allocazione delle risorse, mostrano la specificità dei rispet- tivi sistemi di formazione continua e permanente. Basti pensare al caso danese nel quale, invece, la maggior parte delle risorse confluisce nella formazione istituzio- nale, esterna alle imprese. Inoltre, in Italia ben l’80% del finanziamento pubblico va a coprire i trasferimenti alle imprese e solo il 20% riguarda trasferimenti diretti ai servizi che erogano formazione; una situazione diametralmente opposta a quella danese, laddove sono i trasferimenti individuali, diretti alle persone, a raccogliere circa il 70% delle spese in formazione, mentre il 25% va agli enti erogatori, e solo il restante 5% alle imprese 41. Relativamente alla sola formazione degli adulti (25-64 anni, secondo le stati- stiche Eurostat), è interessante anche valutare l’incidenza delle persone in forma- zione. Secondo i dati riferiti al 2003, circa il 50% degli adulti italiani è impegnato in una attività formativa (formale, non-formale, informale), poco al disotto del va- lore francese, molto inferiore a quello danese, ma decisamente superiore a quello del Regno Unito (cfr. i capp. 3, 4, 5); la media dell’Europa a 25 si attesta al 42%. Una partecipazione che in tutti i Paesi europei (seppure con differenziali non identici) è fortemente correlata al livello di istruzione delle persone coinvolte nelle iniziative. Ciò detto, proviamo a entrare più nel dettaglio delle politiche formative tese a promuovere l’occupabilità e la cittadinanza attiva, le quali si declinano in quattro direzioni: formazione in alternanza, contratti a causa mista, formazione continua e permanente. Intrecciano almeno quattro piani di azione: territoriale, settoriale, aziendale, individuale. Mirano all’occupabilità dei soggetti, ma più in generale alla loro attivazione. Promuovono l’acquisizione di competenze di base e specialistiche. 4.1. La formazione in alternanza e i contratti a causa mista L’orientamento al mercato del lavoro delle politiche formative prende le mosse già dentro al sistema educativo formale, nel quale i dispositivi di alternanza pensati per i giovani (anche quelli ancora soggetti al diritto-dovere all’istruzione e alla for- 41 Per ammissione dello stesso Eurostat, la lettura di questi vati andrebbe affiancata da un’analisi qualitativa. L’elevata incidenza delle risorse trasferite ai datori di lavoro italiani per esempio si spiega anche in ragione del fatto che la formazione continua è appannaggio prevalente dei lavoratori occu- pati, la cui formazione è inserita nelle politiche delle aziende dalle quali percepiscono uno stipendio. (Eurostat 2006). 126 mazione, con meno di 18 anni) sono chiamati a offrire opportunità di conoscenza diretta del mondo del lavoro, nella duplice tipologia di tirocini formativi e tirocini di orientamento, entrambi con intento di prima socializzazione professionale. Rien- trano in questa prospettiva le iniziative di stage e tirocinio proposti già nell’ambito dell’istruzione secondaria e terziaria come proposte formative curricolari in alter- nanza tra studio e lavoro, nonché quelli extra-currucolari di solo lavoro, pensati come “ponte” verso l’impiego. Relativamente a questi dispositivi, disciplinati per la prima volta nel 1997 dal “Pacchetto Treu”, sono molte le indicazioni di ricerca che ne suggeriscono l’attrattività sia per i giovani sia per le imprese. Soprattutto quelli che potremmo definire gli “stage-ponte” risultano particolarmente apprezzati dalle imprese come strumento di conoscenza e di selezione delle risorse umane, al punto che l’incontro con un giovane promettente può innescare un circolo virtuoso e indurre l’impresa ad aprire un nuovo spazio occupazionale (Zucchetti-Zanfrini- Lodigiani 2000). Peraltro, le stesse indagini ne evidenziano alcuni rischi: il rischio che le imprese li utilizzino come forma di reclutamento di forza lavoro a basso costo (la normativa non prevede nessun obbligo di retribuzione); il rischio che si riducano a un dispositivo di selezione – perdendone la valenza formativa/orien- tativa – e producendo di fatto processi di esclusione verso i soggetti più deboli (non vi è alcun obbligo di assunzione al termine dell’esperienza). Così tali stru- menti diventano un canale privilegiato di accesso all’impiego per quanti probabil- mente non avrebbero comunque incontrato difficoltà, mentre avviano i più svantag- giati a un inizio di carriera incerto, limitato a un susseguirsi di esperienze di stage che faticano a sfociare in un lavoro vero. Si tratta di rischi emergenti anche nel caso dei contratti a causa mista, su tutti l’apprendistato e (i vecchi) contratti di formazione e lavoro. Essi si situano a scavalco tra le politiche formative e le po- litiche dell’occupazione. Le difficoltà di valorizzazione della loro valenza forma- tiva hanno evidenziato come tali misure finissero con l’essere utilizzate più come strumento di difesa dell’occupazione o di agevolazione alle assunzioni che non come strumenti di attivazione; problema che si è trascinato nel tempo ed è per certi aspetti rilevante ancora oggi, nonostante si sia cercato di arginarlo anche sul piano normativo. Il contratto di formazione e lavoro, in modo particolare, ha in larga misura funzionato come incentivo all’occupazione della manodopera giova- nile, puntando sul risparmio che garantiva alle imprese, a discapito della compo- nente formativa che avrebbe dovuto caratterizzarlo (non per caso, come sopra detto, è stato sostituito dal contratto di inserimento)42. L’apprendistato, dal canto suo, a lungo utilizzato alla stessa stregua, grazie alle riforme introdotte nel 1997 e nel 2003, sembra aver recuperato almeno in parte la sua dimensione formativa. Delle tre tipologie previste – 1) apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione dei giovani tra i 15 e i 18 anni, considerato prevalente- mente una leva formativa 43; 2) apprendistato professionalizzante, per i giovani tra i 42 Si ricorderà che su tale utilizzo improprio dei contratti di formazione e lavoro vi era stato un intervento sanzionatorio della Commissione Europea. 127 18 e i 29 anni, orientato all’inserimento occupazionale; 3) apprendistato “alto”, sempre per i giovani tra i 18 e i 29, teso al conseguimento di un diploma di livello secondario o terziario – sono le seconde due a interessarci in questa sede. Il con- tratto di apprendistato infatti rappresenta, assieme a quello di inserimento, il princi- pale canale di accesso all’impiego dei giovani, e in quanto tale si configura come una delle più importanti politiche di attivazione dedicata a questa fascia di forza lavoro. Essa prevede una stretta interazione tra formazione e lavoro, in una logica di lifelong learning, grazie anche alla possibilità di riconoscere i crediti formativi accumulati durante la formazione esterna all’impresa ai fini di un rientro in for- mazione. Complessivamente sono circa 600mila i giovani occupati in contratti a causa mista nel 2005 (MPLS 2007) e, per quanto la realizzazione di azioni formative da erogare fuori dall’impresa in alternanza con il lavoro siano ancora insufficienti a coprire le esigenze degli apprendisti, molti progressi sono stati compiuti, grazie anche all’apporto delle parti sociali. 4.2. La formazione continua, permanente, individuale Le risorse investite nella formazione sono molteplici e di diversa provenienza. Accanto a quelle pubbliche erogate del governo centrale soprattutto ai sensi della legge 236/1993, e a quelle messe a disposizione dal cofinanziamento del Fondo sociale europeo 44, in larga misura gestite a livello regionale e provinciale, vanno considerate anche le risorse investite direttamente e indirettamente dalle imprese, che rappresentano una quota crescente del totale, anche se ancora limitata. In parti- colare le modalità di finanziamento dei Fondi interprofessionali, alimentati dal con- tributo dello 0,30 del monte salari versato dalle imprese che decidono di aderirvi 45, ha consentito sia un aumento progressivo delle risorse per la formazione conti- nua, sia un ruolo maggiormente attivo delle unità produttive più difficili da coin- volgere. Tramite tali fondi possono essere finanziati piani formativi aziendali, set- toriali e territoriali (ciò che mira al coinvolgimento proprio delle piccole imprese che singolarmente hanno maggiori difficoltà a sostenere i costi della formazione), 43 Uno dei tre canali previsti per l’assolvimento del diritto-dovere assieme a quello dei licei e a quello dell’istruzione e della formazione professionale. 44 Il quale ha giocato negli anni un ruolo determinante per lo sviluppo del sistema. Secondo i dati Eurostat il contributo del FSE ha coperto nel 2003 circa il 60% delle spese per la formazione continua in Italia contro una media dell’unione europea a 15 del 42%; sono circa 2 i miliardi di euro messi a disposizione della programmazione FSE 2000-2006 per la formazione dei lavoratori (Eurostat 2006). Si può sostenere che il FSE, soprattutto negli anni Novanta con il finanziamento dell’Obiettivo 4, ha consentito di porre anche in Italia le basi di un vero e proprio sistema di formazione continua. Un ruolo determinante, dunque, ma destinato a calare con la nuova programmazione FSE 2007-2013 che si accompagna a una contrazione di risorse dedicate, ma anche a un incremento delle risorse pubbliche. 45 In tutto i Fondi sono 12, di cui due di recentissima istituzione. La contribuzione a essi è volon- taria, in caso di non adesione però le imprese sono tenute a versare l’0,30% della massa salariale all’INPS, sempre per il finanziamento della formazione continua. 128 ma anche piani formativi individuali. Questi ultimi, oltre che nei fondi interprofes- sionali, possono trovare finanziamento anche da parte di Regioni e Province, stante la L. 53/2000 che, come già ricordato, ha introdotto nella normativa italiana il diritto alla formazione come “diritto soggettivo”, formalmente anche per i lavora- tori disoccupati. I dispositivi organizzativi attraverso cui si realizza l’offerta da parte delle Regioni (o Province, nei casi in cui la materia sia stata decentrata) sono due: i cataloghi dell’offerta formativa e i voucher individuali a disposizione dei lavoratori. Comincia a profilarsi in proposito una crescente ricezione di tali opportunità da parte delle aziende che non solo assecondano, ma anche promuo- vono l’utilizzo dei congedi formativi a fini professionalizzanti, riuscendo a evi- tare le complicazioni organizzative e i costi economici connessi all’attivazione di piani formativi aziendali. Così che quella che può essere letta come una strategia individuale appare nella realtà ampiamente mediata dall’azienda di appartenenza (MPLS 2005). Tra le tipologie formative emergenti, un’attenzione particolare va posta sui voucher aziendali, incentivi economici volti al finanziamento di attività formative documentabili dentro l’impresa, a scelta dei lavoratori. In proposito va detto che anche la legge 236/93, nei dispositivi di attuazione ridefiniti a partire dal 2003, pre- vede la promozione dei Piani formativi sia individuali che aziendali e territoriali, muovendosi in direzione di una “specializzazione” degli strumenti di finanzia- mento esistenti, tale da assicurare il coinvolgimento nelle azioni di formazione con- tinua anche dei soggetti più difficilmente raggiungibili dai nuovi Fondi Paritetici Interprofessionali. In altri termini, mentre questi ultimi punterebbero maggiormente sulle imprese, i primi potrebbero concentrarsi sui soggetti, in specie quelli svantag- giati. In questa prospettiva si giustifica la priorità data a seguito dei nuovi decreti di attuazione della 236 al finanziamento di iniziative rivolte dalle imprese con meno di 15 dipendenti, ai lavoratori con contratti non standard 46, ai lavoratori in cassa in- tegrazione guadagni e in mobilità, ai lavoratori over 45, ai lavoratori non qualifi- cati, per una quota di risorse investite – sul totale annuo disponibile – pari al 70%47. L’obiettivo di questa redistribuzione delle risorse è quella di focalizzare l’atten- zione sul (re)inserimento dei soggetti a maggior rischio di esclusione dal mercato del lavoro, nel quadro di un orientamento che viene apertamente ricondotto al welfare to work promosso in sede europea. Gli utenti della formazione continua diretta a fini occupazionali, di qualifica- zione e riqualificazione, sono diversificati: lavoratori disoccupati, lavoratori occu- pati a rischio di esclusione e obsolescenza, lavoratori svantaggiati e soggetti deboli. Nell’ottica del lifelong learning, un ruolo importante è giocato anche dai 46 In proposito va segnalato che le Agenzie per il lavoro che gestiscono il lavoro somministrato sono tenute per legge a contribuire al finanziamento del Fondo interprofessionale per la formazione dei lavoratori a tempo, ad attivare iniziative formative pre-professionalizzanti e professionalizzanti (per favorire l’accesso al lavoro), on the job (durante l’incarico di lavoro) e di aggiornamento (tra un incarico e l’altro) per tutti i loro iscritti. 47 Il restante 30% delle risorse è riservato a destinatari specifici individuati dalla stesse Regioni. 129 Centri territoriali permanenti (CTP) che erogano iniziative di educazione per gli adulti, istituiti nel 1997 e definibili anche come istituzioni formative per una “se- conda chance”, nella misura in cui mirano soprattutto a consentire il completa- mento di studi abbandonati precocemente. Diverse le tipologie di iniziative che essi offrono: azioni di accoglienza e orientamento per la conoscenza delle proprie capa- cità, del contesto e del progetto formativo; azioni finalizzate al conseguimento di un titolo di studio; azioni tese all’apprendimento di competenze professionaliz- zanti; azioni per l’apprendimento della lingua italiana (in favore di cittadini stra- nieri); azioni individualizzate, modulari, anche a distanza, fruibili attraverso “bonus” finanziari e congedi lavorativi. A esse si affiancano attività di orienta- mento e iniziative brevi di formazione professionale, con l’intento di favorire l’acquisizione di specifiche competenze connesse al lavoro e alla vita sociale. Nonostante sia in crescita il numero di adulti che frequentano i corsi serali nelle istituzioni secondarie superiori, il ruolo dei CTP è determinante nel consentire il rientro in formazione (anche professionale) di un numero elevato di adulti che ne resterebbero altrimenti esclusi. L’obiettivo è quello di garantire a tutti l’acquisi- zione di competenze di base necessarie per esercitare pienamente i propri diritti di cittadinanza. In sintesi le politiche formative si incentrano su due grandi filoni: la forma- zione continua e la formazione permanente, sganciata da immediate finalità occu- pazionali. Entrambe si possono definire a partire da un fabbisogno individuale, che trova sostegno normativo nel riconoscimento alla formazione come diritto sogget- tivo, e sostegno economico nei voucher. La prima, inoltre, può assumere una decli- nazione aziendale, settoriale o territoriale, nonché mirare specificamente a target deboli. Sembra così delinearsi un sistema orientato a integrare quattro tipi di do- manda formativa: individuale, aziendale, delle parti sociali (tipicamente a livello di settore o area territoriale), latente o implicita dei soggetti più deboli, i quali devono spesso essere sollecitati a maturare ed esprimere tale domanda. Dentro questo sistema, i percorsi formativi possono essere personalizzati, e possono avere luogo in contemporanea al lavoro o in alternanza con esso. A recare traccia di questo percorso formativo non necessariamente continuo né lineare do- vrebbe essere, come in altri Paesi europei, il cosiddetto “libretto formativo del cit- tadino” per la trasparenza dell’apprendimento permanente, per rendere codificabili e riconoscibili le esperienze di apprendimento formale, non formale e informale di ciascuno. 5. Per concludere: la via italiana al welfare to work Nel quadro appena descritto, vi sono alcune misure che attestano il dispiegarsi del welfare to work anche in Italia secondo percorsi diversificati: mentre alcune sembrano andare in direzione del workfare anglosassone, altre spingono invece verso il learnfare danese. Vale la pena di richiamarle. 130 Con riferimento al primo modello di welfare attivo, un segnale proviene dalla L. 30/2003 che si presenta come fortemente ispirata ai principi del workfare. Le misure che meglio riflettono tali principi sono quelle entrate in vigore con il de- creto di attuazione D.lgs. 328/2003 in materia di ammortizzatori sociali e forma- zione, tese a incentivare il reimpiego dei lavoratori in cassa integrazione e mobilità. Si prevede infatti che questi ultimi se avviati a una azione di riqualificazione pro- fessionale o formazione (finanziata con risorse aggiuntive da parte dello Stato) non possano rifiutarne la frequenza pena la cancellazione dai benefici associati al loro status. Lo stesso accade ai lavoratori che allo scadere del trattamento di mobilità ri- fiutino l’offerta di un lavoro inquadrato in un livello retributivo non inferiore del 20% rispetto a quello delle mansioni di provenienza, o l’impiego in opere o servizi di pubblica utilità. L’approccio condizionato alla volontà di rendersi attivo sul mercato del lavoro del resto è la novità più rilevante di tutte le più recenti norme introdotte per favo- rire l’occupabilità e l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Lo si vede con evi- denza nei compiti assegnati ai centri per l’impiego, modernizzati e riformati, e nella ridefinizione della condizione di disoccupato in termini di diritti e doveri, oltre che di sussidi; nei dispositivi pensati per i giovani e la transizione al lavoro, e per i lavoratori svantaggiati. In questo stesso scenario si inserisce il “Programma Pari”, sopra citato. In linea con i principi del welfare to work esso mira a combinare assistenza sociale, incentivi alle assunzioni e formazione con l’attivazione dei be- neficiari e il rispetto da parte loro delle condizionalità per l’accesso alle forme di indennità, alle opportunità formative e alle occasioni di reimpiego. In una logica più simile a quella del learnfare di matrice danese possono in- vece essere letti i dispositivi introdotti per innovare il sistema formativo, in specie nell’intreccio con le politiche del lavoro. Basti ricordare la rilevante novità dei con- gedi formativi che riconoscono il diritto soggettivo alla formazione a tutti i cittadini occupati e non; l’intento di integrare formazione continua e formazione permanente (il caso della formazione a catalogo e dei voucher formativi che mirano a costruire un’offerta unica è da questo punto di vista significativo); la rilevanza della forma- zione per adulti pensata come una possibilità sempre aperta per un rientro nel si- stema formativo ordinario; l’introduzione dei fondi interprofessionali per la forma- zione continua e con essi il rilancio di un approccio negoziato alle questioni forma- tive, teso a coniugare interessi di imprese e lavoratori. In conclusione, non sono poche le credenziali che l’Italia può vantare nell’am- bito delle politiche di attivazione, il cui tratto distintivo può essere individuato nei progressi compiuti nell’ambito delle politiche formative. Tali credenziali sono segno evidente del tentativo di definire un modello di welfare attivo, nelle dichiara- zioni di intenti apertamente ispirata all’approccio danese di flexicurity e learnfare, ma di fatto influenzato anche dal workfare anglosassone. Perché allora le difficoltà a riconoscere un “modello italiano” di attivazione, come ricordato in apertura di capitolo? Le ragioni vanno forse ricercate a livello po- litico-istituzionale. In particolare, lo sforzo di attivazione del welfare si è concretiz- 131 zato attraverso linee di riforma diffuse a livello europeo: la riorganizzazione territo- riale delle politiche; la moltiplicazione degli attori, dei livelli di governo e inter- vento; l’innovazione della normativa sul lavoro; la riforma dei servizi all’impiego. Producendo alcuni risultati rilevanti, fra gli altri: un elevato decentramento ammini- strativo; la fine del monopolio pubblico delle funzioni di intermediazione della ma- nodopera; la flessibilizzazione in entrata nel mercato del lavoro. Tuttavia, in Italia, più che altrove, ciò ha prodotto effetti imprevisti e ambivalenti determinati sia dalla lentezza di attuazione delle innovazioni introdotte sul piano normativo, sia dal di- vario territoriale che caratterizza il Paese. In particolare, emergono alcuni rischi, su cui di recente Kazepov (2006) ha richiamato l’attenzione: consolidamento istituzio- nale della diseguaglianza territoriale con potenziali conflitti crescenti tra Regioni; problemi crescenti di coordinamento tra livelli territoriali diversi; problemi di tra- sparenza e “accountability” del processo decisionale; difficoltà a governare le cause dell’esclusione sociale a livello nazionale, al punto che i diritti (e i doveri) finiscono col dipendere più dal luogo in cui si nasce e vive che non dal bisogno effettivo. Di qui discendono le difficoltà sia nel cogliere il quadro complessivo di sistema sia nelle pratiche attuazione. Ciò appare particolarmente vero nell’ambito delle poli- tiche formative, che per certi aspetti potrebbe rappresentare un punto di forza del nascente sistema di attivazione, ma che invece rischia di restare condizionato dalla frammentazione territoriale e dai rapporti tra gli attori che di volta in volta si ri- escono a costruire, evidenziando come la questione della governance si configuri ancora più urgente della messa a punto di dispositivi efficaci ed efficienti. A ciò si aggiunga che la modernizzazione del sistema dei servizi all’impiego sconta, oltre alla variabilità territoriale, l’eterogeneità delle competenze professionali effettive che essi possono mettere in campo per i nuovi compiti assegnati; che l’innovazione del quadro dei dispositivi di protezione sociale è ancora incompiuta (la riforma degli ammortizzatori sociali è anzi la “grande assente”, per dirla con Ferrera; 2006); che anche laddove le misure sono definite la loro diffusione appare frenata da con- dizionamenti sociali che faticano a essere superati (basti pensare alla lenta diffu- sione dei congedi formativi e parentali; ISFOL 2006). In altri termini, il sistema ita- liano di welfare attivo pare caratterizzarsi per lo scollamento esistente in certi suoi settori tra la norma definita e la sua attuazione concreta, tra i servizi promessi e la loro erogazione, tra il bisogno latente dei soggetti e quello realmente espresso, tra il riconoscimento di diritti e la capacità di tradurli in risorse effettive. Sintomi di quello che in apertura abbiamo definito il paradosso di un sistema che sulla carta sembra avere i requisiti necessari, ma che stenta a prendere forma definita, forse perché ancora in cerca di quella “coerenza societale” che abbiamo visto è il punto di forza del caso danese. Un buon esempio di questo paradosso, oltre che dei progressi in atto, è rappresentato dalla formazione continua: che ha trovato nei fondi interpro- fessionali un nuovo impulso, ma che non appare ancora adeguatamente sviluppata; che in linea di principio risponde agli interessi di imprese e lavoratori, ma che spesso si trova a convergere su accordi sub-ottimali, iscritti in logiche di breve pe- riodo: il rischio più alto che in generale corrono i dispositivi di attivazione. 132 Bibliografia BARBIER J. C. (2006) Flexicurity. Flessibilità e welfare una sfida da raccogliere, Sapere 2000, Roma. BIAGI M., SACCONi M. (2001), a cura di, Libro bianco sul mercato del lavoro. Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità, MLPS, Roma. BOCCACIN L. (2005), Third Sector and Social Partnership in Italy. A Sociological Perspective, Vita e Pensiero, Milano. BOERI T., Layard R. and Nickell S. 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Tutti coloro che vivono in Europa, senza alcuna eccezione, dovranno avere le stesse opportunità per adattarsi alle esigenze del cambiamento economico e sociale e contribuire attivamente alla costruzione del futuro dell’Europa. Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente [SEC (2000) 1832] 1. Come navigare protetti in un mercato del lavoro “transizionale” L’itinerario di ricerca che abbiamo condotto ci ha portato a gettare un po’ di luce su una affermazione posta all’inizio di questo volume. Di fronte alle molteplici trasformazioni in atto: sociali, economiche, demografiche e culturali, che pongono nuove sfide e scompaginano gli assetti di welfare consolidati, la formazione si con- figura come uno dei nuovi beni primari, fondamentale per la realizzazione di una cittadinanza attiva, che continua a trovare nel lavoro uno dei più importanti fattori di integrazione sociale, nonostante la crisi che lo attraversa a partire dalla sua cre- scente flessibilizzazione e precarizzazione. A ben vedere, infatti, i cambiamenti in atto nel mondo del lavoro enfatizzano il nesso tra produttività e protezione sociale, affievolendo l’ideale di una cittadinanza sociale universalistica indipendente dal lavoro. Ciò emerge dall’analisi dei modelli di workfare, nei quali è più evidente la “rimercificazione” in atto; ovvero, proprio ciò che in linea di principio lo stato sociale moderno cercava di evitare garantendo il diritto a un reddito indipendentemente dalla partecipazione al mercato, come nel- l’ideale marshalliano di cittadinanza sociale (Esping-Andersen 2000). Come sap- piamo, tale ideale si scontrava con la realtà di un sistema di protezione che nei fatti era ampiamente condizionato dalla posizione occupazionale, nella misura in cui il modello di male breadwinner accentrava sul maschio adulto occupato le garanzie maggiori; ma poteva almeno contare su una situazione di (quasi) piena occupa- zione (maschile, ovviamente). Oggi, il welfare è chiamato a fare i conti con la crescente individualizzazione delle carriere lavorative, a cui si accompagnano l’individualizzazione delle tutele, la frammentazione e l’erosione dei sistemi di protezione, dentro una società nella quale il governo dei rischi è sempre meno un’impresa collettiva e sempre più una 134 strategia individuale (Castel 2004). Paradossalmente, la risposta all’indebolimento dei sistemi di protezione viene cercata sempre nel lavoro ma, di fronte alla sua cre- scente flessibilizzazione, risulta intaccata da almeno tre ordini di problemi: la ridu- zione della sicurezza dell’impiego, lo snellimento del pacchetto di protezioni, la contrazione del numero di soggetti che ne hanno diritto, se è vero che, come dice Castel, siamo ormai fuori dalla “società salariale” (ibidem). In questo scenario, l’active welfare state tende a proporre uno scambio tra welfare e lavoro, come esplicitamente dichiarato in tutti gli approcci del welfare to work analizzati in questa sede (sia nelle versioni più economiciste: il caso del workfare britannico, sia in quelle maggiormente inclusive: il caso del learnfare danese); uno scambio che si regge sul principio di “condizionalità”, ossia sulla corresponsione di tutele e sussidi in cambio della disponibilità del soggetto al lavoro. Uno scambio che si estende alla formazione, laddove il lavoro manca e le condizioni di occupabilità sono fra- gili (Lodigiani 2005). La partecipazione a iniziative formative, infatti, è considerata il segno dell’attivazione, grazie al quale è possibile accedere ai dispositivi di prote- zione contro la disoccupazione o ai programmi di reinserimento. In questo modo, le politiche formative orientate allo sviluppo dell’occupabilità si ritrovano nel cuore del welfare attivo, parte integrante di una nuova rete di protezione che il soggetto concorre a costruire impegnandosi in prima persona. Come opportunamente nota Benadusi (2006), senza arrivare a dire, come qualcuno ha fatto, che il welfare state del futuro è la formazione, è indubbio che tutti i discorsi di ridisegno del welfare in Europa pongano al centro della riflessione il ruolo delle politiche formative. Ne consegue che la formazione viene proposta come dispositivo principe per lo sviluppo dell’occupabilità, ma anche come strumento di accompagnamento e di empowerment del soggetto di fronte alle incertezze di un mercato del lavoro “transizionale” (Gazier 2003), caratterizzato da frequenti passaggi da un lavoro a un altro, magari alternati a momenti di disoccupazione. Non per caso, nello stesso linguaggio europeo, l’occupabilità non è intesa solo come la capacità di tro- vare un impiego, ma anche come la capacità di costruirsi una carriera autonoma (ibidem). La responsabilizzazione del soggetto è il rovescio della medaglia del venir meno di appartenenze collettive dalle quali dipendevano le forme di prote- zione sociale che sono oggi invece sempre più definite a partire dal riconoscimento di una situazione individuale e specifica di bisogno, oltre che dalla volontà dell’in- dividuo di superarla. A fronte di questa individualizzazione crescente, nel lavoro e nella ricerca di risposte ai propri bisogni di sicurezza, la formazione viene dunque presentata come una sorta di salvagente, uno strumento di protezione che consente di restare a galla di fronte alle incertezze della propria condizione lavorativa e sociale, offrendo sia le competenze per restare occupati (o almeno occupabili), sia le risorse cognitive per auto-diagnosticare la propria situazione e cercare le strade per affrancarsi, per- fino per non perdere la continuità della propria storia lavorativa, e non spezzare la narrazione della propria identità professionale: per dirla con Supiot (2003), per conservare, pur nella discontinuità della carriera, la continuità del proprio status 135 professionale. Ciò nella misura in cui è sempre meno il posto di lavoro a rappresen- tare una fonte di identificazione professionale, mentre sempre più questa funzione è assolta dal bagaglio di competenze specifiche di cui è dotato un individuo, che gli consente di avere una posizione di maggiore o minore forza sul mercato; quello stesso bagaglio che ai livelli più alti facilita la mobilità e la carriera ascendente, e ai livelli più bassi può diventare la protezione necessaria per navigare tra un impiego e un altro. Sull’onda di tali trasformazioni, diversi autori hanno proposto di trasferire i di- ritti di “statuto dell’impiego” al lavoratore, così che lo stato professionale delle per- sone non sia definito dall’esercizio di uno specifico impiego, ma dalle diverse forme di lavoro che esse sono in grado di svolgere durante la propria esistenza (Ca- stel 2004; Gazier 2003; Supiot 2003). In questo modo, la protezione del lavoratore sarebbe garantita anche in tutte le “fasi di transizione” che lo accompagnano nella carriera lavorativa, al punto che tali fasi non ne segnerebbero una interruzione ma una sua parte integrante. Si potrebbe così ristabilire la continuità dei diritti attra- verso la discontinuità dei percorsi professionali, riconoscendo anzitutto il diritto di passare da una forma di lavoro a un’altra, ricomprendendole tutte nella definizione ampia di condizione lavorativa: si costituirebbe in questo modo un nuovo tipo di diritti sociali, riferiti al lavoro in generale (lavoro nella sfera familiare, lavoro di formazione, lavoro volontario, lavoro indipendente, lavoro di pubblica utilità, ecc.) (Supiot 2003, 66-67). La formazione si configurerebbe in tale opzione come un “diritto transizionale” (Gazier 2003), una sorta di “passerella” che accompagna il soggetto in tali transizioni, appunto, aiutandolo a conservare questa condizione la- vorativa, a riannodare il percorso, a tenere insieme le diverse esperienze, mante- nendo nel contempo la sua employability. Le difficoltà di attuazione non mancano. In primo luogo, si resta in bilico tra una visione della formazione economi- cista, funzionalista, e una visione inclusiva, di investimento sociale nelle potenzia- lità delle persone, al di là della loro condizione occupazionale (peraltro, nessuna delle due è estranea all’Unione Europea; basti leggere la citazione tratta dal Memo- randum posta all’inizio del capitolo). Quale delle due visioni prevalga nei diversi contesti dipende dai presupposti normativi del welfare attivo adottato, dal concetto di cittadino e di cittadinanza che in esso si inscrive. In secondo luogo, la formazione da sola non può garantire la continuità so- ciale dei cittadini-lavoratori (Accornero 2005), ovvero la loro cittadinanza nella discontinuità lavorativa, non fosse altro perché lavoro e formazione non sono “fun- gibili”, interscambiabili, e perché la stessa formazione subisce l’effetto di dina- miche sociali legate alle differenze (e disuguaglianze) tra gli individui in termini di possibilità di accesso, competenze, capacità di coglierne il valore di opportunità. Non fosse altro perché la discontinuità degrada non di rado in fenomeni di preca- rietà, marginalità, esclusione a cui la formazione da sola non può dare risposta. Come abbiamo visto nella presentazione dei diversi studi di caso, il riconoscimento del “diritto soggettivo alla formazione”, ormai quasi ovunque sancito sul piano nor- 136 mativo, non è di per sé garanzia della sua effettiva esigibilità da parte di tutti, in tutte le situazioni. A questo punto, allora, occorre passare alla “prova dei fatti”, confrontarsi con le strategie e le politiche formative che i Paesi qui considerati – Danimarca, Francia, Gran Bretagna e Italia – hanno configurato per rispondere a queste attese. 2. La sfida di una strategia comune in materia di politiche formative I quattro Paesi qui presentati dimostrano di aver colto la portata dei cambia- menti in atto, e insieme di aver raccolto gli orientamenti promossi a livello europeo per promuovere la ridefinizione del welfare in senso attivo e dare risalto alle poli- tiche formative. Nondimeno, come i capitoli dedicati ai singoli casi nazionali evi- denziano, emerge come questi orientamenti trovino poi declinazione concreta se- condo le specificità politico-istituzionali di ciascun contesto, e secondo tradizioni storico-sociali consolidate. Riconoscere che le soluzioni adottate siano path depen- dency non implica peraltro che non ci sia spazio né per l’innovazione, né per l’avvio di un processo di convergenza verso un unico modello (meglio sarebbe dire, verso alcuni obiettivi di fondo condivisi), piuttosto suggerisce che il welfare è certamente un ambito nel quale gli Stati nazionali giocano ancora un ruolo determi- nate, destinato a restare tale, come del resto riconosciuto dalla stessa Unione Eu- ropea che, con il metodo del coordinamento aperto, di fatto legittima proprio queste differenze (Hemerijck 2002). Procedendo con estrema sintesi, e rimandando naturalmente alla lettura dei singoli capitoli per una analisi dettagliata, si possono al riguardo proporre alcune considerazioni sul modello di welfare attivo delineato in ciascun Paese e sul ruolo in esso assegnato alle politiche formative. Come è stato notato nel capitolo di comparazione statistica (cfr. cap. 2), dal punto di vista del mercato del lavoro e dei suoi principali indicatori di lettura, Italia e Francia presentano situazioni simili, caratterizzate da tassi di attività e occupa- zione inferiori alla media dei Paesi europei e agli obiettivi di crescita fissati a Li- sbona; livelli di disoccupazione più elevati, in specie per giovani e donne; una quota più consistente di disoccupazione di lunga durata; un minor grado di diffu- sione delle tipologie contrattuali a tempo parziale e un maggior coinvolgimento della forza lavoro in modalità di impiego a tempo determinato; una elevata dispa- rità di genere per ciascuna classe di età. Per converso, simili appaiono anche Dani- marca e Regno Unito che rispetto a questi indicatori registrano performance mi- gliori, compreso quello delle disparità di genere il quale mantiene in entrambi i casi livelli contenuti. Possiamo continuare ad accoppiare in questo modo i Paesi consi- derati anche con riferimento al nesso tra investimento formativo e condizione occu- pazionale dei soggetti, nella misura in cui emerge che il coinvolgimento in inizia- tive di formal e non-formal learning è decisamente maggiore nei contesti in cui il quadro occupazionale è migliore, a parità di status lavorativo e di titolo di studio, 137 pur se i dati rivelano che ovunque lo stato di occupato e il possesso di titoli di studio elevati sono correlati positivamente con la partecipazione alla formazione continua. Per contro, se scendiamo più nel dettaglio dei modelli di welfare attivo e delle politiche formative, le similitudini si affievoliscono, e conviene procedere caso per caso. Dei quattro Paesi considerati, la Danimarca è quello che investe di più in ter- mini relativi (sul PIL) nel sistema educativo complessivo, nelle politiche del lavoro e in quelle formative. Il riconoscimento del diritto soggettivo alla formazione è, po- tremmo dire, altamente istituzionalizzato, come dimostra il fatto che le risorse fi- nanziarie per la formazione sono per la maggior parte erogate direttamente ai sog- getti interessati. I congedi per la formazione sono diffusi, incoraggiati a livello po- litico (specie per i soggetti a bassa qualificazione), e sostenuti anche da parte dei datori di lavoro, i quali, nel dare appoggio pieno ad alcuni diritti di protezione del lavoratore sul mercato del lavoro, ricevono in cambio una maggior libertà di azione nella gestione delle risorse umane sia in ingresso che in uscita dall’impresa: uno dei modi in cui si traduce il principio della flexicurity, che coniuga la mobilità del lavoro alla sicurezza, non dell’impiego, ma delle condizioni di re-impiego. Le poli- tiche formative sono orientate allo sviluppo dell’occupabilità, e più ampiamente a sostenere l’empowerment degli individui, ovvero lo sviluppo di competenze e ca- pabilities per l’esercizio di una cittadinanza attiva che non si misura sulla sola oc- cupazione ma sulle capacità di utilizzare le risorse a disposizione a proprio van- taggio. Di qui, lo spazio riservato alla formazione permanente, al rientro in forma- zione in qualunque momento della propria vita e a qualunque livello del sistema formativo, nonostante non manchino i segnali di un riflusso, testimoniato dalla re- cente svolta in senso workfarista che avvicina, in alcuni dispositivi, il modello da- nese a quello inglese, e che espone i soggetti più deboli alla “trappola della forma- zione”, ovvero all’obbligo di accettare proposte formative per restare inseriti nei programmi di attivazione, senza che esse esitino in un rientro stabile sul mercato del lavoro. Nel caso inglese, assunto a emblema del workfare, le risorse investite nelle po- litiche del lavoro (attive e passive) e in quelle formative sono inferiori, sempre in termini relativi, a quelle della Danimarca; ma questo vale per tutti gli altri Paesi qui considerati, essendo quest’ultima una vera eccezione nel panorama europeo. Ciò che più conta rilevare, tuttavia, riguarda l’elevato investimento (sul totale delle po- litiche attive) nelle politiche formative con finalità strettamente occupazionali, se- condo una visione decisamente economicista, funzionale al lavoro. Esse risultano improntate sul breve periodo e giocate in chiave di rapido reinserimento lavorativo, anche se si colgono i segnali di un’apertura verso il learnfare danese, con interventi diretti all’intero sistema educativo e formativo, resi impellenti dall’esigenza di mi- gliorare la qualità complessiva delle risorse umane, agendo dunque non solo sui la- voratori occupati, ma su tutta la popolazione per migliorarne le competenze di base, pur se l’obiettivo finale resta quello di accrescerne la produttività. Anche il si- 138 stema formativo inglese può definirsi “aperto” dal punto di vista formale; esso però pare non incentivare e sostenere a sufficienza i soggetti nel permanere o rientrare in esso, ciò su cui precisamente stanno puntando le politiche più recenti con la desti- nazione di nuove risorse economiche. Al momento, la formazione riferita al lavoro sembra incastrata in un gioco al ribasso: offre iniziative formative di “corto re- spiro”, pensate per una immediata spendibilità nel mercato del lavoro, a soggetti già poco qualificati inseriti nei programmi di attivazione, più facilmente confinati in mansioni instabili e poco remunerate. Dei quattro approfondimenti nazionali qui presentati, quello francese è forse uno dei più complessi. Al di là dell’investimento nelle politiche attive del lavoro e nelle politiche formative, che pure è significativo in termini quantitativi, in termini qualitativi emerge un relativo appiattimento della formazione sulla dimensione oc- cupazionale, in linea con quanto rilevato nel caso inglese, poiché l’obiettivo è quello del rapido (re)inserimento, anche se certamente la Francia vanta una lunga tradizione in materia di politiche del capitale umano. Soprattutto, emerge la diffe- renziazione dei lavoratori in base alla loro posizione sul mercato, con una forte po- larizzazione tra insider e outsider, che determina fra l’altro diverse opportunità di accesso alle iniziative formative, laddove i primi possono contare su una capacità di rappresentanza dei propri interessi (soprattutto formativi) attraverso l’azione degli organismi paritetici tripartiti. In questo scenario, si inscrive il riconoscimento del diritto individuale alla formazione per i lavoratori. A rendere peculiare l’ap- proccio francese al welfare attivo, tuttavia, è un altro aspetto di grande interesse: l’impegno dello Stato nel promuovere l’inserimento lavorativo dei soggetti deboli e svantaggiati attraverso la creazione diretta di posti di lavoro, e l’utilizzo del Terzo settore come bacino di impiego, in specie nell’ambito dei servizi di care, configu- randosi in questo caso come datore di lavoro di ultima istanza. È ciò che accade nei programmi di insertion: politiche occupazionali a metà strada tra il lavoro, la for- mazione, la protezione sociale e la socializzazione al lavoro, finanziate attraverso la fiscalità generale. Non per caso, la maggior parte della spesa pubblica nelle poli- tiche del lavoro confluisce nella job creation. Per queste fasce di lavoratori emerge una domanda formativa specifica, tesa a (ri)qualificare professionalità precise, ne- cessarie per svolgere in modo competente mansioni delicate e altamente dipendenti dalla qualità del capitale umano, come nel settore dei servizi di cura. Pena il rischio che tali lavoratori si trovino confinati in un segmento del mercato del lavoro che fi- nisce con l’essere considerato marginale, secondario, perché in larga misura sussi- diato, e anche ghettizzante, perché affidato a mansioni poco qualificate, con effetti penalizzanti sulla qualità stessa dei servizi offerti. Infine l’Italia, più ancora della Francia, propone un mix tra i diversi modelli. A dispetto di un investimento di risorse inferiore alla media, e decisamente più basso a quello danese, la Danimarca è il Paese assunto a riferimento per la definizione di molte politiche attive e formative, all’insegna del principio di flexicurity. Ne sono i punti salienti da un lato i congedi formativi, il diritto soggettivo alla formazione, i voucher, la formazione permanente, dall’altro lato la riforma dei servizi per l’im- 139 piego, la ridefinizione dello status di disoccupato, l’introduzione dei meccanismi di condizionalità. Aspetti che configurano uno scenario di politiche ricco ed etero- geneo, ma connotato da una elevata frammentazione, del quale si fatica a cogliere il disegno complessivo. Connotato soprattutto dalla distanza rilevata tra il piano normativo, nel quale negli ultimi anni sono state messe a segno importanti riforme e innovazioni, e il piano del recepimento e dell’attuazione, dove emergono ritardi, differenze territoriali marcate, ma anche modelli di comportamento e condiziona- menti sociali difficili da modificare. La tavola 1 prova a sistematizzare queste indicazioni, pur operando qualche forzatura per differenziare i quattro modelli del welfare attivo che emergono dalla nostra indagine. Come la lettura della stessa tavola 1 mostra, le differenze tra un Paese e l’altro sono evidenti, ma sono altrettanto evidenti i fattori di sovrapposizione, e – alla luce degli studi di caso – anche di convergenza su alcuni punti. Paradossalmente, gli elementi di convergenza suggeriscono l’esistenza di due tendenze opposte: una che mira a rafforzare i principi del workfare, una che cerca invece di procedere lungo la strada del learnfare. Si tratterà di capire se e come queste due opposte tendenze possano trovare un punto di incontro e mediazione. TAVOLA 1: Modelli di welfare attivo a confronto 140 3. L’ottica del lifelong learning: dalla formazione permanente a quella iniziale Pur a fronte delle specificità rilevate, è indubbio che i quattro Paesi considerati abbiano a modo loro cercato di recepire l’approccio del lifelong learning promosso in sede europea. I riscontri presentati rivelano politiche di attuazione differenziate, e di fatto subordinate al modello di welfare attivo prevalente, ovvero condizionate dalla visione di società e di patto di cittadinanza che caratterizza ciascuno, dentro un percorso di ridisegno del welfare che resta, come abbiamo più volte detto, path dependency. Ciò peraltro non sminuisce le aspettative che ovunque si definiscono rispetto alle politiche formative. Piuttosto, non fa che alzare la sfida che si pone di fronte ai sistemi formativi (ed educativi in senso più ampio), aprendo questioni cru- ciali sulle quali occorre riflettere: la qualità della formazione erogata, le finalità delle azioni proposte, le condizioni di accesso, l’equità del sistema educativo a tutti i livelli. Senza entrare nel merito di una riflessione che porterebbe lontano dalle finalità del nostro lavoro, dobbiamo almeno rilevare che la questione della qualità della formazione è strettamente legata a quella delle sue finalità: se la formazione non favorisce realmente l’acquisizione di requisiti di occupabilità, non è in grado di promuovere la transizione al lavoro, se inibisce le possibilità di mobilità e si riduce a essere una forma di “parcheggio” viene a cadere la sua capacità di proporsi come strumento di politica attiva del lavoro; ma se la formazione erogata è anche “sca- dente”, se non è in grado di agire sullo sviluppo delle conoscenze e competenze del soggetto, se non ne stimola l’empowerment, allora viene a cadere anche l’obbiet- tivo di costituirsi come strumento di attivazione. Per altro verso, la questione dell’accesso obbliga a interrogarsi sulle condizioni alle quali la formazione possa rappresentare fattivamente un diritto di cittadinanza, indipendentemente dalla posizione occupazionale dei soggetti (se è vero che il la- voro retribuito può essere una via per l’inclusione sociale e la realizzazione di sé, ma non il fine unico), proponendosi cioè come un diritto sociale universale, per riprendere ancora le parole di Supiot (2003). Diverse ricerche mostrano che la formazione continua e permanente difficil- mente riescono a porre rimedio alle disuguaglianze, che si determinano già nel corso dell’istruzione e della formazione iniziali. Percorsi difficoltosi, uscite precoci dal sistema educativo istituzionale producono effetti cumulativi nel tempo, dando luogo a carriere lavorative più esposte ai rischi di precarizzazione, marginalizza- zione negli impieghi meno qualificati, difficoltà di fruizione di ulteriori opportunità formative. Basti pensare che, come gli approfondimenti effettuati in questa sede confermano, l’accesso alla formazione continua e permanente è condizionato dalla posizione occupazionale e dal livello di istruzione posseduto: essa cioè si accresce e si accumula di più proprio laddove già è presente. Emblematici in proposito i dati analizzati nel capitolo di comparazione statistica (cfr. cap. 2). Numerosi studi rile- vano inoltre che le condizioni nelle quali comincia a svilupparsi il capitale umano di ciascuno, a partire dalle opportunità offerte nella prima infanzia, e poi lungo i 141 vari gradini del sistema educativo, si riflettono nelle fasi successive di tale sviluppo in termini di motivazione, capacità di apprendimento e successo formativo, o al contrario in termini di demotivazione, difficoltà di apprendimento, insuccesso for- mativo. Così che deficit originari in capitale umano, magari accresciuti dalla debo- lezza del capitale sociale, culturale ed economico della famiglia di appartenenza, si traducono in maggiori rischi di precarizzazione, sottoimpiego, povertà, esclusione; rischi rispetto ai quali occorre mettere in campo adeguate politiche educative e for- mative, mirate agli individui più svantaggiati, e a partire dalla scuola per l’infanzia, se non prima (Ferrera 2004). Avendo cura di combattere le disuguaglianze che si producono e si assommano nel corso della vita, e che hanno una componente di ereditarietà, producendosi e tramandandosi già all’interno dell’ambiente familiare e successivamente all’interno del sistema formativo nel suo complesso, il quale an- cora oggi non riesce a contrastare del tutto l’impatto di tale ereditarietà, mentre proprio questa dovrebbe essere una delle sue finalità (Esping-Andersen 2005). Per dirla con le parole di Benadusi (2006, 26), per essere all’altezza delle sfide poste, i sistemi educativi e formativi sono chiamati ad essere, “non solo efficienti ed effi- caci, ma anche equi e giusti” sin dall’istruzione e dalla formazione iniziale, perché la formazione continua e permanente difficilmente riescono a rimediare alle disu- guaglianze pregresse. Le argomentazioni sin qui proposte inducono ad aprire la riflessione sulle con- dizioni alle quali le politiche formative possano proporsi come uno dei pilastri di un nuovo welfare attivo. E la risposta ci sembra vada cercata nel considerare, in- sieme alle politiche formative riferite al lavoro, il sistema educativo istituzionale, anche iniziale (nei suoi percorsi di istruzione e formazione professionale), se è vero che la stessa efficacia della formazione continua e permanente affonda le sue radici nelle abilità cognitive e di apprendimento acquisite prima dell’ingresso nel mondo del lavoro, nei percorsi formativi istituzionali. Abilità che possono realmente fare la differenza in uno scenario di lifelong learning, nel quale le parole chiave sono apprendimento continuo, rapido, efficace, nel quale emergono evidenti possibilità di generare nuove dinamiche di esclusione che non dipendono solo dall’accesso a opportunità formative lungo l’arco della vita, ma dalla dotazione di risorse indivi- duali di fronte all’apprendimento, maturate sin da bambini: chi non ha “imparato a imparare” difficilmente potrà farlo da adulto (Ruffino 2006). Sono dunque in senso lato i processi formativi di istruzione e formazione pro- fessionale a tutti i livelli (partendo da quello primario e secondario) ad acquisire una rilevanza determinante, quale che sia il modello di welfare adottato. Ciascuno per la sua parte contribuisce a garantire l’acquisizione di capacità e competenze ne- cessarie per leggere le trasformazioni in atto, comprendere il contesto in cui si vive, saperne cogliere le opportunità: siano opportunità di (re)inserimento lavorativo, di mobilità, di (ri)qualificazione, di risposta ai propri bisogni, di partecipazione attiva e responsabile. In tale prospettiva, tutti i percorsi di istruzione e formazione professionale vanno adeguatamente valorizzati, proprio per l’eterogeneità delle opportunità che 142 possono offrire. In tale scenario, la formazione professionale, anche iniziale, in cui si formano le prime competenze professionali così preziose per forgiare i cittadini attivi di domani, si offre come luogo in cui porre le basi di una cittadinanza attiva nel senso più ampio del termine, non solo in chiave strettamente occupazionale: in- nestandosi per definizione (e potremmo dire per vocazione) sui processi di socializ- zazione lavorativa, essa consente di sperimentare l’acquisizione di competenze pro- fessionali come promessa di realizzazione di sé nel mondo del lavoro, la promessa di poter gettare le basi per una costruzione identitaria attorno a un progetto per il proprio futuro professionale. Per dirla in altri termini, essa può rappresentare un luogo emblematico in cui le stesse competenze, mentre coltivano un “saper fare”, sviluppano e rivelano un “saper essere”, un “talento”, nella misura in cui compe- tenza e “persona” sono “inseparabili” (Sennett 2004). Restando più limitatamente al piano delle politiche formative, la formazione professionale si configura come una componente essenziale del sistema educativo complessivo, nell’ottica di garan- tire quella eterogeneità di opportunità di cui si parlava. Ma richiede di non essere confinata e penalizzata da politiche miopi e terminalità precoci, che rafforzano, in- vece di combattere, l’ereditarietà degli svantaggi in capitale umano. Per concludere, adottare la prospettiva del lifelong learning, mentre porta a valorizzare la formazione lungo l’arco della vita come dispositivo di protezione contro la disoccupazione e la precarietà lavorativa, come leva per lo sviluppo della carriera professionale, come strumento per accrescere l’empowerment individuale in chiave di partecipazione attiva all’economia e alla società, conduce a parlare del- l’istruzione e della formazione iniziale, e della formazione professionale in partico- lare. Conduce a riconoscerle come il luogo in cui offrire ai ragazzi di oggi le risorse necessarie per cogliere domani, da adulti, le opportunità della formazione continua e permanente, secondo una visione che non le riduca alle sole finalità occupazio- nali cui danno accesso, ma ne estenda il senso allo sviluppo della capacità di eser- citare una libertà sostanziale (che è libertà di scelta e di autorealizzazione). Con- duce e riscoprire in esse la possibilità di rompere i circoli viziosi che portano a cu- mulare nel tempo gli svantaggi educativi e formativi iniziali. Conduce a compren- dere le ragioni per cui sia auspicabile promuovere un passaggio dall’employability alla capability, dove quest’ultima si traduca nella capacità effettiva sia di tenere in- sieme carriere lavorative mutevoli e discontinue sia di scegliere come contribuire al bene comune attraverso una partecipazione attiva che non si esaurisca nel solo la- voro per il mercato. Tale mutamento di paradigma consente di concentrare l’atten- zione, non solo sulle “mancanze” del soggetto che vanno recuperate sul piano indi- viduale (formazione, responsabilità, motivazione), ma anche sui fattori strutturali in grado di favorire l’inclusione e la libertà di realizzare ciò che si decide. Il welfare del futuro, allora, è sì quello della formazione, delle competenze, dello sviluppo del capitale umano, delle eque opportunità, ma è, per dirla con Sen (2000), soprattutto il “welfare delle capacitazioni” che metta il soggetto nelle condizioni di esigere l’agibilità dei propri diritti sociali: e il diritto di apprendere è uno di questi. 143 Bibliografia ACCORNERO A. (2005), Il lavoro tra la rigidità e la flessibilità. E Poi?, in “Sociologia del lavoro”, n. 100. BENADUSI L. (2006), Politiche dell’educazione e modelli di welfare, in “La rivista delle politiche sociali”, n. 4. CASTEL R. (2004), L’insicurezza sociale. Cosa significa essere protetti?, Einaudi, Torino. 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Nel paragrafo dedicato al modello sociale europeo e alle politiche di inclusione sociale, attraverso il riferimento alla base giuridica e agli obiettivi comuni fissati nell’ambito del metodo aperto di coordinamento, viene descritto il ruolo che la po- litica sociale è chiamata a svolgere a fianco delle strategie in campo economico e occupazionale evidenziando con chiarezza il doppio ruolo che ad essa è attribuito: quello di fattore produttore e quello di strumento chiave volto a ridurre le disugua- glianze e a promuovere la coesione sociale. L’ultimo paragrafo, presentando gli orientamenti che regolano il prossimo pe- riodo di programmazione 2007-2013 per le politiche di coesione, è invece dedicato al sostegno finanziario che la Comunità offre per la realizzazione degli interventi di riforma del mercato del lavoro, in particolare per la valorizzazione del capitale umano, attraverso i fondi strutturali e in particolare il Fondo Sociale Europeo (FSE). 1. La strategia Europea per l’occupazione 1.1. Le premesse Il Trattato di Amsterdam (1997) ha introdotto nell’Atto che istituisce la Comu- nità europea (TCE) un nuovo Titolo (VIII) dedicato all’ “Occupazione”, trasfor- mando in tal modo in una priorità comunitaria il coordinamento delle politiche per l’occupazione degli Stati membri allo scopo di compiere progressi decisivi nella lotta alla disoccupazione. Il Trattato di Amsterdam, lasciando immutata la compe- tenza nazionale in materia di politiche dell’occupazione, ha infatti rafforzato il 148 ruolo delle istituzioni comunitarie per il raggiungimento di obiettivi comuni che hanno dato origine a un processo di convergenza in particolare attraverso l’introdu- zione di un nuovo strumento di coordinamento delle politiche realizzate a livello nazionale. Nel rispetto del principio di sussidiarietà, l’intervento comunitario per il coor- dinamento delle politiche occupazionali nazionali viene così impostato sulla base di finalità e modalità di intervento previsti dal Trattato CE: 1) l’obiettivo della piena occupazione, come obiettivo di pari rilevanza rispetto a quelli macroeconomici di crescita e di stabilità: per la prima volta gli articoli sull’occupazione sono previsti nel trattato come un titolo specifico (Titolo VIII), esattamente come le politiche monetarie ed economiche; 2) il raggiungimento di una manodopera qualificata con un alto livello di forma- zione e di adattabilità, per rendere il mercato del lavoro più rispondente ai cambiamenti economici; 3) l’integrazione degli obiettivi concordati dagli Stati membri in tutte le politiche comunitarie (mainstreaming), come previsto dall’art. 127 TCE, che mira a va- lutarne l’impatto; 4) l’introduzione di una procedura per il coordinamento delle politiche nazionali, istituzionalizzata attraverso l’art. 128 TCE, secondo cui le decisioni possono essere adottate dal Consiglio dell’Unione europea a maggioranza qualificata, il che impedisce a un singolo Paese di bloccare le decisioni o raccomandazioni che possono essere necessarie per il raggiungimento degli obiettivi fissati a li- vello comunitario; 5) la previsione di una struttura istituzionale permanente a carattere consultivo prevista dall’art. 130 TCE, denominato Comitato per l’Occupazione per for- mulare pareri sui temi inerenti l’occupazione; 6) la previsione di “misure di incentivazione nel settore dell’occupazione” se- condo la previsione dell’art. 129; tali azioni troveranno seguito nel programma comunitario PROGRESS a partire dal 1 gennaio 2007. 1.2. Le fasi di avvio In forza di queste nuove disposizioni introdotte dal Trattato di Amsterdam, il Consiglio europeo di Lussemburgo ha lanciato, nel novembre 1997, la strategia eu- ropea per l’occupazione (SEO), nota anche come “processo di Lussemburgo”. Nelle conclusioni della Presidenza si afferma con chiarezza che la finalità della strategia è quella di far convergere la politica dell’occupazione verso obiettivi de- cisi in comune, verificabili e aggiornati periodicamente pur tenendo conto delle dif- ferenze che esistono fra le situazioni dei singoli Stati 48. 48 Consiglio Europeo straordinario sull’Occupazione, Lussemburgo 20/21 novembre 1997, con- clusioni della Presidenza. 149 Gli orientamenti generali volti a promuovere l’occupazione, concordati dagli Stati membri in occasione del Consiglio europeo di Lussemburgo, prevedono quattro assi di intervento: – migliorare l’occupabilità – sviluppare l’imprenditorialità – incoraggiare l’adattabilità delle imprese e dei dipendenti – rafforzare le pari opportunità tra uomo e donna. Per migliorare l’occupabilità si punta sul miglioramento della formazione pro- fessionale, l’adozione di misure attive di politica del lavoro, un maggiore dialogo con le parti sociali, il miglioramento della transizione dalla scuola al mercato del lavoro. In particolare nei primi orientamenti per il 1998 in relazione a questo asse di intervento si leggono le seguenti indicazioni: 1) l’individuazione precoce delle esigenze individuali. Entro un termine che sarà fissato da ciascuno Stato membro e che non può essere superiore a cinque anni si dovrà: – offrire a ogni giovane, prima che siano trascorsi sei mesi di disoccupazione, la possibilità di reinserimento con un’attività di formazione o di riqualifica- zione professionale, con la pratica lavorativa, con un lavoro o altra misura che ne favorisca l’inserimento professionale; – offrire anche ai disoccupati adulti, prima che siano trascorsi dodici mesi di disoccupazione, la possibilità di reinserimento con una delle attività succi- tate o, in generale, con un orientamento professionale individualizzato. 2) Il passaggio da misure passive a misure attive. I sistemi di indennità e di for- mazione devono essere rivisti e adattati in modo da garantire che contribui- scano attivamente all’occupabilità e incentivino realmente i disoccupati a cer- care e accettare un lavoro o a seguire una formazione. In questa ottica la for- mazione diventa uno strumento chiave del passaggio dalle misure passive a quelle attive e per questo gli orientamenti prevedono che ciascuno Stato membro deve adoperarsi per aumentare sensibilmente il numero delle persone che beneficiano di attività di formazione o altro analogo provvedimento ai fini di facilitare l’inserimento professionale. In particolare ogni Stato fisserà un obiettivo quantitativo, in funzione della sua situazione di partenza, per avvici- narsi progressivamente alla media dei tre Stati membri che hanno raggiunto il miglior risultato in materia. 3) L’agevolazione del passaggio dalla scuola al mondo del lavoro. Dal momento che le prospettive occupazionali risultano particolarmente scarse per i giovani che abbandonano gli studi senza avere acquisito le capacità necessarie per ac- cedere al mercato del lavoro, gli Stati membri dovranno: – migliorare la qualità del loro sistema scolastico, in modo da ridurre sostan- zialmente il numero dei giovani che abbandonano prematuramente gli studi; 150 – favorire nei giovani una maggiore capacità di adattamento ai mutamenti tec- nologici ed economici, dotandoli di qualifiche che corrispondano alle esi- genze del mercato del lavoro, anche istituendo, o sviluppando, i sistemi di apprendistato 49. Al fine di promuovere l’imprenditorialità, si incentiva la creazione di nuove imprese, si incoraggia l’utilizzo delle nuove tecnologie o innovazioni e si chiede di intervenire per semplificare il sistema fiscale nei confronti di chi vuole intrapren- dere una nuova attività. Si incoraggia l’adattabilità delle imprese e dei dipendenti al fine di garantire una maggiore flessibilità al mercato del lavoro attraverso una diversa definizione o riduzione dell’orario di lavoro, un ricorso maggiore al part-time, l’utilizzo di nuove tipologie di contratti di lavoro. Per quanto riguarda l’adattabilità delle imprese lo scopo è quello di incoraggiare la formazione aziendale e migliorare lo sviluppo delle risorse umane. Per il rafforzamento delle pari opportunità tra uomo e donna gli Stati membri dovrebbero tendere ad eliminare tutte le discriminazioni ancora esistenti nel mondo del lavoro tra i due sessi, anche attraverso azioni positive in favore delle donne, un maggiore utilizzo degli strumenti contrattuali per la conciliazione tra vita familiare e lavorativa e azioni per il reinserimento nel mondo del lavoro dopo periodi di assenza prolungata. 1.3. Le modalità di attuazione La SEO si attua a livello comunitario e nazionale attraverso un metodo innova- tivo di pianificazione, monitoraggio, esame e riprogrammazione delle politiche at- tuate dagli Stati membri in modo da coordinare i loro strumenti di lotta contro la disoccupazione. Il metodo di coordinamento si attua attraverso: a) la definizione di orientamenti in materia di occupazione che identificano e de- finiscono congiuntamente gli obiettivi concreti da raggiungere (adottati dal Consiglio su proposta della Commissione); b) l’elaborazione dei piani d’azione nazionali per l’occupazione (PAN/Occupa- zione), denominati dal 2005 Programmi nazionali di riforma, che, in prospet- tiva pluriennale, traducono gli orientamenti comunitari in misure nazionali di carattere regolamentare, amministrativo. Tutti gli Stati membri devono richia- marsi agli orientamenti nell’analizzare la propria situazione e nel definire la loro politica, precisando nel piano d’azione nazionale per l’occupazione la loro posizione rispetto a ciascun orientamento; c) gli Stati membri trasmettono ogni anno al Consiglio e alla Commissione i ri- spettivi piani d’azione nazionali per l’occupazione, corredati di una relazione sulle condizioni di attuazione. Su tale base il Consiglio esamina ogni anno at- 49 Ibidem. 151 traverso una relazione comune sull’occupazione lo stato di attuazione degli orientamenti e le modalità con cui gli Stati membri hanno tradotto le indica- zioni comunitarie nella politica nazionale e presenta una relazione sulla base della quale verranno adottati gli indirizzi necessari per delineare gli orienta- menti per l’anno successivo. La valutazione compiuta nel 2000 relativamente ai progressi compiuti nell’am- bito delle politiche dell’occupazione ha evidenziato come il processo di Lussem- burgo abbia permesso di sviluppare delle sinergie a livello europeo e di allargare la partecipazione a un gran numero di attori tanto a livello europeo che a livello na- zionale e abbia reso più trasparenti le politiche dell’occupazione e la responsabilità politica sulle azioni intraprese. Sono state notate alcune debolezze ancora persi- stenti: in particolare le differenze regionali del mercato del lavoro sono ancora forti e in certi Stati membri sono cresciute. L’attuazione dei quattro pilastri della strategia non risulta omogenea dal mo- mento che i progressi sono stati realizzati soprattutto per il miglioramento della ca- pacità di inserimento professionale, mentre molto più lenta permane l’attuazione del miglioramento dell’adattabilità. 1.4. La strategia di Lisbona In occasione del Consiglio europeo di Lisbona (marzo 2000) l’Unione europea ha fissato un nuovo obiettivo strategico da raggiungere nel decennio seguente: “di- venire l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica al mondo, capace di una crescita economica duratura, accompagnata da un miglioramento qualitativo e quantitativo dell’occupazione e di una maggiore coesione sociale”. La strategia adottata in tale occasione prevede l’adattamento e il potenzia- mento dei processi esistenti per consentire al potenziale di crescita economica, oc- cupazionale e di coesione sociale di svilupparsi pienamente. L’Unione europea si è inoltre dotata di indicatori affidabili e comparabili fra Stati membri, per poter misu- rare in modo attendibile i risultati dei provvedimenti adottati nei diversi Stati membri e il contributo fornito al raggiungimento degli obiettivi comunitari. La Commissione, nella Comunicazione con cui ha delineato l’agenda di Li- sbona, ha ribadito la centralità dell’istruzione e della formazione, evidenziando che “gli investimenti nel settore dell’istruzione e della formazione atti a sviluppare le nuove conoscenze non sono ancora stati predisposti. Eppure sono cruciali: è dimo- strato, ad esempio, che coloro che interrompono gli studi con qualifiche modeste hanno minori probabilità di continuare la formazione nel corso della vita lavora- tiva. Dato il ritmo incalzante del mutamento, tanto l’adattamento dei sistemi scola- stici di base alle nuove esigenze quanto investimenti aggiuntivi nell’apprendimento e nella formazione permanente sono ormai condizioni necessarie per il successo economico e sociale a lungo termine” 50. 50 COM 2000/7 Contributo della Commissione europea al Consiglio straordinario di Lisbona 23, 24 marzo 2000. 152 La Commissione, prendendo atto di questa carenza, indica quale sfida priori- taria per l’Unione quella di “incanalare l’immenso potenziale della società del sa- pere in modo da contribuire a risolvere questi problemi. Ciò significa mettere le persone al centro delle politiche dell’Unione. Significa investire nel capitale umano, aumentare le conoscenze e le qualificazioni, introdurre il principio dell’ap- prendimento continuo quale condizione per godere di opportunità protratte a tutta la vita; garantire una completa integrazione nella società; aiutare i lavoratori a di- ventare più adattabili; rendere la protezione sociale più sostenibile e “attiva”, per affrontare il problema dell’invecchiamento della popolazione, e garantire parità di opportunità: in una parola, arricchire la concezione europea del servizio pubblico”. E con particolare riferimento all’apprendimento lungo l’arco della vita esso “deve svolgere un ruolo centrale nella nostra strategia ai fini dell’accesso alle conoscenze, del miglioramento delle qualificazioni e dell’inserimento sociale. Tutti gli europei dovranno poter contare su opportunità aperte loro per tutto l’arco della vita di par- tecipare alla futura società del sapere” 51. Secondo la Commissione questa è la via per sviluppare il potenziale di crescita sostenibile dell’Europa. Il Consiglio europeo di Lisbona accogliendo tali indicazioni, sostiene che “i si- stemi europei di istruzione e formazione devono essere adeguati alle esigenze della società dei saperi e alla necessità di migliorare il livello e la qualità dell’occu- pazione. Dovranno offrire possibilità di apprendimento e formazione adeguate ai diversi target nelle diverse fasi della vita: giovani, adulti disoccupati e persone occupate soggette al rischio che le loro competenze siano rese obsolete dai rapidi cambiamenti. Questo nuovo approccio dovrebbe avere tre componenti principali: lo sviluppo di centri locali di apprendimento, la promozione di nuove competenze di base, in particolare nelle tecnologie dell’informazione, e qualifiche più tra- sparenti” 52. Nel 2001, per rafforzare il ruolo dell’istruzione e della formazione all’interno della SEO, i Ministri dell’istruzione degli Stati membri hanno individuato nella relazione “Gli obiettivi futuri e concreti dei sistemi di istruzione e formazione” un certo numero di priorità comuni per quanto riguarda il contributo che i sistemi d’istruzione e di formazione possono offrire per il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona 53. Gli obiettivi di natura generale affidati all’istruzione e alla formazione ri- guardano: – lo sviluppo dell’individuo, che in tal modo può realizzare appieno il suo poten- ziale e condurre una vita di buon livello; – lo sviluppo della società, in particolare favorendo la democrazia, riducendo le 51 Ibidem. 52 Consiglio europeo di Lisbona 23 e 24 marzo 2000, Conclusioni della presidenza. 53 Relazione del Consiglio (Istruzione) al Consiglio europeo “Gli obiettivi futuri e concreti dei sistemi di istruzione e formazione”. Cfr. anche Consiglio europeo di Stoccolma 23 e 24 marzo 2001. Conclusioni della Presidenza. 153 disparità e le disuguaglianze, sia fra gli individui che fra i gruppi e promuo- vendo la diversità culturale; – lo sviluppo dell’economia, assicurandosi che le qualifiche della forza lavoro corrispondano all’evoluzione economica e tecnologica. Nella relazione si pone inoltre un particolare accento sul fatto che i sistemi di istruzione e formazione dovrebbero perseguire l’obiettivo di contribuire alla crea- zione di una società inclusiva garantendo la realizzazione di strutture e meccanismi atti ad eliminare la discriminazione a tutti i livelli. In particolare l’accesso all’ag- giornamento delle competenze per tutto l’arco della vita può rappresentare un ele- mento chiave nella lotta contro l’esclusione sociale e nella promozione delle pari opportunità nel senso più ampio del termine. Si legge infatti che “le conoscenze non potranno più essere considerate un’acquisizione definitiva come avveniva un tempo. In parecchi settori, per quanto riguarda l’occupabilità, l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita costituirà un requisito essenziale per continuare ad avere una buona quotazione sul mercato del lavoro.” Il nesso tra le politiche di istruzione e formazione e quelle dell’occupazione in relazione al raggiungimento degli obiettivi di Lisbona è espresso da alcune indica- zioni strategiche tra cui: – aumentare la qualità e l’efficacia dei sistemi di istruzione e formazione eu- ropea; – facilitare l’accesso di tutti ai sistemi di istruzione e formazione – aprire al mondo esterno i sistemi di istruzione e formazione. Si richiede di focalizzare maggiormente gli interventi sui bisogni individuali, in particolare “orientamento e consulenza devono diventare più rapidamente dispo- nibili e si devono utilizzare maggiormente metodi alternativi per personalizzare i percorsi di apprendimento. Vanno concepiti sistemi flessibili di orientamento e in- formazione, da adattare alle esigenze locali in una prospettiva di apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Ampliando in tal modo l’istruzione e la formazione verranno sollevati problemi quali l’adattamento degli orari alle esigenze familiari, le strutture di custodia dei bambini durante i corsi, l’ubicazione e la possibilità reale di avvalersi delle strutture educative e il riconoscimento di un’esperienza precedente non ufficiale o informale acquisita al di fuori dell’ambito dei sistemi d’istruzione e formazione di tipo classico” 54. Si sottolinea inoltre il legame tra cittadinanza attiva e gli interventi in materia di istruzione e formazione: “promozione della cittadinanza attiva e occupabilità sono da considerare complementari. Entrambe presuppongono che le persone ab- biano conoscenze e capacità adeguate e aggiornate per partecipare e contribuire alla vita economica e sociale nell’arco della loro vita. In questo contesto, è impor- tante ridurre gli insuccessi scolastici. Va notato al tempo stesso che anche l’appren- 54 Ibidem. 154 dimento informale promuove l’occupabilità dei giovani e ne sviluppa le compe- tenze e le capacità” 55. Nel contesto della Strategia di Lisbona, il Consiglio ha fissato una serie di li- velli di riferimento del rendimento medio europeo 56, i noti benchmarks: – entro il 2010, si dovrebbe pervenire a una percentuale media non superiore al 10% di abbandoni scolastici prematuri; – il totale dei laureati in matematica, scienze e tecnologie dovrebbe aumentare almeno del 15% entro il 2010 e al contempo dovrebbe diminuire lo squilibrio di genere; – entro il 2010, almeno l’85% della popolazione ventiduenne dovrebbe avere completato un ciclo di istruzione secondaria superiore; – entro il 2010, la percentuale dei quindicenni con scarse capacità di lettura do- vrebbe diminuire almeno del 20% rispetto al 2000; – entro il 2010, il livello medio di partecipazione all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita dovrebbe attestarsi nell’Unione europea almeno al 12,5% della popolazione adulta in età lavorativa (fascia di età compresa tra 25 e 64 anni). Nel 2002 è stato condotto un bilancio sui cinque anni di implementazione della Strategia europea dell’Occupazione. Tale valutazione d’impatto è stata condotta congiuntamente dalla Commissione e dagli Stati Membri. A seguito della valutazione di medio termine della Strategia di Lisbona con- dotta da un gruppo indipendente di alto livello presieduta da M. Kok, la Commis- sione ha presentato una Comunicazione sulla crescita e l’occupazione nel febbraio 2005 che rilancia la strategia di Lisbona concentrando l’attenzione sulle azioni da svolgere piuttosto che sugli obiettivi in cifre da raggiungere 57. La data del 2010 e gli obiettivi riguardanti i diversi tassi di occupazione non vengono quindi più pre- sentati come priorità. La comunicazione si presenta come un rilancio delle priorità politiche, segnatamente in materia di crescita e di occupazione. In relazione agli investimenti nel capitale umano, la Commissione sottolinea come i “cambiamenti strutturali, l’aumento della partecipazione al mercato del la- voro e la crescita della produttività richiedono investimenti permanenti in una ma- nodopera altamente qualificata e adattabile. […] In Europa, il livello di istruzione è ben lungi dal raggiungere quello richiesto per garantire la disponibilità delle com- petenze necessarie sul mercato del lavoro e la produzione di nuove conoscenze da diffondere successivamente nell’insieme dell’economia. L’accento posto sulla for- 55 Ibidem. 56 Consiglio dei Ministri dell’Istruzione, 7 maggio 2003 Conclusioni del Consiglio in merito ai livelli di riferimento del rendimento medio europeo nel settore dell’istruzione e della formazione (parametri di riferimento). 57 COM (2005) 24 Comunicazione della Commissione “Lavorare insieme per la crescita e l’occupazione. Il rilancio della Strategia di Lisbona. 155 mazione permanente e sulle conoscenze nella vita economica riflette altresì la con- statazione secondo cui un aumento del livello di istruzione e di competenze costi- tuisce un importante contributo alla coesione sociale” 58. Le indicazioni della Commissione sono state recepite nel corso del Consiglio europeo di Bruxelles del 22-23 marzo 2005 dove si ribadisce la centralità del capi- tale umano come ricchezza dell’Europa. “Gli Stati membri sono invitati a intensifi- care gli sforzi per elevare il livello generale d’istruzione e ridurre il numero di gio- vani che lasciano la scuola precocemente, in particolare proseguendo il programma di lavoro “Istruzione e formazione 2010”. L’apprendimento permanente costituisce una condizione sine qua non per realizzare gli obiettivi di Lisbona, tenendo conto dell’interesse di una qualità elevata a tutti i livelli. Il Consiglio europeo invita gli Stati membri a far sì che l’apprendimento permanente sia un’opportunità offerta a tutti nelle scuole, nelle imprese e nelle famiglie. Un’attenzione particolare deve essere riservata all’accesso all’apprendimento permanente per i lavoratori meno qualificati e per il personale delle piccole e medie imprese”59. 2. Il modello sociale europeo e la politica di inclusione sociale Nella strategia europea per l’occupazione grande rilevanza viene data alla pro- tezione sociale e al mantenimento del modello sociale europeo come strumento chiave per sostenere i cambiamenti strutturali del mercato del lavoro e a rendere possibile quella “adattabilità” che è uno degli obiettivi della strategia stessa. In questa ottica la protezione sociale è chiamata a costituire essa stessa un elemento “produttivo” nel senso di favorire i cambiamenti necessari evitando quelle fratture sociali che potrebbero mettere in difficoltà la coesione sociale. Oggi il modello sociale europeo implica non solo obiettivi comuni, ma pro- muove una sinergia positiva tra politica economica, politica dell’occupazione e po- litica sociale. Il rafforzamento del legame tra sviluppo economico e progresso so- ciale porta alla costruzione di un modello che, secondo l’Unione europea, è sempre più il frutto di politiche che favoriscono la sinergia e le interazioni positive tra cre- scita economica, occupazione e coesione sociale. La politica sociale europea di- venta così il vertice di un ideale triangolo alla cui base stanno la politica econo- mica, con le sue esigenze di competitività e dinamismo, e la politica “dell’im- piego”, con i suoi obbiettivi di piena occupazione e di qualità. Obiettivo del processo di convergenza fra gli Stati membri, è quello di asse- condare il circolo virtuoso tra progresso economico e sviluppo sociale in modo che la protezione sociale stessa diventi un fattore più favorevole all’occupazione e allo sviluppo. Questo obiettivo viene perseguito attraverso il passaggio dalle politiche pas- 58 Ibidem. 59 Consiglio europeo di Bruxelles del 22-23 marzo 2005. Conclusioni della Presidenza. 156 sive alle cosiddette politiche attive che aiutano le persone a inserirsi nella vita lavo- rativa e fissano un nuovo equilibrio tra flessibilità del lavoro e sicurezza sociale. Queste politiche, anche se di difficile applicazione, hanno prodotto cambia- menti e hanno comportato: – la revisione del sistema delle indennità di disoccupazione che tenga conto dei processi di ristrutturazione e non disincentivi la ricerca del lavoro; – il miglioramento dei servizi di collocamento. – il potenziamento della formazione professionale e della formazione continua che rimane l’elemento fondamentale per l’inserimento lavorativo e per l’inclu- sione sociale. I sistemi di protezione sociale hanno dovuto affrontare in questi anni pressioni crescenti dovute alla necessità di far fronte ai cambiamenti demografici, economici e sociali importanti e, allo stesso tempo, hanno dovuto rispondere ad esigenze di contenimento della spesa pubblica. Affrontare questa sfida, mantenendo intatti i principi dello stato sociale, ha comportato una serie di riforme nei vari settori della protezione sociale per renderla più adeguata ai cambiamenti. L’Unione europea ha sollecitato un ammodernamento della protezione sociale soprattutto per quanto ri- guarda il sistema pensionistico ed il contenimento dei sistemi sanitari. All’interno di questo modello fondato su una sinergia tra economia, occupa- zione e protezione sociale, si colloca la politica più recente dell’Unione europea sull’inclusione sociale diretta a rafforzare l’integrazione delle persone escluse o più lontane dal mercato del lavoro, utilizzando obiettivi e strumenti già sperimentati nella politica dell’occupazione. In seguito alle modifiche introdotte con il Trattato di Amsterdam, l’art.137 TCE attribuisce alla Comunità europea il compito di sostenere e completare l’a- zione degli Stati membri anche nel settore della lotta contro l’esclusione sociale (art.137, lett. j TCE). A tale scopo il Consiglio dell’Unione europea può adottare misure volte a migliorare la conoscenza, a sviluppare gli scambi di informazioni e di migliori prassi, a promuovere approcci innovativi e a valutare le esperienze fatte, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative. A diffe- renza degli altri ambiti di intervento previsti dall’art. 137 in materia di politiche so- ciali, in relazione alla lotta contro l’esclusione sociale il consiglio non può invece intervenire attraverso l’adozione di direttive comunitarie. Secondo la definizione contenuta in un rapporto congiunto del 2003, con il ter- mine inclusione sociale si fa riferimento ad un “processo che assicura a coloro che sono a rischio di povertà ed esclusione sociale le opportunità e le risorse necessarie a partecipare pienamente alla vita economica, sociale e culturale, per godere di uno standard di vita e di benessere che sia considerato normale nella società in cui vi- vono. Ciò assicura che essi abbiano una maggiore partecipazione ai processi deci- sionali che riguardano la loro vita e l’accesso ai diritti fondamentali”. Il Consiglio europeo di Lisbona (marzo 2000) ha invitato gli Stati Membri e la Commissione europea ad assumere un impegno concreto per sradicare in modo in- 157 cisivo la povertà nell’unione europea entro il 2010. Creare una Unione europea più inclusiva è un elemento essenziale per raggiungere l’obiettivo strategico di una cre- scita economica sostenibile, migliori e maggiori opportunità di lavoro, e maggiore coesione sociale. Anche nell’ambito della lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, l’Unione europea ha deciso di coordinare le politiche nazionali degli Stati membri sulla base di un processo di scambio di politiche e mutuo apprendimento come definito nel metodo aperto di coordinamento. Anche per l’inclusione sociale, il metodo, concepito per assistere gli Stati membri nell’elaborazione progressiva delle loro politiche, implica: – la definizione di orientamenti comunitari (linee guida periodicamente revisio- nate) per il conseguimento di obiettivi concreti, senza mettere in discussione sovranità e responsabilità dei vari soggetti coinvolti; – la trasposizione di detti orientamenti nelle politiche nazionali e regionali (me- diante piani di azione nazionali), tenendo conto delle diversità specifiche; – la determinazione di indicatori e parametri per confrontare i risultati raggiunti; – il periodico svolgimento di attività di monitoraggio, verifica e valutazione, in un processo di apprendimento reciproco e con un uso mirato delle buone pra- tiche. Nel 2000, il Consiglio europeo di Nizza ha adottato, per l’attuazione pratica del metodo aperto di coordinamento (MAC) nel settore dell’integrazione sociale, gli obiettivi comuni. Anche in questa occasione, il Consiglio dell’Unione europea ha ribadito che “l’occupazione è la migliore tutela contro l’esclusione sociale. Al fine di pervenire a un’occupazione di qualità, occorre sviluppare la capacità di in- serimento professionale, segnatamente grazie a politiche che promuovano l’acqui- sizione delle competenze e l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. L’attua- zione degli obiettivi cui si è impegnata l’Unione europea nell’ambito della strategia europea per l’occupazione contribuisce così in maniera determinante alla lotta contro l’esclusione. La crescita economica e la coesione sociale si rafforzano reci- procamente. Una società con maggiore coesione sociale e meno esclusione è la garanzia di un’economia più efficiente” 60. Gli obiettivi fissati a livello comunitario in materia di inclusione sociale ri- guardano: – la partecipazione all’occupazione e l’accesso di tutti alle risorse, ai diritti, ai beni e ai servizi; – la prevenzione dei rischi di esclusione; – l’intervento a favore delle persone più vulnerabili; – la partecipazione attiva di tutti gli attori interessati. 60 Consiglio dell’Unione europea documento del 30 novembre 2000 “Lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. Definizione degli obiettivi adeguati”. 158 Dopo la presentazione del primo ciclo di piani nazionali, la prima relazione congiunta, adottata nel marzo 2002, ha concluso che tredici dei quindici Stati membri avevano messo a punto una politica di assistenza sociale universale volta a garantire a tutti i residenti legali un reddito minimo. La seconda relazione congiunta (del marzo 2004) nonché la relazione sull’inte- grazione sociale che analizza i piani d’azione nazionali (PAN) dei 10 nuovi Stati membri hanno evidenziato la necessità di collegare i regimi di reddito minimo con politiche in grado di favorire l’integrazione lavorativa e professionale, anche con corsi di reinserimento professionale individualizzati. Nel 2006 la Commissione ha elaborato un bilancio dei progressi compiuti dal- l’Unione allargata sulla via di un migliore accesso al mercato del lavoro per le per- sone che ne sono escluse, e ha lanciato una consultazione pubblica sui possibili orientamenti di una azione dell’Unione al fine di promuovere il coinvolgimento at- tivo delle persone più lontane dal mercato del lavoro. Nella Comunicazione della Commissione si legge che “vaste politiche di assistenza sociale sono attuate nella maggior parte degli Stati membri e vengono realizzate politiche di attivazione al fine di riportare sul mercato del lavoro quelli che ne sono esclusi, ma sussiste un importante “nocciolo duro” di persone che hanno poche speranze di trovare un la- voro e che, per questo motivo, rimangono estremamente esposte alla povertà e al- l’esclusione sociale. Per le persone più lontane dal mercato del lavoro, i regimi di reddito minimo (RM) sono a volte l’unica barriera di protezione contro l’estrema povertà; ma tali regimi, pur svolgendo questa funzione indispensabile, devono anche promuovere l’inserimento professionale delle persone in grado di lavorare. La principale sfida è quindi di garantire che i sistemi di protezione sociale contri- buiscano in modo efficace a mobilitare le persone in grado di lavorare, perse- guendo al tempo stesso il più ampio obiettivo di garantire un livello di vita decente a coloro che sono o rimarranno al di fuori del mercato del lavoro” 61. Nella relazione congiunta per il 2007 sulla protezione e inclusione sociale viene evidenziato come “per rafforzare l’inclusione sociale, gli Stati membri de- vono concentrarsi sempre più sulla cosiddetta inclusione attiva. Esiste una chiara tendenza a subordinare le prestazioni a condizioni rigorose di disponibilità effettiva al lavoro; si aumentano gli incentivi con riforme fiscali e riforme delle prestazioni. In alcuni Stati membri queste condizioni sono positivamente combinate con la gra- duale diminuzione degli aiuti per il rientro sul mercato del lavoro e con crediti d’imposta per lavori scarsamente retribuiti, in modo da permettere alle persone svantaggiate di partecipare al mercato del lavoro. Politiche articolate di gestione del mercato del lavoro, opportunità di migliorare le competenze, nel campo delle TI – per esempio, maggiori sforzi contro gli svantaggi educativi e un’adeguata con- sulenza sono altrettanti elementi essenziali di un mix di scelte politiche equilibrate 61 Commissione europea COM (2006) 22 def comunicazione concernente una consultazione su un’azione da realizzare a livello comunitario per promuovere il coinvolgimento attivo delle persone più lontane dal mercato del lavoro. 159 a favore dell’inclusione attiva. Affinché condizioni rigide non indeboliscano il so- stegno a chi sia inabile al lavoro, è importante notare che alcuni Stati membri si sono prefissi di migliorare la copertura degli aiuti” 62. La coerenza tra i regimi di sostegno al reddito e le politiche di attivazione si è in tal modo rafforzata. In molti Stati membri è ormai necessario, per aver diritto a prestazioni, ricercare attivamente un impiego, essere disponibili per lavorare o se- guire corsi di formazione. In alcuni casi, queste condizioni sono enunciate in un contratto individuale che definisce le modalità di un percorso di reinserimento pro- fessionale che il beneficiario è tenuto a seguire. Un numero crescente di Paesi sta attualmente migliorando le misure di incoraggiamento finanziario al fine di raffor- zare la motivazione al lavoro. L’inserimento professionale è l’obiettivo essenziale che i Paesi europei devono raggiungere al fine di migliorare l’efficacia delle loro economie. Un posto di lavoro costituisce per molte persone la principale salvaguardia contro l’esclusione sociale ed è la sola misura che si “autofinanzia” nel lungo periodo. Per essere efficaci, le politiche volte a rendere il lavoro remunerativo devono trovare un equilibrio adeguato in questa “sfida triangolare”: rafforzare gli incentivi al lavoro, attenuare la povertà ed evitare costi di bilancio insostenibili. Per quanto riguarda l’obiettivo dell’inserimento professionale dei più vulnera- bili, gli elementi valutati danno l’impressione che sia stato possibile compiere pro- gressi e che le buone prassi possono generare importanti insegnamenti. Se si esamina il ruolo degli strumenti di reddito minimo, la ricerca indica che la loro interazione con politiche di attivazione ben concepite può produrre effetti positivi sull’occupazione, che la formazione professionale nelle imprese private o le misure di attivazione che si avvicinano al normale lavoro costituiscono la stra- tegia più promettente e che i giovani e le persone con meno problemi sociali sono coloro che hanno le migliori probabilità di beneficiarne. I vantaggi di queste misure di attivazione non devono misurarsi unicamente per i loro effetti immediati sull’occupazione. Tali misure possono anche aiutare le persone a combattere il loro isolamento sociale, a sviluppare la loro stima di sé e a adottare un atteggiamento più positivo verso il lavoro e la società. Le future linee programmatiche devono essere in grado di associare, pertanto, tre elementi: – un collegamento con il mercato del lavoro, sotto forma di offerte di posti di lavoro o di formazione professionale; – un’assistenza al reddito di livello sufficiente per vivere degnamente; – un migliore accesso a servizi in grado di eliminare alcuni ostacoli che talune persone e le loro famiglie devono affrontare per integrarsi nella società, favo- rendo in tal modo il loro inserimento professionale. 62 Consiglio dell’Unione europea, Relazione congiunta per il 2007 sulla protezione sociale e sul- l’inclusione sociale, 23 febbraio 2007. 160 3. Il sostegno finanziario della politica di coesione alle politiche attive del lavoro Nei paragrafi precedenti è stata esaminata la base giuridica e gli orientamenti di indirizzo politico che regolano il coordinamento delle politiche nazionali in ma- teria di occupazione e inclusione sociale. Di pari rilievo per il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona è il sostegno finanziario offerto dall’Unione europea a supporto delle riforme e degli interventi attuati dagli Stati membri a livello nazionale. L’im- portanza del supporto offerto dagli strumenti finanziari, e in particolare dai fondi strutturali, è stato evidenziato nel corso della revisione della strategia di Lisbona, in occasione della quale la Commissione europea ha elaborato delle raccomandazioni tra cui anche quella di una maggiore concentrazione dei fondi strutturali rispetto al raggiungimento degli obiettivi della crescita e piena occupazione. La Commissione ha così evidenziato la necessità che la politica di convergenza verso gli obiettivi co- munitari stabiliti a Lisbona costituisca una priorità anche nel futuro bilancio comu- nitario 2007-2013 in modo da offrire un sostegno agli investimenti e allo stesso tempo garantire una maggiore centralità di tali priorità nell’ambito della spesa pub- blica degli Stati membri 63. Nel mese di ottobre del 2006 il Consiglio dell’Unione europea ha fissato gli Orientamenti Strategici Comunitari 64 (OSC) che definiscono la riforma della poli- tica di coesione e il ruolo dei fondi strutturali per il periodo di programmazione 2007-2013. Gli OSC hanno precisato le priorità di azione, suggerendo inoltre gli strumenti per permettere alle regioni europee di sfruttare appieno la dotazione di 308 miliardi di euro stanziata per i programmi di aiuto nazionali e regionali per i prossimi sette anni. Sulla base di tali OSC i prossimi Programmi Operativi Regio- nali o Nazionali nei diversi Stati membri concentreranno le risorse finanziarie a so- stegno di tre obiettivi prioritari: – far sì che un maggior numero di persone arrivi e rimanga sul mercato del la- voro; modernizzare i sistemi di protezione sociale; – migliorare l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese e rendere più flessibile il mercato del lavoro; – aumentare gli investimenti nel capitale umano migliorando l’istruzione e le competenze. Anche gli OSC assegnano un ruolo chiave in materia di occupabilità al raffor- zamento delle misure attive e preventive riguardanti il mercato del lavoro. Tali azioni hanno come obiettivo primario quello di fornire servizi personalizzati per la ricerca di un lavoro, il collocamento e la formazione. In tale ambito occorre fornire un sostegno ancora più ampio e diversificato per costruire percorsi di integrazione 63 Comunicazione della Commissione al Consiglio di primavera, Lavorare insieme per la crescita e l’occupazione. Il rilancio della Strategia di Lisbona. COM (2005) 24 del 2 febbraio 2005. 64 Decisione del Consiglio del 6 ottobre 2006 sugli orientamenti strategici comunitari in materia di coesione in GUUE L291/11 del 21 ottobre 2006. 161 e combattere le discriminazioni per le persone svantaggiate o a rischio di emargina- zione sociale, come coloro che hanno abbandonato gli studi, i disoccupati di lunga durata, le minoranze e i disabili. In relazione agli interventi prioritari diretti a migliorare la capacità di adatta- mento dei lavoratori e delle imprese, gli OSC puntano a favorire l’apprendimento permanente e a suscitare maggiori investimenti nelle risorse umane, in particolare da parte delle imprese. In tale ambito i fondi strutturali e segnatamente il Fondo Sociale europeo possono sostenere interventi di riforma volti a favorire una sempli- ficazione del riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali a sostegno della mobilità dei lavoratori in tutta l’Europa. Sulla base di questi orientamenti comunitari è stato adottato il nuovo regola- mento del Fondo Sociale Europeo 65. Secondo quanto disposto dall’art. 1 del regola- mento, il FSE “sostiene le politiche degli Stati membri intese a conseguire la piena occupazione e la qualità e la produttività sul lavoro, promuovere l’inclusione so- ciale, compreso l’accesso all’occupazione delle persone svantaggiate, e ridurre le disparità occupazionali a livello nazionale, regionale e locale”. La formazione costituisce un intervento strategico nell’ambito del sostegno fi- nanziario offerto dal Fondo Sociale Europeo per la riforma del mercato del lavoro in attuazione degli orientamenti della SEO. In tutti gli Stati dell’Unione europea è ancora necessario un maggior impegno negli investimenti in favore del capitale umano dal momento che troppe persone non possono ancora entrare o sono espulse dal mercato del lavoro a causa di insufficienti qualifiche (alfabetizzazione pri- maria) o perché le qualifiche ottenute non corrispondono a quelle richieste dal mercato del lavoro. In relazione all’occupabilità, il FSE fissa quale priorità il miglioramento del- l’accesso all’occupazione e l’inserimento sostenibile nel mercato del lavoro per le persone in cerca di lavoro e per quelle inattive, la prevenzione della disoccupa- zione, in particolare la disoccupazione di lunga durata e la disoccupazione giova- nile, la partecipazione al mercato del lavoro. In tale contesto il FSE cofinanzia “l’attuazione di misure attive e preventive che consentano l’individuazione precoce delle esigenze con piani d’azione individuali ed un sostegno personalizzato, quale la formazione «su misura», la ricerca di lavoro, il ricollocamento e la mobilità, le attività lavorative autonome e la creazione di imprese, comprese le imprese coope- rative, gli incentivi alla partecipazione al mercato del lavoro, misure flessibili per prolungare la carriera dei lavoratori più anziani e misure per conciliare vita profes- sionale e privata, migliorando ad esempio i servizi di assistenza all’infanzia e alle persone non autosufficienti” 66. In linea con il rafforzamento della dimensione sociale della strategia di Li- sbona, oltre all’occupabilità e all’adattabilità, il nuovo regolamento fissa, quale ul- teriore priorità, il potenziamento dell’inclusione sociale delle persone svantaggiate 65 Regolamento CE n.1081/2006 relativo al Fondo Sociale Europeo. 66 Art.3, comma 1 lett b. ii) 162 ai fini della loro integrazione sostenibile nel mondo del lavoro. A tal fine il FSE co- finanzia “percorsi di integrazione e reinserimento nel mondo del lavoro per le per- sone svantaggiate, quali, gli emarginati sociali, i giovani che lasciano prematura- mente la scuola, le minoranze, le persone con disabilità, attraverso misure di occu- pabilità anche nel settore dell’economia sociale, l’accesso all’istruzione e alla for- mazione professionale, nonché misure di accompagnamento e relativi servizi di sostegno, servizi collettivi e di assistenza che migliorino le possibilità di occu- pazione” 67. 67 Art.3, comma 1 lett c. i). 163 Allegato 2 Rassegna bibliografica A cura di Massimiliano COSSI A.A. V.V., 2004, Apprendere attraverso il fare: tipologia e modelli di alternanza scuola-lavoro. Pro- getto FSE “Sistema Integrato Formazione e Istruzione”, Skill, 27. A.A. V.V., 1998, Verso la formazione continua. I progetti aziendali finanziati dal Fondo Sociale europeo, Franco Angeli, Milano. A.A. 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Indicatori su mercato del lavoro, investimento in ca- pitale umano e politiche formative (G. Marini - E. Riva) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 1. Il mercato del lavoro: partecipazione, occupazione, disoccupazione, diffu- sione del lavoro atipico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 2. Il rapporto tra titolo di studio conseguito e condizione occupazionale . . . . . 35 3. Uno sguardo sul lifelong learning . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 4. Il ruolo assegnato alle politiche formative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 5. Alcune note di sintesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53 Capitolo 3 Il learnfare danese tra mito e realtà (R. Lodigiani) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 1. Il contesto socio-economico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58 2. Il “triangolo d’oro” delle politiche del mercato del lavoro . . . . . . . . . . . . . . 60 3. I pilastri del modello di welfare attivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62 4. Le politiche formative in un sistema educativo aperto . . . . . . . . . . . . . . . . . 68 5. Per concludere: oltre il mito, una questione di coerenza societale . . . . . . . . 73 Capitolo 4 Un sistema di protezione sociale ibrido. La via francese all’attivazione delle po- litiche del lavoro (A. Ciarini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 1. Il contesto socio-economico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78 2. Le coordinate del welfare: priorità, attori, indicatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . 80 3. I programmi di attivazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83 4. Il ruolo della formazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 86 5. Per concludere. Insider e Outsider tra formazione, lavoro e inserimento sociale 89 Capitolo 5 Dal workfare al welfare to work. La path dependency del sistema di politiche di attivazione in Inghilterra (A. Ciarini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 1. Il contesto socio-economico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94 176 2. Le coordinate del welfare: priorità, attori, indicatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96 3. I programmi di attivazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99 3.1. La riforma dei JobCentre. I JobCentre plus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99 3.2. Il New Deal . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 3.3. Le Employment Zones . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101 4. Il ruolo della formazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102 4.1. I programmi di Formazione e lavoro: la Skills Alliance Network . . . . . 103 4.2. New Deal for Skills . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 4.3. UK National Action Plan on Social Inclusion . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 4.4. La formazione permanente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105 5. Per concludere: occupabilità e qualità del lavoro nel welfare to work inglese. Una contraddizione apparente? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105 Capitolo 6 I paradossi del welfare to work italiano (R. Lodigiani) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109 1. Il contesto socio-economico e istituzionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 110 2. Origini ed evoluzione del welfare attivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114 3. I pilastri del welfare attivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118 3.1. Le politiche attive del lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118 3.2. Le politiche passive riferite al lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 3.3. I servizi sociali di attivazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 4. Le politiche formative verso il lifelong learning . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123 4.1. La formazione in alternanza e i contratti a causa mista . . . . . . . . . . . . . 125 4.2. La formazione continua, permanente, individuale . . . . . . . . . . . . . . . . . 127 5. Per concludere: la via italiana al welfare to work . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129 Capitolo 7 Conclusioni. Dall’employability alla capability (R. Lodigiani) . . . . . . . . . . . . . . . . 133 1. Come navigare protetti in un mercato del lavoro “transizionale” . . . . . . . . . 133 2. La sfida di una strategia comune in materia di politiche formative . . . . . . . . 136 3. L’ottica del lifelong learning: dalla formazione permanente a quella iniziale 140 Allegati Allegato 1 - Le tappe fondative della strategia Europea per l’occupazione (M. D’Amico - E. Garavaglia) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147 1. La strategia Europea per l’occupazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147 1.1. Le premesse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147 1.2. Le fasi di avvio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 148 1.3. Le modalità di attuazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150 1.4. La strategia di Lisbona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151 2. Il modello sociale europeo e la politica di inclusione sociale . . . . . . . . . . . . 155 3. Il sostegno finanziario della politica di coesione alle politiche attive del lavoro 160 Allegato 2 - Rassegna bibliografica (M. Cossi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163 Indice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175 177 Pubblicazioni 2002-2007 nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” 1. Nella sezione “studi” 1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. La formazione professionale per lo sviluppo del territorio. Castel Brando (Treviso), 9 - 11 settembre 2002, 2003 2) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XV seminario di formazione europea. Il sistema dell’istruzione e formazione professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi, 2004 3) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVI seminario di formazione europea. La formazione profes- sionale fino alla formazione superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, 2005 4) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orientativi, 2003 5) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Catania, Noto, Modica, 2004 6) CNOS-FAP (a cura di), Gli editoriali di “Rassegna CNOS” 1996-2004. Il servizio di don Stefano Colombo in un periodo di riforme, 2004 7) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, 2002 8) MALIZIA G. - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto sul follow - up, 2003 9) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale, 2004 10) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, 2004 11) D’AGOSTINO S. - G. MASCIO - D. NICOLI, Monitoraggio delle politiche regionali in tema di istruzione e formazione professionale, 2005 12) PIERONI V. - G. MALIZIA (a cura di), Percorsi/progetti formativi “destrutturati”. Linee guida per l’inclusione socio-lavorativa di giovani svantaggiati, 2005 13) NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale nell’anno formativo 2004-2005, 2006 14) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Rapporto di ricerca, 2007 15) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVIII seminario di formazione europea. Standard formativi nell’istruzione e nella formazione professionale. Roma,7-9 settembre 2006, 2007 16) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Rapporto di ricerca (in stampa) 17) NICOLI D., La rete formativa nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP (in stampa) 18) FONDAZIONE PASTORE (a cura di), Il ruolo della formazione in un sistema di welfare attivo (in stampa) 19) MALIZIA G. et alii, Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere (in stampa) 20) MALIZIA G. et alii, Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Problemi e prospettive (in stampa) 2. Nella sezione “progetti” 21) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 22) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 23) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003 178 24) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004 25) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 26) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 27) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale alimentazione, 2004 28) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004 29) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004 30) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale estetica, 2004 31) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004 32) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale tessile e moda, 2004 33) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003 34) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffusione di una buona pratica, 2004 35) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004 36) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale grafica e multimediale, 2004 37) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale legno e arredamento, 2005 38) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale meccanica, 2004 39) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004 40) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, 2003 41) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa. Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d. 42) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003 43) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003 44) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003 45) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 46) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 47) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003 48) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui percorsi formativi, 2003 49) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il percorso quadriennale, 2005 50) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005 51) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005 52) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Percorsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005 53) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006 54) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006 179 3. Nella sezione “esperienze” 55) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003 56) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in itinere, 2003 57) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento finale, 2003 58) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage, 2003 59) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti, 2003 60) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordinatore delle attività educative del CFP, 2005 61) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i percorsi di istruzione e formazione professionale, 2006 62) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro polifunzionale diurno di Roma, 2006 63) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006. Rapporto finale, 2006 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net Giugno 2007

L'educazione degli adolescenti e dei giovani. Una proposta per i percorsi di istruzione e formazione professionale

Autore: 
Dario Nicoli - Roberto Franchini
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2007
Numero pagine: 
115
Dario NICOLI - Roberto FRANCHINI CENTRO NAZIONALE OPERE SALESIANE FORMAZIONE AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE Federazione CNOS-FAP Sede Nazionale L’educazione degli adolescenti e dei giovani. Una proposta per i percorsi di istruzione e formazione professionale 3 SOMMARIO INTRODUZIONE CAPITOLO 1 - Gli apprendimenti nella società complessa........................................ 11 di Dario Nicoli CAPITOLO 2 - Apprendimento di competenze e personalizzazione ......................... 57 di Roberto Franchini CAPITOLO 3 - Una proposta educativa ....................................................................... 85 di Dario Nicoli BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................ 107 INDICE ............................................................................................................................ 111 5 INTRODUZIONE Il progetto ed i suoi obiettivi Il volume intende indagare le potenzialità di apprendimento della cultura del lavoro così come viene assunta, rielaborata e costruita in chiave pedagogica ed or- ganizzativa entro il contesto degli Enti di istruzione e formazione professionale, in riferimento alle caratteristiche delle popolazioni di adolescenti e di giovani che si avvicinano di preferenza a questo ambito del sistema educativo al fine di trovare ri- sposta ai propri bisogni e realizzare il proprio progetto personale di vita e di lavoro. L’ipotesi di fondo da cui si parte afferma la notevole valenza educativa – in forma talvolta esplicita ma spesso implicita – delle culture del lavoro “consistenti” se assunte entro un contesto di istruzione e formazione professionale come “am- biente di apprendimento” adatto a giovani in età di diritto-dovere. Tale potenzialità assume tre valenze fondamentali. 1) La prima che possiamo definire antropologica o “identificativa”: l’ambiente di apprendimento centrato sulla cultura del lavoro risulta maggiormente in grado di motivare e di sollecitare l’impegno di adolescenti e giovani che soffrono le limitatezze dell’impostazione scolastica poiché propone loro di rivestire un ruolo più solido, proiettato nella realtà concreta e di fornire loro un profilo mo- rale concreto. 2) La seconda più strettamente metodologica: l’adozione di pratiche centrate sulla pedagogia dei compiti reali, vissuta nei contesti della formazione professionale a carattere educativo, consente di realizzare un approccio pedagogico comuni- tario ed amichevole che valorizza l’esperienza dei giovani e conduce in modo induttivo verso traguardi di sapere soddisfacenti orientati a compiti concreti, valutati sulla base di specifici prodotti. 3) La terza riferita all’ampliamento del “campo formativo”: la scelta della cultura del lavoro come fonte dei processi di apprendimento mette in gioco relazioni molteplici con i soggetti della comunità (in particolare i genitori) e la realtà so- ciale ed economica di riferimento, in grado di assicurare una cooperazione di intenti riferiti ad un progetto educativo rispetto al quale ciascuno è in grado di cogliere la propria responsabilità e quindi di finalizzare l’apporto di risorse preziose. Il potenziale di apprendimento del lavoro, assunto entro una prospettiva peda- gogica, metodologica ed organizzativa peculiare dall’istruzione e formazione pro- fessionale è in grado di mobilitare tutti i differenti profili di intelligenza della perso- 6 na (il riferimento va alle “intelligenze multiple” di Howard Gardner: linguistica, musicale, matematica, spaziale, corporeo cinestetica, intrapersonale, interpersonale) (Gardner, 1994), con il vantaggio di proporre “centri di interesse” rispetto ai quali sviluppare quell’“insegnamento educativo“ che caratterizza la riforma dell’insegna- mento sostenuta da Edgar Morin (2000), centrata non sulla mera trasmissione del sapere ma su una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione e di aiu- tarci a vivere, attraverso la contestualizzazione e l’integrazione dei saperi. L’istruzione e formazione professionale non rappresenta quindi un ambito edu- cativo minore, adatto a coloro che non riescono negli studi liceali né tecnici1, ma è un luogo educativo di grandi potenzialità, che delinea un ambito dell’offerta forma- tiva, che presenta stimoli e innovazioni proponibili e validi in ogni contesto educa- tivo e formativo. Ciò a condizione che si superi un profilo puramente addestrativo del fare for- mazione, adottando più correttamente finalità ad un tempo educative, culturali e professionali. Il volume mira, attraverso l’analisi e la valorizzazione dell’ampia letteratura nazionale ed internazionale in materia di stili di apprendimento e metodologie del- l’istruzione e formazione professionale, a fornire un panorama completo, e nel con- tempo essenziale, sugli stili di apprendimento dell’istruzione e formazione profes- sionale intesi come “potenziale” ancora non pienamente riconosciuto e valorizzato, in grado di fornire strumenti per rispondere alle sfide della società cognitiva così come formulate e condivise dal nostro Paese nel contesto dell’Unione europea (UE). Presupposti culturali La mancata considerazione della pluralità dei tipi di intelligenza che – secondo una visione diffusa – presentano non soltanto soggetti caratterizzati da un ap- proccio analitico, ma anche altri il cui stile cognitivo e di apprendimento presenta un carattere creativo oppure pratico, conduce ad esiti critici presso una quota non piccola di adolescenti e giovani. L’insistenza eccessiva su proposte che enfatizzano in modo quasi esclusivo lo stile critico-analitico crea difficoltà nei soggetti dall’in- telligenza creativa e sintetica, come pure a coloro che si avvicinano alla realtà me- diante modelli pratici e contestuali. Tutto ciò presenta una valenza rilevante, se osserviamo l’impatto sempre più critico dei processi di globalizzazione (specie quelli di natura culturale) sulla defi- nizione delle identità (disidentità?) di adolescenti e giovani nella nostra società. La globalizzazione conduce nel nostro contesto ad un fenomeno nuovo, che 1 Anche se per le sue valenze costituisce una valida risposta anche a questi soggetti, specie nella formula dell’“Altra chance” o proposta formativa destrutturata. 7 non appare ancora pienamente compreso: la progressiva individualizzazione, e la contemporanea diffusione di sentimenti di paura che ne derivano per i singoli. Se- condo Zygmunt Baumann (2002), le società in cui viviamo sono sempre più carat- terizzate da apatia politica, declino dell’uomo pubblico, ricerca affannosa di comu- nità, scomparsa della vecchia arte di costruire e mantenere legami sociali, paura dell’abbandono, culto disperato del corpo. Le nostre angosce personali sono vissute in modo privatistico, ma presentano una natura fondamentalmente sociale ed in questa prospettiva vanno comprese ed affrontate. La conseguenza di ciò sta nella perdita di riferimenti ed in un clima di vita quotidiana caratterizzato dalla continua pressione psicologica costituita dal fatto che gli ambiti dell’esperienza sono in gran parte esposti ad una continua “costrutti- vità” sociale e meno definiti da modi di vita scanditi tradizionalmente. La realtà sociale nella quale siamo inseriti, disegna pertanto un quadro che tende a complicare il compito educativo a causa della concorrenza di due fattori problematici: l’assenza di un profilo etico condiviso e la crisi istituzionale. L’inde- bolimento della visione etica specie europea richiama le analisi sulle tendenze rela- tivistiche della cultura del nostro tempo, una prospettiva che tende a giustificare il disordine e la decadenza piuttosto che a fornire una visione capace di suscitare energie creative e innovative nel campo sociale. La crisi della figura istituzionale si configura come perdita di consistenza del- l’autorità derivata dalla mancanza di una chiara visione delle mete da perseguire e dei valori su cui spendersi ed inoltre dalla prevalenza nelle istituzioni pubbliche di condotte che perseguono gli interessi di gruppi e corporazioni piuttosto che il sod- disfacimento del bene collettivo. A ben guardare, questo stato di cose disegna una vera e propria crisi societaria che risulta tale non solo per la rilevanza delle sfide che dobbiamo fronteggiare, ma riceve ulteriore spinta problematica dalla perdita di fiducia e dalla caduta di riferimenti in grado di mobilitare le risorse verso il supera- mento dell’attuale stato delle cose. Si crea, alla luce di quanto evidenziato, un indebolimento generale della figura dello studente che perde sia di attrazione sia di ethos; ciò per una quota crescente di adolescenti e giovani diventa causa di una estraneità sofferta e talvolta combattuta, tanto da rendere vani molti degli sforzi posti in atto dai docenti che operano me- diante una strategia di istruzione. Modello interpretativo Il volume integra l’approccio sociologico con quello pedagogico e di psico- logia dell’apprendimento intorno all’ipotesi della pluralità delle “culture ambiente “ e delle “culture adolescenziali e giovanili”. Secondo tale impostazione, il suc- cesso delle azioni formative risulta dalla corrispondenza delle caratteristiche di queste ultime con le culture-ambiente e le culture dei destinatari cui si riferiscono. 8 Questa corrispondenza tende a sostituire alla nozione di “innovazione” quella di “adeguatezza”; ciò comporta la necessità, da parte di chi elabora una proposta for- mativa, di rintracciare i fattori culturali e motivazionale sia dell’ambiente sia degli utenti cui ci si riferisce, così da sviluppare interventi costruiti secondo gli esiti di tale ricostruzione/comprensione. Ad esempio, in un contesto a forte valenza “lavorista” come l’Alto Adige, il Trentino ed il Veneto, la proposta formativa professionalizzante è sorretta da un grande consenso sociale e quindi risulta decisiva la capacità dell’organismo forma- tivo di sapersi inserire nelle dinamiche reali del contesto territoriale, sociale ed eco- nomico in cui opera. In un contesto di elevata complessità e varietà di offerte formative, risulta de- cisiva la forte personalizzazione degli interventi e la qualità delle esperienze che si svolgono nel processo di apprendimento sia entro la struttura, sia nelle organizza- zioni partner tra cui le imprese. Infine, in un contesto di problematicità sociale, è decisivo il carattere comuni- tario della proposta e la capacità di creare un ethos distintivo che consenta di dare vita a percorsi di qualificazione professionale ma anche di formazione di strutture di socialità virtuosa. Accanto a ciò occorre considerare tre fenomeni nuovi emergenti tra le popola- zioni di adolescenti e di giovani: 1) La comparsa di una quota di popolazione che pone in atto una “resistenza al- l’apprendimento” che nonostante l’aumento dei servizi educativi non trae da essi i benefici attesi risultando per questo emarginata nel contesto civile e so- ciale. Ciò segnala una debolezza dei dispositivi educativi basati sull’idea del recupero cognitivo e richiede nuovi modelli di tipo destrutturato che promuo- vano il potenziale presente in questi giovani disegnando percorsi graduali di integrazione sociale, partendo dall’idea di lavoro desiderato e creando le occa- sioni per un esercizio formativo di compiti reali nei contesti organizzativi. 2) La problematica del “multiculturalismo” che, al di là di interpretazioni utopi- stiche, propone problemi educativi e sociali inediti connessi alla presenza nei territori e nelle classi scolastiche di quote sempre maggiori e variegate di ra- gazzi appartenenti a culture ed etnie differenti tra di loro. 3) Il tema della “sregolatezza” ovvero dell’assenza di un’educazione morale so- stenuta dalla famiglia e dalla scuola del primo ciclo, che conduce all’impossi- bilità di elaborare un patto formativo nella forma tradizionale della figura dello studente. Questi fenomeni portano ad un maggiore apprezzamento della proposta dell’i- struzione e formazione professionale, in quanto metodologia in grado di sollecitare la motivazione, sviluppare progetti personali concreti, delineare percorsi di integra- zione e nel contempo di valorizzazione culturale. Basati sull’enfasi sulla costru- zione della conoscenza piuttosto che alla sua riproduzione, sulla consapevolezza 9 della naturale complessità del mondo reale evitando così eccessive semplificazioni, sulla progressione sulla base di compiti autentici e contestualizzati, non astratti, sull’offerta di ambienti di apprendimento assunti dal mondo reale, basati sui casi, sull’alimentazione di pratiche riflessive, sul lavoro dello studente finalizzato alla costruzione di conoscenze dipendenti dal contesto e dal contenuto, sullo stimolo della costruzione cooperativa della conoscenza, attraverso la negoziazione sociale. 11 Capitolo 1 Gli apprendimenti nella società complessa Dario NICOLI 1. Un conflitto culturale latente Diversi fenomeni stanno a segnalare l’esistenza, nelle società cosiddette com- plesse, di una problematica dell’apprendimento di tipo nuovo, che non può essere totalmente ricondotta al quadro delle società di “prima acculturazione” presentando questa aspetti peculiari, propri del modello attuale di società. Mentre nelle società tradizionali la distanza tra i ceti popolari e la cultura era costituita soprattutto dall’assenza di mezzi logistici (la vicinanza della scuola alle abitazioni, la disponibilità di libri) oltre che economici, nelle società complesse si assiste ad un paradosso, ovvero che con il crescere dei livelli di scolarità e di for- mazione obbligatoria, si alimenta via via una quota di popolazione che non riesce a perseguire i traguardi indicati, mentre si coglie una sorta di resistenza all’apprendi- mento costituita da adolescenti e giovani che rifiutano di fornire la propria disponi- bilità ai processi di acculturazione, nonostante siano loro offerti i mezzi logistici e strumentali a tale scopo, preferendo rimanere nella propria cultura di appartenenza che, in vario modo, attribuisce alla cultura ufficiale una valenza di inutilità se non proprio di negatività. Questo fenomeno appare particolarmente accentuato, proprio per il fatto che nelle società più evolute la cultura risulta essere un fattore rilevante di cittadinanza reale, tanto da dar vita ad una stratificazione sociale caratterizzata appunto dalla maggiore o minore padronanza dei mezzi culturali. Infatti, in molti casi, i processi di arricchimento della popolazione che costituisce il nuovo ceto medio, preponde- rante nella struttura della società attuale, si accompagnano ad una povertà culturale, mentre taluni ceti intellettuali risultano a reddito fisso e quindi presentano mezzi economici inferiori rispetto a questi ceti arricchiti. Di conseguenza, accanto alle tra- dizionali stratificazioni sociali definite sulla base del fattore economico, risultano rilevanti nuove interpretazioni che indicano l’esistenza di fenomeni di differenzia- zione sociale centrati sul possesso della leva culturale. Si tratta del contrasto tra cul- tura codificata ovvero accademica e cultura agita, un contrasto che genera fenome- ni di incomprensione e di sottovalutazione delle vicende che mantengono estranee molte quote della popolazione dagli standard culturali ufficiali sanciti per legge; ciò accade specie da parte del quadro dirigente delle istituzioni pubbliche che control- lano peraltro buona parte del sistema scolastico. 12 Si coglie anche su questo terreno una particolare forma di discrasia tra i fattori problematici reali e le categorie culturali con cui questi fattori vengono visti; di conseguenza, le proposte di soluzione che vengono perlopiù adottate, essendo tratte da una visione culturale collocata in un periodo storico precedente, risultano ineffi- caci o addirittura deleterie per contrastare i fenomeni di esclusione di vaste quote di popolazione dal bene-cultura. È questo il caso, ad esempio, di coloro che ritengono di poter affrontare la do- manda formativa dell’attuale società, che presenta forti caratteri di differenziazione ad ogni livello, adottando la strategia che ha portato nel 1962 alla creazione della scuola media unica, dimenticando non solo che i 45 anni trascorsi da allora hanno visto una straordinaria trasformazione della società e della sua cultura, ma che la stessa scuola media unica è vista oggi da molti osservatori come un obiettivo man- cato, avendo essa riproposto una sorta di ciclo triennale enciclopedico, e nel con- tempo avendo mancato la finalità orientativa che ne costituiva uno dei fattori più ri- levanti. Il problema è costituito per la gran parte dal forte influsso, trattando di pro- blemi di scuola e di sistema educativo, del ragionamento ideologico di natura poli- tica, che mira alle semplificazioni ed alla creazione di stereotipi oppositivi in grado di individuare ogni volta un amico ed un nemico. Ma è rilevante pure l’in- flusso di stereotipi ideologici di natura culturale, come quello che afferma l’oppo- sizione tra teoria e prassi, tra cultura codificata entro un sistema istituzionale do- tato di libri di testo e cattedre, e cultura agita, ovvero quella che opera nella vita sociale ed economica e che non risulta facilmente traducibile entro strutture di tipo istituzionale. Tutto quanto indicato, spiega l’esistenza nella nostra società di un vero e pro- prio conflitto culturale in forma latente che si presenta sotto tre aspetti: 1) il conflitto tra la cultura codificata e le culture agite che mette in evidenza il contrasto tra i processi di istituzionalizzazione culturale e le dinamiche proprie delle culture che sono al centro dell’evoluzione della società, 2) il conflitto tra istituzioni pubbliche portatrici di un proprio “progetto culturale” che viene proposto-imposto ai cittadini mediante i dispositivi dell’obbligo e le visioni pedagogiche reali che vivono entro il corpo sociale e che risultano con- vincenti presso la popolazione del luogo (si pensi ad esempio alla cultura lavo- rista del Nord Italia e quella familista del Meridione), 3) il conflitto tra ideologie culturali dominanti, molto segnate da Weltanshaunng di origine politica, e le visioni del mondo implicite nelle culture dell’azione proprie della società complessa, tendenti al pragmatismo. Gli esiti di questi conflitti risultano deleteri per il sistema-paese: – mentre si impongono ai giovani percorsi scolastici basati su una quota eccessi- va di “cultura di base” spesso slegata dalla realtà concreta, vengono ridotti con- 13 tinuamente – oppure negati1 – i percorsi professionalizzanti che consentono un inserimento attivo e competente. Ciò accade sia nelle Regioni del Nord Italia, dove esiste un forte sistema di offerta formativa professionalizzante, sia nel Centro-Sud dove tale sistema è più debole e richiederebbe un piano di sviluppo peraltro coerente con le politiche desiderate dagli stessi Enti locali. – L’insuccesso scolastico di una quota rilevante di giovani iscritti nei “percorsi lunghi” provoca un loro ripiegamento verso i percorsi brevi professionaliz- zanti, non in base ad una opzione specifica, bensì solo come rimedio ad una carriera scolastica deficitaria. In tal modo si ottiene una “onda di rimbalzo” che conduce a classi costituite da persone segnate dall’insuccesso e che vanno motivate alla professione recuperando la loro autostima ed il loro desiderio di riuscita oltre che di rivalsa. – L’assenza di un moderno sistema di orientamento provoca un effetto di passag- gio di una quota della popolazione che può essere quantificata in oltre il 25% del totale, composta da coloro che trovano difficoltà negli studi a causa della non convinzione circa l’esattezza della scelta fatta. Ad essi vanno sommati co- loro che, essendo già giunti negli anni conclusivi dei percorsi, si convincono per motivi pratici al loro completamento pur essendo consapevoli della non ri- spondenza di quanto studiano rispetto a ciò che avvertono come necessario per loro stessi. La “teoria delle passerelle” che qualcuno sostiene come un fatto in sé positivo, in realtà risulta il rimedio altrettanto incerto e doloroso di una inca- pacità di delineare processi di orientamento vocazionale, a loro volta impediti da un impianto culturale dominante centrato eccessivamente sulle discipline in- vece che sulle disposizioni e sul potenziale buono delle persone. La spinta verso i licei proveniente da buona parte del mondo scolastico genera una sostanziale carenza di figure di qualificati, di tecnici intermedi e di tecnici e quadri superiori, in assenza dei quali il processo economico subisce un freno non rimediabile con l’inserimento di personale proveniente da altri Paesi. Ciò provoca effetti paradossali: lo stesso sindacato, infatti, nelle sedi in cui si discute di sviluppo e di capitale umano sembra consapevole di questa realtà e della necessità di qualifi- care l’offerta professionale, mentre in sede di politiche scolastiche ed educative so- stiene perlopiù la posizione opposta. Il tema della cultura si pone quindi al centro di una linea conflittuale che spesso viene negata da parte delle pubbliche amministrazioni, al punto che il ceto degli insegnanti finisce per non possedere le categorie culturali adatte per scoprirne la natura così da passare da una logica di imposizione ad una di adeguazione del- l’offerta formativa alle caratteristiche dell’ambiente di riferimento. 1 Si veda il caso della Regione Sardegna che ha voluto chiudere l’esperienza dell’Istruzione e formazione professionale, che aveva avuto un successo considerevole negli anni scorsi, generando il tal modo un aumento netto della dispersione scolastica. 14 Tale indisponibilità di categorie culturali adeguate alimenta a sua volta una nuova distanza, generando un circolo vizioso che a sua volta alimenta il forma- lismo della cultura offerta e l’estraneità di taluni ceti di adolescenti e giovani – e di molta parte degli adulti – a tale cultura non vissuta come propria. In tal modo, la maggioranza degli insegnanti ritiene che i fenomeni di insucces- so e di dispersone scolastica e formativa siano da attribuire ad una sorta di “imbarba- rimento” delle giovani generazioni, deturpate dai mass media e dal consumismo, mentre in realtà buona parte del problema è costituito dalla necessità di dare vita a processi di modernizzazione dei sistemi educativi, al centro dei quali vi è la necessi- tà da parte della scuola di uscire da una sorta di autoreferenzialità culturale per giun- gere ad una prospettiva di patto educativo con il contesto territoriale di riferimento. Inoltre è richiesta la capacità di superare una sorta di uniformità del metodo – spesso centrato sulla prevalenza dell’approccio teorico-deduttivo – per mobilitare le varie forme di intelligenza che compongono l’esperienza personale del destinatario e di selezionare i contenuti essenziali su cui costruire il curricolo, evitando così di ottene- re, con l’intento di insegnare tutto, l’effetto di un apprendimento nullo. Buona parte di queste modernizzazioni si collocano nel solco della valorizza- zione dell’istruzione e formazione professionale (in Europa definita con l’espres- sione VET - Vocational Educational Training), poiché raccoglie in sé buona parte delle caratteristiche tali da poter ovviare alle criticità sopra indicate e consentire l’accesso dei giovani ad un livello culturale più elevato, perseguito nel solco delle culture del lavoro e delle professioni presenti nell’ambiente sociale circostante, pe- raltro il più attivo dal punto di vista dei processi di innovazione. In questo senso, la capacità di contrastare effettivamente i fenomeni di disper- sione scolastica e formativa risulta strettamente connessa alla reale valorizzazione dell’istruzione e formazione tecnico-professionale come leva culturale e di inclu- sione sociale di una vasta quota di giovani ed adulti che, in presenza di un sistema educativo centrato esclusivamente su un modello autoreferenziale e rigido di istitu- zione scolastica, rimarrebbero consegnati ad una cultura meramente dell’azione, e quindi non pienamente consapevoli dei significati e dei legami che connettono l’e- sperienza particolare al processo più generale della civiltà. 2. La questione della dispersione Si è diffusa tra esperti ed operatori del sistema educativo la convinzione secondo cui il male della scuola sia riconducibile alla espressione “dispersione scolastica“. Questo termine in realtà riflette il punto di vista istituzionale (tendente alla piena rea- lizzazione delle politiche dell’obbligo sotto forma di acquisizione di titoli di studio) ed il reale tasso di scolarità della popolazione, ma non comprende la prospettiva dell’“insuccesso formativo” ovvero la mancata valorizzazione delle potenzialità per- sonali dei destinatari in vista della realizzazione del progetto di vita di ciascuno. 15 Da questo punto di vista, risulta come siano quasi un milione i ragazzi italiani in possesso della sola licenza media, e quasi mezzo milione i cosiddetti “dispersi’’ che la scuola genera ogni anno. A collocare i ragazzi italiani agli ultimi posti in Europa bastano solo questi due dati – forniti dal Ministro della Pubblica Istruzione – che possono aiutare a spiegare sia le crescenti difficoltà di inserimento lavorativo di tantissimi ragazzi sia le criticità di un’economia che risulta frenata dall’assenza di risorse umane adeguate, specie delle cosiddette qualifiche intermedie, quelle tecniche e professionali. L’Italia pare essere il regno degli “early school leavers” ovvero di coloro che si sono congedati un po’ troppo presto dalla scuola. Nel nostro Paese, nel 2006, se ne contavano ben 890 mila: ragazzi di età compresa fra i 18 e i 24 anni – pari al 20,6% del totale di quella fascia – in possesso della sola licenza media e che non partecipano a nessuna forma di educazione o formazione. Insomma, giovani usciti definitivamente dai circuiti formativi. Il dossier del Ministero dal titolo “La dispersione scolastica: indicatori di base per l’analisi del fenomeno” (MPI 2006) inquadra un fenomeno che incide per circa 3 miliardi di euro l’anno di costi diretti e una cifra non quantificabile di costi indiretti che possono essere molto pesanti tenuto conto della mancata valorizza- zione personale e sociale delle risorse umane che in un tale circuito risultano de- potenziate e disperse. Quest’ultima è una nota del Commissario europeo per l’istruzione, la forma- zione, la cultura e il multilinguismo, Ján Figel, che avverte: “Sistemi d’istruzione e di formazione efficienti possono avere un notevole impatto positivo sulla nostra economia e società ma le disuguaglianze nell’istruzione e nella formazione hanno consistenti costi occulti che raramente appaiono nei sistemi di contabilità pub- blica. Se dimentichiamo la dimensione sociale dell’istruzione e della formazione, rischiamo di incorrere in seguito in notevoli spese riparative” (Commissione eu- ropea, dichiarazione in data 8 settembre 2006, IP/06/1159). Ed è ciò che la maggio- ranza delle amministrazioni del nostro Paese sono impegnati a fare, quasi che la istruzione e formazione professionale non costituisca una proposta di pari dignità, bensì un rimedio ai mali della scuola. La dispersione è un fenomeno complesso i cui contorni sono di difficile deli- neazione. Come afferma lo studio del Ministero, limitando l’analisi all’ambito scolastico, la dispersione non si identifica unicamente con l’abbandono, ma riunisce in sé un insieme di fenomeni – irregolarità nelle frequenze, ritardi, non ammissione all’anno successivo, ripetenze, interruzioni – che possono sfociare nell’uscita anticipata dei ragazzi dal sistema scolastico. Il livello di partecipazione scolastica viene analiz- zato ricorrendo alle “Rilevazioni Integrative” condotte dal Ministero della Pubblica Istruzione. Queste indagini forniscono un quadro sugli iscritti ai vari livelli scola- stici, nonché sulla tipologia di gestione e corsi a cui gli studenti partecipano. Per quantificare il fenomeno della dispersione occorre partire dalla platea degli aventi 16 diritto che può essere costruita solo ricorrendo alle informazioni anagrafiche in possesso dei comuni e/o alle anagrafi del Servizio Sanitario Nazionale. Il confronto tra questi dati e quelli forniti dal sistema scolastico e, dopo la scuola media, anche da quelli della formazione professionale e del lavoro, consentirebbe di accertare chi è “scivolato fuori” – drop out – dal sistema scolastico. I dati, invece, a nostra dis- posizione consentono soltanto di individuare chi è a rischio di dispersione e/o ab- bandono. Nonostante questa difficoltà di misurazione, la dispersione scolastica può co- munque essere analizzata attraverso lo studio di diversi indicatori che offrono spunti importanti di riflessione sull’entità e sulla caratterizzazione del fenomeno. In questo caso le situazioni vanno dall’abbandono scolastico alle ripetenze, dall’irre- golarità della frequenza al ritardo scolastico rispetto all’età anagrafica. Il punto di riferimento non può che essere costituito dalla UE che, nella Conferenza di Li- sbona ha individuato nella riduzione della dispersione uno dei cinque benchmarck che i Paesi membri dovranno raggiungere nel campo dell’istruzione entro il 2010. Graf. 1 - 18-24enni con la sola licenza media e non più in formazione in alcuni Paesi europei (per 100 coetanei) - Anni 2000, 2005 Fonte: Eurostat L’indicatore che viene utilizzato per dar conto del fenomeno della dispersione in ambito europeo è calcolato ricorrendo alla rilevazione sulle forze di lavoro del- l’ISTAT. Da questo ne deriva un indice definito come “quota di giovani (18- 24enni) che hanno conseguito un titolo di studio al massimo ISCED 2 (scuola se- condaria di primo grado) e che non partecipano ad attività di educazione/forma- zione rispetto ai giovani di età 18-24 anni” (early school leavers). L’obiettivo al 2010 è quello di ridurre la quota degli early school leavers al 10%. Diversamente dalla chiave di lettura nazionale, che solitamente circoscrive il fenomeno agli anni di età scolare, l’indicatore europeo, essendo riferito ai 18-24enni, quantifica l’inter- ruzione precoce degli studi sia di tipo scolastico che formativo della popolazione ormai fuori dal sistema. In sostanza, ciò significa che il punto di riferimento che l’UE propone riflette una concezione riferita alla formazione nella prospettiva di tutta la vita, e ciò contrasta con la visione italiana che fa del titolo di studio un fat- 17 tore a sé stante, slegato dalla possibilità di assumere grazie ad esso un ruolo sociale riconosciuto. Considerando il quadro europeo, nel 2005 la percentuale dei dispersi dei 25 Paesi membri è stata pari al 14,9% (Graf. 1). In Italia, gli school leavers rappresen- tano il 21,9%, mentre in Germania la quota è sensibilmente più bassa (12,1%), così come in Francia (12,6%) e nel Regno Unito (14%). Rispetto alla media prefissata del 10%, obiettivo da raggiungere entro il 2010, il nostro Paese ha più di undici punti di differenza da colmare. Anche se emergono progressi rispetto alla situazione del 2000, quando gli early school leavers risulta- vano il 25,3% (una parte dei quali è rappresentato dai giovani transitati presso l’i- struzione e formazione professionale che, prima delle sperimentazioni, non era conteggiata tra i percorsi in grado di assolvere al diritto-dovere / obbligo forma- tivo/obbligo di istruzione), l’Italia continua ad avere un divario piuttosto rilevante rispetto agli altri Paesi europei, al di là di ogni considerazione di tipo sociologico o politico riguardante il fenomeno. Nel 2006 si assiste ad un ulteriore miglioramento rispetto all’anno precedente che porta la percentuale nazionale al 20,6% (Graf. 2). Graf. 2 - 18-24enni con la sola licenza media e non più in formazione per Regione (per 100 coetanei) - Anni 2006 (*) Il dato complessivo del Trentino Alto Adige è il risultato di due situazioni profondamente differenti relative a Trento e Bolzano. A Bolzano, in particolare, l’incidenza degli early school leavers è del 27,6% mentre a Trento la quota assume il valore minimo del 9,5% Fonte: Istat - Rilevazione Forze di Lavoro Se si considerano le percentuali a livello regionale, il raggiungimento dell’o- biettivo appare piuttosto difficoltoso per la Sardegna e la Sicilia dove circa il 30% dei ragazzi è fermo alla licenza media e non frequenta alcun corso di riqualifica- zione professionale. Va peraltro detto che nessuna Regione italiana presenta attual- mente un livello di dispersione al di sotto del 10%. 18 Siamo di fronte ad un dato che indica non solo un saldo numerico, ma anche un’impostazione strutturale del nostro sistema educativo che tende ad una separa- zione patologica rispetto alla realtà sociale; ciò pare dovuta ad una eccessiva rigi- dità dei percorsi, oltre che ad una mancata finalizzazione dei contenuti in termini di competenze valide nel nuovo contesto sociale e spendibili nell’ambito del lavoro e delle professioni. Ai dati relativi alla quota di giovani in possesso di titoli di studio vanno ag- giunti quelli relativi agli esiti degli scrutini ed esami di licenza. Ebbene: nell’anno scolastico 2004/05, il 2,7% degli studenti scrutinati della scuola secondaria di primo grado e l’11,4% di quella di secondo grado non è riuscito a concludere con successo l’anno scolastico (Tab. 1). Tab. 1 - Studenti non ammessi alla classe successiva/non diplomati-non licenziati per li- vello scolastico, sesso e anno di corso (per 100 scrutinati) - Scuola statale e non statale - Anno scolastico 2004-05 Anni di corso Totale I II III* IV V TOTALE Secondaria di I grado 2,7 2,9 2,8 2,4 – – Secondaria di II grado 11,4 18,1 13,5 10,3 10,0 3,3 MASCHI Secondaria di I grado 3,5 3,9 3,7 3,0 – – Secondaria di II grado 14,2 21,1 16,8 13,3 13,3 4,6 FEMMINE Secondaria di I grado 1,8 1,7 1,8 1,8 – – Secondaria di II grado 8,4 14,8 10,1 7,2 6,6 2,1 (*) Tra i non ammessi del 3° anno sono inclusi i non qualificati degli istituti professionali e d’arte Fonte: MPI - Rilevazione sugli esiti degli scrutini e Rilevazione sugli Esami di Stato Le maggiori difficoltà che concorrono a rendere consistente questo fenomeno si evidenziano soprattutto all’inizio dei due cicli di istruzione, quando lo studente si trova ad affrontare un nuovo ambiente, nuove discipline ed un nuovo metodo di studio: il 2,9% degli studenti del primo grado e il 18,1% del secondo grado devono ripetere il primo anno, quota che si va riducendo con il crescere degli anni di corso. Il salto che si verifica nel passaggio tra il primo e il secondo grado della scuola su- periore mostra, inoltre, le difficoltà legate alla scelta di un percorso di studi ade- guato alle proprie capacità ed interessi. Ciò riflette un problema di orientamento ed indica un sostanziale insuccesso della finalità orientativa della scuola media, che avrebbe dovuto assolvere a tale ruolo secondo un impianto non disciplinare ma progettuale, centrato sulle aspettative e sulle potenzialità dei destinatari. Tra i non ammessi le differenze tra i sessi sono alquanto rilevanti, infatti, le ra- 19 gazze mostrano una maggiore attitudine allo studio con risultati migliori rispetto ai loro coetanei maschi: in entrambi i livelli scolastici e in tutti gli anni di corso la percentuale di non ammesse è nettamente inferiore a quella dei maschi. Anche la questione dei debiti formativi vede un’area di sofferenza che varia dal 28 al 44% del totale. Ecco come si presentano i risultati degli scrutini finali nel ciclo secondario. Graf. 3 - Risultati degli scrutini (per 100 iscritti) - Scuola secondaria di II grado statale e non statale - Anno scolastico 2004-05 Fonte: MPI - Rilevazione sugli esiti degli scrutini Vi è un rapporto tra insuccesso scolastico e cambiamento di indirizzo: è uno de- gli esiti del primo, accanto all’allontanamento dalla scuola. Emerge in effetti anche una dinamica di passaggi dalla scuola statale a quella non statale. Si nota quanto detto in precedenza, ovvero che uno dei flussi di passaggio più consistente risulta essere quello dai percorsi liceali a quelli tecnici e professionali (Grafici 4 e 5). Le analisi dei dati forniti dal Ministero della Pubblica Istruzione ci consentono di rilevare alcuni aspetti rilevanti per comprendere il carattere del rapporto tra gio- vani e istruzione: 1) l’ambito dove maggiori sono le interruzioni è rappresentato dagli istituti pro- fessionali (7,2% degli iscritti), con cifre più rilevanti per le Regioni meridio- nali (8% di interruzioni al sud e 9,9% nelle isole) dove chi si allontana lo fa senza alcuna giustificazione (5,3% di interruzioni non formalizzate al sud e 6,5% nelle isole); 2) più della metà dei flussi in uscita al primo anno di corso degli istituti profes- sionali si traduce in abbandoni del sistema; 3) è rilevante l’abbandono anche negli istituti di istruzione artistica e tecnica; 4) il fenomeno degli abbandoni è invece molto contenuto nei licei ed è poco si- gnificativo il numero di studenti che lascia la scuola senza formalizzare l’inter- ruzione. 20 Si nota quindi una sofferenza propria degli istituti tecnici e professionali, oltre che artistici, che pare non riescano – relativamente alle altre opportunità – a moti- vare e legare a sé gli studenti. È questo un dato che ricorre in modo stabile almeno da quindici anni, e risulta costante anche in contesti territoriali differenti, segno che si tratta di una debolezza strutturale di questo ambito del sistema educativo. Circa le fasce d’età, emerge un quadro di pressoché completa scolarizzazione fino all’età di 14 anni. I problemi cominciano a partire dai 15 anni, e colpisce il rapporto biunivoco in negativo tra scarsa scolarizzazione e scarsa presenza dei percorsi di istruzione e formazione professionale: ciò accade “soprattutto nelle re- gioni in cui, a fronte dei modesti livelli partecipativi al sistema di istruzione, è mo- desta anche la quota dei partecipanti ai corsi di formazione professionale” (MPI 2006, 11). Ciò conferma l’irrazionalità della mancanza di un sistema stabile di istruzione e formazione professionale specie nelle Regioni meridionali, ed ancora di più di quanti, come la Regione Sardegna la quale, dopo averlo promosso nel recente pas- sato con esiti positivi, hanno successivamente proceduto – con una nuova maggio- ranza politica – allo smantellamento di tale offerta formativa, a seguito del quale i ragazzi non si sono iscritti ai percorsi scolastici, ma hanno semplicemente disertato le scuole. In questo modo, quasi un terzo dei giovani che, conseguita la licenza media, si iscrive al ciclo successivo, non riesce a concludere positivamente gli studi tramite l’ottenimento di un diploma o di una qualifica professionale. Circa la differenza di sesso, appare una costante di fondo, non condizionata dagli ambiti, dai livelli né dalla variabile territoriale, secondo cui sempre il rendi- mento scolastico delle ragazze risulta superiore a quello dei ragazzi (78,1% di pro- Graf. 4 - Ripetenti iscritti nella scuola non statale provenienti dalla scuola statale per anno di corso (per 100 iscritti) - Scuola Secondaria di II grado - Anno scolastico 2005-06 Graf. 5 - Ripetenti iscritti nella scuola non statale provenienti dalla scuola statale per tipo di indirizzo (per 100 iscritti) - Scuola Secondaria di II grado - Anno scolastico 2005-06 Fonte: MPI - Rilevazioni Integrative 21 babilità di conseguire il diploma contro il 67,1% dei maschi) soprattutto nel caso degli istituti professionali e tecnici (56,5% di ragazze diplomate nei professionali contro il 41,5% dei ragazzi e 87,6% contro 74,5% nei tecnici). Ciò che appare dai dati emergenti, è un quadro abbastanza preoccupante poiché rivela una realtà propriamente italiana, connotata dalla estenuazione del mo- dello scolastico tradizionale, quello centrato sui contenuti e distaccato dal contesto territoriale, piuttosto che sulla ricerca di innovazioni tali da consentire un patto educativo e formativo tra tutti coloro che concorrono alla qualità dell’istruzione. 3. Rilevanza delle “culture ambiente” La variabile territoriale risulta di grande rilevanza per comprendere la realtà in cui si collocano le varie offerte formative nella realtà italiana. Esse infatti riflet- tono sia variabili interne al sistema (autoreferenzialità) sia variabili esterne carat- terizzate dalle diverse culture che si riscontrano nei territori, specie per ciò che concerne il modo di concepire il valore dell’istruzione e della cultura formale in genere. Uno studio di Sugamiele ci aiuta a tale scopo, riflettendo su dati del 2003-2004. Egli afferma infatti che “una attenta analisi dell’attuale distribuzione dell’offerta di istruzione potrebbe aiutare a meglio comprendere i fenomeni di scelta in relazione ai contesti sociali e produttivi del Paese e a favorire chiavi di lettura della riforma meno ideologiche e più attente ai bisogni reali” (Sugamiele, 2005, 2). Concentrando l’attenzione sulla distribuzione dell’offerta di istruzione statale, ne emerge il seguente quadro a livello nazionale: 9,69% licei classici; 20,03% licei scientifici; 7,45% istituti magistrali; 22,17% istituti professionali; 36,70% istituti tecnici; 3,94% istituti artistici. Ma è soprattutto l’analisi della distribuzione per aree geografiche a fornire in- teressanti chiavi di lettura. Da questa emerge una differente mappa circa la pre- senza dell’istruzione tecnica e professionale, secondo una tendenza che connette questa componente dell’offerta formativa ai processi di sviluppo sociali ed econo- mici del territorio: più questi processi sono attivi e diffusi, maggiore è l’impegno dei giovani nell’istruzione tecnica e professionale, meno il tono dello sviluppo è accentuato, minore è l’investimento in percorsi professionalizzanti. Si potrebbe dire, con un’espressione proverbiale: “piove sul bagnato”. In senso più analitico, si conferma anche su questo punto la mancata funzione della scuola come strumento che concorre ad innestare processi di sviluppo più elevati rispetto a quanto il con- testo territoriale già proponga. In effetti, l’Istruzione tecnica è più sviluppata nel Nord-ovest e nel Nord-est del Paese, l’Istruzione professionale nel Nord-est e nel Sud, il liceo classico nelle Regioni del Centro e delle Isole, il liceo scientifico nel Nord-ovest, l’istruzione ma- gistrale nel Sud e nelle Isole. 22 Come si può vedere dalla tabella (cfr. Tab. 2), le differenze territoriali sono un fattore discriminante dell’intero quadro dell’offerta formativa; esse appaiono an- cora più vistose se si scende a livello delle singole Regioni con variazioni che rag- giungono i 10 punti percentuali: – l’istruzione tecnica raggiunge la percentuale del 42,07% in Lombardia contro il 32,62% della Campania; – l’istruzione professionale varia dal 25,36% dell’Emilia Romagna al 14,13% del Molise; – il liceo classico raggiunge la ragguardevole percentuale del 15,40% nel Lazio contro appena il 5,84% della Lombardia; – il liceo scientifico varia dal 23,05% del Lazio al 16,10% del Veneto. Tab. 2 - Distribuzione dell’offerta formativa statale per tipologia di istituto, regione e area geografica. Iscritti 2003/04. Valori percentuali Regione Classici Scientifici Magistrali Professionali Tecnici Artistici Piemonte 7,37 21,53 6,41 21,99 39,31 3,39 Lombardia 5,84 19,71 6,47 22,08 42,07 3,82 Liguria 11,78 21,43 7,34 21,9 33,47 4,08 Veneto 9,1 16,1 6,74 24,49 39,49 4,09 Friuli V.G. 5,96 22,28 6,43 23,76 36,29 5,28 Emilia Romagna 9,93 18,53 4,06 25,36 37,99 4,13 Toscana 7,41 22,13 8,43 21,64 35,11 5,28 Umbria 12,67 20,59 4,95 21,59 35,56 4,64 Marche 12,58 18,84 1,97 23,7 37,72 5,19 Lazio 15,4 23,05 5,96 18,62 32,74 4,22 Abruzzo 9,28 20,6 11,39 15,69 38,25 4,79 Molise 10,12 18,47 12,88 14,13 39,15 5,25 Campania 9,19 20,94 10,8 22,9 32,62 3,54 Puglia 10,98 17,54 6,93 24,13 37,19 3,24 Basilicata 8,47 19,23 8,28 24,09 37,03 2,89 Calabria 8,69 21,21 7,37 22,46 36,7 3,57 Sicilia 11,12 19,07 9,19 22,73 33,95 3,94 Sardegna 9,8 20,37 7,45 17,83 41,25 3,29 ITALIA 9,69 20,03 7,45 22,17 36,7 3,94 Area geografica Classici Scientifici Magistrali Professionali Tecnici Artistici NORD OVEST 6,87 20,41 6,54 22,04 40,42 3,72 NORD EST 9,06 17,83 5,61 24,75 38,49 4,25 CENTRO 12,14 17,86 6,84 19,66 34,9 4,71 SUD 9,63 19,82 8,88 23,27 34,96 3,42 ISOLE 10,8 17,41 8,77 21,54 35,71 3,78 Fonte: Elaborazione su dati MIUR. Iscritti a.s. 2003/04 23 Si prospettano, in altri termini, almeno due diverse “Italie” per ciò che ri- guarda la mappa dell’offerta formativa per ambiti e settori; ciò è più accentuato se ci riferiamo alla distribuzione dell’offerta nell’area tecnico professionale e scienti- fica (Graf. 6). – Il Nord-ovest risulta l’area regionale, che con l’82,87% di istruzione tecnica, professionale e del liceo scientifico, si caratterizza maggiormente per un’of- ferta concentrata in questa area, seguita dal Nord-est con l’81,07%. Il Centro, con il 72,42%, si distanzia di oltre 10 punti, il Sud si attesta sull’78,05% e le Isole sul 74,67%, otto punti in meno del Nord-ovest. – Nel Centro-Sud e nelle Isole prevale di contro l’istruzione classica e magi- strale. Graf. 6 - Distribuzione dell’offerta formativa statale per tipologia di istituto e area geogra- fica. Iscritti 2003/04. Valori percentuali Fonte: MPI - Rilevazione sugli esiti degli scrutini Le differenze sono così vistose da suggerire una diversa “divisione del lavoro formativo” tra le aree geografiche del Paese, ma sappiamo anche che ciò è con- nesso alla diversa considerazione del valore dei titoli di studio, dalla propensione al lavoro pubblico/lavoro privato, dalla presenza di fattori concorrenti rispetto alla scuola specie costituiti dal mercato del lavoro e dalle sue opportunità di occupa- zione, di reddito, di avanzamento sociale. Con ciò non si vuole sostenere che l’offerta formativa condizioni direttamente il tipo di sviluppo del contesto territoriale, anche perché potrebbe essere valido il contrario; ma certamente, al di là di facili determinismi, è ragionevole pensare che l’istruzione concorra con altri fattori nel delineare la direzione ed il tono dei pro- cessi di sviluppo, assecondando o anticipando le domande formative e professio- nali, oppure contrastandole palesemente. 24 Ciò si coglie anche dai dati circa la propensione dei giovani a concludere gli studi: questa sembra dipendere non solo dalla capacità di attrazione del sistema scolastico, ma anche dalle prospettive e dalle possibilità offerte dal mondo del la- voro. Questo potrebbe spiegare perché gli istituti tecnici del Nord presentano più basse chances di ottenimento di un diploma rispetto alle altre aree. Si può infatti ipotizzare che la possibilità di assorbimento occupazionale agisce come fattore di interruzione del percorso degli studi, poiché esso agisce come avveramento del motivo che ha condotto il giovane ad iscriversi, ovvero la possibilità di trovare la- voro e divenire così autonomo rispetto alla famiglia ma anche di “liberarsi” dalla scuola. Si possono quindi trovare due situazioni estreme, in cui si coglie l’azione di fattori culturali locali nel definire il rapporto tra giovani e istruzione: il Nord Centro-Est ed il Sud. 3.1. Il “lavorismo” del Nord Centro-Est Si intende con questo termine il significato che assume il lavoro in contesti ter- ritoriali settentrionali come processo effettivo di formazione della persona e come rito di passaggio verso il mondo adulto. Sebbene non esistano indagini sistematiche su questo tema, molti sono i segnali che fanno emergere un conflitto culturale tra lavoro e scuola, che si risolve in non pochi casi a favore del primo. Succede infatti che nel momento in cui il giovane studente di un percorso tecnico o professionale si trova a confrontarsi con l’esperienza dello stage in azienda, egli riceva dall’im- prenditore la proposta di assunzione “seduta stante” ovvero senza attendere la con- clusione degli studi. Ma vi è anche il fenomeno della “prenotazione” degli studenti da parte delle imprese prima che questi abbiano terminato il corso, come garanzia di occupazione. Anche diverse esperienze di alternanza sembrano configurarsi come processi di “pre-socializzazione” ad un ambiente di lavoro che presenta non solo una valenza didattica, ma anche di opportunità occupazionale. Siamo in altri termini in un contesto di tipo “lavorista”: la possibilità di ricoprire un ruolo lavora- tivo e professionale non presenta unicamente un valore economico tanto da consen- tire alla persona una conduzione autonoma di vita (ciò è in parte smentito dal fatto che una quota sempre crescente di giovani, pur essendo autonomi economicamente e socialmente, continuano e rimanere nella casa dei genitori), ma ha anche una fun- zione di natura formativa poiché indica il compimento della fase dell’adolescenza connotata appunto dalla sospensione delle responsabilità e dall’assenza di un ruolo sancito socialmente. Il ruolo dello studente è di contro inteso in questo contesto come un quasi-ruolo poiché ciò che si impara non corrisponde a ciò che serve effet- tivamente e perché il processo di inserimento lavorativo risulta il vero “banco di prova” per verificare la rispondenza della persona e la sua reale maturità di fronte a problemi ed a responsabilità reali. Il lavoro in questo modo si propone come un’oc- casione formativa, poiché consente di acquisire quelle competenze e di mettere in luce quelle prerogative, solo in presenza delle quali si ottiene la prova che la per- 25 sona sia matura, ovvero capace di svolgere compiti e funzioni lavorative e profes- sionali sancite positivamente entro la cultura di riferimento. 3.2. Il “familismo” del Sud La cultura familistica propone una dinamica simile a quella lavorista come fat- tore concorrente all’istruzione, anche se si colloca entro un contesto ben diverso, caratterizzato dall’attrazione del contesto di vita che si pone entro i confini dell’in- fluenza familiare e che prescrive non raramente attività e responsabilità impegna- tive anche per gli adolescenti ed i giovani. Per spiegare questa situazione possiamo fare riferimento ad un articolo apparso sul quotidiano “La Repubblica” in data 8 marzo 2007. I dati emergenti da un convegno intitolato “Tutti al proprio posto: buone prassi per contrastare la dispersione scolastica” delineano un quadro della scuola isolana che continua ad essere a tinte fosche. Stando ai dati diffusi relativi al 2005/2006, in provincia di Palermo la situazione indica l’8,3% di dispersione alla scuola media: il triplo rispetto alla media nazionale. Un’attenta lettura dei dati rac- colti dall’Osservatorio guidato da Maurizio Gentile conferma questa tesi. Alla scuola elementare l’insieme di “evasori” (coloro che non mettono piede a scuola neppure per un giorno), “abbandoni” (chi si ritira lungo l’anno), prosciolti e boc- ciati resta costante: 0,67%. Ma al leggero calo dei bocciati si affianca un aumento degli abbandoni e degli evasori: 450 bambini di scuola elementare che anziché an- dare a scuola fanno altro. “È quella parte di dispersione – spiega Maurizio Gentile – di cui dovrebbero farsi carico in primo luogo gli enti locali”. Ma l’inaspettato boom arriva dalla scuola media che in 12 mesi passa dal 5,3 al 5,9%. Colpa degli oltre 8.200 ragazzini bocciati, ma anche dei 1.500 che evadono clamorosamente l’obbligo scolastico per dedicarsi a lavoretti saltuari e attività al limite della lega- lità. Secondo Gentile, in questo caso, “è il meccanismo di valutazione degli inse- gnanti che va rivisto”. Bocciare meno? Forse, ma spesso le bocciature arrivano dopo lunghissimi periodi di assenze. La famiglia – in contesti talvolta degradati – o non è in grado di sollecitare la presenza attiva dei propri figli nella scuola, oppure non riesce a replicare alla loro volontà di ritiro dagli studi in presenza di difficoltà di apprendimento. Ciò accade anche perché l’attività economica che si svolge nel contesto dei legami familiari può consentire la presenza di adolescenti e giovani anche senza titolo di studio, dando ad essi un riconoscimento che può soddisfare le loro aspettative, a maggior ragione se confrontate con gli insuccessi e le delusioni degli studi. Certamente quelli indicati sono solo due casi emblematici, che non vanno col- locati in modo rigido nel contesto territoriale, poiché si possono ritrovare in ambiti diversi con differenti (e sorprendenti) combinazioni. Ciò non toglie che in ogni caso la scuola intesa come istituzione si trovi a com- battere una battaglia difficile ed anche scarsamente efficace specie per alcuni set- tori della popolazione; e non si tratta solo di “sub culture” emarginate, ma di una condizione di rigidità e di impermeabilità che le impedisce di replicare a queste 26 sollecitazioni in modo soddisfacente ovvero ponendo in atto un processo di incultu- razione del curricolo, così da consentirgli legami significativi e utili con la cultura ambiente. Ma ciò è possibile là dove il lavoro educativo è più forte e consapevole, e là dove la preparazione dei docenti non si limita alla “ripetizione del pro- gramma”, ma accetta la sfida di un confronto con la realtà concreta che provi dal punto di vista dell’interlocutore il valore di ciò che gli si propone. 4. I destinatari dell’istruzione e formazione professionale Può risultare interessante in questo quadro, una riflessione sulla popolazione di adolescenti e giovani che frequenta il mondo dell’istruzione e della formazione professionale. Si tratta di un ambiente molto interessante, che permette da un lato di cogliere le evidenze di quel processo di selezione che pongono in atto specie le scuole che si ritengono più “alte” e attivano tattiche di allontanamento di giovani che non corrispondono alla loro tipologia preferenziale; ma è allo stesso tempo un luogo sorprendente dove, sia in prima istanza sia a seguito di insuccessi e passaggi, si vedono persone impegnate attivamente in percorsi formativi che rappresentano per loro una occasione di riscatto e di crescita. Esiste un’opinione diffusa circa il crescente rapporto problematico tra adole- scenti e percorsi strutturati di apprendimento. Per certi versi, questa tendenza sembra considerare l’intera popolazione adolescenziale e giovanile come una sorta di età difficile, a rischio, che resiste ad ogni proposta degli adulti mirante a pro- porre loro percorsi di maturazione. L’unica fonte di apprendimento sembra essere costituita da un lato dai media e dall’altro dalle esperienze vissute, specie quelle condivise tra i pari età. Mentre la famiglia pare esprimere una debole presenza in tema di sostegno culturale per i figli. In effetti esistono segnali indiscutibili circa la presenza di “ragazzi erratici” che transitano in sempre maggiore quantità da un percorso all’altro ed anche di adolescenti e giovani posti in situazione di disagio e di rischio di emarginazione, specie quella che deriva dall’impossibilità di acquisire una cultura adeguata alle esigenze della società cognitiva. Ma va anche detto che questa situazione non può essere rappresentata come una patologia generazionale, quasi fosse in atto una sorta di mutazione antropolo- gica delle persone che conduce ad una caduta del desiderio di apprendere dalle ge- nerazioni adulte. In realtà, questa posizione espressa da una quota crescente di educatori e for- matori pare legata strettamente alle proposte formative che vengono offerte alla gioventù. In tempi nei quali viene meno l’adesione acritica a ciò che propone l’au- torità, è necessario superare schemi scolastici e formativi basati su curricoli medi, su obiettivi minimali, su esperienze artefatte. 27 L’istruzione e formazione professionale rappresenta una proposta formativa che valorizza l’esperienza concreta, basata su una relazione amichevole, persona- lizzata, centrata sull’acquisizione di competenze utili e sulla attribuzione di senso agli apprendimenti proposti; essa, in forza di queste caratteristiche, ha molte possi- bilità di successo con questa parte del mondo giovanile, specie coloro che presen- tano uno stile di apprendimento che privilegia l’intelligenza pratica, esperienziale, intuitiva, per scoperta e narrazione. Tale proposta – tipica della formazione professionale a carattere educativo-so- ciale – sembra essere particolarmente valida sia per ragazzi che scelgono come prima opzione tale percorso, sia per coloro che vi si rivolgono dopo il fallimento della prima chance, specie se sostenuta dal coinvolgimento delle relative famiglie. Si specificano i destinatari tipici della formazione professionale iniziale: 1) adolescenti che optano come prima scelta per il percorso di istruzione e forma- zione; 2) adolescenti e giovani provenienti dalla scuola; 3) portatori di handicap; 4) soggetti in situazione di difficoltà. 4.1. Adolescenti che optano come prima scelta per il percorso di istruzione e for- mazione Nell’ultima stagione – quella della sperimentazione dei percorsi di istruzione e formazione professionale – si sono iscritti a questi percorsi formativi una varietà di adolescenti, non solo quelli più svantaggiati e in difficoltà, ma anche coloro che hanno visto in quest’ambito una possibilità di mettere a frutto le proprie risorse al fine di realizzare il proprio progetto personale. Mentre lo stereotipo diffuso vede una sorta di “divisone del lavoro educativo” che riserva alla istruzione e formazione professionale un compito di scuola di serie B a addirittura C, in effetti là dove è presente un sistema di offerta stabile ed ampio, si crea una dinamica di accesso ordinario a questi percorsi da parte di ra- gazzi non certo in difficoltà, che scelgono il percorso di istruzione e formazione professionale non già come ripiego bensì come scelta vocazionale propria, meditata e consapevole. Ciò conferma quanto viene affermato da anni in UE, ovvero che un’offerta for- mativa varia e ricca, nella quale siano presenti percorsi di carattere professionaliz- zante miranti alle differenti qualifiche e figure tecniche del mondo del lavoro, in forma polivalente ed aperta a successive evoluzioni, costituisce la condizione per una migliore risposta alle necessità dei giovani e delinea un quadro più coerente con la necessità di combattere la dispersione e l’insuccesso scolastico. 4.2. Adolescenti e giovani provenienti dalla scuola Appare comunque rilevante la presenza nei Centri di istruzione e formazione professionale di soggetti provenienti dalla scuola, ovvero persone che in un primo tempo hanno scelto di continuare gli studi presso gli istituti secondari superiori, ma 28 che successivamente hanno modificato la loro decisione a seguito o di un insuc- cesso oppure di demotivazione o anche disorientamento. Ciò rappresenta l’esito di tre processi coincidenti: 1) della scarsa propensione orientativa della scuola media inferiore che in buona parte spinge gli studenti a proseguire gli studi in percorsi lunghi, 2) della disposizione delle famiglie verso i diplomi ed in particolare i percorsi li- ceali considerati occasioni di maggiore prestigio sociale, 3) di quel lavoro selettivo che le scuole secondarie superiori mettono in atto – quando ne hanno la possibilità ovvero quando il numero degli iscritti è tale da superare il numero atteso – per far coincidere il gruppo classe che via via pro- cede verso gli anni con la tipologia di utenti considerata conforme alle proprie caratteristiche. I passaggi dalla scuola rappresentano, specie in taluni territori ad alta urbaniz- zazione, un canale rilevante di ingresso di utenti alla istruzione e formazione pro- fessionale; si tratta di passaggi solo raramente accompagnati, secondo le note dis- posizioni normative che non mancano di indicare la necessità di dar vita a gruppi di insegnanti dedicati a tale scopo; ciò richiede in ogni caso da parte del Centro un’impostazione formativa aperta, accogliente, flessibile, in grado di valorizzare le esperienze didattiche svolte, anche se non coronate da un successo formale, sotto forma di crediti formativi. Inoltre, l’approccio peculiare della formazione profes- sionale – basato sulla metodologia induttiva e sull’apprendimento esperienziale – consente di suscitare motivazione e impegno, in forza dei quali è possibile anche un recupero sostanziale degli apprendimenti precedenti. 4.3. Portatori di handicap La formazione professionale ha svolto da sempre una funzione di risposta alle necessità formative dell’utenza portatrice di disabilità. Nella fase attuale, la forma- zione professionale rappresenta uno degli strumenti di rispetto e promozione della libertà e dell’autonomia della persona handicappata, intervenendo nell’ambito della abilitazione lavorativa e qualificazione professionale, mirando all’acquisizione di competenze adeguate e gestibili purché le persone coinvolte siano in grado di svol- gere attività lavorative e/o professionali produttive in contesti adeguati. La metodologia dell’intervento formativo per allievi disabili fa riferimento alla logica del progetto formativo individualizzato, in stretto raccordo con il piano edu- cativo individualizzato prodotto dalle strutture scolastiche di provenienza del sog- getto. Ciò significa che per ogni allievo deve essere predisposto un progetto forma- tivo ad hoc, basato sulla diagnosi funzionale e sul conseguente profilo dinamico- funzionale realizzato con la collaborazione dei soggetti posti nella rete orientativa territoriale, in riferimento al tipo di intervento formativo prescelto. Inoltre, ciò significa che la gestione del percorso formativo deve essere: flessi- bile, ovvero articolata in rapporto alle necessità di sviluppo delle potenzialità della 29 persona handicappata nell’apprendimento, comunicazione e socializzazione; rego- lata da una puntuale verifica degli effetti dei diversi interventi ed accompagnata continuamente. Trattandosi di interventi di formazione professionale, è necessario che nei pro- getti formativi sia previsto un significativo modulo di alternanza (stage, tirocinio guidato) che può essere posto: in fase orientativa; in fase di socializzazione lavora- tiva e di messa a verifica delle capacità acquisite mediante formazione; in fase di accompagnamento e di inserimento lavorativo. L’inserimento lavorativo diventa perciò elemento essenziale della più comples- siva azione rivolta ai disabili; ciò richiede un raccordo molto stretto tra gli orga- nismi che intervengono ed una coerenza rilevante tra i relativi progetti d’azione. 4.4. Soggetti in situazione di difficoltà Per “soggetti in situazione di difficoltà” si intendono situazioni composte da un insieme di diversi fenomeni: a) giovani che non terminano gli studi; b) giovani che si trovano in una situazione di costante (e senza vie d’uscita credibili) preca- rietà lavorativa; c) giovani per i quali si interessano i servizi sociali, specie quelli territoriali; in particolare persone sottoposte a provvedimento giudiziario per aver compiuto reati di microcriminalità; d) adolescenti e giovani posti in situazione di crisi di identità, oppure di identità debole e labile, che provoca una situazione di anomia, di caduta di significatività delle relazioni familiari e sociali, di difficoltà nel delineare un positivo progetto di vita; e) giovani immigrati extracomunitari che vivono situazioni di grave problematica di integrazione sociale e lavorativa. Questi ultimi utenti non sarebbero da comprendere nella categoria dei soggetti in difficoltà, se non per la barriera linguistica, mentre il loro progetto personale di studio e di lavoro è solitamente piuttosto forte e molto coerente con le caratteri- stiche dell’istruzione e formazione professionale, teso cioè ad acquisire una qualifi- cazione che permetta loro di inserirsi nel mondo del lavoro con un ruolo ufficiale e riconosciuto. In definitiva, l’area del cosiddetto disagio giovanile sembra concentrarsi in- torno ad una realtà – che alcuni indicatori tendono a mostrare in crescita – di dis- persione di risorse-persona, di depotenziamento della qualità del vivere. Si tratta di un vasto ambito di “sofferenza sociale” che in parte si mimetizza con specifici ruoli sociali (studente, lavoratore, casalinga, disoccupato) ma che presenta caratteri propri, che vanno adeguatamente compresi. Nella nostra società c’è sia una regressione infantile da iperprotettività, sia un assordamento o stato di confusione dato dall’eccesso di segnali e di chance offerte, a fronte di una distanza – in alcuni casi tragica – di queste opportunità dalle effettive capacità umane di decisione, ovvero di attribuzione di senso forte alla propria esi- stenza. Il tema della formazione acquisisce in questo modo un significato nuovo, come capacità di porre il soggetto in una situazione di cimento personale, dove si 30 sviluppano esperienze di vita che consentono un cammino di nuova identità – e quindi di nuova socialità – basata sulla relazione immediata con gli altri e sulla ca- pacità di “essere utile” mediante l’esplicazione di un servizio. In tal senso la formazione è un processo che si sviluppa in un’esperienza reale, attiva, dove la persona si gioca nelle situazioni in modo diretto, mettendo alla prova il proprio patrimonio di conoscenze, di abilità e di personalità, senza più la presenza di istituzioni-protettrici. È per questo che si può delineare un punto di convergenza tra la componente formativa dei sistemi di istruzione e quella dei luoghi di lavoro. Diventa qualificante, in tale ambito, caratterizzare l’intervento secondo un ap- proccio formativo peculiare, assolutamente non scolastico, in grado di avvicinare l’utenza adolescenziale e giovanile più difficile, offrendo ad essa una proposta se- condo la metodologia della “seconda opportunità”. La formazione professionale ha molto da offrire in termini di soluzioni orga- nizzative, didattiche, relazionali, di percorsi di inserimento ricchi di significati e di capacità. Di notevole rilievo è la strategia dell’alternanza formativa, che consente un ventaglio di opportunità molto più ampio di quello consolidato. Ciò per favorire percorsi misti di formazione-lavoro, valorizzando le capacità formative degli ope- ratori artigiani e delle piccole e medie imprese. Vediamo ora un quadro delle tipologie di utenza della istruzione e formazione professionale e delle relative strategie di intervento, con indicazione degli errori da evitare. La varietà di utenti dell’istruzione e formazione professionale e la disponibilità di occasioni formative tendenti all’apprendimento reale, oltre ad una pedagogia della personalizzazione e della comunità educativa, hanno consentito alla istruzione e formazione professionale di porre in atto una serie di strategie differenziate in grado di venire incontro alle diverse esigenze dell’utenza. Si nota quindi come il contesto organizzativo dei servizi educativi e formativi risulta in grado di apprendere dall’esperienza e di fornire un servizio più adeguato 31 ad essa quando viene meno la tendenza all’allontanamento dei soggetti considerati più problematici o comunque sfidanti rispetto alla routine prevista. Questa condizione è oggi comune a quasi tutte le tipologie di scuole, poiché, come vedremo, sono molte e diffuse le criticità dei processi di apprendimento dei giovani, mentre sono correlativamente in crisi quei processi di canalizzazione degli utenti per tipologie standard, ovvero la strategia più diffusa nel nostro sistema sco- lastico per fronteggiare la complessità sociale che non manca di manifestarsi anche nel rapporto tra persona e formazione. 5. Criticità dei processi di apprendimento dei giovani I giovani dell’attuale generazione si trovano ad affrontare le questioni con- nesse alla loro età in un tempo dominato da una cultura di tipo relativistico, propria di un continente – l’Europa – incerto circa i valori su cui poggia la propria tradi- zione culturale. La cultura relativistica è data da un intreccio tra razionalità tecnica ed irraziona- lità circa il senso della vita ed il suo destino. Questo miscuglio culturale convive in forme curiose che evidenziano veri e propri stati di scissione della coscienza che par- tecipa da un lato al processo di evoluzione basato sul mero criterio della possibilità e dell’interesse, ma dall’altro vive l’inquietudine dell’esistenza e ricerca una qualche forma di relazione con entità che appaiono al di là dell’ordine incerto e instabile del- le cose. Cresce inoltre la “dotazione culturale” necessaria per sviluppare i diritti di cittadinanza, mentre la cultura diventa a sua volta una risorsa economica tanto da ge- nerale una sorta di “industria culturale” che interessa i campi del benessere, della co- municazione, della fantasia, dell’evasione, come pure della formazione. La vita quotidiana dell’uomo contemporaneo, tenuto conto dei caratteri sociali sopra ricordati, presenta di conseguenza le seguenti caratteristiche: – Sradicamento e vulnerabilità: la rottura dei legami con la tradizionale modalità di organizzazione dell’esistenza comporta un senso di sradicamento che si ac- compagna alla pretesa di libertà, mentre in realtà sono sempre maggiori le si- tuazioni di vulnerabilità che interessano le persone nelle varie esperienze che compongono la loro vita (in particolare, in un quadro culturale soggettivistico, risulta intollerabile la percezione del limite, del dolore, del male, della morte). – Mancanza di punti di riferimento: l’uomo contemporaneo, dopo aver reciso come fosse un gesto di liberazione i diversi legami di terra, di cultura e di sangue, soffre per l’assenza di punti di riferimento su cui appoggiarsi al fine di trovare finalmente un’esperienza non stressante perché non soggetta allo sforzo normale della vita quotidiana. – Elementi di disgregazione e di disordine: l’ordine sociale conosciuto viene me- no creando una de-istituzionalizzazione che deriva innanzitutto dal venir meno della evidenza dei valori etici che sottostavano alle istituzioni conosciute. Ac- 32 canto a ciò, sorgono nuove condotte che possono anche essere intese come crea- zione di nuove forme istituzionali della vita. Ma rimane sullo sfondo il parados- so tra richiesta di maggiore libertà individuale e nel contempo esigenza di mag- giore controllo sociale circa la proprietà, il territorio ed in genere la sicurezza. È in questo quadro che si manifesta una crescente difficoltà circa il compito educativo, e ciò a causa sia dell’assenza di un profilo etico condiviso nella cultura diffusa ed in quella del ceto degli insegnanti, in particolare, sia della crisi istituzio- nale che indebolisce le funzioni di governo e di regolazione e introduce nei pro- cessi educativi una torsione dovuta a fattori ideologici o di interesse a breve ter- mine, ambedue deleteri per una buona dinamica educativa. Il relativismo etico rap- presenta il fenomeno che sottrae linfa al discorso educativo, poiché tende a giustifi- care il disordine e produce una sregolatezza delle figure adulte, che indebolisce poi la capacità di contrastare quella degli adolescenti e dei giovani. Inoltre, è una pro- spettiva distruttiva o perlomeno immobilizzante, poiché non è in grado di fornire una visione ed una tensione etica capace di suscitare energie creative e innovative nel campo sociale. Non è sempre vero che il compito educativo risulta difficile se non impossi- bile, quando ci si trova – come accade in questo tempo – nel mezzo di una crisi so- cietaria, poiché la rilevanza delle sfide che dobbiamo fronteggiare può suscitare ri- sorse ed energie buone; è il tema della caduta di riferimenti e della debolezza delle figure istituzionali, e quindi dell’autorità, che rendono arduo il compito che l’in grado di mobilitare le risorse verso il superamento dell’attuale stato delle cose. Si tratta pertanto di una vera e propria crisi morale che rende perlomeno pro- blematico il compito educativo se questo si colloca entro il quadro esistente, in cui viene data voce e credibilità a tute le forze che contrastano qualsiasi disegno rifor- matore. Tutto ciò provoca conseguenze sul “lavoro di crescere” dei giovani e sui loro processi di apprendimento, le cui maggiori criticità sono raggruppabili in cinque categorie: 1) Diversità e soggettivismo; 2) Carenze culturali di base; 3) Sregola- tezza; 4) Problematica della motivazione; 5) Resistenza latente all’apprendimento. 5.1. Diversità e soggettivismo Con i processi di individualizzazione e di globalizzazione, cresce continua- mente la varietà delle caratteristiche degli adolescenti e dei giovani sotto differenti profili: caratteri etnici, culture di appartenenza, stili di approccio alla realtà, pato- logie ed handicap, problematiche familiari e relazionali, livelli di apprendimento. L’aumento delle varietà di culture e di stili si associa poi alla crescita di feno- meni di “soggettivismo” nel comportamento, che si manifestano come indisponibi- lità a rinunciare alle proprie peculiarità per accedere ad un comportamento medio, quello tipico del modello didattico del gruppo-classe. La classe, di conseguenza, non rappresenta più un contesto socio-psicologico 33 omogeneo, che si forma per processi spontanei di coesione e di accettazione di rego- le comuni, ma la presenza di questa grande varietà di visioni, stili e comportamenti rende sempre più difficile la costituzione di un patto educativo di base. Ciò rende particolarmente difficile l’approccio didattico usuale della scuola italiana, specie la media inferiore e quella superiore, che mira a ricondurre alla lezione la gran parte dei processi di apprendimento, imponendo in tal modo una rigidità che non consen- te di mobilitare adeguatamente altri stili di apprendimento quali quelli che agiscono nelle attività di laboratorio, di ricerca, di progettazione, di compiti reali. Una scuola tradizionale, che agisce quasi esclusivamente attraverso metodi de- duttivi ed astratti centrati sulla lezione, può sopravvivere solo mediante la selezione dei componenti del gruppo classe così da impedire di essere invasa da una grande varietà di soggetti, ma tale selezione – anche se esercitata in modo corretto e perlo- meno legale (nel contesto di diritto-dovere e di obbligo di istruzione) attraverso processi di eccellenza che attirano un numero di utenti di molto superiore rispetto alle necessità effettive – non fa che spostare il problema presso le altre scuole e ge- nera una dinamica di dominazione di tale tipo di scuola rispetto al contesto, gene- rando una distorsione dei legami paritari che debbono intervenire entro la rete sco- lastica territoriale. A chi è nell’impossibilità di cambiare metodologia ed impostazione didattica, non rimane che mettere in atto una sorta di strategia di “scrematura” specie nel primo e nel secondo anno degli studi, che consiste nel distacco dal gruppo classe dei soggetti più “diversi” e che impediscono di fatto un processo di apprendimento omogeneo e lineare; da qui diverse tecniche di “passaggio” che alimentano fatal- mente la “transumanza scolastica e formativa” dei giovani e appesantiscono nuova- mente i percorsi e limitano di gran lunga l’efficacia degli sforzi. D’altra parte i processi di diversificazione di stili e comportamenti non sono solo dovuti a fenomeni ascrittivi (famiglia, ceto sociale, etnia…), ma possono anche intervenire lungo il percorso della vita come nel caso delle problematiche fa- miliari e relazionali oppure alla comparsa di manifestazioni di disagio e di insoffe- renza nei confronti dell’autorità e di noia rispetto all’ambiente scuola; quindi la prospettiva selettiva non solo appare critica dal punto di vista legale e pratico, ma risulta anche tendenzialmente impraticabile per il semplice fatto che i processi cui si oppone sono nella realtà e si ripropongono inevitabilmente anche all’interno. È anche per questi motivi che si impone una strategia di rinnovamento dei pro- cessi e dei metodi scolastici, prima ancora che per motivi di adesione alle metodo- logie di apprendimento più sostenute dalla letteratura. 5.2. Carenze culturali di base Le carenze circa i contenuti culturali di base dei giovani italiani sono documen- tate in modo chiaro dalle diverse indagini nazionali e di ambito OCSE che vengono effettuate periodicamente e che consentono una comparazione tra differenti Paesi. Si possono certamente sottoporre a critica i metodi di rilevazione che non risultano 34 certo infallibili, ma non si può nascondere il grande lamento che proviene da ogni ordine di studi circa l’impreparazione di base di una quota crescente di studenti. I problemi si concentrano su ambiti cruciali come la lingua italiana, la mate- matica e l’area scientifica, la lingua inglese. Nonostante i grandi sforzi posti in atto, esiste una componente del mondo giovanile che manifesta una sorta di analfabe- tismo di fatto, che non può essere nascosta dalle pratiche di licenziamento “spinto” adottate sempre più dalla scuola media inferiore. Sappiamo che a tali carenze non si può replicare attraverso pratiche pedago- giche di recupero che riportano il destinatario ad un’età precedente e che di conse- guenza rischia di essere inefficace per problemi di vissuto ed anche perché sempli- cemente agisce su processi cognitivi e su metodi di studio (di non studio?) che nel frattempo si sono strutturati diversamente. Ciò che è possibile fare è produrre pratiche pedagogiche di rinforzo e di so- stegno a routine operative e cognitive che sostengono tali apprendimenti tramite processi reali motivati sia per la loro utilità sia per il loro senso. In altri termini, una volta trascorsi gli anni della alfabetizzazione di base, che si interrompono più o meno con l’adolescenza, i processi di apprendimento del repertorio delle cono- scenze di base si possono attivare solo nella modalità della competenza, ovvero mi- rando a dotare la persona di una padronanza nell’affrontare compiti di cui coglie la rilevanza e che entrano nello spazio della realizzazione del suo progetto personale di vita e di inserimento sociale oltre che lavorativo. La questione richiama la necessità di nuovi approcci che sappiano perseguire i seguenti punti: 1) selezionare dalla massa enciclopedica del sapere, spesso totalmente presente nei nostri curricoli di studio, quelle conoscenze ed abilità che effettivamente ri- sultano esenziali e decisive per la crescita della persona, 2) riflettere maggiormente sul passaggio dall’insegnamento all’apprendimento, un processo che non può più essere affidato ad una sorta di determinismo pe- dagogico oppure al presunto valore evocativo della parola, 3) variare le modalità di apprendimento mettendo a fuoco processi attivi, che mo- bilitano le valenze emotive (anche la matematica può essere affascinante!) ma anche pratiche dell’intelligenza umana, 4) introdurre modalità di apprendimento centrate su compiti reali, svolte in labo- ratori, dove si sviluppano percorsi non necessariamente lineari ma basati su nuclei di sapere che coinvolgono gli studenti in forma attiva e che poi possono essere ripresi in forma sistematica, 5) coinvolgere gli studenti nelle pratiche di valutazione rendendo espliciti i criteri ed i parametri di riscontro, così da creare una reale comunità di apprendimento che possiede i termini del compito e procede ad una piena corresponsabilità educativa, 6) cercare appoggi esterni al contesto scolastico che dimostrino in modo convin- cente l’utilità di quanto si impara dentro la scuola. 35 Sono quindi totalmente inutili e fastidiose quelle pratiche di lamento ed attri- buzione di colpa che si manifestano in ogni ambito del sistema scolastico ed uni- versitario e che si rivolgono inevitabilmente agli insegnanti del ciclo precedente, anche se va segnalata – come già sopra anticipato – una pratica diffusa tendente a “liberarsi” del problema di soggetti che non hanno raggiunto gli standard previsti, semplicemente promuovendolo al ciclo successivo, quasi come se il tempo possa riservare miracoli, oppure fidando in insegnanti più comprensivi o meglio dotati in termini di competenze di insegnamento. Piuttosto che sprecare le notevoli risorse di cui la scuola dispone in inutili pra- tiche di lamentazione, sarebbe più opportuno stimolare l’intelligenza degli inse- gnanti e dei dirigenti al fine di sostenere pratiche rinnovate, poiché vale anche per gli insegnanti ciò che loro spesso affermano per gli studenti: “è dotato, ma non si applica a sufficienza”. 5.3. Sregolatezza Spesso i destinatari delle iniziative educative sono caratterizzati da “sregola- tezza” non perché contravvengano in forma decisa e deviante alle regole, ma nel modo di chi non ha mai conosciuto la necessità di disciplinare la propria esistenza in rapporto a criteri di vita (personale e sociale) buona. Si tratta di una condizione piuttosto diffusa e che costituisce una delle chiavi di lettura più interessanti per comprendere il nuovo rapporto che si instaura tra scuola e famiglia (Pietropolli Charmet, 2004). La questione della sregolatezza pone in luce il venir meno del compito regolativo della famiglia, sostituito da una dinamica affettiva che spesso nasconde la decadenza del profilo educativo del ruolo genito- riale (nei vari e molteplici modi in cui si pongono le relazioni degli adulti con i figli, entro le nuove realtà familiari e di convivenza e di distribuzione di responsa- bilità educative tra le generazioni). Si coglie una forte trasformazione delle famiglie, con genitori inquieti ed in- sicuri, tesi a perseguire ad ogni costo la propria realizzazione personale, sia sul piano lavorativo sia su quello affettivo e sociale, lasciando quindi un vuoto nelle relazioni con i figli che non raramente prendono il sopravvento imponendo ai ge- nitori o tutori vari l’accettazione di uno stile di vita autonomo, dominato dal gruppo che a sua volta riflette costumi veicolati dalla industria della suggestione e del consumo. La famiglia è quindi in buona parte invasa da modelli non propriamente educa- tivi, cui non sa contrapporre una prospettiva alternativa, o comunque, pur intuen- done la necessità, non riesce a proporla in modo convincente assumendo le neces- sarie pratiche tese a fissare regole e presidiare la loro applicazione. Le nuove famiglie diventano quindi “affettive” nel senso che con la crescita dei figli vengono accettati sempre più comportamenti i più vari possibili, curando unicamente che lo spazio familiare possa essere vissuto in modo “tollerante” ov- vero concedendo a tutti di svolgere la propria vita senza interferenze e mantenendo 36 un alone di familiarità cui non corrisponde in pratica né una reale conoscenza né una cura educativa. Il compito passa quindi alla scuola che si trova a dover assolvere a compiti cui non è stata preparata, specie se consideriamo il fatto che nel sistema italiano è in- valsa l’idea che si possa istruire senza una responsabilità educativa, ovvero appli- cando sul piano dei comportamenti ma anche della loro giustificazione culturale la stessa distaccata tolleranza che vige nel contesto familiare. E bastano due-tre gio- vani sregolati per classe per impedire un lavoro scolastico ordinario, provocando reazioni da parte dei genitori della parte “regolata” della classe stessa ed amareg- giando gli insegnanti che si trovano impotenti nel portare a termine il loro lavoro. Ciò va detto anche senza ricorrere necessariamente a categorie come il bul- lismo con le prevaricazioni e le violenze che possono essere rivolte anche agli inse- gnanti: la presenza in classe di ragazzi che arrivano (o non arrivano) ad ogni orario, che chiedono spesso di uscire perché non reggono i tempi dello studio, che non sanno ascoltare gli altri, che intervengono in ogni momento dicendo ciò che passa loro in testa, che recitano continuamente parti giullaresche che possono talvolta su- scitare ilarità ma che non aiutano lo studio, che dimenticano di portare quaderni e libri, che non fanno i compiti e inventano scuse talvolta esilaranti a giustificazione delle loro inadempienze, diventa alla lunga snervante e rinvia continuamente il mo- mento del passaggio all’azione didattica propriamente detta. La scuola può infatti essere un interessante palcoscenico sul quale rappresen- tare la propria esistenza ed il mestiere dello studente può essere trasformato in una sorta di recita sociale a soggetto nel quale riversare tutta la varietà di emozioni, sti- moli, motti e gag che compongono buona parte delle esperienze della compagnia giovanile, ma questa non è assolutamente la forma adeguata nella quale svolgere un’opera educativa, non fosse altro per l’improponibilità della figura dell’inse- gnante “compagnone” che alla lunga finisce per rappresentare la parte della vittima o comunque di chi è buggerato, magari con le pacche sulla spalla ed il riso sulle labbra. Ciò che si vuole porre a fuoco è la coincidenza di due sregolatezze: quella della famiglia e quella della scuola, ognuna con buone attenuanti, ma certo senza motivi di ragionevole giustificazione. Circa la scuola, non appare convincente la posizione di chi articola la finalità tesa ad una coscienza critica come rinuncia a fare una proposta dotata di senso e delle necessarie regole, agendo in modo che vengano effettivamente rispettate. Detto in altri termini: ogni progresso in termini di apprendimenti, anche la mera istruzione, richiede un ambiente adatto, che si ca- ratterizza per la specificità della forma-scuola e che esige un quadro educativo ed in esso una prospettiva morale. Il compito delle generazioni di insegnanti che si sono formate nella relazione con autorità chiare e forti è quello di resistere alla ten- tazione che la semplice mancanza di vincoli e di regole sia di per sé un fatto posi- tivo, capace di suscitare le migliori attitudini dei giovani. Ciò pone il problema della provvisorietà del legame educativo e nel contempo pone la questione dell’e- 37 ducazione morale come ricerca di una forma adeguata – ragionevole, voluta ovvero libera – in cui svolgere la propria esistenza. L’educazione morale mira al confronto della propria esistenza con ciò che è bene. Occorre passare da una morale prescrittiva e precettiva ad una morale rela- zionale e comunitaria, che consenta un dialogo continuo circa il senso dei contenuti e delle esperienze educative. Gli esiti di una corretta educazione morale consistono in: – fiducia nella propria realtà personale, – capacità di cogliere, nell’ambito in cui si opera, significati buoni per sé e per la collettività, – disposizione a mettersi in gioco ovvero a porre in atto una responsabilità con- sapevole, – impegno ovvero modestia (moderazione nel considerare se stessi), lealtà (fedel- tà e senso dell’onore), forza d’animo e coraggio a fronte di ostacoli e distrazioni, – tutto ciò si esprime nell’assunzione di una disciplina che comporta anche la pa- zienza resa convincente dal sentimento di fraternità. Tutte condizioni che fanno parte dell’“essere scuola” al servizio dei destinatari e per il bene della collettività. 5.4. Problematica della motivazione Spesso viene evocata la problematica della motivazione come ostacolo di fondo che si trovano di fronte i docenti nello svolgimento del loro compito. Ma oc- corre comprendere meglio di cosa si tratta. Dando per scontata la naturale propensione per l’essere umano ad esprimere interessi per taluni oggetti dell’esperienza e la volontà di apprendere sempre me- glio in ordine ad essi, la presenza nella scuola di una componente di popolazione che manifesta difficoltà nell’interessarsi, nel desiderare e nel volere induce a rite- nere che il punto stia da un lato nella carenza di strutturazione della personalità e dall’altro nella poca consistenza dell’esperienza scolastica. Circa il primo punto, è evidente come l’effetto più palese sulla personalità di un modo di esistenza tendente al continuo stimolo del bisogno che si traduce non raramente in capriccio, secondo modelli eterodiretti, consiste proprio nella proble- matica dell’identità, ovvero nel non sapere chi si è, cosa si vuole, a quali criteri espliciti e ragionati orientare la propria esistenza. L’adolescenza nel nostro tempo riflette la cultura dominante centrata sull’indi- vidualismo e sull’etica dell’autorealizzazione con una debole etica sociale. Inoltre, essa è collocata in uno spazio di rinvio ovvero entro un ruolo di studente che ap- pare poco soddisfacente per le esigenze delle persone circa la conoscenza di sé, degli altri, del contesto e per l’ingresso nella vita attiva. Gli adolescenti costituiscono una componente rara della popolazione (sempre più invecchiata), hanno a che fare con adulti piuttosto “emotivi” e poco solidi, ri- 38 flettono la cultura dei media e dei consumi. Essi di conseguenza presentano i se- guenti caratteri: – eccesso di stimoli ed opportunità, – instabilità, rischio, frammentazione, vulnerabilità, – relazione intergenerazionale di tipo “sfuggente”, con un debole costrutto di re- gole e di forme stabili entro cui svolgere la propria esperienza. A questo profilo poco ricco di occasioni educative, fa riscontro – ed è il se- condo punto – un ruolo dello studente che appare stereotipato specie per gli istituti – in primo luogo professionali e tecnici, ma anche artistici, linguistici e socio- psico-pedagogici – che hanno assorbito la gran parte della scolarità di massa mani- festatasi specie negli anni ‘80 e ‘90, previsto non per l’ingresso nella vita attiva, ma per rinviare più a lungo il momento della scelta. Ciò è stato pagato in termini di astrattezza dei saperi e di scarso legame con la realtà e la vita dell’adolescente. Di contro, la realtà sociale risulta molto attraente per gli adolescenti che avver- tono la necessità di delineare un progetto positivo e personale per la propria vita. Essi sono alla ricerca di modelli di adulti con cui confrontarsi e da assumere quando vengano ritenuti credibili e meritevoli di fiducia. Anche la riflessione sul tema della demotivazione ci porta alla necessità di una revisione del ruolo dello studente che, specie nel secondo ciclo degli studi, richiede una modalità di apprendimento più coinvolgente l’intero spettro delle valenze per- sonali (cognitive, emotive, sociali, pratiche…), così che egli possa definire un le- game diretto con l’oggetto del sapere ed in tal modo l’esperienza scolastica possa divenire una vera e propria esperienza culturale personale. Ciò apre lo spazio per un modo di apprendere basato sui “compiti reali” e sull’essere competente ovvero responsabile e capace di fronteggiare i problemi e cogliere le opportunità. Lo studente demotivato deve essere posto nella condizione di un cambio di metodo, in modo da entrare in relazione diretta con il sapere evitando di viverlo come entità astratta ed inerte, buono solo per il “gioco del voto”. Si tratta di ripor- tare l’istruzione entro il suo proprio ambito culturale e di svolgere il percorso del- l’apprendimento nel solco di esperienze dotate di un legame forte con la realtà. Molta parte di ciò si ritrova nel metodo del laboratorio, che consente all’al- lievo di fronteggiare compiti e problemi ponendosi in azione secondo un metodo indotto dal lavoro stesso; che lo pone in condizione di desiderare di sapere ciò che permette di fronteggiare le sfide che conducono ad una soluzione positiva; che gli fanno apprezzare i guadagni formativi non perché sono retribuiti con un voto, ma perché sono utili, sensati, fonte di maturazione personale. 5.5. Resistenza latente all’apprendimento La resistenza latente all’apprendimento si manifesta in diversi modi. – Vi sono le tattiche centrate sul disordine: esse mirano a creare trambusto nei momenti iniziali della lezione, così che l’insegnante perde tempo nel recupe- 39 rare il silenzio e l’attenzione. Il disordine si crea anche lungo i lavori della giornata, mediante interventi non pertinenti, ma anche – come detto prima – sceneggiate e rappresentazioni di vita giovanile varia che suscitano ilarità, rea- zioni, divisioni del gruppo classe, giochi di ruolo. – Vi sono poi le tattiche della distrazione: ogni insegnante ha il suo punto de- bole, costituito da argomenti che lo toccano da vicino e che è molto ben cono- sciuto da parte degli studenti che cercano di suscitarlo nei momenti critici dello studio. – Esistono anche tattiche del patto formativo: si tratta di imporre all’insegnante una linea di negoziazione dei vari aspetti della vita scolastica – le interrogazio- ni, i compiti, le giustificazioni, le note… – così da portare il punto di equilibrio il più possibile verso il lato dello studente. L’ambiguità del “debito formativo” concorre ad intorbidire i ruoli ed a confondere il piano delle responsabilità. – Vi sono le alleanze con i genitori: talvolta le giustificazioni a fronte di mancati impegni ricevono il beneplacito dei genitori che si piegano volentieri a coprire i propri figli che non hanno svolto i compiti, non si sono preparati oppure hanno mancato in qualche impegno assunto con l’insegnante. – Vi sono infine le fughe: si tratta della vecchia strada sempre valida, un po’ go- liardica ed un po’ vigliacca, che diventa a volte inevitabile nel momento in cui si giunge ad un appuntamento di verifica senza aver svolto quanto dovuto. Ma è anche la tattica del ritiro dell’attenzione e dell’evasione dall’ambiente in cui pure si staziona fisicamente, per seguire il proprio pensiero e sottrarsi così al- l’implicazione nel lavoro scolastico. 5.6. Problema dell’eccellenza e della distintività Si nota in molti casi quanto sia diffusa l’idea secondo cui i problemi dell’ap- prendimento coincidano con le difficoltà a raggiungere gli standard previsti. In realtà, un’altra componente della popolazione scolastica soffre di un’impostazione didattica tesa al perseguimento dello studente “medio” con l’inevitabile abbassa- mento progressivo delle mete di riferimento: si tratta di coloro che sono ben moti- vati allo studio, presentano un progetto personale chiaro e coerente con la proposta formativa, posseggono buoni requisiti in ordine ai livelli di partenza ed ai talenti personali. Questa popolazione rischia di non ricevere nel nostro Paese un’adeguata atten- zione proprio a causa della saturazione dell’attenzione degli insegnanti in direzione di un lavoro quotidiano reso difficile dalla varietà dei tipi di destinatari e delle loro caratteristiche, ancor più se ciò accade in un contesto che predilige una sola moda- lità di apprendimento, quella logico-deduttiva. È l’altro aspetto della personalizzazione: non si tratta unicamente di mettere mano a occasioni di recupero, ma anche di approfondimento e di occasioni che consentano agli studenti che vi aderiscono di perseguire livelli più alti di prepara- zione e di padronanza: in non pochi casi, i LARSA che vengono attivati si possono 40 più correttamente definire “LARA”, quindi senza la parola “sviluppo” poiché questa proposta viene spesso a mancare. Eppure non ci dev’essere conflitto tra la cura di chi fa fatica e di chi invece de- sidera procedere più speditamente, poiché nell’un caso come nell’altro si tratta di coltivare i talenti e consentire a ciascuno di trasformarli in competenze. Questa ten- sione esiste per due motivi: – da un lato è la conseguenza di un’impostazione didattica che – come abbiamo più volte detto – privilegia l’approccio logico-deduttivo e quindi il pensiero astratto contrapposto a quello concreto; – dall’altro è la conseguenza di un’impostazione organizzativa rigida, che privi- legia il lavoro nel gruppo-classe e limita al minimo attività di sottogruppo di li- vello, di interesse, di progetto. La questione della valorizzazione dei talenti è legata a sua volta a quella della distintività delle istituzioni e dei percorsi scolastici e formativi. Con tale espres- sione si intende quella caratteristica che consente ad un’istituzione scolastica e for- mativa di “emergere” nella consapevolezza collettiva come un ambiente positivo e di qualità, e che si riflette nella sua capacità di “fidelizzare” gli allievi facendoli sentire parte di una comunità i cui valori riconosce e condivide. A questo proposito, è stato spiegato che la stratificazione esistente tra scuole ad alto, medio o scarso successo degli studi è strettamente connessa al rispetto delle regole ed in definitiva all’atteggiamento morale ai fini della valorizzazione positiva delle opportunità offerte (Carugati - Selleri, 2001, 222). Ciò significa che esiste un legame molto stretto tra identità della scuola e successo formativo. È una delle con- ferme della necessità di attribuire importanza al fattore “antropologico” dell’educa- zione che non risulta riducibile alle sole tecniche didattiche. La distintività dell’istituzione scolastica e formativa è una delle componenti della prospettiva morale che risulta oggi sempre più il fattore essenziale del suc- cesso formativo poiché consente al giovane di entrare in relazione con un ambiente che esprime una chiara proposta culturale a valenza educativa, di identificarsi in esso, di trovare quindi un sostegno nel processo di apprendimento che diventa in questo modo un’avventura culturale dotata di “confidenza” e di appartenenza. 5.7. Problema della valorizzazione di tutti gli apprendimenti “buoni” Esiste un’ampia serie di apprendimenti buoni che riguardano i giovani e che non afferiscono necessariamente alla realtà scolastica. Essi si riferiscono ai se- guenti ambiti: – l’area delle autonomie personali in ordine alla manutenzione (mezzi di tra- sporto, impianti, giardino…), – l’area dell’informatica e della telematica, – l’area della prevenzione e dell’assistenza, 41 – l’area della disciplina sportiva e della cura del corpo, – l’area dell’ambiente e dell’escursionismo, – l’area dell’assistenza e dell’educazione, – l’area dell’amministrazione, – l’area dell’arte, – l’area musicale, – l’area della religione, – l’area della letteratura, – l’area della cucina, – l’area dell’impegno sociale e politico, – l’area del servizio (turismo, vendite…). La vita personale, le relazioni che si instaurano con le figure significative, l’at- tività della famiglia, le appartenenze di gruppo o di associazione, sono tutti am- bienti potenzialmente ricchi dal punto di vista dei saperi, ed hanno il vantaggio di perseguirli in forma diretta, non mediata da un formalismo didattico, a misura della persona e del suo percorso. Buona parte di quanto indicato appartiene alla cultura del fare e dell’agire che mostra di possedere un enorme potenziale di apprendimento in relazione a pres- soché tutte le branche del sapere, avendo in più il vantaggio della metodologia at- tiva ovvero di consentire al discente di applicarsi attivamente alla soluzione dei problemi ed alla scoperta di un sapere personale. A questi apprendimenti sono da aggiungere quelli che sono legati alla autodi- dassi, che in alcuni casi è piuttosto rilevante e presenta livelli di preparazione sor- prendenti su materie che magari non vengono trattate in forma adeguata rispetto agli interessi manifestati dalla persona. In effetti non si tratta di una vera criticità, poiché siamo di fronte ad una realtà di apprendimenti positivi, acquisiti secondo modalità solitamente non formali o in- formali. Il punto critico sta nella loro riconoscibilità e valorizzazione nell’ambito scolastico e formativo formale, ed inoltre nella considerazione secondo cui, nel momento in cui la scuola mobilita solo una parte del potenziale della persona, limi- tandosi alla dimensione cognitiva specie se astratta, non può esprimere giudizi circa la sua preparazione o maturazione prima di aver conosciuto effettivamente il mondo degli interessi e delle attività che questa compie e che portano ad apprendi- menti “buoni” ovvero in grado di mobilitare le sue risorse così da metterle a frutto in termini di conoscenze, abilità, capacità e competenze. Anche in questo caso si pone in evidenza il limite di un modello scolastico così come si è affermato nella fase della grande scolarizzazione e si è mantenuto abbastanza omogeneo a tale forma anche negli anni della società complessa, specie a livello del secondo ciclo degli studi; ciò si nota da un lato nella riduzione dello spazio dell’intervento circa lo spettro del potenziale umano, e dall’altro nell’autore- ferenzialità che significa considerazione esclusiva degli apprendimenti acquisiti nel percorso curricolare formale. 42 Vi è la necessità di declinare i saperi in termini non di mere nozioni “inerti” bensì di competenze ovvero di risorse che la persona è in grado effettivamente di mobilitare in modo pertinente ed efficace. In molti casi, gli apprendimenti buoni acquisiti in modalità informali o non formali possono preludere ad una vera e pro- pria qualificazione professionale che si potrebbe acquisire accanto ai percorsi for- mativi orientati al diploma, così come accade nel caso francese, arricchendo così il bagaglio di preparazione e padronanza personale. È ciò che indica l’UE, quando pone l’obiettivo di dotare i cittadini almeno di una qualificazione professionale che consenta a tutti di inserirsi in modo attivo nella realtà sociale, e ciò vale soprattutto per l’Italia dove da tempo anche i percorsi tecnici e professionali si sono via via scolasticizzati, relegando la cultura del lavoro e delle professioni ad un ruolo sempre più marginale come una sorta di “sottocultura” per persone scarsamente do- tate in termini di intelligenza. 6. Il difficile rapporto scuola-famiglia Abbiamo visto come la famiglia ricorra spesso nelle spiegazioni relative a ta- lune difficoltà di apprendimento; di conseguenza, uno dei nodi fondamentali su cui agire è rappresentato proprio dalla collaborazione tra scuola e famiglia. Va però riconosciuto come tale rapporto, nel corso del tempo e nei diversi mo- delli pedagogici, sia sempre stato segnato da criticità. Nell’epoca in cui la scuola e gli insegnanti godevano di un maggiore prestigio, la famiglia si poneva in una relazione di timore e di totale accettazione di quanto veniva loro comunicato dagli insegnanti. In questo contesto, spesso la punizione casalinga si sommava a quella scolastica, e gli studenti non avevano alcun alleato. Ma ameno c’era il vantaggio di un linguaggio chiaro fatto di voti e di impegni. La stagione della partecipazione (che non è conclusa) ha portato ad una sorta di parlamentarismo che si è tradotto in una infima presenza al voto, ma ha anche creato un’élite di genitori “impegnati” nella scuola. Gli unici, peraltro, a compren- dere il linguaggio della didattica che si faceva via via sempre più astratto, tanto da non consentire di comprendere in definitiva se i propri figli andassero bene o male, mentre prevaleva un discorso sulle classi riflesso di un certo sociologismo in cui non esistono responsabilità personali ma solo collettive. L’epoca più recente ha visto una crescente influenza dei genitori sia nelle rela- zioni con i docenti – nelle quali la famiglia assume un ruolo un po’ più attivo e non raramente critico – sia sotto forma di maggiore corresponsabilità delle famiglie nella definizione degli orari ed in alcuni casi nella individuazione delle aree disci- plinari e formative su cui svolgere laboratori di recupero. Si potrebbe dire che al seguito di queste fasi del rapporto, la famiglia presenta la tendenza a “ritirare la delega in bianco” nei confronti della scuola, ma occorre anche riconoscere che la tipologie di famiglia sono molto differenti sia come com- 43 posizione sia come atteggiamento educativo per cui occorrerebbe distinguere tra stili e modelli differenti, compreso anche quello che segnala un’assenza piuttosto che una partecipazione. Tra scuola e famiglia permangono peraltro alcuni stereotipi che sono difficili da superare e che riflettono un gioco di attribuzione di colpe e di giustificazioni. La scuola si rappresenta la famiglia come una realtà permissiva, sempre disponi- bile a dare ragione e soddisfazione ai figli, incapace di un’educazione morale e di un supporto efficace nello studio, e nel contempo esigente e facile al giudizio critico. La famiglia vede la scuola come un’istituzione che si limita all’istruzione pe- raltro secondo uno stile medio (e mediocre), quindi senza un riferimento alle speci- fiche persone e in assenza di uno sforzo teso a coglierne le potenzialità ed a stimo- larne gli interessi e la motivazione, specie di figli poco propensi allo studio. Ma entrambe queste posizioni stereotipate cercano di fare i conti con una mutata realtà adolescenziale e giovanile ed inoltre con la comparsa di una difficoltà ad edu- care che risulta anche da anni di dimenticanza e quasi di disprezzo circa questo tema. Vi sono peraltro due problemi nuovi: a) la presenza di fenomeni di sregola- tezza dei giovani a scuola che, come abbiamo visto, riflettono sia la cultura fami- liare in ordine alle stesse regole sia la stratificazione esistente tra scuole ad alto, medio o scarso successo degli studi, da cui emerge l’importanza del rispetto delle regole ed in definitiva dell’atteggiamento morale ai fini della valorizzazione posi- tiva delle opportunità offerte; b) le prospettive fin troppo utopistiche del “multicul- turalismo” che lasciano il campo ad una visione più realistica della gravità dei pro- blemi educativi e sociali connessi alla presenza nei territori e nelle classi scola- stiche di quote sempre maggiori e variegate di ragazzi appartenenti e culture ed etnie differenti tra di loro. È facile affermare la necessità di una nuova alleanza tra scuola e famiglia, a partire da un ruolo di piena corresponsabilità di quest’ultima in tema di educazione, superando così l’ambiguità della “libertà di insegnamento” che non raramente si co- niuga con la critica per l’assenza della famiglia a fronte del suo compito educativo. Tre sono i punti di riflessione: linguaggio, ruolo, prospettiva. 6.1. Linguaggio La prima questione cruciale in tema di relazioni tra genitori e scuola è costi- tuita dal linguaggio, che non è solo una trasmissione di informazioni, ma un modo di comunicare in grado di delineare un ambito che prevede non raramente inclu- sioni e preclusioni: chi impone un linguaggio si garantisce un ruolo decisivo e ob- bliga gli altri ad assumere il suo punto di vista nel presentare i propri contributi. È evidente come la scuola abbia sempre più specializzato il linguaggio che è divenuto per certi versi un gergo didattico piuttosto involuto a cui spesso è preclusa la concretezza ed il riferimento ai casi singoli. Di contro, i genitori tendono a parlare non in chiave astratta, ma della situazio- ne dei propri figli e capiscono (ma nel contempo esigono) parole chiare e dirette. 44 È paradossale infatti che, mentre il linguaggio della scuola si è fatto più tec- nico ed autoreferenziale, dalla stessa viene sollecitata maggiore partecipazione dei genitori che spesso significa ascoltare lunghe comunicazioni avendo solo lo spazio di interventi che risultano difficili e per certi versi secondari, visto che il discorso comprende già il giudizio e comunica l’intervento. Di conseguenza, una modalità per dare voce alla figura del genitore è costituita dall’intesa su un linguaggio concreto, diretto, che esprime non solo giudizi e “colpe” ma indica i fatti, ascolta il punto di vista dei genitori e ne tiene conto prima di passare all’intervento, propone corresponsabilità nell’azione migliorativa (“il consiglio di classe intende intervenire nel modo seguente e chiede la collabora- zione dei genitori sotto questo profilo”). Ciò significa lasciare uno spazio per la “presa di parola” da parte dei genitori, un momento di ascolto attivo e valorizzante, fino ad una pratica di vera co-parteci- pazione nella definizione dei piani di intervento. 6.2. Ruolo La famiglia è presente nella scuola sotto tre profili. 1) Il primo, già citato, della partecipazione ovvero della presenza in quanto rap- presentanti della “categoria” entro gli Organi collegiali. Si è trattato di una sta- gione che ha sì mobilitato molte energie, ma era inficiata da una logica di rap- presentanza formale – sovente con disparità di responsabilità – che ha spesso contrapposto i soggetti oppure ha sortito una ritirata dei genitori. 2) Il secondo riguarda la pratica della interlocuzione singola ovvero del “collo- quio” con l’insegnante circa la situazione del proprio figlio/figlia. È una pra- tica che oggi risulta segnata dalla mancanza di delega educativa nei confronti della scuola, oppure dall’assenza della parte familiare, ragione per cui i col- loqui risultano sempre più deludenti e poco stimolanti per le due parti. 3) Il terzo indica un ruolo di nuova di corresponsabilità che prevede uno spazio più concreto entro cui sollecitare l’intervento della famiglia su temi di rile- vanza organizzativa e didattica, che si possano affrontare in modo dialogico e consensuale. Il passaggio ad un profilo di corresponsabilità scuola-famiglia richiede di non fermarsi all’analisi del problema, ma di perseguire un miglioramento che richiede anche l’individuazione di criteri condivisi di natura educativa con rilevanza anche degli aspetti organizzativi come nel caso della definizione dell’orario. Ma serve una prospettiva su cui incamminarci. 6.3. Prospettiva La prospettiva di riferimento verso cui ci si può incamminare è quella che con- tempera il principio di autonomia delle istituzioni scolastiche e formative entro una 45 visione di “Scuola della società civile” riducendo sempre più la sua valenza di pub- blica amministrazione per renderla un servizio effettivo a favore di utenti entro un quadro di collaborazione territoriale. In questo quadro è possibile delineare un profilo di efficacia per la parte fami- liare, intorno a una serie precisa di decisioni che vanno condivise e che entrano nel merito di un modo di essere aperto dell’istituzione scolastica. Ciò richiede una forte cultura pedagogica ed organizzativa che a sua volta ne- cessita un lavoro formativo non astratto ma centrato su aspetti concreti, quali i se- guenti. 1) Il tema dell’educazione morale ovvero delle “Regole” dell’educazione che in- dicano non solo i comportamenti ma anche i motivi in ordine al bene dei ra- gazzi ed alle iniziative – necessariamente attive, non retoriche – che ne inco- raggiano la consapevolezza e l’adozione da parte dei ragazzi. 2) Il tema della comunità educante ovvero della deontologia professionale dei do- centi e delle responsabilità dei genitori, in modo da delineare un ambito comune di riferimento sotto forma di “patto formativo” tra tutti e tre i soggetti coinvolti, indicando anche come intervenire nel caso di assenza di riferimenti familiari. 3) La questione della personalizzazione che significa più concretamente la scelta degli orari, gli ambiti di recupero e di approfondimento (LARSA), le unità di apprendimento più rilevanti nel corso dell’anno ed in genere le questioni rela- tive alla didattica attiva sul cui retroterra sociale ed economico spesso si tro- vano genitori competenti (si veda il caso degli stage, delle professionalità le- gate all’ambiente, della sicurezza…). 4) Il coinvolgimento della società civile e dei soggetti culturali, sociali, econo- mici ed istituzionali che possono fornire un contributo rilevante in termini di opportunità di apprendimento, competenze e risorse, ai fini della qualifica- zione dell’offerta formativa. La famiglia rappresenta da un lato un soggetto fondamentale del processo edu- cativo, dall’altro una risorsa critica poiché si inserisce appieno in quel quadro che produce sregolatezza e disorientamento negli adolescenti e nei giovani e di cui la scuola deve inevitabilmente farsi carico nel momento in cui decide di riconoscere gli utenti che la frequentano come veramente “propri”, senza immaginare di passar- li ad altri. In ogni caso, è sempre un soggetto con cui la scuola e la formazione debbono fare i conti se vogliono svolgere un compito efficace, che si svolga nella prospet- tiva della corresponsabilità educativa. 7. Il quadro europeo In UE la problematica degli apprendimenti dei giovani è oggetto di notevoli considerazioni; questa viene spesso collegata con i fenomeni dell’emarginazione, 46 tanto che risulta sempre evidente nei documenti comunitari l’intento di prevenire l’emarginazione e combattere l’esclusione sociale. La prospettiva della società dell’innovazione e della conoscenza rappresenta per l’Europa una sfida di grande valore civile, su scala planetaria, un obiettivo stra- tegico di grandi ambizioni centrato su competitività, crescita economica e coesione sociale. L’UE declina questa prospettiva entro cinque formule che costituiscono il fondamento comune delle innovazioni legislative non solo italiana, ma anche dei vari Paesi membri in tema di educazione e politiche del lavoro: 1) l’educazione e la formazione lungo tutto il corso della vita; 2) la centralità dei diritti civili e sociali dei cittadini, nessuno escluso; 3) la competitività nel quadro dell’economia mondiale globalizzata; 4) la rilevanza dell’istruzione e formazione professionale; 5) la centralità dell’esperienza reale nei processi di apprendimento. Ma l’articolazione del principio-guida della società cognitiva in formule più specifiche indica non solo i criteri positivi cui tendere, ma anche le criticità e le re- sistenze e problematiche che incontrano le politiche in questo ambito. Così, la necessità di un’educazione ed una formazione lungo tutto il corso della vita indica l’acquisizione di un principio di educazione continua e permanente che supera la frattura tra fasi preparatorie e fasi operative della vita, che richiama una visione fordista centrata sulla scissione tra cultura e lavoro, ma nel contempo segnala anche la problematica dell’obsolescenza delle competenze personali e del- l’analfabetismo di ritorno, fenomeni che erano assenti dalle riflessioni che hanno generato i sistemi educativi così come oggi li conosciamo. La centralità del cittadino e dei nuovi diritti civili e sociali rappresenta un prin- cipio che riscatta finalmente l’individuo a fronte di processi di omologazione e di sudditanza oltre che di inautenticità che si diffondono nelle società complesse. Ma propone anche una nuova prospettiva all’educazione che viene resa con il termine personalizzazione; questo indica da un lato la necessità di riferire il processo di ap- prendimento alle reali potenzialità del singolo, piuttosto che a standard freddi ed omologanti; inoltre segnala la necessità di coniugare l’eguaglianza civile e politica dei cittadini con il rispetto dei loro particolari legami storici e religiosi. In questo senso, i sistemi educativi sono investiti – a fronte dei processi di differenziazione sociale – di un compito di integrazione di tipo nuovo, che miri a delineare una nuova cultura di cittadinanza in grado di sostenere un’identità comune (comuni- taria) nel rispetto delle diversità culturali. Va inoltre segnalato un fenomeno inedito, ovvero una sorta di “resistenza all’apprendimento” da parte di una quota di popola- zione (che alcune ricerche indicano almeno nel 12% dei giovani) che – al contrario del passato – può usufruire di servizi educativi, ma non trae da essi i benefici attesi risultando per questo emarginata nel contesto civile e sociale. Ciò segnala una de- bolezza dei dispositivi educativi basati sull’idea del recupero cognitivo e richiede nuovi modelli di tipo destrutturato, che promuovano il potenziale presente in questi 47 giovani disegnando percorsi graduali di integrazione sociale, partendo dall’idea di lavoro desiderato e creando le occasioni per un esercizio formativo di compiti reali nei contesti organizzativi. Il tema della competitività assegna all’Europa nel nuovo scenario del mercato mondiale globalizzato un ruolo privilegiato nell’innovazione, nella ricerca appli- cata, nelle infrastrutture e nei supporti tecnologici, ma anche nella produzione di beni e servizi a forte valore di senso nella prospettiva del benessere, fino alla valo- rizzazione del patrimonio naturale e culturale. Nelle riflessioni di economisti e so- ciologi emerge su questo punto una sorta di “imperativo tecnologico” che non pare peraltro in grado di trasformarsi in un ideale condiviso, se è vero che le giovani ge- nerazioni sembrano disdegnare nelle scelte degli studi le opzioni scientifiche e tec- nologiche, preferendo indirizzi che enfatizzano le dimensioni della comunicazione e della qualità della vita anche se ciò delinea una forte incertezza circa le opportu- nità occupazionali reali. Risulta sempre più rilevante, di contro, il ruolo dell’istruzione e formazione professionale non intesa come mero addestramento, ma in quanto leva privilegiata per una politica di reale integrazione sociale che interessa in parte tutti i cittadini poiché mira alla dotazione di competenze esercitabile nel contesto civile e sociale. Non pare quindi più sostenibile nel sistema educativo la distinzione di ruoli e fun- zioni per cui la scuola dovrebbe concentrarsi sull’acquisizione di saperi in qualche misura astratti dal contesto mentre spetterebbe alla formazione professionale di oc- cuparsi della loro attualizzazione rispetto alle esigenze del mercato del lavoro. L’i- struzione e formazione connessa alle professioni qualificate e tecniche non rappre- sentano unicamente un segmento “terminale” del processo educativo, ma costitui- scono esse stesse vie di pari dignità pedagogica in grado di soddisfare i requisiti del profilo educativo, culturale e professionale. Ma permane nella popolazione – ed è questo un fenomeno molto accentuato nel nostro Paese – un riflesso condizionato teso a gerarchizzare i percorsi formativi secondo un pregiudizio idealistico che fa coincidere la cultura con le discipline umanistiche e al più scientifiche. Ciò risulta particolarmente presente nel ceto docente che riflette perlopiù una formazione ti- pica di un’epoca dove la cultura era considerata un bene privilegiato e quindi selet- tivo. 8. Il caso francese Un esempio interessante nel contesto europeo ci viene dalla Francia, una Paese caratterizzato da una importante competenza circa le politiche educative e forma- tive. Riflettendo ora sul piano dell’efficacia, l’attuale situazione del sistema educa- tivo francese presenta dati preoccupanti circa l’effettivo perseguimento delle fina- lità cui è orientato. 48 La prima questione riguarda la posizione della Francia entro le valutazioni in- ternazionali circa il livello di preparazione: essa infatti si colloca solo in una posi- zione intermedia, nonostante la rilevanza degli investimenti e dello sforzo profuso in direzione della qualificazione del sistema. Ciò accade anche se nelle stesse valu- tazioni internazionali più della metà degli allievi consegue risultati soddisfacenti, a volte persino eccellenti. Questo aspetto rivela la presenza di una quota di adole- scenti e giovani che presentano livelli critici di istruzione e formazione. Infatti, si segnala come siano ancora numerosi i giovani che sono esclusi dai saperi di base. In particolare: – ben 150.000 persone, cioè circa il 20% d’una classe d’età, escono ogni anno dal sistema educativo senza alcuna qualificazione, – il 15% degli allievi alla fine del collège (la corrispondente della nostra scuola media che dura 4 anni, da 11 a 15) non possiede le competenze generali attese, – circa il 30% di allievi presenta notevoli difficoltà nell’ambito degli stessi col- lège. Questa situazione, oltre che confermare l’esistenza di un’area di disagio e di dispersione ancora notevole, nonostante gli sforzi (si ricorda che già negli anni ’90 l’ordinamento francese aveva fissato come meta il baccalaureato, equivalente del nostro diploma) per tutti i cittadini. Si tratta di un elemento di grande forza nel di- battito d’Oltralpe, poiché, data la valenza di laicità dello Stato, spetta appunto alla scuola fornire alla gioventù un’identità nazionale ed una cultura all’altezza della vi- sione di cittadinanza che lo Stato esprime. Ciò ha conseguenze gravi sia sul livello generale di formazione, determinante per l’avvenire del Paese, sia sulle condizioni d’accesso e di riuscita all’Università, altro aspetto cui viene attribuita una notevole rilevanza nell’ambito della modernizzazione e dello sviluppo del sistema. Il maggior numero di fallimenti continua ad essere registrato fra i ragazzi pro- venienti da ambienti sociali deprivati. Ma non solo: la scuola non assicura più la promozione dei migliori fra loro. L’uguaglianza delle opportunità è dunque tut- t’altro che realizzata, specie in un contesto istituzionale che attribuisce all’educa- zione – oltre alla valenza integrativa e “dotativa” – anche il compito dell’equità so- ciale e della promozione personale in base ai talenti, contrastando i condiziona- menti e le discriminazioni che derivano dalle diverse condizioni culturali, econo- miche, etniche e religiose. Vi è infine l’allarme relativo alla violenza ed al bullismo. È una tematica che occupa buona parte delle riflessioni sul rapporto tra giovani ed educazione e sul problema dell’educazione al rispetto reciproco. Molti sono gli allarmi relativi alla violenza a scuola che, si dice, comincia con la maleducazione, ed è inaccettabile, sia che essa si eserciti contro gli altri allievi sia che si rivolga contro gli adulti, in particolare contro i professori. Da questo punto di vista, molti indicano la necessità che la scuola non debba solo impartire conoscenze, ma anche insegnare agli allievi a comportarsi da persone responsabili. Di conseguenza, molti sforzi sono rivolti al- 49 l’acquisizione precoce delle regole di comportamento a scuola – oggi più che in passato – luogo deputato all’apprendimento delle regole della vita sociale, fattore indispensabile sia per l’acquisizione dei saperi sia per l’inserimento nella vita attiva e per l’esercizio della cittadinanza. Le risposte che il sistema francese ha trovato a tali problematiche sono ripar- tite in tre categorie: 1) la valorizzazione dei percorsi professionalizzanti nell’am- bito dell’articolazione dell’offerta formativa; 2) la validazione delle acquisizioni di tipo formale ed informale; 3) le politiche di contrasto alla dispersione ed al disagio. 8.1. Valorizzazione dei percorsi professionalizzanti nell’ambito dell’articolazione dell’offerta formativa Il sistema francese si presenta con una configurazione unitaria, nella quale emerge la prevalenza dei percorsi generalisti finalizzati al diploma generale, a fianco dei quali sono però presenti percorsi professionali e tecnici che consentono agli studenti, in ogni momento del ciclo secondario, di delineare un percorso fina- lizzato all’inserimento lavorativo mentre il grado di prosecuzione degli studi che questi consentono risulta selettivo ovvero orientato ai livelli superiori omogenei della stessa filiera formativa. Si può dire che, nel corso degli anni, la componente professionalizzante ha avuto un notevole impulso, anche a fronte della coscienza delle difficoltà volte a dotare tutti i giovani del titolo di diploma ed anche in forza della consapevolezza delle difficoltà del “modello francese” di integrazione sociale e di identificazione nazionale tramite la sola cultura generalista ed i percorsi formativi lunghi. Possiamo notare i seguenti elementi qualificanti il sistema professionalizzante francese: – significativa presenza della VET nel secondo ciclo e nella formazione supe- riore; – dinamica pluralistica del sistema pubblico con presenza di soggetti erogativi misti pubblico/privato; – significativa autonomia degli organismi erogativi; – sviluppo da parte delle istituzioni di governo di una governance non invasiva ma orientata al miglioramento della qualità attraverso standard di erogazione e risultato, accreditamento, valutazione; – modelli di gestione e amministrazione snelli e coerenti con una governance non invasiva. 8.2. Validazione delle acquisizioni di tipo formale ed informale La validazione delle acquisizioni dell’esperienza è una misura che permette ad ogni persona, quale che sia la sua età, il suo livello di studi, il suo statuto giuridico, di far riconoscere le acquisizioni della sua esperienza professionale per ottenere un diploma, un titolo o un certificato di qualificazione professionale. È un diritto 50 iscritto nel Codice del lavoro (articolo L-900-1) e nel Codice dell’educazione (arti- coli L 335-5 e L 335-6). Essa consiste quindi in un tentativo di superare la logica scolastica del titolo di studio e di ampliare gli ambiti della “formazione competente” anche ai processi di apprendimento tramite esperienze reali, e di riconoscerle ai fini di una qualifica- zione della persona portatrice. La VAE (Validation des Acquis de l’Expérience, convalida delle acquisizioni dell’esperienza) permette di ottenere, nella totalità o in una sua parte, un diploma, un titolo o un certificato di qualificazione professionale iscritto nel repertorio na- zionale delle certificazioni professionali (RNCP, Répertoire National des Certifica- tions Professionnelles). In caso di validazione parziale delle acquisizioni, una valu- tazione complementare può permettere di ottenere la totalità del diploma. Nell’insegnamento superiore, la validazione delle acquisizioni esiste già. Oggi ogni persona può far validare la sua esperienza professionale e personale per acce- dere direttamente ad un livello di formazione senza avere il diploma richiesto (de- creto del 23 agosto 1985). La legge di modernizzazione sociale del 17 gennaio 2002, che ha creato la VAE, permette di andare oltre autorizzando le università e gli altri istituti di insegnamento superiore a rilasciare i loro diplomi e gli altri titoli tramite un’altra via rispetto a quella della formazione o dell’apprendistato. La VAE prende il posto della validazione delle acquisizioni professionali (VAP, Validation des Acquis Professionnels), ampliando il campo dell’esperienza preso in carico al fine delle attività di riconoscimento e riportando la sua durata d’esercizio da 5 a 3 anni. Tutti hanno diritto al riconoscimento della propria esperienza: dipendenti, non dipendenti, coloro che sono in cerca di lavoro, sia che abbiano l’indennità sia che non la posseggano, persone che hanno esercitato attività sociali, volontariato, ecc. La sola condizione richiesta è di avere esercitato un’attività avente una durata minima di tre anni coerente con il contenuto del diploma desiderato. Due sono gli ambiti di applicazione: – Per i certificati di attitudine professionale (CAP, Certificat d’Aptitude Profes- sionelle) ed il brevetto di tecnico superiore (BTS, Brevet de Technicien Supé- rieur) sono attivi i dispositivi accademici di validazione delle acquisizioni (DAVA, Direction Académique pour la Validation des Acquis). Ne esiste uno per ogni accademia. – Per i diplomi dell’insegnamento superiore sono attivi i servizi di formazione continua di istituto (università, scuole di ingegneria). La procedura di VAE è aperta a tutti i lavoratori dipendenti, che soddisfino i requisiti temporali indicati, e può essere organizzata nell’ambito del piano di for- mazione dell’impresa o di un congedo specifico: il congedo per convalida delle ac- quisizioni dell’esperienza. 51 8.3. Politiche di contrasto alla dispersione ed al disagio Anche nella prospettiva del contrasto alla dispersione ed al disagio, la Francia mette a frutto le sue risorse di ricchezza dell’offerta formativa. Entro quest’ambito si trovano quindi iniziative rivolte ai giovani in difficoltà: – Scuole della seconda chance – Missioni generali di inserimento (MGI) – Azioni di prevenzione – Azioni a valenza pedagogica. Si tratta di iniziative e programmi che prevedono interventi rivolti in gran parte ad un’utenza che presenta un difficile rapporto con la scuola e l’educazione in genere; i progetti che vi si svolgono non raramente puntano sull’acquisizione di competenze lavorative e professionali per rimotivare i giovani allo studio e per in- serirli stabilmente nel mondo del lavoro. Questi programmi sono stati ulteriormente sollecitati e ampliati. Alla luce dei gravi problemi di ordine pubblico occorsi alla fine del 2005 e che si ripetono oramai, anche se con forme e numeri meno eclatanti, con una costanza che preoccupa le autorità e che interroga sul reale ruolo della scuola nel formare il tipo di cittadino previsto dall’ordinamento nazionale. Anche in forza di queste modernizzazioni, la Francia cerca di far fronte alle criticità del suo sistema. Il grande dibattito nazionale svoltosi tra il 2003 ed il 2004 sull’avvenire della scuola, gestito dalla Commissione presieduta da Claude Thélot, ha portato all’ela- borazione di un Rapporto che ha messo in luce una serie di preoccupazioni di fondo: motivare e far lavorare gli alunni, tener meglio conto della loro diversità e delle loro difficoltà scolastiche, lottare contro la violenza e le manifestazioni d’in- civiltà, migliorare la collaborazione fra insegnanti e genitori, definire i contenuti che gli alunni devono assolutamente acquisire. Tutte queste preoccupazioni si traducono in una sola aspirazione: far riuscire tutti gli alunni. È a quest’aspirazione che la Commissione ha voluto rispondere, ri- tenendo di integrare la propria riflessione con alcuni imperativi essenziali per l’av- venire del Paese: – inscrivere la Scuola della Nazione nell’orizzonte europeo per favorire la cittadi- nanza europea e contribuire all’emergere di una società della conoscenza; – adattarsi all’incertezza sui bisogni futuri dell’economia e della società; – realizzare la formazione lungo l’intero arco della vita, migliorandone l’artico- lazione con la formazione iniziale. La scuola deve render possibile l’azione pedagogica ed insegnare a vivere in- sieme nella società democratica e repubblicana. Essa deve nello stesso tempo assicurare l’acquisizione da parte di tutti gli alunni di uno zoccolo comune di conoscenze, competenze e regole di comporta- 52 mento indispensabili, e sapersi adeguare alla loro diversità. Bisogna ch’essa sia giusta, che tenda all’eguaglianza delle opportunità e alla pluralità delle eccellenze. Una scuola giusta ed efficace deve potersi appoggiare su istituti scolastici re- sponsabili e dinamici, dove lavorino persone competenti, fiduciose, convinte e ri- conosciute. A sostegno di tali esigenze, la Commissione propone otto programmi d’azione per progettare la scuola del futuro: 1) nel corso della scolarità obbligatoria, garantire che tutti gli alunni padroneg- gino lo zoccolo comune indispensabile e trovino la propria via per la riuscita; 2) al liceo, per motivare gli alunni, definire indirizzi più specifici, e valorizzare meglio alcuni di essi; 3) aiutare gli studenti della scuola secondaria di primo grado a costruire un pro- getto chiaro e a rispettarlo il meglio possibile; 4) favorire la mescolanza sociale; 5) rinforzare la capacità d’intervento e la responsabilità degli istituti scolastici; 6) nell’équipe educativa, ridefinire la professione d’insegnante; 7) costruire un’educazione d’intesa coi genitori al servizio della riuscita dell’a- lunno; 8) formare in collaborazione con altri partner: eletti, associazioni, imprese, ser- vizi medici e sociali, polizia e giustizia. Tre condizioni appaiono di capitale importanza per la riuscita dell’impresa: la determinazione, la responsabilità e la fiducia. La determinazione: la messa in atto della riforma richiede una grande conti- nuità dell’azione di governo e amministrativa se si vuol evitare che essa fallisca. La responsabilità: il sistema educativo dev’essere guidato, governato, respon- sabilizzato, il che dà alla sua regolazione superiore a livello territoriale un ruolo es- senziale e reclama imperativamente una nuova cultura della regolazione, che associ fermezza e capacità di negoziazione. La fiducia: fiducia dei giovani nel proprio futuro, fiducia reciproca degli alunni e dei professori; fiducia di questi ultimi di fronte all’istituzione che li as- sume; fiducia delle famiglie, di tutta la Nazione, nella scuola. 9. Per una nuova stagione educativa È sotto gli occhi di tutti il carattere disgregante della società “complessa”. L’affermazione secondo cui ogni differenza rappresenta un valore risulta puramente teorica se non si mettono in atto meccanismi di integrazione sociale che consentano di delineare una convivenza attiva e partecipata, sulla base di una condivisione di criteri etici e di comportamenti sociali. Meno la società in genere è in grado di garantire processi di integrazione, più si rivolge alla scuola una richiesta di intervento che alla lunga può risultare ecces- 53 siva fino a soffocarla, trattandosi di un’istituzione che specie nel segmento secon- dario – per la sua natura e la sua storia nel corso di tutta la vicenda italiana – si propone obiettivi di istruzione ed al massimo di socializzazione, ma non è in grado di mettere mano a processi sostanziali di integrazione sociale caratterizzati da una chiara valenza educativa. Tutte le ricerche effettuate nei Paesi avanzati denotano l’esistenza di una quota non indifferente di adolescenti e giovani che non raggiunge livelli culturali minimi e che in qualche modo “resiste” ad un’offerta formativa che pure si è fatta nel tempo più puntuale e mirata. È un fenomeno nuovo che non segue necessariamente la map- pa della povertà, ma rappresenta quella quota di popolazione che presenta uno stile di vita “sregolato” che li porta ad esprimere uno stile di convivenza basato sul mero soddisfacimento delle esigenze soggettive, senza alcuna adesione ai requisiti morali ed etici della vita sociale. Si tratta della manifestazione di quel relativismo etico che rappresenta il connotato saliente delle nuove culture della società complessa, specie nel contesto europeo nel quale domina una riflessione autocritica circa i valori che sorreggono la cultura del Vecchio continente ed il suo ruolo nel mondo. È chiaro che l’ambiente culturale relativista non è in grado di fornire un sub- strato idoneo per la delineazione di un progetto educativo che rischia di essere va- nificato da una considerazione, per così dire, impotente e disimpegnata circa la va- rietà dei valori e dei codici etici che risultano tanto più ingestibili presso i destina- tari quanto più gli stessi insegnanti ed operatori non si pongono nelle condizioni di trovare le ragioni di un patto che non si limiti ai contenuti o alle competenze, ma indichi anche un quadro etico positivo per gli alunni ed un codice deontologico vincolante per il personale in genere. L’apprendimento richiede infatti un atto di fiducia e di disponibilità a lasciarsi trasformare; senza l’adesione alle regole (implicite o esplicite) proprie dei percorsi formativi strutturati, e considerando la configurazione organizzativa della scuola basata quasi esclusivamente su gruppi classe in processi di apprendimento dedut- tivi, ed ai presupposti su cui queste poggiano, ogni realtà di classe avrà al suo in- terno 3-5 ragazzi e giovani che semplicemente si rifiutano di imparare e predili- gono la cosiddetta “affettivizzazione della scuola”, ovvero il fatto che, venuto meno uno stile di vita di classe basato sul timore, l’ambiente scolastico è divenuto un palcoscenico sul quale i giovani mettono in scena la loro esistenza, senza di- menticare nulla – anche in termini di disagio – di ciò che vivono, con conseguenze frustranti su una classe docente che vive spesso l’emotività come un ostacolo al- l’insegnamento. Ma, se questo è il quadro di un tipico gruppo classe specie del ciclo secon- dario, esso può venire fronteggiato attraverso una strategia che punti sulla persona- lizzazione, che miri ad un metodo il più possibile induttivo accentuando così gli aspetti concreti dell’apprendimento, che agisca sulle esperienze in grado di coin- volgere e sui legami di appartenenza tra studente e istituzione scolastica e forma- tiva. 54 Esiste quindi una strategia disponibile in tale direzione che può far leva sulla varietà di dispositivi metodologici propri della scienza pedagogica, da cui trarre quelli più convergenti e potenzialmente validi rispetto alle caratteristiche della gio- ventù odierna. Ciò che invece fa da ostacolo, è l’assenza tra l’équipe dei docenti di un’intesa che indichi il quadro etico di riferimento per gli studenti, il quadro culturale entro cui collocare le esperienze di apprendimento, il quadro deontologico che impegni gli stessi docenti ad una condivisione non solo astratta e ad un codice deontologico definito e rispettato. L’ostacolo può nascere da un lato dalla preoccupazione in relazione al so- vrappiù di lavoro che tale cambiamento comporta, ma trova radici anche in un ma- linteso significato del ruolo della scuola come esperienza che fonda la coscienza critica dei destinatari, quando ciò finisce per giustificare una sorta di pedagogia re- lativistica che si limita alla mera elencazione delle diverse possibilità in ordine ai vari problemi o ambiti tematici, senza fornire agli interlocutori gli strumenti e gli esempi che possano consentire loro di esercitare effettivamente tale coscienza. In altri termini, il lavoro educativo richiede necessariamente l’assunzione di un “patto educativo comune” e dall’altro della “proposta formativa” concordata con le famiglie che costituisce il quadro di riferimento di un’azione educativa che voglia essere effettivamente tale, fornendo quindi agli allievi dei punti di riferi- mento con cui confrontarsi, ma che, proprio perché esistono, possono anche essere posti in discussione a partire dalla corrispondenza o meno che si rintraccia con le evidenze della propria vita personale. La proposta educativa non limita il bagaglio circa la pluralità delle posizioni possibili (e ragionevoli) e non riduce lo spazio di libertà della persona, al contrario, sollecitando questa a porre a verifica la veridi- cità e la sostenibilità di quanto viene loro proposto, la spinge ad esercitare davvero le proprie prerogative personali, al contrario della posizione semplicemente tolle- rante e genericamente pluralistica che, di fronte alla consapevolezza della varietà delle opzioni, semplicemente smette di educare e quindi di istruire e formare, fa- cendo così mancare ai giovani ciò che effettivamente serve loro per diventare per- sone mature e in grado di muoversi in modo autonomo e responsabile nella società complessa. La problematica si sposta quindi dai giovani alla classe degli insegnanti e dei formatori; ciò risulta tanto più evidente, quanto più ci rendiamo consapevoli di quanto l’attuale generazione giovanile sia sensibile alla relazione con l’adulto quando questa diventa significativa e “forte”: solo con docenti con una spiccata vo- cazione educativa si può infatti sperare nell’avvio di processi di apprendimento reali per questi giovani che rischiano, a causa dei vari aspetti sociali e culturali in- dicati, ma soprattutto a causa di un malinteso “rispetto” e “tollernza”, di permanere in un limbo di povertà culturale e di “infantilizzazione” prolungata dell’esistenza, sempre a carico di genitori o di istituzioni assistenziali. In effetti, accanto alle problematicità di talune fasce del mondo giovanile, oc- 55 corre segnalare anche gli aspetti propri della cultura delle attuali nuove generazioni che costituiscono altrettante leve per l’apprendimento: – Desiderio di legami (buoni): gli attuali adolescenti e giovani presentano una positiva disposizione verso legami positivi, ovvero orientati al bene. Si può dire che è forte tra di loro la sensibilità morale, ovvero il riferimento al bene, non in una chiave astratta, ma come relazione che si instaura con adulti signifi- cativi e credibili, in grado di testimoniare personalmente ciò che affermano. Questi legami facilitano il patto formativo e lo stesso percorso di apprendi- mento. – Utilità: di fronte allo sforzo dell’apprendimento che, in un contesto complesso e individualistico comporta la volontà e la possibilità di uscire dal proprio rife- rimento e di entrare in uno spazio comune, ovvero di fidarsi di ciò che viene loro proposto sul piano formativo, essi richiedono la prova che quanto ven- gono ad apprendere sia utile ovvero rappresenti un guadagno effettivo per l’oggi prima ancora che per il domani. La questione circa l’utilità di ciò che si impara non è una provocazione: essa pone in definitiva la questione del valore in grado di dare beneficio alla persona nel suo modo di porsi nei confronti della realtà. – Senso del sapere: la questione del senso si riferisce all’esistenza di una rela- zione positiva tra il mondo personale ed il mondo della cultura. Tale senso ri- sulta più afferrabile se il sapere proposto loro smette di mantenersi su un piano di inerzia, ovvero di essere finalizzato esclusivamente o prioritariamente ai voti, per diventare un sapere buono per la vita. Si tratta del valore della cultura in quanto mezzo per perseguire la verità; ciò pone la possibilità di un rapporto personale tra il soggetto e la cultura, che diviene strumento per il perfeziona- mento di sé e di umanizzazione della società in cui si vive. – Orientamento morale: si può dire che – come contrasto all’attuale crisi dei va- lori – l’atteggiamento espresso dall’attuale generazione di adolescenti e di gio- vani sia forse eccessivamente moralistico, proprio perché, a fronte di adulti spesso dimissionari circa il proprio ruolo educativo, essi si trovano a dover tro- vare risposte alle varie questioni quasi esclusivamente facendo ricorso alla cul- tura giovanile, che appare inadeguata a causa della povertà di esperienze e del- l’ambiguità dei criteri che adotta. Ciò ripropone la questione della relazione in- tergenerazionale, ovvero il ruolo di adulti che non si limitano a fornire uno specifico quadro disciplinare del sapere, ma siano anche disponibili ad un dia- logo sul quadro più ampio del vivere “buono”. – Dimensione iconografica ed estetica: la cultura dei giovani è fortemente se- gnata dalla sostituzione del linguaggio formale con un linguaggio iconografico nel quale dominano segni che vorrebbero sostituire parole, sentimenti e strut- ture d’azione, ma che, con un metodo adeguato, possono anche essere perce- piti come occasione per conquistare una cultura fatta di linguaggio delle pa- role. Anche la dimensione estetica rappresenta un “potenziale” culturale di 56 oggi che può anche rimanere infecondo se non lo si sollecita attraverso l’edu- cazione del gusto estetico e la ricerca del legame tra il bello, il buono ed il vero. In definitiva, come oramai siamo stati abituati a rilevare a partire dal secondo dopoguerra ad oggi, l’alternanza delle generazioni propone forti discontinuità di impostazione e di disposizione di fondo nei confronti della realtà. Le generazioni affluenti sembrano rifiutare l’atteggiamento culturale delle generazioni deputate alla loro crescita (non il bagaglio culturale, poiché questo ha un valore universali- stico e si presta a molte e diverse prospettive); così i giovani di oggi, a fronte di un ceto di adulti che appare piuttosto disorientato circa i criteri di fondo su cui anco- rare l’esistenza e a sua volta “sregolato”, manifestano un forte desiderio di legami, di punti di riferimento, ad un tempo di guide per la vita e di esperienze culturali che consentano un cammino di conquista del sapere personale. È in questo quadro che va collocato il tema delle competenze: non si tratta di mere “funzionalità” (anche se non si devono disdegnare quelle autonomie e quegli stili di vita civica la cui assenza viene spesso lamentata dagli osservatori dei feno- meni giovanili), ma sono da concepire come occasioni di arricchimento antropolo- gico, un linguaggio proprio di un lavoro educativo e formativo teso a riconoscere e valorizzare i talenti buoni dei destinatari per sollecitarne in loro un rapporto posi- tivo, attivo e partecipato con se stessi e la realtà. 57 Capitolo 2 Apprendimento di competenze e personalizzazione Roberto FRANCHINI Di fronte alle sfide della cosiddetta società complessa, affascinati ma non con- vinti dalla sovrabbondanza di informazioni e dall’efficacia dei veicoli mediatici che le trasportano, gli studiosi delle scienze dell’educazione si interrogano sulla forma- zione delle nuove generazioni, non del tutto certi che la ricchezza delle opportunità tecnologiche si traduca in un migliore equilibrio personale, e, per conseguenza, so- cietario. La personalizzazione è sicuramente una delle prospettive attraverso la quale guardare all’intero della formazione. Il tutto nella parte, mediante un ritaglio inten- zionale di una delle funzioni attribuibili alla didattica, in qualche modo preliminare ad altre e trasversale rispetto a molte: la capacità, cioè, di contribuire al processo attraverso il quale il giovane sceglie il suo progetto di vita, mediante alcune delle sue fondamentali articolazioni, che consistono nella selezione dell’itinerario prima scolastico e poi professionale. Non esiste prima la didattica dei contenuti e poi quella della personalizzazione, quasi fossero due scansioni progettualmente separabili nel tempo (al punto da ipo- tizzare l’area della personalizzazione al fianco delle aree disciplinari, più tradizio- nali e consolidate). È la stessa esperienza scolastica, presa nell’insieme complesso disegnato dai suoi protagonisti, contenuti, strumenti, spazi e tempi, che ha una fun- zione personalizzante o non ce l’ha, o meglio, personalizza o spersonalizza. Di questa esperienza scolastica, nel gioco tra contenuti e processi, tra relazione educa- tiva e istruzione, tra standard formativi e individualizzazione, la riflessione dovrà allora occuparsi, nella prospettiva della personalizzazione. 1. Per una teoria delle competenze multiple Per comprendere in profondità le finalità dell’istituzione scolastica e formativa è necessario poggiare l’indagine sul fondamento di un’antropologia dell’allievo, allo scopo di possedere non soltanto un quadro di analisi, ma anche una misura per gli obiettivi educativi di riferimento. In qualsiasi approccio didattico, anche qualora non venga preliminarmente riservato spazio ad una riflessione sull’uomo e sulla sua educazione, non vuol dire che non sia presente un’antropologia di riferimento, ma soltanto che essa rimane per lo più irriflessa, aspetto tutt’altro che vantaggioso 58 qualora l’hidden curriculum degli insegnanti riporti implicitamente alla resistente immagine dell’allievo come contenitore da riempire, attraverso la trasmissione pro- grammata di una serie definita di dati, nozioni e sistemi di simboli. Se ci si domanda il motivo per il quale la maggior parte degli insegnanti, anche senza riconoscerlo esplicitamente, agisce alla luce di questo presupposto la risposta potrebbe essere data in forza della tradizione: è il modo in cui i loro stessi inse- gnanti hanno agito. Occorre dunque un serio lavoro di approfondimento, e di con- seguente revisione delle pratiche pedagogiche, per far emergere l’implicito, dando un nome agli obiettivi dell’educazione, alla luce di una rinnovata concezione del- l’uomo-che-apprende. In questa direzione un potente aiuto è offerto dalla rifles- sione di Howard Gardner sui meccanismi dell’apprendimento, sulle cosiddette in- telligenze multiple e sulle possibili strategie per un’educazione al comprendere. Ad ogni forma di insegnamento corrisponde infatti una concezione più o meno esplicita dell’intelligenza dell’uomo. Gli studi di Gardner sull’educazione al com- prendere hanno evidenziato la limitatezza del concetto di intelligenza che è tradi- zionalmente e generalmente apprezzato all’interno dell’istituzione scolastica: la scuola, infatti, rischia di apprezzare soltanto la capacità dell’individuo di memoriz- zare un grande numero di informazioni e conoscenze, senza per lo più occuparsi di come tali conoscenze, insieme ad altre risorse della persona, siano effettivamente utilizzate per risolvere problemi, o più in generale per affrontare e comprendere si- tuazioni inedite. Dietro la tradizionale pratica scolastica vige una concezione molto pervicace di intelligenza, intesa come una sorta di fattore generale1 (misurabile attraverso test carta e matita, come ad esempio il celebre Quoziente di Intelligenza)2, che abilita il soggetto a memorizzare un ampio numero di informazioni e a svolgere con suc- cesso un certo numero di operazioni linguistiche e logico-matematiche. Intesa in tal senso, l’intelligenza non ha per definizione un ancoraggio diretto alla realtà con- creta, e ai problemi che essa continuamente pone all’individuo, ma è riconducibile ad un complesso di operazioni formali, misurabili in contesti e prove astratte, che solo in un secondo momento trovano la loro traduzione in azioni e iniziative intelli- genti all’interno del mondo. 1 Fu Spearman (1927) ad ipotizzare che le diverse prestazioni cognitive fossero riconducibili ad un fattore singolo, che identificò come fattore generale o “fattore g”. Thurstone (1938), dando il via ad una più consolidata tradizione psicometrica, dopo aver inizialmente espresso qualche difficoltà a rinvenire un fattore unico che spiegasse alcune variazioni nei dati da lui ottenuti sull’intelligenza, in un secondo momento riconobbe “alcuni errori di natura statistica” e ammise di poter trovare un fat- tore g di intelligenza generale. Per un approfondimento sulla storia della valutazione psicometrica del- l’intelligenza si può vedere AAMR, 2005, 79ss. 2 La scala Stanford-Binet rappresenta sin dai primi del Novecento lo strumento principale della tradizione psicometrica. Ad oggi essa è pubblicata nella sua quarta versione, ma non è mutato l’im- pianto generale, che riconduce i sottofattori dell’intelligenza ad un fattore generale, il Quoziente di In- telligenza, appunto. Nella quarta versione l’intelligenza risulta composta da capacità di ragionamento verbale, di ragionamento quantitativo, di ragionamento astratto/visivo e di memoria a breve termine (AAMR, 2005, 91). 59 Partendo da una concezione di intelligenza così intesa, l’unica operazione di personalizzazione a tutti gli effetti possibile è quella di misurare le potenzialità del- l’individuo rispetto allo standard previsto dalle abilità ad essa sottese (o attraverso la forma “esatta” di un test o più spesso attraverso l’impressione generale dell’inse- gnante), allo scopo di disporre idealmente l’allievo lungo un continuum a forma gaussiana (la “curva a campana”)3, a partire dai meno dotati sino alle persone molto dotate, passando attraverso la normalità statistica, traducibile nel possesso di un in- sieme versatile e poco inclinato di competenze logiche e simboliche. L’unica diversità possibile consisterebbe dunque in una maggiore o minore prontezza ad affrontare un certo tipo di prove, generalmente apprezzate a scuola, in una prospettiva che conduce inevitabilmente, dal punto di vista didattico, a mettere in difficoltà i “diversi”, o sotto il profilo dei meno dotati (per i quali si rende neces- sario elaborare forme compensative di supporto), o sotto il profilo dei più dotati (ai quali si chiede di attendere i tempi “normali”, rischiando molto della loro motiva- zione nei confronti dell’ambiente scolastico, quando non del loro stesso apprendi- mento)4. Non è un caso che Gardner, nel criticare il tradizionale concetto di intelligenza apprezzato a scuola, abbia al contempo operato una messa in discussione della tra- dizione psicometrica, incline, al pari delle istituzioni formative, ad apprezzare la capacità dell’individuo di fornire risposte corrette attraverso una mescolanza di abi- lità mnemoniche, aritmetiche e linguistiche; l’intelligenza, in realtà, è ben più di questo, ed è riconducibile secondo Gardner alla “capacità di risolvere un problema o di realizzare un prodotto apprezzato in almeno una cultura o comunità” (Gardner, 2005b, 116). L’intelligenza così intesa non si dà al singolare, ma al plurale, configurandosi come un insieme di competenze, che Gardner denomina “intelligenze multiple” (Gardner, 2006)5. Nel suo corposo saggio dal suggestivo titolo “Formae mentis”, lo 3 La tesi della “curva a campana” è espressa in uno scritto di Herrnstein e Murray (1994), sembra molto diffuso in America, più volte criticato da Gardner nei suoi scritti. 4 Commenta Galimberti: “I diversi - e tra i diversi ci sono anche i superdotati che vanno male a scuola, i cosiddetti non-intelligenti, quelli che a scuola fanno fatica, quelli che non rispondono a quo- zienti di intelligenza ai massimi valori - esprimono il più delle volte intelligenze poco flessibili perché molto inclinate, e quindi dotate di una specificità non apprezzata dalle pagelle scolastiche e dai test psicologici che valutano dell’intelligenza solo quella flessibilità, e quindi quella genericità, con cui sono costruite le domande scolastiche che sostanziano le interrogazioni e le domande psicologiche che compongono i test. Così si stroncano inclinazioni sull’altare della genericità, che non è il nozio- nismo contro cui si sono fatte in anni passati stupide battaglie, ma la supposizione che l’intelligenza sia una dimensione versatile e versata in ogni contenuto” (Galimberti, 2005). 5 Altro autore che ha affermato l’esistenza di una pluralità di competenze intellettuali, con una critica esplicita al concetto di Quoziente di Intelligenza, è Sternberg (1988), con la sua “teoria triar- chia dell’intelligenza umana”, secondo la quale esistono tre fondamentali fattori dell’intelligenza: la capacità analitica, che rappresenta la capacità del soggetto di analizzare e criticare le idee proprie e altrui; la creatività, cioè la capacità di generare nuove idee che apportino alla cultura di appartenenza un contributo significativo; l’intelligenza pratica, ossia la capacità del soggetto di convertire le idee in applicazioni e di convincere gli altri della loro utilità. 60 psicologo americano cerca prove anche dal punto di vista biologico dell’esistenza nell’uomo di una pluralità di competenze intellettuali. Celebre è l’immaginaria dis- puta tra il corredo biologico del riccio e della volpe: “da un certo punto di vista, che ho già avuto occasione di associare al riccio, gli esseri umani posseggono po- teri estremamente generali, meccanismi generici di elaborazione dell’informazione che possono essere adibiti ad un numero di usi molto grande, o forse addirittura in- finito. Dal punto di vista opposto, che ricorda più la volpe, gli esseri umani, come altre specie, hanno una propensione e eseguire certe operazioni intellettuali specifi- cabili, dimostrandosi al tempo stesso incapaci di eseguire altre operazioni intellet- tuali.” (Gardner, 2006, 52). Alcuni argomenti, tuttavia, che vanno dall’identificazione neurobiologica di al- cune zone cerebrali addette a funzioni anche molto specializzate (e più in generale alla struttura altamente modulare del cervello) alla questione posta dal fenomeno dei cosiddetti idiots savants, conducono, anche se non in modo decisivo, alla for- mulazione dell’ipotesi dell’esistenza di un certo numero di capacità intellettuali, tra loro distinte anche se non separate, che presiedono alla generale creatività del- l’uomo nel suo “avere a che fare con il mondo”. Comincia così ad emergere una vi- sione antropologica profondamente diversa da quella offertaci dai test di intelli- genza (che d’altronde per lo più non poggiano su alcuna concezione neurobiologica esplicita del funzionamento dell’uomo): l’essere umano possiede un corredo di po- tenziali competenze tra loro anche molto diversificate, che lo abilitano di volta in volta ad affrontare determinati problemi o ad elaborare specifici prodotti, all’in- terno di una cultura data. Certamente non è possibile costruire un’antropologia a partire da puri dati bio- logici: anche lo si volesse, la cultura continuerebbe ad infiltrarsi nelle affermazioni cosiddette scientifiche, permeando di sé qualsiasi ipotesi. Ma, come afferma lo stesso Gardner, “l’universale intrusione della cultura conferisce anche un vantaggio all’analisi. La cultura offre la possibilità di esaminare lo sviluppo e la realizzazione di competenze intellettuali da una varietà di punti di vista: i ruoli apprezzati dalla società; le attività in cui gli individui conseguono una particolare specializzazione; la specificazione di campi in cui possono manifestarsi doti prodigiose, ritardi men- tali o difficoltà di apprendimento e i tipi di trasferimento di abilità che possiamo at- tenderci in contesti pedagogici” (Gardner, 2006, 52). La riflessione si avvicina così ai criteri, questa volta dichiaratamente di natura culturale, che possono aiutarla ad identificare l’identità e la consistenza delle com- petenze intellettuali, giungendo a distinguere un certo numero di intelligenze, che Gardner nella sua formulazione più matura ipotizza essere sette: 1) intelligenza lin- guistica; 2) intelligenza musicale; 3) intelligenza logico-matematica; 4) intelligenza spaziale; 5) intelligenza corporea; 6) intelligenza interpersonale; 7) intelligenza in- trapersonale. Ognuna di queste intelligenze raggiunge infatti una densità tale da poter essere prese in se stesse e una alla volta ricondotte alla definizione gardneriana di intelli- 61 genza intesa come capacità dell’uomo di risolvere genuini problemi o difficoltà in cui si imbatte, di trovare o creare nuovi problemi e di elaborare prodotti significa- tivi in almeno una comunità culturale. Appare così chiaro come il concetto di intel- ligenza utilizzato dallo psicologo americano sia riconducibile a quello di compe- tenza, termine che per altro molto spesso egli impiega in modo equivalente. Sulla scorta della riflessione di Pellerey (2004), è possibile infatti confrontare il concetto di intelligenza dello psicologo americano con la nozione di competenza che sta ispirando ed ispira la riforma dei sistemi di istruzione ed educazione in Eu- ropa e non solo6. Pellerey afferma che una competenza è definibile non in modo astratto, ma a partire dalla tipologia di compiti o attività che si devono svolgere va- lidamente ed efficacemente: pertanto, la complessità e novità del compito o della attività da sviluppare caratterizzano anche la qualità e il livello della competenza implicata. Non ogni abilità è di per sé riconoscibile come una specifica competenza (se fosse così l’elenco delle competenze non si fermerebbe certo a sette), ma solo quelle capacità sufficientemente globali da poter essere apprezzate e valutare all’in- terno delle cultura umana. Ogni competenza, come tale, può fare un uso finalizzato di un insieme indefinito di singole conoscenze e abilità, senza poter essere ricon- dotta a queste, pena una sua perdita di significato. Anche Perrenoud, esaminando il concetto di competenza nell’ambito del con- testo scolastico, è giunto alle medesime conclusioni: il concetto di competenza può essere riassunto nella “capacità di mobilizzare diverse risorse cognitive per far fronte a una tipologia di situazioni” (Perrenoud, 2002, 14). Tuttavia, se la compe- tenza presuppone il possesso o la disponibilità di risorse da mobilitare, essa non si confonde con queste, perché “vi aggiunge qualcosa rendendole sinergiche in vista di un’azione efficace in una situazione complessa” (Perrenoud, 2003, 38)7. Le com- petenze, dunque non sono dei saperi, dei saper fare o dei saper essere, ma esse mo- bilizzano ed integrano efficacemente tali risorse. Questa mobilizzazione non è di per sé competenza, se non in relazione ad una situazione, ad un compito-problema che deve essere fronteggiato con successo. Riassumendo ancora con Pellerey, una competenza si manifesta perché si ri- esce a mettere in moto e coordinare un insieme di conoscenze, abilità e altre dispo- sizioni interne al fine di svolgere positivamente il compito o l’attività prescelta. Queste risorse interne debbono essere quindi possedute a un grado di significati- vità, stabilità e fruibilità adeguato, tale cioè da poter essere individuate e messe in moto quando esse siano necessarie per affrontare il compito richiesto. Tra le risorse 6 Per un approfondimento sulla definizione di competenza all’interno della normativa internazio- nale sui sistemi di istruzione ed educazione cfr. sempre Pellerey M., 2004. 7 Molto efficace è il paragone che l’A. utilizza nel confronto tra competenze e risorse che esse mobilizzano: la competenza “accresce il valore d’uso delle risorse mobilitate, allo stesso modo che una ricetta di cucina valorizza i suoi ingredienti, perché le ordina, le mette in relazione, le fonde in un insieme più ricco della loro semplice unione per giustapposizione” (Perrenoud, 2003, 38). 62 che occorre saper individuare, utilizzare e coordinare molto spesso occorre consi- derare non solo risorse interne, ma anche risorse esterne, che devono egualmente poter essere mobilizzate per affrontare efficacemente compiti che richiedono l’uti- lizzo di supporti, sia umani che materiali, oppure l’impiego di un grande numero di informazioni, che non devono necessariamente essere immagazzinate nella me- moria dell’individuo, come una certa tradizione nel campo dell’insegnamento ten- deva ad affermare. Le conseguenze sul piano della politica dell’educazione e dell’istruzione della teoria delle competenze multiple sono ancora ben lontane dall’essere sviluppate a pieno. L’affermazione più o meno esplicita dell’esistenza di un’unica intelligenza ge- nerale giustificava almeno in parte la tradizionale didattica delle conoscenze, in- sieme ad una pressoché totale assenza di misure di personalizzazione nell’ambito della scuola: ogni allievo è confrontato con uno standard universale di capacità, per lo più linguistiche e logiche, e sulla base di tale confronto identificato come più o meno dotato, in modo per lo più sommativo (per non dire sommario e super- ficiale). L’affermazione dell’esistenza di competenze multiple impedisce questo tipo di confronto, ma al contrario postula la capacità delle istituzioni educative e formative di comprendere il profilo cognitivo dei loro allievi, e la possibilità di predisporre per ognuno di loro un percorso di apprendimento che valorizzi il più possibile la loro personalità (anche se questo fine si rende probabilmente legittimo e persegui- bile solo entro un quadro di vincoli di volta in volta stabiliti in base ad un profilo standard di competenze che pur dovranno essere raggiunte, o sotto il profilo dell’i- dentità culturale del cittadino o sotto il profilo di una specifica professione tra- guardo). 2. Competenze multiple e formazione dell’uomo La normativa scolastica italiana sembra in questi ultimi anni aver recepito questo orizzonte pedagogico, contrassegnato dalla centralità del concetto di compe- tenza e dalla sua declinazione al plurale. Il cambiamento di obiettivi delineato dai nuovi ordinamenti8 è infatti contrassegnato dal cambio di prospettiva per quanto ri- guarda la figura traguardo: se un tempo il “diplomato” era una persona istruita se- condo canoni stabiliti in funzione della scuola frequentata, oggi coloro che escono dalle scuole di ogni ordine e grado devono essere persone competenti, ovvero in grado di trasformare le risorse possedute (capacità, conoscenze, abilità) in compe- tenze, al fine di condurre ad una soluzione un compito-problema. Se dunque l’indi- viduo è chiamato a mobilitare le proprie risorse, il difficile compito di promozione 8 Si tratta della Legge 53/2003 e successivi decreti attuativi. 63 della competenza, che viene affidato alle agenzie educative, non può prescindere da una personalizzazione del percorso di crescita dei soggetti, rendendo pertanto obso- leta la tradizionale struttura scolastica basata su programmi ministeriali, non fon- dati su principi di aderenza alla persona. La vecchia impostazione, fin dai tempi della legge Casati, puntava ad un’omo- geneizzazione del sapere su scala nazionale. I programmi ministeriali tentavano di perseguire una sorta di “parità di livello cultuale”, obiettivo ambizioso quando lo scenario sociale era condizionato dal fenomeno dell’analfabetismo di massa, ma obiettivo probabilmente anacronistico nello scenario attuale, contrassegnato dal fe- nomeno della “conoscenza distribuita”, o persino da una sorta di “ipertrofia della conoscenza”. In un modello di scuola e di insegnamento centrato su obiettivi formativi espressi in termini di conoscenze, il docente tende a rivestire un ruolo direttivo al- l’interno di un’azione tendenzialmente già prestrutturata, progettata in modo algori- timico alla luce di risultati attesi o “comportamenti terminali”9. All’interno di questa impostazione sono nati numerosi approcci metodologici, dall’istruzione pro- grammata alla progettazione curricolare, dal mastery learning (o apprendimento per la padronanza) alla didattica modulare, passando per il criterion-referenced-te- sting (o valutazione riferita a criteri). Nel modello centrato su obiettivi espressi in termini di competenze, viene al contrario posto in risalto il principio di autonomia del discente, secondo il quale egli stesso è l’artefice del proprio apprendimento. La formazione non ha più come obiettivo “il sapere: la promozione, la diffusione e l’aggiornamento del sapere”, ma “l’apprendimento: l’attivazione, il sostegno, il consolidamento dell’apprendi- mento” (ISFOL, 2002, 278-280). La finalizzazione della competenza alla risolu- zione di un compito, inoltre, previene la decomposizione dell’obiettivo formativo in singole conoscenze e abilità, e la conseguente tendenziale perdita di senso del processo di apprendimento. “Si vede dunque tutta la differenza tra mirare ad un obiettivo e mirare ad una competenza: insegnando delle competenze, ci si impegna a far lavorare gli allievi in ogni momento su delle attività sufficientemente globali, che hanno un senso nell’universo umano e la cui funzionalità appare all’allievo” (Rey, 2003, 16-17). Compito della scuola diviene quello di progettare esperienze di apprendimento unitarie e sensate, volte a garantire la trasformazione delle capacità di ciascuno in reali e documentate competenze, dove per competenza è da intendersi “l’agire per- sonale di ciascuno, basato sulle conoscenze e abilità acquisite, adeguato, in un de- terminato contesto, in modo soddisfacente e socialmente riconosciuto, a rispondere ad un bisogno, a risolvere un problema, a eseguire un compito, a realizzare un pro- getto. Non è mai un agire semplice, atomizzato, astratto, ma è sempre un agire complesso, che coinvolge tutta la persona e che connette in maniera unitaria e inse- 9 L’espressione è di Michele Pellerey (1994, 63-66). 64 parabile i saperi (conoscenze), i saper fare (abilità), i comportamenti individuali e relazionali, gli atteggiamenti emotivi, le scelte valoriali, le motivazioni e i fini”10. La didattica delle competenze, così intesa, esige una trasformazione profonda non solo delle finalità della scuola ma anche dell’organizzazione scolastica com- plessiva, richiedendo nuove funzioni, attitudini, figure e opportunità. Se la standar- dizzazione e la cosiddetta “distribuzione collettiva” rappresentano sin dalla moder- nità dei meccanismi in grado di produrre efficienza, la personalizzazione dell’a- zione educativa e formativa è al contrario un obiettivo ambizioso, che inevitabil- mente richiede tempo, opportunità e risorse. Tuttavia, oggi non è più possibile ignorare l’esigenza di questa trasformazione, che è da ritenere una responsabilità etica dei professionisti dell’educazione. Occorre allora individuare quali sono le condizioni minime, di tipo progettuale e organizzativo, che consentono alla scuola di approdare, sul piano dei fini e del metodo, alla conoscenza e all’educazione delle competenze multiple. 3. Didattica delle competenze: per un nuovo setting scolastico Il sostantivo setting, usato in maniera indiscriminata soprattutto dalla psicolo- gia, a denotare lo spazio fisico e relazionale in cui si gioca il rapporto d’aiuto, non è certo un vocabolo a valenza univoca. Mentre si cerca di aderire il meno possibile al- le mode che agevolano l’adozione di anglofonie non sufficientemente meditate, è indubbio tuttavia che il termine in questione richiama sinteticamente un complesso di azioni intenzionali non facilmente riassumibili da un unico segno linguistico: po- sizionare nello spazio, collocare, regolare, muovere, assegnare e ordinare, sono tutte azioni che il sostantivo inglese evoca e che in un modo o nell’altro richiamano l’in- tenzionalità pedagogica, prima ancora di quella psicologica e terapeutica. Lo spazio al cui interno si compie la didattica scolastica è appunto uno spazio non casuale, ma articolato e ordinato, luogo nel quale i protagonisti (in particolare l’insegnante) e i contenuti sono mossi da un progetto regolativo, in modo tale da assegnare ad ogni elemento il suo posto nell’insieme ordinato dell’unico processo formativo. Spazio dunque non di natura fisica (anche se naturalmente la spazialità concreta assume una sua importanza relativa)11, ma spazio di natura simbolica, il setting didattico attraverso un’azione intenzionale ordina nascostamente l’espe- rienza scolastica, in modo tale che essa non si esaurisca in se stessa, ma avvicini l’allievo all’universo delle cose e dei significati, orientandolo nel labirinto delle in- formazioni e dei valori. 10 Così recita la Circolare Ministeriale n. 84/2005 del Ministero dell’Istruzione, riguardante il Portfolio delle Competenze. 11 Una riflessione esauriente sulla pedagogia dello spazio educativo, inteso nelle sue molteplici articolazioni di spazio familiare, scolastico, sociale e personale, si trova in Gennari, 1988. 65 Si pone allora il problema di uno spazio simbolico che non coincida con lo spazio educativo nel suo complesso ma che lo rappresenti, che non escluda nessuno dei suoi attori, ma trasformi la scena in modo da caratterizzarla con la propria par- ticolare regia, che rispetti l’esistente nella sua irriducibile complessità legittimando però le proprie possibilità di progetto e di azione. In questo orizzonte si inserisce il setting pedagogico, inteso come luogo semantico transizionale che istituisce l’inte- razione educativa (Salomone, 1997, 22). Luogo semantico, poiché genera significati, transizionale poiché questi si ge- nerano all’interno della continua relazione tra un individuo esperto e un individuo in formazione. Rispetto allo spazio che si colloca all’esterno del setting pedago- gico, questo si definisce allora per il fatto di possedere codici e regole proprie, tra le quali si possono annoverare l’intenzionalità di tipo formativo, l’asimmetria dei ruoli tra l’educatore e il giovane, l’apertura all’universo delle tradizioni, dei valori e delle pratiche da trasmettere. Il setting didattico, infine, collocandosi all’interno del più ampio discorso pe- dagogico, si precisa nel momento stesso in cui muove verso l’elaborazione del sa- pere tra il sé dell’allievo e il mondo, attraverso l’esperienza condivisa tra un indi- viduo esperto e un apprendista. Sottolineare questa molteplice reciprocità tra l’al- lievo e il sapere, tra il sapere e il mondo e tra l’allievo e l’individuo esperto ri- chiama fin dall’inizio l’insignificanza di una didattica centrata esclusivamente sui contenuti disciplinari, dimentica del rapporto tra questi e l’apprendimento come mediazione tra l’io e il mondo. Una didattica di questo tipo è per principio sperso- nalizzante, conducendo la personalità dell’allievo nei meandri delle strutture con- cettuali e dei contenuti, senza al contempo offrirgli chiavi di lettura e mappe com- plessive entro le quali scegliere i propri tracciati. Pertanto l’esperienza didattica ha senso solo se mantiene una struttura metafo- rica e un continuo rimando a ciò che sta fuori di essa: solo così si giustifica l’esi- stenza di un vincolo così forte (e per certi versi innaturale) come quello cui con- duce il setting didattico, inteso come posizionamento di una persona all’interno dell’istituzione scuola12. Il sapere scientifico e le conoscenze che esso tramanda perdono la loro unilateralità di riferimento per l’insegnante, per risignificarsi attra- verso una feconda valorizzazione delle pratiche sociali che, sapientemente colle- gate ai saperi attraverso un impianto didattico per problemi, non sono semplice- mente imitate, ma abilmente trasformate e mediate attraverso un’azione intenzio- nale di progettazione didattica che per principio va oltre il singolo sapere o disci- plina. 12 L’innaturalità di una didattica che vincoli l’allievo senza al contempo produrre aperture simbo- liche e ricerche di significati trasforma i luoghi dell’apprendimento (e cioè unilateralmente le aule) in zone di compressione psichica (Gennari, 1988, 107). Così si esprime anche il De Bartolomeis (1983, 187), che osserva sagacemente come aprire la porta per la ricreazione o per l’uscita alla fine delle le- zioni sia come aprire un locale pressurizzato. 66 Nella scuola si gioca molto più di quanto la didattica tradizionale ha agito e agisce, e questo plus è da rintracciare nell’incontro tra molteplici esperienze indivi- duali orientate su un oggetto comune: l’elaborazione culturale. Da qui occorre par- tire per comprendere quale rapporto ci sia tra l’esperienza quotidiana del mondo e il particolare segmento di essa appositamente organizzato allo scopo di fornire gli strumenti per interpretarla, l’esperienza scolastica. Se, al contrario, si resta ancorati all’idea che la “vera realtà” sia un’altra, ci si condanna a pensare che la scuola non serva a nulla perché racconta un mondo senza alcuna analogia con quello che ci aspetta quando ne usciamo (Salomone, 1997, 105). Non c’è un vero dualismo tra scuola ed esperienza, solo un dualismo forzoso e indotto. I soggetti, gli ambienti, i saperi sono profondamente interessati dall’essere- nel-mondo, al punto che ogni esperienza non richiede soltanto un impegno psico- sensoriale di fondo, ma anche un approccio disciplinare, di volta in volta scienti- Fonte: Il diagramma deriva dalla trasposizione di un analogo schema, anche se diverso per contenuti e riferimenti, contenuto in Laneve, 1998. 67 fico, etico, estetico o linguistico al mondo che prospetta. Pertanto, la positività del- l’esperienza è in realtà riconducibile completamente all’azione di insegnamento: la progettazione di una didattica per problemi riconduce il mondo nella scuola, sia in termini di percezione esterna dell’esperienza sia in termini di coscienza interna, ov- vero di “avventura” intellettuale e culturale (Gennari, 1996, 24). In questa consapevolezza il rapporto tra scuola ed esperienza non è più solo un terminus ad quem, ma un a quo dal quale prende avvio con naturalezza ogni progettazione didattica. La realtà individuale e ambientale diventa la prospettiva che di volta in volta indica, a seconda dei casi, quale deve essere il punto di at- tacco della didattica stessa. Questa stessa realtà, inoltre, non è letta come se la si avvicinasse per così dire dall’esterno, cioè secondo l’interpretazione che può dare chi non la vive direttamente, ma è osservata a partire dalla maniera concreta se- condo cui la vivono coloro che ne sono dentro, anche se poi all’insegnante spetta il compito di indirizzarla verso una risignificazione in termini di elaborazione culturale. Senza il passaggio attraverso questa fase metodologica l’apprendimento signi- ficativo in termini istruzionali è compromesso in partenza. Riuscendo invece a risa- lire dai bisogni locali alle strutture disciplinari – come dire dal mondo dell’esi- stenza al mondo dell’essenza – si va oltre la quota di realtà presa inizialmente in esame, e grazie ad un procedimento di tipo transferenziale ci si apre a nuovi conte- nuti. Così si traguarda il superamento del rischio di saldatura alle situazioni di ap- prendimento, poiché si riescono ad interpretare i problemi anche se si sperimentano in un altro momento o contesto, persino quando si riscontrano nella vita quotidiana al di fuori del percorso scolastico, in quanto nella personalità si sono venute struttu- rando specifiche competenze di analisi del reale. Questa istanza racchiude e postula il passaggio dalla rigidità del programma alla flessibilità dalla progettazione, dalla scuola amministrata alla scuola dell’auto- nomia, che è autonomia di itinerari didattici molto più che di bilanci economici e di budget preventivi. Se il programma chiude l’istruzione entro un “implicito mo- dello” prestabilito, la programmazione la apre al dinamismo creativo di una situa- zione locale che ospita e continuamente reinterpreta, adeguando uno statuto rigido a una realtà inevitabilmente flessibile. Dalle norme si perviene alle esperienze. La scuola esce dalla sua posizione asettica per entrare in un mondo di transazioni (Gennari, 1996, 34) In definitiva, alla didattica scolastica si chiede oggi una duplice adattabilità: una per così dire interna; l’altra rivolta alla vita, oltre la scuola. Occorrerà far ac- quisire strumenti produttivi, modelli mentali utili ad inquadrare efficacemente le esperienze e a far previsioni, classificazioni, organizzazioni, inferenze. Occorrerà che l’esperienza dell’apprendere sia per ciascun alunno significativa: non neces- sariamente facile, né sempre gratificante e neppure sempre piacevole o sempre fa- ticosa; ma certamente volta a dare un senso al suo “andare a scuola” (Laneve, 1997, 32). 68 4. Didattica delle competenze e aree disciplinari Didattica e personalizzazione, didattica e significati, didattica e mondo della vita… ognuno di questi binomi passa necessariamente attraverso il ruolo, affatto sminuito, delle singole discipline o aree all’interno del percorso di apprendimento. Il rapporto intenzionale con l’esperienza non si realizza attraverso un’azione indif- ferenziata di trasduzione, ma è filtrato significativamente attraverso il punto di vista di ogni disciplina, la quale è al contempo contenuto e forma, oggetto di studio e luogo prospettico a partire dal quale è possibile guardare fuori senza essere so- praffatti dal disordine di una pura congerie sensoriale, nient’affatto orientante. Tra gli estremi di un disciplinarismo asettico, costruito da una somma enciclopedica di nozioni, e di un tirocinio uniforme e immediato, che guarda al mondo come im- merso nella notte in cui tutte le vacche sono nere, c’è il rapporto equilibrato, mai del tutto raggiunto, tra la visione particolare di una scienza, ricostruita scolastica- mente come disciplina, e un settore di esperienza che essa giova ad ordinare, attra- verso uno sguardo formale e ricostruibile in qualsiasi momento. La scuola, infatti, non può limitarsi ad assicurare una semplice continuità con la società che l’attornia o con l’esperienza quotidiana. In questo la lezione di Bruner è ancora attualissima: la scuola è l’ingresso alla vita della ragione (Bruner, 1965, 14). Se la scuola può essere definita come “quella particolare comunità in cui si fa espe- rienza di scoprire le cose usando l’intelligenza”, allora essa non può accontentarsi di riflettere sui fatti e gli eventi della vita quotidiana, ma, attraverso la ricchezza delle discipline, deve introdurre l’allievo in nuovi e mai immaginati campi di esperienze. L’oggetto formale di ogni materia apre potenzialmente nuovi orizzonti di apprendi- mento, e al contempo costituisce la cornice entro la quale ogni prossima esperienza, seppure infinitesima e persino casuale, stimola e produce apprendimento. Una disciplina presentata in modo da porre in luce la sua struttura logica ha una forza generativa che permette all’individuo di ricostruire i particolari, o, per lo meno, di preparare uno schema funzionale dove i particolari possano essere siste- mati via via che si incontrano (Bruner, 1965, 15). L’incontro con il flusso senso- riale dell’essere-nel-mondo, infatti, corre il rischio di smarrirsi nella singolarità di eventi non prevedibili e non comunicabili, poiché assorbiti da una fusione troppo netta con l’episodicità delle situazioni e la mutevole soggettività dell’io. Solo l’ap- prendimento di strutture disciplinari consente allora di superare il carpe diem di esperienze pur significative (simili all’insight di un’artista alle prime armi), ma non soggette alla riproducibilità di un conoscere complessivamente dotato di senso. Lontana dalle spire del nozionismo, allora, la didattica disciplinare diviene co- sciente del dovere di insegnare, all’interno di se stessa, in primo luogo i concetti- guida, le idee-forza, i principi essenziali e propulsori, ma anche il particolare punto di vista da cui essa guarda alla realtà, e all’interno del quale è possibile ordinare sensatamente ogni contenuto. Naturalmente ogni disciplina, in quanto punto prospettico particolare, corre il 69 rischio di dare alla persona che apprende la sensazione che quello sia l’unico punto di vista possibile, il solo in grado di raggiungere una chiara comprensione dei feno- meni: in questo modo quello stesso sguardo, divenuto presuntuosamente esaustivo, si fa disorientante, quasi un monopolio che impone i bisogni e le risposte in grado di soddisfarli. La didattica disciplinare si espone al pericolo di una possibile iper- trofia analitica, connessa con l’intravisto orizzonte della specializzazione discipli- nare, ai danni della ricomposizione armonica dell’apprendimento in una linea di ri- comprensione raccordata con il mondo e con l’esperienza (Laneve, 1997, 38). Sul piano organizzativo della concreta azione formativa si riproducono dina- miche almeno simili, al punto che l’isolamento disciplinare si complica nella pre- tesa autonomia dell’insegnante. In mancanza di una regia in grado di costruire un ecosistema interdisciplinare l’esperienza scolastica si spezzetta nel liberismo della libertà di insegnamento, mentre ogni disciplina rivendica a se stessa il primato, ma- gari attraverso i meccanismi della suggestione e della retorica del docente. I contenuti disciplinari, invece, vanno riletti nella prospettiva di una loro capa- cità di mediare tra il sé e il mondo, costituendo non dei saperi fini a se stessi ma degli strumenti da mobilitare per acquisire e potenziare la propria capacità di af- frontare problemi ed elaborare prodotti. Tra i soggetti del rapporto educativo la di- sciplina può così essere identificata, dal punto di vista funzionale, attraverso la no- zione di mediatore: in questa prospettiva essa rimane uno strumento necessario per l’insegnamento, ma al contempo la disciplina svolge il suo ruolo solo rimandando oltre se stessa, verso l’obiettivo dell’apprendimento delle competenze. Secondo questa proposta, l’insegnante è tale perché realizza i mediatori, ovvero le condi- zioni favorevoli per ottenere che l’alunno apprenda (Damiano, 1990, 28). Da questo punto di vista sarebbe sbagliato pensare che la didattica delle disci- pline, o delle aree disciplinari13, debba scomparire in forza dei nuovi obiettivi espressi in termini di competenze e del principio della personalizzazione. Nelle di- scipline, infatti, vi è quanto di meglio la cultura dell’uomo ha sedimentato nel tempo allo scopo di comprendere il mondo fisico, biologico, sociale e interperso- nale: esse rappresentano dunque gli strumenti privilegiati attraverso i quali è dato di risolvere i problemi della vita e di creare nuovi utensili o nuove espressioni della ricchezza interiore dell’uomo. Naturalmente, esse conservano tale valore solo a condizione che mantengano, anche nella fase delicata dell’insegnamento, una pre- cisa finalizzazione, che vieti di ricondurle al rango tradizionale di saperi inerti da memorizzare. Afferma Gardner: “se le persone non riusciranno a impiegare le conoscenze 13 Per quanto riguarda l’istruzione e formazione professionale i saperi scientifici non sono orga- nizzati per singole discipline, ma per aree disciplinari: l’area dei linguaggi, l’area storico-socio-econo- mica, l’area scientifica e l’area tecnologica. Per ognuna di queste aree sono definiti degli standard espressi in termini di competenze. Il riferimento normativo è, come è noto, l’Accordo Stato-Regioni del 15 gennaio 2004, che ha inaugurato il periodo della sperimentazione del nuovo modello didattico centrato sulle competenze. 70 che hanno acquisito, allora possiamo anche chiudere le scuole tranquillamente. La conoscenza scolastica è ciò in cui riusciamo bene quando siamo a scuola; ma a meno che tale conoscenza non possa essere attivata in circostanze nuove, essa resta inerte ed è sostanzialmente inutile. A scuola insegniamo delle serie di segni, dei ghirigori tracciati su pezzi di carta, dei concetti formali – cos’è la gravità, cos’è la densità, cos’è la forza –. Persone che non hanno un’idea di come funzionino real- mente le cose nella realtà sanno tuttavia fornirti una formula e una definizione” (Gardner, 2005b, 119). Di fronte a queste potenziali derive è da precisare come una didattica che in- tenda far propria (perché le è propria!) una funzione di personalizzazione sia chia- mata a precisare meglio gli statuti epistemologici o i sistemi di conoscenza delle singole discipline, definite da Frabboni come “congegni autonomi per conoscere il mondo” (Frabboni - Pinto Minerva, 2001, 421). In questo senso se da una parte è il sistema disciplinare ad offrire alla progettazione e dunque al sistema formativo le proprie strutture a-priori, dall’altra è proprio la progettazione a stimolare (consen- tire?) il superamento di una visione rigidamente disciplinare per giungere ad una sorta di ecosistema disciplinare (Bertolini, 1994, 288-289). All’intero di questo ecosistema ogni disciplina funziona in quanto membrana semipermeabile, dando profondità alle altrimenti retoriche istanze di interdiscipli- narietà. Dall’altra parte c’è l’esperienza (reticolata da cose che sono fasci di og- getti, come si esprimerebbe Antiseri), a richiedere sguardi altrettanto complessi, che l’allievo è in grado di esercitare solo in quanto ogni disciplina ha esplicita- mente dichiarato il suo punto prospettico, che ognuno può far suo insieme ad altri, nella raggiunta poliedricità dell’esperienza riflessa. Esaminando il potenziale conoscitivo di ciascuna struttura disciplinare, ed esercitandosi alla sua logica interna di avvicinamento ai fenomeni, l’allievo co- nosce se stesso e il mondo, rintracciando prima o poi il paradigma cui è maggior- mente incline, che diventerà probabilmente area d’eccellenza e settore di scelta scolastica e professionale. A questo si aggiunge la funzione pedagogica interna ad ogni disciplina: precisione, fatica, creatività, costanza, analisi, sintesi, rigore e di- vergenza… a seconda della disciplina lo stesso valore si esprimerà in modo diffe- rente in quanto il comportamento che sottintende è strettamente legato alla natura degli atti cognitivi nei quali essa si manifesta (D’Hainaut, 1991, 23). Un’altra occa- sione, per l’allievo, di conoscere se stesso, attraverso le virtù cui natura, oltre che educazione, già da sempre inclina. 5. Didattica e personalizzazione Di fronte agli scenari pedagogici dischiusi dalla definizione di un nuovo set- ting scolastico, in una costitutiva apertura ai molteplici mondi delle esperienze in- dividuali e sociali, qualora si volga lo sguardo verso lo stato dell’arte della didat- 71 tica praticata nella scuola, si ha l’impressione che l’azione dell’insegnante si riduca ad una sorta di gioco simbolico, per principio spersonalizzante. Se la scuola, infatti, mantiene nei saperi disciplinari l’unico punto di riferimento della sua parabola pro- gettuale, trascurando l’opera di mediazione con la multiforme esperienza della so- cietà complessa, finisce per incoraggiare l’idea che il compito della scuola consista nell’imparare regole simboliche di vario tipo, senza supporre che ci sia continuità fra quello che si viene a sapere fuori e quello che si impara dentro la scuola. Un autentico fattore di svantaggio, tale da minare alla base la funzione dell’e- ducare al comprendere dell’esperienza scolastica, è rappresentato da un certo tipo, fortunatamente non generalizzato, di scuola priva di mentalità operativa, povera di spirito sperimentale e avara di discorsi argomentativi, la quale mantiene gli stessi metodi dichiarativi ed espositivi per tutte le discipline, come se conoscere e comu- nicare non fossero anche provare, dimostrare, correggere, ecc. Dare un senso si- gnifica assegnare uno scopo alla nostra attività per renderla sociale: comunicare, giocare, inventare, ecc. Il problema è sociale molto prima che didattico (Izzo, 1997, 89). Mentre la didattica si riduce al problema di imparare le regole di trattamento dei simboli e di apprendere a parlare e a scrivere secondo tali regole, la scuola ap- pare sempre più isolata dal mondo e dalle sue pratiche sociali di riferimento (Rez- nick, 1995, 80). I linguaggi si moltiplicano a cascata, ma le parole rimangono prive di senso, malate della sindrome che Austin ha definito scholastic view (Bourdieau, 1996, 197): essa consiste in un particolare uso del linguaggio che, invece di co- gliere o di attivare il senso di una parola direttamente compatibile con una situa- zione, passa in rassegna ed esamina tutti i suoi significati possibili, senza alcun ri- ferimento alla situazione stessa. A riprova di quanto detto torna utile l’invocata quanto sovente disattesa trasfe- ribilità degli apprendimenti scolastici. Troppo diffusa è la sensazione che i saperi appresi siano così tenacemente saldati alla situazione scolastica da risultare sterili in situazioni non direttamente riconducibili al contesto didattico. È certamente vero che chi è andato a scuola riesce meglio di quello non scolarizzato ad apprendere conoscenze nuove, ma è anche vero che lo scolarizzato, di fronte a situazioni nuove, specie se dotate di caratteristiche diverse dai compiti di tipo scolastico, tende solitamente a non usare le procedure generali apprese a scuola e a utilizzare piuttosto strategie specifiche della situazione, che, in quanto tali, hanno una limi- tata generalizzabilità (Laneve, 1997, 30). Celebre a questo proposito è la contrapposizione gardneriana tra il discente na- turale e il discente scolastico (Gardner, 1997): il primo rappresenta il bambino in età prescolare, naturalmente curioso e aperto alla comprensione, al punto tale da produrre autonomamente una serie di strategie e di schemi, in gran parte sbagliati, ma che comunque gli servono per comprendere il mondo e commerciare con esso; il secondo, invece, apprende alcune teorie che per lo più non applica mai, se non quando gli è chiesto di farlo: egli, tuttavia, è normalmente in grado di fornire delle 72 prestazioni rituali, che gli consentono di andare bene a scuola, anche senza aver raggiunto una reale comprensione dei problemi che lo circondano. Né rimedia a questa impasse una didattica della simulazione o della visita alla fabbrica o al museo, se queste iniziative, pur sensate, rimangono all’interno dello schema che divide la scuola dall’esperienza, lasciando intatta la sensazione che il mondo sia sempre e invariabilmente fuori14. Questa impostazione consolida la fan- tasia secondo la quale scuola ed esperienza sono due fenomeni affatto distinti e che per “fare esperienza” occorra o importarla dall’esterno, con tutti i rischi di sempli- ficazione e di banalizzazione che ne derivano, oppure si renda necessario emigrare, mentre è nell’ambito dell’esperienza scolastica, quella vissuta quotidianamente, con i suoi ritmi, le sue regole, la relazione tra i suoi soggetti, che va cercata l’espe- rienza educativa in grado per principio di unire e integrare esperienze e apprendi- menti. Certamente una didattica che si renda disponibile alla complessità delle rela- zioni tra soggetti, alla magmaticità delle loro esperienze fuori e dentro la scuola, supera per principio l’immagine rigida e meccanicistica dell’istruzione come tra- vaso di contenuti da un recipiente pieno, l’insegnante, ad un recipiente vuoto, il di- scente. È necessaria allora una profonda falsificazione del paradigma meccanicista e razionale della didattica cosiddetta classica: esso appare tuttavia vivo più di altri nell’hidden curriculum di molti docenti, ed è riconoscibile dai seguenti elementi: a) la classe è scomponibile in elementi separati ed isolati tra di loro; b) l’insegnante osservatore è a sua volta estraneo rispetto a ciò che osserva; c) le sintesi culturali e gli schemi operativi sono già elaborati dall’insegnante o dal libro di testo; d) la trasmissione delle conoscenze prescinde dalla mente dei formandi; e) le operazioni richieste agli studenti riproducono un sapere già pensato; f) l’insegnante è orientato a dare informazioni in forme prevalentemente unidire- zionali con lezione frontale; g) le interrogazioni e le valutazioni sono finalizzate a misurare le conoscenze; h) la relazione insegnante studente è improntata ad un modello di autorità-dipen- denza dove di norma c’è un unico soggetto che sa e un altro che ne dipende (Dolmetta, 1997, 112). Nel tentativo di invalidare questo modello inconscio dell’azione didattica, ra- dicato in maniera profonda nello stile e nelle pratiche professionali degli inse- gnanti, si potrebbe partire da una constatazione semplice e al contempo disarmante: 14 Afferma il De Bartolomeis (1980, 64): “Ha scarso valore uscire dalla scuola per portarsi sul- l’esterno se a) non si svolgono attività all’esterno b) non si guarda alla scuola dall’esterno relativiz- zandola rispetto ad altre istituzioni da cui ci aspettiamo contributi educativi. (...) Il fatto è che quello che diciamo esterno rispetto all’individuo studente (una riduzione convenzionale e arbitraria) è in- terno, sia pure spesso in modo indiretto e per riflessi, rispetto alla sua vita complessiva di ogni giorno”. 73 la funzione docente non potrà mai esistere di per se stessa, ma è da considerarsi come scaturigine di una realtà anteriore ad essa sotto ogni punto di vista. L’inse- gnante, per così dire, riceve esistenza da un altro essere, la persona in età evolutiva che, attraverso il suo essere-nel-mondo, necessita di apprendere in maniera guidata. Il docente, allora, non esiste solo per il sapere, o per la sua tecnica, o per la sua ca- pacità comunicativa, ma esiste soprattutto perché un altro soggetto (come singolo o come gruppo o come comunità) stabilisce di costituirlo come tale, come inse- gnante. Egli in definitiva “riceve esistenza” soltanto nel contesto relazionale del con-essere didattico. Ogni azione didattica si sostiene sull’alterità (Iori, 1994, 29), e dunque sulla personalizzazione, che rappresenta la traduzione metodologica di questo valore. Pertanto il soggetto insegnante non dovrebbe essere colui che pone domande di rispecchiamento, ma colui che fornisce risposte a bisogni e richieste cognitive e formative del soggetto discente nel contesto-sistema in cui si colloca la relazione, in ciò recuperando l’autentica dimensione dell’educare al comprendere. Se l’alte- rità su cui la funzione docente si sostiene e riceve vita è l’intelligenza dell’allievo in crescita, questa non è da concepire come un vaso da colmare, pur anche ad modum recipientis, quanto come lo strumento (o meglio un insieme di strumenti) che l’individuo ha di relazionarsi con il mondo che lo circonda. Sfortunatamente il modello di intelligenza che la scuola apprezza sembra es- sere unico. È un modello medio, e perciò mediocre, inclinato in ogni direzione, versatile e versato in tutto, che non presenta una particolare disposizione per nulla. Un modello che, condizionando l’azione dell’insegnante, finisce per penalizzare i diversi e per cancellare attitudini specifiche, divenendo spersonalizzante quando non stroncando legittime aspirazioni. Un modello che premia molto di più chi ha una buona memoria ed una intelligenza diffusa ma molto di meno chi ha una intel- ligenza prevalentemente specifica, che non si adatta alle attese dei diversi insegna- menti disciplinari. Per utilizzare un’espressione di Zuccon, a definire icasticamente una didattica spersonalizzante, la scuola diventa allora una boutique dove si pos- sono comperare dei bei vestiti, ma non quello desiderato (Zuccon, 1995, 104). 6. L’assessment degli allievi nell’orizzonte della personalizzazione Nel suo significato dizionariale, la personalizzazione indica “il riferimento del percorso educativo-formativo alla specifica realtà personale dell’allievo. Persona- lizzare significa delineare differenti percorsi di trasferimento-acquisizione delle co- noscenze, abilità e competenze, in base alle caratteristiche proprie di ciascun al- lievo: stili di apprendimento, metodi di studio, caratteristiche peculiari” (Nicoli, 2007, 178-179). Le scienze dell’educazione hanno a più riprese e storicamente evi- denziato la validità di questo principio, che sul piano pedagogico è congruo con il valore assoluto della centralità della persona. Sul piano didattico, tuttavia, non 74 sempre gli esiti sono stati coerenti con tale orientamento, rivelando molte difficoltà a tradurre i valori in metodo, gli orientamenti in precise indicazioni progettuali. Eppure, “se l’intento scientifico fondamentale della pedagogia consiste nell’o- rientare il movimento di personalizzazione individuale in riferimento al mondo del- le cose, delle persone, dei valori, l’intento scientifico della didattica inerisce al per- ché e al come organizzare e portare a compimento tale processo attraverso la ricerca e la messa in atto del dispositivo adeguato a dare sostanza e concretezza a questo movimento” (Cerri, 2002, 19). La questione metodologica della personalizzazione richiede dunque una più approfondita indagine sulla possibilità per il formatore di rilevare efficacemente le differenze, e, in seguito, di rendere effettivamente flessibi- le la propria azione di insegnamento, pur nei vincoli espressi dalla cultura di riferi- mento e dalla figura-obiettivo della comunità scolastica di appartenenza. Il primo nodo è certamente quello relativo alla valutazione iniziale e continua (assessment)15 delle competenze degli allievi, ai fini della personalizzazione. Tradi- zionalmente tale funzione, laddove presente, viene affidata dalle scuole ad una fi- gura specifica in un tempo specifico, e cioè ad uno psicologo all’inizio dell’anno scolastico (o alla fine dell’anno precedente, specie nei passaggi da un ciclo all’altro dell’istruzione, ai fini dell’orientamento). Questa impostazione richiama da vicino la già criticata versione testistica della valutazione individuale, ancorata ad una vi- sione monolitica dell’intelligenza, quel “fattore g” in ordine al quale gli allievi si dispongono lungo una linea gaussiana, dove l’unico tipo di differenza si gioca nel- l’essere più o meno dotati rispetto ad un profilo statisticamente standardizzato di prestazioni. L’azione valutativa non ha così, in definitiva, rilevanza per l’insegna- mento, ma solo per le scelte della persona, che dovrà orientarsi verso un’istruzione liceale, se dotato, o verso l’istruzione e formazione professionale, qualora mostri di non avere particolari inclinazioni verso quel mix di abilità che il test presuppone. Nelle versioni più equilibrate, l’assessment tradizionale si completa con una ri- levazione di alcuni fattori di personalità, generalmente accertati mediante l’osser- vazione degli allievi coinvolti in alcune dinamiche di gioco interpersonale. Quel che importa qui è soprattutto l’esame dei cosiddetti “fattori non cognitivi dell’ap- prendimento”16, e cioè di alcuni costrutti psicologici che effettivamente hanno di- 15 Il termine inglese è semanticamente più ricco del termine italiano “valutazione”, per almeno due ragioni: la prima è che la nozione scolastica di valutazione rimanda quasi inevitabilmente non tanto alla conoscenza approfondita della personalità degli allievi, quanto alla rilevazione sommativa dei loro profitti rispetto a standard prestabiliti; in questo senso l’uso del termine inglese potrebbe aiu- tare ad evitare fraintendimenti, stimolando una riflessione su più ampie finalità dell’azione valutativa. La seconda è che il termine inglese assessment richiama più da vicino non solo l’esigenza di una con- tinuità (ricorsività) dell’azione valutativa, ma anche la sua complementarietà rispetto alla progetta- zione dell’azione di insegnamento. La valutazione è dunque al servizio dell’insegnamento (valutare per agire), più che costituirne l’esito in termini certificativi. 16 Il riferimento è a tratti personali quali l’autostima, il senso di autoefficiacia, lo stile di attribu- zione, il locus of control ed altro ancora. Per un approfondimento si veda soprattutto gli studi di Ban- dura, 1997; 2000. 75 mostrato di avere una forte influenza sul rendimento scolastico. Certamente questo tipo di osservazione ha la sua importanza per l’organizzazione scolastica, in quanto ha una potenziale ricaduta sugli stili educativi degli insegnanti, attenti a rispettare le dinamiche affettive e motivazionali: tuttavia, il punto è che il concetto di intelli- genza che guida la valutazione non cambia affatto, solo si evidenziano alcuni ele- menti in grado di turbarne l’effettiva prestazione, rendendo spuria la quantifica- zione del Quoziente di Intelligenza. Se si considera l’allievo alla luce della teoria delle competenze multiple, questa modalità di assessment, pur completata dall’osservazione delle dinamiche psicologiche, non è affatto sufficiente, né particolarmente significativa in sé. Messo da parte il test di intelligenza, ed anche la figura professionale che lo rappresenta (lo psicologo), per lo meno nel contesto scolastico, è necessario pensare ad una raf- forzata capacità dell’insegnante di essere in proprio uno “specialista della valuta- zione”, il cui compito, accanto ad altri, è quello di cercare di comprendere qual è il profilo specifico di competenze dei propri allievi. Per fare questo, non occorre per lo più fare uso di strumenti specialistici di osservazione (che potrebbero invece avere un ruolo in particolari e specifiche forme di difficoltà di apprendimento), ma basterebbe predisporre una serie di prove e di problemi intelligent-fair17, facilmente compatibili con la normale progettazione scolastica. “Così, se si vuole analizzare l’intelligenza spaziale, bisognerebbe permettere alla persona in esame di esplorare un territorio per un po’ e vedere se riesce facilmente a trovare la strada per tornare. Oppure, volendo esaminare l’intelligenza musicale, si dovrebbe presentare una nuova melodia, in uno stile musicale ragionevolmente familiare, e vedere con quanta facilità la persona impara a cantarla, riconoscerla, trasformarla e via deci- dendo” (Gardner, 2005c, 22). Naturalmente le esperienze progettate per la valutazione del profilo di compe- tenze degli allievi dovranno essere adatte all’età e alla cultura dei soggetti, in modo tale da poter essere intrinsecamente interessanti e avvincenti, ed anche sfidanti, ossia situate nella cosiddetta “area di sviluppo prossimale”18, composta da quelle performances che la persona è in grado di produrre sotto la guida di un adulto (o di un pari più competente). L’insegnante ha un ruolo attivo in questo tipo di valuta- zione: oltre a predisporre l’esperienza, la sua presenza incentiva il soggetto ad af- frontare problemi e sfide che, pur non avendo mai risolto in quei termini e fino a quel momento, potrebbero rientrare nella sua area di sviluppo, rivelando le sue po- tenziali competenze. Certamente la fase iniziale del tempo scolastico ha un certo privilegio dal punto di vista delle attività dirette alla rilevazione del profilo intellettuale degli al- 17 L’espressione è di Gardner, cfr. in particolare Gardner, 2005c, 22-23 18 Il concetto è di Vigotszky, 1990, 127: essa rappresenta la “distanza che esiste fra il livello at- tuale del bambino, così come è determinato dal problem-solving autonomo ed il livello di sviluppo potenziale, così come è determinato attraverso il problem-solving sotto la guida di un adulto o in col- laborazione con i propri pari più capaci”. 76 lievi. Durante la fase cosiddetta di accoglienza, “dovrebbe essere possibile conse- guire un quadro ragionevolmente esatto del profilo intellettuale di un individuo nel corso di un mese circa, mentre quell’individuo è impegnato in attività scolastiche regolari. Il tempo totale spesso potrebbe essere da cinque a dieci ore di osserva- zione; un tempo lungo rispetto agli standard correnti dei test di intelligenza, ma molto breve nei termini della vita di uno studente. Un tale profilo dovrebbe indi- care quali linee presentano un potenziale di sviluppo pronunciato, quali sono pre- senti a livelli più modesti o comportano ostacoli effettivi” (Gardner, 2006, 409). Naturalmente a qualcuno, specie se particolarmente affezionato alla pervicace tra- dizione del “programma da finire”, potrebbe apparire una perdita di tempo un pe- riodo così prolungato di attività finalizzate in primo luogo all’osservazione (ma non solo a questo, ovviamente). Tuttavia, si può affermare che il tempo speso in os- servazione, e l’individuazione delle competenze personali che esso consente, do- vrebbe in seguito facilitare di molto l’esperienza scolastica, e l’acquisizione di quegli apprendimenti che sin dall’inizio rappresentano i reali obiettivi dell’inse- gnante. La questione della personalizzazione, tuttavia, non si ferma certamente qui. In- fatti, questo tipo di valutazione potrebbe nuovamente condurre ad inedite forme di etichettamento, in base al fatto che l’uno o l’altro allievo siano inclini all’una o al- l’altra delle intelligenze multiple. L’esistenza del cittadino o il ruolo di un profes- sionista richiedono ben più di una specifica competenza, mentre del resto gran parte dei problemi e delle sfide che vengono affrontati nella vita quotidiana e lavo- rativa esigono, per poter essere risolti con successo, abilità riconducibili a più di una delle intelligenze ricomprese nello spettro delle intelligenze multiple. Infine, è più che legittimo che le scuole tendano a raggiungere un certo insieme predetermi- nato di competenze, specie qualora, come nell’istruzione e formazione professio- nale, alcune tra queste sono specificamente richieste dal profilo professionale ter- minale. Personalizzare, dunque, non significa a tutti i costi far acquisire ad ognuno sol- tanto le competenze per le quali il suo profilo risulta inclinato. Occorre invece pen- sare ad una didattica che sia in grado di avvicinarsi ai problemi e alle discipline in modi differenti, in modo tale da consentire agli allievi di dispiegare la propria per- sonalità, pur nel confronto con le medesime esperienze. Ovviamente questa esi- genza è incompatibile con la tradizionale istanza del “programma da finire”, e più in generale con l’abitudine della scuola a “coprire”19 una moltitudine di argomenti: 19 L’espressione è di Gardner, 2005d, 74. Egli formula un gioco di parole molto efficace dal punto di vista della didattica per problemi: uncover rather than cover, il che significa che piuttosto che coprire troppi argomenti, approccio che ostacola una comprensione efficace, è più facile promuo- vere l’apprendimento approfondendo un numero ridotto di questioni. In concreto, diventa allora possi- bile affrontare gli stessi argomenti in modi diversi, utilizzare analogie e confronti tratti da molteplici ambiti di conoscenza e esprimere le nozioni e i concetti chiave utilizzando varie forme simboliche tra loro differenti ma complementari. 77 perché sia possibile generare una varietà di prospettive all’oggetto di studio, è ne- cessario concentrare il progetto didattico intorno ai concetti chiave, alle idee gene- rative di un’area disciplinare, alle questioni essenziali concernenti la cittadinanza o la professione, lasciando così il tempo agli allievi di familiarizzare con i problemi e con le istanze creative, “scoprendo” le questioni, e trovando da soli il proprio varco di comprensione, sicuri del fatto che “diverse finestre portano alla stessa stanza”20. L’approccio costruttivistico all’apprendimento, che rintraccia il punto di par- tenza nella “scoperta” dei problemi o nell’elaborazione di specifici prodotti, è fatto proprio dalla normativa italiana nel momento in cui dichiara che “il cuore del pro- cesso educativo si ritrova nel compito delle istituzioni scolastiche e dei docenti di progettare le Unità di Apprendimento, caratterizzate da obiettivi formativi adatti e significativi per i singoli allievi… e volte a garantire la trasformazione delle capa- cità di ciascuno in reali e documentate competenze”21. L’unità di apprendimento, in luogo dell’unità didattica, che si centrava sulla scomposizione analitica degli argo- menti da coprire, trova il suo baricentro intorno alla scoperta di compiti reali da ri- solvere (che possono riguardare sia la vita di tutti i giorni che le mansioni di un professionista), in modo da consentire progressivamente l’espressione del problem- solving autonomo, e pertanto l’acquisizione della capacità che sono state a monte progettate come oggetto dell’intervento educativo (i cosiddetti obiettivi formativi). La scuola anticipa così le questioni e le istanze che fanno parte del mondo sociale e lavorativo, attraverso la sua insostituibile funzione di mediazione, protetta dallo schermo della presenza adulta e della cooperazione tra pari. “Ciò che l’alunno ri- esce a fare in cooperazione oggi, potrà farlo da solo domani. Pertanto, l’unica buona forma di istruzione è quella che anticipa lo sviluppo e lo conduce; essa non dovrebbe essere indirizzata tanto alle funzioni mature, quanto a quelle che stanno maturando” (Vigotszy, 1990, 24). In uno scenario di questo tipo è ancora più comprensibile l’evoluzione del ruolo della valutazione da una funzione sommativa di puro accertamento di acqui- sizioni ad una funzione formativa di sostegno al processo personale di apprendi- mento e potenziamento di competenze (assessment). Le caratteristiche di una funzione valutativa così costruita e finalizzata sono state ricondotte a sei: – È realistica: l’azione valutativa parte da una situazione reale nella quale l’a- lunno deve dimostrare, agli altri e a se stesso, la capacità di applicare le com- petenze possedute. – Richiede giudizio e innovazione: la risoluzione di un problema non standardiz- zato richiede la messa in atto di più competenze diverse, le quali, da un lato 20 L’espressione è nuovamente di Gardner, 2005c, 30. 21 Cfr. il documento “Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati”. Per un appro- fondimento sulla didattica per Unità di Apprendimento, con particolare riferimento all’istruzione e formazione professionale, si può vedere Franchini - Cerri, 2005, 105ss. 78 devono essere scelte saggiamente, e dall’altro possono essere combinate tra di loro in maniera innovativa e originale, rivelando ancora una volta i tratti distin- tivi dell’allievo, in termini di “finestre” particolari dalle quali egli è in grado di guardare ai problemi. – Richiede agli studenti di “costruire” la disciplina, non di replicare saperi ap- presi, addentrandosi nelle diverse discipline per esplorarle e comprenderle, per farne bagaglio e risorsa per le proprie competenze personali. – Replica o simula i contesti nei quali gli adulti sono “controllati” (luogo di la- voro, vita civile e vita personale): lo studente ha la possibilità di percepire il contesto problematico o l’istanza creativa specifica nei confronti della quale è chiamato a mobilitare le proprie competenze; viene così superata la deconte- stualizzazione tipica dei modelli valutativi tradizionali. – Accerta l’abilità dello studente ad usare efficacemente e realmente un reper- torio di conoscenze e di abilità per negoziare un compito complesso: a diffe- renza degli items dei test classici, volti a misurare abilità specifiche di acquisi- zione, elaborazione e trattamento dei dati, la valutazione formativa mira alla valutazione globale delle competenze necessarie allo svolgimento di un deter- minato compito, non avendo come oggetto il solo repertorio di conoscenze. In questo modo la valutazione tiene conto che la capacità di risolvere un com- pito/problema è ben più della somma delle risorse necessarie a risolverlo. – Permette appropriate opportunità di ripetere, di praticare, di consultare ri- sorse, di avere feedback su prestazioni e prodotti e di perfezionarli: per essere educativa una valutazione deve tendere a migliorare la prestazione degli stu- denti. I sistemi classici di valutazione, per la loro struttura, impediscono agli studenti l’accesso a tutte le risorse possedute: se da una parte questo permette di valutare ciò che l’alunno in quel momento ricorda, dall’altro impedisce di aiutare lo studente ad apprendere e ad usare le informazioni, le risorse e le an- notazioni necessarie per eseguire una prestazione reale in un contesto specifico (Nicoli, 2003, 24-38) C’è da tenere conto, tuttavia, che il compito di valutare le competenze dell’al- lievo non è così agevole come si potrebbe pensare. Per sua natura, infatti, “una com- petenza è una qualità interna non direttamente osservabile” (Pellerey, 2004, 113), se non a partire dalle performances concrete, da individuare nelle modalità effettive at- traverso le quali l’allievo è giunto a risolvere il problema proposto o ad elaborare il prodotto richiesto. Il modello delle competenze multiple cui si è già fatto riferimen- to considera infatti la competenza non come una semplice prestazione, ma come la caratteristica di una persona, capace di mobilitare le risorse possedute al fine di con- durre ad una soluzione un compito-problema presentato dal contesto, oppure al fine di creare un prodotto significativo per la sua comunità di riferimento. In quest’ottica più che di competenza occorrerebbe piuttosto parlare di “persona competente” (Ni- coli, 2004b, 20), cioè capace di mettere in gioco, al momento giusto, svariate risor- se, non riducibili alla somma di sapere, saper fare e saper essere. 79 Certamente la competenza così intesa è causa di prestazioni (performances) che ne costituiscono per così dire il segno e la traccia, potendo essere considerate “indicatori” della sua esistenza, anche dal punto di vista della valutazione, ma essa non è riconducibile alla singola prestazione. Utile da questo punto di vista è il con- tributo di Spencer e Spencer, secondo i quali la competenza è una “caratteristica in- trinseca individuale che è causalmente collegata ad una performance efficace e/o superiore in una mansione o in una situazione, e che è misurata sulla base di un cri- terio prestabilito” (Spencer-Spencer, 1995, 30). Pertanto, “le prestazioni esplicite possono essere considerate condizione necessaria, ma non sufficiente per descri- vere la competenza” poiché “i contenuti di sapere e le abilità che le sono proprie non sono riducibili a singole manifestazioni e abilità” (Spencer-Spencer, 1995, 17). Piuttosto, la competenza indica “i modi di comportarsi o pensare che si ripe- tono nelle loro grandi linee nelle diverse situazioni e perdurano per un periodo di tempo ragionevolmente lungo” (Spencer-Spencer, 1995, 32). Come è visibile dal cosiddetto modello ad iceberg degli stessi autori, la performance dipende dal pos- sesso di singole abilità (skills), ma queste sono solo l’espressione più esterna di aspetti più profondi che fanno parte della persona competente, e che possono essere individuati in motivazioni, tratti e immagini di sé. La competenza, allora, che è da ritenersi caratteristica stabile della personalità, è predittiva di performances effi- caci, o, per utilizzare l’immagine, la parte nascosta dell’iceberg (immagine di sé, tratti, valori, motivazioni, atteggiamenti) è causa della parte aperta, che consta di conoscenze, skills e performances. Affermano Spencer e Spencer: “le motivazioni, i tratti e l’immagine di sé predicono gli skill di comportamento che a loro volta pre- dicono i risultati della performance” (Spencer-Spencer, 1995, 34). 80 Naturalmente, affermare che la competenza non è riconducibile ad una singola prestazione non vuol dire che essa sia un costrutto privo di riferimento al contesto concreto in cui si manifesta. Anzi, “la competenza è contestualizzata poiché legata all’ambito di azione che ne determina l’efficacia, il manifestarsi e l’operatività” (Meghnagi, 1992, 63)22. È infatti in funzione di una sfida concreta che il soggetto è chiamato a mobilitare le proprie risorse, ed anche quelle esterne, per affrontare con successo il contesto, dimostrando la sua competenza. Tuttavia, la competenza è un concetto complesso, che da una parte non può essere dedotto da una singola perfor- mance, dall’altra non consiste nella semplice somma di conoscenze e abilità, quanto nella loro mobilizzazione. Afferma Le Boterf (1994, 54): “La competenza non si riduce alla singola prestazione singolare, ma non si dà competenza al di fuori delle prestazioni. (…) non è uno stato o una conoscenza posseduta. Non è ri- ducibile né ad un sapere, né a ciò che si è acquisito con la formazione (...). La com- petenza non risiede nelle risorse (conoscenze, capacità, ecc.) da mobilizzare, ma nella mobilizzazione stessa di queste risorse”. Valutare le competenze non è dunque riconducibile né alla valutazione dei sa- peri, né alla valutazione di una singola prestazione. Piuttosto, occorre avere a dis- posizione un ampio ventaglio di singole prestazioni riconducibili ad una particolare competenza, e metterle tra loro a confronto in modo processuale e riflessivo. Questo procedimento richiede una continuità dell’azione valutativa per molti aspetti inusuale nelle istituzioni scolastiche, dove gli insegnanti tendono ad accer- tare le conoscenze degli allievi attraverso metodi di rilevazione delle “risposte cor- rette”, piuttosto che di osservazione delle prestazioni come indicatori di compe- tenze stabili. Gli insegnanti, infatti, non sempre sono inclini all’osservazione siste- matica dei processi di apprendimento, mentre spesso preferiscono adottare moda- lità sommative quali l’interrogazione orale o il test a scelta multipla. Dal punto di vista degli strumenti utilizzabili per l’assessment degli allievi, il portfolio delle competenze rappresenta senza dubbio un dispositivo molto impor- tante ed utile non solo in fase di certificazione finale, ma anche e soprattutto du- rante l’itinerario formativo, per sostenere e guidare la funzione metodologica della personalizzazione. Il portfolio presuppone infatti il principio delle “evidenze”, in forza del quale la valutazione è chiamata a formulare i suoi giudizi non sulla base di conoscenze memorizzate e riprodotte, ma anche potenzialmente inerti e impro- duttive, ma sulla base di ciò che effettivamente l’allievo è riuscito a realizzare, a partire dalle sue specifiche “finestre” di comprensione e di elaborazione materiale e culturale. Il portfolio, infatti, è quel particolare “dispositivo valutativo che si avvale di una raccolta sistematica, a partire da specifici obiettivi e criteri, dei lavori realiz- 22 Cfr. anche Le Boterf, 1994, 54: “Qualunque competenza è finalizzata (o funzionale) e conte- stualizzata: essa non può dunque essere separata dalle proprie condizioni di ‘messa in opera’ (...) La competenza è un saper agire (o reagire) riconosciuto. Qualunque competenza, per esistere, necessita del giudizio altrui”. 81 zati da uno studente nel corso di una determinata pratica educativa” (Pellerey, 2004, 142). Questa raccolta costituisce la documentazione di una famiglia di pre- stazioni che permette, una volta ordinata ed esaminata, di accertare il profilo delle intelligenze dell’allievo, e di valutare il livello raggiunto delle competenze oggetto di apprendimento, rivelando al contempo quali potranno essere i livelli ulteriori da perseguire. Una scuola centrata sull’allievo, meno preoccupata di coprire il programma, ma dinamicamente tesa a sviluppare le competenze di ognuno, può e deve trovare le risorse organizzative per centrare l’obiettivo di un assessment così inteso, pena la perdita di significato degli apprendimenti che essa veicola. La riflessione sulla ri- forma del setting scolastico, traducibile in indagine sulle funzioni e sulle figure che l’istituzione formativa deve garantire, deve ancora fare il suo corso, anche se un contributo in questo senso giunge dalla nuova rilevanza della figura professionale del tutor, la quale, nata all’interno della formazione professionale, è allo stato at- tuale sub judice per entrare di diritto nel novero delle figure, o per lo meno delle funzioni, presenti all’interno dell’organizzazione scolastica. 7. Il tutor, figura o funzione? Per meglio comprendere le potenzialità formative ma anche le possibili insidie connesse all’introduzione della figura professionale del tutor, è bene prendere avvio con l’analisi dizionariale del termine. Esso ha, in primo luogo, un’evidente affinità etimologica con il termine, meglio conosciuto nel campo giuridico, di “tu- tore”: esso deriva dal verbo latino tueri, che significa “proteggere”. Nella lingua la- tina, infatti, il verbo tutari (da cui tutore) veniva utilizzato come rafforzativo del verbo tueri. Partendo da queste considerazioni linguistiche potremmo per il mo- mento abbozzare una prima definizione della parola tutor dicendo che un tutor, o meglio un tutore, è la persona che esercita una tutela/protezione nei confronti di colui che, per le più svariate cause, non ha un sufficiente grado di autonomia. Fino a qualche decennio fa la parola “tutore” era un termine ombrello sotto il quale potevano venire inserite tutte quelle figure intenzionalmente educative (il padre, l’insegnante, l’animatore, l’allenatore…) che svolgevano compiti in qualche maniera riconducibili alla protezione e alla formazione dei giovani nei diversi am- biti. Secondo il parere dell’ISFOL, espresso in un recente convegno, tramite l’isti- tuzionalizzazione della figura del tutor il sistema formativo tenta di compensare la mancanza di relazioni significative all’interno della scuola, trovando un antidoto alla spersonalizzazione della normale esperienza di insegnamento-apprendimento. Se sino a ieri la funzione di tutoraggio poteva considerarsi tacita e latente, inscritta con naturalezza dentro la relazione tra insegnante e allievo, oggi deve diventare esplicita e specializzata; in altre parole il tutoraggio, secondo l’ISFOL, è la pratica scolastica che fa da “antidoto alla scomparsa della funzione (di tutoraggio - NdA) 82 latente” (ISFOL, 2003). Anche Bertagna considera l’istituzionalizzazione della fi- gura del tutor una manifestazione formale del tutoraggio latente che da sempre la scuola ha svolto, ma che oggi necessita di esprimere in modo più continuo e in- tenso. “Che cosa ce ne faremmo, infatti, di un sistema di istruzione e formazione che (…) non fosse in grado di accogliere, accudire, contenere e (…) salvaguardare le giovani generazioni” (Bertagna, 2004). Naturalmente queste poche battute, estrapolate e prese in se stesse, rappresen- tano soltanto una frettolosa banalizzazione del decennale dibattito intorno alla fi- gura del tutor, sulle sue funzioni e sul rapporto tra queste e la normale funzione do- cente. Tuttavia, nella densità dei verbi appena citati si intuisce l’importanza della posta in gioco, che non deve essere offuscata dalle inevitabili ed anche giustifica- bili controversie sul profilo e sull’inquadramento della possibile nuova figura pro- fessionale. Non è nemmeno da escludere che l’insegnante possa ritrovare, all’in- terno di una riorganizzazione del setting scolastico, la consapevolezza e le opportu- nità per esercitare in modo significativo la funzione tutoriale, rendendo in qualche modo superflua l’istituzione del potenziale nuovo operatore. Figura o funzione che sia, l’obiettivo sostanziale è quello che gli allievi possano ricevere in modo inten- zionale e continuo un sostegno al proprio percorso di apprendimento. In che cosa consiste questo sostegno? Che cosa aggiunge di specifico la fun- zione tutoriale agli obiettivi specifici dell’azione di insegnamento? È facile rispon- dere, almeno in prima battuta, che il tutoraggio rappresenta il presidio della perso- nalizzazione, di quel principio metodologico, cioè, che richiede alla scuola di co- niugare il progetto didattico in ordine alle competenze e alle attitudini dei propri al- lievi. In realtà la funzione tutoriale è complessa e sfaccettata, non essendo ricondu- cibile ad un’unica modalità di intervento, né ad un unico obiettivo23. Inoltre, le me- desima funzione cambia inevitabilmente a seconda del livello e dell’età degli al- lievi, da un massimo di protezione e di guida, durante il primo ciclo, a forme più sfumate di accompagnamento, durante il ciclo secondario. Per quanto riguarda la presente riflessione, che si colloca principalmente nella fascia adolescenziale dell’evoluzione degli allievi, preme sottolineare particolar- mente la funzione del tutor come guida all’autoregolazione dello studente nei pro- cessi di apprendimento. La personalizzazione, infatti, si realizza in primo luogo mettendo l’allievo nelle condizioni di scegliere, almeno in parte, il proprio itine- rario formativo24, certi del fatto che una persona autonoma e autoregolata funziona 23 Cfr. ad esempio il saggio di Bresciani-Porzio, 2004, che riconduce la figura del tutor a sei fun- zioni: la funzione affettiva, la funzione simbolica, la funzione formativa, la funzione negoziale, la funzione amministrativo-burocratica e la funzione logistico-organizzativa. 24 Secondo Bertagna, il tutor è chiamato a mettere “le persone con cui si relaziona (…) nelle condizioni di esercitare la loro libertà e originalità creativa. Per questo egli è dedicato ai soggetti prima che ai contenuti, agli obiettivi, al funzionamento dell’organizzazione o alla ricerca pedagogica, e stimola nuove possibilità di azione personali, nuovi modi di essere e relazionarsi di ciascuno in am- biti e realtà sempre più complessi” (Bertagna, 2004). 83 meglio di una persona eteroregolata. Il problema fondamentale è come consentire questa possibilità di scelta, in un sistema come quello scolastico che non è privo di vincoli, sia istituzionali (le competenze standard da raggiungere) sia organizzativi (le risorse a disposizione, che certamente non consentono di diversificare in modo estremo l’offerta formativa, come il principio della scelta in definitiva richiede- rebbe). Per uscire da questo impasse giovano due tipi di riflessione: la prima riguarda le consapevolezze che occorre far maturare nell’allievo per abilitarlo a scelte re- sponsabili, che rispondano cioè agli effettivi traguardi che egli si è impegnato a raggiungere aderendo ad un determinato percorso formativo. In questo senso l’ef- fettiva capacità di autoregolazione, intesa non come fine a se stessa ma stabilmente e volontariamente diretta ad uno scopo, rappresenta una vera e propria competenza, o per meglio dire una metacompetenza, che implica almeno quattro componenti fondamentali (cfr. Pellerey, 2003, 150ss.): 1) la disponibilità (motivazione) a considerare le proprie competenze da un punto di vista superiore, in relazione alla nuova situazione, quella scolastica, che ri- chiede un loro esame e una loro trasformazione più o meno profonda; 2) un’adeguata sensibilità per avvertire l’entità della distanza tra le competenze già acquisite e le competenze da raggiungere, al livello richiesto, avendo una percezione di quale impegno personale sia sollecitato da tale gap; 3) una capacità di tipo analitico-prospettico tesa ad individuare quali risorse in- terne od esterne debbano essere prese in considerazione al fine di affrontare la nuova sfida; 4) la prontezza nel giungere alla decisione effettiva di affrontare il lavoro neces- sario per adattare e trasformare le competenze in oggetto Tab. 1 - Quadro di riferimento per i processi di autoregolazione Fonte: Pellerey, 2003, 164 84 Entro tali consapevolezze, che il tutor è chiamato a nutrire attraverso la rela- zione continua e il colloquio cadenzato, dovrebbe essere un poco più semplice fare in modo che le scelte dell’allievo non si dirigano verso oggetti irrealizzabili, ma co- incidano in qualche modo con le effettive opportunità concesse dall’offerta forma- tiva dell’istituzione scolastica, del resto progettate proprio in funzione degli ele- menti appena citati. Esiste poi un secondo livello attraverso il quale è possibile aggiungere ancora qualcosa in termini di potenziamento dell’autonomia dello studente all’interno dei processi di apprendimento: esso riguarda alcune dimensioni che compongono il quadro di riferimento, rispetto alle quali sarebbe sufficiente che fosse dato allo stu- dente di esercitare la scelta in almeno alcuni degli aspetti presi in considerazione. Il tutor, dunque, attraverso la sua funzione negoziale di mediazione tra l’al- lievo, il gruppo di allievi e i docenti, cerca di creare le condizioni perché almeno due o tre tra queste dimensioni (il perché apprendere, come e quando farlo, quale contenuto o esperienza affrontare, dove e con chi) siano rispondenti alle scelte per- sonali, o per lo meno alle consapevolezze dei formandi, allo scopo di superare quel senso di estraneità e di perdita di significato di cui è spesso vittima l’esperienza scolastica, per i motivi già approfonditi nella prima parte della presente riflessione, o per altri motivi simili a quelli. In questo senso, la figura del tutor, o una rinnovata funzione tutoriale all’interno dei compiti del docente, può rappresentare veramente un antidoto decisivo per il rinnovamento dell’istituzione scolastica, all’insegna delle competenze multiple degli allievi e dell’istanza, ad un tempo valoriale e me- todologica, della personalizzazione. 85 Capitolo 3 Una proposta educativa Dario NICOLI Le riflessioni in tema di società complessa, specie ma non solo in ambiente eu- ropeo, mettono sempre più in luce l’importanza della formazione, in coerenza con la prospettiva della “società cognitiva”, ovvero la possibilità di avvio di una nuova epoca nella quale si possa realizzare il sogno della universalità dei diritti della nuova cittadinanza, verso una democrazia sostanziale ed una qualità della vita ac- cessibile a tutti. In tal modo l’Europa ha delineato per se stessa una sfida di grande valore civile, su scala planetaria, un obiettivo strategico di grandi ambizioni cen- trato su competitività, crescita economica e coesione sociale. Essa declina tale pro- spettiva entro cinque formule che costituiscono il fondamento comune delle inno- vazioni legislative non solo italiana, ma anche dei vari Paesi membri della UE in tema di educazione e politiche del lavoro: 1) l’educazione e la formazione lungo tutto il corso della vita 2) la centralità dei diritti civili e sociali dei cittadini, nessuno escluso 3) la competitività nel quadro dell’economia mondiale globalizzata 4) la rilevanza dell’istruzione e formazione professionale 5) la centralità dell’esperienza reale nei processi di apprendimento. Si tratta di una prospettiva che mette in luce la formazione intesa come ade- guamento delle caratteristiche della persona alle necessità imposte dai nuovi ruoli sociali e lavorativi; è questo un punto di vista importante, ma non sufficiente. A suo completamento, possiamo ricordare la “nuova missione per la scuola” indicata da Jeremy Rifkin ed espressa come “civil education”, intendendo con ciò la necessità che gli studenti sviluppino le doti di socialità preparandosi alla cultura a cui appar- tengono e ad assumere nel suo ambito un ruolo attivo. In tal modo, facilitando l’e- sperienza educativa, i giovani trovano lo studio più utile e significativo per la pro- pria vita e di conseguenza migliora considerevolmente il loro rendimento scolastico (Rifkin, 2000, 336-339). Rifkin ci aiuta a comprendere che la nuova educazione, per sviluppare vere competenze, deve saper dare maggiore profondità al senso di identità dello studente e trasmettergli il senso di appartenenza alla comunità, alimentando in loro fiducia sociale ed empatia. Questo itinerario, che va dalla formazione come necessità all’educazione come qualità del vivere bene nella propria comunità sociale, ci indica la crescente consa- 86 pevolezza circa la necessità di superare una stagione che ha visto la scuola investita da una quantità crescente e frammentata di attese, finalizzate a far fronte a questa o quella emergenza sociale del momento, ma perdendo sempre più di vista il centro del compito educativo. Ciò che pare di cogliere oggi è il passaggio dalle “educa- zioni” (alla legalità, alla salute, alla mondialità, alla sicurezza e così via con un elenco infinito) alla educazione intesa come finalità unitaria e culturalmente rile- vante di ogni azione mirante a rendere la persona consapevole della propria esi- stenza e della propria vocazione intesa come chiamata specifica a divenire ciò che si è in potenza, e mirante a trasformare le proprie potenzialità in vere e proprie competenze tramite conoscenze ed abilità acquisite attraverso esperienze di appren- dimento. Anche il tema del “raccordo” tra scuola e lavoro sta evolvendo nello stesso senso: non è più la sollecitazione di un processo di addestramento più o meno sofi- sticato che mira a dotare il giovane di mere abilità e destrezze operative, ma di- venta un modo – realizzato attraverso la valorizzazione della cultura del lavoro che nella stagione attuale ben si presta ad una visione olistica e costruttiva del sapere – per svolgere la stessa finalità di educare la persona in quanto soggetto consapevole di sé e del mondo in cui vive, dotato di un progetto denso di valori e di mete, in grado di agire nella società sapendo svolgere il proprio ruolo sociale in modo ad un tempo personale, cooperativo, responsabile e creativo. È questa una novità che aiuta la scuola a superare il senso di minorità che è an- dato crescendo in questi anni di disorientamento; in tale situazione essa non deve più giustificare il proprio compito educativo attraverso l’aggiunta di questo o quel contenuto o di questa o quell’esperienza, ma risulta possibile parlare in modo com- prensibile di educazione come bene in sé della persona e quindi della collettività intera. Si tratta di una conversione culturale che è in atto e di cui sono indicatori la ripresa di interesse non solo degli addetti ai lavori, ma anche della cittadinanza più vasta per i temi della filosofia, dell’etica, della morale. Certamente il compito educativo è negli ultimi dieci anni profondamente cam- biato, tanto che spesso si segnalano unicamente le criticità e le resistenze ad un rin- novamento pedagogico ed organizzativo. Ogni programma si scontra con la caduta progressiva della qualità dei sistemi educativi, la perdita di rilevanza sostanziale dei titoli di studio, la persistenza di pratiche pedagogiche centrate sulla didattica di- sciplinare e disattente alla realtà dei destinatari ed alla connessione tra saperi e con- testo di vita. Si propone in modo forte la problematica dell’obsolescenza delle competenze personali e dell’analfabetismo di ritorno, fenomeni che erano assenti dalle riflessioni che hanno generato i sistemi educativi così come oggi li cono- sciamo. Questi fenomeni portano ad un maggiore apprezzamento della proposta dell’i- struzione e formazione professionale, in quanto metodologia in grado di sollecitare la motivazione, sviluppare progetti personali concreti, delineare percorsi di integra- zione e nel contempo di valorizzazione culturale. Basati sull’enfasi sulla costru- 87 zione della conoscenza piuttosto che alla sua riproduzione; sulla consapevolezza della naturale complessità del mondo reale evitando così eccessive semplificazioni; sulla progressione sulla base di compiti autentici e contestualizzati, non astratti; sull’offerta di ambienti di apprendimento assunti dal mondo reale, basati sui casi; sull’alimentazione di pratiche riflessive, sul lavoro dello studente finalizzato alla costruzione di conoscenze dipendenti dal contesto e dal contenuto; sullo stimolo della costruzione cooperativa della conoscenza, attraverso la negoziazione sociale. A partire dal 2001, è stato dato avvio a percorsi sperimentali prima riferiti al biennio, poi al triennio e quadriennio dell’istruzione e formazione professionale, i cui esiti positivi sono da tutti riconosciuti in quanto strumento in grado di attrarre i giovani e di condurli al successo formativo anche nella forma della prosecuzione del percorso formativo. Con la sperimentazione dei percorsi di istruzione e formazione professionale anche il nostro Paese si è dotato di un’offerta formativa che concepisce i titoli pro- fessionali (qualifica, diploma, diploma superiore) come opportunità dal carattere veramente educativo, culturale e sociale. Il valore di questa proposta, la cui effi- cacia è unanimemente riconosciuta, non si limita alla finalità del contrasto della dispersione scolastica, una sorta di “croce rossa” cui inviare gli allievi pericolanti o pericolati, ma rappresenta un comparto ordinario e insostituibile del sistema educa- tivo, fondato su una specifica offerta formativa, integrata a livello di sistema con le altre opportunità – di cui condivide gli standard delle competenze di cittadinanza e le metodologie di riconoscimento dei crediti e di accompagnamento nei passaggi –, caratterizzato da una metodologia peculiare riferita alla natura professionale dei percorsi che vi si svolgono. Si tratta di un’esperienza significativa, unica nel quadro recente del sistema educativo, che dimostra come una proposta rigorosa, metodologicamente adeguata e umanamente coinvolgente sia in grado di rispondere in modo positivo alle neces- sità dell’attuale contesto sociale e culturale. Vogliamo esplicitare tale proposta sulla base dei seguenti ambiti, corrispon- denti ai fattori potenziali, e nel contempo critici, circa il rapporto tra giovani gene- razioni ed apprendimento, in un contesto di complessità sociale ma pure di sensibi- lità giovanile verso proposte autenticamente educative, dotate di senso e di utilità: Regolazione; Comunità; Coinvolgimento; Dotazione; Metodo misto; Alleanza; Stile formativo. 1. Regolazione Un approccio “antropologico” all’educazione non è riducibile alle sole tec- niche didattiche. Esso richiede una prospettiva morale che risulta oggi sempre più il fattore essenziale del successo formativo. È stato spiegato che la stratificazione esistente tra scuole ad alto, medio o scarso successo degli studi, è strettamente con- 88 nessa al rispetto delle regole ed in definitiva all’atteggiamento morale ai fini della valorizzazione positiva delle opportunità offerte. Il modo in cui gli insegnanti aiutano gli studenti ad apprezzare ciò che appren- dono è un dovere sociale, oltre che morale. Questa non è più definita come nel pas- sato in senso legale, in una logica di conformità, ma in rapporto al bene personale e di tutti, e quindi in una logica di felicità. In tal senso, risulta “morale” quella pro- spettiva, indispensabile per un’educazione che voglia essere tale, che consente alla persona di scoprire ciò che è bene, bello e vero, e di perseguirlo con rigore e disci- plina, evitando di disperdere la propria vita ed i propri talenti entro uno stile così diffuso (e sollecitato dagli strumenti persuasivi del commercio) di divertimento ob- bligato, che risulta vacuo, deludente e ripetitivo, senza sbocco. La proposta educativa – in quanto mira ad un “perfezionamento umano” tra- mite la formazione del carattere e lo spirito di responsabilità gioiosa e fraterna al fine di superare limitazioni ed egoismi – è infatti posta in discussione in quanto tale dalla cultura relativistica proprio sul punto centrale di natura antropologica, ovvero l’idea di felicità come meta da perseguire nel dominio di sé, nella disciplina, nel cammino coraggioso verso mete buone e giuste che meritano la dedizione perso- nale vissuta nella fraternità. La cultura odierna, dubitando dell’esistenza della verità e del bene, propende non alla felicità, ma più prosaicamente alla soddisfazione del bisogno immediato, inteso come criterio etico dominante. In tal modo l’esistenza, piuttosto che porsi alla ricerca della “perla di grande valore” per la quale valga la pena vendere tutti i propri averi (Mt 13,46), viene intesa come una successione di perline di vetro di scarso valore ma avvicinabili senza sforzo, da cui trarre piccoli giovamenti e poi infilare su una collanina la cui mancanza di disegno e di preziosità rappresenta il simbolo di un’esistenza indefinita, incapace di confrontarsi con il mistero. È proprio il tema della felicità il punto che più contrasta con la cultura relativi- stica, che oggi si diffonde oltre l’ambito intellettuale e dei ceti più influenti sull’im- maginazione di giovani ed adulti (mondo dello spettacolo, della moda e del jet set). Così facendo, si pongono le basi per una nuova forma di insensibilità e quindi di violenza che non perde la sua tragicità solo per il fatto di venire nascosta o camuf- fata anche con considerazioni relative alle difficoltà della vita ed all’insindacabilità dell’agire individuale. Le giovani generazioni di oggi presentano una notevole e sorprendente sensi- bilità nei confronti del bene e della giustizia, e sono assetate di senso e di guide si- cure. Spesso però il problema sta nella sregolatezza dei genitori e nell’inadegua- tezza degli educatori, che possono essere tentati da compromessi e concessioni che poco a poco portano alla dissipazione di una proposta che diventa fatalmente insi- pida, perdendo il suo fascino. Educare è far innamorare le persone ai valori che rappresentano il portato mi- gliore della propria cultura, e aiutarle a condursi alla “vita buona” così che esse contribuiscano in modo vitale a scrivere la storia della propria civiltà. 89 Proposta La realtà dell’individuo, oltre che di capacità, è caratterizzata anche da un’altra dimensione che nell’ambito didattico prende il nome generico di “comportamento” ma che possiamo più precisamente definire “virtù personali” ovvero la disposizione a cercare e fare il bene, che si evidenzia nel modo in cui la persona si pone nei con- fronti di un particolare contesto, nel nostro caso quello formativo, e dei compiti e delle responsabilità che ad essa si propongono. Il comportamento può essere quindi reso con una serie di disposizioni morali che possono essere così articolate: – in primo luogo, si evidenzia attraverso la fiducia nella propria realtà personale ovvero la stima e la coscienza del proprio originale valore; – in secondo luogo, la capacità di cogliere, nell’ambito in cui si opera, non solo ciò che si è scelto sulla base di una specifica predilezione ma anche ciò che si è obbligati a fare, significati buoni per sé e per la collettività; – successivamente, esso indica la disposizione a mettersi in gioco in questo par- ticolare contesto ovvero a porre in atto una responsabilità consapevole di fronte ai compiti ed ai doveri connessi in vista dell’accrescimento del bene personale, comunitario e sociale; – ciò comporta quindi la dimensione dell’impegno che a sua volta significa mo- destia (moderazione nel considerare se stessi), lealtà (fedeltà e senso dell’o- nore), forza d’animo e coraggio nel momento in cui si presentano avversità che possono essere costituiti da ostacoli oppure da distrazioni; – tutto ciò si esprime attraverso l’assunzione di una disciplina, che consiste nel- l’apprendere una regola di vita e saperla assumere in modo rigoroso, ma anche nella pazienza che a sua volta significa saper tollerare i limiti altrui e quelli propri e disporsi ad una reciproca correzione resa convincente dal sentimento di fraternità che si fonda sulla dedizione, l’affezione e la donazione personale in forza di una comune visione del bene. Nella valutazione del comportamento ovvero delle disposizioni morali, l’edu- catore/formatore deve tenere presente l’atteggiamento culturale dominante nel no- stro tempo che si fonda su un’etica della soddisfazione personale a carattere indivi- dualistico che nega la significatività etica del legame con l’altro e la condivisione sociale di un progetto comune dotato di senso pieno. Spesso, la stessa famiglia pone ostacolo al superamento della prospettiva individualistica creando una sorta di barriera protettiva intorno al mondo del proprio figlio/della propria figlia, ma non si tratta peraltro di un atteggiamento generalizzato. D’altra parte, l’educatore/formatore deve saper evitare di porre sé ed il proprio punto di vista come criterio del giudizio in ordine al comportamento, poiché ciò fi- nirebbe per limitare se non contraddire la finalità di bene dell’educazione che pre- vede sempre la libertà della persona del discente il quale diventa in realtà corre- sponsabile del proprio progetto educativo. Ciò comporta non tanto una tecnica, quanto una disposizione morale dell’edu- 90 catore entro una comunità educativa che vive quei valori che intende perseguire con gli allievi. L’educatore è chiamato anch’egli ad avere fiducia nella propria realtà personale, a vivere il proprio compito come vocazione orientata al bene degli altri e proprio, ad assumere responsabilità ed impegno, a disporsi ad un’opera da condividere insieme agli altri entro uno stile fraterno di stima e di cooperazione. 2. Comunità L’esperienza educativa è tale se si sviluppa entro una realtà adeguata, che chia- miamo comunità. Non si tratta di una realtà ideale, che può ritrovarsi solo in con- testi coesi dal punto di vista ideologico o religioso: è invece il riflesso di un giusto amore per la verità e per la piena realizzazione delle persone che ci sono affidate nell’opera educativa. La centralità dell’esperienza comunitaria, ovvero del senso di appartenenza ad un ambiente che esprime una propensione al bene dei suoi componenti, è prece- dente al pur necessario processo ingegneristico e didattico. Si tratta di qualcosa di più rilevante, ovvero dell’affermazione concreta e sensibile dell’ideale educativo ai vari livelli dell’esperienza, coinvolgendo tutti gli attori sociali per il bene della gio- ventù e quindi per il futuro della società stessa. Ciò pone in gioco la dinamica culturale e valoriale della comunità educativa, ovvero un ambiente ricco di relazioni, risorse, competenze, connotato da una co- esione valoriale e culturale in grado di sostenere una proposta formativa al servizio della piena realizzazione dei destinatari e del contesto di riferimento. È un am- biente accogliente, dove ognuno può esprimersi personalmente, trovare la propria strada e dare il meglio di sé in un clima sereno e cordiale. È comunità quell’espe- rienza nella quale le persone e le strutture non sono unite unicamente da funzioni e necessità, ma dalla condivisione di comuni ideali, da legami di stima e di cordialità, in definitiva da una visione etica che influisce direttamente sulla motivazione ad in- segnare, sull’elaborazione delle strategie, sul reperimento ed utilizzo delle risorse, sulla concezione della qualità del proprio lavoro. È questa la sfida più rilevante: porre al centro dell’educazione l’amore per l’altro e la personale ed affettuosa dedizione al suo bene in quanto persona unica, irripetibile, capace di esprimere un proprio progetto di vita. La disposizione delle attuali giovani generazioni ad una proposta educativa chiara, coinvolgente, orientata al bene rappresenta un’opportunità che va colta ap- pieno, per rilanciare la prospettiva educativa anche attraverso i percorsi di istru- zione e formazione professionale. Occorre che ogni ambiente educativo colga quest’occasione storica evitando di limitarsi ad “alzare il lamento” circa la crescente fatica e sofferenza nello svolgere il proprio compito, e prendendo le distanze dal principio della delega (interna, esterna) che l’ha portata in definitiva ad una sorta di solitudine autoreferenziale, 91 per giungere ad una vera e propria corresponsabilità in grado di coinvolgere effetti- vamente famiglie, attori sociali, economici ed istituzionali specie del territorio. In tal modo, l’educazione diviene un compito primario della comunità sociale la quale esprime in questo una responsabilità in ordine alla trasmissione dei valori e della ricchezza culturale della propria tradizione. Quindi, la scuola – intesa in senso lato – deve ritrovare la convinzione dell’im- portanza del proprio compito, sapendo, come ci ricorda Edgar Morin, che una con- cezione puramente funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante ad un sem- plice impiegato, mentre il carattere prettamente professionale lo riduce ad esperto, aggiungendo che “l’insegnamento deve ridiventare non più solamente una fun- zione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione” (Morin, 2000, 105-107) che presenta le caratteristiche di un’arte in cui emergono le dimensioni del desiderio, del piacere e dell’amore. Proposta La prima condizione affinché esista una comunità educativa è costituita dalla necessità che le attività di istruzione e formazione siano fondate su un chiaro ethos educativo che persegua il bene dei destinatari come criterio centrale di ogni azione. Ciò pone in gioco la definizione consensuale e convinta da parte di ogni inse- gnante, formatore, tutor, educatore, dirigente e personale di supporto, di una pro- posta educativa che indichi le mete dell’azione e le declini in termini di responsabi- lità, scelte, metodologie. Ciò richiede inoltre l’adesione ad un codice deontologico che non sia sempli- cemente una norma di comportamento, ma il segnale di un desiderio e di un im- pegno comune verso il bene dei destinatari, della società e, in definitiva, degli stessi formatori. Non significa che tutti la pensino allo stesso modo, poiché l’eccessiva omoge- neità porta all’appiattimento culturale e, in ultima analisi, rappresenta un limite che impoverisce l’intera opera educativa. Significa invece che è comune a tutti la se- rietà con cui si avvicina l’impegno personale, che emerge anche dalla ricerca di punti di convergenza che valorizzino l’apporto di ciascuno verso le mete comuni. È quindi una posizione che richiede l’atteggiamento di stima nei confronti dei col- leghi e di sostegno a che la vita entro la struttura formativa sia improntata a frater- nità e gioia ovvero al “piacere di lavorare” anche nei momenti di tensione e di dif- ficoltà. Questo modo di intendere l’opera educativa risulta la migliore possibilità per far sì che i giovani che si avvicinano a tale esperienza avvertano un tono distintivo (ethos) che la contraddistingue dalle altre e che la rende attraente, desiderabile, condividano un senso di appartenenza che li aiuti a sentirsi parte di una comunità in grado di accoglierli, di sostenerli anche nel bisogno, di sviluppare un legame di fra- ternità con i propri compagni. La crescita di una comunità educativa richiede: a) una carta dei valori ed una 92 proposta educativa; b) delle occasioni formative per l’ingresso e per la crescita pro- fessionale che rimandino agli ideali cui si fa riferimento; c) momenti di vita co- mune ed anche riti di richiamo dei valori e di condivisione delle esperienze; d) un lavoro di guida e di accompagnamento dei formatori e dei docenti da parte di se- nior che sappiano guidare, incoraggiare e correggere; e) forme di revisione dell’at- tività alla luce non solo di variabili di natura efficientistica, ma anche di forma- zione autentica e di crescita di persone in grado di decidersi per il bene personale e sociale; f) occasioni straordinarie di maturazione, che possono essere rappresentate da eventi, viaggi, momenti di vita comunitaria in cui approfondire i legami e la missione comune. 3. Coinvolgimento L’attenzione ai fattori morali - ovvero il riferimento al bene- si accompagna alla necessità di coinvolgere effettivamente ogni destinatario nella vicenda cultu- rale, così che divenga effettivamente un modo personale di avvicinarsi al sapere. Occorre quindi “mettere in moto” l’apprendimento ed il suo campo d’azione, così che il discente sia posto nella condizione di fare un’esperienza culturale che ne mobilita le capacità e ne sollecita le potenzialità buone. In tal modo il sapere si mo- stra come un oggetto sensibile, ad un tempo simbolico, affettivo, pratico ed esplica- tivo. In questo contesto, il docente diventa “mediatore” di un sapere che “prende vita” nel rapporto con la realtà, come risorsa per risolvere problemi e per vivere bene. Si tratta di superare il sapere inerte e perseguire un sapere vitale (per la vita), che sappia mobilitare le seguenti valenze: – epistemologica: consente di giungere ad una conoscenza valida tramite la co- scienza delle regole che presiedono alle sue operazioni; – antropologica: suscita le potenzialità umane buone, stimola il desiderio di ap- prendere che è insito nella natura umana (“fatti non foste…”) entro un preciso contesto morale (orientamento al bene); – pratica: stimola la concretezza, la responsabilità e l’impegno nell’ambito di vita in cui si è posti in vista di un futuro auspicato (e sempre riprogettato). Si propone una metodologia che consenta di cogliere la persona nelle sue po- tenzialità buone, entro una relazione che sia un incontro e generi fiducia e passione per il sapere. Ciò richiede una vera comunità educativa che esprima un clima di fi- ducia, amorevolezza ed uno stimolo per un lavoro serio e regolato (che proceda sulla base di precise regole) che coinvolge tutti i soggetti dell’educazione: giovani, famiglia, educatori, realtà sociale. Questo al fine di mirare alla massima valorizza- zione del potenziale (talenti) delle persone in modo che diventi competenza, così che tutti acquisiscano il “sapere della cittadinanza” nel quadro di riferimento del progetto personale di ciascuno. 93 È questa una metodologia attiva che riflette la forma educativa del laboratorio, quella in cui si pone in atto uno sforzo razionale e strutturato volto a portare a ter- mine compiti sensati, utili, condivisi. Mentre la forma dello studente appare am- bigua e quella del compagno superficiale, la forma educativa del laboratorio con- sente di mettere in gioco la persona, la colloca entro un gruppo attivo e coopera- tivo, prevede impegno personale, dedizione, ingegno, resistenza, ma anche soddi- sfazione, competenza, consapevolezza di sé, desiderio di crescita continua. Il successo formativo non significa “promuovere tutti”, ma rappresenta la pos- sibilità di dare pieno corso al progetto di vita della persona in apprendimento; esso comprende tutte le sue componenti (cognitive, emotive, operative, morali, spiri- tuali, estetiche…), ma in una prospettiva unitaria o integrale. Il successo prevede una presa in carico, la lettura/consapevolezza dei talenti, la conoscenza della realtà, l’individuazione di una meta desiderabile e di un itinerario come guida da seguire. Proposta La proposta formativa deve essere capace di incontrare il desiderio di sapere che tutti i giovani avvertono, nonostante le esperienze critiche che possono aver vissuto. Essa si ispira al criterio della centralità dell’allievo e del suo successo forma- tivo, al fine di assicurare ai giovani una proposta dal carattere educativo, culturale e professionale che preveda risposte molteplici alle loro esigenze. Ogni destinatario può trasformare le proprie capacità (attitudini, atteggiamenti, risorse, vocazione) in vere e proprie competenze, al fine di ottenere comunque un risultato soddisfacente in termini di conseguimento di una qualifica professionale coerente con i principali sistemi di classificazione disponibili, garanzia di un sup- porto all’inserimento lavorativo; possibilità di una prosecuzione della formazione nell’ambito dell’anno di diploma di formazione come pure nell’ambito della For- mazione professionale superiore ed eventualmente nella prosecuzione nell’Istru- zione e nell’Università. È pure assicurata, in ogni momento del percorso, la possibilità di passare ad altri ambiti del sistema educativo con l’ausilio di “laboratori di recupero e sviluppo degli apprendimenti” (LARSA), d’intesa tra entrambi i team implicati. Ciò richiede di superare il carattere disciplinaristico e astratto ancora domi- nante nella nostra scuola. Infatti, le prassi pedagogiche dominanti concepiscono an- cora l’attività di apprendimento come una istruzione che avviene trasferendo i sa- peri ai destinatari tramite sequenze di lezioni che compongono un programma strutturato formalmente secondo un approccio disciplinare di tipo autoreferenziale ed astratto. In molti contesti non sembra avvenuto il passaggio dal “programma” al “curricolo” e dall’enfasi sull’insegnamento a quella sull’apprendimento. Tale impostazione entra in collisione con i caratteri della attuale cultura giova- nile. Al contrario dello stereotipo comune, non è vero che i giovani disdegnino la cultura; l’attuale generazione giovanile presenta infatti una buona predisposizione 94 culturale, che manifesta con tre caratteristiche distintive: sensatezza, ovvero riferi- mento di ciò che viene proposto ad un motivo buono che ci riguarda e ci coinvolge; utilità, ovvero il valore reale delle acquisizioni cui si tende; passione, ovvero un coinvolgimento personale “forte” nel rapporto con il sapere. Una metodologia formativa adeguata alle nuove generazioni richiede una cura della vicenda personale. Non esiste un modo unico per entrare il relazione, stare nel gruppo, risolvere problemi, apprendere. Ognuno mette in gioco stili personali di- stintivi che esprimono la sua identità. Occorre pertanto riferire il percorso educa- tivo alla specifica realtà del destinatario. Personalizzare significa delineare diffe- renti percorsi di crescita, in base alle caratteristiche personali degli allievi: tratti della personalità, stili di apprendimento, metodi di assunzione e di soluzione dei compiti. La personalizzazione non avviene esclusivamente in un gruppo unico, dove tutti fanno tutto, ma prevede flessibilità nell’aggregazione di gruppi di destinatari: gruppi plenari (per alcuni scopi), gruppi di livello (per altri scopi), gruppi d’inte- resse, laboratori, progetti, ecc. Il gruppo unico plenario rappresenta più un’esperienza di socializzazione che di apprendimento o di lavoro, mentre solo quando si costituiscono gruppi di “scopo” i destinatari sono meglio sollecitati in senso educativo. 4. Dotazione (cittadinanza) L’istruzione e formazione professionale non rappresenta un modo per “assimi- lare” il giovane ad uno schema lavorativo meccanicistico, sempre che questo esista ancora. In realtà, tale proposta mira essenzialmente a formare la libertà della persona umana, rendendola capace di conoscersi, di agire in modo responsabile ed utile, di elaborare progetti, di orientarsi al bene. Ciò significa lavorare per competenze. Per “competenza” si intende una caratteristica della persona, mediante la quale essa è in grado di affrontare efficacemente un’area di problemi connessi ad un par- ticolare ruolo o funzione. Per tale motivo, sarebbe preferibile parlare di persona “competente” piuttosto che di competenza. Essa viene dimostrata dalla persona tra- mite performance rese in un preciso contesto organizzativo di fronte a “giudici” rappresentati da esponenti del mondo professionale di riferimento. La persona competente è in grado di mobilitare le risorse possedute (capacità, conoscenze, abi- lità) al fine di condurre a soluzione un compito-problema. Di conseguenza, formare per competenze significa riconoscere il carattere del- l’azione in quanto fonte preziosa di conoscenza, un’azione scelta e collocata in modo strategico nel percorso formativo, secondo i tre criteri: significatività, criti- cità, concretezza. Significa disegnare una relazione costruttiva fra soggetto ed og- 95 getto. In questo modo, l’apprendimento non viene causato, ma favorito mediante la scelta e la predisposizione di condizioni favorevoli (situazioni di apprendimento) che sfidano il discente e lo sollecitano ad una relazione personale con l’oggetto del sapere. È evidente la validità della cultura del lavoro per quest’opera educativa “com- petente”. Questa cultura va considerata come un “bacino culturale” in grado di con- sentire al giovane – a partire da realtà concrete connesse al lavoro umano – di co- gliere il legame che intercorre tra compiti reali, processi tecnologici, aspetti scienti- fici, elementi della cultura linguistica, della storia, delle scienze umane, della citta- dinanza attiva. Con ciò si intende la struttura olistica del sapere, caratterizzata dal principio: “il tutto nelle parti, le parti nel tutto”, oltre al suo corollario: “il tutto è maggiore della somma delle parti”. L’istruzione e formazione professionale è stret- tamente connessa alla struttura del lavoro intesa come ambito simbolico, operativo e relazionale nel quale si sviluppa l’attività umana come dinamica di “creazione so- ciale”. Ciò comporta la necessità di delineare i modi del rapporto tra formazione e lavoro. Il lavoro, in particolare il tipo di lavoro emergente dall’attuale dinamica so- ciale ed economica (che possiamo definire in modo sintetico post-tayloristica e post-burocratica), è portatore di una “formatività” implicita che va innanzitutto ri- conosciuta e poi valorizzata verso la massima promozione delle risorse umane. L’opera di formazione del cittadino nella società cognitiva, così come indicata dall’UE, non può risolversi entro una struttura rigida disciplinare che miri a pro- grammi comuni e quindi ad un biennio unico. Il pericolo di ridurre le competenze ad una somma di contenuti disciplinari è strettamente correlato ad una visione ri- gida dell’organizzazione del percorso formativo, centrato più sulle esigenze degli operatori che sulle effettive necessità formative dei destinatari. Non si tratta di costruire una sorta di “solido didattico” che preveda un’area di discipline comuni distinte da una successiva area di discipline di indirizzo, ma di assicurare l’unitarietà dei riferimenti tramite il metodo della “equivalenza forma- tiva” dei percorsi del ciclo secondario, sotto forma di competenze comuni da ga- rantire in uscita di ogni biennio degli stessi. Occorre ricordare che i percorsi sperimentali di istruzione e formazione pro- fessionale già dal 2004 hanno incluso questa impostazione, definita dagli standard delle competenze di base. Inoltre, va tenuta in debita considerazione la proposta elaborata dall’UE circa le “Competenze chiave per l’apprendimento permanente”, ovvero: comunicazione nella madrelingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; competenza digitale; imparare a impa- rare; competenze interpersonali, interculturali e sociali e competenza civica; im- prenditorialità; espressione culturale. Tali competenze sono definite alla stregua di una combinazione di conoscenze, abilità e attitudini appropriate al contesto, quindi si allontanano dai meri contenuti disciplinari. Le competenze chiave sono quelle di cui tutti hanno bisogno per la 96 realizzazione e lo sviluppo personali, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione. A conclusione dell’istruzione e formazione iniziale i giovani do- vrebbero aver sviluppato le competenze chiave a un livello tale che li prepari per la vita adulta e dette competenze dovrebbero essere sviluppate ulteriormente, mante- nute e aggiornate nel contesto dell’apprendimento permanente. A riprova che non si tratta di modelli disciplinari, si ricorda che molte delle competenze si sovrappongono e sono correlate tra loro: aspetti essenziali in un am- bito favoriscono la competenza in un altro. La competenza nelle abilità fondamen- tali del saper parlare, leggere, scrivere e far di conto e nell’uso delle TIC (tecno- logie dell’informazione e della comunicazione) è una pietra angolare per l’appren- dimento e il fatto di imparare a imparare è utile per tutte le attività di apprendi- mento. Molte delle tematiche che vengono evocate ripetutamente nel “Quadro eu- ropeo” indicano per l’Italia uno sforzo necessario al fine di passare da una prospet- tiva tradizionale dei saperi disciplinari ad una che colloca il contributo delle disci- pline entro un quadro di mete che possiamo definire “antropologiche” e che neces- sitano di un impegno unitario dell’équipe dei docenti e di una metodologia forma- tiva appropriata. Si tratta del pensiero critico, della creatività, dello spirito di inizia- tiva, della capacità di risolvere i problemi, della valutazione del rischio, dell’assun- zione di decisioni e della capacità di gestire in modo costruttivo i sentimenti. Sono tutti fattori della personalità che richiedono una modalità formativa inno- vativa, centrata sui compiti di realtà presi dal contesto concreto, e su una gestione del processo formativo secondo un approccio efficace e centrato sulla persona del destinatario. In ciò si comprende come l’obbligo di istruzione non debba risolversi in una meccanica dei percorsi che procede per blocchi unici ed impersonali, ma rappre- senti un altro stimolo per perseguire un rinnovamento del sistema educativo cen- trando l’attenzione sulla effettiva dotazione di ogni persona di vere e proprie padro- nanze nell’affrontare compiti che si presentano nella vita reale. Significa lavorare per competenze privilegiando l’azione, significativa ed utile, in quanto situazione di apprendimento reale ed attiva che consente di porre il soggetto che apprende in relazione “vitale” con l’oggetto culturale da apprendere. La proposta uscita dalla Commissione costituita in tema di obbligo di istru- zione ha optato per una serie di competenze trasversali che, rispetto a quella pro- posta dall’UE circa le “Competenze chiave per l’apprendimento permanente”, indi- cano più direttamente aspetti legati all’identità personale, ed alla responsabilità so- ciale, la cui acquisizione necessita tuttavia del possesso delle conoscenze e delle capacità linguistiche, matematiche, scientifiche, tecnologiche, digitali, sociali e ci- viche richiamate dalla Raccomandazione europea. Si tratta delle competenze se- guenti: Imparare ad imparare; Formulare progetti; Comunicare; Collaborare e par- tecipare; Risolvere problemi; Individuare collegamenti e relazioni; Acquisire ed in- terpretare l’informazione. 97 Tutto ciò richiede l’adozione di un metodo formativo efficace e coerente con gli obiettivi che si intendono perseguire. Proposta Questa metodologia cerca una corrispondenza tra il modo in cui la persona ap- prende ed il modo in cui si forma un sapere riconosciuto, e fa di questa corrispon- denza il centro della didattica. Si conosce nel modo della costruzione, cercando di ricavare delle “regole” da un’azione che in un primo tempo può apparire al soggetto solo dal punto di vista materiale e soggettivo, ma che poco a poco consente allo stesso di svincolarsi crea- tivamente rispetto all’esperienza, acquisendo consapevolezza delle strutture e dei mediatori che compongono il sapere. Non si conosce, invece, nel modo dualistico dell’applicazione (dopo) di un sa- pere appreso (prima), perché in questo modo la realtà perde il suo fascino ed il sa- pere si riduce a mera nozione che porta solo ad una sua ripetizione inerte (vale solo per il voto). Per lavorare secondo l’approccio per competenze sono necessari: – un repertorio delle competenze che ne individui una serie essenziale secondo un continuum tra quelle comuni, che appartengono ad un campo di vita perso- nale e sociale disponibile a tutti, e quelle che invece risentono del contesto professionale di riferimento; – un linguaggio comune che indichi i significati dei termini utilizzati ed il tipo di “lavoro” che essi implicano; – un metodo condiviso circa la gestione delle rubriche; – una comunità professionale che sceglie questo metodo ed opera in coerenza ad esso in modo da generale apprendimento dalle proprie esperienze. Uno dei punti decisivi dell’approccio per competenze è costituito dalla valuta- zione; questa indica la relazione che intercorre tra il cuore del processo di appren- dimento e quindi di valutazione, ovvero la competenza, le capacità della persona ovvero le sue potenzialità, ed infine le risorse mobilitate dalla persona (cono- scenze ed abilità). È necessario che tutto ciò divenga leggibile entro un’esperienza formativa concreta che è rappresentata dalla situazione di “soluzione del pro- blema” di cui l’allievo è protagonista. Tale approccio ci consente inoltre, in forza di tale strutturazione, di considerare egualmente fenomeni formativi diversi, for- mali, informali e non formali, in modo da ricostruire le acquisizioni significative della persona indistintamente dal modo e dal luogo in cui sono avvenute. Ciò vale in ogni momento del processo formativo, con particolare riferimento alla fase di ingresso. L’allievo è chiamato a illustrare e nel contempo diagnosticare il proprio per- corso di studi scegliendo i prodotti di cui va più orgoglioso ed elaborando una scheda (presentazione) in cui espone il risultato ed il percorso seguito, esprime una 98 valutazione ed indica i punti di forza e quelli di miglioramento. L’autovalutazione rappresenta un elemento importante della valutazione effettuata dai docenti. L’équipe dei formatori esprime la valutazione circa: 1) la competenza, ovvero la padronanza dimostrata dall’allievo nel risolvere un insieme di problemi posti e di utilizzare ed incrementare le proprie risorse in ordine all’assolvimento dei compiti indicati. La competenza è individuata tramite la rubrica: esiste se sono soddisfatti tutti gli indicatori previsti, almeno a livello di soglia; 2) le singole abilità e cono- scenze il cui apprendimento è richiesto per la corretta soluzione del compito in rife- rimento alle diverse aree formative. Queste ultime sono individuate mediante: com- piti reali (nei quali sono “mobilitate”), test (individuate tra alternative), esercizi (applicate), compiti ed interrogazioni (argomentate in modo pertinente). 5. Metodo misto La metodologia formativa proposta non nega il valore educativo e culturale delle discipline, bensì il disciplinarismo in quanto sua deformazione che conduce ad un processo di apprendimento astratto che non consente di incontrare il sapere come esperienza personale e che lo riduce ad un insieme di conoscenze ed abilità inerti, buone essenzialmente per prendere voti. Purtroppo, le prassi pedagogiche dominanti concepiscono ancora l’attività di apprendimento come una istruzione che avviene trasferendo i saperi ai destinatari tramite sequenze di lezioni che compongono un programma strutturato formal- mente secondo un approccio disciplinare di tipo autoreferenziale ed astratto. In molti contesti non sembra avvenuto il passaggio dal “programma” al “curri- colo” e dall’insegnamento all’apprendimento. In tal modo, non vi è un sapere personale, coinvolgente, basato sulla scoperta e sulla sollecitazione della persona alla crescita tramite esperienze che ne segnano il cammino di crescita. Il processo di apprendimento è personale e giunge ad una vera competenza se la persona viene “sfidata” da compiti-problema da portare a termine, risolvendo i quali essa pone in gioco le proprie risorse. Di fronte a dei compiti reali, ad una si- tuazione indeterminata, noi rispondiamo formulando dei corsi di azione ipotetici, prevedendo le conseguenze di ciascuno di essi, agendo in base all’ipotesi più plau- sibile e testandone la validità sui risultati della nostra azione. In definitiva, la metodologia adeguata alle caratteristiche delle attuali genera- zioni si colloca entro una cultura educativa, che indica il carattere, percepibile in ogni momento ed in ogni forma come “sentimento” o “tensione comune” (ethos), di una comunità che pone al centro della sua azione il bene dei destinatari, ovvero la loro crescita come persone, cittadini e lavoratori tramite la valorizzazione dei ta- lenti di cui sono portatori, nello stile che essi stessi scoprono come consono alla propria personalità. 99 La missione della scuola non è (solo) trasmettere nozioni, bensì coltivare i ta- lenti mettendoli in gioco di fronte alla cultura reale. L’educatore diretto e quello implicito (organizzazione) sono responsabili di ogni persona che viene loro affidata e rispondono della sua capacità di cogliere e fruttificare i propri talenti. Per questo in ogni attività occorre puntare in alto. Inoltre, vanno ricercati modi ulteriori per valorizzare i talenti dei ragazzi sapendo suggerire loro proposte, coin- volgendo la famiglia e gli altri educatori, sostenendo l’iniziativa personale, accom- pagnando in modo attento la persona nel suo impegno e rendendosi attenti al per- corso di crescita. A tale scopo, la metodologia di apprendimento per compiti e competenze si deve armonizzare con la metodologia di apprendimento per aree disciplinari, in modo da poter ancorare i saperi ad esperienze reali, dotate di senso ed utilità e co- involgenti, per poi procedere verso una dotazione di sapere che sia effettiva, solida, personale. Non basta quindi un’esperienza reale per intendere il senso di un sapere, oc- corre anche un lavoro di trasformazione di questa in un linguaggio opportuno, di ri- flessione circa l’esperienza per giungere ad una dotazione di nozioni, regole, as- sunti, leggi. Occorre un quadro conoscitivo completo e nel contempo essenziale. Il processo formativo per deduzione è composto dai seguenti passi: ARGOMENTO Aggancio Esposizione Esempio Ripetizione Intervento (dei compagni) Esercizio Verifica (compito, test, interrogazione) Valutazione sommativa Il processo formativo per induzione (esperienza) procede invece nel seguente modo: COMPITO REALE Progetto (prodotto, obiettivo…) Consegna Esecuzione Controllo e correzione (lungo l’esecuzione) Relazione + glossario Autovalutazione (della globalità del prodotto) Comunicazione e riflessione Si tratta di metodi che vanno alternati opportunamente nel processo di appren- dimento, così da realizzare progressivamente, ed in modo adeguatamente accompa- gnato e corretto lungo tutto il percorso, le mete condivise tra i formatori. 100 Proposta La proposta che sosteniamo prevede il primato dell’insieme sulla parte, e del- l’esperienza sulla mera nozione astratta. Ciò per giungere ad un sapere personale completo e solido. L’elemento prioritario per la progettazione è costituito dal piano formativo, ov- vero la guida che indica la rappresentazione di massima del percorso che orienta i docenti-formatori nel loro lavoro. Non è quindi né un programma (sequenza di le- zioni per contenuti) e neppure un curricolo (sequenza di unità didattiche per obiet- tivi, attività e verifiche), ma il disegno del cammino dell’anno formativo con le at- tività principali che coinvolgono tutti i docenti-formatori e la loro scansione, speci- ficando ruoli, tempi, risultati e modalità di verifica e valutazione. Il piano formativo discende dalla lettura del PECUP (“Profilo educativo, cultu- rale e professionale”) del secondo ciclo degli studi, e tiene conto degli standard mi- nimi delle competenze di base. Ciò significa che i formatori, prima ancora che docenti di una particolare ma- teria/disciplina, sono componenti di un’équipe che elabora un piano di intervento condiviso, unitario ed organico, nel quale si rintracciano i fattori di coerenza tra i diversi interventi, le tappe fondamentali del cammino di apprendimento degli al- lievi, i compiti reali o simulati su cui convergono gli sforzi formativi interdiscipli- nari, i riferimenti per una valutazione autentica. Tutto il processo è proteso a porre l’allievo in una condizione attiva e respon- sabile, a sostenere il suo desiderio di apprendere mediante la sfida dei compiti/pro- blema, a mettere in gioco le proprie risorse, in primo luogo le capacità, ma anche le conoscenze e le abilità, suscitando in tal modo le richieste nei confronti dei do- centi/formatori. Carattere fondamentale della metodologia formativa è l’integrazione tra cono- scenze, abilità e capacità, al fine di delineare vere e proprie competenze che si col- locano lungo il percorso secondo una logica non meccanica, ma olistica. La pro- posta formativa valorizza l’esperienza concreta, si basa su una relazione amiche- vole, personalizzata, è centrata sull’acquisizione di competenze utili e sulla attribu- zione di senso agli apprendimenti proposti; essa appare particolarmente adatta specie per coloro che presentano uno stile di apprendimento che privilegia l’intelli- genza pratica, esperienziale, intuitiva, per scoperta e narrazione. Il fulcro della metodologia appare la pratica delle unità di apprendimento con- nesse alla cultura del lavoro e della società in cui i ragazzi sono inseriti. Si tratta di una svolta decisa che supera la logica addestrativa del passato (quella in parte discendente dalla legge quadro 845/78) e che valorizza il lavoro non in forma esecutiva, bensì come un “bacino culturale” in grado di consentire al giovane – a partire da realtà concrete connesse al lavoro umano – di cogliere il le- game che intercorre tra compiti reali, processi tecnologici, aspetti scientifici, ele- menti della cultura linguistica, della storia, delle scienze umane, della cittadinanza attiva. Con ciò si intende la struttura olistica del sapere, caratterizzata dal principio 101 “il tutto nelle parti, le parti nel tutto”, oltre al suo corollario: “il tutto è maggiore della somma delle parti”. Tale scelta rende possibile la costruzione di un processo formativo di tipo costruttivistico, che risponda ai seguenti criteri metodologici: 1) enfasi sulla costruzione della conoscenza piuttosto che alla sua riproduzione, 2) consapevolezza della naturale complessità del mondo reale evitando così ec- cessive semplificazioni, 3) progressione sulla base di compiti autentici e contestualizzati, non astratti, 4) offerta di ambienti di apprendimento assunti dal mondo reale, basati sui casi, 5) offerta di rappresentazioni multiple della realtà, 6) alimentazione di pratiche riflessive, 7) lavoro dell’allievo finalizzato alla costruzione di conoscenze dipendenti dal contesto e dal contenuto, 8) stimolo della costruzione cooperativa della conoscenza, attraverso la negozia- zione sociale. L’istruzione e formazione professionale è in tal modo strettamente connessa alla struttura del lavoro intesa come ambito simbolico, operativo e relazionale nel quale si sviluppa l’attività umana come dinamica di “creazione sociale”. Significa anche valorizzare la formatività implicita propria del lavoro così come emerge nel- l’attuale società cognitiva, portatore di una valenza cognitiva e sociale che consente lo sviluppo di percorsi formativi a carattere ad un tempo educativo, culturale e pro- fessionale. 6. Alleanza L’educazione è sempre meno un’esecuzione di programmi entro un contesto separato dalla realtà, e sempre più un compito condiviso tra attori diversi, collocati nel territorio, in grado di esprimere un ethos comune, di indicare mete condivise, di far convergere risorse ed opportunità su percorsi formativi che mirano alla valoriz- zazione delle persone in quanto valore essenziale della realtà sociale. Ciò – al contrario di chi sostiene una sorta di “solitaria aristocrazia della scuola” – avvalora il compito delle istituzioni scolastiche e formative, mentre una loro concezione autoreferenziale conduce ad una perdita di prestigio ed alla dis- istima sociale che a loro volta preludono ad una delega totale che ben presto si ri- solve in una deresponsabilizzazione che si associa ad un’attribuzione sistematica di colpe alla scuola per tutto ciò che non funziona non solo nei giovani, ma anche nel- l’intera vita sociale. Anche nel contesto educativo e formativo si delinea sempre di più una moda- lità d’azione cooperativa tra soggetti di varia natura: erogativi, istituzionali, tecnici, economici, sociali… Ciò al fine di disegnare un sistema di offerta che consenta ef- fettivamente a tutti di trovare entro una varietà di risposte di pari dignità quelle più conformi alle proprie esigenze. Per questo motivo, così come è accaduto per altri 102 comparti di servizi, anche le istituzioni formative debbono affrontare la stagione della qualità ponendosi seriamente il problema del rapporto tra le risorse affidate, i processi posti in atto ed i soggetti coinvolti ai cui bisogni intende dare risposta. Si tratta di una prospettiva che richiede un rovesciamento dei fattori, ovvero l’assun- zione di una visione autenticamente di servizio, secondo cui l’interesse primario è quello dei cittadini, piuttosto che quello degli operatori intesi sia come istituzioni, sia come risorse umane. L’offerta formativa va posta in stretta (anche se non esclusiva) relazione con il territorio, così da valorizzare le sue potenzialità culturali, sociali ed economiche. In particolare il sistema di istruzione e formazione professionale necessita di un ap- proccio polivalente e nel contempo aperto alle caratteristiche ed alle opportunità del contesto. Questo conduce ad una strategia formativa basata sul compito reale e l’alter- nanza, e richiede il pieno coinvolgimento degli attori culturali, istituzionali, econo- mici e professionali entro un impegno educativo di natura cooperativa. Inoltre, ciò rende necessaria la governance territoriale dei sistemi in grado di riconoscere la pluralità dei soggetti che operano nel campo formativo e di affermare nel contempo la responsabilità degli enti locali nella delineazione di un’offerta formativa auten- tica e di qualità, coerente con i livelli essenziali delle prestazioni previsti al fine di garantire i diritti civili e sociali dei cittadini su tutto il territorio nazionale. Ciò vale in particolare nella istruzione e formazione professionale. Si tratta dell’insieme di offerte formative che sviluppano percorsi a carattere educativo, cul- turale e professionale con mete condivise (e di pari dignità) rispetto ai licei, sulla base di un proprio approccio peculiare che si caratterizza per l’integrazione dei sa- peri e la valenza di “lavoro” educativo (autonomia, responsabilità, didattica attiva, valorizzazione dell’esperienza, collegialità). Il lavoro è concepito come esperienza profondamente umanizzante e quindi occasione per l’educazione integrale della persona umana, proprio perché il pro- durre bene, al meglio, qualsiasi cosa, presuppone una persona che agisce e pensa coinvolgendo sempre tutta se stessa, l’intero della propria umanità. Proposta I soggetti della vita sociale e del lavoro e intesa nel suo insieme sono chiamati a esprimere la loro vocazione educativa, specie in riferimento ai giovani, ovvero coloro su cui si fonda il futuro della società stessa. Con ciò si intende affermare che ogni soggetto sociale non esaurisce la sua identità nella funzione che svolge, ma richiede un’assunzione di responsabilità po- litica ed educativa. La valenza politica comporta interrogarsi sul contributo del pro- prio compito per il bene di tutta la collettività; la valenza educativa richiede di met- tere a frutto ciò che si fa in vista della crescita delle persone ed in particolare dei giovani, perché possano assumere il proprio compito nella vicenda generazionale potendo riconoscere e valorizzare appieno le proprie capacità ed i propri talenti. 103 In particolare, ciò comporta una autentica alternanza formativa. Essa rappre- senta una pratica formativa in grado di sviluppare processi di apprendimento attivi, centrati sull’esperienza. Occorre evitare però di considerarla come una mera interruzione del “nor- male” percorso degli studi al fine di alternare esperienze esterne perché in questa logica rimarrebbe la scissione del disegno formativo in due parti inconciliabili. Una corretta pratica di alternanza richiede invece una cooperazione tra i due organismi coinvolti, la scuola e l’impresa, in modo da condividere la progettazione, la ge- stione (alternata) dei processi di apprendimento, infine la verifica e la valutazione, entro una concezione unitaria del piano formativo al cui centro c’è lo studente. Da un punto di vista pedagogico, il termine alternanza si basa sui seguenti fat- tori: a) attenzione ai processi di apprendimento del soggetto, a come la persona svi- luppa e consolida le proprie competenze; b) concezione dell’apprendimento come elaborazione e costruzione dell’esperienza; c) riconoscimento del ruolo formativo della situazione di lavoro; d) enfasi sulle funzioni diverse dalla docenza (progetta- zione, tutoring, ecc.). È una strategia formativa che arricchisce le pratiche didattiche centrate sulla mera istruzione che puntano al trasferimento di nozioni attraverso una sequenza or- dinata (e rigida) di unità didattiche apprese soprattutto tramite percorsi cognitivi astratti e mnemonici. È una metodologia più propriamente formativa che mira a stimolare tutte le di- mensioni dell’intelligenza (quindi anche quelle pratiche, spaziali, intuitive, crea- tive, relazionali, affettive…) consentendo maggiormente il perseguimento del suc- cesso formativo. Occorre coinvolgere nel processo formativo tutti i soggetti (formativi, econo- mico, sociali, culturali, istituzionali) così da sviluppare una vera e propria rete di apprendimento in grado di sostenere l’intera attività formativa e di apportare ad essa intenzioni, sensibilità e risorse, che non possono che avvantaggiare i processi di apprendimento dei destinatari ed arricchire nel contempo la comunità più ampia. In tal modo, in una logica di corresponsabilità, la formazione viene svolta al li- vello di maggiore qualità, così da sollecitare un miglioramento continuativo dei percorsi formativi sia dal punto di vista professionale che metodologico ed organiz- zativo. 7. Stile formativo Esiste un approccio peculiare dell’istruzione e formazione professionale, che chiamiamo “formativo”, e che rappresenta un fattore unico e ineludibile dei pro- cessi che sono stati fin qui delineati come risposte adeguate alle domande di una parte non piccola del mondo giovanile odierno. Questo approccio non deve essere sottoposto a due riduzioni, ambedue deleterie: 104 – l’addestramento, che mira ad un processo di apprendimento povero dal punto di vista personale e culturale, dove gli aspetti educativi rimangono in ombra e vengono visti solo come riflesso di un “disciplinamento” della persona me- diante pratiche di affiancamento, imitazione e ripetizione di mansioni secondo lo schema stimolo-risposta; – lo scolasticismo che riduce l’apprendimento ad un trasferimento di nozioni che non vengono mediate personalmente, ma rappresentano solo il contenuto di prestazioni rese a fronte del corrispettivo dato dal voto, indispensabile per es- sere promossi. La formazione professionale si è modificata notevolmente a partire dai pro- cessi sperimentali attivi almeno dal 2001, riportandosi alle migliori tradizioni di stampo religioso, umanistico e aziendale. Da anni quindi è evidente come le attività formative siano improntate non da una logica addestrativa, bensì ad un tempo edu- cativa, culturale e professionale. Di contro, molte delle opzioni pedagogiche ed organizzative che vengono sol- lecitate per fronteggiare i problemi evidenziati e per consentire la formazione del cittadino della “società cognitiva” costituiscono, per il nostro sistema, una sfida im- pegnativa a causa del ritardo che si è accumulato in decenni di mancate riforme e di riperpetuazione di pratiche pedagogiche non più adeguate ai tempi. Ciò vale specie per il ciclo secondario degli studi, dove domina ancora una visione discipli- nare dell’insegnamento, mentre fatica ad emergere un principio educativo condi- viso tra il corpo docente. La perdita di prestigio delle figure docenti va di pari passo con questo mancato rinnovamento pedagogico ed organizzativo; ma un pro- cesso di qualificazione della cultura professionale dei docenti non può essere rea- lizzato solo tramite percorsi formativi tradizionali: occorre una vera e propria mo- bilitazione professionale che si svolga secondo approcci progettuali ed un anda- mento sperimentale capace di coinvolgere tutti su mete precise e con un adeguato supporto organizzativo e metodologico. L’approccio formativo è fondato su criteri della formazione efficace, ovvero: 1) aggregare le discipline in aree formative, 2) sviluppare un’azione collegiale dei docenti tramite una progettazione unitaria del percorso (prima che disciplinare), 3) formare competenze che garantiscano la leggibilità delle conoscenze e delle abilità disciplinari mobilitate, 4) stimolare l’“imparare facendo” attraverso una dislocazione “strategica” delle unità di apprendimento interdisciplinari, 5) valorizzare ciò che rende piacevole e interessante la disciplina e l’area formativa, 6) ampliare la professionalità del docente, 7) coinvolgere i soggetti della società civile nel compito educativo (alternanza formativa), 8) ampliare e concretizzare la valutazione (autovalutazione). 105 Proposta La qualità dei percorsi formativi richiede soprattutto la presenza di una pro- posta educativa da parte dell’istituzione, entro cui si colloca una metodologia cen- trata sull’attivazione di strategie di apprendimento adeguate, che prevedano attività di orientamento ed accoglienza, progetti formativi personalizzati centrati su unità di apprendimento interdisciplinari ed a carattere laboratoriale, processi di accompa- gnamento e di tutoraggio che consentano l’ascolto del destinatario e l’individua- zione di eventuali fattori di criticità. Inoltre sono richieste pratiche di coinvolgi- mento della famiglia e di valorizzazione della rete territoriale. Ciò per far sì che l’apprendimento parta dall’esperienza, tramite laboratori di apprendimento (personali, sociali, professionali) specificati in compiti reali che ri- chiedono una integrazione delle diverse discipline o aree formative coinvolte. Questo al fine di realizzare un approccio che valorizza l’esperienza dei giovani e conduce in modo induttivo verso traguardi di sapere orientati a compiti concreti, valutati sulla base di specifici prodotti. Si tratta della questione centrale che caratterizza il successo dei percorsi speri- mentali e che è stata avvalorata dai vari monitoraggi, sollecitata ancor di più dalle segnalazioni critiche provenienti dagli utenti, dai familiari e dal personale impe- gnato là dove essa appariva incompleta o incerta. L’esperienza dei percorsi sperimentali, diversi dei quali si svolgono in intera- zione ed integrazione tra scuola e formazione professionale, ci insegna che, per av- viare percorsi di istruzione e formazione professionale di qualità è necessario per- sonale preparato dal punto di vista tecnico-professionale, ma anche fortemente mo- tivato in senso educativo e disposto al lavoro collegiale. Ciò garantisce un ethos educativo coinvolgente e consente di delineare progetti formativi unitari, ancorché personalizzati, in cui le diverse aree formative e funzioni concorrano al successo formativo dei destinatari. Serve soprattutto la figura del coordinatore-tutor, condizione indispensabile per l’affermazione di uno stile di lavoro collegiale che non si limiti alla raccolta delle valutazioni ma si concentri sul progetto di massima, persegua la personalizza- zione dei percorsi, sappia cogliere le opportunità e variare l’andamento del per- corso in funzione dei risultati e delle risorse. È necessario puntare sull’articolazione della figura del formatore docente, la qualificazione ed anche l’abilitazione del personale con interventi formativi mirati, non astratti ma tramite laboratori reali connessi ai progetti di innovazione delle pra- tiche professionali quotidiane. Serve infine un impegno dei dirigenti e delle figure di supporto perché si crei una comunità professionale dei formatori che condivida uno stile deontologico cen- trato sull’ethos educativo e formativo, partecipi alle attività innovative, si confronti al suo interno ed all’esterno al fine di arricchirsi tramite lo scambio e la riflessione sulle buone pratiche poste in atto. Di grande rilevanza, in tal senso, sono le condizioni per lo sviluppo di questo 106 impianto metodologico, a partire dal linguaggio formativo che viene utilizzato, dalla rilevanza delle prassi come fonte di apprendimento, dalla capacità di appren- dere dall’esperienza e quindi di rinnovare il corredo di competenze e conoscenze dei formatori e delle strutture formative, in una logica di miglioramento continua- tivo basato su comunità di pratiche. 107 BIBLIOGRAFIA AAMR, Ritardo mentale. Definizione, Classificazione e Sistemi di sostegno. Manuale, Vannini edi- trice, Brescia, 2005. AGOSTI A. (a cura di), La formazione, Interpretazioni pedagogiche e indicazioni operative, Angeli, Milano, 2006. ARGYRIS C. - D. SCHON, Apprendimento organizzativo, Guerini e Associati, Milano, 1998. BANDURA A. (a cura di), Il senso di autoefficacia, Erickson, Trento, 1997. BANDURA A., Autoefficacia. Teoria e applicazioni, Erickson, Trento, 2000. 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Il “familismo” del Sud . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25 4. I destinatari dell’istruzione e formazione professionale . . . . . . . . . . . . . . . . 26 4.1. Adolescenti che optano come prima scelta per il percorso di istruzione e formazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 4.2. Adolescenti e giovani provenienti dalla scuola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 4.3. Portatori di handicap . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28 4.4. Soggetti in situazione di difficoltà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 5. Criticità dei processi di apprendimento dei giovani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 5.1. Diversità e soggettivismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32 5.2. Carenze culturali di base . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 5.3. Sregolatezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 5.4. Problematica della motivazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 5.5. Resistenza latente all’apprendimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38 5.6. Problema dell’eccellenza e della distintività . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 5.7. Problema della valorizzazione di tutti gli apprendimenti “buoni” . . . . . . 40 6. Il difficile rapporto scuola-famiglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42 6.1. Linguaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 6.2. Ruolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44 6.3. Prospettiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44 7. Il quadro europeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 8. Il caso francese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 8.1. Valorizzazione dei percorsi professionalizzanti nell’ambito dell’articola- zione dell’offerta formativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 8.2. Validazione delle acquisizioni di tipo formale ed informale . . . . . . . . . . 49 8.3. Politiche di contrasto alla dispersione ed al disagio . . . . . . . . . . . . . . . . 51 9. Per una nuova stagione educativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52 112 Capitolo 2 APPRENDIMENTO DI COMPETENZE E PERSONALIZZAZIONE (Roberto Franchini) . . . . . 57 1. Per una teoria delle competenze multiple . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 2. Competenze multiple e formazione dell’uomo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62 3. Didattica delle competenze: per un nuovo setting scolastico . . . . . . . . . . . . 64 4. Didattica delle competenze e aree disciplinari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68 5. Didattica e personalizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70 6. L’assessment degli allievi nell’orizzonte della personalizzazione . . . . . . . . . 73 7. Il tutor, figura o funzione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 Capitolo 3 UNA PROPOSTA EDUCATIVA (Dario Nicoli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85 1. Regolazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87 2. Comunità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90 3. Coinvolgimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 92 4. Dotazione (cittadinanza) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94 5. Metodo misto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98 6. Alleanza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101 7. Stile formativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103 BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111 113 Pubblicazioni 2002-2007 nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” ISSN 1972-3032 1. Nella sezione “studi” 1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. 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Problemi e prospettive (in stampa) 114 2. Nella sezione “progetti” 23) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 24) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 25) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003 26) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004 27) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 28) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 29) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale alimentazione, 2004 30) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004 31) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004 32) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale estetica, 2004 33) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004 34) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale tessile e moda, 2004 35) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003 36) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffusione di una buona pratica, 2004 37) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004 38) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale grafica e multimediale, 2004 39) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale legno e arredamento, 2005 40) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale meccanica, 2004 41) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004 42) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, 2003 43) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa. Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d. 44) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003 45) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003 46) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003 47) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 48) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 49) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003 50) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui percorsi formativi, 2003 51) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il percorso quadriennale, 2005 52) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005 53) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005 115 54) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Percorsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005 55) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006 56) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006 3. Nella sezione “esperienze” 57) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003 58) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in itinere, 2003 59) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento finale, 2003 60) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage, 2003 61) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti, 2003 62) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordinatore delle attività educative del CFP, 2005 63) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i percorsi di istruzione e formazione professionale, 2006 64) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro polifunzionale diurno di Roma, 2006 65) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006. Rapporto finale, 2006 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net Settembre 2007

Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere

Autore: 
Guglielmo Malizia - Mario Becciu - Anna Rita Colasanti - Renato Mion - Vittorio Pieroni
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2007
Numero pagine: 
173
A cura di Guglielmo MALIZIA - Mario BECCIU - Anna Rita COLASANTI Renato MION - Vittorio PIERONI Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere CIOFS/FP 3 SOMMARIO INTRODUZIONE ............................................................................................................... 5 Parte I IL QUADRO TEORICO Capitolo 1 - Il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione: bilancio del dibattito (G. Malizia) ....................................................................................... 13 Capitolo 2 - L’adolescenza: quadro teorico di riferimento (M. Becciu - A.R. Colasanti) ............................................................. 33 Parte II L’INDAGINE SUL CAMPO Capitolo 3 - Metodologia, campionamento e identikit degli intervistati (V. Pieroni)......................................................................................... 57 Capitolo 4 - Gli allievi valutano la FP iniziale (G. Malizia) ....................................................................................... 67 Capitolo 5 - Il rapporto con i genitori e gli amici (M. Becciu - A.R. Colasanti) ............................................................. 83 Capitolo 6 - La dimensione esistenziale e valoriale (R. Mion) ........................................................................................... 91 Parte III CONCLUSIONI Capitolo 7 - Sintesi dei risultati dell’indagine (G. Malizia - M. Becciu - A.R. Colasanti - R. Mion - V. Pieroni)..... 121 APPENDICE - Il questionario........................................................................................... 145 BIBLIOGRAFIA ................................................................................................................ 163 INDICE ........................................................................................................................ 167 5 INTRODUZIONE A partire dagli anni ’80-’90 si registra nella Unione Europea la tendenza ad ampliare il diritto ad una educazione di qualità che ha portato ad allargare il concetto stesso di obbligo scolastico, riconoscendo a ciascun giovane il diritto- dovere a prolungare il processo di istruzione e formazione a motivo della necessità crescente di aumentare il proprio bagaglio di conoscenze e di competenze, ai fini di un inserimento attivo e responsabile nella vita sociale. Da più di dieci anni è in corso nel nostro Paese una crescita molto consistente della scolarizzazione secondaria e della frequenza universitaria, sostenuta dal note- vole aumento della domanda delle famiglie e dall’evoluzione della legislazione. Quanto a quest’ultima è bene ricordare la normativa più recente rappresentata dalla “Riforma Moratti” che ha realizzato un salto di qualità assicurando a ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età. Al tempo stesso va sottolineato che i dati che si posseggono mettono chiara- mente in evidenza una situazione della mobilità sociale e della dispersione scola- stica che, a dir poco, appare molto insoddisfacente (Sugamiele, 2006; Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, 2006). Infatti, resta alto il numero degli abbandoni nelle scuole superiori e continua a registrarsi una complessa soffe- renza formativa: percorsi accidentati, insuccessi scolastici, malessere psicologico, comportamenti antisociali (episodi di bullismo, atti di discriminazione razziale...), diffuso e scarso apprendimento e rendimento, pur in presenza di una costante fre- quenza. I momenti che maggiormente connotano l’esperienza formativa come stressante sono rappresentati dal passaggio fra cicli di studio con particolare riferi- mento alla transizione dalla scuola secondaria di 1° grado a quella di 2° grado e al sottosistema di istruzione e di formazione professionale. Tale transizione si presenta particolarmente delicata in quanto comporta, dal punto di vista psicologico, una temporanea disorganizzazione e una conseguente ristrutturazione di ruolo e, in un’ottica psicosociale, rappresenta un’occasione per verificare le proprie capacità e trovare una conferma positiva alla propria autostima nel confronto con i pari e con i propri insegnanti. Non accidentalmente molti abbandoni si registrano proprio in questo periodo. Nel caso poi degli iscritti alla formazione professionale (FP) tale condizione risulta anche più complessa, in primo luogo, per la posizione di svantaggio che caratterizza almeno la metà degli allievi a motivo delle condizioni di insuccesso scolastico e della provenienza da famiglie deprivate dal punto di vista culturale (ma non solo). Ma spesso la condi- 6 zione di “debolezza” che caratterizza gran parte di questi giovani è anche frutto di scelte sbagliate/inadeguate, figlie il più delle volte di attività di “disorientamento”. Va comunque sottolineato che un quinto degli allievi del nostro campione era stato consigliato di iscriversi ai licei e agli istituti tecnici e il dato potrebbe costituire un primo segnale del cambiamento nelle famiglie e nei giovani della percezione della FP, sempre che lo sforzo di assicurare la parità sostanziale con gli altri percorsi del 2° ciclo venga continuato e non bloccato per motivi politici. Questo diritto a una istruzione e formazione prolungata per tutti i giovani, in Italia ha trovato la sua consacrazione ufficiale nella “Riforma Moratti”, come si è osservato sopra, e la sua attuazione concreta sul piano strutturale con l’approva- zione del D.Lgs. 76/05, che definisce le norme generali sul diritto-dovere all’istru- zione e alla formazione. Nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arco della vita, esso ribadisce l’impegno della L. 53/03 a garantire a tutti uguali opportunità di conseguire livelli culturali elevati e di sviluppare capacità e competenze adeguate a una transizione soddisfacente nella società e in particolare nel mondo del lavoro. Sulla base di questi ordinamenti i giovani incominciano a fruire concretamente del diritto-dovere con l’iscrizione alla scuola primaria e nella secondaria di 1° grado tale tutela si traduce almeno nell’organizzazione da parte delle scuole di iniziative di orientamento. Quanti poi ottengono il titolo del 1° ciclo passano ad un istituto del sistema dei licei o del sistema di istruzione e di formazione professionale fino al conseguimento di un diploma liceale o di un titolo o di una qualifica professionale di durata almeno triennale. L’obiettivo del presente rilevamento afferisce quindi alla necessità di docu- mentare su scala nazionale la ricaduta sulla maturazione degli allievi dei percorsi sperimentali triennali del diritto-dovere offerti dei Centri di Formazione Professio- nale (CFP) che fanno capo agli Enti di ispirazione cristiana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP. L’indagine ha preso avvio nell’inverno 2005 con l’elaborazione di uno stru- mento di rilevamento da applicare ai giovani che frequentavano i percorsi appena menzionati. Dalla somministrazione sono rientrati oltre 3.000 questionari, in pra- tica pressoché l’universo degli allievi dei percorsi del diritto-dovere dei due Enti. Allo scopo di facilitare l’elaborazione dei dati, si è estratto un campione significa- tivo di 1.130 utenti, in grado di rappresentare le diverse caratteristiche dell’utenza in base alle circoscrizioni geografiche, alla tipologia dei gestori in base agli Enti di riferimento e all’appartenenza ad una specifica comunità professionale. Il report, quindi, dopo una prima presentazione introduttiva sugli obiettivi sottesi al rilevamento, si sviluppa in tre parti. La prima illustra il quadro teorico sotteso alla problematica analizzando il dibattito sul diritto-dovere (capitolo 1) per passare quindi allo studio sull’ado- lescenza ed ai principali compiti di sviluppo che caratterizzano questa particolare fascia d’età (capitolo 2). 7 La seconda parte della pubblicazione riporta i risultati conseguiti nell’inda- gine, esaminandoli separatamente per aree: l’identikit degli allievi in base alle prin- cipali variabili anagrafiche (capitolo 3); il percorso formativo, pregresso e attuale, le valutazioni emesse e le prospettive future sulla base delle scelte che si prevede di effettuare (capitolo 4); le loro relazioni familiari e amicali (capitolo 5); il sistema di significato dei giovani e la presenza o meno dei fattori protettivi in grado di predire il successo o meno della formazione ricevuta anche in termini di matura- zione umana globale, senza la quale il processo educativo non può considerarsi completato (capitolo 6). La terza parte offre una sintesi prospettica dei principali risultati conseguiti (capitolo 7), prefigurando la ricaduta positiva delle attività corsuali sull’intero sistema di istruzione e formazione. Seguono l’appendice (che riporta lo strumento di rilevamento) e la biblio- grafia. Nonostante la situazione di partenza per molti versi svantaggiata del nostro campione, i percorsi del diritto-dovere e in particolare la FP iniziale triennale tutta nella FP sono riusciti a far compiere alla grande maggioranza un vero salto di qua- lità. Siccome i dati che attestano tale successo formativo sono dispersi all’interno di varie domande dell’inchiesta e, quindi dei capitoli del rapporto, presentiamo una prima sintesi dei principali risultati conseguiti. Cominciamo dalle motivazioni sottese alla scelta e/o all’iscrizione nella FP: una tra le più segnalate riguarda infatti la funzionalità dei corsi per un inserimento rapido e con successo nel mercato del lavoro, senza tuttavia mancare di eviden- ziarne anche le potenzialità di un generale recupero formativo. Quest’ultimo aspetto viene sottolineato nelle indicazioni – che vengono offerte dai giovani – delle esigenze educative da tenere maggiormente in considerazione nel percorso, indicazioni che stanno a dimostrare che la frequenza dei CFP del CNOS-FAP e CIOFS/FP ha fatto maturare in questi giovani l’apprezzamento per la formazione globale della loro personalità. Il riconoscimento del valore della FP iniziale risulta anche evidente dall’aumento nel tempo degli iscritti con un crescendo di quasi il 10% all’anno. Un ulteriore apprezzamento verso questi percorsi viene attestato dalle alte valutazioni che sono state date circa i contenuti, le metodologie e l’organizzazione e la loro corrispondenza alle proprie attese. Anche nei confronti degli stessi forma- tori i giudizi sono apparsi alquanto positivi. Tuttavia, seppure la maggioranza am- metta di non incontrare adesso particolari difficoltà nel proprio percorso formativo rispetto a pregresse esperienze, gli intervistati suggeriscono di potenziare l’orienta- mento, le attività laboratoriali, l’utilizzo di tecnologie informative e l’alternanza. Inoltre, più del 30% propone di introdurre il IV anno, dimostrando un bisogno diffuso di completamento dei percorsi formativi del diritto-dovere, che andrebbe senz’altro soddisfatto dal Governo nazionale e dalle Amministrazioni locali. 8 A siglare il successo di questi percorsi viene poi il dato secondo cui la grande maggioranza non ha mai pensato di abbandonare il corso. Solo il 15% ha immagi- nato un trasferimento ad istituti scolastici, ma su questo andamento ha sicuramente inciso il recupero formativo operato dalla FP iniziale. Il valore aggiunto di questi percorsi va riscontrato nelle prospettive di futuro che sono riusciti a far maturare negli allievi soprattutto se confrontate con la condi- zione di svantaggio misurata in partenza. A questo punto è opportuno richiamare alla lettera i dati: gli intervistati prevedono di godere di possibilità almeno digni- tose di trascorrere una vita familiare serena, di avere dei buoni amici su cui contare, di godere di buona salute, di trovare un lavoro soddisfacente, di essere rispettati all’interno della propria comunità e di avere una casa propria. Inoltre, il 60% circa prende in seria considerazione la probabilità di conseguire un diploma di scuola superiore e un altro 25% di andare all’università o di fare un corso di specializza- zione post-diploma. Va aggiunto anche il dato, già citato sopra, di oltre 30% che vorrebbe completare il percorso del diritto-dovere con la frequenza di un IV anno che consentisse di acquisire un diploma professionale. In rapporto alla formazione globale della personalità di questi giovani è possi- bile arrivare a ricostruire la presenza, all’interno del totale degli intervistati, di due sottocampioni caratterizzati dalla concatenazione di una serie di variabili che lungo l’analisi si sono strettamente intrecciate/correlate tra loro, in considerazione del costante ripresentarsi in rapporto alle variegate tematiche prese in considerazione nell’indagine. Il primo si contraddistingue per un cluster di caratteristiche quali: l’estrazione da condizioni di precarietà in base alla situazione socio-economica e culturale della famiglia, uno stato di “debolezza” lungo l’intero percorso scolastico-formativo per essere andati incontro a uno o più insuccessi scolastici o comunque l’aver avuto a che fare con pregresse difficoltà incontrate lungo il percorso, l’attuale demotiva- zione a continuare gli studi e, di conseguenza, anche l’inclinazione a cambiare il presente corso e il mancato sostegno in questo gruppo di una fede religiosa. All’interno di questo sottocampione si osserva che degli aspetti menzionati si fanno interpreti in modo particolare i maschi, e quindi gli utenti del CNOS-FAP, l’età di mezzo (16-17 anni), i residenti nelle Regioni del nord. Nei confronti di questo gruppo, a più riprese definito dello “svantaggio”, che però è risultato alquanto con- tenuto, le trasgressività costituiscono indubbiamente un sintomo di disagio interno, “comunicato” poi esternando azioni poco approvabili; azioni che a loro volta nel tempo potrebbero diventare veicoli “predittivi” di un possibile scivolamento verso una condizione di “vulnerabilità” e/o di rischio. Tuttavia i dati attestano che i portatori di queste “vulnerabilità” rappresentano una ristretta minoranza se rapportati all’insieme degli intervistati, mentre la grande maggioranza è composta dalla quota di allievi contraddistinta dalle variabili opposte a quelle riportate sopra. In pratica si caratterizza per la totale assenza di “debolezze” formative e di comportamenti difficili e/o a rischio e, viceversa, per 9 il possesso di un sostenuto patrimonio valoriale e di maturazione globale della personalità, manifestando così di possedere un bagaglio di fattori “protettivi”. Tutto questo può essere ritenuto frutto anche della maturazione conseguita frequentando i percorsi triennali sperimentali tutti nella FP dei CFP. In questo secondo gruppo si sono distinte in particolare le femmine, e con esse il CIOFS/FP, gli utenti delle regioni centro-meridionali, i più giovani, i credenti e praticanti e chi non accusa particolari difficoltà nel corso che sta frequentando. Al tempo stesso va anche osservato che gli allievi del CNOS-FAP al momento dell’iscrizione ai percorsi del diritto-dovere si presentavano più svantaggiati quanto all’origine familiare e più problematici riguardo alla loro esperienza scolastica In ogni caso l’andamento d’insieme dei risultati conseguiti attesta che la gran parte di questi giovani nell’andare incontro alle inevitabili difficoltà della transizione alla vita attiva appare già sufficientemente attrezzata di quelle “armi” e/o delle strategie necessarie per fronteggiarle e dare loro adeguata soluzione. Ben pochi fuggono e/o evitano di scontrarsi e di confrontarsi con il problema, semmai può succedere che non sempre si scelga la soluzione migliore, ma in questi casi saranno le esperienze della vita a ri-orientare a trovare quella più adatta. La ricaduta delle sperimentazioni sui percorsi del diritto-dovere induce a sostenere che il maggiore pluralismo dell’offerta favorisce indubbiamente il suc- cesso formativo di una larga fascia di giovani e che gli approcci che fanno riferi- mento a tale prospettiva risultano, rispetto alle tradizionali proposte formative, maggiormente in grado di favorire l’elevazione culturale, professionale, morale, spirituale e religiosa dei giovani e in particolare delle componenti in difficoltà e/o in condizioni di svantaggio. Si ringraziano le Sedi nazionali, le Delegazioni Regionali del CNOS-FAP e le Associazioni Regionali del CIOFS/FP per la disponibilità offerta nel voler realiz- zare il rilevamento, ma un grazie particolare va indirizzato soprattutto agli oltre 3.000 allievi che hanno partecipato attivamente all’iniziativa compilando il questio- nario e a tutti quei formatori/coordinatori dei corsi che hanno collaborato sommini- strandolo. Parte I IL QUADRO TEORICO 13 Capitolo 1 Il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione: bilancio del dibattito Guglielmo MALIZIA I giovani, la cui identità si sta cercando di disegnare in tutti i particolari rilevanti con la presente ricerca, sono gli allievi dei percorsi del diritto-dovere. La situazione formativa nella quale si trovano immersi per tanta parte delle loro giornate non costituisce certamente una variabile ininfluente sul loro identikit, ma rappresenta un fattore decisivo, in positivo e in negativo, della loro maturazione; pertanto non poteva mancare un approfondimento del tema. A questo fine l’argomento verrà analizzato sotto due prospettive: una che sarà tributaria principalmente della rifles- sione pedagogica e l’altra che si focalizzerà prevalentemente sull’evoluzione delle politiche educative del nostro Paese. 1. La prospettiva pedagogica Certamente non è questo il contesto adatto per delineare la lunga evoluzione attraverso cui è passato il diritto all’educazione sul piano pedagogico, anche solo a partire dall’art.26 della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” (UNESCO, 2000). Mi limiterò pertanto alle vicende più recenti, concentrando l’attenzione sugli sviluppi che si sono verificati durante gli anni ’80 e ’90. In pratica articolerò il discorso che segue distinguendo tra i contenuti e i soggetti, da una parte, e le stra- tegie, dall’altra, e dedicando al termine una considerazione specifica alla evoluzione in atto dal concetto tradizionale e benemerito di obbligo scolastico a quello più nuovo e promettente di diritto all’istruzione e alla formazione. 1.1. I contenuti del diritto all’educazione e i soggetti protetti Come si è anticipato sopra, gli anni ’80 e ’90 hanno segnato l’allargamento del diritto all’educazione, caratterizzato prevalentemente dai tratti della quantità, dell’uniformità e dell’unicità, fino a comprendere gli aspetti della qualità, della dif- ferenziazione e della personalizzazione (UNESCO, 2000; Malizia, 2004). Pertanto non basta assicurare l’accesso di tutti all’istruzione e alla formazione e l’egua- glianza dei risultati fra i vari strati sociali, ma è necessario garantire il diritto a un’educazione di qualità. Infatti, il problema non è solo di svantaggio economico, 14 ma anche (e soprattutto) di disparità culturali, per cui si richiedono processi di inse- gnamento-apprendimento efficaci, tali cioè da compensare le differenze tra allievi di gruppi sociali diversi. Nella stessa prospettiva, si dovrà anche contemperare unità e diversità, tutela ed eccellenza. Ambedue i poli esprimono esigenze valide e rilevanti: da una parte la difesa dei più deboli, la giustizia e l’oggettività e dall’altra la qualità, l’efficienza e la personalizzazione. La composizione non è impossibile, ma di fatto si è finora preferito rifugiarsi nell’uniformità di comportamenti e di trattamenti. L’uniformità però non garantisce l’eguaglianza delle opportunità e la protezione delle fasce più deboli. Ignorando le differenze, vengono lasciate intatte le diseguaglianze esistenti di fatto e, inoltre, risulta alla fine premiata la mediocrità di chi non fa niente oltre il minimo. A maggior ragione l’uniformità non assicura la qualità: questa è più diffusa a livello locale di quanto si possa immaginare sulla base delle vicende delle riforme globali, ma le iniziative valide rimangono isolate e ignorate perché l’uni- formità non riesce a utilizzare la vivacità diffusa alla base, come stimolo e spinta all’innovazione del sistema. Un altro orientamento è consistito nel potenziamento della scuola come istitu- zione della comunità. La riduzione e l’eliminazione delle diseguaglianze di oppor- tunità non possono essere realizzate senza il coinvolgimento dei gruppi che soffro- no direttamente dell’impatto delle disparità. Pertanto, è imprescindibile che gli strati emarginati partecipino alla gestione delle singole unità scolastiche, assumendo un ruolo attivo nella loro conduzione e, in particolare, nella lotta alle diseguaglianze. La scuola dovrà divenire veramente scuola di tutta la comunità, cioè essere per la comunità e della comunità, come al tempo stesso la comunità è per la scuola e della scuola. Da una parte, la scuola andrà orientata alla formazione dei singoli membri della comunità e alla crescita civile dell’intera comunità; di conseguenza, può con- tare sulla collaborazione della comunità per realizzare le sue finalità. Contempora- neamente la comunità mette a disposizione della scuola le sue risorse e prende parte democraticamente e responsabilmente alla sua vita e gestione. Il diritto all’educazione, mentre si è esteso e diversificato sul piano dei conte- nuti, ha dato vita in riferimento ai soggetti tutelati a principi autonomi. In proposito si può ricordare anzitutto quello dell’eguaglianza fra i due sessi. In generale, se è vero che l’eguaglianza formale tra l’uomo e la donna di fronte all’educazione è stata sostanzialmente raggiunta, non si può dire lo stesso per l’eguaglianza delle opportunità, rispetto alla quale gli sforzi compiuti non hanno portato a risultati pienamente soddisfacenti. Un altro principio che è legato al diritto all’educazione è rappresentato dal- l’educazione interculturale. Esso consiste nella messa in rapporto delle culture, nella comunicazione reciproca, nell’interfecondazione, mentre esclude l’assimila- zione. Rientra nello stesso quadro il principio dell’integrazione degli handicappati nella scuola ordinaria, che può essere enunciato nei seguenti termini: rispondere ai 15 bisogni di tutti gli alunni e di ciascuno; dare risposte differenziate perché gli alunni sono diversi; fornirle all’interno della scuola ordinaria. 1.2. Le strategie Ho ritenuto opportuno raggrupparle intorno alle tre componenti fondamentali del diritto all’educazione: eguaglianza, differenziazione e corresponsabilità (UNESCO, 2000; Malizia, 2004). 1.2.1. Le strategie dell’eguaglianza Una prima strategia consiste nella messa in opera delle “aree prioritarie nel- l’istruzione”. Si tratta più specificamente di focalizzare gli interventi su zone a rischio, di attribuire a tali azioni un carattere di vera e propria “campagna”, di pro- muovere l’impegno congiunto fra l’istituzione scolastica, lo Stato, gli enti locali ed altri soggetti istituzionali e di organizzare progetti speciali a servizio di giovani in difficoltà. L’approccio ha il vantaggio di essere unitario, globale e mirato su un’area precisa, senza rischi di interventi a pioggia. A continuazione delle “aree prioritarie” sarà anche necessario procedere a un cambiamento delle logiche che presiedono al governo della scuola, nel senso di concentrare l’azione sulle situazioni che si trovano più divaricate dalla media sia in negativo che in positivo. Bisognerà, pertanto, creare delle reti di qualità che permettano di stimolare, aiutare, verificare e diffondere le innovazioni. Una terza strategia consiste nell’introdurre un sistema nazionale di valutazione per definire gli interventi. Globalmente si dovranno individuare i livelli conseguiti sul piano nazionale; quanto, poi, a ciascuna scuola si cercherà di determinare le istituzioni particolarmente valide e le più carenti; inoltre, sul piano della relazione formativa bisognerà puntare a definire la situazione di ciascun allievo per indivi- dualizzare gli interventi. L’introduzione di tale sistema richiede a monte la fissa- zione di standard minimi di istruzione su tutto il territorio nazionale. 1.2.2. Le strategie della personalizzazione Un primo orientamento consiste nell’attuazione di una pedagogia personaliz- zata. Questa significa fondamentalmente la messa in opera di quattro strategie: diversificazione dei contenuti dell’insegnamento secondo le potenzialità e l’inte- resse di ciascuno, differenziazione degli obiettivi (eguali nelle conoscenze fonda- mentali e diversi negli altri settori in base alle capacità e agli interessi degli allievi), diversificazione dei metodi e differenziazione temporale che vuol dire il riconosci- mento ad ogni alunno della possibilità di studiare secondo il ritmo più confacente. Quanto alla parità tra i sessi, un primo gruppo di interventi riguarda i fattori che incidono sulle scelte scolastiche e professionali della donna. In proposito si raccomandano strategie quali: evitare le scelte precoci rispetto alle quali genitori e insegnanti esercitano di solito una forte incidenza; creare passerelle tra i vari tipi di scuole e di indirizzi; coscientizzare i protagonisti dei processi formativi circa 16 le problematiche della scelta femminile; potenziare le relazioni tra le strutture educative e le produttive. Un’altra serie di azioni è rivolta a evitare la metacomu- nicazione di stereotipi sfavorevoli alle donne: si tratta fra l’altro di rivedere in senso egualitario i sussidi didattici e di espandere la presenza femminile nei posti di autorità all’interno del sistema formativo. L’educazione interculturale richiede di guardare agli immigrati non come a cittadini di serie B, ma di serie A con diritti e doveri eguali ai nazionali e, quindi, di riconoscere loro un ruolo attivo nella elaborazione, scelta e messa in opera delle strategie educative. Inoltre, si dovranno ridisegnare le funzioni, i contenuti e i me- todi della scuola in modo da porre fine ad ogni eventuale monoculturalismo di tale istituzione. Bisognerà anche focalizzare prioritariamente gli interventi di natura in- terculturale sull’educazione prescolastica, l’istruzione dell’obbligo e la formazione professionale. Infine, le strategie educative dovranno essere inquadrate in una poli- tica sociale più ampia, rivolta a valorizzare l’apporto delle famiglie, in particolare delle madri, e del contesto socio-culturale. L’integrazione degli handicappati non può essere affrontata da un operatore singolo, fosse pure l’insegnante di sostegno, o da un’istituzione isolata, ma esige un intervento collettivo e concertato a livello di scuola che sia sostenuto sul terri- torio da una rete efficace di servizi educativi e sociali. Ogni istituto dovrà darsi, nello svolgimento dell’attività educativa, un programma organico di azione entro un quadro generale determinato a livello locale, regionale e nazionale. L’elabora- zione del progetto educativo è chiamata ad articolare in modo coerente una serie di interventi: la diagnosi della situazione di partenza; l’individualizzazione attiva dell’atto educativo; la presa in considerazione dei ritmi differenti di apprendimento di ciascun allievo; l’adattamento dei contenuti dell’insegnamento; la messa in opera di modalità differenziate d’azione; il lavoro di gruppo (l’équipe scolastica degli insegnanti ordinari e di sostegno e l’équipe dei docenti allargata in modo da comprendere specialisti esterni di vario genere); la messa a disposizione di varie risorse umane e tecniche. 1.2.3. Le strategie della corresponsabilità Anzitutto l’autonomia e il progetto educativo costituiscono strumenti privile- giati per realizzare il passaggio dallo Stato assistenziale alla società solidale nel sistema formativo. Infatti, essi permettono la costituzione e il funzionamento di una sede intermedia di aggregazione sociale in cui le libertà dei singoli utenti si incontrano per gestire insieme correponsabilmente la risposta ai bisogni educativi. Inoltre, è condizione indispensabile perché l’unità scolastica possa costruirsi sulla libertà e l’accordo dei soggetti educativi – studenti, docenti, genitori e forze sociali. Più in particolare, l’autonomia dovrebbe assicurare l’esercizio della respon- sabilità educativa da parte del singolo istituto in un quadro unitario garantito dal centro. A questo spetterebbe la propulsione politica, in particolare la tutela del- l’eguaglianza delle opportunità, della libertà e della qualità su tutto il territorio 17 nazionale; a sua volta l’unità scolastica dovrà diventare centro di attribuzione di tutti i poteri che le garantiscano il controllo sul complesso delle condizioni del suo funzionamento, in modo da poter fornire risposte efficaci alle domande di forma- zione e di lavoro che provengono dalla società. In sintesi, bisogna ridistribuire le funzioni tra il centro e la periferia secondo i principi della distinzione e della complementarità al fine di decentrare le decisioni e di accentrare i controlli. Una malintesa interpretazione della dimensione professionale e della libertà di insegnamento determina attualmente una scarsa regolabilità del comportamento degli insegnanti e fanno della singola unità scolastica un’organizzazione “disin- tegrata”. Più che essere al servizio della propria scuola, ciascun docente si serve di essa come di un strumento per realizzare i propri interventi formativi in una rela- zione quasi privatistica con gli utenti. Pertanto la singola unità scolastica diventa incapace di stabilire in modo riflesso obiettivi di sistema e il prodotto della sua azione globale si presenta del tutto casuale. In sostanza essa attualmente non è in grado di gestire in prima persona e con un progetto unitario le relazioni con il contesto sociale. Per ovviare al problema accennato, la strategia principale d’azione va ricercata nella crescita e nella diffusione di un’adeguata cultura organizzativa che significa fondamentalmente sviluppo della capacità di avviare prassi progettuali di sistema. In altre parole, bisognerà anzitutto passare dall’attuale approccio organizzativo individualistico e disintegrato ad uno integrato che si traduca in proposte unitarie qualificanti di istituto e di classe. In secondo luogo, la dimensione progettuale non può essere solo una caratteristica dell’azione del singolo operatore, ma deve conno- tare l’attività di tutto il sistema: essa trova il luogo più appropriato di realizzazione negli organi collegiali. Inoltre, la programmazione dovrà includere come compo- nente imprescindibile il controllo; altrimenti i risultati dell’azione organizzativa continueranno a presentarsi come casuali. Una terza strategia della corresponsabilità consiste nel riconoscimento reale e piano da parte dello Stato della libertà di educazione, cioè della libertà di scelta della scuola da frequentare secondo le proprie convinzioni. Questa può contare al- meno su tre giustificazioni molto significative: il diritto di ogni persona ad educarsi e a essere educata secondo le proprie convinzioni e il correlativo diritto dei genitori di decidere dell’educazione e del genere d’istruzione da dare ai loro figli minori; il modello dell’educazione permanente la cui attuazione è assicurata non solo dalle istituzioni formative statali, ma anche da una pluralità di strutture educative pub- bliche o private che, in quanto operano senza scopo di lucro, hanno diritto di rice- vere adeguate sovvenzioni statali; l’emergere nelle dinamiche sociali fra Stato e mercato di un “terzo settore” o del “privato sociale” che, creato dall’iniziativa dei privati e orientato a perseguire finalità di interesse generale, sta ottenendo un so- stegno sempre più consistente dallo Stato a motivo delle sue valenze solidaristiche. Non bisogna neppure dimenticare che le ragioni dell’autonomia sono le stesse che fondano la parità. Alla base di ambedue le strategie si riscontra la stessa 18 idea del primato della società sullo Stato. Inoltre, autonomia e parità si costrui- scono sulla libertà dei soggetti educativi. In terzo luogo, esse si presentano come istituti capaci di dare un contributo valido per affrontare in modo vincente la questione centrale nell’attuale dibattito sull’istruzione in Italia che è quella della qualità. 1.3. Obbligo o diritto-dovere? In questo momento si registra in Europa una tendenza interessante all’allarga- mento del concetto stesso di obbligo scolastico in modo da arrivare a un sintesi piena con il diritto all’educazione attraverso il riconoscimento del diritto-dovere per ciascun giovane a una istruzione e formazione prolungata (Malizia - Nanni, 2000a). La ragione principale consiste nel fatto che l’inserimento nella società esige in tutti i campi un livello di conoscenze e di competenze accresciute rispetto al passato. Questa strada può assicurare ai giovani un’ampia preparazione di base idonea a promuovere la crescita personale, l’orientamento, la prosecuzione degli studi, l’inserimento nell’attività lavorativa e la partecipazione responsabile alla vita democratica. Il diritto a una istruzione e formazione prolungata per tutti i giovani si traduce sul piano strutturale in una serie di orientamenti fondamentali. Anzitutto, la scuola secondaria deve essere una scuola aperta a tutti, che offre a ciascuno le opportunità più ampie di apprendere, che evita gli sbocchi senza uscita verso livelli superiori, che in tutte le “filiere” conserva elementi essenziali comuni, che consente di rettifi- care le proprie scelte in itinere e che prevede ponti o moduli di collegamento tra i vari indirizzi. Inoltre, si raccomanda di assicurare la trasparenza e la semplicità delle strutture, una definizione chiara della identità delle opzioni e degli indirizzi, l’indicazione di sbocchi reali e realistici. Il punto più delicato è quello che riguarda la realizzazione di un mix di inte- grazione e di diversificazione. Per quanto riguarda la prima è essenziale realizzare due tipi di integrazione. Anzitutto tra diversi livelli del sistema e in particolare fra la istruzione e la formazione secondaria e l’università. Una seconda forma va attuata all’interno della stessa scuola secondaria tra i cicli, le sezioni e le classi, combattendo la frammentazione mediante la definizione di aree comuni di cono- scenze e di competenze, la garanzia della compatibilità dei metodi e la prepara- zione di progetti unitari di istituto. Da questo punto di vista è anche importante un rinnovamento dei programmi dell’istruzione secondaria che preveda un’asso- ciazione stretta fra la pratica e la teoria. Al tempo stesso, la diversificazione dovrà essere la più ampia nel senso che l’istruzione e la formazione potranno essere a tempo pieno o a tempo parziale, e generale, tecnica o professionale anche se questa distinzione tende a perdere d’im- portanza, e dovrà coinvolgere oltre alla scuola, la formazione professionale e le diverse agenzie di socializzazione interessate. Nel contesto di tale differenziazione si tende ad assicurare un sistema adeguato di passerelle tra i vari indirizzi. 19 Un problema che si pone a questo riguardo in molti Paesi europei è costituito infatti dalla percentuale consistente di insuccessi scolastici nella scuola secondaria. Non tutti i giovani sono motivati a frequentare una scolarità lunga di tipo generale e in certi Paesi soprattutto di forte immigrazione il tasso di insuccesso può raggiun- gere un terzo degli iscritti. La diversificazione è probabilmente l’unica via di uscita sul piano strutturale: in altre parole deve rimanere il diritto a una istruzione e for- mazione prolungata, ma le forme possono essere varie. Quello che è importante è evitare di imporre gli stessi standard, obiettivi, contenuti, metodi a tutti, indipen- dentemente dalle abilità e dalle attese di ciascuno. 2. Il recente cammino delle riforme ordinamentali in Italia È da oltre cinquant’anni che nel nostro Paese si discute della esigenza di rifor- mare la l’istruzione e la formazione pubblica (Malizia - Nanni, 2000b). Messo fine al fascismo, si è cercato di dare corso a varie iniziative specifiche di riforma scolastica, formativa e più largamente educativa, nel contesto della ricostruzione democratico-repubblicana (nuove elementari, scuola media unica, scuola materna e relativi programmi). Durante gli anni ’70 e ’80 si sono avute una serie di “micro- riforme” (decreti delegati, organi collegiali, integrazione degli handicappati, nuovi programmi della media, delle elementari e della materna), che hanno cercato di dare qualità democratica, respiro all’innovazione culturale, stimolo alla sperimen- tazione, alla creatività personale e alle soggettività locali. Nel corso dei primi anni ’90 per un verso si è cercato di collegare scuola, famiglia, società, problemi giovanili, ad evitare il disagio, la devianza, il malessere e ricercare la buona qua- lità della vita (cfr. il Progetto giovani, educazione alla salute, lotta alla tossico- dipendenza), per altro verso di riformare le medie superiori attraverso la via della sperimentazione innovativa (cfr. i Programmi sperimentali Brocca, scuole sperimentali). Peraltro verso la metà degli anni ’90, nei programmi politici dei nuovi schiera- menti politici (l’Ulivo di centro-sinistra e il Polo delle Libertà di centro-destra), il problema della scuola e della formazione è diventato un punto di primaria impor- tanza, espressamente enfatizzato nei programmi e nella propaganda elettorale. In effetti era emersa con chiarezza l’inadeguatezza del sistema di istruzione a rispondere a una domanda in rapida crescita che esprimeva i bisogni di una realtà familiare e sociale e di un mondo produttivo in profondo cambiamento. Ma mentre durante gli anni ’80, la priorità era stata data alla riforma della secondaria superiore (senza però che si riuscisse a varare un provvedimento che ottenesse il consenso dei due rami del Parlamento), nella decade ’90 si è andata diffondendo nell’opi- nione pubblica la convinzione che non bastasse intervenire sull’uno o l’altro dei livelli dell’istruzione per risolvere i problemi alla radice, ma che si dovesse proce- dere a una ridefinizione dell’intera struttura. 20 2.1. Un diritto ancora inattuato Prima di presentare sinteticamente il percorso delle riforme in relazione al diritto all’educazione, è opportuno redigere un sintetico bilancio della realizzazione del diritto stesso. I dati che si posseggono mettono chiaramente in evidenza una situazione che, a dir poco, appare molto insoddisfacente (Sugamiele, 2006; Audi- zione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, 2006). Un primo dato riguarda il tasso di mobilità sociale del nostro Paese che è fermo al 6% rispetto per esempio al 20% degli Stati Uniti. Di questa situazione una parte rilevante di responsabilità è da attribuirsi al sistema scolastico che tende a riprodurre la stratificazione esistente, che trova grosse difficoltà a promuovere l’ascesa di chi appartiene ai ceti meno abbienti. I giovani delle famiglie di status sociale o culturale basso dispongono solo del 18% di opportunità di essere pro- mossi fino ai 14 anni e il 2,7% di laurearsi. Tale andamento va collegato a un sistema scolastico che risulta molto aperto negli accessi, ma al tempo stesso selettivo nei risultati perché fa leva sull’uniformità degli itinerari educativi, ritenendola sufficiente ad assicurare l’eguaglianza delle opportunità. Un altro fattore della situazione appena ricordata si può ricercare nel capitale culturale delle famiglie. Richiamo solo un dato per tutti: sono i tre quarti circa (73,4%) dei diplomati che possono vantare un padre munito di laurea a essere iscritti all’università, mentre la percentuale scende a poco più del 40% (42.6%) per i figli dei diplomati, a un quarto circa (26.9%) per i ragazzi con padre in possesso di licenza media e a neppure un quinto (17.7%) per i giovani il cui genitore può contare unicamente su una licenza elementare. In sintesi, l’opportunità di diplomarsi e di laurearsi aumenta in modo rilevante tra gli studenti che appartengono a famiglie di laureati e questa situazione condiziona in maniera evidente la scelta degli studi nella secondaria di 2° grado e nell’istruzione superiore. E va anche aggiunto che l’unifor- mità e la rigidità dei nostri percorsi educativi non solo non riesce a vincere i condizio- namenti sociali,ma non sembra neppure capace di rispondere alle differenze di genere. Analoga problematicità emerge dai dati sulla dispersione scolastica e forma- tiva. Anzitutto, è la scuola media a deludere grandemente in quanto non riesce a qualificarsi come capace di promuovere lo sviluppo globale della personalità di tutti o quasi i nostri ragazzi, portandoli a esiti diffusamente positivi. Infatti, più del 10% dei suoi alunni risulta in ritardo, il 40% circa (37.4%) ottiene agli esami finali solo il minimo di sufficiente e poco oltre un quarto (25.9%) ha riportato una valuta- zione di buono: in altre parole, è un 40% appena a conseguire risultati pienamente soddisfacenti. Anche in questo caso il fattore principale di tale inefficacia sembra vada ricercato nella incapacità o nella mancata volontà di organizzare un’offerta in grado di venire incontro alle esigenze formative differenziate degli alunni, incomin- ciando con il mettere a profitto le 160 ore annue del curricolo che la L. 517/77 aveva previsto per iniziative di sostegno e per interventi individualizzati. La situazione non è migliore a livello di scuola secondaria. Il dato positivo è la crescita imponente della domanda delle famiglie di assicurare ai loro figli la 21 continuazione della istruzione e della formazione dopo la media. Pertanto, alla vigilia della entrata in vigore della L. 9/99 sull’innalzamento dell’obbligo scola- stico la quasi totalità dei licenziati della media (94.5%) si iscriveva alla secondaria superiore. Nonostante la presenza di condizioni sociali particolarmente favorevoli, il risultato dell’applicazione della legge appena richiamata è stato a dir poco disa- stroso. Nel biennio successivo la percentuale di “drop-out” si è collocato su livelli molto rilevanti, in particolare negli istituti professionali e tecnici dove si è anche superato il 30% degli iscritti. Inoltre, “[...] circa il 16,5% (a.s. 2000/01; dato presso- ché invariato negli anni successivi 2002 e 2003) dei giovani ha abbandonato gli studi nel corso dell’ultimo anno dell’obbligo (il quindicesimo anno) o al termine dell’obbligo scolastico non si è iscritto in alcun percorso di istruzione e di forma- zione. Si tratta di circa 240.000 giovani dai 15 ai 18 anni che nel primo triennio di applicazione dell’obbligo formativo sono rimasti fuori di qualsiasi percorso formativo, anche nell’apprendistato. La struttura prevalentemente generalista del- l’istruzione, determinata da un continuo processo di licealizzazione dell’istruzione tecnica e professionale, non ha condotto al successo e ha lasciato il 33% dei gio- vani in età fuori del percorso formativo, segno evidente che non basta una legge che obbliga alla frequenza e che l’attuale modello scolastico non riesce a dare risposta a una domanda diffusa e diversificata di formazione” (Sugamiele, 2006, 35). Altrettanto drammatica appare la situazione del ritardo di scolarità nella scuola secondaria e non solo. Secondo i dati del 2003-04, già nella prima primaria si riscontra un 2% di alunni in questa situazione che poi si raddoppiano in quinta (3.9%); inoltre, nel passaggio alla secondaria di 1° grado si verifica un ulteriore rad- doppio (7.3%). Un vero balzo in avanti, nel senso che il dato si triplica, si riscontra tra il 10.5% del terzo anno della secondaria di 1° grado e il 28.9% del primo della secondaria di 2° grado che poi diviene oltre un terzo (34.2%) nell’ultimo. I tassi assumono connotazioni veramente allarmanti nelle Isole, con il 42.6% in Sardegna e il 40.4% in Sicilia. Uno dei fattori di questa situazione va ricercato nelle ripetizioni. Più di un quarto (27%) degli studenti del primo anno degli istituti professionali viene bocciato e la percentuale continua a mantenersi elevata anche nel secondo (20%) e persino nel quarto (14%), pur in presenza di un’area di professionalizzazione di 300 ore. In aggiunta, da un terzo a oltre il 40% degli studenti del 1° e del 2° anno della secondaria di 2° grado ottengono la promozione solo con debito formativo. In questo contesto va affermato chiaramente che l’innalzamento dell’obbligo scolastico non ha veramente senso se la riforma non viene accompagnata e soste- nuta da una attuazione efficace del diritto al successo formativo. 2.2. La riforma Berlinguer (Legge 30/2000 sul riordino dei cicli) Mi limito a richiamare gli aspetti rilevanti per il tema qui trattato. I commi 2 e 3 dell’art. 1 della legge 30/2000 definiscono l’articolazione rispettivamente del- l’istruzione e della formazione (Malizia, 2005). 22 “L’istruzione si articola nella scuola dell’infanzia, nel ciclo dell’istruzione primaria che assume la denominazione di scuola di base e nel ciclo secondario che assume la denominazione di scuola secondaria” (art. 1 c. 2). Si rimanda invece alle leggi n. 196/1997 e 144/1999 per la strutturazione del sistema educativo di forma- zione. La scuola di base ha la durata di sette anni, sostituisce la scuola elementare e la scuola media con la conseguente riduzione di un anno dell’iter formativo ed è caratterizzata da un percorso educativo unitario e articolato in rapporto alle esigenze di sviluppo degli alunni (art. 3 c. 1). A sua volta, la scuola secondaria “ha la finalità di consolidare, riorganizzare ed accrescere le capacità e le competenze acquisite nel ciclo primario, di sostenere e incoraggiare le attitudini e le vocazioni degli studenti, di arricchire la formazione culturale, umana e civile degli studenti, sostenendoli nella progressiva assunzione di responsabilità, e di offrire loro conoscenze e capacità adeguate all’accesso al- l’istruzione superiore universitaria e non universitaria ovvero all’inserimento nel mondo del lavoro” (art. 4 c. 1). Dura cinque anni e si articola in aree: classico- umanistica, scientifica, tecnica e tecnologica, artistica e musicale. Ciascuna area è ripartita in indirizzi (tendenzialmente in numero inferiore agli attuali). La scuola secondaria si realizza negli attuali istituti di istruzione secondaria di secondo grado che assumono la denominazione di “licei”. Nei primi due anni (fatta salva la caratterizzazione specifica dell’indirizzo scelto e la frequenza del relativo curricolo) è garantita la possibilità di passare da un modulo all’altro anche di indirizzo diverso mediante l’attivazione di apposite iniziative didattiche di tipo integrativo per preparare adeguatamente alla nuova scelta. Nel secondo anno possono essere realizzate attività complementari di colle- gamento con le diverse realtà culturali, sociali, produttive e professionali da attuare anche presso altri istituti, enti o agenzie di formazione professionale accreditate, secondo norme da definirsi mediante accordi tra Ministero della Pubblica Istru- zione, Ministero del Lavoro e Conferenza permanente Stato-Regioni. A conclu- sione del periodo dell’obbligo scolastico è rilasciata una certificazione attestante il percorso didattico svolto e le competenze acquisite. Brevi periodi di stage sono previsti negli ultimi tre anni e collegamenti con l’Istruzione Formazione Tecnico- Superiore e l’università. Certamente le disposizioni più rilevanti per la tematica in esame sono quelle che sanciscono l’innalzamento dell’obbligo scolastico, che “inizia al sesto anno e termina al quindicesimo anno di età” (art. 1 c. 3), e l’introduzione dell’obbligo di frequenza di attività formative fino al compimento del diciottesimo (art. 1 c. 4). Ambedue le normative erano state anticipate da provvedimenti puntuali. Anzitutto, con la L. 9/99 l’obbligo di istruzione era elevato da otto a dieci anni, ma la prima applicazione fino all’approvazione di un generale riordino del sistema scolastico e formativo prevedeva solo una durata novennale. A sua volta, la L. 144/99 aveva stabilito, all’art. 68, che al fine di potenziare la crescita culturale e professionale 23 dei giovani fosse progressivamente istituito l’obbligo formativo fino ai 18 anni che poteva essere assolto in tre distinti percorsi, anche integrati, di istruzione e forma- zione: nel sistema di istruzione scolastica, nel sistema di formazione professionale, di competenza regionale, e nell’esercizio dell’apprendistato. Da subito l’applicazione della L. 9/99 aveva dimostrato di penalizzare forte- mente gli adolescenti, soprattutto i più svantaggiati e in difficoltà, sia con lo sposta- mento della scelta dell’obbligo formativo al secondo anno della scuola secondaria superiore, sia soprattutto con l’imposizione dell’obbligo scolastico e di frequenza ad una scuola che li costringe a un parcheggio di un anno nelle aule scolastiche. In aggiunta, le ricerche sull’attuazione del nuovo obbligo di istruzione ponevano chia- ramente in risalto che la normativa danneggiava gravemente gli alunni, soprattutto quelli più in difficoltà, obbligandoli ad iscriversi ad una scuola che li costringeva a un parcheggio di un anno o li teneva lontano dalla formazione professionale, sebbene l’obiettivo delle riforme fosse quello di introdurre un canale paritario di formazione professionale per togliere l’Italia dalla posizione di fanalino di coda in cui si trova a questo proposito. Negli altri Paesi dell’UE la formazione professionale è riconosciuta come parte legittima e non sussidiaria dell’offerta formativa, come un canale percorribile di pari dignità con la scuola. Tale possibilità non viene vista come un compro- messo, ma come un ampliamento reale del diritto alla formazione, nel senso di un avvicinamento a quella equivalenza dei risultati – piuttosto che dei programmi, dei contenuti o delle strutture – oggi internazionalmente affermata come principio car- dine dei sistemi educativi. La pari dignità della formazione professionale candida questo segmento a ottenere un riconoscimento adeguato non solo nella formazione iniziale, ma anche in quella superiore, nella formazione sul lavoro e nella forma- zione continua: in proposito, va tenuto presente che nei diversi Paesi europei questa tipologia formativa presenta uno sviluppo molto più consistente che da noi. In Italia invece si è preferito mantenere la formazione professionale in una posizione di marginalità e di subalternità per quanto riguarda l’elevazione del- l’obbligo scolastico. Al contrario tale innalzamento avrebbe dovuto essere realiz- zato riconoscendo ad essa una collocazione paritaria. Più positiva è la valutazione riguardo all’introduzione dell’obbligo formativo. Uno degli effetti più significativi di tale riforma consiste nel riconoscimento di pari dignità a tutti gli itinerari previsti dopo l’obbligo scolastico. In altre parole, l’uscita dalla scuola per iscriversi alla formazione professionale non può essere più vista come un abbandono, ma come un completamento normale del proprio curricolo formativo in vista del conseguimento della qualifica. Pertanto “drop-out” non va considerato chi esce dalla scuola, ma chi esce dal sistema scolastico e formativo senza aver conseguito un diploma o una qualifica. Da questo punto di vista, il documento del Governo sul programma quinquen- nale di progressiva attuazione del riordino dei cicli avrebbe dovuto rendere piena- mente operativo il principio accolto dalla legge sul riordino dei cicli secondo cui 24 non è sostenibile né culturalmente, né socialmente l’idea di un sistema educativo composto unicamente da scuole (Programma quinquennale..., 2000). Se la cultura, che consente di comprendere in modo adeguato la società in cui siamo inseriti e di agire in modo positivo in essa, è il frutto di differenti apporti, è necessario che vi siano almeno due ambiti del sistema educativo: la scuola e la formazione professio- nale, ognuno connotato da una propria identità ed autonomia, in grado di cooperare in forma reciproca, ma con la garanzia della peculiarità di ciascuno. Pare, invece, che il documento non abbia sviluppato adeguatamente tale questione. Più in generale il riconoscimento della pari dignità tra istruzione e formazione richiede di assicurare una equivalenza nelle condizioni a monte. Si sa che uno degli ostacoli allo sviluppo della formazione professionale è costituito dalla sua distri- buzione a macchia di leopardo sul territorio. Se si fosse voluto che la formazione professionale non venisse frequentata solo dal 5% della popolazione giovanile, ma che raggiungesse una percentuale “europea”, sarebbe stato necessario realizzare il passaggio degli istituti professionali alle Regioni, come d’altronde richiede la Costituzione, ma questo non è stato previsto né dalla L. 30/00, né dai documenti attutativi. In conclusione si può dire che i testi per la realizzazione del riordino dei cicli segnano un passo avanti significativo verso la integrazione tra sistema di istruzione e di formazione. Essi restano però ancora lontani dal riconoscimento di una piena parità tra scuola e FP. 2.3. La Legge Moratti (Legge delega 53/03) Anche in questo caso presenterò solo quegli aspetti che sono importanti per la problematica in questione. Secondo la “Riforma Moratti”, il sistema educativo di istruzione e di formazione si articola nella scuola dell’infanzia, in un primo ciclo che comprende la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado, e in un secondo ciclo di cui fanno parte il sistema dei licei e quello dell’istruzione e della formazione professionale (Malizia, 2005). La scuola primaria dura 5 anni ed è articolata in un primo anno teso al rag- giungimento della strumentalità di base e in due periodi didattici biennali. È pre- vista, sin dall’inizio, l’alfabetizzazione in almeno una lingua dell’Unione Europea e nelle tecnologie informatiche. Scompare, inoltre, l’esame di quinta. La scuola secondaria di primo grado si rafforzerà sotto il profilo delle discipline: è prevista una seconda lingua comunitaria obbligatoria e un approfondimento delle tecniche informatiche. Nei tre anni, che si concluderanno con un esame di Stato, verrà anche progressivamente sviluppata nei ragazzi la capacità di scelta del percorso succes- sivo. Una novità che riguarda l’intero primo ciclo consiste nell’intento di valoriz- zare la tradizione culturale insieme all’evoluzione sociale, culturale e scientifica della realtà contemporanea. A sua volta nel secondo ciclo dovrà essere data un’attenzione costante alla crescita educativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il fare e 25 l’agire e la riflessione critica su di essi. Quanto ai licei, sono confermati gli assi culturali tradizionali, classico, scientifico e artistico; al tempo stesso ne nascono dei nuovi, economico, tecnologico, musicale, linguistico, delle scienze umane. Essi hanno durata quinquennale: l’attività didattica si sviluppa in due periodi biennali e in un quinto anno che prioritariamente completa il percorso disciplinare e prevede inoltre l’approfondimento delle conoscenze e delle abilità caratterizzanti il profilo educativo, culturale e professionale del corso di studi. Si concludono con un esame di Stato il cui superamento rappresenta titolo necessario per l’accesso all’università. Ferma restando la competenza regionale, il sistema dell’istruzione e della formazione professionale realizza profili educativi, culturali e professionali ai quali conseguono titoli e qualifiche professionali di differente livello, valevoli su tutto il territorio nazionale se rispondenti ai livelli essenziali di prestazione definiti su base nazionale. Inoltre, i giovani che seguono questi percorsi non soltanto si vedranno garantita anno dopo anno una passerella per trasferirsi nei licei, ma avranno anche modo di proseguire dopo i quattro anni per un quinto, un sesto e un settimo anno, così da acquisire una qualifica professionale superiore. Potranno altresì disporre di un quinto anno per affrontare l’esame di Stato per l’iscrizione all’università. In ogni caso, da un sistema all’altro sono sempre possibili passaggi interni. Dopo i 15 anni sia i diplomi che le qualifiche possono essere conseguiti in alternanza scuola-lavoro o attraverso l’apprendistato. Un salto di qualità che riguarda da vicino la nostra tematica consiste nell’assi- curare a ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età. In altre parole, la legge si muove nella linea della tendenza, che è emersa recente- mente in Europa, al superamento del concetto stesso di obbligo scolastico. Dal punto di vista storico questa strategia ha esercitato una funzione essenziale nel passaggio da una scuola per pochi a una per tutti, ma al presente sembra costituire piuttosto un impedimento alla piena realizzazione dei diritti di cittadinanza. In una società com- plessa come l’attuale la focalizzazione scolasticistica perde di senso perché ciò che conta è il risultato e la sua qualità e non i percorsi con cui si ottengono che possono essere i più vari. Inoltre, l’istruzione e la formazione, prima che dei doveri, sono dei diritti della persona e vanno assicurate a tutti in modo pieno. Pertanto, le varie istitu- zioni che le garantiscono devono operare in rete, in una prospettiva di solidarietà cooperativa piuttosto che come alternative tra loro escludentisi. Molte sono le ragioni che militano a favore della scelta a 14 anni tra scuola e formazione professionale. Anzitutto, la psicologia evolutiva ha messo in risalto come lo stadio 10-14 anni costituisca una fase della vita con una sua identità speci- fica, nella quale matura progressivamente la capacità di scelta consapevole. Inoltre, non va dimenticato che allo stato attuale i drop-out della terza media sono oltre 35.000 ogni anno e certamente non si potrebbe pensare di obbligarli per altri due anni ad un percorso scolastico. L’indagine effettuata dall’ISTAT in occasione degli Stati Generali mette in evidenza come la gran parte dei genitori e dei docenti 26 e oltre il 40% degli studenti sono d’accordo con la scelta dei due percorsi a 14 anni (Rapporto del gruppo ristretto di lavoro..., 2002). Anche l’iniziativa di introdurre un percorso graduale e continuo di formazione professionale parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che porti all’acquisizione di qualifiche e titoli è in piena linea con le tendenze più diffuse e avanzate del nostro continente. Infatti, la formazione professionale non viene più concepita nella gran parte di Paesi europei come un addestramento finalizzato esclu- sivamente all’insegnamento di destrezze manuali, né la distinzione con l’istruzione è vista nel fatto che questa si focalizza nell’acquisizione di saperi in qualche misura astratti rispetto al contesto, mentre quella si occupa della loro realizzazione nel mer- cato del lavoro o nel fatto che l’oggetto è differente, essendo la cultura del lavoro quello proprio della formazione professionale, perché anche la scuola si interessa di cultura del lavoro. La formazione professionale non è qualcosa di marginale o di ter- minale, ma rappresenta un principio pedagogico capace di rispondere alle esigenze del pieno sviluppo della persona secondo un approccio specifico fondato sull’espe- rienza reale e sulla riflessione in ordine alla prassi che permette di intervenire nel processo di costruzione dell’identità personale. Questo tuttavia non significa che sia la stessa cosa dell’istruzione: conoscere con l’obiettivo principale di agire, costruire e produrre non può essere confuso con il conoscere e agire con l’intento prioritario di conoscere. In ogni caso la legge Moratti interrompe una deriva delle politiche di riforma della secondaria superiore che ha dominato la scena dal 1971 al 2001 e che si basava su quattro pilastri: una concezione del lavoro non bisognoso di istruzione/ formazione, l’educatività come caratteristica esclusiva della scuola, la natura “ospedaliera” della formazione professionale, la dissociazione tra cultura e profes- sionalità. Essa supererebbe, invece, la tradizionale gerarchizzazione e separatezza tra sistema dei licei e sistema dell’istruzione e della formazione professionale; eviterebbe ogni confusione tra i due, affermandone la pari dignità culturale; risco- prirebbe la cultura del lavoro e delle professioni (Bertagna, 15 giugno 2003). 2.4. Il decreto legislativo sul diritto-dovere e i percorsi sperimentali triennali Il salto di qualità realizzato in materia dalla “Riforma Moratti” ha trovato la sua attuazione concreta con l’approvazione del D.Lgs. 76/05 che definisce la norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione (Montemarano, 2005). Nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arto della vita, esso ribadisce l’impegno della legge 53/03 a garantire a tutti eguali opportunità di conseguire livelli culturali elevati e di sviluppare capacità e competenze adeguate a una transizione soddi- sfacente nella società e in particolare nel mondo del lavoro. L’obbligo scolastico e l’obbligo formativo non vengono dimenticati, trascurati o indeboliti, ma trovano un loro inveramento più pieno nella nuova normativa nel senso che vengono ridefiniti e ampliati come diritto all’istruzione e alla formazione: in altre parole, la fruizione dell’offerta educativa viene a rappresentare per tutti, includendo anche i minori stra- 27 nieri, sia un diritto soggettivo sia un dovere sociale. Più precisamente, “La Repub- blica assicura a tutti il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età. Tale diritto si realizza nelle istituzioni del primo e del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione, costituite dalle istituzioni scolastiche e dalla istituzioni formative accreditate” (art. 1 c. 3). I giovani incominciano a fruire concretamente del diritto-dovere con l’iscri- zione alla scuola primaria e nella secondaria di 1° grado tale tutela si traduce almeno nella organizzazione da parte delle scuole di iniziative di orientamento. Quanti poi ottengono il titolo del 1° ciclo si iscrivono ad un istituto del sistema dei licei o del sistema di istruzione e formazione professionale fino al conseguimento di un diploma liceale o di un titolo o di una qualifica professionale di durata almeno triennale sino al diciottesimo anno di età. Sul piano informativo, a sostegno dell’attuazione del diritto-dovere, viene creato il sistema nazionale delle anagrafi degli studenti. L’anagrafe nazionale che si trova presso il MPI realizza il trattamento dei dati sui percorsi scolastici, formativi e in apprendistato dei singoli studenti a partire dal primo anno della scuola primaria. A loro volta, le anagrafi regionali contengono i dati sui percorsi scolastici, formativi e in apprendistato dei singoli studenti a partire sempre dal primo anno della scuola primaria; le Regioni devono assicurare l’integrazione di queste anagrafi con le anagrafi comunali della popolazione e anche il coordinamento con le funzioni svolte dalla Province. I genitori dei minori e coloro che a qualsiasi titolo ne facciano le veci sono responsabili dell’assolvimento del dovere di istruzione e di formazione e pertanto sono obbligati a iscriverli alla istituzioni scolastiche e formative, anche se una disposizione del D.Lgs., l’art. 1 c. 4, riconosce il diritto dei genitori di provvedere privatamente o direttamente all’istruzione e alla formazione dei propri figli, dimo- strando però al tempo stesso di averne capacità tecnica o economica. A un gruppo numeroso di soggetti individuali e istituzionali viene affidata la vigilanza sul- l’adempimento del dovere di istruzione e di formazione: il comune di residenza; il dirigente dell’istituzione scolastica o il responsabile dell’istituzione formativa di riferimento; la Provincia attraverso i servizi per l’impiego; i soggetti responsabili dello svolgimento dell’apprendistato. Le responsabilità e la vigilanza non restano affidate alla buona volontà delle persone, ma la normativa stabilisce che le sanzioni previste finora in caso di mancato assolvimento dell’obbligo scolastico si applichi- no ai soggetti che non abbiano adempiuto al dovere di istruzione e di formazione. Anche sul D.Lgs. 76/05 il giudizio è sostanzialmente favorevole. Esso infatti assicura realmente a tutti e a ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciot- tesimo anno di età. Questo richiede sia di realizzare un percorso graduale e continuo di formazione professionale parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che porti all’acquisizione di qualifiche e titoli sia di garantire effettivamente 28 la scelta a 14 anni tra il sistema dell’istruzione e quello della istruzione e della for- mazione professionale. Manca invece nel D.Lgs. la garanzia della libertà di scelta educativa delle famiglie tra istituzioni scolastiche e formative statali e paritarie e questo certamente costituisce una carenza grave della normativa: da questo punto di vista va ricordato che si tratta di un diritto fondamentale della persona umana che in Italia continua ad essere disatteso. È risultato senz’altro positivo che l’attivazione dei corsi di istruzione e di for- mazione professionale, rivolti alle ragazze e ai ragazzi che, concluso il primo ciclo di studi, manifestino la volontà di accedervi, non sia stata rimandata a un momento successivo all’emanazione dello specifico decreto legislativo. L’Accordo Stato- Regioni su istruzione e formazione (Accordo Stato-Regioni su istruzione e forma- zione, 2003) ha consentito di avviare dal 2003 la sperimentazione dei percorsi triennali di istruzione e di formazione “intesa come un laboratorio per la defini- zione di un nuovo modello di percorso e di offerta di istruzione e di formazione, non legata alla semplice integrazione dell’esistente (istruzione da una parte e formazione professionale dall’altra), ma proteso a verificare la prospettiva aperta dalla riforma costituzionale (L.C. 3/01) e dalle leggi 30/03 (Biagi) e 53/03 [...], tenuto conto che “l’analisi degli elementi di crisi evidenziava come un sistema fon- dato sulla centralità dei modelli scolastici non riuscisse a rispondere a una domanda diffusa e diversificata di formazione” (Sugamiele, 2006, 35). Il raggiungimento dell’accordo e l’emanazione del testo hanno evitato la perdita di un altro anno sco- lastico-formativo. In questa stessa linea è da considerare un passo avanti l’afferma- zione che i percorsi appena citati debbano avere una durata almeno triennale. Inoltre, ai fini dei passaggi fra sistemi vengono riconosciuti i crediti formativi, acquisiti non solo negli itinerari appena ricordati, ma anche sull’apprendistato; in aggiunta si conviene sull’esigenza di attivare un percorso articolato di partenariato istituzionale a livello nazionale in raccordo con il livello regionale, per la defini- zione degli standard formativi minimi. Ma a livello attuativo non pare superata in alcune Regioni come l’Emilia Romagna, la Campania, la Toscana e la Puglia la concezione di “croce rossa” che viene attribuita ancora preminentemente al canale di istruzione e di formazione professionale (cioè di puro salvataggio di drop-out). Sembra inoltre che continui a essere messa in primo piano una idea di “integrazione” che riduce la formazione professionale a laboratorio tecnico della scuola. In pratica, la realizzazione la speri- mentazione dei corsi del diritto-dovere ha messo a confronto due tipologie molto diverse, due modelli in un certo senso opposti. Infatti, le Regioni richiamate sopra hanno puntato all’integrazione dei percorsi di istruzione statale con moduli di for- mazione professionale. Al contrario, Lombardia, Liguria, Piemonte e Veneto hanno mirato alla integrazione dei sistemi, in altre parole hanno sperimentato un percorso formativo, tutto nella formazione professionale, in conformità con lo spirito della “Riforma Moratti” che intendeva ridisegnare nelle modalità di un percorso cultu- rale ed educativo l’offerta tradizionale della formazione professionale finalizzata 29 all’inserimento professionale secondo una impostazione predominantemente di natura professionalizzante. Un dato positivo che ha valore indipendentemente dal confronto fra le due tipo- logie riguarda il favore con cui la proposta dei percorsi triennali sperimentali è stata accolta dai giovani e dalle famiglie. Le iscrizioni sono aumentate in misura molto consistente, anzi si sono quasi raddoppiate nella prima applicazione dell’Accordo in quanto si è registrata una crescita del 46.9%, che però non ha riguardato i per- corsi integrati, raggiunti da una flessione (-7.8%) (Sugamiele, 2006, 36-38; ISFOL, 2005). Più precisamente, tra il 2003-04 e il 2004-05 a fronte di un aumento degli iscritti nell’Emilia Romagna del 34% e del 73% in Campania del 73%, ma di una riduzione del 27.7% nella Toscana, la Lombardia e il Veneto hanno visto una crescita così imponente che ha impedito alle due Regioni di accogliere tutta la domanda. Passando poi al confronto tra le due tipologie, va anzitutto osservato che l’ipo- tesi del percorso formativo tutto nella formazione professionale assicura un flusso di passaggi tra il primo e il secondo anno del 97.7% a fronte del 73.4% del modello che vede l’integrazione tra scuola e formazione professionale. Al termine del primo tipo di percorsi la più gran parte degli allievi hanno domandato di iscriversi al quarto anno e nel caso del Veneto si riscontra una equivalenza complessiva di pas- saggi tra il sistema dell’istruzione e quello della formazione professionale. L’Emilia Romagna che, come si è ricordato sopra, ha adottato il modello inte- grato tra scuola e formazione professionale presenta nel 2003-04 un numero di respinti al primo anno dei percorsi sperimentali (28.2%) che risulta più elevato di 3 punti percentuali in paragone a quello dei percorsi tradizionali (25.6%). Se si passa ai promossi con debito formativo, i tassi si equivalgono e non si nota cioè nessuno miglioramento nei percorsi integrati. L’anno successivo, 2004-05, ha visto una diminuzione nei bocciati e un aumento nei promossi con debito formativo che però non cambiano sostanzialmente il quadro globale. Infatti, nel caso di insuc- cesso il 54% degli allievi dei percorsi tradizionali si ferma nell’istituto ripetendo l’anno e quasi nessuno di loro sceglie i percorsi integrati offerti dall’istituto frequentato, preferendo piuttosto cambiare scuola; al contrario, il tasso di quanti si iscrivono alla medesima tipologia di percorso si riduce al 12% tra gli allievi dei percorsi integrati e, in aggiunta, il 37% di questi ultimi opta per la ripetizione del percorso tradizionale nel medesimo istituto. Questi dati mettono chiaramente in evidenza che gli allievi non riscontrano diversità rilevanti fra i percorsi integrati tra scuola e formazione professionale e quelli tradizionali. In conclusione, i percorsi sperimentali triennali, tutti nella formazione profes- sionale, mettono in evidenza una serie importante di risultati positivi (Malizia - Pieroni, 2005; 2006). Aumentano gli allievi a tal punto che le Regioni non ri- escono a soddisfare tutte le richieste, e i percorsi rivelano un alto tasso di conti- nuità tra gli anni con una crescita anche degli iscritti dalla scuola; gli esiti forma- tivi sono mediamente più elevati di quelli dell’istruzione tecnica e professionale con meno del 10% di insuccessi rispetto al 25%; le varie componenti (allievi, 30 formatori, genitori) delle comunità formative manifestano in generale un elevato gradiente di soddisfazione. Il successo di questi percorsi triennali trova la sua giustificazione più profonda nella impostazione complessiva della offerta che essi hanno adottato. Si tratta in- fatti di una proposta unitaria, organica, pedagogicamente fondata e sistematica che si ispira ai seguenti principi: finalizzazione alla formazione integrale della persona in collegamento con i territori di riferimento e le realtà economiche e del lavoro e adozione di strategie specifiche mirate a una pedagogia del successo. I percorsi possiedono una peculiare metodologia formativa basata su compiti reali, una vera didattica attiva, fondata sull’apprendimento dall’esperienza anche tramite tirocinio/ stage formativo in stretta collaborazione con le imprese del settore di riferimento. Inoltre, presentano rilevanza orientativa, in modo da sviluppare nella persona la consapevolezza circa le sue prerogative, il progetto personale, il percorso intra- preso, comprese quindi le capacità personali quali la consapevolezza di sé, la co- municazione e la relazione con gli altri, la disposizione all’autonomia, alla respon- sabilità e alla soluzione dei problemi, il rispetto delle regole organizzative, la dis- posizione ad apprendere dall’esperienza. Carattere fondamentale della metodologia adottata è una forte integrazione tra le dimensioni del sapere, saper fare, saper agire e saper essere, al fine di favorire una chiara circolarità tra pratica e teoria, tra atti- vità operativa e attività di riflessione sui significati dell’agire, mentre ogni sapere teorico trova continuo collegamento e applicazione in azioni concrete. Per il principio di sussidiarietà la realizzazione di questa offerta non significa l’adesione a un unico modello gestionale predeterminato, ma è consentita una va- rietà di soluzioni operative. L’impostazione adottata delinea un percorso formativo progressivo, che è aperto a sbocchi sia in verticale sia in orizzontale, senza mai pre- cludere la possibilità di un proseguimento diretto nei percorsi formativi successivi al termine di ciascun ciclo, e che consente alla persona di avanzare nel proprio cammino procedendo per livelli successivi di intervento/comprensione della realtà, seguendo tre tappe tipiche, corrispondenti ad altrettanti titoli: di qualifica (certifi- cato di qualifica professionale); tecnico (diploma di formazione professionale); quadro/tecnico superiore (diploma di formazione professionale superiore). Per- tanto, a tali percorsi vanno garantite stabilità di organici, autonomia, distribuzione diffusa sul territorio e certezza di finanziamenti con esclusione dei bandi, trattan- dosi di attività formative destinate a minori per cui vale l’obbligo formativo. 3. Conclusione. Verso l’obbligo di istruzione: un ritorno al passato? Il nuovo Governo di centro-sinistra sembra intenzionato a realizzare quanto previsto dal programma dell’Unione sul tema in questione: “secondo ciclo: elevare l’obbligo di istruzione gratuita fino al 16 anni (primo biennio della scuola supe- riore)” (Per il bene dell’Italia, 2006, 232). Nella audizione alla VII Commissione 31 Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati del 29 giugno 2006 il Ministro della PI ha confermato tale impegno, affermando che “Due anni in più di istruzione sono necessari non solo per consolidare ed innalzare le competenze di base di tutti ma anche per consentire di effettuare le scelte di indirizzo e di percorso ad un’età non troppo acerba e con una maggiore consapevolezza, da parte dei gio- vani e delle loro famiglie, delle propensioni e delle attitudini effettive” (pp. 18-19). Veramente le innovazioni da adottare più urgentemente nel sistema educativo di istruzione e di formazione dovrebbero essere mirate a coinvolgere quei giovani che ne stanno fuori, come riconosce lo stesso Ministro. “Il tasso di passaggio dei li- cenziati della scuola media alla scuola superiore ha raggiunto il 97%, con un anda- mento in ulteriore crescita. La situazione, dunque, è molto diversa da quella degli anni settanta, quando l’obbligatorietà dell’istruzione era lo strumento principe, sim- bolico e fattuale, per forzare la resistenza di quote ancora importanti delle famiglie ad investire nell’istruzione lunga dei figli. Oggi il nostro problema è quello di quel 25% di 14-18enni che alle superiori ci è andato, ma poi le ha abbandonate o ne è stato espulso” (Audizione del Ministro dell’Istruzione, 2006, 19-20). Da questo punto di vista c’è da dubitare sull’opportunità di considerare come la prima emer- genza da fronteggiare quella dell’introduzione dell’obbligo di istruzione. Soprattutto vanno richiamate le ragioni di merito: le sperimentazioni dei per- corsi triennali tutti nella formazione professionale si sono dimostrate pienamente valide per cui dovrebbero quanto prima passare a regime nel nostro sistema educa- tivo. Se si vuole ovviare alla situazione disastrosa della dispersione e dell’insuc- cesso che ho illustrato nella seconda sezione di questo capitolo, credo che la stra- tegia appena ricordata costituisca una strada obbligata. In secondo luogo, nel confronto tra obbligo di istruzione e diritto-dovere di istruzione e di formazione ritengo che vada preferita senz’altro la seconda imposta- zione. E la giustificazione più sintetica ed efficace di questa affermazione la si può trovare nelle seguenti parole di Romei: L’obbligo presuppone una concezione di cittadini come sudditi o comunque come soggetti non del tutto in grado di comprendere l’importanza del proprio sviluppo personale e sociale, che uno Stato benevole e lungimirante e sollecito degli interessi loro e dell’intera società costringe ad istruirsi anche contro il loro stesso disinteresse se non addirittura renitenza. L’iscrizione obbligatoria dà infatti luogo ogni anno a vere e proprie leve di coscritti, costretti a fruire di un servizio formativo a prescin- dere dalla propria volontà e da quella dei loro genitori o tutori legali. Il diritto (soggettivo)-dovere (sociale) [...] fa invece affidamento sulla consape- volezza di sé dei cittadini, e sulla loro capacità di assumere in prima persona il compito della propria formazione. Sollecita ogni membro della società a rendersi conto che l’appartenenza ad essa da un lato gli conferisce il diritto di vedersi mettere a disposizione, quindi di poterne fruire, un’adeguata offerta di istruzione e formazione, di acquisire i ‘livelli culturali... le capacità e le competenze... cono- scenze e abilità, generali e specifiche [...] che gli consentano di inserirsi da prota- gonista nella vita attiva; dall’altro lato, la stessa appartenenza comporta il dovere di istruirsi e formarsi e di contribuire, di conseguenza, alla convivenza civile e allo sviluppo sociale complessivo (Romei, 2005, 20-21). 33 Capitolo 2 L’adolescenza: quadro teorico di riferimento Mario BECCIU - Anna Rita COLASANTI Scopo del presente contributo è quello di offrire un quadro teorico entro il quale collocare e leggere la realtà adolescenziale evidenziandone alcuni aspetti sa- lienti. Come si vedrà, l’approccio interpretativo scelto, proprio dei modelli probabili- stici e multicausali, riflette una visione di adolescenza come una esperienza di transizione, finalizzata essenzialmente alla acquisizione di uno status individuale adulto e alla definizione di una propria identità personale e sociale; tale esperienza di transizione, lungi dall’essere un’inevitabile fase di disagio e sofferenza – come spesso si rischia di interpretarla – prevede un percorso prolungato e differenziato lungo il quale il soggetto è chiamato ad affrontare diversi momenti di conflittualità e di crisi che appartengono alla normale fatica del diventare adulti. Anche alcuni comportamenti che compaiono in adolescenza e che sembrano avvalorare la convinzione di quanti considerano questo periodo della vita come inevitabilmente negativo, in realtà non sono – come vedremo – necessariamente segno di traiettorie evolutive disadattive, ma possono essere interpretati come risposte che alcuni adolescenti danno ai propri compiti di sviluppo. Pertanto, nella parte che segue, dopo aver presentato la visione di adolescenza propria dei modelli probabilistici e multicausali, ci soffermiamo a delineare i principali compiti evolutivi che attualmente l’adolescente è chiamato ad affrontare, per poi tentare di delineare un profilo dell’adolescente del nostro tempo allo scopo di metterne in luce alcuni elementi caratterizzanti. 1. L’adolescenza: dai modelli deterministici ai modelli probabilistici e multi- causali Affrontare l’adolescenza in un’ottica preventivo-promozionale vuol dire innanzitutto analizzarla a diversi livelli, da quello universale a quello individuale e superare i modelli deterministici, che concepiscono questa età come essenzialmente critica e negativa, per andare verso modelli probabilistici e multicausali che pongono maggiormente l’enfasi sulle risorse proattive dell’adolescente e sulle sue capacità di fronteggiare le sfide che la vita gli pone. 34 1.1. Assumere un triplice livello di analisi Nell’affrontare il tema dell’adolescenza possiamo assumere un triplice livello di analisi considerando questo periodo della vita come un fenomeno universale, come una fase da storicizzare, come un percorso individuale (Pombeni, 1996). L’adolescenza come fenomeno universale rappresenta quel periodo della vita in cui il raggiungimento della maturità sessuale e lo sviluppo delle capacità di ragionamento astratto consentono il passaggio dalla fanciullezza alla vita adulta; tale passaggio assume caratteristiche e peculiarità proprie a seconda del contesto in cui il soggetto cresce e si sviluppa. L’adolescenza è quindi un fenomeno da storicizzare nella realtà complessa delle società occidentali dove viene a configurarsi come un periodo di sospensione sociale, poiché si diventa grandi in un contesto articolato e complesso nel quale l’ingresso nell’età adulta è di volta in volta più posticipato nel tempo. Accade così che il giovane, pur avendo acquisito le capacità sessuali e cogni- tive proprie dell’adulto, è di fatto costretto a vivere un periodo sempre più dilatato di indeterminatezza e inconsistenza sociale prima di poter far parte a pieno titolo del mondo adulto. Tale condizione, senza dubbio scomoda, è comprensibilmente fonte di disagio, d’altra parte non dobbiamo dimenticare le straordinarie opportunità che essa offre all’adolescente. Tra queste: maggiori opportunità in termini di libertà individuale e di realizzazione personale, possibilità di mettersi alla prova e sperimentarsi senza dover prendere decisioni precoci e definitive, numerose alternative di scelta e forme di autoprogettualità, maggiori possibilità di ampliare la propria rete relazio- nale e amicale (grazie a i nuovi apparati tecnologici e ai nuovi media), di conoscere altre realtà geografiche e fisiche diverse da quella di origine (Bonino, 2005; EURI- SPES, 2005). Naturalmente, la rapida modificazione di modelli, stili di vita, ruoli familiari e professionali, la mancanza di norme e valori univoci, l’indeterminatezza di quanto richiesto dalla vita adulta pongono l’adolescente di fronte a sfide impegnative che gli richiedono maggiore autonomia e maggiori capacità decisionali. La società contemporanea che da più parti è connotata come la società del- l’incertezza, i cui tratti culturali fanno perno sui temi della provvisorietà, della a- centricità, dell’aumento delle possibilità di scelta, della soggettività, del disincanto (cfr Indagine MIUR), rendono sempre più complessa la costruzione dell’identità da parte dell’adolescente al quale, oggi più che mai, sono richieste competenze personali e sociali per affrontare i diversi momenti di conflittualità e di crisi insiti nel suo percorso di emancipazione individuale. Infine, l’adolescenza è da considerarsi come percorso individuale (Bonino, 2005; Caparra - Fonzi, 2000; Jessor, 1998). Le modalità con le quali gli adolescenti rispondono alle richieste evolutive e sociali variano normalmente in rapporto alle caratteristiche personali e alle risorse socio ambientali disponibili nel contesto in cui l’adolescente è vissuto e vive. 35 Così l’adolescenza non è descrivibile in modo unitario, ma presenta grandi dif- ferenze individuali di percorso. Non dobbiamo, pertanto, pensare all’adolescenza come ad un processo lineare fisso e uguale per tutti, ma come ad un percorso forte- mente individualizzato e differenziato che è il risultato della complessa interazione tra la persona in crescita e il suo contesto di vita. Da un lato c’è l’adolescente, con i suoi processi maturativi di tipo biologico e le sue esperienze di vita, che attraverso le sue capacità cognitive agisce sul proprio mondo interno ed esterno; dall’altro c’è il contesto fisico, storico, culturale che influenza l’adolescente, ma che – a sua volta – è da questi modificato e interpretato. Le tre dimensioni psicologica, storica e sociale – che abbiamo appena men- zionato – sono strettamente interconnesse e l’analisi dell’adolescenza per essere esaustiva dovrà tener conto di ciascuna di esse e della loro interdipendenza. 1.2. Superare le visioni deterministiche Nell’analizzare l’adolescenza occorre, inoltre, superare le visioni determini- stiche che hanno prevalso sino ad ora e che a molti livelli permangono, per andare verso prospettive maggiormente proattive, che vedono l’adolescente come soggetto attivo, protagonista del proprio processo di crescita. Infatti, nell’interpretare l’adolescenza come esperienza di transizione, finaliz- zata all’acquisizione di una propria identità personale e sociale, possiamo assumere una visione negativa, connotandola come processo globale e inevitabile di crisi o, al contrario, assumere una visione positiva, considerandola come una fase prolun- gata e differenziata dello sviluppo umano in cui il soggetto è chiamato a fronteg- giare una molteplicità di sfide. Naturalmente, non è indifferente aderire all’una o all’altra prospettiva; in un caso, infatti, l’adolescente sarà visto come problema da curare e trattare, nell’altro potrà essere considerato una risorsa in grado di realizzare un buon adattamento individuale e sociale. Facciamo rientrare nella prima prospettiva, che tende a connotare negativa- mente l’adolescenza, i cosiddetti modelli deterministici. Tali modelli interpretano le problematiche adolescenziali come il risultato ine- vitabile di pressioni interne di natura biologica o pulsionale o di influenze esterne di natura culturale e sociale. Così, il modello biologista ha cercato di spiegare le problematiche adolescen- ziali correlandole allo sviluppo sessuale; la psicoanalisi tradizionale ha postulato una stretta connessione con le vicende pulsionali pregresse e con le prime espe- rienze infantili, particolarmente quelle vissute con le figure genitoriali; le teorie sociologiche hanno posto l’enfasi sulle condizioni socio-ambientali che fanno del- l’adolescenza un periodo di indeterminatezza sociale e di marginalità. Gli elementi che accomunano questi diversi modelli consistono fondamental- mente in una visione deterministica e pessimistica della realtà adolescenziale, le cui cause sono da rintracciarsi nella storia biologica dell’individuo o nell’ambiente e in 36 una concezione passiva della persona in crescita che può soltanto reagire a condi- zionamenti interni od esterni (Bonino - Cattelino, 2000) Infatti, l’adolescente viene visto come vittima delle pulsioni, delle modifiche puberali, dei condizionamenti sociali, eternamente in crisi e portatore di sola pro- blematicità. È davvero sorprendente constatare quanto questa immagine abbia influenzato non solo la letteratura, la cinematografia, il linguaggio giornalistico, ma, addirit- tura, gli stessi addetti ai lavori come gli educatori, insegnanti, operatori sociali (Becciu - Colasanti, 2003); al punto che, come afferma Lyotard (1979), la società occidentale ha costruito una grande narrazione attorno al disagio giovanile. Ciò ha portato, per esempio, a ritenere tipici e rappresentativi dell’adolescenza alcuni comportamenti di pericolosità e negatività che, al contrario, sono proprio quelli che non appartengono alla maggior parte degli adolescenti (Bonino, 2005). Una prospettiva decisamente diversa è quella rintracciabile nei modelli proba- bilistici e multicausali che nel parlare di adolescenza postulano l’esistenza di per- corsi di sviluppo molto variabili e differenziati legati all’interazione tra individuo e ambiente (Bonino - Cattelino, 2000). Secondo tali modelli lo sviluppo non è spiegabile con il solo ricorso alla matu- razione biologica o agli influssi ambientali; è necessario riferirsi all’interazione individuo ambiente e al ruolo attivo che il soggetto assume in questa interazione. Le vicende biologiche, gli stimoli ambientali, le esperienze di vita pregresse non assumono più un carattere determinante, ma costituiscono vincoli o opportu- nità con i quali l’adolescente si confronta e interagisce. Si delinea, pertanto, una visione positiva dell’adolescenza che, pur non ne- gando le difficoltà che possono essere connesse a questa età, sposta l’attenzione sulle potenzialità e sulle risorse dell’adolescente che è capace di valutare e di agire tenendo conto del contesto, dei suoi cambiamenti, delle possibilità future. In questa prospettiva l’adolescente diventa protagonista, attore del proprio sviluppo, responsabile delle risposte che sarà in grado di dare ai compiti evolutivi e alle opportunità offerte dal contesto. Per comprendere appieno cosa significhi interpretare l’adolescenza secondo la prospettiva probabilistica e multicausale occorre considerare alcuni presupposti che tale prospettiva assume come propri e che, applicati all’età adolescenziale, ci consentono di gettare una nuova luce su di essa. Tali presupposti concernono: 1) l’assumere una prospettiva olistica, interazionista e costruttivista che porta a considerare il comportamento nella complessa interazione individuo/ambiente visti come elementi inseparabili; 2) il ritenere l’azione individuale come dotata di significato, di finalità, di inten- zionalità e di riflessività ed è attuata all’interno di un contesto caratterizzato da vincoli, limiti e da risorse, opportunità e non semplicemente una risposta a stimoli ambientali o di natura biologica; 37 3) il considerare le vicende individuali non dipendenti esclusivamente dalle carat- teristiche personali e dalle specifiche circostanze, ma fortemente influenzati dai grandi cambiamenti sociali e culturali; 4) il valutare lo sviluppo umano nella prospettiva dell’intero ciclo di vita e consi- derarlo non come un processo lineare con percorsi fissi e uguali per tutti, ma come un processo complesso con percorsi possibili, fortemente individua- lizzati connessi all’interazione, lungo il tempo, tra l’individuo e il suo contesto di vita; 5) il connotare la crisi, in qualunque periodo dell’esistenza, come una fase dina- mica di riorganizzazione e non necessariamente come qualcosa di negativo e drammatico; 6) l’attribuire equa importanza al passato al presente e al futuro dell’individuo e non imprigionare le possibilità di sviluppo unicamente nel passato. La lettura dell’adolescenza, a partire da tali presupposti, ci consente di giun- gere ad una nuova rappresentazione di essa. In primo luogo, ci porta ad abbandonare l’idea di adolescenza come inevitabile condizione di disagio e sofferenza e come percorso univoco, sostanzialmente identico nello spazio e nel tempo, riconducibile alla maturazione fisiologica e ai problemi ad essa connessi. In secondo luogo, ci spinge a ridimensionare e a riconnotare la crisi adolescen- ziale. Infatti, se consideriamo lo sviluppo umano nella prospettiva dell’intero ciclo di vita, ci rendiamo conto che l’adolescenza non conclude la fase evolutiva, non è un periodo di instabilità che precede la stabilità dell’età adulta, la crisi adolescen- ziale può non essere né l’unica, né l’ultima, né la più importante. L’adolescenza viene altresì a configurarsi come una fase prolungata dello sviluppo umano che presenta grandi differenze individuali di percorso. Tali differenze di percorso sono il risultato dall’azione orientata verso scopi significativi da parte di uno specifico adolescente, che ha certe caratteristiche biologiche e una precisa storia e che risponde in modo differenziato ai compiti di sviluppo posti dal particolare contesto in cui vive. Al pari di altre transizioni evolutive può connotarsi come stressante solo quando le richieste poste all’individuo eccedono le sue risorse di fronteggiamento. Come ha sottolineato Olbrich (1990), l’adolescenza può essere vista come un periodo di coping, di adattamento produttivo: l’adolescente si trova di fronte a molteplici e diversi cambiamenti e generalmente mostra di adattarsi ad essi in modo costruttivo, senza necessariamente cadere in situazioni di turbolenza o di crisi. Ad una diversa visione di adolescenza, si accompagna anche una reinterpreta- zione del concetto di rischio e dei comportamenti ad esso connessi. In adolescenza, il rischio potrebbe definirsi funzionale dal punto di vista evolu- tivo (Jessor, 1998). L’adolescente è, infatti, costretto a “rischiare” molto per capire chi è e chi vorrà essere, per avere una precisa comprensione di quali sono i suoi 38 limiti e i suoi punti di forza, per modellare e restituire al gruppo allargato, alla sua nuova famiglia sociale, un’immagine che non corrisponde più a quella che era stata in qualche modo confezionata all’interno della famiglia d’origine (Pellai - Boncinelli, 2004). Tra l’altro, le risorse di cui l’adolescente dispone in questo periodo della sua vita e che potremmo considerare fasi-specifiche tendono a favorirlo nell’assun- zione del rischio. Basti pensare allo sviluppo organico che conferisce nuove competenze sul fronte dell’eterosocialità e della sessualità; allo sviluppo psicosociale che porta con sé maggiori capacità di autonomia, intimità, indipendenza, formazione dell’identità e sviluppo di relazioni tra pari; ai processi cognitivi che consentono maggiore capacità d’esplorazione e sperimentazione; ai processi socioambientali correlati da transizioni in ambito scolastico e da processi di pressione tra pari (Pellai - Boncinelli, 2005). Pertanto incorrere in attività di rischio in adolescenza può essere considerato parte normale del percorso di crescita. Assumersi dei rischi serve all’adolescente per sviluppare una propria identità e costituisce un’esperienza di valorizzazione (Ponton, 1997). Così, le azioni di rischio che compaiono in adolescenza necessitano di essere considerate come modalità dotate di senso, utilizzate da numerosi ragazzi, in uno specifico momento della loro vita e in un particolare contesto, per raggiungere degli scopi personalmente e socialmente significativi che fanno essenzialmente riferimento allo sviluppo dell’identità e alla partecipazione sociale (Bonino, 2005). Ne deriva che comportamenti molto diversi tra di loro (ad esempio salutari e non) hanno di fatto un’equivalenza funzionale, ossia possono servire a raggiungere obiettivi di crescita simili. Pertanto anche quei comportamenti che possono in modo diretto o indiretto compromettere il benessere fisico, psicologico e sociale non sono da considerarsi come segno di un fallimento nel percorso di sviluppo adolescenziale, né come indi- catori di patologia, ma più semplicemente come la risposta che alcuni adolescenti danno ai compiti di sviluppo loro richiesti, caratteristici di questo momento storico e culturale (Bonino, 2005). Riconoscere le funzioni che i comportamenti di rischio possono avere durante lo sviluppo adolescenziale non implica giustificare o minimizzare questi comporta- menti, che per altro, possono avere conseguenze molto negative sia a breve che a lungo termine, ma vuol dire unicamente comprendere che cosa essi significhino per l’adolescente, nel loro normale processo di sviluppo, e far sì che gli adolescenti ottengano gli stessi obiettivi positivi attraverso azioni meno lesive per il loro benes- sere e meno pericolose per il loro futuro percorso evolutivo. In altri termini, poiché è necessario che gli adolescenti si assumano dei rischi, occorrerà aiutarli a trovare modi “sani” per farlo. Nel paragrafo che segue ci soffermiamo su alcuni principali compiti di sviluppo che l’adolescente è chiamato ad affrontare e su alcuni fattori di 39 natura personale e situazionale che, se presenti, consentono loro di superarli con successo, riducendo al minimo la probabilità di ricorrere e, soprattutto, di persistere in comportamenti di rischio. 2. L’adolescenza come periodo di fronteggiamento: compiti di sviluppo e loro superamento Per compito evolutivo si intende un compito particolare, caratteristico di un certo periodo dell’esistenza, che deriva dall’interazione tra la maturazione fisiolo- gica, le nuove capacità cognitive e relazionali, le aspirazioni di un individuo, da un lato e l’insieme delle influenze, delle richieste e delle norme sociali, dall’altro. Esso ha la funzione di mettere alla prova e di stimolare il soggetto a superare posi- tivamente la fase di sviluppo in cui si trova preparandolo al fronteggiamento delle fasi successive. I compiti evolutivi rappresentano il presupposto per una crescita sana e soddi- sfacente nella società in cui siamo inseriti; la risoluzione positiva di essi conduce al benessere e al successo nell’affrontare i problemi successivi, mentre il fallimento in essi conduce al disagio e a difficoltà di fronte alle richieste che si presentano in seguito. In una società complessa come quella attuale, i problemi evolutivi che si presentano all’adolescente non sono uguali per tutti e inevitabili, ma si definiscono – come abbiamo detto – nel rapporto tra l’individuo, la sua appartenenza sociale, l’ambiente in cui è inserito. Ciò che sembra accomunare le diverse esperienze riguarda il fatto che l’adole- scente è posto a confronto con nuove possibilità, scelte, alternative e avverte il bisogno di assumere nuovi impegni in aree rilevanti della vita. Alcuni compiti di sviluppo comuni a tutti gli adolescenti riguardano: sapersi adattare ai rapidi e rilevanti cambiamenti somatici e saper ricostituire una unità somato-psichica soddisfacente; accettare le proprie pulsioni e padroneggiarle secondo valori condivisi; saper instaurare e mantenere rapporti con i coetanei dello stesso sesso e di sesso diverso; partecipare a gruppi; sviluppare indipendenza e autonomia; stabilire un’interazione adeguata con le istituzioni sociali (scuola, mondo del lavoro, contesto socio-politico); operare scelte relative ad un proprio sistema di valori; progettare il proprio futuro (Palmonari, 1997). Inoltre, all’adolescente di oggi è richiesto di comprendere situazioni concet- tualmente più complesse, rispetto al passato, proprie della realtà sociale contempo- ranea, e di orientarsi all’interno di esse. Tra queste: la permeabilità del sistema familiare, il pluralismo culturale e valoriale, l’eccedenza e la ridondanza delle possibilità e delle esperienze di vita. L’adolescente del nostro tempo è chiamato a far fronte ad esigenze diversifi- cate e in continuo mutamento dettate dalla complessità sociale nella quale siamo 40 immersi, esigenze che connotano in modo del tutto peculiare questo periodo della vita. In tal senso, egli è chiamato a: - orientarsi nella dinamica, complessa e contraddittoria, della globalizzazione economica, sociale e culturale, da una parte, e delle accentuazioni regionali- stiche e localistiche, dall’altra; - costruire processi di identità culturale e sociale sviluppando nuove forme di progettualità, di cittadinanza attiva a livello nazionale ed europeo; - sviluppare conoscenze, abilità e competenze ispirate alla cultura della diver- sità, della tolleranza e della convivenza solidale per vivere adeguatamente in una società che sempre più si caratterizza come multirazziale, interculturale e interreligiosa; - interagire criticamente con il mondo dei mass media che, con le rapidissime innovazioni tecnologiche, sta modificando radicalmente il modo di lavorare, imparare, ricevere servizi e comunicare con gli altri; - costruire un proprio iter professionale dotato di flessibilità e aperto alla pro- spettiva dell’educazione permanente. Nel rispondere alle richieste dettate dalle proprie esigenze di sviluppo e da quelle poste dall’ambiente prossimo e dalla realtà più ampia nella quale l’adole- scente è inserito, questi può andare incontro a situazioni di malessere e di stress e, in alcuni casi, dar corso a comportamenti di rischio. Ciò si verifica quando egli percepisce una forte discrepanza tra le richieste insite nel suo percorso di emancipazione individuale e le sue concrete possibilità di farvi fronte. Viceversa, nella misura in cui l’adolescente riesce a far fronte positivamente ai diversi compiti, sperimenterà un sentimento di benessere psicologico e di adegua- tezza di sé. L’enfasi si pone, quindi, non tanto sui cambiamenti e sulle richieste con cui l’adolescente è chiamato a confrontarsi, ma sui processi che possono portare ad un adattamento positivo, ad un cambiamento evolutivo soddisfacente. Diventano pertanto cruciali la specificità del momento in cui il compito si colloca lungo il percorso di crescita; l’interpretazione che l’adolescente attribuisce alla qualità del compito e il significato ad esso socialmente attribuito; il bagaglio di risorse personali disponibili; la rete di supporto sociale cui l’adolescente può far riferimento. In particolare, risultano preziose alcune variabili di natura personale e situazio- nale. Tra le variabili personali rivestono un ruolo rilevante l’hardiness, la pro- pensione all’ottimismo, le abilità sociali; tra le variabili ambientali, invece, appare fondamentale il supporto di carattere relazionale e sociale (Zani, 2001). Quanto detto finora, ci consente pertanto di comprendere come le diverse traiettorie di sviluppo in adolescenza, le eventuali incursioni e – in taluni casi – permanenze nel rischio non siano da ricondursi all’adolescenza in sé, quanto all’in- tersecarsi di esigenze evolutive, risorse personali, opportunità offerte dal contesto di vita. Così ad esempio, alcuni adolescenti scelgono modi sani di assunzione del 41 rischio, altri sperimentano per periodi limitati il pericolo, altri ancora – fortunata- mente una minoranza – persistono nel disadattamento. Occorre quindi chiedersi quali siano i fattori che permettono all’adolescente di costruire la propria identità e ridefinire le proprie relazioni sociali senza mettere in pericolo il proprio benessere; in altri termini, che cosa può favorire uno sviluppo positivo nonostante l’esposi- zione, spesso inevitabile, a situazioni di rischio. 3. La moderazione del rischio in adolescenza: i fattori di protezione La risposta a tale domanda ci porta a focalizzare l’attenzione sui cosiddetti fattori di protezione (Rutter, 1996), ossia su quei fattori di natura personale e socioambientale che aumentano la capacità di resilienza degli adolescenti dimi- nuendo la probabilità per essi di essere coinvolti in comportamenti dannosi o aiutando loro a confrontarsi con il rischio senza esserne travolti. Le ricerche più recenti, condotte su campioni normativi (Bonino, 2005), consentono di classificare i fattori protettivi secondo cinque livelli, riguardanti: l’adolescente stesso, la famiglia, la scuola, i coetanei, la comunità. A livello individuale, oltre ad alcune importanti risorse – quali capacità gene- rali di problem solving e decision making; orientamento verso il futuro e proget- tualità; attribuzione di importanza all’esperienza scolastica; capacità cognitive ge- nerali (pensiero critico, pensiero creativo); capacità di autocontrollo; autostima; convinzioni di efficacia personale; capacità di coping attivo; capacità assertive; capacità interpersonali; capacità di ricerca di aiuto – che sono di grande aiuto al- l’adolescente nell’affrontare i suoi compiti di sviluppo, risultano particolarmente importanti alcuni atteggiamenti e comportamenti. A tale riguardo, sembrano svolgere un ruolo fortemente protettivo la presenza di un progetto di realizzazione personale in cui mettersi alla prova, l’impegno verso valori significativi, la consapevolezza di un significato da dare alla propria vita. È in tal senso che assumono valenza protettiva la partecipazione ad attività religiose, l’adesione a gruppi organizzati, la soddisfazione e l’investimento nell’esperienza scolastica (Bonino, 2005). A livello familiare, sono ritenute importanti alcune caratteristiche del funziona- mento familiare che unitamente ad alcuni atteggiamenti e comportamenti dei genitori svolgerebbero una funzione di protezione sia a livello generale che specifico. Più specificatamente sono significativi: il senso di integrazione nella famiglia; il mante- nimento dei rituali familiari; la presenza di problem solving proattivo e di negozia- zione; la proposta di modelli positivi di adulto; una relazione affettuosa con almeno un genitore; l’esperienza di sentirsi amati e rispettati; un atteggiamento di disap- provazione esplicita rispetto ai comportamenti di rischio; la presenza di uno stile genitoriale autorevole (adeguata supervisione del comportamento dei figli, regole esplicite di cui si chiede il rispetto, costante disponibilità e apertura al dialogo). 42 A livello scolastico, sembrano svolgere una funzione molto protettiva: la posi- tività dell’esperienza scolastica (soddisfazione per l’esperienza scolastica, senso di appartenenza, benessere a scuola, risultati scolastici buoni); la stimolazione ad im- pegnarsi in una progettualità a lungo termine; la fiducia accordata dagli insegnanti. Il senso di integrazione nella vita scolastica e il senso di realizzazione perso- nale connessi ad una buona riuscita riducono consistentemente la probabilità di ricercare l’affermazione di sé in altre aree. Altro importante fattore di protezione è rappresentato dal gruppo dei pari, che assume una valenza protettiva quando: i coetanei non sono implicati in comporta- menti di rischio; i coetanei sono impegnati in gruppi a valenza prosociale con una forte progettualità; esiste accordo tra amici e genitori. Ed, infine, la comunità. A questo livello, sono importanti: la presenza di una cultura basata sulla cooperazione; la riduzione della spinta verso l’anticipazione dell’adultità; l’offerta di spazi per la sperimentazione e la realizzazione di sé; la richiesta di comportamenti responsabili nei confronti della comunità locale; la presenza di un ruolo educativo forte da parte degli adulti; la possibilità di legami. In sintesi, le ricerche più recenti tendono a delineare il seguente profilo del- l’adolescente protetto. È un adolescente che: - può contare su figure di adulti autorevoli che gli pongono delle ragionevoli, ma responsabilizzanti richieste - è impegnato in un progetto di costruzione e di realizzazione di sé - vive sfide personalmente e socialmente rilevanti - è accettato e valorizzato dal mondo adulto - vive positivamente l’esperienza scolastica e può sviluppare le proprie abilità cognitive e sociali sulle quali ritiene di poter contare - non è spinto a comportarsi in modo esteriore e consumistico da adulto. 4. Il profilo dell’adolescente: cosa ci dicono le ricerche Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come l’adolescenza, pur nella sua complessità, sia da considerarsi non come una fase inevitabile di conflittualità e di disagio, ma come un periodo di adattamento attivo in cui l’adolescente cerca di far fronte ai suoi compiti di sviluppo costruendo la sua identità e ridefinendo le sue relazioni sociali. In questa prospettiva, diventano fondamentali le potenzialità e le risorse di cui adolescente dispone e le opportunità offerte dal contesto in cui vive. Abbiamo visto, inoltre, come gli stessi comportamenti problematici assumano un diverso significato: lungi dall’essere considerati patologici e disadattivi, essi sono il tentativo di guadagnare indipendenza, autonomia, adultità e spesso hanno un carattere transitorio (Bonino - Cattelino, 2000). Abbiamo sottolineato, infine, l’importanza che assumono alcuni fattori di protezione nell’influenzare positivamente le traiettorie di sviluppo adolescenziali e 43 1 Istituto IARD di Milano, La condizione dell’infanzia e dell’adolescenza nella società italiana; Dipartimento di Scienze dell’Educazione e della formazione, Università di Torino, La condizione del- l’infanzia e dell’adolescenza nella scuola italiana; Dipartimento di Sociologia, Università di Padova, La condizione dell’infanzia e dell’adolescenza nella famiglia; Fondazione ISMU di Milano, La condi- zione dei minori stranieri in Italia; Cattedra di Neuropsichiatria Infantile, dell’Università di Pisa, Il minore e la malattia; Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, I comportamenti di rischio in età evolutiva. nel limitare l’impatto del rischio. In questo paragrafo, intendiamo mettere in evidenza il profilo dell’adolescente del nostro tempo così come emerge da alcune ricerche. Nel far questo ci serviremo ampiamente dei dati emersi dalla meta-analisi che il MIUR ha commissionato a vari centri universitari,1 sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. Inoltre, faremo riferimento al quinto e sesto rapporto dell’EURISPES sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza nel nostro Paese e ai risultati di studi e ricerche nazionali e internazionali che, partendo da una prospettiva non determini- stica, hanno esaminato i percorsi adolescenziali correlandoli ai principali fattori di protezione e di rischio per la salute e per il progetto di vita degli adolescenti. Infine, attingeremo ad alcune ricerche-intervento condotte dall’Associazione Italiana di Psicologia Preventiva su campioni ridotti di studenti delle terze medie e del biennio delle superiori per la prevenzione del disagio e la promozione della salute. Gli aspetti che considereremo nel tracciare il profilo dell’adolescente con- cernono la famiglia, la scuola, i pari e il tempo libero, i comportamenti di rischio, i valori, l’orientamento verso il futuro. 4.1. Rapporto con la famiglia Negli ultimi decenni la struttura familiare ha conosciuto profonde trasforma- zioni e grandi rivolgimenti sia di ordine quantitativo che qualitativo. In particolare aumenta il numero di famiglie, ma diminuisce il numero medio dei componenti. Nonostante la tipologia di famiglia più diffusa sia ancora quella della coppia con figli, tipologia che tuttavia tende a diminuire, sono in forte incremento le coppie con un solo figlio e i nuclei monogenitoriali; inoltre, si assiste ad una maggiore diffusione delle convivenze, dettate da motivazioni sia di ordine economico che af- fettivo, ad una maggiore instabilità matrimoniale, ad un ricorso più frequente alla separazione e al divorzio (nell’arco di 10 anni si è avuto un incremento dell’86%), ad un incremento di famiglie ricostituite. Ciò nonostante l’atteggiamento dei figli nei confronti della famiglia e dei propri genitori è ampiamente positivo. Secondo l’indagine EURISPES, i rapporti tra ragazzi e genitori risultano nella grande maggioranza dei casi buoni o ottimi (85,7%) sebbene l’adolescenza rappresenti il periodo di maggiore conflittualità. 44 Nel momento in cui gli adolescenti iniziano ad affermare la propria individua- lità i contrasti con i genitori divengono, infatti, più frequenti e le relazioni familiari possono attraversare un passaggio critico. In particolare, sono le ragazze ad avere più occasioni di scontro con i propri genitori, forse perché si vedono maggiormente limitate nella propria libertà e forse perché nei loro confronti l’ansia e l’apprensione dei genitori risultano essere più consistenti. Circa la presenza e la disponibilità dei genitori nella loro vita, la maggioranza dei ragazzi si esprime positivamente. Il 60.6% afferma che nei momenti difficili i genitori ci sono sempre, poco meno di un terzo (31.8%) dice che a volte ci sono e altre no, per il 37% addirittura non ci sono mai. Sono, quindi, molti gli adolescenti che possono contare sui loro genitori solo in alcuni momenti, ma non sempre. Anche in questo caso si registra un malessere maggiore nelle ragazze rispetto ai ragazzi. Complessivamente i dati segnalano una presenza ancora forte della famiglia nella vita dei figli, presenza che continua a costituire un punto di riferimento importante e imprescindibile. Altre ricerche condotte su scala più ridotta (cfr. AIPRE, 2004) confermano l’andamento nazionale: gli adolescenti sentono nella grande maggioranza dei casi di essere membri importanti all’interno del nucleo familiare e riconoscono quali caratteristiche delle proprie famiglie il sostegno, l’amore, la sicurezza, l’apparte- nenza. Le aspettative differiscono per le madri e per i padri; le prime sono viste come rifugio emozionale, gli altri come guide. Per alcuni adolescenti è desiderabile un maggior coinvolgimento dei padri nella loro vita. 4.2. Rapporto con la scuola L’esperienza scolastica costituisce un aspetto del percorso di crescita che incide profondamente sul processo di costruzione dell’identità adolescenziale inter- venendo nella costruzione dell’immagine di sé e influenzando significativamente il proprio progetto di vita. Durante l’esperienza scolastica i ragazzi sperimentano come vengono percepiti dagli altri in quanto persone, imparano a conoscersi più differenziatamente, svilup- pano una serie di competenze sul piano affettivo e socio-operativo. Gli anni della scuola, risultano, pertanto, preziosi per la formazione di molti aspetti della persona- lità individuale. La nostra realtà scolastica si caratterizza per una scolarizzazione di massa che tende a protrarsi negli anni: sono sempre più ridotte le porzioni di coloro che non adempiono l’obbligo scolastico e sono sempre più ampie le fasce di coloro che proseguono gli studi negli istituti superiori e all’università. D’altra parte resta alto il numero degli abbandoni nelle scuole superiori e con- tinua a registrarsi una complessa sofferenza formativa: percorsi accidentati, insuc- cessi scolastici, malessere psicologico, comportamenti antisociali (furti, episodi di 45 bullismo, forme di prepotenza, atti di discriminazione razziale) diffuso e scarso ap- prendimento e rendimento, pur in presenza di frequenza costante (cfr. meta-analisi del MIUR, Rapporto EURISPES). I momenti che maggiormente connotano l’esperienza formativa come stres- sante sono rappresentati dal passaggio fra cicli di studio con particolare riferimento alla transizione dalla scuola media alla scuola superiore. Tale transizione si presenta particolarmente delicata in quanto comporta dal punto di vista psicologico una temporanea disorganizzazione e una conseguente ristrutturazione di ruolo; dal punto di vista psicosociale, un’occasione per verificare le proprie capacità e trovare una conferma positiva alla propria autostima nel con- fronto con i pari e con i propri insegnanti. Non a caso molti abbandoni si registrano proprio in questo periodo. A questo riguardo sono state identificate alcune caratteristiche che delineano il profilo di chi potenzialmente potrebbe abbandonare il percorso formativo (AA. VV., 1992). Tra queste: - il sesso: si tratta di un fenomeno al maschile; - la famiglia d’origine: maggiore è il livello culturale della famiglia minore è il rischio di abbandono (l’indicatore è il livello di scolarizzazione dei genitori e non quello economico); - l’età: i periodi più critici sono rappresentati dal primo biennio della scuola superiore e dell’università; - l’irregolarità scolastica: coloro che abbandonano solitamente hanno percorsi scolastici caratterizzati da ripetenze e da risultati negativi; - le motivazioni soggettive: l’insuccesso è spiegato facendo riferimento a fattori interni spesso di carattere consistente (mancanza di voglia, di interessi, di atti- tudini, ecc.); - la carenza di informazioni e di aiuto nel momento della scelta; - la marginalità sociale: sebbene l’abbandono non si configuri come un feno- meno delle classi sociali meno agiate, risulta spesso collegato a problemi di deprivazione e marginalità; - i percorsi lavorativi post abbandono: frequentemente si ripropongono sul lavoro difficoltà e forme di disagio analoghe. Secondo l’indagine commissionata dal MIUR tra le cause responsabili degli abbandoni sono state individuate: variabili interne al sistema scolastico (organizza- zione didattica, rapporto scuola famiglia, strutture, corpo docenti, stile di insegna- mento, contesto comunicativo e relazionale) e variabili esterne ad esso (contesto socio-economico, ambito familiare, fattori di ordine personale). Circa l’impatto negativo con la scuola superiore, che fortunatamente non si traduce sempre in abbandono, ma che può comportare forme più o meno acute di disagio, Pombeni - D’Angelo (2000) segnalano in primo luogo alcune differenze 46 che caratterizzano i due cicli di studio, quali: a) la relazione con gli insegnanti: mentre nella scuola media la relazione è vis- suta come più calda, più protettiva e incoraggiante, nella scuola superiore sembra prevalere l’asimmetria del rapporto di ruolo e gli studenti percepiscono da parte dei docenti più attenzione al compito e meno alla relazione; b) il metodo di studio: il processo di insegnamento-apprendimento è impostato diversamente nei due cicli di studio e la non continuità tra i due ordini di scuola spesso ha per gli studenti un effetto disorientante. Questi ultimi spesso sono sprovvisti delle conoscenze che consentono loro di comprendere come impostare il proprio apprendimento ai fini di una buona riuscita scolastica; c) la relazione con i nuovi compagni di classe: se da una parte c’è il desiderio di incontrare nuovi compagni e creare nuovi legami, dall’altra esiste la preoc- cupazione di essere accettati e benvoluti dagli altri e ciò può sottrarre molte energie ad un adolescente; d) le regole dell’organizzazione scolastica: nella scuola superiore il rapporto con l’autorità scolastica si caratterizza per essere più rigido e con il crescere del- l’età è maggiore la resistenza ad accettare passivamente regole e norme e a vivere in un’istituzione fortemente burocratizzata. Le difficoltà che incontra l’adolescente non sono tuttavia legate solo alle diffe- renze fra i due cicli di studio: a volte la scelta della scuola può rivelarsi deludente o addirittura sbagliata; altre volte la presenza di altri compiti evolutivi ai quali l’ado- lescente è chiamato a rispondere (conflittualità con i genitori, prime esperienze sentimentali, intensificarsi delle relazioni amicali di gruppo, ecc.) distolgono quest’ultimo dall’impegno scolastico e contribuiscono a compromettere il livello di rendimento. Da un’analisi fattoriale effettuata sui dati dello IARD sembrano emergere quattro tipologie di atteggiamento da parte dei giovani della secondaria nei con- fronti della scuola: i soddisfatti rappresentati del 26%, i frustrati rappresentati del 17%, i polemici rappresentati del 29%, gli esclusi rappresentati del 27%. 1) La tipologia dei soddisfatti include quei ragazzi che: - vivono molto positivamente l’esperienza scolastica, manifestando un alto grado di fiducia nei confronti degli insegnanti e della scuola stessa; - attribuiscono grande importanza allo studio e agli interessi culturali; - sono ben disposti non solo verso il sistema educativo, ma verso la vita in generale: sono benevoli, ritengono importante porsi degli obiettivi e delle mete, si sentono apprezzati e nelle difficoltà sanno di poter contare su qualcuno. Nel gruppo dei soddisfatti, per il quale prevalgono le femmine rispetto ai maschi, i quattro quinti dei ragazzi sono iscritti al liceo, più di un terzo studia in un Istituto tecnico e un quinto (prevalentemente ragazze) ha scelto il professionale. 47 2) La tipologia dei frustrati include quei ragazzi che: - risultano solo parzialmente soddisfatti o decisamente insoddisfatti per l’ec- cessiva severità dei professori e per le loro non adeguate capacità profes- sionali; - si dichiarano, ciò nonostante, abbastanza contenti dell’istruzione ricevuta; - ritengono molto importanti lo studio e gli interessi culturali. L’ostilità di questi ragazzi sembra non essere rivolta solo nei confronti della scuola, ma più in generale verso la vita sociale: appaiono piuttosto diffidenti, hanno un atteggiamento negativo nei confronti degli immigrati, pongono al primo posto l’autorealizzazione personale. Nel gruppo dei frustrati si ritrova la percentuale più bassa dei liceali e il nu- mero più alto di iscritti agli istituti tecnici e professionali. 3) La tipologia dei polemici include quei ragazzi che: - esprimono un giudizio fortemente negativo nei confronti delle capacità relazionali dei docenti considerati come poco attenti alle loro esigenze, eccessivamente severi, insensibili rispetto alle loro idee; - d’altra parte valutano molto positivamente le capacità professionali dei propri insegnanti ritenuti competenti e preparati, dato questo va a bilan- ciare la percezione complessiva degli stessi; - danno una grandissima importanza allo studio, quanto agli interessi culturali. Solitamente i ragazzi appartenenti a questa tipologia hanno un’estrazione sociale e culturale elevata; sono usciti dalle medie con votazioni brillanti; frequen- tano nel 50% dei casi il liceo. 4) La tipologia degli esclusi include quei ragazzi che: - sono già usciti dal sistema scolastico; - sono mediamente soddisfatti delle capacità relazionali degli insegnanti, ma esprimono riserve sulle loro capacità professionali; - si dichiarano insoddisfatti dell’istruzione ricevuta; - verso il sistema scolastico hanno o molta fiducia o non ne hanno affatto; - si contraddistinguono per una dichiarata e completa indifferenza nei con- fronti dello studio e degli interessi culturali. Il 45% di loro ha conseguito il diploma, un quarto ha smesso di frequentare la secondaria, gli altri non hanno voluto o potuto proseguire dopo la terza media. Il percorso scolastico pregresso è per più di un quarto non regolare (bocciature, inter- ruzioni). Il livello socio-culturale dei genitori è il più basso dei tre gruppi. Un elemento che si evince da questa analisi è che, eccezion fatta per gli esclusi, tutti gli altri gruppi attribuiscono una grande importanza allo studio e a agli interessi culturali. La scuola continua pertanto ad essere per la maggior parte dei giovani una realtà significativa e centrale. 48 Non va dimenticato, inoltre che la scuola gioca un ruolo fondamentale sia nel fornire opportunità per formare relazioni con i pari, sia nell’offrire possibilità di sostegno adulto; ne deriva che l’appartenenza ad essa costituisce un fattore protettivo molto importante particolarmente a questa età. 4.3. Rapporto con i pari e tempo libero Nel periodo adolescenziale si assiste ad un cambiamento radicale per quanto concerne la rete sociale: mentre le reti sociali dei bambini erano popolate di adulti e pari conosciuti e accettati dai genitori, quelle degli adolescenti sono costituite da legami con coetanei ed adulti non conosciuti dai genitori. Tale elemento, di per sé favorisce l’adattamento e lo sviluppo psicosociale in quanto permette il coinvolgi- mento in attività che garantiscono la separazione fisica dalla famiglia e l’incre- mento di responsività sociale (Nota - Soresi, 1997). Avere un buon gruppo di amici è considerato, dagli adolescenti, di importanza vitale. Così tra i fattori più piacevoli dell’andare a scuola sono menzionate la possi- bilità di fare amicizie e di socializzare. Il senso di appartenenza ad un gruppo sembra rivestire un ruolo cruciale per il benessere in adolescenza. Secondo l’indagine EURISPES la quasi totalità degli adolescenti (oltre l’80%) si dichiara molto o abbastanza soddisfatta delle relazioni con gli amici che, come vedremo più avanti, occupano i primi posti nella scala dei valori. Il rapporto con i pari costituisce un fattore di sostegno molto importante in adolescenza: in questa età diventa fondamentale l’essere inclusi nel gruppo dei coetanei e gli adolescenti investono molto tempo ed energie in questa direzione. In particolare sono le relazioni intime a garantire il benessere psicologico; lo stesso passaggio dalla scuola inferiore alla scuola superiore sembra correlarsi alla pre- senza di relazioni di amicizia che durano nel tempo (Berndt, 1989). È pur vero, d’altra parte, che il rapporto con i pari può costituire un significa- tivo fattore di rischio: le pressioni dei pari possono indurre i singoli adolescenti a comportarsi in modo non conforme ai valori dei genitori fino a facilitare l’insor- genza di comportamenti di rischio. Per questo è indispensabile la presenza costante seppur discreta degli adulti e del loro accurato monitoraggio. Un nuovo fenomeno di aggregazione sociale è rappresentato dalle comunità virtuali. Sono sempre più numerosi i giovani che utilizzano Internet per entrare in rapporto con gli altri e allacciare relazioni sociali. L’ambiente virtuale favorisce la confidenza, la confessione, un legame basato sull’interiorità e l’ascolto reciproco. Contrariamente a quanto si è portati a credere, per molti ragazzi Internet è lo stru- mento per una conoscenza profonda capace di far nascere legami emotivi. Una comunità virtuale soddisfa l’esigenza comune di scrivere e di farsi leg- gere, ascoltare, capire, di aprirsi, di dare e ricevere manifestazioni di affetto (EURI- SPES, 2005). Un altro tema che ben si collega al rapporto con i pari è quello del tempo libero, sia perché gran parte di esso è trascorso con i coetanei, sia perché le stesse 49 attività che i ragazzi scelgono di attuare nel tempo libero sono influenzate dai pari. Secondo le indagini già citate, il tempo libero è trascorso guardando la TV, utilizzando videogiochi, Internet, computer. Solo una ridotta percentuale di ragazzi annovera la lettura tra gli svaghi preferiti; si tratta per lo più di liceali e con un’e- strazione socio-culturale piuttosto alta. Molto gettonato è l’ascolto della radio e della musica in genere. Tra gli intrattenimenti preferiti emergono: concerti di musica leggera, spettacoli sportivi, discoteca. Circa il tempo libero le ricerche più recenti mettono in evidenza che gli adole- scenti a basso rischio, rispetto agli adolescenti ad alto rischio sono coinvolti in un maggior numero di attività organizzate (ecologiche, culturali, associazionistiche, di volontariato) e trascorrono il resto del tempo settimanale dedicandosi allo studio, alla famiglia, a coltivare un hobby. Ciò favorirebbe: l’affermazione di sé e la costruzione dell’identità attraverso la riflessione, lo scambio delle idee, il confronto tra punti di vista ed il comportamento prosociale; la progettualità e l’impegno; l’in- teriorizzazione di valori improntato al riconoscimento dell’altro e dei suoi diritti (Bonino - Cattellino - Ciairano, 2003). 4.4. Comportamenti di rischio Sono definiti comportamenti di rischio quei comportamenti che possono com- promettere in modo diretto indiretto il benessere fisico, psicologico e sociale degli adolescenti. Tra questi: uso di sostanze psicoattive, guida pericolosa, comporta- menti devianti, comportamenti sessuali precoci, alimentazione disturbata. Tali comportamenti sono – come affermato in precedenza – modalità dotate di senso, utilizzate da numerosi adolescenti, in uno specifico momento della loro vita e in un particolare contesto, per rispondere ai propri compiti di sviluppo. Occorre inoltre notare che, rispetto ai comportamenti di rischio e alla percen- tuale di disagio tra gli adolescenti, c’è spesso una sovrastima degli aspetti negativi e una minore considerazione degli aspetti positivi. Il fatto di considerare l’adolescenza a partire dai percorsi adolescenziali ad esito disadattivo ha portato a distorcere, fino ad esagerare, alcuni aspetti di questa età, lasciando in ombra i processi evolutivi normali che – per altro – appartengono alla maggior parte degli adolescenti. In realtà, molti adolescenti vivono il passaggio alla giovinezza e poi all’età adulta senza eccessivi traumi riuscendo a realizzare un buon adattamento. Gli stessi com- portamenti di rischio tendono nel tempo a scomparire e la maggior parte degli adole- scenti vengono definiti, rispetto ad essi, desistenti nel senso che tendono ad abban- donare tali comportamenti con il progredire dell’età; la piccola porzione di coloro che, al contrario, sono definiti persistenti, in quanto continuano a manifestare com- portamenti di rischio nella tarda adolescenza e nell’età adulta, tendono per lo più a presentare irregolarità sul piano comportamentale già nelle età precedenti. Ma vediamo alcuni dati. Gli incidenti stradali rappresentano la prima causa di morte e invalidità per i giovani. Al secondo posto è il suicidio. Entrambi interes- 50 sano più i maschi che le femmine. È da notare, comunque, che tanto per gli inci- denti stradali, quanto per i suicidi, l’Italia segna i tassi più bassi a livello europeo. Circa il consumo di alcool, tabacco e droghe, le ricerche condotte evidenziano la crescente diffusione del consumo di alcolici e la precocizzazione dell’età di con- tatto; nella classifica delle diverse sostanze stupefacenti utilizzate dai ragazzi di età compresa tra i 15 e i 19 anni, il primo posto è occupato proprio dagli alcolici (l’82% dei ragazzi ha consumato alcolici nell’ultimo anno, mentre è molto più basso il numero di coloro che si sono ubriacati: il 37%). Il consumo di tabacco aumenta progressivamente dai 13 anni in su, sebbene negli ultimi tre anni si stia notando una graduale diminuzione. Da segnalare una correlazione tra uso precoce continuato di sigarette e abuso di altre sostanze ed esperienze sessuali precoci. Il consumo di sostanze psicotrope rimane pressoché stabile tra gli adolescenti e i giovani, tranne per la cannabis per la quale si registra un aumento, un abbassamento dell’età di inizio, una generale tolleranza sociale nei confronti di essa. La fascia maggiormente a rischio per il contatto con le sostanze psicotrope è quella dei 13-14 anni poiché nella fascia successiva (15-17) molti di questi comportamenti appaiono già consolidati. Quello che risulta evidente è che chi si avvicina a tali sostanze non è un emarginato sociale, ma una persona che cerca direttamente uno stato di benessere e di euforia per essere più espansiva, disinibita, empatica, per divertirsi più intensamente. Relativamente al comportamento sessuale si osserva un aumento del numero di soggetti che ha rapporti sessuali in età sempre più precoce e/o in modo promi- scuo con conseguenze non solo sul piano della salute fisica, ma anche psicologica. Di qui la necessità di soffermare l’attenzione non solo sugli aspetti epidemiologici, ma soprattutto socio-affettivi-relazionali del fenomeno. Per quanto concerne in particolare l’abbassamento dell’età del primo rapporto sessuale, un’indagine condotta da EURISPES e Telefono Azzurro su un campione di 2.470 adolescenti tra i 12 e i 19 anni, ha rilevato come tra coloro che hanno già avuto rapporti sessuali e che rappresentano il 30.3%, più della metà ha fatto l’amore per la prima volta prima dei 16 anni. Più precisamente il 38.4% ha avuto il primo rapporto sessuale tra i 14 e i 15 anni, mentre l’11,7% tra gli 11 e i 13 anni. Poco meno del 30% lo ha avuto tra i 16 e i 17 anni, mentre appena il 4,9 ha atteso la maggiore età. La precocità con cui gli adolescenti si confrontano con l’esperienza sessuale rende quanto mai necessaria un’adeguata educazione in tal senso. Altri comportamenti, meno eclatanti, ma non per questo meno pericolosi riguardano le condotte alimentari, i cui disturbi sono spesso subdoli e poco rico- nosciuti. Stando alle ultime indagini tali disturbi arriverebbero ad interessare una porzione della popolazione compresa tra il 5 e l’8% nella popolazione femminile di età compresa tra i 15 e i 19 anni. Prima di concludere l’argomento circa i comportamenti di rischio vale la pena citare i risultati di un’indagine esplorativa sulla percezione e il significato del- 51 l’emergenza negli adolescenti realizzata dal Servizio Emergenza Infanzia 114 (EURISPES, 2005). L’indagine riguardava la percezione dell’emergenza da parte degli adolescenti rispetto a situazioni di rischio o pericolo che possono verificarsi d’estate nei luoghi di vacanza. Dall’analisi dei dati sembrerebbe emergere un quadro abbastanza rassicurante circa la capacità degli adolescenti di percepire cor- rettamente le situazioni di rischio che possono sfociare in emergenza e di adottare comportamenti idonei alla circostanza; tra questi, il frequente ricorso all’intervento degli adulti. D’altra parte, non possiamo essere certi del fatto che a tale corretta percezione si accompagni poi nella realtà il comportamento indicato, ossia che vi sia una necessaria corrispondenza tra le risposte date al questionario e i comporta- menti addottati dagli stessi adolescenti nelle situazioni concrete. Tuttavia, la consa- pevolezza circa le situazioni suscettibili di sfociare in emergenza è senz’altro molto presente. 4.5. Valori Per quanto concerne le cose importanti nella vita, gli adolescenti pongono ai primi posti la famiglia, l’amicizia, l’amore e il lavoro. Quest’ultimo assume particolare rilievo soprattutto per coloro che sono usciti dal circuito formativo. Relativamente ai valori può essere interessante riportare le risposte che i ragazzi indicano relativamente alla domanda: “Cosa papà e mamma ritengono im- portante nella vita” (EURISPES, 2005). Le risposte si distribuiscono in modo molto vario su diversi item: il più citato è “essere sempre se stessi” (17.5%), seguito da “essere onesti” (13.4%), “farsi rispet- tare” (12.1%), “realizzarsi professionalmente” (10.9%), “avere fiducia in se stessi” (10.5%), “rispettare il prossimo” (10.1%), “studiare molto” (9.8%). Vengono citati con minor frequenza “accontentarsi” (5.8%), “avere fede in Dio” (3.4%), “essere liberi” (3.2%), “avere successo” (1.4%). 4.6. Orientamento verso il futuro Nonostante la complessità nella quale l’adolescente vive abbia portato alla perdita della dimensione del futuro e all’incapacità di rappresentarselo, di fatto i ragazzi che aderiscono all’orientamento secondo cui è più importate fare espe- rienza nel presente che pianificare l’avvenire sono molto pochi. Circa il modo di rapportarsi al futuro sembra prevalere tra gli adolescenti un atteggiamento di impegno responsabile verso la collettività rispetto al fatalismo e ancor più al disfattismo (EURISPES, 2005). Nello specifico, la convinzione che tramite l’impegno personale si possa co- struire un futuro migliore per tutti è condivisa dall’85,3% degli adolescenti maschi e dal 92,2% delle adolescenti femmine, sebbene queste ultime presentino in misura maggiore dei loro coetanei anche una componente fatalista. L’idea che sia inutile fare progetti per il futuro in quanto le cose nella vita avvengono per caso – idea che 52 per altro appartiene ad una componente minoritaria del campione intervistato – raccoglie, infatti, maggior consensi tra le ragazze che non tra i ragazzi. Il disfattismo invece caratterizza una quota estremamente contenuta del cam- pione (4.4% dei maschi; 0.8% delle femmine). In conclusione ciò che si ricava dalla mole di dati che da fonti diverse sono stati prodotti è il quadro di un adolescente che: - vive come estremamente significativa l’esperienza familiare della quale respira ancora molti valori; - può essere più o meno critico nei confronti dell’esperienza scolastica, pur tut- tavia considera lo studio come qualcosa che può consentire la sua crescita umana e professionale; - attribuisce una grande importanza al microsistema dei pari nel quale cerca conferme per strutturare la propria identità personale e sessuale; - può incorrere in comportamenti di rischio allo scopo di conseguire obiettivi importanti che fanno riferimento allo sviluppo della propria identità e alla partecipazione sociale; - crede nella possibilità di costruire un futuro migliore grazie all’impegno e alla responsabilità personali; - è tanto più in grado di orientarsi nella complessità della vita che lo attende nella misura in cui dispone di risorse personali, ma anche del supporto sociale di adulti accettanti e valorizzanti e di istituzioni che offrano spazi per la speri- mentazione e la realizzazione di sé. 5. Conclusione Abbiamo visto come l’adolescenza si connoti come una fase del ciclo della vita caratterizzata dal susseguirsi di compiti di sviluppo, al superamento dei quali è subordinato, sul piano socio-psicologico, un favorevole processo di emancipazione individuale e sociale. La possibilità di fronteggiare positivamente le situazioni critiche connesse al superamento dei compiti evolutivi è connessa al possesso, da parte dell’adolescen- te, di adeguate competenze sul piano cognitivo, emotivo e strategico-comporta- mentale, nonché alla capacità di sostenere il confronto con i propri coetanei che magari affrontano gli stessi compiti con modalità diverse. D’altra parte lo sviluppo di adeguate risorse personali che mettano l’adole- scente in grado di rispondere con efficacia alle richieste insite nel suo percorso di emancipazione è legato alla presenza di alcune condizioni. Tra queste: - il far parte di una famiglia presente, autorevole, educante, capace di instaurare e mantenere relazioni soddisfacenti; - il poter contare su figure adulte responsabili che pongono realistiche e valoriz- zanti richieste; 53 - il vivere l’appartenenza alla scuola come ad un luogo che oltre a permettere di sviluppare le proprie abilità cognitive e sociali e il senso di autoefficacia personale, stimoli una progettualità a lungo termine; - l’essere inseriti in una comunità che richieda da un lato comportamenti respon- sabili da parte degli adolescenti e che offra in tal senso opportunità di coinvol- gimento, dall’altro che riduca la spinta verso l’adultità e non spinga l’adole- scente a comportarsi in modo esteriore e consumistico da adulto. In tal senso, l’adolescenza viene a configurarsi come una sfida evolutiva che vede impegnati, da un lato, l’adolescente, come protagonista, attore del proprio sviluppo e responsabile delle risposte che sarà in grado di dare ai compiti evolutivi e alle opportunità offerte dal contesto, dall’altro, i genitori, i coetanei, gli inse- gnanti, nonché l’intera comunità. Parte II L’INDAGINE SUL CAMPO 57 Capitolo 3 Metodologia, campionamento e identikit degli intervistati Vittorio PIERONI 1. Tempi-fasi dell’indagine e composizione campionaria L’indagine ha preso avvio nell’inverno 2006 e per la sua realizzazione sono occorsi circa 8 mesi, distribuiti in varie fasi. Una prima fase è stata realizzata nei primi mesi dell’anno ed ha riguardato la ripartizione dei compiti tra i componenti l’équipe di ricerca, impegnati tra chi avrebbe preparato l’impianto teorico di riferi- mento e chi avrebbe elaborato lo strumento di rilevamento. Quest’ultimo, il que- stionario, è formato da cinquanta domande, distribuite in 5 aree: - nella prima area sono state inserite le domande mirate a fornire informazioni sulle principali caratteristiche degli utenti dei CFP (Ente di appartenenza, sesso, età, esperienza scolastica pregressa) e della famiglia di origine (compo- sizione familiare, titolo di studio e occupazione dei genitori, posizione autoc- tona rispetto all’attuale Comune di residenza o provenienza da altre Regioni italiane o dall’estero); - nella seconda area si entrava direttamente in merito all’esperienza formativa in atto chiedendo agli allievi di posizionarsi anzitutto rispetto alla tipologia di corso frequentato (distinguendo tra triennale nella FP e altri), all’anno di fre- quenza e alla comunità professionale di appartenenza, per passare poi alle moti- vazioni che hanno portato ad iscriversi nella FP e quindi ad una serie di valuta- zioni sui formatori, sull’attività didattica, sui miglioramenti da apportare e sul proprio rendimento, in considerazione anche di prossime scelte da effettuare; - una volta ricostruito il panorama formativo, nelle aree successive l’attenzione veniva rivolta prettamente a valutare lo stile di vita di questi giovani, coerente- mente a quella che era l’impostazione di fondo dell’indagine; così nella terza area le domande miravano ad analizzare la qualità dei rapporti tra genitori e figli e gli stili educativi presenti in famiglia (rispetto delle regole, atteggia- mento assunto in caso di conflitto); - quindi si passava ad analizzare, attraverso una successiva area, il rapporto con l’“altra famiglia”, quella composta dagli amici e dal gruppo di appartenenza, per verificare che tipo di amicizie hanno i giovani della FP salesiana e quanto sono affidabili sul piano della crescita della personalità; 58 - per finire poi con il tentativo di penetrare nel segreto mondo di “quei valori” che danno senso al loro sistema di significato esistenziale e che hanno poi una ricaduta diretta sui comportamenti e sulle esperienze di vita; da qui appunto anche la richiesta di autodescrivere le principali caratteristiche della propria personalità, i fattori che a quest’età sono fonti di disagio/problema/rischio e relative strategie di fronteggiamento messe in atto, i bisogni, le aspirazioni ed i cambiamenti che si vorrebbe realizzare. A questa prima fase ha fatto seguito immediatamente l’applicazione dei que- stionari in tutte le sedi del CNOS-FAP e del CIOFS/FP presenti sull’intero terri- torio nazionale; questa seconda fase ha avuto una durata di circa tre mesi ed è terminata a metà giugno con il rientro alla base di oltre 3.000 questionari. Affinché potessero risultare rappresentativi dell’universo, tenendo conto delle diverse sfaccettature della sua composizione, a questo punto si è proceduto ad ela- borare un vero e proprio piano di campionatura in base ai seguenti criteri: è stata presa in considerazione anzitutto la diversa distribuzione numerica per Regioni e, all’interno di ciascuna, della divisione dei CFP in base agli Enti di appartenenza; alla luce di questa prima stratificazione si è passati quindi ad estrarre un questio- nario su tre. In questo modo è stata data rappresentatività a due delle principali variabili caratterizzanti l’universo, le circoscrizioni geografiche e l’appartenenza, le quali di conseguenza l’hanno estesa anche alle rimanenti variabili caratterizzanti l’utenza della FP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP, in particolare il sesso, l’età, la tipologia di corso frequentata e la sua appartenenza ad una specifica comunità professionale (Tav. 1). Tav. 1 - Composizione del campione estratto dai 3000 questionari dell’inchiesta 59 A questo punto è partita anche la terza e ultima fase. Tra la fine di giugno e metà luglio i 1.130 questionari sono stati affidati al “Centro di calcolo” del- l’Università Salesiana di Roma, che ha proceduto al caricamento dei dati su base informatizzata e quindi alla elaborazione statistica di base e per dati incrociati. A partire dalla metà di luglio in avanti da parte dei vari componenti l’équipe si è passati all’analisi e interpretazione dei dati statistici e quindi alla stesura del rapporto di ricerca, fase che si è poi completata definitivamente agli inizi di ottobre. 2. Contestualizzazione del campione Analizzati in base alle principali variabili di status, i 1.130 allievi presentano le seguenti caratteristiche. 2.1. Dati di sfondo e caratteristiche anagrafiche dell’utenza dei corsi La distribuzione dell’utenza sulla base degli Enti di appartenenza (Tav. 2) pre- senta un rapporto di due terzi a un terzo tra CNOS-FAP e CIOFS/FP (69.2 e 30.8%, rispettivamente); dai dati disaggregati emergono inoltre alcune caratteristiche pecu- liari a ciascun gruppo. L’utenza del CNOS-FAP è costituita da oltre i due terzi degli allievi coinvolti nell’indagine (782=69.2%); al loro interno i maschi risultano ovviamente una netta maggioranza (669, pari all’87% del totale maschi e all’85.5% dell’utenza CNOS- FAP); analizzando l’età di questi utenti, circa la metà (386=49.4%) si trova nella fascia intermedia (16-17), 273 (34.9%) in quella più bassa (13-15 anni), mentre i rimanenti 123 (15.7) hanno una maggiore età; infine se suddivisi per fasce geogra- fiche, i due terzi si collocano nelle regioni del nord (498=63.7%). Dal canto suo, l’utenza del CIOFS/FP è rappresentata da meno di un terzo (348=30.8%) e al suo interno il rapporto femmine-maschi è di 71 a 29%, rispettiva- mente; anche in questo caso circa la metà dell’utenza del CIOFS/FP si colloca nella fascia intermedia (16-17 anni, 166=47.7%) e in altrettanta misura si caratterizza per la provenienza dalle regioni meridionali (147=48%); Nella distribuzione per circoscrizioni geografiche (Tav. 3): - oltre la metà degli allievi/e si concentra al nord (51.7%), soprattutto in Pie- monte (17.4%), Veneto (11.3%) e Lombardia (10.9%); il nord si caratterizza anche per comprendere al proprio interno circa i due terzi del gruppo dei ma- schi (59.9%), della fascia 13-17 anni, di chi asserisce di incontrare difficoltà nell’attuale corso che sta frequentando (57.8%) e di chi è intenzionato a cam- biare (59%); - al sud è presente un terzo dell’utenza (31.2%), con particolare riferimento alla Sicilia (il 23% del totale), dove appare particolarmente concentrata la compo- nente femminile (46.2%); 60 - la quota residua riguarda le Regioni centrali (17.2%), è ricoperta quasi per intero dal Lazio (il 13.1% del totale) e presenta al proprio interno un terzo di chi ha 18 e più anni (32.7%). La variabile di genere si presenta suddivisa, come anticipato, tra due terzi di maschi (68.1%), concentrati soprattutto nelle Regioni del nord, oltre che ovvia- mente tra i CFP del CNOS-FAP, e un terzo di femmine (31.4% - Tav. 4),1 a loro volta presenti soprattutto nelle regioni del centro-sud e soprattutto nel CIOFS/FP. Circa la metà del campione ha un’età intorno ai 16-17 anni (48.8% - Tav. 5); segue la fascia dei più piccoli (13-15enni=33%), gran parte dei quali collocati al I anno del percorso formativo (60.2%); mentre uno su cinque è già entrato nella maggiore età (18.1%). 2.2. L’estrazione socio-familiare Stando alla provenienza, oltre i due terzi degli allievi sono nati nell’attuale Comune ove risiedono; la quota residua si compone di immigrati da altre Regioni italiane (19.6%) o dall’estero (11.2%, soprattutto dai Paesi dell’Est, africani e sud- americani); scendendo tra i dati disaggregati si osserva che i figli di entrambi i genitori immigrati dall’estero sono in realtà l’8.5% del campione, a cui però si aggiunge un altro 3.1% che è figlio di una coppia mista, italo-straniera; la grande maggioranza (87.5%) è costituita invece dai figli di entrambi genitori italiani; inoltre i figli di immigrati si caratterizzano ulteriormente per avere un’età superiore alla media e per collocarsi preferibilmente nei CFP delle Regioni del centro-nord; sono presenti in percentuale proporzionale sia nel CNOS-FAP che nel CIOFS/FP e frequentano in pari misura tanto i percorsi triennali nella FP che altri tipi di percorsi formativi. Il 79.2% dell’utenza vive con entrambi i genitori; la quota residua si divide tra chi ha un solo genitore (11.8%) e chi fa parte di una coppia ricomposta (8.6%); la famiglia nei due terzi dei casi è quella classica composta da 4 membri (2 genitori e 2 figli - 62.1%), ma il 35.6% rientra nel modello di famiglia allargata (con oltre 5 componenti). Il titolo di studio dei genitori permette un quadro ancor più definito dell’estra- zione culturale degli utenti della FP: una metà dei genitori ha conseguito appena la licenza media, mentre il 15% circa non ha portato a termine neppure l’obbligo; della quota residua, il 15% ha una qualifica professionale, sono appena il 10% i genitori in possesso di un diploma e soltanto il 3% è arrivato ad avere una laurea; in questo caso si osserva che i CFP del CIOFS/FP e delle Regioni meridionali sembrano avere a che fare con un’utenza proveniente da famiglie culturalmente più deprivate dal punto di vista del titolo di studio dei genitori (con appena la scuola 1 Per evitare appesantimenti nelle tabelle, non sono state indicate le non risposte e questo spiega come mai non sempre la somma delle percentuali del totale non raggiunge il 100%. 61 dell’obbligo o al di sotto), mentre il CNOS-FAP e i CFP delle Regioni del centro- nord hanno più a che fare con un’utenza figlia di genitori diplomati/qualificati. Un’ultima connotazione viene dalla condizione occupazionale dei genitori, che in parte permette di intuire anche la condizione economica della famiglia: l’83.7% dei padri e circa la metà delle madri (46.6%) hanno un regolare lavoro; la quota di lavoro saltuario si aggira per entrambi attorno al 5-7%, la disoccupazione riguarda circa una metà delle madri e il 10% dei padri; in entrambi i casi quest’ultimo dato pare penalizzare particolarmente le allieve del CIOFS/FP, delle Regioni meridio- nali, delle famiglie allargate e scarsamente titolate. In definitiva, nel connotare l’estrazione familiare dell’utenza della FP, l’anda- mento d’insieme sembrerebbe attestare la provenienza da famiglie certamente de- private, almeno dal punto di vista culturale, ciò che lascia dedurre che anche la pro- fessionalità e, di rimando, la condizione economica e/o la classe sociale di apparte- nenza non possa essere paragonata a quella dei coetanei che frequentano i licei e gli istituti tecnico-professionali, dove in genere le indagini riportano percentuali di genitori che normalmente hanno un diploma o comunque un titolo di studio supe- riore all’obbligo e dove i laureati raggiungono e superano talora la quota del 20%. 2.3. La posizione scolastico-formativa L’indagine a questo punto si concentra su alcune caratteristiche di sfondo rela- tive all’esperienza scolastica pregressa e attuale. Per quanto riguarda la pregressa esperienza, nel mettere a confronto i più bravi (i sempre promossi) con i bocciati (una o più volte) il campione si divide esatta- mente a metà (49.4 e 49.5%, rispettivamente - Tav. 6); al tempo stesso va precisato che le bocciature si sono verificate non tanto nella FP (dove appena il 2.5% del totale le ha segnalate) quanto durante la scuola dell’obbligo (19.8%) e soprattutto nelle superiori (28.8%), ed hanno riguardato ovviamente chi ha un’età più avanzata e in particolare i due terzi di chi frequenta un percorso alternativo a quello triennale nella FP (66%). Un tale andamento contribuisce a caratterizzare una delle funzioni sottese alla FP nel recupero dello svantaggio culturale di una condizione giovanile già a priori segnata da condizioni socio-familiari deprivate. Nel tentativo di approfondire la conoscenza sulla carriera scolastica di questi utenti è stato chiesto di indicare anche il giudizio con cui sono stati licenziati alla scuola media; attraverso la Tav. 7, si evince che due terzi (61.4%) hanno riportato un valutazione appena sufficiente; molti di loro vengono da pregressi insuccessi scola- stici (66.9%), manifestano difficoltà anche nell’attuale percorso (66.4%) e sarebbero intenzionati a cambiare indirizzo di studi (65.1%); sebbene le divergenze interne alle variabili sesso ed età non siano notevoli, si osserva tuttavia all’interno di questi dati una percentuale leggermente superiore della fascia al di sotto dei 17 anni, a signifi- care una sempre maggiore “debolezza” riscontrata nel bagaglio formativo delle nuove generazioni che accedono ai livelli di studio superiori; debolezza che trova ulteriore riscontro nel fatto che in quel 33.6% che ha riportato le migliori valutazioni 62 la quota maggioritaria è composta da un giudizio di “buono” (27.8%), solo il 4.8% è arrivato al “distinto”, mentre appena l’1.1% ha riportato “ottimo”. A completamento del quadro formativo veniva la richiesta di indicare il consi- glio che al termine della scuola dell’obbligo era stato dato loro dagli insegnanti al fine di poter proseguire gli studi (Tav. 8): - una maggioranza relativa ha segnalato la FP (37.3%); in questo caso tornano ancora a mettersi in evidenza le fasce dei minorenni, di chi incontra più diffi- coltà nell’attuale corso di studi e di chi proviene da un percorso fatto di insuc- cessi; - come alternativa alla FP sono stati suggeriti gli istituti professionali (31.3%) e, per coloro che al termine dell’obbligo hanno riportato giudizi migliori, anche gli istituti tecnici (13.7% - i maschi) e perfino i licei (11%), per quanto riguarda in particolare le femmine e variabili al seguito (CIOFS/FP, centro-sud). Passando ad analizzare invece la posizione dei 1.130 allievi in merito al- l’attuale corso di studi, troviamo che (Tav. 9): - il 78.4% del campione frequenta attualmente i percorsi triennali nella FP: si tratta ovviamente dei più giovani; la scelta di frequentare i percorsi triennali è stata fatta tanto da chi proviene da pregressi insuccessi scolastici (71.2%), ai quali ovviamente era stata consigliata la FP, come anche da chi non è stato mai bocciato (86.4%) e a cui sono stati suggeriti gli istituti tecnico-professionali o i licei; questa utenza appare particolarmente presente nei CFP del sud (il 92.9% degli iscritti); - stando sempre all’interno della FP, un 10.4% frequenta corsi biennali e l’1.9% corsi annuali: entrambi si caratterizzano per essere stati quasi tutti bocciati negli istituti tecnico-professionali o nei licei a cui si erano iscritti, e di conse- guenza sono presenti anche nella fascia d’età più alta (maggiorenni o prossimi ad accedervi); inoltre si tratta per lo più di maschi, del CNOS-FAP e delle Regioni del centro-nord; - appena il 6.7% è collocato invece nei corsi triennali integrati: non si rilevano particolari discriminazioni tra le variabili interne a questo gruppo. Se considerati infine in base all’anno di frequenza, essi si presentano così distribuiti: - il gruppo più consistente (41.3%) riguarda gli iscritti al I anno: rientrano ovviamente quasi tutti nella fascia 13-15enni e circa una metà ha riportato bocciature e/o una valutazione appena sufficiente al termine dell’obbligo; - un terzo degli iscritti sta al II anno (32.6%) e uno su quattro al III anno (24%): in entrambi i casi una netta maggioranza si colloca nella fascia 16-17 anni, mentre una quota non indifferente va anche oltre, ed il dato ben si ricollega al fatto che in ciascun gruppo i bocciati sono più della metà; - appena l’1.7% sta al IV anno, presenti quasi tutti nei CFP del nord. 63 Ta v. 2 - D is tr ib uz io ne d el l’ ut en za i n ba se a gl i E nt i di a pp ar te ne nz a Ta v. 3 - D is tr ib uz io ne i n ba se a ll e ci rc os cr iz io ni g eo gr af ic he Ta v. 4 - D is tr ib uz io ne i n ba se a l se ss o Ta v. 5 - D is tr ib uz io ne i n ba se a ll ’e tà 2 L a re la tiv a do m an da c hi ed ev a di s pe ci fi ca re s e si s ta va no in co nt ra nd o di ff ic ol tà n el p ro pr io p er co rs o fo rm at iv o. 3 L a re la tiv a do m an da d i p re ci sa re s e si e ra m ai p en sa to d i c am bi ar e il c or so f re qu en ta to . Ta v. 6 - D is tr ib uz io ne i n ba se a ll e bo cc ia tu re r ip or ta te l un go i l pe rc or so s co la st ic o Ta v. 7 - G iu di zi o ri po rt at o al la l ic en za m ed ia Ta v. 8 - I nd ir iz zo c on si gl ia to n el p ro se gu ir e gl i st ud i al t er m in e de ll a sc uo la m ed ia Ta v. 9 - D is tr ib uz io ne de l ca m pi on e in b as e al l’ is cr iz io ne a i co rs i ne ll a F P 64 65 3. Sintesi delle caratteristiche del campione In sintesi, le principali caratteristiche dei 1.130 utenti campionati sono le se- guenti: a) dal punto di vista anagrafico, abbiamo a che fare con una utenza composta pre- valentemente da una maggioranza relativa di allievi presi tra le fila dei CFP del CNOS-FAP, e questo comporta tutta una serie di variabili al seguito quali la componente maschile e l’estrazione dalle Regioni del nord, mentre il CIOFS/FP oltre alla componente femminile è proporzionalmente più presente tra le Regioni centro-meridionali; b) l’età media degli inchiestati si colloca attorno ai 16-17 anni, con appendici al di sopra e al di sotto; ciò significa avere a che fare per lo più con soggetti pros- simi all’entrata nella maggiore età, con evidente ricaduta, oltre che su nuovi e più responsabili stili di vita da adottare, anche sulle coraggiose e sempre più impegnative scelte (di studio, di inserimento nella vita attiva, di relazioni affet- tive...) che a breve dovranno affrontare; c) conformemente al classico stereotipo dell’allievo/a della FP, la loro pregressa esperienza scolastico-formativa si ripropone anche in questo caso corredata in almeno metà dei casi da insuccessi e/o da una condizione di “debolezza”; una tale condizione in parte può essere attribuita ad un’estrazione familiare già di per sé culturalmente deprivata, dove i genitori hanno appena raggiunto (e non sempre) il livello dell’obbligo, ma spesso è dovuta anche a scelte sbagliate/ina- deguate, figlie il più delle volte di attività di “disorientamento” piuttosto che di orientamento agli studi superiori; di conseguenza per tutti costoro la FP si è ri- velata o la scelta più appropriata già al termine dell’obbligo o comunque quella di ripiego; in entrambi i casi essa è finalizzata a conseguire un titolo di studio che permetterà loro un ampio ventaglio di scelte formative e professio- nalizzanti, potendosi così riagganciare al sistema di istruzione o sfociare diret- tamente nel sistema produttivo, grazie al fatto di essere inseriti, in misura di oltre 3 su 4, nei corsi triennali gestiti nella FP. 67 Capitolo 4 Gli allievi valutano la FP iniziale Guglielmo MALIZIA La ripartizione interna del capitolo segue la distribuzione delle domande del questionario esaminate dal presente scritto. Una prima parte sarà dedicata a un pprofondimento delle ragioni per cui gli allievi si sono iscritti alla FP iniziale; la seconda fornirà una descrizione e una valutazione complessiva dei processi educa- tivi e didattici in atto nel percorso formativo sotto esame e del rendimento degli allievi; a sua volta la terza cercherà di indagare sulle prospettive di futuro della FP iniziale e delle opportunità di vita che essa apre ai giovani che la frequentano. 1. Le ragioni di una scelta Prima di affrontare il tema della scelta, è opportuno descrivere con precisione il tipo di studi che gli intervistati stanno compiendo. La più gran parte (78.4%) frequenta la FP iniziale triennale in un percorso formativo che si svolge tutto nella FP stessa, mentre neppure il 10% (6.7%) segue, sempre la FP iniziale triennale, ma secondo un iter integrato tra scuola ed FP. A sua volta, il 10.4% è iscritto a un percorso formativo biennale che si effettua completamente nella FP e l’1.9% a uno annuale, anch’esso totalmente nella FP. La percentuale degli allievi del percorso formativo triennale che si svolge tutto nella FP aumenta nel gruppo di età 13-15, nel sud, tra quanti possono vantare una carriera scolastica regolare, tra chi è stato consigliato al termine della secondaria 1° grado di iscriversi alla FP e tra gli allievi del CIOFS/FP; al contrario, tale por- zione diminuisce tra gli ultraquindicenni, nell’Italia centrale, tra i figli di genitori con livelli di istruzione più elevati, i ripetenti e quanti hanno ricevuto alla fine della secondaria di 1° grado il consiglio di iscriversi ai licei o agli istituti tecnici. Gli al- lievi del percorso formativo integrato tra scuola ed FP crescono fra gli ultradicias- settenni e quelli del percorso formativo biennale tra i residenti nell’Italia centrale, i figli di genitori con livelli di istruzione più elevati, i ripetenti e coloro ai quali è stato dato il suggerimento al termine della secondaria di 1° grado di frequentare i licei o gli istituti tecnici, mentre diminuiscono tra quanti abitano nel Meridione, hanno ricevuto alla fine della secondaria di 1° grado il consiglio di iscriversi alla FP e frequentano i CFP del CIOFS/FP. 68 Nel percorso formativo appena descritto, il gruppo più numeroso (467 pari al 41.3%) frequenta il I anno; seguono il II con 368 iscritti che costituiscono un terzo circa del totale (32.6%) e il III i cui allievi sono 271 e rappresentano un quinto quasi (24%), mentre il IV anno non raggiunge neppure il 2% (1.7% o 19). La supe- riorità quantitativa del I anno e la crescita di quasi 10 punti percentuali negli iscritti tra il I e il II anno attesta il crescente consenso che la FP iniziale triennale si sta conquistando tra le famiglie e i giovani. Rispetto ai dati del totale, la percentuale degli iscritti al I anno cresce nel gruppo di età 13-15 e fra quanti frequentano corsi diversi dalla FP iniziale triennale svolta tutta nella FP, mentre diminuisce tra coloro che hanno un’età superiore ai 15 anni, nel Meridione, e nei CFP del CIOFS/FP. Gli allievi del II anno risultano sovrarappresentati nel gruppo di età 16-17, mentre appaiono sottorappresentati tra gli ultradiciassettenni, nell’Italia centrale e nel CIOFS/FP. A loro volta gli iscritti al III anno crescono tra le ragazze, quanti hanno un età superiore ai 15 anni e l’Italia centrale, mentre scendono nel Settentrione e tra quanti frequentano percorsi diversi da quelli della FP iniziale triennale realizzata tutta nella FP. Un quarto circa degli allievi appartiene alle comunità professionali meccanica (24.3%) ed elettrica-elettronica (24.2%), quasi un quinto a quella aziendale e am- ministrativa (18.1%) e il 15% circa a quella grafica e multimediale (14.7%). In tutti gli altri casi, la percentuale consiste in quote marginali al di sotto del 10%: 7.5% nella comunità turistica e alberghiera, 4.6% in quella commerciale e delle vendite, 2.9% in quella estetica, 0.7% in quella dell’alimentazione, 0.4% in quella sociale e sanitaria e in quella del legno e dell’arredamento. L’appartenenza alle comunità meccanica ed elettro-elettronica risulta più con- sistente del totale tra i maschi e nei CFP del CNOS-FAP e solo quella alla mecca- nica nel nord e nei percorsi diversi dalla FP iniziale triennale, svolta tutta nella FP; le due appartenenze calano tra le ragazze e nel CIOFS/FP e la prima anche nel centro-sud. Gli iscritti ai percorsi aziendale e amministrativo salgono tra le ragazze, fra gli ultradiciassettenni, nel centro-sud e nei CFP del CIOFS/FP; al contrario essi scendono fra i maschi, nei CFP del CNOS-FAP e nei corsi diversi dalla FP iniziale triennale svolta tutta nella FP. L’appartenenza alla comunità grafica e multimediale aumenta tra gli ultradiciassettenni, nei CFP del CIOFS/FP e nei corsi diversi dalla FP iniziale triennale svolta tutta nella FP. Anche gli allievi del turi- stico-alberghiero sono sovrarappresentati tra gli ultradiciassettenni e gli iscritti ai CFP del CIOFS/FP. La prima ragione della scelta del percorso formativo che ci fornisce il questio- nario consiste in un dato oggettivo ed è offerta dal risultato degli esami di licenza di scuola secondaria di 1° grado. Il 60.2% ha ottenuto un giudizio di “sufficiente”, neppure il 30% (27.8%) quello di “buono” e meno del 5% quello di “distinto” (4.8%) o di “ottimo” (1.1%) (cfr. Tav. 1). La FP iniziale continua ad essere il sotto- sistema formativo per i ragazzi che non riescono a scuola. Questa conclusione viene rafforzata dal confronto con i risultati degli esami di licenza di scuola secon- 69 daria di 1° grado statale a livello nazionale nel 2004-05: sul totale degli alunni che si sono presentati alle prove in tutta Italia, la percentuale di quanti ottengono un giudizio di “sufficiente” si dimezza quasi (37.4%), mentre quelli che conseguono una valutazione di “distinto” diventano un quinto circa (18.9%) e gli studenti che arrivano all’“ottimo” costituiscono il 17.7% (Sugamiele, 2006. 34). Tav. 1 - Risultati degli esami di licenza di secondaria di 1° grado: confronto tra gli allievi del campione e delle scuole statali (2005-06 e 2004-05; in % e M) Nel nostro campione, le valutazioni superiori alla sufficienza crescono tra le ragazze, gli allievi del centro e del sud, i figli di genitori con livelli di istruzione più elevati, che non hanno mai ripetuto un anno, a cui al termine della scuola media è stato consigliato di iscriversi ai licei o agli istituti tecnici, che stanno frequentando un percorso di FP triennale integrato o biennale o annuale, in cui non hanno incon- trato difficoltà. Al contrario, la percentuale di chi ha conseguito la sufficienza aumenta rispetto al totale tra i residenti al nord, i ripetenti, quanti sono stati con- sigliati di frequentare gli istituti professionali e la FP e gli allievi in difficoltà nel percorso della FP iniziale. Tav. 2 - Percorsi scolastici e formativi consigliati agli allievi al termine della scuola secondaria di 1° grado (2005-06; in totale e secondo variabili scelte; in %) 70 Al termine della scuola secondaria di 1° grado, i due terzi quasi (64%) avevano ricevuto il consiglio di iscriversi al sistema di istruzione e di formazione professio- nale, più specificamente il 31.3% agli istituti professionali e il 32.7% alla FP: al momento di decidere il primo gruppo ha preferito proseguire nella FP iniziale (cfr. Tav. 2). A un quinto circa (24.7%) era stato suggerito invece di frequentare i licei (11%) e gli istituti tecnici (13.7%), ma essi non si sono attenuti a tale indicazione e hanno optato per la FP iniziale. I consigli di iscriversi ai licei risultano più diffusi del totale tra le ragazze, nel- l’Italia Meridionale, tra quanti non vivono con entrambi i genitori, e tra le allieve del CIOFS/FP e quelli di frequentare i licei o i tecnici tra gli ultradiciassettenni, quanti vivono nell’Italia Centrale, i figli di genitori con livelli di istruzione più ele- vati, coloro che hanno conseguito una valutazione superiore al sufficiente all’esame conclusivo della secondaria di 1° grado e non hanno sperimentato nessuna difficoltà nel percorso della FP iniziale. Al contrario, i suggerimenti di seguire gli studi presso l’istituto professionale o la FP vengono segnalati più frequentemente da quanti hanno ottenuto un giudizio di sufficiente all’esame conclusivo della secondaria di 1° grado e dagli allievi in difficoltà nella FP iniziale e i consigli di iscriversi alla FP nel gruppo di età 13-15 anni e nell’Italia Settentrionale. Venendo alle motivazioni soggettive per cui gli allievi si iscrivono alla FP, va anzitutto osservato che esse sono molteplici e variegate in quanto nessuna di quelle elencate nel questionario ottiene ampi consensi (cfr. Tav. 3). Quelle più segnalate mettono in evidenza che la FP viene scelta per la sua funzionalità all’inserimento rapido e con successo nel mercato del lavoro: infatti, il 40% quasi (37.8%) afferma che permette di trovare un’occupazione più facilmente e intorno al 30% che dà una buona preparazione professionale (30.8%) e che impartisce un insegnamento più pratico che teorico (29.6%). Solo al quarto posto si colloca una motivazione che sottolinea le potenzialità educative generali della FP: più di un quarto (27.3%) giustifica la sua scelta, mettendo in risalto che il corso è più rispondente alle proprie doti ed esigenze, a cui si aggiunge il 16% che pensa di trovarsi bene in ambiente salesiano e l’11.8% che è interessato alla proposta formativa dei CFP del CIOFS/FP e del CNOS-FAP. Un quinto circa (19.7%) segnala le strutture e le attrezzature efficienti, appena il 6.6% la presenza di formatori qualificati e ancora di meno (2.9%) la messa in atto di processi innovativi e sperimentali. Il 10.7% era demotivato a continuare gli studi nella scuola frequentata, per cui è stato probabil- mente orientato dai docenti a iscriversi nella FP (12%), mentre appena il 3.2% ha scelto la FP dietro suggerimento di una psicologo o di un Centro di orientamento. La rispondenza alle esigenze della famiglia è stata decisiva solo per il 6.7%. Le motivazioni soggettive elencate sopra rimangono nella più gran parte inva- riate nei vari sottocampioni di intervistati. Le ragazze sottolineano in misura mag- giore del totale le potenzialità formative della FP rispetto alla funzionalità a reperire facilmente un lavoro, mentre gli ultradiciassettenni evidenziano di meno le due ragioni appena menzionate, quella di trovarsi bene in ambiente salesiano (che invece 71 è segnalata particolarmente dai più giovani) e dell’orientamento ricevuto dai docenti, per dare più rilevanza alla demotivazione a continuare gli studi nella scuola a cui erano iscritti, ragione che invece stimola di meno i più giovani. Gli allievi dei CFP del nord indicano in percentuale superiore al totale l’orientamento da parte dei docenti/formatori e in una porzione inferiore la ragione del trovarsi bene in ambiente salesiano; gli iscritti ai CFP dell’Italia centrale attribuiscono una più grande importanza alla presenza di formatori qualificati e una minore alla validità della preparazione professionale impartita, alla rispondenza alle proprie esigenze, alle disponibilità di strutture e attrezzature efficienti, all’ambiente salesiano, alla presenza di formatori qualificati; gli allievi del sud segnalano in misura più grande la facilità nel trovare un lavoro, la validità della preparazione professionale, l’am- biente salesiano, la demotivazione a continuare gli studi nella scuola frequentata e in percentuale minore l’orientamento da parte dei docenti/formatori. Il retroterra familiare più elevato sul piano culturale si associa a una enfasi sulla demotivazione e a una minore rilevanza della facilità a trovare un lavoro e della validità della preparazione professionale. Tav. 3 - Motivi per cui gli allievi si iscrivono alla FP (2005-06;in totale e secondo variabili scelte; in %***) 72 2. Valutazione del percorso formativo Globalmente, si può dire che i contenuti del percorso formativo seguito rispon- dono in misura più che sufficiente alle attese degli allievi (cfr. Tav. 4). Anzitutto, gli argomenti sono apparsi loro almeno abbastanza importanti (M=1.70), in secondo luogo essi sono risultati pertinenti alla futura vita professionale più o meno nello stessa misura (M=1.79); al terzo posto, a poca distanza, si colloca la chiarezza dei contenuti (M=1.85). Le valutazioni crescono rispetto al dato del totale tra le ragazze, gli iscritti del I anno, chi non ha incontrato difficoltà nel suo percorso formativo, quanti non hanno mai pensato di cambiare il percorso che frequentano; l’andamento è opposto fra gli iscritti al II, III o IV anno, quanti hanno sperimentato problemi nel seguire il corso e tra coloro che hanno pensato di cambiarlo. Gli ultra- diciassettenni sono più critici della funzionalità professionale e della chiarezza dei contenuti, gli allievi del CIOFS/FP apprezzano maggiormente la loro pertinenza alla futura vita professionale, gli iscritti del nord valutano di meno la loro rile- vanza, quelli del centro sono più positivi riguardo alla loro chiarezza e quelli del Meridione quanto alla loro importanza. Tav. 4 - Gradimento degli allievi per il percorso formativo (2005-06; in totale e secondo variabili scelte; in M*) La valutazione dei metodi si colloca sulla sufficienza (cfr. Tav. 4). Questa è piena riguardo alla cooperazione tra allievi e formatori (M=1.90) e alla valutazione (M=1.94), mentre si situa appena al di sotto quanto al coinvolgimento durante le le- 73 zioni (M=2.05). L’apprezzamento risulta più elevato tra le ragazze, il gruppo di età 13-15 anni, gli allievi del centro-sud, gli iscritti al I anno e ai CFP del CIOFS/FP, chi non ha incontrato difficoltà nel suo percorso formativo e quanti non hanno mai pensato di cambiare il percorso che frequentano; le valutazioni presentano medie ponderate più basse del dato totale tra i maschi, il gruppo di età 16-17 anni, gli iscritti del nord, gli allievi del II, III o IV anno, quanti hanno sperimentato problemi nel seguire il corso e tra coloro che hanno pensato di cambiarlo. L’organizzazione del percorso consegue una valutazione globalmente più posi- tiva degli altri due aspetti (cfr. Tav. 4). La disponibilità di attrezzature e strumenti è apprezzata mediamente tra molto e abbastanza (M=1.67), mentre ottengono una sufficienza piena: la strutturazione di spazi e ambienti (M=1.80), l’organizzazione delle visite tecniche e dello stage (M=1.90) e la distribuzione dei tempi (M=1.96). La valutazione si presenta superiore al dato del totale nel gruppo di età 13-15 anni, nell’Italia Centrale, nel I anno, tra chi non ha incontrato difficoltà nel suo percorso formativo e fra quanti non hanno mai pensato di cambiare il percorso che frequen- tano; l’andamento opposto si riscontra nel gruppo di età 16-17 e tra gli ultra dicias- settenni, nel II, III e IV anno, tra quanti hanno sperimentato problemi nel seguire il corso e tra coloro che hanno pensato di cambiarlo. I maschi sono più positivi riguardo all’organizzazione delle visite e dello stage e le ragazze riguardo alla distribuzione dei tempi e meno circa le visite e lo stage. Gli iscritti al CIOFS/FP valutano maggiormente del totale la distribuzione dei tempi e meno la struttura- zione di visite e stage e la disponibilità di ambienti. Sono comunque gli apprendimenti ad ottenere la valutazione più positiva (cfr. Tav. 4). L’acquisizione di conoscenze tecnico-professionali (M=1.61) e la forma- zione di capacità operative (M=1.61) sono apprezzate mediamente tra molto e ab- bastanza e la trasmissione di conoscenze generale si colloca a poca distanza (M=1.74). I giudizi risultano più favorevoli nel gruppo di età 13-15, nell’Italia centrale, nel I anno, chi non ha incontrato difficoltà nel suo percorso formativo e quanti non hanno mai pensato di cambiare il percorso che frequentano; le valuta- zioni presentano medie ponderate più basse del dato totale nel Meridione, nel II, III e IV anno, tra quanti hanno sperimentato problemi nel seguire il corso e tra coloro che hanno pensato di cambiarlo. Le ragazze sono più critiche riguardo all’acquisi- zione di capacità operative come anche gli allievi del CIOFS/FP. Anche la valutazione dei formatori appare abbastanza positiva in quanto, a pa- rere degli allievi, gli stili di insegnamento che sono elencati nella domanda si ri- scontrano generalmente almeno in una buona parte dei docenti (cfr. Tav. 5). Quasi tutti i formatori sono preparati nella materia che insegnano (M=1.63) e vanno d’ac- cordo tra di loro (M=1.68). Buona parte di loro collabora con gli allievi nelle varie attività formative (M=1.95) e utilizza metodi di insegnamento appropriati (M=1.98). Una maggioranza assoluta consistente dialoga con gli allievi (M=2.10), insegna con chiarezza ed efficacia (M=2.13), sa dare valutazioni giuste (M=2.16), riesce a tenere la disciplina (M2.19), coinvolge gli allievi nelle varie attività forma- 74 tive (M=2.21). Da ultimo una minoranza non marginale si preoccupa dei problemi degli allievi (M=2.54): veramente ci si aspettava che fossero tutti o quasi a pra- ticare quello stile educativo se l’amorevolezza è uno dei capisaldi del Sistema Preventivo di Don Bosco. Tav. 5 - Valutazione dei formatori da parte degli allievi (2005-06; in totale e secondo variabili scelte; in M*) Valutazioni più positive si riscontrano tra le ragazze, i più giovani (13-15 anni), i residenti al centro-sud, chi frequenta il I anno, gli allievi dei CFP CIOFS/FP, chi non ha incontrato difficoltà nel suo percorso formativo e fra quanti non hanno mai pensato di cambiare il percorso che frequentano. Al contrario, si dimostrano più critici i maschi, il gruppo di età 16-17, gli iscritti al II, III e IV anno, gli allievi dei CFP CNOS-FAP, quanti hanno sperimentato problemi nel seguire il corso e coloro che hanno pensato di cambiarlo. I comportamenti degli allievi alla cui osservanza tengono principalmente i formatori sono tre: anzitutto la puntualità che viene segnalata dai due terzi quasi (65%), poi il rispetto degli ambienti e delle attrezzature evidenziato dalla metà circa (49.9%) e l’uso di un linguaggio non volgare sottolineato da una minoranza ragguardevole (40.9%) (cfr. Tav. 6). Tra il 20% e il 10% indica i seguenti: rispettare le norme di sicurezza (19%); non fumare (17.8%); non indossare un abbigliamento inadeguato (13.7%); non litigare (12.8%); aiutarsi reciprocamente (12.7%); mentre meno del 10% fa riferimento alla lealtà (9.6%) e alla partecipazione alle iniziative 75 religiose del CFP (7.3%). Di questa classifica preoccupa che i comportamenti cor- rispondenti a valori centrali del progetto educativo salesiano come appunto la frequenza delle attività religiose, la solidarietà e la lealtà ricevano, secondo la per- cezione degli allievi, un’attenzione così scarsa da parte dei formatori; non sembra neppure adeguata la considerazione che viene riservata al rispetto delle norme di sicurezza. Dopo aver chiesto un giudizio sul percorso e i suoi vari aspetti, gli allievi sono chiamati a pronunciarsi sul proprio apprendimento. E ciò da due punti di vista: an- zitutto, vengono invitati a immedesimarsi nei loro formatori e a immaginare come questi valutano globalmente il loro rendimento. Secondo gli allievi, i loro docenti si concentrano su due tipi di giudizio: il 50% quasi (49.8%) su “buono” e più di un terzo (34%) su “sufficiente”, mentre neppure il 10% (8.9%) menziona l’“ottimo” e appena il 5% parla di “insufficiente”. Al tempo stesso, è stato chiesto agli allievi di valutare globalmente il proprio rendimento nel corso. Anche l’autovalutazione degli allievi si concentra sugli stessi tipi di giudizio che essi attribuivano ai loro formatori, “buono” e “sufficiente”; tuttavia cresce, anche se non di molto, la prima forma di apprezzamento dal 49.8% al 56.1%, mentre diminuisce sostanzialmente nella stessa misura la seconda dal 34% al 28.8%. Il giudizio di “ottimo” rimane intorno al 10%, pur registrando un leggero aumento da 8.9% al 10.7%, e quello di “insufficiente” scende di poco dal 5% al 3.1%. Tav. 6 - Comportamenti su cui i formatori insistono principalmente (2005-06; in totale e secondo variabili scelte; in %*) 76 In entrambi i casi coincidono sostanzialmente le variabili che fanno alzare o calare le percentuali rispetto ai dati del totale. Le valutazioni dei formatori e le autovalutazioni degli allievi aumentano tra le ragazze, al Sud, tra chi ha ottenuto un giudizio almeno di “buono” nell’esame finale della secondaria di 1° grado, tra coloro a cui era stato dato il consiglio di iscriversi ai licei o agli istituti tecnici al termine della secondaria di 1° grado, nei CFP del CIOFS/FP, tra chi non ha incon- trato difficoltà nel suo percorso formativo e fra quanti non hanno mai pensato di cambiare il percorso che frequentano. Ambedue i tipi di giudizio diminuiscono tra chi ha ottenuto un giudizio solo di “sufficiente” nell’esame finale della secondaria di 1° grado, tra coloro a cui era stato dato il consiglio di iscriversi alla FP al termine della secondaria di 1° grado, fra quanti hanno sperimentato problemi nel seguire il corso e tra coloro che hanno pensato di cambiarlo. Il 51.2% degli allievi non incontra alcuna difficoltà nel proprio percorso for- mativo, mentre l’altra metà quasi (48.4%) ha sperimentato problemi, la grande maggioranza (38.4%) solo in parte e neppure il 10% (8.8%) su tutti gli aspetti. Il disagio cresce al nord, tra coloro a cui era stato dato il consiglio di iscriversi alla FP al termine della secondaria di 1° grado e tra coloro che hanno pensato di cam- biare il percorso; al contrario, l’andamento opposto si riscontra al centro e al sud, tra chi ha ottenuto un giudizio almeno di buono nell’esame finale della secondaria di 1° grado, tra coloro a cui era stato dato il consiglio di iscriversi ai licei o agli istituti tecnici al termine della secondaria di 1° grado, nei CFP del CIOFS/FP e fra quanti non hanno mai pensato di cambiare il percorso che frequentano. Il 60% quasi (58.5%) di quanti incontrano difficoltà nel proprio percorso formativo le attribuiscono alle materie di studio. Il 30% circa (29.1%) chiama in causa i problemi personali, poco più di un quarto (26.3%) il metodo di studio e oltre un quinto (22.1%) il metodo di insegnamento. Tra il 20% e il 10% si collo- cano: la differenza di idee, mentalità e interessi con i compagni (17.1%) e con i formatori (16.3%), i problemi familiari (16.7%) e la distanza tra la casa e il Centro (13.9%), mentre si scende al di sotto del 10% con la condizione socio-economica (7.7%) e la differenza di idee, mentalità e interessi con i genitori (6.2%). Le ragazze danno maggiore rilevanza dei maschi ai problemi personali, alla diversità di idee, mentalità e interessi rispetto ai compagni, e meno alle materie di studio e al metodo di insegnamento. Anche gli ultradiciassettenni sottolineano ri- spetto ai più giovani i problemi personali e in misura inferiore le materie di studio. Gli allievi dell’Italia centrale evidenziano i problemi personali e familiari in con- fronto ai dati del totale e mettono meno in risalto le materie e il metodo di studio. Gli allievi del CIOFS/FP pongono l’accento sui problemi personali e sottolineano in misura inferiore le materie di studio. 77 3. Le prospettive di futuro Come nella sezione precedente, il discorso prevede due livelli: quello istituzio- nale riguardante le prospettive della FP iniziale e quello personale degli sbocchi possibili del percorso seguito. Una minoranza consistente degli allievi (41.2%) pro- pone, come miglioramento da apportare al corso, un maggiore utilizzo dei labora- tori (cfr. Tav. 7). A sua volta, oltre un terzo (34.6%) suggerisce un ricorso più ampio all’informatica e intorno al 30% l’avvio del IV anno, (31.9%), la prepara- zione accurata dello stage e delle visite tecniche (27.3%) e l’introduzione dei lavori di gruppo (27%). Un quinto circa propone di invitare esperti del mondo del lavoro (20.6%) e un insegnamento più rispondente ai bisogni formativi di ciascun allievo (19.7%). Intorno al 10% suggerisce di rendere le valutazioni più oggettive (11.9%), di offrire più occasioni agli allievi di verificare l’andamento della propria forma- zione (9.6%), di assumere professori più preparati e competenti (9.2%), mentre al di sotto del 5% si collocano miglioramenti come: dare maggiore sostegno agli al- lievi disabili (4.9%), coinvolgere di più le famiglie (4.3%) e facilitare l’inserimento degli immigrati (3.4%). Tav. 7 - Miglioramenti da apportare al corso (2005-06; in totale e secondo variabili scelte; in %*) 78 I maschi sottolineano più del totale il ricorso ai laboratori e all’informatica e meno l’avvio del IV anno, mentre le ragazze si trovano su posizione opposte e in aggiunta evidenziano l’esigenza di rendere l’insegnamento più rispondente ai biso- gni formativi di ciascun allievo. I più anziani segnalano maggiormente l’invito a esperti del mondo del lavoro e in misura inferiore l’avvio del IV anno e l’introdu- zione dei lavoro di gruppo; anche qui i più giovani manifestano orientamenti op- posti. Gli allievi dell’Italia settentrionale mettono in risalto il ricorso ai laboratori e meno la preparazione accurata degli stage e delle visite tecniche; i giovani dell’Italia centrale condividono l’ultimo andamento segnalato e appaiono meno interessati al ricorso ai laboratori e all’informatica; gli allievi del Meridione evidenziano la prepa- razione accurata dello stage e delle visite tecniche e l’invito ad esperti del mondo del lavoro, mentre indicano in misura inferiore del totale l’introduzione dei lavori di gruppo. Gli allievi del CIOFS/FP insistono sull’avvio del IV anno e attribuiscono una rilevanza minore al ricorso ai laboratori e all’informatica. Tav. 8 - Esigenze formative dei giovani da soddisfare maggiormente nel proprio CFP (2005-06; in totale e secondo variabili scelte; in %*) La metà quasi degli allievi (46.9%) ritiene che l’esigenza formativa dei giovani della propria età che dovrebbe essere maggiormente soddisfatta dal proprio CFP consiste nell’avere informazioni e la possibilità di orientarsi circa le opportunità di proseguire gli studi e il bisogno di orientamento viene rafforzato dal 30.6% che chiede tale opportunità anche in riferimento alla prosecuzione degli studi; inoltre, una minoranza ragguardevole (44.6%) chiede più attività associative, sportive e ricreative (cfr. Tav. 8). Intorno a un quarto domanda di essere formato a vivere one- stamente (26.7%) e corsi di recupero o un insegnamento adatto per coloro che sono 79 in difficoltà sul piano formativo (25.6%); per un quinto circa le esigenze da soddi- sfare maggiormente riguardano la preparazione a partecipare alla vita sociale e poli- tica (22.3%), una formazione adeguata sulla sessualità e sui rapporti di coppia (21.6%) e una informazione sui comportamenti che possono mettere a rischio il proprio sviluppo psico-fisico (abuso di sostanze, guida pericolosa...), mentre la formazione religiosa (esercizi spirituali, incontri formativi...) viene segnalata solo dal 6.7% a significare che l’offerta attuale della FP iniziale triennale è adeguata. I maschi sottolineano maggiormente rispetto alle ragazze l’orientamento al lavoro e la formazione a vivere onestamente, mentre le seconde sottolineano l’esi- genza di corsi di recupero. Il bisogno di un orientamento negli studi aumenta con il crescere dell’età; al tempo stesso diminuisce la domanda di attività associative, sportive e ricreative e della formazione a vivere onestamente. Gli allievi del Centro attribuiscono minore rilevanza del totale alle esigenze di formazione alla vita onesta, di corsi di recupero e di formazione sulla sessualità e sui rapporti di coppia, mentre nel Meridione l’andamento è opposto. La domanda di una formazione alla vita onesta e sulla sessualità e i rapporti di coppia cresce passando dai CFP CNOS- FAP a quelli del CIOFS/FP, mentre l’andamento contrario si riscontra a proposito dell’esigenza di essere informati sui comportamenti che possono mettere a rischio il proprio sviluppo psico-fisico. Il 71% degli allievi non ha mai pensato di cambiare il corso che frequenta, l’11.2% si è posto il problema, ma per rimanere sempre all’interno della FP, e il 13.5% ha pensato a un trasferimento dalla FP ad istituti scolastici. La percentuale di chi si trova bene nel percorso che sta seguendo aumenta, passando dai maschi alle femmine, dal nord al sud, dai giovani di origine socio-culturale bassa a quelli con un retroterra familiare più elevato, e diminuisce procedendo dal I al IV anno. Gli allievi intervistati prevedono di godere di opportunità elevate: di trascor- rere una vita familiare serena (M=1.93),1 di avere dei buoni amici su cui contare (M=1.94), di godere di buona salute (M=1.98), di trovare un lavoro soddisfacente (M=2.03), di essere rispettati all’interno della propria comunità (M=2.06) e di avere una casa propria, anche se in questo caso le possibilità sono un po’ meno che alte (M=2.15). Le opportunità scendono intorno ai due terzi riguardo alla possibi- lità di vivere dove si vuole (M=2.40) e al 60% circa quanto alla possibilità di pren- dersi un diploma di scuola superiore (M=2.75), mentre divengono basse, intorno al 25%, circa l’iscrizione all’università (M=3.93). Le opportunità di una vita felice tendono a crescere nel gruppo di età 13-15 e degli ultradiciassettenni, fra quanti risiedono nell’Italia centrale, gli allievi con un origine socio-culturale più elevata, chi ha ottenuto un giudizio almeno di “buono” nell’esame finale della secondaria di 1° grado, coloro a cui era stato dato il con- siglio di iscriversi ai licei o agli istituti tecnici al termine della secondaria di 1 La media ponderata presenta i seguenti valori: 1 = possibilità molto alte; 2 = alte; 3 = circa 50%; 4 = basse, 5 = molto basse. 80 1° grado, coloro che frequentano il I anno, chi non ha incontrato difficoltà nel suo percorso formativo e quanti non hanno mai pensato di cambiare il percorso che frequentano. L’andamento opposto si riscontra nel gruppo di età 16-17, al nord e al sud, in coloro a cui era stato dato il consiglio di iscriversi alla FP al termine della secondaria di 1° grado tra chi ha trovato problemi lungo l’attuale percorso forma- tivo e ha pensato di cambiarlo. 4. Sintesi conclusiva L’80% quasi degli intervistati frequenta la FP iniziale triennale in un percorso formativo che si svolge tutto nella FP stessa, mentre neppure il 10% segue, sempre la FP iniziale triennale, ma secondo un iter integrato tra scuola ed FP. A sua volta, più del 10% è iscritto a un percorso formativo biennale che si effettua completa- mente nella FP e il 2% circa a uno annuale, anch’esso totalmente nella FP. Nel percorso formativo appena descritto, più del 40% frequenta il I anno; seguono il II con un terzo circa del totale degli allievi e il III con un quinto quasi (24%), mentre il IV anno non raggiunge neppure il 2% a motivo del suo avvio nel 2005-06 a conclusione del primo triennio di sperimentazione della nuova FP iniziale e a causa delle incertezze dell’ultimo anno circa il quadro politico. La supe- riorità quantitativa del I anno e la crescita di quasi 10 punti percentuali negli iscritti tra il I e il II attesta il crescente consenso che la FP iniziale triennale si sta conqui- stando tra le famiglie e i giovani e offre motivi validi per credere in un consolida- mento della nuova offerta, a meno che ragioni ideologiche non prevalgano su quelle pedagogiche e spingano il Governo nazionale e quelli locali a interromperne lo sviluppo. Un quarto circa degli allievi appartiene alle comunità professionali meccanica ed elettrica-elettronica, quasi un quinto a quella aziendale e amministrativa e il 15% circa a quella grafica e multimediale. In tutti gli altri casi la percentuale consiste in quote marginali al di sotto del 10%. La prima ragione della scelta del percorso formativo che ci fornisce il questio- nario consiste in un dato oggettivo ed è offerta dal risultato degli esami di licenza di scuola secondaria di 1° grado. Più del 60% ha ottenuto un giudizio di “suf- ficiente”, neppure il 30% quello di “buono” e meno del 5% quello di “distinto” o di “ottimo”. Nonostante la riforma, la FP iniziale continua ad essere il sottosistema formativo per i ragazzi che non riescono a scuola. Al termine della scuola secondaria di 1° grado i due terzi quasi avevano rice- vuto il consiglio di iscriversi al sistema di istruzione e di formazione professionale, in parti quasi eguali tra gli istituti professionali e la FP: al momento di decidere il primo gruppo ha preferito proseguire nella FP iniziale. A un quinto circa era stato suggerito invece di frequentare i licei e gli istituti tecnici, ma essi non si sono attenuti a tale indicazione e hanno optato per la FP iniziale. I dati mettono in evi- 81 denza come i consigli forniti alla conclusione della secondaria di 1° grado vengono seguiti appena da un terzo dei licenziati per cui c’è da interrogarsi seriamente sulla validità dell’orientamento offerto in uno degli snodi fondamentali della carriera scolastica e formativa dei giovani in Italia. Venendo alle motivazioni soggettive per cui gli allievi si iscrivono alla FP, va anzitutto osservato che esse sono molteplici e variegate in quanto nessuna di quelle elencate nel questionario ottiene ampi consensi. Quelle più segnalate mettono in evidenza che la FP viene scelta per la sua funzionalità all’inserimento rapido e con successo nel mercato del lavoro. Solo al quarto posto si colloca una motivazione che sottolinea le potenzialità educative generali della FP: più di un quarto giustifica la sua scelta, mettendo in risalto che il corso è più rispondente alle proprie doti ed esigenze. Globalmente si può dire che i contenuti del percorso formativo seguito rispon- dono in misura più che sufficiente alle attese degli allievi. Anzitutto, gli argomenti sono apparsi loro almeno abbastanza importanti, in secondo luogo essi sono risul- tati pertinenti alla futura vita professionale più o meno nello stessa misura; al terzo posto, a poca distanza, si colloca la chiarezza dei contenuti. La valutazione dei metodi si colloca sulla sufficienza. Questa è piena riguardo alla cooperazione tra allievi e formatori e alla valutazione, mentre si situa appena al di sotto quanto al coinvolgimento durante le lezioni. L’organizzazione del percorso consegue una valutazione globalmente più posi- tiva degli altri due aspetti. La disponibilità di attrezzature e strumenti è apprezzata mediamente tra molto e abbastanza, mentre ottengono una sufficienza piena: la strutturazione di spazi e ambienti, l’organizzazione delle visite tecniche e dello stage e la distribuzione dei tempi. Sono comunque gli apprendimenti ad ottenere la valutazione più positiva. L’acquisizione di conoscenze tecnico-professionali e la formazione di capacità operative sono apprezzate mediamente tra “molto” e “abbastanza” e la trasmissione di conoscenze generale si colloca a poca distanza. Anche la valutazione dei formatori appare abbastanza positiva in quanto a parere degli allievi gli stili di insegnamento che sono elencati nella domanda si riscontrano generalmente in una buona parte dei docenti. Dopo aver chiesto un giudizio sul percorso e i suoi vari aspetti, gli allievi sono stati chiamati a pronunciarsi sul proprio apprendimento. E ciò da due punti di vista: anzitutto, vengono invitati a immedesimarsi nei loro formatori e a immaginare come questi valutano globalmente il loro rendimento. Le due modalità si concen- trano sostanzialmente sugli stessi tipi di giudizio, “buono” e “sufficiente”. Si tratta della percezione degli allievi e ben rappresenta l’azione di stimolo dei formatori volta a spronare verso traguardi più alti. Incrociando questo dato con i successivi si può interpretare positivamente. Poco più del 50% degli allievi non incontra alcuna difficoltà nel proprio percorso formativo, mentre l’altra metà quasi ha sperimentato problemi, la grande 82 maggioranza solo in parte e neppure il 10% su tutti gli aspetti. Il 60% quasi di quanti trovano problemi nel proprio percorso formativo li attribuisce alle materie di studio, il 30% circa chiama in causa i problemi personali, poco più di un quarto il metodo di studio e oltre un quinto il metodo di insegnamento. Pertanto, non- ostante i progressi compiuti e il successo crescente tra i giovani e le famiglie, la nuova FP iniziale incontra con minoranze consistenti difficoltà a portare i contenuti a livello degli allievi, a suscitare il loro interesse nei confronti delle materie insegnate, a motivarli all’apprendimento e a scoprire e a risolvere i loro problemi personali. Gli allievi propongono, come miglioramenti da apportare al corso, di poten- ziare i metodi attivi e la didattica laboratoriale, l’utilizzo delle tecnologie dell’in- formazione e della comunicazione e l’alternanza. Inoltre, le esigenze formative dei giovani della propria età che dovrebbe essere maggiormente soddisfatta dal proprio CFP consistono nell’orientamento, nella promozione delle attività associative, sportive e ricreative e nel potenziamento della educazione morale, socio-politica e sessuale. Oltre il 70% degli allievi non ha mai pensato di cambiare il corso che fre- quenta, più del 10% si è posto il problema, ma per rimanere sempre all’interno della FP, e il 15% quasi ha pensato a un trasferimento dalla FP ad istituti scolastici. Il risultato attesta del gradimento della più gran parte degli allievi per la FP iniziale triennale; al tempo stesso va sottolineato che un 30% sperimenta motivi più o meno grandi di disagio. Quali opportunità di una vita felice contribuisce a costruire la FP? Gli allievi intervistati prevedono di godere di possibilità almeno elevate: di trascorrere una vita familiare serena, di avere dei buoni amici su cui contare, di godere di buona salute, di trovare un lavoro soddisfacente, di essere rispettati all’interno della propria comunità e di avere una casa propria. Le opportunità scendono intorno ai due terzi riguardo alla possibilità di vivere dove si vuole e al 60% circa quanto alla possibilità di prendersi un diploma di scuola superiore, mentre divengono basse, intorno al 25%, circa l’iscrizione all’università. Un’ultima osservazione va riservata ai fattori che si associano con maggiore probabilità con il successo degli allievi nella FP iniziale triennale. In sintesi si tratta: del livello culturale più elevato della famiglia di origine, del conseguimento di un giudizio almeno di buono nell’esame finale della secondaria di 1° grado, del- l’aver ricevuto il consiglio di iscriversi ai licei o agli istituti tecnici al termine della secondaria di 1° grado, dell’assenza di difficoltà nel proprio percorso formativo e del non essere mai stato tentato di cambiare il corso che si frequenta. 83 Capitolo 5 Il rapporto con i genitori e gli amici Mario BECCIU - Anna Rita COLASANTI 1. Il rapporto con i genitori A conferma dell’andamento che si registra a livello nazionale (Rapporto EU- RISPES 2005), l’atteggiamento dei ragazzi nei confronti dei propri genitori è gene- ralmente buono. Tanto con il padre, quanto con la madre i rapporti sembrano essere caratteriz- zati prevalentemente da qualità positive, sebbene, nella relazione con l’uno e con l’altra, siano riscontrabili alcuni elementi di diversità. In particolare, nel rapporto con il padre emergono, quali fattori dominanti, il rispetto (74.4%), la fiducia (65.5%) e la responsabilità (62.1%), in misura di poco maggiore nei maschi rispetto alle femmine. Nel rapporto con la madre al primo posto vi è la fiducia (76.4%), seguita da ri- spetto (75.8%), comprensione (70.3%), responsabilità (67.4%), questa volta in mi- sura di poco maggiore nelle femmine rispetto ai maschi. Nel complesso, sia per i maschi che per le femmine, il rapporto con la madre sembra essere vissuto come più positivo rispetto al rapporto con il padre che ri- sulta, comunque, anch’esso buono. La variabile che maggiormente differenzia i due tipi di relazione è la compren- sione che il 70.3% afferma di sperimentare con la madre e solo il 46.2% con il padre. Accanto alle qualità positive, si registrano, nel rapporto con i genitori, note di problematicità, sebbene in misura decisamente minore. Tra queste la ribellione (30.1% con la madre, 27.1% con il padre), l’incomprensione (27.1% con il padre, 24.8% con la madre), l’indifferenza (25% con il padre, 20% con la madre), l’inco- municabilità (24.6% con il padre, il 18.3% con la madre). Tali note di problemati- cità sembrano interessare in misura leggermente maggiore la fascia di età dei figli compresa tra i 16 e i 17 anni, periodo nel quale, presumibilmente, aumentano i motivi di contrasto e di conflittualità. Un’altra dimensione percepita come presente nel rapporto con i propri genitori è quella del supporto. Tra i comportamenti dei genitori nei confronti di situazioni problematiche che possono verificarsi, quelli che i ragazzi segnalano come maggiormente ricorrenti sono: “Cercano di aiutarmi” (53.5%), “Mi consigliano, 84 lasciando che poi sia io a risolvere il problema” (28%). Rimane, pertanto forte la percezione dei genitori come figure di sostegno si cui poter contare in caso di difficoltà. Da segnalare che, sebbene la prima strategia, “Cercano di aiutarmi”, resti la più frequente, con il crescere dell’età dei figli questa sembra diminuire per lasciare più spazio alla seconda, “Mi consigliano, lasciando che poi sia io a risolvere il problema”. Tav. 1 - Quando hai un problema, i tuoi genitori... Relativamente all’area concernente la comunicazione regolativa in ambito fa- miliare, i dati raccolti consentono di avere un’idea generale sia dei comportamenti che più spesso i genitori richiedono ai figli, sia di quelli assunti dagli uni e dagli altri in caso di trasgressione e di contrasto. I comportamenti dei quali i genitori richiedono maggiormente l’osservanza sono 1) per i figli maschi: - non fumare (37.8%), - dire dove vai e con chi (34.8%), - non usare sostanze stupefacenti (33.6%) - rientrare in orari stabiliti (29.6%), - essere sinceri con i genitori (18,9%), - non usare espressioni volgari (17.3%); 2) per le figlie femmine: - dire dove vai e con chi (46.2%) - rientrare in orari stabiliti (43.7%), - non fumare (24.5%), - non usare espressioni volgari (23.4%), - essere sinceri con i genitori (23.4%), - non usare sostanze stupefacenti (21.7%). In generale si nota una maggiore restrittività normativa nei confronti delle figlie femmine e nei confronti dei figli la cui età è compresa tra i 13 e i 15 anni. Inoltre i comportamenti “dire dove vai e con chi” e “rientrare in orari stabiliti” sembrano essere maggiormente esigiti dai genitori del sud rispetto ai genitori del nord, mentre per il comportamento relativo al “non usare sostanze stupefacenti” si nota l’andamento opposto. La partecipazione ai servizi religiosi non rientra tra i comportamenti più richiesti dai genitori. Solo il 5.4% dei ragazzi dichiara di ricevere sollecitazioni in tal senso. 85 Per quanto concerne l’atteggiamento dei genitori di fronte al mancato rispetto delle norme, i ragazzi riportano tra le reazioni più frequenti: “si arrabbiano” (41.9%), “mi riprendono pazientemente” (36.4%), “me lo fanno pesare” (31.3%), “non mi fanno uscire” (22.6%). Non si registrano, a questo riguardo, particolari differenze né tra maschi e fem- mine, né per fasce di età. Il ricorso al provvedimento “non mi fanno uscire”, sembra riguardare maggiormente i genitori del sud rispetto a quelli del centro e del nord. Per quanto concerne l’atteggiamento dei figli nei confronti delle situazioni di contrasto che possono verificarsi con i genitori, le reazioni indicate come più frequenti sono 1) per i maschi: - reagisco, poi accetto (21.8%), - dialogo, cerco di capire (21.2%), - mi ribello, non accetto (19.4%), - faccio come voglio (15.5%), - mi chiudo in me stesso (9.8%); 2) per le femmine: - mi ribello, non accetto (23.7%) - reagisco, poi accetto (23.1%), - dialogo, cerco di capire (18.6%), - mi chiudo in me stessa (14.6%), - faccio come voglio (13%). La tendenza ad una maggiore reattività e chiusura da parte delle figlie fem- mine potrebbe essere legata al fatto che queste, in misura maggiore rispetto ai maschi, si vedano limitate nella loro libertà e nel loro desiderio di autonomia. Complessivamente, i dati sembrano segnalare una presenza forte e significa- tiva dei genitori nella vita dei figli e la percezione di legami affettivi solidi e sicuri. 2. Il rapporto con gli amici Relativamente al rapporto con i coetanei si evidenzia una sostanziale positi- vità. La presenza degli amici nella propria vita è considerata come qualcosa di molto importante che incrementa l’esperienza di benessere e che consente di soddi- sfare tanto il desiderio di appartenenza, tanto quello di autonomia, entrambi più intensi in adolescenza. Alla domanda “Che importanza ha per te il gruppo di amici”, i maschi rispon- dono che: - aiuta a passare il tempo senza annoiarsi (45.9%) - offre l’occasione di uscire di casa (33.9%) 86 - offre l’occasione di fare esperienze interessanti (27.8%) - fa sentire libero e autonomo (22.5%) - permette di fare cose che non potresti mai fare in famiglia (22.1%) - permette di scaricare rabbie e tensioni e offre l’occasione di dire le tue idee (20.5%) - aiuta a crescere e a formare la personalità (19.5%) - fa sentire sicuri e protetti e fa sentire in famiglia (12.1%). Leggermente diverse le priorità per le femmine, secondo le quali il gruppo di amici è importante perché: - aiuta a passare il tempo senza annoiarsi (40.8%) - permette di scaricare rabbie e tensioni (36.3%) - aiuta a crescere e a formare la personalità (31.0%) - offre l’occasione di fare esperienze interessanti (23.9%) - permette di fare cose che non potresti mai fare in famiglia (23.3%) - offre l’occasione di uscire di casa (23.1%) - offre l’occasione di dire le proprie idee (22.8%) - fa sentire sicuri e protetti (16.1%) - fa sentire libero e autonomo (15.5%) - fa sentire in famiglia (15.8%). Sembrerebbe, pertanto che per i primi, il gruppo rivesta maggiormente un significato ludico-ricreativo; per le seconde, piuttosto quello di uno spazio conte- nitivo dei propri vissuti e stimolante la crescita personale. Non si notano particolari differenze per fasce di età se non per il dato che l’im- portanza attribuita al gruppo, in quanto realtà che consente di passare il tempo senza annoiarsi e offre l’occasione per uscire di casa, tenda a decrescere con l’età. Si passa dall’85.8% a 13-15 anni al 63.4% oltre i 17. Per quanto concerne il “tempo trascorso con gli amici”, i maschi rispondono che la maggior parte di esso è organizzato per: - organizzare il fine settimana (37.3%) - il corteggiamento (35.8%) - fare qualche bravata (34.5%) - parlare dei propri problemi (34.1%); in misura minore per - parlare di sport e di moda (22.4%) - andare al cinema (20.4%) - giocare al computer (16.5%) - fumarsi uno spinello (13.4%) - fare shopping/ascoltare musica (12.5%). 87 Le femmine affermano, invece, di dedicare molto tempo a: - parlare dei propri problemi (69.9%) - fare shopping (40.3%) - organizzare il fine settimana (33.0%); in misura minore per - corteggiamento (22.3%) - ascoltare musica (18.9%) - fare qualche bravata (17.2%) - parlare di sport e di moda (16.9%) - andare al cinema (14.6%) - giocare al computer (8.5%) - fumarsi uno spinello (5.6 %). Si riconferma, pertanto la tendenza da parte delle ragazze a vivere il gruppo dei pari come spazio in cui sperimentare confidenza e intimità. Volendo fare una distinzione per fasce di età e per zone di provenienza, si può osservare come comportamenti, quali: “Fare qualche bravata” e “Fumarsi uno spinello” raggiungano percentuali leggermente più elevate intorno ai 16-17 anni e nel nord e nel centro, rispetto al sud. Tav. 2 - Il tempo trascorso con gli amici è organizzato per... Un’area di indagine piuttosto interessante concerne la capacità di affermare le proprie idee tra i pari e di resistere alla pressione di gruppo. In particolare, gli item andavano a misurare sia la percepita capacità di farlo, sia i comportamenti messi in atto in situazioni concrete. Esaminando le risposte date dai ragazzi, emerge nel complesso un quadro abbastanza rassicurante. Alla domanda “Quando i tuoi amici si comportano in modo trasgressivo e ti fanno capire che per essere accettato devi fare come loro, tu cosa fai?”: - il 39.1% risponde: “Rimango fermo nei miei principi e cerco di stabilire un dialogo per far capire loro dove sbagliano” (maschi: 35.8%; femmine: 47.0%); - il 28.4% risponde: “Resto fedele ai miei principi e me ne vado” (maschi: 26.0%; femmine: 33.5%); - l’11.8% risponde: “Anche se non condivido mi adeguo per non essere escluso” (maschi: 13.1%; femmine: 8.5%); 88 - il 10.7% risponde: “Condivido pienamente quanto fa il gruppo” (maschi: 13.3%; femmine: 5.1%). Da notare che il 22.5% dei soggetti più esposti a subire la pressione di gruppo verso la trasgressione, è rappresentato per il 26.4% da maschi e per il 13.6% da femmine. Queste ultime sembrerebbero pertanto più capaci di assumere un comportamento indipendente rispetto ai propri pari. In riferimento alla capacità percepita di esprimere le proprie idee anche se non condivise e di resistere alla pressione di gruppo, non si riscontrano invece particolari differenze tra i due sessi. La maggior parte dei soggetti dichiara di sentirsi abbastanza/molto capace di: - dire ciò che pensa anche quando gli altri non sono d’accordo (maschi: 84.3%; femmine: 79.5%); - di andare contro il gruppo quando fa azioni che personalmente non si appro- vano (maschi: 70.1%; femmine: 74.9%); - di resistere alla richiesta di amici di fare qualcosa di illecito o di pericoloso (maschi: 67.2%; femmine: 70.4%). Esiste, comunque, una percentuale non trascurabile di ragazzi che non si ritiene in grado di mettere in atto tali comportamenti. In particolare, il 13.6% pensa di non riuscire a manifestare idee diverse da quelle del gruppo quando non è d’accordo; il 26.2% di andare contro il gruppo in presenza di azioni non condivise; il 29.4% di dire di No a richieste concernenti la messa in atto di comportamenti illeciti o pericolosi. Prevale, ad ogni modo, una percezione protettiva del proprio gruppo di amici. Alla domanda “Se tu stessi per fare qualcosa di illecito o pericoloso per te, i tuoi amici proverebbero a fermarti?”, il 49.6% risponde: “Sì, certamente” e il 38.9%: “Sì, probabilmente”. Tale percezione risulta confermata anche dalla risposta riguardante l’item “Cosa aiuta un giovane a non usare sostanze stupefacenti”, al terzo posto, dopo “Avere fiducia in se stessi” (61.5%) e “Avere genitori capaci di educare” (44.6%) viene indicato quale fattore protettivo “Avere amici veri e sinceri” (34.4%). Dei ragazzi intervistati, solo il 33.6% dichiara di far parte di gruppi organiz- zati; di questi il 39.9% sono maschi e il 20% sono femmine. I gruppi di apparte- nenza variano per i due sessi. Dei maschi il 66.1% afferma di appartenere a “gruppi sportivi”, il 22.1% agli “ultras”; il 12.1% a “gruppi religiosi”, il 10.1% a “gruppi ricreativi”, il 5.5% a “gruppi di volontariato”. Delle femmine il 45.0% dice di appartenere a “gruppi sportivi”; il 31.0% a “gruppi religiosi”, il 14.1% a “gruppi ricreativi”, il 9,9% a “gruppi di volontariato”, il 4.2% agli “ultras”. L’appartenenza a gruppi organizzati tende comunque a decrescere con l’au- mentare dell’età dei ragazzi. Si passa dal 36.5% a 13-15 anni al 27.3% dopo i 17. 89 Esaminando l’appartenenza a gruppi organizzati nel nord, nel centro e nel sud, si nota che, sebbene l’adesione a gruppi sportivi resti la più frequente per le tre aree geografiche, il far parte di gruppi religiosi e di volontariato è leggermente superiore nel sud, rispetto al centro e al nord. Tav. 3 - Appartenenza a gruppi organizzati La non elevata appartenenza a gruppi organizzati è confermata dalle risposte che i ragazzi hanno dato alla domanda “Quanti dei tuoi amici partecipano a gruppi sportivi, giovanili, svolgono attività di volontariato”, le risposte che prevalgono sono: “Alcuni/nessuno”. Riassumendo, per quanto riguarda i rapporti con i coetanei si delinea un quadro globalmente positivo, nel quale sembrano prevalere i fattori di sostegno e protezione, rispetto ai fattori di rischio. I ragazzi vivono come importante e gratifi- cante la relazione con i pari e la maggior parte di essi si percepisce come capace di proteggersi e di proteggere a sua volta. Naturalmente non va sottovalutata la percentuale, seppur non elevata, di coloro che si vedono più esposti e meno resistenti alla pressione dei pari, per i quali sarebbe auspicabile un incremento di autoefficacia e assertività. 91 Capitolo 6 La dimensione esistenziale e valoriale Renato MION L’ultima area del questionario era composta da una serie di domande mirate ad analizzare il sistema di valori, le esperienze e più in generale lo stile di vita adottato da questi utenti della FP. In particolare si è cercato di portarli ad autodefinirsi in base a quelle caratteri- stiche che essi considerano tipiche della propria personalità (dom. 44-45), di indivi- duare i fattori a sostegno del proprio sistema di autostima/autoefficacia (dom. 39- 41), di dichiarare cos’è che attualmente li preoccupa e quali strategie di fronteggia- mento adottano per superare queste difficoltà (dom. 42-43), di “raccontarsi” in rela- zione ad eventuali “scappatelle” in cui potrebbero essere incappati recentemente (dom. 46-48), per terminare con una serie di quattro frasi da completare indicando i fattori che provocano maggiore disagio, le modalità di reazione agli ostacoli, i bisogni che avvertono maggiormente e lo scenario degli ideali da conseguire per sentirsi realizzati nella vita (dom. 49-52). 1. Autodefinizione della propria personalità La personalità di questi giovani è stata analizzata attraverso un’apposita domanda che richiedeva di segnalare le caratteristiche peculiari rispetto ad una serie di 17 attributi tra loro contrapposti. Se considerate nell’andamento d’insieme, le risposte possono essere così suddivise (Tav. 1): a) vengono segnalate maggiormente caratteristiche che fanno capo al sistema di autoefficacia, ossia circa l’80% degli intervistati si considera una persona attiva (79.6%), responsabile (78.7%) e motivata (76.7%); b) seguono, attorno al 70%, altre caratteristiche di personalità che invece fanno riferimento al sistema di autostima: persona che ha stima di sé (75.3%), realiz- zata (73.8%), con molti ideali (71.3%) e capace di accettare chi è diverso da sé (71.2%); c) a completamento di queste due dimensioni vengono segnalati, nel 50-70% dei casi, attributi di persona gioiosa (75.7%), altruista (67.4%), ottimista (66.8%), sicura (65.2%), autonoma (64.5%), non violenta (61.2%). 92 Tav. 1 - Caratteristiche della personalità degli allievi/e (in %) Di conseguenza le connotazioni da considerarsi prettamente negative e che fanno capo alla dimensione opposta delle precedenti caratteristiche attribuitesi da una netta maggioranza vanno reperite nella quota residua, rapportabile al 20-30% del campione. Nei confronti di altre caratteristiche gli utenti si sono divisi in per- centuali abbastanza simili, come il ritenersi in parte ribelli e in parte docili (46.5 e 43.1%, rispettivamente), trasgressivi o irreprensibili (43.6 e 38.9%), introversi o estroversi (31.3 e 51.2%), gregari o leader (39.4 e 44.5%). In pratica è soprattutto in quest’ultima serie di caratteristiche che vengono enucleati gli aspetti negativi della propria personalità, che tuttavia fanno capo per lo più ad atteggiamenti inclini alla ribellione e alla trasgressività. Addentrandoci tra i dati disaggregati è possibile caratterizzare meglio il cam- pione a seconda delle variabili di volta in volta prese in considerazione: - nel confronto maschi/femmine, i primi si sentono più realizzati, sicuri e otti- misti, manifestano una maggiore stima di sé e ammettono di esercitare una certa leadership; viceversa le femmine si caratterizzano per essere più moti- vate, responsabili, altruiste, estroverse e capaci di accettare chi è diverso, ma al tempo stesso segnalano anche una certa tendenza alla ribellione; va aggiunto poi che queste stesse caratteristiche si riscontrano, ovviamente, nel mettere a confronto i dati degli utenti del CNOS-FAP con quelli del CIOFS/FP; - la divisione per età porta ad attribuire ai maggiorenni più responsabilità e leadership, mentre le fasce più giovani si caratterizzano per l’ottimismo e la stima di sé; 93 - a possedere caratteristiche di forte idealità, ottimismo, responsabilità e irre- prensibilità sono soprattutto gli allievi/e delle Regioni centro-meridionali, mentre quelli del nord, se si prescinde da un maggior grado di autonomia, ma- nifestano in altrettanta misura la tendenza alla ribellione ed alla trasgressività; - infine gli utenti dei corsi triennali nella FP spiccano per il fatto di non trovare difficoltà nell’attuale percorso formativo, per non aver nessuna intenzione di cambiare indirizzo di studi e per aver segnalato, rispetto alle rispettive contro- parti, un po’ tutte le caratteristiche positive emerse in questa domanda. A completamento dell’analisi è stata fatta ai giovani la richiesta di posizionarsi in rapporto al proprio vissuto religioso; richiesta che, avendo a che fare con Enti di ispirazione cristiana, non poteva certo mancare in questa inchiesta (Tav. 2). Dalla Tav. 2 si evince che circa tre giovani su quattro dichiarano di essere “cre- denti” ma non tutti risultano in altrettanta misura “praticanti”; la fede religiosa espressa anche attraverso la pratica riguarda infatti uno su quattro del campione (25%); la quota maggioritaria, composta da quasi la metà degli intervistati, pur dichiarandosi credente, afferma di non praticare la religione (48%); il rimanente 27% riguarda minoranze che affermano di essere o indifferenti verso la religione (9.6%) o niente affatto credenti (8%), oppure in fase di ricerca di una fede religiosa (6.3%). Scendendo tra i dati disaggregati troviamo che a distinguersi per una pratica coerente con le proprie credenze sono soprattutto le femmine, la fascia dei più piccoli ed i residenti nelle Regioni del sud; mentre a dichiararsi non credenti o indifferenti verso la religione sono soprattutto i maschi, l’età più avanzata, chi presenta un percorso scolastico-formativo problematico e chi frequenta altri corsi rispetto ai triennali nella FP. 94 Ta v. 2 - T i co ns id er i.. . ( in % ) 95 2. Il sistema di autostima/autoefficacia A questo punto si può fare una prima verifica circa il possesso delle qualità che gli utenti si sono auto-attribuite misurandole in rapporto ad alcuni parametri com- portamentali di autoefficacia e di realizzazione di sé presenti in altre domande di quest’area. Attraverso una prima domanda si è cercato di sapere di che cosa sono capaci questi giovani di fronte ai problemi/difficoltà che si incontrano nella vita re- lazionale, in particolare là dove l’influenza degli amici a questa età gioca un ruolo determinante. A questo riguardo, la Tav. 3 permette di verificare che: - ci tengono “molto” a dire ciò che pensano anche quando sono in disaccordo con i compagni (M=1.71; le femmine, i più grandi), a fronte di ingiustizie sanno di- fendere i propri diritti (M=1.77; il CIOFS/FP) e in pratica si sentono in grado di realizzare ciò che vogliono dalla vita (M=1.87; i maschi, chi non è stato mai bocciato e chi dichiara di non avere difficoltà nell’attuale corso di studi); - così pure sanno “abbastanza” cavarsela da soli nelle difficoltà (M=2.01; i più grandi, chi è stato bocciato), sostengono di saper andare anche contro gli amici quando non si comportano bene (M=2.05; le femmine) e di saper resistere quando chiedono di fare cose pericolose o illecite (M=2.09; le femmine). In pratica quindi sono emerse risposte abbastanza coerenti, in base al fatto che sono state segnalate ancora una volta qualità mirate a salvaguardare e a far rispet- tare la propria identità ed eticità anche nei confronti di coloro, gli amici e/o il gruppo dei pari, che in questo particolare momento di crescita della personalità sono in grado di esercitare un ruolo primario nella costruzione dell’identità, come anche di attivare meccanismi di omologazione o di spostamento su altri delle pro- prie responsabilità. Di conseguenza si potrebbe sostenere che il sistema valoriale di questi utenti sembrerebbe fare presa su un substrato educativo abbastanza solido, prodotto di una socializzazione primaria fortemente radicata sui valori. A questa prima serie di affermazioni ne ha fatto seguito un’altra, mirata anch’es- sa ad offrire un’immagine della propria efficienza e capacità. Da cui è emerso che: - coerentemente a quanto è stato ammesso in precedenza, almeno i due terzi degli allievi/e sostengono di essere in grado di risolvere la maggior parte dei problemi se ci si mettono d’impegno (M=3.05), anche quando essi risultano particolarmente difficili (M=2.87), e di voler raggiungere i propri obiettivi (M=2.89); - tutto ciò è reso possibile dal fatto che di fronte ad un problema sanno di poter trovare il modo migliore per raggiungere una soluzione e/o di ottenere ciò che vogliono (M=2.85), grazie alle risorse di cui dispongono (M=2.81) e facendo leva su alcune strategie efficaci quali la fiducia in se stessi (M=2.74) e la calma (M=); ciò permette infatti di sentirsi in grado di gestire qualsiasi situa- zione possa capitare loro (M=2.64). 96 È interessante osservare come in tutta questa serie di affermazioni è la varia- bile di genere a caratterizzare la presenza all’interno del campione di un diverso atteggiamento: le femmine e, di rimando il CIOFS/FP, si distinguono per far leva soprattutto sulla volontà di impegnarsi a risolvere il punto/momento-problema; mentre i maschi, dal canto loro, poggiano la propria sicurezza nella capacità di saper trovare prima o poi il modo di risolvere la situazione e/o di ottenere ciò che vogliono. In entrambi i casi appare tuttavia evidente la grinta nel fronteggiare il problema e la voglia di battersi per la riuscita. Trattandosi di un campione con un’età nel pieno della “turbolenza” della cre- scita evolutiva e appartenente per di più a strati sociali per diversi aspetti svantag- giati (dal punto di vista professionale, culturale, economico, socio-relazionale...), si poteva ipotizzare che l’insieme di tutti questi elementi avrebbe potuto esercitare un peso negativo non indifferente sul loro sistema di significato esistenziale. Da qui anche la domanda su una serie di sensazioni e/o di “momenti neri” che potrebbero aver provato lungo la quotidianità degli eventi sperimentati. Come appare evidente dall’andamento d’insieme dei dati presenti nella Tav. 4, la media generale attesta che le varie sensazioni elencate nella domanda sono state avvertite/provate tra “qualche volta” e “mai”, a seconda dei casi: - la “voglia di farla finita” è ovviamente la sensazione che una netta maggioranza ha ammesso di non aver avuto mai (61.6%; M=2.50); così pure sensazioni poco o per niente avvertite sono quelle di “sentirsi un fallito” (M=2.45), di “non essere amati” (M=2.42) o di sentirsi soli, “senza nessuno vicino” (M=2.33); - ciò che invece la metà circa di questi allievi/e ha effettivamente provato “qualche volta” è la percezione di non avere di fronte a sé un futuro roseo/pro- mettente (M=2.21), di dubitare delle proprie capacità (M=2.22), di non avere fiducia in nessuno (M=2.29) e di essere incapaci a prendere una decisione (M=2.31). Vengono a manifestarsi quindi fattori predittivi di disagio/rischio che, per effetto cumulativo e talora moltiplicativo, vanno ad inficiare quella parte del campione già provata/condizionata da altri svantaggi, quali l’estrazione da famiglie meno abbienti, le pregresse difficoltà incontrate lungo il percorso scolastico e quelle che continuano ad avere anche adesso, motivo per cui si è più inclini a cambiare l’attuale corso di studi, il non essere sufficientemente sostenuti da una fede religiosa. Scendendo ancor più nei particolari troviamo che la componente femminile appare leggermente più esposta dei maschi a queste sensazioni, probabilmente in forza della maggiore sensibilità di cui è dotata, a cui si unisce anche l’età di mezzo (16-17 anni), sulla quale in questo caso influisce maggiormente il fatto di essere nel pieno della crescita evolutiva, ossia là dove l’esposizione alle “turbolenze” si fa sempre più forte, soprattutto a motivo della immediata richiesta di dover affrontare scelte decisive o comunque impegnative unitamente al conseguente bisogno di “orientamento” e di sostegno. 97 Ta v. 3 - T i ri ti en i un a pe rs on a ca pa ce d i.. .( in M , i n gr ad ua to ri a) Ta v. 4 - S en sa zi on i pr ov at e pi ù fr eq ue nt em en te (i n M , i n gr ad ua to ri a) 98 3. Il sottofondo di preoccupazioni e le strategie di fronteggiamento Ed è proprio in considerazione del possibile concentrarsi di eventi negativi e/o di “turbolenze” adolescenziali che sono state introdotte di seguito alcune domande circoscritte al mondo delle preoccupazioni, che in questo particolare momento della vita vengono maggiormente avvertite, e alle strategie adottate per fronteg- giarle. In primo luogo occorre far notare che nei confronti dell’ampio e variegato elenco di preoccupazioni presente nell’apposita domanda le segnalazioni emerse appaiono alquanto contenute, dal momento che le preoccupazioni più avvertite arri- vano ad interessare appena un quarto degli intervistati. Passando in rassegna i dati, troviamo che: a) quelle avvertite appunto da circa un quarto del campione fanno capo a ragioni di realizzazione di sé dal punto di vista professionale e più in generale dei propri sogni (il sud), all’incertezza del “che fare in futuro” (particolarmente avvertita dai maschi, dai minorenni e da chi incontra attualmente difficoltà negli studi); preoccupazioni che però sono state almeno in parte ridimensio- nate dal fatto che quasi tutti ammettono poi di avere ideali per cui vale la pena vivere; b) seguono (attorno a un quinto del campione) preoccupazioni centrate su fattori di ordine affettivo-relazionale, più precisamente circoscritti alle dinamiche fa- miliari (le femmine e chi non vive con i genitori) e alla mancanza di “amici veri” (le femmine, i più piccoli, il sud); c) è un dato assai significativo che a questa età la paura della morte venga collo- cata ai primi posti, pressoché nella stessa misura dei fattori precedentemente menzionati (ancora le femmine, i più piccoli, il sud), in concomitanza con altri fattori quali la violenza presente nella società (mafia, criminalità, terrorismo... - il sud) e la disonestà della gente (il sud). Viceversa non trovano conferma se non da parte di una netta minoranza (at- torno o al di sotto del 10%) preoccupazioni circa le difficoltà incontrate nel corso frequentato attualmente, il non sentirsi sufficientemente preparati a trovare lavoro, i problemi di ordine economico e la convivenza con le diverse etnie di immigrati; anche la diffusione della droga e l’inquinamento ambientale non sembrano riguar- dare troppo da vicino questi giovani (a parte i più piccoli e quelli del sud). Passando ad analizzare le diverse/possibili strategie adottate per fronteggiare le difficoltà incontrate, i dati della Tav. 5 stanno ad indicare che mediamente ven- gono utilizzate un po’ tutte quelle riportate nella domanda, con l’unica differenza che ad alcune si ricorre più frequentemente che ad altre. In questo modo è possi- bile operare una suddivisione di massima tra le strategie utilizzate “abbastanza spesso”, quelle utilizzate più o meno frequentemente e quelle “poco” utilizzate. 99 a) Le strategie a cui si fa ricorso “abbastanza spesso” o comunque “frequente- mente” vanno individuate tra quelle che hanno riportato le medie più vicine al 3.00 e nell’insieme rispondono a quattro modalità di attivarsi per fronteggiare il problema, ossia impegno, rilassamento, relazionalità e carattere della persona: - l’impegnarsi a fondo per risolvere il problema e lavorare alla sua solu- zione nel migliore dei modi sono strategie che oltre ad aver fatto registrare le medie tra le più elevate (M=2.93 e 2.83, rispettivamente) risultano pie- namente coerenti con quanto è stato ammesso in una precedente domanda dove la maggior parte degli allievi/e sosteneva di essere in grado di risol- vere i propri problemi qualora si fossero messi d’impegno e che, sempre per coerenza, trovano sostegno in particolare tra le fila della componente femminile, quindi nel CIOFS/FP, tra i maggiorenni e nelle Regioni del sud; - una ulteriore strategia che ha riscosso il consenso di oltre i due terzi del campione consiste nel cercare di rilassarsi mediante la musica, la lettura, la TV o altro di simile (M=2.84), utilizzata anch’essa soprattutto dalle ragazze e variabili concomitanti; - a queste prime e pressappoco nella stessa misura delle precedenti viene aggiunta anche la strategia “relazionale”, dove in pratica per affrontare il problema si ricorre al sostegno agli amici intimi (M=2.81) o si cerca di migliorare la propria relazione con gli altri (M=2.65) o comunque si chiede aiuto o se ne parla con altre persone (M=2.56); si tratta soprattutto di coloro che manifestano attualmente difficoltà negli studi e/o che le hanno provate anche in passato a causa degli insuccessi riportati; - infine tra le strategie a cui si ricorre abbastanza frequentemente ve ne sono alcune che potremmo definire di tipo “caratteriale” e che appartengono a due distinte modalità di risolvere il problema, a seconda appunto del carat- tere di chi le adotta: con una prima ci si limita ad affrontare il problema preoccupandosi (M=2.72), mentre con l’altra si cerca all’opposto di guardare al lato positivo delle cose (M=2.65) oppure si spera che le cose vadano in meglio (M=2.56); tra la prima e le altre due a fare la differenza gioca soprattutto l’età in quanto la preoccupazione è segnalata maggior- mente dai più grandi e viceversa l’ottimismo è presente soprattutto nella generazione dei più piccoli. b) Le strategie utilizzate meno “frequentemente” o “poco” (con una media tra 2.50 e 2.00) appartengono ad altre quattro categorie, di cui alcune ancora di tipo relazionale ma che, diversamente da quelle analizzate in precedenza, si caratterizzano per ricorrere a metodologie più qualificate, mentre altre si mettono in evidenza per la ricerca di soluzioni originali, anche se non sempre possono risultare le più opportune: - tra queste ultime quella maggiormente segnalata è il ricorso all’attività fisica per tenersi in forma (M=2.43), dove chiaramente spiccano i maschi ed i più giovani; 100 - viene al seguito la ricerca di conforto e sostegno morale nella religione (M=2.36), soluzione tipica della componente femminile e in particolare di chi si dichiara credente e praticante, ma alla quale fa ancora da sfondo l’età più giovane e il sud; - purtroppo non manca anche chi è portato ad adottare una posizione autole- siva rinchiudendosi in se stesso (M=2.21), oppure aggredendosi e dandosi addosso attribuendo a sé tutta la colpa (M=2.05); soluzioni adottate en- trambe da chi appartiene già in partenza e per diversi aspetti ad una condi- zione di “debolezza” nella personalità e di svantaggio (scolastico-forma- tivo, familiare, di genere...); - mentre la dimensione relazionale in questi casi va individuata in una equi- librata posizione di ricerca del confronto con chi ha lo stesso problema (M=2.21) e nell’esporre la problematica a persone qualificate/esperte (M=2.15); soluzioni a cui invece fa ricorso quella parte del campione che appare meno toccata da condizioni di svantaggio e di conseguenza anche più favorita nel valutare con maggiore equilibrio/distacco quelle modalità che possono sembrare loro più appropriate nell’affrontare le difficoltà. c) Le strategie utilizzate “poco” o quasi “per niente” (con una media al di sotto del 2.00) sono essenzialmente tre e fanno tutte capo ad un atteggiamento di “ritiro/fuga” dal problema e/o di non presa di contatto con lo stesso; e comunque la più grave, “stordirsi” (mangiando, fumando, ricorrendo all’alcol e ad altre sostanze stupefacenti) è anche la meno segnalata (M=1.69); tuttavia non è meno rischiosa quella posizione “passiva” che porta a far finta che il problema non esiste (M=1.94) o comunque non si fa o non si può fare nulla per affrontarlo (M=1.85). In tutti e tre questi casi è ancora la parte del cam- pione gravata da difficoltà scolastico-formative e da altri svantaggi che appare più portata ad assumere tali atteggiamenti, a cui fa da sfondo una parte della componente maschile e dei più giovani. Le modalità di ricorso alle differenti strategie di fronteggiamento portano a sostenere che una netta maggioranza di questi giovani appare già sufficientemente attrezzata delle strategie necessarie per fronteggiare le difficoltà proprie dell’entrata nella vita attiva e per dare loro adeguata soluzione; quasi nessuno fugge o evita di confrontarsi con il problema, semmai può succedere che non sempre si scelga la soluzione migliore, ma in questi casi saranno le esperienze della vita a suggerire quella più adatta. Ciò che nell’inchiesta importava rilevare era la presenza o meno di questa “grinta” anche tra gli allievi/e della FP nei cui confronti, come con i coetanei dell’istruzione scolastica, la vita non si è dimostrata altrettanto generosa. Effettivamente un buon quo- ziente di grinta è emerso a più riprese dai dati, dimostrando al fondo della loro perso- nalità la presenza di un substrato di autostima/autoefficacia fatto di volontà di realizza- zione di sé, di impegno, di voglia di riuscita, di un bagaglio di valori etici e religiosi. 101 In tutto questo la componente femminile sembra sopravanzare i coetanei ma- schi per impegno e grinta; dal canto suo l’ampia fascia d’età degli intervistati chia- ramente porta a percepire la differenza tra chi ancora deve percorrere alcune tappe del processo evolutivo (e quindi chi deve fare ancora esperienze decisive per la cre- scita della propria personalità), da chi invece ha percorso ormai quasi tutte queste tappe e quindi ha maturato un’esperienza che lo porterà ad affrontare con maggiore capacità/competenza l’imminente entrata nella vita attiva. Ma non tutti gli intervistati possiedono queste doti. Una parte degli stessi, mi- noritaria, appare ancora “intrappolata” nelle maglie di una rete di problematiche di varia entità da cui stenta a uscire, nonostante siano attentamente seguiti da forma- tori ed educatori. Si tratta di quei giovani che hanno dichiarato uno stato di fuga e di passività di fronte ai problemi della loro età. Costoro, come evidenziato in più punti dell’inchiesta, si caratterizzano per una bassa condizione socio-economica e culturale della famiglia e per una pregressa esperienza fallimentare in ambito scola- stico. Chiaramente anche la loro risposta alle problematiche con cui sono chiamati a confrontarsi non può essere la stessa dei coetanei più avvantaggiati, di conse- guenza essi vanno considerati nelle loro relative potenzialità, per quel poco che nonostante tutto riescono a dare, nella speranza che ciò contribuisca ad uscire prima o poi dall’impasse in cui si trovano attualmente. In questi casi, infatti, non rimane altro che “seminare” e aspettare “con pa- zienza” che gli eventi portino a maturazione una serie di fattori “protettivi” (so- stegno della famiglia e dei formatori, successo nel conseguimento di una quali- fica...), in grado di cambiare direzione all’attuale traiettoria della loro vita, più fa- cilmente esposta a condizioni di rischio. 102 Ta v. 5 - S tr at eg ie d i fr on te gg ia m en to d el le d if fi co lt à (i n M , i n gr ad ua to ri a) 103 4. Lo scenario della trasgressività e la voglia di cambiamento Con un’ultima serie di domande si è cercato di penetrare nel segreto mondo della condizione giovanile per verificare se e fino a che punto si cede alla tenta- zione della trasgressività, una prova del fuoco a cui tutti vanno soggetti, seppure in diversa misura, in questo stadio del processo evolutivo. Passeremo quindi ad analizzare cosa si vorrebbe cambiare della propria vita ai fini di una crescita più stabile, matura e responsabile. In merito al primo aspetto, l’andamento dei dati della Tav. 6 conferma anzi- tutto una generale estraneità a quel sistema di trasgressività indicato dagli item della domanda; i punteggi della media, infatti, risultano dappertutto bassi, a signifi- care che questi giovani non hanno “mai” compiuto o nel peggiore dei casi “1 o 2 volte” le sottoelencate azioni. Passando ad analizzare nei particolari l’andamento dei punteggi della media, dalla tavola si evince che: a) le trasgressioni che circa uno su cinque degli allievi/e ha ammesso di aver commesso limitatamente a “qualche occasione” risultano essenzialmente di tre tipi: - aver fumato uno spinello (M=1.60); - aver avuto rapporti sessuali non protetti (M=1.50); - aver messo in pericolo la propria vita (M=1.51); - pochissimi invece hanno riconosciuto di aver messo a rischio anche quella degli altri (M=1.21), di aver guidato sotto l’effetto dell’alcol (M=1.30) o di altri stupefacenti (M=1.23); b) dopo lo spinello e il sesso, un numero ancor più ridotto del campione (tra il 10 e il 15%) ha segnalato di aver: - commesso azioni violente facendo a botte con i compagni di scuola (M=1.43) o risse con bande di ultras (M=1.34), oppure andando in giro armati di coltello (M=1.32); - fatto atti di vandalismo, danneggiando proprietà pubbliche o private (M=1.41); - mentre risultano ancor meno coloro che hanno rubato nei negozi (M=1.27); c) infine quasi tutti negano di aver: - subito (M=1.10) o fatto violenze sessuali (M=1.14); - preso droghe pesanti (M=1.20) o spacciato droga (M=1.19); - problemi di anoressia o bulimia (M=1.11) Su tutta questa serie di dati occorre fare alcune distinzioni. Tra coloro che in una qualche misura hanno segnalato delle trasgressività si mettono in evidenza un po’ dappertutto i maschi, le fasce più alte d’età, chi ha un substrato valoriale scarso e/o deficiente, a partire dalla dimensione religiosa, e 104 soprattutto chi presenta uno stato di “debolezza” sull’intero percorso formativo, at- tuale e pregresso; va aggiunto che il fenomeno inoltre riguarda proporzionalmente gli allievi/e che frequentano altri corsi rispetto a quelli triennali nella FP. Nei con- fronti di questo gruppo, che potremmo definire dello “svantaggio”, le trasgressività costituiscono indubbiamente un sintomo di disagio interno, “comunicato” poi ester- nando azioni riprovevoli; azioni che a loro volta diventano veicoli “predittivi” di un possibile scivolamento in una condizione di rischio. Tuttavia si tratta pur sempre di ristretta minoranza, mentre in realtà la maggior parte dei soggetti manifesta di pos- sedere un adeguato bagaglio di fattori “protettivi”. Si tratta di quella quota di inter- vistati composta dalle variabili opposte a quelle riportate sopra, ossia dalle ragazze, dall’età più giovane, dai credenti e praticanti, da chi non accusa particolari diffi- coltà nel corso che sta frequentando. L’andamento generale dei dati quindi conferma ancora una volta la presenza nel campione di una componente valoriale che, diversamente dai coetanei di altre strutture scolastico-formative, pare sostenerli nelle loro scelte di vita, coerente- mente a quanto emerso nelle analisi precedenti. In tutto questo ovviamente non si può prescindere dagli obiettivi sottostanti al progetto educativo dei due Enti di ispi- razione cristiana a cui fa capo l’utenza. Benché nell’insieme il campione si presenti abbastanza “pulito” da eccedenze trasgressive tipiche di questa età, rimane un dato di fatto che la maggioranza si trova in piena fase di passaggio dall’adolescenza verso la giovinezza e, in quanto tale, vengono certamente avvertite istanze di cambiamento dell’attuale assetto. Il bisogno di cambiare e di che cosa si vorrebbe cambiare è stato espresso attraverso un’apposita domanda, grazie alla quale è stato possibile mettere a fuoco la richiesta di cambiamento. Sulla base dei dati emersi, essa si caratterizza per essere soprattutto di carattere edonistico-materialistiche: a) come c’era da aspettarsi data l’età e conseguente processo di trasformazione della corporeità, la richiesta più segnalata riguarda il bisogno di cambiare il proprio aspetto fisico (40.9%); istanza che non a caso è stata particolarmente segnalata oltre che ovviamente dai minori anche dalla componente femminile; b) viceversa i più avanzati in età, chi non vive con i genitori, chi proviene da una famiglia meno abbiente e chi ha e/o ha avuto un percorso difficile in ambito scolastico-formativo avverte più che altro il bisogno di cambiare la propria condizione economica (31.2%); c) rientra in questa dimensione, seppure meno segnalato, il bisogno di gestire di- versamente il proprio tempo libero, da queste generazioni vissuto spesso come “vuoto a perdere” date appunto le scarse risorse economiche, come lamentato sopra, o altre difficoltà che ne limitano la gestione; non a caso il bisogno di cambiamento scaturisce dalle fila dei più piccoli, dei meno abbienti, di chi vive nelle Regioni del sud. 105 Le rimanenti istanze sono state meno segnalate. Esse appartengono alla dimen- sione post-materialistica e fanno capo a bisogni di tipo: d) psico-pedagogico, come quello anzitutto di cambiare il proprio carattere (27.2%); bisogno di cui non a caso si fa interprete proprio l’età di mezzo (16- 17 anni), unitamente alle ragazze e chi è spinto dalla volontà di migliorare il proprio apparato valoriale, compresa la religiosità; e) relazionale, riguardanti tanto i rapporti familiari (20.9% - le femmine, chi pre- senta difficoltà nell’attuale corso frequentato e intende cambiare), come quelli di coppia (con il proprio ragazzo/a - 19.2%) e amicali (15.5% - la fascia dei 13-15enni). Per finire, va anche detto che circa un soggetto su cinque (19.8%) ha dichia- rato che non intende affatto cambiare nulla dell’attuale assetto della propria vita; in questo i maschi appaiono più determinati delle femmine, a cui si uniscono anche coloro che presentano una condizione ottimale sia dal punto di vista scolastico- formativo che valoriale. L’ultima parte dell’inchiesta si chiude con il tentativo di approfondire meglio il sistema valoriale di questi giovani nell’intento di individuare quale sistema di “antivirus” adottano per far fronte alle “sirene” della tossicodipendenza. Stando a quanto è stato maggiormente segnalato, gli utenti della FP di ispirazione cristiana fanno riferimento a un sistema di fattori protettivi, quali: a) l’autostima/autoefficacia, fondate nell’aver fiducia in se stessi (61.5%) e nel possesso di obiettivi mirati alla realizzazione di sé (48.2%); b) l’educazione, a partire dalla famiglia di origine, ossia da genitori che sanno ve- ramente educare (44.6%); c) le relazioni sincere, tanto con gli amici (34.4%) come con quegli adulti/educa- tori che stanno loro particolarmente vicino (21.8%). In tutto questo si distinguono ancora una volta più le femmine che i maschi, i più piccoli, chi è più coerente con il proprio vissuto religioso, chi vive nelle Re- gioni centro-meridionali. Mentre non frequentare le discoteche (5.7%), le informa- zioni sulle droghe (9.1%) così come anche lo stesso sentirsi realizzati attraverso l’esercizio di una professione (5.8%) non vengono ritenuti, se non da una esigua minoranza, fattori di prevenzione efficaci nei confronti del fenomeno; qualcosa in più si potrebbe ottenere restando lontani da chi fa uso di sostanze stupefacenti (21%), soluzione che tuttavia non convince i più e/o più di tanto, dal momento che difficilmente si può rimanere esenti dal farsi “contagiare”. Così ancora una volta questo campione dà segnali di coerenza e di stretto attaccamento a quel “mondo valoriale” a cui fa riferimento il proprio sistema di significato esistenziale, secondo quanto emerso già nella parte iniziale di questo capitolo. 106 Ta v. 6 - N eg li u lt im i 3 m es i è ca pi ta to d i.. .( in M ; i n gr ad ua to ri a) 107 5. Bisogni, disagi e strategie di fronteggiamento L’ultima parte del questionario era composta da una serie di domande aperte caratterizzate da una frase che, dopo un iniziale input, richiedeva poi all’intervi- stato di essere completata aggiungendo spontaneamente e di primo impulso, nello spazio lasciato appositamente aperto, quanto si è sentito stimolato dall’input. Questa strategia rientra tra le metodologie di ricerca qualitativa, adottata da nume- rosi autori e finalizzata a uno studio semiproiettivo dei casi. In particolare Palmonari1 sostiene che “un aspetto importante dello strumento è rappresentato dal fatto che tutte le frasi interrotte sono formulate in prima persona e che le istruzioni richiedono di fornire risposte personali e sincere; di conseguenza i desideri, le aspirazioni, i progetti verbalizzati dal soggetto sono contenuti concreti, frutto di una precisa rappresentazione cognitiva”. Nel presente studio ci si proponeva di individuare, a fronte di situazioni-pro- blema che determinano le traiettorie dello sviluppo di questi giovani, il ricorso a fattori protettivi o viceversa l’innescarsi di condizioni di rischio. Partendo da questi presupposti ci si è limitati, rispetto alla lista dei 40 aspetti presi in considerazione da Polmonari, ai seguenti quattro: a) le fonti di disagio (“Io mi sento molto a disagio quando...”); b) i bisogni (“Io sento fortemente il bisogno di...”); c) le strategie di fronteggiamento dell’ostacolo/problema (“Quando ogni cosa sembra essere contro di me...”); d) gli obiettivi da realizzare (“Io mi sentirò pienamente realizzato quando...”). I contributi rilasciati dagli inchiestati nel rispondere agli stimoli provocati dai quattro input sono stati successivamente passati al vaglio di un’accurata analisi dei contenuti e quindi codificati per farne oggetto di elaborazione statistica. 5.1. Le fonti di disagio Se osserviamo i dati presenti nella Tav. 7, ciò che è causa di disagio in questi giovani va considerato essenzialmente in rapporto a tre categorie. Tra queste il disagio personale/interiore appare decisamente assai più avvertito (78.2%); seguono, in misura piuttosto ridotta i disagi di natura relazionale (10.9%) ed esistenziale (4.3%). Queste tre categorie di massima tuttavia rispecchiano solo un quadro sintetico entro cui sono state racchiuse le fonti di disagio, mentre in realtà quelle espresse in prima persona dagli intervistati fanno capo ad uno scenario assai più vasto di 1 Il riferimento a Polmonari è d’obbligo in quanto dalla sua lista di 40 input che costituiscono il MIM (Metodo di Individuazione Motivazionale) sono stati presi, dopo averli parzialmente rielaborati, i quattro input utilizzati nella presente indagine. Cfr. PALMONARI A. et al.., Identità imperfette. Giovani e adolescenti: un oggetto di studio per le scienze sociali, Il Mulino, Bologna, 1979, 259-260. derivazione del disagio: a) il disagio personale/interiore scaturisce da una variegata gamma di situazioni che, data l’età, fanno capo ad una imperfetta o incompleta crescita del sé, del livello di autostima e di autoefficacia; in tutti questi casi si fa riferimento al senso di inferiorità per non sentirsi all’altezza della situazione, al senso di timidezza o all’imbarazzo derivante dall’aver sbagliato, dall’aver fatto brutta figura, dall’essere fissato negli occhi, dal ricevere complimenti, dal parlare in pubblico, oppure al fatto di non essere presi in considerazione, sentirsi esclusi, non capiti, non stimati per quello che si è; b) il disagio relazionale ha origine invece dai contatti con l’ambiente circostante, sia per il presentarsi di situazioni-problema (come il sentirsi presi in giro, sgri- dati, incolpati, giudicati...), sia per trovarsi a contatto diretto con persone e/o con ambienti sconosciuti (avere a che fare con stranieri, dover affrontare situa- zioni nuove...); c) infine il disagio è stato definito di ordine esistenziale in quanto fa capo a condizioni in cui non si sta bene con se stessi, quando si sta psicologicamente male e non si sa a chi chiedere aiuto, quando ci si sente soli, senza affetti, quando non si sa cosa si vuole dalla vita, né quali progetti realizzare; d) a queste categorie ne va aggiunta tuttavia una quarta, riferita a quella quota non indifferente del campione che ha dichiarato di non aver mai provato alcuna forma di disagio (15.1%). Dai dati disaggregati si evince una netta spaccatura del campione tra chi avverte maggiormente disagi di ordine personale/interiore rispetto a quelli prove- nienti da fattori relazionali ed esistenziali: nel primo caso si distingue la minore età, unitamente ai maschi, al CNOS-FAP, a chi incontra difficoltà nel percorso forma- tivo ed è incline a cambiare. Le dimensioni opposte emergono invece in rapporto alle altre due fonti di disagio, provate in forma percentualmente superiore in parti- colare dalla componente femminile e dall’utenza del CIOFS/FP; queste ultime due variabili, unitamente all’età più elevata distinguono inoltre chi non ha mai provato particolari forme di disagio. 5.2. I bisogni Lo scenario su cui si stagliano i bisogni che gli intervistati hanno dichiarato di avere (Tav. 8) è occupato quasi tutto dagli affetti (77.5%); seguono, a comple- tamento della rimanente quota, quelli di ordine psicologico/esistenziale (10.6) ed infine quelli di ordine prettamente materialistico-evasivi (3.1%). A loro volta le tre categorie di bisogni sono così suddivise: a) quelli affettivi vanno soprattutto in due direzioni: verso la famiglia, nel senso di avere e specialmente di sentire vicino a sé i genitori e/o di avere con loro un 108 109 diverso rapporto), e ovviamente anche verso quella che essi considerano la nuova famiglia, ossia il mondo delle amicizie (“poter avere amici veri...”) e, contestualmente, trovare al loro interno l’amore con la “A” maiuscola (trovare un ragazzo/a, innamorarsi, riprendere una relazione con un ex, avere una per- sona che ama, che vuole bene...); b) i bisogni di ordine psicologico/esistenziale sono assai più numerosi ma al tempo stesso anche più frammentati: essi vanno dal bisogno di cambiare il proprio comportamento, a quelli di autorealizzazione (realizzare i propri sogni, diventare ricchi, famosi, studiare, avere un lavoro sentirsi professionalmente realizzati, andare a vivere da soli, farsi una propria famiglia...), a quelli valo- riali (sentirsi utili agli altri, credere in se stessi, essere stimati, rispettati, avere una fede religiosa...), fino ad ammettere all’opposto, ma solo in qualche caso particolare, anche il bisogno di far uso di sostanze stupefacenti; c) infine i bisogni di ordine materialistico-evasivi, seppure espressi da una netta minoranza, prendono in considerazione fattori fisiologici (mangiare, dormire, riposare...), consumistici (avere un nuovo cellulare, il motorino...) ed evasivi (divertirsi, giocare, andare in vacanza, viaggiare...). I dati disaggregati presentano ancora gruppi caratterizzati da certi bisogni piut- tosto che da altri: può sembrare strano, ma i bisogni di ordine affettivo sono stati espressi, oltre che dalla fascia dei più giovani, da una maggioranza di maschi e del CNOS-FAP, e soltanto da poco più della metà delle femmine; queste ultime, as- sieme all’età più alta, si distinguono invece per manifestare maggiormente bisogni di carattere psicologico/esistenziale. 5.3. Atteggiamenti da assumere di fronte ad un ostacolo/problema Nel prendere in considerazione l’input, il dato di maggior spicco sta nel costa- tare che oltre la metà del campione non ha saputo o non ha voluto rispondere (52.2% - Tav. 9); in questo si evidenziano i maschi e quindi gli allievi del CNOS- FAP, chi ha un’età più elevata e chi è andato incontro ad insuccessi scolastici. La quota residua si divide tra chi sostiene di adottare un atteggiamento di fuga di fronte all’ostacolo/problema (lasciar perdere, scappare, fregarsene, scoraggiarsi, chiudersi in se stessi, dare la colpa agli altri... - 26.9%), chi di aggressività (ribel- larsi, esplodere, vendicarsi... - 13.2%) e chi invece, ma si tratta pur sempre di una netta minoranza, assumerebbe una posizione più responsabile e costruttiva (tener duro, farsi valere, voler capire, parlarne con qualcuno, chiedere aiuto... - 7.8%). La difficoltà ad affrontare il problema e quindi a fuggire al momento in cui essa si pre- senta viene manifestata dagli stessi che “sono fuggiti” di fronte all’input, ossia i maschi, con la differenza che in questo caso una tale posizione viene segnalata quasi esclusivamente dai più piccoli; viceversa la componente femminile si pre- senta in questo caso decisamente più “agguerrita” di fronte all’ostacolo, in quanto si mette in evidenza per essere intenzionata ad assumere atteggiamenti sia di difesa 110 come di attacco; in questo sembra dare un peculiare contributo anche l’estrazione dell’utenza dalle Regioni centro-meridionali, e quindi anche dalla cultura di appar- tenenza. Tutto questo richiama quanto già emerso in una precedente domanda di questo capitolo, in particolare là dove è emerso che nel trovarsi di fronte ad un problema i più sostengono di saper trovare il modo migliore per arrivare ad una soluzione e/o per ottenere ciò che si vuole, grazie alle risorse di cui si dispone, oltre a far leva su strategie di efficacia e di autostima; strategie che, sempre a detta degli intervi- stati, permetterebbero poi di sentirsi sicuri e in grado di gestire qualsiasi situazione- problema. 5.4. Il castello degli ideali e dei progetti di vita Con un ultimo input si è inteso penetrare nel “castello incantato” dei sogni, dei progetti e delle aspirazioni che grazie all’età pullulano e si avvicendano nelle menti di questi giovani. Al tempo stesso si osserva che in pratica l’insieme delle proget- tualità che fanno sentire realizzati vengono convogliate quasi esclusivamente su un unico “pianeta”, quello degli affetti (72.2% - Tav. 10): per molti di loro è giunto ormai il momento di incontrare “l’unico e vero amore” della propria vita, per cui la progettualità viene impostata lungo una traiettoria che, partendo da questo grande amore idealizzato di cui si sentono attualmente investiti, si traduca poi in concreti obiettivi di matrimonio, e quindi di poter avere una propria famiglia e dei figli. Tutte le altre progettualità in questo momento sembrano restare in second’or- dine; gli stessi obiettivi da investire nella carriera professionale (diventare qual- cuno, aprire un’attività propria...) sono stati scarsamente segnalati (11.9%), non- ostante ci si trovi di fronte a soggetti che hanno fatto una scelta formativa mirata per lo più ad un ingresso diretto nel sistema produttivo, e ancor meno quelli riferiti alla crescita personale e alla realizzazione di sé (ottenere ciò che si vuole dalla vita, scoprire chi sono io, avere degli obiettivi/ideali per vivere... - 5.9%). È interessante osservare attraverso i dati disaggregati come sia ancora la varia- bile di genere a fare la differenza: tra gli obiettivi riferiti alla vita affettiva un peso determinante è stato esercitato dai maschi (87.8, contro il 38.9% delle femmine) e dal 99% degli utenti del CNOS-FAP; viceversa la componente femminile e con essa il CIOFS/FP si mette in evidenza per attribuire importanza anche a progetti di realizzazione professionale (29, contro il 4% dei maschi) e personale (14.1, contro il 2.2%). Ta v. 7 - F on ti d i di sa gi o (i n % ) Ta v. 8 - B is og ni (i n % ) Ta v. 9 - S tr at eg ie d i fr on te gg ia m en to d el l’ os ta co lo /p ro bl em a (i n % ) 111 112 Ta v. 1 0 - O bi et ti vi d a re al iz za re , r if er it i a. .. (i n % ) 113 6. Sintesi dei risultati: fattori predittivi e protettivi dal rischio I dati conseguiti attraverso le variegate domande presenti in quest’area a questo punto possono essere “bilanciati”, in base ad una maggiore/minore consi- stenza dei dati, in rapporto ai fattori protettivi da condizioni di rischio o, viceversa, predittivi di condizioni di rischio. 6.1. Indicatori Nel procedere in questo senso occorre tener conto del loro raggrupparsi attorno ad una serie di indicatori, quali: 1) l’autoefficacia; 2) l’autostima; 3) il sistema dei valori, ideali, progetti di vita; 4) il repertorio delle strategie relazionali/comunica- tive; 5) il controllo degli impulsi e/o la gestione delle emozioni e del comporta- mento; 6) le strategie di fronteggiamento. 1) Autoefficacia Un livello alto di autoefficacia è stato individuato nel: - considerarsi persona attive, responsabili, motivate, autonome, altruiste; - saper realizzare nella vita quello che si vuole, saper cavarsela da soli nelle difficoltà; - voler realizzare a tutti i costi i propri sogni (diventare ricchi, famosi, studiare, avere un lavoro, sentirsi professionalmente realizzati, andare a vivere da soli, farsi una propria famiglia...). Una bassa autoefficacia è stata caratterizzata dal: - dubitare delle proprie capacità; - sentirsi incapaci di prendere una decisione; - attivare meccanismi di omologazione o delocalizzazione delle responsabilità; - assumere un atteggiamento di passività di fronte ad un problema facendo finta che non esiste. 2) Aautostima Un alto livello di autostima va individuato nell’aver acquisito, lungo il pro- cesso di costruzione dell’identità, un “locus of control” interno, centrato sul concetto di sé come persona che: - ha stima di sé; - si sente sicura; - è realizzata; - sa accettare chi è diverso; - è estroversa. Una bassa autostima è stata caratterizzata dal: - sentirsi un fallito, senza speranza per il futuro; - non sentirsi all’altezza della situazione e quindi dal disagio causato dal senso di inferiorità; 114 - senso di timidezza o dall’imbarazzo derivante dall’aver sbagliato, dall’aver fatto brutta figura; - non essere presi in considerazione, sentirsi esclusi, non capiti, non stimati per quello che si è. 3) Sistema dei valori, ideali, progetti di vita La presenza di ideali/progetti/valori è individuabile nel considerarsi una persona che: - ha molti obiettivi/ideali per cui vale la pena vivere; - è intenzionata ad ottenere tutto ciò che è possibile dalla vita; - vuole scoprire chi è; - fa ricorso a valori religiosi e/o ha bisogno di scoprire una propria dimen- sione religiosa; - ha bisogno di sentirsi utile agli altri, di credere in se stessa, di essere sti- mata, rispettata; - vuole diventare “qualcuno”, aprire una propria attività professionale. La mancanza di progetti/ideali di vita è stata caratterizzata dal: - non sapere cosa si vuole dalla vita né quali progetti realizzare; - incertezza/preoccupazione sul “che fare” in futuro; - indifferenza verso la religione. 4) Repertorio delle strategie relazionali/comunicative Strategie relazionali/comunicative applicate a problemi di disagio/bisogno sono state individuate soprattutto nel: - ricorrere al sostegno di amici; - confrontarsi con chi ha lo stesso problema; - migliorare la relazione con gli altri. La mancanza e/o la scarsità di comunicazione/relazionalità è stata riscontrata nel: - sentire di non aver fiducia in nessuno; - non sentirsi amati, sentirsi soli, senza affetti e/o senza nessuno vicino, senza sapere a chi chiedere aiuto in caso di bisogno; - mancanza di amici veri; - sentirsi presi in giro, sgridati, incolpati, giudicati; - trovarsi a contatto diretto con persone e/o con ambienti sconosciuti (avere a che fare con stranieri, dover affrontare situazioni nuove...). 5) Controllo degli impulsi e/o la gestione delle emozioni e del comportamento Il controllo degli impulsi, delle emozioni e del comportamento è stato indivi- duato nel: - considerarsi una persona gioiosa, ottimista; - saper difendere i propri diritti; - voler dire quello che uno pensa, senza paura; - capacità di guardare al lato positivo delle cose; - avere speranza, fiducia che le cose cambieranno. 115 La mancanza di controllo degli impulsi, delle emozioni e del comportamento è stato riscontrato nell’atteggiamento incline a: - ribellarsi, esplodere, vendicarsi; - stordirsi in caso di problema, avere bisogno di far uso di stupefacenti; - aggredire se stessi dandosi addosso, attribuendo a sé tutta la colpa; - azioni trasgressive (uso normale di stupefacenti, partecipazione a bande, atti di violenza/vandalismo...); - avere rapporti sessuali non protetti; - mettere in pericolo la propria vita guidando sotto l’effetto di stupefacenti; - fare ricorso, nel processo di costruzione dell’identità, ad un “locus of control” esterno, in dipendenza dal gruppo dei pari, così da delocalizzare le responsabilità delle proprie azioni; - lasciar perdere di fronte ad un problema/disagio, scappare, fregarsene, sco- raggiarsi, chiudersi in se stessi, attribuire la colpa agli altri. 6) Strategie di fronteggiamento Tra quelle maggiormente segnalate, troviamo: - la capacità di resistere alle richieste illecite degli amici; - voler impegnarsi a fondo per lavorare alla soluzione del problema; - in caso di problema/disagio tener duro, farsi valere, voler capire, parlarne con qualcuno, chiedere aiuto, parlarne con persone qualificate; - attivare l’“antivirus” contro la droga attraverso relazioni sincere a loro volta combinate con un alto livello di autostima e di autoefficacia; - la capacità di problem solving, evidenziata dall’aver ammesso, di fronte ad un problema, di saper trovare il modo migliore per conseguire una solu- zione e/o per ottenere ciò che si vuole, grazie alle risorse di cui si dispone e facendo leva su strategie di efficacia e di autostima, ciò che permette poi di sentirsi sicuri e in grado di gestire qualsiasi situazione-problema possa capitare nella quotidianità degli eventi. 6.2. In sintesi Sull’intera gamma dei dati riportati sopra giocano ovviamente sia la consi- stenza delle segnalazioni che le differenti categorie di attori che se ne sono fatti interpreti. Passando in rassegna la distribuzione dei fattori predittivi/protettivi alla luce delle principali variabili utilizzate negli incroci è possibile quindi arrivare a ricostruire la presenza, all’interno del campione di due filoni caratterizzati dalla concatenazione di una serie di variabili che lungo l’analisi abbiano osservato essere strettamente correlate tra loro, in considerazione del loro ripresentarsi/emergere costantemente in rapporto alle variegate tematiche/problematiche di volta in volta prese in considerazione nell’indagine. 116 Questo costante concatenarsi di alcune variabili rispetto ad altre ha portato di conseguenza a distinguere i giovani intervistati in due cluster di massima. Un primo è formato da una catena di variabili quali l’estrazione da condizioni di preca- rietà in base alla situazione socio-economica e culturale della famiglia, uno stato di “debolezza” lungo l’intero percorso scolastico-formativo per essere andati incontro a uno o più insuccesso scolastici o comunque l’aver avuto a che fare con pregresse difficoltà incontrate lungo il percorso, l’attuale demotivazione a continuare gli studi e, di conseguenza, anche l’inclinazione a cambiare l’attuale corso, a completa- mento viene poi anche il mancato sostegno in questo gruppo di una fede religiosa; al suo interno si osserva inoltre che di queste caratteristiche si fanno interpreti in modo particolare i maschi, e quindi dagli utenti del CNOS-FAP, l’età di mezzo (16-17 anni), i residenti nelle Regioni del nord. Nei confronti di questo gruppo, a più riprese definito dello “svantaggio”, le trasgressività costituiscono indubbiamente un sintomo di disagio interno, “comuni- cato” poi esternando azioni riprovevoli; azioni che a loro volta diventano veicoli “predittivi” di un possibile scivolamento verso una condizione di “vulnerabilità” e/o di rischio. Tuttavia i dati attestano pur sempre la presenza di una ristretta mino- ranza, tra le fila dell’utenza, dei portatori di queste “disabilità” nella crescita della personalità; mentre una netta maggioranza manifesta in realtà di possedere un ba- gaglio di fattori “protettivi”. Si tratta di quella quota di intervistati composta dalle variabili opposte a quelle riportate sopra. In pratica si caratterizza per la totale assenza di “debolezze” formative e di comportamenti difficili e/o a rischio e, vice- versa, per il possesso di un sostenuto bagaglio valoriale e di maturazione globale della personalità. In questo si sono distinte in particolare le femmine, e con esse il CIOFS/FP, gli utenti delle Regioni centro-meridionali, i più giovani, i credenti e praticanti e chi non accusa particolari difficoltà nel corso che sta frequentando. Il motivo per cui sono stati volutamente evidenziati questi due cluster va indi- viduato nel fatto che il primo è strettamente correlato e/o si ripropone costante- mente in rapporto ai fattori predittivi del rischio, ciò che lungo l’analisi ha portato a definirlo di volta in volta “gruppo dello svantaggio” oppure “gruppo a rischio”; mentre il secondo appartiene alla parte più propositiva e meglio riuscita, nell’in- sieme degli utenti, lungo il percorso formativo e di crescita della personalità. In tutto questo la componente femminile sembra sopravanzare i coetanei maschi per impegno e grinta da investire nei momenti più o meno belli che la vita comporta. Dal canto suo l’ampia fascia d’età degli intervistati chiaramente porta a contrapporre chi ancora deve percorrere alcune tappe del processo evolutivo (e quindi chi deve fare ancora esperienze decisive per la crescita della propria personalità), da chi invece ha percorso ormai quasi tutte queste tappe e quindi ha maturato un’esperienza che lo porterà ad affrontare con maggiore capacità/compe- tenza l’imminente entrata nella vita attiva. In ogni caso, l’andamento d’insieme dei dati porta a sostenere che una netta maggioranza di questi giovani nell’andare incontro alle inevitabili difficoltà nel- 117 l’entrare progressivamente nella vita attiva appare già sufficientemente attrezzata di quelle “armi” e/o delle strategie necessarie per fronteggiarle e dare loro adeguata soluzione. Quasi nessuno fugge e/o evita di scontrarsi/confrontarsi con il problema, semmai può succedere che non sempre si scelga la soluzione migliore, ma in questi casi saranno le esperienze della vita ad orientare a trovare quella più adatta. Parte III CONCLUSIONI 121 Capitolo 7 Sintesi dei risultati dell’indagine Guglielmo MALIZIA - Mario BECCIU Anna Rita COLASANTI - Renato MION - Vittorio PIERONI 1. Lo scenario e gli obiettivi di fondo dell’indagine L’adolescenza si connota come una fase del ciclo della vita caratterizzata dal susseguirsi di compiti di sviluppo, al superamento dei quali è strettamente colle- gato, sul piano socio-psicologico, un favorevole processo di emancipazione indivi- duale e sociale. La possibilità di fronteggiare positivamente le situazioni critiche di tale perio- do, è connessa al possesso, da parte del soggetto, di adeguate competenze sul piano cognitivo, emotivo e strategico-comportamentale, nonché alla capacità di sostenere il confronto con i propri coetanei che magari si trovano a svolgere gli stessi compiti ma con modalità diverse. D’altra parte lo sviluppo di adeguate risorse personali che mettano l’adole- scente in grado di rispondere con efficacia ai bisogni che nascono dal suo percorso di emancipazione è legato alla presenza di alcune condizioni, quali: a) il far parte di una famiglia presente, autorevole, educante, capace di instaurare e mantenere relazioni soddisfacenti; b) il poter contare su figure adulte responsabili che pongono esigenze realistiche e valorizzanti; c) il vivere l’appartenenza alle istituzioni scolastiche e formative come ad un luogo che oltre a permettere di sviluppare le proprie abilità cognitive e sociali e il senso di autoefficacia personale, stimoli una progettualità a lungo termine; d) l’essere inseriti in una comunità che richieda da un lato comportamenti respon- sabili da parte degli adolescenti e che offra in tal senso opportunità di coinvol- gimento, e dall’altro che riduca la spinta verso l’adultità e non conduca l’ado- lescente a comportarsi in modo esteriore e consumistico da adulto. In tal senso, l’adolescenza viene a configurarsi come una sfida evolutiva che vede impegnati, da un lato, l’adolescente, come protagonista, attore del proprio sviluppo e responsabile delle risposte che sarà in grado di dare ai compiti evolutivi e alle opportunità offerte dal contesto, e dall’altro, i genitori, i coetanei, gli inse- gnanti, nonché l’intera comunità. 122 A fronte di questo scenario vengono i percorsi formativi del diritto-dovere. Essi appartengono all’esigenza di allungare/allargare una educazione di qualità riconoscendo ai giovani il diritto-dovere a una istruzione e formazione prolungata, a motivo della necessità crescente di aumentare il proprio bagaglio di conoscenze e di competenze, ai fini di un inserimento attivo e responsabile nella vita sociale. Questo diritto a una istruzione e formazione prolungata per tutti i giovani, in Italia ha trovato la sua consacrazione ufficiale nella “Riforma Moratti” e la sua attuazione concreta sul piano strutturale con l’approvazione del D.Lgs. 76/05, che definisce le norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. Nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arco della vita, esso ribadisce l’impegno della legge 53/03 a garantire a tutti uguali opportunità di conseguire livelli culturali elevati e di sviluppare capacità e competenze adeguate a una transizione soddisfa- cente nella società e in particolare nel mondo del lavoro. L’obiettivo della presente indagine riguarda quindi l’esigenza di documentare su scala nazionale la ricaduta sulla maturazione degli allievi dei percorsi sperimen- tali triennali del diritto-dovere offerti dei Centri di Formazione Professionale che fanno capo agli Enti di ispirazione cristiana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP. Più in particolare, si è inteso verificare, rispetto alla tipologia di utenti, sia la scolarità precedente e l’attuale condizione nella FP iniziale, sia le prospettive di prosecuzione nel sistema educativo di istruzione e di formazione o di inserimento nel mondo produttivo. A tale proposito, particolare attenzione è stata data alla capa- cità di questi corsi di rimotivare coloro che presentavano, nell’esperienza pregressa degli studi, incidenti di percorso e/o particolari situazioni di “debolezza”. Un ulte- riore obiettivo è stato quello di analizzare il sistema valoriale di questi giovani, al fine di verificarne la maturazione in termini di sviluppo pieno della personalità e di formazione ad una cittadinanza attiva e responsabile, come è negli Statuti dei due Enti di ispirazione cristiana. 2. Caratteristiche dei giovani dell’inchiesta Prima di riportare sinteticamente i risultati emersi dall’indagine occorre tut- tavia precisare chi sono i 1.130 allievi dei percorsi del diritto-dovere che fanno parte del campione scelto tra gli oltre 3.000 che hanno partecipato all’indagine rispondendo al questionario. 2.1. Caratteristiche anagrafiche La distribuzione dell’utenza per Enti di appartenenza presenta un rap- porto di 70 a 30 tra CNOS-FAP e CIOFS/FP (rispettivamente 69.2% e 30.8%,). Dai dati disaggregati emergono inoltre alcune caratteristiche peculiari a ciascun gruppo: 123 a) l’utenza del CNOS-FAP è costituita da oltre i due terzi degli allievi coinvolti nell’indagine (782=69.2%); al loro interno i maschi risultano ovviamente una netta maggioranza (669, pari all’87% del totale maschi e all’85.5% dell’utenza CNOS-FAP); analizzando l’età degli intervistati, circa la metà (386=49.4%) si trova nella fascia intermedia (16-17), 273 (34.9%) in quella inferiore (13-15 anni), mentre i rimanenti 123 (15.7%) hanno raggiunto la maggiore età; infine se suddivisi per fasce geografiche, i due terzi si collocano nelle Regioni del nord (498=63.7%); b) dal canto loro, gli allievi del CIOFS/FP costituiscono meno di un terzo del totale (348=30.8%) e al loro interno il rapporto femmine-maschi è di 71 a 29%, rispettivamente; anche in questo caso circa la metà si colloca nella fascia intermedia (16-17 anni, 166=47.7%) e all’incirca nella medesima percentuale si caratterizza per la provenienza dalle Regioni meridionali (147=48%). L’età media degli inchiestati si colloca attorno ai 16-17 anni (48.8%), con l’aggiunta di due gruppi minoritari che si situano uno al di sopra (18.1%) e l’altro al di sotto (33%) di tale fascia. Il dato significa che il campione è composto per lo più da soggetti prossimi all’entrata nella maggiore età, con la conseguenza che si dovrebbero caratterizzare per stili di vita più responsabili, e per le scelte impegna- tive (di studio, di lavoro, di relazioni affettive...) da prendere. Il titolo di istruzione dei genitori permette di delineare un quadro sufficiente- mente definito dell’estrazione culturale degli allievi dei percorsi del diritto-dovere. Una metà ha conseguito appena la licenza media, mentre il 15% circa non ha por- tato a termine neppure l’obbligo; della quota residua, il 15% possiede una qualifica professionale mentre sono appena il 10% quanti possiedono un diploma di secon- daria di 2° grado e unicamente il 3% è arrivato ad ottenere una laurea. A tale ri- guardo si osserva una differenza tra i CFP del CIOFS/FP e delle Regioni meridio- nali rispetto ai CFP del CNOS-FAP e del centro-nord: i primi sembrano frequentati da allievi i cui genitori si caratterizzano per il basso livello di scolarità (scuola del- l’obbligo o al di sotto), mentre gli altri possono contare in misura maggiore su genitori diplomati o qualificati. Un’ultima connotazione riguarda la condizione occupazionale dei genitori, che in parte permette di intuire anche la situazione economica della famiglia. L’83.7% dei padri e circa la metà delle madri (46.6%) hanno un lavoro regolare; la quota di attività saltuaria si aggira per entrambi attorno al 5-7% e la disoccupazione tocca circa una metà delle madri e il 10% dei padri; in entrambi i casi quest’ultimo dato pare penalizzare particolarmente le allieve del CIOFS/FP, delle Regioni meridio- nali, delle famiglie più numerose e di quelle con livelli di istruzione inferiori. In definitiva, l’andamento d’insieme dei dati sembra attestare la provenienza da famiglie certamente di livello basso almeno sul piano culturale e questo fa pen- sare che anche la professionalità, la condizione economica e la classe sociale di ap- partenenza degli allievi della FP non possano essere poste sul stesso piano di quelle 124 dei coetanei che frequentano i licei e gli istituti tecnico-professionali. In riferimento a questi ultimi, infatti, le indagini riportano percentuali più numerose di genitori che hanno conseguito il diploma, o comunque un titolo di studio superiore all’ob- bligo, e la laurea. 2.2. La posizione scolastico-formativa L’indagine a questo punto si concentra sull’analisi dell’esperienza scolastica pregressa e della condizione formativa attuale. Nel confronto tra quanti sono stati sempre promossi e coloro che risultano boc- ciati una o più volte, il campione si divide esattamente a metà (49.4 e 49.5%, ri- spettivamente); al tempo stesso va precisato che i casi di allievi respinti si sono ve- rificati non tanto nella FP (dove sono appena il 2.5% del totale) quanto piuttosto nella scuola dell’obbligo (19.8%) e soprattutto nelle superiori (28.8%). Essi riguar- dano ovviamente chi ha un’età più avanzata e in particolare i due terzi di chi fre- quenta un percorso alternativo a quello triennale nella FP (66%). Un tale anda- mento contribuisce a caratterizzare una delle funzioni sottese alla FP, quella cioè di recuperare lo svantaggio a livello scolastico di una condizione giovanile già se- gnata sul piano culturale da condizioni socio-familiari deprivate. Nel tentativo di approfondire la conoscenza della carriera scolastica degli al- lievi è stato chiesto loro di indicare anche il giudizio con cui sono stati licenziati alla fine della scuola media. Tale valutazione permette di comprendere meglio una delle ragioni della scelta del percorso formativo nella FP. Infatti, agli esami di li- cenza di scuola secondaria di 1° grado, il 60.2% ha ottenuto un giudizio di suffi- ciente, neppure il 30% (27.8%) quello di buono e meno del 5% quello di distinto (4.8%) o di ottimo (1.1%): di fatto, la FP iniziale continua ad essere il sottosistema formativo per i ragazzi che non riescono a scuola. Questa conclusione emerge chia- ramente dal confronto con i risultati ottenuti agli esami di licenza di scuola secon- daria di 1° grado statale a livello nazionale. Nel 2004-05, sul totale degli alunni che si sono presentati alle prove in tutta Italia, la percentuale di quanti ottengono un giudizio di “sufficiente”, rispetto agli allievi della FP, viene quasi a dimezzarsi (37.4%), mentre quella di coloro che conseguono una valutazione di “distinto” sale a un quinto circa (18.9%) e, infine, la porzione degli studenti che arrivano all’“ot- timo” costituisce il 17.7% rispetto all’1.1% di quanti scelgono la FP. In riferimento alle valutazioni, quelle superiori alla sufficienza sono ottenute, nel nostro campione, soprattutto: dalle ragazze; dagli allievi del centro e del sud; dai figli di genitori con livelli di istruzione più elevati; da quanti non hanno mai ripetuto un anno; da coloro ai quali al termine della scuola media è stato consigliato di iscri- versi ai licei o agli istituti tecnici; da chi sta frequentando un percorso di FP trien- nale integrato o biennale o annuale in cui non ha incontrato difficoltà. Al contrario, la percentuale di chi ha conseguito appena la sufficienza aumenta, rispetto al totale, tra i residenti al nord, i ripetenti, quanti sono stati consigliati di frequentare gli istituti professionali e la FP e gli allievi in difficoltà nel percorso della FP iniziale. 125 Al termine della scuola secondaria di 1° grado i due terzi circa avevano rice- vuto il consiglio di iscriversi al sistema di istruzione e di formazione professionale, in parti quasi eguali tra gli istituti professionali e la FP. Al momento di decidere, il primo gruppo ha preferito proseguire nella FP iniziale. A un quinto circa era stato suggerito invece di frequentare i licei e gli istituti tecnici, indicazione che tuttavia è stata disattesa con la scelta della FP iniziale; al tempo stesso, va sottolineato in po- sitivo che quest’ultimo dato probabilmente attesta l’inizio di un cambiamento della percezione della FP nell’immaginario delle famiglie, nel senso che la FP non è più necessariamente collegata con l’idea solo di un canale di serie C, ma anche con quella di una di serie A. Come si è già osservato sopra, i dati mettono in evidenza come i consigli forniti alla conclusione della secondaria di 1° grado vengano se- guiti da appena un terzo dei licenziati, per cui c’è da interrogarsi seriamente sulla validità dell’orientamento offerto in uno degli snodi fondamentali della carriera scolastica e formativa dei giovani in Italia. Passando ad analizzare invece la posizione dei 1.130 allievi in merito all’at- tuale percorso formativo, emerge il seguente andamento: a) il 78.4% del campione frequenta attualmente il percorso triennale tutto nella FP e si tratta dei più giovani; inoltre, la scelta di frequentare i percorsi triennali è stata fatta tanto da chi proviene da pregressi insuccessi scolastici (71.2%), ai quali ovviamente era stata consigliata, come anche da chi non è stato mai bocciato (86.4%) e a cui erano stati suggeriti gli istituti tecnico-professionali o i licei; questa utenza appare particolarmente presente nei CFP del sud (il 92.9% degli iscritti); b) stando sempre all’interno della FP, un 10.4% frequenta corsi biennali e l’1.9% corsi annuali; coloro che li seguono si caratterizzano per essere stati quasi tutti bocciati negli istituti tecnico-professionali o nei licei a cui si erano iscritti, per cui si ritrovano nella fascia d’età più alta (maggiorenni o prossimi ad acce- dervi); inoltre, si tratta per lo più di maschi, del CNOS-FAP e delle Regioni del centro-nord; c) invece nei corsi triennali integrati tra scuola e FP è collocato appena il 6.7%, una percentuale piuttosto bassa che non permette grandi confronti con gli altri sottocampioni, specialmente della FP iniziale triennale, tutta nella FP; i dati non rilevano particolari variazioni tra i sottogruppi in cui questi allievi si articolano secondo le variabili prese in considerazione. Nel percorso formativo appena descritto, più del 40% frequenta il I anno; ovviamente, quasi tutti rientrano nella fascia dei 13-15enni e circa una metà, al ter- mine dell’obbligo, ha riportato bocciature e/o una valutazione appena sufficiente. Seguono il II, con il 32.6% del totale degli allievi e il III con quasi un quinto (24%); in entrambi i casi una netta maggioranza si colloca nella coorte 16-17, mentre una quota non indifferente presenta un’età superiore, a conferma del fatto che in ciascun gruppo i bocciati sono più della metà. Al contrario, il IV anno non 126 raggiunge neppure il 2% e, quasi tutti, appartengono ai CFP del nord; la bassa percentuale degli iscritti si spiega a motivo sia del suo avvio solo nel 2005-06 a conclusione del primo triennio di sperimentazione della nuova FP iniziale, sia a causa delle incertezze che nell’ultimo anno si sono avute sul piano politico a riguardo del futuro di questa parte della “Riforma Moratti”. Un quarto circa degli allievi appartiene alle comunità professionali meccanica ed elettrica-elettronica, quasi un quinto a quelle aziendale e amministrativa e il 15% circa alle comunità professionali grafica e multimediale. In tutti gli altri casi, la percentuale si attesta su quote marginali al di sotto del 10%. In conclusione, al termine di questa prima parte di analisi si evidenzia come, in conformità al classico stereotipo dell’allievo/a della FP, la pregressa esperienza scolastica si riproponga caratterizzata, in almeno metà dei casi, da insuccessi e/o da una condizione di “debolezza”. Una tale situazione, in parte, può essere attri- buita sia ad un’estrazione familiare già di per sé di livello culturale basso, con ge- nitori che hanno appena raggiunto (e non sempre) il livello dell’obbligo, sia, come sovente accade, a scelte sbagliate/inadeguate, figlie, il più delle volte, di attività di “disorientamento” piuttosto che di orientamento agli studi superiori. Al tempo stesso l’andamento dei dati attesta, in riferimento alla superiorità quantitativa del I anno rispetto agli altri e alla differenza in positivo di quasi 10 punti percentuali tra gli allievi del II e del III, di un sempre crescente consenso che la FP iniziale triennale sta conquistando tra le famiglie e tra gli stessi giovani e l’andamento offre motivi validi per credere in un consolidamento della nuova offerta, a meno che ragioni ideologiche non prevalgano su quelle pedagogiche e spingano il Go- verno nazionale e le Amministrazioni locali a interromperne lo sviluppo. 3. La valutazione degli allievi del percorso formativo Cominciando dalle motivazioni soggettive per cui gli allievi si iscrivono alla FP, va anzitutto osservato che esse sono molteplici e variegate. Le più segnalate mettono in evidenza che la FP viene scelta per la sua funzionalità all’inserimento rapido e con successo nel mercato del lavoro. Solo al quarto posto si colloca una motivazione che sottolinea le potenzialità educative generali della FP: infatti, più di un quarto giustifica la sua scelta, mettendo in risalto che il corso è più rispondente alle proprie doti ed esigenze. Globalmente, si può dire che anche i contenuti del percorso formativo seguito rispondono in misura più che sufficiente alle attese degli allievi. Anzitutto, gli argo- menti sono apparsi loro almeno abbastanza importanti, in secondo luogo, essi sono risultati pertinenti alla futura vita professionale più o meno nello stessa misura; al terzo posto, a poca distanza, si colloca la chiarezza dei contenuti. Il giudizio sui metodi si colloca sulla sufficienza. Questa è piena riguardo alla cooperazione tra allievi e formatori e alla valutazione, mentre si situa appena al di sotto quanto al coinvolgimento durante le lezioni. 127 L’organizzazione del percorso consegue un giudizio globalmente più positivo degli altri due aspetti. La disponibilità di attrezzature e strumenti è apprezzata mediamente tra “molto” e “abbastanza”, mentre ottengono una sufficienza piena: la strutturazione di spazi e ambienti, l’organizzazione delle visite tecniche e dello stage e la distribuzione dei tempi. Sono comunque gli apprendimenti ad ottenere la valutazione più positiva. L’acquisizione di conoscenze tecnico-professionali e la formazione di capacità operative sono apprezzate mediamente tra “molto” e “abbastanza” e la trasmissione di conoscenze generale si colloca a poca distanza. Anche la valutazione dei formatori appare abbastanza positiva. Infatti, a parere degli allievi, quasi tutti i formatori sono preparati nella materia che insegnano e vanno d’accordo tra di loro; buona parte di loro collabora con gli allievi nelle varie attività formative e utilizza metodi di insegnamento appropriati; una maggioranza assoluta consistente dialoga con gli allievi, insegna con chiarezza ed efficacia, sa dare valutazioni giuste, riesce a tenere la disciplina, coinvolge gli allievi nelle varie attività formative. Passando poi ai comportamenti dei giovani, alla cui osservanza tengono princi- palmente i docenti, va detto che essi in generale coincidono con le norme che carat- terizzano la formazione salesiana. Dalla classifica che emerge dai dati i valori cen- trali del progetto educativo salesiano come appunto le attività religiose, la solida- rietà e la lealtà ricevono, secondo la percezione degli allievi, un’attenzione da parte dei formatori mediamente soddisfacente. Inoltre, sembra adeguata, ma non più di tanto, la considerazione che viene riservata al rispetto delle norme di sicurezza, tenendo anche conto della frequenza eccessiva nel nostro Paese degli incidenti sul lavoro. Dopo aver chiesto un giudizio sul percorso e i suoi vari aspetti, gli allievi sono stati chiamati a pronunciarsi sul proprio apprendimento. E ciò da due punti di vista: anzitutto, vengono invitati a immedesimarsi nei loro formatori e a immaginare come questi valutano globalmente il loro rendimento. Le due modalità si concen- trano sostanzialmente sugli stessi tipi di giudizio, “buono” (il 50% quasi) e “suffi- ciente” (poco più di un terzo). Nonostante le mete soddisfacenti raggiunte, se con- frontate con i punti di partenza, uno dei punti che andrebbero migliorati riguarda un maggiore sforzo per portare gli allievi oltre la sufficienza, verso traguardi ottimali. I dati emersi in quest’area dovrebbero far riflettere il CNOS-FAP e il CIOFS/FP in funzione di un rinnovato impegno, in vista di interventi ancora più efficaci. Al tempo stesso, è anche vero che poco più del 50% degli allievi non incontra alcuna difficoltà nel proprio percorso formativo, mentre l’altra metà ha sperimen- tato problemi, la grande maggioranza solo in parte e neppure il 10% su tutti gli aspetti. Il 60% quasi di quanti trovano problemi nel proprio percorso formativo li attribuisce alle materie di studio, il 30% circa chiama in causa i problemi personali, poco più di un quarto il metodo di studio e oltre un quinto il metodo di insegna- mento. Pertanto, nonostante i progressi compiuti e il successo crescente tra i gio- 128 vani e le famiglie, la nuova FP iniziale incontra ancora, presso alcune minoranze, difficoltà a portare i contenuti a livello degli allievi, a suscitare il loro interesse nei confronti delle materie insegnate, a motivarli all’apprendimento e a scoprire e a risolvere i loro problemi personali. Gli allievi propongono, come miglioramenti da apportare al corso, di poten- ziare i metodi attivi e la didattica laboratoriale, l’utilizzo delle tecnologie dell’in- formazione e della comunicazione e l’alternanza. Oltre un terzo suggerisce di avviare il IV anno. Quest’ultimo dato attesta di una forte domanda di completamento dei percorsi formativi del diritto-dovere per cui non si capiscono le remore del potere politico ad accogliere questa richiesta; non è infatti pensabile che la vera ragione sia di carattere ideologico. Le esigenze formative dei loro compagni, che dovrebbero essere maggior- mente soddisfatte dai CFP, consistono nell’orientamento, nella promozione delle attività associative, sportive e ricreative e nel potenziamento dell’educazione morale, socio-politica e sessuale. A questo punto è importante osservare che la domanda educativa, che aveva esercitato relativamente poca incidenza sulle motivazioni ad iscriversi alla FP rispetto a quella di preparazione professionale, riemerge in seguito alla parteci- pazione ai processi di insegnamento-apprendimento dei CFP salesiani e quindi conforti questi ultimi a continuare, anzi a potenziare, la formazione globale della personalità dei giovani. Oltre il 70% degli allievi non ha mai pensato di cambiare il corso che fre- quenta, più del 10% si è posto il problema, ma per rimanere sempre all’interno della FP, il 15% quasi ha pensato a un trasferimento dalla FP ad istituti scolastici. Una ulteriore osservazione va riservata ai fattori che si associano con maggiore probabilità con il successo degli allievi nella FP iniziale triennale. In sintesi si tratta: del livello culturale più elevato della famiglia di origine, del conseguimento di un giudizio almeno di buono nell’esame finale della secondaria di 1° grado, del- l’aver ricevuto il consiglio di iscriversi ai licei o agli istituti tecnici al termine della secondaria di 1° grado, della frequenza della FP iniziale triennale tutta nella FP, dell’assenza di difficoltà nel proprio percorso formativo e del non essere mai stato tentato di cambiare il corso che si frequenta. Tutti risultati che attestano del gradimento della più gran parte degli allievi per la FP iniziale triennale. Quali opportunità di una vita felice contribuisce a costruire la FP? Gli allievi intervistati prevedono di godere di possibilità almeno elevate: di trascorrere una vita familiare serena, di avere dei buoni amici su cui contare, di godere di buona salute, di trovare un lavoro soddisfacente, di essere rispettati all’interno della propria comunità e di avere una casa propria. Le opportunità scendono intorno ai due terzi riguardo alla possibilità di vivere dove si vuole e al 60% circa quanto alla opportunità di prendersi un diploma di scuola superiore, mentre divengono basse, intorno al 25%, circa l’iscrizione all’università. 129 In conclusione emerge da questi dati tutto un bagaglio progettuale e/o di compiti di sviluppo almeno in parte già maturati, che nell’insieme attestano del possesso da parte degli allievi dei CFP CNOS-FAP e CIOFS/FP di fattori protettivi da condizioni di rischio, a cui ha contribuito in misura importante la frequenza dei percorsi sperimentali triennali tra le mura della FP salesiana. 4. La dimensione relazionale e valoriale I dati dell’inchiesta hanno permesso di ricostruire anche uno spaccato fedele della condizione giovanile degli allievi dei percorsi formativi del diritto-dovere. Ne presentiamo qui di seguito una sintesi focalizzata sulle dimensioni relazionale e valoriale. 4.1. Le relazioni familiari e amicali A conferma dell’andamento che si registra complessivamente nel nostro Paese, l’atteggiamento dei ragazzi nei confronti dei propri genitori è generalmente buono. Tanto con il padre quanto con la madre i rapporti sembrano essere caratteriz- zati prevalentemente da qualità positive, sebbene nella relazione con l’uno e con l’altra siano riscontrabili alcuni elementi di diversità. In particolare, nel rapporto con il padre emergono, quali fattori dominanti, il rispetto (74.4%), la fiducia (65.5%) e la responsabilità (62.1%), in misura di poco maggiore nei maschi rispetto alle femmine. Nella relazione con la madre al primo posto vi è la fiducia (76.4%), seguita da rispetto (75.8%), comprensione (70.3%), responsabilità (67.4%), questa volta in misura di poco maggiore nelle femmine rispetto ai maschi. Nel complesso, sia per i maschi che per le femmine il rapporto con la madre sembra essere vissuto come più positivo rispetto alla relazione con il padre che risulta, comunque, anch’essa positiva. La variabile che maggiormente differenzia i due tipi di rapporto è la comprensione che il 70.3% afferma di sperimentare con la madre e solo il 46.2% con il padre. Accanto alle qualità positive, si registrano, nel rapporto con i genitori, note di problematicità, sebbene in misura decisamente minore. Tra queste la ribellione (30.1 % con la madre, 27.1% con il padre), l’incomprensione (27.1% con il padre, 24.8% con la madre), l’indifferenza (25% con il padre, 20% con la madre), l’inco- municabilità (24.6% con il padre, il 18.3% con la madre). Tali note di problemati- cità sembrano interessare in misura leggermente maggiore la fascia di età dei figli compresa tra i 16 e i 17 anni, periodo nel quale i giovani “spiccano il volo” e quindi, presumibilmente, aumentano i motivi di contrasto e di conflittualità dovuti alla ricerca di autonomia nelle numerose scelte da farsi, grazie alle opportunità sempre maggiori che ai giovani si presentano a questa età. Un’altra dimensione percepita come presente nel rapporto con i propri geni- tori è quella del supporto. Tra i comportamenti dei genitori nei confronti di situa- 130 zioni problematiche che possono verificarsi, quelli che i ragazzi segnalano come maggiormente ricorrenti sono: “Cercano di aiutarmi” (53.5%), “Mi consigliano, lasciando che poi sia io a risolvere il problema” (28%). Rimane forte, pertanto, la percezione dei genitori come figure di sostegno su cui poter contare in caso di difficoltà. I comportamenti dei quali i genitori richiedono maggiormente l’osservanza sono 1) per i figli maschi: - non fumare (37.8%), - dire dove vai e con chi (34.8%), - non usare sostanze stupefacenti (33.6%), - rientrare in orari stabiliti (29.6%), - essere sinceri con i genitori (18,9%), - non usare espressioni volgari (17.3%); 2) per le figlie femmine: - dire dove vai e con chi (46.2%), - rientrare in orari stabiliti (43.7%), - non fumare (24.5%), - non usare espressioni volgari (23.4%), - essere sinceri con i genitori (23.4%), - non usare sostanze stupefacenti (21.7%). Per quanto concerne l’atteggiamento dei figli nei confronti delle situazioni di contrasto che possono verificarsi con i genitori, le reazioni indicate come più frequenti sono 1) per i maschi: - reagisco, poi accetto (21.8%), - dialogo cerco di capire (21.2%), - mi ribello, non accetto (19.4%), - faccio come voglio (15.5%), - mi chiudo in me stesso (9.8%); 2) per le femmine: - mi ribello, non accetto (23.7%), - reagisco, poi accetto (23.1%), - dialogo cerco di capire (18.6%), - mi chiudo in me stessa (14.6%), - faccio come voglio (13%). Complessivamente, i dati sembrano segnalare una presenza forte e significa- tiva dei genitori nella vita dei figli e la percezione di legami affettivi solidi e sicuri. 131 Relativamente al rapporto con i coetanei, si evidenzia una sostanziale positi- vità. La presenza degli amici nella propria vita è considerata come qualcosa di molto importante, che incrementa l’esperienza di benessere e che consente di sod- disfare tanto il desiderio di appartenenza, quanto quello di autonomia, entrambi sempre più intensi contestualmente all’elevarsi dell’età. Alla domanda “Che importanza ha per te il gruppo di amici”, i maschi rispon- dono facendo osservare che per loro riveste maggiormente un significato ludico- ricreativo, mentre per le femmine è piuttosto quello di uno spazio contenitivo dei propri vissuti e stimolante la crescita personale. Un’area di indagine piuttosto interessante concerne la capacità di affermare le proprie idee tra i pari e di resistere alla pressione del gruppo. In particolare, le alternative andavano a misurare sia la capacità percepita di farlo, sia i comporta- menti messi in atto in situazioni concrete. Esaminando le risposte date dai ragazzi, emerge nel complesso un quadro abbastanza rassicurante. Alla domanda “Quando i tuoi amici si comportano in modo trasgressivo e ti fanno capire che per essere accettato devi fare come loro, tu cosa fai?”: - il 39.1% risponde: “Rimango fermo nei miei principi e cerco di stabilire un dialogo per far capire loro dove sbagliano” (maschi: 35.8%; femmine: 47%); - il 28.4% risponde: “Resto fedele ai miei principi e me ne vado” (maschi: 26%; femmine: 33.5%); - l’11.8% risponde: “Anche se non condivido, mi adeguo per non essere escluso” (maschi: 13.1%; femmine: 8.5%); - il 10.7% risponde: “Condivido pienamente quanto fa il gruppo” (maschi: 13.3%; femmine: 5.1%). Degli allievi intervistati solo il 33.6% dichiara di far parte di gruppi organiz- zati; di questi il 39.9% sono maschi e il 20% sono femmine. I gruppi di apparte- nenza variano per i due sessi. Dei maschi, il 66.1% afferma di appartenere a “gruppi sportivi”, il 22.1% agli “ultras”; il 12.1% a “gruppi religiosi”, il 10.1% a “gruppi ricreativi”, il 5.5% a “gruppi di volontariato”. Delle femmine, il 45% dice di appartenere a “gruppi sportivi”; il 31% a “gruppi religiosi”, il 14.1% a “gruppi ricreativi”, il 9.9% a “gruppi di volontariato”, il 4.2% agli “ultras”. L’appartenenza a gruppi organizzati tende comunque a decrescere con l’au- mentare dell’età dei ragazzi. Si passa dal 36.5% a 13-15 anni, al 27.3% dopo i 17. Riassumendo, per quanto riguarda i rapporti con i coetanei si delinea un quadro globalmente positivo, nel quale sembrano prevalere i fattori di sostegno e protezione, rispetto ai fattori di rischio. I ragazzi vivono come importante e gratifi- cante la relazione con i pari e la maggior parte di essi si percepisce come capace di proteggersi e di proteggere a sua volta. Naturalmente non va sottovalutata la percentuale, seppur non elevata, di coloro che si vedono più esposti e meno resistenti alla pressione dei pari, per i quali sarebbe auspicabile un incremento di autoefficacia e assertività. 132 4.2. La personalità sullo sfondo dello scenario esistenziale e valoriale Agli allievi è stato chiesto di descrivere i tratti della loro personalità, sce- gliendo tra una serie di 17 caratteristiche tra loro contrapposte. I risultati della do- manda possono essere sintetizzati nei punti seguenti: a) vengono segnalate maggiormente le caratteristiche che fanno capo al sistema di autoefficacia, ossia circa l’80% degli intervistati si considera una persona attiva (79.6%), responsabile (78.7%) e motivata (76.7%); b) seguono, attorno al 70%, altri tratti di personalità che invece fanno riferimento al sistema di autostima: persona che ha stima di sé (75.3%), realizzata (73.8%), con molti ideali (71.3%) e capace di accettare chi è diverso da sé (71.2%); c) a completamento di queste due dimensioni vengono, segnalati nel 50-70% dei casi, attributi di persona gioiosa (75.7%), altruista (67.4%), ottimista (66.8%), sicura (65.2%), autonoma (64.5%), non violenta (61.2%). In aggiunta, ai giovani è stata rivolta la richiesta di posizionarsi in rapporto al proprio vissuto religioso. Circa tre giovani su quattro dichiarano di essere “credenti” ma non tutti sono in eguale misura “praticanti”: questi ultimi assom- mano a un quarto del campione (25%), mentre la quota maggioritaria, composta da quasi la metà degli intervistati, pur dichiarandosi credente, afferma di non praticare la religione (48%). Il rimanente 27% riguarda minoranze che affermano di essere o indifferenti verso la religione (9.6%) o niente affatto credenti (8%), oppure in fase di ricerca di una fede religiosa (6.3%). Scendendo tra i dati disaggregati, si riscontra che a distinguersi per una pratica coerente con le proprie credenze sono soprattutto le femmine, la fascia dei più gio- vani ed i residenti nelle Regioni del sud. Inoltre a dichiararsi non credenti o indiffe- renti verso la religione sono soprattutto i maschi, il gruppo di età più avanzata, chi presenta un percorso scolastico-formativo problematico e chi frequenta altri corsi rispetto ai triennali tutti nella FP. Fa seguito una domanda mirata a verificare la presenza di sensazioni negative o di “momenti neri” che questi giovani potrebbero aver sperimentato. Trattandosi di un campione con un’età nel pieno della “turbolenza” della crescita evolutiva e appartenente per di più a strati sociali per diversi aspetti svantaggiati (dal punto di vista professionale, culturale, economico, socio-relazionale...), si poteva ipotizzare che l’insieme di tutti questi elementi avrebbe potuto esercitare un peso negativo non indifferente sul loro sistema di significato esistenziale. La media generale dei dati attesta che le varie sensazioni elencate nella domanda sono state avvertite al massimo tra “qualche volta” e “mai”, a seconda dei casi: - la “voglia di farla finita” è la sensazione che una netta maggioranza ha ammesso di non aver avuto mai (61.6%; M=2.50); così pure sensazioni poco o per niente avvertite sono quelle di “sentirsi un fallito” (M=2.45), di “non essere amati” (M=2.42) o di sentirsi soli, “senza nessuno vicino” (M=2.33); 133 - ciò che invece la metà circa degli allievi ha effettivamente provato “qualche volta” è la percezione di non avere di fronte a sé un futuro roseo/promettente (M=2.21), di dubitare delle proprie capacità (M=2.22), di non avere fiducia in nessuno (M=2.29) e di essere incapaci a prendere una decisione (M=2.31). Vengono a manifestarsi in questo modo fattori predittivi di disagio/rischio che, per effetto cumulativo e talora moltiplicativo, vanno a colpire quella parte del cam- pione già provata da altri svantaggi, quali l’estrazione da famiglie meno abbienti, le difficoltà incontrate lungo il percorso scolastico e quelle che continuano a speri- mentare, anche adesso, l’assenza di quel sostegno che può venire da una fede reli- giosa. E comunque si tratta pur sempre di minoranze. Scendendo ancor più nei par- ticolari si nota che la componente femminile appare leggermente più esposta dei maschi a queste percezioni, probabilmente in forza della maggiore sensibilità di cui è dotata; a ciò si unisce anche il fatto di essere nel pieno della crescita evolu- tiva (16-17 anni), quando l’esposizione alle “interperie” ed ai problemi si fa sempre più frequente e forte, soprattutto a motivo della necessità di affrontare scelte decisive o comunque impegnative. Con un’ultima serie di domande si è cercato di penetrare nel mondo segreto della condizione giovanile per verificare se e fino a che punto si cede alla tenta- zione della trasgressività, una prova del fuoco a cui tutti vanno soggetti, seppure in diversa misura, in questo stadio del processo evolutivo. Passando ad analizzare nei particolari l’andamento dei punteggi della media, si riscontra che: a) le trasgressioni che circa uno su cinque degli allievi ha riconosciuto di aver com- messo limitatamente a “qualche occasione” risultano essenzialmente di tre tipi: - aver fumato uno spinello (M=1.60); - aver avuto rapporti sessuali non protetti (M=1.50); - aver messo in pericolo la propria vita (M=1.51); - pochissimi invece hanno riconosciuto di aver messo in pericolo anche la vita degli altri (M=1.21), di aver guidato sotto l’effetto dell’alcol (M=1.30) o di altri stupefacenti (M=1.23); b) dopo lo spinello e il sesso, un numero ancor più ridotto del campione (tra il 10 e il 15%) ha segnalato di: - aver commesso azioni violente, facendo a botte con i compagni di scuola (M=1.43) o partecipando a risse con bande di ultras (M=1.34); - essere andato in giro armato di coltello (M=1.32); - aver compiuto atti di vandalismo, danneggiando proprietà pubbliche o private (M=1.41); - mentre risultano ancor meno coloro che hanno rubato nei negozi (M=1.27); c) infine quasi tutti negano di aver: - subito (M=1.10) o compiuto violenze sessuali (M=1.14); - preso droghe pesanti (M=1.20) o spacciato droga (M=1.19); - sofferto di problemi di anoressia o di bulimia (M=1.11). 134 In merito a questa serie di dati occorre compiere alcune distinzioni. Tra coloro che in qualche misura hanno segnalato delle trasgressività si met- tono in evidenza i maschi, le fasce più alte d’età, chi ha un patrimonio valoriale carente, a partire dalla dimensione religiosa, e soprattutto chi si presenta in una condizione di “debolezza” nell’intero percorso formativo, attuale e pregresso; va aggiunto che il fenomeno riguarda proporzionalmente di più gli allievi che frequen- tano altri tipi di corsi rispetto a quelli triennali tutti nella FP. Nei confronti di questo gruppo, che potremmo definire dello “svantaggio”, le trasgressività costituiscono indubbiamente un sintomo di disagio interno, “comuni- cato” poi esternando azioni riprovevoli; azioni che a loro volta diventano veicoli “predittivi” di un possibile scivolamento in una condizione di rischio. Tuttavia si tratta pur sempre di una ristretta minoranza, mentre in realtà la maggior parte dei soggetti dimostra di possedere un adeguato bagaglio di fattori “protettivi”. Quest’ultimo gruppo è composta dalle ragazze, dagli intervistati più giovani, dai credenti e praticanti, da chi non accusa particolari difficoltà nel percorso che sta frequentando. 4.3. Bisogni, disagi e strategie di fronteggiamento L’ultima parte del questionario si componeva di una serie di domande aperte costituite da una frase interrotta che doveva essere completata da ciascun intervi- stato, aggiungendo spontaneamente o di primo impulso, ciò da cui su era sentito stimolato attraverso l’input iniziale: - “Io mi sento molto a disagio quando...” (le fonti di disagio); - “Io sento fortemente il bisogno di...” (i bisogni); - “Quando ogni cosa sembra essere contro di me, io...” (le strategie di fronteg- giamento dell’ostacolo/problema); - “Io mi sentirò pienamente realizzato quando...” (la progettualità, gli obiettivi da realizzare nella vita). 4.3.1. Le fonti di disagio Dai dati raccolti, ciò che è causa di difficoltà in questi giovani va considerato essenzialmente in rapporto a tre categorie. Tra queste il disagio personale e inte- riore appare decisamente assai più avvertito (78.2%); seguono, in misura piuttosto ridotta quello di natura relazionale (10.9%) ed esistenziale (4.3%). Queste tre categorie di massima tuttavia rispecchiano solo un quadro sintetico entro cui sono state racchiuse le fonti di disagio, mentre in realtà quelle espresse in prima persona dagli intervistati rientrano in uno scenario assai più vasto: a) il disagio personale/interiore scaturisce da una variegata gamma di situazioni che, data l’età, fanno capo ad una imperfetta o incompleta crescita del sé, del livello di autostima e di autoefficacia; in tutti questi casi si fa riferimento al senso di inferiorità per non sentirsi all’altezza della situazione, al senso di timi- 135 dezza o all’imbarazzo derivante dall’aver sbagliato, dall’aver fatto brutta figura, dall’essere fissato negli occhi, dal ricevere complimenti, dal parlare in pubblico, oppure dal fatto di non essere presi in considerazione, sentirsi esclusi, non capiti, non stimati per quello che si è; b) il disagio relazionale ha origine invece dai contatti con l’ambiente circostante, sia per il presentarsi di situazioni-problema (come il sentirsi presi in giro, sgri- dati, incolpati, giudicati...), sia per trovarsi a contatto diretto con persone e/o con ambienti sconosciuti (avere a che fare con stranieri, dover affrontare situa- zioni nuove...); c) infine il disagio è stato definito di ordine esistenziale quando non si sta bene con se stessi o quando si sta psicologicamente male dal non sapere a chi chie- dere aiuto, motivo per cui ci si sente soli, senza affetti; tale disagio viene pro- vato anche quando non si sa cosa si vuole dalla vita, né quali progetti realizzare; d) una quota non indifferente del campione tuttavia ha dichiarato di non aver mai provato alcuna forma di disagio (15.1%). Dai dati disaggregati si evince una netta spaccatura degli intervistati tra chi avverte maggiormente disagi di ordine personale e interiore rispetto a chi perce- pisce soprattutto quelli relazionali ed esistenziali: nel primo caso si distinguono gli allievi più giovani, i maschi, gli iscritti al CNOS-FAP, chi incontra difficoltà nel percorso formativo ed è disposto a cambiare. Le dimensioni opposte emergono invece in rapporto alle altre due fonti di disagio, provate in forma percentualmente superiore dalla componente femminile e dall’utenza del CIOFS/FP; queste ultime due variabili, unitamente all’età più elevata distinguono inoltre chi non ha mai provato particolari forme di disagio. 4.3.2. I bisogni Lo scenario su cui si stagliano i bisogni che gli intervistati hanno dichiarato di avere è occupato quasi tutto dagli affetti (77.5%). Seguono, a completamento della rimanente quota, le esigenze di ordine psicologico/esistenziale (10.6%) ed infine quelle di ordine prettamente materialistico-evasivo (3.1%). A loro volta le tre categorie di bisogni sono così suddivise: a) quelli affettivi vanno soprattutto in due direzioni: verso la famiglia, nel senso di avere e specialmente di sentire vicino a sé i genitori e di allacciare con loro un diverso rapporto; e ovviamente anche verso quella che essi considerano la nuova famiglia, ossia il mondo delle amicizie (poter avere amici veri...) al cui interno, contestualmente, incontrare l’amore con la “A” maiuscola (trovare un ragazzo/a, innamorarsi, riprendere una relazione con un ex, avere una persona che ama, che vuole bene...); b) i bisogni di ordine psicologico/esistenziale sono assai più numerosi ma al tempo stesso anche più frammentati: essi vanno dall’esigenza di cambiare il proprio comportamento, a quella di autorealizzazione (realizzare i propri 136 sogni, diventare ricchi, famosi, studiare, avere un lavoro sentirsi professional- mente realizzati, andare a vivere da soli, farsi una propria famiglia...), a quella valoriale (sentirsi utili agli altri, credere in se stessi, essere stimati, rispettati, avere una fede religiosa...),; c) infine i bisogni di ordine materialistico-evasivo, seppure espressi da una netta minoranza, prendono in considerazione fattori fisiologici (mangiare, dormire, riposare...), consumistici (avere un nuovo cellulare, il motorino...) ed evasivi (divertirsi, giocare, andare in vacanza, viaggiare...). I dati disaggregati presentano ancora gruppi caratterizzati da certi bisogni piut- tosto che da altri: può sembrare strano, ma le esigenze di ordine affettivo sono state espresse, oltre che dalla fascia dei più giovani, da una maggioranza di maschi e del CNOS-FAP, e soltanto da poco più della metà delle femmine; queste ultime, as- sieme all’età più alta, si distinguono invece per manifestare maggiormente bisogni di carattere psicologico/esistenziale. 4.3.3. Atteggiamenti da assumere di fronte ad un ostacolo/problema A questo riguardo si osserva che, nel prendere in considerazione l’input costi- tuito dalla frase iniziale, il dato di maggior spicco sta nel constatare che oltre la metà del campione non ha saputo o non ha voluto rispondere (52.2%). In questo si evidenziano i maschi e quindi gli allievi del CNOS-FAP, chi ha un’età più elevata e chi è andato incontro ad insuccessi scolastici. La quota residua si divide tra chi sostiene di adottare un atteggiamento di fuga di fronte all’ostacolo/problema (lasciar perdere, scappare, fregarsene, scoraggiarsi, chiudersi in se stessi, dare la colpa agli altri... - 26.9%), chi di aggressività (ribel- larsi, esplodere, vendicarsi... - 13.2%) e chi invece assumerebbe una posizione più responsabile e costruttiva (tener duro, farsi valere, voler capire, parlarne con qual- cuno, chiedere aiuto... - 7.8%). La difficoltà ad affrontare il problema e quindi la tendenza a fuggire al mo- mento in cui essa si presenta viene manifestata dagli stessi che “sono fuggiti” di fronte all’input, ossia i maschi, con la differenza che in questo caso una tale posi- zione viene segnalata quasi esclusivamente dai più giovani. Viceversa la compo- nente femminile si presenta in questo caso decisamente più “agguerrita” di fronte al- l’ostacolo, in quanto si dimostra intenzionata ad assumere atteggiamenti sia di difesa come di attacco; in ciò sembra dare un peculiare contributo anche l’estrazione del- l’utenza dalle Regioni centro-meridionali, e quindi anche la cultura di appartenenza. Tutto questo richiama quanto già emerso in una precedente domanda, in parti- colare là dove è apparso che, posti di fronte ad un problema, i più sostengono di saper trovare il modo migliore per arrivare ad una soluzione e/o per ottenere ciò che si vuole, proprio grazie alle risorse di cui si dispone, oltre che a far leva su strategie di efficacia e di autostima. Queste strategie, sempre a detta degli intervistati, permet- terebbero poi di sentirsi sicuri e in grado di gestire qualsiasi situazione-problema. 137 4.3.4. Il castello degli ideali e dei progetti di vita Con un ultimo input si è inteso penetrare nel “castello incantato” dei sogni, dei progetti e delle aspirazioni che grazie all’età pullulano e si avvicendano nelle menti di questi giovani. Al tempo stesso si osserva che in pratica l’insieme delle proget- tualità che fanno sentire realizzati vengono convogliate quasi esclusivamente su un unico “pianeta”, quello degli affetti (72.2%). Per molti di loro è giunto ormai il momento di incontrare “l’unico e vero amore” della propria vita, per cui la proget- tualità viene impostata lungo una traiettoria che, partendo da questo grande amore idealizzato, si traduce poi in concreti obiettivi di matrimonio, e quindi di poter avere una propria famiglia e dei figli. Tutte le altre progettualità in questo momento sembrano restare in second’or- dine. Gli stessi obiettivi finalizzati alla carriera professionale (diventare qualcuno, aprire un’attività propria...) in questa parte dell’indagine sono stati scarsamente se- gnalati (11.9%), nonostante che ci si trovi di fronte a soggetti che hanno compiuto una scelta formativa mirata per lo più ad un ingresso diretto nel sistema produttivo. Ancor meno sono stati indicati quelli che si riferiscono alla crescita personale e alla realizzazione di sé (ottenere ciò che si vuole dalla vita, scoprire chi sono io, avere degli obiettivi/ideali per vivere... - 5.9%). È interessante osservare, attraverso i dati disaggregati, come sia ancora la variabile di genere a fare la differenza. Tra gli obiettivi riferiti alla vita affettiva un peso determinante è stato esercitato dai maschi (87.8%, contro il 38.9% delle fem- mine) e dal 99% degli utenti del CNOS-FAP; viceversa la componente femminile e con essa il CIOFS/FP si mette in evidenza per attribuire importanza anche a pro- getti di realizzazione professionale (29%, contro il 4% dei maschi) e personale (14.1%, contro il 2.2%). 5. La ricaduta dei corsi sul sistema di istruzione e formazione L’insieme dei risultati conseguiti attraverso questa indagine può essere rap- portato a due principali direttrici: quella del “successo” ottenuto nei percorsi del diritto-dovere da parte degli allievi, e in particolare delle categorie svantaggiate, e quella della formazione integrale della loro personalità. 5.1. Il successo formativo dei percorsi del diritto-dovere tutti nella FP Da più di dieci anni è in corso nel nostro Paese una crescita molto consistente della scolarizzazione secondaria e della frequenza universitaria, sostenuta dal note- vole aumento della domanda delle famiglie e dall’evoluzione della legislazione. Quanto a quest’ultima è bene ricordare la normativa più recente rappresentata dalla “Riforma Moratti” che ha realizzato un salto di qualità assicurando a ognuno il di- ritto all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al con- seguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età. 138 Al tempo stesso va sottolineato che i dati che si posseggono mettono chiara- mente in evidenza una situazione della mobilità sociale e della dispersione scola- stica che, a dir poco, appare molto insoddisfacente (Sugamiele, 2006; Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, 2006). Infatti, resta alto il numero degli abbandoni nelle scuole superiori e continua a registrarsi una complessa soffe- renza formativa: percorsi accidentati, insuccessi scolastici, malessere psicologico, comportamenti antisociali (episodi di bullismo, atti di discriminazione razziale...), diffuso e scarso apprendimento e rendimento, pur in presenza di una costante fre- quenza. I momenti che maggiormente connotano l’esperienza formativa come stressante sono rappresentati dal passaggio fra cicli di studio con particolare riferi- mento alla transizione dalla scuola secondaria di 1° grado a quella di 2° grado e al sottosistema di istruzione e di formazione professionale. Tale transizione si presenta particolarmente delicata in quanto comporta dal punto di vista psicologico una temporanea disorganizzazione e una conseguente ri- strutturazione di ruolo e in un’ottica psicosociale rappresenta un’occasione per ve- rificare le proprie capacità e trovare una conferma positiva alla propria autostima nel confronto con i pari e con i propri insegnanti. Non accidentalmente molti ab- bandoni si registrano proprio in questo periodo. Nel caso poi degli iscritti alla FP e in particolare del presente campione tale condizione risulta anche più complessa, in primo luogo, per la posizione di svan- taggio che caratterizza almeno la metà degli allievi a motivo delle condizioni di in- successo scolastico e della provenienza da famiglie deprivate dal punto di vista cul- turale (ma non solo). Ma spesso la condizione di “debolezza” che caratterizza gran parte di questi giovani è anche frutto di scelte sbagliate/inadeguate, figlie il più delle volte di attività di “disorientamento”. Va comunque sottolineato che un quinto degli allievi del nostro campione era stato consigliato di iscriversi ai licei e agli isti- tuti tecnici e il dato potrebbe costituire un primo segnale del cambiamento nelle fa- miglie e nei giovani della percezione della FP, sempre che lo sforzo di assicurare la parità sostanziale con gli altri percorsi del 2° ciclo venga continuato e non bloccato per motivi politici. Nonostante la situazione di partenza per molti versi svantaggiata del nostro campione, i percorsi del diritto-dovere e in particolare la FP iniziale triennale tutta nella FP sono riusciti a far compiere alla grande maggioranza un vero salto di qualità. Siccome i dati che attestano di tale successo formativo sono dispersi al- l’interno di varie domande dell’inchiesta e di conseguenza di diversi capitoli di questo rapporto, provvediamo a una loro presentazione sintetica. Cominciamo dalle motivazioni sottese alla scelta e/o all’iscrizione nella FP: una tra le più segnalate riguarda infatti la funzionalità dei corsi per un inserimento rapido e con successo nel mercato del lavoro, senza tuttavia mancare di eviden- ziarne anche le potenzialità di un generale recupero formativo. Quest’ultimo aspetto è stato sottolineato tra le esigenze educative da tenere maggiormente in considera- zione nel percorso: a nostro parere il dato sta a dimostrare che la frequenza dei 139 CFP salesiani ha fatto maturare in questi giovani l’apprezzamento per la forma- zione globale della loro personalità. Il riconoscimento del valore della FP iniziale risulta anche evidente dall’aumento nel tempo degli iscritti con un crescendo di quasi il 10% all’anno. Un ulteriore apprezzamento verso questi percorsi viene attestato dalle alte valutazioni che sono state date circa i contenuti, le metodologie e l’organizzazione e la loro corrispondenza alle proprie attese. Anche nei confronti degli stessi formatori i giudizi sono apparsi alquanto posi- tivi. A siglare il successo di questi percorsi viene poi il dato secondo cui la grande maggioranza non ha mai pensato di abbandonare il corso. Un 15% ha avuto questa idea, ma restando sempre nella FP. Solo un altro 15% ha pensato a un trasferimento ad istituti scolastici, ma su questo andamento ha sicuramente inciso il recupero formativo operato dalla FP iniziale. Tuttavia, seppure la maggioranza ammetta di non incontrare adesso particolari difficoltà nel proprio percorso formativo rispetto a pregresse esperienze, gli intervistati suggeriscono di potenziare l’orientamento, le attività laboratoriali, l’utilizzo di tecnologie informative e l’alternanza. Inoltre, più del 30% propone di introdurre il IV anno, dimostrando un bisogno diffuso di completamento dei percorsi formativi del diritto-dovere che andrebbe senz’altro soddisfatto dal Governo nazionale e dalle Amministrazioni locali. Il valore aggiunto di questi percorsi va riscontrato nelle prospettive di futuro che sono riusciti a far maturare negli allievi soprattutto se confrontate con la situa- zione svantaggiata di partenza. A questo punto è opportuno richiamare alla lettera i dati già citati sopra. Gli allievi intervistati prevedono di godere di possibilità almeno elevate: di trascorrere una vita familiare serena, di avere dei buoni amici su cui contare, di godere di buona salute, di trovare un lavoro soddisfacente, di essere rispettati all’interno della propria comunità e di avere una casa propria. Inoltre, il 60% circa prende in seria considerazione la probabilità di conseguire un diploma di scuola superiore e un altro 25% di andare all’università o di fare un corso di specializzazione post-diploma. Va aggiunto anche il dato di oltre 30% che vorrebbe completare il percorso del diritto-dovere con la frequenza di un IV anno che con- sentisse di acquisire un diploma professionale. Sul lato meno positivo va ricordato un 30% che sperimenta motivi più o meno grandi di disagio. Inoltre nell’esercizio di autovalutazione compiuto dagli allievi, neppure il 10% menziona il giudizio di “ottimo”, anche se appena il 5% parla di “insufficiente”. Sono dati che, se non mettono in discussione i risultati positivi elencati sopra, tuttavia invitano i CFP salesiani a un maggiore impegno in vista del ricorso a strategie anche più incisive. 5.2. La personalità degli utenti sullo sfondo dei fattori predittivi e protettivi dal rischio Gli adolescenti della nostra inchiesta sono stati colti nel pieno del loro svi- luppo evolutivo, durante il quale si richiede di affrontare alcuni compiti di sviluppo 140 caratteristici di questo periodo dell’esistenza, derivati dall’interazione tra la matu- razione fisiologica, le nuove capacità cognitive e relazionali, le proprie aspirazioni da un lato e dall’altro le influenze e le richieste provenienti dall’ambiente circo- stante. Nel rispondere a tali richieste l’adolescente può andare incontro a situazioni di malessere e di stress e, in alcuni casi, addentrarsi in comportamenti a rischio. Ciò si verifica quando egli percepisce una forte dissonanza cognitiva tra le richieste insite nel suo percorso di emancipazione individuale e le sue concrete possibilità di farvi fronte. Viceversa nella misura in cui l’adolescente riesce ad affrontare posi- tivamente i diversi compiti, sperimenterà un sentimento di benessere psicologico e di adeguatezza di sé. L’enfasi si pone, quindi, non tanto sui cambiamenti e sulle richieste con cui l’adolescente è chiamato a confrontarsi, ma sui processi che pos- sono portare ad un adattamento positivo e ad un cambiamento evolutivo soddi- sfacente. Diventano pertanto cruciali la specificità del momento in cui il compito si colloca lungo il percorso di crescita; l’interpretazione che l’adolescente attribuisce alla qualità del compito e il significato ad esso socialmente attribuito; il bagaglio di risorse personali disponibili; la rete di supporto sociale cui l’adolescente può far riferimento. Tutto questo ci consente pertanto di comprendere come le diverse traiettorie di sviluppo in adolescenza, le eventuali incursioni e – in taluni casi – permanenze nel rischio non siano da ricondursi all’adolescenza in sé, quanto all’in- tersecarsi di esigenze evolutive, risorse personali e opportunità offerte dal contesto di vita. A questo riguardo le ricerche più recenti tendono a delineare il seguente pro- filo di “adolescente dotato di fattori protettivi”. È un soggetto che: a) può contare su figure di adulti autorevoli che gli pongono delle ragionevoli, ma responsabilizzanti richieste; b) è impegnato in un progetto di costruzione e di realizzazione di sé; c) vive sfide personalmente e socialmente rilevanti; d) è accettato e valorizzato dal mondo adulto; e) vive positivamente l’esperienza scolastica e può sviluppare le proprie abilità cognitive e sociali sulle quali ritiene di poter contare; f) non è spinto a comportarsi in modo esteriore e consumistico da adulto. A questo punto i dati conseguiti attraverso le varie domande presenti nel que- stionario possono essere “bilanciati”, in base ad una maggiore/minore consistenza, in rapporto ai fattori protettivi da condizioni di rischio o, viceversa, predittivi di condizioni di rischio. Nel procedere in questo senso teniamo conto del loro rag- grupparsi nel presente caso particolarmente attorno ai seguenti indicatori: 1) au- toefficacia; 2) autostima; 3) sistema dei valori, ideali, progetti di vita; 4) repertorio delle strategie relazionali/comunicative; 5) controllo degli impulsi e/o la gestione delle emozioni e del comportamento; 6) strategie di fronteggiamento. 141 1) Autoefficacia Un livello alto di autoefficacia è stato individuato nel: - considerarsi persona attive, responsabili, motivate, autonome, altruiste; - saper realizzare nella vita quello che si vuole, saper cavarsela da soli nelle difficoltà; - voler realizzare a tutti i costi i propri sogni (diventare ricchi, famosi, stu- diare, avere un lavoro, sentirsi professionalmente realizzati, andare a vivere da soli, farsi una propria famiglia...). Una bassa autoefficacia è stata caratterizzata dal: - dubitare delle proprie capacità; - sentirsi incapaci di prendere una decisione; - attivare meccanismi di omologazione o delocalizzazione delle responsabi- lità; - assumere un atteggiamento di passività di fronte ad un problema facendo finta che non esiste. 2) Aautostima Un alto livello di autostima va individuato nell’aver acquisito, lungo il pro- cesso di costruzione dell’identità, un “locus of control” interno, centrato sul concetto di sé come persona che: - ha stima di sé; - si sente sicura; - è realizzata; - sa accettare chi è diverso; - è estroversa. Una bassa autostima è stata caratterizzata dal: - sentirsi un fallito, senza speranza per il futuro; - non sentirsi all’altezza della situazione e quindi dal disagio causato dal senso di inferiorità; - senso di timidezza o dall’imbarazzo derivante dall’aver sbagliato, dall’aver fatto brutta figura; - non essere presi in considerazione, sentirsi esclusi, non capiti, non stimati per quello che si è. 3) Sistema dei valori, ideali, progetti di vita La presenza di ideali/progetti/valori è individuabile nel considerarsi una per- sona che: - ha molti obiettivi/ideali per cui vale la pena vivere; - è intenzionata ad ottenere tutto ciò che è possibile dalla vita; - vuole scoprire chi è; - fa ricorso a valori religiosi e/o ha bisogno di scoprire una propria dimen- sione religiosa; 142 - ha bisogno di sentirsi utile agli altri, di credere in se stessa, di essere stima- ta, rispettata; - vuole diventare “qualcuno”, aprire una propria attività professionale. La mancanza di progetti/ideali di vita è stata caratterizzata dal: - non sapere cosa si vuole dalla vita né quali progetti realizzare; - incertezza/preoccupazione sul “che fare” in futuro; - indifferenza verso la religione. 4) Repertorio delle strategie relazionali/comunicative Strategie relazionali/comunicative applicate a problemi di disagio/bisogno sono state individuate soprattutto nel: - ricorrere al sostegno di amici; - confrontarsi con chi ha lo stesso problema; - migliorare la relazione con gli altri. La mancanza e/o la scarsità di comunicazione/relazionalità è stata riscontrata nel: - sentire di non aver fiducia in nessuno; - non sentirsi amati, sentirsi soli, senza affetti e/o senza nessuno vicino, senza sapere a chi chiedere aiuto in caso di bisogno; - mancanza di amici veri; - sentirsi presi in giro, sgridati, incolpati, giudicati; - trovarsi a contatto diretto con persone e/o con ambienti sconosciuti (avere a che fare con stranieri, dover affrontare situazioni nuove...). 5) Controllo degli impulsi e/o la gestione delle emozioni e del comportamento Il controllo degli impulsi, delle emozioni e del comportamento è stato indivi- duato nel: - considerarsi una persona gioiosa, ottimista; - saper difendere i propri diritti; - voler dire quello che uno pensa, senza paura; - capacità di guardare al lato positivo delle cose; - avere speranza, fiducia che le cose cambieranno. La mancanza di controllo degli impulsi, delle emozioni e del comportamento è stato riscontrato nell’atteggiamento incline a: - ribellarsi, esplodere, vendicarsi; - stordirsi in caso di problema, avere bisogno di far uso di stupefacenti; - aggredire se stessi dandosi addosso, attribuendo a sé tutta la colpa; - azioni trasgressive (uso normale di stupefacenti, partecipazione a bande, atti di violenza/vandalismo...); - avere rapporti sessuali non protetti; - mettere in pericolo la propria vita guidando sotto l’effetto di stupefacenti; - fare ricorso, nel processo di costruzione dell’identità, ad un “locus of control” esterno, in dipendenza dal gruppo dei pari, così da delocalizzare le responsabilità delle proprie azioni; 143 - lasciar perdere di fronte ad un problema/disagio, scappare, fregarsene, sco- raggiarsi, chiudersi in se stessi, attribuire la colpa agli altri. 6) Strategie di fronteggiamento Tra quelle maggiormente segnalate, troviamo: - la capacità di resistere alle richieste illecite degli amici; - voler impegnarsi a fondo per lavorare alla soluzione del problema; - in caso di problema/disagio tener duro, farsi valere, voler capire, parlarne con qualcuno, chiedere aiuto, parlarne con persone qualificate; - attivare l’“antivirus” contro la droga attraverso relazioni sincere a loro volta combinate con un alto livello di autostima e di autoefficacia; - la capacità di problem solving, evidenziata dall’aver ammesso, di fronte ad un problema, di saper trovare il modo migliore per conseguire una solu- zione e/o per ottenere ciò che si vuole, grazie alle risorse di cui si dispone e facendo leva su strategie di efficacia e di autostima, ciò che permette poi di sentirsi sicuri e in grado di gestire qualsiasi situazione-problema possa capitare nella quotidianità degli eventi. Sull’intera gamma dei dati riportati sopra giocano ovviamente sia la consi- stenza delle segnalazioni sia le differenti categorie di attori che se ne sono fatti in- terpreti. Passando in rassegna la distribuzione dei fattori predittivi/protettivi alla luce delle principali variabili utilizzate negli incroci è possibile quindi arrivare a ricostruire la presenza, all’interno del totale degli intervistati, di due sottocampioni caratterizzati dalla concatenazione di una serie di variabili che lungo l’analisi si sono strettamente intrecciate/correlate tra loro, in considerazione del costante ripre- sentarsi in rapporto alle varie tematiche prese in esame nell’indagine. Il primo si contraddistingue per un cluster di caratteristiche quali: l’estrazione da condizioni di precarietà in base alla situazione socio-economica e culturale della famiglia, uno stato di “debolezza” lungo l’intero percorso scolastico-formativo per essere andati incontro a uno o più insuccessi scolastici o comunque l’aver avuto a che fare con pregresse difficoltà incontrate lungo il percorso, l’attuale demotiva- zione a continuare gli studi e, di conseguenza, anche l’inclinazione a cambiare il presente corso e il mancato sostegno in questo gruppo di una fede religiosa. All’in- terno di questo sottocampione si osserva che degli aspetti menzionati si fanno inter- preti in modo particolare i maschi, e quindi gli utenti del CNOS-FAP, l’età di mezzo (16-17 anni), i residenti nelle Regioni del nord. Nei confronti di questo gruppo, a più riprese definito dello “svantaggio”, che però è risultato alquanto con- tenuto, le trasgressività costituiscono indubbiamente un sintomo di disagio interno, “comunicato” poi esternando azioni poco approvabili; azioni che a loro volta nel tempo potrebbero diventare veicoli “predittivi” di un possibile scivolamento verso una condizione di “vulnerabilità” e/o di rischio. Tuttavia i dati attestano che i portatori di queste “vulnerabilità” rappresentano una ristretta minoranza se rapportati all’insieme degli intervistati, mentre la grande 144 maggioranza è composta dalla quota di allievi contraddistinta dalle variabili op- poste a quelle riportate sopra. In pratica si caratterizza per la totale assenza di “de- bolezze” formative e di comportamenti difficili e/o a rischio e, viceversa, per il possesso di un sostenuto patrimonio valoriale e di maturazione globale della perso- nalità, manifestando così di possedere un bagaglio di fattori “protettivi”. Tutto questo può essere ritenuto frutto in particolare della maturazione conseguita fre- quentando i percorsi triennali tutti nella FP dei CFP salesiani. In questo secondo gruppo si sono distinte in particolare le femmine, e con esse il CIOFS/FP, gli utenti delle Regioni centro-meridionali, i più giovani, i credenti e praticanti e chi non ac- cusa particolari difficoltà nel corso che sta frequentando. Al tempo stesso va anche osservato che gli allievi del CNOS-FAP al momento dell’iscrizione ai percorsi del diritto-dovere si presentavano più svantaggiati quanto all’origine familiare e più problematici riguardo alla loro esperienza scolastica. In ogni caso, l’andamento d’insieme dei risultati conseguiti attesta che la gran parte di questi giovani nell’andare incontro alle inevitabili difficoltà della trans- izione alla vita attiva appare già sufficientemente attrezzata di quelle “armi” e/o delle strategie necessarie per fronteggiarle e dare loro adeguata soluzione. Ben pochi fuggono e/o evitano di scontrarsi e di confrontarsi con il problema, semmai può succedere che non sempre si scelga la soluzione migliore, ma in questi casi sa- ranno le esperienze della vita a ri-orientare a trovare quella più adatta. La ricaduta delle sperimentazioni sui percorsi del diritto-dovere induce a so- stenere che il maggiore pluralismo dell’offerta favorisce indubbiamente il successo formativo di una larga fascia di giovani e che gli approcci che fanno riferimento a tale prospettiva risultano, rispetto alle tradizionali proposte formative, maggior- mente in grado di favorire l’elevazione culturale, professionale, morale, spirituale e religiosa dei giovani e in particolare delle componenti in difficoltà e/o in condi- zioni di svantaggio. Appendice IL QUESTIONARIO 1. Sesso 1. ‰ M 2. ‰ F 2. Età (in numero di anni compiuti): ________ 3. Sei nato: 1. ‰ nell’attuale Comune italiano di residenza 2. ‰ in un’altra Provincia/Regione italiana 3. ‰ all’estero (in un’altra nazione) 4. Sei figlio di: 1. ‰ genitori entrambi italiani 2. ‰ una coppia formata da un genitore italiano e uno immigrato (di un’altra nazione) 3. ‰ genitori entrambi immigrati (di un’altra nazione) 5. Tu e i tuoi genitori siete nati: (3 risposte: 1 per te, 1 per il padre e 1 per la madre) TU PADRE MADRE 1. nell’attuale Comune italiano di residenza 2. in un’altra Provincia/Regione italiana 3. in un Paese dell’Unione Europea 4. in altri Paesi dell’Europa 5. in Paesi asiatici 6. in Paesi africani 7. in Paesi latino-americani 6. Attualmente vivi: 1. ‰ con entrambi i genitori 2. ‰ con un genitore 3. ‰ con un genitore e con il/la nuovo/a compagno/a 4. ‰ altro (specificare) _____________________________________________________ 7. Da quante persone è composta complessivamente la tua famiglia? (compresi anche altri parenti che vivono nel tuo appartamento) n. ________ 8. Qual è il titolo di studio dei tuoi genitori: (dare 2 risposte: 1 per il padre e 1 per la madre) PADRE MADRE 1. nessun titolo (elementari non terminate) 2. licenza elementare 3. licenza media 4. qualifica o diploma professionale 5. diploma di Stato (maturità) 6. laurea 147 I - INFORMAZIONI ANAGRAFICHE 9. Qual è la condizione occupazionale dei tuoi genitori: (dare 2 risposte: 1 per il padre e 1 per la madre) PADRE MADRE 1. lavoro regolare 2. lavoro saltuario 3. non lavoro (disoccupato, casalinga...) 10. Durante gli studi ti è mai capitato di perdere uno o più anni di scuola o della Formazione Professionale per bocciature o per altre cause? (1 risposta per riga) BOCCIATURE: MAI 1 VOLTA PIÙ VOLTE 1. alle elementari 2. alle medie 3. alle superiori 4. nella Formazione Professionale 148 11. Stai frequentando un percorso formativo: 1. ‰ triennale, tutto nella FP 2. ‰ triennale, integrato tra scuola ed FP (1+2) 3. ‰ biennale, tutto nella FP 4. ‰ annuale, nella FP 12. Del percorso formativo sei al: 1. ‰ I anno 2. ‰ II anno 3. ‰ III anno 13. A quale comunità professionale appartiene il corso che frequenti: (1 risposta) 1. ‰ meccanica 2. ‰ elettrica-elettronica 3. ‰ grafica e multimediale 4. ‰ aziendale e amministrativa 5. ‰ commerciale e delle vendite 6. ‰ turistica e alberghiera 7. ‰ tessile e moda 8. ‰ legno e arredamento 9. ‰ sociale e sanitaria 10. ‰ estetica 11. ‰ alimentazione II - VALUTAZIONE DELL’ATTIVITÀ FORMATIVA 149 14. Per quali motivi ti sei iscritto al corso? (si possono dare al massimo 3 risposte) 1. ‰ perché orientato dai docenti/formatori 2. ‰ dietro suggerimento di uno psicologo o di un Centro di orientamento 3. ‰ perché demotivato a continuare gli studi nella scuola che frequentavo fuori 4. ‰ perché il corso è più rispondente alle tue doti ed esigenze 5. ‰ vi sono formatori qualificati 6. ‰ risponde meglio alle esigenze della famiglia 7. ‰ vi sono strutture/attrezzature efficienti (laboratori, computer, ecc.) 8. ‰ viene data una buona formazione professionale 9. ‰ permette di trovare lavoro più facilmente 10. ‰ vi è innovazione, si fa sperimentazione 11. ‰ si dà un insegnamento più pratico che teorico 12. ‰ ti interessa la proposta formativa 13. ‰ pensi di trovarti bene nell’ambiente salesiano 14. ‰ altro (specificare) ___________________________________________________ 15. Esprimi il tuo grado di soddisfazione circa gli aspetti che caratterizzano il corso che frequenti: (1 risposta per riga) MOLTO ABBASTANZA POCO PER NULLA a) i contenuti degli argomenti trattati: 1. li trovi chiari 2. ti sembrano importanti 3. li trovi pertinenti alla futura vita professionale b) i metodi utilizzati: 4. portano a coinvolgerti durante le lezioni 5. producono forme di collaborazione tra allievi e formatori 6. permettono di dare giuste valutazioni c) l’organizzazione delle attività presenta un’adeguata distribuzione dei: 7. tempi 8. spazi/ambienti 9. attrezzature/strumenti a disposizione 10. visite tecniche o stage d) il corso ha aiutato ad acquisire: 11. conoscenze generali 12. conoscenze tecnico-professionali 13. capacità operative 150 16. Quanti dei tuoi formatori: (1 risposta per riga) TUTTI BUONA PARTE ALCUNI UNO SOLTANTO NESSUNO 1. dialogano con te 2. ti coinvolgono nelle varie attività formative 3. insegnano con chiarezza ed efficacia 4. vanno d’accordo tra di loro 5. collaborano con gli allievi alle varie attività formative 6. si preoccupano dei tuoi problemi 7. sanno tenere la disciplina 8. sono preparati nella materia che insegnano 9. utilizzano metodi d’insegnamento appropriati 10. sanno dare giuste valutazioni 17. Su quali dei seguenti comportamenti i tuoi formatori insistono principalmente: (si possono dare al massimo 3 risposte) 1. ‰ puntualità 2. ‰ rispetto degli ambienti e delle attrezzature 3. ‰ rispetto delle norme di sicurezza 4. ‰ essere leali 5. ‰ non fumare 6. ‰ non litigare 7. ‰ non usare un linguaggio volgare 8. ‰ spegnere il cellulare durante le lezioni 9. ‰ non indossare un abbigliamento non adeguato al contesto 10. ‰ aiutarsi reciprocamente 11. ‰ partecipare alle iniziative religiose del Centro 12. ‰ altro (specificare) ___________________________________________________ 18. I tuoi formatori come valutano globalmente il tuo rendimento nel corso: 1. ‰ ottimo 2. ‰ buono 3. ‰ sufficiente 4. ‰ insufficiente/scarso 151 19. Secondo te, quali miglioramenti dovrebbero essere apportati al corso: (si possono dare al massimo 3 risposte) 1. ‰ utilizzare maggiormente i laboratori 2. ‰ dare maggiore sostegno agli allievi disabili 3. ‰ utilizzare di più l’informatica 4. ‰ assumere professori più preparati/competenti 5. ‰ introdurre lavori di gruppo 6. ‰ invitare esperti del mondo del lavoro 7. ‰ facilitare l’inserimento degli allievi immigrati 8. ‰ preparare con cura lo stage o le visite tecniche 9. ‰ introdurre il 4° anno 10. ‰ coinvolgere di più le famiglie 11. ‰ rendere le valutazioni più oggettive 12. ‰ avere più occasioni per verificare l’andamento della tua formazione 13. ‰ rendere l’insegnamento più rispondente ai bisogni formativi di ciascun allievo 14. ‰ altro (specificare) ___________________________________________________ 20. Quali sono, secondo te, le esigenze formative dei giovani della tua età, che dovrebbero essere maggiormente soddisfatte nel tuo CFP? (si possono dare al massimo 3 risposte) 1. ‰ avere informazioni e la possibilità di orientarsi circa le opportunità di proseguire gli studi 2. ‰ avere informazioni e la possibilità di orientarsi circa le opportunità di lavoro 3. ‰ avere corsi di recupero o un insegnamento adatto per coloro che sono in difficoltà sul piano formativo 4. ‰ essere preparati a partecipare alla vita sociale e politica 5. ‰ avere un’adeguata formazione sulla sessualità e sui rapporti di coppia 6. ‰ essere formati a vivere onestamente 7. ‰ essere informati su comportamenti che possono mettere a rischio il tuo sviluppo psico-fisico (abuso di sostanze, guida pericolosa...) 8. ‰ avere più occasioni di formazione religiosa (esercizi spirituali, incontri formativi...) 9. ‰ avere più attività associative, sportive e ricreative 10. ‰ altro (specificare) ___________________________________________________ 21. Tu come valuti globalmente il tuo rendimento nel corso: 1. ‰ ottimo 2. ‰ buono 3. ‰ sufficiente 4. ‰ insufficiente/scarso 22. Stai incontrando difficoltà nel tuo percorso formativo? 1. ‰ Sì (alla dom. 22.1) 2. ‰ In parte (alla dom. 22.1) 3. ‰ No 152 22.1. Cosa ti crea attualmente maggiori difficoltà? (dare al massimo 3 risposte) 1. ‰ le materie di studio 2. ‰ i problemi personali 3. ‰ i problemi familiari 4. ‰ la tua condizione sociale ed economica 5. ‰ la distanza dalla casa al CFP 6. ‰ la differenza di idee/mentalità/interessi tra te ed i genitori 7. ‰ la differenza di idee/mentalità/interessi tra te e i formatori 8. ‰ la differenza di idee/mentalità/interessi tra te e i compagni 9. ‰ il metodo di insegnamento 10. ‰ il metodo di studio 11. ‰ altro (specificare) ______________________________________________ 23. Hai mai pensato di cambiare il corso che frequenti? (1 sola risposta) 1. ‰ Sì, pur rimando sempre all’interno della FP 2. ‰ Sì, per passare dalla Formazione Professionale ad altri Istituti scolastici 3. ‰ No, mai, sto bene dove sono 24. Quali sono le possibilità che: (1 risposta per riga) MOLTO ALTE ALTE CIRCA 50% BASSE MOLTO BASSE 1. prenderai un diploma di scuola superiore 2. andrai all’università o farai un corso di specializzazione post-diploma 3. avrai una casa tua 4. avrai un lavoro che ti darà soddisfazione 5. avrai una vita familiare serena 6. godrai di buona salute 7. potrai vivere dove vorrai 8. sarai rispettato all’interno della tua comunità 9. avrai dei buoni amici su cui poter contare (per chi ha risposto “Sì” o “In parte”) 153 25. I rapporti tra te ed i tuoi genitori o con l’attuale compagno/a di uno di loro, in genere sono di: (sono possibili più risposte per il padre, la madre e il compagno/a) RAPPORTO DI: CON IL PADRE CON LA MADRE CON IL/LA COMPAGNO/A 1. fiducia 2. responsabilità 3. collaborazione 4. comprensione 5. rispetto 6. autonomia 7. indifferenza 8. confusione 9. incomunicabilità 10. incomprensione 11. ribellione 26. Quando hai un problema (di qualsiasi natura) come si comportano con te i tuoi genitori: (1 sola risposta) 1. ‰ ti sono vicini e cercano di aiutarti 2. ‰ ti consigliano ma poi lasciano che sia tu risolvere il problema 3. ‰ cercano di risolvere loro il problema per te 4. ‰ non si rendono conto del tuo problema 5. ‰ non si interessano 6. ‰ altro (specificare) ____________________________________________________ 27. Su quali dei seguenti comportamenti i tuoi genitori insistono principalmente: (si possono dare al massimo 3 risposte) 1. ‰ rientrare a casa la sera entro un orario prestabilito 2. ‰ non uscire dopo cena 3. ‰ non guardare la TV fino a tarda notte 4. ‰ essere puntuale ai pasti 5. ‰ non andare in discoteca 6. ‰ partecipare ad un servizio religioso 7. ‰ dire ai genitori dove vai e con chi 8. ‰ rendere conto delle spese che fai 9. ‰ non fumare 10. ‰ non usare espressioni volgari 11. ‰ essere sincero/a con i genitori 12. ‰ non bere alcolici 13. ‰ non fare uso di sostanze stupefacenti 14. ‰ non frequentare amicizie equivoche e/o che fanno uso di stupefacenti 15. ‰ non partecipare a gruppi/bande di strada 16. ‰ collaborare alle faccende domestiche 17. ‰ non farsi tatuaggi/piercing 18. ‰ non passare troppo tempo a giocare al computer (playstation...) 19. ‰ altro (specificare) ___________________________________________________ III - IL RAPPORTO CON I GENITORI 154 28. Quando non rispetti le regole di comportamento, i tuoi genitori cosa fanno: (sono possibili più risposte) 1. ‰ ti riprendono pazientemente 2. ‰ ti tolgono la paghetta 3. ‰ non ti fanno uscire 4. ‰ te lo fanno pesare in qualche modo 5. ‰ si arrabbiano ma poi lasciano correre 6. ‰ non intervengono affatto 7. ‰ altro (specificare) ____________________________________________________ 29. Che atteggiamento assumi quando sei in disaccordo con i tuoi genitori? (1 sola risposta) 1. ‰ ti ribelli e non accetti 2. ‰ fai finta di niente e poi fai come vuoi 3. ‰ resti indifferente 4. ‰ non sai come reagire e ti chiudi in te stesso 5. ‰ sul momento reagisci male ma poi accetti quanto ti dicono 6. ‰ dialoghi cercando di capire le ragioni di entrambe le parti 7. ‰ altro (specificare) ____________________________________________________ IV - IL RAPPORTO CON GLI AMICI E IL GRUPPO DEI PARI 30. Fai parte di qualche associazione o di un gruppo organizzato? 1. ‰ Sì (vai alla dom. 30.1) 2. ‰ No (se fai parte di qualche gruppo/associazione) 30.1. Di che tipo? (sono possibili più risposte) 1. ‰ sportivo 2. ‰ ricreativo 3. ‰ culturale 4. ‰ religioso 5. ‰ educativo (scoutismo...) 6. ‰ ambientalista 7. ‰ politico 8. ‰ di “ultras” sportivi 9. ‰ di volontariato (sociale, assistenziale, terzomondiale...) 10. ‰ altro (specificare) ______________________________________________ 155 31. Che importanza ha per te il gruppo di amici? (si possono dare al massimo 3 risposte) 1. ‰ ti offre l’occasione di uscire di casa 2. ‰ ti aiuta a passare il tempo senza annoiarti 3. ‰ ti permette di emergere, di farti valere 4. ‰ ti dà l’occasione di fare esperienze interessanti 5. ‰ ti offre l’occasione di dire le tue idee 6. ‰ ti fa sentire libero, autonomo 7. ‰ ti fa sentire più sicuro, protetto 8. ‰ ti fa sentire in famiglia 9. ‰ ti aiuta a crescere e a formare la tua personalità 10. ‰ ti fa sentire utile agli altri e alla società 11. ‰ ti permette di scaricare rabbie e tensioni 12. ‰ ti permette di fare cose che non potresti mai fare in famiglia 13. ‰ altro (specificare) ___________________________________________________ 32. Quando ti incontri con gli amici, solitamente cosa fate? (si possono dare al massimo 3 risposte) 1. ‰ andate al cinema 2. ‰ parlate dei vostri problemi (scolastici, familiari, del rapporto col proprio ragazzo/a...) 3. ‰ andate in giro a fare shopping 4. ‰ ascoltate musica insieme o suonate insieme 5. ‰ fate qualche bravata 6. ‰ uscite per corteggiare o farvi corteggiare 7. ‰ parlate di moda, sport, musica 8. ‰ vi organizzate per passare il fine settimana (in discoteca, allo stadio, al mare...) 9. ‰ fumate uno spinello 10. ‰ andate in sala giochi 11. ‰ giocate con il computer (videogiochi, play-station, internet...) 12. ‰ altro (specificare) ___________________________________________________ 33. Quando i tuoi amici si comportano in modo trasgressivo e ti fanno capire che per essere accettato dal gruppo devi fare come loro, tu cosa fai? (1 sola risposta) 1. ‰ condividi pienamente tutto quanto fa il gruppo 2. ‰ anche se non condividi le azioni trasgressive del gruppo tuttavia ti adegui pur di non farti escludere 3. ‰ resti fedele ai tuoi principi/valori morali e te ne vai 4. ‰ pur rimanendo fermo nei tuoi principi cerchi di stabilire un dialogo per far capire loro dove sbagliano 5. ‰ altro (specificare) ____________________________________________________ 34. Se tu stessi per fare qualcosa di illecito o pericoloso per te, i tuoi amici proverebbero a fermarti? 1. ‰ Sì, certamente 2. ‰ Sì, probabilmente 3. ‰ No, probabilmente 4. ‰ No, certamente 156 35. Il tuo modo di concepire la vita (o ciò che è importante per te) è più vicino a quello dei tuoi amici o a quello dei tuoi genitori? (1 sola risposta) 1. ‰ più vicino ai genitori 2. ‰ più vicino agli amici 3. ‰ vicino ad entrambi 4. ‰ non è vicino a nessuno dei due 36. Quanti dei tuoi amici... TUTTI MOLTI ALCUNI NESSUNO 1. Partecipano a gruppi sportivi 2. Vanno regolarmente in chiesa 3. Partecipano a gruppi giovanili (Boy scout, associazione cattolica, ecc.) 4. Hanno un buon rendimento negli studi 5. Svolgono attività di volontariato 6. Trascorrono molto tempo con i loro familiari 37. In che misura ti ritieni una persona capace di: MOLTO ABBASTANZA POCO PER NULLA 1. realizzare quello che vuoi dalla vita 2. cavartela da solo nelle difficoltà 3. difendere i tuoi diritti quando subisci ingiustizie 4. dire quello che pensi ai tuoi compagni anche quando non sono d’accordo con te 5. andare contro il tuo gruppo di amici quando fa delle azioni che tu non approvi 6. resistere alla richiesta di amici di fare qualcosa di illecito o di pericoloso V - VALORI E ESPERIENZE DI VITA 157 38. In che misura sono vere le seguenti affermazioni per te: TOTALMENTE ABBASTANZA POCO PER NULLA 1. Riesco sempre a risolvere problemi difficili se ci provo abbastanza seriamente 2. Se qualcuno mi contrasta, posso trovare il modo o il sistema di ottenere ciò che voglio 3. Per me è facile attenermi alle mie intenzioni e raggiungere i miei obiettivi 4. Ho fiducia di poter affrontare efficacemente eventi inattesi 5. Grazie alle mie risorse, so come gestire situazioni impreviste 6. Posso risolvere la maggior parte dei problemi se ci metto il necessario impegno 7. Rimango calmo nell’affrontare le diffico1tà perché posso confidare nelle mie capacità di fronteggiarle 8. Quando mi trovo di fronte ad un problema, di solito trovo parecchie soluzioni 9. Se sono in “panne”, posso sempre pensare a qualcosa da mettere in atto 10. Non importa quello che mi può capitare, di solito sono in grado di gestirlo 39. Ti capita di provare recentemente alcune delle seguenti sensazioni: (1 risposta per riga) SPESSO QUALCHE VOLTA MAI 1. sentirti senza speranza per il futuro 2. sentirti un buono a nulla, un fallito nella vita 3. sentirti solo, senza nessuno vicino 4. dubitare delle tue capacità 5. non avere fiducia in nessuno 6. non sentirti amato da nessuno 7. essere incapace di prendere una decisione 8. avere voglia di farla finita 158 40. Cos’è che in questo momento ti preoccupa di più: (si possono dare al massimo 3 risposte) 1. ‰ i problemi familiari 2. ‰ i problemi affettivi 3. ‰ la mancanza di amici veri 4. ‰ non sapere cosa fare in futuro 5. ‰ la mancanza di persone a cui poter chiedere aiuto 6. ‰ la diffusione della droga 7. ‰ i problemi di ordine economico 8. ‰ le ingiustizie sociali 9. ‰ l’inquinamento ambientale 10. ‰ la paura della morte 11. ‰ le difficoltà nel corso che stai frequentando 12. ‰ la disonestà della gente 13. ‰ l’impossibilità di realizzare i propri sogni 14. ‰ non avere ideali per cui vale la pena vivere 15. ‰ la violenza presente nella società (mafia, criminalità, terrorismo...) 16. ‰ la sensazione di non avere la preparazione sufficiente per trovare lavoro 17. ‰ la convivenza con persone di diversa nazionalità e religione 18. ‰ altro (specificare) ___________________________________________________ 41. Quando ti trovi di fronte ad una situazione problematica in che misura metti in atto le seguenti strategie: (1 risposta per riga) NON LA USO LA USO LA USO LA USO POCO SPESSO MOLTISSIMO 1. parlare con persone che mi aiutino a venirne fuori 2. lavorare alla soluzione del problema come meglio posso 3. impegnarmi a fondo 4. pensarci e preoccuparmi continuamente 5. passare più tempo con gli amici più intimi 6. limitarmi a sperare che le cose vadano meglio 7. cercare la vicinanza di persone che hanno il mio stesso problema 8. alleviare il malessere bevendo, fumando, mangiando o assumendo droghe 9. cercare di migliorare la mia relazione con gli altri 10. rimanere passivo, non fare nulla 11. far finta che il problema non esista 12. darmi addosso e dire è colpa mia 13. rinchiudermi in me e tenere dentro quanto mi succede 159 NON LA USO LA USO LA USO LA USO POCO SPESSO MOLTISSIMO 14. rivolgermi a Dio per ricevere forza e sostegno morale 15. guardare il lato positivo delle cose 16. discutere il problema con persone qualificate ed esperte 17. cercare di rilassarmi (ascoltare musica, leggere un libro, guardare la TV) 18. fare attività fisica e tenermi in forma 42. Metti una crocetta in una delle due caselle centrali che meglio descrive le caratteri- stiche della tua personalità (1 risposta per riga) TI CONSIDERI UNA PERSONA che ha stima di sé ‰ ‰ che non ha stima di sé pessimista ‰ ‰ ottimista altruista ‰ ‰ egocentrica irresponsabile ‰ ‰ responsabile irreprensibile ‰ ‰ trasgressiva aggressiva ‰ ‰ non violenta attiva ‰ ‰ passiva ribelle ‰ ‰ docile autonoma ‰ ‰ dipendente senza ideali ‰ ‰ con molti ideali motivata ‰ ‰ demotivata insicura ‰ ‰ sicura realizzata ‰ ‰ fallita introversa ‰ ‰ estroversa gioiosa ‰ ‰ triste gregaria ‰ ‰ leader che accetta chi è “diverso” ‰ ‰ che non accetta chi è “diverso” 43. Inoltre ti consideri: (1 sola risposta) 1. ‰ credente e praticante della religione a cui appartieni 2. ‰ credente ma non troppo praticante 3. ‰ in ricerca di una fede religiosa 4. ‰ disinteressato/indifferente verso la religione 5. ‰ non credente, ateo 160 44. Cosa vorresti cambiare di te e/o della tua vita: (si possono dare al massimo 3 risposte) 1. ‰ il carattere 2. ‰ l’aspetto fisico 3. ‰ il rapporto con gli amici 4. ‰ il rapporto di coppia o il ragazzo/a con cui stai 5. ‰ il rapporto con i genitori 6. ‰ la condizione economica 7. ‰ il modo di trascorrere il tempo libero 8. ‰ il modo di vivere il rapporto con la religione 9. ‰ intendi cambiare nulla, stai bene così 10. ‰ altro (specificare) ___________________________________________________ 45. Negli ultimi 3 mesi ti è capitato di: (1 risposta per riga) MAI 1-2 VOLTE 3-5 VOLTE PIÙ DI 5 VOLTE 1. prendere qualcosa nei negozi/supermercati senza pagare 2. avere problemi di anoressia o bulimia 3. aver guidato sotto l’effetto dell’alcol 4. andare in giro armato di coltello o altro 5. aver fatto a botte con compagni di scuola 6. aver fatto violenze sessuali 7. aver messo in pericolo la tua vita 8. aver guidato sotto l’effetto di stupefacenti 9. aver partecipato a risse tra bande di “ultras” o di strada 10. aver preso droghe pesanti 11. aver subito violenza sessuale 12. aver messo in pericolo la vita degli altri 13. aver spacciato droga 14. aver danneggiato proprietà pubbliche o private 15. aver avuto rapporti sessuali non protetti 16. aver fumato uno spinello 161 46. Secondo te, cosa aiuta maggiormente un giovane a non far uso di sostanze stupefa- centi? (si possono dare al massimo 3 risposte) 1. ‰ avere fiducia in se stessi 2. ‰ avere una relazione affettiva importante 3. ‰ avere genitori che seguono e sanno educare 4. ‰ la volontà di riuscire nella vita 5. ‰ avere un obiettivo per cui vale la pena vivere 6. ‰ avere una buona professione 7. ‰ avere amici veri, sinceri, affidabili 8. ‰ avere una fede religiosa 9. ‰ aver ricevuto una buona informazione sulle droghe 10. ‰ non frequentare discoteche 11. ‰ non frequentare persone che fanno uso di droghe 12. ‰ altro (specificare) ___________________________________________________ 47. Io mi sento molto a disagio quando . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48. Quando ogni cosa sembra essere contro di me io . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49. Io sento fortemente il bisogno di . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50. Io mi sentirò pienamente realizzato/a quando . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . COMPLETA CIASCUNA DELLE SEGUENTI FRASI 163 BIBLIOGRAFIA AA.VV., Orientamenti per una strategia di analisi e di intervento del fenomeno drop-out in provincia di Bologna, Assessorato Istruzione, Formazione Professionale e Mercato del Lavoro, Ammini- strazione provinciale di Bologna, 1992. Accordo Stato-Regioni su istruzione e formazione, firmato il 19 giugno 2003, in “Presenza CONFAP” 27 (2003)3/4, 5-8. ADAMO S.M.G. - P. VALERIO (a cura di), Fattori di rischio psicosociale in adolescenza, La Città del Sole, Napoli, 1997. 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CICOGNANI, Psicologia della salute, Il Mulino, Bologna, 2000. 167 INDICE SOMMARIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 Parte I IL QUADRO TEORICO Capitolo 1 IL DIRITTO-DOVERE ALL’ISTRUZIONE E ALLA FORMAZIONE: BILANCIO DEL DIBATTITO (G. Malizia) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 1. La prospettiva pedagogica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 1.1. I contenuti del diritto all’educazione e i soggetti protetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 1.2. Le strategie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 1.2.1. Le strategie dell’eguaglianza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 1.2.2. Le strategie della personalizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 1.2.3. Le strategie della corresponsabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16 1.3. Obbligo o diritto-dovere? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18 2. Il recente cammino delle riforme ordinamentali in Italia . . . . . . . . . . . . . 19 2.1. Un diritto ancora inattuato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 2.2. La riforma Berlinguer (Legge 30/2000 sul riordino dei cicli) . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 2.3. La Legge Moratti (Legge delega 53/03) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 2.4. Il decreto legislativo sul diritto-dovere e i percorsi sperimentali triennali . . . . . . . . . 26 3. Conclusione. Verso l’obbligo di istruzione: un ritorno al passato? . . . . . . 30 Capitolo 2 L’ADOLESCENZA: QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO (M. Becciu - A.R. Colasanti) . . . 33 1. L’adolescenza: dai modelli deterministici ai modelli probabilistici e multi- casuali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 1.1. Assumere un triplice livello di analisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34 1.2. Superare le visioni deterministiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 2. L’adolescenza come periodo di fronteggiamento:compiti di sviluppo e loro superamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 168 3. La modernazione del rischio in adolescenza: i fattori di protezione . . . . . 41 4. Il profilo dell’adolescente: cosa ci dicono le ricerche . . . . . . . . . . . . . . . . . 42 4.1. Rapporto con la famiglia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 4.2. Rapporto con la scuola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44 4.3. Rapporto con i pari e tempo libero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48 4.4. Comportamenti di rischio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 4.5. Valori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 4.6. Orientamento verso il futuro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 5. Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52 Parte II L’INDAGINE SUL CAMPO Capitolo 3 METODOLOGIA, CAMPIONAMENTO E IDENTIKIT DEGLI INTERVISTATI (V. Pieroni) . . . . 57 1. Tempi-fasi dell’indagine e composizione campionaria . . . . . . . . . . . . . . . . 57 2. Contestualizzazione del campione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 2.1. Dati di sfondo e caratteristiche anagrafiche dell’utenza dei corsi . . . . . . . . . . . . . . 59 2.2. L’estrazione socio-familiare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60 2.3. La posizione scolastico-formativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61 3. Sintesi delle caratteristiche del campione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65 Capitolo 4 GLI ALLIEVI VALUTANO LA FP INIZIALE (G. Malizia) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67 1. Le ragioni di una scelta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67 2. Valutazione del percorso formativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72 3. Le prospettive di futuro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 4. Sintesi conclusiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 80 Capitolo 5 IL RAPPORTO CON I GENITORI E GLI AMICI (M. Becciu - A.R. Colasanti) . . . . . . . . . . . 83 1. Il rapporto con i genitori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83 169 2. Il rapporto con gli amici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85 Capitolo 6 LA DIMENSIONE ESISTENZIALE E VALORIALE (R. Mion) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91 1. Autodefinizione della propria personalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91 2. Il sistema di autostima/autoefficacia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 3. Il sottofondo di preoccupazioni e le strategie di fronteggiamento . . . . . . . 98 4. Lo scenario della trasgressività e la voglia di cambiamento . . . . . . . . . . . 103 5. Bisogni, disagi e strategie di fronteggiamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 5.1. Le fonti di disagio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 5.2. I bisogni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108 5.3. Atteggiamenti da assumere di fronte ad un ostacolo/problema . . . . . . . . . . . . . . . . 109 5.4. Il castello degli ideali e dei progetti di vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 110 6. Sintesi dei risultati: fattori predittivi e protettivi dal rischio . . . . . . . . . . . 113 6.1. Indicatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113 6.2. In sintesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 Parte III CONCLUSIONI Capitolo 7 SINTESI DEI RISULTATI DELL’INDAGINE (G. Malizia - M. Becciu - A.R. Colasanti - R. Mion - V. Pieroni) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 1. Lo scenario e gli obiettivi di fondo dell’indagine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 2. Caratteristiche dei giovani dell’inchiesta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 122 2.1. Caratteristiche anagrafiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 122 2.2. La posizione scolastico-formativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124 3. La valutazione degli allievi del percorso formativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 126 4. La dimensione relazionale e valoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129 4.1. Le relazioni familiari e amicali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129 4.2. La personalità sullo sfondo dello scenario esistenziale e valoriale . . . . . . . . . . . . . 132 4.3. Bisogni, disagi e strategie di fronteggiamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 134 4.3.1. Le fonti di disagio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 134 170 4.3.2. I bisogni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 4.3.3. Atteggiamenti da assumere di fronte ad un ostacolo/problema . . . . . . . . . . . 136 4.3.4. Il castello degli ideali e dei progetti di vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137 5. La ricaduta dei corsi sul sistema di istruzione e formazione . . . . . . . . . . . 137 5.1. Il successo formativo dei percorsi del diritto-dovere tutti nella FP . . . . . . . . . . . . . 137 5.2. La personalità degli utenti sullo sfondo dei fattori predittivi e protettivi dal rischio . . 139 APPENDICE - Il questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145 BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163 INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167 171 Pubblicazioni 2002-2007 nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” 1. Nella sezione “studi” 1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. La formazione professio- nale per lo sviluppo del territorio. Castel Brando (Treviso), 9 - 11 settembre 2002, 2003 2) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XV seminario di formazione europea. Il sistema dell’istruzione e formazione professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi, 2004 3) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVI seminario di formazione europea. La formazione professio- nale fino alla formazione superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, 2005 4) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orientativi, 2003 5) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Catania, Noto, Modica, 2004 6) CNOS-FAP (a cura di), Gli editoriali di “Rassegna CNOS” 1996-2004. Il servizio di don Stefano Colombo in un periodo di riforme, 2004 7) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, 2002 8) MALIZIA G. - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto sul follow - up, 2003 9) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. 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Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 24) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio meto- dologico e proposte di strumenti, 2003 172 25) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003 26) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004 27) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 28) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e pro- poste di strumenti, 2003 29) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale alimentazione, 2004 30) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004 31) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004 32) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale estetica, 2004 33) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004 34) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale tessile e moda, 2004 35) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003 36) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffu- sione di una buona pratica, 2004 37) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004 38) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale grafica e multimediale, 2004 39) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale legno e arredamento, 2005 40) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale meccanica, 2004 41) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004 42) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, 2003 43) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa. Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d. 44) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003 45) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003 46) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003 47) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istru- zione e della formazione professionale, 2004 48) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 49) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003 50) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui percorsi formativi, 2003 51) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il percorso quadriennale, 2005 52) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005 53) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005 54) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Percorsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005 55) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006 56) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006 173 3. Nella sezione “esperienze” 57) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003 58) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in itinere, 2003 59) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento finale, 2003 60) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage, 2003 61) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti, 2003 62) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordina- tore delle attività educative del CFP, 2005 63) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i per- corsi di istruzione e formazione professionale, 2006 64) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro polifunzionale diurno di Roma, 2006 65) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006. Rapporto finale, 2006 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net Luglio 2007

Le parole chiave della formazione professionale. II edizione

Autore: 
Guglielmo Malizia - Daniela Antonietti - Mario Tonini
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2007
Numero pagine: 
263
Le parole chiave della formazione professionale II edizione A cura di G. MALIZIA (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net aprile 2007 Coordinamento editoriale: MALIZIA Guglielmo (Università Pontificia Salesiana, Roma), coord. TONINI Mario (Sede Nazionale CNOS-FAP) ANTONIETTI Daniela (Sede Nazionale CNOS-FAP) Comitato scientifico: PRELLEZO José Manuel (Università Pontificia Salesiana, Roma) NANNI Carlo (Università Pontificia Salesiana, Roma) SARTI Silvano (Università Pontificia Salesiana, Roma) SPAGNUOLO Giovanna (ISFOL) REGHELLIN Lucio (Sede Nazionale CNOS-FAP) VALENTE Lauretta (Sede Nazionale CIOFS/FP) ELICIO Angela (Sede Nazionale CIOFS/FP) 3 SOMMARIO PRESENTAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 COLLABORATORI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 ABBREVIAZIONI E SIGLE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 VOCI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 PISTE DI LETTURA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249 INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259 5 PRESENTAZIONE L’introduzione dell’Obbligo di frequenza di attività formative fino al diciotte- simo anno di età (art. 68 della Legge 17 maggio 1999, n. 144) e del successivo Di- ritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età (Legge 53/03 e D.Lgs. 76/2005) hanno impegnato il CNOS-FAP e il CIOFS/FP nella progetta- zione, sperimentazione e valutazione di nuovi percorsi formativi prefigurati dalla normativa. Uno dei risultati di questo complesso e stimolante processo di rinnova- mento della Formazione Professionale Iniziale (FPI) è stata l’organizzazione di una collana dei due enti, “Studi-Progetti-Esperienze per una nuova formazione professionale”, che documentasse le pratiche più significative. Dei volumi della collana, che ormai hanno superato il numero di cinquanta, ne segnalo tre, particolarmente importanti per la FPI: – Le “Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istru- zione e della formazione professionale”, Roma, 2004; – Le Guide per l’elaborazione di piani formativi personalizzati riguardanti varie comunità professionali quali alimentazione, aziendale e amministrativa, com- merciale e delle vendite, elettrica ed elettronica, estetica, grafica e multime- diale, legno e arredamento, meccanica, sociale e sanitaria, tessile e moda, tu- ristica e alberghiera, Roma 2003-2005; – Le parole chiave della formazione professionale, Roma, 2004. Anche se a distanza di pochi anni dalla loro pubblicazione, i volumi hanno bi- sogno di una revisione per vari motivi. Gli enti di FP, innanzitutto, protagonisti delle sperimentazioni dei percorsi for- mativi triennali in varie Regioni, hanno raccolto molti suggerimenti che miglio- rano il progetto. Tra il 2003 e il 2006 vari Accordi tra lo Stato e le Regioni, in secondo luogo, hanno contribuito a dare valenza nazionale ed europea al percorso formativo spe- rimentale, definendone gli standard formativi minimi relativi alle competenze di base (15 gennaio 2004), gli standard relativi alle competenze tecnico-professionali (5 ottobre 2006) e le modalità di certificazione finale e intermedia nonché i criteri per il riconoscimento del crediti (24 ottobre 2004). In un clima di continue riforme e controriforme, in terzo luogo, il Governo at- tuale ha modificato l’assetto della FPI, introducendo l’obbligo di istruzione fino a 16 anni. Da ultimo, anche l’Unione europea con un proprio ruolo che si è concretizzato 6 nella strategia “Istruzione e Formazione 2010” che coinvolge tutti i Paesi membri, ha adottato indicazioni importanti anche per la FPI. Si tratta della “Raccomanda- zione” del Parlamento e del Consiglio del 18 dicembre 2006 sulle “Competenze chiave per l’apprendimento permanente”, della “Raccomandazione” sui “Fonda- menti dello schema europeo dei titoli per l’apprendimento permanente” (EQF) che crea le condizioni per la comparazione dei titoli tra i vari regimi di istruzione e formazione, del documento sulla qualità delle strutture formative “Common Qua- lity Assurance Framework 2006”. Per tutte queste ragioni, il CNOS-FAP ha deciso l’aggiornamento dell’intero progetto. Più in particolare, il volume “Le parole chiave della formazione professio- nale” è stato aggiornato ed arricchito di nuove voci, ma nel suo complesso man- tiene le caratteristiche dell’edizione originaria, quelle cioè di essere strumento di lavoro per tutti coloro che sono interessati a comprendere l’evolversi del sistema della formazione professionale in Italia e di considerare il presente volume come complemento del testo “Glossario dell’educazione degli adulti”, edito in questi anni dai Ministeri della Pubblica Istruzione e del Lavoro, dall’INVALSI e dall’ISFOL. Il presente volume sarà consultabile anche sul sito www.cnos-fap.it. A decisione dei curatori, poiché le riforme sono in continua evoluzione, d’ora in poi, gli aggiornamenti (la modifica, o la scrittura di nuove voci) saranno collo- cati solo sul sito citato. Le Sedi Nazionali del CNOS-FAP e del CIOFS/FP ringraziano tutti gli autori che hanno collaborato alla stesura delle presente pubblicazione, alquanto faticosa per la complessità della materia e la varietà dei temi. Un ringraziamento partico- lare va al Prof. Josè Manuel Prellezo, dell’Università Pontificia Salesiana di Roma, per i suoi preziosi suggerimenti. Roma, XX febbraio 2007 Mario Tonini (Presidente CNOS-FAP) 7 INTRODUZIONE La formazione professionale (FP) soprattutto iniziale, pur sottoposta a nume- rosi cambiamenti regionali e nazionali, si è dotata in questi anni di vari elementi di sistema, quali un idelatipo di percorso in sperimentazione con finalità educative, culturali e professionali proprie, l’età di accesso, la durata dei percorsi, gli standard culturali e professionali, la certificazione in itinere e finale, le modalità per passare da un sistema all’altro e l’ingresso nel mondo del lavoro, un primo elenco di quali- fiche, ecc. Il consolidamento della formazione professionale iniziale permette di pensare ad un sistema che si sta delineando, anche se ancora in forma disomogenea. Seg- menti strategici come la formazione continua, l’educazione degli adulti, l’apprendi- stato, la formazione professionale di livello terziario, embrionali se non inesistenti nei primi anni Novanta del secolo scorso, sono oggi parti importanti di un sistema di formazione professionale articolato in formazione professionale iniziale, supe- riore, continua, ricorrente e permanente. 1. Impostazione generale e destinatari Così come spiegato nella prima edizione, la decisione di realizzare la presente opera è stata presa dalle Presidenze nazionali del CNOS-FAP e del CIOFS/FP e si giustifica soprattutto per tre motivi. a) Come si è appena messo in evidenza, negli ultimi anni la FP è stata raggiunta da profondi cambiamenti e il rinnovamento dovrebbe continuare con il mede- simo ritmo anche nel prossimo futuro. Una nuova terminologia è stata intro- dotta, mentre una parte di quella tradizionale sta subendo processi di obsole- scenza o sta assumendo nuovi significati. Gli operatori, e non solo loro, si trovano spesso disorientati e non è facile intendersi anche sui termini più co- muni. b) Un secondo motivo va ricercato nel fatto che un attento esame della letteratura più recente in tale campo ha portato a individuare spazi scoperti per una pub- blicazione di questo tipo. c) Da ultimo, i due enti promotori sono interessati a diffondere la conoscenza dei grandi orientamenti del loro progetto formativo al di là della stretta cerchia di quanti frequentano i loro Centri. Destinatari prioritari del volume sono gli operatori della FP, in particolare quelli dei Centri del CNOS-FAP e del CIOFS/FP e gli enti stessi. La pubblicazione 8 si rivolge anche ai genitori, agli amministratori e ai politici. Si spera che pure gli studiosi della FP potranno trovare utile il volume per la chiarezza e la ricchezza ter- minologica. Il taglio è prevalentemente educativo e pedagogico. L’opera intende rispondere alle esigenze e ai criteri di una piena scientificità e al tempo stesso costituire uno strumento concreto e operativo di lavoro. Anche se sinteticamente, fornirà le informazioni essenziali sullo stato dell’arte in relazione ai vari temi toccati nella presentazione delle parole chiave. Pur salvaguardando il ri- gore scientifico dell’impostazione, viene usato uno stile semplice e chiaro che eviti il ricorso a terminologie eccessivamente specialistiche. Il volume non è una enciclopedia o un dizionario, né un glossario. Si è optato invece per una presentazione delle parole chiave della FP in un momento in cui la terminologia è in grande cambiamento nel senso che alcune voci stanno per cadere nella obsolescenza, mentre altre stanno emergendo. Quindi, l’opera non intende trattare tutti i termini che si riferiscono alla FP, ma solo quelli più significativi in questo momento. Nella scelta delle parole uno dei criteri più importanti è stata la particolare rile- vanza dei termini. Questi ultimi, a loro volta, provengono dalle scienze della for- mazione in quanto direttamente significativi per la FP: infatti, come si è detto sopra, ci si è voluti situare dalla parte della valenza educativa e pedagogica di quanto viene presentato. 2. Scelta delle voci In corrispondenza con tali premesse, l’opera offre un ventaglio dei termini principali che descrivono la FP da diverse prospettive (filosofica, teologica, storica, antropologica, sociologica, psicologica, biologica, metodologica, giuridica, delle scienze della comunicazione). Non manca l’attenzione ai vari contesti culturali e alla dimensione europea. Pertanto, allo scopo di assicurare un gruppo di termini ve- ramente significativo, si è dedicata una speciale attenzione alla predisposizione del- l’elenco delle voci. Come si è detto sopra, in questa operazione i parametri fondamentali di riferi- mento sono consistiti nella prospettiva educativa, nel riferimento diretto alle scienze della formazione, nella rilevanza dei termini per la FP. In ogni caso si è preferito un cammino induttivo piuttosto che deduttivo. Nella presente edizione, si è partiti da un’analisi delle voci già presenti nella prima stesura, al fine di verificare se qualcuna risultasse obsoleta, o necessitasse di profonde revisioni. Il comitato scientifico ha ritenuto che le voci della prima edi- zione fossero ancora attuali e quindi ha optato per un invio agli autori così che loro stessi stabilissero se o cosa aggiornare. Nella gran parte dei casi, gli aggiornamenti sono consistiti in una revisione della bibliografia. Un secondo lavoro che ha visto impegnato il comitato scientifico è consistito nell’individuare termini non presenti nella prima stesura, ma giudicati di interesse. 9 Sono state così individuate 28 nuove voci che sono state affidate a sei nuovi autori e ad altri che avevano già collaborato. Come nella prima edizione, anche in questa si sono definite alcune piste che collegano più termini e possono guidare il lettore in percorsi logici. I percorsi pre- visti ruotano attorno 3 aspetti, ciascuno suddiviso a sua volta in ulteriori aggrega- zioni: 1) Pista di lettura: contesti (Contesto culturale della FP; Contesto socio-econo- mico della FP; Organizzazione della FP; Soggetti della FP) 2) Pista di lettura: dimensioni (Dimensione educativa del sistema di FP; Dimen- sione culturale del sistema di FP; Dimensione professionale del sistema di FP) 3) Piste di lettura: processi/funzioni/servizi (Direzione e coordinamento; Progetta- zione; Erogazione; Valutazione, Orientamento) 3. Struttura delle singole voci In relazione all’importanza loro riconosciuta, le parole sono state classificate in tre categorie. La consistenza quantitativa delle voci è stata determinata in base alla rilevanza pedagogica ed educativa degli argomenti. Ogni voce ha di norma questa struttura: una parte introduttiva che offre una sorta di definizione; una parte centrale che contiene le chiarificazioni principali per capire il termine; una breve bibliografia che completa ciascuna voce e consente ul- teriori approfondimenti. Va detto che non sempre gli autori sono stati fedeli all’incarico loro affidato, per cui può risultare qualche “anomalia” rispetto a tali criteri di consistenza quanti- tativa. 4. Indicazioni per l’uso In generale si prende come voce ordinatrice il sostantivo, seguito da eventuali determinazioni. Se il termine è costituito da due o più sostantivi, si prende come voce ordinatrice il termine più specifico. Opportuni rimandi facilitano la soluzione dei problemi che potrebbero insorgere. I segni di rimando all’interno di un testo richiamano la voce o le voci in cui si parla esplicitamente di un argomento. Tali rimandi rispondono a esigenze di inter- disciplinarità. Si è cercato in ogni modo di moltiplicare tali rimandi. Il lettore, in base ai suoi interessi di studio, di ricerca e operativi, troverà anche altre connes- sioni. I rimandi non sono stati inseriti all’interno delle citazioni dirette (per mante- nere inalterata la fonte, nelle citazioni dirette, non sono state introdotte neanche le abbreviazioni usate in altre parti del testo). 10 L’indice comprende anche le voci che rimandano ad altre in cui viene trattato direttamente l’argomento in questione (i termini non definiti, sono indicati in tondo; i termini definiti sono in corsivo e tra parentesi è indicato il nome dell’au- tore). Il volume è collocato sui siti del CNOS-FAP (www.cnos-fap.it) e del CIOFS/FP (www.ciofs-fp.org), dove – come detto nella presentazione – verrà co- stantemente aggiornato e integrato. Infine, per approfondimenti relativi al tema dell’orientamento, è possibile con- sultare il testo Un glossario per l’orientamento, curato dal CIOFS/FP, disponibile sia in volume che sul sito del CIOFS/FP. 11 COLLABORATORI ALLULLI Giorgio (ISFOL) ANTONIETTI Daniela (Sede Nazionale CNOS-FAP) BECCIU Mario (Associazione Italiana Psicologia Preventiva) BERTAGNA Giuseppe (Università di Bergamo) BOCCA Giorgio (Università del Sacro Cuore di Milano) CANGIÀ Caterina (Università Pontificia Salesiana di Roma) CATANIA Carlo (Università Cattolica di Brescia) CHANG Hiang-Chu Ausilia (Università Auxilium di Roma) CHISTOLINI Sandra (Università Roma Tre di Roma) COLASANTI Anna Rita (Associazione Italiana Psicologia Preventiva; Università Pontificia Salesiana di Roma) COLASANTO Michele (Università Cattolica di Piacenza) COLOMBO Stefano (Sede Nazionale CNOS-FAP) D’AGOSTINO Roberta (ISFOL) D’AGOSTINO Sandra (ISFOL) DEL CORE Pina (Università Auxilium di Roma) DE PIERI Severino (Scuola Superiore Internazionale di Scienze della Formazione - Venezia) DI AGRESTI Carmela (Libera Università Maria SS. Assunta di Roma) DI FRANCESCO Gabriella (ISFOL) FEDRIGOTTI Giovanni (Università Pontificia Salesiana di Roma) FELICE Alessandra (ISFOL) GATTI Guido (Università Pontificia Salesiana di Roma) GENTILI Claudio (Confindustria; Università di Siena; Università di Venezia) GHERGO Fulvio (ISFOL) GIACCARI Domenica Maria (ENAIP) MALIZIA Guglielmo (Università Pontificia Salesiana di Roma) MARSILII Enrica (ISFOL) MION Renato (Università Pontificia Salesiana di Roma) MONTEDORO Claudia (ISFOL) MORANTE Giuseppe (Università Pontificia Salesiana di Roma) NANNI Carlo (Università Pontificia Salesiana di Roma) NICOLI Dario (Università Cattolica di Brescia) ORLANDO Vito (Università Pontificia Salesiana di Roma) PAGGI Rossella (Psicologa) PAVONCELLO Daniela (ISFOL) PELLEREY Michele (Università Pontificia Salesiana di Roma) 12 PIERONI Vittorio (Università Pontificia Salesiana di Roma) POLÁČEK Klement (Università Pontificia Salesiana di Roma) PRELLEZO Josè Manuel (Università Pontificia Salesiana di Roma) PUGLIESE Silvio (Università di Trento) RAIMONDI Antonio (VIS) RANSENIGO Pasquale (Sede Nazionale CNOS-FAP) REGHELLIN Lucio (Sede Nazionale CNOS-FAP) SPAGNUOLO Giovanna (ISFOL) STENCO Bruno (Università Pontificia Salesiana di Roma) TACCONI Giuseppe (Università di Verona) TONINI Mario (Sede Nazionale CNOS-FAP) TOSO Mario (Università Pontificia Salesiana di Roma) TRENTI Zelindo (Università Pontificia Salesiana di Roma) VALENTE Lauretta (Sede Nazionale CIOFS/FP) VETTORATO Giuliano (Università Pontificia Salesiana di Roma) ZANNI Natale (Università Pontificia Salesiana di Roma) 13 ABBREVIAZIONI E SIGLE A. Autore AA. Autori art. articolo bibl. bibliografia ca. circa cap. capitolo capp. capitoli CCNL Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro c.d. Cosiddetta CEE Comunità Economica Europea cfr. confronta CFP Centro di Formazione Professionale CIOFS/FP Centro Italiano Opere Femminili Salesiane / Formazione Professionale CNOS-FAP Centro Nazionale Opere Salesiane - Formazione Aggiornamento Professionale Co. Comma/i DL Decreto Legge D.lgs. Decreto legislativo DM Decreto Ministeriale DPR Decreto del Presidente della Repubblica Ed. Editore (curatore) Edd. Editori (curatori) ediz. Edizione educ. educazione es. esempio etim. etimologia enc. Enciclica/Encicliche FAD Formazione A Distanza formaz. formazione fr. francese FP formazione professionale FPI formazione professionale iniziale FSE Fondo Sociale Europeo Ibid. Ibidem ID. IDEM, dello stesso autore ingl. inglese IFTS Istruzione e Formazione Tecnica Superiore INPS Istituto Nazionale Previdenza Sociale ISFOL Istituto per lo Sviluppo della FOrmazione professionale dei Lavoratori istruz. istruzione L. Legge L.R. Legge regionale MIUR Ministero Istruzione Università e Ricerca MLPS Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale MPI Ministero della Pubblica Istruzione n. numero nn. numeri OCSE Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCDE, acronimo dell’inglese) ped. pedagogia 14 S. santo S.A. Senza Autore s.d. senza data sec. secolo ss. seguenti ted. tedesco UE Unione Europea UNESCO United Nations Educational Scientific and Cultural Organization vol. volume voll. volumi 15 VOCI ABBANDONO L’a. della scuola, genericamente degli studi, da parte di chi dovrebbe invece fre- quentarla, per obbligo, per diritto, per dignità, è un dato costante nelle statistiche mondiali ed è un fenomeno che interessa sempre di più studiosi e cultori dell’→ educ. che s’interrogano sullo stato della selezione scolastica, in rapporto alle inno- vazioni curricolari e alle riforme di sistema. L’a. fa parte del complesso fenomeno denominato “dispersione scolastica”. 1. L’a. è conseguenza di carenze familiari, disfunzioni sociali, processi psicologici, inadempienze strutturali, negligenze culturali, e interessa soprattutto i maschi, il Sud d’Italia, le → famiglie con basso reddito, i figli di genitori professionalmente dequalificati, il passaggio dalla prima alla seconda classe di scuola secondaria (15 su 100 abbandonano) (cfr. Servizio Informativo del MPI, giugno 2000). La demoti- vazione agli studi dell’adolescente rappresenta il momento finale e più evidente dell’insorgenza del fenomeno, senza costituirne la ragione principale. Coloro i quali decidono, più o meno consapevolmente, di uscire dalla scuola e di non prose- guire negli studi (i cosiddetti drop-out), secondo le carriere predefinite dal sistema dell’educ., sono testimonianza dell’incapacità dell’istituzione di far vivere i ragazzi al suo interno, ma sono anche la prova del fallimento dei tentativi dei ragazzi di ri- manere a scuola. L’Indagine campionaria sulla dispersione scolastica nelle scuole statali (MIUR 2002) registra per il 2000/01 gli a., calcolando gli alunni non valu- tati agli scrutini finali, per valori percentuali sugli iscritti, pari a 0,07% per l’ele- mentare a 0,31% per la media e a 4,19% per la superiore; i corrispondenti dati per il 2001/02 sono pari a 0,08% (elementare), a 0,33% (media) e a 4,61% (superiore): il fenomeno è in lieve incremento. L’indagine campionaria sulla dispersione scola- stica nel 2005-2006 condotta dal MPI evidenzia la consistenza degli insuccessi nel Sud, tra i maschi, e in chi accumula debiti formativi pur in presenza di promozione. Gli alunni con cittadinanza non italiana entrano a far parte della tipologia della dis- persione con percentuali rilevanti nel Mezzogiorno. 2. Le scienze dell’educazione assegnano all’analisi multifattoriale la definizione delle cause intorno alla persistenza del dato. L’a., quando contenuto e in diminu- zione, si interpreta come disfunzione fisiologica del sistema, e le cause dell’uscita dal circuito formativo sono attribuite anche alla intraprendenza economico-cultu- rale dei giovani e alla svalutazione del titolo di studio nella dinamica domanda-of- ferta di → lavoro. Un’altra valutazione del fenomeno dell’a. emerge dalle ricerche che considerano i dati del successo scolastico in termini di punteggio e di supera- mento dei gradi scolastici da parte degli studenti, con qualche accenno al peso della 16 componente insegnante che, comunque, incide sulla carriera studentesca. Quest’ul- tima prospettiva di lettura del dato empirico e statistico va ricondotta alla variabile economico-culturale che determina l’andamento dell’a. e definisce le forme e le strutture dell’emarginazione scolastica e dell’ → esclusione sociale. Le politiche nazionali ed europee intese a contrastare a. e dispersione sono delineate nel 1995 dal “Libro bianco” della Commissione Europea Insegnare ad apprendere. Verso la società conoscitiva, nel quale si citano le “scuole della seconda opportunità”. Bibl.: MALIZIA G. - S. CHISTOLINI (Edd.), Drop-out non più. L’abbandono nel biennio a Verona. Un’indagine e una sperimentazione, Roma, LAS, 1985; CHISTOLINI S., Interventi metodologici per adolescenti poco motivati allo studio, in “Rassegna CNOS” 16 (2000)1, 48-61; SERVIZIO INFORMATIVO DEL MPI, La dispersione scolastica: una lente sulla scuola, in www.istruzione.it, giugno 2000; VISAL- BERGHI A., “Riflessioni su attualità e urgenze in materia formativa”, in L. CORRADINI (Ed.), Peda- gogia: Ricerca e Formazione. Saggi in onore di Mauro Laeng, Roma, Seam, 2000, 83-101; SISTEMA INFORMATIVO DEL MPI, Alunni con cittadinanza non italiana. Scuole statali e non statali, 2006, in www.pubblica.istruzione.it. S. Chistolini ABILITÀ Il termine a. indica il patrimonio di intelligenza applicata da parte di un individuo che gli consente di svolgere attività mentali (ad es., un calcolo) e pratiche (l’uti- lizzo di uno strumento di → lavoro), patrimonio riferito ad una dotazione genetica iniziale ed acquisito tramite interazioni con il contesto formativo. L’espressione ha soprattutto una valenza nelle scienze psicologiche, dove indica, assieme alle attitu- dini che ne rappresentano l’aspetto potenziale, la componente attiva dell’intelli- genza intesa come costrutto multidimensionale. Nelle scienze dell’→ educ., l’a. può essere intesa come esito di un processo di → apprendimento (concezione parti- colaristica), oppure come una componente del processo di acquisizione della com- petenza necessariamente connessa ad altre (→ conoscenze, → capacità), attraverso opportunità strutturate, collocate entro un contesto reale e dotato di senso (conce- zione olistica e sociale). 1. Nella letteratura si nota spesso una sovrapposizione tra i termini a., capacità, at- titudine, conoscenze e → competenze, spesso usati come sinonimi. Ciò crea una discordanza di fondo che spesso si riscontra anche nelle singole definizioni. Il ter- mine a. è solitamente distinto da quello di attitudine. Mentre quest’ultima indica le predisposizioni innate nel soggetto, l’a. rappresenta uno degli esiti di un processo molteplice di stimoli, costituito da un intreccio di corredo genetico, apprendimento entro un → ambiente familiare, acquisizione in un ambiente scolastico o apprendi- mento nella vita quotidiana o nel contesto di lavoro. Nelle scienze pedagogiche, l’a. è intesa come un requisito specifico dell’apprendimento, che rende la persona autonoma nell’affrontare una parte di un compito, anche se non ancora tale da co- stituire una vera e propria competenza. L’a., assieme alla conoscenza e alle capacità personali rappresenta quindi un requisito necessario nel processo di formaz. della 17 competenza, unica condizione che consente all’individuo di essere effettivamente autonomo nello svolgere un compito connesso ad un ruolo sociale. 2. Le a. sono raggruppate in una struttura gerarchica, che prevede al vertice l’a. ge- nerale, corrispondente all’intelligenza generale, i fattori di gruppo (verbale, nume- rica, spaziale, ecc.) e le a. specifiche. A sua volta, l’a. generale viene suddivisa in due categorie: a) cristallizzata, quando rappresenta il risultato dell’interazione con l’ambiente formativo, e quindi sviluppata mediante percorsi di apprendimento for- mali, strutturati e fondati su sequenze prestabilite di algoritmi; b) fluida, che si forma solitamente negli ambienti informali e non formali dove prevale il processo euristico e lungo itinerari spesso imprevedibili. Con il prevalere nelle → scienze umane del paradigma olistico, si nota la tendenza a valorizzare tutte le acquisizioni che la persona è in grado di palesare, siano esse il prodotto di attività formali, in- formali o non formali. Nella recente letteratura, si manifesta un interesse partico- lare per le a. mentali e cognitive. L’a. in senso cognitivo non è un semplice fare, ma implica anche il perché e la causa delle azioni che si effettuano. Ciò comporta con- seguenze importanti rispetto al processo di apprendimento. Infatti, le a. mentali, ap- partenenti all’a. generale, sono influenzate fortemente dal contesto familiare, e sono predittive della riuscita scolastica e professionale dell’individuo che le pos- siede. Esiste quindi una stretta relazione tra il tipo di intelligenza, il livello di → istruz. e la professione; tale relazione comporta fenomeni di differenziazione e di selezione negli ambienti di apprendimento formali: scolastici, formativi, accade- mici. Nello stesso modo, le a. sociali indicano il patrimonio di relazionalità e di co- municatività di cui è dotato l’individuo; si tratta di un’espressione simile a quanto nella sociologia viene inteso con l’espressione → “capitale sociale”, ovvero la dota- zione di conoscenze e a. spendibili nel → mercato del lavoro, ma anche la rete di relazioni personali di cui il soggetto dispone e che ne accresce la riconoscibilità. Bibl.: POLÁČEK K., Componenti psicologiche del processo di orientamento, in “Orientamento Scola- stico e Professionale” 1-2 (1977), 53-70; DE BENI R. - A. MOÈ, Motivazione e apprendimento, Bo- logna, Il Mulino, 2000; AA.VV., Il capitale sociale. Istruzioni per l’uso, Bologna, Il Mulino, 2001; BERTAGNA G., Verso i nuovi piani di studio, in “Annali dell’Istruzione, n. speciale Stati Generali di- cembre 2001” 1-2 (2001) 246-277; CASTELLI C. (Ed.), Orientamento in età evolutiva, Milano, F. An- geli, 2002; POLÁČEK K., “Abilità”, in CIOFS/FP (Ed.), Un glossario per l’orientamento, Roma, Publi- grafica Romana, s.d., 1-2. D. Nicoli ACCOGLIENZA L’a. è, anzitutto, un atteggiamento che consiste in una disposizione o attitudine atta a facilitare l’integrazione e l’inserimento in un contesto sociale, formativo, educa- tivo: come tale comporta reciprocità. In secondo luogo, l’a. è un costrutto dell’→ orientamento, che facilita il percorso di costruzione dell’→ identità e la dinamica della decisione in ordine alle scelte che riguardano il progetto di vita e l’inseri- mento sociale e lavorativo. Infine, l’a. è un percorso formativo, sovente modulare, 18 che si prefigge obiettivi e pone in atto strategie di avvio di processi finalizzati alla costruzione di un → profilo professionale personalmente perseguito. Applicata alla → FP, l’a. è una metodologia pedagogica che prevede non solo obiettivi e strategie di inserimento iniziale, ma soprattutto un atteggiamento che i docenti e i → forma- tori assumono lungo l’intero percorso formativo, con attenzione all’allievo e aper- tura al dialogo educativo. Sarebbe, infatti, riduttivo e pedagogicamente errato uti- lizzarla solo all’inizio del percorso, anche se, in quanto tale, costituisce la prima fase di un processo formativo/orientativo esteso a tutta la vita (long life learning). 1. Percorso o progetto di a. e sue finalità. L’a. è essenzialmente finalizzata alla ri- costruzione delle motivazioni personali e della storia pregressa in modo che l’al- lievo sottoscriva consapevolmente e attui con successo un patto formativo. Le fina- lità dell’a. sono: a) analizzare i bisogni individuali e di gruppo; b) acquisire infor- mazioni sulle caratteristiche e sulle → motivazioni degli allievi o la chiarificazione delle scelte; c) chiarire il percorso orientativo e formativo in rapporto alle aspetta- tive individuali; d) promuovere la conoscenza delle modalità di ingresso nei per- corsi di istruz. e FP; e) chiarire gli obiettivi formativi delle qualifiche scelte; f) fa- vorire la conoscenza e l’inserimento nelle iniziative formative e culturali proposte dal progetto educativo della struttura formativa. 2. Tappe del percorso di a. Il percorso di a. prevede le seguenti tappe, con successio- ne modulare: a) socializzazione: gli allievi sono facilitati a familiarizzare con l’→ ambiente e con il personale educativo, didattico-formativo, si conoscono reciproca- mente ed instaurano una buona dinamica di gruppo; b) verifica delle attese degli utenti: attraverso questionari di ingresso sono analizzate attese e aspettative nei ri- guardi della qualifica prescelta; sono utili anche test motivazionali il cui esito sarà restituito e discusso insieme al gruppo degli allievi; c) analisi e ricostruzione delle esperienze, → conoscenze e → competenze che l’allievo possiede allo scopo di in- staurare un percorso formativo personalizzato. Il percorso di a. si conclude con la co- noscenza, la riflessione e gli scambi in gruppo sul patto formativo che si sottoscrive. 3. Modalità di realizzazione dell’a.. L’a., effettuata a livello di gruppo, può essere svolta anche a livello individuale attraverso colloqui di consulenza e → orienta- mento anche mediante l’utilizzo di test psicoattitudinali ad opera di orientatori spe- cializzati. Nel percorso di a. i formatori e i docenti che seguono il percorso forma- tivo sono coadiuvati dai coordinatori delle attività orientative e dagli orientatori di percorso o → tutor. Anche i genitori, per quanto possibile, sono coinvolti non solo per essere informati del percorso formativo, ma soprattutto per offrire la loro attiva collaborazione degli allievi nella FP. Bibl.: ANDRIOLO G. - M. CONSOLINI, Progettare l’accoglienza, Milano, F. Angeli, 2000; CALAMINICI P., Accoglienza, orientamento, patto formativo: un percorso possibile?, in “Percorsi” (2000) 28-30; CNOS-FAP (Ed.), Accreditamento della sede orientativa, Roma, Tipografia Pio XI, 2002; CIOFS/FP, Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, Roma, CIOFS/FP, 2002; COSPES (Ed.), Orientare alle scelte. Percorsi evolutivi e strumenti operativi, Roma, LAS, 2005. S. De Pieri 19 ACCOMPAGNAMENTO AL LAVORO L’a.a.l. è definibile come un’azione consulenziale personalizzata, assicurata da tec- nici specializzati, per facilitare l’inserimento lavorativo (→ accompagnamento al lavoro) di soggetti che intendono entrare nella vita lavorativa, come lavoratori au- tonomi o imprenditori o come lavoratori dipendenti. L’espressione è stata coniata solo recentemente: non si trova, infatti, ancora, nella legislazione nazionale e, in quella regionale, è presente in quattro provvedimenti: uno della Regione Lazio, che riguarda il diritto al lavoro delle persone disabili (L.R. 19/2003), gli altri delle Re- gioni Puglia (L.R. 19/1999), Molise (L.R. 27/99), Emilia Romagna (L.R. 17/2005) relativo alla politica del lavoro e dei → servizi per l’impiego. Frequente l’uso nei documenti di natura programmatoria e nei progetti formativi integrati. 1. Ambiti. L’a. al l. trova due declinazioni operative fondamentali, nei → processi formativi e in quelli orientativi. Nella prima, rappresenta una fase (normalmente quella conclusiva) di un percorso di → FP; i beneficiari sono esclusivamente gli al- lievi che partecipano all’intervento formativo. Nella seconda, è un servizio, accanto ad altri, reso da strutture di → orientamento e di inserimento lavorativo ed è poten- zialmente rivolto a tutti i target di riferimento della struttura stessa. Nel primo caso, inoltre, l’a.a.l. avrà come riferimento un determinato settore economico (quello per il quale sono state acquisite nel percorso formativo specifiche → competenze); nel secondo, invece, l’a.a.l. è tendenzialmente aperto a tutte le opportunità occupazio- nali/imprenditoriali di tutti i settori economici in un determinato territorio. Partico- larmente diffusi sono i percorsi guidati e individualizzati di inserimento lavorativo di persone svantaggiate (da tenere presente che i cittadini disabili possono usufruire dell’inserimento mirato e mediato previsto dalla L. 68/99). Naturalmente nell’uno e nell’altro caso, l’a.a.l. verrà realizzato in una pluralità di modalità ed articolazioni a seconda della tipologia di target (età, scolarità, eventuale presenza di handicap o si- tuazioni di disagio, ecc.) del territorio e, dato l’alto livello di → personalizzazione, delle specificità delle singole persone. 2. Percorsi. Possiamo comunque descrivere i percorsi “base” in queste sequenze. L’a.a.l. dipendente prevede: a) acquisizione di competenze: conoscenze sulla norma- tiva e sulle procedure di carattere burocratico relative al lavoro dipendente, fonti e tecniche per la ricerca delle informazioni sulle disponibilità settoriali/territoriali, tec- niche per l’autopromozione (inserzioni, presentazione di candidature, colloqui di la- voro); b) progetto di un percorso di → ricerca e sua validazione; c) esecuzione del progetto di ricerca, anche con la possibilità di stage/ → tirocinio. L’a.a.l. autonomo (o imprenditoriale) prevede: a) verifica della vocazione all’imprenditorialità; b) defi- nizione di una idea imprenditoriale (business idea) e sua validazione; c) elaborazione di un piano d’→ impresa e verifica di fattibilità; d) realizzazione del piano d’impresa. Nei processi orientativi c’è una fase preliminare finalizzata ad una comprensione delle proprie propensioni e possibilità (anche mediante un bilancio di competenze), ad aumentare il livello di autostima, e, se necessario, ad azioni di rimotivazione. 20 3. Accompagnatori. Per quanto attiene la figura dell’accompagnatore oltre, natu- ralmente, a possedere le conoscenze di carattere disciplinare per espletare i propri compiti, deve adottare uno stile lavorativo ispirato ad un criterio fondamentale: la centralità del soggetto assistito e il suo ruolo attivo in tutto il percorso di a.a.l. L’operatore, infatti, offre solo un intervento consulenziale, anche se importante. Non si sostituisce mai al suo assistito nelle scelte da compiere, nelle responsabi- lità da assumere e nei progetti da elaborare. Supporta, cioè, l’assistito, non opera per suo conto. Pertanto deve aiutarlo nel maturare la consapevolezza sia dei propri bisogni, aspirazioni e attitudini, dei propri valori e → motivazioni, delle proprie risorse e → capacità, in relazione alle scelte che si intendono fare, sia delle opportunità, e dei vincoli dell’ → ambiente e del settore lavorativo in cui in- tende inserirsi. Deve, inoltre favorire e sollecitare: l’assunzione di un atteggia- mento attivo di ricerca delle informazioni in rapporto a ciascuna delle possibili al- ternative a disposizione, l’acquisizione di una capacità di mettersi in discussione in ogni momento e di fronte a qualsiasi posizione da prendere, l’assunzione di un atteggiamento critico nei confronti delle pressioni e dei condizionamenti socio- ambientali. Bibl.: DEL COGLIANO D., Il business plan nelle imprese di servizi, Milano, F. Angeli, 1993; BANDLER L.C. - D. GORDON - M. LEBEAU, Guida per inventarsi il proprio futuro, Roma, Astrolabio, 1993; CARON G., Costruire il proprio futuro, Milano, F. Angeli, 1993; ELVY B.H., Mettersi in proprio senza capitali: 100 nuove idee e opportunità, come valutarle e selezionarle, Milano, F. Angeli, 1994; MIS- SIONI DI SVILUPPO, Vademecum per l’imprenditore: dal sogno all’idea imprenditoriale, Roma, Società per l’imprenditorialità giovanile, 1995; NAVA B. - N. GIACONI, Come trovare il lavoro che piace, Pro- vincia di Arezzo, Siena, Pistoia, Grosseto, 1995; PASSERINI W., Il Trovalavoro. Le “pagine gialle” del lavoro. Tutto (ma proprio tutto) quello che serve per trovare o cambiare lavoro, Milano, F. Angeli, 1996; ASSEFOR, Il neo-imprenditore: manuale operativo per mettersi in proprio, Rimini, Assefor, 1997; DE BENEDETTIS A. - G. MINGOLLA - A. SCACCHERI (Edd.), Come fare un business plan, Milano, Sperling & Kupfer, 1997; PASSERINI W. (Ed.), Tutto Lavoro 2002. Come trovarlo come cambiarlo: Milano, ETAS 2002; MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, Roma, Tipo- grafia Pio XI, 2003; GHERGO F. Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, Roma. Tipografia Pio XI, 2003; CNOS-FAP Piemonte (Ed.) L’orientamento nel CFP 4. Guida per l’accompagnamento finale Roma, Tipografia Pio XI, 2003. F. Ghergo ACCREDITAMENTO Il termine a. è comunemente utilizzato in due accezioni: la prima, essenzialmente sociale, connessa all’a. di persone (diplomatici, giornalisti, funzionari), ovvero mi- rante a rendere evidente la loro credibilità agli occhi dell’istituzione accreditante; la seconda, essenzialmente tecnica, si riferisce all’a. di laboratori di misura e prova o di altre istituzioni, ovvero tesa a rendere evidente il possesso di requisiti e caratteri- stiche prestabilite per esercitare un’attività definita. Nel primo caso, non esiste un processo formalizzato o criteri universalmente condivisi, nel secondo esiste un im- pianto normativo di riferimento. L’a. può essere definito come riconoscimento for- male, attraverso verifica (normalmente di parte seconda), ad un → ente / organizza- 21 zione / persona, del possesso dei requisiti richiesti per esercitare uno specifico ruolo o svolgere una specifica attività. È utilizzato in molti Paesi nei servizi pub- blici, per fornire garanzie alla Pubblica Amministrazione e alla collettività circa la capacità delle organizzazioni di fornire servizi qualitativamente accettabili. In Italia la diffusione è relativamente recente e riguarda prevalentemente i settori della sa- nità e della → FP. 1. A. nella FP. Nella FP, l’a. si è focalizzato (in Italia e in Europa) principalmente sulla verifica delle capacità qualitative delle organizzazioni formative; in questa ot- tica, l’a. dovrebbe consentire ad una “parte seconda” (cliente / committente) l’ac- certamento delle capacità organizzative, tecniche e gestionali per la produzione e il mantenimento di livelli di qualità adeguati e sostenibili. 2. Approcci utilizzati in Europa. A livello europeo sono stati sperimentati diversi approcci: a) Uso di standard minimi di → qualità, fissati e utilizzati dal commit- tente per valutare processi e servizi (organizzazione, processi operativi, prodotti formativi, situazione finanziaria, rapporto di lavoro); b) Standard qualità nazionali, è stato sviluppato in diversi Paesi del Nord Europa e consiste nello sviluppo di uno standard nazionale sulla qualità della FP che normalmente armonizza standard e norme esistenti; c) Adeguamento del “Sistema qualità” alla ISO 9000 ed eventuale certificazione, costituisce un punto di arrivo degli standard nazionali e di quelli proposti dalle associazioni. La sua diffusione è anche dovuta alla possibilità di uti- lizzare la certificazione di parte terza del sistema qualità in ISO 9001 e si è accen- tuata con l’emanazione della ISO 9000:2000; d) Adattamento del modello E.F.Q.M. (European Foundation for Quality Management) alla formaz., si riferisce ad un modello descrittivo ma quantitativo, che delinea una prassi gestionale della qualità definita dai principi del T.Q.M. Il modello E.F.Q.M. è strutturato in 9 elementi, ognuno dei quali ha un peso nella determinazione del punteggio finale. Qualsiasi approccio si utilizzi, l’a. presuppone la definizione di una logica che stabilisca “cosa si accredita”, ovvero i requisiti generali e specifici da soddisfare, il procedi- mento da utilizzare, i ruoli coinvolti, le competenze necessarie e gli standard di ri- ferimento per verificare il livello di possesso dei requisiti. Bibl.: E.F.Q.M., Linee guida per l’autovalutazione, Bruxelles, European Foundation for Quality Ma- nagement, 1994; CONTI T., Autodiagnosi organizzativa. Il self assessment: una via verso l’eccellenza organizzativa, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1997; CAPELA C., Systéme d’accreditation des or- ganismes de formation. Origine, objectifs et méthodologie du système d’accreditation, CEDEFOP, 2000; PUGLIESE S., L’accreditamento interno come approccio per l’eccellenza qualitativa nella For- mazione CNOS-FAP, in “Rassegna CNOS” 3 (2001)17, 11-31; PUGLIESE S., L’accreditamento delle sedi formative secondo l’art. 17 della L. 196/97: modelli a confronto, in “Rassegna CNOS” 3 (2002) 18, 40-51. S. Pugliese ADDESTRAMENTO → FP; → Formazione; → Competenza; → Ispirazione cristiana della FP 22 ALFABETIZZAZIONE L’a. è il processo di acquisizione delle capacità di leggere e scrivere e della padro- nanza degli alfabeti caratterizzanti il gruppo sociale di appartenenza. Per livello di a. in una → società si intende sia il grado di comprensione della lettura e della scrit- tura, sia il numero (la percentuale) delle persone che sanno leggere e scrivere. 1. L’UNESCO definisce dal 1958 un’analfabeta come “una persona che non sa né leggere né scrivere, capendolo, un brano semplice in rapporto con la sua vita gior- naliera” (UNESCO, 1990, 20). Oggi la definizione dell’UNESCO è diventata più complessa e si basa fondamentalmente sulla → capacità dell’individuo di decifrare l’→ ambiente e partecipare alla società in cui vive per esercitare pienamente la pro- pria → cittadinanza attiva. L’a. copre tutta l’area degli alfabeti e dei nuovi alfabeti (o linguaggi contemporanei): per es. i linguaggi informatici e delle → lingue stra- niere come risorse indispensabili in una → società globalizzata e culturalmente plu- rale. Anche l’a. matematica porta con sé la capacità di utilizzare, conoscere le → competenze in maniera funzionale per “comprendere e giudicare fenomeni fisici e sociali presentati attraverso grafici e statistiche, alla possibilità di cogliere strutture geometriche e relazioni spaziali, alla possibilità di generalizzare e padroneggiare informazioni complesse” (UNESCO, 1990, 20). 2. Le trasformazioni epocali dell’industrializzazione e della post-industrializza- zione hanno riproposto l’a. come passaggio obbligato per la crescita e lo sviluppo, Il processo di a. deve infatti permettere anche all’analfabeta di integrarsi social- mente ed economicamente in un mondo nuovo in cui i progressi tecnici e scientifici richiedono sempre di più → conoscenze e specializzazione. Inoltre si considera l’a. non come un fine in sé ma come un mezzo fondamentale allo sviluppo generale e armonioso di una persona nella società. Il concetto stesso dell’a. muta: da a. posta in relazione “a priorità di ordine economico e sociali e ai bisogni della mano d’o- pera” all’a. che porta con sé le competenze culturali, sociali e politiche necessarie perché una persona possa realizzare se stessa, vivere in autonomia e creatività. Par- lare di a., storicamente, ha significato parlare di → educ. o → formaz. di base per tutti in un’ottica di → educ. permanente. Fin dagli anni ’60 ci sono state campagne di promozione per l’a. su scala mondiale finanziate dagli Organismi Internazionali: l’UNESCO, la Banca Mondiale, l’ONU che dichiarerà il 1999 “Anno internazio- nale dell’alfabetizzazione”. Si mira a debellare il fenomeno dell’analfabetismo ori- ginario e dell’analfabetismo di ritorno che riguarda persone appartenenti non solo ai Paesi del Terzo Mondo ma anche al mondo occidentale e post-industriale. 3. L’OCSE coordina dal 2000 il “Programma PISA” (Programme for International Student Assessment, programma per la → valutazione internazionale dell’allievo), che valuta qualitativamente in quale misura gli allievi prossimi alla conclusione dell’→ obbligo scolastico hanno acquisito alcune delle conoscenze e delle → abilità essenziali per una partecipazione completa alla società. Il “Programma” utilizza una strumentazione di rilevazione e misurazione validata a livello internazionale 23 che consiste nell’elaborazione statistica di dati raccolti attraverso interviste e test cognitivi. Le rilevazioni hanno coinvolto dai 4.500 ai 10.000 allievi in ogni Paese. Gli ambiti di a. letteraria, matematica e scientifica sono indagati non soltanto in ter- mini di padronanza del programma di studi della scuola, ma in termini di cono- scenze ed abilità necessarie nella vita da adulto. In PISA 2003 è stato introdotto un ambito supplementare relativo alla soluzione dei problemi, volto ad un esame inter- disciplinare delle competenze. L’indagine PISA condotta nel 2003 per valutare il li- vello di conoscenze raggiunto dai quindicenni ha mostrato un ritardo da parte degli studenti italiani: solo il 20% degli studenti raggiunge un livello di conoscenze rite- nuto “sufficiente”, a fronte di una media OCSE del 30%. Bibl.: GRAFF J. (Ed.), Alfabetizzazione e sviluppo sociale in Occidente, Bologna, Il Mulino, 1986; UNESCO, Compendium des statistiques relatives a l’analphabétisme, Paris, 1990; DELORS J. (Ed.), Nell’educazione un tesoro. Rapporto all’UNESCO della Commissione internazionale sull’Educazione per il ventunesimo secolo, Roma, Armando editore, 1997; OECD-OCSE, Learning for tomorrow’s world - First results from PISA 2003, Paris, OECD, 2004. G. Spagnuolo ALTERNANZA SCUOLA LAVORO L’a. s.-l. è una modalità didattica, non costituente rapporto di → lavoro, realizzata nell’ambito dei percorsi di istruz. o di → FP, anche integrati, quale efficace stru- mento di → orientamento, preparazione professionale e inserimento nel mondo del lavoro. Essa si realizza attraverso esperienze in contesti lavorativi che devono es- sere adeguati all’ → accoglienza e alla → formaz. 1. Tendenze e rilievi critici. L’a. s.-l. è un nuovo modo di concepire la cultura e il ruolo formativo dell’ → impresa. Essa costituisce una combinazione di prepara- zione scolastico/formativa e di esperienze assistite sul posto di lavoro, predisposte con la collaborazione del mondo dell’impresa per mettere in grado gli studenti di acquisire attitudini, → conoscenze e → abilità per l’inserimento e lo sviluppo della loro → professionalità. L’a.s.-l. nasce dal superamento della separazione tra mo- mento formativo e momento applicativo e si basa su una concezione dell’ → educ. in cui educ. formale, informale ed esperienza di lavoro si combinano in un unico progetto formativo. Gli studenti di almeno 15 anni di età possono svolgere i corsi del secondo ciclo attraverso l’a.f.l. di periodi di studio e di lavoro. I percorsi in a.f.l. sono progettati e attuati sotto la responsabilità della scuola o del → CFP, sulla base di convenzioni con le imprese o con le rispettive → associazioni di rappresen- tanza. Nell’a.f.l., il sistema tutoriale è funzionale al progetto educativo e tale assi- stenza è svolta dal → tutor formativo e dal tutor aziendale. Quest’ultimo favorisce l’inserimento dello studente nel contesto operativo e fornisce all’istituzione scola- stica gli elementi per valutare l’→ efficacia dei → processi formativi. 2. Tipi di a.f.l. Il concetto di a.f.l. conserva un certo grado di ambiguità dato che si riferisce contemporaneamente a pratiche diverse. Possiamo distinguere in Europa 24 quattro tipi di a.f.l.: 1) pratiche di a.f.l. come → formaz. di seconda opportunità per soggetti in difficoltà scolastica; 2) pratiche orientate a socializzare gli studenti alla loro futura condizione lavorativa; 3) pratiche che assegnano all’esercizio concreto dell’attività professionale il ruolo principale della formaz.; 4) pratiche di a.f.l. for- malizzate sotto un → contratto lavorativo. Possiamo definire le prime tre pratiche come a. scolastica, dato che i soggetti coinvolti sono studenti, mentre nel quarto caso possiamo parlare di a. lavorativa, dato che i giovani sono al tempo stesso la- voratori presso un’impresa e allievi presso un CFP. L’a. scolastica è regolata dalla L. 53/03, mentre l’a. lavorativa o → apprendistato viene disciplinata dalla L. 196/97 e dalla L. 30/03. Questi elementi di differenza e di complessità si estendono ulteriormente se compariamo fra loro i diversi Paesi dell’UE infatti della formaz. in a.f.l. possono essere responsabili una scuola, un CFP o un’impresa, possono essere o meno formalmente previsti nei percorsi e curricoli formativi nazionali, ricono- scere un ruolo differente alle agenzie pubbliche di istruz. o alle imprese, fondarsi su forme diverse di validazione, enfatizzare il ruolo del diploma o costruire nuovi meccanismi di → certificazione sulla base di competenze standardizzabili, trasfor- mare le procedure di ingresso al lavoro oltre che intervenire sui meccanismi di so- cializzazione professionale. La diffusione di modelli di a.f.l. è parte integrante delle politiche educative europee. Lo stesso “Memorandum Europeo sull’istruzione e la formazione permanente” indica come obiettivo generale l’avvicinamento fra scuola e impresa in quanto luoghi di acquisizione di conoscenze complementari. Bibl.: SCURATI C. (Ed.), L’educazione extrascolastica Problemi e prospettive, Brescia, La Scuola, 1986; SCHWARTZ B., Modernizzare senza escludere. Un progetto di formazione contro l’emargina- zione sociale e professionale, Roma, Anicia, 1995; AA.VV., Alter-form - L’alternanza formazione la- voro e i bisogni di professionalità nelle imprese, Roma, SIPI, 1998; CARTOCCIO A. - D. FORTI - G. VARCHETTA, Action learning: una formazione oltre l’aula, Milano, Unicopli, 1998; CERI-OCDE (Ed.), Educazione e occupazione, Roma, Armando, 1998; GARDNER H., Sapere per comprendere, Mi- lano, Feltrinelli, 1999; NICOLI D., La formazione in alternanza. Una strategia di collaborazione tra Centro do formazione e Piccole-medie imprese, Torino, Casa di Carità Arti e Mestieri, 2000; DI NU- BILA R., “L’alternanza studio/lavoro come prima esperienza di formazione umana e professionale”, in R. DI NUBILA (Ed.), Formazione umana e formazione professionale, Pisa, I.E.P.I., 2000; CONFINDU- STRIA, Ripensare la cultura d’impresa, Roma, SIPI, 2001; GENTILI C., Conoscere e competere, in “Nuova Antologia” 137 (2002) 2221; ID., Scuola e extrascuola, Brescia, La Scuola, 2002; BOZZI L. - A. CAPONE - F. FERRETTI - A. GALLOTTA, Alternanza scuola-lavoro: un modello di apprendimento, Milano, F. Angeli, 2005. C. Gentili AMBIENTE Il termine a. ha una pluralità di accezioni. Esse rimandano tanto a condizioni fi- siche esterne ad un organismo, quanto all’insieme delle componenti biologiche, so- ciali, culturali di un determinato sistema organizzativo. Le coordinate spazio-tem- porali, esito dell’incessante dialettica di trasformazione e di adattamento sia degli elementi fisico-geografici (cosmo fisico), sia di quelli umani della civiltà, della cul- tura, dei vissuti individuali e collettivi (cosmo culturale-spirituale), sono compo- 25 nenti strutturali dell’a. Dal punto di vista educativo, l’a. è il contesto dove si realiz- zano → processi e percorsi formativi del soggetto. La riflessione sulla sua valenza educativa è nata tardi. Oggi il tema è particolarmente sentito per tre ordini di ra- gioni: a) migliorare → conoscenze circa l’incidenza condizionante/decondizionante dell’a. sui processi di → apprendimento e di socializzazione (problema connesso con quello delle uguaglianze di opportunità formative e di democratizzazione della → società); b) esigenze di → educ. ambientale che estrapoli nuove variabili, da quelle naturali – soggette a manipolazioni fuori controllo –, a quelle dell’a. artifi- ciale oggettivo – enormemente ampliato dallo sviluppo tecnologico, e influente sui processi mentali, sulle modalità apprenditive e sulle dinamiche relazionali –, c) ri- conoscimento dei contesti lavorativi come luogo di → apprendimento continuo, ove l’obiettivo del miglioramento coincide con la gestione della conoscenza e la circo- larità tra conoscenza scientifica, tecnica e pratica. Bibl.: POSTMAN N., Ecologia dei media, Roma, Armando, 1981; LAENG M., L’educazione nella so- cietà tecnologica, Roma, Armando, 1984; GENNARI M., Pedagogia degli ambienti educativi, Roma, Armando, 1988. C. Di Agresti APPRENDIMENTO Il concetto di a. è assai vasto e complesso. È difficile darne una definizione com- prensiva che sia accettata da tutti gli studiosi. Limitando la considerazione ai pro- cessi che sono normalmente presenti nel contesto delle attività formative, l’a. si può definire come un’acquisizione significativa, stabile e fruibile di → conoscenze, → abilità, comportamenti, atteggiamenti, valori. Oggi si insiste sulla necessità di promuovere anche la capacità di valorizzare tali risorse nell’agire quotidiano, in particolare professionale, che deriva dall’esercizio pratico e da altre forme di espe- rienza, tenuto conto delle caratteristiche personali di maturità e di intelligenza. In una parola si tratta di sviluppare vere e proprie → competenze, intese come capa- cità di attivare e orchestrare le risorse interne possedute, e quelle esterne disponi- bili, per affrontare efficacemente determinate tipologie di situazioni sfidanti. 1. Caratteristiche delle acquisizioni. I processi di a. promossi dalle attività forma- tive dovrebbero, dunque, condurre ad acquisizioni che possiedano alcune caratteri- stiche fondamentali. La prima di esse è la significatività. Gli elementi conoscitivi sono effettivamente compresi a un adeguato livello di profondità, tenuto conto del- l’età e del percorso formativo seguito. Forme di acquisizione solamente ripetitive, non sufficientemente dominate, rimangono rigide e non facilmente collegabili a si- tuazioni diverse da quelle nelle quali sono state acquisite. La seconda caratteristica implica che tali conoscenze entrino a far parte del patrimonio stabilmente disponi- bile nella memoria a lungo termine dello studente. La costituzione di una base di conoscenze ben organizzata, che permetta un facile accesso, significa fornire prin- cipi organizzatori adeguati e abilità puntuali nel valorizzare tale organizzazione per 26 individuare agevolmente il concetto o l’abilità in gioco. La terza caratteristica è la fruibilità. Cioè le conoscenze e le competenze già fatte proprie sono facilmente messe in moto e trasferite da un contesto all’altro. A partire dagli anni ‘80, anche sulla spinta delle teorie cognitive sviluppatesi nei due decenni precedenti, sono state introdotte terminologie differenti rispetto alla dizione tradizionale “transfer dell’a.”; così sono stati studiati i processi di ragionamento analogico e metaforico, d’induzione, di costruzione e di utilizzazione di schemi, di meta-cognizione. Gli approcci socio-culturali hanno evidenziato, poi, la costruzione di categorie inter- pretative e schemi operativi derivanti dall’interazione attiva dei soggetti in una co- munità di pratiche, interazione che forma, facilita e sollecita tali trasferimenti. 2. Acquisizione e crescita della competenza. Ma il patrimonio interiore che forma la base di partenza della messa in campo della competenza non è solo formato da conoscenze e abilità, bensì da tutto il sistema complesso che forma il sé e quindi il concetto di sé, l’autostima, gli interessi, i valori, le → motivazioni, la capacità di persistenza e di resistenza nel lavoro, ecc. Di qui la necessità di insistere sui pro- cessi di a. e di trasformazione di disposizioni interiori stabili, come sistemi di signi- ficato, valori, motivazioni, volizione, ecc. Se l’acquisizione e la crescita delle com- petenze è legata alla costruzione di conoscenze e abilità significative, stabili e frui- bili e allo sviluppo di disposizioni interiori valide e feconde, è, tuttavia, la pratica, l’esercizio che ne sta alla base. Si tratta di vere e proprie forme di apprendistato sia cognitivo, sia pratico. Si tratta, in definitiva, di apprendere da modelli attraverso il meccanismo psicologico dell’esperienza vicaria. 3. Livelli di competenza. A questo proposito sono stati individuati quattro livelli di competenza, caratterizzati dal grado di capacità di auto-regolazione raggiunto. Il pri- mo livello è fondamentalmente legato all’osservazione di modelli che inducono a ipotizzare gli elementi fondamentali che concorrono a formare una competenza. L’e- sperienza vicaria attivata dalla presenza di un modello già competente permette di osservare direttamente le modalità attraverso le quali è possibile e utile attivare le ri- sorse interne già possedute a un livello adeguato di significatività, stabilità e fruibili- tà per orchestrarle al fine di affrontare positivamente la situazione o il problema in oggetto. Il secondo livello comprende prestazioni di natura imitativa di modalità o stili generali d’azione legati ad → abilità che possono essere guidate e corrette social- mente per mezzo di guida, feedback e sostegno durante l’esercizio pratico. D’altra parte il riuscire a emulare almeno in alcuni aspetti generali il modello ha effetto sulla motivazione a impegnarsi ulteriormente. Occorre segnalare come a questi due primi livelli la fonte di a. delle abilità auto-regolatrici è esterna al soggetto che apprende. Negli ulteriori livelli di sviluppo di tali abilità, il riferimento diventa interno. Il terzo livello si raggiunge quando si è in grado di sviluppare forme indipendenti d’abilità, esercitate in contesti e condizioni strutturate. È il livello denominato dell’autocon- trollo. Infine, si raggiunge il livello della competenza vera e propria quando il sog- getto riesce ad adattare da solo le sue prestazioni sulla base delle condizioni soggetti- ve e ambientali varianti. Egli riesce a mutare le sue strategie in maniera autonoma. 27 Bibl.: CORNOLDI C., Metacognizione e apprendimento, Bologna, Il Mulino, 1995; BOSCOLO P., Psico- logia dell’apprendimento scolastico. Aspetti cognitivi e motivazionali, Torino, UTET, 1996; SCHUNK D.H., Learning Theories. An Educational Perspective, Columbus (Ohio), Merrill, 2000; PELLEREY M., “Sul concetto di competenza ed in particolare di competenza sul lavoro”, in C. MONTEDORO (Ed.), Dalla pratica alla teoria per la formazione: un percorso di ricerca epistemologica, Milano, F. Angeli, 2001, 231-276; NOVAK J., L’apprendimento significativo, Trento, Erickson, 2001. M. Pellerey APPRENDIMENTO COOPERATIVO → Insegnamento APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO Man mano che le dinamiche sociali diventano più interconnesse, complesse e ra- pide, la loro gestione richiederà nuovi e più ampi apprendimenti. In questo contesto il compito di imparare non può essere affidato nelle organizzazione ad una sola persona, anche carismatica, o a un ristretto gruppo dirigenziale. Infatti, il decentra- mento dei poteri decisionali a livelli medi e bassi esige anche a questi livelli l’→ apprendimento di → abilità più complesse di quelle tecniche; è inoltre il ritmo at- tuale del cambiamento che domanda una capacità di apprendimento nell’organizza- zione sempre più elevata; in terzo luogo, la competizione, così acuta nelle nostre → società, si decide sulla base della → capacità di produrre innovazione. Pertanto, un’organizzazione per avere successo dovrà stimolare l’impegno e la capacità di apprendere a tutti i livelli. È in questo senso che si parla di a.o. o di organizzazione che apprende: va tuttavia precisato che l’a.o. ha luogo solo quando i membri del- l’organizzazione agiscono come attori di apprendimento nell’organizzazione; altri- menti, imparano le persone, ma non l’organizzazione. Ovviamente, l’organizza- zione che apprende, mentre si rinnova, incoraggia anche l’apprendimento personale dei suoi membri. 1. Caratteristiche fondamentali. L’a.o. è un apprendimento esperienziale che parte dall’esperienza concreta, l’illumina con la riflessione, fino a produrre → cono- scenze da applicare a situazioni nuove. Deve mirare a valorizzare le conoscenze ta- cite dei membri dell’organizzazione che di solito conoscono molto di più di quello che esprimono. Non si deve fermare al semplice apprendimento di una conoscenza, ma consentire di apprendere ad apprendere. Oltre alla compresenza di conoscenza ed azione, un altro tratto fondamentale consiste nel carattere sociale del processo di interazione in cui ha luogo: infatti, l’a.o. è più della somma degli apprendimenti in- dividuali e mira alla condivisione di conoscenze, credenze e assunti di base. Esso è anche strettamente correlato con il processo decisionale. L’a.o. deve arrivare a met- tere in discussione le routine cognitive più consolidate. Inoltre deve aiutare i membri dell’organizzazione a liberarsi dei modelli mentali, cioè di quelle teorie che noi usiamo, pur non essendone pienamente consapevoli, e che sono in con- 28 trasto con quelle professate ufficialmente. Di fatto esse ci chiudono in procedure difensive che impediscono l’apprendimento. 2. Strategie. Una serie di fattori favoriscono l’a.o. La presenza di un adeguato si- stema di → motivazioni costituisce una condizione che lo facilita. Si deve trattare di abilità dirette verso la totalità o verso know-how specialistici. Influiscono anche i problemi che l’organizzazione seleziona, gli schemi di riferimento entro i quali av- viene il confronto tra problemi e saperi, il tipo di idee dominanti nell’organizza- zione. L’a.o. sta diventando una funzione cruciale della leadership in quanto serve a rafforzare la capacità dell’organizzazione di ripensare continuamente il suo rap- porto con la società, a identificare nuove soluzione e a porre in discussione il di- segno organizzativo. Ci si aspetta che il dirigente assuma un ruolo di “educatore” o di “maestro” e ciò consiste nel generare motivazioni, nel creare condivisione sul progetto, nell’aiutare a leggere la complessità della realtà. Le modalità che consen- tono a un’organizzazione di apprendere possono essere identificate nell’accettare l’errore e l’incertezza, nel prendere in considerazione più punti di vista, nel pianifi- care quello che si vuole evitare piuttosto che quello che si vuole raggiungere. Più in generale le organizzazioni apprendono attraverso l’esperienza diretta, mediante l’e- sperienza di altre organizzazioni e facendo ricorso a racconti e simboli. Si capi- scono allora le ragioni del successo dell’a.o. Esso aiuta a risolvere i problemi della turbolenza, dell’incertezza e della discontinuità; è in sintonia con i valori dell’auto- nomia, della sperimentazione, dell’intuito, della visione condivisa; appare in ac- cordo con l’idea di una organizzazione che rispetta la persona. Ciò non deve far di- menticare le difficoltà dell’a.o. quando cioè si sopravvalutano i risultati raggiunti o mancano parametri per misurare la riuscita, o il successo stesso dell’azione orga- nizzativa finisce per nasconderne i limiti. Bibl.: ALESSANDRINI G., La formazione continua nelle organizzazioni, Napoli, Tecnodid, 1994; DEME- TRIO D. - D. FABBRI - S. GHERARDI, Apprendere nelle organizzazioni, Roma, NIS, 1994; HATCH. M.J., Teoria dell’organizzazione, Bologna, Il Mulino, 1999; FABBRI T., L’apprendimento organizzativo, Roma, Carocci, 2003; GHERARDI S. - D. NICOLI, Apprendimenti e conoscenza nelle organizzazioni, Roma, Carocci, 2004. G. Malizia APPRENDISTATO L’a. è l’unico → contratto di → lavoro a finalità formativa presente nella normativa italiana ed è uno strumento che riscuote ampio interesse da parte delle → imprese e dei giovani, visto che nel 2004 si è rilevata una media di 530.000 apprendisti occu- pati in Italia. Negli ultimi anni l’a. è stato oggetto di più riforme, l’ultima delle quali fa capo al D.lgs. 276/03. La principale innovazione è la definizione di tre ti- pologie di a. che hanno target e finalità parzialmente diverse: a) a. per l’espleta- mento del diritto dovere all’istruz. e formaz.: si rivolge ai giovani dai 15 ai 17 anni ed ha la finalità di acquisire una → qualifica professionale che ha valore anche di 29 titolo formativo a riconoscimento nazionali; b) a. professionalizzante: si rivolge ai giovani dai 18 ai 29 anni ed ha l’obiettivo di far conseguire una qualifica professio- nale o → competenze di base, trasversali e tecnico-professionali, attraverso una formaz. che si svolge all’interno ed all’esterno dell’impresa; la formaz. formale ha una durata minima di 120 ore ed è regolamentata dalle Regioni e dalle Province Autonome d’intesa con le → Parti sociali; c) a. per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formaz.: è uno strumento che si rivolge ai giovani dai 18 ai 29 anni che desiderano conseguire un titolo di studio secondario o superiore, o un ti- tolo di alta qualificazione, attraverso un percorso di → alternanza che si svolge nel- l’ambito di un contratto di lavoro. 1. A distanza di anni dall’emanazione del D.lgs. 76/03, il processo di riforma non è ancora del tutto operativo sul territorio. Infatti, il D.lgs. 276/03 ha individuato solo le principali caratteristiche dell’a. quale contratto di lavoro, rinviando la defini- zione degli aspetti relativi alla formaz. alle Regioni e Province Autonome, con il coinvolgimento delle Parti sociali e, nel caso dell’a. per il diritto-dovere, previa in- tesa del Ministeri dell’istruzione e del lavoro. Il necessario raccordo con gli stan- dard minimi dei percorsi dell’→ istruz. e → FP, previsti dalla L. 53/03 e non ancora definiti, ha di fatto impedito la regolamentazione dell’a. per l’assolvimento del di- ritto-dovere di istruz. e formaz.; pertanto, per l’assunzione dei minori continua ad applicarsi la disciplina precedente, che prevede la necessità di far partecipare gli apprendisti adolescenti ad attività esterne all’azienda della durata di 240 ore annue. L’a. professionalizzante è la tipologia sulla quale si è concentrato finora l’interesse delle imprese, vista la possibilità di utilizzare tale strumento per assumere giovani dai 18 ai 29 anni di età. Il D.lgs. 276/03 ha introdotto l’obbligo di allegare al con- tratto di assunzione un piano formativo individuale, che individui gli → obiettivi formativi da raggiungere nell’ambito dell’a.; tale piano deve far riferimento ai pro- fili formativi definiti a livello regionale, che a loro volta sono elaborati sulla base dei profili professionali che saranno individuati e descritti nel costituendo “Reper- torio nazionale delle professioni”. Nell’a. professionalizzante è obbligatoria un’atti- vità di formaz. formale pari ad almeno 120 ore annue, da svolgersi in strutture for- mative o all’interno delle imprese. Il forte interesse delle imprese ha spinto molte Amministrazioni regionali a regolamentare l’a. professionalizzante, emanando una legge o promuovendo sperimentazioni basate su intese con le Parti sociali. Tut- tavia, a distanza di tre anni dall’emanazione del D.lgs. 276/03 ancora in ca. metà delle Regioni l’a. professionalizzante non è stato regolamentato; tale ritardo è alla base dell’emanazione della L. 80/05, che consente ai contratti collettivi di dettare una disciplina transitoria, valida su quei territori in cui manchi ancora una regola- mentazione regionale. L’a. per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formaz. è la tipologia più innovativa per il sistema italiano e quindi utilizzata per ora in forma sperimentale, per lo più nell’ambito di progetti promossi dal MLPS. Tale tipologia di a. è imperniata sulla definizione di accordi territoriali ampi fra i diversi soggetti coinvolti: Regioni, Parti sociali e soggetti abilitati a rilasciare il ti- 30 tolo che gli apprendisti dovranno conseguire al termine dell’a. Gli accordi devono indicare la durata e l’articolazione dei percorsi, identificando l’impegno di formaz. e le modalità di svolgimento dell’→ alternanza, valorizzando il ruolo formativo dell’azienda ai fini dell’acquisizione di crediti validi per ottenere il titolo finale. 2. La riforma dell’a. con la definizione di tre diverse tipologie da un lato ha rinfor- zato il ruolo formativo dello strumento, introducendo dispositivi come il piano for- mativo individuale, i profili formativi, il “Repertorio delle professioni” e così via, dall’altro lato non ha risolto alcuni problemi evidenziati già in precedenza: il → fi- nanziamento insufficiente delle attività formative, visto che le risorse attualmente disponibili consentono di finanziare appena un quarto degli apprendisti assunti, e il gap territoriale per il quale alcune Regioni, in particolare del Mezzogiorno, ancora stanno muovendo i primi passi nella definizione di un sistema di formaz. per l’a. Pur avendo identificato tre tipologie di a., la riforma ha mantenuto un unico sistema di incentivazione e un meccanismo piuttosto rigido (anche se più favorevole agli ap- prendisti rispetto al precedente) di determinazione dei salari; pertanto, sono scarsi i margini per compensare il maggiore impegno formativo richiesto da tipologie di a. quali quello per il diritto-dovere e quello “alto” con risparmi nel salario o contribu- tivi e quindi la domanda di lavoro si concentra sul solo a. professionalizzante. Bibl.: BOSCO G., Il sistema preventivo, Introduzione e note di G. Modugno, Firenze, La Nuova Italia, 1945; CEDEFOP, Il sistema di formazione professionale in Italia, Lussemburgo, Ufficio delle pubbli- cazioni ufficiali della Comunità Europea, 2000; ISFOL, Il nuovo apprendistato. Rapporto 1999, Mi- lano, F. Angeli, 2000; ISFOL, La sfida dell’alternanza. Rapporto sul 2001, Milano, F. Angeli, 2002; ISFOL, L’apprendistato vola alto, Milano, F. Angeli, 2003; ISFOL, La transizione dall’apprendistato agli apprendistati - Monitoraggio 2004-05, I Libri del FSE, 2006. S. D’Agostino AREA FORMATIVA L’espressione a.f. può assumere una molteplicità di significati a seconda dei con- testi di riferimento. Ad es., in ambito universitario oggi si distingue tra diverse a. f.: sanitaria, scientifica, sociale umanistica, ecc. Afferiscono a queste a. f. numerose classi di lauree, ad es. le lauree in scienze dell’→ educ. e della → formaz. e in filo- sofia per quanto concerne l’area umanistica. In molti progetti formativi, anche di tipo tecnico-professionale, si attribuisce all’espressione a.f. il significato di inter- venti formativi che hanno di mira la crescita del formando in alcune sue dimensioni personali, come → motivazioni, interessi, comportamenti, ecc. In alcuni progetti di → FP si è distinto tra a.f. culturale e a.f. professionale, in altri tra area della formaz. del cittadino e area della formaz. del lavoratore. 1. Più puntualmente nella Conferenza Stato Regioni del 19 gennaio 2004 si è ri- presa una distinzione già prevista dalla Conferenza unificata Stato Regioni del 6 febbraio 2001, che individuava in quattro aree la cultura di base che un adulto deve possedere: socio-economica, dei linguaggi, scientifica, tecnologica. La elencazione 31 degli → standard formativi minimi per le → competenze di base viene di conse- guenza articolata tra area dei linguaggi, area scientifica, area tecnologica, area sto- rico-socio-economica. 2. In questo quadro è possibile proporre una definizione di a.f. che fa riferimento alle fondamentali finalità formative che, attraverso le attività messe in atto nel suo contesto, si intendono perseguire. Di qui un uso che di volta in volta andrà chiarito specificando appunto tali finalità. Ad es., nel precitato Accordo Stato Regioni si af- ferma: “Gli standard si riferiscono ad un’accezione di competenze di base più ampia di quella tradizionalmente utilizzata nella formazione professionale, in quanto non sono concepiti solo in riferimento all’occupabilità delle persone, ma anche al fine di garantire i pieni diritti di cittadinanza a partire dal possesso di un quadro culturale di formazione di base. La divisione tra le aree ha la funzione di ac- corpare le competenze in esito ai percorsi formativi e non coincide necessariamente con l’articolazione scolastica delle discipline”. In questo contesto, dunque, si tratta di un’articolazione per aree delle competenze che fanno riferimento a una cultura di base del cittadino (→ cittadinanza; → educ. alla cittadinanza democratica). 3. Si può cercare di verificare quanto di queste competenze culturali di base corri- sponde alle → competenze chiave previste dai recenti documenti della Commis- sione europea. Queste ultime si articolano secondo vari ambiti: ambito della → co- municazione nella lingua madre; ambito della comunicazione in → lingua straniera; ambito della matematica e scientifico di base; ambito delle competenze digitali. Questi ambiti corrispondono, almeno concettualmente, alle prime tre aree in cui si articolano gli standard minimi di base. A questi ambiti si aggiungono i seguenti: ambito delle competenze interpersonali e civiche; ambito dell’imprenditorialità, ambito dell’espressione culturale. Qui la corrispondenza è assai più sfumata con la quarta area degli standard. È facile notare come queste ultime competenze tendono a collocarsi più nell’ambito delle cosiddette competenze trasversali che in quelle di base. Se ci si riferisce alla classificazione introdotta dall’ISFOL circa le compe- tenze da promuovere nei percorsi formativi, questa individua una ulteriore modalità di concettualizzare l’espressione a.f.: a.f. di base, a.f. trasversale, a.f. tecnico-pro- fessionale. È l’utilizzazione che più o meno esplicitamente è stata adottata nella elaborazione dei progetti di IFTS. 4. Infine, è possibile individuare una articolazione che dalla L. 53/03 è costante- mente adottata quando si parla dei profili educativo, culturale e professionale ai quali fare riferimento ai vari livelli di scolarità. Qui si allude a tre grandi aree for- mative: quella più propriamente educativa, a cui fa riferimento la stessa legge al- l’art. 2; quella culturale e quella professionale. Si può notare come in quest’ultimo caso si accentua, anche dal punto di vista terminologico, il carattere proprio di un sistema che vuole definirsi “educativo”, in quanto rivolto in genere a soggetti mi- nori ancora in fase evolutiva, e che nel passato veniva incluso nella dizione pro- getto educativo e didattico o in quello di piano dell’offerta formativa. 32 5. È chiaro a questo punto che l’espressione “a.f.” è un’espressione polisemica. Essa acquista significati diversi a seconda dei contesti e delle dichiarazioni di senso che nei documenti vengono indicate o che possono essere inferite dall’uso che in essi viene fatto. Ci si può chiedere allora perché tale espressione viene introdotta così spesso. La ragione che sembra prevalente è quella di individuare un’articola- zione che da una parte distingua ambiti abbastanza omogenei di intervento educa- tivo o formativo e dall’altra segnali che nel concreto dell’azione formativa essi non possono essere considerati come zone o settori separati e non comunicanti. Il pro- getto formativo deve essere unitario, anche se per necessità di chiarezza comunica- tiva e per favorire l’individuazione delle responsabilità specifiche dei diversi opera- tori occorre precisare l’ambito di loro intervento. Bibl.: ISFOL, Unità capitalizzabili e crediti formativi. I repertori sperimentali, Milano, F. Angeli, 1998; ISFOL, Dalla pratica alla teoria per la formazione: un percorso di ricerca epistemologica (a cura di C. Montedoro), Milano, F. Angeli, 2001; MONASTA A., Organizzazione del sapere, discipline e competenze, Roma, Carocci, 2002; PELLEREY M., Le competenze individuali e il portfolio, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 2004. M. Pellerey AREE PROFESSIONALI L’espressione a.p. indica la tendenza, da parte di figure lavorative sottoposte al pro- cesso di cognitivizzazione, ad aggregarsi in modo da evidenziare la propria pecu- liarità culturale, organizzativa, professionale al fine di affermare una specificità tendenzialmente rilevante anche dal punto di vista della rappresentanza, della tutela e della → formaz. Si tratta di un processo altrimenti definito come → “comunità professionali” oppure “gruppi professionali” ed – in parte – “comunità di pratiche”. 1. Tale impostazione corrisponde ai caratteri della attuale → società della cono- scenza che non giustifica più una visione gerarchica e classista dei saperi e quindi dei percorsi degli studi, ma sostiene il valore del carattere culturale di ogni espe- rienza di → apprendimento formale, informale e non formale. In particolare, l’atti- vità professionale non è più intesa nella logica fordista come somma di → abilità e → conoscenze necessarie per l’espletamento di → mansioni e → ruoli professionali prescritti una volta per tutte, ma risulta strettamente connessa ad una concezione autentica di → competenza. Questa non si identifica né con una performance, né con una somma di performance; non è riducibile né a un sapere, né a ciò che si è acquisito con la formaz. Essa si riferisce ad un contesto che esprime un’area di compiti rispetto ai quali viene esercitata una competenza distintiva. 2. Risulta necessario superare la prospettiva specialistica per quella più ampia e ag- gregata della comunità professionale, in modo che i giovani siano consapevoli delle trasformazioni e delle necessarie nuove acquisizioni che consentano di essere prota- gonisti di uno scenario fortemente dinamico. Emerge in questo senso il carattere so- ciale dell’apprendimento che risulta da un rapporto di collaborazione triangolare tra 33 istituti/centri, imprese/ordini professionali e territorio in modo da garantire non solo una maggiore coerenza tra qualificazione ottenuta e effettivo → lavoro svolto, ma permette anche una maggiore realizzazione e soddisfazione personale, posizioni economiche più vantaggiose e un ruolo sociale più costruttivo e riconosciuto. Bibl.: PONTECORVO C. - A.M. AJELLO - C. ZUCCHERMAGLIO, I contesti sociali dell’apprendimento. Ac- quisire conoscenze a scuola, nel lavoro, nella vita quotidiana, Milano, LED, 1995; PRANDSTRALLER G.P. (Ed.), Guardare alle professioni, Milano, F. Angeli, 1997; GIANNINI M. - E. MINARDI, I gruppi professionali, Milano, F. Angeli, 1998; BOLDIZZONI D. - L. MANZOLINI (Edd.), Creare valore con le ri- sorse umane. La forma dei nuovi paradigmi nella direzione del personale, Milano, Guerini & Asso- ciati, 2000; NICOLI D., Famiglie professionali e competenze. Nuovi riferimenti per l’analisi delle pro- fessioni e la formazione, in “Rassegna CNOS” 2 (2001)17, 29-46. D. Nicoli - C. Catania ASSOCIAZIONI 1. Identità e natura. Il termine a. identifica una pluralità di individui stabilmente organizzata per l’identificazione e la gestione di un interesse comune, che supera gli interessi meramente individuali dei partecipanti. In questa accezione, il termine a. (in senso ampio) ricomprende una vasta gamma di fenomeni e di fattispecie, dalla aggregazione spontanea tra persone, alla → società, al → sindacato, al partito, fino al cartello industriale. Conseguentemente, soprattutto dal punto di vista giuri- dico, non vi sono norme comuni applicabili a tutte le figure e le forme associative, che pertanto si possono organizzare con modalità assai divergenti tra loro. Co- munque, il perseguimento di interessi comuni costituisce oggetto di un impegno contrattualmente assunto dai membri nei loro reciproci rapporti. 2. Caratteristiche strutturali. Perché si abbia un’a. in senso proprio (semplicemente de facto o riconosciuta) si devono riscontrare precise caratteristiche strutturali: avere forma e sostanza di un → contratto plurilaterale con possibilità di successive adesioni di ulteriori membri; dare vita ad una organizzazione stabile ed unitaria (statuto, regolamenti, organi); essere connotata da uno scopo di natura ideale o co- munque non economico. Le divergenze dallo schema tipico dell’a. in senso stretto sono comunemente ritenute legittime, in virtù del principio dell’autonomia contrat- tuale, per cui esse danno origine ad una pluralità di a. atipiche, che debbono co- munque avere una caratteristica comune nella fattispecie contrattuale. Rientrano in- vece nella categoria delle a. in senso ampio aggregazioni diverse, tra le quali si debbono annoverare i Consorzi di varia natura; le a. di professionisti con rilevanza esterna; le società cooperative (a metà strada fra l’a. in senso stretto e le società); i Comitati, che dispongono perlopiù di un patrimonio proveniente da non associati. 3. A., terzo settore, rappresentanza sociale. Con riferimento al contesto italiano, gli spazi di autonomia delle a. cominciano ad allargarsi negli anni ‘90 con il manife- starsi della tendenza al decrescere degli iscritti al sindacato e la minore partecipa- zione delle persone nei partiti. Le tendenze di fondo sono quelle di ricercare moda- 34 lità nuove di autogestione dei processi rivolti sia alla soluzione dei propri problemi (dal desiderio di stare insieme disinteressatamente a quello di fare impresa mutuali- stica non profit) e sia alla soluzione disinteressata dei problemi altrui (volontariato gratuito). Si avviano così le esperienze di un associazionismo nuovo: il cosiddetto “terzo settore”, che si distingue dal “primo settore” (con ruolo preminente dell’as- sociazionismo partitico – statuale) e dal “secondo settore” (ispirato alla → solida- rietà prevalente negli interessi economici), aveva dato avvio ad un sistema auto- nomo di rappresentanza degli interessi generali dello sviluppo economico collettivo e delle economie locali. Il “terzo settore” sviluppa attualmente una esperienza asso- ciativa che include anche le imprese non profit e le ONLUS, a. che non possono distribuire gli utili ai soci dovendo destinarli a programmi del proprio sviluppo e di utilità collettiva. Con questa collocazione, l’associazionismo del “terzo settore” cerca di dare una risposta che consenta alle a. e al volontariato sociale di disporre di un luogo istituzionale pubblico locale (rappresentanza sociale), nel quale pos- sano esprimersi e promuovere lo sviluppo della cultura della solidarietà, della sus- sidiarietà e dell’impresa non profit. Bibl.: DE MARTINI C., Le associazioni e le fondazioni, Milano, ETAS,1990; VALENTINI A., Cittadini associati senza rappresentanza sociale, Napoli, Tecnodid, 1997; GIUDUCCI P.L., Rapporto sul volonta- riato, Lumann (TO), ElleDiCi, 1998. P. Ransenigo AUTONOMIA L’a. scolastica/formativa consiste nell’assicurare ad ogni scuola/ → CFP potere d’i- niziativa e risorse sufficienti per elaborare e realizzare un suo progetto (o suoi pro- getti) e costruirsi una propria → identità. 1. Il modello dell’a. si contrappone all’impostazione centralistica che consiste nel- l’accentramento del potere di direzione nel Ministero, mentre agli → Enti locali e alle singole scuole/CFP viene assegnata una funzione semplicemente esecutiva. È la formula che ha caratterizzato la nostra amministrazione scolastica fino quasi ai nostri giorni. L’a. si distingue anche dal decentramento che si limita a potenziare i poteri delle autonomie locali e territoriali (Regioni, Province e Comuni) in quanto articolazioni dello Stato, ma mantiene un rapporto gerarchico tra le componenti del sistema. Al contrario, la vera a. si fonda sul riconoscimento di competenze e diritti originari in particolare alle scuole/CFP. In Italia, con la recente riforma del Titolo V della Costituzione n. 3/2001 si è realizzato definitivamente il passaggio da un mo- dello fondato sulle esclusive prerogative dello Stato ad uno che fa interagire in ma- niera integrata tre diverse competenze: quella dello Stato, quella delle Regioni e degli Enti territoriali e quella delle istituzioni scolastico-formative autonome. Co- munque, il cuore dell’a. è costituito dal riconoscimento della competenza proget- tuale: ogni scuola/CFP dovrà essere messa in grado di elaborare un proprio pro- getto educativo in cui si rispecchi la sua identità. A questo proposito devono essere 35 attribuiti ad ogni unità scolastico-formativa poteri adeguati di a. didattica, forma- tiva, organizzativa e finanziaria. 2. La scelta dell’a. corrisponde anche a un orientamento comune a tutti i Paesi. In- fatti, essa permette alla comunità educativa (→ comunità educativo formativa) di costruirsi sulle esigenze formative dei suoi membri, favorisce la corrispondenza con la domanda sociale e facilita l’emergere di tutte le potenzialità valide, presenti in ciascuna unità scuola/CFP. Inoltre, le probabilità di successo di un’innovazione sono maggiori quando l’insegnante ne è partecipe, la sente propria, ha contribuito personalmente ad elaborarla, approvarla, attuarla. Bibl.: FIORIN I. - D. CRISTANINI (Edd.), Le parole dell’autonomia, Torino, Petrini, 1999; BERTAGNA G. - S. GOVI - M. PAVONE, POF. Autonomia delle scuole e offerta formativa, Brescia, La Scuola, 2001; OSSERVATORIO SULLA SCUOLA DELL’AUTONOMIA - FONDAZIONE PER LA SCUOLA DELLA COMPAGNIA S. PAOLO (Ed.), Rapporto sulla scuola dell’autonomia 2004, Roma, LUISS University Press/Ar- mando, 2004; BENADUSI L. - F. CONSOLI (Edd.), La governance della scuola, Bologna, Il Mulino, 2004; DE ANNA F. Autonomia scolastica e rendicontazione sociale. Dal POF al bilancio sociale, Mi- lano, F. Angeli, 2005. G. Malizia BILANCIO DI COMPETENZE → Orientamento; → Destinatari; → Accompagnamento al lavoro BISOGNI FORMATIVI Vari sono gli approcci possibili e le modalità di analisi dei b.f. Una prima distin- zione riguarda l’ambito, che può essere aziendale o istituzionale; una seconda i li- velli (locale, nazionale, internazionale); una terza i settori o comparti produttivi; una quarta i soggetti: il “committente” o i soggetti in → formaz. (Ghiotto, 1992). Le stesse definizioni di b.f. risentono di tali impostazioni. Per alcuni, i b.f. sono “specifiche esigenze connesse alla preparazione professionale dei singoli, che hanno come contenuto ciò che gli individui fanno, ciò che si propongono di fare ed il modo con cui lo fanno, in riferimento alla loro relazione con l’organizza- zione ed all’articolazione del loro mondo sociale” (Camuffo - Comacchio - Gerli, 2000, 51). Pertanto sono i b.f. inerenti la → FP. Col termine “fabbisogni forma- tivi” si intendono quelli del sistema economico, in un determinato territorio. In questo caso, il fabbisogno formativo viene definito come il divario fra le capacità lavorative attuali delle → risorse umane del territorio – esprimibili in un “sapere” e in un “saper fare”, generali e specifici – e quelle necessarie, in senso qualitativo, al raggiungimento degli obiettivi economici prefissati. Già queste diversità di ap- procci e letture dei b.f. indicano la non univocità del concetto. In ogni caso vanno tenuti presenti tutti gli attori del sistema: le → imprese, le persone da formare, l’i- stituzione formativa; il tutto inserito in un contesto sociale, economico, politico e culturale più ampio. 36 1. I b.f. degli adolescenti. Una questione spesso dimenticata in questo tipo di ana- lisi è la componente soggettiva dei → destinatari della formazione, in genere adole- scenti. Ci si dimentica che essi sono “persona” con esigenze irriducibili all’eroga- zione della sola istruz. e FP. La condizione adolescenziale e giovanile è particolar- mente problematica e richiede la soddisfazione di particolari b., che riguardano so- prattutto la formaz. della personalità, l’integrazione nella società e nel gruppo dei pari, il contatto con persone significative di riferimento, ecc. La frustrazione di questi b.f., materiali, relazionali ed esistenziali nell’adolescenza genera → disagio. 2. I fabbisogni formativi. Con l’espressione “fabbisogni formativi”, si intende il gap esistente tra sistema economico e sistema sociale, che produce depressione economica e disoccupazione. Da questo punto di vista è importante stimolare le ca- pacità imprenditoriali di un determinato territorio per provvedere meglio ai b. dei soggetti che lo abitano. Pertanto è importante prevedere per tempo l’andamento dell’economia e fare dei piani di occupabilità appropriati. In questo quadro, le im- prese devono immaginare i propri fabbisogni di figure/competenze professionali e richiedere al → sistema formativo di preparare dei → profili professionali adeguati. L’istituzione scolastica o formativa dovrà mediare tra esigenze delle imprese e quelle degli allievi. Attraverso una offerta adeguata cercherà di orientare il giovane a sviluppare le sue → capacità in vista di un probabile impiego. Ma dovrà anche cercare di orientare il sistema produttivo ad evolversi in ragione delle risorse umane presenti nel territorio. Il prosieguo del progetto dovrebbe prevedere l’in- contro tra domanda e offerta, in modo da ottenere una miglior conoscenza e distri- buzione delle risorse, promuovere l’attivazione o lo sviluppo delle risorse carenti. Ovviamente l’incontro tra domanda e offerta è un problema mai adeguatamente ri- solto. Ma bisogna evitare soluzioni unilaterali. 3. L’analisi dei b. Per fare dei progetti di formaz. è importante l’analisi dei b.f. Essa si configura come una → ricerca vera e propria. Lo scopo è rilevare i b. pre- senti nel territorio, quali vengono frustrati, a quali è possibile rispondere. Per questo, è importante censire anche le risorse del territorio, come sono sfruttate, quali strategie sono necessarie per un miglior utilizzo/distribuzione, quali vanno implementate o create. Dal punto di vista economico e professionale, l’obiettivo sarà quello di prevedere il tipo di sviluppo occupazionale, immaginando i fabbi- sogni di figure/competenze professionali. La ricerca rileverà le competenze già pre- senti sul territorio. In base a questo confronto, nascerà il piano formativo di zona. Bibl.: GHIOTTO G., “Analisi del fabbisogno formativo”, in ISFOL, Glossario di didattica della forma- zione, Milano, F. Angeli, 1992, 44-51; BESOZZI E. (Ed.), Navigare tra formazione e lavoro, Roma, Ca- rocci, 1998; BRAMANTI D., La progettazione formativa, Roma, Carocci, 1998; ZANI B., “Bisogni affet- tivi e relazionali in adolescenza”, in A. PUTTON, Empowerment e scuola. Metodologia di formazione nell’organizzazione educativa, Roma, Carocci, 1999, 38-48; CAMUFFO A. - A. COMACCHIO - F. GERLI, Piccoli grandi capi. competenze per la produzione flessibile, Milano, ETAS, 2000; ALESSANDRINI G., Risorse umane e new economy. Formazione e apprendimento nella società della conoscenza, Roma, Carocci, 2001; LAZZARINI G. - A. CUGNO (Edd.), Verso il domani. Dai bisogni di orientamento alla promozione dell’intervento, Milano, F. Angeli, 2002. G. Vettorato 37 BULLISMO Il termine b., neologismo ormai molto diffuso nel linguaggio soprattutto in ambito scolastico, è una traduzione letterale del termine inglese bullying e sta ad indicare una particolare forma di aggressività esternalizzata tra pari. Originariamente, so- prattutto nei Paesi scandinavi, sono stati usati anche i termini → mobbing e mobb- ning, per indicare lo stesso fenomeno di azione aggressiva agita da parte di un gruppo. Con gli studi di Olweus (1978; 1993; 1999), si assume il significato di una azione riferita sia al gruppo sia all’individuo. L’A. riporta la seguente definizione “uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni” (Olweus, 1993, 11-12). Ricerche successive evidenziano la presenza di tre elementi principali presenti nel fenomeno del b. L’in- tenzionalità dell’azione prevaricatrice da parte del “bullo” che deliberatamente cerca di offendere, far del male e creare situazioni di disagio agli altri. In secondo luogo, la persistenza del fenomeno. Si evidenziano, infatti, azioni di prevaricazione ripetute nel tempo e nello spazio che tendono a perpetuare la relazione conflittuale persecutore/vittima. Il terzo elemento che connota questa particolare forma di ag- gressività è la tipologia della relazione che si configura sempre come asimmetrica, cioè basata su un disquilibrio di forze tra il prevaricatore che è in posizione di forza rispetto alla vittima, la quale non riesce a difendersi a motivo della percepita debo- lezza, fragilità e impotenza. Si possono individuare tre forme di b.: a) b. verbale, quando l’aggressività viene agita tramite offese, prese in giro, ingiurie; b) b. fisico, quando la vittima viene sottoposta ad aggressioni rivolte alla sua persona e/o alle sue cose; c) b. indiretto, quando uno studente viene intenzionalmente escluso dalle attività del proprio gruppo di appartenenza o sottoposto a calunnie e dicerie. 1. Anche nel nostro Paese sono state condotti studi e ricerche al riguardo. Viene re- gistrata una specificità, legata all’eccessivo numero di soggetti coinvolti nella po- polazione scolastica (ca. 40% degli intervistati). Tale risultato, che ci pone di gran lunga ai primi posti tra le popolazioni scolastiche in tutto il mondo, fa sorgere dei dubbi sulla validità degli strumenti utilizzati per rilevare il fenomeno, soprattutto in riferimento all’utilizzo del termine per descriverlo. Per questo motivo, i ricercatori italiani (Fonzi,1997; 1999; Menesini, 2000), poiché non si dispone di un termine analogo all’inglese bullying, ricorrono, nella traduzione del questionario di Olweus, ad una definizione di tipo descrittivo: “diciamo che un ragazzo subisce delle prepo- tenze quando un altro ragazzo o un gruppo di ragazzi gli dicono cose cattive e spia- cevoli. È sempre prepotenza quando un ragazzo riceve colpi, pugni, calci e mi- nacce, quando viene rinchiuso in una stanza, riceve bigliettini con offese e paro- lacce, quando nessuno gli rivolge mai la parola e altre cose di questo genere. Questi fatti capitano sempre e chi subisce non riesce a difendersi. Si tratta sempre di pre- potenze anche quando un ragazzo viene preso in giro ripetutamente e con catti- veria. Non si tratta di prepotenze quando due ragazzi, all’incirca della stessa forza, litigano tra loro o fanno la lotta”. 38 2. Gli interventi, soprattutto di tipo preventivo, sembrano dare dei buoni risultati. Si riesce, infatti, a diminuire del 70-75% l’incidenza del fenomeno all’interno di una comunità scolastica. Tali interventi, di tipo sistemico, sono destinati all’intera co- munità scolastica (dirigenza, docenti, genitori, personale ausiliario, gruppi classe), ai cosiddetti “bulli” e alle “vittime”. Mentre per i prevaricatori risultano essere effi- caci metodologie d’intervento orientate all’incremento della capacità empatica nei confronti delle vittime, gli interventi rivolti a quest’ultime mirano, essenzialmente, all’incremento delle capacità assertive per un più adeguato inserimento nel gruppo classe. Tuttavia, l’elemento cruciale per ottenere una significativa diminuzione del fenomeno, è determinato dalla conoscenza in tempo reale degli eventi persecutori e dall’intervento diretto da parte degli adulti della comunità. Bibl.: OLWEUS D., Aggression in the school: Bullies and whipping boys, Washington D.C., Hemi- sphere, 1978 (trad. it. L’aggressività a scuola, Roma, Bulzoni, 1983); ID., Bullying at school. What we know and what we can do, Oxford, U.K., Blakvell Publisher, 1993 (trad. it. Il bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Firenze, Giunti, 1996); FONZI A. (Ed.) Il bullismo in Italia. Il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia, Firenze, Giunti, 1997; ID., (Ed.), Il gioco crudele. Studi e ricerche sui correlati psicologici del bullismo, Firenze, Giunti, 1999; OLWEUS D., “Sweden”, in P.K. SMITH et al. (Edd.) The nature of school bullying. A cross national perspective, London, Routledge, 1999, 7-27; MENESINI E., Bullismo. Che fare?, Firenze, Giunti, 2000. M. Becciu BUONE PRATICHE Esperienze significative per l’efficacia dei risultati ottenuti, per le caratteristiche di qualità interna e per il contributo alla risoluzione di problemi specifici del contesto nel quale si sono realizzate; per tali motivi ne viene proposta l’esportabilità in altri contesti. 1. Le b.p. sono innanzitutto progetti innovativi che, attraverso la → sperimenta- zione, sono diventati modelli di intervento efficaci per la disseminazione e la tra- sferibilità in altri contesti sociali. I requisiti principali che individuano e analizzano una b.p. sono: l’adeguatezza e la completezza del quadro progettuale e attuativo (un progetto/modello può essere innovativo e aver prodotto cambiamenti significativi ma, senza questo requisito, per altro sempre più diffuso come metodo di progetta- zione, vengono a mancare le condizioni per apprendere consapevolmente dall’espe- rienza realizzata); l’innovatività, ovvero la capacità del progetto/modello di pro- durre soluzioni nuove, creative e qualitativamente consistenti (sia in termini di pro- cessi che di prodotti) per il miglioramento delle condizioni iniziali o per la soddi- sfazione/soluzione del bisogno/problema originario; la riproducibilità, ossia la pos- sibilità offerta dal progetto/modello di essere riprodotto in presenza di problemi analoghi o simili a quelli che lo hanno originato; la trasferibilità, l’applicazione, quindi, del progetto/modello in luoghi e situazioni diversi da quelli in cui è stato realizzato; la sostenibilità, in altri termini l’orientamento del progetto/modello di fondarsi, in una visione prospettica, sulle risorse esistenti o capacità di generare 39 esso stesso nuove risorse; il mainstreaming, ossia la capacità di mettere in moto le risorse tecniche, culturali e umane di tutti i soggetti e le organizzazioni coinvolti. 2. Oltre agli elementi fin qui descritti, vengono diffusamente evocati altri requisiti più difficilmente rilevabili quali: l’efficacia o l’impatto generati dall’attuazione del progetto/modello in termini di capacità di produrre cambiamenti. La connessione con il mainstreaming è evidente, in quanto il cambiamento non può che partire dal coinvolgimento orizzontale e verticale dei soggetti operanti in uno stesso ambito. Le difficoltà di rilevazione dell’efficacia e dell’impatto di una b.p. risiede nella problematicità della misurazione dell’efficacia e della quantificazione degli impatti prodotti dall’iniziativa. Significativi apporti metodologici possono provenire dalla valutazione di progetto e dal → monitoraggio degli esiti ottenuti dalla messa in opera della b.p. I requisiti servono a tradurre la b.p. in lezioni applicabili in contesti locali diversi da quelli ove essa è nata. Una volta estratti dal contesto di origine, i contenuti dei suddetti requisiti devono essere rielaborati, combinandoli con le ca- ratteristiche del contesto ove si vogliono innestare per produrre un nuovo ciclo di → apprendimento che darà origine ad una nuova b.p. Il trasferimento non è, quindi, meccanico ma evolutivo: una b.p. è trasferibile solo se non riproduce se stessa, ma facilita l’attuazione di una nuova b.p.; buona perché funziona, quindi, nel contesto sociale nel quale si sta operando. 3. Una b.p. contribuisce al processo di apprendimento tra gli attori di una comunità sociale facendone crescere → competenza, → autonomia e responsabilità instau- rando un sistema di comunicazione interorganizzativo e interprofessionale sulle so- luzioni o sui modelli operativi attuati come patrimonio professionale e valoriale co- mune. Negli ultimi anni sono maturate diverse esperienze di individuazione, rac- colta e analisi delle b.p. concernenti i più svariati settori di intervento delle poli- tiche pubbliche (come ad es. nel campo ambientale o sociosanitario), compresi quelli direttamente coinvolti nelle politiche co-finanziate dal FSE: dal Governo e implementazione delle politiche locali per il → lavoro (b.p. e sviluppo locale) alla qualità dei sistemi di → FP (b.p. nella formaz.), agli interventi innovativi volti alla diffusione di forme di integrazione tra politiche sociali e del lavoro (b.p. e main- streaming). Bibl.: CATTAN C. (Ed.), Le buone pratiche nella formazione femminile, Roma, ISFOL, 2000; FRIGO F. (Ed.), Le buone pratiche nella formazione continua, Roma, ISFOL; ISFOL (Ed.), Le buone pratiche nella formazione per la creazione di impresa, nella certificazione e nella formazione a distanza, Roma, ISFOL, 2000; MONTEDORO C. (Ed.), Le buone pratiche della formazione iniziale, Roma, ISFOL, s.d.; ISFOL, Percorsi di innovazione: dal progetto al mainstreaming, Roma, CE - MLPS, 2001. G. Spagnuolo CAPACITÀ Le c. rappresentano i tratti o le caratteristiche della personalità del soggetto possedu- te su base innata e appresa, di natura non strettamente cognitiva, ma anche affettivo- 40 motivazionale, socio-interpersonale, coinvolte in numerosi compiti ed attività, e che delineano le sue potenzialità in ordine all’ → apprendimento ed al processo di inseri- mento sociale. Tali c., raramente coltivate in modo formale dalle istituzioni formati- ve, sono attualmente considerate preziose per l’adattamento personale, interpersona- le, scolastico e professionale. Esse riflettono i valori ed i contenuti propri dell’→ educ. che la persona vive specie nell’età evolutiva; si riferiscono quindi alla → fami- glia di appartenenza, alle agenzie educative e formative ma anche ai legami signifi- cativi individuali e di gruppo. In senso pedagogico, le c. indicano l’insieme delle po- tenzialità dell’allievo che richiedono di essere riconosciute (innanzitutto a favore del destinatario stesso) e attualizzate perché diventino vere e proprie → competenze. 1. Prospettiva psicologica. L’espressione “c. personali” è vista essenzialmente in una prospettiva di psicologia dell’apprendimento. L’attenzione alle c. personali va di pari passo con l’assunzione del concetto di “intelligenze multiple” che indica l’e- sistenza di diversi stili di apprendimento da parte dei soggetti, in forza dei quali cia- scuno delinea un proprio → progetto personale che è posto alla base delle azioni volte al “successo formativo” di ciascuno, che non è un traguardo uguale per tutti, ma, appunto, va misurato sul “valore aggiunto” che ciascuno è riuscito a raggiunge- re sulle sue c. personali. Si tratta quindi di cogliere la struttura individuale della per- sonalità, da cui trarre caratteristiche peculiari di ciascuno, per poi individuare le le- ve dei processi di → orientamento e di apprendimento. Vengono pertanto considera- te, in questa prospettiva, talune caratteristiche in grado di influenzare il → successo accademico e professionale, quali la c. di canalizzare le proprie energie per raggiun- gere un obiettivo, la facilità relazionale, l’atteggiamento nei confronti di situazioni impegnative, la c. di autocontrollo, l’apertura mentale. Goleman (1998) parla a que- sto proposito di intelligenza emozionale intendendola come una meta-abilità che consente alla persona di esercitare un controllo sulla propria vita emotiva al fine di consentirle un controllo delle risorse in suo possesso. Un aspetto della personalità dimensione fortemente indagata è costituita dall’autostima che indica “l’acquisizio- ne di una realistica conoscenza di se stessi, delle proprie capacità e potenzialità, dei propri interessi e valori, ma anche dei propri limiti e difficoltà” (Castelli, 2002, 135). Becciu e Colasanti (2003) propongono una classificazione basata sulle diverse variabili coinvolte nella situazione apprenditiva e/o di lavoro: l’“Io” che include le c. che riguardano la consapevolezza, la valutazione e la promozione della propria realtà personale; gli “Altri”, ovvero le c. che rendono produttivo e soddisfacente il rapporto con le persone con le quali si entra i contatto; il “Compito” che include le c. che consentono di far fronte con efficacia alle richieste e ai problemi insiti in una determinata attività; infine il “Contesto” che raggruppa le c. che facilitano l’integra- zione e l’inserimento produttivo in un ambiente organizzativo e di lavoro. 2. Prospettiva pedagogica. In chiave pedagogica, Bertagna (2001) parla di c. po- tenziali, o c. buone. Le prime si collegano al problema di far sì che ciascuno rea- lizzi al meglio possibile se stesso, ovvero che sviluppi e metta in atto al meglio il suo essere potenziale, rimovendo gli ostacoli che le limitino e le deformino. Le se- 41 conde indicano le c. migliori che la persona possiede in quanto essere umano, e im- pegnano l’educatore a dichiarare quali sono appunto le c. che meritano di essere promosse al meglio. Ciò significa mirare a che queste vengano trasformate in com- petenze tramite l’insieme delle attività e delle istituzioni educative esistenti nella → società. La scuola realizza tale trasformazione in modo programmatico ed intenzio- nale, utilizzando a tale scopo le → conoscenze organizzate, ma altre forme di ap- prendimento agiscono su altri codici e con altre modalità di apprendimento anche occasionale ma non per questo meno rilevanti. Bibl.: GARDNER H., Intelligenze multiple, Milano, Anabasi, 1994; GOLEMAN D., Lavorare con intelli- genza emotiva, Milano, Rizzoli, 1998; DE PIERI S., Orientamento educativo e accompagnamento vo- cazionale, Leumann (TO), ElleDiCi, 2000; BERTAGNA G., Verso i nuovi piani di studio, in “Annali dell’Istruzione, n. speciale Stati Generali dicembre 2001” 1-2 (2001) 246-277; CASTELLI C. (Ed.), Orientamento in età evolutiva, Milano, F. Angeli, 2002; BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, Roma, Tipografia Pio XI, 2003. D. Nicoli CAPITALE SOCIALE Il c.s. rappresenta la rete di relazioni personali che un individuo può mobilitare di- rettamente per perseguire i suoi fini e migliorare la sua posizione sociale. Questa rete di relazioni non viene intesa unicamente sotto il profilo delle “referenze”, ma costituisce anche un modo per ampliare lo spazio delle opportunità di visione della realtà sociale e del → lavoro e quindi anche di → apprendimento. In questo senso, il c.s. viene utilizzato per spiegare il diverso grado di successo dei giovani nell’in- serirsi nel mondo del lavoro e nell’accrescere il loro c. umano, cioè le → cono- scenze e le → abilità apprendibili dall’esperienza. Diverse ricerche hanno messo in evidenza come, nel funzionamento del → mercato del lavoro, giochino un ruolo ri- levante le reti di relazioni in cui la singola persona è collocata. Granovetter mostra in modo convincente e innovativo come le → reti in cui la persona è collocata in- fluenzino le possibilità di trovare lavoro. In particolare, viene posta in luce la rile- vanza delle reti sociali nel funzionamento del → mercato del lavoro e nelle forme di organizzazione produttiva. Questo sistema di razioni che definisce il c.s. esprime bene la forza dei “legami deboli” ovvero di quelle dotazioni dell’individuo che non sono costituite solo dall’appartenenza sociale e dal livello economico; la disponibi- lità di reti di conoscenze più aperte, anche se non particolarmente intense, costi- tuisce la condizione che consente di ampliare le informazioni disponibili per i sog- getti nella ricerca di migliori posizioni lavorative. La riflessione in merito al c.s. rappresenta un correttivo rispetto alle rappresentazioni individualistiche del pro- cesso di inserimento sociale della persona, e ciò a causa della presenza nel contesto economico di una nuova configurazione reticolare che indica un modello stabile di transazioni cooperative tra attori derivante dall’intesa volontaria tra soggetti auto- nomi e indipendenti. L’era attuale presenta infatti una razionalità economica diame- tralmente opposta a quella propugnata da Smith che, in La ricchezza delle nazioni, 42 sosteneva la necessità della ricerca del vantaggio individuale contro quello collet- tivo; oggi, al contrario, è integrando l’attività economica di ciascuno in un reticolo di relazioni reciproche, mutuamente vantaggiose, pensato per ottimizzare lo sforzo collettivo, che il successo di ogni → impresa diviene più probabile. Essa indica l’e- sistenza di una mappa di relazioni personali che legano gli imprenditori e che può consentire di agire nel mercato anche in presenza di transazioni rischiose, perché sono il segnale della presenza di una risorsa cruciale: la fiducia. In questo senso, accanto al c. economico e culturale troviamo un nuovo tipo di c., chiamato appunto s., che agisce in forma di legame e consente a chi ne è parte di godere di un van- taggio – rispetto chi ne è escluso – dovuto propriamente alla fiducia che questa ap- partenenza gli attribuisce. In conseguenza, i → processi formativi e di inserimento nel modo del lavoro sono più efficaci se l’organismo formativo ed i docenti godono di fiducia presso le imprese di riferimento ed inoltre se si sono svolte iniziative di → alternanza presso contesti considerati significativi entro la comunità degli im- prenditori che decidono di questo inserimento. Bibl.: GRANOVETTER M., La forza dei legami deboli, Napoli, Liguori, 1973, 115-146; COLEMAN J., So- cial capital in the creation of human capital, in “American Journal of Sociology” 94 (1988); RIFKIN J., L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Milano, Mondadori, 2000; BAGNASCO A. - F.PISELLI - A. PIZZORNO - C. TRIGILIA; Il capitale sociale. Istruzioni per l’uso, Bologna, Il Mulino, 2001; PICHIERRI A., Introduzione alla sociologia dell’organizzazione, Bari, Laterza, 2004. D. Nicoli CENTRO DI FORMAZIONE PROFESSIONALE (CFP) Il CFP (o Centro di Formazione Polifunzionale, o Centro di Servizi Formativi, ma la prima dizione ormai tradizionale sembra continuare a prevalere) può essere defi- nito come “la sede operativa che opera per lo sviluppo delle → risorse umane, ero- gando: direttamente servizi formativi; (…) direttamente o avvalendosi di una sede accreditata per l’orientamento, servizi orientativi; (…) direttamente o avvalendosi di una struttura specialistica, servizi connessi all’inserimento lavorativo” (MLa- voro e della Previdenza Sociale. Ufficio Centrale O.F.P.L., 2001, 10). 1. Modello strategico, agenziale e comunitario. Agli inizi degli anni ‘90, la com- plessità sempre maggiore del ruolo che la → FP è chiamata a svolgere in quanto snodo centrale fra tre gruppi di sistemi (produttivo e scolastico; lavorativo e forma- tivo; della stratificazione sociale e della promozione dei ceti più deboli della → so- cietà) ha messo in crisi l’impostazione tradizionale del CFP, impegnato quasi esclu- sivamente nell’erogazione di interventi formativi di tipo corsuale per gli adolescen- ti. Nel dibattito che si è aperto sulle prospettive di sviluppo si sono fronteggiate grosso modo tre ipotesi. Nella impostazione strategica, il CFP è considerato come un sistema organizzativo connesso con il mondo esterno al quale offre servizi. A li- vello operativo, la realizzazione di una precisa programmazione e di un decentra- mento controllato richiede una direzione strategica con attenzioni nuove: a tale fine 43 sarebbe da preferire la struttura per progetti, con tutte le conseguenze di un’ampia delega, di un processo decisorio decentrato, → comunicazioni a doppio senso ad ogni livello, coordinamento per comitati, organizzazione del lavoro ispirata all’au- tocontrollo e clima favorevole allo sviluppo e all’innovazione. A sua volta, l’agen- zia di servizi formativi si caratterizza per un modello organizzativo orientato al mer- cato e attento al servizio prodotto. Dal punto di vista dei prodotti/servizi, essa inten- de superare una visione scolastica della → formaz. e, pertanto, si impegna non solo dal lato dell’offerta, ma soprattutto da quello dell’analisi della domanda e, in parti- colare, cerca di elaborare risposte. Sul piano organizzativo, le strutture devono ca- ratterizzarsi per i tratti di: flessibilità, adeguatezza e personalizzazione delle struttu- re, specializzazione per settori, imprenditività e managerialità. Le dimensioni del- l’agenzia sono ridotte perché in caso contrario non è possibile conseguire uno degli obiettivi che il mercato sociale richiede maggiormente: la flessibilità. Il modello co- munitario mette l’accento sulla centralità della formaz. che è opera comune ed esige un accordo di base su finalità, contenuti e → metodologie da parte di tutte le compo- nenti della FP. Ciò esige la costruzione di una comunità che sia al tempo stesso sog- getto ed → ambiente di → educ. La mission prevalente del CFP viene identificata nel servizio diretto alla persona e l’educando occupa il centro del → sistema forma- tivo. Sul piano organizzativo, il modello comunitario prevede che si realizzi una maggiore articolazione della figura del → formatore. La priorità accordata alla ma- turazione, soprattutto professionale, della persona e alla dimensione comunitaria ci fa dare la preferenza al terzo modello. È vero che esso ha da imparare dalla imposta- zione strategica quanto all’ambito organizzativo e strategico e in questo senso è va- lido lo sforzo di chi ha cercato di comporre le due prospettive in una ipotesi che è stata chiamata mista, che però non dovrebbe portare a una equiparazione dei tre am- biti, strategico, organizzativo e formativo, ma l’ultimo dovrebbe essere prevalente. A sua volta il modello agenziale trascura sia questa dimensione che quella comuni- taria, anche se sono corrette l’insistenza sulla domanda formativa e la preoccupazio- ne per un alleggerimento del nucleo dei formatori stabili. 2. La struttura della sede formativa. Una delle caratteristiche del nuovo CFP con- siste nella diversificazione dell’offerta formativa che sinteticamente viene ad ab- bracciare interventi sia corsuali (→ accoglienza, formaz. e inserimento), sia indivi- dualizzati (partecipazione individuale, tutoring sul lavoro, → FAD) (MLPS, 2001): anche da ciò discende il nome di Centro di formaz. “polifunzionale” che viene uti- lizzato dal CCNL per indicare la struttura operativa della FP. Per realizzare tali ser- vizi, i processi da innescare sono quelli che: “in un’ottica di qualità (qualità e ri- cerca), precedono (diagnosi, progettazione, promozione), accompagnano (monito- raggio), seguono (valutazione), la realizzazione (erogazione) dei servizi stessi” (Id., 13). Ciascuno dei processi si articola in aree operative che sono state identifi- cate nelle seguenti: diagnosi, progettazione, erogazione, → monitoraggio e → valu- tazione, promozione e → qualità e → ricerca. Per attivarle, il CFP deve poter con- tare sulla disponibilità di → competenze professionali relative ad otto funzioni: di 44 governo (direzione, amministrazione e coordinamento); di processo (analisi, pro- gettazione e valutazione); di prodotto (docenza e → orientamento). L’organi- gramma del CFP va completato con l’indicazione degli organismi collegiali: in pro- posito è opportuno sottolineare che negli ultimi anni a quelli tradizionali, come per es. il Consiglio di Centro con poteri decisionali notevoli sulle questioni più rile- vanti, il Consiglio di corso, le Assemblee dei genitori e il Comitato di controllo, si è aggiunto lo staff di direzione a cui vengono generalmente affidate funzioni di so- stegno al ruolo direttivo e di compartecipazione alle attività di conduzione del CFP. Bibl.: MALIZIA G. et al., Il direttore e lo staff di direzione come perno del rinnovamento organizzativo, Roma, CNOS-FAP, 1996; MLPS. UFFICIO CENTRALE O.F.P.L., Accreditamento delle sedi formative e orientative. DM 25 maggio 2001, n. 166, Accreditamento delle sedi formative e orientative, in GU n. 162 del 14.07.2001; ISFOL, Rapporto ISFOL, 2002, Milano, F. Angeli, 2003; NICOLI D., Il direttore dei Centri di Formazione Professionale CONFAP, in CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), Dirigere e coordinare le scuole. Scuola Cattolica in Italia, Sesto Rapporto, Brescia, La Scuola, 2004, 65-86; NICOLI D. (Ed.), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istru- zione e della formazione professionale, Roma, Tipografia Pio XI, 2004. G. Malizia CENTRO PER L’IMPIEGO → Servizi per l’impiego CERTIFICAZIONE DEGLI APPRENDIMENTI La c. degli a. rappresenta un’azione che mira a descrivere in modo sistematico le acquisizioni della persona, preferibilmente sotto forma di → competenze, e a regi- strarle in un formato condiviso tra i diversi attori del sistema educativo di → istruz. e → FP, compresi i soggetti economici. 1. L’azione di c., in quanto tale, non può essere concepita come una mera compila- zione, ma rappresenta un’azione complessa, tale da richiedere la soddisfazione di diversi criteri, tra cui: a) la comprensibilità del linguaggio, che deve riferirsi – in forma narrativa e non quindi con linguaggi stereotipati – a locuzioni e sintagmi che consentano ai diversi attori di visualizzare le competenze, b) l’attribuibilità delle competenze al soggetto con specificazione delle evidenze che consentano di conte- stualizzare la competenza entro processi reali in cui egli è coinvolto insieme ad altri attori, c) la validità dei metodi adottati nella → valutazione e validazione delle competenze stesse, con specificazione del loro livello di padronanza. 2. In campo professionale, tale processo prevede una attenta considerazione di pro- dotti/capolavori svolti in situazione reale e delle esperienze in tal modo realizzate dal candidato, con un intervento essenziale dei rappresentanti degli organismi partner (→ imprese, → enti, ecc.), oltre che dell’organismo formativo, i quali ne esplicitano il giudizio di validità. In tal modo, la valutazione-certificazione non si 45 realizza in rapporto a standard “scritti sulla carta”, ma in riferimento alla concreta realtà di esercizio delle competenze indicate con il coinvolgimento diretto dei partner sociali. 2. Circa il modello di c., si prevedono normalmente due fattispecie: a) la c. è legale quando si riferisce esclusivamente al titolo di studio posseduto; tale prospettiva non considera la questione del rapporto tra possesso del titolo e effettiva padronanza del- le acquisizioni, con conseguenze critiche nel passaggio dal livello formale a quello sostanziale; b) la c. è sociale quando il certificato cui ci si riferisce rappresenta una documentazione composita che consente di rendere trasparente – quindi leggibile entro categorie comprensibili – la dotazione della persona di → capacità, saperi, → abilità e competenze, in riferimento alle esperienze entro cui queste si sono formate. Bibl.: AUBRET J. - F. AUBRET - C. DAMIANI, Les bilans personnels et professionnels, Paris, Éditions Eap-Inetop, 1990; CEPOLLARO G. (Ed.), Competenze e formazione, Milano, Guerini & Associati, 2001; COMOGLIO M., La valutazione autentica e il portfolio, Roma, manoscritto, 2001; AJELLO A.M. (Ed.), La competenza, Bologna, Il Mulino, 2002; CIOFS/FP, Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa, Roma, Tipografia Pio XI, 2003. D. Nicoli CERTIFICAZIONE DELLE COMPETENZE Con il termine c. delle c. si intende un processo formalizzato che esita in un atto formale con cui un organismo pubblico o un → ente da esso abilitato, attesta ad una persona il possesso delle → competenze acquisite con riferimento ad una figura professionale/→ qualifica o parti di essa, e rilascia un attestato formale in seguito a → valutazione. In questo contesto si assume una definizione di competenze come “l’insieme delle conoscenze, abilità e/o competenze personali e sociali che un indi- viduo ha acquisito e/o è in grado di dimostrare dopo il completamento di un pro- cesso di apprendimento” (Commissione delle Comunità Europee, 2007, 9). Le competenze sono descritte in termini di risultati di → apprendimento in esito ad un percorso formale (istruz., → formaz., percorsi integrati), non formale (esperienza), informale. I “risultati di apprendimento” descrivono ciò che ci si aspetta un indi- viduo conosca, comprenda e sia in grado di fare al termine di un processo di ap- prendimento (Ministry of Science, Technology and Innovation , 2007); possono es- sere formulati in relazione a corsi individuali, unità, → moduli formativi, percorsi di istruz. e formaz. Possono inoltre essere utilizzati dalle autorità nazionali per defi- nire i sistemi di qualifiche ai diversi livelli. Gli organismi internazionali possono usare i risultati di apprendimento per scopi di trasparenza, comparabilità, trasferi- mento dei → crediti e riconoscimento dei titoli. L’attestato di qualifica costituisce la tipologia di “prodotto” del sistema di formaz., conseguibile in esito ai diversi tipi di processo formalizzato e concluso. Per i diversi tipi di certificati (titoli, certificati IFTS, dichiarazioni, ecc.) sono definiti specifici format che rispettano standard mi- nimi di trasparenza e leggibilità (Accordo in CU, 28.10.04). Secondo l’OCDE un 46 certificato è un documento ufficiale che registra una qualifica ottenuta e la valida- zione dell’apprendimento (OCDE, 2005). 1. È possibile individuare altri processi o fasi di processo che possono portare alla c. delle c.: 1) la “descrizione” indica un processo formalizzato ed i relativi dispositivi per la messa in trasparenza all’individuo ed alla comunità gli apprendimenti di cui il soggetto è portatore; può dar luogo ad una “dichiarazione” di competenze che rap- presenta il prodotto di tale processo ovvero l’attestato conseguito; 2) la “validazio- ne” dell’apprendimento non formale ed informale indica un processo formalizzato ed i relativi dispositivi finalizzati a “ricostruire” e “mettere in trasparenza” le com- petenze comunque maturate e di cui la persona è in possesso; le competenze matu- rate sono messe a confronto con i risultati dell’apprendimento formale in funzione del riconoscimento di crediti in relazione ad un percorso di istruz. o formaz. In par- ticolare la validazione può denotare: il processo “personale” mediante il quale un individuo (anche eventualmente con il supporto di un operatore qualificato) a segui- to della ricostruzione della propria esperienza formativa e professionale riesce a “ri- conoscere” le competenze che essa gli ha consentito di acquisire; il processo “istitu- zionale” mediante il quale un soggetto pubblico (o privato, in quanto da questo abi- litato) stabilisce una corrispondenza tra competenze acquisite dall’individuo in un ambito specifico (formale, non formale o informale) e determinati segmenti di per- corso formativo formale, e rispetto a quest’ultimo attribuisce all’individuo un “cre- dito formativo”, che gli consente di abbreviarne la durata, a parità di → obiettivi; 3) la “registrazione e documentazione” delle competenze, ovvero la messa in traspa- renza dell’insieme degli apprendimenti maturati e dei titoli e certificati acquisiti. 2. I dispositivi di trasparenza si possono sinteticamente suddividere in due macro- categorie: quelli che hanno un carattere puntuale, cioè documentano un’espe- rienza precisa, limitata nel tempo o relativa ad un determinato ambito (tra questi l’attestato di qualifica; la dichiarazione di competenze; i → crediti formativi, ecc.); quelli che hanno un’estensione longitudinale, cioè riguardano le esperienze realiz- zate lungo tutto l’arco della vita e le competenze comunque acquisite. Tra il 2004/2005 sono stati definiti due strumenti longitudinali: a livello nazionale il “Li- bretto formativo del cittadino” e, a livello europeo, “Europass”. Libretto forma- tivo: si tratta del dispositivo già previsto dall’Accordo Stato-Regioni del 18 feb- braio 2000 e dal D.M. MLPS 174/2001, ripreso dalla L. 30/2003 e dal decreto 276/03 che lo individua quale strumento per la registrazione e la documentazione del complesso dell’esperienza formativa e professionale (formale, non formale e informale) dell’individuo, e delle competenze che queste gli hanno consentito di acquisire (D.lgs. 276/2003; MLPS - MIUR, 2007). Costituisce il contenitore nel quale vengono raccolti i diversi tipi di attestati indicati in questo documento (de- scrizioni, dichiarazioni, titoli, certificati, validazione dell’esperienza). In questo senso può configurarsi nello stesso tempo come un portfolio, ovvero come “conte- nitore di evidenze”. Europass: si tratta del dispositivo di trasparenza europeo pre- visto dalla Decisione Europass (Decisione del Parlamento Europeo e del Consi- 47 glio, 2004). I documenti Europass sono predisposti in modo da permettere la mas- sima leggibilità dei contenuti, attraverso l’uso di riferimenti e linguaggi condivisi, seguendo la logica della trasparenza. Il portafoglio Europass riunisce tutti i docu- menti europei attualmente disponibili, sostenendo la trasparenza delle qualifiche. Questo portafoglio consente ai singoli cittadini di presentare i propri risultati d’ap- prendimento in modo semplice, chiaro e flessibile alle istituzioni del sistema di istruz. e formaz., ai datori di lavoro o ad altri. Due documenti, l’Europass curri- culum vitae e il Passaporto delle Lingue Europass possono essere completati dal- l’individuo stesso. Gli altri tre documenti (il Supplemento del Certificato Euro- pass, il Supplemento del Diploma Europass ed Europass Mobilità) devono essere compilati ed emessi dagli organismi competenti. Questi documenti saranno gra- dualmente disponibili in più di 20 lingue. Chiari legami saranno stabiliti tra i do- cumenti Europass e i livelli di riferimento dell’European Qualification Frame- work (Commission of the European Communities, 2007). Futuri sviluppi del por- tafoglio Europass e i suoi documenti dovranno tenere conto dei livelli e degli indi- catori di livello comuni ed essere basti sui risultati d’apprendimento. Bibl.: D.LGS. 276 del 10 settembre 2003, Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mer- cato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30, in G.U. n. 235 del 9 ottobre 2003 - Supple- mento Ordinario n. 159; ACCORDO in CU 28 ottobre 2004, Accordo, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, le regioni, le province autonome di Trento e Bolzano, le province, i comuni e le comunità montane per la certificazione finale ed inter- media e il riconoscimento dei crediti formativi (Repertorio atti n. 790/CU); Decisione del Parlamento europeo e del Consiglio 2241/2004/CE del 15 dicembre 2004; DECISIONE del PARLAMENTO EUROPEO e del CONSIGLIO, n. 2241/2004/CE del 15 dicembre 2004 relativa ad un quadro comunitario u nico per la trasparenza delle qualifiche e delle competenze (Europass), in GU dell’UE L390/6 del 31 dicembre 2004; OCDE, The Role Of National Qualifications Systems In Promoting Lifelong Learning, The In- ternational Synthesis Report 08 July 2005; MANN T., Relazione sulla creazione di un Quadro europeo delle qualifiche. 2006/2002(INI). Parlamento europeo, Commissione per l’occupazione e gli affari so- ciali, Documento di seduta, 18 luglio 2006; COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Documento di lavoro della commissione verso un quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente. SEC (2005) 957, Bruxelles, 08 luglio 2005, http://www.tecnostruttura.it/_Tecnostruttura/Documents/ TraduzioneDocEQF%207ott05.doc, 7.2.2007; MINISTRY OF SCIENCE, TECHNOLOGY AND INNOVATION, A Framework for Qualifications of the European Higher Education Area, Bologna Working Group on Qualifications Frameworks, February 2005, http://web.unicam.it/sgq/Convegno%20Luzzatto% 2011_12_06/A%20framework%20for%20qualifications%20of%20the%20European%20Higher%20 Education%20Area_con%20conclusioni.pdf, 7.2.2007; MLPS - MIUR, Decreto: “Modello di libretto formativo del cittadino”, in GU, Serie Generale n. 256 del 3 Novembre 2005, http://www.welfare.gov.it/EaChannel/MenuIstituzionale/normative/2005/di10102005.htm, 7.2.2007; COMMISSION OF THE EUROPEAN COMMUNITIES, Implementing the Community Lisbon Programme. Pro- posal for a recommendation of the european parliament and of the council on the establishment of the European Qualifications Framework for lifelong learning, COM(2006) 479 final 2006/0163 (COD), Brussels, 5.9.2006, http://ec.europa.eu/education/policies/educ/eqf/com_2006_0479_en.pdf, 7.2.2007. G. Di Francesco CERTIFICAZIONE DI QUALITÀ → Accreditamento; → Qualità 48 CITTADINANZA Il concetto di cittadino e relativi diritti era già presente nella cultura greca (democra- zia ateniese), in quella romana e nelle città medievali che cercavano di affermare il loro diritto di libertà e di autogoverno. Nella concezione moderna, la c. è vista come “prerogativa” del popolo riconosciuto come depositario della sovranità e titolare di diritti. Potremmo definirla come appartenenza di una persona a uno Stato da cui de- rivano diritti e obblighi che sono definiti dalla carta costituzionale e dalle leggi. 1. Negli Stati nazionali moderni, la c. si pone come forma di uguaglianza che tende a garantire a tutti i diritti fondamentali. L’estensione del riconoscimento dei diritti ha portato a identificare tre tipi di c.: la c. civile: le libertà personali (di pensiero, di proprietà, di uguaglianza di fronte alla legge, ecc.), i diritti civili individuali tutelati dai tribunali; la c. politica: il diritto di voto attivo e passivo di tutti gli adulti e la loro partecipazione alle istituzioni rappresentative e governative; la c. sociale: di- ritto al benessere e alla sicurezza economica, alla cultura e a una vita civile se- condo i canoni della → società di appartenenza, diritti resi effettivi dalle politiche sociali (Gallino, 2000, 389). 2. Le politiche di welfare cercano di estendere i diritti e di ridurre le sperequazioni sociali, ma rischiano anche di accrescerle dando vita a nuove forme di disugua- glianza tra i garantiti (cittadini a pieno titolo) e quelli che ne restano esclusi (immi- grati o profughi). I modelli di welfare della società moderna risultano ormai scarsa- mente efficienti, economicamente insostenibili e con effetti deresponsabilizzanti. Per questo oggi si parla di “nuova c.”, di “c. societaria”, legata a una forma di de- mocrazia fondata su nuovi valori inerenti la c. e che includerebbe un senso pro- fondo di libertà, responsabilità, → sussidiarietà e diffusa → solidarietà sociale. Bibl.: MARSHALL T.H., Cittadinanza e classe sociale, Torino, UTET, 1976; COLOZZI I., Stato mercato cittadinanza, Bologna, CUSL, 1992; DONATI P., La cittadinanza societaria, Roma e Bari, Laterza, 1993; GALLINO L. (Ed.), Manuale di Sociologia, Nuova ediz., Torino, UTET, 2000; SANTERINI M., Educare alla cittadinanza. La pedagogia e le sfide della socializzazione, Roma, Carocci, 2001; TA- ROZZI M. (a cura), Educazione alla cittadinanza. Comunità e diritti, Milano, Guerini, 2005. V. Orlando CODICE DEONTOLOGICO → Etica professionale COESIONE SOCIALE Il concetto di c.s. venne utilizzato inizialmente da Emile Durkheim, che lo adottò per indicare le caratteristiche che mettono ordine nella → società e per evidenziare la interdipendenza tra i suoi membri sulla base della lealtà e della → solidarietà. Nel descrivere la c.s. fece riferimento alla forza delle relazioni, facilitata dalla condivi- 49 sione di valori e di interpretazioni, dalla percezione di una → identità comune e dal senso di appartenenza ad una stessa comunità che hanno i suoi membri, accomunati dalla fiducia così come dal prendere le distanze dalle disuguaglianze e dalle dispa- rità. Per Durkheim una società si manifesta come un “tutto”, non è il risultato della somma di individui o di gruppi: è un luogo in cui le norme sono funzione dell’inter- dipendenza delle sue componenti. Questo concetto è divenuto popolare nell’ambito delle politiche sociali durante l’ultima decade del XX sec. e in genere con esso si in- dica il processo all’interno del quale in una società si sviluppa una comunità di va- lori e sfide condivise e di uguali opportunità, basata sul senso di fiducia e di recipro- cità dei suoi membri. La definizione attualmente più in uso ha origine dal Consiglio d’Europa. Già durante il Secondo Vertice dei Capi di Stato e di Governo (1997), il Consiglio ha indicato nella c.s. una delle priorità dell’Organizzazione, indicandola come “una delle principali necessità dell’Europa allargata e dovrebbe essere perse- guita in quanto complemento essenziale per la promozione dei diritti umani e della dignità” (Capi di Stato e di Governo degli Stati membri del Consiglio d’Europa, 2007, 47). Il Consiglio nel 1998 ha avviato il Comitato Europeo per la Coesione So- ciale (CDCS), varando nel 2001 la Strategia che impegna i 46 Stati aderenti ad un programma di lavoro ben definito per i prossimi anni. C.s. “è un concetto che in- clude valori e principi, che indica la condizione di assicurare che tutti i cittadini, senza alcuna discriminazione e da una posizione di uguaglianza, abbiano accesso ai diritti fondamentali sociali ed economici. Coesione sociale è un concetto regolatore che costantemente ci rimanda al bisogno di essere attenti alla collettività e di essere consapevoli di ogni tipo di discriminazione, ineguaglianza, o esclusione”. Il 31 marzo del 2004 il Consiglio dei Ministri ha approvato la versione aggiornata della Strategia del Consiglio d’Europa per la c.s., presentando la definizione e identifi- cando le linee di lavoro future: la c.s. “è la capacità di una società di assicurare il benessere (welfare) di tutti i suoi membri, riducendo le differenze ed evitando le po- larizzazioni. Una società basata sulla coesione è una comunità di sostegno reciproco di individui liberi che perseguono obiettivi comuni dai significati democratici”. La c.s. è quindi alla base della politica sociale che viene sviluppata dai Paesi europei e che rimanda al “modello sociale Europeo”. Infatti la Strategia indica come lo Stato, gli attori economici, la società civile e le → famiglie abbiano un ruolo essenziale per mantenere e rafforzare la c.s.; riconosce inoltre che la sfida per l’Europa del XXI sec. è di trovare le modalità per adattare i risultati di questa politica sociale ai bi- sogni ed alle circostanze mutevoli senza perdere il loro carattere essenziale. Vi sono elementi di sovrapposizione di questo concetto con altri che vengono comunemente usati nell’ambito degli interventi sociali, in particolare con il concetto di → inclu- sione sociale. In sintesi si potrebbe dire che mentre la c.s. è un concetto che si rife- risce alla società nel suo complesso e descrive una condizione del sociale, l’inclu- sione sociale indica piuttosto le condizioni degli individui all’interno di una comu- nità. Bibl.: DURKHEIM E., Le regole del metodo sociologico, Milano, Edizioni di Comunità, 1963; CONSI- GLIO D’EUROPA, Revised Strategy for Social Cohesion, Strasburgo, 2004; CONSIGLIO D’EUROPA, Con- 50 certed development of social cohesion indicators. Methodological guide, Strasburgo, 2005; CAPI DI STATO E DI GOVERNO DEGLI STATI MEMBRI DEL CONSIGLIO D’EUROPA, Secondo Vertice del Consiglio d’Europa Dichiarazione Finale. Strasburgo, ottobre 1997, http://www.welfare.gov.it/NR/rdonlyres/ ebe2h6lbfbrr3hrjed3fdpdzi4lkle4inmchhij4ptt2nckfinqptwme2a5otxx3a3coprivcaztwcpsovus2w3s3g d/PianoAzioneCOEdelConsiglioEuropaperladisabilit.pdf, 7.2.2007. A. Felice COLLOQUIO Il c. può essere definito come una situazione sociale e interpersonale nella quale due o più persone si impegnano in una → comunicazione verbale e non verbale nel- l’intento di raggiungere uno scopo precedentemente definito. 1. La letteratura in tema di c. presenta numerose definizioni, talvolta analoghe, tal- volta difficilmente sovrapponibili. Fondamentalmente, è possibile operare una di- stinzione tra coloro che del c. enfatizzano l’aspetto psicometrico-quantitativo, con- siderandolo uno strumento di raccolta di notizie, dati, informazioni oggettive, e co- loro che ne sottolineano, invece, l’aspetto clinico-qualitativo, attribuendo partico- lare significato al rapporto interpersonale e al processo dinamico tra intervistatore e intervistato. Si tratta, in realtà, di una dicotomia che non ha molta ragione di esi- stere; infatti, a seconda dei casi sarà più valido l’uno o l’altro tipo di → metodo- logia e spesso si avrà una complementarietà di approcci (Trentini, 2002). 2. A seconda dello scopo, degli aspetti tecnici messi in atto e degli ambiti di appli- cazione possiamo distinguere diversi tipi di c.: diagnostico, terapeutico, di sele- zione, di → orientamento, di → valutazione. Una utile tassonomia è proposta da Trentini (2002) che classifica i diversi tipi di c.-intervista secondo quattro criteri: a) l’approccio epistemologico, distinto a sua volta in base alla prospettiva di applica- zione (psicologica, psicosociale e sociale) e alla gradazione estensività-intensività; b) i tratti distinguenti l’interazione tra i partecipanti, criterio distinto a sua volta in caratteristiche strutturali dell’intervistatore, caratteristiche strutturali dell’intervi- stato, caratteristiche funzionali dell’interazione tra i partecipanti; c) le caratteri- stiche situazionali, criterio distinto a sua volta in tipo di tecnica usata e tipo di do- cumentazione di dati raccolti; d) il processo dinamico, distinto a sua volta in polo di centratura e stile di conduzione. Bibl.: TRENTINI G., Teoria e prassi del colloquio e dell’intervista, Roma, Carocci, 1995; ID., Oltre l’intervista. Il colloquio nei servizi sociali, Torino, UTET, 2000; ID., Manuale del colloquio e dell’in- tervista, Torino, UTET, 2002. A.R. Colasanti COMPETENZA Deriva dal latino cum petere, che indica la qualità di chi regge il confronto con qualcuno, ma anche appartenere ad una cerchia che esprime un dominio in ordine 51 ad uno specifico campo di sapere. Caratteristica della persona, mediante la quale essa è in grado di affrontare efficacemente un’area di problemi connessi ad un par- ticolare ruolo o funzione. Per tale motivo, sarebbe preferibile parlare di persona “competente” piuttosto che di c. La persona competente è in grado di mobilitare le risorse possedute (→ capacità, → conoscenze, → abilità) al fine di condurre ad una sua soluzione un compito-problema. La c. non è pertanto riducibile né a un sapere, né a ciò che si è acquisito con la → formaz. Essa è una dotazione del soggetto umano in un contesto definito, e ne realizza le potenzialità. 1. L’espressione c., oltre ad essere dotata di una sua intrinseca complessità poiché riguarda ambiti differenti di sapere e di azione, è anche oggetto di un intenso dibat- tito teorico che ha provocato differenti interpretazioni, che possiamo ricondurre a tre grandi modelli di pensiero: a) coloro che considerano la c. in chiave formale e prestazionale, ovvero come un costrutto determinato dalla composizione (che si può conoscere previamente e quindi programmare) di un insieme di conoscenze, abilità e comportamenti che consentono alla persona di sviluppare performance controlla- bili e valutabili; b) coloro che concepiscono la c. come la caratteristica di un’orga- nizzazione innovativa, basata sul modello della learning organization, partecipando alla vita della quale l’individuo risulta stimolato ad apprendere; c) coloro che, infi- ne, intendono la c. come la caratteristica di una persona, posta in un particolare con- testo, che è in grado di mobilitare le risorse possedute (capacità, conoscenze, abilità) al fine di assumere in carico i compiti-problema che questo esprime. 2. La prima posizione (si veda ad es. ISFOL, 1997) intende piegare le tradizionali programmazioni didattiche per contenuti e verifiche spostando l’attenzione dei do- centi verso i risultati tangibili del processo di → apprendimento, sostanzialmente assunti come performance o comportamenti conformi alle esigenze dell’organizza- zione. Il suo limite sta nel fatto che tali esigenze vengono assunte in modo assoluto e normativo, giungendo a definire repertori rigidi di unità formative capitalizzabili la cui reale rispondenza rispetto alle specifiche esigenze delle organizzazioni di la- voro appare dubbia, giungendo a delineare una sorta di neo-addestramento di stampo tayloristico anche se aperto a fattori spesso indefinibili quali le cosiddette “competenze trasversali”. 3. La seconda posizione accentua l’assunto delle moderne teorie organizzative che abbandonano le tradizionali visioni funzionaliste ed organiciste per giungere a con- cepire le organizzazioni come insiemi olografici che, similmente al cervello umano, sono in grado di assorbire in ogni loro componente tutti gli elementi neces- sari ad affrontare compiti nuovi e imprevedibili. Tale visione concepisce l’indi- viduo come un soggetto assimilato ad un’organizzazione, legato da una relazione asimmetrica nella quale è quest’ultima a svolgere la funzione docente. 4. Nella terza prospettiva, la c. non è ridotta ad una performance ed è concepita co- me una qualità della persona posta in modo attivo e responsabile di fronte ad un contesto che ne sollecita l’intraprendenza. Le Boterf (1998, 173) scrive a questo 52 proposito: “In molti casi la nozione di competenza che viene utilizzata nei progetti risale a quella della fine degli anni ‘60: una somma di sapere, saper fare e saper es- sere. In realtà le competenze sono qualcosa di più complesso (…). La competenza è una costruzione: è il risultato di una combinazione appropriata di svariate risorse. Per questo è opportuno distinguere: le risorse necessarie alla costruzione delle competenze; le competenze propriamente dette, che si esprimono in termini di atti- vità o pratiche professionali e corrispondono a ‘schemi’ specifici di ciascuna perso- na; le prestazioni (performances) che costituiscono i risultati verificabili delle azio- ni poste in essere (indicatori di qualità, tassi di soddisfazione della clientela, quan- tità di prodotti, tasso di valore aggiunto, quantità degli scarti, …). Le risorse deri- vano da un duplice equipaggiamento al quale la persona può ricorrere per costruire le sue competenze: il suo equipaggiamento personale (conoscenze, abilità savoir- fare, attitudini, esperienze, ecc.) e l’equipaggiamento che le viene dall’ambiente in cui vive (reti di rapporti umani, strumenti, banche dati, ecc.). Non esiste un rappor- to puntuale fra ciascun elemento delle risorse e ciascuna competenza. La stessa ri- sorsa può servire ad una pluralità di competenze. Ed esistono svariati assi per que- ste combinazioni, attorno ai quali si costruiscono le competenze. La capacità di combinare queste risorse è la competenza di una persona di costruire le competen- ze che le sono necessarie. Si tratta di una capacità molto complessa, una sorta di ‘scatola nera’ difficilmente accessibile e si trova nel cuore dell’autonomia di un in- dividuo”. Bibl.: ISFOL, Unità capitalizzabili e crediti formativi. Metodologie e strumenti di lavoro, Milano, F. Angeli, 1997; LE BOTERF G., L’ingénierie des compétences, Paris, Éditions d’Organisation, 1998; MORGAN G., Images: le metafore dell’organizzazione, Milano, F. Angeli, 1999; LE BOTERF G., Con- struire les compétences individuelles et collectives, Paris, Éditions d’Organisation, 2000; CEPOLLARO G. (Ed.), Competenze e formazione, Milano, Guerini & Associati, 2001; AJELLO A.M. (Ed.), La com- petenza, Bologna, Il Mulino, 2002. D. Nicoli COMPETENZE CHIAVE 1. La dizione “c. c.” a livello istituzionale europeo trae origine da un documento redatto nel 2002 da un gruppo di esperti europei nominati dalla Commissione eu- ropea dal titolo: “Le competenze chiave in una società fondata sulla conoscenza: un primo passo sulla via della loro selezione, della loro definizione e della loro de- scrizione”. Il documento faceva seguito al vertice di Lisbona del 2000 e al Consi- glio europeo del febbraio del 2001, secondo il quale le → competenze di base co- stituivano uno dei tre obiettivi prioritari, sui tredici individuati. Il gruppo ha rite- nuto preferibile parlare di “c.c.” essenzialmente per molteplici ragioni, tra le quali il fatto che per molte persone il qualificativo “di base”, ricopre un insieme limitato di competenze di lettura, di scrittura e di calcolo, e ciò dà luogo spesso a confu- sione nei dibattiti, mentre il termine “chiave” è più dinamico e non ha questo con- notato. 53 2. A conclusione dei suoi lavori questo gruppo di esperti nel 2004 giungeva alle se- guenti indicazioni. Le c.c. rappresentano un insieme di → conoscenze, → abilità e atteggiamenti trasferibili e multifunzionali, di cui tutti gli individui hanno bisogno per un completamento e sviluppo personale, l’ → inclusione sociale e il lavoro. Queste c. dovrebbero essere sviluppate al termine della scuola o la → formaz. ob- bligatoria, e dovrebbero agire come fondamento dell’ulteriore → apprendimento come componente dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Per giungere a una scelta il gruppo aveva individuato tre criteri: a) compiutezza personale ed evo- luzione durante tutta la vita; b) inclusione nella società; c) capacità di inserimento professionale. Inoltre, si riconosce che il concetto di competenza implica allo stesso tempo conoscenze, abilità e disposizioni interne stabili, che siano trasferibili e in qualche misura polivalenti. Nel caso delle c.c, queste dovrebbero costituire un bagaglio trasferibile e polivalente necessario al compimento o allo sviluppo perso- nale, come anche all’inclusione e all’impiego di ognuno, che si suppone essere state acquisite alla fine del periodo di scolarità o di formaz. obbligatoria e che co- stituiscono il fondamento dell’ → educaz. e della formaz. lungo tutta la vita. In questo contesto sono stati individuati otto ambiti di c.c. (naturalmente per ciascun ambito si è giunti a una serie di esplicitazioni più dettagliate di competenze): a) Ambito della → comunicazione nella lingua madre; b) Ambito della comunicazione in → lingua straniera; c) Ambito della matematica e scientifico di base; d) Ambito delle competenze digitali; e) Ambito dell’apprendere ad apprendere; f) Ambito delle competenze interpersonali e civiche; g) Ambito dell’imprenditorialità; h) Am- bito dell’espressione culturale. Dalle indagini promosse nell’UE a 15 negli anni 2004-05 appariva una sostanziale convergenza nel considerare le seguenti c.c: com- petenza linguistica (literacy); competenza matematica (numeracy); tecnologie della comunicazione e dell’informazione; lingue straniere; competenza scientifica; com- petenze trasversali; competenze sociali. 3. Verso la fine del 2005 veniva pubblicato dall’OCSE un rapporto che faceva il punto sulla questione delle competenze essenziali del cittadino rileggendole sotto la dizione di “c.c.”. In tale documento si evidenziavano tre fondamentali criteri per selezionarle e definirle: a) importanza dei benefici economici e sociali che ne deri- vano; b) ampiezza dello spettro di contesti nei quali si manifestano tali benefici; c) universalità di tali benefici, nel senso che non sono limitati a specifiche categorie di persone. L’aggregazione proposta per combinare tra loro le c. individuate su tale base utilizza concetti di interazione e di riflessività. Le categorie individuate sono le seguenti: 1) Agire in modo autonomo; 2) Servirsi di strumenti in maniera interat- tiva; 3) Interagire in gruppi socialmente eterogenei. 4. Alcuni contributi francesi hanno sottolineato un peculiare concetto di c.c., met- tendo in evidenza soprattutto la dimensione del “saper essere”. Evéquoz (2004), in particolare, ha sviluppato una analisi sistematica delle c.c. richieste a un cittadino e a un lavoratore sulla base di una definizione comprensiva di competenza che 54 suona così: “capacità di una persona di agire con iniziativa e responsabilità in una situazione data, in funzione della prestazione attesa e mettendo in moto le sue ri- sorse interne”. Ne è derivato un quadro di riferimento o referenziale abbastanza elaborato che comprende sei ambiti generali nei quali viene definita una compe- tenza, che poi è articolata secondo capacità specifiche e indicatori della presenza di tale → capacità. Le sei competenze sono: a) Trattare l’informazione; b) Orga- nizzare; c) Risolvere problemi; d) Lavorare in équipe; e) Inquadrare; f) Comuni- care. 5. Una c. può essere dunque definita “chiave” se essa svolge un ruolo centrale nel- la crescita personale, culturale, sociale e professionale dei soggetti in formaz. La condizione essenziale perché tale ruolo possa essere messo in atto è che esse possa- no progressivamente irrobustirsi ed essere utilizzabili in contesti sempre più com- plessi e meno famigliari. È questa una concezione delle c.c. che possiamo definire dinamica, in contrasto con una possibile interpretazione riduttiva di tipo statico, quasi una piattaforma che può anche essere solida, ma chiusa in se stessa, che co- stituisce come una condizione indispensabile per poter impostare la costruzione dell’edificio conoscitivo progettato, che però presenta solo una labile continuità con gli elementi che compongono tale piattaforma. In altre parole, in tanto una c. acquisita in un processo formativo scolastico o di → FP può essere considerata una c.c., in quanto gli elementi che la costituiscono (conoscenze concettuali, abilità operative intellettuali e pratiche, disposizioni interne stabili) sono aperti a un loro sviluppo e approfondimento. Essi, cioè, costituiscono un patrimonio personale pos- seduto a un livello di comprensione, stabilità e utilizzabilità tale da poter essere va- lorizzato nei processi di trasferimento e adattamento in altri contesti diversi o più impegnativi. Bibl.: REY B., Les compétences transversales en question, Paris, ESF, 1996. ISFOL, Unità capitaliz- zabili e crediti formativi. I repertori sperimentali, Milano, F. Angeli, 1998. ISFOL, Dalla pratica alla teoria per la formazione: un percorso di ricerca epistemologica (a cura di C. MONTEDORO), Milano, F. Angeli, 2001. EVEQUOZ G., Les compétences clés, Paris, Ed. Liaisons, 2004; PELLEREY M., Le compe- tenze individuali e il portfolio, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 2004; OECD, The definition and se- lection of key competencies. Executive summary, Unpublished Paper, 27 May 2005. M. Pellerey COMUNICAZIONE Il termine c. assume tradizionalmente due significati principali, ed entrambi met- tono l’accento sulla creazione di un qualche tipo di “comunanza” tra persone. Il primo è di origine senz’altro più antica e fondamentale, ed è quello legato al “met- tere in comune” gli oggetti (non le idee o i pensieri delle persone), o al “partecipare insieme” a un evento. È un significato che si richiama a strutture sociali comuni- tarie. Solo il secondo significato di comunicare come “abboccarsi, consigliarsi con uno” e anche “aver rapporti” ha a che fare con una c. in un senso più simile al no- stro, e precisamente con la conversazione. Durante l’epoca moderna, lo sviluppo, 55 dapprima dei mezzi di trasporto di persone e cose, e poi di mezzi di trasmissione delle informazioni, apre nuove possibilità per la “comunanza” tra persone. Di con- seguenza, i nuovi mezzi assumono una connotazione comunicativa: si parla così di mezzi di c. e vie di c. 1. Significato del termine c. Le definizioni di c. sono almeno sei: la prima afferma che si ha c. ogni qualvolta una proprietà, una risorsa di tipo materiale o immateriale o uno “stato mentale” viene trasmesso da un soggetto ad un altro. La seconda defi- nizione afferma che ogni comportamento di un essere vivente che ne influenza un altro rappresenta una forma di c. L’influenza può essere considerata di tipo nega- tivo/positivo. La terza definizione si riferisce allo scambio di valori sociali che si effettua secondo regole prestabilite, con riferimento esclusivo, alle → società umane; in modo da definire c. qualsiasi scambio di valori sociali condotto secondo determinate regole. La quarta definizione si riferisce all’ambito della → ricerca so- ciologica: infatti per alcuni la c. è costituita dal passaggio o trasferimento di infor- mazioni da un soggetto (la fonte, l’emittente) ad un altro (il destinatario, il rice- vente) per mezzo di veicoli di varia natura: ottici, acustici, elettrici, ecc. Nella quinta definizione, si ha c. soltanto quando due o più soggetti giungono a condivi- dere i medesimi significati (trasferimento di senso). La sesta definizione riguarda la formaz. di una unità sociale a partire da individui singoli, mediante l’uso di un lin- guaggio o di segni o anche l’avere in comune elementi di comportamento, o modi di vita, grazie all’esistenza di insiemi di regole. 2. Ambito della disciplina. Non esiste una sola “idea” di c., bensì tante idee quante sono le derivazioni scientifiche e culturali in vario modo implicate nell’analisi. Perciò è difficile inquadrare l’oggetto empirico riunito all’interno di un arco assai variabile che spazia dalla onnicomprensività del paradigma informazionale, che comprende anche gli scambi tra macchine, alla selettività del paradigma relazio- nale, che considera pienamente comunicativo soltanto quel processo in cui si rag- giunge la formulazione di un’unità sociale e/o psicologica a partire dai singoli indi- vidui. Pertanto, per stendere una mappa scientifica della c. è indispensabile tenere in conto i numerosi approcci scientifici e le particolari caratteristiche dell’oggetto- c. Il tentativo di disegnare un profilo preciso per gli studi sulla c. non è quindi solo segnato da un normale avvicendamento di paradigmi, quanto piuttosto dalla con- fluenza contemporanea di riferimenti epistemologici diversi. 3. Ambiti di studio della c. Numerosi sono gli ambiti di studio della c. che possono essere affrontati dal punto di vista matematico, ovvero della c. come trasmissione di informazioni; dal punto di vista semiotico, della c. come significazione e come segno; dal punto di vista pragmatico, ovvero della c. come interazione fra testo e contesto; dal punto di vista sociologico: la c. come espressione e prodotto della so- cietà; dal punto di vista psicologico: la c. come gioco di relazioni. Tra i fondamenti della c. vi è lo studio del significato, il concetto di intenzionalità, la c. non-verbale, la c. e l’influenza sociale e, soprattutto, la c. vista dall’ottica del medium e dei 56 mezzi di c. di massa, con le considerazioni relative agli effetti a breve e a lungo ter- mine dei mass media, dell’audience dei media, della c. pubblicitaria e politica e mass media. Ultimo in ordine di tempo, ma sempre più importante, è oggi lo studio della c. riferita ai new media, dove vengono trattate le tematiche della c. digitaliz- zata, di quella mediata dal computer (CMC, Computer Mediated Communication), oltre che le caratteristiche e gli effetti della c. tramite Internet. Bibl.: CANGIÀ C., Teoria e pratica della comunicazione multimediale. Per la scuola e per la forma- zione professionale, Roma, Editoriale Tuttoscuola, 2001; ANOLLI L., Psicologia della comunicazione, Bologna, Il Mulino, 2002; CANGIÀ C., Educare alla comunicazione interpersonale, ambientale, me- diate di massa e manuale-espressiva, in “Orientamenti Pedagogici” 3 (2002) 405-420; LEVER F. et al., La comunicazione: dizionario di scienze e tecniche, Leumann (TO), ElleDiCi, 2002; CANGIÀ C., La formazione alla comunicazione, in “Orientamenti Pedagogici” 1 (2006) 21-35. C. Cangià COMUNITÀ DI PRATICHE → Comunità educativo-formativa; → Buone prassi COMUNITÀ EDUCATIVO FORMATIVA Il termine c. è d’ampio utilizzo in tutti gli ambiti della vita. La parola può avere aggettivazioni forti (e tra esse vanno sicuramente annoverate “educativo/formati- va”, “educante”), o aggettivazioni deboli (per es., “scientifica”, “economica”, “sportiva”). Con l’aggettivazione forte, il termine rimanda a legami stretti tra i membri che la compongono: esperienze di condivisione, di reciprocità, di coinvol- gimento, di → solidarietà, di senso di appartenenza, di stabilità di relazioni, di par- tecipazione. 1. La c.e.f., per sua natura, si fonda su relazioni stabili e forti. Un solido e fitto tes- suto di relazioni, intenzionali o non, la attraversa a tutti i livelli e in ogni espres- sione. La prima c.e.f. è sicuramente quella domestica, ambito in cui le relazioni primarie costituiscono l’ambiente educativo naturale; ad essa fanno seguito le molteplici forme, intenzionali e organizzate o non (istituzioni, aggregazioni asso- ciative, volontariato). Si definiscono, poi, c.e.f. anche le forme finalizzate all’ → accoglienza, all’assistenza, al recupero, alla riabilitazione/rieducazione. La dimen- sione comunitaria è elemento strutturale dell’istituzione scolastica: essa è perse- guita e voluta come fine e come mezzo. La scuola, infatti, ha come fine lo svi- luppo dell’originario potenziale in dotazione ad ogni essere umano, il promuo- verne la realizzazione personale sì che il soggetto si inserisca attivamente nella vita economica, sociale, politica, culturale della c. di appartenenza. In quanto si- stema organizzato di attività (c. di pratiche), essa è anche strumento operativo per il raggiungimento di tale fine. In essa s’intrecciano rapporti verticali e orizzontali tra i diversi protagonisti. Al centro della trama relazionale si colloca il rapporto 57 docente-discenti, mediato dalla trasmissione/acquisizione di saperi/valori, e fina- lizzato sia a emancipare il pensiero, sia a motivare il volere nella reciprocità dialo- gica del dare/ricevere. La dimensione comunitaria contrassegna dunque la vita scolastica (c. di apprendimento). 2. A partire dagli anni ‘70, l’uso del termine c. registra una più alta frequenza nel dibattito pedagogico-scolastico. Ciò si connette a due principali fattori. Il primo è l’esplosione dei saperi che focalizzano i rapporti interni all’istituzione scuola. Ana- lisi pluridisciplinari offrono uno spaccato illuminante circa la complessità, la va- rietà e la problematicità delle pratiche e dei vissuti presenti nel sistema (in primis quelli riferiti alla microunità del gruppo classe). Condizionamenti reali e istanze emancipatrici sono oggetto d’attenzione e d’accesi dibattiti, attuali ancora oggi. Il secondo, che ha mutato in profondità le funzioni del sistema, è il processo di aper- tura della scuola ai rapporti con l’esterno. Un passo, in tale direzione, è la nascita degli organi collegiali che aprono alla partecipazione dei genitori e poi, gradual- mente, dei diversi soggetti, espressione della realtà economica, sociale, politico- culturale. La legge che riforma l’intero sistema sancisce tale mutamento e dà spazio a una varietà di presenze, con diritti/doveri ancora in parte da definire. 3. L’evoluzione è frutto di eventi storici inevitabili. Tre i fattori trainanti che conno- tano l’orizzonte attuale: la società dell’informazione, con ricadute sugli stili di vita e sulla struttura del → lavoro e della produzione; la mondializzazione dell’eco- nomia, e i relativi problemi della crescita, della competitività e dell’occupazione; l’esplosione delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche. La co- siddetta società conoscitiva muta compiti e metodologie formative. Tutti gli aspetti del sistema sono coinvolti: la qualità dei processi che devono essere permanenti e centrati sulla capacità dell’apprendimento continuo per affrontare cambiamenti complessi e in rapida evoluzione; il superamento delle divisioni rigide tra i canali formativi professionalizzanti e quelli a prevalente impianto scientifico-culturale di tipo generale; la diversa attenzione alla circolarità delle conoscenze scientifiche, tecniche, pratiche in ogni settore di operatività; il graduale saldarsi della → FP – → apprendistato – con la formazione tecnica; la necessità di curare tutte le dimensioni dell’uomo per promuovere l’autonomia decisionale e la responsabilità circa la qua- lità di vita dei singoli e della convivenza. La sfida oggi è considerare ciascun con- testo di vita e di lavoro come c. ove si apprende insieme, ove si collabora per lo sviluppo delle risorse di tutti e di ciascuno, ove si partecipa alla trasmissione/crea- zione di valori condivisi per la lotta all’→ esclusione e all’emarginazione, ove si costruisce la società aperta e solidale del futuro. Bibl.: DALLE FRATTE G., La comunità tra cultura e scienza: 1° vol. Il concetto di comunità nelle scienze umane, 2° vol. Concetto e teoria della comunità in pedagogia, Roma, Armando, 1993; POSTIC M., La relazione educativa. Oltre il rapporto maestro-scolaro, Roma, Armando, 1994; COMMISSIONE EUROPEA, Insegnare ed apprendere. Verso la società conoscitiva, Lussemburgo, 1996; DELORS J., Nel- l’educazione un tesoro, Roma, Armando, 1997; PELLEREY M., L’agire educativo. La pratica pedago- gica tra modernità e post-modernità, Roma, LAS, 1998; DUCCI E., Essere e comunicare, Roma, 58 Anicia, 2003; C. DI AGRESTI, “Le competenze pedagogiche della scuola”, in CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), Dirigere e coordinare le scuole. Scuola Cattolica in Italia, Brescia, La Scuola, 2004, 105-123. C. Di Agresti COMUNITÀ (FAMIGLIA) PROFESSIONALE L’espressione c.p., sinonimo di f.p. (Grisolia - Manzolini, 2000) – indica un aggre- gato di figure professionali che condividono un insieme relativamente omogeneo (e nel contempo dinamico) di fattori quali il know how di base, i processi di lavoro ed i compiti che vi si svolgono, il contesto organizzativo, infine un itinerario di → formaz. coerente e progressivo che si svolge a partire dal livello di → qualifica pro- fessionale per giungere a quelli di tecnico e di quadro/esperto. 1. Tale espressione soddisfa la necessità di delineare una nuova classificazione delle occupazioni tenendo conto delle trasformazioni che hanno portato al supera- mento delle vecchie nomenclature: a) quella basata sui settori, che enfatizza esclu- sivamente gli aspetti economici e tecnologici e che presenta una particolare cecità rispetto ad altri aspetti decisivi quali la funzione, il livello di responsabilità e di au- tonomia nei processi decisionali; b) quella centrata sulla categoria di gruppo pro- fessionale che, se pure supera i limiti della classificazione a matrice economica, non consente di spiegare ed accompagnare adeguatamente le dinamiche che hanno investito la nuova struttura occupazionale quali la diffusione delle → nuove tecno- logie informatiche e telematiche, il peso crescente delle nuove → competenze co- gnitive, comunicative e sociali, infine il processo di professionalizzazione che ha investito buona parte delle attività di → lavoro qualificate (Reyneri, 2002). Allo stesso tempo, tale espressione, identificando una “struttura sociale” collocata in specifici contesti organizzativi e territoriali, supera le difficoltà introdotte dal cosid- detto modello delle competenze che, volendo contrapporsi alla staticità degli ap- procci basati sulle posizioni, finisce per costruire un’architettura autoreferenziale e decontestualizzata (Grisolia - Manzolini, 2000). 2. Rispetto alle tradizionali distinzioni delle occupazioni per settori e gruppi profes- sionali, il concetto di c.p. individua un aggregato a forte valenza culturale che di- segna un campo d’azione sociale nel quale le persone accomunate da fattori distin- tivi, a fronte di una serie di compiti sfidanti, mobilitano le proprie → capacità, → conoscenze, → abilità sviluppando vere e proprie competenze; ciò lo rende mag- giormente fruibile dal punto di vista formativo, evitando di cadere in una prospet- tiva di tecnologia educativa che considera la → formaz. come un processo di adat- tamento della persona alle esigenze del mondo economico e dell’ → impresa in par- ticolare. Si tratta di una prospettiva che postula la totale formabilità umana e nel contempo la piena identificazione o fusione del mondo soggettivo con il mondo economico (Nicoli, 2002). In questo senso, gli “individui diventano delle risorse che devono venir sviluppate, piuttosto che essere considerati come degli esseri 59 umani che valgono in quanto tali e che dovrebbero essere incoraggiati a scegliersi e a costruirsi il proprio futuro” (Morgan, 1999, 101). 3. La prospettiva della c.p. consente pertanto di disegnare in modo nuovo il rap- porto tra persona, aggregazione professionale ed organizzazione, individuando un rapporto di consonanza tra la dotazione delle capacità personali, le risorse (cono- scenze, abilità) apprese tramite percorsi formali o informali, infine le competenze concepite come dotazione del soggetto umano in un contesto definito che ne rea- lizza le potenzialità. Si tratta di una visione a carattere antropologico, che delinea uno spazio mediante il quale il soggetto organizza il suo → progetto personale di vita e di lavoro in base all’immagine che ha di se stesso e all’interazione che si è creata con le altre figure di riferimento; il che gli permette di acquisire la → matu- rità necessaria a tradurre l’immagine di sé in termini professionali. Le scelte pro- fessionali vengono elaborate lungo un processo evolutivo segnato da stadi e carat- terizzato da compiti che l’individuo deve assolvere per pervenire a scelte soddisfa- centi per sé e per la → società, in una sequenza di esperienze e di decisioni che – nella continua relazione con gli altri soggetti (formatori, testimoni ed esperti delle c.p., stakeholder) – gradualmente tessono la trama dello sviluppo della persona. Bibl.: GRISOLIA A. - L. MANZOLINI, “Dalle competenze alle professioni aziendali”, in D. BOLDIZZONI - L. MANZOLINI (Edd.), Creare valore con le risorse umane, Milano, Guerini & Associati, 2000, 35-38; NICOLI D., Manuale per il progettista di formazione, Milano, Provincia di Milano, 2002; REYNERI E., Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino, 2002. D. Nicoli CONGEDO DI FORMAZIONE È una sospensione del rapporto di lavoro riconosciuta dalla L. 53/2000 per un pe- riodo non superiore ad undici mesi, continuativo o frazionato, nell’arco dell’intera vita lavorativa che può essere richiesta da dipendenti di datori di lavoro pubblici o privati, che lavorino da almeno cinque anni nella medesima azienda o amministra- zione. Il c. di f. può essere richiesto (art. 5) per: completare la scuola dell’obbligo; conseguire il titolo di studio di secondo grado o il diploma universitario o la laurea; partecipare ad attività formative diverse da quelle realizzate o finanziate dal datore di lavoro e comunque non strettamente collegate al processo produttivo ma rispon- dente ad interessi personali. Durante il periodo di congedo per la → formaz. il di- pendente conserva il posto di → lavoro e non ha diritto alla retribuzione e al versa- mento dei contributi previdenziali ed assicurativi. Il legislatore ha rinviato alla con- trattazione collettiva delle → Parti sociali le modalità di fruizione del c. di f. come l’individuazione delle percentuali massime dei lavoratori che possono avvalersene compatibilmente con le esigenze organizzative dell’→ impresa o la definizione del monte-ore destinabile ai congedi. La L. 53/2000 ha ampliato la sfera di azione degli interventi formativi rivolti agli occupati dalla → FP continua, legata essen- zialmente alla riqualificazione e all’aggiornamento professionale derivante dall’in- 60 novazione tecnologica ed organizzativa del processo produttivo, a favore dello svi- luppo personale del cittadino-lavoratore. Bibl.: UE - MLPS, Legge n. 53 dell’8 marzo 2000, Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città; ISFOL, Rapporto sulla formazione continua. Relazione presentata al Parlamento, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2006. G. Spagnuolo CONOSCENZE Le c. – in senso plurale per evidenziare la varietà e la difformità dei materiali di cui sono composte – rappresentano le cognizioni di cui l’individuo dispone (nozioni, principi, leggi, regole, concetti, ecc.) riferibili ad aree disciplinari codificate, op- pure a campi d’azione incrementati continuamente dall’esperienza e dall’inven- zione. Le c. si costituiscono quindi entro un legame necessario tra le dimensioni della → ricerca, dell’azione, dell’ → apprendimento. Nelle scienze pedagogiche, le c. sono connesse alle → abilità, e rappresentano assieme ad esse gli ingredienti in- dispensabili perché il soggetto acquisisca la conoscenza intesa come quella qualità – definita da precisi livelli di padronanza di cognizioni – che consente alla persona umana di avere consapevolezza circa la sua collocazione nel mondo. 1. Sul piano didattico, si nota spesso un equivoco, teso ad identificare i saperi con la c., poiché sul piano didattico si considerano come saperi i contenuti del cono- scere, mentre la c. è il livello di padronanza cognitiva dei “contenuti”. Le c. pos- sono essere dichiarative, condizionali o procedurali. Sono dichiarative quelle che riguardano il sapere che cosa e consentono pertanto di riconoscere (ovvero dare un nome a) un fenomeno. Sono condizionali quelle che si riferiscono al dove, quando e perché di un determinato oggetto di c. Sono procedurali quelle che concernono il sapere come si fa una certa operazione e quindi prevedono una stretta relazione con una serie di → abilità. Ma appare difficile procedere oltre in una classificazione delle c. La grande varietà di teorie filosofiche e psicologiche sul conoscere impedi- scono di trovare un’intesa circa una chiara definizione di c. Se le epistemologie classica e moderna convergevano circa la possibilità di una precisa e completa strutturazione del sapere, conducendo così alla piena legittimazione di istituzioni come la scuola e l’accademia connotate dal compito di accumulazione e di → inse- gnamento delle c., secondo le attuali correnti epistemologiche non è possibile orga- nizzare le c. entro una struttura piramidale rigida e predeterminata; esse al contrario riflettono un universo complesso, senza un centro prestabilito, in continua trasfor- mazione. Ciò comporta il passaggio ad una razionalità meno pretenziosa, conte- stuale e progressiva. Il conoscere richiede, quindi, una continua circolarità tra l’a- gire e il riflettere sull’azione, al fine di giungere ad acquisizioni ad un tempo teo- riche e pratiche, ma comunque in continua trasformazione e difficilmente ricondu- cibili a sistemi dati una volta per tutte. 61 2. È convinzione diffusa che le c. non possano essere ricondotte unicamente a ma- terie, discipline o aree culturali. Da questo punto di vista, si distingue tra “cogni- zione”, ovvero un sapere puntuale, riferito ad una realtà specifica, e “metacogni- zione” del sapere che, nella sua organizzazione in un tempo e in uno spazio consi- derati, presenterebbe sempre una struttura disciplinare. Da ciò consegue che com- pito della scuola non è trasmettere le nozioni, quanto consentire nell’alunno la formaz. di un metodo che gli consenta una “conoscenza pertinente, quella capace di collocare ogni informazione nel proprio contesto e se possibile nell’insieme in cui si inscrive. Si può anche dire che la conoscenza progredisce principalmente non con la sofisticazione, la formalizzazione e l’astrazione, ma con la capacità di conte- stualizzare e di globalizzare” (Morin, 2000, 8). I processi di apprendimento nel- l’ambito dell’istruz. e della formaz. conducono a risultati di tipo “cognitivo”, e questi si distinguono dagli apprendimenti di tipo relazionale, emotivo, comporta- mentale, operativo. Il rapporto tra c. e competenze è anch’esso di tipo complesso. Le c. sono – accanto alle abilità – un ingrediente della competenza. In linea gene- rale, il processo di apprendimento viene strutturato in modo che il soggetto debba acquisire certe cognizioni per poter porre in atto una competenza; ma può succe- dere che attraverso l’esercizio di una competenza si acquisiscano e si razionaliz- zino cognizioni che non si possedevano in precedenza. Bibl.: BATESON G., Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1976; GARDNER H., Intelligenze multiple, Milano, Anabasi, 1994; STERNBERG R.J., Stili di pensiero. Differenze individuali nell’appren- dimento e nella soluzione di problemi, Trento, Erickson, 1998; MORIN E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Cortina, 2000; BERTAGNA G., Verso i nuovi piani di studio, in “Annali dell’Istruzione, n. speciale Stati Generali dicembre 2001” 1-2 (2001) 246-277. D. Nicoli CONTRATTI 1. Introduzione. Al fine di ridurre in una economia di “glossario” il vasto tema rela- tivo ai c., si è delimitata l’area di osservazione agli elementi costitutivi del c. come “accordo” tra le parti rappresentate nell’ambito del → mercato del lavoro, non en- trando nel merito di elementi strettamente giuridici e regolamentari dei c. nei più ampi settori politici ed economici. Con riferimento alla vita civile e al mondo del → lavoro, i c. si realizzano attraverso soggetti non individuali ma collettivi, orga- nizzati in forme prevalentemente associative o di cooperazione, che aggregano in- teressi e attività di rilevanza superindividuale e che ricorrono allo strumento con- trattuale per svolgere le proprie attività istituzionali e per realizzare i fini e gli inte- ressi in funzione dei quali le parti stesse si sono costituite in rappresentanze con c. formali o informali. 2. Contrattazione collettiva. Il fenomeno che con maggior evidenza segnala il pas- saggio del c. verso una dimensione collettivo-istituzionale è quello della contratta- 62 zione collettiva, di cui costituisce un es. paradigmatico (ma non esclusivo) il c. col- lettivo di lavoro (indicato a livello nazionale con la sigla CCNL), specificato nelle diverse categorie e stipulato dalle contrapposte organizzazioni sindacali dei lavora- tori e delle rappresentanze dei datori di lavoro. Il c. collettivo ha una funzione pre- valentemente normativa, il cui senso è proprio quello di determinare regole per di- sciplinare non rapporti tra individui, ma tra categorie sociali organizzate. L’oggetto dei c. collettivi si è sempre più ampliato in rapporto alle esigenze di una moderna economia, caratterizzata da produzione, consumi di massa e progressivamente orientata alla globalizzazione, Pur nella complessità dell’evoluzione del mercato del lavoro, i c. collettivi tendono a superare rischi di facile restrizione dell’auto- nomia privata, dovuti alla ineliminabile disparità economica e sociale dei con- traenti, sollecitando, attraverso le proprie organizzazioni sindacali, interventi di ri- equilibrio di posizione dei contraenti, anche nel pubblico impiego, a salvaguardia dei diritti inalienabili della cosiddetta “parte debole”. Il ruolo attuale della contrat- tazione collettiva, se per qualche aspetto appare meno incisivo, per altri aspetti in- dica la necessità di passare da un modello tradizionale del c. ad altre modalità che tengano conto anche della flessibilità controllata dei rapporti all’interno del nuovo → mercato del lavoro. 3. Il sistema contrattuale italiano. Sinteticamente, i fattori che hanno portato alla costruzione del sistema attuale di contrattazione in Italia fanno riferimento: all’au- tonomia delle → parti sociali e alla loro capacità di organizzare la rappresentanza e i loro rapporti di confronto e di concertazione; allo sviluppo economico e tecnolo- gico, di cui la contrattazione deve tener conto come elemento di stimolo; alla cul- tura sociale, intesa come coscienza dei diritti dei lavoratori e della volontà di parte- cipazione allo sviluppo complessivo del Paese attraverso il ricorso al negoziato e all’azione sindacale collettiva. Il sistema contrattuale, nell’ambito delle relazioni sindacali, ha attraversato varie fasi: negli anni ‘60 si è sviluppata la contrattazione aziendale; nel decennio successivo, il processo di sindacalizzazione e di costru- zione organizzativa del sindacato è stato accentuato; negli anni ‘80 si sono creati i primi strumenti di partecipazione (osservatori, protocolli, organismi bilaterali). Nel 1993, il sistema contrattuale ha trovato nuove regole, che hanno consentito il transito dell’economia e della politica all’UE a moneta unica. Le tutele collettive dei CCNL coprono attualmente la generalità del lavoro dipendente, quasi in ogni aspetto del rapporto di lavoro. Schematicamente il sistema contrattuale si compone di: soggetti (rappresentanze sindacali, imprenditori singoli o associati, Stato, → enti locali); contenuti per livello (retribuzioni, inquadramento, orario, diritti di forma- zione, ambiente, informazioni); regole (accordi nazionali, accordi regionali, ac- cordi aziendali, leggi). I principali livelli sono: interconfederale, nazionale di cate- goria, aziendale e territoriale. 4. Fasi e procedure. La contrattazione è un processo che ha proprie fasi, procedure e tempi di durata. In linea generale ad accordo scaduto, o in mancanza di accordi, le organizzazioni sindacali elaborano una piattaforma di richieste che inviano alle 63 controparti imprenditoriali datori di lavoro. Se ci sono le giuste condizioni di rap- porti di rappresentanza contrattuale, o di regole condivise da entrambe le parti, si apre la fase di trattativa e si svolgono le operazioni del negoziato. Le consultazioni dei rappresentati sono attivate con procedure e tempi previsti fra le parti. Se la trat- tativa siglata porta ad un accordo finale firmato, nello stesso accordo è stabilito fra le parti il periodo di validità e il campo di applicazione: i CCNL di categoria du- rano di norma 4 anni per la parte normativa; più o meno hanno la stessa validità i c. regionali e aziendali. Normalmente, i rappresentati (lavoratori / datori di lavoro) sono consultati nella preparazione della piattaforma e prima della firma conclusiva. Presso il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) vengono regi- strati i CCNL confederali e di categoria. Bibl.: TURONE S., Libertà del sindacato in Italia, Bari, Laterza, 1992; BAGLIONI G., Democrazia im- possibile?, Bologna, Il Mulino, 1995; CELLA G.P. - T. TREU, Le nuove relazioni industriali, Bologna, Il Mulino, 1998; CESOS, Le relazioni industriali in Italia, Rapporti Biennali, Roma, CNEL, 1998- 2000. P. Ransenigo CONTRATTO FORMATIVO Il c.f. o pedagogico, nell’accezione più comune, costituisce l’accordo con cui si stabiliscono in modo preciso gli obiettivi della → formaz. e i criteri della sua → va- lutazione. Nel contesto della → FP, istituzione educativa dove convergono più spesso utenti della fascia del disagio, viene predisposto anche come strumento di- dattico-pedagogico che mira a coinvolgere gli allievi e a renderli più direttamente partecipi e protagonisti dei percorsi di → apprendimento. Il c.f. può costituire un utile strumento a supporto della → personalizzazione dei percorsi. Essendo struttu- rato dal team di formatori, viene da essi adottato e gestito durante le attività forma- tive, come documento di riferimento e confronto. 1. Gli obiettivi del c.f. riguardano non tanto l’acquisizione di singoli contenuti o sa- peri, quanto il raggiungimento di specifici traguardi durante il percorso. In modo specifico, nella FP, l’oggetto del c.f. dovrà riguardare attività pratiche o esercizi concreti inerenti le → competenze previste dalla → qualifica professionale. Le atti- vità concrete infatti, riferite a specifiche → abilità, sono facilmente documentabili e misurabili e consentono di puntualizzare le evidenze oggettive su cui basare il c. stesso. Le competenze previste per l’acquisizione della qualifica, ciascuna con i re- lativi saperi e comportamenti, possono essere considerate oggetto del c.f. Con rife- rimento agli utenti della FP, gli obiettivi perseguibili tramite questo strumento ri- guardano in particolare lo sviluppo della → motivazione; la consapevolezza e il controllo del proprio percorso formativo; la capacità di progettare nuove tappe di apprendimento; l’acquisizione delle capacità cooperative e lo sviluppo di capacità metacognitive. 64 2. La formalizzazione del c.f. può assumere diverse forme. Può essere riferita agli apprendimenti personalizzati, c. individuale, o coinvolgere una intera classe, c. d’aula. Può essere punto di riferimento per le attività del → CFP e costituire parte significativa del programma di formazione. Può riguardare l’intero percorso, di- stinti periodi, oppure singole unità di apprendimento. I contraenti sono i formatori, che propongono il c.f., e gli allievi , che ne prendono coscienza, partecipano alla messa in atto e ne discutono le modalità. Possono far parte dei contraenti anche i genitori che desiderano essere coinvolti nel processo formativo. 3. Il successo di questo strumento è legato alla capacità pedagogico-didattica dei formatori che lo gestiscono, alla loro abilità nell’individuarne le modalità di appli- cazione adeguate in rapporto alla tipologia dei → destinatari ed al piano di lavoro previsto. Bibl.: MALIZIA G., “Contratto in educazione”, in J.M. PRELLEZO - C. NANNI - G. MALIZIA (Edd.), Di- zionario di Scienze dell’educazione, Leumann (TO)/Roma/Torino, ElleDiCi/LAS/SEI, 1997, 238; NI- COLI D., Nuovi percorsi di apprendimento nella società cognitiva. Il sistema di Istruzione e Forma- zione Professionale, in “Professionalità”, 78 (2003), 79-88; CECCONI L., “Contratto formativo”, in CIOFS/FP (Ed.), Un glossario per l’orientamento, Roma, Publigrafica Romana, s.d., 49-50. L. Valente COOPERAZIONE → Solidarietà e Terzo settore COPING Il c. (fronteggiamento) può essere considerato come un processo mediante il quale le persone cercano di gestire la discrepanza percepita tra le richieste poste loro da una situazione stressante e le proprie risorse. Più specificatamente la recente ricerca definisce il c. come “gli sforzi della persona, sul piano cognitivo e comportamen- tale per gestire (ridurre, attenuare, dominare o tollerare) le richieste interne ed esterne poste da quelle interrelazioni persona-ambiente che vengono valutate come estenuanti o eccessive rispetto alle risorse possedute” (Folkman et al., 1986, 572). 1. Il concetto di c. trova la sua origine nell’ambito della Psicologia dell’Io, e speci- ficatamente nel lavoro di Anna Freud, L’io e i meccanismi di difesa (1936). È quindi considerato, inizialmente, un processo inconscio, automatico, la cui fun- zione si connota come primariamente difensiva, sebbene si intravedano importanti risvolti adattivi. Successivamente l’interesse dei teorici si focalizza sulle strategie conscie utilizzate dall’individuo in situazioni problematiche; strategie che, diversa- mente dalle inconscie, si caratterizzano per essere flessibili, intenzionali, differen- ziate e orientate alla realtà. 2. Il primo ad occuparsi di c. come attività conscia è Lazarus (1991) che impiega ampiamente tale concetto negli studi sullo stress. Secondo l’A. il c. svolgerebbe 65 due principali funzioni: minimizzare il rischio del danno che potrebbe derivare da un evento stressante (in tal caso si parla di c. centrato sul problema); contenere o attenuare le reazioni emozionali negative (in tal caso si parla di c. centrato sull’e- mozione). Le diverse strategie che la persona utilizza possono essere focalizzate sul problema (c. attivo, problem solving pianificato), sull’emozione (prendere le di- stanze, autocontrollo, fuga-evitamento, assunzione di responsabilità, rivalutazione positiva), o su entrambi (ricerca di sostegno sociale) (Folkman et al., 1986). 3. Per quanto concerne l’efficacia delle strategie adottate, possiamo dire che non esi- ste in assoluto una strategia migliore di un’altra e l’appropriatezza è determinata dal tipo di evento, dal contesto, dalla situazione. In generale, tuttavia, le ricerche fanno emergere come meno efficaci, a lungo termine, le strategie di ritiro-evitamento. Bibl.: FOLKMAN S. et al., Appraisal, coping, health status and psychological syntoms, in “Journal of Personality and Social Psychology”, 50 (1986) 571; FREUD A., L’io e i meccanismi di difesa, Firenze, Martinelli, 1989; LAZARUS R.S., Emotion and Adaptation, New York, Oxford University Press, 1991; ZANI B. - E. CICOGNANI, Le vie del benessere, Roma, Carocci, 1999. A.R. Colasanti CREDITO FORMATIVO Il c.f. rappresenta una documentazione che attribuisce alla persona in possesso di un’acquisizione un valore esigibile presso un organismo formativo, in vista del rag- giungimento di uno specifico titolo. 1. Perché il c. relativo ad un’acquisizione formativa sia effettivamente esigibile, oc- corre che l’organizzazione ricevente riconosca la → certificazione fatta da quella inviante ed attribuisca a questa certificazione un valore affinché possa essere dav- vero utilizzata per accedere a (o progredire in) un percorso formativo o lavorativo senza che alla persona titolare sia imposto di ripetere le attività di → apprendi- mento riconosciute. Di conseguenza, la semplice certificazione non rappresenta di per sé un c. Perché un credito sia tale, bisogna che ci sia un “potere” che lo rico- nosce o che impone alle organizzazioni coinvolte di riconoscerlo. Tale potere ri- sulta da un’intesa condivisa dai diversi attori, in forza della quale si definiscono i criteri di individuazione delle acquisizioni e il percorso formativo con il relativo li- vello entro cui la persona può indirizzarsi. 2. I c.f. sono pertanto da intendere in senso sostanziale, ovvero non solo in riferi- mento allo sforzo necessario in termini di tempo per soddisfarli (è questa la conce- zione universitaria del c.), ma precisamente agli apprendimenti effettivamente pos- seduti e validamente accertati. Il c. inteso in senso sostanziale non può essere ge- stito tramite processi automatici. Esso richiede un approccio discreto, in grado di attribuire alla documentazione attestante gli apprendimenti, il giusto valore in ter- mini di → personalizzazione del percorso formativo. Ciò richiede comunque un dialogo e una negoziazione tra i soggetti coinvolti (organismo inviante, organismo 66 ricevente, persona interessata). Ciò definisce un metodo di lavoro necessariamente relazionale e dialogico-narrativo. Bibl.: AUBRET J. - F. AUBRET - C. DAMIANI, Les bilans personnels et professionnels, Paris, Éditions Eap-Inetop, 1990; CEPOLLARO G. (Ed.), Competenze e formazione, Milano, Guerini & Associati, 2001; COMOGLIO M., La valutazione autentica e il portfolio, Roma, manoscritto, 2001; AJELLO A.M. (Ed.), La competenza, Bologna, Il Mulino, 2002; CIOFS/FP, Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa, Roma, Tipografia Pio XI, 2003. D. Nicoli CULTURA PROFESSIONALE L’evoluzione della concezione del → lavoro dalla dimensione del “mestiere” arti- gianale, attraverso la → “mansione”, tipica della descrizione parcellare dell’attività, cui corrisponde la delineazione di diplomi e → qualifiche professionali standard, è giunta alla definizione della cultura tipica di chi esercita una → competenza. 1. Come alla mansione corrisponde la qualifica, così alla competenza la c.p., quale insieme di → conoscenze, → capacità, → abilità che il soggetto ha acquisito (di- mensione di qualifica professionale) unite alla sua capacità di farvi ricorso attra- verso l’impiego libero e responsabile della ragione scientifica, al fine di produrre ipotesi di risoluzione dei problemi emergenti nelle situazioni lavorative. Essa si so- stanzia non solo di conoscenze tecnico professionali, bensì soprattutto di capacità di autocollocazione all’interno di reti relazionali che costituiscono il luogo delle di- namiche di controllo di processo, oltre che di → apprendimento organizzativo. 2. Ben oltre una lettura tipica delle professioni liberali, è qui il riferimento alla ca- pacità di giocare un → ruolo professionale nei termini di condivisione di esperienze e di culture, di assunzione di spazi di responsabilità, di interazione formativa con persone e sistemi al fine di produrre nuovo sapere all’interno delle concrete situa- zioni lavorative. Questa si sostanzia della capacità di operare all’interno della cul- tura dell’organizzazione in quanto assieme di regole di comportamento, linguaggi tipici, riti e miti, forme autonarrative di cui quella si avvale al fine di descrivere se stessa e di regolare i propri confini e i comportamenti al suo interno. Bibl.: BOCCA G., Pedagogia della formazione, Milano, Guerini studio, 2000; MONTEDORO C. (Ed.), Dalla pratica alla teoria per la formazione: un percorso di ricerca epistemologica, Milano, F. Angeli, 2000; ID. (Ed.), Le dimensioni metacurricolari dell’agire formativo, Milano, F. Angeli, 2001. G. Bocca CURRICULUM VITAE È lo strumento attraverso cui il candidato presenta la propria → formaz., le proprie → capacità e inclinazioni, nonché il percorso di studi realizzato e le eventuali espe- rienze professionali pregresse, all’azienda in cerca di nuovi dipendenti. 67 1. La ricerca del → lavoro ha un punto di partenza obbligatorio: il c.v. La stesura di questo documento è il primo passo sulla strada che porta alla conquista di un posto in un’azienda o di un rapporto di collaborazione interessante. Inviato in risposta ad un’inserzione su un giornale, su internet e/o su una rivista, o come candidatura spontanea, il c.v. è considerato dai selezionatori un vero e proprio biglietto da visita del candidato (Peruzzi, 2002, 10). Il c.v. deve rispecchiare il carattere del suo au- tore: pertanto, è importante che espliciti bene, in due pagine al massimo, informa- zioni anagrafiche e relative al percorso formativo, l’obiettivo professionale e i ri- sultati raggiunti. Logica conclusione di tutto ciò è che saper scrivere con accortezza un c.v. è un’ → abilità che, se sviluppata, può contribuire ad agevolare la ricerca e la conquista di un posto di lavoro. A tal fine è necessario sapersi descrivere in con- siderazione degli specifici bisogni e interessi di chi lo legge che devono essere in- dividuati, anche se in prima approssimazione, già durante l’impostazione del c.v. e approfonditi poi durante il colloquio (Adani, 2003a, 25). 2. La Commissione Europea ha proposto uno specifico modello di c.v. da utiliz- zare. L’obiettivo è favorire una maggiore chiarezza e trasparenza delle informa- zioni che potranno essere gestite meglio anche dalle banche dati europee. Per quanto riguarda i candidati, il modello si propone di aiutarli a valorizzare la → pro- fessionalità acquisita e a comunicarla efficacemente. Bibl.: PERUZZI M. (Ed.), Lavoro e pensioni, Milano, Il Sole 24 Ore, 2002; ADANI L., Il lavoro è tuo! Guida al colloquio di assunzione, Milano, ETAS, 2003a; ID., Curriculum! Le regole da seguire, gli errori da evitare, i modelli più efficaci in italiano e in inglese, Milano, ETAS, 2003b; S.A., Curri- culum vitae e colloquio di lavoro, in http://www.studenti.it/partner/cliccalavoro/utilita/ curriculum.php, 05.03.2004; S.A., Cos’è e come si fa il curriculum vitae, in http://www.studenti.it/partner/cliccalavoro/utilita/curriculum.php, 05.03.2004. R. Paggi DESTINATARI I d. della → FP si suddividono in due macro-categorie, i “soggetti individuali” e quelli “istituzionali”, a loro volta ripartiti in più sottocategorie. 1. Tra i “soggetti individuali” si possono ricordare: a) gli studenti e gli allievi del sistema educativo di istruz. e di → formaz. e dell’università; b) i giovani inoccu- pati/disoccupati e/o a rischio di → esclusione; c) gli adulti occupati, a bassa so- glia di qualificazione e/o a rischio di espulsione, disoccupati, in cassa integra- zione, in → mobilità, in riconversione; d) coloro che appartengono alle fasce de- boli del → sistema produttivo (donne, immigrati, portatori di handicap, drop- outs, giovani a rischio di devianza, detenuti). Appartengono tra l’altro alla cate- goria dei “soggetti pubblici”: a) il sistema educativo di → istruz. e di formaz.; b) il sistema produttivo; c) le istituzioni; d) i servizi socio-assistenziali; e) le comu- nità (ri)educative. 68 2. L’obiettivo di fondo è quello di dare a tutti → “pari opportunità” nel soddisfare la domanda di formaz. proveniente dal territorio, finalizzata: a) all’ → accompagna- mento, inserimento e reinserimento nel mondo del → lavoro (sportello informativo, → orientamento, tutoring, ecc.); b) all’attività di → prevenzione attraverso forme di animazione socio-culturale (associazionismo a scopo educativo, sportivo-ricrea- tivo, ecc.), di assistenza psicopedagogica e di orientamento (counseling, bilancio di competenze, ecc.); c) all’attività di recupero attraverso interventi (ri)educativi ba- sati sull’ergoterapia e/o su processi formativo-professionalizzanti (→ processo for- mativo) indirizzati a soggetti a rischio (carcerati, utenti delle comunità terapeutiche e/o delle comunità rieducative, portatori di forme varie di → disagio, ecc.) e/o a segmenti deboli del sistema (portatori di handicap, giovani, donne, immigrati, ecc.); d) all’attività di → ricerca, studio, → sperimentazione (analisi dei bisogni del territorio, osservatorio ed elaborazione dati sul → mercato del lavoro, incontro tra domanda formativa e offerta occupazionale, ecc.). 3. In pratica, quindi, un’attività formativa “per tutti/per tutte le stagioni della vita”, trasformata in un servizio “trasversale” alle diverse strutture/istituzioni grazie ad un’apertura a tutto campo nei confronti delle variegate utenze che fanno capo ad altrettante esigenze/emergenze del territorio, a loro volta suddivise per fasce d’età, status sociale, condizioni di vita più o meno precarie/sfavorevoli a livello psi- chico, sociale, formativo, comportamentale, in vista di una maturazione sia profes- sionale (→ maturità professionale) che della personalità globale (valori, attitudini, interessi, ecc.). Solo prendendo in considerazione entrambi i “soggetti” (pubblici e privati) ed entrambe le componenti (professionali e della personalità) la valenza formativa della → FP contribuisce a meglio qualificare e programmare interventi formativi mirati ai reali → bisogni dei differenti gruppi sociali del territorio, dal momento che l’acquisizione di una → professionalità oggi più che mai viene stret- tamente collegata all’investimento nella risorsa-uomo e, quindi, alla costruzione della propria → identità e di un progetto di vita personalizzato. In questa prospet- tiva, la FP si presenta come un processo complesso e completo al tempo stesso che, mentre per un verso attende alle diverse istituzioni pubbliche del territorio, non può non tener conto congiuntamente delle variegate sfaccettature dei suoi utenti e dei peculiari bisogni dei singoli. Da qui l’urgenza di “trasversalità” e di un lavoro di → rete collaborativo, in un’ottica di superamento dei cementati confini tra pubblico e privato, tra individuo e istituzioni. Tutto questo suppone un’azione coordinata che permetta l’integrazione, in forma articolata, tra strutture formative, istituzioni educative, mondo del lavoro, Amministrazioni locali e risorse del terri- torio, al cui interno la FP si fa “anello” di interconnessione tra i bisogni del sin- golo utente (qualunque sia la sua categoria di appartenenza) e le istanze del terri- torio. Bibl.: MONTEDORO C. (Ed.), La personalizzazione dei percorsi di apprendimento e di insegnamento. Modelli, metodi e strategie didattiche, Milano, F. Angeli, 2001; DI FRANCESCO G. - I. PITONI (Edd.), La qualità dei processi formativi. Approcci, risultati e prospettive, Milano, F. Angeli, 2002; ISFOL, Rap- porto 2002, Milano, F. Angeli, 2002; ISFOL, Rapporto 2005, Roma, Tiellemedia, 2005; PIERONI V. - 69 G. MALIZIA (Edd.), Percorsi/progetti formativi “destrutturati. Linee guida per l’inclusione socio-lavo- rativa dei giovani svantaggiati, Roma, Tipografia Pio XI, 2005; URSINO C., Sistemi che dialogano. Strumenti metodologici e normativi per la progettazione formativa, Lecce, Pensa Multimedia, 2005. V. Pieroni DEVIANZA → Destinatari DIDATTICA INDUTTIVA La parola d. richiama subito considerazioni legate all’insegnamento, all’attività dell’insegnare. D. e insegnamento non sono comunque la stessa cosa. La d. è una sezione del sapere pedagogico che ha per oggetto le modalità dell’insegnare. I modi con cui concretizziamo l’attività d. possono essere diversi: possiamo presen- tare prima molte informazioni, dei principi generali, dai cui dedurre poi comporta- menti particolari; oppure possiamo procedere al contrario, partendo da fenomeni, informazioni parziali, comportamenti ben definiti che conosciamo, per costruire leggi, elaborare considerazioni e comportamenti di carattere generale. 1. L’impostazione della d. tradizionale pone al centro la disciplina e le sue cono- scenze cercando di essere attenta alla completezza del messaggio comunicato. È una modalità deduttiva di far apprendere. Nell’ambito della scuola attiva, la d.i. rove- scia, in un certo modo, tale modalità, centrando l’attenzione sul → processo formati- vo dell’allievo, considerato nella sua struttura bio-psicologica, socio-culturale e va- loriale. La d.i. è un momento operativo dell’insegnamento, identificabile come un’attività intenzionale e organizzata, volta a gestire un processo formativo secondo strategie ritenute efficaci, tendenti a sviluppare, estendere, approfondire, modificare abilità, conoscenze, atteggiamenti e valori negli allievi. La d.i. si basa su un procedi- mento logico che dall’osservazione di un certo numero finito di fatti o eventi o espe- rienze particolari risale a principi o leggi generali. Essa si oppone alla deduzione che usa un procedimento esattamente opposto: dal principio generale ai casi partico- lari.. Il tipo più semplice di d.i. generalizza un giudizio su aspetti della realtà che so- no visti dal didatta più volte e nella stessa forma. Tale giudizio generalizzante è an- che alla base della formazione del senso comune. Le forme con cui la d. si esprime ed i saperi che comunica sono molteplici e si esplicano in alcuni passaggi: progetta- re per → obiettivi, seguire un modello lineare, progettare per contenuti, progettare per concetti, progettare per situazioni, progettare per padronanze. La d.i. progetta il processo formativo per situazioni che risultano particolarmente funzionali all’ → ap- prendimento in cui l’esperienza dell’allievo è imprenscindibile. La realtà dell’allie- vo è determinante per le situazioni di apprendimento che si vengono a creare, per quelle situazioni cioè in cui l’esperienza passata va rivista e rimodellata per meglio affrontare l’esperienza futura. La d.i. è caratterizzata da alcuni elementi che possono 70 essere così riassunti: la → progettazione avviene per situazioni, contesti, ambienti, sfondi…; il soggetto che apprende è al centro del processo; le azioni richieste all’al- lievo sono il saper analizzare le situazioni, l’individuare gli elementi problematici, l’imparare ad interpretare la complessità della realtà; le azioni dell’insegnante sono orientate a facilitare e mediare le esperienze, provocare situazioni problematiche, sviluppare la → motivazione degli allievi; il processo formativo è costituito dalla ri- cerca fatta insieme, senza distinzione di ruoli tra chi insegna e chi apprende (pur ri- spettandone le differenze); gli obiettivi sono identificati nei traguardi possibili, per- ché dipendono dalle esperienze e possono cambiare se lo svolgimento didattico in itinere lo richiede; il parametro valutativo più importante è costituito dall’insieme di giudizi personali raccolti nello sviluppo dell’intervento. 2. I suoi elementi più critici riguardano la perdita di una visione globale del curri- colo, la mancanza di verifica e di controllo. Inoltre i maggiori costi nella gestione dell’intero processo e l’allungamento dei tempi possono, in qualche modo, portare a risultati di minore efficienza nell’intero processo formativo e non singole parti. Gli elementi che possono rendere una d.i. interessante, riguardano la maggior atten- zione data al soggetto, all’efficacia dell’apprendimento per esplorazione e alla mo- tivazione che è un elemento molto importante nell’apprendere. Bibl.: FRANCESCHINI G., Apprendere, insegnare, dirigere nella scuola riformata. Aspetti metodologici e profili professionali nella nuova scuola di base, Pisa, Edizioni ETS 2000; TESSARO F., Metodologia e didattica dell’insegnamento secondario, Roma, Armando 2002; LANEVE C., La didattica tra teoria e pratica, Brescia, La Scuola, 2003; FRABBONI F., Didattica e apprendimento, Palermo, Sellerio di Giorgianni, 2006. N. Zanni DIPLOMA PROFESSIONALE → FPI; → FP superiore; → Istruzione e FP; → Personalizzazione; → Apprendistato DIRETTORE Il d. (o dirigente) “è la figura responsabile del Centro polivalente di servizi forma- tivi, garantisce la coesione con gli indirizzi dell’Ente, presidia attraverso il team di- rettivo l’attività del Centro in tutti i suoi aspetti, curando in modo particolare le re- lazioni esterne ed il clima interno” (Nicoli, 2004, 65). 1. L’evoluzione recente. In generale con la decade ’90 si è passati da una conce- zione meramente burocratica (il d. come responsabile di un ufficio dell’amministra- zione periferica dello Stato) e/o educativa (il d. come il primo degli educatori ope- ranti nella singola scuola e loro animatore) ad una “manageriale” che comprende oltre agli aspetti amministrativi, pedagogici e di animazione anche quelli di carat- tere gestionale. Passando alla → FP in specie, una indagine nazionale della metà degli anni ’90 ha messo in risalto una diffusa insoddisfazione nei confronti dell’ar- 71 ticolazione dei compiti del d. quale delineata nel CCNL (→ contratti) per cui sem- brava necessario una riaccorpamento e una semplificazione dell’elenco frammen- tato di → mansioni in un disegno sintetico ed essenziale di macro-funzioni. 2. Il d. della FP del 2000. Sulla base della riflessione successiva e tenendo conto della riforma in atto, si è arrivati alla definizione con cui si è aperta la voce. In ogni caso, “le sue competenze chiave sono: presidio del territorio e delle relazioni socia- li; gestione delle dinamiche proprie dell’organismo formativo; gestione delle risor- se; presidio dell’area giuridico-finanziaria e contrattualistica; gestione delle infor- mazioni, cura del clima organizzativo e della coesione con la carta dei valori ed il progetto formativo dell’Ente; gestione delle → risorse umane, attribuzione di incari- chi e presidio del team; pianificazione e programmazione; indirizzo, controllo e va- lutazione della qualità” (Nicoli, 2004, 65). Globalmente si possono indicare cinque possibili macro-funzioni che dovrebbero essere gestite in modo integrato per ottene- re un servizio formativo di qualità: 1) la funzione tecnica che consiste nell’uso di valide tecniche di gestione (pianificazione, gestione del tempo, coordinamento, pro- grammazione e organizzazione, …). Una buona gestione tecnica del → lavoro for- mativo resta indispensabile per il funzionamento dei → CFP, in quanto assicura un senso di affidabilità, continuità ed efficienza; 2) la funzione di gestione delle rela- zioni umane che si esprime nella capacità di rapportarsi con le persone, si esplica nel sostegno al miglioramento e ha come base la → motivazione e lo sviluppo degli allievi e del personale, a partire da quello docente, nella prospettiva della collegiali- tà e dell’autonomia; 3) la funzione educativa in senso stretto che deriva dalla cono- scenza esperta dell’istruz. e della → formaz. e fa percepire il d. come leader ricono- sciuto dai propri docenti (→ formatore di insegnanti in quanto ha una forte pratica didattica maturata sul campo); 4) la funzione simbolica che parte dalla funzione di “capo” con cui il d. viene percepito e dal suo ruolo di rappresentare l’unità del CFP. In particolare questa funzione simbolica si esprime nella capacità di finalizzazione, di visione, o di far cogliere il senso delle cose, di indicare le priorità, di orientare ed identificare le varie componenti del Centro e interpretare i loro sentimenti e aspetta- tive; 5) la funzione culturale che è la forza chiave per creare un’identità condivisa attorno ai valori distintivi del CFP e per inserire i nuovi collaboratori e studenti, per costruire un pensiero comune e una “comunità morale”. Il compito della leadership come costruzione di cultura è quello di infondere valori, creando l’ordine morale che lega il leader alle persone attorno a lui (Cusinato - Salatin, 2004, 181-182; Ma- lizia et alii, 2004, 370-371). La leadership va praticata in funzione del contesto. Per dirigere un Centro efficace occorre tener conto di diverse possibili strategie: 1) quel- la basata sullo scambio, in cui le varie parti operano in nome di rapporti di forza e di convenienze reciproche; 2) quella basata sulla costruzione, come offerta di condi- zioni che permettono di crescere con uno sforzo comune; 3) quella basata sull’unio- ne, come capacità di valorizzare le relazioni tra le persone a partire dal riconosci- mento della leadership; 4) quella basata sul legame, come riconoscimento di un “noi” e dell’autorità morale del leader in nome di idee e valori comuni (Cusinato - 72 Salatin, 2004, 182; Malizia et alii, 2004, 371). Il personale direttivo dovrebbe creare le seguenti condizioni: 1) sviluppare i valori comuni, trasformando i collaboratori da subordinati (che rispondono a procedure e regole) a una comunità di leader (che rispondono ad idee e valori); 2) costruire in loro capacità di iniziativa, di autocon- trollo, di autogestione e di autoresponsabilizzazione; 3) sviluppare l’empowerment (conferimento di potere) attraverso la delega e lo stimolo dell’iniziativa, ma chie- dendo anche conto dei risultati; 4) esprimere capacità di realizzazione, passando da un potere su ad un potere per, dal controllo all’influenza e alla facilitazione; 5) svi- luppare la collegialità come strategia e non come semplice adempimento, a partire dall’es. personale di cooperazione, dal riconoscimento dei collaboratori, dalla co- erenza rispetto ai valori conclamati; 6) enfatizzare la → motivazione intrinseca delle persone rispetto a quella estrinseca (ricompense economiche o materiali); 7) assu- mere un orientamento alla → qualità, come elemento distintivo del servizio del CFP; 8) valorizzare la semplicità, rispetto alle architetture organizzative complesse (Cusinato - Salatin, 2004, 182-183; Malizia et alii, 2004, 371). Bibl.: MALIZIA G. et alii, Il direttore e lo staff di direzione come perno del rinnovamento organizza- tivo della Formazione Professionale, Roma, CNOS-FAP, 1996; SERGIOVANNI T.J., Dirigere la scuola comunità che apprende, Roma, LAS, 2002; CUSINATO W. - A. SALATIN, La gestione delle risorse umane nella scuola, in CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), Dirigere e coordinare le scuole, Brescia, La Scuola, 2004, 177-202; MALIZIA G. et alii, Conclusioni generali, in CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), Dirigere e coordinare le scuole, Brescia, La Scuola, 2004, 344-377; NICOLI D., Il direttore dei Centri di Formazione Professionale CONFAP, in CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), Dirigere e coordinare le scuole, Brescia, La Scuola, 2004, 65-86; TONI R., Il diri- gente scolastico, Milano, Mondadori, 2005. G. Malizia DIRITTI FORMATIVI In senso giuridico, i d.f. definiscono l’insieme delle prestazioni che assicurano il raggiungimento di un risultato, la → formaz.; mentre, da un punto di vista pedago- gico, si riferiscono al complesso delle misure rivolte a garantire la formaz. di ogni uomo, di tutto l’uomo, per tutta la vita. 1. La riflessione pedagogica. Gli anni ‘80 hanno segnato l’allargamento del diritto alla formaz., caratterizzato fino ad allora prevalentemente dai tratti della quantità, dell’uniformità e dell’unicità; tale estensione ha portato a comprendere anche gli aspetti della → qualità, della differenziazione e della → personalizzazione. Pertanto non basta assicurare l’accesso di tutti, ma è necessario garantire una formaz. di qualità, cioè processi di → insegnamento/ → apprendimento efficaci. Nella stessa prospettiva si dovrà anche contemperare eguaglianza e diversità, tutela ed eccel- lenza. Un altro orientamento è consistito nel potenziare la partecipazione alla ge- stione delle strutture formative di tutte le componenti perché la riduzione e l’elimi- nazione delle diseguaglianze di opportunità non possono essere realizzate senza il coinvolgimento dei gruppi che soffrono direttamente dell’impatto delle disparità. Il 73 concetto di diritto alla formaz. mentre si è esteso e diversificato sul piano dei con- tenuti, ha dato vita, in riferimento ai soggetti tutelati, a principi autonomi. In propo- sito si possono ricordare quello dell’eguaglianza fra i due sessi; la formaz. intercul- turale che consiste nella messa in rapporto delle culture, nell’interfecondazione, mentre esclude l’assimilazione; l’integrazione degli handicappati (→ diversabilità e FP), che significa rispondere ai → bisogni di tutti gli allievi e di ciascuno, dare ri- sposte differenziate perché gli allievi sono diversi e fornirle all’interno dell’offerta formativa ordinaria. Comunque, il cambiamento più profondo sul piano pedago- gico consiste nell’accettazione mondiale della strategia della formaz. permanente. Qui mi limito a ricordare che essa significa garantire la formaz. di ogni uomo, di tutto l’uomo, per tutta la vita. 2. I risvolti giuridici e politici. Lo sbocco finale è rappresentato dalla L. 53/03, la cosiddetta “Riforma Moratti”, che all’art. 2., co. 1, lettera c) assicura a tutti “il di- ritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età” nel quadro della promozione dell’“apprendimento in tutto l’arco della vita” - art. 2, co. 1, lettera a). Inoltre, la L. costituzionale 3/01 all’art. 117, lettera m, colloca la formaz. tra quei diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e per i quali lo Stato è chiamato a determinare i → livelli essenziali delle prestazioni. Il salto di qualità realizzato in materia dalla riforma Moratti ha trovato la sua attua- zione concreta con l’approvazione del D.lgs. 76/05 che definisce la norme generali sul diritto-dovere all’istruz. e alla formaz.. Nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arco della vita, esso ribadisce l’impegno della L. 53/03 a garantire a tutti eguali opportunità di conseguire livelli culturali elevati e di sviluppare → capacità e → competenze adeguate a una transizione soddisfacente nella → società e in partico- lare nel mondo del → lavoro. L’→ obbligo scolastico e l’obbligo formativo non vengono dimenticati, trascurati o indeboliti, ma trovano un loro inveramento più pieno nella nuova normativa, nel senso che vengono ridefiniti e ampliati come di- ritto all’istruz. e alla formaz.: in altre parole, la fruizione dell’offerta educativa viene a rappresentare per tutti, includendo anche i minori stranieri, sia un diritto soggettivo sia un dovere sociale. I giovani incominciano a beneficiare concreta- mente del diritto-dovere con l’iscrizione alla scuola primaria e nella secondaria di primo grado tale tutela si traduce almeno nella organizzazione da parte delle scuole di iniziative di → orientamento. Quanti poi ottengono il titolo del primo ciclo si iscrivono ad un istituto del sistema dei licei o del sistema di istruz. e → FP fino al conseguimento di un diploma liceale o di un titolo o di una → qualifica professio- nale di durata almeno triennale sino al diciottesimo anno di età. Sul piano informa- tivo, a sostegno dell’attuazione del diritto-dovere, viene creato il sistema nazionale delle anagrafi degli studenti. I genitori dei → minori e coloro che a qualsiasi titolo ne facciano le veci sono responsabili dell’assolvimento del dovere di istruz. e di formaz. insieme a un gruppo numeroso di soggetti individuali e istituzionali. È stato senz’altro positivo che l’attivazione dei corsi di istruz. e di FP, rivolti alle ra- 74 gazze e ai ragazzi che, concluso il primo ciclo di studi, manifestino la volontà di accedervi, non sia stata rimandata a un momento successivo all’emanazione dello specifico decreto legislativo sul secondo ciclo. L’Accordo Stato-Regioni su istruz. e formaz. ha consentito di avviare già dal 2003 la → sperimentazione dei percorsi triennali di istruz. e di formaz.. In pratica, questa ha messo a confronto due tipo- logie molto diverse. Infatti, le Regioni come l’Emilia-Romagna, la Campania, la Toscana e la Puglia hanno puntato all’integrazione dei percorsi di istruz. statale con moduli di FP. Al contrario, Lombardia, Liguria, Piemonte e Veneto hanno mirato alla integrazione dei sistemi, in altre parole hanno sperimentato un percorso forma- tivo, tutto nella FP, in conformità con lo spirito della riforma Moratti. Il secondo tipo di percorsi sperimentali triennali mettono in evidenza una serie importante di risultati positivi che attestano la maggiore efficacia di questo modello. Infatti, au- mentano gli allievi a tal punto che le Regioni non riescono a soddisfare tutte le ri- chieste e i percorsi rivelano un alto tasso di continuità tra gli anni con una crescita anche degli iscritti dalla scuola; gli esiti formativi sono mediamente più elevati di quelli dell’istruz. tecnica e professionale con meno del 10% di insuccessi rispetto al 25%; le varie componenti (allievi, → formatori, genitori) delle comunità formative manifestano in generale un elevato gradiente di soddisfazione. Il nuovo Governo di centro-sinistra ha deciso di elevare di due anni l’obbligo di istruz. (cfr. comma 626 della L. 296/06). Infatti, a giudizio del Ministro, “Due anni in più di istruzione sono necessari non solo per consolidare ed innalzare le competenze di base di tutti ma anche per consentire di effettuare le scelte di indirizzo e di percorso ad un’età non troppo acerba e con una maggiore consapevolezza, da parte dei giovani e delle loro famiglie, delle propensioni e delle attitudini effettive” (Audizione del Ministro del- l’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione, 2006, 18-19). Nel confronto tra obbligo di istruzione e diritto-dovere di istruz. e di formaz. ri- tengo che vada preferita senz’altro la seconda impostazione. E la giustificazione più sintetica ed efficace di questa affermazione la si può trovare nelle seguenti pa- role di Romei: l’“obbligo presuppone una concezione di cittadini come sudditi o comunque come soggetti non del tutto in grado di comprendere l’importanza del proprio sviluppo personale e sociale, che uno Stato benevolo e lungimirante e sol- lecito degli interessi loro e dell’intera società costringe ad istruirsi anche contro il loro stesso disinteresse se non addirittura renitenza. […] Il diritto (soggettivo)-do- vere (sociale) […] fa invece affidamento sulla consapevolezza di sé dei cittadini, e sulla loro capacità di assumere in prima persona il compito della propria forma- zione” (2005, 20-21). Bibl.: Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con D.M. n. 672 del 18 luglio 2001, in “An- nali dell’Istruzione” 47 (2001) 1/2, 3-176; MONTEMARANO A., Dall’obbligo scolastico e formativo al diritto-dovere all’istruzione e formazione, in “Rassegna CNOS” 21 (2005) 3, 110-116; ROMEI P., Di- ritto-dovere all’istruzione e alla formazione: qualche considerazione, in “Dirigenti Scuola”, 24 (2005) 4, 20-26; Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione (29 giugno 2006), Roma, 2006; MALIZIA G. - V. PIERONI, La sperimentazione dei percorsi triennali di istruzione e di formazione professionale in Piemonte. Primi risultati, in “Ras- 75 segna CNOS” 22 (2006) 1, 65-96; NICOLI D., Diritto-dovere di istruzione e formazione o obbligo sco- lastico?, in “Presenza CONFAP” 21 (2006) 1-2, 53-59; SUGAMIELE D. (2006), Dati utili per l’attua- zione del sistema educativo di istruzione e formazione, in “Presenza CONFAP” 21 (2006) 1-2, 7-52. G. Malizia DISAGIO Il d. è un termine generico che spesso viene usato per descrivere condizioni indivi- duali e condizioni sociali di carenza di benessere. Il d. indica una mancanza, una condizione di difficoltà in cui si trova un individuo e che si evidenzia attraverso manifestazioni diverse che tendono ad isolare o ad escludere il soggetto dalla → so- cietà (→ esclusione sociale). 1. Questa difficoltà può scaturire da problematiche collegabili alla sfera personale, relazionale o professionale dell’individuo. Pertanto, intervenire sul d. significa in- tervenire su cause che, a seconda dei casi, interessano la sfera psicologica o la sfera socio-economica, e che quindi richiedono l’affinamento di strumenti specifici di comprensione del fenomeno a livello individuale. La condizione di d. impedisce al soggetto di sfruttare al meglio il beneficio proveniente dalla partecipazione ad un’attività formativa, quindi l’analisi dei fabbisogni formativi di soggetti in condi- zione di d. deve necessariamente integrare una dimensione attenta agli aspetti psico-emotivi che possono interferire con i processi pedagogici in cui questi sog- getti vengono coinvolti. 2. La tendenza attuale, in materia di → formaz. destinata a pubblici in condizione di d., consiste nel valutare la capacità del soggetto ad accogliere proficuamente l’in- tervento formativo. Tale processo può essere equiparato, in materia di occupazione, all’azione di incremento dell’→ occupabilità di un soggetto che non presenti le condizioni richieste per l’inserimento nel mondo lavorativo, e che debba quindi creare le condizioni minime per aspirare a un posto di → lavoro. In alcuni Stati della UE (Francia, Regno Unito), si sta diffondendo una prassi che tende a interve- nire sulle situazioni di d. individuale a monte di qualsiasi percorso formativo, al fine di permettere al soggetto di ottimizzare l’esperienza formativa successiva. Bibl.: SARACENO C., Glossario del disagio, in “Esclusione Sociale” 1 (1993) 21-25; HUSKINS J., Qua- lity work with young people. Developing social skills and diversion from risk, Manchester, 1996; CREPET P., Non siamo capaci di ascoltarli. Riflessioni sull’infanzia e sull’adolescenza, Torino, Ei- naudi, 2001. A. Felice DIVERSABILITÀ E FP 1. La parola “handicap” è stata eliminata dalla Classificazione dell’OMS perché comporta la presenza di un ostacolo che impedisce al soggetto di raggiungere uno 76 scopo. Nel sociale connota un → disagio che pone al soggetto diversamente abile la difficoltà di integrarsi nella → società e nel mondo del → lavoro. Egli perciò ha bi- sogno di una → formaz. che tenga conto delle diverse → capacità e/o esigenze, in modo da essere inserito in classi comuni o in corsi pre-lavorativi per essere orien- tato ad un lavoro a lui adatto con interventi formativi specifici. Perciò tutti i suoi → formatori (coordinatori di processo e attività di integrazione, progettisti, orientatori, valutatori di processi formativi, → tutor) devono mantenere collegamenti con i Centri per l’impiego delle Province (→ servizi per l’impiego), per garantire l’in- contro tra domanda e offerta. 2. Un progetto mirato (L. 485 del 21.12.1978: art. 3, co. l) e m); e art. 8, co. g) e h) e successivamente confermato dalla cosiddetta “Riforma Moratti” del 2003 pre- vede l’inserimento del disabile nei percorsi formativi ordinari e garantisce a quelli che non siano in grado di avvalersi dei metodi di → apprendimento normali l’ac- quisizione di una → qualifica anche mediante attività specifiche nell’ambito della → FP, orientandoli con piani educativi individuali per perseguire obiettivi di sbocco in nuovi profili di lavoro. La FP perciò programma interventi formativi, → valuta- zione e → monitoraggio continuo, bilancio e riconoscimento delle → competenze sviluppate, sostegno ed accompagnamento durante la formaz. e il → tirocinio, at- tenzione al ruolo dei formatori e tutor, sostegno alle → famiglie. Ogni apprendi- mento per attività lavorativa è ben impostato se avviene a stretto contatto con la realtà, le → motivazioni, le difficoltà, le gratificazioni e le frustrazioni che da essa possono derivargli. Il momento preparatorio al lavoro (FP) e l’attività lavorativa vanno relazionati per essere nella vita comunitaria occasioni di successivi momenti di maturazione. Gli interventi per l’inserimento lavorativo nel contesto della FP oggi si avvantaggiano di esperienze e scambi tra Paesi europei che ne facilitano le possibilità e migliorano la preparazione degli operatori. Con un’azione formativa centrata sulla persona e con attività operativo-pratiche, si orienta l’integrazione fa- cendo recuperare autonomia e protagonismo. Si realizza più facilmente l’integra- zione lavorativa quando è adeguata la formaz. degli operatori impegnati a vario ti- tolo nel sostegno alle famiglie, nell’integrazione e nell’iter di → accompagnamento negli ambienti di lavoro. Questo è possibile oggi anche per l’affermarsi di → nuove tecnologie e per una diversa organizzazione del lavoro. Ad es., il Progetto Horizon aiuta persone affette da specifiche difficoltà; il telelavoro diventa possibile in casi di non facile spostamento. Perciò la nuova frontiera della FP sviluppa nel disabile autonomia, professionalità, capacità di partecipazione alla vita comune, valorizza- zione delle potenzialità e competenze, interazione coi possibili ambiti lavorativi, orientamento vocazionale. Questi sono i pilastri degli interventi delle fasi della pre- parazione e dell’inserimento nel mondo del lavoro. Bibl.: MONIGA S. - R. VIANELLO, Handicap mentale. Dalla scuola al mondo del lavoro: esperienze e prospettive, Torino, UTET, 1994; VAN LOOY L. - G. MALIZIA (Edd.), Formazione professionale sale- siana. Proposta in una prospettiva multidisciplinare, Roma, LAS, 1997; CAUSIN P.- S. DE PIERI (Edd.), Disabili e società. L’integrazione socio-lavorativa in prospettiva europea, Milano, F. Angeli, 1999; ANTINORI F. et al., Autonomia, formazione e inserimento lavorativo dei disabili, Padova, 77 CLEUP, 2000; FERRARI A., Equilibristi senza reti, Milano, F. Angeli, 2000; CONCLAVE M. - A. PE- TRANGELI (Edd.), ICF e Politiche del lavoro, Il progetto. Il mondo della formazione. La sperimenta- zione sul territorio. L’analisi del contesto, Roma, MLPS, 2005. G. Morante DON BOSCO E LA FP Nel periodo 1853-1862, don Bosco (1815-1888) [= DB] – fondatore della Società Salesiana (1859), dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1872) e dei Coope- ratori Salesiani (1876) – organizzava a Valdocco, nella periferia della città di To- rino, sei → laboratori: calzolai, sarti, legatori, falegnami, tipografi, fabbri. Con l’aiuto dei collaboratori, le opere per giovani artigiani si trasformarono progressi- vamente in istituti di → FP. I suoi rapporti con il “mondo del lavoro” erano comin- ciati molti anni prima. 1. Esperienze di lavoro manuale. Nato ai Becchi (Catelnuovo d’Asti) in una → fa- miglia contadina, Giovanni Bosco riceve la prima → formaz. in contesto socioeco- nomico rurale. Ancora ragazzo, alterna “lo studio e la zappa” e diviene garzone di campagna presso una famiglia agiata. Allorché frequenta grammatica, umanità e re- torica nelle scuole di Chieri, dedica alcune ore del giorno al → lavoro come ap- prendista sarto e come “caffettiere e liquorista”. Mentre compie gli studi di filo- sofia e di teologia nel seminario, mette a disposizione dei compagni le sue abilità pratiche: fare berrette da prete, cucire o rappezzare abiti per chi ne ha bisogno. Or- dinato sacerdote, ha i primi contatti con ragazzi immigrati dai campi o dalla mon- tagna alla ricerca di un lavoro in città e con giovani carcerati. Nel 1841, DB si inse- risce con originalità nel movimento degli oratori. Riferendosi alle origini dell’o- pera, scrive nelle sue Memorie dell’Oratorio: “In generale l’Oratorio era composto di scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, quadratori e di altri che venivano di lontani paesi”. 2. I laboratori artigiani. Sensibile ai bisogni del tempo, DB fa la scelta dei giovani, “soprattutto i più poveri e abbandonati” e organizza a Torino un piccolo “ospizio” per quelli che non hanno “né vitto, né vestito, né alloggio”. Desiderando poi di av- viarli allo studio e al lavoro, invia i ricoverati in città; li visita nei cantieri e nelle botteghe; firma → contratti di lavoro con i padroni. Costatando però i pericoli mo- rali a cui i ragazzi vanno incontro, crea i propri laboratori. In questo settore, egli non segue i modelli scolastici statali: “Tra l’antico modo di stabilire rapporti di la- voro tra capo d’arte padrone di bottega con gli apprendisti e il nuovo modello della scuola tecnica prevista dalle legge organica sull’istruzione, preferì percorrere la sua terza via: quella cioè dei grandi laboratori di sua proprietà, il cui ciclo di produ- zione, di livello popolare e scolastico, era anche un utile tirocinio per i giovani ap- prendisti” (Stella, 1880, 248). L’iniziativa attuata a Valdocco per giovani disoccu- pati, alcuni usciti dal carcere, in gran parte analfabeti, si inseriva tra le opere “pri- 78 vate” originate in un clima di nuova attenzione all’istruz. del popolo ed era finaliz- zata alla creazione di officine destinate ai giovani apprendisti. L’avviamento dei la- boratori non riuscì un’impresa facile: difficoltà economiche; problemi disciplinari (facilitati dal crescente numero di ragazzi – 400 fin dagli anni settanta – in ambienti piuttosto ristretti in cui si trovano talvolta anche giovani portati “dall’autorità di pubblica sicurezza”); ricerca di un equilibrio tra il programma di cultura generale e la pratica dell’ → apprendistato del mestiere. 3. Dall’apprendistato alle scuole professionali. Fin dagl’inizi dei laboratori, l’in- tento di DB fu quello di preparare i giovani apprendisti a “guadagnarsi onestamente il pane”, senza trascurare tuttavia le “cognizioni utili ed opportune per esercitare la sua arte”. Negli anni ottanta del sec. XIX, il tema si inseriva in una situazione so- ciale mutata. Nei documenti emanati dai responsabili della politica scolastica si co- minciava a parlare di scuole di “arti e mestieri”; nuovi stimoli e richieste proveni- vano dal mondo del lavoro. Nel 1883, il Capitolo Generale (supremo organo legis- lativo) della Società salesiana studiò il tema: “Indirizzo da darsi alla parte operaia nelle case salesiane”. Approfondita la questione negli incontri del 1886, presieduti da DB, è ribadito che le finalità delle case salesiane aperte ai giovani artigiani non si esauriscono nell’assicurare agli allievi “un mestiere onde guadagnarsi onorata- mente il pane della vita”, ma si propongono che essi “siano bene istruiti nella reli- gione ed abbiano le cognizioni scientifiche opportune al loro stato”. Di conse- guenza, “triplice deve essere l’indirizzo da darsi alla loro educazione: religioso- morale, intellettuale e professionale” (Delib., 1887, 8). Per garantire lo sviluppo fu creata la carica di “consigliere professionale generale”. Ancora in vita DB, oltre a quello di Valdocco, furono aperti altri istituti (laboratori, talleres, case di artigiani, escuelas de artes y oficios, écoles d’arts et métiers) in Italia (San Pier d’Arena) e all’estero (Francia, Argentina, Spagna). Nella successiva opera di riflessione, di sviluppo e di progressiva trasformazione è stato decisivo – accanto all’impulso ini- ziale di DB – il contributo dei suoi collaboratori, in particolare di G. Bertello (1848-1910). “I primitivi laboratori vennero trasformati in vere e proprie scuole professionali strutturate in modo da offrire ai giovani una formaz. completa che permettesse di farne buoni cristiani, dei cittadini coscienti e di lavoratori qualifi- cati” (Di Pol, 1984, 81). Nelle ultime decadi, i centri di FP hanno trovato terreno fertile nei Paesi in via di sviluppo. Ma anche in essi si presentano nuove sfide cau- sate dalla crescente introduzione della tecnologia avanzata nell’industria e nei ser- vizi: l’efficacia educativa e formativa dei centri esistenti; la capacità di ogni centro di assumere le crescenti spese di manutenzione e di riqualificazione; la possibilità reale di inserire i giovani allievi nel mondo del lavoro; la presenza di personale competente, salesiano e laico. Recenti statistiche evidenziano il sostenuto incre- mento delle nuove fondazioni, nonostante le difficoltà accennate. Nel 1995, le scuole professionali salesiane erano 312; le scuola agricole, 44; i corsi di qualifica- zione per adulti, 84; con un totale di 120.011 allievi. Nel 2002: scuole professionali 367; scuole agricole, 46; corsi di qualificazione per adulti, 107; con un numero 79 complessivo di 167.426 allievi (Dati statistici, 2002, 66). Il recente Congresso Eu- ropeo promosso dal Dicastero per la Pastorale Giovanile (Roma, 2001) ha ripro- posto (Doc. finale), nella prospettiva del nuovo millennio, i tratti/compiti essenziali della scuola/FP salesiana: vocazione educativo-evangelizzatrice; scelta dei ra- gazzi/ragazze più poveri e in difficoltà; comunità educativa (→ comunità educativo formativa) con “un marchio di qualità che la distingue: il sistema preventivo”; apertura e inserimento nel territorio; attenzione al mondo del lavoro; volto multi- culturale e multireligioso. Bibl.: PANFILO L., Dalla scuola di arti e mestieri di don Bosco all’attività di formazione professionale (1860-1915). Il ruolo dei salesiani, Milano, LES, 1976; STELLA P., Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), Roma, LAS, 1980; DI POL R.S., L’istruzione professionale popolare a Torino nella prima industrializzazione, in Scuola, professioni e studenti a Torino. Momenti di storia dell’i- struzione, Torino, C.S. sul Giornalismo Piemontese, 1984; ROSSI G., L’istruzione professionale in Roma capitale: le scuole professionali dei Salesiani al Castro Pretorio (1883-1930), Roma, LAS, 1996; PRELLEZO J.M., La “parte operaia” nelle case salesiane. Documenti e testimonianze sulla for- mazione professionale (1883-1886), in RSS 16 (1997) 353-391; VAN LOOY L. - G. MALIZIA (Edd.), Formazione professionale salesiana. Indagine sul campo, Roma, LAS, 1997, 19-51; LA SOCIETÀ DI SAN FRANCESCO DI SALES, Dati statistici CG25, Roma, Dir. Gen. Opere Don Bosco, 2002; GONZÁLEZ J.G. - S. ZIMNIAK - G. LO PARCO (Edd.), L’educazione salesiana dal 1880 al 1922. Istanze e attuazioni in diversi contesti, Roma, LAS, 2007 (in corso di stampa). J. M. Prellezo ECONOMIA E FORMAZIONE Nel campo delle scienze sociali il tema dello sviluppo è sempre stato considerato con particolare attenzione, tanto da assurgere a chiave esplicativa dei fenomeni di mutamento sociale, a partire dall’idea dell’ineluttabilità della modernizzazione del secondo dopoguerra e degli anni del “boom economico”, passando per lo smantel- lamento di tale concezione a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, per giungere al rinno- vato interesse per le più recenti prospettive che si giocano in equilibrio tra spinte globali e dimensione locale. Anche il nesso che lega i temi dell’e. della → formaz., dunque, si è dipanato, nell’ambito della riflessione sociologica, soprattutto a partire dal rapporto insistente tra il sistema di → istruz. e la crescita economica e lo svi- luppo, nel quale ai fattori di ordine economico se ne associano altri di natura socio- culturale, e oggi, anche ambientale. In particolare, l’evoluzione di tale rapporto è contraddistinta da alcune fasi peculiari, che in parte riflettono il percorso – contras- segnato dall’alternarsi di momenti di ottimismo e pessimismo – compiuto dell’idea stessa di sviluppo economico. 1. In primo luogo, è possibile evidenziare – negli anni ’50 e nei primi anni ’60 del sec. scorso – una fase di ottimismo di chiaro rimando funzionalista ed economi- cista, tendente ad individuare nell’istruz. uno strumento di progresso sociale e di crescita economica, incentrata sulla teoria del “capitale umano”. Alla luce di tale teoria, l’investimento in formaz. sulle → risorse umane, al pari degli investimenti in strutture e impianti, sarebbe in grado di determinare aumenti di produttività e, con- 80 seguentemente, di reddito. Il carattere funzionalista di questa visione si esprime- rebbe appunto nella tendenza ad identificare il sistema di istruz. come “funzionale” alle esigenze del sistema economico-produttivo, determinando un rapporto di corri- spondenza tra l’offerta formativa e i fabbisogni professionali delle aziende; allo stesso modo, il grado di sviluppo economico di un Paese avrebbe trovato un ri- scontro nel livello medio di istruz. della sua popolazione. 2. La seconda fase rimanda all’età della cosiddetta “contestazione”, collocabile a cavallo tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70. In questo periodo, il suc- cesso delle teorie conflittuali mette fortemente in dubbio l’efficacia dei sistemi di istruz., giudicati come strumenti di conservazione e riproduzione della struttura so- ciale e culturale vigente. D’altro canto, i dominanti paradigmi di organizzazione del → lavoro di stampo taylorista-fordista – con il venire meno delle esigenze di pro- fessionalizzazione (→ professionalità), evidentemente ristrette soltanto ai pochi specialisti che avrebbero assunto il ruolo di coordinamento delle strutture lavora- tive – rendevano meno evidente la corrispondenza tra output del sistema scolastico e fabbisogni del → sistema produttivo. È tuttavia in questi stessi anni che, proprio innestandosi sui paradigmi taylor-fordisti, iniziano a moltiplicarsi le riflessioni cri- tiche circa il tema della qualità del lavoro o, come meglio è stato determinato dalla letteratura anglosassone, di quality of working life, espressione utilizzata per indi- care un complesso intreccio di interessi congiunti appannaggio del lavoratore, del datore di lavoro, della comunità. In tale quadro, tra i criteri che definiscono la → qualità della vita di lavoro di un individuo comparirebbe quello afferente l’opportu- nità di utilizzare, ma anche di sviluppare, in modo costante le proprie → capacità. 3. Tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80, la terza fase è contrassegnata da un rinnovato interesse per la formaz., interesse sospinto soprattutto dal progres- sivo aggravarsi del problema della disoccupazione, tanto giovanile quanto adulta, ma anche dal deficit di coerenza tra → politiche formative e politiche del lavoro. Sul finire degli anni ‘80, e sempre di più nel corso anni ‘90, si fa largo una quarta fase che assegna un ruolo centrale alla formaz. in rapporto alle politiche del lavoro, nel contesto di un rinnovato ottimismo nei confronti delle potenzialità dell’istruz. quale motore dello sviluppo economico. Del resto, la progressiva globalizzazione dei mercati rende maggiormente edotti circa il fatto che l’innalzamento del livello di istruz. possa elevare la capacità concorrenziale, ed inoltre possa contribuire sia ad arginare il fenomeno della disoccupazione, sia a ridurre i rischi di → esclusione sociale. La condizione di partenza è che la competizione globale è più sulla qualità dei prodotti che sui prezzi; che la qualità dei prodotti è legata a quella del lavoro, la quale, nella → società della conoscenza, si fonda sull’istruz. È in questo contesto che si arriva ad ipotizzare la possibilità di misurare la variazione del prodotto in- terno lordo in relazione alla crescita (o mancata crescita) dei livelli di istruz. della popolazione attiva. Bibl.: LODIGIANI R., La formazione e lo sviluppo, Milano, Vita e Pensiero, 1999; DELORS J., Nell’edu- cazione un tesoro. Rapporto all’UNESCO della commissione internazionale sull’educazione per il 81 XXI secolo, Roma, Armando, 2000; FADDA S., Sviluppo locale, occupazione e implicazioni formative. Una guida, Milano, F. Angeli, 2000; CIPOLLA C.M., Istruzione e sviluppo. Il declino dell’analfabe- tismo nel mondo occidentale, Bologna, Il Mulino, 2002; AA.VV, Capitale umano. Formazione e la- voro nell’economia della conoscenza, in “Quaderni della Fondazione Giulio Pastore” 5 (2005); CREMA F.E. - G. VITTADINI, Verso l’economia dell’istruzione, Roma, Armando, 2006. M. Colasanto EDUCAZIONE In senso generale, con educ. si intende una particolare attività umana, connessa a determinate figure e a ruoli particolari, come genitori, maestri, insegnanti, sacer- doti, istitutori, educatori, all’interno di un rapporto interpersonale particolare, e ri- volta a nutrire, curare, formare individui della generazione in crescita. È senz’altro l’uso più antico del termine. Oggi, per un verso, si fa riferimento ad un sistema, vale a dire ad un insieme di strutture, istituzioni, persone, procedure sociali, per lo sviluppo sano, l’→ istruz. e la → formaz. iniziale e permanente di tutti e ciascuno dei membri del corpo sociale. Per altro verso, si tende ad accentuare l’aspetto di au- toformaz. Più che ad un atto si pensa ad un processo coestensivo all’esistenza (→ educ. permamente). La L. 53/03 (cosiddetta, L. Moratti) parla di sistema educativo inglobante l’istruz. e la → FP, in prospettiva permanente. Però non è raro che l’e. sia ancora da molti intesa quasi come equivalente a scuola e a processi d’istruz. scolastica. L’etim. è incerta: tra “educare” (= allevare, coltivare) ed “educere” (= tirar fuori, sviluppare). È sinonimo di sviluppo, crescita, formaz., socializzazione, incultura- zione, istruz., → insegnamento, addestramento, aggiornamento (→ FP continua); evoca ambienti istituzionali particolari come la → famiglia, la scuola, i → CFP, le chiese, i gruppi, le → associazioni, i movimenti, ma investe anche la responsabilità sociale nel suo complesso. 1. J.J. Rousseau (fine sec. XVIII), nel primo cap. dell’Emile, afferma che ciascuno di noi è formato da tre specie di maestri: dalla natura (= le tendenze interne bio-psi- chiche di ognuno); dagli uomini (= persone che ci insegnano come svilupparci); e dalle cose (= l’esperienza personale nell’interazione con gli oggetti). Dopo gli anni ‘20, i pedagogisti cominciarono a distinguere tra educ. intenzionale ed educ. fun- zionale. Con la prima, si intende quella serie di azioni e interventi voluti e specifici, predisposti secondo un certo ordine metodico e posti da chi ha compiti e responsa- bilità educative, individualmente e/o collettivamente, in vista di favorire e promuo- vere una buona formaz. Con la seconda, s’intendono le incidenze più svariate sulla personalità in sviluppo, che sortiscono senza piano né scopo dalle forze socio-cul- turali, politiche, economiche, dall’→ ambiente naturale, dai grandi avvenimenti sto- rici e dai piccoli accadimenti quotidiani, ecc. Oggi si parla piuttosto di educ. infor- male (= le influenze dell’ambiente e delle dinamiche dell’interazione sociale), di educ. diffusa (= iniziative od occasioni istituzionali o contestuali con vasta riso- nanza formativa, come quelle che vengono dall’organizzazione dello sport, dal 82 mondo della comunicazione sociale, del divertimento, dai gruppi di pari o dall’as- sociazionismo), di educ. formale (= iniziative appositamente messe in atto da quello che viene detto il sistema sociale di e.) e di educ. non formale (= quelle azioni intenzionalmente educative, ma messe in atto senza troppo badare alla siste- maticità, alla sequenzialità programmata o alle verifiche controllate di esse, come capita molte volte nell’e. familiare o nei gruppi spontanei, rispetto all’e. scolastica o a quella di corsi di studio o di FP). 2. Quel che appare abbastanza evidente è che la crescita personale e la sua formaz. impegnano istituzioni e persone in una vasta gamma di azioni (= azioni formative). All’interno di esse, l’educ. sembra caratterizzarsi per l’attenzione alla globalità e alla unitarietà della vita personale. Proprio per questo, ha da tener conto dell’intera sfera di aspetti e di rapporti di cui è intessuta la vita umana (in tal senso si parla di educ. fisica, psichica, intellettuale, morale, estetica, religiosa, tecnico-professio- nale, ecc.). Ma l’educ. trova il suo “proprio”, cioè la sua modalità diretta e speci- fica, quando opera per la strutturazione organica della personalità umana e del suo comportamento storico, cosciente, libero, responsabile e solidale. In tal senso ven- gono ad essere qualificate educativamente le altre attività formative (l’→ apprendi- mento, l’→ insegnamento, la FP, la socializzazione, l’inculturazione, l’addestra- mento, l’allevamento, il sano sviluppo biopsichico): in modo tale che l’essere umano sano, colto, socializzato, competente, professionista sia persona e viva au- tenticamente la propria vita. Ma è evidente che a questo livello risulta preponde- rante l’influsso delle concezioni che si hanno del mondo e della vita e più in parti- colare dell’immagine che si ha dell’uomo e del suo destino: perché educare, in fondo, è aiutare a crescere in “umanità”, suscitare la “genesi della persona”, “ini- ziare” all’agire libero e responsabile, eticamente valido, operativamente capace, so- cialmente giusto e solidale. 3. Per tutto ciò, l’educ. è tra le pratiche sociali fondamentali della vita comunitaria. Le pratiche educative – cioè l’aiuto sociale alla formaz. generale e specifica dei membri del corpo sociale, codificato culturalmente in consuetudini, norme e meto- dologie più o meno socialmente condivise – sono parte essenziale della vita e della cultura di ogni → società. L’educ. è considerata uno dei diritti umani fondamentali e a livello internazionale è intesa come un punto essenziale per uno sviluppo soste- nibile, equo e di qualità. Peraltro, le novità socio-culturali (→ globalizzazione, mul- ticultura, post-modernità) e scientifico-tecnico (mass-media, internet, informatica, telematica, biotecnologie, ecc.), che caratterizzano questo inizio del sec. XXI, ri- chiedono un’incisiva riforma dell’educ. in tutto il mondo. Bibl.: DELORS J. (Ed.), Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando, 1997; NANNI C., Educazione e pedagogia in una cultura che cambia, Roma, LAS, 1998; BERTAGNA G. et al., Processi educativi e progettualità pedagogica, Torino, Tirrenia Stampatori, 1998; MORIN E., La testa ben fatta, Milano, Raffaello Cortina, 2000; MORIN E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raf- faello Cortina, 2001. C. Nanni 83 EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA DEMOCRATICA L’→ educ. alla c.d. va considerata una dimensione essenziale dei processi educa- tivi, in particolare di quelli scolastici e formativi, indipendentemente dai nomi sotto i quali compare nei programmi (educ. civica, educ. ai diritti umani, educ. politica, educ. ai valori, educ. alla pace, educ. globale). Essa rappresenta una finalità fonda- mentale, introdotta più specificamente durante gli anni ‘90 con lo scopo di fornire a tutti, giovani e adulti, le → conoscenze, le → competenze e gli atteggiamenti neces- sari per: svolgere un ruolo attivo nella società civile, rafforzandone di conseguenza la cultura e le istituzioni democratiche. 1. L’evoluzione recente. La denominazione più tradizionale è certamente quella di educ. civica. Benché vi sia accordo sulla sua rilevanza, tale insegnamento non si può dire finora molto riuscito per vari motivi come il fatto di unire conoscenze, va- lori, atteggiamenti, la natura precaria del suo statuto che può oscillare da materia specifica del programma scolastico o formativo, a finalità di un curricolo, a meta di tutto il sistema scolastico, e il carattere marginale che presenta per molti studenti. Dagli anni ‘80 si parla sempre più di educ. alla c.d. a motivo dell’allargamento enorme dell’area dell’educ. civica. La “Riforma Moratti” ha preferito la denomina- zione di educ. alla convivenza civile perché l’educ. alla c.d. escluderebbe coloro che non hanno una c. formale. Tuttavia, è possibile mantenere la espressione educ. alla c.d. se si intende la c. in senso pedagogico, come sentimento di appartenenza e possibilità di usufruire di diritti e di doveri non solo legati allo Stato-nazione. 2. Orientamenti fondamentali. Nell’ottobre del 2000 i Ministri dell’Educazione del Consiglio d’Europa hanno adottato una risoluzione sull’educ. alla c.d. che ne ha consacrato la centralità per le politiche educative (Conseil de la Coopération Cultu- relle, 2000). In quanto dimensione essenziale dei processi di insegnamento/→ ap- prendimento, le mete generali vengono identificate principalmente in tre finalità fondamentali: oltre a quella già citata sopra di educare giovani e adulti a svolgere un ruolo attivo nella → società civile, essa dovrà contribuire alla lotta contro la vio- lenza, la xenofobia, il razzismo, il nazionalismo aggressivo e l’intolleranza e con- correre a promuovere la → coesione sociale, l’eguaglianza e il bene comune. L’educ. alla c.d. deve essere concepita come un processo di apprendimento che dura tutta la vita, che può avere luogo in tutte le circostanze e che riguarda tutti gli ambiti dell’attività umana; pertanto, va organizzata secondo il modello dell’→ educ. permanente. Entro questo ampio quadro di riferimento gioca un ruolo fonda- mentale il concetto di “empowerment” che può essere definito come il processo che permette agli individui di acquisire una maggiore padronanza sulla propria vita e più specificamente, in riferimento all’educ. alla c.d., il processo che consente ai cit- tadini di assumere delle responsabilità. L’obiettivo della responsabilizzazione è quello di preparare gli individui e i gruppi alla partecipazione civica. Quest’ultima significa molto di più che un semplice coinvolgimento nelle prese di decisione; si tratta piuttosto di un modello di vita democratica fondato su un equilibrio tra diritti 84 e responsabilità. Da un punto di vista pratico ciò significa il diritto: di essere parte- cipi delle decisioni e di assumere delle responsabilità; di influire sulle proprie con- dizioni di vita; di esprimersi sulle politiche pubbliche. A sua volta la partecipazione civica richiede la corresponsabilità. 3. Le strategie. La più importante consiste nel creare un ambiente che favorisca l’educ. alla c.d. sia nella scuola, nella → FP e nell’istruz. superiore che fuori, foca- lizzando l’attenzione non solo sull’educ. formale, ma anche su quella non formale e rinforzando le sinergie e gli apporti positivi reciproci tra queste due forme di ap- prendimento. Al centro di questo → ambiente di apprendimento democratico vi sono gli alunni e gli studenti che vanno considerati come soggetti i cui diritti de- vono essere riconosciuti ovunque. Da questo punto di vista è importante valoriz- zare la cultura e gli stili di vita democratici dei giovani, i loro bisogni, le loro attese e il modo stesso in cui cercano di far sentire le loro esigenze così da farne il punto di partenza dell’educ. alla c.d. Al tempo stesso, andrà attribuito pari valore alle atti- tudini, alla formaz. e alle → qualifiche conseguite nei contesti sia formali che infor- mali. Inoltre, deve essere affermata la complementarità degli attori dell’educ. alla c.d. (insegnanti, genitori, organizzazioni di volontariato, collettività locali, partena- riato sociale con particolare riferimento alle → imprese). Si è anche cercato di defi- nire meglio le strategie puntuali che dovranno essere adottate dai sistemi scolatici e formativi per fare fronte alle esigenze dell’educ. alla c.d. Più specificamente, le po- litiche educative dovranno: prevedere uno spazio adeguato all’educ. alla c.d. nei curricoli formali, sia sotto forma di una materia distinta o di temi interdisciplinari, sia come programma integrato in altre materie; promuovere le → competenze chiave della c.d., particolarmente quelle sociali, comunicative, partecipative e della vita quotidiana; promuovere l’educ. alla c.d., ricorrendo all’ethos della scuola e al suo curricolo nascosto o informale e intensificando i rapporti con l’ambiente; assi- curare che vengano riconosciute le attitudini e la formaz. in educ. alla c.d., acqui- site nei contesti formali e informali; coinvolgere le forze sociali (→ parti sociali) nella gestione delle scuole e delle università; ricorrere a una ped. centrata sull’al- lievo e sui metodi partecipativi; sviluppare l’autoformazione che dia priorità all’e- sercizio delle responsabilità, alla coscienza di sé, alla creatività e al desiderio di continuare ad apprendere; integrare l’educ. alla c.d. nei programmi di formaz. ini- ziale (→ FP iniziale) e in servizio di tutte le categorie del personale insegnante; sti- molare gli insegnanti e i → formatori ad avviare innovazioni educative e a coope- rare alla loro messa in opera con le altre persone rilevanti; accordare più → auto- nomia alle scuole e ai → CFP affinché possano potenziare i legami con la comunità locale, la società civile e le forze sociali; aiutare le scuole e i CFP nell’→ apprendi- mento organizzativo. Bibl.: CONSEIL DE LA COOPÉRATION CULTURELLE, Résolution adoptée par les Ministres de l’éducation du Conseil de l’Europe à leur 20ème session. Cracovie, Pologne. 15-17 ottobre 2000, Strasbourg, Co- uncil for Cultural Cooperation, 17 November 2000; SANTERINI M., Educare alla cittadinanza. La pe- dagogia e le sfide della globalizzazione, Roma, Carocci, 2001; MALIZIA G., Educazione alla cittadi- nanza democratica: problemi e prospettive, in G. CAZORA RUSSO (Edd.), I partiti nella storia e oltre 85 la storia, Milano, F. Angeli, 2003, 91-106; CORRADINI L. - W. FORNASA - S. POLI, Educazione alla convivenza civile, Roma, Armando, 2003; TAROZZI M. (Ed.), Educazione alla cittadinanza. Comunità e diritti, Rimini, Guerini, 2005; CHISTOLINI S. (Ed.), Cittadinanza e convivenza civile nella scuola Eu- ropea, Roma, Armando, 2006. G. Malizia EDUCAZIONE DEGLI ADULTI (EDA) È un ambito disciplinare delle Scienze dell’Educazione definito sul piano teorico- scientifico come: a) un campo di pratica sociale (Knowles, 1997); b) un processo educativo post-scolastico o comunque al di fuori dei sistemi di → istruz. formale (Jarvis, 2001); c) un processo di “apprendimento significativo” che mette in rela- zione nuove conoscenze ed esperienze con quelle già possedute dagli individui (Kolb, 1984). L’EDA è un insieme complesso di opportunità educative e formative formali – nei sistemi di istruz. e di → FP – non formali ed informali negli ambiti della fruizione culturale, del → lavoro e della vita associativa attraverso cui la per- sona adulta apprende, in relazione anche ai propri bisogni affettivi, intellettuali, co- gnitivi o spirituali. In generale affinché l’→ apprendimento dell’adulto risulti mag- giormente efficace occorre che esistano una serie di condizioni. Tra queste: a) l’a- dozione di un ruolo attivo nel processo di apprendimento; b) la responsabilizza- zione rispetto ai risultati; c) l’esperienza precedente come protagonista dei processi di apprendimento. Conseguentemente la → progettazione formativa e le forme di erogazione didattica devono essere orientate alle esigenze e alle situazioni speci- fiche del soggetto adulto per la costruzione di percorsi formativi personalizzati (→ personalizzazione). 1. Storicamente il campo disciplinare e di pratiche legate all’EDA si colloca nel periodo industriale con il riconoscimento delle 150 ore di congedi retribuiti per motivi di studio per i lavoratori, sancito come diritto con il → contratto dei metal- meccanici. Tradizionalmente è sempre esistita nel sistema di istruz. e di formaz. un’offerta mirata agli adulti espressa con i corsi serali istituiti presso gli istituti se- condari superiori per l’acquisizione di un titolo di studio o di una → qualifica pro- fessionale. La L. 53/2000 che ha istituito il → congedo di formaz. si muove in quest’ottica così da favorire il rientro in formaz. per recuperare il deficit di istruz. di base o facilitare la riconversione professionale; la legge riconosce altresì il di- ritto del lavoratore-cittadino al proprio sviluppo personale e quindi l’utilizzo del congedo anche per una formaz. orientata a soddisfare i propri interessi personali. L’ambito disciplinare dell’EDA si è evoluto: da una visione compensativa delle iniziative formative rivolte al recupero scolastico o produttivo-manageriale, una formaz. legata esclusivamente alle esigenze di qualificazione e riqualificazione al lavoro, ad un’idea di formaz. orientata allo sviluppo personale per l’acquisizione di → competenze e di repertori culturali utili a fronteggiare i cambiamenti nel la- voro e nella vita sociale. 86 2. Nel vasto panorama delle organizzazioni che offrono formaz. rivolta agli adulti, è significativo annoverare nell’ambito del Terzo settore o privato sociale: le Uni- versità popolari o della Terza età, le ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Ita- liani) e l’UNLA (Unione Nazionale per la Lotta contro l’Analfabetismo); nel si- stema dell’istruz. i Centri Territoriali Permanenti (CTP) istituiti nel 1997; nel si- stema della FP i → CFP e gli → Enti di formaz. accreditati. Nel contempo altre or- ganizzazioni del Terzo settore statutariamente orientate alla cultura, all’ambiente, all’assistenza, alla cooperazione hanno Centri di formaz. per i propri associati e quindi erogano formaz. e coinvolgono tanti cittadini come soci e come fruitori. L’apporto del Terzo settore o del privato sociale è rilevante nel sostenere la parteci- pazione degli adulti alle iniziative di → educ. permanente e di → formaz. perma- nente e contribuisce ad innalzare il livello culturale dei cittadini, al di fuori dei cir- cuiti istituzionali dei percorsi di istruz. e formaz. Bibl.: KOLB D., Experimental Learning, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1984; KNOWLES M., Quando l’adulto impara. Pedagogia e andragogia, Milano, F. Angeli, 1997; ISFOL, Formazione per- manente: chi partecipa e chi ne è escluso. Primo Rapporto Nazionale sulla domanda, Roma, Unione Europea/MLPS/ISFOL, 2003; ISFOL, L’offerta di formazione permanente in Italia. Primo Rapporto Nazionale, Roma, Unione Europea/MLPS/ISFOL, 2003; ISFOL, Apprendimento in età adulta. Mo- delli e strumenti, Roma, Unione Europea/MLPS/ISFOL, 2004; SPAGNUOLO G., Gli adulti e la do- manda di formazione permanente: i risultati del primo monitoraggio nazionale, in “Rassegna CNOS” 1 (2004) 78-91. G. Spagnuolo EDUCAZIONE INTERCULTURALE La denominazione e.i. è divenuta molto comune, ma recenti ricerche, anche a li- vello europeo, hanno rilevato la scarsa conoscenza dei suoi principi fondamentali anche tra educatori, insegnanti e responsabili di politiche educative. È importante, pertanto, precisare gli elementi essenziali a livello semantico ed epistemologico. Oggi viviamo nella → società multiculturale, che è chiamata a costruire modelli di convivenza rispettosi della diversità. Non si tratta soltanto di riconoscere o accet- tare il multiculturalismo, ma di attrezzarsi per la conoscenza del mondo dell’altro, di acquistare consapevolezza della diversità e complessità dell’incontro tra persone con matrici culturali, percettive e valutative differenti. L’e.i., in questa situazione, diventa un → obiettivo, una prospettiva ideale, un programma di lavoro. Nel pre- fisso “inter” si evidenzia l’apertura, l’interazione, lo scambio, la reciprocità, ecc. Tutto questo non va solo elaborato a livello teorico, ma va attuato attraverso l’inte- razione concreta di soggetti portatori di culture diverse. Lo sviluppo e la promo- zione dell’e.i. (rivolta a tutti, immigrati e autoctoni) deve aiutare ciascun soggetto portatore di cultura a riconoscere l’alterità e la differenza e a divenire capace di vi- vere in una → società plurale. 1. L’e.i. è una prospettiva pedagogica (teorica e pratica) globale per le situazioni sociali multiculturali. Essa deve aiutare a saper vivere insieme nel rispetto dell’i- 87 dentità culturale di ciascuno e promuovere una qualità di convivenza. Non si tratta, tuttavia, di qualcosa di semplice. Il problema di fondo è come mettere in contatto, in interazione le differenze. È necessario che si tenda a un’accettazione incondizio- nata della popolazione immigrata per farla diventare protagonista, con la popola- zione locale, del cammino verso una nuova condizione comune. Il passaggio da realizzare, sia per gli immigrati che per i locali, è quello dalla costrizione dell’ac- cettazione dello stato di fatto (= la novità che si è prodotta), all’apertura e alla con- sapevolezza del nuovo, attraverso un processo graduale che consenta un vero “ap- prendimento interculturale”. Per condividere un cammino è necessario esplorare differenze e somiglianze, far cadere i muri geografici e ideologici, scoprire “la grammatica delle civilizzazioni” e partecipare ad un rinnovato sforzo comune di ri- cerca di senso, elaborando nuove regole aperte all’intera umanità. La ped. non basta per l’obiettivo interculturale della convivenza. La società multiculturale non si confronta soltanto con problemi educativi e di convivenza tra persone. Deve ma- turare la consapevolezza di essere una società nuova, chiamata a farsi carico della realtà totale delle persone che la costituiscono. L’impegno educativo culturale pro- muove ed elabora un ethos civile comune, educa alla convivenza pacifica, aiuta a saper vivere insieme; aiuta a riconoscere la legittimità delle differenze. 2. L’e.i. è un modello educativo che accompagna i soggetti alla realizzazione di una specifica → identità, ma nello stesso tempo aperti alla diversità e capaci di rappor- tarsi a un orizzonte mondiale. Nella società multiculturale, l’e.i. diviene principio base sul quale fondare l’intero processo educativo e l’orizzonte di tutto il → pro- cesso formativo. In questo processo si realizzerà l’affascinante avventura di connet- tere “identità e differenza”, “locale e globale”, “specificità delle proprie radici e ca- pacità di ibridazione”. Si potrà così elaborare un sistema aperto di identità perso- nale e sociale che potrà far maturare attitudini nuove alla mondialità, aprire alla → cittadinanza planetaria. Bibl.: LABAREA R. - D. IZZO, Manuale di pedagogica interculturale, Pisa, Edizioni ETS, 2002; SILVA C., Educazione interculturale: modelli e percorsi, Tirrenia (PI), Edizioni del Cerro, 2002; TORIELLO F., Educare in prospettiva interculturale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002; ORLANDO V. (Ed.), Educare nella multicultura, Roma, LAS, 2003; PORTERA A. (Ed.), Pedagogia interculturale in Italia e in Europa. Aspetti epistemologici e didattici, Milano, Vita e Pensiero, 2003; ID., Educazione interculturale in famiglia, Brescia, Editrice a Scuola, 2004; FAVARO G. - LUATTI L. (Edd.), L’intercul- tura dalla A alla Z, Milano, F. Angeli, 2004. V. Orlando EDUCAZIONE PERMANENTE Educ. e/o formaz. p. è espressione divenuta punto nodale del dibattito politico-pe- dagogico degli ultimi 50 anni. In realtà, il concetto e la pratica appartengono allo storia mondiale dell’ → educ. senza scansione temporali. L’uomo da sempre ha sen- tito il bisogno naturale di continuare per tutta la vita a crescere in esperienza, cono- 88 scenza e saggezza. La storia registra una ricca fenomenologia di modalità, nate per esigenze di sopravvivenza fisica, e di perfezionamento professionale, culturale, spi- rituale. La novità, quindi, non è nella sostanza, ma in una diversa presa di co- scienza circa la necessità e l’urgenza di un impiego istituzionale per fronteggiare mutamenti politici, sociali, economici, culturali di vasta portata. 1. Per capire le dinamiche di trasformazione del concetto di educ. p., e le → meto- dologie messe in atto per tradurle in concreto occorre menzionare primariamente l’azione svolta dai grandi organismi sopranazionali: hanno acceso il dibattito, im- posto chiarificazioni concettuali, orientato le scelte politiche. L’UNESCO, il Consi- glio d’Europa, l’OCSE e gli Organismi Comunitari proposti alle → politiche for- mative hanno sollecitato eventi significativi e diversificati in → obiettivi e metodi: conferenza mondiali con attenzione ai problemi sociali e alle → pari opportunità, anche di genere (l’UNESCO); i simposi intesi a favorire lo sviluppo culturale della comunità, la crescita della partecipazione democratica e la creazione di → reti per lo scambio di esperienze (Consiglio d’Europa); ricerche ed esperienze per la messa a punto di → alternanze scuola-lavoro, e, centrale, il problema dell’inserimento e permanenza nella vita attiva (OCSE); → FP e problemi connessi di ordine econo- mico, sociale, occupazionale, tecnologico e culturale (gli Organismi Comunitari). La formaz. in età adulta, tematizzata come problema di alfabetizzazione, è la cate- goria su cui prioritariamente si è concentrata l’attenzione. L’alfabetizzazione, con- siderata nelle sue molteplici accezioni, esprime la complessità intesa nella realtà dell’educ. p., non assunta in senso strumentale, ma come chiave funzionale alla crescita personale e alla conseguente capacità di partecipazione alla vita produttiva e comunitaria, come lifelong education. 2. I nodi da affrontare oggi sono ancora molti, le soluzioni difficili. Implicano in- nanzitutto la trasformazione radicale di tutte le metodologie formative. Presuppon- gono superata la logica del segmentare a livelli (continuità come tempo della vita dell’uomo), e quella di compartimentare in ambiti, dove prevale l’attenzione al pro- duttivo (continuità nello spazio come superamento della rigida divisione tra for- male e non formale, ma anche come spazio geografico e umano che assomma le istanze di tutti). La trasformazione dei ruoli, nel mondo della produzione e dei ser- vizi, esige sinergia tra funzioni, relazioni, motivazioni, qualità etiche. Indispensa- bile declinare sempre la FP sui processi di → apprendimento per la centralità del soggetto e delle sue capacità di rispondere alle nuove richieste del mondo del → la- voro quali profili poliedrici e flessibili, e persone motivate e partecipi. Ma ciò non basta. La vera sfida oggi è coniugare le esigenze della competitività mondiale, che richiede più alti livelli di formaz. scientifico-tecnica, con le garanzie di sicurezza sociale, con il diritto alla crescita culturale e comunitaria. In sintesi, l’aggettiva- zione p., ossia duratura, esprime bene ciò che attiene all’uomo in quanto tale, di là dalle sue concrete manifestazioni, dai suoi atteggiamenti, dalle sue attività con- nesse al ruolo e allo status; l’uomo accolto e rispettato come essere personale, unico e irripetibile, nel suo valore e nella sua dignità. 89 Bibl.: CONSEIL DE L’EUROPE, Education permanente, Strasburgo, 1970; LENGRAND, P., Introduzione all’educazione permanente, Roma, Armando, 1973; SCHWARTZ B., L’educazione domani, Firenze, La Nuova Italia, 1977; LORENZETTO A., Verso un ecosistema educativo. Società/Ambiente/Progetto, Roma, Studium, 1988; UNESCO, Education for All: An Expanded vison, Paris, UNESCO, 1992; OCSE, Apprendere a tutte le età, Roma, Armando, 1997; PAVAN A., Formazione continua. Dibattiti e politiche internazionali, Roma, Armando, 2003. C. Di Agresti EDUCAZIONE RELIGIOSA L’educ. r. indica un’azione formativa intenzionale, attenta alla libertà e alle capa- cità critiche e creative del soggetto, che orienta l’incontro con il fatto religioso, a livello culturale ma anche sociale ed esperienziale, verso la maturazione personale del soggetto stesso. L’educ. r. si pone a servizio di un’→ educ. integrale della per- sona e dell’umanizzazione di ogni persona e della collettività, perché l’apertura al mistero e al trascendente costituisce una dimensione essenziale dell’essere umano (capax infiniti) e ha da sempre caratterizzato in modo profondo, almeno come ane- lito, l’esperienza personale e storica dell’umanità. L’educ. r. viene dunque ad assu- mere come compito fondamentale la promozione di personalità mature e libere, aperte almeno alla possibilità di una qualche forma di fede religiosa. Essa crea le condizioni perché il soggetto in → apprendimento possa sviluppare le → capacità di percepire ciò che va oltre il solito, l’ovvio, l’immediato e che si pone piuttosto come all’orizzonte, di interpretare il linguaggio simbolico, mitico e metaforico, di esercitare l’ascolto, di fare esperienza di silenzio e di raccoglimento, di partecipare in modo consapevole a feste e a celebrazioni comunitarie, di dedicarsi agli altri e di impegnarsi nel servizio disinteressato. In una accezione ampia, l’educ. r. può in- cludere diverse azioni educative, come l’insegnamento della religione (IR), l’educ. alla fede o, limitatamente all’ambito cristiano, la catechesi che, pur con una loro specificità, devono tendere tutte a porsi nell’orizzonte di un’educ. autenticamente umana. In un’accezione più specifica, l’educ. r. si distingue sia dall’IR (che as- sume un taglio e delle finalità più specificamente culturali) sia dalla catechesi o dall’educ. alla fede (che sono più direttamente orientate a creare le condizioni e ad accompagnare i soggetti nel processo di risveglio, di crescita e di approfondimento dell’atteggiamento personale e comunitario della fede). L’educ. r., nelle sue varie declinazioni, può essere intesa in senso confessionale (è il caso più frequente in ambito cristiano), in senso a-confessionale (come educ. di una dimensione dell’es- sere umano non necessariamente connotata confessionalmente) oppure, come ve- dremo essere preferibile nel contesto odierno, in senso interconfessionale e inter- religioso. In ogni caso, la → religione o meglio le religioni, al plurale, possono es- sere viste come una risorsa educativa dalle molteplici potenzialità, anche se ri- mane necessario vigilare criticamente perché l’azione educativa che le riguarda si mantenga rispettosa del divenire personale e della qualità della vita di tutti e di ciascuno. 90 1. L’educ. r. oggi. Negli ultimi decenni, in un contesto sociale che si configura sempre di più come multiculturale e in un → sistema formativo sempre maggior- mente popolato da persone di diversa appartenenza culturale e religiosa, è cresciuta la consapevolezza che l’educ. r. non può che darsi come educ. al pluralismo reli- gioso e dunque come → educ. interculturale e interreligiosa, che favorisca l’in- contro, il dialogo, la mutua comprensione e conduca alla preziosa scoperta che esi- stono caratteristiche comuni a più tradizioni di fede. In particolare, nel contesto geografico e storico occidentale e mediterraneo, l’incidenza culturale ed → etica della tradizione ebraico-cristiana, non disgiunta da altri apporti sia religiosi che laici, impegna la scuola tutta a saper leggere e interpretare il patrimonio culturale e l’ethos dell’uomo occidentale alla luce delle radici bibliche e delle relative espan- sioni storiche nei tre grandi monoteismi (ebraico, cristiano, islamico). 2. L’educ. r. nel sistema dell’istruz. e FP. È importante prestare attenzione al con- testo in cui l’educ. r. viene attuata. Nel contesto della comunità credente, essa si ar- ticola prevalentemente come educ. alla fede o catechesi (in ambito cristiano, si usa anche l’espressione “evangelizzazione”). Nel contesto laico del sistema pubblico di → istruz. e FP – e questo, a nostro parere, vale anche nel caso in cui gli → enti ge- stori siano enti privati, di ispirazione cristiana – essa è legittimata da ragioni peda- gogiche (la considerazione della dimensione religiosa come propria di un progetto formativo integrale) e culturali (l’attenzione al fatto religioso come appartenente al- l’universo della cultura), prima e più che da ragioni pastorali. In ogni caso, sia nella forma dell’istruz. r. sia nella forma di altri interventi educativi, essa non può confi- gurarsi come indottrinamento dogmatico e morale (modalità che, del resto, dopo la “svolta conciliare”, non vale più nemmeno per l’azione catechistica in ambito ec- clesiale) e non può proporsi come scopo la “conversione” dei soggetti o la loro educ. alla fede. L’educ. r. può dunque rientrare a pieno titolo nello specifico dei percorsi di istruz. e FP se viene attuata secondo le finalità proprie di tali realtà for- mative, sia come attenzione diffusa al fenomeno religioso o alla dimensione reli- giosa dei fenomeni culturali nell’ambito delle varie aree del curricolo, sia come specifica disciplina curricolare (curvatura culturale), sia come esplorazione dell’u- niversale problema del senso dell’agire (curvatura assiologica). 3. I luoghi e le forme dell’educ. r. nell’istruz. e FP. L’educ. r., nella istruz. e FP, si esprime in diversi modi. Innanzitutto entra a pieno titolo nella definizione delle fi- nalità educative nell’ambito del “Progetto di istituto” o del “Piano dell’offerta for- mativa”. La dimensione religiosa può cioè essere assunta come una delle dimen- sioni rilevanti del rapporto tra il soggetto e il mondo in cui egli vive, rispetto alle quali individuare le mete educative che si intendono raggiungere. Esistono però anche luoghi e forme specifiche che l’educ. r. può assumere all’interno della vita di un istituto di istruz. e formaz. Ci limitiamo a considerarne due. 4. Insegnamento della religione. L’istruz. religiosa è presente, nell’ istruz. e FP, come insegnamento autonomo o come dimensione all’interno del curricolo. In ogni 91 caso, essa è abbastanza ben identificabile e si caratterizza per un approccio cultu- rale al fatto religioso, che aiuta a conoscere e ad interpretare i molteplici e com- plessi influssi esercitati dai fenomeni religiosi (al plurale), sulla civiltà umana, in particolare sulle pratiche lavorative e sui valori ad esse connessi. 5. Educ. r. in senso proprio. Anche l’educ. r. in senso proprio, soprattutto se inserita nei punti di attenzioni del “Progetto di istituto”, trova spazio in diversi momenti, che spesso sono trasversali ai vari ambiti disciplinari e alle varie proposte curricolari, ma può anche generare spazi appositamente dedicati (celebrazioni, momenti di riflessio- ne durante la giornata, giornate di riflessione durante l’anno...). Essa può declinarsi come educ. alla bellezza, educ. alla spiritualità e alla ricerca personale di senso, educ. all’alterità, alla cura e all’agire responsabile, educ. al rispetto per l’ambiente. Bibl.: NANNI C., “Religione”, in M. LAENG (Ed.), Enciclopedia Pedagogica, vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 9912-9936; PAJER F., L’educazione religiosa in ambito scolastico, in “Orientamenti pe- dagogici” 3 (2000) 528-533; MALAVASI P., Discorso pedagogico e dimensione religiosa, Milano, Vita e Pensiero, 2002; TACCONI G., L’educazione religiosa negli Istituti di istruzione e formazione profes- sionale di ispirazione cristiana, in CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), Educazione religiosa. Scuola cattolica in Italia. Settimo Rapporto, Brescia, La Scuola 2005, 273-303; ID., Lo schema di De- creto sul secondo ciclo: l’insegnamento della religione cattolica nel sistema di istruzione e forma- zione professionale, in “Rassegna CNOS” 2 (2005) 182-196; SALVARANI B., Educare al pluralismo re- ligioso. Bradford chiama Italia, Bologna, EMI, 2006. G. Tacconi EDUCAZIONE TECNICO - PROFESSIONALE → Educazione; → Istruzione e FP EFFICACIA L’e. consiste nella convinzione del soggetto di possedere delle → abilità richieste per un determinato compito. L’A. del costrutto è Albert Bandura (1986) che l’ha elaborato nell’ambito della teoria sociale cognitiva e lo ha denominato self-efficacy che può essere tradotto con auto-e. Con il prefisso self, si vuole sottolineare che il soggetto è l’agente primario dell’attività. 1. Definizione. Bandura distingue tra l’e. delle aspettative individuali e il risultato o l’esito delle aspettative. L’e. delle aspettative si riferisce alla convinzione del sog- getto di poter riuscire in un determinato compito; le aspettative sull’esito consi- stono nella sua convinzione che un determinato comportamento produrrà un ef- fetto. Dall’e. dipenderà se un soggetto sceglierà un’attività, quanto sforzo svilup- perà per superare gli ostacoli e quanto persevererà nell’attività intrapresa per otte- nere il risultato. 2. “Sorgenti”. Bandura ha descritto poi quattro “sorgenti” dell’e. La prima è la previa esperienza positiva ossia il successo nel compito; la seconda consiste nell’e- 92 sperienza vicaria, osservando il comportamento altrui; la terza nella persuasione verbale e cioè nell’esortazione di persone importanti; la quarta negli stati affettivi costruttivi come il rilassamento e il dominio dell’ansia. 3. Applicazione. L’e. ha una vasta applicazione nei vari settori della psicologia, della sociologia e della → educ. Da essa dipendono in notevole misura varie realtà sociali importanti come il rendimento scolastico, accademico, sportivo, professio- nale, il controllo di fobie e di malattie croniche, il potenziamento delle abitudini fa- vorevoli alla salute (regolare e sana alimentazione) e di quelle dannose (abuso di alcol e uso di droghe). Nell’ → orientamento ha avuto una considerevole applica- zione nello sviluppo professionale, nella → FP e nell’effettivo → lavoro. 4. Pregi. Il fatto che l’e. sia collocata nella teoria dell’apprendimento sociale la rende particolarmente utile nell’educ. Infatti, alla base di tale teoria vi è la convin- zione che l’agire umano è intenzionale e finalizzato. L’uomo si prefigge delle fina- lità o degli → obiettivi e organizza le sue abilità intellettive, affettive e motivazio- nali per raggiungerli. Nella conduzione di questo processo anticipa le conseguenze del suo agire e cerca di evitare tutto ciò che contrasta con il raggiungimento di tali finalità. L’e. poi può essere potenziata con le sorgenti indicate: favorendo il suc- cesso del soggetto in un determinato compito, indicandogli dei modelli da imitare e dandogli rinforzo positivo verbale o non verbale. Bibl.: BANDURA A., Social foundation of thought and action: A social cognitive theory, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1986; POLÁČEK K., Autoefficacia: Costrutto e utilizzazione, in “Orientamenti Pe- dagogici” 42 (1995) 927-957; BANDURA A., Autoefficacia: Teoria ed applicazioni, Trento, Erickson, 2000. K. Poláček E-LEARNING → Formazione a distanza EMARGINAZIONE → Disagio; → Esclusione sociale; → Metodologia; → Motivazione; → Pari oppor- tunità; → Prevenzione; → Abbandono; → Comunità educativo formativa ENTI DI FP L’e. di FP è un’organizzazione che progetta e gestisce interventi formativi di inte- resse pubblico o privato. La L. 845/78 (L. quadro della FP), parlando della attua- zione delle attività di → FP, così precisa: l’“attuazione dei programmi e dei piani così predisposti è realizzata: (…) mediante convenzione, nelle strutture di Enti che siano emanazioni o delle organizzazioni democratiche o nazionali dei lavoratori di- pendenti, dei lavoratori autonomi, degli imprenditori o di associazioni con finalità 93 formative e sociali, o di imprese con loro consorzi, o del movimento cooperativo”. Per questo, con il termine e., nel contesto della FP, è definito chi attua interventi di FP, in particolare legati ai piani e programmi regionali di FP. 1. Tipologie degli e. di FP. Per rispondere alle esigenze del L. 845/78 la più parte degli e. di FP si è strutturata in → associazioni, consorzi e altri e. non profit, in quanto la L. 845/78 richiede che debbano “avere come fine la FP; (…) non perse- guire scopi di lucro”. Sorgono e si consolidano e. di emanazione dei → sindacati nazionali dei lavoratori (ECAP/CGIL, IAL/CISL, ENFAP/UIL), dell’associazio- nismo sociale (ENAIP/ACLI), di istituzioni, in particolare cattoliche, legate al so- ciale (CNOS-FAP, salesiani; CIOFS/FP, salesiane; ENGIM, Giuseppini del Mu- rialdo; ecc.), o di altri movimenti. Poiché l’attuazione delle attività avviene a li- vello regionale, la quasi totalità degli e. di FP ha strutture operative a livello regio- nale, con responsabilità gestionali proprie. Sono perciò e. regionali riconosciuti dalle Regioni perché rispondenti ai requisiti della L. 845/78 e aventi sedi operative proprie, che dal luglio del 2003 debbono avere ottenuto l’ → accreditamento ad operare sulla base di caratteristiche fissate a livello nazionale e regionale. Si deno- minano “e. nazionali” le strutture che raggruppano e coordinano a livello nazionale e. e Centri che operano associati tra di loro e che sono riconosciuti come tali se- condo il dettato della L. 40/87. Tali e., di diversa importanza e presenza sul terri- torio nazionale, sono una trentina e godono di un → finanziamento nazionale per sostenere la loro opera di coordinamento. 2. Associazioni e Federazioni di e. Gli e. di FP, a causa delle loro dimensioni tal- volta limitate, della necessità di presentarsi uniti a livello regionale e/o nazionale e per sostenere la propria identità e i propri obiettivi, si sono associati in strutture più ampie. Gli e. promossi da istituzioni di ispirazione cristiana si sono associati fin dal 1974 in una confederazione, la CONFAP (Confederazione Nazionale Formazione Aggiornamento Professionale), con lo scopo “di contribuire allo sviluppo della for- mazione, dell’orientamento e dell’aggiornamento professionale a tutti i livelli e per tutte le categorie, mediante la promozione dei valori e delle esperienze degli enti e delle associazioni che operano nel settore secondo la tradizione di impegno sociale dei cattolici italiani” (Statuto, art. 2, n. 2). A livello regionale, la CONFAP è rap- presentata da associazioni regionali analoghe già presenti sul territorio (AECA, in Emilia Romagna; ACEF, in Piemonte), o da propri organismi regionali. Nel 1999, nasce, a livello nazionale, l’associazione Forma come raggruppamento più ampio di e. di FP; associa gli e. che riconoscono di ispirarsi nel loro operare alla Dottrina Sociale della Chiesa (→ insegnamento sociale della Chiesa): CONFAP, ENAIP (ACLI), IAL (CISL), INIPA (Coldiretti), CIF, EFAL (MCL) e ELABORA (Conf- cooperative). L’insieme di tali e. gestisce sul territorio nazionale la maggior parte dell’attività formativa finanziata dalle Regioni. 3. CCNL. Gli e. di FP sono datori di → lavoro, per questo sono controparti dei sin- dacati nazionali per quanto riguarda la contrattazione e la firma del → CCNL della 94 FP. Per partecipare alla trattativa nazionale, gli e. associati a Forma sono riuniti in un cartello, CENFOP (Coordinamento Enti Nazionali di FOrmazione Professio- nale). Forma e CENFOP hanno condotto l’ultima trattativa per il rinnovo del CCNL della FP e lo hanno firmato a nome degli associati. Alle strutture regionali di tali associazioni è affidato il compito delle trattative regionali. Bibl.: Legge 21 dicembre 1978, n. 845, Legge-quadro in materia di formazione professionale, in GU n. 362 del 30.12.1978; Legge 14 febbraio 1987, n. 40, Norma per la copertura delle spese generali di amministrazione degli enti privati gestori di attività formative, in GU n. 74 del 30.03.1987; DM 25 maggio 2001, n. 166, Accreditamento delle sedi formative e orientative, in GU n. 162 del 14.07.2001; Statuto CONFAP, in “Presenza CONFAP” 20 (2001) 5/6, 7-15; FORMA, CENFOP, SMS CGIL, CISL SCUOLA, UIL SCUOLA, CCNL della Formazione Professionale 1 gennaio 1998 - 31 agosto 2003, Roma, 2002. S. Colombo É QUIPE EDUCATIVA Con l’espressione é.e. si fa riferimento a un insieme di figure (→ formatori, → tutor, → direttore, pedagogista, psicologo, educatore) che operano in modo orga- nico, pianificato e coordinato all’interno del → CFP al fine di promuovere, grazie ad un impegno sinergico, lo sviluppo integrale della personalità degli allievi. In particolare, l’é.e. si occupa di pianificare azioni mirate sia di tipo promozionale (orientate allo sviluppo delle → capacità personali, sociali e professionali degli al- lievi), sia di sostegno (orientate al contenimento e al superamento di difficoltà di → apprendimento, di socializzazione, di adattamento). Affinché l’é.e. possa definirsi tale sono necessarie la consapevolezza dell’appartenenza, la presenza di norme condivise e l’interdipendenza dei membri che ne fanno parte. Tra le condizioni che consentono un efficace funzionamento dell’é.e. meritano di essere menzionate: la chiarezza degli obiettivi e la finalizzazione degli interventi al servizio dei singoli e del CFP all’interno di un progetto educativo esplicitato e co- erente; la presenza di processi di gruppo che mantengano uno spirito di squadra (leadership e partecipazione distribuite, responsabilità individuale); il possesso di alcuni atteggiamenti e → competenze da parte dei membri componenti (empatia, capacità di unificare gli sforzi, comunicazione aperta, spinta a migliorare, flessibi- lità, fiducia in se stessi come team). Bibl.: FRIEND M. - COOK L., Interazioni. Tecniche di collaborazione tra insegnanti, specialisti e diri- genti della scuola, Trento, Erickson, 2000. A.R. Colasanti ESCLUSIONE SOCIALE L’e.s. indica la presenza di una molteplicità di fattori e di dimensioni che caratteriz- zano la condizione sociale di un individuo in un dato momento: la marginalità, la 95 precarietà lavorativa, la solitudine, la deprivazione formativa e culturale e l’impo- verimento sono tra i più citati. L’e.s. indica un processo: esistono degli individui in stato di fragilità o di precarietà che possono conoscere o che conoscono questo pro- cesso che li esclude dalla vita collettiva, professionale e relazionale, o che li rende dei marginali. Sommatorie di problematiche sociali – → famiglie con basso reddito e separate, fallimenti scolastici, assenza di → formaz., uso di sostanze stupefacenti, disoccupazione – rischiano di rendere inamovibili questi processi. La necessità di rendere la → società più inclusiva ha determinato che la lotta contro l’e.s. faccia parte dei sei obiettivi della politica sociale dell’UE, nel nuovo art. 136 dell’ordinamento dell’UE introdotto dal Trattato di Amsterdam nel 1997. In questi anni, è diventata un obiettivo prioritario per tutti gli Stati membri. L’e.s. è pertanto un fenomeno complesso che viene tenuto presente in tutti gli interventi tesi a com- battere le disfunzionalità del sistema sociale di integrazione: in questi ultimi anni, ha acquisito una forte rilevanza anche nelle nuove → politiche formative, sempre più attente alla individualizzazione dei percorsi d’inserimento e alla messa in rete del percorso formativo con il contesto di riferimento del partecipante. La nuova multidimensionalità del fatto formativo, che si esprime attraverso → moduli e inter- venti diversificati e flessibili che partono dalla considerazione della centralità del- l’allievo e dei suoi → bisogni, viene così a rappresentare anch’essa un’azione pre- ventiva e una risposta alle problematiche dell’e.s. Bibl.: PAUGAM S. (Ed.), L’exclusion: état des savoirs, Paris, Ed. de la Découverte, 1996; OCDE, Sur- monter l’exclusion grâce à l’apprentissage des adulte, Paris, La Découverte, 1999; CASTRA D., L’in- sertion professionnelle des publics precaires, Paris, Puf, 2003. A. Felice ETICA PROFESSIONALE Per e.p. si intende l’insieme delle convinzioni e delle norme morali, che regolano l’esercizio della professione e che sono considerate, in una data → società, come universalmente vincolanti per coloro che esercitano tale professione. L’idea di una qualche forma di e.p., cioè del fatto che anche l’esercizio della pro- fessione, così come molti altri settori dell’esistenza (→ famiglia, sessualità, vita so- ciale), sia soggetto a norme etiche e impegnato nella realizzazione di valori morali, è presente nella società da quando esistono le professioni. Il famoso giuramento di Ippocrate può essere considerato come una prima testimonianza di vero e proprio codice di e.p. 1. Le professioni liberali. Medicina e avvocatura sono state a lungo, non solo le più prestigiose tra le professioni liberali, ma anche quelle meglio provvedute di una specifica e.p., regolata in appositi “codici di deontologia” e imposta coattivamente dalla specifica corporazione o “ordine”, cui i professionisti appartenevano e cui erano vincolati. Tali codici tracciavano spesso un profilo ideale della professione, e costituivano come una specie di atto di fede e. del rispettivo ordine professionale. E 96 si capisce il perché: l’esercizio di queste professioni era particolarmente gravido di conseguenze sociali e quindi carico di responsabilità. Queste forme di e.p. erano peraltro, prevalentemente se non proprio esclusivamente, orientate a proteggere gli interessi di quelli che potremmo considerare i clienti del libero professionista, cui il professionista era legato da uno specifico → contratto. Questi codici si ispiravano quindi a una certa idea di “giustizia commutativa” e fissavano con tutta la preci- sione possibile i doveri che il professionista si assumeva nei confronti del cliente, per il solo fatto di accettare di lavorare per lui. Essi obbligavano il professionista ad assumere come propri gli specifici interessi del cliente e quindi a svolgere il suo compito con → competenza e diligenza (“secondo scienza e coscienza” come reci- tava una formula tradizionale), a conservare rigorosamente il cosiddetto “segreto professionale”, a rispettare la specifica dignità e libertà del cliente. Va detto, pe- raltro, che queste “professioni alte” hanno sempre goduto di una certa separatezza nei confronti del restante organismo delle professioni, e i loro codici di deontologia professionale, pur ispirandosi a principi e a una visione dell’uomo e del mondo so- stanzialmente coincidenti con quelle del proprio tempo e del proprio → ambiente culturale, non hanno avuto in passato un grande influsso sulla morale comune e sul significato etico della → professionalità in generale. Il loro stesso carattere elitario impediva che esse diventassero una specie di modello normativo o di paradigma in- terpretativo, per la morale p. in quanto tale. 2. Le professioni moderne. Ma l’affacciarsi sulla scena della società moderna di professioni di grandissimo impatto sociale, politico o economico, come quelle di operatore della comunicazione sociale o di specialista della tecnica, o di imprendi- tore o di esperto finanziario, ha allargato l’interesse per l’e.p. ad ambiti nuovi, coin- volgendo interessi sociali di grande rilevanza. Si è sviluppato un dibattito sempre più aperto e coinvolgente, e sono nate nuove corporazioni e nuovi codici di deonto- logia p.: ultimo in ordine di tempo quello dell’imprenditore, ancora allo stato na- scente ma estremamente significativo per l’abbandono, che esso sembra compor- tare, di una certa concezione liberistica dell’e., dell’economia e della funzione del “profitto” nell’ambito dell’ → impresa. Appare ormai chiaro che, all’interno della società complessa in cui viviamo, caratterizzata dalla organizzazione tecnologica della produzione dei beni e dei servizi e dalla presenza di un mercato globale, si fa sempre più strada l’idea che una qualche forma di e., riguardante l’esercizio della professione, interessi tutto quanto l’organismo delle professioni, e quindi tutto il complesso sistema con cui gli uomini, utilizzando → competenze professionali di- versissime e svolgendo compiti diversi ma complementari, producono insieme la smisurata quantità di beni e di servizi utili, di cui abbisogna oggi l’umanità per la sua sopravvivenza e per lo svolgimento della sua vita culturale e spirituale. Tale e. potrebbe essere pensata (e naturalmente praticata) anzitutto come regola del giusto “rendersi utile” di ogni uomo agli altri uomini, in cambio dei servizi e dei beni ri- cevuti dalla società globale. Questa prima regola introduce naturalmente il discorso sulla giustizia. Si tratterebbe ancora anzitutto della giustizia commutativa, cioè di 97 quella forma di giustizia che regola gli scambi. L’esercizio di una professione o di un qualunque mestiere ha una specifica dimensione contrattuale: comporta, infatti, la cessione, da parte dell’operatore professionale, di una parte significativa del pro- prio tempo, ingegno, fatica, per produrre, o contribuire a produrre, una specifica forma di utilità per i fruitori del proprio → lavoro. In cambio colui che svolge una professione riceve a sua volta una qualche forma di compenso in termini di reddito, riconoscimento, garanzie di sicurezza economica e stato sociale. 3. La giustizia. La giustizia commutativa impone agli scambisti la norma di un giusto rapporto di scambio, quindi di una giusta retribuzione economica, di un ade- guato riconoscimento e stato sociale. Ma la struttura piramidale dell’organismo delle professioni fa sì che normalmente la fatica, il carattere subordinato, i pericoli per la salute e perfino per la vita che certi lavori comportano per chi li esercita siano spesso inversamente proporzionati ai riconoscimenti economici e sociali del lavoro e al posto occupato nella società da chi compie tali lavori. La sproporzione che il potere contrattuale dei diversi partecipanti a quello che potremmo chiamare il contratto globale di lavoro nella nostra società rende praticamente impossibile il superamento di queste sperequazioni, attraverso il semplice incontro-scontro della domanda e dell’offerta di lavoro. Si apre quindi il problema di una ulteriore forma di giustizia, quella che potremmo chiamare giustizia sociale, proprio perché riguar- dante la giustizia dell’insieme dell’organismo delle professioni cioè della società stessa. La → formaz. delle nuove leve della professione dovrà quindi comprendere una forma di → educ. morale che, mentre valorizzi le capacità autorealizzatrici delle specifiche professioni, apra nello stesso tempo i futuri operatori professionali a quella specifica sensibilità di giustizia sociale che li renda capaci di farsi carico della promozione delle professioni meno valutate, meno protette, meno facilmente autorealizzanti, superando le facili tentazioni dell’egoismo corporativo. Bibl.: AUER A., Christsein im Beruf, Düsseldorf, Patmos, 1966; CAMBARERI R., La professione tra ideale e realtà, Palermo, Edi-Oftes, 1989; PELAEZ M., Etica, professioni, virtù, Milano, Ares, 1989; MOUNT Jr. E., Professional Ethic in Context, Louisville, Westminster, J. Knox, 1990; DI TORO P., L’e- tica nella gestione d’impresa, Padova, CEDAM, 1993; OAKLEY J., Virtu, Ethics and Professional Roles, Cambridge, Cambridge University Press, 2001. G. Gatti EUROPA E FP La → FP, considerata come parte integrante del sistema di → educ. permanente, è chiamata a svolgere un ruolo fondamentale nell’affrontare le sfide del XXI sec. perché può offrire un contributo prezioso alla realizzazione di un nuovo modello di sviluppo centrato sulla persona umana. Faccio presente che nello stendere questa voce non ho seguito prevalentemente un approccio storico – avrebbe richiesto uno spazio maggiore di quello permesso se si voleva includere accanto al passato anche il presente e il futuro – o analitico dei diversi sistemi nazionali – anche in questo 98 caso sarebbe stata necessaria una estensione superiore al consentito – ma ho rite- nuto preferibile offrire un quadro di criteri, tratti dagli orientamenti europei, che possano fornire una specie di “criteriologia” interpretativa delle scelte adottate nei vari Paesi. 1. Le tendenze a livello macrostrutturale. Il quadro di riferimento complessivo con- siste nell’→ apprendimento per tutto l’arco della vita che dovrebbe permettere alla persona di acquisire costantemente durante l’intera esistenza conoscenze, valori, at- teggiamenti, → competenze e qualificazioni. Per poterne divenire parte integrante, il sistema della FP deve assumere le seguenti caratteristiche: 1) essa va intesa come un’offerta sistematica di esperienze di sviluppo personale comprensive di aspetti culturali e sociali e non solo economici; 2) i sistemi di FP devono essere centrati sull’educando e, pertanto, si devono caratterizzare per l’apertura e la flessibilità e per la capacità di fornire non solo conoscenze e competenze corrispondenti a lavori specifici, ma anche di preparare all’inserimento nella vita e nell’ambiente di → la- voro; 3) la FP deve essere fondata su una cultura dell’apprendimento, condivisa tra le persone, le → imprese, i diversi settori dell’economia e lo Stato e capace di ren- dere gli individui autonomi, attrezzati cioè a prendere progressivamente in mano la gestione della propria → formaz., mentre le strutture pubbliche e private dovreb- bero organizzare tutte quelle iniziative che consentono l’accesso all’→ educ. per- manente; 4) nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arco della vita, la FP deve dotarsi di interfacce con tutti gli altri livelli dell’istruz. e della formaz. al fine di as- sicurare la → mobilità orizzontale e verticale senza problemi; 5) la FP deve formare nei giovani un atteggiamento positivo verso l’innovazione e dare le conoscenze e le competenze necessarie per assumere un ruolo attivo nel cambiamento; 6) la FP dovrà infine realizzare l’→ alternanza che, come si sa, consiste nella possibilità di spezzare la sequenza dell’educ. in diversi tempi – in modo da rinviare parte o parti della formaz. a un momento successivo al periodo della giovinezza – e di alternare momenti di studio e di lavoro. 2. Le tendenze a livello microstrutturale. Storicamente la FP è associata alla formaz. dei giovani delle classi socio-economiche svantaggiate. Indubbiamente agli inizi degli anni 2000 la situazione è cambiata, anche se rimangono sempre le stigma delle origini. In linea di principio la FP viene riconosciuta come una delle strategie principali per consentire a tutti, giovani e adulti, di affrontare le sfide della → società della informazione in quanto la FP rappresenta un principio peda- gogico capace di rispondere alle esigenze del pieno sviluppo della persona se- condo un approccio specifico fondato sull’esperienza reale e sulla riflessione in ordine alla prassi che permette di intervenire nel processo di costruzione dell’→ identità personale. Per accrescere di fatto lo statuto e il prestigio della FP, si racco- mandano i seguenti provvedimenti: migliorare la condizione dei → formatori, ele- vando le loro conoscenze, competenze e qualificazioni e dotandoli delle risorse necessarie; persuadere tutte le parti interessate con un’azione convincente delle potenzialità della FP; diffondere le → buone pratiche della FP; garantire alla FP 99 una considerazione equivalente a quella della scuola. Storicamente i modelli strut- turali che sono stati adottati nella FP si possono ridurre a tre. In alcuni Paesi ha prevalso il modello comprensivo per cui il 1° ciclo della secondaria è completa- mente unitario e il 2° prevede solo un minimo di differenze. In altri ha predomi- nato il modello differenziato per cui la diversificazioni in tipi di scuole differenti inizia già nel 1° ciclo della secondaria. In altri Paesi ancora si è adottato un mo- dello di compromesso per cui il 1° ciclo della secondaria è sostanzialmente uni- tario (con qualche diversità solo all’interno delle classi), mentre il 2° è differen- ziato in indirizzi e/o tipi di scuole. Tuttavia, a rigore di logica la soluzione da adot- tare in questo campo dovrebbe seguire quanto proposto dalla Commissione Delors che indica principalmente una strategia, la più ampia diversificazione dei percorsi formativi. Le caratteristiche della società della conoscenza richiedono che gli al- lievi della FP siano preparati ad affrontare un → mercato del lavoro radicalmente nuovo in cui l’obsolescenza delle conoscenze e delle competenze è molto rapida e il lavoro dipendente sarà una esperienza minoritaria. Ciò richiede un riorienta- mento dei programmi e una mobilizzazione adeguata delle → nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (=TIC). La tendenza principale riguarda l’introduzione di una formaz. basata sulle competenze. Questo approccio com- prende, oltre naturalmente alla focalizzazione sulle competenze piuttosto che sui semplici contenuti, la → personalizzazione, l’autoformazione, i → crediti e i debiti formativi, la previsione di opportunità per un accesso e un’uscita flessibili dai vari programmi, la → FAD. Un altro trend consiste nel raggruppamento delle specializ- zazioni della FP per evitare una preparazione angustamente terminale. Un’altra meta è la formaz. all’autoimprenditorialità, tenuto anche conto della diminuzione dei posti nel lavoro dipendente. Nei processi di → insegnamento-apprendimento della FP dovrebbe essere possibile utilizzare sia le tecnologie semplici sia quelle moderne sia le TIC, senza rinunciare alle relazioni dirette tra insegnante e allievo tipiche della didattica tradizionale. In un contesto sociale e lavorativo in continuo cambiamento, l’→ orientamento assume un ruolo cruciale e deve costituire una parte integrante di ogni offerta di FP. Esso dovrà rispondere al tempo stesso ai bi- sogni delle persone, delle → famiglie e delle imprese e tener conto delle esigenze di ciascun allievo così come della sua situazione e del luogo dove si trova. Nel quadro di una dinamica sociale a tre dimensioni (Stato, mercato e terzo settore o privato sociale), il ruolo dello Stato consiste nel guidare l’evoluzione della FP, nel facilitare, coordinare, assicurare e valutare la realizzazione di un’offerta di qualità e nel garantire l’accesso a tutti. L’elaborazione e la realizzazione delle politiche per la FP va affidata a un partenariato (→ partnership) tra lo Stato, i genitori, le comunità locali, i datori di lavoro, i → sindacati, le professioni, la → società civile. Lo Stato e il settore privato devono riconoscere che la FP non è un peso, ma un in- vestimento che procura dei benefici importanti come il benessere dei lavoratori, l’accrescimento della produttività e della competitività internazionale. Il problema dei costi elevati di molti programmi della FP va risolto facendo ricorso all’→ ap- prendimento sul luogo di lavoro. 100 Bibl.: CRESSON E. - P. FLYNN, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Com- missione Europea, 1995; Conclusioni della Presidenza. Consiglio Europeo di Lisbona. 23 e 24 marzo 2000, Bruxelles, 2000; MALIZIA G. - C. NANNI, Istruzione e formazione: gli scenari europei, in CIOFS/FP - CNOS-FAP (Edd.), Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla formazione: i nuovi tra- guardi della Formazione Professionale, Roma, Tipografia Pio XI, 2000, 15-42; Comunicato di Maa- stricht sulle priorità future di una maggiore cooperazione europea in materia di istruzione e forma- zione professionale (VET), Bruxelles, 2004; MALIZIA G. - S. CICATELLI (Edd.), Atti dei seminari: Nuovi percorsi formativi per i docenti della scuola cattolica e Prospettive per il secondo ciclo. Rifles- sioni e proposte sul decreto attuativo. Roma, 30.9.2004 - 9.2.2005, Roma, CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), 2005. G. Malizia EUROPEAN COMPUTER DRIVING LICENCE (ECDL) ECDL è acronimo di European Computer Driving Licence, un’espressione che in italiano può essere tradotta con “patente (licenza di guidare) europea del computer”. L’ECDL è un certificato, frutto di un protocollo comune nelle nazioni europee, che decreta la → capacità del suo possessore di usare in modo corretto il computer, sen- za indagare sul livello di → competenza di un singolo applicativo. Cosicché, chi possiede questo documento non è uno specialista, ma una persona che sa usare, in senso generico, il computer. Viene pertanto rilasciato a chi possiede una conoscenza dei concetti fondamentali dell’informatica e sa usare un computer nelle applicazioni più comuni, ad un livello di base. L’obiettivo generale del programma ECDL è di contribuire all’→ alfabetizzazione informatica e fornire una qualificazione che con- senta di partecipare in modo attivo all’evoluzione indotta dalla tecnologia dell’in- formazione (→ nuove tecnologie). L’ECDL si fonda su un documento concordato a livello europeo, e cioè sul “Syllabus”, redatto dalla “ECDL Foundation”. Questo costituisce uno standard di riferimento che consente di uniformare i test, in qualun- que Paese essi vengano effettuati. Il “Syllabus” descrive in dettaglio ciò che il can- didato deve sapere e saper fare per conseguire l’ECDL ed è articolato in 7 moduli, ciascuno corrispondente ai sette esami previsti: 1) concetti teorici di base (Basic concepts), verifica la comprensione da parte del candidato dei concetti fondamenta- li riguardanti la “tecnologia dell’informazione”; 2) uso del computer e gestione dei file (Files management), verifica la conoscenza pratica da parte del candidato delle principali funzioni di base di un personal computer e del suo sistema operativo; 3) elaborazione testi (Word processing), verifica la competenza del candidato nell’uso del computer come elaboratore di testi; 4) foglio elettronico (Spreadsheet), verifica la comprensione da parte del candidato dei concetti fondamentali del foglio elettro- nico e la sua capacità di applicare praticamente questo strumento; 5) basi di dati (Databases), verifica la conoscenza da parte del candidato dei concetti fondamenta- li sulle basi di dati e la sua capacità di utilizzarli; 6) strumenti di presentazione (Pre- sentation), verifica la capacità di usare gli strumenti standard di questo tipo per creare presentazioni per diversi tipi di audience e di situazioni; 7) reti informatiche (Information networks), verifica la capacità dell’uso delle reti informatiche con il 101 duplice scopo di cercare informazioni e comunicare. L’esame avviene in modo au- tomatico: al candidato viene consegnato un foglio con login e password per entrare nel programma. In Italia, l’ECDL è rilasciato dall’AICA (Associazione Italiana per l’Informatica e il Calcolo Automatico) ed è valido per la determinazione del → cre- dito formativo. Possedere la → certificazione ECDL significa aver superato i 7 test che verificano la capacità nell’uso del computer. Bibl.: COVINI A. - G. GRIGNOLIO, Le sette chiavi del personal computer. Un passaporto europeo per il mondo del lavoro. Office XP. Con CD-ROM, Milano, F. Angeli, 2003; COVINI A. - G. GRIGNOLIO, Pa- pere al computer? No, grazie. Esercizi di preparazione all’esame dell’ECDL. Con CD-ROM, Milano, F. Angeli, 2002; AICA, ECDL per tutti. Come conseguire la patente europea del computer, Milano, Mondadori Informatica, 2006. D.M. Giaccari FAMIGLIA Nessuno oggi mette in dubbio il valore fondamentale che ha la f. per la → società. Addirittura ne viene reclamata l’attribuzione dei suoi diritti-doveri, anche a ciò che f. non è, ma è solo una pura convivenza o una coppia di fatto. In tutte le ricerche sociologiche la f. viene scelta come primo valore assoluto sia per i giovani che per gli anziani. Nella letteratura pedagogica essa costituisce l’ambiente naturale più adatto e indispensabile per la → formaz. e l’→ educ. delle nuove generazioni al loro ingresso nella società. Essa si pone come la fonte originaria e primordiale di ciò che nessun’altra relazione umana può dare, di quei beni interpersonali basati sul dono, la cui mancanza ricade pesantemente a danno stesso della società. Infatti là dove manca la f. o è psicologicamente assente, emerge quasi automaticamente una serie di rischi sociali e psicologici aperti alla devianza a cui sembrano destinati i senza-famiglia di oggi. Benché molteplici siano le tenenze culturali che rendono difficile la concordanza su una definizione comunemente condivisa di f., a tal punto che qualcuno ritiene sia impossibile definirla nella sua natura, a noi sembra sufficientemente chiara e adeguatamente fondata la definizione che ne dà Gallino e che noi pure riteniamo valida per la sua onnicomprensività, completezza e raziona- lità. “La famiglia, egli scrive, è una unità fondamentale dell’organizzazione sociale, composta al minimo da due individui di sesso opposto, che convivono stabilmente in una stessa abitazione a seguito di qualche tipo di matrimonio, intrattengono rap- porti sessuali e affettivi, cooperano regolarmente alla riproduzione materiale della loro esistenza, dividendosi il lavoro necessario all’interno e all’esterno dell’unità; e la cui convivenza, le relazioni sessuali ed affettive e la cooperazione economica sono approvate e riconosciute legittime, in cambio della conformità a certe norme sociali, in primo luogo a quelle che regolano il matrimonio, della società di cui fanno parte”(Gallino, 1978, 303). L’emergere di cosiddette “nuove forme di vita fa- miliare” sembra legittimare alcuni studiosi a problematizzare tale concetto fino a vanificarlo e a svuotarlo della sua pregnanza, con il grande rischio però di non sa- 102 pere più di che cosa si parli, quando si parla di f. Le concezioni antropologiche di fondo, le caratterizzazioni di tipo culturale, giuridico, psicologico, sociologico, sto- rico, demografico, sono tutte attribuzioni che ne arricchiscono la natura e ne espli- citano la pluralità degli approcci di studio. 1. Approcci di studio. La complessità della f. come “luogo sociale” emerge anche dalla pluralità degli approcci con cui è stata studiata, cioè di quell’angolo di prospet- tiva dal quale è stata osservata ed interpretata. Nel corso della storia la letteratura scientifica, specie quella sociologica, ne ha individuati almeno una decina: dalla let- tura che ne fanno i sociologi classici, come F. Le Play, K. Marx, E. Durkheim, M. Mauss, C. Levy-Straus, A. de Tocqueville, M. Weber, G. Simmel, agli approcci più propriamente moderni dei sociologi contemporanei. A partire dagli anni ‘50 vari AA. hanno tentato di fornire delle classificazioni sistematiche degli approcci socio- logici allo studio della f., così da approfondirne in modo complementare i diversi aspetti. 1) L’approccio istituzionale di Zimmerman (1971) considera la f. essenzial- mente come istituzione sociale, cioè come gruppo sociale che deve avere una sua precisa normativa pubblicamente sanzionata per rispondere a bisogni naturali e che attraversa tutti i tempi ed è presente in ogni cultura. 2) L’approccio struttural-fun- zionalista di Parsons (1971), si differenzia dal precedente perché l’unità di analisi è il “sistema sociale famiglia” che ha una sua struttura di status-ruoli che devono svolgere funzioni specializzate, e dove il comportamento familiare è risposta ad un insieme di attese complementari. Si parla allora di ruoli strumentali esercitati dal pa- dre e di ruoli espressivi svolti dalla madre, in risposta alle attese della società. In questa prospettiva essa deve svolgere la funzione di controllo delle tensioni che hanno a che fare con la sessualità, la socializzazione, la cura dei nuovi nati e il so- stegno psicologico delle personalità adulte. 3) L’approccio dello scambio di Ekeh (1974) ritiene che la → solidarietà familiare non possa essere basata sulla conformi- tà dei ruoli e sul consenso a valori ultimi, come nel precedente, ma sul vantaggio che deriva dal mutuo scambio di ricompense e di gratificazioni che un soggetto cer- ca dall’altro. Più che essere orientato verso valori, il comportamento è diretto verso la massimizzazione delle ricompense e la minimizzazione delle sanzioni negative, in uno spirito di piena reciprocità che nella f. ha più una connotazione di dono che non di utilità. 4) L’approccio della teoria critica della Scuola di Francoforte (Ador- no, Horkheimer, Marcuse, 1966) osserva la f. come forma sociale ambivalente, per- ché da un lato è funzionale all’ordine e al controllo della società e dall’altro è indi- spensabile alla maturazione dell’individuo, a tal punto che la decadenza della f. con- tribuisce al dilagare dell’anomia sociale. 5) L’approccio ermeneutico-fenomenolo- gico di P. Berger e H. Kellner (1970) pone l’accento sugli elementi significativi e intenzionali, quindi soggettivi e intersoggettivi della f. Esso sottolinea la dimensio- ne simbolica della f., quasi a rispondere alla domanda “cosa significa oggi dire o fa- re famiglia?”. È un modo di attribuire un significato alle relazioni interpersonali, le quali vengono proiettate sullo sfondo di un progetto. Il processo di formazione della coppia, il matrimonio, l’avere figli e vivere in f. è una costruzione sociale di regole 103 significative di vita con cui la vita familiare prende corpo. 6) L’approccio interazio- nista di P. Burgess e H. Locke (1945) considera la f. come unità di persone intera- genti, di cui studia la dinamica psicologica come gruppo e sistema di persone senza preoccuparsi dei vincoli legali o delle strutture sociali istituzionali. È la f. compa- nionship, comunità di amicizia, che si organizza su elementi non costrittivi, ma deri- vati dall’intimità personale, i cui valori centrali sono il dare e ricevere affetto, l’u- guaglianza tra marito e moglie, il comportamento democratico nelle decisioni fami- liari. 7) L’approccio evolutivo di R. Hill e E. Duvall, riformulato oggi da M. Mc Goldrick e E.A. Carter, (1986), avverte che la f. si evolve e si modifica nel tempo, a seconda della particolare fase del ciclo di vita che essa sta attraversando. Questa im- pone inevitabilmente dei compiti evolutivi specifici di sviluppo sia per gli individui che per la coppia, i quali vengono determinati da una serie di eventi di crisi che co- stituiscono il passaggio a fasi successive. La f. costruisce così la sua storia, nella continua ricerca di un equilibrio dinamico che si regge sulla realizzazione più soddi- sfacente possibile dei compiti con i quali si cerca di far fronte sia alle richieste delle agenzie esterne sia ai bisogni interni. 8) L’approccio relazionale di P.P. Donati (1988) sostiene che la f. è una relazione sociale speciale e sovrafunzionale, distinta cioè da ogni altro tipo di relazione sociale e al di sopra delle funzioni che la società le impone progressivamente. È una realtà sui generis, non riconducibile agli ele- menti componenti: un sistema altamente complesso, differenziato, a confini variabi- li, in cui si realizza quell’esperienza vitale e specifica che è fondamentale per la strutturazione dell’individuo come persona, cioè come individuo-in-relazione (esse- re relazionale), nelle sue determinazioni di gender (che implicano la sessualità) e di appartenenze generazionali (che implicano la parentela). In essa vi è un modo pro- prio di vivere le relazioni sociali perché sono costruttrici di alleanze e di solidarietà sia interne che esterne (network e reti sociali). 2. I problemi di oggi. Volendo soffermarci al contesto italiano, la f. di oggi è chia- mata ad affrontare sfide di non poca entità non solo per il suo benessere e sviluppo, ma anche per la sua sopravvivenza. Sono sfide innanzitutto di carattere demografi- co. L’immagine che se ne può ricavare e che ne descrive la dinamica di questi ultimi anni è quella metaforica della piramide che si trasforma in cilindro e che delinea uno dei cambiamenti che la f. italiana ha subito nell’ultimo decennio. Secondo gli ultimi dati dell’ISTAT (2000) la f. è sempre più “stretta” e “lunga”, aumenta cioè la longevità, ma diminuiscono i figli. Ci sono più generazioni nello stesso nucleo, ma meno bambini. Ciò comporta un cambiamento di relazioni e di bisogni. La genera- zione dei cinquantenni si ritrova sempre più stretta tra le richieste di sostegno prove- nienti dai figli (“famiglia lunga”) e quelle pressanti che vengono dalle generazioni più anziane. Vi sono inoltre le sfide della instabilità coniugale: aumento delle sepa- razioni e dei divorzi e conseguente aumento di figli coinvolti nelle separazioni. Sta diffondendosi nell’opinione pubblica l’idea che il matrimonio sia reversibile, con possibilità quindi di una revoca della propria fedeltà, con notevoli conseguenze sul- la propria insicurezza personale. Reversibilità significa inoltre possibilità di seconde 104 e terze nozze, con la costituzione di nuove f. cosiddette “ricostituite”. Aumenta quindi la complessità e il caos delle relazioni familiari e genitoriali: più adulti con figli di varia provenienza, dove un figlio si trova a gestire le sue relazioni con più fi- gure significative e identificatorie, quando ancora non ha la capacità psicologica di districarsi in questo pendolarismo genitoriale. Si appartiene a più f., si allarga il nu- mero delle relazioni, ma anche quello delle case in cui si abita. Tutto questo ha gra- vi ricadute sulla formazione della propria personalità costringendo sempre a nuove riorganizzazioni della propria vita quotidiana e della stessa vita familiare. Non ulti- ma è la sfida della conciliazione tra tempi di lavoro professionale e tempi di cura familiare, specialmente per la donna e di educ. dei figli. La madre, costretta ad un lavoro extrafamiliare, ha infatti meno tempo a disposizione per se stessa, per i figli e per la f. In questo contesto nasce l’emergenza di adeguate e globali politiche fami- liari che prendano in considerazione la f. nella sua totalità e non nella individualità dei singoli componenti (quoziente fiscale). Bibl.: BERGER P. - H. KELLNER, “Marriage and the Construction of Reality”, in H. DREITZEL H. (Ed.), Recent Sociology, n. 2, New York, Mac Millan, 1970; ZIMMERMAN C., Family and Civilization, New York, Harper & Row, 1971; EKEH P.P., Social Exchange Theory, London, Heinemann, 1974; PARSONS T. - R. BALES (Edd.), Famiglia e socializzazione, Milano, Mondadori, 1974; GALLINO L., “Famiglia”, in ID., Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1978, 303; Mc GOLDRICK M. - E.M. CARTER, The Fa- mily Life Cycle: a Framework for Family Therapy, New York, Gardner Press, 1980; SCABINI E. - P.P. DONATI (Edd.), Nuovo lessico familiare, Milano, Vita e Pensiero, 1995; ISTAT, Le strutture familiari. Indagine multiscopo sulle famiglie. “Famiglie, soggetti sociali e condizioni dell’infanzia”, Roma, ISTAT, 2000; ROSSI G. (Ed.), Lezioni di sociologia della famiglia, Roma, Carocci, 2001; MION R., Ar- monizzazione tra tempi di lavoro e tempi della famiglia, Regione Abruzzo, Ortona, 2002; BARBAGLI M. et al. (Edd.), Fare famiglia in Italia. Un secolo di cambiamenti, Bologna, Il Mulino, 2003; ROSSI G., La famiglia in Europa, Roma, Carocci, 2003; SARACENO C. - L. NALDINI, Sociologia della fami- glia, Bologna, Il Mulino, 2003; DONATI P., Famiglia e capitale sociale nella società italiana. Ottavo Rapporto CISF sulla famiglia in Italia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005; DONATI P. (Ed.) Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie. Nono Rapporto CISF sulla famiglia in Italia, Cinisello Bal- samo, San Paolo, 2005; DONATI P.P., Manuale di sociologia della famiglia, Roma-Bari, Laterza, 2006. R. Mion FAMIGLIA PROFESSIONALE → Comunità / famiglia professionale FILIERE FORMATIVE → FP FINANZIAMENTI PER LA FP Le fonti di f. per la → FP possono essere pubbliche o private, e sono talora diversi- ficate in base al tipo di → formaz. (→ FP iniziale, → FP continua). L’esame dei f. per la FP richiede una preventiva definizione di quali attività vengano ricomprese 105 nel sistema di FP. Considerando solo il complesso delle attività promosse dalle Re- gioni, nel 2003 la spesa è stata pari a ca. 3.200 milioni di Euro. 1. Nel sistema regionale di FP, si utilizzano quasi esclusivamente risorse pubbliche. Le Regioni individuano le risorse attraverso i seguenti canali: a) Fondo Comune per le Regioni: è il canale fondamentale attraverso il quale le Regioni ricevono fondi dallo Stato per la copertura delle spese. Il fondo è alimentato da una percen- tuale fissa di alcune entrate tributarie dello Stato ed è ripartito in base a parametri quali popolazione, superficie, tasso di emigrazione, livello di disoccupazione e red- dito. Le Regioni definiscono liberamente la ripartizione di tali risorse fra i vari ca- pitoli di spesa; b) Fondo per la FP e accesso al FSE: istituito dalla L. 236/93, è ali- mentato dalle risorse derivanti dal prelievo contributivo dello 0,30% del monte sa- lari pagato dalle → imprese come contributo integrativo per l’assicurazione obbli- gatoria contro la disoccupazione involontaria; c) Fondi strutturali: sono risorse ero- gate dall’UE con diverse finalità per il f. di programmi operativi. Per la FP, le ri- sorse provengono principalmente dal FSE. Per poter aumentare il volume delle ini- ziative, le Regioni hanno utilizzato in misura crescente le risorse proprie come “sponda” ai f. comunitari, con un grado di dipendenza medio del 60%, ma che si avvicina al 100% per molte Regioni meridionali; d) altre risorse nazionali: per il f. di attività specifiche, rese obbligatorie da leggi quali gli interventi per i giovani in → obbligo formativo o per gli apprendisti (→ apprendistato), sono previsti ulteriori f. a carico dello Stato, generalmente a valere sul Fondo per l’occupazione gestito dal MLPS, erogati alle Regioni sulla base di parametri condivisi. Rientrano in tale canale di f. anche le risorse assegnate dallo Stato per gli → enti di carattere nazio- nale (L. 40/87). 2. Il f. dei vari interventi formativi avviene di norma tramite bandi pubblici, cui possono partecipare sia strutture pubbliche sia private aventi determinate caratteri- stiche. I corsi sono completamente gratuiti per gli allievi. A volte sono previsti anche rimborsi per le spese di viaggio, vitto e alloggio e indennità di frequenza. Solo in casi limitati è richiesto agli allievi il pagamento di una quota minima per l’iscrizione o per i materiali didattici. Rispetto al segmento della FP iniziale, una voce di spesa importante da considerare riguarda il f. di quei percorsi dell’istruz. secondaria a carattere professionalizzante, quali gli istituti professionali e d’arte. Tali risorse provengono dal bilancio dello Stato, gestite dal MIUR. Nell’ambito della FP continua, sono destinati ad avere un peso sempre più ampio gli interventi promossi dai Fondi interprofessionali, costituiti e gestiti in forma paritetica dalle → Parti sociali, cui saranno progressivamente assegnati i proventi dello 0,30% del monte salari, sulla base delle adesioni volontarie delle imprese. Nel 2004 gli avvisi pubblici emanati dai Fondi hanno messo a disposizione delle imprese risorse per ca. 100 milioni di Euro. 3. Altre attività di FP sono offerte in un mercato privato della FP, che talora può ri- cevere riconoscimento o autorizzazione da parte del soggetto pubblico, e quindi fi- 106 nanziate dalle quote di partecipazione degli allievi; anche le aziende promuovono interventi formativi finanziati con risorse proprie. Bibl.: CEDEFOP, Il finanziamento della formazione professionale in Italia. Ritratto finanziario, Lus- semburgo, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali della Comunità Europea, 2000; ISFOL, Rapporto ISFOL 2001. Federalismo e politiche del lavoro, Milano, F. Angeli, 2001; ISFOL, Rapporto ISFOL 2005, Roma, Tiellemedia Editore, 2005. S. D’Agostino FORMATORE Nel corso degli ultimi anni si registra una crescente attenzione verso il → profilo professionale del f. Il fenomeno si iscrive nel più ampio dibattito sulla valorizzazio- ne dei sistemi di → istruz. e FP per l’affermazione del lifelong learning inteso come asse portante dello sviluppo socio-economico e della qualificazione della → cittadi- nanza nello spazio dell’Europa comunitaria. In questo scenario – essendo i servizi formativi ad elevata intensità di capitale umano – il ruolo dei f. assume una eviden- te centralità strategica. Soprattutto nella fase storica più recente, tale rinnovata at- tenzione si è concretizzata in una serie di dispositivi normativi e di supporto tecnico che hanno contribuito ad innescare un’evoluzione piuttosto significativa nel profilo socio-anagrafico e professionale del f. In questo contributo, pertanto, ci riferiamo ad un mestiere complesso ed in forte trasformazione sul piano dei livelli di → profes- sionalità e dell’→ identità soggettiva, organizzativa e sociale. Ciò sembra preludere, già nel breve periodo, al definitivo superamento di una certa debolezza insita nello statuto professionale del f. che, non di rado, viene considerato una sorta di “inse- gnante di serie B”. Ciò grazie al progressivo consolidamento di quei tipici elementi connotativi che normalmente contribuiscono all’affermazione – anche in termini di prestigio e riconoscibilità sociale – di uno specifico gruppo professionale. 1. Chi è il f. Sul piano generale, si può affermare che il f. è un professionista esperto nella predisposizione, gestione, erogazione e → valutazione di → processi di for- maz./ → apprendimento rivolti a target differenziati sul piano anagrafico (giovani- adulti), occupazionale (occupati, a rischio di disoccupazione, inoccupati), della con- dizione psico-sociale (soggetti deboli a rischio di → esclusione). Questa definizione, tuttavia, si declina concretamente in forme e pratiche operative eterogenee sia dal punto di vista del contesto organizzativo di riferimento, sia dal punto di vista fun- zionale, oltre che – come accennato – sul piano dei → destinatari o beneficiari del- l’attività professionale. Per questa ragione, il concetto di f. va inteso in un’accezione “articolata e plurale”, ossia non riconducibile a profili unitari ed omogenei che risul- terebbero gravemente riduttivi e semplificatori. In primo luogo, il f. opera in conte- sti organizzativi spesso molto eterogenei, quali: agenzie formative pubbliche e pri- vate, aziende afferenti ai diversi settori produttivi, società di consulenza, associazio- ni del terzo settore, → servizi per l’impiego. Le agenzie formative (i cosiddetti → enti di FP) costituiscono, di fatto, il comparto d’attività elettivo e più tradizionale 107 del f., e per tale ragione coinvolgono certamente la quota maggioritaria del gruppo professionale di riferimento. Un contesto altrettanto rilevante è costituito dalle aziende, soprattutto se di dimensioni significative, che non di rado tendono a dotarsi di autonome strutture formative in grado di adeguare e consolidare lo sviluppo del capitale umano rispetto alle peculiari esigenze del processo produttivo. Più di recen- te, il formatore ha trovato spazio all’interno di numerose altre tipologie di organiz- zazioni, che generalmente operano nel campo dello svantaggio o nell’ambito di ser- vizi che intervengono sul versante dell’incontro domanda-offerta di → lavoro. Le più recenti riforme del sistema formativo, infine, consentono in certa misura di estendere questa accezione al sistema dell’istruz. e dell’università (→ università e FP), per via della crescente presenza di queste istituzioni nella gestione di attività propriamente formative (si pensi ad es. all’Alta formaz.). Un secondo aspetto parti- colarmente rilevante per la comprensione di questa figura professionale chiama in causa le funzioni presidiate nell’ambito del → processo formativo. A questo propo- sito, bisogna sottolineare che il f. non corrisponde tout court alla funzione di docen- te d’aula, ossia di chi si occupa dell’erogazione del “prodotto” formativo. Anzi, que- sto argomento costituisce certamente uno degli ambiti di maggiore innovazione cul- turale e normativa che ha caratterizzato il dibattito sul profilo professionale in og- getto negli ultimi anni. Infatti, nell’ambito di un processo formativo di qualità – in cui assumono importanza tutti gli step, compresi quelli che si collocano a monte, a valle o a supporto dell’erogazione del servizio formativo – si delineano con crescen- te nettezza una serie di funzioni specialistiche il cui presidio risulta altrettanto cru- ciale rispetto a quella tradizionale di docenza. In questo senso, fra gli addetti ai la- vori si tende da qualche tempo a sostituire all’accezione di f. quella più appropriata di “operatori della formaz.”, che allude ad una concezione “organizzativa, dinamica, di processo” del ruolo di f. In definitiva, il f. può occuparsi direttamente dell’eroga- zione della prestazione didattica, ma può svolgere molteplici funzioni connesse a tutte le fasi del processo formativo: dall’analisi dei fabbisogni alla progettazione di interventi personalizzati (→ personalizzazione), dalla programmazione didattica al → monitoraggio e → valutazione di processo/risultato, dal coordinamento didattico al tutoraggio ed all’→ orientamento. Il f. sembra, quindi, configurarsi come un “pro- fessionista in situazione”, capace di rilevare e comprendere i → bisogni, program- mare e progettare un percorso formativo, gestire le azioni formative, valutare l’effi- cienza e l’efficacia della formaz., sviluppare azioni di → ricerca, → sperimentazione e implementazione di nuovi modelli progettuali e ambienti formativi. L’esigenza di una maggiore differenziazione e specializzazione funzionale del profilo professio- nale del f., che supporti ed integri sul piano organizzativo il tradizionale ruolo di do- cente, è uno dei tratti maggiormente qualificanti della riforma del → sistema forma- tivo italiano. Attualmente, questo passaggio appare ancora largamente incompiuto, sia dal punto di vista istituzionale-normativo sia rispetto al concreto funzionamento dei processi formativi, a causa di una ancora poco chiara definizione ed affermazio- ne di alcuni profili di → competenza dei f., soprattutto quelli più innovativi. In ogni caso, lo scenario di una progressiva differenziazione funzionale dei f. è ormai trac- 108 ciato in maniera irreversibile, e segnerà profondamente lo sviluppo futuro della pro- fessione. 2. Accesso alla professione e formaz. del f. L’accesso al ruolo di f. risulta tradizio- nalmente piuttosto libero da vincoli e scarsamente regolamentato. Esso non con- templa il possesso di requisiti specifici, neanche per ciò che concerne il titolo di studio. Non esistono neppure particolari procedure che ne vincolano il recluta- mento. Di fatto, le conoscenze attualmente disponibili indicano come questo segua prevalentemente canali “interni” al sistema e di natura prevalente informale (cfr. Gaudio - Montedoro, 2005). Il discorso muta relativamente per l’accesso alla com- ponente pubblica degli enti di formaz., nel qual caso vigono le norme che regola- mentano tutta la Pubblica Amministrazione. Non esiste, tra l’altro, un Albo nazio- nale riconosciuto dei f. Si rilevano, però, i casi di alcune Regioni che nel corso di questi anni hanno utilizzato forme di → accreditamento del personale dei servizi formativi come strumento di selezione, nonché di alcune → associazioni professio- nali di settore che si sono proposte come soggetti accreditatori nel mercato privato della formaz. di impresa e manageriale (ad es., l’Associazione Italiana Formatori - AIF). Tuttavia, la progressiva qualificazione del sistema formativo – ed i risvolti cui si è accennato sul profilo professionale in oggetto – pongono sul terreno esi- genze di una più attenta selezione dei f., soprattutto per ciò che concerne saperi, competenze ed → abilità tecniche e relazionali. Infatti, “la figura del formatore si accinge ad essere quella di un professionista laureato che studia, progetta, realizza, gestisce attività formative, valuta, facendo ricorso a forti relazioni umane e peda- gogiche, in scenari spesso nuovi e interessanti, non sempre prevedibili o preordi- nabili (…). Ne deriva la necessità per il futuro formatore, di una preparazione de- cisamente complessa nel senso di un intreccio fatto non solo di competenze tec- niche e di sapienti dosaggi di cultura sociale e organizzativa, ma specialmente di grande disponibilità umana e psicologica (…). Il ruolo del formatore si svolge su più versanti: su quello psicologico, su quello delle relazioni umane e personali, so- ciali, organizzative, economiche e del mercato del lavoro” (Di Nubila, 2005). Per ciò che concerne la → FP iniziale, occorre dire che negli ultimi anni si registra una maggiore incidenza dei laureati nella popolazione di riferimento (cfr. Rapporto ISFOL, 2005), e ciò attesta una crescente attenzione in fase di reclutamento verso i requisiti di base. Inoltre, in questi ultimi anni sono stati attivati, in numerose Fa- coltà di Scienze della Formazione, corsi di laurea specifici e Master di primo e se- condo livello per f. Le attività di → FP continua per i f. non sono formalizzate e regolate istituzionalmente. Gli interventi formativi sono promossi soprattutto dalle Amministrazioni regionali e provinciali – coerentemente con il processo di decen- tramento istituzionale che conferisce a queste ultime le competenze in materia di FP – e finanziate prevalentemente dal FSE e da alcuni programmi comunitari (“Leonardo”, “Equal”). Le linee di tendenza presenti nei POR regionali relativi al- l’ultimo periodo di programmazione (2000-2006) prevedevano una formaz. dei f. orientata soprattutto a sostenere la ristrutturazione organizzativa e l’accredita- 109 mento degli enti di FP; la → certificazione delle loro competenze; la riforma dei servizi per l’impiego; l’utilizzo delle → nuove tecnologie per l’apprendimento (e-learning); la gestione di interventi integrati per lo sviluppo del lifelong lear- ning, l’→ alternanza e l’→ apprendistato; il monitoraggio e la valutazione degli in- terventi formativi (cfr. Rapporto ISFOL 2001). Secondo una recente indagine ISFOL (cfr. Gaudio - Montedoro, 2005) la formaz. in servizio dei f. sembra confi- gurarsi come un sistema stabile e strutturato nelle Regioni settentrionali e centrali; nel Mezzogiorno, al contrario, essa appare meno rispondente a logiche program- matorie, più sporadica e meno tempestiva. In relazione alla natura giuridica degli enti di FP, il privato convenzionato appare più sensibile alla formaz. in servizio del personale in organico presso le proprie sedi formative (→ CFP). Sul piano dei con- tenuti formativi, la didattica in aula sembra costituire l’ambito privilegiato della formaz. in servizio fruita dai f., cui segue l’analisi dei fabbisogni formativi e la progettazione formativa. L’→ orientamento, il tutoraggio, il coordinamento e la programmazione formativa appaiono scarsamente trattati rispetto all’importanza attribuita loro in questa fase, mentre il tema della → valutazione e del → monito- raggio risultano sostanzialmente residuali. Ciò implica la necessità di una migliore e più coerente programmazione della FP continua dei f., soprattutto nel Meridione. Nel prossimo periodo di programmazione, essa dovrà accompagnare più efficace- mente lo sviluppo della professione valorizzando ulteriormente quelle specializza- zioni infra-professionali su cui poggia una parte importante dello sviluppo del set- tore. 3. Il f. e l’→ accreditamento dei servizi. La professione di f. trova oggi un quadro di riferimento elettivo nel Decreto del MLPS n. 166/01. Questo dispositivo approva le linee di riferimento nazionali per l’accreditamento delle organizzazioni che inten- dono attuare interventi di formaz. e/o orientamento con il → finanziamento pub- blico, demandando alle singole Regioni l’elaborazione di un proprio modello speci- fico attraverso una declinazione territoriale del modello nazionale. Al fine di assi- curare servizi più efficienti ed efficaci, i dispositivi regionali introducono standard di qualità relativi non solo alle strutture formative ma anche alle → competenze (standard minimi) che devono possedere i f. nell’agire professionale quotidiano. Nell’allegato 2.3 del Decreto viene definito, infatti, il “Quadro delle competenze necessarie per la realizzazione delle funzioni professionali” proponendo uno schema di descrizione delle professionalità dei f. in merito alle seguenti funzioni chiave delle agenzie formative: direzione, amministrazione, docenza, coordina- mento, analisi, progettazione, valutazione, orientamento. Pur non essendo ancora stato avviato un processo organico di certificazione delle competenze dei f. co- erente con i dettami del DM 166/01, è evidente che quest’ultimo – in quanto ele- mento fondamentale per assicurare effettivamente la qualità dei servizi formativi – costituirà un riferimento inevitabile per lo sviluppo futuro della professione. 4. Tendenze e dinamiche della professione del f. Alcune delle già citate indagini ISFOL (cfr. Gaudio - Montedoro, 2005) evidenziano tendenze e dinamiche che 110 hanno interessato la figura del f. in Italia nel corso degli ultimi decenni. Secondo tali studi, si possono individuare tre principali tappe storiche nello sviluppo della professione. Il primo periodo, corrispondente in linea di massima agli anni ‘70, è stato caratterizzato da un processo espansivo importante del numero dei f. che ha interessato soprattutto la componente pubblica del sistema formativo. Tale pro- cesso ha risentito dei mutamenti intervenuti in quegli anni nell’assetto normativo e istituzionale (istituzione delle Regioni ed emanazione della L. quadro 845/78) che imponevano alle Regioni di attrezzarsi per lo svolgimento di un ruolo di gestione diretta nell’ambito “dell’istruzione artigiana e professionale”. Durante questa fase, la componente privata della formaz. cresce ugualmente ma in modo regolare e con un’intensità inferiore alla norma. Nel periodo successivo (anni ‘80), le dinamiche di espansione specifica dei f. nei settori pubblico e privato sembrano invertirsi: il sistema privato cresce in misura sensibile mentre i f. degli enti pubblici sembrano subire una battuta d’arresto dovuta presumibilmente a una razionalizzazione della componente pubblica e a una crisi di risorse finanziarie e di assetti istituzionali e organizzativi. È, infine, a partire dalla seconda metà degli anni ‘90 che si verifica un ampliamento senza precedenti del numero dei f. grazie alle risorse finanziarie introdotte nel mercato della formaz. da fondi pubblici comunitari. Ciò intensifica i processi di reclutamento di nuovi f., che si concentrano soprattutto nel settore pri- vato. L’espansione numerica dei f. di questo ultimo periodo, inoltre, sembra impu- tabile quasi esclusivamente ad una crescente flessibilizzazione della professione, che si manifesta in un incremento continuo e sostenuto di contratti atipici, al punto che, oggi, il personale con contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato risulta sostanzialmente minoritario. In particolare, in quest’ultima componente prevalgono largamente f. maschi anagraficamente più “anziani”, mentre la compo- nente più flessibile è composta soprattutto da formatrici molto giovani. La ten- denza espansiva più recente, dunque, sembra evidenziare un mutamento sostenuto della figura del f. sul piano delle caratteristiche socio-anagrafiche di base e profes- sionali. Rispetto agli anni ‘70 e ‘80, cioè, si rileva una progressiva “femminilizza- zione” della professione. Malgrado l’intensità del reclutamento nella fase più re- cente di sviluppo del settore, l’età media dei f. si aggira attualmente intorno ai 43 anni con una tendenza piuttosto accentuata all’invecchiamento. Si registra, però, un miglioramento complessivo del livello di istruz. di base, attraverso una diminu- zione dei titoli di studio inferiori (obbligo e → qualifica), una stabilità della quota di f. in possesso di diploma (prevalentemente tecnico industriale o commerciale e di istruz. professionale) ed un forte aumento dei laureati, soprattutto tra le nuove leve di f. Questi, come accennato, rappresentano oltre un terzo degli addetti ai ser- vizi formativi e sono costituiti soprattutto da giovani donne con rapporti di lavoro flessibili. È, in definitiva, una professione che cambia profondamente fisionomia e che – pur con alcune contraddizioni – sembra incamminata verso uno sviluppo co- erente con le attuali esigenze sociali ed istituzionali. A sua volta, però, essa esprime bisogni e domande di ulteriore valorizzazione cui le istituzioni dovranno dare risposta. 111 Bibl.: BRUSCAGLIONI M., La gestione dei processi nella formazione degli adulti, Milano, F. Angeli, 1991; ISFOL, I formatori. Caratteristiche, motivazioni, prospettive, Milano, F. Angeli, 1992; KNO- WLES M., Quando l’adulto impara, Pedagogia e andragogia, Milano, F. Angeli, 1993; ISFOL, Model- li di formazione dei formatori, Roma, 1998; ISFOL, Standard Formatori. Per un modello nazionale di competenze verso l’accreditamento professionale, Roma, ISFOL, 1998; ISFOL, Rapporto ISFOL 2001, Milano, F. Angeli, 2001; MONTEDORO C. (Ed.), Le dimensioni metacurricolari dell’agire forma- tivo, Milano, F. Angeli, 2001; MONTEDORO C. (Ed.), Dalla pratica alla teoria per la formazione: un percorso di ricerca epistemologica, Milano, F. Angeli, 2001; ISFOL, Rapporto ISFOL 2004, Roma, Tiellemedia, 2004; ISFOL, Rapporto ISFOL 2005, Roma, Tiellemedia, 2005; GAUDIO F. - C. MONTE- DORO (Edd.), I formatori della formazione professionale. Come (e perché) cambia una professione, Roma, I libri del FSE, 2005; DI NUBILA D.R (Ed.) Professione formatore. Il ruolo, le competenze, i luoghi e le prospettive, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2005; GOVERNATORI G. - C. MONTEDORO (Edd.), Insegnare agli adulti: una professione in formazione, Roma, I libri del FSE, 2006. C. Montedoro FORMAZIONE Nel linguaggio comune e nella letteratura pedagogica è sinonimo di → educ., di → apprendimento, di istruz., di addestramento ed in un certo senso li coinvolge tutti. Il termine, nel corso della storia, ha avuto molti usi ed ancora oggi è inteso in molti sensi. 1. Nella tradizione, f. indica l’attività di “dar forma”, di configurare, di plasmare, di foggiare e forgiare; ma anche il processo di adeguamento alla cultura sociale di ap- partenenza (= “paideia”). Nell’età moderna, in connessione con l’accentuazione di una immagine dell’uomo costruttore di sé e con l’affermarsi dell’idea di progresso e di sviluppo segnato dall’intervento della razionalità e delle capacità operative e tecniche umane, il termine f. è diventata una parola-programma. Con f. si è preso ad intendere il processo di integrale sviluppo personale (cfr. il ted. “Bildung”, che dice, insieme, l’immagine umana ideale, la cultura che umanizza e l’azione di uma- nizzazione attraverso tale cultura). Ma negli ultimi tempi con f. si è venuto ad in- tendere normalmente il processo di acquisizione delle → competenze per svolgere in maniera efficiente ed efficace un → ruolo sociale o professionale: sicché quando si parla di f. si intende quasi solo → FP, magari in contrapposizione ad istruz. Spesso si usa il termine senza distinguere i due significati. Oppure li si può con- trapporre sotto forma di opposizione tra cultura (= qualificazione umana dello svi- luppo personale) e → competenza (= operare esperto, efficiente ed efficace). 2. In ogni caso, oggi, la f. viene pensata ed estesa all’intero arco dell’esistenza (cfr. le espressioni: f. degli adulti, → FP continua, → FP iniziale, f. in process, f. perma- nente, f. universitaria, ecc.; e le espressioni anglosassoni: “lifelong education”, “continuing education”, “ongoing education”). Parimenti, pur con tutte le incer- tezze di significato, appare chiaro che parlando di f. si viene ad immaginare e pro- spettare lo sviluppo umano, sia nel suo essere sia nel suo operare, in termini di per- fettibilità e di qualificazione, seppure limitata e non infinita, in un gioco, non privo di tensioni, tra → bisogni del soggetto ed intenzioni sociali di sviluppo. 112 3. La f. al → ruolo (ma anche quella della persona nelle sue molte articolazioni) è ritenuta questione centrale e risorsa imprescindibile nelle politiche nazionali ed in- ternazionali da parte degli organismi governativi (come l’UE, il Consiglio d’Eu- ropa o l’UNESCO) e non governativi (come le diverse → associazioni comunitarie ed internazionali di ricerca e di cooperazione operativa, di tutela e di promozione dei diritti umani, specialmente delle minoranze e delle fasce sociali emarginate). A livello mondiale, è invocata (e sostenuta economicamente nei concreti progetti di intervento) come termostato dell’equilibrio mondiale e come fattore di sostegno per lo sviluppo dei popoli. La mancata effettività del diritto alla piena alfabetizzazione, il diffuso analfabetismo culturale, la carenza di FP rischiano, infatti, di non permet- tere a quote sempre più estese della popolazione di leggere i sofisticati alfabeti e decifrare i codici procedurali, attraverso cui si esprime, o che impone, la → società industriale e post-industriale, sia a livello di produzione che di esistenza. 4. In tal senso, il problema della f. viene strettamente connesso con gli altri grandi nodi dello sviluppo, quali l’economia, la salute, l’→ ambiente, la popolazione. Anzi assurge a funzione imprescindibile dell’evoluzione umana, dello sviluppo storico e del futuro civile dell’umanità intera; e più specificamente diventa un punto fermo nei processi di mutamento e di innovazione socio-culturale, al fine di uno sviluppo sostenibile e umanamente degno per tutti e per ciascuno, oltre le differenze socio- economiche, di genere, di sesso, di dotazione native e di opportunità esistenziali. Bibl.: CASTOLDI M. (Ed.), Segnali di qualità, Brescia, La Scuola, 1998; BOCCA G., Pedagogia della formazione, Milano, Guerini, 2000; BERTAGNA G., Avvio alla riflessione pedagogica, Brescia, La Scuola, 2000; LAENG M. - G. BALLANTI, Pedagogia, Brescia, La Scuola, 2000; CHIOSSO G. (Ed.), Ele- menti di pedagogia, Brescia, La Scuola, 2002; NANNI C., Antropologia pedagogica, Roma, LAS, 2002. C. Nanni FORMAZIONE A DISTANZA (FAD) La FAD è una → metodologia di → insegnamento che permette di trasferire → co- noscenze ed esperienze, indipendentemente dallo spazio e dal tempo. È collocabile in ambito ICT (acronimo dell’espressione inglese “Information & Communication Technology”, integrazione delle tecnologie dell’informazione e della comunica- zione). ISFOL definisce la FAD “strategia formativa che consente di partecipare ad un insieme di attività formative strutturate in modo da favorire una modalità di ap- prendimento autonomo e personalizzato, discontinuo nel tempo e nello spazio”. La FAD, viene genericamente assimilata all’espressione inglese e-learning, dove la e che precede il termine sta per electronic, quindi insegnamento elettronico. Secondo la definizione che ne dà l’osservatorio ANEE “l’E-learning è una metodologia di in- segnamento e apprendimento che coinvolge sia il prodotto sia il processo formativo (…) Peculiarità dell’E-learning è l’alta flessibilità garantita al discente dalla reperi- bilità sempre e ovunque dei contenuti formativi...”. Il piano d’azione e-learning 113 della Commissione Europea, definisce l’e-learning come: “l’utilizzo delle nuove tecnologie multimediali e di Internet per migliorare la qualità dell’apprendimento agevolando l’accesso a risorse e servizi nonché gli scambi e la collaborazione a di- stanza”. Secondo Elliot Masie, maestro dell’e-learning, uno dei primi a usare questo acronimo, per e-learning deve intendersi “l’uso della tecnologia per proget- tare, distribuire, selezionare, amministrare, supportare e diffondere la formazione”; per Masie la “e” di e-learning non sta solo per electronic ma per experience, che meglio evoca i fattori che concorrono all’evoluzione dell’insegnamento e dell’→ apprendimento. Comunque, con il termine e-learning ci si riferisce, pressappoco, all’impiego delle tecnologie Internet per distribuire online contenuti didattici multi- mediali, fornire → formaz. sincrona e/o asincrona agli utenti (e-learner) che acce- dono ai contenuti dei corsi in qualsiasi momento e in ogni luogo in cui esista una connessione online. Per questo oggi e-learning è divenuto sinonimo di altri termini provenienti dalla letteratura internazionale: online learning, web based training, open learning, online education, computer mediated education, distance learning, Web-based training. 1. In realtà l’e-learning non è un neologismo per definire la FAD in quanto tale, ma un termine che si inserisce nella storia della FAD per indicare la progressiva con- vergenza di più tendenze, paradigmi e soluzioni tecnologiche verso un unico signi- ficato. Si può dire, quindi, che ciò che collega l’espressione FAD all’espressione e- learning è che quest’ultima coincide con la FAD di “terza generazione”, cioè con quell’esperienza didattico-formativa introdotta dagli strumenti informatici e tele- matici (internet). Nella storia della FAD è infatti ormai acquisita la distinzione, as- sunta da Garrison, fra la prima, la seconda e la terza “generazione di FAD”. La FAD di “prima generazione”, la cosiddetta “scuola per corrispondenza”, si impone con la pioneristica iniziativa avviata nel 1840 da Isaac Pitman in Inghilterra con l’obiettivo di insegnare la stenografia di base per l’incremento delle → capacità se- gretariali, anche a coloro che avevano difficoltà a spostarsi da una città all’altra. L’esperienza, che si diffuse presto in tutta Europa e in America, si basava su di una concezione molto semplice: l’allievo riceveva per posta i libri, i supporti didattici e, periodicamente, i test di verifica necessari per valutarne i progressi. In alcuni casi era previsto che l’allievo restituisse i test compilati al centro didattico che talvolta rilasciava al termine del corso di studi un attestato delle competenze e → abilità ac- quisite. La “FAD di seconda generazione”, il cosiddetto “sistema di FAD multime- diale”, matura, invece, intorno agli anni ‘60-‘70, in particolare con l’istituzione della British Open University. Grazie allo sviluppo massmediale, essa si caratte- rizza per l’uso integrato di materiale cartaceo, trasmissioni televisive, registrazioni audio-video. Il passaggio dalla distribuzione via TV etere o satellitare a Internet segna infine il passaggio dalla seconda alla “terza generazione di FAD”, o “forma- zione in rete”, caratterizzata dall’impiego di tecnologie digitali, di CMC (Computer Mediated Communication, comunicazione mediata dal computer) e, in particolare, delle reti telematiche Internet/Intranet provviste di software LMS (Learning Mana- 114 gement Systems, per la gestione dell’interazione studente-contenuto, studente-do- cente). Nella terminologia FAD, i sistemi di “terza generazione”, sono anche chia- mati Open Distance Learning, On line Learning, Distance Training, Lifelong Lear- ning on line oltre che, più comunemente, e-learning. La differenza sostanziale tra queste generazioni risiede nel fatto che nel corso delle prime due “l’apprendimento non è visto come un processo sociale e quindi non implica interazioni dinamiche con/tra studenti e docenti [...] Poiché non vi è interattività, la classe non viene estesa nel senso sociale e cognitivo del termine ma è dis-integrata” (Nipper, 1989). Con la FAD di terza generazione l’apprendimento diventa “processo sociale”, su- pera la dimensione dell’isolamento in virtù del fatto che “le reti consentono non solo una comunicazione del tipo uno-uno, uno-molti, ma anche una comunicazione molti-molti” per cui il discente può stabilire interazioni cooperative con gruppi più o meno ampi, dando vita a “classi virtuali”, con complesse dinamiche relazionali e collaborative, per taluni versi analoghe a quelle che si possono sviluppare nelle “classi reali”. L’adozione delle strategie collaborative nasce dalla consapevolezza che la conoscenza è un processo di graduale negoziazione dialogico-discorsiva tra attori coinvolti. 2. Nelle comunità virtuali l’apprendimento è un processo in cui gli individui, attra- verso l’interazione e il feedback, verificano le opinioni, negoziano le proprie idee, strutturano e ristrutturano le informazioni proposte divenendo essi stessi “co-svi- luppatori” e deposito di nuovi prodotti e servizi a beneficio della nascita del patri- monio della comunità. L’approccio è il paradigma costruttivista, secondo cui l’ap- prendimento non è esclusiva del singolo, ma un prodotto dell’interazione sociale fi- nalizzata alla genesi e costruzione di conoscenze comuni e condivise. Evoluzione di questo paradigma e delle classi virtuali è la COP (Communities of practice, co- munità di pratica) gruppo di persone che svolgono in rete attività affini, intera- gendo in modo informale (Lave J., Wenger E.C) all’interno di una “cultura” speci- fica condivisa (es.: il portale www.elearningtouch.it). Ma già si parla di nuove fron- tiere di FAD, della cosiddetta “FAD di quarta generazione”, introdotta dal mobile learning, o m-learning che consente di collegarsi “senza fili” (wireless) ad un centro di erogazione di contenuti multimediali, visualizzabili su cellulari WAP, GPRS e UMTS, oppure scaricati su un palmare. 3. In ambito formativo, la FAD si sta affermando in maniera significativa: dalla scuola alla FP, alla formaz. aziendale e per le diverse filiere, dalla produzione ai servizi, imponendo un ripensamento della modalità didattica in presenza. È ormai condivisa l’opinione che la rete costituisca una buona soluzione per garantire su vasta scala e a costi più contenuti formaz. di qualità, flessibile e personalizzabile. Il modello pedagogico di riferimento è l’apprendimento autonomo, autoguidato, in cui gli studenti decidono quale forma di insegnamento/apprendimento scegliere. La possibilità di seguire un corso a piccoli moduli, attraverso un palmare o un telefo- nino WAP è così la prossima rivoluzione del settore dell’e-learning (es. la svedese Insite ha provato con successo per gli impiegati Ericsson un corso di dimensioni ri- 115 dotte utilizzando soluzioni m-commerce, oppure il progetto CommUnico della Fa- coltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Torino). Nella scuola, la formaz. per gli insegnanti avviene ormai tramite il portale INDIRE del MPI. Nella FP, fra le diverse esperienze, si assume quella di FaDol del MLPS (1999-2004) che ha raggiunto 17.000 operatori permettendo un aggiornamento su specifiche → com- petenze. E già è una realtà il Servizio di Assistenza all’Apprendimento (SAA), in capo ad ISFOL, che gira sulla piattaforma SPF (Servizio Permanente di Forma- zione online,) gestita da Italia Lavoro S.p.A. su incarico del MLPS. Si tratta di un progetto nazionale di formaz. continua (→ FP continua), logica evoluzione di FaDol, volto ad accompagnare i processi di riforma del → mercato del lavoro mi- gliorando le competenze degli operatori del settore. In Italia tra le esperienze di FAD, oltre al citato progetto FaDol a valenza nazionale, si indica come progetto re- gionale e interregionale il progetto “Trio” (2001-2008) della Regione Toscana, come contributo istituzionale il portale del CNIPA e il Consorzio Nettuno che eroga attraverso due canali satellitari (RAI Nettuno Sat 1 e Sat 2) e il sito Internet, l’esperienza Ghiglieno, mentre come buona pratica aziendale si rinvia al portale Sfera.it del gruppo ENEL. Esistono varie esperienze internazionali di successo, so- prattutto in quei Paesi (Canada, Australia, Stati Uniti) dove le distanze hanno favo- rito il proliferare delle iniziative di FAD. Si segnala in proposito l’esperienza leader della ATHABASCA Open University del Canada. In Europa la FAD è altret- tanto diffusa; ricordiamo i servizi offerti dalla Open University del Buckinghams- hire, dal CNED francese e dalla UNED spagnola. La FAD non andrà tuttavia a so- stituirsi in toto alla formaz. tradizionale: l’orientamento della comunità è per il mo- dello blended learning, struttura di formaz. aperta e diversificata, capace di inte- grare i vari modelli formativi (in presenza e a distanza), massimizzando gli investi- menti nel settore. 4. Componente base dell’e-learning è la piattaforma tecnologica (LMS, Learning Management System) che gestisce la distribuzione e la fruizione della formaz. Si tratta di un sistema che grazie alla tecnologia SCORM (Sharable Content Object Reference Model, modello per la realizzazione di applicazioni e-learning), permette di tracciare e storicizzare la frequenza ai corsi e le attività formative dell’utente (accesso ai contenuti, tempo di fruizione, risultati dei momenti valutativi, ...) con- sentendo all’utente di accedere al suo percorso da qualsiasi luogo e in qualsiasi mo- mento. I prossimi impegni sul versante dell’e-learning, saranno rivolti alla produ- zione ed erogazione di FAD su vasta scala, per cui si insisterà sulla interoperabilità tra i sistemi e la riutilizzabilità dei contenuti didattici. Si va verso la progettazione dei corsi online pensati in termini di Learning Objects (LO), “oggetti formativi ri- usabili”, piccole unità di sapere di breve durata (4-5 minuti) entità digitale o non- digitale (ad es. contenuti multimediali, contenuti didattici, software didattico e stru- menti software) che possono essere utilizzati e riutilizzati, che si prestano ad essere funzionali ad un apprendimento rapido. I LO, inoltre, sono facilmente aggiornabili, aggregabili in lezioni e capitalizzabili nel sistema per creare e gestire il repository 116 della conoscenza dell’organizzazione. In merito all’interoperabilità fra sistemi, in- tesa come capacità dei componenti hardware e software di lavorare insieme e inter- scambiarsi tra loro, si lavora per la definizione di standard in grado di trasferire i contenuti di un’architettura all’altra, integrarli e saperli scegliere in base a caratteri- stiche univoche e poterli corredare di un attestato che certifichi la spendibilità delle competenze acquisite. Alcuni esempi: l’AICC (Aviation Industry CBT Committee) dell’industria aeronautica americana che ha istituito le specifiche CMI (Computer Managed Instruction) per l’interoperabilità dei contenuti con la piattaforma ospi- tante e Ariadne, il progetto UE che ha dato il via ai LOM (Learning Object Meta- data), sorta di “etichette” che descrivono il contenuto di ciascuna unità didattica in modo che possano essere interscambiate. Bibl.: GARRISON G.R., Three generation of technological innovation, in “Distance Education”, 1985; NIPPER S. Third generation distance learning and computer conferencing, in MASON R.D. - A.R. KAYE (Edd.), Mindweave: Communication, computers and distance education, Oxford, UK, Per- gamon Press,1989); ISFOL, Glossario di didattica della formazione, Milano, F. Angeli, 1991; LAVE J. - E.C. WENGER, Situated learning: Legitimate Peripheral Participation, Cambridge University Press, Cambridge, 1991; TRENTIN G.. Telematica e formazione a distanza: il caso Polaris, Milano, F. Angeli, 1999; MASIE E., E-Learning 2001 European Edition, Dublin, Ireland, 2001; UE, Piano d’azione e- learning, Consiglio UE 28.3.2001/com 172; ANEE, Osservatorio sull’e-Learning, 2003; RIVOLTELLA P.C., Costruttivismo e pragmatica della comunicazione on line. Socialità e didattica in Internet, Trento, Erickson, 2003; LODRINI T. (Ed.), Didattica costruttivista e ipermedia, Milano, F. Angeli, 2003; UE, Istituzione del Programma e-learning 2318/2003/CE del Parlamento Europeo; RIVOLTELLA P.C. - M.P. NEGRI - G. CAGNI (Edd.), Educazione permanente e Formazione a distanza, Esperienze di e-learning e tutoring, Milano, F. Angeli, 2006. D.M. Giaccari FORMAZIONE ON LINE → Formazione a distanza FORMAZIONE PROFESSIONALE (FP) In linea generale si descrive la FP come un processo attraverso il quale una persona può consolidare, aggiornare o migliorare le proprie capacità attraverso l’acquisi- zione di → conoscenze, → abilità e → competenze per un esercizio più produttivo e responsabile di un’attività professionale. 1. Principali significati di FP. La dizione FP ha assunto nel tempo – e conserva an- cora oggi – vari significati, riconducibili, in sintesi, soprattutto a due. In alcuni casi l’espressione allude all’intervento formativo rivolto a giovani o adulti, occupati e non, per avviarli velocemente al → lavoro, attraverso un breve addestramento. In altri casi, invece, per FP si intende l’acquisizione di conoscenze, abilità e compe- tenze finalizzate all’esercizio di una professione, indipendentemente dall’età dei → destinatari. Molta letteratura distingue anche tra prima, seconda, terza → formaz., intendendo con tali denominazioni tutti quegli interventi rivolti normalmente o a 117 giovani che per la prima volta affrontano il problema di una preparazione sistema- tica al mondo del → lavoro, o a persone che sono già in possesso di titoli o compe- tenze professionali e, attraverso ulteriori percorsi formativi, intendono perfezio- narsi sia dal punto di vista professionale che culturale, in una prospettiva di formaz. permanente (→ educ. permanente; → FP continua). La diversità delle accentuazioni è presente anche nei testi principali della legislazione italiana: una parte di essa tende a sottolineare il significato di flessibilità, brevità, molteplicità di interventi adeguati alle diverse realtà produttive locali nonché di promozione e aggiorna- mento professionale dei vari soggetti del mondo del lavoro (cfr., per es., art. 17 della L. 196/97); altra legislazione è più vicina all’idea di formaz. globale della persona (L. quadro 845/78, L. 144/99). La recente riforma costituzionale (L. costi- tuzionale 3/01) e la successiva riforma del sistema educativo nazionale (L. 53/03), superando la tradizionale distinzione tra “scuola” e “istruz. artigiana e professio- nale” propria della vecchia Costituzione, introducono la distinzione tra l’istruz. che corrisponde all’istruz. inferiore obbligatoria e alla componente non professionaliz- zante dell’istruz. superiore contraddistinta da una visione culturale generale, e l’i- struz. e la FP dotata di pari dignità ma caratterizzata da una visione professionaliz- zante che facilita l’ingresso nel mondo del lavoro (→ istruz. e FP; → riforma edu- cativa). Il Decreto legislativo del 17 ottobre 2005 ha dato attuazione alla “Riforma Moratti” nel secondo ciclo del sistema educativo di istruz. e formaz. Dal testo emerge una sostanziale unitarietà dei percorsi nel senso che sia i percorsi liceali sia quelli dell’istruz. e della FP sono finalizzati all’→ educ. della persona, rispetto alla quale si impegnano in direzione di uno sviluppo integrale. Tale unitarietà rende il diritto-dovere una realtà più aperta ed avanzata che il vecchio → “obbligo” non consentiva a causa della sua unilateralità. Si nota infatti l’aumento di corresponsa- bilità dei soggetti, dallo studente alla → famiglia fino ai soggetti sociali, ed inoltre l’elevamento delle opportunità formative che, almeno sulla carta, disegnano un pa- norama di scelte molto più interessante di quello attualmente vigente, tali da corri- spondere meglio, potenzialmente, alle esigenze di una realtà complessa quale quella in cui oggi viviamo. Ma la struttura dei percorsi che si prevedono propone un principio di diversificazione che non si limita a quelli liceali e a quelli di istruz. e FP, ma investe anche gli stessi licei che paiono distinti in due categorie: i licei “generalisti” ed i licei “con indirizzo”. Questi ultimi risultano un po’ come un ibrido tra i licei generalisti ed i percorsi di istruz. e FP, pur appartenendo di fatto ai licei. A sua volta il nuovo Governo di centro-sinistra ha deciso di confermare la “Riforma Moratti” come quadro generale di riferimento, anche se è sua intenzione di apportare il massimo di innovazioni consentite dal fatto di procedere mediante decreti attuativi di una legge delega. In particolare per il secondo ciclo, il Ministro ha affermato di avere bisogno di più tempo per realizzare il disegno delineato dalla L. 53/03 e che in ogni caso lui vuole rivedere. Pertanto, è stata bloccata la → speri- mentazione del nuovo secondo ciclo; inoltre il Parlamento ha approvato una pro- roga di 18 mesi per i decreti legislativi non scaduti della “Riforma Moratti”. In ag- giunta, dall’elevazione di due anni dell’obbligo di istruz. (L. 296/06, co. 626) e 118 dalle disposizioni urgenti in materia di istruz. tecnico-professionale (DL n. 7 del 31 gennaio 2007) si sta delineando un quadro normativo preoccupante per la FP che appare sempre più di serie C, che risulta maggiormente emarginata perché il suo campo tende ad essere invaso dall’istruz. tecnica e professionale e che, inoltre, deve confrontarsi con una spinta ulteriore alla scolasticizzazione del sistema. 2. FP e mondo del lavoro. Ad influire sulla varietà dei significati della FP c’è so- prattutto il legame di essa con la visione globale della → società nel suo insieme ed in particolare con quella del mondo del lavoro nella sua evoluzione storica. Un ap- proccio piuttosto sistematico si affermò, tuttavia, solo nel XX sec., particolarmente nel mondo tedesco, dove si prese a criticare una FP troppo legata alla sola acquisi- zione di capacità manuali e venne suggerito di collegare competenza operativa ad una buona sensibilità civica, dando vita ad una sorta di “scuola del lavoro”, una scuola che avrebbe dovuto comprendere contemporaneamente una formaz. di base per preparare all’inserimento immediato nel mondo produttivo e una formaz. più generale maggiormente aperta a valori e ad interessi più ampi, anche in vista di un completamento della formaz. in momenti successivi. Lungo il sec. scorso ha preso sempre più spazio l’attenzione al ruolo (→ ruolo professionale) e alla persona e sempre meno al mestiere e al posto di lavoro (→ FP: sviluppo storico; → mansione). 3. Elementi di sistema della FP oggi. In linea generale, la normativa ha ormai di- sciplinato in maniera sufficientemente omogenea alcuni aspetti che concorrono alla definizione del sistema della FP: il soggetto che eroga la FP, l’offerta formativa, i → finanziamenti, la → certificazione, la → qualità, i servizi di supporto. Vediamo ciascuno di tali aspetti. 1) Soggetto erogatore. Se una delle finalità della FP è quella di essere attenta ai cambiamenti del sistema economico e sociale, le attività forma- tive dovranno essere, di conseguenza, mutevoli, come diversi dovranno essere gli organismi che le realizzano: → enti di FP, → associazioni di categoria, consorzi, enti locali, ecc. Il sistema della FP oggi risulta caratterizzato dalla maggioritaria presenza di soggetti che hanno nella formaz. la propria attività esclusiva o preva- lente (ISFOL, 2002). Questi soggetti, oltre alle attività corsuali, generalmente pre- cedute da azioni di → accoglienza e comprendenti stage aziendali (→ tirocinio), erogano anche prestazioni parallele o di supporto alle attività formative in senso stretto quali la progettazione di percorsi formativi, attività di sportello informativo, servizi di → orientamento, i bilanci di competenze, misure di → accompagnamento al lavoro, ecc. 2) Offerta formativa. L’offerta formativa si caratterizza soprattutto in base ai destinatari che possono essere giovani o adulti in cerca di un’occupazione, portatori di handicap (→ diversabilità e FP), lavoratori in cassa integrazione o iscritti alle liste di → mobilità, lavoratori che necessitano di riqualificazione o di aggiornamento professionale. Tuttavia si è affermata oggi una articolazione ampia- mente condivisa denominata → FPI, rivolta soprattutto agli adolescenti; → FP su- periore, rivolta soprattutto ai giovani; → FP continua rivolta agli adulti in genere; → formaz. a distanza (FAD); formaz. connessa all’ → apprendistato. A queste tipo- logie, si aggiungono interventi formativi per soggetti appartenenti a fasce deboli o 119 a rischio di emarginazione sociale (→ disagio; → esclusione sociale), difficilmente schematizzabili. Di queste tipologie, esistono comunque due approcci principali: il primo è quello degli enti che creano corsi specifici esclusivi per i portatori di han- dicap, per gli immigrati, per i detenuti e via dicendo; il secondo, invece, è quello degli enti che preferiscono inserire questi soggetti nei corsi strutturati per soddi- sfare le esigenze formative di un’utenza più ampia. In entrambi i casi, però, ven- gono predisposti percorsi formativi personalizzati (→ personalizzazione) o indivi- dualizzati, che richiedono non solo l’apporto del → formatore, ma anche quello di un team di specialisti (psicologo, pedagogista, assistente sociale, altri specialisti). Il panorama della FP offre, oltre ai corsi interamente finanziati da risorse pubbliche e quindi gratuiti per l’utenza, anche percorsi formativi a pagamento gesti da enti, so- cietà, consorzi, università; si tratta in genere di corsi ad alta specializzazione. 3) → Finanziamenti. La maggior parte delle attività formative sopra descritte sono finan- ziate dal FSE (oltre 15 miliardi di euro per il periodo 2000-2006) che sostiene la formaz. in genere, la formaz. dei formatori, la riqualificazione e l’orientamento, l’apprendistato, la riconversione, la FAD, la formaz. continua, le lauree brevi. Altri finanziamenti sono reperibili tra le risorse nazionali. 4) La certificazione nel si- stema della FP. Una norma recente (DM 31.05.01) aggiorna la certificazione del si- stema della FP, prevedendo tre diverse tipologie di certificazione: a) la certifica- zione del percorso formativo completo, che porta alla → qualifica; b) la certifica- zione di percorso formativo parziale, o non completato, o non finalizzato alla quali- ficazione; c) la → certificazione di competenze acquisite in contesto non formale o informale, valutabili per l’accesso a percorsi o titoli formali e il → libretto forma- tivo del cittadino, strumento di raccolta e documentazione delle certificazioni ac- quisite dalla persona. Tutta la materia, in sperimentazione nelle Regioni, tuttavia, è oggetto di riconsiderazione a seguito della L. 53/03 che indica titoli e → qualifiche professionali di differente livello, valevoli su tutto il territorio nazionale se rispon- denti ai → livelli essenziali di prestazione definiti su base nazionale a norma del- l’art. 117 della Costituzione. 5) Qualità nella formazione professionale. Mentre nel caso della formaz. scolastica o universitaria è il sistema stesso a garantire e a so- vrintendere sulla qualità dei contenuti formativi e sulle capacità dei docenti, nel caso della FP concorrono soprattutto due adempimenti per una uguale garanzia: l’→ accreditamento delle sedi formative e orientative e la certificazione di → qua- lità che hanno lo scopo da una parte di assicurare agli utenti la qualità del servizio formativo e dall’altra garantire le Pubbliche Amministrazioni sull’affidabilità degli enti gestori e dei soggetti attuatori. Accanto a questi requisiti, che sono disciplinati da norme specifiche, la letteratura del settore ne aggiunge altri che devono essere in possesso del soggetto che eroga la formaz.: l’esperienza dell’ente nel settore, la ri- spondenza alla figura professionale, la qualità didattica, l’→ efficacia, la capacità cioè del corso stesso di favorire l’occupazione e la soddisfazione dell’ex-allievo, l’efficienza, la capacità del corso cioè di fornire una formaz. valida a costi il più possibile contenuti, la continuità, la possibilità cioè di seguire in un secondo mo- mento corsi di specializzazione e/o di aggiornamento e dei workshop. 6) I servizi di 120 supporto. Le attività formative sono oggi inserite in una rete di servizi, propedeu- tici, paralleli o successivi all’attività didattica, che permettono di fornire all’utenza una sorta di guida completa in tutti i momenti della qualificazione professionale. In generale sono gli “sportelli informativi”, che solitamente spiegano come reperire le informazioni sulle attività formative; le “sedi orientative”, le quali, più che fornire informazioni, permettono alla persona che vi accede, un servizio di individuazione di un percorso personalizzato specifico; i → “servizi per l’impiego”, che affian- cano, accanto alla più classica attività di collocamento della manodopera, una serie di servizi aggiuntivi, tra i quali l’informazione, l’orientamento e il tutorato (→ tutor); il servizio di “incontro tra domanda e offerta di lavoro”, per facilitare l’oc- cupazione da parte degli iscritti alle attività formative, i servizi di outplacement, af- fiancati spesso da quelli di tutoring, servizi che agiscono sul post corso, sul modo di presentarsi, sulla redazione di un → curriculum, sull’autopromozione. 4. L’integrazione della FP con l’istruz. Uno dei temi ancora molto dibattuti oggi è il rapporto tra la FP di competenza regionale e l’istruz. in senso lato. La questione è stata posta in maniera decisiva già all’epoca della c.d. “Riforma Berlinguer”, che proponeva un superamento della pluridecennale incomunicabilità tra il sistema sco- lastico e il sistema formativo, concepiti come due canali paralleli e mutuamente esclusivi. Il dibattito che ne è seguito ha portato alla formulazione di due concetti di “integrazione”: l’interpretazione di coloro che intendono “integrazione” come “integrazione di percorsi” (cioè la progettazione di un percorso dove l’istituzione scolastica eroga interventi propri accanto a quelli realizzati dal Centro di FP nei confronti dei medesimi utenti) e quella di coloro che intendono “integrazione” come “integrazione tra sottosistemi” dell’unico sistema educativo (cioè l’integra- zione in ambiti quali la programmazione, la certificazione dei → crediti e dei pas- saggi, anche attraverso iniziative didattiche adeguate, monitorando e valutando il conseguimento degli obiettivi intermedi e finali). Molta letteratura valuta critica- mente la prima interpretazione in quanto ispirata ad un dualismo pedagogico che si riflette per lo più in atteggiamenti di passività, se non di rifiuto, da parte dei desti- natari che hanno avuto esperienze negative nella frequenza di percorsi di un dato sistema. La L. 53/03, nel delineare il sistema educativo di istruz. e di formaz., arti- colato nei sottosistemi di istruz. e in quello dell’istruz. e della FP, prefigura l’inte- grazione tra sottosistemi. Bibl.: AMBROSINI M. (Ed.), Un futuro da formare. Verso un nuovo sistema di formazione professio- nale: tendenze, valutazioni e proposte, Brescia, La Scuola, 2000; DM 31.05.01, Certificazione nel si- stema della formazione professionale, in GU del 18.06.01, n. 139; UCCELLO S., Guida ai corsi di for- mazione, Milano, Il Sole 24 ore, 2002; BRAMANTI A. - D. ODIFREDDI., Istruzione formazione lavoro: una filiera da (ri)costruire, Milano, F. Angeli, 2003; ISFOL (Ed.), Rapporto ISFOL 2003, Brescia, La Scuola, 2004; CONFAP, Collocazione CONFAP nel sistema dell’Istruzione e Formazione professio- nale, in “Presenza CONFAP”, 1-2(2004), supplemento; MALIZIA G. - D. NICOLI, Lo schema di decreto sul secondo ciclo tra conservazione e riforma. Un primo commento, in “Rassegna CNOS” 21 (2005) 2, 25-50; Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione (29 giugno 2006), Roma, 2006; Editoriale, in “Rassegna CNOS” 22 (2006) 3, 3-286. M. Tonini 121 FORMAZIONE PROFESSIONALE CONTINUA (FPC) Attività formativa destinata alla popolazione attiva con l’obiettivo di assicurare che le → conoscenze e le → competenze professionali siano continuamente aggiornate e riqualificate in connessione con l’innovazione tecnologica ed organizzativa del processo produttivo. 1. Il sistema di FPC costituisce una componente di un più vasto sistema di formaz. permanente, all’interno del quale la caratteristica distintiva proviene dalla sua fina- lità, destinata essenzialmente alla riqualificazione collegata ai processi produttivi. In Italia, un vero e proprio sistema di FPC ha cominciato a prendere forma negli ul- timi anni, in particolare con l’emanazione della L. 236/93. Fino ad allora gli inter- venti di FPC erano finanziati e gestiti direttamente dalle singole aziende, che li de- stinavano per lo più all’aggiornamento professionale dei propri quadri, intermedi e superiori. La L. 236/93 vuole rispondere, invece, all’esigenza di una riqualifica- zione continua di tutta la forza → lavoro, a garanzia sia dell’aggiornamento con- tinuo dei processi produttivi, sia della manutenzione e del miglioramento dei livelli di → professionalità ed → occupabilità dei lavoratori stessi. Pertanto prende corpo, con i → finanziamenti del MLPS, un’attività programmata dalle Regioni, che in- tegra e rafforza, in una prospettiva di sistema, le iniziative condotte autonoma- mente dalle → imprese. Il dialogo sociale tra il sistema delle imprese e quello sin- dacale ha un peso rilevante nella nascita di un sistema di FPC in Italia. Negli ac- cordi tra → parti sociali e Governo del 1993, del 1996 e del 1998, il tema della FPC assume un ruolo sempre più centrale. È sulla base di tali accordi che sono state ap- provate le successive leggi (196/97, 53/2000) che valorizzano il ruolo strategico della FPC e delle parti sociali nella → progettazione degli interventi formativi. 2. Con la L. 53/03, gli interventi a favore dei lavoratori occupati si ampliano, in una prospettiva di lifelong learning, con l’introduzione dei → congedi formativi e dei voucher individuali per svolgere attività formative, anche non immediatamente collegate al processo produttivo. Infine, con la L. 388/00 la programmazione e l’or- ganizzazione delle iniziative di FPC vengono portati più vicino al → sistema pro- duttivo, con la costituzione dei Fondi interprofessionali, organismi gestiti dalle parti sociali, ai quali le aziende possono versare direttamente lo 0,30% della retri- buzione dei lavoratori normalmente versato allo Stato, e che veniva successiva- mente destinato a finanziare le attività formative gestite dalle Regioni. L’obiettivo di questi interventi normativi è quello di ampliare sia l’offerta di FPC da parte delle imprese, sia la partecipazione dei lavoratori a questo tipo di attività; le indagini Eu- rostat indicano infatti che le imprese italiane sono fra quelle che in Europa dedi- cano minore spazio alla FPC: solo il 24% delle imprese italiane intervistate, infatti, dichiara di aver svolto attività formativa a favore dei propri dipendenti nell’anno 2001. Bib.: CONFINDUSTRIA, La fabbrica delle competenze. Rapporto della Commissione per la formazione professionale, Scuola Formazione e Ricerca, 1999; OECD-OCSE, Surmonter l’exclusion grace a’ l’apprentissage des adultes, Paris, Oecd, 1999; COMMISSIONE EUROPEA, Realizzare uno spazio eu- 122 ropeo dell’apprendimento permanente. COM (2001) 678, Bruxelles, Commissione Europea, 2001; ISFOL, Economia e costi della formazione aziendale. Strumenti e ricerche, Milano, F. Angeli, 2002; MLPS, Rapporto sulla formazione continua, Relazione presentata al Parlamento (a cura dell’ISFOL) anni 2001-2002. G. Allulli FORMAZIONE PROFESSIONALE INIZIALE (FPI) Intervento formativo, a carattere corsuale, destinato ai giovani in uscita dal primo ciclo del percorso di istruz. e → formaz., che intendono acquisire → competenze di base e tecnico professionali che consentano loro di inserirsi nel mondo del → la- voro possedendo una → professionalità specifica. Si conclude con l’attribuzione di una → qualifica professionale. 1. La FPI ricade, in base alla Costituzione, sotto la competenza legislativa e ammi- nistrativa delle Regioni. Con l’emanazione della L. quadro 845/78 tutta la → FP, compresa quella iniziale, era stata ricondotta all’interno delle politiche attive del la- voro. Veniva separato nettamente il ruolo della scuola, rivolto prevalentemente alla preparazione del cittadino, e quello della formaz., finalizzato principalmente alla formaz. del lavoratore, in stretto collegamento con la domanda del mondo del la- voro. Pertanto le politiche delle Regioni, incentivate anche dagli indirizzi del FSE, che fornisce la maggior parte delle risorse finanziarie del sistema, si erano indiriz- zate negli anni successivi verso la programmazione di una FPI a carattere breve, modulare, molto flessibile, rivolta esclusivamente alla professionalizzazione. Con l’emanazione dell’art. 68 della L. 144/99, il ruolo della FPI viene riconsiderato, tanto che la FPI diventa uno dei canali attraverso i quali si può assolvere l’→ ob- bligo scolastico e formativo, che viene prolungato fino all’età di 18 anni oppure fino al conseguimento della qualifica professionale. Il successivo Protocollo Stato Regioni del febbraio 2000 sancisce questa nuova “filosofia” della FPI, stabilendo per i percorsi formativi una durata minima di 2 anni, l’introduzione del → tirocinio, di misure di → accompagnamento per l’inserimento professionale, di sistemi di va- lutazione della → qualità dell’offerta erogata. 2. La L. 53/03 valorizza e potenzia ulteriormente il ruolo della FPI come percorso di pari dignità rispetto a quello scolastico, che dà la possibilità ai giovani che lo fre- quentano e che conseguono una qualifica professionale, sia di inserirsi nel mondo del lavoro, sia di proseguire nel percorso formativo, verso il conseguimento di un diploma professionale, e successivamente verso la → FP superiore e verso l’istruz. universitaria. Pertanto viene riconosciuto che obiettivo della FPI non è solo la formaz. del lavoratore, ma anche la formaz. della persona, nei suoi vari aspetti, cul- turali, civili e sociali. Can la L. 53/03 possono accedere alla FPI i giovani che hanno superato l’esame di Stato al termine del primo ciclo. I corsi assumono durata triennale, e si concludono con il rilascio, da parte delle Regioni, di una qualifica professionale, che consente ai giovani di inserirsi nel mondo del lavoro, oppure di 123 proseguire nel percorso formativo con un ulteriore IV anno, attraverso il quale si consegue il diploma professionale. Sono previste misure di accompagnamento (→ orientamento, ecc.), → personalizzazione, stage e → tirocini. Infine, viene superato il principio di una programmazione annuale delle attività formative, a favore di un maggior consolidamento dell’offerta formativa sul territorio. Bibl.: CNEL, Libro Bianco sulla Formazione Professionale, Roma, CNEL, 1991; COMMISSIONE EU- ROPEA, Insegnare e apprendere verso la società della conoscenza, Lussemburgo, Commissione eu- ropea, 1996; ALLULLI G. - P. BOTTA, Inclusione ed esclusione: ritratto di una generazione di giovani alle soglie del 2000, Milano, F. Angeli, 1999; ISFOL, Obbligo Formativo: l’avvio delle sperimenta- zioni della formazione di base, Milano, F. Angeli, 2001; NICOLI D., Il nuovo sistema di formazione professionale, in “Professionalità”, 61 (2001), 22-31; BUSI M. - F. MANFREDDA - O. TURRINI (Edd.), Quale percorso per la riforma?, inserto in “Professionalità” 75 (2003) I-XXXVIII. G. Allulli FORMAZIONE PROFESSIONALE SUPERIORE (FPS) Intervento formativo destinato ai giovani che hanno terminato la → FPI oppure il percorso liceale e che intendono acquisire → competenze di base e tecnico profes- sionali più elevate che consentano loro di inserirsi nel mondo del → lavoro come tecnici di livello superiore. Si conclude con l’attribuzione di un diploma professio- nale superiore. 1. In Italia il concetto di FPS è stato tradizionalmente assimilato a quello di formaz. universitaria. Dopo il diploma di maturità non esisteva in pratica, per i giovani che volevano acquisire una preparazione professionale, una alternativa ai corsi univer- sitari di laurea o di diploma. L’unica alternativa possibile erano i cosiddetti corsi di secondo livello, ovvero corsi brevi, della durata di 6/800 ore, programmati dalle Regioni e destinati ai giovani in possesso → qualifica professionale o di diploma secondario. L’esigenza di un percorso professionale di livello superiore ma non universitario, che preparasse i cosiddetti lavoratori della conoscenza, ovvero i tec- nici superiori, ha portato alla creazione del sistema FIS (Formazione Integrata Su- periore), che comprende sia i corsi di secondo livello organizzati dalle Regioni, sia i corsi dell’IFTS. La FIS si colloca nel → sistema formativo italiano nel segmento dell’→ istruz. e → formaz. post-secondaria. In particolare, attraverso l’istituzione dell’IFTS viene creata una nuova tipologia di offerta, il cui obiettivo prioritario è quello di formare figure di tecnici e di professionisti che possano operare nelle → imprese e nella Pubblica Amministrazione, in particolare in quei settori della pro- duzione e dei servizi che sono caratterizzati da una elevata complessità tecnologica e organizzativa. Inoltre si vuole colmare una carenza di offerta formativa a livello post-secondario, che costituiva finora uno dei motivi dell’accesso di massa all’→ Università e del successivo → abbandono. 2. La durata prevista per questi corsi va da 1.200 a 2.400 ore (uno o due anni), e alla loro realizzazione devono concorrere scuola, Università, → FP e impresa. 124 Inoltre, a questo percorso, che prevede una quota minima (il 30%) di ore da dedi- care alle attività di stage, possono accedere sia giovani che adulti, anche occupati; i corsi IFTS rilasciano, oltre all’attestato di qualifica finale, dei → crediti che pos- sono essere spesi all’interno dell’Università. L’istituzione di questo nuovo percorso si prefigge dunque di facilitare l’inserimento professionale dei giovani, offrendo una formaz. fortemente professionalizzante di alto profilo tecnologico, adeguata ai fabbisogni formativi delle imprese. La L. 53/03 prevede che il segmento della FPS si collochi, in modo organico, al termine dei percorsi dell’→ istruz. e FP di durata almeno quadriennale. La stessa legge prevede che a questo segmento possano acce- dere i giovani che ottengono l’ammissione al V anno dei Licei. Al tempo stesso, dall’analisi dei primi anni di attuazione dell’IFTS emerge la necessità di predi- sporre un’offerta più solida, in grado di presentare percorsi organizzati in una pro- spettiva temporale più ampia, e non solamente su base annuale. Bibl.: BUTERA F. - E. DONATI - R. CESARIA, I lavoratori della conoscenza. Quadri, middle manager e alte professionalità tra professione ed organizzazione, Milano, F. Angeli, 1997; D’ARCANGELO A., La formazione per l’occupazione e le esperienze scuola/lavoro, in “Proiezioni” 3-4 (1998) 18-20; OCSE, Esame delle politiche nazionali dell’istruzione. Italia, Roma, Armando Editore, 1998; LAMOURE J., Les formations technologiques et professionnelles supérieurs, in “Cahiers Français. La Documenta- tion Française” 285 (1998) 12-14; ISFOL, Nuovi bisogni di professionalità e innovazione del sistema formativo italiano. La formazione integrata superiore, Milano, F. Angeli, 2000. G. Allulli FORMAZIONE PROFESSIONALE: SVILUPPO STORICO D’accordo con il carattere della presente pubblicazione, questa “parola” si limita all’ambito dell’età moderna e contemporanea, dando uno spazio privilegiato alle realizzazioni italiane, con un veloce accenno ai precedenti. Ma anche in tali settori si dovrà procedere per rapidi cenni, scegliendo alcuni orientamenti e fatti significa- tivi allo scopo di chiarire le origini e il significato della → FP oggi. 1. I precedenti. La storia della FP in Occidente affonda le radici nelle forme di → apprendistato e avviamento al → lavoro nella bottega artigiana dell’antica Roma. Si deve dire tuttavia che i romani (e prima ancora i greci) “non avevano idea di una distinzione tra l’arte (nel senso odierno) e i mestieri artigiani, e dunque tra l’artista e l’artigiano” (Frasca, 1994, 6). Va ricordato, d’altra parte, il merito del cristiane- simo nel recuperare il valore etico e religioso del lavoro, anche manuale. Basti ri- chiamare il motto ora et labora che scandisce la vita di molti monasteri fin dal- l’Alto Medioevo. Nel contesto dei cambiamenti socio-economici che si verificano in Europa a partire dal sec. XIII, sorge un altro tipo d’istituzione: la scuola per i mercanti. Contemporaneamente, nelle nuove città ha luogo una vera esplosione di mestieri. Il Livre des métiers (1268 ca.) elenca 130 mestieri manuali esercitati a Pa- rigi. Gli artigiani che li esercitano si organizzano in corporazioni allo scopo di di- fendere i propri diritti e privilegi. All’interno di ogni corporazione si configurano due livelli: i maestri e gli apprendisti. In un secondo momento, è introdotto un 125 grado intermedio: gli ufficiali. Molto presto viene espressa l’esigenza di un periodo di → tirocinio prima di poter praticare la propria attività. Il futuro artigiano riceve la preparazione tecnica e viene iniziato ai “segreti del mestiere” attraverso un pro- lungato contatto con un “maestro” nell’officina e nella casa. Il ragazzo – solo o in piccoli gruppi – comincia l’apprendistato tra i dodici e i quattordici anni e diventa ufficiale verso i diciotto o i vent’anni. Dopo due anni di esercizio del mestiere di- venta maestro, mediante la realizzazione, appunto, di un’opera “maestra”. 2. Scuole di arti e mestieri nell’età moderna. Nei sec. XVII-XVIII le corporazioni declinano. L’incipiente “rivoluzione industriale” comporta altre forme di lavoro e modi differenti di organizzarsi tra i lavoratori. In contesti e con obiettivi diversi sorgono nuove iniziative: le scuole per apprendisti dei Fratelli delle Scuole Cri- stiane con un “programma tecnico-pratico”; le scuole di fabbrica in Inghilterra; le case di lavoro durante il Pietismo in Germania; pur con lentezze, ripensamenti e ambiguità, i primi ordinamenti scolastici con qualche attenzione al tema della preparazione al lavoro. Nel 1780, il francese duca de La Rochefoucauld-Lian- court concepisce “il progetto di una scuola che offrirebbe l’insegnamento elemen- tare e un sapere tecnico secondo il modello delle scuole di fabbrica che egli aveva visitato durante un suo viaggio in Inghilterra” (Day, 1991, 114). L’École des Mé- tiers inizia la sua attività nel 1789 (lettura, scrittura, calcolo, esercizi militari, e preparazione pratica a diversi mestieri: sarto, calzolaio, carpentiere, fabbro fer- raio). Un decreto di Napoleone (1803) trasforma detto centro in École d’Arts e Métiers per la → formaz. di operai qualificati, trasferita nel 1806 a Châlons-sur- Marne (Champagne). Poco dopo è creata una scuola di arti e mestieri ad Angers. I responsabili costatano la difficoltà che derivava dalla necessaria “associazione della teoria e della pratica, della classe e del laboratorio”. (E sarà questo uno dei temi ricorrenti anche in realizzazioni contemporanee). Dagli anni ‘30 del sec. XIX, diventa maggiore l’interesse da parte dello Stato per la formaz. dei quadri per l’industria; ma le realizzazioni più significative sono opera dell’iniziativa pri- vata e delle autorità comunali. La legge sulle Écoles manuelles d’apprentissage (1880) costituì il primo tentativo di raggruppare tale formaz. sotto la tutela sta- tale. I programmi dovevano essere approvati dal Ministero dell’Istruzione e da quello dell’Agricoltura e del Commercio. L’intesa, nella pratica, non sempre ri- uscì facile. Nel 1919, la L. Astier completò il quadro dell’→ insegnamento tec- nico industriale e commerciale, il cui scopo era “lo studio teorico e pratico delle scienze e delle arti o mestieri in vista dell’industria e del commercio” (art. 1). L’impianto generale si mantenne sostanzialmente inalterato fino alla seconda guerra mondiale. Le esperienze e le normative legali francesi ebbero notevole in- flusso in altri Paesi europei e americani. 3. Dalle scuole speciali ai corsi di FP in Italia. Gli stimoli arrivati dalla Francia trovano echi nelle pubblicazioni periodiche come il “Giornale della Società d’Istruzione e d’Educazione”. Vi sono anche frequenti riferimenti ad esperienze belghe, inglesi e tedesche. Le realizzazioni attuate nella penisola italiana non 126 sono però semplice replica di quelle d’Oltralpe. L’Albergo di Virtù fu creato già nel sec. XVI per accogliere giovani poveri “a fine di far loro insegnare le arti”. Nel 1797, l’Opera della Mendicità Istruita (fondata nel 1776 a Torino), oltre “il ben vivere, il leggere, lo scrivere, gli elementi di aritmetica”, si proponeva di of- frire ai ricoverati “l’avviamento alle arti”. Nel 1838, viene promossa a Milano una Società d’incoraggiamento per le arti e i mestieri. L’incontro tra → istruz. e lavoro è presente inoltre nelle iniziative dei fondatori di istituti religiosi, maschili e femminili (fratelli Cavanis, L. Pavoni, B. Capitanio, L. Murialdo, G. → Bosco). Le prime disposizioni legali sulle “scuole elementari tecniche” si trovano nel Re- golamento del Regno Lombardo-Veneto (1818); in Piemonte la L. Boncompagni (1848) segnala che le “scuole speciali (…) preparano all’esercizio delle profes- sioni per le quali non è destinato alcuno speciale insegnamento nelle università” (art. 4). La L. Casati (1859) si occupa dell’istruz. tecnica (articolata in due livelli: “scuole tecniche” e “istituti tecnici”), precisando che “ha per fine di dare ai gio- vani che intendono dedicarsi a determinate carriere del pubblico servizio, alle in- dustrie, ai commerci ed alla condotta delle cose agrarie, la conveniente cultura generale e speciale” (art. 272). Il passaggio, nel 1861, al Ministero dell’Agricol- tura, Industria e Commercio non ne facilitò lo sviluppo. Ancora alla fine del sec. si denunciava l’incapacità delle scuole tecniche a “dare un mestiere” (Soldani, 1981, 110). Di fatto, l’istruz. professionale, regolata da una L. del 1878, ebbe la sua data di nascita legale nelle disposizioni emanate fra il 1879 e il 1880 dalle Circolari dei Ministri Cairoli e Miceli. Pur con difficoltà, essa acquistò progressi- vamente il riconoscimento di “scuola secondaria”, passando nel 1931 sotto le di- pendenze del MPI. La FP, come “sistema formativo extrascolastico”, ebbe invece inizio dopo la seconda guerra mondiale, favorita da due fatti: l’urgenza di prepa- rare manodopera per la ricostruzione, e l’inadeguatezza del sistema scolastico nel dare una risposta al nuovo tipo di domanda formativa espressa dal mondo del la- voro. Il settore fu disciplinato nel 1949 dalla L. 264. Detta legge riceve poi modi- fiche e integrazioni negli anni successivi (1950-1970), che non costituiscono tut- tavia un sistema organico di regolamentazione del settore. A tali carenze legisla- tive, il MLPS ha supplito con circolari annuali, dando norme organizzative e am- ministrative (De Falchi, 1992, 9426-28). 4. Nuovi orientamenti ed esperienze. Nel 1972, le competenze in materia di FP sono state trasferite alle Regioni (con DPR n. 10, del 5 gennaio) e nel 1978 venne approvata la L. quadro in materia di FP (L. 845/78). I soggetti coinvolti nella legge sono: il MLPS (con ruolo di coordinamento), le Regioni, gli → enti pubblici e pri- vati. Frattanto, si erano consolidate esperienze significative (nel 1977, ad es., ini- ziava le sue attività nella promozione del mondo del lavoro giovanile il CNOS- FAP). Nella L. delega Moratti (L. 53/03), è introdotto un percorso graduale e con- tinuo di FP dai 14 ai 21 anni; e le “istituzioni scolastiche, nell’ambito dell’→ alter- nanza scuola-lavoro, possono collegarsi con il sistema dell’istruz. e della FP ed as- sicurare, a domanda degli interessati e d’intesa con le Regioni, la frequenza negli 127 istituti d’istruz. e FP di corsi integrati che prevedano piani di studio progettati d’in- tesa fra i due sistemi” (art. 4). Tali proposte si trovano in sintonia con gli ordina- menti di altri Paesi della UE, in cui il sottosistema della FP è considerato di pari di- gnità rispetto alla scuola. Bibl.: SOLDANI S., L’istruzione tecnica nell’Italia liberale, in “Studi Storici” 22 (1981)1, 110. CHAR- MASSON Th. (Ed.), L’enseignement de la Révolution à nos jours, Paris, Economica, 1987; HAZON F., Storia della formazione tecnica e professionale in Italia, Roma, Armando, 1991; DE FALCHI F., “Pro- fessionale, formazione”, in M. LAENG (Ed.), Enciclopedia pedagogica, vol. V, Brescia, La Scuola, 1992, 9426-9433; FRASCA R., Mestieri e professioni a Roma. Una storia dell’educazione, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1994; PRELLEZO J.M - R. LANFRANCHI, Educazione e pedagogia nei solchi della storia, 3. voll., Torino, SEI, 2002; NANNI C., La riforma della scuola. Le idee, le leggi, Roma, LAS, 2003. J.M. Prellezo GLOBALIZZAZIONE E FP Il termine g. indica genericamente un fenomeno di crescita progressiva delle rela- zioni e degli scambi a livello planetario, a partire dalla fine del XX sec. Benché la g. venga prevalentemente considerata in una prospettiva quasi esclusivamente eco- nomica, essa assume una rilevanza cruciale pure nell’ambito dei cambiamenti so- ciali, tecnologici e politici. Secondo Robertson (1999), è preferibile parlare di “glo- calizzazione”, che sintetizza – fondendole insieme – g. e localizzazione. L’una e l’altra non si escludono; anzi, la prima acquisisce un significato se viene colta attra- verso la seconda. D’altra parte, il fenomeno della g. va dispiegandosi in un’epoca dominata dall’incertezza (Giaccardi - Magatti, 2006), nella quale gli individui si percepiscono, ad un tempo, come cittadini del mondo ed individui più isolati, con dei riferimenti culturali che vengono quotidianamente messi in discussione. Perciò, particolare rilevanza acquisiscono dimensioni quali il flusso delle conoscenze, delle informazioni e, più in generale, della → comunicazione e della → formaz. Proprio la formaz. delle → risorse umane, infatti, è uno degli aspetti chiave, sia per garan- tire un consapevole esercizio del diritto di → cittadinanza nella → società globale, sia per raggiungere, nel nuovo contesto, gli obiettivi di competitività economica e di sicurezza sociale. Il → mercato del lavoro, estremamente flessibile, richiede un’utenza di massa diversificata anche in relazione all’età. Ciò significa che la dif- ficoltà di acquisire una → professionalità spendibile per tutto l’arco della vita rende necessaria la capacità di inserirsi in un processo di → apprendimento continuo (anche di auto-apprendimento). Accanto allo sviluppo di → competenze professio- nali specifiche, quindi, la → FP non può trascurare quelle che comunemente si defi- niscono → capacità cognitive superiori (attitudine al ragionamento, al → problem solving, ecc.) e le → abilità sociali (autonomia, collaborazione, ecc.). La FP, in- somma, è chiamata a trasmettere ai propri utenti la capacità di gestire l’informa- zione, di trasformarla in competenza nel nuovo contesto operativo, condizionato e modificato dall’impatto con le → nuove tecnologie. 128 Bibl.: BANGEMAN M., Bangeman Report. Europe and the Global Information Society: Recomanda.tions to European Council, Bruxelles, 1994 (Trad. it. Rapporto Bangeman. Supplemento a Prima Comunicazione n. 238, Milano, Genesis, 1995); BECK U., Che cos’è la globalizzazione, Roma, Carocci, 1999; ROBERTSON R., Globalizzazione, teoria sociale e cultura globale, Trieste, Aste- rios, 1999; GIACCARDI C. - M. MAGATTI, L’Io globale. Dinamiche della società contemporanea, Roma - Bari, Laterza, 2006. M. Colasanto GOVERNANCE E FP Il termine g. è entrato ormai da qualche anno nel linguaggio comune. Utilizzato in genere in contrapposizione al vocabolo governement, che evidenzia la centralizza- zione delle azioni realizzate dai responsabili di una determinata politica, esso dà ri- lievo alla presenza di una molteplicità di attori, coinvolti nell’implementazione della politica stessa. L’idea di g. implica che il conseguimento di un obiettivo sia dovuto all’azione autonoma, ancorché non isolata, di coloro i quali contribuiscono all’attuazione di un certo programma (si tratti di istituzione pubblica o di organiz- zazione privata), tramite un coinvolgimento collettivo nel processo di scelta dei protagonisti del → mercato del lavoro. Per quanto concerne il → sistema formativo, bisogna ricordare come il DPR 10/1972 abbia trasferito completamente le compe- tenze alle Regioni, e come, invece, il D.lgs. 112/1998 sia entrato nel merito delle attribuzioni di queste ultime e di quelle rientranti nella sfera della Pubblica Ammi- nistrazione. Nella definizione degli interventi di armonizzazione tra obiettivi nazio- nali e regionali, un ruolo chiave è assegnato alla Conferenza Stato-Regioni. Alla Conferenza Unificata, invece, compete la concreta individuazione dei programmi operativi multiregionali della → FP. Per quanto concerne le competenze provin- ciali, invece, sotto il profilo della programmazione integrata esse si servono dei Piani annuali d’intervento. Le Province – ed anche alcune Regioni – si sono più volte espresse contro l’incertezza palesata dalla normativa nazionale in ordine al trasferimento dei compiti e delle funzioni, ravvisando un certo grado di contraddit- torietà nella normativa stessa, e per una maggiore coerenza nel campo della pro- grammazione. In ogni caso, un decisivo impulso al cambiamento dell’assetto ri- guardante i settori dell’→ istruz. e della FP è stato dato dalle cosiddette leggi Bas- sanini, cui ha fatto seguito la riforma del Titolo V della Costituzione. Essa sancisce, de facto, l’introduzione di un orientamento fortemente autonomista, che riserva al- cune materie alla competenza esclusiva dello Stato, ne individua altre di pertinenza congiunta dello Stato e delle Regioni, lasciando a queste ultime la possibilità di le- giferare in via esclusiva su ciò che, concretamente, non è stato attribuito né al primo né alle seconde. Fermo il rispetto degli obblighi derivanti dalla Costituzione, dalle leggi internazionali e da quelle della Comunità Europea, il nuovo ordina- mento attribuisce ai Comuni prerogative di tipo amministrativo, che debbono agire tenendo in debito conto i principi di → sussidiarietà, differenziazione e adegua- tezza. Non si può nemmeno escludere che, in futuro, lo scenario istituzionale pre- 129 veda Amministrazioni provinciali dotate di poteri più ampi, in merito al governo del territorio. Tutto ciò, del resto, s’inscriverebbe in una logica di valorizzazione del legislatore regionale. Bisogna insomma sottolineare come, a partire dalla succi- tata riforma Bassanini, i partner sociali siano stati coinvolti con un ruolo attivo, es- senzialmente di confronto, utile all’individuazione ed alla soluzione delle proble- matiche legate al territorio. In tal senso, sembra che la concertazione sia divenuta la modalità concreta di attivazione delle decisioni, capace di garantire un’adeguata gestione degli strumenti di intervento comunitari, ma insieme di quelli nazionali, senza sminuire il rilievo delle autonomie locali. Bibl.: COMMISSIONE EUROPEA, Libro bianco sull’educazione e la formazione: insegnare e apprendere. Verso una società conoscitiva, Bruxelles, 1996; RHODES R., Understanding governance: policy net- works, governance, reflexivity and accountability, Buckingham, Open University Press, 1997; CI- CIOTTI E. - A. SPAZIANTE, Economia, territorio e istituzioni. I nuovi fattori delle politiche di sviluppo locale, Milano, F. Angeli, 2000; RUFFINO M., Formazione continua e competenze delle PMI, Milano, F. Angeli, 2001; COSTA M. - F. DAL FIORE, Entità in formazione. Governare il cambiamento tra comu- nità e network, Torino, UTET, 2005; S.A., Glossario. Cooperazione interistituzionale, in http://db.formez.it/fontinor.nsf/7224ea39dea4a740c1256fb80040016a/8D167DA0C830FF53C125711 E004C6B1F/$file/glossrio_coop_interistituzionale.pdf, 9.2.07. M. Colasanto IDENTITÀ Il termine i., entrato ormai nel linguaggio comune, è carico di significati ed è utiliz- zato nei contesti più diversi: in ambito teologico, psicologico, sociologico, antropo- logico-culturale, religioso. La problematica dell’i. costituisce il punto di incontro di numerose discipline (Sciolla, 1983). Storicamente affrontato dapprima in filosofia, da alcuni decenni il concetto viene utilizzato da altre → scienze umane, in partico- lare dalla sociologia e psicologia con l’effetto di una notevole disparità di defini- zioni. 1. In ambito psicologico, i significati del termine si sovrappongono o contrappon- gono con facilità, sicché “individuazione”, “sentimento di i.”, “Sé”, “sistema di Sé” sono considerati concetti intercambiabili con quello di i. L’i. racchiude in sé concetti diversi, come continuità e sviluppo, stabilità e cambiamento, uguaglianza e diversità, identificazione e differenziazione, fedeltà alle tradizioni e apertura al- l’innovazione, maturazione personale e sociale. In tal senso, è un concetto multidi- mensionale e complesso, sia sotto il profilo teorico che in riferimento al contesto culturale in continuo mutamento. Sono molteplici gli aspetti e le dimensioni che la connotano, tuttavia muovendosi sul terreno del senso comune, si pensa all’i. come alla consapevolezza di essere se stessi, pur attraverso le molteplici trasformazioni che si sperimentano nel tempo e nelle diverse situazioni o relazioni sociali, o anche a quell’esperienza vissuta globale e coerente di sé che dà senso e unità inte- riore. L’i. si configura innanzitutto come “i. personale” e indica ciò in base a cui l’individuo sente di esistere come persona, si sente accettato e riconosciuto come 130 tale dagli altri, dal suo gruppo o dalla sua cultura di appartenenza. È il risultato di due percezioni simultanee: la percezione immediata della propria ipseità (auto- identificazione) e della continuità della propria esistenza nel tempo; la percezione simultanea del fatto che gli altri riconoscano tale ipseità e continuità (Erickson, 1974, 58). 2. L’i. non è “data fin dall’inizio”, ma rappresenta il risultato laborioso di una storia personale, che si è costruita a partire dall’elaborazione – all’interno della trama di relazioni interpersonali e d’interazioni con l’→ ambiente – dell’incidenza dei mo- delli culturali e delle differenti esperienze di vita. Perché l’i. possa manifestarsi, è necessario che l’uomo percepisca se stesso come un tutto unitario e impari a rico- noscere la propria separata diversità di individuo (processo di individuazione) in un continuo “separarsi da” e “riconoscersi in”, riconoscersi uguale a se stesso e di- verso dagli altri. Ciascuno trova la conferma o dis-conferma della propria i. nell’in- contro/confronto con gli altri, persone, gruppi, → ambiente, cultura. Per svilupparsi armoniosamente nella propria i., ha bisogno di essere strutturato contemporanea- mente dalle proprie appartenenze sociali, territoriali, etniche, linguistiche, culturali e religiose, deve essere capace di assumere le proprie “i. collettive”, integrandole nell’insieme e dando loro un senso (Del Core, 2000, 206). 3. Si parla anche di “i. sociale”, “i. culturale ed etnica”, “i. vocazionale e professio- nale” che non sono altro che delle varianti o delle componenti dell’“i. personale”. L’i. e la sua formazione, nel contesto attuale di globalizzazione, è diventata molto più problematica, non solo per le nuove generazioni, ma anche per la convivenza delle generazioni adulte il cui compito di trasmissione culturale si fa sempre più difficile e complesso. Bibl.: ERIKSON E.H., Gioventù e crisi d’identità, Roma, Armando, 1974; SCIOLLA L. (Ed.), Identità, Torino, Rosemberg & Sellier 1983; DI CRISTOFORO LONGO G., Identità e cultura. Per un’antropologia della reciprocità, Roma, Ed. Studium, 1993; DEL CORE P., Identità e alterità. Fondamenti dinamici della reciprocità e percorsi maturativi, in “Rivista di Scienze dell’Educazione” 38 (2000)2, 201-234; DEL CORE P. - A.M. PORTA (Edd.), Identità, cultura e vocazione. Quale futuro per la formazione in Europa?, Roma, LAS, 2002. P. Del Core IMMIGRAZIONE → Educazione interculturale IMPRESA Nel linguaggio comune, erroneamente, si tende a considerare i. e azienda come si- nonimi. Giuridicamente, invece, sono termini con significati diversi. Il “Codice ci- vile” non definisce l’i., ma l’imprenditore: chi “esercita professionalmente un’atti- vità economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di 131 servizi” (art. 2082). Di conseguenza l’i. è definibile come un’attività economica or- ganizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Il “Codice civile” definisce, invece, l’azienda come “il complesso dei beni organizzati dal- l’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (art. 2555). L’azienda è quindi l’in- sieme degli strumenti utilizzati per svolgere l’attività imprenditoriale. 1. Ogni anno nascono in Italia più di 300.000 nuove i. e il saldo tra le nuove i. iscritte e quelle cancellate nel registro tenuto dalle Camere di Commercio risulta positivo, tanto che lo sviluppo delle attività imprenditoriali è generalmente consi- derato come uno dei modi per riuscire a debellare i grandi numeri della disoccupa- zione. Per questo, negli ultimi anni, si sono intensificati gli interventi a sostegno della creazione d’i.: a) interventi di natura finanziaria, cfr. in particolare la L. 44/86 e successive modificazioni, la L. 236/93, entrambe gestite dalla Società per l’Im- prenditorialità Giovanile (IG), e la L. 215/92 sulla IG; a queste si aggiungono nu- merosissimi provvedimenti regionali; b) interventi di formaz.: le Regioni inseri- scono nei loro piani di → formaz. corsi dedicati all’imprenditorialità; analogamente le Camere di Commercio offrono corsi di preparazione alla creazione d’i.; nelle scuole superiori sono inseriti programmi di simulazione della creazione d’i. (come il progetto IG studenti); c) interventi di assistenza tecnica, per supportare la nascita della nuova imprenditorialità. 2. Per la gestione degli aiuti connessi ai → finanziamenti, lo Stato opera attraverso la IG. La IG, che fa capo al Ministero del Tesoro, svolge tutte le funzioni e i com- piti necessari per sostenere l’intero processo di creazione di i., inoltre promuove e finanzia anche forme di → lavoro autonomo attraverso il “prestito d’onore”. Da menzionare anche l’attività dei BIC (Business Innovation Center), che hanno la mission di sviluppare la cultura imprenditoriale e stimolare la creazione di nuove i. I BIC, promossi dalla Commissione Europea, Direzione Generale Politica Regio- nale, sono istituiti in molte Regioni con la formula della S.p.A. Molte anche le ini- ziative di assistenza promosse da → enti locali. In molti Comuni, ad es., è stata atti- vata la costituzione del cosiddetto sportello unico, un ufficio apposito al quale ci si può rivolgere per espletare tutte le pratiche burocratiche accessorie necessarie per iniziare una nuova attività senza doversi perdere nei meandri della Pubblica Ammi- nistrazione. Da menzionare, infine, le numerose iniziative di → accompagnamento alla imprenditorialità realizzate all’interno di progetti integrati di formaz. o da parte di strutture orientative. Bibl.: ASSOSERVIZI, In 24 righe le cose da non dimenticare per fare meglio l’imprenditore Milano, 1990; MONTEFINALE A. (Ed.) Creare la propria impresa: guida operativa per il neo-imprenditore, Roma, ENFAPI - SOGEA, 1990; SALANI P.M., Dall’idea all’impresa: come diventare imprenditore, Roma, Acropoli, 1991; ASSEFOR, Il neo-imprenditore: manuale operativo per mettersi in proprio, Rimini, Assefor, 1991; DE BENEDETTIS A. - G. MINGOLLA - A. SCACCHERI (Edd.), Come fare un busi- ness plan, Milano, F. Angeli, 1993; ELVY B.H., Mettersi in proprio senza capitali: 100 nuove idee e opportunità, come valutarle e selezionarle, Milano, F. Angeli, 1994; ALFANO V. - T. CALÒ, Manuale del giovane imprenditore (una ditta simulata), Napoli, 1994; SOCIETÀ PER L’IMPRENDITORIALITÀ GIO- VANILE, Vademecum per l’imprenditore: dal sogno all’idea imprenditoriale, Roma, Società per l’im- prenditorialità giovanile, 1995; ABELL F.D., Strategia duale: dominare il presente, anticipare il futuro, 132 Milano, Il sole 24 ore media & impresa, 1997; REGIONE TOSCANA. DIPARTIMENTO DELLE POLITICHE SO- CIALI E DEL LAVORO, Come creare la propria attività e la propria impresa: guida alle iniziative locali, Firenze, Ed. Toscana, 1999; CUZZOLA V. - A. NOCERA guida all’avviamento e gestione di un negozio; GHERGO F. Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, Roma. Tipografia Pio XI, 2003; RO- BERTS J., L’impresa moderna, Bologna, Il Mulino, 2006. F. Ghergo INCLUSIONE SOCIALE Il concetto di i.s. in questi anni viene utilizzato diffusamente nell’ambito delle poli- tiche sociali e degli interventi finalizzati ad aumentare la partecipazione di tutti nella → società, in particolare lo ritroviamo nei documenti dedicati all’integrazione dei gruppi di popolazione particolarmente svantaggiata per problemi di ordine en- dogeno o esogeno. La nascita di questo termine viene indicata dagli AA. in Francia, nel 1974, attualmente è presente in tutti i documenti che rappresentano le politiche e le ricerche degli Stati membri dell’UE nell’ambito della lotta all’→ esclusione so- ciale. In particolare in questi anni, attraverso i Piani di Azione Nazionali (PAN) contro la povertà e l’→ esclusione sociale, gli Stati membri hanno indicato lo stato di attuazione delle politiche sull’i.s., le risorse nazionali e comunitarie impegnate, le priorità da perseguire e gli obiettivi da raggiungere. La predisposizione dei PAN da parte dei Paesi membri dell’UE è una pratica strettamente legata all’implemen- tazione della Strategia Europea per l’Occupazione (SEO) che richiede la formula- zione di obiettivi comuni, PAN e indicatori comuni. A partire dal 2006 i PAN, se- condo le indicazioni della Commissione, vengono elaborati intorno ai seguenti obiettivi comuni: 1) promuovere la → coesione sociale e le → pari opportunità per tutti grazie a sistemi di protezione sociale e a politiche per l’integrazione sociale adeguati, accessibili, finanziariamente sostenibili, adattabili ed efficienti; 2) intera- gire strettamente con gli obiettivi di Lisbona volti a conseguire una maggiore cre- scita economica e posti di → lavoro migliori e più numerosi e con la strategia per lo sviluppo sostenibile dell’UE; 3) rafforzare la → governance, la trasparenza e la par- tecipazione dei soggetti interessati all’elaborazione, all’attuazione e al → monito- raggio delle politiche. L’i.s. indica quindi il processo e gli interventi che allonta- nano dall’esclusione e che affrontano le problematiche che ne scaturiscono per pro- muovere l’integrazione degli individui nella società e riguarda in particolare il pro- cesso attraverso il quale ad ogni persona, secondo la propria esperienza e le circo- stanze, viene data la possibilità di sviluppare il proprio potenziale nella vita. Per raggiungere l’i., un reddito e un lavoro sono necessari ma non sufficienti. Una so- cietà inclusiva è anche caratterizzata dallo sforzo di ridurre la disuguaglianza, un equilibrio tra diritti e doveri degli individui ed una maggiore coesione sociale. Questo è possibile solo attraverso la predisposizione di risposte integrate che pro- muovano l’attivazione di tutte le risorse territoriali e che mirino ad offrire soluzioni integrate ai diversi → bisogni che manifestano le persone che rientrano nell’ambito dell’esclusione sociale. Tre sono le priorità che il Governo italiano ha indicato nelle 133 proprie politiche dedicate all’i.s., per imprimere una svolta decisiva alla lotta contro la povertà e l’esclusione sociale: promuovere la partecipazione al → mercato del lavoro lottando contro la povertà e l’esclusione fra le persone e i gruppi più emarginati, garantire accesso alle risorse, ai diritti e servizi, e garantire una parteci- pazione attiva di tutti i livelli di governo e degli stakehoders. Bibl.: MLPS, Piano d’azione nazionale contro la povertà e l’esclusione sociale 2003-2005, Roma, 2003; COMMISSIONE DI INDAGINE SULL’ESCLUSIONE SOCIALE DEL MLPS, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, Roma, 2004. A. Felice INDICATORI DI QUALITÀ → Competenza; Qualità INDIVIDUALIZZAZIONE → Personalizzazione; → Esclusione sociale INSEGNAMENTO Attività sociale diretta alla diffusione di → conoscenze, → abilità, atteggiamenti e valori negli altri per mezzo di opportuni sistemi di rappresentazione e di → comu- nicazione. Dal latino insignare, imprimere segni, il termine è stato ben presto uti- lizzato per indicare la rappresentazione delle informazioni e delle conoscenze in signo sensibile, cioè secondo un sistema di segni sensibili (in signo ponere). D’altra parte insignare significa anche indicare, far segno. 1. L’azione di i. può, quindi, essere considerata sia come azione che mira a rendere sensibili, percepibili le conoscenze, le abilità, le → competenze, i valori che si in- tendono proporre all’azione di → apprendimento degli allievi, sia come indicazione del loro significato, del loro grado di plausibilità e del loro valore soggettivo e col- lettivo. Oggi si insiste sul ruolo della pratica di i. come facilitazione dell’apprendi- mento: l’i. è considerato come l’attività sociale che consiste nel creare le condi- zioni nelle quali i soggetti possano e vogliano apprendere quanto è loro proposto. La scienza che studia tale attività sociale è chiamata → “didattica”, dal greco dida- skein (insegnare). 2. Insegnare validamente ed efficacemente è un compito assai complesso. Esso im- plica non solo una conoscenza approfondita e consapevole di quanto è oggetto di proposta di apprendimento, bensì anche la → capacità di rappresentarlo e comuni- carlo efficacemente agli interlocutori, una sensibilità alle esigenze e difficoltà di apprenderlo da parte loro, un senso di responsabilità e coinvolgimento personale nell’impegno didattico. La storia passata e le testimonianze contemporanee circa le 134 pratiche di i. messe in atto e risultate valide ed efficaci permettono di individuare un insieme di → buone pratiche (meno felicemente dette buone prassi), che costi- tuiscono modelli a cui fare riferimento per progettare e realizzare nuove attività formative. Nel contesto di questi modelli sono state suggerite alcune tecniche che sembrano favorire in maniera particolare l’apprendimento da parte di diverse tipo- logie di interlocutori. Tra queste tecniche merita ricordare un particolare suggeri- mento: articolare i percorsi formativi secondo unità didattiche o formative opportu- namente strutturate. Si preferisce, spesso, usare l’espressione unità di apprendi- mento per sottolinearne il criterio organizzativo, che fa riferimento non tanto a quanto fa o deve fare l’insegnante, quanto a ciò che deve essere fatto da parte di ogni studente, o allievo, come suo specifico apprendimento. Un’unità di questo tipo implica: a) che sia sufficientemente evidente l’→ obiettivo, o l’insieme degli obiet- tivi, che si intende raggiungere; b) che siano esplicitate le conoscenze e le abilità prerequisite; c) che siano chiari e validi sia i contenuti da proporre, sia la → meto- dologia adottata, sia le modalità di → valutazione. 3. Tra le → metodologie da valorizzare, in particolare nei → processi formativi, vanno segnalate quelle che favoriscono lo sviluppo della capacità di autoregola- zione nell’apprendimento e di collaborazione tra gli allievi. Per promuovere la ca- pacità di autoregolazione viene spesso indicata come buona pratica una metodo- logia nella quale l’insegnante assume il ruolo di mentore, cioè di guida e sostegno allo sviluppo di → progetti personali di apprendimento e alla capacità di auto-diri- gersi nella loro realizzazione e valutazione (mentoring). Quanto alla capacità di collaborare nei processi di studio sono abbastanza diffuse forme e tecniche di ap- prendimento collaborativo o cooperativo (cooperative learning), che tengono conto anche di obiettivi a valenza sociale, oltre che culturale e professionale. Bibl.: DAMIANO E., L’azione didattica, Roma, Armando, 1993; GORDON T., Insegnanti efficaci, Fi- renze, Giunti e Lisciani, 1996; PERRENOUD P., Enseigner, agir dans l’urgence, décider dans l’incerti- tude, Paris, ESF, 1996; ID., Dix nouvelles compétences pour enseigner, Paris, ESF, 1999; BORICH G.D., Effective Teaching Methods, Columbus (Ohio), Merrill, 2000; MEAZZINI P., L’insegnante di qualità, Firenze, Giunti, 2000. M. Pellerey INSEGNAMENTO SOCIALE DELLA CHIESA 1. Origine e sviluppo. L’ISC “trova la sua sorgente nella Sacra Scrittura, a comin- ciare dal libro della Genesi e, in particolare, nel Vangelo e negli scritti apostolici. Essa appartenne fin dall’inizio all’→ insegnamento della Chiesa stessa, alla sua concezione dell’uomo e della vita sociale e, specialmente, alla morale sociale ela- borata secondo le necessità delle varie epoche” (Laborem exercens n. 3). Ha, tut- tavia, avuto una fioritura particolarmente rigogliosa in concomitanza all’insorgenza della rivoluzione industriale. In ragione del fatto che i documenti successivi alla Rerum novarum di Leone XIII sono stati promulgati in continuità tra loro, si è gra- 135 dualmente costituito un corpus dottrinale aggiornato (cfr. Sollicitudo rei socialis, n. 1), abbastanza organico. Esso è sostanziato da principi di riflessione, criteri di giu- dizio, orientamenti pratici. Le ragioni dello sviluppo dell’ISC sono molteplici. È da tener presente sia l’urgenza e la novità dei problemi legati alla suddetta rivoluzione industriale animata in senso liberista, sia la preoccupazione pastorale dei pontefici di offrire ai cattolici (e non solo a loro) punti di riferimento e di orientamento etico- culturale per la loro azione, in vista della soluzione della questione sociale secondo l’ispirazione cristiana, partendo cioè dalla lettura degli avvenimenti alla luce del Vangelo e della Tradizione. 2. Natura. È con la Gaudium et spes, preceduta dalla Mater et magistra, in un con- testo socio-culturale sensibilmente mutato ed ampiamente secolarizzato, che l’ISC, grazie ad un’ecclesiologia della comunione, della missione e del servizio, assume più apertamente ed autorevolmente la sua formalità di sapere teologico teorico- pratico. Ciò è avvenuto non in contrapposizione o in alternativa alla precedente strutturazione, prevalentemente filosofica, ma riequilibrandola e ricomprendendola in una formalità superiore, quella teologica, peraltro esigita connaturalmente e ne- cessariamente dall’origine ecclesiale ed apostolica dello stesso ISC. Così rigoriz- zato, l’ISC appare chiaramente espressione del ministero di salvezza integrale che la Chiesa, come comunità-comunione di più componenti, è chiamata a svolgere nei confronti di ogni uomo, di tutto l’uomo. Derivando dall’essere apostolico della Chiesa, viene ritenuto atto a rivelare, annunciare, indicare presente e servire l’a- zione di Dio nel sociale, avente anch’esso, come tutte le altre realtà umane, il suo centro gravitazionale in Gesù Cristo, il nuovo Adamo, venuto per ricapitolare in sé tutte le cose (cfr. Ef 1,3-14; Col 1,15-20). Dopo il Concilio Vaticano II, dopo i ten- tativi maldestri che ideologizzavano l’ISC o dottrina sociale della Chiesa (= DSC) scambiandolo con l’indicazione di un sistema sociale, dopo le critiche di alcune teologie della liberazione che ne rilevavano la tendenza a snaturare il cristianesimo e ad immanentizzare la salvezza, Giovanni Paolo II afferma testualmente: “La dot- trina sociale della Chiesa non è una ‘terza via’ tra capitalismo liberista e colletti- vismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radi- calmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un’ideo- logia, ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle com- plesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpre- tare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegna- mento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale. L’in- segnamento e la diffusione della dottrina sociale fanno parte della missione evange- lizzatrice della Chiesa” (Sollicitudo rei socialis, n. 41). 3. Dimensione pastorale e pedagogica. Nella coscienza di Giovanni Paolo II, l’an- nuncio della DSC o ISC è componente essenziale della nuova evangelizzazione 136 (cfr. Centesimus annus, n. 5). In altre parole, non può essere considerato facolta- tivo per la comunità ecclesiale, per l’educatore alla fede e per la testimonianza. È indispensabile dal punto di vista apostolico e pedagogico. Senza il suo apporto non si può educare globalmente e far crescere alla fede matura né i singoli credenti né le comunità ecclesiali e religiose; e così, non si può servire adeguatamente l’uomo, per favorirne una promozione ed una liberazione secondo la sua voca- zione trascendente. Data la natura interdisciplinare dell’ISC, l’uso didattico dei testi delle encicliche e dei vari documenti sociali, compresi quelli episcopali, non può limitarsi alla dimensione teologico-morale, dimenticandone quella umanistica e pratico-progettuale. Inoltre, non si può rinserrarne la presentazione nell’astori- cità o nelle mura scolastiche, senza evidenziarne l’intrinseco legame con il farsi della → società passata o contemporanea. Per questo, non ci si può accontentare delle varie sintesi contenutistiche sull’ISC presenti nel mercato librario e dotate solo di qualche fugace cenno storico. Tali sussidi, peraltro utili a sistematizzare un materiale a volte frammentato e inevitabilmente segnato dalla contingenza, deb- bono essere valorizzati e integrati all’interno di un metodo storico-teorico-pratico. Questo consente di penetrare meglio nel costruirsi progressivo dell’ISC, inse- gnando a divenirne soggetti attivi e responsabili. In tal modo, non viene formata solo la coscienza morale, ma si perfeziona la propria sapienza teologale e pratica relativa alla concretizzazione del bene possibile della società, senza rinunce o tra- dimenti della visione cristiana della società, all’interno di una prospettiva del già e non ancora. Bibl.: CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale nella formazione sacerdotale, Bologna, EDB, 1989; CAMACHO I., Doctrina so- cial de la Iglesia, Madrid, Ediciones Paulinas, 1991; TOSO M., “Welfare Society”. L’apporto dei pon- tefici da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Roma, LAS, 1995; ID., Dottrina sociale oggi, Torino, SEI, 1996; BEDOGNI G., La dottrina sociale nella formazione del cristiano adulto, Roma, Agrilavoro, 2000; TOSO M., Verso quale società? La dottrina sociale della Chiesa per una nuova progettualità, Roma, LAS, 2000; ID., Umanesimo sociale. Viaggio nella dottrina sociale e dintorni, Roma, LAS, 2002. I documenti sociali della Chiesa sono reperibili in ASS = Acta Sanctae Sedis (fino al 1908) e in AAS = Acta Apostolicae Sedis (dal 1908). Una raccolta delle principali encicliche, facilmente accessi- bile, è quella di I documenti sociali della Chiesa. Da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Libreria Edi- trice Vaticana, Città del Vaticano 1991. M. Toso INSERIMENTO PROFESSIONALE / LAVORATIVO → Accompagnamento al lavoro; → Servizi per l’impiego; → Risorse umane; → CFP; → FPI; → FP superiore; → Personalizzazione; Diversabilità e FP INTERCULTURA → Educazione interculturale; → Società; → Metodologia; → Diritti formativi 137 ISPIRAZIONE CRISTIANA DELLA FP La Chiesa in Italia ha manifestato da lungo tempo una particolare attenzione alle istituzioni che preparano i giovani al → lavoro, riconoscendo ad esse una funzione educativa e culturale che domanda molto impegno. L’i.c. infatti richiede di non in- serire nella → FP procedimenti unicamente preoccupati di promuovere e di valutare le → abilità tecniche, ma piuttosto di sviluppare l’attenzione alla totalità della per- sona umana. L’impegno della comunità ecclesiale deve quindi farsi ancora più at- tento, perché questi Centri di i.c., secondo la loro lunga e collaudata esperienza, sempre meglio possano operare nel pieno rispetto della dignità umana e secondo un progetto educativo valido e chiaramente ispirato all’annuncio evangelico sul- l’uomo, sul lavoro, sul contesto economico in cui quest’ultimo si svolge in un’ot- tica di formaz. permanente (→ FP continua). 1. Aspetti caratterizzanti l’identità della FP che si ispira ai valori cristiani. En- trando nel merito della specificità della FP per quanto riguarda le sue finalità e l’of- ferta educativa da essa proposta, si può procedere con la considerazione seguente. Da una parte, gli aspetti caratterizzanti la sua identità sono quelli che valgono per ogni tipo di istituzione educativa che si ispira ai valori cristiani (ad es. le scuole cattoliche); dall’altra, è possibile richiamare alcuni aspetti specifici e più caratteri- stici di questa particolare forma educativa. Tra i primi, seguendo le indicazioni del magistero si possono ricordare i seguenti: a) Connotazione ecclesiale: l’“ecclesia- lità della scuola cattolica è scritta nel cuore stesso della sua identità di istituzione scolastica” (S. Congregazione per l’educazione cattolica, n. 11); essa si colloca nella missione evangelizzatrice della Chiesa: la “Scuola Cattolica rientra nella mis- sione salvifica della Chiesa e particolarmente nell’esigenza dell’educazione alla fede” (CEI, n. 9); b) Connotazione comunitaria: la “dimensione comunitaria nella scuola cattolica non è una semplice categoria sociologica, ma ha anche un fonda- mento teologico” (S. Congregazione per l’educazione cattolica, n. 18). Questo fon- damento è la teologia della Chiesa-comunione, espressa nella costituzione Lumen gentium. “Elemento caratteristico [della scuola cattolica] è [quello] di dar vita ad un ambiente comunitario scolastico permeato dello spirito evangelico di libertà e carità” (Gravissimum educationis, n. 8); c) La qualità della proposta culturale: la ped. della scuola cattolica si ispira ai valori evangelici. Con tale espressione si in- tende dire che tutto l’agire educativo che la caratterizza ed il clima che in essa si re- spira devono riflettere questa ispirazione di fondo. Nella scuola cattolica si per- segue la → formaz. integrale dell’uomo. La “chiesa istituisce le proprie scuole, perché riconosce in esse un mezzo privilegiato volto alla formazione integrale del- l’uomo: la scuola infatti è un centro in cui si elabora e si trasmette una specifica concezione del mondo, dell’uomo e della storia” (S. Congregazione per l’educa- zione cattolica, n. 8). Più avanti, lo stesso documento afferma: “è compito formale della scuola, in quanto istituzione educativa, rilevare la dimensione etica e religiosa della cultura, proprio allo scopo di attivare il dinamismo spirituale del soggetto e aiutarlo a raggiungere la libertà etica che presuppone e perfeziona quella psicolo- 138 gica” (S. Congregazione per l’educazione cattolica n. 30); d) Significato sociale e civile della scuola cattolica: la scuola cattolica è un’espressione di un diritto che tutti i cittadini hanno. La “Scuola Cattolica è un’espressione del diritto di tutti i cit- tadini alla libertà di educazione, e del corrispondente dovere di solidarietà nella co- struzione della convivenza civile” (CEI, n. 12). Con la sua presenza, la scuola cat- tolica offre un contributo prezioso alla realizzazione di un reale pluralismo basato sul principio di → sussidiarietà. La “caratterizzazione di servizio pubblico – pur nel rigoroso rispetto della propria identità culturale – conferisce alla Scuola Cattolica anche una connotazione sociale, che esclude ogni scopo di lucro” (CEI, n. 81). La “presenza della Chiesa nella cultura, e quindi nel campo scolastico ed educativo, rappresenta per la storia italiana una costante e un germe innegabile di promozione umana e sociale” (CEI, n. 5). Si tratta di dimensioni che attraversano anche la FP di ispirazione cristiana la quale peraltro le assume secondo una propria specificità che lo stesso documento La scuola cattolica oggi in Italia così sintetizza: “Alcuni aspetti dovranno soprattutto essere tenuti presenti: l’equilibrio tra FP e formazione umana, in una età ancora segnata dallo sviluppo; la necessità di una fondazione scientifica, culturale ed etica della FP; l’attenzione alle ricorrenti esigenze di ‘ri- conversione’, tipiche di questo settore; la proposta di una ‘cultura del lavoro’ che sappia riesprimere alla luce del Vangelo la relazione dell’uomo con la macchina e la materia, nonché la problematica sociale e sindacale. A tal fine occorre che, anche in sede di riforma legislativa della scuola secondaria superiore, si assicuri tutela adeguata a Centri e servizi che hanno arricchito la nostra società e di cui il Paese ha tuttora bisogno” (CEI, n. 56). La cornice entro cui la FP di ispirazione cristiana si colloca è quella desumibile dalla Dottrina sociale della Chiesa (→ Insegnamento sociale della Chiesa) ossia da quel magistero dottrinale che è contenuto nelle Enci- cliche sociali in particolare a partire dalla Rerum novarum (1891). Esse esprimono la coscienza storica della Chiesa in materia sociale e nello stesso tempo indivi- duano principi e criteri orientativi permanenti in grado di orientare l’azione dei fe- deli nel campo sociale, del lavoro e dell’ → economia: Quadragesimo anno (1931), Mater et Magistra (1961), Pacem in terris (1963), Populorum progressio (1967), Octogesima adveniens (1971), Laborem exercens (1981), Sollecitudi rei socialis (1987), Centesimus annus (1991). In particolare le tematiche del rapporto tra formaz., lavoro ed economia vengono affrontate nella Laborem exercens finalizzata alla lettura del lavoro quale ambito di manifestazione dell’umano e quindi affer- mando l’uomo quale collaboratore del proprio ambito professionale e non mera- mente oggetto dell’attività economico produttiva. L’interpretazione antropologica- mente ricca e innovativa del lavoro viene espressa nella Sollecitudo rei socialis e nella Centesimus annus che sottolinea il principio della formazione umana e pro- fessionale di base per tutti i lavoratori e quello della compartecipazione alla diretta gestione del proprio ambito produttivo. 2. Nuovi compiti e prospettive della FP di i.c. Oggi un punto d’avvio importante è costituito dalla presa d’atto dell’importanza dell’ → educ. permanente quale dina- 139 mica vitale dell’uomo strettamente collegata al suo processo di progressiva → per- sonalizzazione. Si tratta dell’assieme di proposte, opportunità, esperienze emergenti dalla → società finalizzate a collaborare con l’individuo in funzione della sua cre- scita personale e della sua progettazione esistenziale. In questo contesto, la FP si presenta come una particolare proposta intesa a collaborare con la → famiglia nella → educ. iniziale dei soggetti in età evolutiva e in cui vanno coniugati la formaz. di base e il perfezionamento professionale. Da qui deriva la possibilità di intendere la FP non come un addestramento finalizzato esclusivamente all’ → insegnamento di destrezze manuali, ma come un principio pedagogico capace di rispondere alle esi- genze del pieno sviluppo della persona secondo un approccio specifico fondato sul- l’esperienza reale e sulla riflessione in ordine alla prassi che permette di intervenire nel processo di costruzione dell’→ identità personale. In questo senso, la FP può es- sere pensata anche nell’età dello sviluppo come una specifica linea formativa ca- pace di promuovere una formaz. integrale della persona seguendo un percorso meto- dologico e didattico proprio, distinto da quello previsto dall’istruz. scolastica. Questa possibilità è in linea con la tradizione storica della FP di i.c. che, attraverso molteplici esperienze di istituti religiosi maschili e femminili, ne ha saputo speri- mentare i concreti modelli di attuazione e i riferimenti pedagogici. Si tratta di dar vita, fondamento e riconoscimento pubblico ad un sistema di sostegno della → FP iniziale e continua e nello stesso tempo di delinearne le strategie didattiche ade- guate. I principi pedagogici ispirativi, desumibili e coerenti con l’antropologia cri- stiana, in grado di condizionare sia la concezione dell’economia che quella del la- voro, potrebbero essere espressi nel seguente modo: a) nel mondo del lavoro si rea- lizzano non solo attività produttive di beni e di servizi, bensì anche produzione di cultura, maturazione di modalità di accesso individuale alla → cittadinanza e consa- pevolezza della propria dignità umana; b) la formaz. esclusivamente mirata alla pro- duttività individuale ingenera distorsioni nella lettura del lavoro considerato unica- mente in funzione del guadagno trasformando il produttore in consumatore e non in un uomo consapevole dell’autentico valore spirituale del lavoro; c) è necessario non perdere il riferimento al primato dello spirito, alla giusta gerarchia dei valori e alla connessione tra i diversi aspetti delle attività umane; porre il lavoro a servizio dell’“azione” vale a dire di quell’attività – il vivere sociale e la comprensione tra gli uomini – che è più autenticamente e propriamente umana; l’apporto di beni e la fab- bricazione di strumenti hanno valore non in funzione esclusiva del prolungamento della pura sopravvivenza, ma perché permettono di affrontare la vita proponendosi mete proporzionali alla vocazione dell’uomo “immagine e somiglianza di Dio”. Bibl.: CEI, La scuola cattolica oggi in Italia, Roma, 1983; COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente. Documento di lavoro dei servizi della Commissione, Bruxelles, SEC (2000) 1832, 30.10.2000; ID., Realizzare uno spazio europeo dell’ap- prendimento permanente. Comunicazione della Commissione, Bruxelles, COM(2001) 678 definitivo, 21.11.2001; S. CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, La scuola cattolica alle soglie del terzo millennio, Roma, 1999; ID., La scuola cattolica, Roma, 1977; CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, Gli obiettivi dei sistemi di istruzione e formazione. Relazione del 14/02/01, in “Docete” 56 (2001) 9, 439-452; FILIPPI N., “Verso una nuova concezione del lavoro”, in L. SECCO (Ed.), Il rinnovamento 140 scientifico nelle istituzioni del terzo millennio, Verona, Morelli Editore, 2000; FONTANA F. - G. TAC- CONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, Roma, Tipografia Pio XI, 2003; Il confronto europeo. Prefazione, in Obbligo scolastico e obbligo formativo. Sistema italiano e con- fronto europeo, in “Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione” n. 92/93, Firenze, Le Monnier, 2001, 134-139; MALIZIA G., Società cognitiva e politiche della formazione nell’Unione Eu- ropea, in “ISRE” VI (1999) 1, 28-50; TOSO M., Verso quale società. La dottrina sociale della Chiesa per una nuova progettualità, Roma, LAS, 2002; UFFICIO NAZIONALE CEI PER L’EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L’UNIVERSITÀ - UFFICIO NAZIONALE CEI PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO, Per un sistema educativo di istruzione e di formazione. Sussidio pastorale, 2006. B. Stenco ISTRUZIONE E FP 1. L’endiadi “istruz. e FP” è ripresa di peso dall’art. 117 della Costit. rinnovato con la L. costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Essa ha poi trovato un preciso svi- luppo ordinamentale nella L. delega n. 53/03. L’insieme delle norme da cui scatu- risce porta a ritenere che non indichi semplicemente l’accostamento estrinseco o la riunificazione sotto la competenza regionale dell’“istruz. professionale statale” che conosciamo (attualmente frequentata dal 21% dei giovani di una generazione) e della → “FP regionale” che conosciamo (attualmente frequentata dal 7-8% dei giovani di una generazione), ma che pretenda riferirsi ad un percorso formativo unitario secondario (14-18 anni) e superiore (18-23 anni) di pari dignità con quello liceale e universitario, che metta al centro del proprio costituirsi due con- sapevolezze. La prima è che i giovani hanno il diritto di maturare → professiona- lità spendibili sul → mercato del lavoro a partire dalla → qualifica professionale secondaria, per passare poi, se lo desiderano, al diploma professionale secon- dario, al diploma professionale superiore e al diploma professionale di alta forma- zione. Ciò nella prospettiva di un percorso formativo flessibile che possa contem- plare in maniera strutturale entrate e uscite dal mondo del → lavoro o, addirittura, lo svolgimento dei percorsi formativi nel e sul mondo del lavoro (→ alternanza scuola lavoro, oppure → apprendistato rinnovato secondo la legge Biagi), a se- conda delle → motivazioni e delle scelte dei giovani. La seconda consapevolezza è che oggi, in una → società della conoscenza e in una società attenta ai diritti educativi delle persone, non è più pensabile nessuna → professionalità, perfino quella ritenuta di basso profilo, che non sia e non debba essere allo stesso tempo colta, istruita, che non debba fare i conti con l’esercizio dei diritti di → cittadi- nanza e, ancora di più, che non abbia a cuore la → formaz. umana globale della persona. I tempi in cui si poteva ancora pensare alla costruzione di professionalità segmentate e fordiste, addestrative e non critico-educative, che si ponessero come fine dei → processi formativi dei giovani e non come mezzo per lo sviluppo inte- grale di tali processi sono definitivamente tramontati. In questo senso, l’endiadi “istruz. e FP” secondaria (14-18 anni) e superiore (18-23 anni) costituisce forse la più innovativa sfida ordinamentale, culturale e pedagogica posta alle → politiche formative del nuovo millennio. 141 2. La L. costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, per la prima volta nella storia del no- stro ordinamento, distingue tra “istruz.”, a legislazione concorrente tra Stato e Re- gioni, salvo che per le “norme generali” e i “principi fondamentali” che restano alla legislazione esclusiva dello Stato e “istruz. e FP” secondaria e superiore a legisla- zione esclusiva regionale, salvo che per i LEP (→ livelli essenziali di prestazione), che competono in via esclusiva allo Stato. La L. delega 28 marzo 2003, n. 53, pren- dendo atto di queste disposizioni, ha interpretato l’“istruz.” come l’ambito del si- stema educativo nazionale contenente la scuola dell’infanzia, la scuola primaria, la scuola secondaria di I grado e i licei e l’“istruz. e FP” come l’ambito del sistema educativo nazionale a cui riferire tutta quella ricca serie di istituti nati storicamente per corrispondere alle esigenze formative dei ragazzi dai 14 anni in avanti attra- verso la valorizzazione del lavoro e della professionalità (istituti tecnici professio- nalizzanti, istituti professionali, → CFP). In questa prospettiva, non parla più di “istruz. classica” e “istruz. tecnica” (come fece la L. Casati del 1859), oppure di “istruz. liceale e magistrale”, di “istruz. tecnica”, di “istruz. professionale” come ci aveva abituato a fare il Fascismo tra il 1927 e il 1939 e come i successivi 50 anni di Repubblica, in sostanza, non solo hanno confermato, ma addirittura amplificato, né si esprime più soltanto in termini di “FP” (L. quadro 21 dicembre 1978, n. 845) per differenziare i corsi regionali rispetto all’“istruz. professionale” da mantenere sta- tale. Azzera questa quadripartizione concettuale, linguistica e ordinamentale, per- fino burocratica (si ricordino le vecchie direzioni generali del Ministero!) e la ri- conduce, invece, alla bipartizione “sistema dell’istruz. liceale” e “sistema dell’i- struz. e FP” secondario e superiore all’interno dell’unico “sistema educativo di istruz. e formaz.” che (art. 1, co. 1.) ha come fine unitario “la crescita e la valoriz- zazione della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle diffe- renze e dell’identità di ciascuno e delle scelte educative della famiglia, nel quadro della cooperazione tra scuola e genitori, in coerenza con il principio di autonomia delle istituzioni scolastiche e secondo i principi sanciti dalla Costituzione”. Il “si- stema dei Licei” e il “sistema dell’istruz. e FP”, inoltre, sono dichiarati dalla legge complementari e interconnessi (art. 2, co. 1, lettera i) e, proprio per questo, di pari dignità culturale. Ecco perché si dice che l’insieme dell’offerta formativa prevista dalla riforma del sistema educativo di istruz. e di formaz. disegnata dalla L. delega 53/03 può essere organizzata attorno all’idea del campus. Si tratta di riorganizzare, anche territorialmente, le scuole attualmente esistenti (licei, istituti tecnici, istituti professionali, CFP e apprendistato formativo) in un sistema educativo unico, arti- colato al proprio interno in un (sotto)sistema dei licei e in (sotto)sistema dell’istruz. e FP, reciprocamente interconnessi e di pari dignità culturale, tali da favorire la → personalizzazione dei percorsi formativi dei giovani. È importante a questo punto approfondire la differenza tra la “FP” in senso stretto (che non è eliminata dalla normativa) e l’“istruz. e FP” secondaria e superiore di cui si diceva. L’espressione “FP”, da sola, nella nostra Costit. appare esclusivamente all’art. 35, co. 2, per di più con un pleonasmo esplicativo interessante. Tale comma, infatti, affida alla Re- pubblica (si badi bene: alla Repubblica e non allo Stato, che è solo una delle com- 142 ponenti della Repubblica1) “la formazione e l’elevazione professionale dei lavora- tori”. Questo art., come è noto, è inserito nella Parte I, Titolo III della Costit., inti- tolato ai Rapporti economici. Si riferisce, perciò, alla “formazione e all’elevazione professionale” che si svolge nelle aziende, non al servizio della maturazione inte- grale della persona, ma al servizio del lavoro, e che ha come fine il miglioramento dei processi lavorativi aziendali che coinvolgono imprenditore e lavoratore, nonché il miglioramento della posizione retributiva del lavoratore, non l’→ educ. integrale della persona del lavoratore. È interessante sottolineare che la formaz. e l’eleva- zione professionale di cui si discute non coinvolge, invece, e non può coinvolgere, il “diritto all’istruzione per almeno otto anni” inserito nella Parte I, Titolo II della Costit., intitolato ai Rapporti etico-sociali, e di cui si parla all’art. 34 co. 2., il quale rimanda, ovviamente, a sua volta, al precedente art. 33 della Costit. dedicato al si- stema di istruz. della Repubblica. Questo diritto, infatti, riformulato come “diritto dovere di istruzione e formazione per almeno 12 anni o comunque fino all’otteni- mento di una qualifica” dalla L. delega 53/03 e dal conseguente D.lgs. 15 aprile 2005, n. 76, proprio perché afferente alla sfera dei Rapporti etico sociali (artt. 33 e 34 della Costit.) e non a quella dei Rapporti economici (art. 35 e 38 della Costit.), non può essere pensato, promosso ed erogato per un fine diverso dalla maturazione etico-sociale della persona, anche quando dovesse riguardare aspetti professionali. A segnalare, perfino nel linguaggio, questa diversità di riferimenti, di orizzonti e di fini sia la L. 53/03, sia il D.lgs. 15 aprile 2005, n. 76 non parlano più, così, soltanto di “FP”, ma adoperano non a caso, come abbiamo visto, la ben più pregnante e pro- grammatica espressione di “istruz. e FP”. Bibl.: BERTAGNA G., Cultura e pedagogia per la scuola di tutti, Brescia, La Scuola, 1992; ID., La ri- forma necessaria. La riforma della secondaria a settant’anni dalla riforma Gentile, Brescia, La Scuola, 1994; ID. (Ed.), Alternanza scuola-lavoro. Ipotesi, modelli, strumenti dopo la riforma Moratti, Milano, F. Angeli, 2003; ID., Pensiero manuale. La scommessa di un sistema educativo di “istru- zione” e di “istruzione e formazione professionale” di pari dignità, Soveria Mannelli (CZ), Ed. Rub- bettino, 2006. G. Bertagna ISTRUZIONE FORMAZIONE TECNICA SUPERIORE (IFTS) → FP superiore 1 Le “formazioni sociali” all’interno delle quali ogni persona svolge la propria personalità, rico- nosciute e garantite dalla Repubblica (art. 2, co. 1 della Costituzione) e che “costituiscono” la Repub- blica, sono le seguenti: la comunità religiosa cattolica (art. 7 della Costituzione); qualsiasi altra comu- nità religiosa confessionale (art. 8); la famiglia (artt. 29 e 30); la scuola (intesa non come struttura mi- nisteriale, ma come insieme delle istituzioni scolastiche autonome) e l’università (artt. 33 e 34); le as- sociazioni volontarie di assistenza (art. 38); i sindacati (art. 39), le imprese (artt. 41 e 46); le unioni co- operative (art. 46); i partiti politici (art. 49); tutti gli enti locali e territoriali (Titolo V: Comuni, Pro- vince, Regioni). 143 LABORATORIO Il l. non è una scoperta dei nostri giorni, anche se è sempre difficile paragonare la nostra realtà con quella di alcuni secoli addietro. Il termine ha diversi significati. Si parla di l. dei giovani, l. di storia, l. di psicologia, l. informatica, l. matematica… In ambito formativo, il l. inizialmente è nato interessandosi quasi esclusivamente delle scienze sperimentali. La proposta venne dagli Stati Uniti nella prima metà del sec. XIX. In Europa si è sviluppato, particolarmente intorno agli anni ’60 come l. per le lingue. Un notevole impulso lo ha avuto come supporto della scuola attiva, che cer- cava di coinvolgere maggiormente le persone, renderle attive nell’→ apprendi- mento. Il termine richiama un ambiente provvisto di strumenti, materiali e richiede, nelle persone che lo frequentano, una partecipazione diretta per ricercare, speri- mentare e produrre dei risultati. Oggi si parla anche di metodo di l. usato non solo nell’ambito di → processi formativi di → insegnamento-→ apprendimento, ma anche quando si organizzano corsi e convegni, in particolare per facilitare ai parte- cipanti la possibilità di lavorare, singolarmente o in gruppo, su ipotesi e proposte concrete mettendo a disposizione spazio, materiali, una varietà di documentazioni e supporti adeguati. In campo professionale, per l. si intende normalmente il luogo dove si apprendono abilità manuali, costruendo oggetti, impianti, sperimentando prodotti, simulando aspetti e fenomeni della realtà lavorativa legata alla specializ- zazione scelta. Il l. come strategia didattica permette di collegare con efficacia la costruzione del sapere ai fatti e alle esperienze o come sovente si usa dire di colle- gare la teoria con la pratica. Bibl.: BANZATO M., Imparare insieme: laboratorio di didattica dell’apprendimento cooperativo, Roma, Armando, 2002; FRABBONI F., Il laboratorio, Bari, Laterza, 2004; CHISTOLINI S., Il manuale del laboratorio universale di pedagogia, Milano, F. Angeli, 2006. N. Zanni LAVORO In ped., si intendono quelle attività che coinvolgono la persona nella sua totalità. 1. La cultura classica, concependolo come fatica da schiavi e negazione dell’→ educ. dell’uomo “bello e buono”, lo ha definito come disumano; impostazione dif- fusasi, attraverso l’età ellenistica e la cultura latina, fino ad oggi, penalizzando la → formaz. e l’ → istruz. professionali e rendendo arduo il definirsi di una “cultura del l.” quale percorso, paritario alla cultura “umanistica”, di piena formaz. 2. Dal punto di vista educativo, il l. è “logica in atto”, un operare sulle cose attraver- so il ricorso al pensiero e alla riflessione, è esercizio del giudizio nel riconoscimento della bontà e giustezza di quanto si sta realizzando, fonte di coinvolgimento nei pro- cessi realizzativi oltre che gestionali e decisionali dell’→ impresa, forma umana di collaborazione all’opera redentiva nella ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. L’in- 144 troduzione del concetto di risorsa umana e di → società cognitiva, ne ha esaltato gli aspetti attinenti alla → identità personale, sottolineandone i risvolti cognitivi, di → problem solving, di capacità relazionale ed autoorganizzazione tipici delle → profes- sionalità di controllo. Si presenta come potenziale luogo di produzione di cultura pro- fessionale oltre che forma di accesso alla → cittadinanza, pienamente contribuendo sia alla formaz. dell’uomo come al suo aggiornamento tecnico e professionale. 3. Essendo manifestazione tipica di umanità, dovrebbe trovare spazio all’interno di ogni itinerario di istruz. e formaz., divenendo esso stesso un percorso di formaz. umana; richiede altresì una peculiare attenzione nei processi di formaz. dell’iden- tità personale, di costituzione di quadri cognitivi e di linguaggi specifici, secondo modalità peculiari di socializzazione e di → orientamento. Bibl.: SS. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Laborem exercens, Città del Vaticano, Libreria Edi- trice Vaticana, 1981; ID., Lettera enciclica Centesimus annus, Città del Vaticano, Libreria Editrice Va- ticana, 1991; BOCCA G., Appunti per una diversa educazione al lavoro, in “Studium Educationis”, 4 (1998), 774-779. G. Bocca LIBERTÀ DI EDUCAZIONE La l. di educ. consiste nella libertà di scelta della scuola o del → CFP da frequen- tare secondo le proprie convinzioni. Non è un diritto né di una minoranza, né di una maggioranza, ma è una libertà fondamentale della persona umana. 1. I fondamenti. Sul piano antropologico si basa si basa sul diritto di ogni persona ad educarsi e ad essere educata secondo le proprie convinzioni e sul correlativo diritto dei genitori di decidere dell’→ educ. e del genere d’istruz. da dare ai loro figli mino- ri. La l. di educ. è connessa strettamente con due principi pedagogici oggi particolar- mente sottolineati e cioè che l’educando occupa il centro del → sistema formativo e che l’autoformazione è la strategia principale del suo → apprendimento. Dai due principi discende logicamente che a ogni persona va assicurato il diritto ad educarsi scegliendo liberamente il proprio percorso tra una molteplicità di vie, strutture, con- tenuti, metodi e tempi, cioè che a ogni persona deve essere assicurata la l. effettiva di educ. In aggiunta, l’educ. di ogni persona, di tutta la persona, per tutta la vita – la fi- nalità ultima dell’→ educ. permanente – è un compito talmente ampio e complesso che la → società non lo può affidare ad una sola agenzia educativa – la scuola – o ad una solo istituzione – lo Stato. Accanto allo Stato, tutti i gruppi, le → associazioni, i → sindacati, le comunità locali e i corpi intermedi devono assumere e realizzare la responsabilità educativa che compete a ciascuno di loro. Nell’ultimo scorcio del XX sec. si è realizzato particolarmente nel nostro continente il passaggio dallo Stato-ge- store allo Stato-garante promotore. Pertanto, la realizzazione del benessere non do- vrà essere affidata tanto a pacchetti di beni o servizi erogati direttamente da parte dello Stato o delle sue strutture, quanto alla garanzia della possibilità di produrli at- traverso forme di autorganizzazione e autogestione degli stessi cittadini con il soste- 145 gno dello Stato. L’affermarsi della → solidarietà rinvia a una impostazione della di- namica sociale a tre dimensioni che abbandoni la dicotomia Stato/mercato, pubbli- co/privato e che riconosca e potenzi il terzo settore o privato sociale. In questo ambi- to assume una particolare rilevanza il principio di → sussidiarietà, secondo il quale tutte le attività di servizio alla persona (e quindi anche il servizio scolastico) sono prioritariamente da esercitarsi da parte di quelle formazioni sociali alle quali origina- riamente la persona appartiene. A livello internazionale la l. di educ. trova un ricono- scimento implicito nell’art 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e uno esplicito nella risoluzione del Parlamento Europeo del 14.3.84. 2. I regimi giuridici della l. di educ. Le formule che sembrano garantire egua- glianza e libertà sono: 1) ordinamenti in cui pubblico e privato hanno identico rico- noscimento e trattamento sia giuridico che economico (sistema formativo inte- grato); 2) ordinamenti in cui al sistema non statale è riconosciuto, a condizioni pre- fissate, un trattamento analogo a quello delle scuole pubbliche statali per quanto ri- guarda la spesa per il personale ed (eventualmente) il contributo totale o parziale per la gestione e/o per le spese relative ad edifici e attrezzature (regime delle con- venzioni); 3) il buono scuola. Di conseguenza vanno respinti quei tipi di regola- mentazioni che non corrispondono a criteri di eguaglianza sostanziale come: qual- siasi forma di monopolio dello Stato sulla scuola; una concezione puramente sup- pletiva della funzione della scuola cattolica; la logica dei sussidi discrezionali e una certa visione totalizzante e assistenzialistica delle attività scolastiche. 3. La l. di educ. nella Chiesa. Parallelamente, anche se con ritmi diversi, la Chiesa ha compiuto un cammino che l’ha portata su posizioni coincidenti sostanzialmente con l’evoluzione dei modelli di sviluppo dell’educ. a livello internazionale, eu- ropeo e nazionale. Nella dichiarazione conciliare sull’educ. cristiana, “Gravis- simum Educationis”, la parità tra scuola cattolica e scuola statale è fondata sul di- ritto dei genitori a una reale l. di scelta della scuola a cui corrisponde il dovere dei pubblici poteri di renderne l’esercizio effettivo mediante sovvenzioni. Tale obbligo è visto nel quadro dell’osservanza della giustizia distributiva e del rispetto del prin- cipio di sussidiarietà che esclude ogni forma di monopolio scolastico. Alla società civile vengono attribuite precise responsabilità educative: in germe è già presente l’idea della “cité éducative” del Rapporto Faure. 4. La l. di educ. in Italia. La Costituzione Repubblicana ha inserito il sistema forma- tivo in un quadro nuovo di principi, superando nella sostanza la vecchia impostazio- ne statalista e centralista. Il punto problematico è rappresentato dalla famosa clauso- la costituzionale, contenuta nell’art. 33, co. terzo, secondo la quale il diritto di isti- tuire scuole è riconosciuto ad → Enti e privati “senza oneri per lo Stato”. Grosso modo le interpretazioni possono essere raccolte intorno a tre nuclei fondamentali. Per alcuni il significato della clausola è evidente e, pur riconoscendo che ormai è sancito chiaramente il diritto di istituire le scuole libere, tuttavia si sostiene che lo Stato non è tenuto a erogare loro → finanziamenti; al massimo si potrebbe pensare a 146 contratti o ad aiuti in casi di reale supplenza. Altri sono dell’opinione che la norma- tiva in questione intende semplicemente escludere un diritto costituzionale dei pri- vati ai contributi dello Stato; essa però non vieta qualsiasi sovvenzione dello Stato alle strutture libere. Altri infine ritengono che la tesi del divieto è in contraddizione con il resto della nostra costituzione scolastica; tutt’al più la proibizione riguarde- rebbe le istituzioni meramente private, vere imprese commerciali finalizzate a scopo di lucro, ma non le paritarie – contemplate, tra l’altro, in una co. diverso dell’art. 33 – che svolgerebbero un servizio pubblico. Dal Dopoguerra in poi sono stati elabora- ti numerosi testi tra schemi di disegni di legge, disegni e proposte sulla l. di educ., ma nessuno è stato mai discusso seriamente in Parlamento, se non il disegno di leg- ge presentato dal Governo Prodi nel luglio 1997 che è divenuto la L. 62/00. Di que- sto testo risultano certamente positivi alcuni principi giuridici in esso recepiti, co- me: la scelta di legittimare la parità sulla base della domanda formativa delle fami- glie e degli studenti; l’idea di un sistema nazionale di istruz. che non si identifica con la scuola dello Stato e degli Enti locali, ma del quale sono parte integrante scuo- la statale e non statale; il riconoscimento del carattere di servizio pubblico a quelle iniziative di istruz. e formaz. che, promosse da Enti e privati, corrispondono alle norme generali sull’istruz.; l’attribuzione alle scuole paritarie della piena l. culturale e pedagogica con il diritto di dichiarare nel progetto educativo la propria ispirazione ideologica o religiosa; il conferimento al gestore della l. di scegliere il personale di- rigente e docente, senza interferenza di graduatorie. Gli aspetti problematici della legge riguardano soprattutto la realizzazione del tutto inadeguata della l. di educ. della → famiglia, e l’ambiguità presente già nel titolo che mescola parità e diritto al- lo studio e all’istruz. In questa situazione non sorprende che in Italia le scuole non statali accolgano soltanto il 12% di tutti gli alunni del sistema (Relazione al Parla- mento, 2004). In prospettiva di futuro, c’è da augurarsi che si vada nella direzione del “passaggio da una scuola sostanzialmente dello Stato a una scuola della società civile, certo con un perdurante ed irrinunciabile ruolo dello Stato, ma nella linea della sussidiarietà” (Ruini, 2000, 61), adottando uno dei regimi giuridici richiamati sopra che assicurino la realizzazione effettiva della l. di educ. Bibl.: BENEDETTO XVI, Legittima una sana laicità dello Stato, in “Docete”, 61 (2006) 4, 149-152; DALLA TORRE G., “Il dibattito sulla parità: gli aspetti giuridico-politici”, in CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), Scuola cattolica in Italia. Primo Rapporto, Brescia, La Scuola, 1999, 85-100; Gra- vissimum Educationis. Dichiarazione sulla Educazione Cristiana. Concilio Ecumenico Vaticano II, Roma, 1965; MALIZIA G. - S. CICATELLI, “La scuola cattolica nel contesto ecclesiale e civile”, in CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), Dirigere e coordinare le scuole. Scuola cattolica in Italia. Sesto Rapporto, Brescia, La Scuola, 2004, 203-234.; MALIZIA G. - P. DE GIORGI - G. MONNI - B. STENCO, “Un’ipotesi di scuola della società civile: il contributo dell’assemblea nazionale sulla scuola cattolica”, in VERSARI S. (Ed.), La scuola della società civile tra Stato e mercato, Soneria Man- nelli (CZ), Ed. Rubbettino, 2002, 9-30; Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 10 marzo 2000, 62, Roma, MIUR, 2004; RUINI C., “Prolusione”, in CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), Per un progetto di scuola alle soglie del XXI secolo. Scuola Cattolica in Italia. Secondo rapporto, Brescia, La Scuola, 2000, 55-68; SORCIONI M., Oltre la parità, un nuovo modello educativo, in Istruzione e sistema scolastico. Verso la parità tra i soggetti d’offerta, in “CENSIS Note & Com- menti”, 34 (1999) 10-11, 7-31. G. Malizia 147 LIBRETTO FORMATIVO Il l.f. del cittadino, definito in sede istituzionale nazionale ai sensi dell’Accordo Stato-Regioni del 18 febbraio 2000, rappresenta “il libretto personale del lavoratore (…) in cui vengono registrate le competenze acquisite durante la formazione in ap- prendistato, la formazione in contratto di inserimento, la formazione specialistica e la formazione continua svolta durante l’arco della vita lavorativa ed effettuata da soggetti accreditati dalle Regioni, nonché le competenze acquisite in modo non for- male e informale secondo gli indirizzi della Unione europea in materia di apprendi- mento permanente, purché riconosciute e certificate” (D.Lgs. 276 del 10 settembre 2003, art. 2, co. i). Esso è quindi uno strumento pensato per raccogliere, sintetiz- zare e documentare le diverse esperienze di → apprendimento dei cittadini lavora- tori nonché le → competenze da essi comunque acquisite: nella scuola, nella → formaz., nel → lavoro, nella vita quotidiana. Ciò al fine di migliorare la leggibilità e la spendibilità delle competenze e l’→ occupabilità delle persone. Viene gestito e rilasciato a cura delle Regioni e Province Autonome nell’ambito delle loro esclu- sive competenze in materia di FP e → certificazione delle competenze. Questo stru- mento appartiene alla categoria di innovazioni che mirano ad accompagnare la per- sona in un contesto lavorativo sempre più soggetto ai cambiamenti, e si fonda sul concetto di competenza e di → credito formativo. Esso si presenta come uno stru- mento dinamico in grado di accompagnare la persona in tutto l’arco della sua espe- rienza formativa e lavorativa in coerenza con il concetto di lifelong learning che comporta per gli individui una formaz. lungo tutto il corso della vita, in grado di valorizzare le proprie → capacità ed esperienze ed inoltre di apprendere in modo continuo esercitando i propri diritti di → cittadinanza e di sviluppo professionale. Questa concezione è coerente con le strategie e le azioni dell’UE finalizzate alla trasparenza delle competenze e alla → mobilità delle persone tanto che il l.f. può essere considerato il corrispettivo italiano di “Europass”, il passaporto delle → qua- lifiche e delle competenze che favorisce la “portabilità” delle stesse in Europa, con la differenza che il l.f. rappresenta la carta d’identità per muoversi sia sul territorio nazionale, sia attraverso le diverse esperienze di apprendimento e lavoro. È infine coerente con la Borsa Continua del Lavoro per favorire l’incontro domanda-offerta di lavoro. Il l.f. è dunque utile e fruibile dal → mercato del lavoro e dal sistema del- l’education, ma è primariamente uno strumento di valorizzazione della persona, che volontariamente sceglie di utilizzarlo, nonché riconoscibile dalle istituzioni per la garanzia e la tutela dei soggetti. Esso infatti fornisce informazioni sul soggetto e sul suo curriculum di apprendimento formale, non formale e informale, per la ri- cerca di un lavoro, per la mobilità professionale e per il passaggio da un → sistema formativo all’altro; rende riconoscibili e trasparenti le competenze comunque ac- quisite e sostiene in questo modo l’occupabilità e lo sviluppo professionale; aiuta gli individui a mantenere consapevolezza del proprio bagaglio culturale e profes- sionale anche al fine di orientare le scelte e i progetti futuri. Attualmente il l.f. è in fase di → sperimentazione in 11 Regioni e Province Autonome, con modalità di ap- 148 plicazione differenziate nelle singole Regioni, ma secondo un piano di lavoro co- mune e condiviso. A partire dagli esiti di tale sperimentazione, si potrà avviare la diffusione e la messa a regime del l.f. per tutti i cittadini che lo richiederanno. Bibl.: AUTIERI E. - G. DI FRANCESCO, La certificazione delle competenze. Innovazione e sostenibilità, Milano, F. Angeli, 2000; FREGA R., Dalla competenza alla navigazione professionale, “Professiona- lità” 62 (2001) 7-18; ALBERICI A. - SERRERI P., Competenza e formazione in età adulta. Il bilancio di competenze, Roma, Monolite Editore, 2002; ISFOL. La certificazione delle competenze: analisi com- parativa internazionale dei dispositivi di certificazione di alcuni Paesi europei - Materiali di lavoro ISFOL 2003; PUGLIESE S., Valutazione e sviluppo delle competenze, Milano, IPSOA, 2004; BORDI- GNON B., Certificazione delle competenze, Soveria Mannelli (CZ), Ed. Rubbettino, 2006. D. Nicoli LINGUA STRANIERA 1. Ambito della disciplina. La l.s., a differenza della l. seconda, è anche “estranea”, lontana dall’ → ambiente in cui vivono quotidianamente gli utenti della → FP. Per evitare che l’estraneità fisica si tramuti in estraneità psicologica e in caduta della → motivazione, è necessario staccare l’allievo dalla sua realtà locale nel momento in cui studia una l.s., abbinando quest’ultima allo studio della cultura straniera. Nelle migliori realizzazioni dell’approccio strutturalistico, nell’ → insegnamento veniva coinvolto un parlante nativo, che con la sua sola presenza avrebbe dovuto condizio- nare l’allievo, aprirlo alla lontana realtà della cultura straniera. Negli anni ‘60 e ‘70, fu invece tentata la creazione di “aule di civiltà”, che dovevano dare allo stu- dente la sensazione di essere nel Paese straniero. Oggi la soluzione al problema del dépaysement, tipico di chi studia una l.s., è affidato all’uso dei mass media attra- verso la televisione satellitare e Internet. La l.s. è articolabile nei seguenti ambiti: la l. intesa come sistema che permette di esprimere concetti e di comunicare (aspetto fonetico-lessicale-grammaticale riferito ai suoni, alla parola, alla frase e al testo); la l. intesa come semantica ovvero i significati; la l. intesa come pragmatica (aspetti del registro, contesto comunicativo, forme testuali) e, infine, la l. intesa come cul- tura (produzioni letterarie e artistiche e saperi di varia natura). 2. Finalità formative della l.s. Le finalità formative da raggiungere attraverso l’→ apprendimento di una lingua e cultura straniere si possono riferire a tre ambiti: saper essere, rappresentato da finalità etiche come la consapevolezza della propria → identità e rispetto delle diverse identità culturali; saper fare, rappresentato da fi- nalità relazionali quali l’interazione e la → comunicazione con persone di culture diverse dalla propria; sapere, rappresentato da finalità cognitive quali la cono- scenza di culture e di sistemi linguistici diversi dal proprio. Autopromozione, so- cializzazione e culturizzazione sono le tre mete da raggiungere attraverso l’inse- gnamento/acquisizione di una l.s. 3. Certificazione della competenza in l.s. La descrizione di → competenze speci- fiche in l.s. copre gli ambiti della comprensione del testo scritto e del discorso 149 ascoltato e della produzione del testo scritto e del discorso parlato. Si fonda sui parametri: attività linguistica, scopi della comunicazione, contesti, interlocutori, ar- gomenti, testi, lessico, strutture linguistiche, fluenza nella produzione orale e cor- rettezza nella produzione scritta. Prestazioni definibili con gli stessi parametri pos- sono dimostrare il possesso di una medesima competenza a diversi livelli qualita- tivi ed essere quindi poste a → obiettivo nei diversi gradi della FP o essere giudi- cate secondo scale di valori classiche (sufficiente, buono, di eccellenza, o altre). Oggi, la certificazione europea manifesta esigenze diverse. L’elaborazione dei cur- ricoli di l.s. è facilitata dal Framework of reference del Consiglio d’Europa che ar- ticola la padronanza linguistica in sei livelli, sganciati dai programmi formativi dei Paesi membri e dalle tipologie di scuola seguita. Il “Portfolio europeo delle lingue”, o documento che accompagna coloro che studiano una lingua nel loro per- corso di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, permette al giovane cittadino europeo di registrare i propri apprendimenti linguistici, di riflettere sul proprio pro- cesso di apprendimento e sui risultati raggiunti, di porre nuovi obiettivi definendo e programmando le tappe del proprio apprendimento. 4. L’insegnamento delle microlingue straniere a servizio della competenza profes- sionale. Nella FP è indispensabile fornire insegnanti competenti nelle microlingue (nella fattispecie, nella microlingua dell’informatica) che siano attenti a un ambito disciplinare e culturale. In particolare, l’insegnamento dell’ESP (English for Spe- cial Purposes) ha l’obiettivo di far seguire da vicino il mutamento del mondo scientifico-professionale, di analizzare l’innovazione linguistica indotta dal diffon- dersi delle reti telematiche che costituiscono uno dei più comuni canali di trasmis- sione di messaggi microlinguistici, e di approfondire la natura di testi che sempre più spesso si presentano in forma multimediale. Bibl.: QUARTAPELLE F. (Ed.), Per un curricolo di lingua straniera: Criteri per la redazione del curri- colo, in “Annali della Pubblicazione Istruzione” 3-4 (1999) 90-94; BALBONI P., Le microlingue scien- tifico-professionali: Natura e insegnamento, Torino, UTET, 2000; LITTLE D. - R. PERCLOVÁ, Portfolio Europeo delle Lingue: guida per gli insegnanti e i formatori. Strasburgo, Consiglio d’Europa, 2001; BALBONI P., Parlare a Babele. Insegnare le lingue nelle società complesse, Torino, UTET, 2002; POR- CELLI G., Comunicare in lingua straniera: il lessico, Torino, UTET, 2004; PORCELLI G. - B. DI SA- BATO, L’inglese della New Economy. Analisi e didattica, Napoli-Roma, ESI, 2004. C. Cangià LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI (LEP) 1. I LEP rappresentano i requisiti richiesti ad un organismo formativo – indipenden- temente dalla sua natura giuridica, ovvero dal fatto che sia una scuola di Stato, una scuola paritaria, un organismo del privato sociale – affinché i percorsi che esso atti- va siano in grado di soddisfare i diritti civili e sociali dei cittadini. Essi costituiscono nel contempo i requisiti per l’→ accreditamento delle strutture formative presso le Regioni e Province Autonome, secondo l’approccio pluralistico ed aperto sostenuto dall’UE. Questo strumento regolativo, presente nel Decreto 226/05 sul secondo ci- 150 clo degli studi, indica che siamo in presenza di un contesto giuridico decentrato, tendenzialmente federalista, che riconosce il pluralismo dell’iniziativa formativa e che quindi mira a garantire il diritto-dovere di istruz. e → formaz. di tutti i cittadini, senza esclusione di nessuno, e nel contempo disegna un → sistema formativo aperto che non discrimina gli organismi in base al criterio della natura giuridica, ma li va- luta a partire dai requisiti di → qualità che essi sono in grado di garantire. 2. Risulta innanzitutto indispensabile distinguere tra LEP e → standard formativi minimi. Mentre i primi si riferiscono ai percorsi (art. 15, c. 1) e nel contempo sono definiti in quanto requisiti per l’accreditamento e l’attribuzione dell’→ autonomia alle istituzioni formative che realizzano i percorsi (art. 15, c. 3), gli standard for- mativi si riferiscono agli → apprendimenti degli studenti, e ciò è decisivo sia in re- lazione al rispetto degli ambiti di autonomia dello Stato e delle Regioni e Province Autonome, sia in riferimento alla possibilità di dare vita ad una didattica non cen- trata su programmi o curricoli, ma basata sulla costruzione di piani formativi per- sonalizzati adeguati alle necessità ed alle risorse dei soggetti e del contesto. Ma vi è una sovrapposizione tra i due elementi: infatti, come vedremo, uno dei LEP – precisamente l’art. 18 del Decreto – riguarda espressamente il rispetto degli stan- dard minimi delle → competenze così come definiti dall’Accordo Stato Regioni. Il Decreto 226/05 relativo al secondo ciclo degli studi propone una serie di LEP, così specificati. Il primo elemento considerato come livello essenziale è costituito dalle caratteristiche dell’offerta formativa (art. 16), intendendo con ciò alcuni criteri cui si debbono attenere gli organismi erogativi (ma anche le Regioni e Province Auto- nome), e precisamente: il soddisfacimento della domanda di frequenza (conside- rando pure l’→ apprendistato), l’→ orientamento ed il tutorato, la continuità for- mativa, i → tirocini e l’→ alternanza. Il secondo elemento riguarda l’orario mi- nimo annuale (almeno 990 ore anno) e l’articolazione dei percorsi, prevedendo le tipologie triennale e quadriennale, e ciò significa che l’offerta formativa deve con- sentire ai → destinatari di acquisire il titolo di studio della → qualifica e successi- vamente (oppure direttamente, in base ai percorsi) il titolo di diploma professio- nale (art. 17). Il terzo elemento riguarda i percorsi stessi (art. 18) ed indica la ne- cessità di adottare la metodologia della → personalizzazione, il riferimento alle competenze previste dal PECUP (con la distinzione tra competenze dell’area cul- turale – linguistiche, matematiche, scientifiche, tecnologiche, storico sociali ed economiche – e quelle dell’area professionale), l’→ insegnamento della → reli- gione cattolica, il riferimento a figure e → profili professionali di differente livello, gli standard minimi formativi, relativi alle competenze indicate, definiti tramite un accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni. Il quarto elemento si riferisce ai re- quisiti dei docenti (art. 19), distinguendo tra “personale docente” che deve essere in possesso di abilitazione all’insegnamento, ed “esperti” che debbono essere in possesso di documentata esperienza maturata per almeno cinque anni nel settore professionale di riferimento. Ciò consente di articolare le figure dei docenti e di variare l’utilizzo di personale interno ed esterno in una logica di flessibilità e di 151 competenza. Il quinto elemento (art. 20) indica la necessità di una → valutazione collegiale, l’obbligo di rilascio a tutti gli studenti della → certificazione periodica e annuale delle competenze, oltre che del titolo di operatore professionale (per- corso triennale) ovvero di tecnico professionale (percorso quadriennale), la neces- saria presenza di docenti ed esperti nelle commissioni per gli esami, la registra- zione delle competenze certificate sul → “libretto formativo del cittadino”. Si fissa infine il vincolo della frequenza di almeno tre quarti della durata del percorso per poter accedere alla valutazione annuale e all’ammissione agli esami. Il sesto e ul- timo elemento richiede che le strutture ed i relativi servizi (art. 21) abbiano speci- fici organi di governo, garantiscano l’adeguatezza delle capacità gestionali e della situazione economica, il rispetto dei → contratti collettivi nazionali di → lavoro del personale dipendente, inoltre l’accettazione del sistema dei controlli pubblici, la completezza dell’offerta formativa comprendente entrambe le tipologie dei per- corsi triennali e quadriennali, lo svolgimento del corso annuale integrativo di pre- parazione all’esame di Stato, l’adeguatezza dei locali, l’adeguatezza della stru- mentazione didattica, l’adeguatezza tecnologica, la disponibilità di attrezzature e strumenti, la capacità di progettazione e realizzazione di stage e tirocini. I LEP co- stituiscono il riferimento all’accreditamento; da essi risulta pertanto la necessità di una revisione dell’accreditamento degli organismi effettuato precedentemente al- l’introduzione del diritto-dovere di istruz. e formaz., sulla base dei LEP indicati. Ciò dovrebbe portare ad una maggiore selezione degli organismi che Regioni e Province Autonome hanno finora ritenuto idonei all’effettuazione di percorsi di → obbligo formativo (L. 144/99). Bibl.: OSBORNE D. - T. GAEBLER, Dirigere e Governare. Una proposta per reinventare la pubblica amministrazione, Milano, Garzanti, 1995; COMMISSIONE EUROPEA, La governance europea. Un libro bianco, COM (2001) 428 definitivo/2, Bruxelles, 5.8.2001; PALUMBO M., Il processo di valutazione, Milano, F. Angeli, 2001; BATTISTELLI F. (Ed.), La cultura delle amministrazioni, Milano, F. Angeli, 2002; LION C. - P. MARTINI - S. VOLPI, Le sfide per la valutazione nel nuovo contesto di governance, in “Osservatorio ISFOL”, marzo-giugno 2003, 185-205. D. Nicoli MANSIONE Il dizionario definisce la parola m. in due modi: “ciò che una persona deve com- piere quando ricopre una funzione, svolge un incarico (sinonimo = compito); com- plesso dei doveri e delle attività che deve o si trova a svolgere chi fa una determi- nata professione (sinonimo = incombenza)” (Sabatini - Coletti, 1997). Definiamo quindi come m. il compito che è stato assegnato ad un lavoratore e che spesso viene descritto in forma analitica in un mansionario. Nello stesso dizionario viene esplicitato il termine mansionario come un “elenco sistematico e analitico dei com- piti delle diverse categorie di dipendenti di una azienda o di un ente; tabella delle mansioni assegnate a chi ha un determinato compito o lavoro (es.: mansionario del bidello)” (Sabatini - Coletti, 1997). 152 1. Il termine m. viene richiamato in molte disposizioni legislative; ad es. nello “Sta- tuto dei lavoratori” si esplicita che il lavoratore “deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che ab- bia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettiva- mente svolte” (L. 300/1970, art. 13). Nelle disposizioni generali relative alla sorve- glianza sanitaria definite dal D.lgs. 626/94, all’art. 17, si sostiene che il medico competente deve esprimere un giudizio di idoneità alla m. specifica assegnata. Nel linguaggio comune (es. in alcuni annunci di offerte di → lavoro), è facile trovare delle sovrapposizioni di termini per cui viene utilizzata la parola m. per indicare una figura professionale (es.: m. di addetto segreteria, di progettista software, ecc.). 2. Oggi il termine è considerato superato e legato ad una concezione del lavoro di tipo rigido o tayloristico nel quale la m. “rappresenta l’unità organizzativa di base della produzione di serie, riflesso della più accentuata divisione del lavoro tra uomo e uomo e tra uomo e macchina” (Franceschetti, s.d., 131). Si preferisce par- lare di → “profilo professionale”, che consiste in un insieme organico di compiti, → conoscenze, → competenze e relazioni capaci di descrivere in modo dettagliato una determinata prestazione all’interno di un processo lavorativo. Anche il nuovo CCNL (→ contratto) della → FP non fa più cenno alla m., ma la classificazione e l’inquadramento del personale vengono definiti in base a profili professionali arti- colati in aree funzionali e operative. Il dipendente è impegnato nelle funzioni per le quali è stato assunto (art. 37, comma 3) e che l’→ Ente deve esplicitare nella lettera di assunzione (art. 25, comma 2). 3. Nei primi manuali → qualità elaborati in base alle norme UNI ISO 9000/94 ve- niva definito il mansionario delle figure presenti nell’organigramma dell’azienda. Oggi si preferisce descriverne i → ruoli in base alla dipendenza gerarchica e/o fun- zionale, all’obiettivo e alle responsabilità primarie. Questo nell’ottica di “perse- guire la massima flessibilità organizzativa al fine di consentire l’adozione di mo- delli organizzativi rispondenti alle esigenze del mercato del lavoro e il riconosci- mento delle professionalità e dei livelli di complessità in cui possono esprimersi” (CCNL, s.d., 49). È strategico per un’azienda o un Ente, al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati, curare in modo particolare la gestione delle → risorse umane definendo in modo chiaro l’organigramma, i ruoli e le varie interconnessioni, gli obiettivi e le responsabilità primarie, cercando di coordinare verso il fine comune le energie e le → capacità di dipendenti e collaboratori. 4. Nelle realtà educative (scuole, istituti e → CFP), è importante far prendere co- scienza ai giovani, futuri lavoratori, delle esigenze di un rapporto di lavoro (che prevede il rispetto delle m./funzioni assegnate, a cui corrispondono dei diritti e dei doveri), del proprio ruolo in vista del raggiungimento di comuni obiettivi, della ne- cessaria flessibilità per rispondere in modo rapido alle esigenze produttive e/o di servizio e infine del contributo di volontà e di idee che ciascuno, all’interno del proprio ruolo e delle proprie m., può dare allo sviluppo di tutti. 153 Bibl.: Legge 20 maggio 1970, n. 300, Statuto dei lavoratori. Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collo- camento, in GU del 27.05.1970, n. 131; D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE, 90/679/CEE, 93/88/CEE, 95/63/CE, 97/42, 98/24, 99/38 e 2001/45/CE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, in GU del 12.11.1994, n. 265 - S.O. n. 141; FORMA, CENFOP, SMS CGIL, CISL SCUOLA, UIL SCUOLA, CCNL per la formazione professio- nale. 1 gennaio 1998 - 31 agosto 2003, Roma, Edigraf Editoriale Grafica, s.d.; SABATINI F. - V. CO- LETTI, DISC. Dizionario italiano, Firenze, Giunti, 1997; FRANCESCHETTI M., “Risorse umane”, in CIOFS/FP (Ed.), Un glossario per l’orientamento, Roma, Publigrafica Romana, s.d., 131-133. L. Reghellin MATURITÀ PROFESSIONALE La m.p. è finalità naturale e obiettivo principale del processo dello → sviluppo pro- fessionale. Essa è una parte della m. umana e si colloca accanto ad altri tipi di m. come quella psichica, sociale e morale per essere integrata in esse (Vandenplas- Holper, 2000). Nella sua realizzazione finale consiste in una scelta professionale valida, nell’acquisizione di → competenze per l’esercizio della professione e nel loro svolgimento secondo le norme etiche, nella soddisfazione lavorativa e nella collaborazione al bene comune. 1. Indici. La m.p. si realizza progressivamente in un → processo formativo durante il quale si può parlare più di maturazione che di m. Durante tale processo possono essere identificati dei comportamenti favorevoli al raggiungimento della m.p. che possono essere visti come degli “indici” di maturazione. Essi permettono di stabi- lire il grado di m. raggiunta ad un determinato livello di età cronologica. Molti di questi indici però non sono altro che delle competenze richieste per il raggiungi- mento dallo stadio finale e quindi ad esso subordinate e come tali sono puramente strumentali. 2. Verifiche empiriche. Dagli anni ‘50 in poi, numerosi ricercatori hanno condotto delle estese indagini sulla m.p. dalle quali emergono delle tematiche che si riferi- scono a categorie con contenuti piuttosto vasti. Tali categorie sono in stretto rap- porto con lo sviluppo professionale e con il processo della scelta lavorativa. Le stesse categorie possono essere considerate, in realtà, come dei generali indici della m. stessa. 3. Categorie fondamentali. Le principali categorie che indicano la m.p. sono le se- guenti. a) → Abilità - includono componenti intellettive, esecutive e apprendimen- tali; b) Capacità decisionale - saper decidere conoscendo bene le alternative, sa- perle valutare, possedere una sufficiente stabilità emotiva per controllare l’ansia; c) → Conoscenze - del settore in cui deve essere operata la scelta; il soggetto deve cercare le informazioni, elaborarle e usarle per il suo → progetto personale; d) Co- strutti personali - abilità, interessi, valori e ideali devono essere integrati in un quadro unitario e devono essere congruenti con il progetto professionale; e) Esplo- 154 razione - oltre alle informazioni occasionali occorre esplorare intenzionalmente il settore occupazionale prescelto; f) Progetto - elaborato in base alle attitudini, prefe- renze e valori e rapportato alla situazione occupazionale, deve essere verificato e progressivamente realizzato; g) Scelta - perché sia valida è necessario che il sog- getto sia coinvolto in essa e che sia in stretto rapporto con il progetto professionale; h) → Lavoro - un positivo atteggiamento e la formazione delle competenze ri- chieste per il suo esercizio; i) Integrazione delle componenti - tra le componenti personali (attitudini, preferenze e valori) deve esserci un rapporto dinamico che si manifesta in una equilibrata struttura, chiamata congruenza, che è un evidente segno dell’abilità del soggetto di gestire le enumerate componenti della m. in modo efficiente. Bibl.: VIGLIETTI M., Orientamento, una modalità educativa permanente, Torino, SEI, 1988; VANDEN- PLAS-HOLPER C., Maturità e saggezza: lo sviluppo psicologico in età adulta e nella vecchia, Milano, Vita e Pensiero, 2000. K. Poláček MERCATO DEL LAVORO Il m. del l. è quel contesto ideale all’interno del quale avviene la compravendita di quella merce sui generis costituita dalla forza → lavoro, ovvero la capacità lavorati- va (Mingione - Pugliese, 2002). Ma proprio la caratteristica “ideale” di tale contesto ha spinto un buon numero di AA. a ritenere molteplici i punti deboli dell’applicazio- ne al → lavoro di uno schema concepito per altri tipi di merce in senso proprio. 1. Comunemente, si dovrebbe parlare di m. del l. per indicare i meccanismi che re- golano l’incontro tra i posti di lavoro vacanti e le persone in cerca di occupazione, e che consentono la determinazione dei salari pagati dalle → imprese ai lavoratori. Tuttavia, affinché il lavoro sia scambiato secondo le classiche regole del m., occor- rerebbe che: a) esso fosse considerato come una qualsiasi merce, ovvero avvenga una “mercificazione” della forza lavoro, che a questo punto non terrebbe però in debito conto il fatto che non è possibile separare fisicamente tale merce dal suo portatore; b) tra chi vende e chi compra vi fossero soltanto relazioni di scambio in- sistenti su un piano di parità; c) il prezzo (salario) svolgesse una funzione di riequi- librio tra domanda e offerta; d) tutti i soggetti implicati nello scambio seguissero criteri di razionalità economica (Reyneri, 2002). 2. Le indagini compiute sul tema del m. del l. hanno mostrato come nessuna di tali regole si applichi mai pienamente. Al contrario, le più recenti prospettive di analisi – riconducibili soprattutto al filone della new economic sociology – delineano una rapporto di interdipendenza tra domanda e offerta di lavoro, relazione che non esclude la possibilità del ritorno a situazioni di completa subalternità dell’offerta, ma legittima pienamente lo studio della stessa offerta di lavoro come soggetto in grado di decidere i propri comportamenti in modo relativamente autonomo. In 155 questa ottica, si chiarisce il senso dell’autonomia dell’offerta, in un m. del l. che ri- fugge dall’intenzionalità e dalla razionalità individuale proprie della microeco- nomia del lavoro, poiché spiega i comportamenti dell’offerta non solo dando grande rilievo a elementi non economici, ma inserendoli nella più vasta rete di rela- zioni sociali, culturali e politiche che innervano una concreta → società. In questo senso, il m. del l. è un m. molto particolare, che riflette aspetti e tendenze generali della società (Mingione - Pugliese, 2002), e al tempo stesso ne risulta essere in- fluenzato. Nel momento presente, caratterizzato dalla fine della società della piena occupazione nel senso classico, iscritto come principio politico fondamentale (Beck, 2000), non è possibile prescindere dai nuovi paradigmi di tipo relazionale che le scienze sociali, e segnatamente la → sociologia del lavoro, utilizzano per spiegare il lavoro stesso e i fenomeni sociali che ad esso si collegano. Le tradizio- nali interpretazioni del m. del l., fortemente incentrate sul → sistema produttivo fordista, e dunque implicanti forti ricadute sul sistema della stratificazione sociale – che appunto rifletterebbe i processi di distribuzione dei compensi in una data so- cietà –, sono oggi messe in crisi dalla progressiva flessibilizzazione del lavoro che, oltre a sconvolgere i confini canonici della segmentazione tra un m. del l. “pri- mario” ed uno “secondario”, ne stanno ridisegnando i confini stessi, trasferendo nel lavoro dipendente alcune caratteristiche del lavoro autonomo, nell’ambito di una sovrapposizione al concetto di → professionalità. Bibl.: BECK U., Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Torino, Einaudi, 2000; MINGIONE E. - PU- GLIESE E., Il lavoro, Roma, Carocci, 2002; REYNERI E., Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino, 2002. M. Colasanto METODOLOGIA Il termine m. – etimologicamente: discorso sul metodo (odos = via) – viene usato sia per indicare lo studio critico dei metodi di → ricerca scientifica, sia, nell’ambito delle scienze dell’→ educ., per indicare la m. pedagogica (o dell’educ.) propria- mente detta, distinta da, o anche inclusiva, della didattica (→ didattica induttiva). 1. “M. dell’educ.” e didattica. In ambito pedagogico, la m. ha la funzione media- trice tra l’antropologia pedagogica e la teleologia pedagogica. Il suo concetto va rapportato a varie dimensioni del → processo formativo (educativo-didattico) con un’ulteriore articolazione che distingue la “m. dell’educ.” propriamente detta e la m. didattica chiamata anche, semplicemente, “didattica”. In ogni caso, la m. sia dell’educ. sia dell’→ insegnamento, lungi dall’offrire ricette da applicare meccani- camente alle situazioni, peraltro variegate e cangianti, è “conoscenza critica (e quindi razionalmente e sperimentalmente giustificata) delle vie e dei mezzi per conseguire gli scopi desiderati” (Laeng, 1990, 7679). Offre, quindi, i criteri gene- rali e procedurali da seguire, i principi da applicare per conseguire, in modo perti- nente e commisurato alle situazioni, le finalità e gli → obiettivi formativi. La m. de- 156 v’essere centrata sulla persona umana in situazione, soggetto e destinatario della → formaz.; è necessario considerare i formandi come protagonisti dell’azione edu- cativa e didattica al fine di aiutarli a rendersi capaci di scelte libere e rette, di let- tura critica della realtà, di dialogo e di lavoro cooperativo, d’impegno costruttivo e responsabile di cittadino solidale planetario. Nel quadro della m. centrata sulla per- sona dell’alunno, rientrano sia l’affermarsi progressivo, nei diversi Paesi, dell’→ autonomia scolastica, sia la prospettiva della scuola di tutti e di ciascuno, come anche quella dell’interculturalità (→ educ. interculturale) come principio educa- tivo-didattico nonché della convivenza in generale: istanze tutte importanti, più che mai, nella nostra → società sempre più complessa, multiculturale, globalizzata, competitiva, tecnologica, con dei risvolti non solo positivi, ma anche negativi quali violenza, emarginazione e nuove povertà. Le → nuove tecnologie dell’informa- zione e della → comunicazione, pertanto, stanno offrendo enormi risorse da valo- rizzare (→ formaz. a distanza; multimedialità; virtualità) nell’ambito della → FP e obbligano il → sistema scolastico e formativo di ogni Paese a rivedere tutti i suoi elementi, sia di natura teleologica, contenutistica, metodologico-didattica, come anche organizzativa a vari livelli: strutturale, umano, materiale, spazio-temporale, micro e macro, ecc., in termini di → qualità, di → comunicazione, di uguale oppor- tunità e di educ. alla → cittadinanza planetaria. Come vi è una didattica delle sin- gole discipline di studio, così vi è una m. e didattica dei diversi gradi e ordini sco- lastici, compresa la → FP e l’educ. extrascolastica. Sul piano organizzativo, la m. deve favorire la continuità sia tra scuole di ordine diverso, sia tra queste e le varie agenzie educative extrascolastiche (→ famiglia, → associazioni, → enti locali, ser- vizi sanitari nazionali, chiesa, ecc.), così pure con il mondo del → lavoro. 2. La m. scienza dell’educatore e del formatore. La promozione del processo forma- tivo è un impegno non facile. Si può dire che la m. (scienza per la prassi educativa) è propriamente la scienza dell’educatore e del → formatore, che dev’essere in grado di coniugare in modo unitario e pertinente la conoscenza speculativa sull’educ. (na- tura dell’uomo in quanto tale, dell’educ./formaz., dei valori/fini da realizzare) e la conoscenza sperimentale dei fattori bio-psico-sociologici nella formaz. della perso- nalità, al fine di approntare e vagliare progetti d’intervento operativo adeguati al raggiungimento degli obiettivi. Tutto ciò ovviamente esige che il formatore sia agente di cambiamento qualitativo, capace di ricerca e di azione, innovatore, dotato di inventiva e di libera iniziativa, nella sua funzione di organizzatore/programmato- re, realizzatore e valutatore degli interventi educativi e formativi. Bibl.: FLORES D’ARCAIS G., “Metodología de la educación”, in FLORES D’ARCAIS G. - I. GUTIÉRREZ ZULOAGA, Diccionario de ciencias de la educación, Madrid, Ediciones Paulinas, 1990, 1307-1318; LAENG M. (Ed.), “Metodologia”, in ID., Enciclopedia pedagogica IV, Brescia, La Scuola, 1990, 7677- 7680; MIALARET G., Pédagogie générale, Paris, PUF, 1991; MEIRIEU Ph., “Méthodes pédagogiques”, in CHAMPY P. - C. ETÉVÉ (Edd.), Dictionnaire encyclopédique de l’éducation et de la formation, Paris, Nathan, 1998, 684-690; LANEVE C., Elementi di didattica generale, Brescia, La Scuola, 1998; PEL- LEREY M., Educare. Manuale di pedagogia come scienza pratico-progettuale, Roma, LAS, 2002. H.-C.A. Chang 157 MINORI L’abbassarsi dello status di “minore-età” combacia ormai con l’adolescenza, pe- riodo considerato a tutti gli effetti una “seconda nascita”, sia in termini fisiologici (le trasformazioni corporee), che psicologici (la costruzione dell’→ identità) e so- ciologici (l’ingresso nella vita sociale-attiva). 1. Si tratta di un’età “evolutiva in sempre più rapida evoluzione”, nel senso che, nel percorrere le varie tappe di questo processo, viaggia alla stessa velocità con cui contestualmente si evolve e si trasforma la → società. Di conseguenza, gli studi più recenti ed accreditati sui m. partono dalle premesse di evitare il più pos- sibile di assimilare queste generazioni alle precedenti, e di inquadrarle piuttosto nelle loro espressioni caratterizzanti. Durante questo periodo, infatti, la “carta d’identità” viene giocata provocatoriamente sull’aspetto fisico/esteriore: il corpo diviene oggetto di sperimentazione, rivestito con abbigliamenti personalizzati, colorato, tatuato e traforato; la necessità di darsi prove iniziatiche di coraggio scaturisce dal bisogno stesso di convalidare il passaggio dal corpo di bambino a quello di giovane, una conquista spesso preceduta da condotte “resilienti” e/o a rischio, nei cui confronti la conoscenza e l’informazione filtrate attraverso inter- venti di → prevenzione primaria e secondaria non sempre sono sufficienti a sco- raggiare dal metterle in atto; lo stesso ricorso a variegate forme di violenza at- tiva/passiva fa parte di un linguaggio intenzionato a comunicare il proprio → dis- agio interiore e/o uno stato d’animo attraversato da mille bisogni di senso op- posto, che ingenerano nel soggetto in evoluzione una sofferta confusione di sen- timenti e di valori; per lui gli amici occupano il primo posto e il gruppo è la nuova → famiglia che si è scelto in alternativa e/o in concomitanza con quella in cui si è trovato a stare; il futuro o non fa ancora parte dei suoi orizzonti oppure gli appare fumoso/chiaroscurato da incertezze; così, piuttosto che passare il tempo a progettare, preferisce “presenziare” in quella città virtuale che gli per- mette di “pensare con gli occhi” mentre viaggia per le sconfinate autostrade in- formatico-massmediali, all’origine a loro volta di modelli di → apprendimento basati su logiche reticolari del sapere. 2. A tutto ciò la mente del m. in trasformazione deve comunque arrivare a dare ri- sposte di senso nel ripercorrere le normali tappe di un processo evolutivo, al fine di conquistare quel sufficiente equilibrio/integrazione tra corpo e mente, tra io-iden- tità ed io-relazionalità, tra auto ed etero-gestione della propria personalità, che ca- ratterizzerà lo stadio dell’“età-matura” grazie proprio al fatto di essere passato du- rante l’adolescenza attraverso esperienze difficili/sofferte. Al tempo stesso, la non perfetta assimilabilità del m. alle precedenti generazioni invita a tener conto che si è sempre più di fronte a un diverso modo di diventare adulti, per cui anche i riti d’ingresso/iniziazione all’assunzione di ruoli sociali/attivi avvengono conseguente- mente. Limitatamente al campo della → formaz. / → lavoro, due sono i macro- trends con cui il m. dovrà confrontarsi nel prepararsi a divenire attore del → si- 158 stema produttivo: da un lato, la perdita del valore-lavoro come fattore unico di rea- lizzazione, congiuntamente a quella di un’idea di → professionalità statica e dura- tura per tutta la vita (con conseguente perdita di garanzie e di stabilità e l’adatta- mento a convivere con condizioni lavorative precarie); e, dall’altro, l’acquisizione di una mentalità improntata alla ricerca di opportunità di formaz. permanente, uni- tamente alla flessibilità a riconvertire le proprie → competenze più volte durante la vita attiva. Bibl.: BUZZI C. - A. CAVALLI - A. DE LILLO (Edd.), Giovani nel nuovo secolo. Quinto rapporto IARD sulla condizione dei giovani in Italia, Bologna, Il Mulino, 2002; CENSIS, Giovani lasciati al pre- sente, Milano, F. Angeli, 2002; EURISPES, 3° Rapporto nazionale sulla condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Roma, Eurispes-Telefono Azzurro, 2002; EURISPES, 6° Rapporto nazionale sulla condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Roma, Eurispes-Telefono Azzurro, 2005. V. Pieroni MOBBING Il termine m., deriva dall’inglese mob e significa letteralmente “assalire tumultuo- samente”. È mutuato dagli studi etologici di Lorenz che descriveva, con tale ter- mine, il comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosa- mente un membro del gruppo finché non veniva costretto alla resa o alla fuga. At- tualmente, è un termine molto diffuso ed utilizzato in ambito lavorativo per indi- care fenomeni di prevaricazione, vessazione, persecuzione nei confronti di un col- lega (m. orizzontale) o di un subalterno (m. verticale). 1. È un termine ormai acquisito dalla giurisprudenza sia in materia di rilevanza ci- vile che penale. Una pronuncia del Tribunale di Torino, (16 novembre 1999, ud. 6/10/99, n. 5050) afferma che si verifica una situazione di m. aziendale “allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, ven- gono poste in essere nei suoi confronti azioni dirette ad isolarlo dall’ambiente di la- voro e, nei casi più gravi, ad espellerlo dalle pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del paziente menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora per- sino suicidio”. Possiamo definire m. una situazione di pressione-terrorismo psico- logico sul luogo di → lavoro, raramente sfociante in atti di violenza fisica, eserci- tata attraverso condotte sistematiche durature ed intense, da parte del datore di la- voro (m.verticale) o di colleghi (m. orizzontale) di accerchiamento attivo del lavo- ratore attraverso: a) aggressione e /o menomazione alla capacità comunicativa, di relazione sociale e all’immagine sociale, b) disconoscimento o compressione dei diritti elementari per inespresse “cause di servizio”, c) attribuzione di → mansioni dequalificanti o degradanti.Si utilizza il termine bossing per descrivere il cosiddetto m. strategico, attuato in esecuzione di piani persecutori con finalità di riduzione (per contenimento dei costi) o di “svecchiamento” del personale, in situazioni di non praticabilità del licenziamento. 159 2. Il maggior contributo in questo ambito lo si deve alle ricerche dello psicologo tedesco Heinz Leymann (1990) che per primo individuò e studiò il fenomeno negli anni ‘80. La manifestazione della sindrome di m. avviene in modo graduale e pro- gressivo. Si possono individuare sei fasi sebbene non nettamente distinte le une dalle altre. La prima fase si caratterizza per una intenzionale attribuzione di re- sponsabilità delle diverse disfunzionalità aziendali al dipendente preso di mira. Nella seconda fase, si “creano” situazioni ad hoc per isolare e colpevolizzare la “vittima”. Nella terza fase iniziano a manifestarsi, nel “mobbizzato”, i primi sin- tomi di natura psicosomatica, quali: alterazioni dello stato dell’umore e del ritmo sonno-veglia, stati d’ansia, decremento del repertorio comportamentale, modifiche nell’immagine dell’io e nell’autostima. La fase successiva viene caratterizzata dalle ripetute assenze dal lavoro, da consistenti e significativi cali di produttività e dalla compromissione dell’immagine del lavoratore in azienda. La quinta fase co- incide con la individuazione del soggetto come di un “caso aziendale”, con conse- guente processo di stigmatizzazione e con ripercussioni, spesso irreparabili, sul fu- turo professionale del mobbizzato, sulla salute psichica e sulle relazioni nella vita privata. L’ultima fase la si raggiunge con la fuoriuscita del lavoratore dall’azienda per prepensionamento per “malattia professionale”, per licenziamento, per dimis- sioni o, nei casi più gravi, per suicidio. Da un punto di vista diagnostico, la sin- drome da m. rientrerebbe, secondo la classificazione psichiatrica DSM IV, nell’in- sieme definito “Reazioni ad eventi”. Esse includono: disturbo dell’adattamento (DA), disturbo acuto da stress (DAS), disturbo post-traumatico da stress (DPTS). Poiché i sintomi delle suddette tre categorie possono essere dovuti ad una molte- plicità di variabili eziologiche, per poter definire una sindrome da m. è necessaria la inequivocabile presenza di una intenzionale attività persecutoria nei confronti della vittima. 3. Il fenomeno sembra essere molto diffuso e, ancora, troppo sommerso a causa di comprensibili reticenze a far diventare pubbliche, in ambiente di lavoro, situazioni di grave disagio psicosociale. Si calcola che nel nostro Paese ca. un milione di la- voratori soffrano di sindrome da m. Gli interventi più diffusi sono di tipo psicotera- peutico destinati alla vittima e orientati al reinserimento lavorativo. Sono carenti gli interventi di tipo preventivo a livello sistemico organizzativo che coinvolgano l’in- tera organizzazione aziendale, con particolare riferimento ai quadri dirigenti. At- tualmente, i vari → sindacati dei lavoratori stanno promovendo diverse iniziative per la sensibilizzazione dei loro iscritti al fenomeno del m. Iniziano a diffondersi forme di autoterapia tramite gruppi di auto-aiuto. Bibl.: LEYMANN H. (1990): Mobbing and psychological terror at workplaces, in “Violence and Vic- tims”, 5. (2), 1990; ADAMS A., Bullying at work. How to confront and overcome it, London, Virago Press, 1992; AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION, DSM-IV. Manuale diagnostico e statistico dei dis- turbi mentali, Milano, Masson, 2000; MAIER E., Il mobbing e lo stress organizzativo, Il Ponte vec- chio, Pescara, 2002. M. Becciu 160 MOBILITÀ PROFESSIONALE La m.p. viene configurata come un Istituto Contrattuale che richiede o consente il passaggio da un settore lavorativo ad un altro. Assume, pertanto, configurazioni di- verse a seconda della tipologia del CCNL (→ contratto) e della stipula personale. Nell’ambito della → FP, l’Istituto della m.p. è stato utilizzato prevalentemente in contesti di ridimensionamento del sistema, spesso abbinato con incentivi per l’u- scita. La m.p. è andata, pertanto, assumendo una connotazione negativa, poco at- tenta allo sviluppo del sistema e alla crescita professionale degli operatori. In molte Regioni, particolarmente del Sud, l’applicazione della m.p. e degli incentivi ha condotto allo smantellamento pressoché totale della FP. È pur vero che la FP, in ge- nerale in tutto il sistema italiano, è stata sottoposta a tali e tante riorganizzazioni che hanno richiesto capacità ingegneristiche specifiche cui è difficile far fronte, so- prattutto se gli operatori hanno maturato esperienza prevalentemente nella docenza di un ristretto ambito di insegnamenti. Nella Pubblica Istruzione, l’intesa sulla m.p. firmata il 26 marzo 2002, relativa agli incarichi dirigenziali, assume, ad es., una prospettiva totalmente diversa sia in rapporto alla persona che lavora, sia in rap- porto alla istituzione. Nei momenti di crisi, l’Istituto della m.p. viene utilizzato per far fronte all’esubero del personale e al ridimensionamento delle funzioni all’in- terno delle → imprese. Nel contesto della riorganizzazione del sistema di istruz. e FP, le prospettive di utilizzo della m.p. potrebbero assumere una funzione rigenera- tiva nella gestione delle → risorse umane, anche in rapporto alle esigenze della configurazione del territorio e del → mercato del lavoro. Con la riforma dell’ istruz. e FP si auspica di pervenire, per la FP, ad una stabilità organizzativa e di servizio compatibile con il sistema stesso. La m.p. potrà assumere allora una connotazione di supporto allo sviluppo, alla qualità e all’→ efficacia dei servizi formativi. Bibl.: BULGARELLI A. - M. GIOVINE (Edd.), Politiche formative e lavoratori in mobilità, Milano, F. Angeli, 1996; MIUR, Intesa sulla mobilità professionale e sull’ordine e tempi delle operazioni rela- tive all’affidamento e all’avvicendamento degli incarichi dirigenziali, in www.edscuola.it/archivio/norme/varie/imobdir_02.html, 26.03.02, 1; FORMA - CENFOP - SNS CGIL - CISL SCUOLA - UIL SCUOLA. Contratto Collettivo Nazionale di lavoro per la formazione pro- fessionale – 1 gennaio 1998 - 31 agosto 2003, Roma, CEDEFOP, 2002. L. Valente MODULI Il termine, utilizzato nei diversi ambiti di produzione e di organizzazione del → la- voro con il significato di parte o elemento ripetitivo di un sistema, è entrato piut- tosto recentemente in ambito pedagogico per indicare una particolare forma di or- ganizzazione scolastica e didattica applicata soprattutto nella → FP. 1. Diversi significati. A seconda dei Paesi, essa assume un significato leggermente diverso anche in riferimento all’ambito propriamente scolastico: in Italia, ad es., l’organizzazione modulare nella scuola elementare fu introdotta con la L. 148/90 161 secondo cui vengono assegnati 3 insegnanti a 2 classi del primo ciclo e 4 insegnanti a 3 classi successive, il che ha comportato una programmazione per m. in corri- spondenza alle aree disciplinari/→ competenze/interessi specifici di ciascun inse- gnante; in Francia, soprattutto nei Lycées, venne introdotta nel 1992 secondo la lo- gica della pédagogie différenciée nella prospettiva di un aiuto differenziato per il → successo scolastico di tutti gli allievi. 2. M. didattico: concetto e suoi elementi costitutivi. Per m. didattico (formativo) si può intendere un’unità di studio o un insieme di unità didattiche (disciplinari o plu- ridisciplinari), che abbia una propria autonomia e completezza, la cui successione è flessibile, variamente combinabile (ricomponibile) in base ai → destinatari e agli → obiettivi. Un m. cioè può contenere più unità didattiche il cui numero dipende sia dalla portata della tematica, sia dalla finalità (competenze da assicurare). Struttural- mente ambedue (m. e unità didattiche) contengono gli stessi elementi, ossia il titolo indicante la tematica trattata, la durata dello svolgimento, i prerequisiti, gli obiet- tivi, i contenuti ed esperienze/attività, il materiale didattico, i momenti e le moda- lità della verifica (→ valutazione). Nonostante la varietà di significato che il ter- mine può assumere a seconda dei contesti, il suo utilizzo nell’ambito della FP com- porta un’organizzazione delle attività educativo-didattiche (“offerta formativa”) a partire dalle domande formative (riferite sia ai soggetti → destinatari come anche al mondo occupazionale) indicando chiaramente le condizioni di partenza, l’esito/risultato da perseguire (competenze) e tutti gli altri elementi di cui sopra. L’organizzazione modulare dell’→ insegnamento – sempre più diffusa – e la → cer- tificazione delle competenze, anche attraverso il sistema dei crediti (→ credito for- mativo), richiedono oggi una preparazione e riqualificazione di tutti gli insegnanti. 3. Organizzazione modulare e team teaching. Tale tipo di organizzazione modulare sia scolastica che didattica, per essere pedagogicamente significativa ed efficace (→ processo formativo), esige una capacità e disponibilità di lavorare in team, nello spirito di un autentico team teaching in termini di co-programmazione, co-realizza- zione e co-valutazione. Bibl.: WARWICK D., Teaching and Learning through Modules, Oxford, Basil Blackwell 1988; CLERC F., Enseigner en modules. Secondes générales, téchnologiques et professionnelles, Paris, Hachette- Éducation, 1992; DOMENICI G., Manuale dell’orientamento e della didattica modulare, Bari, Laterza, 1999; TIRITICCO M., La progettazione modulare nella Scuola dell’Autonomia, Napoli, Edizioni Tec- nodid, 2000; ZANCHIN M.R. (Ed.), Le interazioni educative nella scuola dell’autonomia: itinerari di didattica modulare, Roma, Armando, 2002. H.-C.A. Chang MONITORAGGIO In generale, il m. consiste in una “attività sistemica di raccolta dati ed informazioni circa l’attuazione di un intervento (una politica, un programma, l’operato di una struttura, ecc.)” (CNOS-FAP, 2002, 39). Più specificamente, esso riguarda la com- 162 parazione tra le prestazioni di più scuole o → CFP e tra le prestazioni della stessa scuola o CFP. In questo caso, l’idea di → qualità in base alla quale verificare il fun- zionamento della scuola/CFP non è unicamente autoreferenziale come nell’autova- lutazione di istituto, ma presenta un indice di riferimento esterno, costituito dai va- lori medi delle prestazioni rilevate. In altre parole, si tratta di un approccio di m. basato su indicatori quantitativi e dal punto di vista metodologico si distingue per le seguenti caratteristiche: è quantitativo, perché gli indici di funzionamento sono rilevati in termini numerici; è globale, nel senso che tende ad assumere come punto di riferimento delle varie misure un modello sistemico di funzionamento; è tecnico, poiché si articola in un insieme di procedure che tendono a neutralizzare la compo- nente soggettiva della → valutazione; è descrittivo, in quanto è finalizzato preva- lentemente a delineare fenomeni utili alla valutazione dell’oggetto in esame. Bibl.: CASTOLDI M. - B. STENCO - G. MALIZIA, “La scuola cattolica e la valutazione della qualità”, in CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), Per una cultura della qualità. Promozione e Verifica. Scuola Cattolica in Italia. Terzo Rapporto, Brescia, La Scuola, 2001, 15-60; CNOS-FAP (Ed.), Accre- ditamento della sede orientativa, Roma, Tipografia Pio XI, 2002; BOCCA G. - M. CASTOLDI - D. DE- CIMO (Edd.), Lessico per la qualità. Documento sui concetti fondamentali, Roma, CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), 2004; NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Esiti del monitoraggio dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale, “Rassegna CNOS” 22 (2006) 1, 65-95. G. Malizia MOTIVAZIONE La m. è un costrutto dell’→ orientamento, essenziale nella dinamica della deci- sione: infatti per prendere decisioni in ambito scolastico, professionale e lavorativo, occorre avere motivi autentici per prendere posizione di fronte ad alternative. Essa fa appello ad un sistema di → valori che aiutano a compiere una decisione fondata su criteri di attendibilità e di fattibilità, soprattutto per contrastare il → disagio, la dispersione, l’emarginazione. In secondo luogo, la m. è energia e scopo: ossia un insieme di fattori che aiutano la persona e la attivano, la dirigono e regolano l’atti- vità verso degli → obiettivi. Costrutti connessi alla m. sono quelli di empowerment e di autoefficacia (→ efficacia). L’empowerment è una forma di energia interna che canalizza le risorse ed è anche un sistema di → competenze e strumenti che facili- tano il controllo di una esperienza di vita. L’autoefficacia proviene dall’auto-stima e consente di affrontare un impegno superando eventuali ostacoli (→ coping) e di raggiungere il → successo formativo. In terzo luogo, la m. è interesse per lo studio e l’→ apprendimento. Infatti tra i fattori maggiormente motivanti c’è la volontà di apprendere e questa è riconosciuta determinante nel successo formativo e orienta- tivo. Il metodo di studio e l’apprendimento dipendono essenzialmente da fattori motivazionali. Oggi tuttavia ci sono molti fattori demotivanti che non facilitano lo studio e l’apprendimento, come il clima consumistico, l’accontentamento genera- lizzato nell’→ educ. e la mancanza di modelli cui fare riferimento sia tra i coetanei che tra gli adulti. Dal punto di vista formativo, la m. per lo studio e l’apprendi- 163 mento permette agli allievi di conseguire importanti obiettivi in quanto attiva l’in- teresse, sostiene l’impegno e la fatica, aiuta l’allievo a valorizzare le proprie → ca- pacità e a darsi un percorso di studio consapevole e programmato. In definitiva, nell’orientamento la m. consente di prendere decisioni ragionevoli, aiuta ad intra- prendere percorsi nuovi, a scegliere in situazioni complesse, di incertezza e di dis- orientamento, specialmente nei confronti di allievi con particolari problemi. Bibl.: NUTTIN J., Motivazione e prospettiva futura, Roma, LAS, 1992; BROPHY J., Motivare gli stu- denti ad apprendere, Roma, LAS, 2003; FIORETTI S., L’individualizzazione e motivazione scolastica. Una strategia per favorire l’impegno nell’apprendimento, Milano, F. Angeli, 2006. S. De Pieri NUOVE TECNOLOGIE Il termine tecnologia non sempre ha un significato univoco e dipende molto anche dal contesto in cui viene collocato. Inoltre il mondo tecnologico è in continua evo- luzione. Normalmente per tecnologia si intende uno studio dell’uso delle cono- scenze scientifiche per finalità pratiche. Il termine “n.t.” si riferisce in particolare allo studio sull’uso di quell’insieme di t. supportate dall’informatica e dalla telema- tica che si sono sviluppate notevolmente con l’avvento del computer. Esse interes- sano tutti i settori della → società, alcuni di più, altri di meno. 1. Le n.t. della comunicazione, ne hanno beneficiato notevolmente, grazie anche alla semplificazione dei processi di digitalizzazione Nel mondo delle comunica- zioni le peculiarità delle n.t. si sono notevolmente sviluppate creando nuove possi- bilità di diffondere il sapere e contribuendo a rendere più visibile il processo di → globalizzazione. Parlando però di n.t. non ci si riferisce esclusivamente alle inven- zioni tecniche moderne legate ai progressi nel mondo delle comunicazioni, ma si intende abbracciare un insieme di piccole o grandi invenzioni che in modo più o meno sistematico stanno trasformando il nostro rapporto con il vivere quotidiano, con tutti i settori presenti nella nostra società. Certamente tra i tanti settori quello della → formaz. è coinvolto nello sviluppo più o meno lineare delle n.t., che in questo caso tendono a rendere i processi conoscitivi molto più veloci e amichevoli. La multimedialità e la telematica veicolate dalle n.t., possono contribuire a comuni- care meglio i contenuti del sapere ed anche spingere verso una revisione dei conte- nuti stessi, con la mobilitazione della creatività in funzione di una migliore → co- municazione. 2. Le n.t. si sviluppano a volte in modo caotico. Sono però caratterizzate da alcuni elementi comuni. Esse si presentano: pervasive, in quanto si diffondono orizzontal- mente a macchia d’olio in diversi ambiti del vivere quotidiano interessando con- temporaneamente più strumenti e persone; rapide nel cambio, con effetti quasi im- mediati sul modo di affrontare i problemi, rendendo molto difficile pianificare lo sviluppo e intervenire in modo puntuale, tempestivo; globali, in quanto tendono ad 164 interessare tutti i settori e le attività della società nel suo insieme. Nella formaz., le n.t. sono molto legate all’interatività ed al mondo telematico. Nei processi di → in- segnamento – → apprendimento si concretizzano attraverso reti telematiche, televi- sione satellitare, CD–Rom e DVD interattivi, corsi on line (→ FAD), ipertesti, vi- deoconferenze, e-mail. Esse possono facilitare molto la qualità dell’apprendimento agevolando l’accesso a risorse, a servizi, a scambi di informazioni in tempo reale con ogni parte del mondo. Sono qualcosa di più del semplice supporto ad un inter- vento formativo. Un loro uso sistematico può realmente modificare i processi di comunicazione del sapere e quelli della loro acquisizione. Le n.t. creano canali ca- pillari di diffusione del sapere offrendo nuove possibilità per una piena democratiz- zazione dell’accesso alla formaz. Esse tendono a favorire delle strategie d’insegna- mento basate maggiormente sull’approccio costruttivistico in cui una persona entra come attore nel processo di apprendimento e viene chiamata a collaborare attiva- mente e continuamente con i compagni e i docenti nelle diverse fasi dell’inter- vento. Le nuove possibilità offerte dalle n.t. nel mondo formativo rendono sempre più precario un insegnamento rigidamente cattedratico. Oggi non è più un grande problema per una persona reperire delle informazioni, ma è ancora problematico renderle attive, strutturarle secondo una certa logica, riflettere su di esse in modo critico. Le conoscenze specifiche che un → formatore possiede sulla sua disciplina diventano meno importanti, mentre acquistano maggiore importanza le sue capacità metodologiche e didattiche generali. Modelli di formaz. collaborativi e costruttivi sarebbero ovviamente possibili anche utilizzando gli strumenti didattici tradizio- nali, ma le n. t. normalmente li rendono più agevoli e più efficaci. Con le n.t. è ab- bastanza facile creare ambienti virtuali, simulare situazioni di apprendimento che aiutino a sviluppare il pensiero critico. In particolare si riesce a creare un tipo di formaz. on line molto interessante, una formaz. dove lo spazio e il tempo entrano in una realtà virtuale. Bibl.: AMATO G. (Ed.) Ricerca, formazione e nuove tecnologie, Milano, F. Angeli, 2001; AA.VV., Nuove tecnologie e scuola di base, Roma, Carocci, 2001; FIERLI M., Tecnologie per l’educazione, Bari, Laterza, 2003; MARAGLIANO R., Nuovo manuale di didattica multimediale, Bari, Laterza, 2004. N. Zanni OBBLIGO SCOLASTICO E FORMATIVO Per o.s.f. si intende il dovere imposto per legge al cittadino di ricevere una → formaz./ → istruz. almeno sufficiente per inserirsi nella → società o per continuare gli studi. In questi ultimi anni, si registra in proposito una tendenza interessante al superamento del concetto stesso di o.s.f., che pure dal punto di vista storico ha esercitato una funzione essenziale nel passaggio da una scuola per pochi a una per tutti, ma che al presente sembra costituire piuttosto un impedimento alla piena rea- lizzazione dei diritti di → cittadinanza. In una società complessa come l’attuale, la focalizzazione scolasticistica perde di senso perché ciò che conta è il risultato e la 165 sua qualità e non i percorsi con cui si ottengono che possono essere i più vari. Inoltre, l’istruz. e la formaz., prima che dei doveri, sono dei diritti della persona e vanno assicurati a tutti in modo pieno. Pertanto, le varie istituzioni che le garanti- scono devono operare in → rete, in una prospettiva di → solidarietà cooperativa piuttosto che come alternative tra loro escludentisi. Questo salto di qualità è stato recepito nel nostro Paese con la L. 53/03, la cosiddetta “Riforma Moratti”, che al- l’art. 2, co., lettera c) assicura a tutti “il diritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il di- ciottesimo anno di età”. Bibl.: Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con D.M. n. 672 del 18 luglio 2001, in “An- nali dell’Istruzione” 47 (2001) 1/2, 3-176; MONTEMARANO A., Dall’obbligo scolastico e formativo al diritto-dovere all’istruzione e formazione, “Rassegna CNOS” 21 (2005) 3, 110-116; NICOLI D. (Ed.), Diritto-dovere di istruzione e formazione o obbligo scolastico, in “Presenza CONFAP” 1-2 (2006) 53-59. G. Malizia OBIETTIVI Gli o. di un’azione formativa costituiscono la dichiarazione delle intenzioni forma- tive che la comunità, o il singolo docente, assume come riferimento per la → pro- gettazione, conduzione e valutazione di un intero percorso formativo o di un sin- golo corso. Si distingue spesso, in base al carattere di generalità e/o d’astrattezza che assume l’espressione di tali intenzioni, tra o. intesi come finalità istituzionali, o. considerati come mete educative e/o formative e o. didattici. 1. Finalità istituzionali. Gli o. intesi come finalità istituzionali di un → CFP costi- tuiscono il quadro di riferimento che caratterizza il suo servizio reso alla → società. Il processo formativo è, infatti, un processo intenzionale e l’istituzione formativa, essendo al servizio della comunità nazionale, regionale e locale, deve tener conto delle indicazioni che esse, ciascuna secondo la sua competenza, esprimono circa il suo ruolo. Fonti principali per la specificazione di tali finalità sono, da una parte, le disposizioni pubbliche e, dall’altra, i caratteri che contraddistinguono l’identità specifica dell’→ Ente promotore dell’istituzione stessa. 2. O. formativo. Una definizione più puntuale di o. formativo può suonare in questo modo: “intento espresso in modo chiaro e non ambiguo, rispetto al quale è possi- bile decidere se un percorso o un processo formativo è giunto al termine e/o è va- lido per giungervi”. È inerente a questa definizione il processo decisionale attra- verso il quale la → comunità formativa locale giunge alla determinazione e alla for- mulazione non solo delle mete da porre a fondamento della sua azione educativa e didattica, bensì anche dei modi di verifica del loro raggiungimento. Tale processo si svolge tra due poli di riferimento fondamentali: le finalità istituzionali e i → bi- sogni educativi dei giovani. Le prime sono lette e interpretate contestualizzandole all’→ ambiente sociale e culturale in cui si opera, evidenziandone il significato e il 166 valore educativo; i secondi sono rilevati nella maniera più fedele possibile e rispon- dente al tipo d’intervento prefigurato e quindi interpretati alla luce dei valori e delle finalità istituzionali contestualizzate. Si tratta di realizzare una vera e propria me- diazione operativa tra un quadro ideale e una situazione reale, tra un dover essere e un dato di fatto. Questo lavoro consente anche di assegnare priorità tra i vari o. Da una parte, infatti, sono considerati i valori e le finalità educative secondo un ordine di importanza dettato da considerazioni generali, dall’altro, viene studiata la di- stanza o discrepanza esistente tra definizione ideale e la loro attuale presenza. Questo lavoro consente alla comunità la scelta e l’organizzazione degli o. forma- tivi. 3. Quadro degli o. La legge sul diritto-dovere alla formaz. fino a diciotto anni in- dica la necessità di definirne il profilo educativo, culturale e professionale. Di qui l’impegno nell’articolare il quadro degli o. formativi secondo tre tipologie fonda- mentali: o. educativi, o. culturali, o. professionali. Evidentemente, nel concreto della pratica formativa gli interventi mireranno a favorire lo sviluppo di una fe- conda integrazione tra queste tre dimensioni della crescita personale. Gli o. educa- tivi sono linee guida, orientamenti di fondo, principi d’azione, che devono infor- mare sia la dimensione culturale, sia quella professionale. Sono l’orizzonte educa- tivo entro il quale ci si muove o, se si vuole, il quadro di valori da interpretare e concretizzare nel contesto dei vari interventi formativi. Probabilmente, molti o. educativi possono essere solo parzialmente raggiunti con l’apporto dell’attività for- mativa strettamente connessa con gli insegnamenti specifici. Molti di essi coinvol- gono le modalità stesse di organizzazione dell’ambiente formativo, il sistema di re- lazioni interpersonali sviluppato, iniziative rivolte alla → personalizzazione dei percorsi formativi e all’→ orientamento. D’altra parte, la → valutazione relativa al loro raggiungimento può basarsi solo su giudizi, su elementi colti dall’osservazione sistematica degli allievi, su confronti fatti tra la situazione di partenza e quella che si ha sotto gli occhi. 4. O. culturali e professionali. Gli o. culturali e professionali si riferiscono più spe- cificatamente ai singoli insegnamenti, anche se questi vanno considerati nella loro complessità e interconnessione. Oggi si tende a definire questo tipo di o. in termini di → competenze, cioè di capacità di utilizzare il proprio patrimonio di → cono- scenze, → abilità e altre disposizioni interiori, come → motivazioni, interessi e aspirazioni, per affrontare positivamente situazioni e problemi di natura culturale e/o professionale. Nascono di conseguenza alcuni problemi di definizione di tali o., d’organizzazione dei percorsi formativi diretti al loro sviluppo, di valutazione del loro raggiungimento. Bibl.: MAGER R., Gli obiettivi didattici, Teramo, Lisciani e Zampetti, 1972; DE LANDSHEERE V., Defi- nire gli obiettivi dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1977; HAMELINE D., Les objectifs pédago- giques, Paris, ESF, 1979; PELLEREY M., Progettazione didattica. Torino, SEI, 1994; ID., Educare, ma- nuale di pedagogia come scienza pratico-progettuale, Roma, LAS, 1999. M. Pellerey 167 OCCUPABILITÀ È una delle modalità dello sviluppo della capacità contrattuale della persona sia che essa si trovi ad accedere al → mercato del lavoro per la prima volta sia che abbia già un ruolo ed una → mansione definiti all’interno di una organizzazione. Su tale capacità contrattuale agiscono tre variabili: 1) la → competenza professionale ac- quisita e la sua riconoscibilità sociale; 2) le effettive opportunità di → lavoro, di → mobilità sia interna che esterna, di risposta al rapporto di → economia e → formaz. espressa sul territorio; 3) le misure di sostegno in grado di facilitare o accrescere la domanda di lavoro e l’accesso ai benefici per l’avvio di attività imprenditoriali au- tonome e di creazione di → impresa. Per formulare nuove iniziative rivolte ad ac- crescere l’o. si promuovono due specifiche misure: a) le collaborazioni con soggetti istituzionali, sociali ed economici; b) la crescita di → reti o sistemi che generino processi di creazione di opportunità lavorative e possono essere catalizzatrici per la disseminazione di efficaci esperienze locali. La formaz. è ritenuta una condizione necessaria per accrescere l’o. dei → destinatari, ma non esclusiva per una loro piena ed effettiva occupazione. 1. L’o. è uno dei quattro pilastri della programmazione 2000-2006 del FSE: gli altri tre pilastri sono l’imprenditorialità, l’adattabilità e le → pari opportunità. Nell’am- bito dello sviluppo delle politiche attive del lavoro l’o. è una strategia volta a mi- gliorare le capacità di inserimento professionale di giovani e di adulti. Per soste- nere l’o. è necessario attivare politiche preventive della disoccupazione in parti- colar modo se di lunga durata agendo in via prioritaria sui seguenti fronti: facilitare l’accesso al lavoro dei disoccupati anche attraverso il potenziamento dei → servizi per l’impiego; offrire ai disoccupati un servizio di → orientamento per indirizzarli verso le attività più consone a ricollocarsi nel mercato del lavoro. Tra questi: il bi- lancio di competenze, i → tirocini, l’inserimento in percorsi personalizzati di formaz./inserimento lavorativo, in corsi di → FP o nell’→ apprendistato: in co- erenza con la domanda di lavoro espressa dal territorio e i processi di mobilità geo- grafica sostenuta da specifiche misure di → accompagnamento; sperimentare e at- tuare percorsi integrati e personalizzati di inserimento lavorativo per soggetti parti- colarmente svantaggiati come i diversamente abili (→ diversabilità e FP), gli immi- grati, gli ex tossicodipendenti o i giovani a rischio sociale, promuovendo reti tra i servizi sociali, sociosanitari, culturali, per l’impiego e formativi presenti sul terri- torio. 2. Nelle strategie per l’o. rientrano anche le azioni volte a favorire, nei riguardi dei soggetti che debbono inserirsi nel mercato del lavoro o sono privi di occupazione, l’acquisizione di un titolo di studio o di una → qualifica professionale. Sono da considerarsi in tale ambito gli interventi miranti a: ridurre la dispersione scolastica e formativa; innalzare la qualità della → FPI e sviluppare i sistemi di → alternanza formaz.-lavoro; sostenere un sistema di offerta integrata che risponda alla valoriz- zazione delle competenze possedute e alle esigenze economico-produttive delle → 168 imprese e del Paese: gli interventi post diploma di FP regionale, i percorsi di IFTS, le attività formative integrate di → Università e FP. 3. Le priorità di intervento per l’o. seguono un approccio preventivo alla disoccu- pazione e sono coerenti alla Strategia Europea per l’Occupazione (SEO) che per- segue entro il 2010 i tre obiettivi di: a) piena occupazione al 70%, al 60% per la popolazione femminile, al 50% per i lavoratori anziani; b) qualità e produttività sul posto di lavoro con l’aumento delle opportunità di accesso alla → FP continua, la garanzia di salute e → sicurezza sul lavoro, pari opportunità e possibilità di car- riera; c) coesione e mercato del lavoro inclusivo contribuendo all’accesso al mer- cato del lavoro dei soggetti deboli o in condizione di → disagio sociale. Sul ver- sante dell’istruz. e della formaz. gli interventi rientrano nella visione dell’apprendi- mento permanente (lifelong leraning) che supera le tradizionali scansioni temporali tra fasi dello studio o della qualificazione e fasi dell’inserimento lavorativo a fa- vore di una prospettiva nella quale la formaz. accompagna la persona lungo tutto il corso della vita e in particolar modo nei momenti di transizione al/nel lavoro, sempre più caratterizzato da cambiamenti o processi di → mobilità organizzativa e geografica. Bibl.: COMMISSIONE EUROPEA, Politiche sociali e del mercato del lavoro: una strategia di investi- mento nella qualità, Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Co- mitato economico e sociale e al Comitato delle regioni COM (2001) 313 definitivo, Bruxelles, 2001; ISFOL, Prolungamento della vita attiva e politiche del lavoro, Roma, Unione Europea/MLPS/ISFOL, 2002; OECD-OCSE (1999-2003), Employment Outlook, Parigi; OECD, 2004; CONFINDUSTRIA, Capi- tale umano, qualità e competitività: quando la formazione anticipa lo sviluppo. Rapporto Education 2004, aprile 2004; ISFOL, Rapporto 2005, Roma, Tiellemedia, 2005. G. Spagnuolo ORIENTAMENTO O. presenta una notevole variazione nei termini: in ted., Berufsberatung: offrire consigli per la scelta professionale; in ingl., Career counseling o career guidance: consigliare o guidare in materia di carriera; l’aggettivo vocational sta per professio- nale; poiché il sostantivo o. ha numerosi significati deve essere qualificato con un aggettivo (scolastico, professionale, educativo); il termine fr. è equivalente all’ita- liano, Orientation scolaire et professionnelle. L’o. consiste nell’aiuto che viene dato da un esperto (orientatore, consigliere) ad un soggetto in crescita perché elabori un progetto di vita (→ progetto personale e pro- fessionale) e lo effettui progressivamente durante le fasi del suo sviluppo. L’obiet- tivo finale dell’o. consiste in un valido inserimento del soggetto nella → società perché realizzando le sue personali finalità contribuisca nello stesso tempo alla pro- mozione del bene comune. Da adulto, poi, nello svolgimento della sua attività pro- fessionale, si ispirerà a principi etico-morali e la condurrà da persona professional- mente matura (→ maturità professionale). Per raggiungere tale obiettivo, l’o. si 169 serve di conoscenze e di metodi provenienti dalle discipline sociologiche, antropo- logiche, psicologiche e pedagogiche. 1. Origine. L’o. nella sua fase iniziale veniva praticato nell’ambito della psicologia di consulenza (counseling) e tale collocazione non poteva che essere vantaggiosa, poiché la sua finalità era promuovere lo sviluppo delle persone, aiutarle ad effet- tuare un dinamico adattamento al loro → ambiente sociale e provvedere al loro be- nessere fisico e psichico durante tutta la vita. All’o. si sono interessate in sede teo- rica e operativa anche la psicologia industriale (attualmente, “delle organizzazioni” → psicologia del lavoro) e la psicologia applicata. Numerosi convegni sull’o. du- rante il XX sec. sono stati gestiti nell’ambito della psicologia applicata. 2. Gli utenti. Nell’impostazione dell’o. da parte di Parsons, all’inizio del XX sec., venivano prese in considerazione alcune caratteristiche fondamentali del soggetto, in stretto rapporto ai requisiti della possibile occupazione. Tali erano: attitudini, in- teressi e → valori professionali. Le attitudini sono state considerate delle predispo- sizioni che se sviluppate diventano delle → abilità mentali. Da decenni viene fatta la distinzione tra abilità verbali, numeriche e spaziali che nell’insieme rappresen- tano il livello generale attitudinale del soggetto. I tre tipi di abilità sono associati agli indirizzi scolastici e ai settori occupazionali. Il livello e le abilità specifiche possono essere rilevati con adatti strumenti (batterie attitudinali) che predicono in buona misura il rendimento scolastico e professionale. Gli interessi e i valori pro- fessionali rappresentano i motivi per cui un soggetto desidera svolgere una profes- sione. I valori in particolare sono delle forze motivanti in quanto i valori specifici sono per la loro natura associati a determinate professioni. Tanto gli interessi quanto i valori sono alla base delle scelte degli indirizzi scolastici e in seguito con- tribuiscono alla stabilità e alla soddisfazione nella occupazione scelta. 3. Dimensione informativa. Per una scelta professionale realistica, è necessario of- frire al soggetto delle informazioni sulla situazione occupazionale e sulle opportu- nità formative. Egli deve essere informato sulla progressiva trasformazione del mondo del → lavoro per essere flessibile nelle sue preferenze e disponibile alle in- novazioni nelle professioni. 4. Metodologie. Per la rilevazione delle caratteristiche del soggetto e per la gestione del processo di o. vengono usati i più svariati procedimenti. Tra i più utilizzati: il → colloquio individuale per la raccolta dei dati anamnestici e per definire i bisogni del soggetto. Sono usati poi vari questionari per accertare le fondamentali dimensioni di personalità. Una → metodologia piuttosto recente consiste nella stima di → com- petenze da parte del soggetto, nota sotto il nome “bilancio delle competenze”. Si tratta di un procedimento che consiste nella ricostruzione, valorizzazione e valida- zione di competenze acquisite dall’utente attraverso l’esperienza lavorativa e quelle di vita per farne una risorsa utilizzabile nel → mercato del lavoro, formulando e ve- rificando progetti e scelte professionali. Vari questionari sono disponibili poi per la rilevazione della capacità decisionale dei soggetti (→ sviluppo professionale). Una 170 metodologia utile accanto agli interventi sistematici dell’o. consiste nello “sportello dell’o.”, che si configura come un servizio su richiesta di tutti coloro che hanno bi- sogno di informazioni e di sostegno personale. L’attività dello “sportello” consiste nel colloquio dell’esperto con l’utente, che può ottenere informazioni sui percorsi formativi. 5. Dimensione formativa. Assume un ruolo centrale nell’o. e consente agli utenti di usufruire delle occasioni per sviluppare la personalità nella presa di coscienza di sé e della propria → identità in un contesto sociale e poi operare delle scelte nell’am- bito della → mobilità professionale dovuta alla rapida trasformazione dei settori la- vorativi. 6. Centri di o. (→ sede orientativa). Un’attività ordinata ed efficace può essere svolta solo da una struttura stabile con personale competente, quale è un centro di o. La gestione dell’o. richiede varie competenze che sono coperte dal consigliere dell’o.; psicologo, sociologo, pedagogista, informatico, assistente sociale, econo- mista e documentalista coordinati da un direttore. Il Centro svolge delle attività ar- ticolate in → accoglienza, in accertamento, in preparazione di profili degli utenti per stabilire con loro un patto formativo, che rappresenta un vincolo morale dalle due parti ed è un presupposto per una efficace crescita personale e professionale. 7. L’o. come risposta a nuove situazioni. Dalla storia dell’o. emerge con chiarezza come gli eventi storici (le due guerre mondiali, la depressione del ‘29 e il lancio dello Sputnik negli anni ‘50) hanno sollecitato nuove risposte arricchendo la meto- dologia dell’o. e definendo i suoi obiettivi a breve e a lungo termine. Anche l’at- tuale situazione della nuova economia chiede una adeguata risposta all’o. Green- haus (2003, 521) riporta i dati secondo i quali dal 1979 al 1995 negli USA sono stati cancellati 43 milioni di posti di lavoro. La perdita di molti tipi di lavoro, come anche il sorgere di nuovi, ha prodotto “turbolenza” nel contesto occupazionale. Gli esperti del settore, come riportano Guichard e Huteau (2003, 12), notano che nel futuro le carriere professionali saranno caratterizzate più da un “caos” che da una regolare crescita professionale. In vista di questa nuova situazione, alcuni AA. con- sigliano ai giovani di acquisire la competenza che permetterà loro di analizzare, ad ogni bivio che dovranno affrontare, gli elementi del sé, le proprie risorse, la strut- tura dell’ambiente circostante con le opportunità e con le sue incongruenze. In un mondo di evoluzione molti giovani non potranno elaborare un → progetto profes- sionale a lungo termine e dovranno acquisire delle efficaci strategie a breve termine con frequenti adattamenti. I teorici e i consiglieri dell’o. dovranno rendersi sensibili alle trasformazioni sociali del momento e dare nuove risposte. Bibl.: DEL CORE P. - K. POLÁČEK - L. VALENTE, “Premesse teoriche”, in G. MALIZIA et al. (Edd.), Rap- porto finale della ricerca “Seconda Indagine Nazionale sui Servizi di Orientamento 1988”, Roma, CNOS-FAP, 1999, 17-50; BROWN S.D. - R.W. LENT (Edd.), Handbook of counseling psychology, Third edition, New York, Wiley, 2000; SWANSON J.L. - P.A. GORE, “Advances in vocational psycho- logy: Threory and research”, in S.D. BROWN - R.W. LENT (Edd.), Handbook of counseling psychology, Third edition, New York, Wiley, 2000, 233-269; BAKER D.B., “Counseling psychology”, in I.B. 171 WEINER (Ed.), Handbook of psychology, vol. l, Hoboken NJ, J. Wiley, 2003; FREEDHEIM D.K. (Ed.), History of psychology, New Jersey, Wiley, 2003, 357-365; GREENHAUS J.H., “Career dynamics”, in I.B. WEINER (Ed.), Handbook of psychology, vol. 12, Hoboken NJ, J. Wiley, 2003; BORMAN W.C. - D.R. ILGEN - R.J. KLIMOSKI (Edd.), Industrial and organizational psychology, New Jersey, John Wiley, 2003, 519-540; GUICHARD J. - M. HUTEAU, Psicologia dell’orientamento professionale: Teorie e pratiche per orientare la scelta negli studi e nelle professioni, Milano, Cortina, 2003. K. Poláček PARI OPPORTUNITÀ Gli studi sociali degli anni 1944-1965 negli USA e nell’Europa settentrionale evi- denziano il divario tra ideali di democrazia e persistenza di disuguaglianze e ingiu- stizie causate da colonialismo, imperialismo e razzismo. La frustrazione delle aspettative di pace, di libertà e di rispetto dell’essere umano diffuse dopo la se- conda guerra mondiale e consolidate dalle normative costituzionali e dal diritto in- ternazionale, genera vive proteste da parte di fasce sociali che maggiormente vi- vono lo stato di privazione dei diritti. Si tratta di donne, anziani, minoranze, per- sone con handicap (→ diversabilità e FP). Per un verso, la teoria della → società pluralista spiega le ragioni storico-sociali di pregiudizio e discriminazione, indi- cando le politiche funzionaliste dell’→ istruz.; per altro verso, i teorici dell’antiraz- zismo evidenziano l’effetto antidemocratico della esaltazione delle diversità e del pluralismo che rischia, se non controllato, nei comportamenti sociali, di restringere il campo all’uguaglianza delle o. educative, dando luogo a fenomeni come il → bullismo, l’emarginazione scolastica, la persistenza degli stereotipi nei manuali scolastici, la recrudescenza della dispersione scolastica. L’uguaglianza delle o. in → educ. è la variabile rispetto alla quale si distribuiscono i modelli causali ora del consenso (centrati sul pluralismo culturale), ora del conflitto (centrati sull’antiraz- zismo). Il divario tra uguaglianza raggiunta ed uguaglianza negata in educ. si tra- sforma nella elaborazione sulle teorie dello svantaggio relative al soggetto con esi- genze specifiche (1965-1976), delle teorie sull’educ. multiculturale (1976-1996), e delle teorie su → esclusione e discriminazione sociale (1996-2003) in materia di istruz. e → formaz. Le tesi concernenti le p.o., soprattutto di sesso e di razza, stu- diano le condizioni giuridiche e sociali di partecipazione delle donne e delle mino- ranze etniche alla vita civile, politica, economica, culturale ed individuano gli osta- coli al riconoscimento dei diritti umani fondamentali, rivolgendo particolare atten- zione a donne e bambine. Nella Costituzione italiana è scritto: le “leggi regionali ri- muovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive” (art. 117 sostituito dall’art. 3 della L. costitu- zionale 3/01, Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione). Nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, l’UE parla di normativa intesa a stabilire “le misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportu- nità e della parità di trattamento tra donne e uomini in materia di occupazione e im- 172 piego, compreso il principio della parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore” (art III-214). Bibl.: CORRADINI L., “Diritto all’educazione e allo studio e uguaglianza delle opportunità”, in M. LAENG (Ed.), Atlante della pedagogia, vol. I, Napoli, Tecnodid, 1990, 233-271; ANTONOURIS G. - J. WILSON, Equal opportunities in schools. New dimensions in topic work, London, Cassell Educational Limited, 1991; SAULLE M.R., “Il principio della parità tra i sessi come norma di diritto internazionale inderogabile”, in G. MORICI (Ed.), Passato, presente e futuro dei diritti dell’uomo, Roma, Euroma - La Goliardica, 1993, 181-191; ALTIERI G. - F. FARINELLI - S. MEGHNAGI (Edd.), La cultura delle pari opportunità. Le donne nella storia, nel lavoro, nella società, Roma, Ediesse, 1993; FASANO A. - P. MANCARELLI, Parità e pari opportunità uomo-donna. Profili di diritto comunitario e nazionale, To- rino, G. Giappichelli, 2001; RUBENSTEIN M., Discrimination. A guide to the relevant case law on sex, race and disability discrimination and equal pay, London, Butterworths LexisNexis, 2003; PRESI- DENZA DELLA REPUBBLICA ITALIANA, Legge Costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001. Modifiche al ti- tolo V della parte seconda della Costituzione, in www.senato.it/parlam/leggi/eleletip.htm, 17.02.2004; Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004 e pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 16 dicembre 2004 (serie C, n. 310). S. Chistolini PARTI (FORZE) SOCIALI 1. Per una definizione. Le dizioni p.(f.)s. evidenziano immediatamente la difficoltà a identificare in modo preciso ed esclusivo non solo i soggetti protagonisti, ma anche il ruolo e l’area specifica di azione che ne caratterizzano l’appartenenza nel- l’ambito del vasto campo del sociale. Con riferimento, infatti, ai “soggetti” si inclu- dono correntemente nelle p.f.s. i sindacati, gli imprenditori, gli artigiani, i commer- cianti, ecc., ma anche altri attori dell’area dell’associazionismo (→ associazioni) che stanno emergendo nell’ambito delle tematiche relative allo sviluppo dei diritti, degli interessi e dei servizi connessi all’area del sociale nelle comunità complesse. Alla considerevole dimensione numerica dei soggetti corrisponde, invece, poca chiarezza e una rilevanza sistemica alquanto limitata quando si tratta di correlare ruoli e aree specifiche alle diverse p.f. presenti nel sociale. Un indicatore di tale squilibrio si può constatare tra l’uso frequente delle suddette dizioni e la loro as- senza pressoché completa nei dizionari e negli indici analitici della letteratura eco- nomica, scientifica e sociale. 2. Contesto storico. Possiamo comunque constatare che il senso comune attribuito di volta in volta alle p.f.s. si specifica concretamente nelle diverse congiunture sto- riche in cui si trovano ad operare i soggetti protagonisti. Accade così che il mede- simo soggetto – ad es. il → sindacato – si qualifichi come “f.s.” nei contesti di con- fronto-scontro nelle situazioni conflittuali del mondo del → lavoro, mentre viene percepito prevalentemente come “p.s.” in periodi di sviluppo di istanze diffuse di partecipazione responsabile allo sviluppo complessivo e integrale dei cittadini che, con ruoli diversi, tendono a concorrere alla realizzazione di un bene comune e con- diviso. In questa seconda accezione, sempre con riferimento al sindacato, si pos- sono sviluppare alcune caratteristiche di collocazione, di identità e di azione che 173 esso assume come “p.s.”: nell’ambito dell’associazionismo, della rappresentanza sociale, della partecipazione sociale e nei ruoli svolti per raggiungere e sottoscri- vere Intese, Patti e Accordi con i vari soggetti istituzionali, politici e amministra- tivi. 3. Configurazione organizzativa. Nel contesto italiano, la principale fonte di docu- mentazione dell’organizzazione delle “f.s.” è raccolta e aggiornata presso l’archivio del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), organismo composto da rappresentanti del mondo dell’→ impresa, del lavoro autonomo, del lavoro di- pendente (es.: Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, Confesercenti, Col- diretti, Confapi, Coldiretti, Confcooperative, CISL CGIL, UIL, CUB, ecc.) da esponenti del mondo dell’associazionismo sociale e delle organizzazioni del volon- tariato (es: ACLI, ARCI, Compagnia delle Opere, Forum Permanente Terzo Set- tore, Movi, ecc.). L’archivio CNEL alla voce f.s. costituisce una banca dati con lo scopo di offrire alle istituzioni, alle stesse rappresentanze sociali, e a tutti gli inte- ressati, un servizio aggiornato di informazioni e dati su come è articolata e organiz- zata l’area della rappresentanza di interessi e la rappresentanza sociale nel nostro Paese. 4. Partecipazione sociale. Al di là della problematica storica e analitica del con- cetto stesso di “partecipazione” (che qualifica prevalentemente la collocazione più diffusa attualmente delle p.s.), è utile rilevare nell’economia di queste annotazioni i livelli e le dimensioni delle azioni poste in essere dalle p.f.s. nel contesto recente della vita democratica del nostro Paese. Un primo rilievo fa riferimento all’im- pegno di partecipazione che i soggetti svolgono nell’adempimento dei propri ruoli in coerenza col rispettivo quadro di riferimento valoriale nell’area dei diritti di → cittadinanza, volontariato, cooperazione, → solidarietà. Un secondo aspetto ri- guarda l’azione delle p.s. a sostegno dell’efficacia della partecipazione come rap- porto decisionale, che si configura come un far parte di processi orientati a raggiun- gere un approdo sancito e condiviso e dove il livello di partecipazione è proporzio- nale alla possibilità di influenzare, manifestando e sostenendo interessi e prefe- renze riferite alla propria appartenenza istituzionale. Un terzo livello di partecipa- zione delle p.s. comporta l’azione diretta al fine di estendere la partecipazione defi- nita al secondo livello, estensione che può riguardare anche la tipologia dei soggetti (istituzionali, politici, amministrativi, associativi, ecc.), nonché le sfere della deci- sione da prendere (Intese, Patti, Accordi, ecc.). 5. Crisi e sviluppo. Il confronto con le p.s. sta assumendo nel contesto italiano un ruolo sempre più diffuso specialmente nei rapporti con le istituzioni e le ammini- strazioni nazionali e territoriali ai diversi livelli di informazione, di pareri, di coin- volgimento, di approvazione, di sottoscrizione. Lo sviluppo della partecipazione dei soggetti è spesso innescato dalla mobilitazione sociale di ampi strati della popo- lazione, prima esclusi in tutto o in parte dai circuiti dell’economia, della politica e dei diritti di cittadinanza. La crisi si verifica, invece, quando la classe politica e i 174 gruppi dirigenti in genere non sanno fornire soluzioni istituzionali adeguate. In si- mili situazioni, le p.s. si trovano a dover superare eccessi di tecnocrazia e di buro- cratizzazione, che creano distanze sempre più marcate nel tessuto sociale. Ana- loghe situazioni di crisi si verificano in situazioni dove la dilatazione del sistema politico invade sfere, attività e organizzazioni tipiche della → società civile. Le vi- cende alterne del ruolo delle p.s., sindacati e → imprese, nei confronti con il Go- verno sono documentabili con alcuni riferimenti recenti a cominciare soprattutto dagli anni ‘90, che interessano anche l’ambito di materie nuove quali la cultura, l’i- struz., la → formaz. Tra questi ultimi si possono ricordare: l’Accordo del 31 luglio 1991, che ha azzerato la scala mobile e posto le basi per una nuova struttura del sa- lario; l’Accordo sul costo del lavoro del 23 luglio 1993; l’Accordo per il lavoro e l’occupazione del 24 settembre 1996, con i primi riferimenti al diritto alla formaz. fino ai 18 anni di età; il Patto Sociale per lo sviluppo e l’occupazione, del 22 di- cembre 1998, che viene indicato, tra l’altro, come riferimento inedito nell’espe- rienza politica per l’elaborazione della “legge-quadro in materia di riordino dei cicli dell’istruzione” (L. 30/2000, abrogata con la L. 53/03). Se questi sono ele- menti positivi e di sviluppo della cosiddetta fase di “concertazione” (→ part- nership) con le p.s., bisogna subito aggiungere come le spinte ad un ritorno alla prassi opzionale del “confronto”, che rimanda ai rapporti di forza, allontana negati- vamente non solo l’azione partecipativa, ma soprattutto quella decisionale con il coinvolgimento delle p.s. Bibl.: BOBBIO N., L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990; SARTORI, G., Democrazia, cos’è?, Milano, F. Angeli, 1993; BAGLIONI G., Democrazia impossibile? Il cammino della partecipazione nell’im- presa, Bologna, Il Mulino, 1995; ROMANI M., Appunti sull’evoluzione del sindacato, Roma, Edizioni Lavoro, 2000; NAPOLI M., Principio di sussidiarietà, Milano, Vita e Pensiero, 2003. P. Ransenigo PARTNERSHIP La p. (o partenariato, o anche concertazione), introdotta dalla Riforma dei Fondi Strutturali del 1988, è uno dei principi generali su cui si fonda la politica di co- esione economica e sociale dell’UE. Sancito nel Regolamento CEE 2081/93 del Consiglio e successivamente ribadito nel Regolamento CEE 1260/99, il principio di p. ha rappresentato una profonda innovazione delle politiche dell’UE. Stretta- mente connesso al principio di complementarietà, in base al quale la Commissione ritiene che l’azione strutturale da essa svolta deve essere complementare rispetto alle iniziative realizzate a livello nazionale, per p. s’intende quella forma di concer- tazione che, a diversi livelli, si realizza nella programmazione e attuazione dei Fondi Strutturali. L’obiettivo è infatti quello di assicurare il coinvolgimento di tutti i soggetti istituzionali competenti e delle parti economiche e sociali nella defini- zione della politica di coesione e di garantire la massima efficacia dell’azione co- munitaria. L’art. 8 del Regolamento 1260/99, infatti, dispone che l’azione comuni- 175 taria è complementare alle azioni nazionali corrispondenti o vi contribuisce. Ciò è il risultato della stretta concertazione tra la Commissione, lo Stato membro interes- sato, le autorità e gli organismi designati dallo Stato membro, nel quadro delle pro- prie normative nazionali, delle prassi correnti, comprese le autorità regionali e lo- cali e le altre autorità pubbliche competenti, le Parti economiche e sociali (→ Parti sociali), gli altri organismi competenti in tale ambito. La p., come precisa il sud- detto regolamento, sempre operando nel pieno rispetto delle competenze istituzio- nali, giuridiche e finanziarie di ciascun partner, si concretizza in tutte le principali fasi della programmazione e dell’attuazione degli interventi: elaborazione dei Piani, negoziazione e approvazione dei Quadri comunitari di sostegno, attuazione delle forme di intervento, azioni di sorveglianza e di valutazione (ex ante ed ex post) delle azioni intraprese. 1. Altri significati di p. Per p. si intende anche la formula, spesso presente fra le condizioni necessarie di partecipazione ad un programma comunitario, che indica la necessità di collaborazione di più soggetti, appartenenti a Stati diversi, per l’at- tuazione di un progetto. Le modalità concrete di p. possono essere diverse e sono specificate nei singoli programmi. 2. P. per l’adesione. I partenariati per l’adesione, conclusi dal Consiglio d’Europa con i Paesi candidati ad entrare nell’UE, rappresentano le intese preliminari finaliz- zate all’adesione di ciascun Paese. Tali accordi sono finalizzati a pianificare gli aiuti della Comunità Europea ai nuovi membri, le condizioni per la concessione e definiscono le priorità di ciascun settore, ai fini dell’adeguamento alla legislazione comunitaria. Nell’ambito dei partenariati, ciascun Paese stabilisce un programma dettagliato per il raggiungimento dell’“acquis” comunitario in cui si specificano le priorità da raggiungere e le → risorse umane e finanziarie necessarie. A seguito della firma del Trattato di adesione il 16 aprile 2003 e all’adesione ufficiale di Cipro, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia all’UE il 1° maggio 2004, i partenariati per l’adesione con questi Paesi sono terminati. Bibl.: CONSIGLIO D’EUROPA, Regolamento CEE n. 2081/93; COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE - ISFOL - MLPS, Fondo sociale Europeo: Strumenti e percorsi per l’accesso, Roma, Il Centro Stampa, 1996; CONSIGLIO D’EUROPA, Regolamento CEE n. 1260/99; COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Partnership in the 2000-2006 programming period. Analysis of the implementation of the partnership principle (Discussion paper of DG Regio), Novembre 2005, in http://ec.europa.eu/ regional_policy/sources/docoffic/official/reports/pdf/partnership_report2005.pdf, 14.02.06; ISFOL Compendio normativo del FSE. Manuale 2000-2006 - I libri del FSE. Roma 2000. E. Marsilii PEDAGOGIA DEL LAVORO Area della ped. sociale che si occupa della riflessione attorno al → lavoro come uno dei luoghi di → educ. permanente della persona. Già nel XVII sec. Comenio ve- 176 deva nel “fare” delle mani il contributo allo sviluppo armonico dell’uomo, una mo- dalità di → apprendimento e di espressione personale in continuità con l’azione del mastro artigiano medioevale; la spiritualità della Riforma cattolica si orientò al- l’educ. al → lavoro nella → formaz. dei poveri e degli orfani. Locke la aprirà anche alla formaz. del gentleman, mentre il movimento delle scuole attive (XIX sec.) pro- porrà curricoli formativi costruiti sul lavoro in concorrenza con la scuola umani- stica (Bürgerschule di Salomon, 1893), riconoscendo il lavoro manuale come ne- cessario per l’educ. di tutti i bambini attraverso una specifica didattica. Troviamo così in Russia la trudovaja skola del Blonskij (1919); a Monaco di Baviera la ar- beitschule del Kerschensteiner (1925); se ne occuperanno anche Dewey, Frenet, Ferrière. In Italia, la “Carta della scuola” voluta dal Bottai pose il lavoro come aspetto centrale della formaz. dell’uomo fascista. Un secondo filone pedagogico sorge dalle teorie sull’educ. permanente affermando come all’interno del lavoro produttivo si ritrovano aspetti educativi dell’uomo. Oltre il taylorismo, già Hessen (1950) proponeva l’idea di un “secondo mondo del lavoro” come assieme di elementi sociali e culturali, nella tensione alla piena rea- lizzazione umana del lavoratore. La valorizzazione della risorsa umana e quindi della → competenza come aspetto essenziale del lavoratore, delinea un quadro di riferimenti a processi educativi che fanno pensare ad un continuum fra → istruz., → FP e lavoro direttamente agito nelle → imprese. Bibl.: HESSEN S., Pedagogia e mondo economico, Roma, AVIO, 1950; BOCCA G., Pedagogia del la- voro. Itinerari, Brescia, La Scuola, 1998. G. Bocca PERCORSI/PROGETTI DESTRUTTURATI 1. I “p./p. d.”mirano espressamente alla → prevenzione e al recupero di soggetti ca- ratterizzati da forme diverse di → disagio/difficoltà. La loro natura risponde a ciò che nei Paesi della UE viene definita come “seconda chance” in tema di diritti for- mativi, ossia un insieme integrato e coerente di spazi-tempi formativi volti a favo- rire, attraverso interventi di (ri) → orientamento e → accompagnamento, la crescita integrale di coloro che per varie ragioni e/o a vario modo hanno perso la “prima opportunità”. 2. A fronte di un processo riformatore che, con l’introduzione del diritto-dovere ad istruz. o → formaz. sino al compimento del diciottesimo anno di età, ha portato ad incrementare il numero dei giovani collocati nei canali formativi, in Italia perman- gono a tutt’oggi gruppi di adolescenti e giovani che si collocano al di fuori di ogni → sistema formativo e produttivo: si tratta di un 4% ca. di 15-24enni che, secondo il Rapporto ISFOL (2004, 222), avendo perso l’opportunità di fare un’appropriata scelta formativa mettono a rischio anche un dignitoso inserimento nella vita attiva. Si tratta di giovani particolarmente vulnerabili a causa dell’accumularsi di condi- 177 zioni di svantaggio che, sulla base di esperienze negative/penalizzanti, hanno una ricaduta diretta su una mancata o incompiuta costruzione del “sé”; condizione che a sua volta è all’origine di un cortocircuito di marginalità che li porta ad essere esclusi sia dai sistemi di istruz. e di formaz. che da una responsabile partecipazione alla vita attiva. Per venire incontro a questi giovani, la strategia di inclusione/re-in- serimento nel sistema formativo non può essere legata a modelli tradizionali, bensì occorre avanzare nei loro confronti una → proposta formativa specifica, dal carat- tere flessibile e fortemente personalizzata (→ personalizzazione), in grado di ac- compagnarli lungo il processo di ricostruzione del “sé” e di un progetto di vita. E una risposta in tal senso potrebbe venire appunto dai cosiddetti “p./p. d.”. 3. I programmi destinati ad agevolare l’→ inclusione sociale, formativa e lavorativa dei soggetti svantaggiati poggiano infatti sui principi della community care, dello “sviluppo sostenibile” del territorio, della → partnership e della “concertazione dal basso”; ed i principali obiettivi possono essere così sintetizzati: promuovere per- corsi finalizzati a nuove opportunità formative e rivolti direttamente a giovani che hanno abbandonato i normali canali che assicurano l’esercizio del diritto-dovere al- l’istruz. e alla formaz.; offrire supporti al territorio per la gestione di interventi ri- volti ad affrontare le nuove povertà culturali e formative di giovani in difficoltà, in prospettiva di prevenzione della dispersione formativa e di lotta all’→ esclusione sociale; stabilire convenzioni e collaborazioni operative, dando vita a → reti territo- riali di supporto ad azioni formativo-educative adeguate a giovani portatori di diffi- coltà varie per entità ed estrazione. Di conseguenza i progetti promossi nei con- fronti di queste categorie non si presentano più come un assemblaggio di → moduli statici, sottoposti a rigidi obiettivi nel fissare il numero degli utenti, il monte ore e le risorse disponibili, ma devono avere la caratteristica di “processo” e, in quanto tali, richiedono: flessibilità a 360 gradi, ossia il superamento di un’offerta standar- dizzata e sequenziale dei saperi per l’adozione di criteri di → personalizzazione del progetto formativo; → alternanza, intesa come interfaccia tra formaz. e → lavoro e come principio in grado di sviluppare la mentalità della → FP continua; presenza di servizi/azioni di supporto, quali l’informazione, l’→ orientamento, il counseling, l’→ accompagnamento; utilizzo di → metodologie didattiche interattive, nella lo- gica del principio learning by doing (lavori di gruppo, esercitazioni in laboratorio, stage…); presenza di un’équipe di progetto, per assicurare la congruenza tra gli → obiettivi e la programmazione didattica e per verificare quindi l’→ efficacia/effi- cienza del percorso formativo. Bibl.: CRESSON E. - P. FLYNN, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Com- missione Europea, 1996; CEDEFOP, Le persone di scarsa qualificazione nel mercato del lavoro: pro- spettive e opzioni politiche. Verso una piattaforma formativa minima, Lussemburgo, Ufficio delle Pubblicazioni Ufficiali della Comunità Europea, 2000; COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Rea- lizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente. Comunicazione della Commissione, Bru- xelles, COM(2001) 678 definitivo, 21.11.2001; MION R. - V. PIERONI, Ragazzi difficili. Misure a so- stegno/accompagnamento, Ortona, Piano di Zona n. 26, 2002; NICOLI D., Verso una formazione pro- fessionale matura. Quali prospettive?, in CIOFS/FP - CNOS-FAP (Edd.), Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla formazione: i nuovi traguardi della formazione professionale, Roma, Tipografia 178 Pio XI, 2002, 105-146; ISFOL, Rapporto 2004 ISFOL, Roma, Tiellemedia, 2004; NICOLI D. (Ed.), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, Roma, Tipografia Pio XI, 2004. V. Pieroni PERCORSO FORMATIVO → Progettazione formativa; → Tirocinio; → Valutazione; → Accoglienza; → Ac- compagnamento al lavoro; → Contratto formativo; → Credito formativo; → Curri- culum vitae; → Disagio; Esclusione sociale; → FPI; → Obiettivi formativi; → Ap- prendimento PERSONALIZZAZIONE Riferimento del percorso educativo-formativo alla specifica realtà personale del- l’allievo. Personalizzare significa delineare differenti percorsi di trasferimento-ac- quisizione delle → conoscenze, → abilità e → competenze, in base alle caratteri- stiche proprie di ciascun allievo: stili di → apprendimento, metodi di studio, carat- teristiche peculiari. Il concetto di p. impone un’analisi dei → bisogni dei soggetti che porti a modalità organizzative diversificate per gruppi, che possono variare a seconda degli → obiettivi di → apprendimento. 1. Il concetto di p. è strettamente connesso a quello di successo formativo (→ suc- cesso scolastico e professionale). Esso si realizza nel momento in cui la persona è in grado di trasformare le proprie → capacità (attitudini, atteggiamenti, risorse, vo- cazione) in competenze, al fine di ottenere comunque un risultato soddisfacente nel senso del conseguimento di una → qualifica professionale, garanzia di supporto al- l’inserimento lavorativo (→ accompagnamento al lavoro); della possibilità di una prosecuzione della → formaz. (diploma di formaz., diploma di formaz. superiore) e di un passaggio anche nei Licei e nell’Università. 2. Il tema della p. rappresenta uno degli snodi centrali nelle riforme dei sistemi for- mativi. Le politiche scolastiche degli ultimi decenni si sono concentrate decisa- mente sull’obiettivo della scolarizzazione di massa dei cittadini, affinché tutti po- tessero usufruire di una → istruz. di base. Si è trattato di un grande sforzo che ha condotto a risultati indubbi, anche se il modo in cui si sono realizzati è stato condi- zionato da un lato dagli approcci prevalenti e dalle risorse impiegate, e dall’altro dall’influenza del contesto e dalle sue nuove sfide. Va infatti ricordata la domi- nanza di → metodologie basate sulla garanzia del perseguimento di obiettivi stan- dard per tutti. La “ped. degli obiettivi” si è ben prestata in questa direzione, ma nel fare ciò non ha potuto impedire che si creasse una omologazione delle pratiche pe- dagogiche, che hanno teso a rivolgersi ad una figura indistinta, una sorta di “stu- dente medio” che in realtà non esiste, scontentando da un lato i soggetti più in dif- ficoltà e quelli portati all’eccellenza, senza peraltro stimolare adeguatamente le 179 persone mediamente dotate. Ciò anche a causa della repulsione ideologica per le pratiche pedagogiche differenziate, ritenute sempre come sinonimo di disugua- glianza e di ingiustizia sociale. 3. Pellerey riassume nelle seguenti tre le caratteristiche di una formaz. personaliz- zata: “in primo luogo si mette in risalto la fondamentale e irripetibile caratterizza- zione dei diversi soggetti educandi. Volerli tutti imbrigliare in un unico progetto e in un analogo percorso educativo significa da una parte misconoscere la realtà e la dignità delle singole persone, dall’altra esporsi a brucianti delusioni e fallimenti. In secondo luogo si constata che è difficile prevedere in anticipo tutti i bisogni e le possibilità educative che durante l’attività educativa emergeranno. Essere prigio- nieri di un progetto prefabbricato rende ciechi e sordi a nuove istanze, a occasioni inaspettate, a nuove presenze e a nuove prospettive. Le cose veramente importanti nel fatto educativo sono l’attività e l’esperienza che vengono proposte, che devono essere in sé cariche di potenzialità e di valori in molte direzioni. Ciascun giovane le vivrà secondo il suo animo e la sua motivazione, le farà fruttificare secondo i propri ritmi, il proprio stile, arricchendo se stesso secondo le proprie esigenze e prospettive. In terzo luogo ci si espone a pericoli di formalismo tecnicista, di buro- cratismo, di comportamentismo riduttivo” (Pellerey, 1999, 162-163). 4. Diversamente dall’individualizzazione, la p. avviene generalmente entro un gruppo e prevede una flessibilità nell’aggregazione di gruppi di allievi: gruppi classe (per alcuni scopi), gruppi di livello (per altri scopi), gruppi d’interesse o elet- tivi. Il gruppo classe va inteso soprattutto come ambito che sostiene il processo di socializzazione piuttosto che un gruppo di apprendimento, mentre solo quando si costituiscono gruppi di “scopo” gli allievi imparano meglio. 5. La p. è quindi ad un tempo una opzione metodologica di fondo che caratterizza per intero l’opera dell’educatore, ma indica pure una serie di azioni specifiche che consentono di perseguire il fine del successo formativo per tutti. Le azioni di p. consistono in laboratori di approfondimento e di recupero, attività connesse ai pas- saggi tra ambiti e sistemi formativi, laboratori di livello ed elettivi, attività di → al- ternanza, esperienze di autoformazione, laboratori di sviluppo di capacità personali. Bibl.: GENTILE G., La risorsa umana: un potenziale pressoché illimitato, Milano, F. Angeli, 1995; PELLEREY M., Educare. Manuale di pedagogia come scienza pratico-progettuale, Roma, LAS, 1999; ISFOL, La personalizzazione dei percorsi di apprendimento e di insegnamento, Milano, F. Angeli, 2001; CHIOSSO G., Personalizzazione dei percorsi e qualità della scuola, in “Nuova Secondaria” 7 (2002) 13-18; NICOLI D., La personalizzazione dei percorsi formativi, in “Rassegna CNOS” 1 (2003) 24-38. D. Nicoli POLITICHE FORMATIVE Per p.f. si intende l’insieme degli interventi posti in essere dall’autorità pubblica nella scuola e nella → FP in vista del raggiungimento del bene comune. 180 1. Una scuola che istruisce. Con una formula sintetica si può forse dire che in questo momento si contendono il campo quattro visioni diverse delle p.f. Una prima ipotesi è costituita da un modello di scuola/ → CFP finalizzata esclusiva- mente o quasi al perseguimento di obiettivi cognitivi, all’→ istruz. cioè. In tale ipo- tesi la → formaz. intellettuale occupa il centro della scena e l’intelligenza viene im- maginata a guisa di un calcolatore naturale che bisogna far funzionare nel modo più efficace in risposta alle sollecitazioni dell’→ ambiente. Inoltre, riprende credito la tesi tradizionale della separazione della scuola dalla vita, interpretata tuttavia in una maniera nuova, come strategia per consentire la simulazione scientifica delle operazioni da ripetere nel concreto. Le finalità della → formaz. non vengono identi- ficate in una formaz. globale centrata sulla cultura generale, ma nella preparazione professionale focalizzata su contenuti di natura scientifico-tecnologica. L’ipotesi può comportare degli effetti negativi sulla dimensione formativa dei processi di → insegnamento/→ apprendimento e, di conseguenza, sul contributo della scuola/CFP alla maturazione della persona. 2. Una scuola che seleziona. Un’altra formula è quella di un → sistema formativo che seleziona, che è modellato sulla base di “politiche di eccellenza”. È uno sce- nario tutto dominato dalla centralità degli esami e delle votazioni e dal primato della qualità dell’→ insegnamento. L’analogia fondamentale è data dall’azienda: pertanto, la finalità prioritaria consiste nel produrre, mediante la combinazione otti- male dei vari fattori, un risultato che dovrà essere valutato sul piano quantitativo e qualitativo e di cui si dovrà rendere conto ai diversi utenti/pagatori; diviene essen- ziale il concetto di “performance”, cioè di acquisizioni formative misurabili e obiettivamente registrate; la gestione delle strutture formative, del personale e delle risorse, assume un carattere autonomo e flessibile. In sostanza, la scuola/FP ver- rebbe ad essere pervasa dalla logica del merito e della concorrenza, il libero mer- cato entrerebbe nel mondo della formaz. e il sistema formativo si muoverebbe a due velocità, una per la massa e l’altra per un’élite intellettuale. In altre parole, questa scuola significa il trionfo dei valori neo-borghesi e del loro individualismo che non vanno molto d’accordo con un’etica della → solidarietà sociale. 3. Il modello tecnocratico. La terza ipotesi è costituita dal modello tecnocratico: si tratta di una formaz. che si basa tutta sulla telematica, sulle banche dati, sui com- puter. Si caratterizza per l’esplosione dei luoghi di formaz. attraverso il decentra- mento dei processi di insegnamento/apprendimento nel proprio domicilio sulla base di reti telematiche e dell’interdipendenza di strutture diverse, collegate con una sede centrale di consulenza, di risorse e di → valutazione. Esso comporta una modificazione profonda delle condizioni di organizzazione interna del sistema for- mativo, compresa la gestione del personale, implica uno sviluppo adeguato del software didattico e soprattutto presuppone investimenti consistenti in attrezzature e nella preparazione dei → formatori. In questo caso, l’efficientismo e il tecnicismo potrebbero mortificare i valori etici e spirituali che rispondono a una logica sostan- ziale e non strumentale. 181 4. L’impostazione neo-umanistica e solidaristica. Anzitutto questa mantiene la priorità della funzione formativa sull’istruttiva: in altre parole, la formaz. viene in- tesa come sviluppo globale della personalità, tanto sul piano cognitivo, che su quello emotivo e valoriale, tanto degli aspetti individuali che della dimensione so- ciale. Sul piano strutturale i punti di riferimento sono la politica dell’alternanza e il sistema integrato. Le finalità vengono individuate nei valori emergenti della → so- lidarietà, dello sviluppo, della protezione dell’ambiente, della tutela dei diritti umani, della mondialità. L’innovazione viene perseguita mediante procedure demo- cratiche e partecipative: in particolare, la singola → comunità educativa diviene lo strumento per eccellenza di gestione del sistema formativo e di costruzione del tes- suto educativo locale. Essa implica la scelta della progettualità, della flessibilità, della collaborazione, della promozione del privato sociale, per ovviare alle inade- guatezze del gigantismo degli apparati amministrativi della scuola. Indubbiamente, la scelta neo-umanistica e solidaristica è esposta al rischio della retorica delle pro- clamazioni inefficaci e del trionfalismo di un’utopia totalmente priva di agganci con la realtà concreta. Tuttavia, appare anche come l’unica strada che permette di affrontare in modo efficace le sfide educative attuali. Questa sembra sostanzial- mente l’impostazione anche del rapporto Delors che presenta le strategie dell’U- NESCO per il XXI sec. (Delors et al., 1996). Bibl.: FAURE E. et al., Learning to Be, Paris/London, UNESCO/Harrap, 1972; CRESSON E. - P. FLYNN, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1996; DE- LORS J. et al., L’éducation. Un trésor est caché dedans, Paris, Editions UNESCO/Editions Odile Jacob, 1996; MALIZIA G. - C. NANNI, “Istruzione e formazione: gli scenari europei”, in CIOFS/FP - CNOS-FAP (Edd.), Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla formazione: i nuovi traguardi della Formazione Professionale, Roma, Tipografia Pio XI, 2002, 15-42; NICOLI D., Istruzione e formazione professionale. Nuovi modelli formativi per il bene della gioventù e della società, in “Rassegna CNOS” 20 (2004) 1, 28-40; GLENN C.L., Il mito della scuola unica. Torino, Marietti, 2004. G. Malizia PORTFOLIO → Valutazione; → Tutor; → Lingua straniera PREVENZIONE La p. può essere definita come “l’insieme degli interventi sulle persone sane e sul- l’ambiente ed ha come fine l’anticipazione di un evento patogeno in modo da im- pedire che esso si manifesti” (Merenda, 1995, 16). 1. Il concetto di p. è intimamente connesso con quello di salute o benessere. Tale stato viene attualmente minacciato da alcuni comportamenti collettivi “a rischio”: abuso di sostanze stupefacenti e tossiche (dall’alcool al fumo), condotte pericolose. Tali comportamenti, che nascono probabilmente da situazioni di → disagio, met- tono a repentaglio sia la salute dell’individuo, sia la sicurezza degli altri. La p. al- 182 lora può essere intesa, come la difesa dei “buoni”, contro il pericolo rappresentato dai “devianti”: è la classica p. “repressiva”. 2. Accanto a questa, si fa strada una concezione “promozionale” della p. che mira ad incidere sulle cause del disagio e dell’emarginazione, prevenendone lo stabiliz- zarsi. Sia cause oggettive, strutturali, esterne al giovane, cui si fa fronte diretta- mente con interventi sociali e politici; sia cause soggettive, personali, interne al giovane, cui si fa fronte direttamente attraverso i processi educativi e formativi (→ processo formativo), e indirettamente con interventi politici. Promuovere la p. in senso educativo significa non solo far evitare esperienze che possono avere conse- guenze negative sul processo di maturazione umana, ma anche anticipare ed ac- compagnare processi positivi di crescita, offrirne gli strumenti adeguati, con una appropriata relazione educativa. Significa potenziare nel giovane la capacità di de- cisione, di progettualità, di coerenza verso livelli sempre più alti di maturità. Signi- fica aiutarlo a sviluppare la capacità di anticipare lui stesso e risolvere corretta- mente i problemi, di prevenire gli esiti negativi del disagio, della marginalità, della problematicità, che sono diventate dimensioni ormai generali e normali della vita di oggi. Ciò permette di introdurre concetti recenti come quelli di empowerment, → coping e resilienza. Concetti tutti che tendono a promuovere nell’individuo la capa- cità di reagire, utilizzando le risorse interiori per emergere da situazioni svantag- giose o stressanti, conseguendo una propria maturità e realizzazione, senza ricor- rere a strumenti illegali o nocivi. Bibl.: BUSCEMA M., Prevenzione e dissuasione. Saggi teorico-critici, Torino, EGA, 1986; MION R. (Ed.), Emarginazione e associazionismo giovanile. Emarginazione, disagio giovanile e prevenzione nella società italiana dal 1945 ad oggi, Roma, Ministero dell’Interno, 1990; REGOGLIOSI L., La pre- venzione del disagio giovanile, Roma, NIS, 1994; MERENDA P., Educazione alla salute e scuola, To- rino, SEI, 1995. G. Vettorato PROBLEM SOLVING Il p.s. (soluzione di problemi) consiste in una strategia cognitiva attraverso la quale la persona, posta di fronte ad una situazione problematica, ovvero non risolvibile facendo appello alle conoscenze e alle strategie in quel momento disponibili, è por- tata a generare nuove alternative di soluzione per poi selezionare, tra queste, quelle ritenute più efficaci. 1. La strategia consta di alcune fasi ben codificate e con carattere di propedeuticità: 1) Orientamento generale. È la fase nella quale la persona dopo aver percepito il problema decide di assumere una posizione attiva nei confronti dello stesso; 2) De- finizione del problema. È la fase nella quale la persona raccoglie tutte le informa- zioni utili a definire la situazione problematica in termini concreti e specifici, in modo tale da identificare gli → obiettivi da raggiungere; 3) Produzione di alterna- tive. È la fase nella quale la persona, facendo ricorso alla propria creatività e supe- 183 rando l’inibizione connessa alle proprie funzioni critiche e ai propri condiziona- menti, cerca di produrre il maggior numero di idee senza preoccuparsi della loro fattibilità. Tale fase si attua applicando le regole del differimento del giudizio (la valutazione è posposta al termine dell’elencazione delle alternative) e della quan- tità che genera la qualità (maggiore è il numero delle alternative prodotte, mag- giore è la possibilità di trovare soluzioni efficaci); 4) Assunzione di decisioni. È la fase nella quale la persona, dopo aver previsto per ciascuna alternativa le possibili conseguenze (a breve e a lungo termine, personali e sociali), formula la scelta su come operare; 5) Verifica dell’efficacia dell’alternativa prescelta. È la fase in cui la persona valuta l’utilità delle strategie e delle tattiche elaborate rispetto agli obiettivi formulati nella definizione del problema. 2. La strategia del p.s. ha una gamma di applicazione molto ampia e può essere adottata per problemi di natura personale, interpersonale, scolastica e professionale. Bibl.: HOLYOAK K.J., “Problem solving”, in D.N. OSHERSON - E.E. SMITH (Edd.), Thinking: An Invita- tion to cognitive science, Cambridge, MA, The MIT Press, 1990, 117-146; MAYER R.E., Thinking, problem solving, cognition, New York, Freeman, 1992; MEAZZINI P., “Usare le risorse delle mente”, in P. MEAZZINI, L’insegnante di qualità, Firenze, Giunti, 2000, 137-194. A. R. Colasanti PROCESSO FORMATIVO L’espressione p.f. non è di facile definizione. Di fatto viene usata sia come sinonimo, o anche inclusivo, di “p. educativo e/o didattico”, come anche con un significato spe- cifico in qualche modo distinto, cioè riferito alla preparazione professionale. Ciò di- pende dall’uso variegato del termine → formaz., del quale conviene rilevare in par- ticolare due accezioni: una ampia, ossia come sinonimo, o meglio inclusivo, di → educ., → istruz., → apprendimento, addestramento, aggiornamento, come indicativo del processo di integrale sviluppo personale e come azione umanizzatrice attraverso la cultura; una ristretta, come azione formativa inerente all’acquisizione di → com- petenze riferite a dimensioni particolari della personalità (formaz. intellettuale, so- ciale, religiosa, ecc.) o alla preparazione professionale secondo ruoli e categorie di → lavoro (formaz. iniziale-continua/permanente dei genitori, degli insegnanti, dei → formatori, dei lavoratori, degli specialisti, dei manager, ecc.). 1. P.f. come azione organizzata, permanente. Sia nell’uno che nell’altro significato, per p.f. si può intendere l’insieme delle interazioni educativo-didattiche miranti ad un armonico, graduale e costante sviluppo, che si instaura nei e per i soggetti in di- rezione dei fini formativi. Ogni p.f., pertanto, comporta una finalizzazione organica dei suoi vari momenti, in termini di continuità (verticale e orizzontale), di dinami- cità e integralità, così pure un’attenta analisi dei → bisogni di formaz. (degli indi- vidui e dell’organizzazione) e una coerente progettazione/realizzazione/→ valuta- zione delle attività/interventi e dei risultati che si ottengono durante e alla fine del 184 percorso. Senza un chiaro progetto educativo/formativo (→ progettazione forma- tiva), il p.f. rischia frammentarismo, disorganicità, nonché spreco di → risorse umane ed economiche degli individui e delle istituzioni. Ogni p.f., anche quando avviene “a distanza” (→ FAD), suppone delle mediazioni (interpersonali, istituzio- nali e non) di vario tipo, in attenzione alla dignità della persona umana e ai suoi → bisogni formativi (sapere, saper fare, saper essere), lungo la vita, nel contesto socio-culturale odierno, sempre più caratterizzato da rapido cambiamento e interdi- pendenza. Il p.f., dunque, ha bisogno di essere considerato nella sua globalità, nella prospettiva della formaz. dell’uomo e del cittadino consapevole della propria collo- cazione nel mondo e capace di collaborare, in modo responsabile, costruttivo e creativo, alla realizzazione del bene comune. 2. P.f. e sua promozione. Nel p.f. intervengono molti fattori (umani, culturali, istitu- zionali, materiali e ambientali) la cui conoscenza è indispensabile per un’adeguata conduzione del p.f. il quale sta divenendo sempre più complesso non solo per un’e- sigenza di → personalizzazione pedagogico-didattica, orientatrice, promotrice del- l’autoformazione dei soggetti formandi, ma anche a motivo della complessità della → società in generale e del mondo del → lavoro in particolare, che pongono nuove questioni alla stessa formaz. ed esigono una costante ottimizzazione, in termini di → qualità, tanto dei processi quanto dei “prodotti”/esiti della formaz. sia scolastica che professionale propriamente detta, una capacità di ricerca-azione, un operare si- nergico nel quadro di un → sistema formativo integrato e in → rete. Una sensata or- ganizzazione e conduzione del p.f. all’altezza dei tempi richiede non solo la prepa- razione iniziale, ma anche quella permanente dei formatori, alla luce sia delle scienze dell’educ. e della formaz., sia anche di quelle dell’organizzazione e della comunicazione. Bibl.: DOMINICÉ P., L’histoire de vie comme processus de formation, Paris, L’Harmattan, 1990; ALÌ G., “Proceso educativo”, in G. FLORES D’ARCAIS - I. GUTIÉRREZ ZULOAGA (Edd.), Diccionario de ciencias de la educación, Madrid, Ediciones Paulinas, 1990, 1525-1528; QUAGLINO G.P. - G.P. CAR- ROZZI, Il processo di formazione. Dall’analisi dei bisogni alla valutazione dei risultati, Milano, F. An- geli, 1990; FABRE M., Penser la formation, Paris, PUF, 1994; GIANOLA P., “Processo educativo”, in J.M. PRELLEZO - C. NANNI - G. MALIZIA (Edd.), Dizionario di scienze dell’educazione, Leumann (TO)/Roma/Torino, ElleDiCi/LAS/SEI, 1997, 858-859; NANNI C., “Formazione”, in J.M. PRELLEZO - C. NANNI - G. MALIZIA (Edd.), Dizionario di scienze dell’educazione, Leumann (TO)/Roma/Torino, ElleDiCi/LAS/SEI, 1997, 432-435; PINEAU G., “Formation”, in P. CHAMPY - C. ETÉVÉ (Edd.), Dic- tionnaire encyclopédique de l’éducation et de la formation, Paris, Nathan, 1998, 459-462. H.-C.A. Chang PROFESSIONALITÀ P. è il carattere di una attività lavorativa che si segnala per essere specializzata, al- tamente qualificata, di riconosciuta utilità sociale, svolta da individui che hanno ac- quisito una → competenza specialistica attraverso un preciso percorso di studi orientato a tale obiettivo (Gallino, 1993, 516). In tale prospettiva, chi possiede una 185 determinata p., ovvero esercita una determinata professione, è tradizionalmente as- sociato all’idea di appartenenza ad una posizione medio-alta, di prestigio, all’in- terno del sistema della stratificazione sociale. In particolare, ciò che avviene è l’i- dentificazione tra il concetto di p. e l’idea che la lega strettamente all’esercizio delle cosiddette “professioni libere”: quelle di avvocato, notaio, medico, ingegnere. 1. In senso lato, tuttavia, è andata sempre più diffondendosi una seconda accezione di p., ovvero quella riferibile ai connotati di una qualsiasi attività lavorativa svolta con continuità, tanto in forma subordinata, quanto autonoma. Ovvero, il cosiddetto “professionismo” è andato diffondendosi in ambiti del → mercato del lavoro sino a poco tempo fa non definiti in tal senso, toccando una larga varietà di posizioni la- vorative. Per l’una e per l’altra accezione di p., una prima questione di cruciale in- teresse riguarda la grande rilevanza che assume, in rapporto ad essa, il tema della → formaz. Nel primo caso, l’idea di p. come attività lavorativa altamente qualifi- cata, poiché essa passa necessariamente attraverso il conseguimento di un titolo di studio e di una abilitazione. Nel secondo caso, l’idea di p. come esercizio di una qualsiasi attività lavorativa, poiché essa include comunque impiegati di medio-alto livello, tecnici, operai specializzati (in fr., professionnels), ovvero individui per i quali è riconoscibile il fatto che si siano qualificati al fine di svolgere una determi- nata attività lavorativa. 2. Una seconda questione riguarda il rapporto tra professione, → etica e → coesione sociale, problema che ha interessato la sociologia sin dal suo sorgere come disci- plina. La → società capitalistica moderna, infatti, avrebbe legittimato il manteni- mento di posizioni privilegiate nel mercato e nella stratificazione della società da parte delle professioni in quanto esse, attraverso un → lavoro organizzato, di utilità sociale, eticamente fondato e tecnicamente specializzato, avrebbero svolto una fun- zione nomica (Sarfatti Larson, 1998, 85), e dunque creatrice di ordine, fonte di norme razionali e specifiche, ovvero l’opposto del concetto di anomia proprio di Durkheim. Ora, questo modo di intendere la funzione svolta dalle professioni – e la legittimità del ruolo che esse ancora giocano e a cui aspirano – sembra essere messo fortemente in crisi dai nuovi processi di lifelong learning, che scardinano i sistemi di credenziali definite rigidamente. E questo, peraltro, in coerenza con i mutamenti strutturali e culturali messi in luce dalle analisi più recenti in materia di → sistemi produttivi. Mutamenti, dunque, che sfumano i confini tra le diverse pro- fessioni e ne ridefiniscono i contenuti in termini di nuove competenze, tenuto conto che una domanda di prodotti e servizi sempre più personalizzati sta determinando da un lato una diminuzione nella capacità di incidenza e legittimazione delle pre- stazioni, e dall’altro, una rivoluzione metodologica nel modo di intendere l’eser- cizio dei tradizionali → ruoli professionali. Bibl.: CACCAMO R., Il filo di Arianna. Una ricerca sulle professionalità creative, Milano, F. Angeli, 1987; TOUSIJN W. (Ed.), Le libere professioni in Italia, Bologna, Il Mulino, 1987; GALLINO L., “Profes- sioni, Sociologia delle”, in ID., Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1993, 516-517; GIANNINI M. - E. MINARDI, “Per una sociologia dei gruppi professionali”, in ID. (Edd.), I gruppi professionali, Colla- 186 na “Sociologia del Lavoro”, vol. 70-71, Milano, F. Angeli, 1998, 9-24; SARFATTI LARSON M., “Le fun- zioni “nomiche” delle professioni e la fine della modernità”, in M. GIANNINI - E. MINARDI (Edd.), I gruppi professionali, Collana “Sociologia del Lavoro”, vol. 70-71, Milano, F. Angeli, 1998, 81-109. M. Colasanto PROFILO PROFESSIONALE Il p.p. rappresenta un documento che indica le caratteristiche fondamentali di una figura professionale e le → competenze necessarie all’esercizio delle funzioni pro- prie di tale figura. Se nel passato tale riferimento ha condotto ad una polverizza- zione delle rappresentazioni dei → ruoli e delle posizioni di lavoro, nell’attuale fase del dibattito si mira ad aggregare maggiormente tali figure, per realizzare insiemi più omogenei e olistici dai quali emerga una comunità di cultura, di pratiche e di competenze. 1. Il p.p. non si autosostiene; esso trova la sua collocazione privilegiata nell’ambito della → comunità professionale (o → aree professionali), ovvero un aggregato di fi- gure che prevedono riferimenti condivisi. Ciò ha valore sia nel contesto di → la- voro sia nelle prassi formative. Nel contesto di lavoro si tende ad arricchire la tradi- zionale descrizione delle posizioni attraverso l’individuazione di → competenze chiave o strategiche che definiscano un gruppo professionale definito in rapporto al contributo che arreca agli scopi dell’organizzazione, aggregando al suo interno più figure. Nel contesto formativo, si mira a ridurre il numero di p.p. scegliendo deno- minazioni in grado di garantire le condizioni della comunità di pratiche; pertanto non si prevede necessariamente da parte dell’utente la scelta della figura professio- nale (anche se può essere fatta un’opzione preferenziale sia da parte dell’allievo, sia da parte dell’organismo formativo), che si articolerà solo lungo il percorso in rapporto alle specifiche necessità del contesto ed alle caratteristiche del soggetto. È peraltro possibile – ad es. – che la → qualifica professionale abbia una denomina- zione polivalente, senza per questo specificarsi in una figura professionale mirata. 2. Il p.p. è caratterizzato dalle seguenti dimensioni: a) comunità professionale di appartenenza, dei suoi livelli di → formaz. in senso progressivo, dei compiti condi- visi entro le diverse figure professionali previste; b) denominazione della figura professionale, dei compiti specifici che vanno aggiunti ai compiti indicati in prece- denza in tema di comunità professionale; c) collocazione organizzativa ovvero le differenti modalità in cui tale figura si riscontra nelle organizzazioni di lavoro. Bibl.: PONTECORVO C. - A.M. AJELLO - C. ZUCCHERMAGLIO, I contesti sociali dell’apprendimento. Ac- quisire conoscenze a scuola, nel lavoro, nella vita quotidiana, Milano, LED, 1995; PRANDSTRALLER G.P. (Ed.), Guardare alle professioni, Milano, F. Angeli, 1997; BOLDIZZONI D. - L. MANZOLINI (Edd.), Creare valore con le risorse umane. La forma dei nuovi paradigmi nella direzione del personale, Mi- lano, Guerini & Associati, 2000; NICOLI D., Famiglie professionali e competenze. Nuovi riferimenti per l’analisi delle professioni e la formazione, in “Rassegna CNOS” 2 (2001) 29-46. D. Nicoli - C. Catania 187 PROGETTAZIONE FORMATIVA Per p.f. si intende generalmente l’elaborazione del progetto educativo, culturale e professionale, che fa da guida ideale a tutta la pratica formativa promossa in un Centro o istituto a ciò destinato. Il progetto così sviluppato fornisce a tutte le com- ponenti coinvolte un riferimento prospettico chiaro e condiviso di valori, mete edu- cative culturali e professionali, principi d’azione, sistemi di relazioni interpersonali e istituzionali e modalità di → valutazione. 1. L’attività di p.f. porta a definire quello che nella normativa attuale viene chia- mato il “profilo educativo, culturale e professionale” (PECUP) dello studente. Per far questo occorre tener conto sia dei → “livelli essenziali di prestazione” indicati a livello nazionale, sia delle disposizioni che le Regioni e Province Autonome hanno l’autorità di emanare, sia della cultura educativa e formativa delle singole istituzioni. Tradizionalmente si parlava di p.f. in relazione alla predisposizione del curricolo formativo che il Centro o l’istituto intendeva seguire e che comunicava pubblicamente agli allievi, alle → famiglie e alle autorità competenti. Il nuovo les- sico istituzionale tende a evitare il termine “curricolo” per parlare di percorso o di offerta educativa. Comunque, si tratta sempre di impostare l’azione educativa, cul- turale e professionale nei suoi obiettivi, contenuti, metodi e modalità di valuta- zione. 2. La p.f. può essere svolta a vari livelli: nazionale, regionale, locale, di singola classe o di particolare disciplina. Essa può riguardare un intervento formativo, un’unità di apprendimento, un sussidio didattico, un programma audiovisivo, un software multimediale, l’impianto stesso educativo, culturale e professionale dei piani di studio personalizzati. In senso più personale e soggettivo, la p.f. riguarda il significato, i valori, lo stile e le scelte di vita che ciascuno si propone di far proprie come prospettiva o orientamento esistenziale. In questo senso si parla di “progetto di vita civile e professionale” (→ progetto personale e professionale), che fa da ri- ferimento alla propria auto-formaz. 3. In una p.f. le articolazioni portanti sono costituite in primo luogo dai fini, o va- lori di riferimento, che sono chiamati a formare l’orizzonte educativo entro cui ac- quista senso e validità l’azione formativa. Questo orizzonte deve appoggiarsi sulla visione antropologica assunta dagli operatori, o dalla → comunità formativa, cioè su una concezione dell’uomo, del lavoratore, della → società e del loro bene, non astratta, bensì connessa strettamente con il contesto culturale e sociale di riferi- mento. Il secondo elemento costitutivo di ogni progetto formativo riguarda i desti- natari dell’azione formativa e la loro condizione umana, culturale, sociale ed eco- nomica. La lettura attenta e l’interpretazione di tali condizioni alla luce dei valori o ideali educativi di riferimento permette di individuare da un lato la domanda educa- tiva presente, cioè → bisogni di formaz. emergenti, e dall’altra di procedere alla scelta e alla definizione degli obiettivi da assumere come intenti operativi per l’a- zione formativa. 188 4. Il terzo passaggio riguarda la prefigurazione dell’azione formativa, la scelta e or- ganizzazione delle risorse formative, cioè delle pratiche (attività ed esperienze, loro contenuti, metodi e strumenti) disponibili e che appaiono valide ed efficaci: valide nei riguardi degli obiettivi e dei valori di riferimento, efficaci nei confronti dei ri- sultati che si intendono conseguire. Si tratta della componente strategica della p.f., cioè della prefigurazione di un’offerta o percorso formativo che può essere realiz- zata solo in riferimento a un concreto e specifico contesto educativo, orchestrando in maniera conveniente le differenti risorse formative disponibili in vista di mete educative determinate. Il quarto e ultimo passaggio è costituito dall’impostazione di un sistema di regolazione dell’azione formativa, cioè di valutazione continua e finale. L’istanza valutativa ha un ruolo e un significato permanente e puntuale nel guidare l’azione. In effetti, sia nel momento di analisi della situazione iniziale, sia in quello di conduzione dell’azione progettata, sia in quello di verifica dei suoi ri- sultati è sempre presente l’esigenza di interpretare e valutare quanto si riscontra nella realtà educativa. Di qui la necessità di prefigurare i dispositivi da mettere in atto per rendere presente e operante tale istanza. Bibl.: VECCHI J. - J.M. PRELLEZO (Edd.), Progetto educativo pastorale: Elementi modulari, Roma, LAS, 1984; MERRILL M.D., Instructional design theory, Englewood Cliffs, Educational Technology Publications, 1994; PELLEREY M., Progettazione didattica, Torino, SEI, 1994; BRAMANTI D. (Ed.), Progettazione educativa e valutazione, Roma, Carocci, 1998; PELLEREY M., Educare, manuale di pe- dagogia come scienza pratico-progettuale, Roma, LAS, 1999; SEMERARO R., La progettazione didat- tica, Firenze, Giunti, 1999. M. Pellerey PROGETTO PERSONALE E PROFESSIONALE La parola “progetto” (dal latino pro-iectus, che indica l’essere lanciati innanzi), ri- chiama la tensione dinamica verso qualcosa che sta avanti, l’idea che l’uomo è di- venire, possibilità di sviluppo, → identità che si configura nel tempo mediante le esperienze e le scelte quotidiane. In tal senso si parla di “p. esistenziale” o “p. di vita” come l’insieme di scelte organizzate in un piano di azione che l’uomo mette in atto nella sua vita e che costruisce mediante una corretta valutazione sia del fu- turo che del passato e del presente. 1. L’idea di p. dunque richiama la guida della propria esistenza e la possibilità di conferirle un significato complessivo perché non si riduca a un cumulo disorganico e desemantizzato di eventi occasionali e giustapposti. Esso rimanda a → motiva- zioni e traguardi, a consapevolezze e a razionalità, a scelte consapevolmente e co- erentemente compiute (Rossi, 1994, 56). Dal punto di vista psicopedagogico, il p. è definito come “un piano d’azione (un’intenzione) che richiede da chi lo predispone (o da chi lo vive) una capacità di valutare il futuro (anticiparlo nella coscienza) anche in base ad una valutazione del passato e del presente, ed una conseguente ca- pacità metodologica volta alla scelta e alla predisposizione dei mezzi necessari per 189 una concreta realizzazione del piano medesimo” (Bertolini, 1980, 162-163). Il ter- mine può essere considerato nella duplice accezione di dinamismo e di contenuto. In quanto dinamismo psicologico si colloca nel percorso di maturazione della pro- spettiva temporale che a partire dall’adolescenza assume la caratteristica di pro- spettiva futura. La progettualità, infatti, costituisce “uno dei modi fondamentali degli individui di porsi di fronte al tempo” (Cavalli, 1985, 36) e si esprime nella ca- pacità di orientarsi verso il futuro e di anticiparlo mediante l’elaborazione di pro- getti. La capacità progettuale è in stretta interdipendenza con il processo decisio- nale. Difatti elemento decisivo della progettazione è la scelta, o meglio il sistema di scelte secondo cui esso si articola. Saper progettare bene è condizione indispensa- bile per una buona scelta. Un buon p. nella pratica diventa un indice della consi- stenza della scelta, le dà cioè realismo e dimostra competenza nella persona che sceglie. 2. Lo studio del “p. di vita” è presente in quegli approcci teorici che si ispirano al- l’antropologia umanistico-esistenziale. Il carattere di “intenzionalità” della con- dotta umana, spesso misconosciuta dalla psicologia, è stato recuperato da alcuni AA. come Allport, Maslow, Rogers, Nuttin, Frankl e da molti altri che hanno stu- diato il rapporto tra tempo e identità o lo sviluppo della prospettiva temporale fu- tura. Sono pochi gli studi sul “p. professionale”, molti di più invece quelli sul “p. di vita”. Una definizione completa di progettualità professionale che tenga conto delle implicanze psico-pedagogiche e sociali forse non è stata ancora elaborata. La co- struzione e la realizzazione di un p.p. e p. rappresentano il punto di arrivo di ogni processo orientativo e formativo. Si tratta di un processo che si colloca all’interno di un percorso di maturazione della persona. Va ricollegato all’identità di cui è di- mensione essenziale la progettualità, sia come dinamismo che come processo. 3. Nell’ambito dell’→ orientamento educativo il p.p. e p. si ritrova, come categoria esplicativa del processo orientativo più che come costrutto fondamentale dell’orien- tamento. È presente nelle teorie evolutive sulla scelta professionale che fanno capo a Super e Ginzberg. L’idea centrale di tali AA. è che l’identità personale e professio- nale si costruisce secondo un ciclo di tappe ben definite, e che occorre essere aiutati a maturare per affrontare scelte sempre più complesse. Ciò si fonda sul riconosci- mento del ruolo centrale dell’immagine di sé nella formaz. delle preferenze profes- sionali e nel processo di elaborazione e realizzazione delle intenzioni future. A livel- lo metodologico il p.p. e p. è preso in considerazione dal bilancio delle competenze, un processo metodologico di orientamento articolato in tre fasi (→ accoglienza, ana- lisi del potenziale ed elaborazione del p. finale) in cui l’auto-progettazione profes- sionale e/o formativa fa parte degli obiettivi prioritari del bilancio. Definire il pro- prio p. professionale è il punto di arrivo di un percorso che, partendo dall’individua- zione di → competenze e → capacità, interessi e → valori, preferenze e scelte, con- duce il soggetto a identificare un p. di sviluppo nell’impiego attuale o in altro impie- go. Non è facile focalizzare con chiarezza il p. professionale, perché occorre verifi- care il grado di autenticità di tale p., se si tratta cioè di intenzioni velleitarie ed uto- 190 pistiche senza fondamento nella realtà e nelle competenze che la persona possiede. Si tratta di vedere se si colloca in un p. globale più ampio, un progetto di sé o un p. di vita su cui s’innestano altri progetti, alcuni prioritari altri secondari o molto lonta- ni connotati di “sogno” e fantasia. Inoltre, occorre verificare se i passi e le tappe per realizzarlo sono possibili, realisticamente individuate e perseguite. La capacità di elaborare un p.p. e p. affonda le radici nel complesso sistema motivazionale del sog- getto, ma entrano in gioco anche altri fattori (dinamici, intrapsichici, socioculturali e soprattutto gli orientamenti di valore che danno senso all’esistenza) che concorrono alla sua realizzazione. Occorre coniugare il piano del desiderio e della realtà con quello della volontà. Il p. presuppone la visione del rapporto finalità-obiettivo-sco- po, fondato sul rapporto desiderio-bisogno-valore, mediato dal rapporto risorse-vin- coli-gestione (Yatchinovsky - Michard 1991). Bibl.: BERTOLINI P., “Progetto”, in P. BERTOLINI, Dizionario di psico-pedagogia, Milano, Edizioni sco- lastiche Bruno Mondadori, 1980, 162-163; CAVALLI A., Il tempo dei giovani, Bologna, Il Mulino, 1985; LIVOLSI M., Identità e progetto, Firenze, La Nuova Italia, 1987; YATCHINOVSKY A. - P. MICHARD, Le bilan personnel et professionnel. Instrument de management, Paris, ESF Editeur, 1991; ROSSI B., Identità e differenza. I compiti dell’educazione, Brescia, La Scuola 1994; DEL CORE P., “Prospettiva futura e progettualità”, in COSPES (Ed.), L’età incompiuta. Ricerca sulla formazione dell’identità ne- gli adolescenti italiani, Torino-Leumann, ElleDiCi, 1995, 315-332; LEGRÈS J. - D. PÉMARTIN, Abilità progettuale e maturità professionale, in “Orientamento Scolastico e Professionale” 1 (1998) 4-6; DEL CORE P., La paura di scegliere: dinamica della decisione e scelte di vita, in “Rivista di Scienze dell’E- ducazione” 40 (2002) 3, 442-455; DI FABIO A., Bilancio di competenze e orientamento formativo, Fi- renze, OS - Giunti, 2002; COSPES (Ed.), Orientare alle scelte. Percorsi evolutivi, strategie e strumen- ti operativi, (Coordinamento di P. Del Core - S. Ferrraroli - U. Fontana), Roma, LAS, 2005. P. Del Core PROPOSTA FORMATIVA La dizione p.f. ha trovato la sua più compiuta collocazione nella L. 845/78, “Legge-quadro in materia di formazione professionale”, la quale ha avuto il merito di dare vita ad un sistema professionale italiano “pluralistico”. L’espressione p.f. viene indicata in alcuni passaggi del testo della L. citata: a) le Regioni organizzano il sistema di → FP sviluppando “le iniziative pubbliche e rispettando la molteplicità delle proposte formative” (art. 3, lettera c); b) la → formaz. e l’aggiornamento del personale devono essere attuati “rispettando la presenza delle diverse proposte for- mative” (art. 4, lettera h); c) i programmi dei corsi devono “assicurare il pieno ri- spetto della molteplicità degli indirizzi educativi” (art. 7, comma 4); d) l’organizza- zione del servizio può avvenire sia direttamente nelle strutture pubbliche, sia “me- diante convenzione, nelle strutture di enti che siano emanazione o delle organizza- zioni democratiche e nazionali dei lavoratori dipendenti, dei lavoratori autonomi, degli imprenditori o di loro associazioni con finalità formative e sociali, o di im- prese e loro consorzi, o del movimento cooperativo” (art. 5, co. 1 e 2). 1. La p.f. nella FP. L’→ ente pubblico, dunque, riconosce, secondo questa legge, “l’apporto, non solo sussidiario, che possono dare le libere associazioni di forma- 191 zione professionale le quali, a parità di strumentazione e capacità didattica, si ispi- rano a concezioni ideali di diversa natura o hanno matrici sociali diverse” (Hazon, 1986, 47). Gli enti, come indicati all’art. 5, lettera b), si sono dotati di specifiche p.f., riflettendone l’ispirazione e i valori. In alcuni testi, la p.f. non era esplicita ma era desumibile dalle finalità del movimento o dell’→ associazione di cui le strutture formative erano emanazione; in altri, ed è stato il caso degli enti di ispirazione reli- giosa, la p.f. era dichiarata e articolata. In questo secondo caso, la p.f., general- mente, conteneva l’identità valoriale dell’ente: erano indicati, in altre parole, i va- lori ispiratori dell’azione formativa, che potevano essere desunti dal Vangelo, dalla Dottrina Sociale della Chiesa o dal carisma del fondatore; la natura educativa del- l’azione formativa, centrata sulla → comunità formativa; la natura culturale e pro- fessionale di ogni percorso, esplicitato nell’identificazione di una particolare cul- tura generale, tecnica e professionale; la natura orientativa sottesa a tutta l’azione formativa, attraverso il servizio permanente dell’→ orientamento. In base alla p.f., gli enti di FP hanno invitato i vari → CFP a dotarsi di specifici “progetti formativi” e di “indirizzi educativi”. La L. ha ispirato la produzione di materiale documentale molto significativo “sul piano ideologico, per il suo valore di principio in ordine al rispetto delle diverse concezioni dell’uomo che si traducono in fatti culturali ed educativi; sul piano tecnico-didattico, per la sua capacità di creare l’offerta di ri- sposte contenutistiche e tecnico-didattiche liberamente ricercate e convalidate dal- l’esperienza; sul piano promozionale, per lo spazio che offre all’iniziativa, all’in- ventiva, alla capacità di soddisfare le esigenze, e anzi di anticiparle, con emula- zione che nasce dalle cose stesse (Hazon, 1986, 50-51). 2. Dalla p.f. alla mission. Nell’attuale scenario, molto diverso per il profondo pro- cesso riformatore in atto (→ riforma educativa), non compare la dizione p.f. Si può, tuttavia, fare riferimento ad un concetto equivalente, quello della mission perché è ricavabile dalla normativa e dalle prassi in atto. I vari enti, infatti, hanno proceduto nel cammino dell’→ accreditamento e della → qualità. In sintesi, si può affermare che nella materia dell’→ istruz. e della → formaz. oggi in Italia si intersecano la po- testà legislativa esclusiva dello Stato in tema di norme generali, la potestà legisla- tiva concorrente delle Regioni, la potestà legislativa esclusiva delle Regioni in ma- teria di → istruz. e di FP e l’ → autonomia normativa delle istituzioni scolastiche. L’autonomia delle istituzioni scolastiche, inoltre, è inserita nella Costituzione rifor- mata (art. 117, comma 3); per analogia si ritiene che anche gli organismi di formaz., che oggi sono ancora disciplinati dalle norme dell’accreditamento (DM 166/2001) e aperti alla certificazione di qualità e che, secondo la L. 53/03 saranno chiamati a dare vita al sottosistema dell’istruz. e FP, entrino a far parte dell’auto- nomia sancita costituzionalmente. Tutto il processo riformatore, in conclusione, sembra riaffermare ed ampliare la visione pluralistica, riconoscendo ad ogni orga- nismo la possibilità di sviluppare una vera e propria strategia formativa, coerente con i propri valori e con la visione del contesto di riferimento, per metter in atto i percorsi formativi ispirati al principio della → personalizzazione. 192 3. Mission e offerta formativa. Si propone una prima esemplificazione della docu- mentazione desumibile dalle → sperimentazioni in atto nelle Regioni e rispondente sia alle indicazioni della normativa che alle indicazioni della qualità. La documen- tazione del CFP descrive la missione (mission) dell’organismo, centrata sulla cre- scita e sulla valorizzazione della persona umana come elemento centrale del pro- cesso educativo, nel contesto territoriale di riferimento, perseguendo l’elevazione del livello culturale di ciascun cittadino ed il potenziamento delle → capacità di ciascuno e di tutti di partecipare ai valori – ivi compresi quelli spirituali – della cul- tura, del lavoro, della civiltà e della convivenza sociale e di contribuire al loro svi- luppo; indica la strategia formativa (vision) dell’ente, quando questo si propone di perseguire l’eccellenza metodologica in ogni settore previsto ed in ogni livello di intervento, anche mediante la promozione di forme di → partnership; analizza il territorio di riferimento ed elabora specifiche proposte per i rispettivi target (adole- scenti, giovani, adulti, soggetti svantaggiati); elabora un piano di servizi e di offerte formative in risposta ai bisogni del territorio attraverso la proposta di un servizio stabile di orientamento (informazione, formaz. e consulenza) per tutti gli utenti po- tenziali, anche in forma di attività integrata; la proposta di percorsi formativi speci- fici per durata e tipologia; definisce le scelte metodologiche più idonee ispirate alla personalizzazione, al → successo formativo, alla → didattica attiva e all’ → appren- dimento dall’esperienza, alla → valutazione autentica, alla partnership formativa; anima lo stile professionale della comunità formativa attraverso la → motivazione, la preparazione, l’esperienza e la maestria coerenti con le necessità del contesto, il lavoro in team; si ispira ai criteri della qualità, perseguendo la soddisfazione degli utenti in termini di successo formativo, in coerenza con la visione della formaz. prevista dai riferimenti valoriali dell’ente; migliorando continuamente il servizio attraverso il coinvolgimento del personale; adottando un modello unitario che sin- tetizzi l’accreditamento interno, l’accreditamento esterno e la certificazione di qua- lità (Nicoli, 2004, 26; Nicoli, Malizia e Pieroni, 2006). Bibl.: HAZON F., Introduzione alla formazione professionale. Manuale per docenti e operatori, Bre- scia, La Scuola, 1986; AMBROSINI M. et al., Un futuro da formare. Verso un nuovo sistema di forma- zione professionale: tendenze, valutazioni e proposte, Brescia, La Scuola, 2000; PUGLIESE S., L’accre- ditamento interno come approccio per l’eccellenza qualitativa nella formazione CNOS-FAP, in “Ras- segna CNOS”, 17 (2001)3, 11-31; BRAMANTI A. - D. ODIFREDDI (a cura di), Istruzione Formazione Lavoro: una filiera da (ri)costruire. L’esperienza lombarda e la sfida della riforma, Milano, F. Angeli 2003; NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’i- struzione e della formazione professionale, Roma, Tipografia Pio XI, 2004; NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Esiti del monitoraggio dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale (speri- mentazioni), in “Rassegna CNOS” 22 (2006)1, 65-95. M. Tonini PSICOLOGIA DEL LAVORO Branca della p. che si occupa dello studio del comportamento, delle emozioni e delle cognizioni delle persone in contesti lavorativi. 193 1. Sviluppo storico. La p. del l. nasce, all’inizio del ‘900, come “psicotecnica”, cioè come applicazione delle → conoscenze sulle attitudini e → capacità della persona ai contesti della vita pratica. Il termine si diffuse negli Stati Uniti nel primo decennio del ‘900 con i primi interventi di “selezione del personale” e in Italia verrà utiliz- zato fino agli anni ‘50. Un movimento internazionale di studio attorno al quadro di riferimento teorico, ai risultati conseguiti sperimentalmente, alla definizione di me- todologie specifiche, ecc. arrivò a delimitare la psicotecnica come le applicazioni della p. alla vita lavorativa delle persone per migliorare il reciproco adattamento (le persone all’ambiente di → lavoro e l’→ ambiente di lavoro alle persone). Con il taylorismo e lo sviluppo della tecnologia, la psicotecnica si trova a fare i conti con l’organizzazione scientifica del lavoro: alla radicale lettura del lavoro come realiz- zazione di specifici e singoli compiti, imposta dal taylorismo, la psicotecnica si adatta identificando il proprio oggetto di studio nel concetto di “attitudine” (→ orientamento), arrivando a spiegare il successo o meno in un dato compito lavora- tivo in termini di presenza/assenza dell’attitudine necessaria per quel compito (Avallone, 1997, 35-39; Lessico Universale Italiano, 1977, 75-76; Novara - Sar- chielli, 1996, 114). Tale prospettiva ha originato i processi di selezione del perso- nale basati sull’analisi del lavoro, sui → profili professionali e sui reattivi per misu- rare le attitudini. Dagli anni ‘20-‘30, l’ottica disposizionale è stata messa in crisi dagli studi sull’analisi fattoriale (Cattel), dallo sviluppo delle teorie sull’apprendi- mento (Pavlov, Skinner, Bandura), dalla psicoanalisi (Freud), dal “movimento delle relazioni umane” (Hawthorne e Mayo) e dalle teorie sui → bisogni (Maslow) che hanno messo in luce la complessità della personalità, non riconducibile a semplici “condotte”. Così, da una visione secondo la quale è il lavoratore la variabile che deve adattarsi alla costante lavoro, si è passati a una prospettiva secondo la quale è l’ambiente la variabile da modificare per facilitare l’adattamento della persona: na- scono la “biomeccanica”, la “p. sperimentale applicata”, la “p. industriale”, l’“ergo- nomia”, ecc., una serie di filoni di studio che hanno l’obiettivo di ottimizzare il rap- porto tra uomo e ambiente di lavoro (Lessico Universale Italiano, 1977, 76). 2. Contesto attuale. Oggi l’espressione p.del l. resta il nome usato in Italia per defi- nire la disciplina; l’espressione più comune, sia da noi che nel resto d’Europa, è “p. del l. e delle organizzazioni”. Vengono utilizzate anche altre espressioni, spesso come sinonimi, che hanno accentuazioni, ambiti e campi di studio affini, ma speci- fici per ciascuna. In genere, si è concordi nel sostenere che la “p. del l. e delle orga- nizzazioni” abbraccia tre ambiti (Sarchielli, 2003, 39; ENOP, 2004): 1) la stessa p. del l., che riguarda l’attività lavorativa delle persone, cioè, il modo in cui affron- tano i loro impegni lavorativi (in particolare, si occupa di compiti, ambiente di la- voro, ergonomia, prestazioni, → ruoli, ecc.); 2) la p. delle → risorse umane, che ri- guarda le relazioni tra le persone e l’organizzazione cui appartengono (in partico- lare, si occupa della gestione delle persone in ambiente lavorativo: selezione, svi- luppo di carriera, potenziamento di → abilità e capacità, → formaz., ecc.); 3) la p. delle organizzazioni, che riguarda il comportamento delle persone in quanto 194 membri di un gruppo di lavoro (in particolare, studia i modelli comunicativi, i con- flitti interpersonali, i processi decisionali, le condotte cooperative, la struttura orga- nizzativa, le tecnologie utilizzate, i cambiamenti organizzativi, la leadership, la cultura organizzativa, ecc.). Bibl.: LESSICO UNIVERSALE ITALIANO DI LINGUA LETTERE ARTI SCIENZE E TECNOLOGIA, Psicologia, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1977, vol. XVIII, 67-79; NOVARA F. - G. SAR- CHIELLI, Fondamenti di psicologia del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1996; AVALLONE F., Psicologia del lavoro. Storia, modelli, applicazioni, Roma, NIS, 1997; SARCHIELLI G., Psicologia del lavoro, Bo- logna, Il Mulino, 2003; ENOP, European Curriculum in W&O Psychology Reference Model and Mi- nimal Standards, in http://www.ucm.es/info/Psyap/enop/rmodel.html, 23.06.2004. D. Antonietti QUALIFICA PROFESSIONALE Per q.p. si intende un riconoscimento formale che attesta nella persona il possesso di → capacità, → conoscenze, → abilità e → competenze acquisite da una persona in specifiche esperienze (a tempo pieno, in → alternanza, in modo non formale o informale) utili e necessarie al fine dell’esercizio di un’attività lavorativa determi- nata. La q.p. rappresenta un’istituzione sociale riconosciuta da convenzioni collet- tive che classificano e gerarchizzano i posti di → lavoro (→ contratti); ad essa è pure orientata l’→ istruz. e FP che realizza i percorsi di → apprendimento in riferi- mento al profilo educativo culturale e professionale, alle indicazioni, ai repertori delle comunità e dei → profili professionali. 1. La q.p., dopo aver rappresentato per diversi decenni il punto di riferimento del- l’analisi come pure della contrattualistica del lavoro, pare oggi indebolita nella sua visione specialistica/mansionistica dalle trasformazioni in atto e dal mutamento delle questioni relative alla tutela dei lavoratori e del welfare. Essa richiama quindi tematiche molteplici quali la rappresentazione della → professionalità, la progetta- zione della → formaz., la → certificazione delle acquisizioni, la definizione dei si- stemi di classificazione del personale, la gestione delle → risorse umane, la tutela dei lavoratori, la gestione delle relazioni industriali e sindacali, la contrattazione e così via. Ciò influisce in modo decisivo sulla rappresentazione del → lavoro, sul rapporto tra → progettazione formativa e certificazione, infine sulla trasparenza dei titoli e la loro spendibilità/capitalizzazione. 2. La creazione del concetto di q.p. si spiega dopo l’affermazione della → società industriale che ha determinato la crisi dei modelli di acquisizione dei saperi profes- sionali tipici della società corporativa. Nel dibattito in corso sulla rappresentazione del lavoro in un contesto post-fordista, la parola “q.” viene sottoposta a critiche di inadeguatezza a fronte del mutevole contesto organizzativo, del superamento delle modalità di reclutamento e di gestione delle carriere basate su rigide corrispon- denze tra qualifiche e titoli di studio e su mansionari predefiniti, della modifica delle relazioni istituzionali tra mondo del lavoro e → sistema formativo oltre che 195 dell’organizzazione e del contenuto delle attività formative, e infine della valida- zione e del riconoscimento dei saperi e delle competenze professionali. 3. Molti condividono la necessità di rappresentazioni delle realtà lavorative e pro- fessionali che superino il concetto di “declaratoria” basato sulle → mansioni e la stretta corrispondenza con i titoli di studio. È anche comune la convinzione sull’im- portanza di integrare gli aspetti tecnico-specialistici con elementi connessi a perso- nalità, contesto, trasversalità, cultura ed → etica del lavoro. Alcuni tendono a sosti- tuire al concetto di q. un modello basato sulla competenza come entità funzionale ed autoreferenziale, tassello che consente di disegnare il lavoro in modo granulare o compositivo, solo che in tal modo ripropongono in chiave più frammentata la stessa prospettiva fordista. Altri propongono nuove modalità di definizione della q. entro una prospettiva olistica che concepisce il lavoro come un tutto dotato di una precisa rilevanza culturale e istituzionale; ciò conduce a classificazioni più ricche ed aperte, connesse alla cultura ed alla struttura del contesto settoriale ed aziendale di riferi- mento. La difficoltà di rappresentare la realtà del lavoro con categorie rigide – ben- ché frammentate in “mattoncini” tecnico operativi – non viene quindi superata tra- mite metodologie analitiche più sofisticate in grado di classificare diversamente compiti e mansioni, bensì tramite il riferimento ad una categoria più sintetica, ovve- ro il “gruppo di lavoro” o → comunità professionale che rappresenta un’unità ad un tempo organizzativa e culturale, ma pure un’entità in grado di apprendere e di ela- borare soluzioni creative. Il modello organizzativo non si basa su una rigida divisio- ne dei compiti, bensì sulla capacità di ogni componente di partecipare alle caratteri- stiche del gruppo in una sorta di “comunità lavorativa” a forte valenza cognitiva. Bibl.: CASTAGNA M., Progettare la formazione, Milano, F. Angeli, 1993; LANZAVECCHIA G., Il lavoro di domani. Dal taylorismo al neoartigianato, Roma, Ediesse, 1996; ACCORNERO A., Era il secolo del La- voro, Bologna, Il Mulino, 1997; AJELLO A.M. - S. MEGHNAGI (Ed.), La competenza tra flessibilità e spe- cializzazione, Milano, F. Angeli, 1998; AMBROSINI M. (Ed.), Un futuro da formare, Brescia, La Scuola, 2000; LIPARI D., Logiche di azione formativa nelle organizzazioni, Milano, Guerini & Associati, 2002. D. Nicoli QUALITÀ Il termine q. assume nel linguaggio comune significati differenti a seconda dei con- testi: esprimere attributi morali o spirituali di una persona oppure una dote o virtù di qualcuno o qualcosa o indicare una distinzione di specie di qualcosa. Una defini- zione del termine q., nella sua globalità, è fornita dal vocabolario della lingua ita- liana: “caratteristica che contraddistingue una persona, un animale, una cosa, una situazione o un loro insieme, denotando valori (in genere, ma non necessariamente positivi) che assicurano a chi li possiede un requisito, una proprietà unici” (Sabatini - Coletti, 1997). Il nostro scopo è spiegare il concetto di q. di un servizio o un pro- dotto (accezione più ristretta); ciò non semplifica il compito perché il concetto di q. non è assoluto ma relativo ed ha subito nel tempo evoluzioni significative. 196 1. Il concetto di q. di un prodotto o servizio si è sviluppato prevalentemente in am- bito industriale e successivamente, negli anni ‘80 e ‘90, è stato oggetto di analisi nei servizi. Dalla rivoluzione industriale (agli inizi del ‘900) fino agli anni ‘50-’60, per q. di un prodotto si intendeva il grado di conformità del prodotto alle specifiche progettuali” dello stesso; un problema tecnico che le organizzazioni risolvevano at- traverso una sistematica attività di controllo della q. in fase di realizzazione del prodotto/servizio. 2. Negli anni ‘60 e ‘70, si ha una evoluzione significativa nel concetto di q. che viene collegato strettamente all’uso più che al prodotto stesso. La q. è definita come idoneità all’uso (in ingl., Fitness for use) ovvero il grado di conformità del prodotto ai requisiti posti dall’utilizzazione. Fare q. si concretizza in un’attività si- stematica di pianificazione e controllo che interessa tutta l’organizzazione e l’in- tero ciclo di realizzazione del prodotto/servizio (dalla concezione, alla progetta- zione, alla produzione, alla commercializzazione sino all’assistenza post-vendita); uno dei padri di questo approccio, Feigenbaum (1983) parla di Total Quality System. Si sviluppa qui il concetto di “Sistema di Assicurazione Qualità”, fonda- mentale nella successiva elaborazione delle norme sui sistemi q.: la serie ISO 9000 del 1986. 3. Negli anni ‘80, sulla scorta di quello che è definito l’insegnamento giapponese (le aziende giapponesi realizzano, a parità o a costi minori, prodotti di q. supe- riore che si affermano rapidamente sul mercato occidentale), si sviluppa il con- cetto attuale di q. secondo soddisfazione delle esigenze del cliente (in ingl., Cu- stomer Satisfaction). L’evento rappresenta una rivoluzione, in quanto pone defini- tivamente la q. in relazione ai → bisogni delle persone, che per loro natura si mo- dificano nel tempo. La q. diventa relativa e dinamica e non si ottiene solo con ac- corgimenti tecnici ma anche con un continuo sforzo creativo di miglioramento di tutte le persone che partecipano alla produzione e vendita. Deming (1989), uno dei padri di questo approccio (noto come “Total Quality Management”), evi- denzia la molteplicità di prospettive nel concetto di q. e di attori che intervengono per la sua realizzazione. Quest’ultima definizione di q. si adatta bene alla → FP che richiede tuttavia una particolare attenzione per le sue peculiarità: un forte contenuto relazionale, la presenza di una complessa rete di aspettative e un si- stema organizzativo e gestionale costituito da legami deboli e nella FP di ispira- zione cristiana il riferimento a tale ispirazione espresso nel progetto educativo/formativo del Centro. Bibl.: JURAN J.M., Quality Control Handbook, New York, McGraw-Hill, 1974; FEIGENBAUM A.V., Total Quality Control, New York, McGraw-Hill, 1983; DEMING E., L’impresa di Qualità, Torino, Isedi - Petrini, 1989; CONTI T., Come costruire la Qualità Totale, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1992; PUGLIESE S., Dal Centro di formazione professionale al Centro di servizi formativi, in “Professiona- lità” n. 40 (1997), XI-XXIII; SABATINI F. - V. COLETTI, DISC. Dizionario italiano, Firenze, Giunti, 1997; UNI EN ISO 9001:2000, Quality Management System-Requirement, Ginevra (CH), Interna- tional Organization for Standardizzation, 2000. S. Pugliese 197 RELIGIONE R., presa in senso proprio, comporta un rapporto dell’uomo col divino; nell’ambito occidentale il divino è personale. Sotto il profilo specifico educativo il nodo del problema si pone circa la funzione della r. nella maturazione piena ed equilibrata della persona: questione esasperata dalle ideologie recenti, che ne hanno contestato il significato umanizzante. Oggi la r. viene per lo più riconosciuta come una delle fondamentali esperienze umane con una risonanza di ordine culturale e sociale dif- ficilmente calcolabile. Donde la molteplicità degli studi che la esplorano nelle di- verse aree disciplinari. A proposito vale la pena sottolineare: a) la r. non è più ap- pannaggio della riflessione cristiana, tanto meno teologica: è campo di indagine aperto su tutte le dimensioni della cultura; b) comporta un doppio versante: quello sociale, istituzionale, organizzativo e quello personale, interiore, magari mistico per stare alla distinzione di Bergson; c) donde la diversa connotazione degli studi e delle valutazioni, dall’aspetto sociologico a quello fenomenologico e antropolo- gico. In ambito educativo, la ricerca attorno alla risorsa umanizzante della r. rap- presenta un filone singolarmente interessante e innovativo; impegna la ricerca sto- rico-fenomenologica da Heiler, a Eliade, a Ries, alimenta la riflessione fenomeno- logica da Scheler a Levinas, quella esistenziale da Marcel a Ricoeur. Costituisce uno stimolo notevole anche per la rivisitazione della consuetudine educativa eccle- siale. La r. resta comunque uno stimolo nell’ambito della → FP ad in integrare la dimensione operativa che vi risulta privilegiata e ad avvertire il significato che anche nell’esperienza professionale assumano i valori fondamentali veicolati dalla riflessione religiosa. In particolare si tratta di promuovere nel contesto educativo della FP l’→ apprendimento del linguaggio religioso quale chiave importante di maturazione culturale. Bibl.: SCHELER M., L’eterno nell’uomo, Milano, Fratelli Fabbri, 1972; BERGSON H., Le due fonti della morale e della religione, Milano, Ed. Comunità, 1973; RIES J., “Storia delle religioni”, in S. ABBRUZ- ZESE (Ed.), Religioni. Enciclopedia tematica aperta, Milano, Jaca Book, 1992; TRENTI Z., Opzione re- ligiosa e dignità umana, Roma, Armando, 2001; TRENTI Z., Esperienza e linguaggio. Il sapere reli- gioso, in “Orientamenti Pedagogici” 52 (2005) 6, 995-1007. Z. Trenti RETE Il concetto di r. è relativamente recente e trae origine dagli studi organizzativi e dagli sviluppi informatici. In ingl., esso si può tradurre letteralmente in net, oppure, più compiutamente, in network, riferendosi ad un concetto sistemico di r. ovvero di oggetti operanti collegati tra loro. Il termine r. tende ormai a individuare branche di studio: net technology, net organization, net economy. 1. In ambito informatico, il concetto di r. si è affermato in contrapposizione al con- cetto di struttura gerarchica; esso indica un sistema distribuito di elaboratori dove ciascun nodo della r. (elaboratore) è dotato di autonomia elaborativa e collegandosi 198 agli altri nodi (uno dei quali fa da coordinatore) coopera all’elaborazione comples- siva. Il concetto è esploso con lo sviluppo della telematica e in particolare di in- ternet che realizza a livello internazionale il concetto di r. valorizzandone gli aspetti comunicativi. 2. In ambito organizzativo, il concetto di r. si sviluppa a partire dalla concezione si- stemica dell’organizzazione che, in quanto sistema aperto, è costituita da un in- sieme connesso e coerente di sottosistemi in relazione tra loro e con l’esterno. In particolare il concetto di r. si afferma con la rottura dei limiti spaziali dell’organiz- zazione che tende distribuirsi sul territorio in più unità autonome ma integrate. La caratterizzazione di organizzazione formativa “in r.”, presente in più punti su un territorio regionale, nazionale o sovranazionale, implica che i → CFP locali, pur mantenendo la loro → autonomia, siano in grado di configurarsi all’esterno come organizzazione integrata che riesce a conseguire economie di scala e di scopo. Bibl.: GALBRAITH J., Designing Complex Organizations, Readings, MA, Addison-Wesley, 1977; LO- RENZONI G. (Ed.), Accordi, reti e vantaggio competitivo, Milano, ETAS, 1992; NOHIRIA N. - R. ECCLES (Edd.), Network and Organizations: structure, Form and Action, Harvard, Harvard University Press, 1992. S. Pugliese RICERCA La r. “è una forma di costruzione del sapere, realizzata attraverso un metodo scien- tifico. Attraverso la trasparenza delle procedure attivate e la possibilità di controllo, essa consente di giungere a risultati validi e affidabili, con processi replicabili” (Goggi 2005, 19). Saper fare r. viene sempre indicata come una dimensione impor- tante della → competenza dei docenti di ogni tipo di scuola. Per questo motivo il Consiglio dell’UE ritiene fondamentale nella → formaz. dei docenti l’“attitudine alla riflessione e alla ricerca, alla soluzione dei problemi” (Barcellona 15-16 marzo 2001) e la considera come una competenza necessaria per migliorare i → sistemi formativi comunitari. Il docente deve acquisire una chiara consapevolezza del si- gnificato e del metodo di r. per abilitare gli alunni a sapere adeguare le conoscenze ai cambiamenti che si verificano nel proprio contesto di vita e di lavoro e trovare modi efficaci di intervento. La r. è: a) una conoscenza sistematica: con un processo ben strutturato per la raccolta delle informazioni, la loro analisi e valutazione; con l’uso di metodi e strumenti diversi, scelti in base agli oggetti, alle finalità e agli am- biti disciplinari; b) una conoscenza verificata: legata ai fatti e all’esperienza ma con l’obiettivo di verificare ipotesi che consentano di interpretare fattori e cause che vanno oltre il “buon senso comune” di lettura degli stessi fatti. Non è semplice imparare a realizzare una r. Si richiedono conoscenze teoriche che guidino il riferi- mento alla realtà; conoscenze e → abilità procedurali che orientino la scelta della via giusta e degli strumenti tecnici più efficaci; capacità di controllo e di verifica dei processi attivati e della qualità scientifica dei risultati ottenuti. Non bastano, 199 inoltre, abilità di uso di metodi, di tecniche e di strumenti (che cambiano a seconda del tipo di r.), ci vuole anche curiosità, passione e disponibilità al cambiamento. Basta pensare a come cambia oggi il mondo del → lavoro per comprendere che non basta saper fare ricerca e elaborare buone conoscenze, bisogna anche essere dis- posti a fare le scelte giuste per restare sul → mercato del lavoro a continuare a svol- gere un’attività produttiva e, possibilmente, gratificante. Bibl.: GILLI G.A., Come si fa ricerca, Milano, Mondadori, 1971; GATTICO E. - S. MANTOVANI, La ri- cerca sul campo in educazione. I metodi quantitativi, Milano, Mondadori, 1998; BAILEY K.D., Metodi della ricerca sociale, Bologna, Il Mulino, 2001; LUCISANO P. - A. SALERNI, Metodologia della ricerca in educazione e formazione, Roma, Carocci, 2002; COGGI C. - P. RICCHIARDI, Progettare la ricerca empirica in educazione, Roma, Carocci, 2005; SORZIO P., La ricerca qualitativa in educazione. Pro- blemi e metodi, Roma, Carocci, 2005. V. Orlando RIFORMA EDUCATIVA La r.e. è un cambiamento importante e intenzionale del sistema educativo di → istruz. e di → formaz. o di una sua parte, realizzato attraverso un processo che, muovendo da una situazione data, mira a portare a quella voluta. 1. I modelli di r.e. La strategia tradizionale consiste nell’introduzione della r.e. per via d’autorità e il mancato rispetto delle disposizioni dall’alto comporta l’applica- zione di sanzioni. La generalizzazione della r.e. su tutto il territorio nazionale costi- tuisce il vantaggio principale di tale modello; al tempo stesso esiste il pericolo di un’osservanza formale da parte dei → formatori perché non si è cercato di creare un consenso adeguato attorno alla r.e. e, pertanto, emerge il problema di un possi- bile insuccesso della r.e. a livello di cambiamento profondo del comportamento in- segnante. Da quando si è riconosciuta dignità di scienza positiva alla riflessione sull’→ educ. ha acquisito importanza un’altra strategia che si può chiamare empi- rico-razionale. Questa consiste nella traduzione dei risultati della → ricerca educa- tiva in prassi didattica per via di → sperimentazione e nella diffusione dei processi innovativi nelle scuole o nei → CFP. La procedura seguita, in quanto scientifica- mente corretta, assicura la validità delle indicazioni. Il problema si pone però sul piano soggettivo nel senso che in genere le organizzazioni tendono ad opporre resi- stenza ad innovazioni che siano elaborate da agenzie esterne come può essere un istituto di ricerca. Un terzo modello sposta il fulcro dei processi di rinnovamento sulla singola scuola o CFP, sull’innovazione dal basso, in breve sull’→ autonomia. In un contesto di continuo mutamento, la possibilità di soddisfare le esigenze che insorgono incessantemente dipende in primo luogo dalla rapidità degli interventi. Inoltre, le probabilità di successo di un’innovazione sono maggiori quando l’inse- gnante ne è partecipe, la sente propria, ha contribuito personalmente ad elaborarla, approvarla, attuarla. Il limite di tale strategia va visto nel pericolo di una innova- zione troppo diseguale e disomogenea sul territorio nazionale. In conclusione va 200 osservato che prevalentemente si tende a considerare i tre modelli come comple- mentari piuttosto che alternativi. 2. La recente stagione delle riforme. Mi riferisco al nostro Paese e al periodo che è iniziato alla metà degli anni ‘90 e che sta per concludersi. Anzitutto va sottolineato che la r. del sistema educativo di istruz. e di formaz. era assolutamente necessaria e urgente non solo per le carenze interne della nostra scuola/→ FP, ma anche per lo scenario radicalmente diverso in cui esse vengono a operare, quello cioè della → società della conoscenza, ma anche della società complessa, della società plurali- stica e multiculturale, della mondializzazione e della → globalizzazione. Nelle pro- poste di r. che sono state avanzate dalla metà degli anni ‘90 ad oggi, e soprattutto nella L. 30/00 (cosiddetta, “Berlinguer”) e nella L. 53/03, delega “Moratti”, che l’ha sostituita, si possono cogliere alcuni orientamenti da tutte condivisi. In primo luogo, viene fornita una definizione alta delle mete della r. che si fonda sulla cen- tralità delle persona che apprende. La L. “Moratti” perfeziona tale dettato, aggiun- gendo che la r. dovrà rispettare le scelte educative della → famiglia e soprattutto che andranno favorite la formaz. spirituale e morale. Inoltre, tutte le ipotesi di cam- biamento avanzate tendono a ridisegnare l’architettura complessiva del sistema educativo di istruz. e di formaz., conferendogli una nuova organicità e unitarietà. Va anche notato lo sforzo comune di allineare la nostra scuola e la nostra formaz. con quelle degli altri Paesi dell’Europa. Tra le varie proposte si osservano anche delle interessanti linee evolutive. Così non si può non evidenziare che solo nella L. 53/03 si viene incontro in maniera adeguata alle esigenze di sviluppo dei giovani: infatti, con il ripristino della durata ottennale del primo ciclo si valorizza piena- mente la specificità delle età evolutive della fanciullezza e della preadolescenza e, prevedendo un percorso graduale e continuo di FP parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni si risponde per la prima volta in modo soddisfacente alle esigenze di formaz. degli adolescenti e dei giovani che hanno l’intelligenza nelle mani. La L. delega “Moratti” porta in primo piano il principio della personale responsabilità educativa degli alunni e delle famiglie mediante l’introduzione dei piani di studio personalizzati. Inoltre, essa recepisce il passaggio da un modello fondato sulle esclusive prerogative dello Stato ad uno che fa interagire in maniera integrata tre diverse → competenze: quella dello Stato, quella delle Regioni e degli → Enti territoriali e quella delle istituzioni scolastiche autonome. L’evoluzione però non è completa per quanto riguarda il riconoscimento effettivo del diritto alla → li- bertà di educ. Infatti, nella L. 53/03 che, pure, intende delineare le norme generali sull’istruz., manca il riferimento esplicito al fatto che il nostro sistema educativo nazionale non è formato solo da scuole statali, ma anche dalle scuole paritarie pri- vate e degli Enti locali. In discontinuità con il recente passato, il Ministro della Pubblica Istruzione del nuovo Governo di centro-sinistra ha dichiarato esplicitamente: “Non ho in animo di elaborare l’ennesima riforma complessiva del sistema a cui legare il mio nome” (Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commissione Cul- 201 tura, Scienza e Istruzione. Camera dei Deputati, 2006, 2). Questo significa che il quadro generale di riferimento rimane la riforma Moratti, anche se è intenzione dell’Esecutivo di apportare il massimo di innovazioni consentite dal fatto di proce- dere mediante i decreti attuativi di una legge delega. In particolare per il secondo ciclo, il Ministro ha affermato di avere bisogno di più tempo per realizzare il di- segno delineato dalla L. 53/03 per cui ne è stata bloccata la sperimentazione; inoltre il Parlamento ha approvato una proroga di 18 mesi per i decreti legislativi non scaduti della riforma Moratti. Successivamente con un accordo contrattuale è stata disapplicata l’attuazione del → tutor e il portfolio, là ove si prevede di adot- tarlo, lo si realizzerà solo per i suoi aspetti formativi, didattici e di supporto ai pro- cessi di apprendimento degli allievi. Inoltre, è stato elevato di due anni l’obbligo di istruz., cioè fino ai 16 (cfr. il co. 626 della L. 296/06) e con le disposizioni urgenti in materia di istruz. tecnico-professionale (DL 31 gennaio 2007, n.7) sono stati ri- pristinati gli istituti tecnici e gli istituti professionali sono stati riportati all’interno del sistema dell’istruzione secondaria superiore. Sul lato positivo vanno ricordate sia l’introduzione dei poli tecnico-professionali tra gli istituti tecnici e professio- nali, le strutture formative che rispondono ai → livelli essenziali delle prestazioni e gli istituti tecnici superiori, sia l’agevolazione delle donazioni in favore delle istitu- zioni scolastiche in vista del sostegno all’innovazione tecnologica, all’edilizia sco- lastica e all’ampliamento dell’offerta formativa. In conclusione, se alla riforma Moratti si poteva rimproverare di aver avviato innovazioni senza coinvolgere in maniera soddisfacente le componenti della scuola e senza preparare in modo ade- guato gli operatori, gli interventi del Governo di centro-sinistra si presentano come una specie di controriforma strisciante tendente ad eliminare alcune tra le innova- zioni più significative della L. 53/03 come la parità tra il sottosistema dell’istruz. e quello dell’istruz. e della FP. Bibl.: SERGIOVANNI T.J., Dirigere la scuola comunità che apprende, Roma, LAS, 2002; NANNI C., La riforma della scuola: le idee, le leggi. Roma, LAS, 2003; Rapporto ISFOL 2005, Roma, Tiellemedia, 2005; FRANCHINI R. - R. CERRI (Edd.), Per una istruzione e formazione professionale di eccellenza. Un laboratorio per la riforma del sistema educativo, Milano, F. Angeli, 2005; MALIZIA G. - D. NI- COLI, Lo schema del Decreto sul secondo ciclo tra conservazione e riforma. Un primo commento, in “Rassegna CNOS” 21 (2005) 2, 25-50; Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione. Camera dei Deputati, (29 giugno 2006), Roma, 2006; Istruzione e Formazione Professionale (IeFP) in Italia, in “Rassegna CNOS”, 22 (2006) 3, 3-286. G. Malizia RISORSE UMANE La nuova centralità assegnata alla soggettività e alle r.u. va al di là di un semplice ritorno al modello classico delle relazioni umane; essa sollecita qualità dei risul- tati/prodotti/servizi offerti da imprese pubbliche e private e dei processi di → la- voro, valorizzazione di aspetti simbolico-culturali e del → capitale sociale esi- stente, nuove condizioni di → apprendimento individuale e organizzativo, l’oppor- 202 tunità di ridare significato al lavoro e al legame tra individuo e attività produttiva, dinamismo nell’inserimento lavorativo (→ accompagnamento al lavoro). 1. Le r.u. appaiono sempre più come una leva strategica per la crescita della capa- cità e competitività delle organizzazioni e le condizioni per la piena realizzazione di questo principio passano attraverso la trasformazione del modello di gestione delle r.u. da una logica quantitativa a una logica qualitativa. D’altra parte se la → formaz. “per tutta la vita” (lifelong learning) diventa una priorità, ed una necessità del lavoratore, essa non può realizzarsi se non in un contesto di trasformazione delle organizzazioni in sistemi autoapprendenti (learning organization) e perciò es- sere assunta come priorità da → imprese ed → enti pubblici. La formaz. e l’atten- zione rivolta alle r.u., concepite come leva strategica deve essere connessa a pro- cessi di “costruzione di nuovi significati lavorativi individuali e collettivi” (Kane- klin e Scaratti, 1998). I fattori di successo di tale processo sono quelli per i quali il soggetto torna al centro del lavoro, si potenziano i rapporti e le reti di rapporti fra gruppi di persone e tra imprese, si potenziano gli aspetti comunicativi nelle orga- nizzazioni e si valorizzano i processi culturali, si negoziano obiettivi e modi di va- lutazione degli obiettivi stessi. 2. Ogni impresa o azienda, pubblica o privata, dovrà imparare a produrre non solo ricchezza economica, ma anche valore sociale, legato alla soddisfazione delle esi- genze di benessere e socialità (Butera, 1999). La centralità delle r.u. modifica dunque in modo sostanziale le modalità di funzionamento di aziende e imprese in quanto richiede di cambiare le caratteristiche gestionali delle organizzazioni. Da modelli burocratici, in cui le → mansioni lavorative sono declinate in modo rigido si dovrà passare a contesti di lavoro dove è possibile sperimentare modalità di la- voro nuove, flessibili e più funzionali. Nuove complessità si disegnano: sul fronte della gestione delle r.u. occorre che la dirigenza impari a orientare e riorientare chi lavora in modo da valorizzare il potenziale, spesso inespresso, delle → competenze professionali e personali. Un processo analogo investe chi lavora, chiamato ormai ad assumere ruoli più sfumati, legati all’individualità del singolo. L’ottica si sposta dall’impresa al mondo sociale che la circonda: la rete di rapporti che garantisce la qualità dei prodotti/servizi è anche espressione di benessere sociale, di interessi collettivi che ruotano intorno al mondo del lavoro. 3. Alcune criticità storiche sollecitano la valorizzazione delle r.u.: i cambiamenti in- dotti dalle nuove tecnologie, i cambiamenti del → mercato del lavoro, la ridefini- zione necessaria del significato del lavoro rispetto alla realizzazione personale del soggetto. I tre elementi citati si legano fra loro perché fanno parte dell’orizzonte di significati che fa da ponte fra le r.u. e l’attività lavorativa. Le → nuove tecnologie sono un fattore di cambiamento che richiede ai lavoratori e alle imprese pubbliche e private continui riadattamenti di procedure e funzioni, oltre che → FP continua. Il mercato del lavoro risente della transitorietà di → profili professionali in divenire e delle sempre meno definibili carriere professionali; dunque sembrano sempre più 203 validi comportamenti legati alla flessibilità, alla autoimprenditorialità. Ultima que- stione, ma fondamentale, è il significato stesso del lavoro. Se diventa centrale l’uomo, come risorsa, si può ritenere che siano le migliori caratteristiche dell’uomo stesso a fare da cardine nell’attività lavorativa: la creatività, la capacità di parteci- pazione, la progettualità. Dunque un lavoro in cui il soggetto esprime le potenzia- lità tecniche in un contesto che garantisce, al tempo stesso, l’espressione delle ca- pacità relazionali, inventive, di socialità lavorativa. La qualità finale del lavoro di- venta il prodotto delle competenze professionali e delle caratteristiche personali, in un contesto che garantisce l’espressione di entrambe. Centralità delle r.u. per le im- prese, pubbliche e private, di beni o servizi significa perciò un ripensamento delle modalità di reclutamento del personale, una nuova formulazione delle proposte di lavoro, una gestione del personale attenta ai criteri dell’integrazione positiva delle persone nei processi lavorativi. Uguale trasformazione diventa necessaria nella formaz.: i profili professionali debbono essere arricchiti di quelle competenze tra- sversali (buona relazionalità, progettualità, capacità organizzative, ecc.) che sono il valore aggiunto indispensabile per gestire, nel tempo, la vita lavorativa stessa. Un nuovo umanesimo sembra accompagnare la società postmoderna: a fronte dei grandi mutamenti tecnologici si evidenzia la centralità dell’uomo come risorsa unica e fondamentale per gestire al meglio i cambiamenti. Bibl.: KANEKLIN C. - G. SCARATTI, Formazione e narrazione. Costruzione di significati e processi di cambiamento personale ed organizzativo, Milano, Cortina, 1998; BUTERA F., Economia e società nel- l’impresa: l’impresa eccellente socialmente capace, in “Studi Organizzativi” 1 (1999) 11-39. C. Montedoro RUOLO PROFESSIONALE Il r.p. è l’insieme delle norme e delle aspettative che convergono su un individuo in quanto occupa una determinata posizione in una organizzazione lavorativa dove si delinea una specifica rete di relazioni sociali. Tali norme e aspettative provengono dagli individui che occupano le posizioni collegate a quella del soggetto. In tal modo, si ottengono le attese di r., che sono da distinguere dal comportamento di r., ovvero il modo in cui l’individuo agisce concretamente la sua posizione. 1. In tal senso, il r. rappresenta l’elemento centrale della struttura sociale. Le orga- nizzazioni sono infatti costituite dai meccanismi o “dispositivi strutturali” (Scott, 1994, 26) che costituiscono il mezzo grazie al quale si realizzano alcune categorie di fini. Le routine e le procedure rappresentano le risorse che vengono solitamente attivate per rendere una gran parte di prodotti/servizi. Esse indicano la natura della condotta tipicamente sociale che presenta caratteri differenti dalle condotte indivi- duali: “lo sviluppo delle organizzazioni è il meccanismo principale, in base al quale in una società altamente differenziata è possibile realizzare i propri progetti e rag- giungere degli obiettivi che vanno al di là degli individui” (Parsons, 1960, 41), con enfasi sulla natura formale, razionale e sociale della organizzazione. 204 2. Il concetto di r. rappresenta uno degli elementi più importanti della elaborazione sociologica e la sua evoluzione indica un percorso che mira a porre in rilievo in mo- do sempre più evidente il suo carattere ad un tempo di relazione sociale fondamenta- le e di vera e propria istituzione in grado di determinare un sistema definito di attese nei confronti della persona che lo presidia. Da una iniziale concezione rigida e nor- mativa di r., propria dei principi de L’organizzazione scientifica del lavoro di F.W. Taylor (verticalizzazione della decisione, definizione scientifica delle → mansioni, selezione della persona più adatta, addestramento della stessa in modo efficiente, controllo della produttività), la sociologia ha via via aperto le sue prospettive ai fatto- ri informali dell’organizzazione, al contesto ambientale, alle caratteristiche peculiari delle persone impegnate. Soprattutto l’analisi del → lavoro nella società cognitiva ha potuto rilevare come i r.p., non più riconducibili a qualifiche rigide, hanno acquisito sempre più un carattere culturale, mentre si sono create nuove forme di relazioni pro- prie dei gruppi e delle → comunità professionali. Tali relazioni pongono in evidenza la natura culturale di ogni attività di lavoro competente, e la necessità di creare circo- li virtuosi tra i componenti delle comunità tramite percorsi formativi, scambio di ma- teriali, occasioni di incontro e confronto, → associazioni professionali. 3. In tal modo, sotto le spinte della → globalizzazione e della cognitivizzazione, il r.p. diventa sempre meno un fattore rigido e prescrittivo ed acquisisce sempre più un carattere di habitus ovvero un costume, una mentalità che richiede al soggetto che lo presidia una intensa partecipazione esprimendo in ciò le proprie prerogative personali sotto forma di → competenza. Bibl.: PARSONS T., Structure and process in modern societies, Glencoe (Illinois), Free Press, 1960; MAGATTI M. (Ed.), Azione economica come azione sociale, Milano, F. Angeli, 1990; SCOTT W.R., Or- ganizzazioni, Bologna, Il Mulino, 1994; CESAREO V. (Ed.), Sociologia, concetti e tematiche, Milano, Vita e Pensiero, 1997; GIANNINI M. - MINARDI E., I gruppi professionali, Milano, F. Angeli, 1998; GALLINO L., Dizionario di Sociologia, Torino, UTET, 2000; BOAM R. - P. SPARROW, Come disegnare e realizzare le competenze organizzative. Un approccio basato sulle competenze per sviluppare le per- sone e le organizzazioni, Milano, F. Angeli, 2002; TRIGILIA C., Sociologia economica, 2 voll., Bo- logna, Il Mulino, 2002; BOLDIZZONI D. (Ed.), Management delle risorse umane, Il Sole 24 Ore, 2003. D. Nicoli SCIENZE UMANE ED ETICA 1. Le s.c. Le s.u. sono quelle forme di indagine e di sapere che hanno come oggetto proprio l’uomo nelle sue espressioni e nel suo vissuto specificamente umani. S.u. sono quindi anzitutto la psicologia, la psichiatria, la sociologia e le scienze sociali in genere e quindi l’antropologia culturale, le scienze della comunicazione, e in particolare la linguistica e la semiologia. La insaziabile curiosità dell’uomo nei confronti dello specifico della sua umanità ha prodotto negli ultimi due secoli uno sviluppo enorme di queste forme di sapere, moltiplicandone il numero, le suddivi- sioni e le specializzazioni. Dal punto di vista specificamente etico, questo sviluppo e l’insonne ricerca che lo ispira vanno visti come assolutamente positivi. 205 2. L’e. Le specifiche esigenze dell’e. pongono come unica condizione al libero svi- luppo della ricerca sull’uomo il rispetto della sua dignità e dei suoi diritti inaliena- bili. Anche l’e. del resto è sempre e comunque un sapere sull’uomo: essa studia e interpreta il vissuto morale umano, una delle realtà più specificamente ed esclusi- vamente umane. Il vissuto morale infatti non è solo una esperienza umana che si pone accanto alle altre, essa le tocca, le coinvolge e le giudica dal suo punto di vista, tutte. Proprio per l’identità dell’oggetto della loro ricerca, costituito in ultima istanza dall’uomo, l’e. e le altre s.u. hanno intrattenuto e intrattengono numerose forme di incontro e di dialogo, di confronto e, a volte, di scontro. Per quanto ri- guarda l’e., fin dal suo primo porsi come forma di sapere, essa ha dovuto occuparsi in modo esplicito e diretto della psicologia del vissuto morale, e quindi, ad es., della specifica razionalità e., della coscienza morale, della libertà e delle forme del suo esercizio, della → motivazione, della trasgressione e del senso di colpa. È per questo che i teologi e i filosofi furono per molti secoli praticamente gli unici ad oc- cuparsi di psicologia. 3. Problemi comuni. Grossi problemi, come quelli del significato ultimo dell’esi- stenza umana, interessano, sia pure da punti di vista anche molto diversi, tanto l’e. quanto le s. dell’uomo. Ma con l’illuminismo il rapporto tra queste due forme di ri- cerca e di sapere è stato frequentemente caratterizzato da una certa forma di con- flittualità o almeno di diffidenza reciproca. Fin dal loro primo porsi come forme di sapere autonomo (se pure disperatamente ma inutilmente impegnate ad imitare i metodi di ricerca delle scienze naturali) le s.u. guardarono con sospetto a ogni forma di e. Fu allora il sapere morale, sia filosofico che teologico, a dover compa- rire davanti al tribunale delle s. dell’uomo per rendere conto della sua serietà e sen- satezza, messa in questione dai cosiddetti “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, ma soprattutto Freud). 4. Servizio reciproco. Pur nella loro unilateralità e nel carattere preconcetto dei loro presupposti, le contestazioni rivolte dalle s.u. all’e. offrirono a quest’ultima un con- tributo prezioso per quel lavoro di verifica, di autocritica e di affinamento progressi- vo dei propri strumenti di → ricerca che è compito essenziale di ogni forma di sape- re scientifico, compreso evidentemente quello etico. Particolarmente preziosi furo- no i suggerimenti e le critiche provenienti dalla psicologia e dalle scienze della co- municazione. Esse si rivelarono utili specialmente ai fini di una migliore compren- sione dello specifico mondo umano del desiderare e del tendere, del funzionamento della coscienza e dei limiti e condizionamenti della libertà umana. Ma il servizio più importante reso dalle s.u. all’e. (in questo caso all’e. in quanto vissuto più che in quanto sapere) è probabilmente legato ai problemi dell’→ educ. morale e quindi allo studio dello sviluppo morale, cioè dei dinamismi educativi e delle tappe della gra- duale maturazione del senso morale, dalle forme più psichicamente immature di im- pegno morale del bambino a quelle mature dell’adulto riuscito. È evidente quanto lo studio dello sviluppo morale e dei dinamismi educativi che lo incentivano sia im- portante, per poter offrire una guida illuminata e un aiuto efficace agli adulti educa- 206 tori e, in ultima analisi, per promuovere un destino migliore per l’umanità. D’altra parte, anche l’e. ha un suo contributo specifico da offrire alle s. dell’uomo: si tratta di una seria messa in guardia contro il pericolo che le s. dell’uomo, attratte dal mo- dello delle scienze della natura e ingannate dalle allettanti promesse di esattezza e di efficacia operativa offerte dai metodi di ricerca, tipici di questo mondo del sapere, dimentichino il carattere specifico dell’oggetto delle loro ricerche, che è l’uomo, con la sua assoluta unicità nel creato, e con il suo vissuto caratterizzato dalla dimen- sione spirituale e dal carattere libero e responsabile del suo agire. Bibl.: WOLFF K., Psychologie und Sittlichkeit, Stuttgart, Klett, 1958; WRIGHT D., The Psycology of Moral Behaviour, London, Harmondsworth, 1971; KOHLBERG L., Essays on Moral Development, 2 voll., S. Francisco, Harper & Row, 1981; STEININGER M., Problemi etici in psicologia, Roma, Ar- mando, 1988; GATTI G., Educazione morale, etica cristiana, Torino, ElleDiCi, 1994; LADRIÉRE J., L’e- tica nell’universo della razionalità, Milano, Vita e Pensiero, 1999. G. Gatti SECONDA OPPORTUNITÀ → Alternanza formazione lavoro SEDE ORIENTATIVA È la s. accreditata (→ accreditamento) dalla Regione per lo svolgimento del ser- vizio di → orientamento secondo le direttive del DM 166/01, in analogia a quanto è previsto per la sede formativa (→ CFP). L’accreditamento è obbligatorio dal luglio 2003. Il DM 166/01 è la prima norma di carattere nazionale in materia di orienta- mento, dal momento che ad oggi manca una legge quadro. Seguendo il citato De- creto, in questa voce saranno descritte alcune caratteristiche di base proprie di ogni s.o. Come esprime il citato Decreto, soggetto di accreditamento è la s.o., intesa come sede operativa che si connota quale soggetto che organizza ed eroga servizi di qualità, in quanto: dispone di competenze professionali; può contare su relazioni con il sistema socioeconomico territoriale; è provvista di un sistema di feed back organico e sistematico. In coerenza con le specificazioni dell’Allegato 2 al citato DM, quindi, la s. va descritta: in termini logistici e di reperibilità fisica; in termini organizzativo-strutturali; in termini di competenze e responsabilità; in termini di si- stema comunicativo interno ed esterno (comprese le strumentazioni per la docu- mentazione: banche dati, ecc.); in termini di sistema di interrelazioni sul territorio. Il DM 166/01 rappresenta, per la organicità dell’impianto e per il forte coinvolgi- mento regionale nella sua elaborazione, un riferimento necessario per tutte le Re- gioni impegnate nella definizione di propri sistemi di accreditamento. 1. L’ambito di azione della s.o. è riconducibile a tutti quegli interventi di carattere informativo, formativo, consulenziale, finalizzati a promuovere l’auto-orienta- mento e a supportare la definizione di percorsi personali di → formaz. e → lavoro e 207 il sostegno all’inserimento occupazionale. I servizi sono fondamentalmente tre: a) informazione o., che è rappresentata da un sistema informativo strutturato cartaceo e/o multimediale, su opportunità di formaz. e di lavoro, aperto ai bisogni informa- tivi di utenze giovani e/o adulte e accessibili mediante esplorazioni personali e/o con l’assistenza di un esperto; b) formazione o., che è rappresentata dalla eroga- zione di moduli brevi, destinati a gruppi di utenti con omogenei fabbisogni infor- mativo-formativi su particolari tematiche connesse al processo orientativo (es. “Tecniche e strategie di ricerca del lavoro”, “Le nuove forme del lavoro”, “Le poli- tiche attive del lavoro”, “Mercato del lavoro e delle professioni locale”, “Esplora- zione del sé”, “Analisi delle capacità, degli interessi e delle motivazioni”); c) con- sulenza o., che si configura come una “relazione di aiuto individualizzato” che mira a favorire, anche mediante la metodologia del “bilancio delle competenze”, la co- noscenza di sé, la scoperta delle proprie attitudini, → capacità e interessi e la chia- rificazione delle → motivazioni per giungere a definire un proprio → progetto pro- fessionale e a individuare le vie per attuarlo. Per utenti che presentano fenomeni di disorientamento e/o disadattamento (→ disagio) vengono realizzati interventi spe- cialistici di carattere psico-pedagogico. 2. Concorrono allo svolgimento dei suddetti servizi varie → risorse umane che sono, soprattutto, risorse di governo (quali la direzione, l’amministrazione e il coordina- mento), risorse di processo (quali l’analisi, la progettazione e la valutazione) e, infi- ne, risorse di prodotto (quali la docenza e l’orientamento). Ogni s.o., infine, dovrà, per essere accreditata, rispondere ad una gamma di requisiti, definiti dalle Ammini- strazioni regionali, che da una parte saranno a tutela dell’utente per la qualità del ser- vizio, dall’altra di garanzia per l’Amministrazione pubblica sull’affidabilità e sull’u- so di → finanziamenti pubblici. Sono tenuti ad accreditare la s.o. tutti gli organismi pubblici e privati che organizzano ed erogano attività di orientamento finanziate con risorse pubbliche. Nel rapporto ISFOL 2003 si riporta che la → FP è il “servizio che ha investito maggiormente in azioni orientative, sia esterne (per i propri utenti) sia esterne (nei confronti degli utenti di altri sistemi). Gli interventi rivolti agli utenti dello stesso sistema sono soprattutto di accompagnamento in itinere dell’esperienza in corso e di sostengo sia nelle transizioni tra i diversi canali, sia per l’inserimento nel mondo del lavoro, mentre per quanto concerne gli interventi per gli altri soggetti istituzionali è possibile riscontrare una vasta gamma di servizi dedicati sia al sistema scolastico (attività informative, progetti integrati, interventi nelle diverse fasi di transizione, ecc.) sia ai → servizi per l’impiego (servizi di accoglienza, → colloquio, tirocini, bilancio di competenze, ecc.) (ISFOL, 2003, 301). Bibl.: MLPS, DM del 25 maggio 2001, MLPS, Roma, 2001; BETTONI C. - L. SCIARRETTA, L’accredi- tamento delle sedi operative di formazione e orientamento, in “Professionalità” XXII (2002) 71, 23 - 37; CNOS-FAP (Ed.), Accreditamento della sede orientativa. La proposta del CNOS-FAP alla luce del D.M. 166/2001, Roma, Tipografia Pio XI, 2002, GHERGO F. - D. PAVONCELLO (Edd.), Accredita- mento delle sedi orientative, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2004; ISFOL, Rapporto 2003, Bre- scia, La Scuola, 2004. M. Tonini 208 SERVIZI PER L’IMPIEGO La riforma dei s. per l’i. (ex Uffici di collocamento), a seguito del D.lgs. del 23 di- cembre 1997, n. 469, prevede la necessità di fronteggiare situazioni di disoccupa- zione strutturale rivedendo e modificando gli obiettivi specifici che, oltre alle pre- stazioni di base (→ accoglienza e gestione delle procedure amministrative), hanno come finalità: a) la facilitazione dell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro; b) la → prevenzione dei fenomeni di disoccupazione; c) l’allargamento della parteci- pazione al → mercato del lavoro, in particolare attraverso una maggiore partecipa- zione della manodopera femminile e di altri segmenti sottorappresentati nel mer- cato del lavoro. 1. Le nuove funzioni/competenze dei s. per l’i. Il D.lgs. 469/97 prevede che le Province debbano gestire ed erogare, in strutture denominate “S. per l’i.”, fun- zioni e compiti connessi a diverse tipologie di collocamento (ordinario, agricolo, dello spettacolo, obbligatorio, degli extracomunitari, dei lavoratori domestici e a domicilio), all’avviamento a selezione negli → enti pubblici, alla preselezione ed incontro tra domanda ed offerta di lavoro, ad iniziative volte ad incrementare l’occupazione e ad incentivare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro anche con riferimento all’occupazione femminile. Il D.lgs. n. 181/00 per agevolare l’in- crocio domanda/offerta di lavoro sottolinea l’obbligatorietà per i s. per l’i. dell’e- rogazione di servizi attinenti colloqui di → orientamento e proposte di iniziative di inserimento lavorativo (→ accompagnamento al lavoro) o di → formaz. a fasce di utenza ben definite. La novità sostanziale consiste nel fatto che i s. per l’i. de- vono fornire ai loro clienti/utenti, oltre che i tradizionali servizi di tipo ammini- strativo collegati al collocamento, soprattutto nuove tipologie diversificate di ser- vizi essenzialmente centrati sull’obiettivo di favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro e sullo sviluppo di interventi di supporto alle scelte formative e lavorative soprattutto per coloro che incontrano maggiori difficoltà ad inserirsi o reinserirsi nel mercato del lavoro (servizi informativi, di consulenza, di orienta- mento, di preselezione, di inserimento lavorativo, ecc.). I clienti possono essere sia persone che → imprese. Possono, ad es., rivolgersi ai s. per l’i.: a) persone che cercano lavoro o che vogliono modificare la loro condizione lavorativa; b) per- sone che devono definire propri progetti formativi o professionali (→ progetto personale e professionale); c) imprese che richiedono informazioni in materia di collocamento, contrattualistica e legislazione del lavoro; d) imprese che cercano nuovo personale o che chiedono consulenza sui problemi della formaz. e dello sviluppo delle → risorse umane e dell’organizzazione; e) imprese con più di 15 dipendenti e persone disabili (→ diversabilità e FP), o appartenenti ad altre cate- gorie protette che richiedono interventi di sostegno per un inserimento lavorativo mirato, ai sensi della L. 68/99. Infine la L. 30/03, “Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del la- voro”, agisce secondo due assi principali. Il primo fa capo a una logica di liberaliz- zazione del mercato del lavoro che adotta, per ottenere il livello di flessibilità vo- 209 luta, forme contrattuali “leggere” alcune delle quali mai utilizzate in Italia. Negli artt. 3 e 4 il Governo viene delegato a emanare uno o più decreti atti a disciplinare le prestazioni di lavoro a tempo parziale, il lavoro a chiamata, temporaneo, coordi- nato e continuativo, occasionale, accessorio e il cosiddetto lavoro a prestazioni ri- partite. Il secondo asse della legge individua le misure per sostenere e facilitare l’accesso o il reingresso nel lavoro dei disoccupati e delle persone in cerca di prima occupazione, particolarmente delle donne e dei giovani. 2. Servizi attivati nei Centri p.i. I Centri per l’i., che costituiscono le strutture ope- rative locali dei s. per l’i., devono essere in grado di fornire i servizi corrispondenti, sulla base delle scelte di indirizzo espresse ai diversi livelli di strategia di inter- vento (nazionale, regionale, provinciale, locale), considerando principalmente le caratteristiche specifiche dei mercati del lavoro locali. È, pertanto, essenziale l’or- ganizzazione di un sistema di → rete delle strutture informative che operano a li- vello territoriale. Per il funzionamento dei nuovi servizi si dovrà provvedere a for- nire azioni di: a) accoglienza ed informazione orientativa; b) gestione procedure amministrative; c) orientamento e consulenza; d) promozione di segmenti del mer- cato del lavoro a sostegno delle fasce deboli (→ disagio); e) incontro domanda ed offerta. Inoltre nell’ambito dell’ex art. 68 della L. 144/99 relativo all’obbligo for- mativo, cui si aggiunge l’Accordo della Conferenza Unificata Stato-Regioni del 2/3/00 e la L. 53/03, sono previsti altri nuovi servizi a carico dei s. per l’i. (anagrafe regionale sull’→ obbligo scolastico, interventi di informazione, orientamento e tu- torato, banche dati per favorire l’orientamento dei giovani e la predisposizione di un’adeguata offerta formativa). 3. Procedure o madalità di iscrizione. Il DPR 442 del 7 luglio 2000 disciplina la semplificazione degli adempimenti relativi al collocamento ordinario istituendo: l’elenco anagrafico, che contiene i dati completi dell’iscritto e le informazioni rela- tive ai mutamenti nella sua condizione lavorativa (i dati che contiene vengono ag- giornati nel tempo da nuove informazioni fornite dal lavoratore stesso, ma anche dalle comunicazioni obbligatorie provenienti dal datore di lavoro); la scheda pro- fessionale, che raccoglie, oltre i dati contenuti nell’elenco anagrafico, informazioni riguardanti il percorso formativo e professionale – con i riferimenti relativi all’e- ventuale → certificazione delle competenze – dell’iscritto e la disponibilità lavora- tiva; i dati in essa contenuti possono essere riversati in una carta elettronica rila- sciata all’interessato che permette l’accesso al “Sistema informativo lavoro”. Le in- novazioni apportate dalla norma si muovono in più direzioni: 1) si determina l’e- stensione del bacino potenziale di utenza dei s. per l’i. ai quali possono iscriversi, indipendentemente dal luogo di residenza, tutte le persone in età lavorativa, non solo i disoccupati e gli inoccupati, ma anche coloro che intendono cambiare la pro- pria attività lavorativa; 2) l’elenco anagrafico prevede il trattamento dei dati degli iscritti: infatti “al fine di promuovere l’occupazione, favorire l’inserimento al la- voro e l’accesso ad attività di orientamento e formazione professionale nonché age- volare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro i servizi competenti possono co- 210 municare e diffondere, anche per via telematica (…) i dati personali relativi ai sog- getti presenti nelle banche dati, senza che sia necessario il consenso degli interes- sati” (sono fatte salve le disposizioni relative alla legge 675/96); possono accedere alle informazioni datori di lavoro privati, Amministrazioni pubbliche, società di mediazione autorizzate, enti previdenziali, → CFP; 3) le procedure di gestione dei dati, le modalità di codifica delle professioni e di classificazione degli iscritti sono realizzate “secondo criteri omogenei con quelli definiti in sede comunitaria ed in- ternazionale” a scopo statistico e particolarmente in funzione dell’efficace attiva- zione su tutto il territorio nazionale del “Sistema informativo lavoro”, come pre- visto dall’art. 11 della L. 469/97. Il DPR 442/00, in conformità con quanto previsto dalla L. 469/97 e nel rispetto del conferimento delle funzioni in materia di colloca- mento a Regioni ed enti locali, esercita quei poteri generali di indirizzo, promo- zione e coordinamento che richiedono omogeneità di trattamento a livello nazio- nale. L’agevolazione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro viene ulterior- mente definita dalla L. 297 del 19 dicembre 2002, che ne fa una legge più organica e completa rispetto alla precedente in quanto risente: delle innovazioni costituzio- nali (riforma del Titolo V), dei nuovi indirizzi in materia (Libro Bianco sul mercato del lavoro) e dei risultati di una prima esperienza attuativa del precedente D.lgs.181/00. L’art. 1 del D.lgs. 297/02, si divide in due parti: la prima nel rispetto delle funzioni istituzionali già stabilite dal D.lgs.469/97, richiama il potere legisla- tivo che hanno le Regioni e le Province autonome in materia di “revisione e razio- nalizzazione delle procedure di collocamento”; la seconda indica i “principi” per l’individuazione dei “soggetti potenziali destinatari di misure di promozione all’in- serimento nel mercato del lavoro”, elenca e “definisce” tali soggetti (“adolescenti”, “giovani”, “disoccupati di lunga durata”, “inoccupati di lunga durata”, “donne in inserimento lavorativo”, “servizi competenti”) e le particolari “condizioni” (“stato di disoccupazione”) degli stessi. Sul piano istituzionale, come abbiamo già rilevato, l’art. 1 del D.lgs.297/02 affida alle Regioni e alle Province Autonome di Trento e di Bolzano il ruolo determinante di legislazione concorrente, accogliendo in pieno il nuovo dettato costituzionale dopo l’approvazione della L. costituzionale 3/01 e della conseguente riforma del Titolo V. È un elemento importante che rende i s. per l’i., e tutta l’attività di incontro domanda e offerta di lavoro, dipendenti dagli indi- rizzi e dalle scelte delle Regioni e delle autonomie locali (Province in particolare, già indicate come soggetti primari dal D.lgs.469/97). Rimanendo ancora alle modi- fiche introdotte dal D.lgs.297/02 al testo del D.lgs.181/00, si rileva che anche il quadro dei soggetti interessati subisce delle modifiche, così come la definizione dello stato di disoccupazione che viene maggiormente articolata come la “condi- zione del soggetto privo di lavoro, che sia immediatamente disponibile allo svolgi- mento e alla ricerca di un’attività lavorativa secondo modalità definite con i servizi competenti”. Si stabiliscono inoltre: la definizione per decreto ministeriale del mo- dello di comunicazione, le forme della trasmissione e del sistema di classificazione dei dati raccolti nella scheda anagrafica e in quella professionale, nonché la sop- pressione delle liste di collocamento ordinarie e speciali, con alcune eccezioni. 211 Viene ammessa l’assunzione diretta dei lavoratori da parte di soggetti pubblici e privati e per qualsiasi tipologia di rapporto di lavoro con le eccezioni previste dalle normative vigenti. 4. Definizione degli standard minimi di funzionamento dei servizi pubblici per l’im- piego e realizzazione del Masterplan. L’Accordo Stato-Regioni dell’ottobre 2000 individua inoltre una gamma di azioni progettuali e organizzative destinate a mi- gliorare la qualità e la organicità delle prestazioni che impegnano ciascuna struttura ad accrescere l’integrazione funzionale tra i diversi soggetti presenti nel mercato del lavoro. Tali azioni fanno riferimento particolarmente all’analisi delle compo- nenti necessarie all’adeguamento dei servizi (funzioni, → competenze professio- nali, dotazione logistica, sistema di rete e dotazione informativa, procedure). Le linee guida identificate dall’accordo e sopra descritte, che dovranno integrarsi con le esperienze maturate a livello europeo attraverso la diffusione delle migliori prassi operative, costituiscono “il documento base per la definizione del Master- plan sui servizi per l’impiego” approvato dal Comitato di sorveglianza del FSE il 20 dicembre 2000. Possiamo riassumere i principali obiettivi del Masterplan come segue: 1) recepire i criteri fissati a livello europeo per l’attuazione della riforma dei s. per l’i. e promuovere un efficace coordinamento delle politiche tra il livello lo- cale e la dimensione europea; 2) concordare a livello centrale, regionale e provin- ciale la definizione degli obiettivi qualitativi e quantitativi che portano i s. per l’i. al raggiungimento degli standard di funzionalità, efficacia ed efficienza attesi come esito della riforma, secondo una gradualità di tempi e di fasi di attivazione delle funzioni operative; 3) realizzare, sulla base delle linee organizzative così identifi- cate, Masterplan regionali che permettano di seguire lo stato di avanzamento della riforma a livello territoriale evidenziandone le differenziazioni locali pur all’interno della comune cornice di riferimento; 4) individuare le modalità di monitoraggio e valutazione delle prestazioni basate su dati osservabili e capaci di registrare i livelli qualitativi, oltre che quantitativi, del servizio (risultati occupazionali, ma anche qualità del servizio offerto)2. Bibl.: BRESCIANI P.G. (Ed.), Servizi per l’impiego: Modelli organizzativi, in “Quaderni Spinn”, n. 1/2002; GILLI D., Monitoraggio S.p.i. 2002. Analisi di profondità dei Centri per l’impiego: per target,per funzioni, per strutture, Roma ISFOL, 2002; DI DOMENICO G. (Ed.), La programmazione re- gionale a sostegno dei Servizi per l’impiego. Azioni di sistema ed integrazione con lo sviluppo locale, Roma, ISFOL (Ed.), 2002; ISFOL, Servizi per l’impiego. Rapporto di monitoraggio 2002, Milano, F. Angeli, 2003; STRUTTURA DI MONITORAGGIO S.P.I. DELL’ISFOL (Ed.), Monitoraggio S.p.i. 2002. Ana- lisi di profondità dei Centri per l’impiego nelle regioni Ob.1, Roma, ISFOL, 2003; DI DOMENICO G. (Ed.), L’organizzazione dei Servizi per l’impiego. Un’indagine sperimentale, Roma, ISFOL, 2003. D. Pavoncello 2 Al monitoraggio e alla valutazione è collegato il meccanismo della “premialità” che permette di assegnare risorse finanziarie ulteriori alle Amministrazioni che registrano risultati migliori di quelli prefissati. 212 SICUREZZA SUL LAVORO Il tema della s. sul l. è un riferimento strategico per le attività di → FP; infatti, il no- stro Paese continua a vantare un triste primato sul numero di incidenti sul → la- voro, almeno in relazione ad altri Paesi europei. 1. Le norme in materia di s. sul l. trovano il loro fondamento nella tutela costituzio- nale dei diritti al lavoro e alla salute, nelle leggi speciali e nell’art. 2087 del Codice Civile che obbliga l’imprenditore ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro. Normativa paradigmatica in materia è senza dubbio il D.lgs. 626/94, che impegna le imprese all’adozione di una serie di precise misure a tutela della sicurezza del lavoratore. La norma individua come de- stinatari degli obblighi di sicurezza non solo datori di lavoro e personale dirigente, ma gli stessi lavoratori. Pertanto, è molto importante erogare una → formaz. sulla sicurezza nei confronti di tutti i soggetti operanti nel contesto aziendale, per fare acquisire ai lavoratori conoscenze tecniche e regole comportamentali utili in riferi- mento ai diversi compiti assolti nel processo produttivo. Il D.lgs.626/94 obbliga ad effettuare interventi di formaz. in caso di assunzione, trasferimento o cambiamento di → mansioni, nonché qualora vengano introdotte in azienda → nuove tecnologie o attrezzature di lavoro, oppure sostanze e preparati pericolosi. Tuttavia, conside- rando che non sempre tale obbligo è rispettato in relazione a tutti i dipendenti, so- prattutto quelli con contratti flessibili, è importante che la formaz. si faccia carico di impartire → conoscenze e → competenze sulla s. che supportino i giovani nel primo contatto con il mondo del lavoro. Del resto gli allievi hanno bisogno di tute- larsi dal rischio di infortuni già nei percorsi formativi, prima di effettuare attività nei → laboratori e nelle officine dei → CFP, oltre che durante il → tirocinio. 2. Riguardo i contenuti minimi della formaz. alla s. sul l., generalmente si distingue un primo livello generale di formaz. sui processi produttivi e sull’organizzazione della sicurezza e un secondo livello più specifico, diversificato secondo il ruolo e le mansioni svolte nel luogo di lavoro. Con l’Accordo approvato nella Conferenza Sta- to-Regioni del 26 gennaio 2006 è stato pienamente attuato il D.Lgs. 195/03 che in- tegra il D.Lgs. 626/94, definendo requisiti professionali specifici degli addetti e dei responsabili dei servizi aziendali di prevenzione e protezione. In particolare, sia i re- sponsabili che gli addetti al servizio di prevenzione e protezione devono “essere in possesso di un attestato di frequenza, con verifica dell’apprendimento, a specifici corsi di formazione adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e rela- tivi alle attività lavorative”. I responsabili inoltre, devono superare specifici corsi di formaz. in materia di → prevenzione e protezione dei rischi, anche di natura ergono- mica e psico-sociale, di organizzazione e gestione delle attività tecnico amministra- tive e di tecniche di comunicazione in azienda e di relazioni sindacali (→ sindacati). Bibl.: CODICE CIVILE, Libro V, Titolo II, art. 2087, Tutela delle condizioni di lavoro; D.lgs.626 del 19 settembre 1994, Attuazione delle direttive 89/391CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro, in G.U. Suppl. Ordin. n. 265 del 12/11/1994; D.M. 16 213 gennaio 1997, Individuazione dei contenuti minimi della formazione dei lavoratori, dei rappresentanti per la sicurezza e dei datori di lavoro che possono svolgere direttamente i compiti propri del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, in G.U. n. 27 del 3/2/1997; D.lgs. 23 giugno 2003 n. 195, Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, per l’individuazione delle capacità e dei requisiti professionali richiesti agli addetti ed ai responsabili dei servizi di prevenzione e protezione dei lavoratori, a norma dell’articolo 21 della legge 1° marzo 2002, n. 39, in G.U. n. 174 del 29/7/2003; Conferenza Stato-Regioni del 26 gennaio 2006, Accordo tra il Governo e le Regioni e Province Autonome, attuativo dell’articolo 2, commi 2, 3, 4 e 5, del D.lgs. 23 giugno 2003, n. 195, che integra il D.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, in materia di prevenzione e protezione dei lavoratori sui luoghi di lavoro, in G.U. n. 37 del 14/2/2006. R. D’Agostino SINDACATI Nell’economia della presente iniziativa editoriale, che privilegia destinatari impe- gnati soprattutto negli ambiti educativi e formativi, le connotazioni essenziali della voce s. si focalizzano principalmente sull’identità e i ruoli, sui modelli organizza- tivi e di azione che le organizzazioni sindacali assumono nei confronti delle modi- ficazioni socio-economiche che i cittadini sperimentano nel mondo del lavoro e nell’esercizio dei propri diritti/doveri nei vari contesti sociali. Peraltro, da più parti sembra emergere un atteggiamento di distacco rispetto al tema “sindacato”, che viene considerato sì un fenomeno rilevante del mondo industrializzato in un mo- mento storico ben preciso, ma che non rappresenta più una tematica degna di ap- profondimento e soprattutto di attualizzazione. Può essere opportuno tener conto anche di questa situazione nell’approccio al tema e procedere nella strategia educa- tivo/formativa del sapere, saper fare, saper essere. 1. Identità e ruoli. I s., intesi nel loro significato specifico, designano le → associa- zioni/organizzazioni distinte degli addetti ai lavori subordinati (detti prestatori d’o- pera), da un lato, e dei datori di lavoro, dall’altro. Identificare le diverse situazioni di → lavoro subordinato e le varie forme dei rapporti con i datori di lavoro com- porta, come ovvio, collocare l’ambito del s. come prodotto della storia. Da questa constatazione, i raggruppamenti delle Trade Unions delle origini, riferiti alle asso- ciazioni degli artigiani, si sono via via evoluti in unioni di mestieri, o syindacats (termine che in origine indicava l’assistenza a persone in sede giudiziaria), fino ad estendersi successivamente ai gruppi di interessi organizzati. Ma il dato storico di riferimento rimanda all’esperienza del lavoro operaio e, solo più tardi, a quella degli impiegati o dei “colletti bianchi”, fino a comprendere tutta l’area del lavoro dipendente. Diversamente, l’aggregazione sociale degli imprenditori e del lavoro autonomo, privo anche di collaboratori subordinati, segue linee di sviluppo diverse, che non sempre trovano il riferimento al termine “sindacale” (associazioni di im- prenditori, patronats, controparte padronale). Il tutto ha sullo sfondo il dato di ori- gine, che è costituito dalla rivoluzione industriale. 2. Modelli strutturali. Nei confronti dei vari contesti socio-economici, il s. si può configurare schematicamente secondo tre modelli strutturali: il modello antagoni- 214 stico al sistema, riscontrabile principalmente alle origini e ancora ricorrente nei Paesi in via di sviluppo; il modello conflittuale nei confronti dell’autorità ai vari li- velli, a partire dalla sede di lavoro dell’organizzazione produttiva e dalle comunità territoriali, fino al livello statuale; il modello partecipativo, ispirato idealmente a valori di → solidarietà, a politiche mirate all’integrazione collaborativa nelle tra- sformazioni più recenti dell’organizzazione del lavoro, nonché ad esperienze re- centi di progetti relativi alla cosiddetta “economia di comunione”. 3. Configurazioni organizzative. Nel contesto italiano, la configurazione organizzati- va del s. è determinata da una serie complessa di fattori, che rimandano a scelte ideo- logiche e ad elaborazioni dottrinali su aree più vaste della struttura economica, costi- tuzionale e giuridica (Costituzione, artt. 39 e 40; Statuto dei Lavoratori, L. 300/70). Non meno rilevanti risultano le motivazioni che hanno dato origine, dal 1944 in poi, a scissioni interne al s. unitario, attraverso varie fasi evolutive con cui si sono struttu- rate le principali organizzazioni sindacali a livello nazionale. Attualmente (secondo i dati socializzati dal “Corriere della Sera” del 28 gennaio 2004), la grande maggio- ranza dei s. dei lavoratori sono aggregati in tre organizzazioni presenti in tutti i setto- ri del lavoro dipendente pubblico e privato: la CGIL (Confederazione Generale Ita- liana del Lavoro), che dichiara 5,4 milioni di iscritti, dei quali 2,9 pensionati; la CISL (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori), che dichiara 4,1 milioni di iscritti, dei quali 2,1 pensionati; la UIL (Unione Italiana del Lavoro), che dichiara 1,8 milioni di iscritti, dei quali 500 mila pensionati. Si deve comunque rilevare che ac- canto alle citate Confederazioni Sindacali sono in forte aumento, dagli anni ‘80, altre organizzazioni: il CUB aggrega numerose sigle dei Cobas (sindacati di base), che di- chiara – sul medesimo “Corriere della Sera” – 600 mila iscritti di cui 160 mila pen- sionati. Particolare sviluppo sta acquisendo la nuova organizzazione sindacale UGL (Unione Generale del Lavoro), costituita il 28 novembre 1996 sulle fondamenta get- tate dalla CISNLAL (Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori), fon- data il 20 marzo 1950 con aggregazione di movimenti sindacali vicini all’area politi- ca della destra nazionale. Anche le associazioni degli imprenditori si sono strutturate nei diversi settori produttivi attraverso aggregazioni di rappresentanza facenti capo, a livello nazionale, soprattutto a Confindustria, Confapi, Confagricultura. Bibl.: SS. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Laborem exercens, AAS 73 (1981), n. 20; ZANGHERI R., Storia del socialismo italiano, Torino, Einaudi, 1997; CELLA G.P., Il sindacato, Bari, Laterza, 1999; ROMANI M., Appunti sull’evoluzione del sindacato, Roma, Edizioni Lavoro, 2000; CEREJA F., Il movimento operaio torinese nella storia del secolo (materiali), Torino, Cesedi, 2001; Sito UGL, www.ugl.it, 24.04.06. P. Ransenigo SISTEMA FORMATIVO Sta ad indicare il complesso delle istituzioni che svolgono la funzione formativa e l’organizzazione della relativa offerta. L’espressione sottolinea l’idea che tali strut- 215 ture costituiscano come un tutto, un’unità, un insieme che presenta regole e compiti comuni. 1. Il modello di riferimento. Benché nel mondo la varietà dei s.f. sia grande, tut- tavia, da quando nel 1972 l’UNESCO ha lanciato il modello della formaz. perma- nente, si può dire che tutti i Paesi vi hanno riconosciuto un quadro di riferimento (Faure et al., 1972; Delors et al., 1996). Questo ruota attorno a quattro assunti prin- cipali. Anzitutto, lo sviluppo integrale dell’uomo richiede il coinvolgimento lungo l’intero arco dell’esistenza, oltre che della scuola e della → FP, di tutte le agenzie formative in una posizione di pari dignità, anche se ciascuna di esse interverrà in tempi e forme diverse secondo la propria natura, la propria → metodologia e i propri mezzi (policentricità formativa). Il s.f. deve prevedere la possibilità di spez- zare la sequenza della → formaz. in diversi tempi – in modo da rinviarne parte o parti a un momento successivo al periodo della giovinezza – e di alternare momenti di studio e di → lavoro (→ alternanza, ricorrenza). In terzo luogo, la formaz. è una responsabilità della → società intera, comunità e singoli, che sono chiamati a ge- stire democraticamente le iniziative formative (“cité educative”, o società edu- cante). Infine, la formaz. dovrà costituire un diritto di tutte le persone e di tutti i po- poli, presentare un carattere propositivo, offrire strumenti per l’elaborazione di un → progetto personale di vita e stimolare l’educando a porsi in maniera critica e in- novativa rispetto ai messaggi trasmessi e ai valori circolanti nella → società (formaz. liberatrice). 2. Le strategie di sistema. Essendo il problema nord/sud la questione più grave che l’umanità dovrà affrontare nel futuro prossimo, gli interventi sul piano mondiale di- ventano la priorità delle priorità. In altre parole, non è possibile pensare di risolvere i problemi formativi sul piano locale se non si risolvono al tempo stesso i problemi a livello mondiale, se non si riesce ad es. a ridurre in misura importante le disegua- glianze di opportunità formative tra i Paesi del nord e del sud. Un altro gruppo di strategie rientrano nel cosiddetto sistema integrato: questo significa il coordina- mento tra le diverse strutture formative che consenta di valorizzare i rapporti di complementarità esistenti e di favorire transizioni complesse, in vista della realiz- zazione di sinergie generali e della creazione di una vera coerenza formativa. La “cité éducative” del Rapporto Faure (cioè che l’ → educ. è una responsabilità della società intera, comunità e singoli, che sono chiamati a gestire democraticamente le iniziative formative), o la tesi del rapporto Delors che l’educ. riguarda tutti i citta- dini, resi ormai attori da consumatori passivi che erano prima, non si possono at- tuare partendo solo dallo spontaneismo della società civile, ma richiede anche un intervento del centro che dovrà dare l’impulso, offrire una guida e valutare l’attività della periferia (Faure et al., 1972; Delors et al., 1996). Non è pensabile che il mer- cato possa, lasciato a se stesso, correggere i propri limiti o che basti una specie di autoregolazione; è, invece, necessario che l’autorità politica si assuma tutta la re- sponsabilità che le compete. 216 3. Intervento del privato. Lo Stato non è più in grado da solo di affrontare i pro- blemi formativi, ma la sua azione dovrà essere completata dall’intervento del “pri- vato sociale” e del mercato, cioè bisogna ipotizzare una dinamica sociale a tre di- mensioni. Il “privato sociale” comprende le iniziative che, pur promosse da privati, sono finalizzate a scopi pubblici: pertanto, esse dovrebbero essere sostenute dal de- naro di tutti, sebbene non completamente, perché conservano sempre un carattere e una responsabilità privata. Inoltre, si dovrebbe fare ricorso al mercato libero per utilizzare anche le sue grandi risorse a condizione che siano garantite la qualità del servizio e l’eguaglianza delle opportunità. Da tale punto di vista bisognerebbe che venisse generalizzato il riconoscimento reale e pieno della → libertà di educ. Questa può contare almeno su tre giustificazioni molto significative: il diritto di ogni persona ad educarsi e a essere educata secondo le proprie convinzioni e il cor- relativo diritto dei genitori di decidere dell’educ. e del genere d’istruz. da dare ai loro figli minori; il modello della formaz. permanente, la cui attuazione è assicurata non solo dalle istituzioni formative statali, ma anche da una pluralità di strutture educative pubbliche o private che, in quanto operano senza scopo di lucro, hanno diritto di ricevere adeguate sovvenzioni statali; l’emergere nelle dinamiche sociali fra Stato e mercato di un “terzo settore” o del “privato sociale” che, creato dall’ini- ziativa dei privati e orientato a perseguire finalità di interesse generale, sta otte- nendo un sostegno sempre più consistente dallo Stato a motivo delle sue valenze solidaristiche. Bibl.: FAURE E., Learning to Be, Paris/London, UNESCO/Harrap, 1972; CRESSON E. - P. FLYNN, Inse- gnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1996; DELORS J. et al., L’éducation. Un trésor est caché dedans, Paris, Editions UNESCO/Editions Odile Jacob, 1996; GLENN C.L., Il mito della scuola unica. Torino, Marietti, 2004; NICOLI D., “Il sistema di istruzione e formazione professionale”, in G. MALIZIA - S. CICATELLI (Edd.), Atti dei seminari “Nuovi percorsi formativi per i docenti della scuola” e “Prospettive per il secondo ciclo. Riflessioni e proposte sul de- creto attuativo, Roma, CSSC (Centro Studi per la Scuola Cattolica), 2005, 262-270; Il sistema dell’i- struzione e della formazione, in Rapporto ISFOL 2005, Roma, Tiellemedia, 2005, 139-202; ZANI A.V., Formare l’uomo europeo. Sfide educative e politiche culturali, Roma, Città Nuova, 2005. G. Malizia SISTEMA PREVENTIVO 1. La ped. che sorregge la → FP salesiana, pur con le diversità dei tempi, dei luoghi e delle azioni formative, si rifà agli stili della tradizione educativa salesiana, global- mente compresi in quello che viene detto s.p. La formula era già usata in altre na- zioni (Francia, Belgio), ma con → don Bosco, specie dopo la pubblicazione de Il s.p. nell’educ. della gioventù (1877) assunse un significato specifico, venendo ad evidenziare soprattutto un modo di educare in cui non si reprimono mancanze od errori, ma piuttosto si fa in modo che non accadano, promovendo tutto ciò che con- tribuisce ad un buono sviluppo umano degli educandi. In ciò, per un verso, don Bosco si collocava in quel movimento, tipico dopo il Congresso di Vienna (1815), 217 per cui preservare, proteggere, ma anche preparare, premunire, illuminare, istruire, promuovere erano “imperativi” (o perlomeno “infinitivi”) con cui molti volevano caratterizzare la politica, l’economia, la vita giuridica e sociale e l’→ educ.; per altro verso, don Bosco continuava ed innovava l’inesausta tradizione caritativa cri- stiana dell’età moderna a favore della gioventù, specie quella delle classi popolari o in condizione di → disagio (“gioventù povera ed abbandonata”, “giovani poveri e pericolanti”), educandoli con stili improntati ai principi evangelici dell’amore e della misericordia. Don Bosco, ha saputo dare a queste prospettive un’anima ed una certa unità ideale, com’ebbe a dire nel 1920 il pedagogista idealista Lombardo Radice. 2. Nel corso della tradizione educativa e formativa salesiana, già vivente don Bosco, non sono mancati momenti di difficoltà, ma a tutt’oggi certi aspetti del s.p. sembrano avere una loro forza propositiva (non senza aggiustamenti e adeguamenti pratici e teorici, pedagogici e teologici). In estrema sintesi, questi punti forza si possono così elencare: l) il s.p. si pone nell’orizzonte della ricerca del bene dei gio- vani, non in astratto: il bene spirituale (“Da mihi animas”), si concretizzò in don Bosco nell’essere “prete dei giovani”, vicino a loro, sensibile alle loro esigenze (di sicurezza, → istruz., → lavoro, ma anche di gioia, vitalità, bisogno di affetto, di amicizia, di accompagnamento autorevole e orientativo, ecc.); 2) il s.p. si fonda sulla fede evangelica della benignità e della paternità misericordiosa di Dio. Per questo don Bosco propose la benigna amabilità e lo zelo esuberante di S. Francesco di Sales ad es. dei suoi collaboratori e lo volle protettore della sua congregazione di preti e laici (e poi di quella che ancora oggi è chiamata “famiglia salesiana”); 3) alla base del s.p. c’è la convinzione della grandezza e fragilità del ragazzo e della sua dignità di persona e di figlio di Dio, che portava don Bosco a dire: “senza di voi non posso far nulla”; 4) pur non facendosi illusioni romantiche alla Rousseau, il s.p. parte dall’idea che in ogni ragazzo, anche il più traviato, c’è “un punto accessi- bile al bene” e stimola gli educatori a mantenere un tono processuale di fiducia e di speranza nell’uomo e nella provvidenza di Dio: in tal senso don Bosco ripeteva ai suoi collaboratori il “niente ti turbi” che fu di Gesù, di S. Paolo, di S. Teresa d’A- vila, di S. Francesco di Sales; 5) lo stile di intervento nei confronti dei giovani è improntato non solo alle motivazioni profonde che discendono da una visione reli- giosa della vita (→ “religione”), ma anche a ragione, ragionevolezza ed amorevo- lezza (cfr. le frasi attribuite a don Bosco: “l’educazione è questione di cuore”; “studia di farti amare”; “non basta amare i giovani, ma bisogna che sappiano di es- sere amati”); 6) la relazione educativa è realizzata sotto forma di presenza attiva ed amichevole, al fine di favorire l’iniziativa, invitare a crescere nel bene, incorag- giare a liberarsi da ogni schiavitù, affinché il male non superi e non vinca le forze migliori degli individui e del gruppo (“assistenza” e “preventività”); 7) la vita e l’→ ambiente educativo è esemplato sulla struttura, le dinamiche, le funzioni e lo “spi- rito di famiglia”, in modo tale che ciascuno si possa sentire “a casa sua”; 8) fin dagli inizi l’opera educativa di don Bosco fu finalizzata a formare “buoni cristiani 218 ed onesti cittadini”, che si “guadagnassero il pane con il proprio lavoro”. Tale quadro finalistico, con il crescere dell’opera salesiana, si dilatò sempre più nella linea di un progetto-uomo, che coniugasse insieme “lavoro, religione, virtù” e di un progetto-società, che ricercasse pietà, moralità, cultura, civiltà: parametri simili, in- sieme civili e religiosi, sono tipici del s.p., pur nella linea di fedeltà ed innovazione (cfr. l’espressione: “con don Bosco e con i tempi”). 3. Quest’“anima” del s.p. trova il suo “corpo”, cioè la consistenza istituzionale nell’“oratorio”. Esso non era nuovo come istituzione catechetica-educativa (cfr. S. Filippo Neri e S. Carlo Borromeo); ma con don Bosco, diventa un’istituzione edu- cativa globale e paradigmatica. In tal senso, l’oratorio di Valdocco, come dicono le Costituzioni rinnovate dei salesiani, fu (ed ogni istituzione salesiana è chiamata ad essere) per i giovani “casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola che avvia alla vita e cortile per incontrarsi con gli amici e vivere in allegria”. Parimenti, la tradizione educativa salesiana del s.p. ha prodotto un “armamentario” pedago- gico ed è sempre attento a produrre creativamente e contestualmente “dispositivi” e supporti, che vanno dall’organizzazione dell’ambiente, alla regolamentazione della vita comunitaria, di gruppo, di massa; all’insieme delle attività ricreative, ludiche, fisiche, culturali, religiose (banda, teatro, squadre sportive, gruppi ricreativi, asso- ciazioni formative, ecc.); alla scansione dei tempi di festa e della quotidianità gior- naliera, settimanale, periodica, annuale; al vivo senso di coinvolgimento, di corre- sponsabilità, di partecipazione di tutti ed ognuno nella vita del centro educativo; al- l’uso ricorrente di momenti rituali e di momenti di spontaneità e di svago; al ri- corso a forme di → comunicazione di massa o indiretta e a forme di comunicazione interpersonale diretta e profonda; e globalmente, ad un vivace rapporto tra istitu- zione educativa e territorio. Bibl.: VECCHI J. - J.M. PRELLEZO (Edd.), Prassi educativa pastorale e scienze dell’educazione, Roma, Editrice SDB, 1988; BRAIDO P. (Ed.), Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, Roma, LAS, 1992; BRAIDO P., Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco, Roma, LAS, 2000; WIRTH M., Da don Bosco ai nostri giorni, Roma. LAS, 2000; PRELLEZO J.M., Sistema educativo ed esperienza oratoriana di don Bosco, Leumann (TO), ElleDiCi, 2000; STELLA P., Don Bosco, Bologna, Il Mulino, 2001; NANNI C., Il sistema preventivo di don Bosco, Leumann (TO), ElleDiCi, 2003. C. Nanni SISTEMA PRODUTTIVO Con l’espressione s.p. si tende solitamente indicare, a livello micro, il modo in cui è organizzato l’insieme dei fattori di produzione, tra i quali rientrano senz’altro le risorse finanziarie (capitali), tecnologiche (attrezzature, impianti, ma anche sistemi logistici), quelle relative alla conoscenza (know how), e infine le → risorse umane (forza di → lavoro). Tale espressione è inoltre certamente utilizzata, a livello macro, per descrivere complessivamente la struttura economico-produttiva di un Paese. 219 1. L’attuale riflessione sui differenti modelli di produzione prende le mosse dal- l’ormai appurata crisi del fordismo, ovvero di quella organizzazione scientifica del lavoro pensata da Taylor come one best way e caratterizzata dal controllo razionale dei tempi e delle operazioni, dalla parcellizzazione e semplificazione delle → man- sioni, dall’esistenza di una rigida catena gerarchica, cui conseguono la separazione tra la progettazione (concezione) e l’esecuzione (manuale) e la dequalificazione di un lavoro che diviene intercambiabile; tutto ciò in virtù dell’idea che esiste sempre un modo migliore – individuabile appunto con metodi scientifici elaborati da un apposito ufficio – per compiere qualsiasi tipo di azione e risolvere problemi di varia natura. Sui fattori di successo di tale sistema di produzione – che nel dopo- guerra ha favorito l’incremento della produttività, la creazione di posti di lavoro tendenzialmente stabili che hanno assicurato un aumento dei livelli di reddito, e quindi il dilatarsi dei consumi – si è innestato, nel corso degli anni ’70, il venir meno di quei meccanismi di regolazione di tipo istituzionale che ne avevano decre- tato le fortune: entra infatti in crisi il welfare state, vengono ad esaurirsi alcuni cicli tecnologici, le ricorrenti crisi petrolifere aggravano il deficit di efficacia delle poli- tiche pubbliche keynesiane, cresce il “costo economico” della protesta operaia, ini- ziano a manifestarsi i primi segni di una logica produttiva che sorpassa i confini na- zionali. 2. L’uscita di scena del sistema di produzione fordista saluta l’affacciarsi alla ri- balta di due di nuovi modelli, definiti “post-fordisti”, e riconducibili essenzial- mente alla specializzazione flessibile, da un lato, e alla produzione snella dall’altro. Nel primo caso, si tratta dell’affermarsi di un paradigma produttivo decisamente opposto a quello fordista, in quanto centrato sulle → imprese di piccole dimensioni, destandardizzate, caratterizzate da processi di produzione rapidamente orientabili alle esigenze del → mercato del lavoro. Il caso più significativo di sistema a specia- lizzazione flessibile è quello dei distretti industriali italiani, ovvero quel sistema in- dicato come “terza Italia” (Bagnasco, 1977), e per il quale si è parlato di second in- dustrial devide (Piore - Sabel, 1987). A distinguere tale modello dal paradigma for- dista sta l’innalzamento del livello di fiducia e collaborazione – facilitato dal radi- camento in una comune cultura produttiva locale – tra imprenditori e dipendenti, la qualificazione on the job dei lavoratori stessi – che consente loro di saper svolgere più funzioni e di assumere delle iniziative tese a migliorare il processo di produ- zione –, nonché un certo grado di informalità nella regolazione dei rapporti di la- voro. 3. L’elemento della flessibilità è comune anche al modello della produzione snella (lean production), concettualizzato a partire dagli studi sui processi di ristruttura- zione delle fabbriche della Toyota. L’obiettivo della → qualità “totale” al persegui- mento del quale i dirigenti dell’azienda nipponica si votarono fu raggiunto attra- verso una meticolosa ottimizzazione del processo di produzione, grazie alla quale si puntò ad economizzare su ogni componente tecnologica ritenuta ridondante, or- dinando la produzione per piccoli lotti, programmando rigidamente le quantità per 220 un singolo periodo così da “azzerare” le scorte di magazzino (Just in time), ed estendendo – attraverso rapporti fiduciari o di controllo diretto – questi stessi prin- cipi ai propri fornitori. Il punto di forza del modello, e l’elemento che ne determinò il successo, fu comunque il coinvolgimento diretto dei lavoratori nel miglioramento del ciclo produttivo e la loro adattabilità/polifunzionalità alle esigenze dell’azienda. Preparazione e polivalenza dei lavoratori sono, infine, punti di forza del modello della produzione diversificata di qualità, che mira a “coniugare la produzione su larga scala con la realizzazione di prodotti che si collocano sui segmenti ‘alti’ del mercato, con l’obiettivo di rispondere alle domande di una clientela selettiva ed esigente attraverso […] l’elevato standard di realizzazione, la diversificazione e la personalizzazione dei prodotti” (Lodigiani - Martinelli, 2002, 21). Bibl.: BAGNASCO A., Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, Il Mu- lino, 1977; PIORE M. - C. SABEL, Le due vie allo sviluppo industriale, Torino, ISEDI, 1987; KERN H. - M. SCHUMANN, La fine della divisione del lavoro? Produzione industriale e razionalizzazione, Torino, Einaudi, 1991; BONAZZI G., Storia del pensiero organizzativo, Milano, F. Angeli, 2002; LODIGIANI R. - M. MARTINELLI (Edd.), Dentro e oltre i post-fordismi, Milano, Vita e Pensiero, 2002; BONAZZI G., Come studiare le organizzazioni, Bologna, Il Mulino, 2006. M. Colasanto SISTEMA QUALITÀ → Qualità; → Accreditamento SOCIETÀ Un primo problema che si presenta a chi voglia studiare la s. è un problema innan- zitutto di definizione. Il concetto di s. infatti è un concetto polisemico, di difficile precisazione perché di vastissima estensione, una di quelle categorie che da oltre due millenni ricorre con grande frequenza e varietà di significati sia nel linguaggio comune che nei linguaggi specializzati della filosofia, del diritto, dell’economia, della politica, della storiografia, della sociologia e delle altre scienze sociali. In un modo o in un altro tutte le discipline dell’uomo hanno tra i loro oggetti di osserva- zione o di contesto il costrutto “s.”. In particolare nelle scienze socio-politiche, at- traverso la sua concettualizzazione, l’uomo cerca di comprendere la realtà sociale, così da avere strumenti simbolici di controllo per studiarla e quindi governarla. In questo nostro saggio molto sintetico, noi ci collochiamo in una prospettiva preva- lentemente sociologica e con un approccio globale e olistico. 1. Una definizione di s. In senso molto ampio una s. può essere definita come un insieme di persone, organizzate in una serie di gruppi e istituzioni in relazione tra di loro, che tendono a conservarsi nel tempo e che condividono una medesima cul- tura per lo più abbastanza omogenea. In senso più ristretto si parla di s. come un si- stema di sistemi (Gallino,1980,41), in interazione tra di loro, sulla base di due 221 leggi, quella della interdipendenza e quella delle reciprocità, e individuabili nei quattro sistemi della persona, della popolazione, della cultura e del sistema sociale. Il sistema sociale propriamente detto costituisce la dimensione strutturale di ogni s., che viene perciò teoricamente articolata secondo altrettanti settori distinti di atti- vità, ciascuno dei quali presiede ad una serie di funzioni specifiche, chiaramente definibili. In ogni s. possiamo così individuare: 1) il sistema dell’organizzazione politica che tende ad assicurare il controllo unitario della s., costruendone e orien- tandone gli scopi collettivi e l’azione sociale, per far fronte alle esigenze generali di difesa esterna, mantenimento dell’ordine interno, ricerca della → coesione sociale, rilevazione delle molteplici e contrastanti domande politiche della popolazione; 2) il sistema di produzione economica che, attraverso una adeguata strumentazione tecnologica, presiede all’acquisizione, trasformazione e distribuzione delle → ri- sorse umane, materiali ed energetiche, così da offrire una serie di prodotti che ga- rantiscono la sopravvivenza del sistema generale; 3) il sistema della riproduzione socio-culturale, che ha il compito operare la trasmissione della memoria sociale di un gruppo umano, di quella serie cioè di norme, valori e stili di vita, di conoscenze cognitive, informative e prescrittive, che hanno costituito la cultura del passato, ma sulla cui base si vengono ad elaborare e diffondere definizioni, istruzioni, norme e valori che riguardano l’esistenza individuale e sociale, oltre che ad essere diretti a costruire dei sistemi di significato capaci di orientare il comportamento e l’intera- zione sociale, attraverso la formazione del linguaggio, la → comunicazione verbale e massmediatica, il particolare orientamento religioso; 4) il sistema della riprodu- zione biopsichica, che provvede alla riproduzione biologica e alla cura della salute mentale della popolazione, ne regola l’interazione sociale, le dinamiche relazionali soddisfacenti, i rapporti sessuali, le cure fisiche dei figli, l’assistenza e la cura me- dica specie dei bambini e degli anziani in base specialmente alle condizioni definite dalle istituzioni e dalla cultura locale. 2. Evoluzione storica degli studi sulla s. La categoria sociologica di s., emersa pe- raltro soltanto in questi due ultimi secoli, per opera di Comte, di Durkheim, di Ton- nies, e dei sociologi moderni, è stata preceduta da una storia molto antica, che af- fonda le sue origini nella filosofia. Già la riflessione teoretica di Platone tende a considerare la s. come una risposta funzionale e organizzata ai diversi bisogni del- l’uomo. Anche Aristotele propugna la concezione dell’uomo naturalmente socie- vole, che sarà poi ripresa dalla filosofia sociale e politica di S. Tommaso, con il quale si diffonde la concezione della s. come totalità organica e sistema di relazioni naturali, il cui ordine è voluto e regolato da un fine comune trascendente quelli in- dividuali, che è il bene comune. Esso è sovrafunzionale all’individuo e si manifesta nello Stato. In opposizione alla concezione della s. come ordine naturale, si colloca Hobbes, il quale afferma la naturale tendenza degli uomini a danneggiarsi l’un l’altro, aprendo così il pensiero alla concezione contrattualistica della s., secondo cui per evitarne la distruzione è necessario un contratto, che artificialmente delimiti le esigenze e le pretese di ciascuno. Per mezzo di esso ogni individuo liberamente 222 cede il suo diritto di usare la forza a favore di un terzo, cioè lo Stato, che sulla base di un calcolo razionale garantisce l’incolumità dei suoi membri. Vi è qui una prima opposizione tra la s.-natura e la s.-istituzione. A quest’ultima Rousseau contrap- porrà la s.-natura, con l’esaltazione del vivere primitivo, dove la natura originaria- mente buona si è corrotta attraverso la costituzione della collettività. Nel corso del ‘700 appaiono le elaborazioni teoriche sul sociale di filosofi come Kant e di econo- misti come Montesquieu, Smith e Ferguson, dove si pongono preliminarmente le basi teoriche della distinzione tra s. civile e s. politica. Si dovrà aspettare l’‘800 per trovare una teoria specifica del sociale distinta da quella del pensiero filosofico. Comte, segretario di Saint Simon, inizierà a considerare lo studio della s. con l’ap- proccio specifico di una scienza che chiamerà “fisica sociale” prima, e “sociologia” poi. In questo contesto la s. diventa oggetto di uno studio particolare, che userà una → metodologia speciale, quella empirica e positiva, abbondantemente utilizzata dai “padri fondatori” come Tocqueville, Durkheim, Pareto,Weber, Tonnies, Marx e Spencer. Da questo punto lo studio della categoria “s.” diventerà sempre più speci- fico per opera di scuole come il funzionalismo, la teoria critica della Scuola di Francoforte ed il conflittualismo, oltre che per l’apporto dei sociologi moderni e contemporanei, come Parsons, Gurvitch, Merton, Rimmel, Ardigò, Habermas, Luh- mann, Dahrendorf, Giddens, Featherstone, Beck, Barman. 3. Tipologie di s. In apertura parlavamo di una pluralità di significati sottesi al con- cetto di s. Al termine del nostro studio possiamo individuare una pluralità di tipi specifici che presentano la poliedricità di questo concetto e sono distinti sulla base dei criteri di distinzione e di approccio utilizzati. Per cui se della s. noi prendiamo in considerazione la sua struttura politica ed economica possiamo parlare di s. ci- vile e s. politica; di s. agricola, preindustriale, industriale e post-industriale; di s. di massa e di s. globale; di s. a libero mercato e di s. ad economia controllata; di s. ca- pitalista e di s.socialista; di s. Gemeinschaft e di s. Gesellschaft; di s. rurali e s. ur- bane. Se ci soffermiamo invece su un approccio che ne studi specialmente le ten- denze culturali in genere, gli stili di vita, gli orientamenti del costume, l’organizza- zione del → lavoro, l’integrazione o la differenziazione sociale, la dimensione reli- giosa, possiamo individuare dicotomie polarizzate come s. semplici e s. complesse; s. integrate e s. multiculturali; s. sacrali e s. secolarizzate; s. tradizionali e s. mo- derne o postmoderne. Per l’esigenza di aderire il più possibile alla variegata com- plessità della realtà storica senza rinunciare ai benefici di una tipizzazione, si è giunti, sulla base poi di caratteristiche emergenti e particolarmente tipiche di un certo periodo storico, ad elaborare una lettura della s. dalle configurazioni più di- verse, come la s. dei consumi, la s. dell’immagine, la s. dell’incertezza, la s. globa- lizzata (→ globalizzazione), la s. liquida, la s. del rischio, la s. mondiale, la s. opaca, la s. flessibile, la s. opulenta, la s. virtuale, la s. comunicazionale, la s. rela- zionale. In ogni caso però se è abbastanza facile tipicizzare la s. odierna non si dovrà trascurare la sua dimensione dinamica e di modernizzazione, che guida il movimento storico, le trasformazioni sociali e quella serie dei processi di cambia- 223 mento sociale che oggi sembrano acquistare sempre più accelerazione e differen- ziazione. Bibl.: GALLINO L., La società, perché cambia, come funziona, Torino, Paravia, 1980; DONATI P., La teoria relazionale della società, Milano, F. Angeli, 1991; INGLEHART R., La società postmoderna, Roma Editori Riuniti, 1998; BECK U., La società del rischio. Verso una seconda modernità. Roma, Carocci, 2000; DONATI P., La cittadinanza societaria, Roma-Bari, Laterza, 2000; GUBERT R. (Ed.), La via italiana alla postmodernità. Verso una nuova architettura dei valori, Milano, F. Angeli, 2000; BE- DESCHI G. (Ed.), Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, voll. 1- 9, 1991-2001; DONATI P. - I. COLOZZI (Edd.), Generare il civile:nuovi scenari nella società italiana, Bologna, Il Mulino, 2001; BAUMAN Z., La società individualizzata. Come cambia la nostra espe- rienza, Bologna, Il Mulino, 2002; GUBERT R. - G. POLLINI (Edd.), Valori a confronto: Italia ed Eu- ropa, Milano, F. Angeli, 2006. R. Mion SOCIOLOGIA DEL LAVORO La s. del l., secondo la definizione che ne dà Gallino, “studia, da un lato le varia- zioni dell’organizzazione, della qualità, del valore del lavoro in differenti settori produttivi – industria, agricoltura, amministrazioni, ecc. – e professionali, metten- dole in rapporto col variare del modo di produzione, della tecnologia, della strut- tura tecnica ed economica delle aziende, del tipo e grado di organizzazione sinda- cale dei lavoratori, delle forme di dominio politico ed economico, della composi- zione biosociale della popolazione (piramide d’età, sesso, scolarità, ecc.); dall’altro lato, gli effetti che i suaccennati aspetti del lavoro hanno sulle collettività dei lavo- ratori, sulla stratificazione sociale, sull’uso del tempo libero, sull’estensione della civiltà, infine sulla qualità della vita” (Gallino, 1993, 389). 1. Nel corso degli anni ’90, nel nostro Paese ma non solo, alle discipline socio-la- voriste è riconosciuto il fatto di aver acquisito piena maturità e legittimazione, tanto dal punto di vista scientifico e accademico, quanto sotto il profilo politico e istituzionale. Il contesto in cui si muove la disciplina, tuttavia, continua a perma- nere problematico proprio in virtù delle profonde trasformazioni che interessano il suo oggetto di studio. Un criterio utile per orientarsi nel vasto campo delle prospet- tive analitiche e dei materiali prodotti dalla riflessione sociologica sul → lavoro in Italia prevede di organizzare la letteratura intorno ad alcuni filoni tematici princi- pali (Colasanto, 2002). 2. Il primo filone di analisi riguarda l’organizzazione del lavoro e le nuove forme di regolazione. In esso confluiscono anzitutto gli studi di quegli AA. che si sono occupati della trasformazione del → sistema produttivo delle aziende seguita alla crisi del modello fordista, e dunque all’emergere di nuovi paradigmi post-fordisti. Anche da ciò deriverebbe l’importanza attribuita al tema – che ha progressiva- mente assunto un ruolo sempre più centrale – della partecipazione dei lavoratori nell’→ impresa e delle forme che essa assume. Nel corso del decennio ’90, ac- canto alla valorizzazione del lavoro umano si pongono tuttavia processi sempre 224 più marcati di precarizzazione delle posizioni lavorative. La flessibilità del lavoro – ma anche delle stesse dimensioni strutturali dell’impresa – è intesa come ri- sposta e capacità di adattamento alle modificazioni del rapporto tra domanda e of- ferta, tra consumo e produzione. L’accento sulla flessibilità spinge alcuni AA. ad interessarsi degli inediti scenari del lavoro autonomo, entrato ormai in quella che è stata definita come una seconda generazione, determinata non tanto dalla libera scelta degli individui, quanto dalle nuova domanda di lavoro proveniente proprio dalle imprese ristrutturate alla luce dei differenti modelli di uscita dai sistemi di produzione fordisti. La precarietà che ne deriva riporta in auge anche il tema delle → risorse umane, della loro occupabilità e del ruolo che a proposito di questa svolge la → formaz. 3. Il secondo filone di analisi prende in considerazione le nuove politiche dell’oc- cupazione, e si compone soprattutto di quelle riflessioni in merito alla disoccupa- zione italiana che invitano a superare letture riduzionistiche del → mercato del la- voro e a porre in evidenza le peculiarità di quella merce sui generis rappresentata dal lavoro. 4. Un terzo filone, al quale ricondurre la più recente letteratura socio-lavorista, fa capo ai contenuti del lavoro, con particolare riguardo al tema della conoscenza e della → professionalità, e scaturisce dalla presa d’atto dell’importanza delle → competenze di tipo motivazionale, cognitivo e relazionale che le occupazioni ad elevato contenuto professionale oggi richiedono. Tale attenzione sfocia nello studio delle libere professioni e dei lavoratori “della conoscenza”, e trova un rinnovato fuoco di interesse per il concetto di gruppo professionale, anche per via del suo stretto legame con il tema della stratificazione sociale; dall’altro, tende a superare ogni interpretazione del lavoro di tipo deterministico (su base tecnologica o ideolo- gica) per valorizzare gli aspetti di senso: così, Arendt (il lavoro come azione che valorizza le dimensioni soggettive in contrapposizione al lavoro come opus); e così soprattutto Donati (il lavoro come relazione, che acquista significato nel rapporto che si stabilisce tra soggetti, oltre ogni lettura meramente economicistica, legata a transazioni di puro mercato). 5. Un quarto filone di analisi, infine, pone attenzione al rapporto tra lavoro e muta- mento della → società, portando in evidenza le basi sociali del processo di trans- izione ed in particolare il ruolo in esso giocato dalle società locali. La consistente – e certamente non conchiusa – riflessione sviluppatasi in proposito anche a partire dalla valorizzazione dei concetti sviluppati dalla cosiddetta “nuova sociologia eco- nomica”, oltre ad aver approfondito tematiche ad essa legate – come ad es. quella delle caratteristiche e della funzione del lavoro degli immigrati – ha contribuito ad elaborare letture più articolate dell’economia e della società italiana e della loro tra- sformazione. Bibl.: ARENDT H., Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1964; GALLINO L., “Lavoro, Sociologia del”, in ID. Dizionario di sociologia, Torino, UTET, 1993, 389-398; DONATI P., Il lavoro che emerge, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; COLASANTO M., “La sociologia del lavoro in Italia: ele- 225 menti per una riflessione”, in G. BONAZZI - M. LA ROSA - V. PULIGNANO (Edd.), Sociologia del lavoro e studi organizzativi. Lo stato del dibattito in Italia ed in Gran Bretagna, Collana “Sociologia del La- voro”, voll. 86-87, Milano, F. Angeli, 2002, 191-208; ZUCCHETTI E., La disoccupazione. Letture, per- corsi, politiche, Milano, Vita e Pensiero, 2005; ACCORNERO A., Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, Bologna, Il Mulino, 2006. M. Colasanto SOLIDARIETÀ E TERZO SETTORE 1. Nel linguaggio italiano corrente la parola s. fa riferimento ai rapporti di comu- nanza tra persone pronte a collaborare tra loro e ad assistersi a vicenda nella piena condivisione dei casi e delle responsabilità. S. deriva dal latino “solidus”, un tut- t’uno, una cosa sola (una moneta di oro molto solida). Infatti, la s. dovrebbe es- sere la partecipazione ad una condizione altrui più sfortunata della nostra. Questa partecipazione deriverebbe, a sua volta, dal riconoscimento che la condizione al- trui non è nettamente separata dalla nostra, ma che, per ritrovata → identità con l’altro, sussiste una com-partecipazione di destino e una responsabilità comune differenziata. La s. si può estrinsecare a livello delle singole persone, delle → fa- miglie, ma anche a livello associativo, dove a regolamentare gli “obiettivi” della s. interviene uno Statuto liberamente accettato dai membri facenti parte. Conside- rando anche il livello dello spazio in cui la s. agisce, essa può operare a livello di quartiere, di città, o anche a livello nazionale ed internazionale: questi livelli non sono di per sé diversi tra loro, anzi il valore della s. fa sì che si operi concreta- mente ad un livello, avendo però presente tutti gli altri. Infatti, questa categoria del “pensare globalmente e agire localmente” è particolarmente importante per quanto concerne la dimensione educativa alla s., soprattutto delle nuove genera- zioni. La s., poi, ha a che vedere con la costruzione del “bene comune” come principio portante della sua stessa etica. Il solidus si gioca anche in una partita quale la “costruzione della Polis”, in una ottica di sintesi degli interessi contrap- posti per favorire la convivenza sociale: solo in una → società solidale si può evi- tare la sopraffazione di un gruppo sull’altro. Questo è vero a livello locale, nazio- nale ed internazionale. 2. Il t.s. si definisce una realtà che si inserisce tra i due pilastri costituiti dallo Stato e dal mercato. Esso rappresenta un insieme composito e variegato di → enti e di or- ganismi senza fine di lucro, quali → associazioni, mutue, organizzazioni di volon- tariato, enti morali, fondazioni, cooperative sociali e imprese non-profit tout court. La maggior parte di queste organizzazioni ha la vocazione di fornire beni e servizi e svolge, quindi, attività di natura economica: esse tendono a differenziarsi dalle → imprese classiche per l’assenza di scopi di lucro, mentre il loro carattere privato le differenzia dal settore statale. È dunque il sociale l’ambito di intervento del t.s.: per questo si parla anche di “economia sociale” e di “economia associativa”. L’imma- gine del t.s. rimanda ad aspetti quali una grande ricchezza di soggettività e di ope- 226 ratività, legati ad un complesso di risorse, materiali ed immateriali, messe in campo in termini di s. attiva, di relazionalità e autorganizzazione, che ne fanno una grande realtà in crescita, caratterizzata sempre di più anche per il dato occupazionale che esprime. Alcune analisi condotte al livello europeo dicono che tale settore rappre- senterebbe il 6% delle imprese private, con una quota di occupazione che va dal 4,5 al 5,3%. In Italia il t.s. cresce quantitativamente in particolare durante gli anni ‘80 e trova il suo pieno riconoscimento nel decennio successivo, anche con la costituzione uffi- ciale del “Forum permanente del Terzo Settore”. L’importanza del t.s. è diretta- mente collegato alla crisi del Welfare, ossia dello Stato Sociale. In questo caso ci troviamo di fronte ad una → sussidiarietà “forzata dall’alto” (causa la crisi) e non proveniente dal basso. 3. Coniugare la s. con il t.s. è quanto mai importante, altrimenti quest’ultimo po- trebbe rischiare di essere uno strumento di “carità pelosa”, o addirittura compia- cente con uno Stato che abbandona i propri doveri di redistribuzione delle risorse per garantire uguaglianza di diritti ai propri cittadini. Infatti, ci si può trovare di fronte ad una s. “degenerata” e “commercializzata” che muove più all’elemosina che non ad una giustizia sociale. Pur riconoscendo l’importanza delle risorse eco- nomiche per finanziare l’organizzazione dei servizi alle persone bisognose, la sola elemosina, se non accompagnata da una azione di coscientizzazione al problema per una presa di posizione individuale e collettiva, rischia di aumentare ulterior- mente le distanze fra “aiuto” e “bisogno”. Le organizzazioni non-profit, le associa- zioni di volontariato e gli altri soggetti che sono una parte significativa del movi- mento del t.s., dovrebbero sempre avere come orizzonte la prospettiva della trasfor- mazione della causa di ingiustizia per cui sono costretti ad intervenire nel loro set- tore di competenza. Si parte dalla condivisione del dolore e della sofferenza, per passare ad un progettazione di sviluppo umano, per arrivare ad una giustizia sociale in cui i diritti fondamentali delle persone siano pienamente rispettati. Si tratta di co- struire percorsi per una organizzazione sociale equa: in questi percorsi, l’intero t.s. gioca un ruolo fondamentale. Anche le imprese sociali (cooperative, ecc.) hanno in questo un ruolo cruciale, essendo impegnate nell’ambito economico in senso stretto, che sembra l’ambito più difficile da penetrare e trasformare. Infatti, non vi è dubbio che oggi il t.s., la società civile organizzata sono considerati nuovi soggetti politici nella arena politica internazionale. Nelle realtà organizzate la s. deve avere questa particolare attenzione “politica” della costruzione di strutture che partano dall’Uomo per ritornare all’Uomo: la s. è l’elemento umano che permette di servire la persona e l’intera società con questa prospettiva. Bibl.: ALBANESE G., Il cammino della solidarietà, Bologna, EMI, 1997; MARTINI C. - M. CACCIARI, Dialogo sulla solidarietà, Roma, Edizioni Lavoro, 1999; IOVENE N. - M. VIEZZOLI, Il libro del terzo settore. L’universo del non-profit tra impresa e solidarietà sociale, Roma, ADN Kronos Libri, 1999; CURCI S. - A. NANNI, Buone pratiche per fare intercultura, Bologna, EMI, 2005. A. Raimondi 227 SPERIMENTAZIONE La s. è l’insieme delle operazioni esplorative, interpretative, conoscitive intraprese dallo studioso, per dare fondamento scientifico al suo essere nel mondo. Essa è procedimento rigoroso di controllo di principi e fatti. Si distingue da esperienziale, empirico, euristico, laboratoriale, condividendo con questi termini l’esigenza meto- dologico-sistematica. 1. Williams apre a Londra (1773) la prima scuola sperimentale guidato dall’idea illuminista di rinnovare l’→ educ. Nel corso della storia, alla verità teologica e a quella metafisica si sono aggiunte la dialettica e la → metodologia, portatrici di vie altre, capaci di illuminare il dato fenomenico con suggestioni, ipotesi, falsifica- zioni. Se nell’antichità classica filosofi, teologi, astronomi e matematici, pongono domande e avanzano soluzioni, in epoca a noi più prossima le assillanti questioni circa la presenza dell’uomo sulla Terra e le controverse attribuzioni causali, utili alla spiegazione dei fatti, rivoluzionano la prospettiva di analisi. Non basta cono- scere, è necessario anche capire; non basta riprodurre, è anche importante riper- correre i processi; non basta trasmettere, è fondamentale anche trasformare. Sul piano empirico, il dogma s’infrange di fronte alla mentalità sperimentale che vuole provare la verità di principi, ragionamenti e leggi con strumenti attendibili, prove valide e misurazioni adeguate. Curiosità per l’incognito, rigore della matematica, desiderio di comunicare scoperte inattese, conducono Galilei (1564-1626) alla de- finizione del metodo sperimentale che assegna ad esperienza e ragione il ruolo di una nuova rivelazione, fondata sulla continuità della conoscenza che si muove dal- l’osservazione alla dimostrazione, avendo assunto il dubbio quale motore della scienza. 2. Le scienze naturali sono sperimentali per definizione, le → scienze umane sono invece divenute sperimentali quando l’oggetto di osservazione si è spostato dall’in- dagine sulla natura divina e metafisica dell’uomo alla natura scientifica dell’uomo. Le scienze umane sperimentali fanno il loro ingresso nella storia nel XIX sec. Gli studi di Spencer (The principles of psychology, 1855) e di Darwin (On the origin of species, 1859) sull’evoluzione dell’uomo sono l’inizio di quell’indagine causale, scivolata talvolta nel determinismo, ma più spesso interessata a stabilire variabili significative nel gioco infinito di connessioni e correlazioni. Per Windelband (1848-1915) sono scienze nomotetiche quelle intese alla costruzione di leggi, ed idiografiche quelle volte alla descrizione delle individualità fenomeniche. Nel ‘900, Peirce (1839-1914) scrive sulle leggi dell’ipotesi che la validità è una questione di fatto e non di pensiero, ed il ragionamento ha lo scopo di trovare quello che non conosciamo ancora, partendo da premesse vere nel senso che appartengono al me- todo sperimentale, cosicché la conclusione ultima di ognuno viene ad essere la me- desima. L’ipotesi va formulata secondo percezione, ragionamento, esperienza, vale a dire secondo la concezione della realtà. Cresce la consapevolezza che chi conosce può a sua volta essere conosciuto non a priori, ma per procedimenti a posteriori. Al 228 neopositivismo viennese, che elimina la metafisica (Neurath, Hahn, Carnap), segue il razionalismo critico di Popper (1902-1994) per il quale anche la scienza può fal- lire. 3. Le scienze dell’educ. si pongono la questione sperimentale nel momento in cui considerano la realtà, della persona e della → società, come laboratorio di → ri- cerca nel quale le varie componenti dell’azione agiscono, si influenzano e produ- cono risultati da leggere secondo la prospettiva della → formaz. La teoria del- l’educ., l’esperienza d’→ insegnamento, gli strumenti di rilevazione sono i poli co- stitutivi della s., come analisi di concordanze e differenze tra fenomeni che hanno e non hanno luogo nel sistema di logica secondo Mill (1806-1873), come valutazione dell’indagine secondo Dewey (1859-1952), come studio comparativo secondo Kuhn (The structure of scientific revolutions, 1962). Dal punto di vista della analisi comparativa, le ricerche su figure, ruoli, → competenze e → qualità della formaz. prevedono l’applicazione delle evidenze raggiunte in contesti e tempi determinati, così da promuovere il miglioramento dell’offerta istituzionale e la possibilità della sua estensione a livello internazionale. Nella → FP, la s. è rivolta alla preparazione al → lavoro nel → laboratorio dei mestieri, è fonte di innovazione → didattica ed è proposta di organizzazione sistematica. Sin dai tempi di Dewey un ruolo impor- tante è svolto dalla progettazione, terreno di verifica della stessa s. e di imposta- zione della nuova teoria della formaz. In Italia la s. del primo ‘900 ha avuto suc- cesso in campo educativo e scolastico con Maria Montessori e con Giuseppina Piz- zigoni. Bibl.: CALONGHI L., Sperimentazione nella scuola, Roma, Armando, 1977; BECCHI E. - B. VERTECCHI (Edd.), Manuale critico della sperimentazione e della ricerca educativa, Milano, F. Angeli, 1984; DE LANDSHEERE G., Storia della pedagogia sperimentale. Cento anni di ricerca educativa nel mondo, Roma, Armando, 1988; LAENG M., Pedagogia sperimentale, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1992; CHISTOLINI S., Comparazione e sperimentazione in pedagogia, Milano, F. Angeli, 2001; PIZZIGONI G., L’insegnamento oggettivo. Estratto dalla “Rivista Pedagogica” diretta da Luigi Credaro, anno XIII, fasc. 3-4, Tipografia della Scuola Rinnovata, 1929. S. Chistolini SPIRITUALITÀ DEL LAVORO 1. L’esigenza di un’unificazione personale profonda dell’operare, dell’agire e del- l’essere nella produzione, nella professione e nell’imprenditoria rimangono spesso inespressi, ma non per questo meno cogenti. Sviluppi umanistici e religiosi della cultura del → lavoro e delle professioni possono risultare significativi per la stessa buona qualità della → competenza professionale e dei vissuti lavorativi e professio- nali. Oggi, per un verso, tale esigenza si può ricollegare al venir meno della forza motivazionale delle ideologie del lavoro, tipiche del recente passato (comunista-so- cialista, liberistico-laicista, cristiano-sociale) e dei valori che esse prospettavano: sia in termini di moralità soggettiva (onestà, laboriosità, → solidarietà, ecc.) sia di 229 impegno etico oggettivo (costruzione del bene comune, giustizia sociale, sviluppo democratico). Altrettanto è da dire per certe modalità delle concezioni religiose (cattolica, protestante o di altre confessioni) che concepivano il lavoro e le profes- sioni come luogo di espiazione, di redenzione, di santificazione o di carità ed im- pegno sociale. Per altro verso, tale esigenza scaturisce, magari a livello intuitivo, dalla percezione dell’insufficienza della secolarizzazione, dalla ricerca di una buona qualità della vita o dall’insoddisfazione per le attese riposte nell’efficien- tismo e nell’innovazione tecnologica informatica e telematica. 2. In questo contesto si comprende la rinnovata attenzione alla Dottrina Sociale della Chiesa (→ Insegnamento sociale della Chiesa) ed in particolare all’insegna- mento del Papa Giovanni Paolo II, sia per il loro ribadire la centralità della persona umana e della sua dignità, sia per la loro chiara denuncia, tutela, difesa e promo- zione dei diritti umani, tra cui quelli dell’occupazione e di un lavoro umanamente degno. In continuità con questa linea di difesa dell’umano, si pongono: la richiesta di condizioni di vita civili e democratiche; l’esigenza di cultura e di → formaz., di → alfabetizzazione, di → educ. e di coscientizzazione socio-politica (cfr. in partico- lare l’enc. Centesimus annus). Rispetto, poi, alle “res novae” di cui facciamo espe- rienza, si mette in luce l’esigenza di interrogarsi sul senso umano del lavorare e del produrre; sulla necessità di giustizia sociale per ciò che riguarda la fruizione dei beni produttivi sul mercato; sul sano equilibrio tra tempo del lavoro e tempo libero; sulla solidarietà a tutti i livelli dell’esistenza sociale (locale, nazionale, internazio- nale) (cfr. in particolare le enc. Centesimus annus e Sollicitudo rei socialis). 3. Più specificamente, da una rilettura del Vangelo, e in particolare del cap. 5 del- l’enc. Laborem exercens (e della parte finale dell’enc. Sollicitudo rei socialis), si possono anche evidenziare i fondamenti religiosi dell’etica del lavoro, delle profes- sioni e della produzione che permettono di delineare una vera e propria s. del l. e dello sviluppo solidale (configurando una sorta di “Vangelo del lavoro”). Di esso sono da segnalare: 1) la partecipazione dell’uomo all’opera del creatore (per questo i primi capp. de La Genesi sono qualificabili come “primo Vangelo del lavoro”); 2) l’essere immagine e somiglianza di Dio nella quotidianità, “lavorando e ripo- sando”; 3) la concezione dell’uomo-libertà e dell’autonomia delle “realtà terrestri”, che Dio stesso rispetta (solo eccezionalmente intervenendo “miracolosamente” per il bene); 4) la responsabilità dell’uomo nei confronti del mondo e della storia, in quanto “vicario” di Dio in terra, che può “dar nome” ad animali e a cose (cfr. la ri- levanza del “fattore uomo”), ma anche rovinare, distruggere, annientare rovinare (oggi con le biotecnologie, l’intervento sugli ecosistemi, lo sfruttamento delle ri- sorse naturali, il mercato mondializzato, la → globalizzazione); 5) il lavoro visto come valore arduo, in quanto possibile via di emancipazione, di espressione perso- nale, di qualificazione della vita, ma anche di alienazione, di abbrutimento, di fun- zionalizzazione economicistica, di dominazione sociale, ecc.; 6) la concezione della tecnica non necessariamente nemica, ma possibile alleata dell’uomo (La- borem exercens, n. 5); 7) il lavoro e l’imprenditorialità come modello dell’operare 230 fattivo e gioioso per il Regno (cfr. molte parabole evangeliche); 8) la prospettiva del Regno e l’impegno per la giustizia di esso, come orizzonte ultimo (in termini tecnici, “escatologico”) dell’impegno umano storico, lavorativo e imprenditoriale; 9) la comunione eterna con Dio, come termine del “riposo” in cui la Lettera agli ebrei invita ad entrare, mentre si vive nel tempo tra difficoltà ed esperienze di com- plessità. Bibl.: CHIAVACCI E., Teologia morale e vita economica, Città di Castello, Cittadella Editrice, 1988; SPIAZZI R., I documenti sociali della Chiesa da Pio IX a Giovanni Paolo II, Milano, Massimo, 1988; SS. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Centesimus annus, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vati- cana, 1991; NANNI C., “Educazione al lavoro e allo sviluppo”, in N. GALLI (Ed.), L’educazione cri- stiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici, Milano, Vita e Pensiero, 1992, 255-304; BOCCA G., Pedagogia del lavoro, Brescia, La Scuola, 1998; TOSO M., Umanesimo sociale, Roma, LAS, 2001. C. Nanni SPIRITUALITÀ DELL’OPERATORE DI FP Intendiamo per s. un processo di crescita esistenziale nello Spirito, che matura nella persona un’autenticità sempre più grande della sua relazione verso Dio, gli altri, il mondo. Essa traspare da particolari intuizioni spirituali, atteggiamenti etici, deci- sioni vitali. Quando si pone in relazione con l’esperienza di grandi personalità spi- rituali, essa assume una più incisiva dimensione sociale, “trasmissibile”, fino a for- mare “Scuole di Spiritualità”. La s. dell’o. di → FP si caratterizza per alcune di- mensioni specifiche. 1. La s. – che plasma e qualifica la coscienza educativa dell’o. – si ispira al ca- risma fondazionale dell’Opera, che dà → identità e senso di appartenenza ai singoli operatori, indicando parole umane ed evangeliche privilegiate, valori specifici, scelte prioritarie, atteggiamenti educativi originali. 2. È segnata intimamente da un amore preferenziale per i giovani più poveri, molti dei quali confluiscono all’→ istruz. e alla FP. Esso si traduce in una “ped. del po- vero”, sorretta da profondo senso di → solidarietà, dalla capacità di farsi piccolo coi piccoli, nel linguaggio, nella fraternità, nella pazienza, che non si stanca di rico- minciare da capo. Per moltiplicare le risorse al loro servizio esso spinge ad aprirsi, a tutto campo, agli uomini e donne di buona volontà, che hanno a cuore la condi- zione e l’→ educ. dei giovani. Esso, inoltre, alimenta una autentica “ped. della spe- ranza”, che – a giovani e persone, talora precocemente toccate dal fallimento e dalla frustrazione – è capace di proporre, con allegria ed ottimismo, un pensiero positivo, che germina fiducia nella vita. 3. Guardando a tali giovani, la s. dell’o. si trasfigura in una spiritualità pedagogica: vissuta in modo da essere comunicata ai destinatari dell’azione educativa, sia espli- citamente (con la parola, l’→ insegnamento, ecc.), sia implicitamente (col proprio vissuto, l’esempio, l’atteggiamento, ecc.). L’“apprendimento da modello” è, spesso, 231 la via maestra per educare i giovani che affluiscono ai → CFP. In questa logica, la s. dell’o. lo muove a “educare educandosi”, facendosi “modello” credibile dei va- lori, che vede più urgenti e che intende comunicare, come, per es., la capacità di sa- crificio, l’acquisizione di una disciplina e di un metodo di lavoro, la subordinazione del guadagno, il rifiuto dell’improvvisazione, per una progettualità a medio e lungo termine, la preferenza data al “gusto di costruire”, anziché al “piacere di consu- mare”. 4. La s. dell’o. ha approfondito ed accolto il significato del → lavoro, come prolun- gamento del progetto creativo di Dio, sviluppo delle potenzialità personali, stru- mento ottimale di responsabilità familiare e di solidarietà sociale, intimamente con- nesso con la dignità della persona e con lo sviluppo dei popoli. Il lavoro – con le sue componenti di manualità e di razionalità – diventa allora “la nostra forma di in- serimento nella società e nella cultura”, e “dedizione alla missione con tutte le ca- pacità e a tempo pieno” (Vecchi, 2000, 101). Il lavoro – nel quale l’uomo rivendica la dignità d’essere sempre soggetto – rappresenta un decisivo spazio di umanizza- zione della persona e del suo mondo. Esso testimonia il riscatto della dignità del quotidiano, poiché i giorni, che noi viviamo, sono gli spazi sempre rinnovati della nostra vocazione. 5. Per questo, l’o. lo realizza con → professionalità, che, situata nel moderno con- testo “del sempre e nuovo e del sempre diverso” (Veneruso, 1987, 140), è “la mag- gior perfezione possibile nel proprio lavoro”, che comporta – in vista della neces- saria flessibilità e innovazione – di assumere volenterosamente la fatica, la formaz. permanente (→ FP continua), il lavoro d’ → équipe, la → sperimentazione: dimen- sioni, che confluiscono in una disciplina di vita, segnata dal senso del dovere e da una s., che lo rende possibile ed amabile. Di conseguenza, alimenta e propone una “nuova cultura professionale”, che si traduce in una “professionalità complessa”, che – accanto alla indispensabile → competenza tecnica, imprenditoriale e culturale – coltiva con speciale impegno anche la dimensione motivazionale, relazionale, → etica e spirituale. Solo una tale professionalità appare capace di servire l’“uomo in- tegrale”, che si vuole educare nel giovane lavoratore (Bosco,1988, 209 e ss.), orientandolo verso la propria “progettazione esistenziale” (Bocca, 2003, 40). La s. dell’o., tesa a “ricostruire una pedagogia del lavoro” (Macchietti, 2003, 112), lo abilita a ricomprendere e a rievangelizzare il suo significato, frenando la “sottile erosione dell’antica etica del lavoro”, che ha raggiunto livelli allarmanti, specie nei giovani (Milanesi, 1988, 195). 6. La s. dell’o. fa perno sulla → comunità educativa – ricca di relazionalità e di spi- rito di → famiglia – come naturale ambiente formativo, e come anticipazione del fu- turo lavoro d’équipe. La relazionalità è oggi iscritta fra le componenti essenziali della “qualità del lavoro”. La tradizione educativa cristiana, da sempre, ne fa ele- mento base per la “qualità della vita” e per la riuscita dell’educ. Ne sono espressio- ne: lo stile dell’→ accoglienza, la ped. dell’incoraggiamento attenta ai più deboli, la 232 prontezza alla riconciliazione, la familiarità della convivenza che chiama ciascuno per nome, ed anche l’attenzione ad individuare e coltivare le qualità di leadership. Una comunità educativa matura coltiva l’impegno nella Chiesa e per il mondo, in uno sforzo incessante di “inculturare il Vangelo”, come contributo per un mondo più umano: nella “famiglia santuario della vita”, con la diffusione di una cultura della solidarietà e della pace, con l’impegno per la promozione umana che porta a condi- zioni di vita più giuste e al rispetto per la dignità di ogni persona, con la difesa del- l’equilibrio ecologico, che custodisce l’“abitabilità” della nostra casa comune. 7. La s. dell’o. stimola l’adozione di uno stile educativo, fedele alla tradizione cri- stiana (→ sistema preventivo ed affini), che fa appello all’intelligenza, che si sforza di capire i giovani e di coinvolgerli responsabilmente, mantenendo aperto con loro un dialogo, capace di raggiungere il cuore, dove si ancorano le convinzioni, che du- rano una vita. Valorizza le risorse della fede, che, mentre nutre le motivazioni del- l’educatore, fa percepire al giovane il grande orizzonte dell’Amore, che si rivela, per donare pienezza di vita. La scoperta della verità che salva (evangelizzazione e catechesi), i sacramenti della Chiesa, l’attenzione solidale ai fratelli (carità, che educa) ne sono gli elementi portanti. Risponde alle attese del cuore del giovane, creando spirito di famiglia e accoglienza incondizionata, rapporto personale co- struttivo e propositivo, condivisione di gioie e di dolori, impegno a tradurre in “segni” l’amore educativo. Bibl.: VENERUSO D., “Il metodo educativo di S. Giovanni Bosco alla prova. Dai laboratori agli Istituti Professionali”, in P. BRAIDO (Ed.), Don Bosco nella Chiesa a servizio dell’umanità, Roma, LAS 1987, 133-142; BOSCO G.B., Criterio educativo peculiare dell’intervento salesiano per la preparazione del giovane lavoratore, in “Rassegna CNOS” 4 (1988) 2, 205-220; MILANESI G.C., Cultura ed educa- zione per il mondo del lavoro nella proposta formativa salesiana, in “Rassegna CNOS” 4 (1988) 2, 193-203; VECCHI J.E., Spiritualità salesiana, Roma, s.e., 2000; BOCCA G., Pubblica e di ispirazione cristiana. per una pedagogia della scuola cattolica, Brescia, La Scuola, 2003; MACCHIETTI S.S., Per affermare l’umanesimo del lavoro, in “Notiziario dell’Ufficio Nazionale per i Problemi sociali e il La- voro (CEI)” 7 (2003) 8, 109-113. G. Fedrigotti SPORTELLO INFORMATIVO → Servizi per l’impiego; → Destinatari; → FP STAGE → Tirocinio; → Accompagnamento al lavoro; → FPI; → FP superiore STANDARD FORMATIVI MINIMI La L. 53 del 28 marzo 2003 specifica all’art. 7, co.1, “Mediante uno o più regola- menti da adottare a norma dell’art. 117, sesto comma, della Costituzione e dell’art. 233 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sentite le Commissioni parlamen- tari competenti, nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, si prov- vede: […] c) alla definizione degli standard minimi formativi, richiesti per la spen- dibilità nazionale dei titoli professionali conseguiti all’esito dei percorsi formativi, nonché per i passaggi dai percorsi formativi ai percorsi scolastici”. Su questa base la Conferenza Stato Regioni del 19 gennaio 2004 ha definito un quadro degli s.f.m. relativi alle → competenze di base inerenti i percorsi sperimentali per il consegui- mento della → qualifica professionale secondo quanto previsto dall’Accordo quadro del 19 giugno 2003 in sede di Conferenza Unificata Stato Regioni. Tali s.f.m. sono stati articolati per aree, distinguendo tra area dei linguaggi, area scienti- fica, area tecnologica, area storico-socio-economica (→ area formativa). Ciascuna area poi includeva, oltre ad alcuni s.f.m., una loro declinazione secondo numerose competenze. 1. In Italia, a partire dallo studio svolto dall’ISFOL sulle competenze che do- vrebbero caratterizzare il cittadino-lavoratore, si è diffusa la tendenza a distin- guerle secondo tre categorie fondamentali: competenze di base, competenze tra- sversali, competenze tecnico-professionali. Le competenze di base, secondo la prospettiva adottata dall’ISFOL, si riferiscono a saperi fondamentali utilizzabili nel contesto della vita quotidiana e lavorativa secondo necessità, trasferibili al variare delle condizioni di contesto e incrementabili secondo i diversi livelli di responsabilità. Nell’Accordo raggiunto nella Conferenza Stato Regioni esse sono state considerate come una “base più ampia di quella tradizionalmente utilizzata nella formazione professionale, in quanto non sono [gli standard] concepiti solo in riferimento all’occupabilità delle persone, ma anche al fine di garantire i pieni diritti di cittadinanza a partire dal possesso di un quadro culturale di formazione di base”. 2. Il concetto di s. applicato agli apprendimenti scolastici è stato valorizzato inizial- mente negli Stati Uniti dall’Associazione degli Insegnanti di Matematica per evi- denziare i campi e i livelli di competenza matematica desiderabili nei vari gradi del percorso educativo scolastico. Successivamente è stato esteso ad altre discipline e vari Stati lo hanno assunto come riferimento per la valutazione della qualità del si- stema scolastico. Qualcosa di analogo è stato introdotto con il concetto di target nella riforma scolastica inglese del 1988. Anche in Italia, a partire dagli anni ‘90, è stata sollecitata una definizione di s.f. La discussione che ne è derivata ha portato a posizioni spesso contrastanti. D’altra parte, la nozione di s. deriva dalla tecnologia, per la quale è necessaria una definizione di s. di → qualità per i prodotti e i servizi, indicando un massimo e un minimo di accettabilità sulla base di elementi di effi- cienza ed efficacia. 3. È interessante una proposta avanzata da Guasti, riferentesi soprattutto alle espe- rienze in corso nel mondo anglosassone e statunitense. Egli precisa che gli s.f. sono diretti a descrivere “ciò che gli studenti dovrebbero conoscere ed essere capaci di 234 fare” e pertanto “non si ha un puro contenuto senza una concettualizzazione opera- tiva né un’operazione senza un concetto formale. Così il conoscere qualcosa ri- chiede alcune operazioni intellettuali che possono essere dimostrate solo attraverso alcune «performance». […] Si ha così il valore degli standard come certificatori, che si occupano del rapporto con le competenze dimostrate e certificate, gli stan- dard come predittori, che affrontano la relazione tra le performance e la prospettiva di sviluppo del soggetto, gli standard come descrittori, che hanno la funzione di evidenziare i risultati e i processi finalizzati all’accertamento e alla valutazione, gli standard come motivatori, che hanno lo scopo di mettere il soggetto nella condi- zione di poter essere costantemente attratto dall’apprendimento del livello succes- sivo o di una conoscenza integrativa o correlata” (Guasti, 2002, 23). Bibl.: ISFOL, Unità capitalizzabili e crediti formativi. I repertori sperimentali, Milano, F. Angeli, 1998; MONTEDORO C. (Ed.), Dalla pratica alla teoria per la formazione: un percorso di ricerca epi- stemologica, Milano, F. Angeli, 2001; GUASTI L., Gli standard: premessa metodologica, in “Quaderni degli Annali dell’Istruzione” 97 (2001) 16-25; PELLEREY M., Le competenze individuali e il portfolio, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 2004; PETRACCA C., “Competenze e standard formativi”, in G. CERINI - M. SPINOSI (Edd.), Voci della scuola 2006, Napoli, Tecnodid, 2005, 105-114. M. Pellerey SUCCESSO SCOLASTICO E PROFESSIONALE L’indagine P.I.S.A. (Programme for International Student Assessment) sulle → competenze funzionali di 265.000 quindicenni nei 32 Paesi dell’OCSE (2001) evi- denzia per l’Italia lo stato prevalente di omogeneità delle prestazioni e di non ec- cellenza nei risultati, con docenti poco ambiziosi, rispetto alle potenzialità degli studenti. Dalla scuola del malessere degli anni 1975-2000, che invitava gli inse- gnanti a prender coscienza degli effetti negativi della propria azione pedagogica, poco attenta ai bisogni degli alunni, si passa nel terzo millennio alla scuola delle competenze e della corsa al successo nella scuola e nella → società. La politica delle eccellenze e del s.s. si va sovrapponendo alla teoria della deprivazione cultu- rale che negli anni ‘60 del XX sec. intese a riparare all’insuccesso scolastico con l’→ educ. compensativa. I docenti vengono invitati a ripensare al proprio ruolo, se- condo la categoria dell’eccellenza, definita su standard internazionali e sempre più sono guidati a gestire con capacità organizzative le situazioni problematiche che si presentano a scuola. La constatazione dei bassi livelli dell’Italia nella classifica in- ternazionale pone il quesito sull’innalzamento della qualità dell’istruz. Allo Stato spetta il compito di determinare “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117 sostituito dall’art. 3 della L. costituzionale 3/01, Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), primo fra tutti il diritto di → cittadinanza. Scuola e → CFP, agenzie ed imprese offrono i mezzi per la maturazione delle → conoscenze e della → abilità e certificano le competenze finali acquisite. Il sistema educativo d’istruz. e formaz. (→ sistema formativo) deve rendere conto dei risultati 235 raggiunti (accountability framework) così come avviene in altri Paesi europei. La L. 53/03, Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione pro- fessionale, riforma gli ordinamenti, precisa i principi, fissa i criteri affinché sia as- sicurato il diritto-dovere di istruz. e formaz. per almeno dodici anni, sino al conse- guimento di una → qualifica, entro il diciottesimo anno di età, per questo la norma- tiva prevede → mobilità interna, flessibilità, → alternanza, ed assegna alla → valu- tazione un ruolo soprattutto promozionale. Da segnalare la teoria delle intelligenze multiple alla quale Gardner richiama gli educatori, affinché propongano ai giovani opportunità svariate di → apprendimento. Bibl.: GIUS E. - M.V. MASONI (Edd.), Costruire il successo scolastico. Guida per insegnanti, Torino, UTET, 2000; BERTAGNA G. (Ed.), L’ipotesi elaborata dal Gruppo Ristretto di Lavoro, in “Annali del- l’Istruzione, n. speciale Stati Generali dicembre 2001” 47 (2001) 1/2, 21-77; SCHLEICHER A, L’inda- gine P.I.S.A., Associazione TRELLE, Seminario n. 1, maggio 2002, 16-27; NARDI E., Come leggono i quindicenni. Riflessioni sulla ricerca OCSE-PISA, Milano, F. Angeli, 2002; GARDNER H., L’educa- zione delle intelligenze multiple. Dalla teoria alla prassi pedagogica, Milano, Anabasi, 1995. S. Chistolini SUSSIDIARIETÀ Il principio di s. si può considerare un’esplicitazione del principio di → solidarietà. Infatti, il principio di solidarietà afferma che le varie → società sono ministeriali alle persone e ai vari gruppi sociali, per offrire loro un aiuto. Il principio di s. dice come deve essere dato questo aiuto, ossia non comprimendo o annientando l’auto- nomia, la libera iniziativa, non sostituendosi alle persone e alle società, alla loro li- bertà di azione, bensì favorendole, incrementando la loro capacità di autorganiz- zarsi e autopromuoversi. La giustificazione del principio di s. va ricercata ultima- mente nella persona e nella sua socialità. La socialità della persona è, infatti, carat- terizzata dall’individualità e dalla personalità, ovvero dall’autonomia, da una li- bertà e da una responsabilità che ne fanno un soggetto relazionale che agisce su basi di indipendenza. 1. Definizione classica. Tale principio ha trovato la sua prima formulazione nella Quadragesimo anno (1931). Viene definito così: “Non è lecito togliere agli indi- vidui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria, per affidarlo alla comunità. Così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società ciò che in quelle minori si può fare (...). L’oggetto naturale di qualsiasi intervento della so- cietà – continua la Quadragesimo anno – è quello di aiutare (subsidium afferre) le membra del corpo sociale, non già distruggerle o assorbirle. Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad assemblee minori ed inferiori il dis- brigo degli affari e delle cure di minor importanza, dalle quali essa del resto sa- rebbe più che mai distratta; ed allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei sola spettano, perché essa sola può compierle; 236 di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto più perfettamente sarà sviluppato l’ordine gerarchico tra le diverse associa- zioni, salvo il principio della funzione sussidiaria, tanto più forte riuscirà l’autorità e la potenza sociale e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato stesso”. 2. Significato. Nella sua formulazione, il principio di s. afferma che l’azione di un soggetto, qualunque esso sia, deve essere sussidiaria all’altro soggetto non sempli- cemente in quanto gli porta un aiuto in caso di necessità (lo sussidia nel senso eti- mologico), ma anche in quanto – nell’aiutarlo – lo rispetta e lo promuove nella sua dignità e nella sua autonoma responsabilità. Pertanto, il principio di s. ha una du- plice valenza. Esso impone non solo l’aiuto ma uno stile particolare di liberazione e di emancipazione del più debole, in modo da accrescerne le capacità e quindi di valorizzarne la dignità, secondo termini di flessibilità. Il principio di s. dice che, in funzione del bene comune e, ultimamente, della promozione delle persone, va con- servato e potenziato il carattere pluralistico del tessuto sociale: il bene comune è meglio realizzato mediante la pluralità delle società, giacché lo richiede la molte- plicità dei fini della persona, cui il bene comune è relativo. In secondo luogo e con- seguentemente, afferma che vanno evitate tra società maggiori e società minori (s. verticale), tra società dello stesso rango (s. orizzontale), tra persone e società, so- vrapposizioni annientatrici o invadenti, con espropriazioni da una parte e con so- vraccarico di compiti dall’altra, con effetti di deresponsabilizzazione, strumentaliz- zazione, colonizzazione. Secondo il principio di s. si vuole, allora, favorire l’inizia- tiva e le responsabilità delle singole persone e dei gruppi sociali; si nega che la co- munità superiore possa impedire alle comunità inferiori di perseguire i loro fini le- gittimi; si impone alla comunità superiore, quella politica, di aiutare positivamente le singole persone e le società intermedie; si afferma il dovere di supplire le società inferiori in ciò che per motivi di impossibilità contingente non posso compiere; si impone anche di integrare le persone e le società minori in ciò che queste, per im- possibilità intrinseca, sono sproporzionate. 3. S. oggi. Secondo una corretta interpretazione, nell’attuale contesto di riforma dello Stato del benessere, s. non significa ognuno per sé, fare da sé, ma, piuttosto, trovare nuove relazioni tra Stato, società, mercato, di modo che il primo, conser- vando il proprio compito di coordinazione e di garanzia, non sia troppo invadente, paternalistico, assistenzialistico, bensì integratore e incentivante; di modo che la se- conda, alla quale va riconosciuto il primato, sia più attiva e protagonista mediante nuove organizzazioni sociali e possa meglio mettere a disposizione le sue risorse; di modo che il terzo polo sia più libero e “democratico”, ossia popolato da più sog- getti economici (capitalismo democratico). La s. dello Stato non deve curarsi solo di fornire aiuto sul piano dei beni materiali, ma anche su quello dei beni relazionali e morali. Lo Stato ha il compito di non danneggiare direttamente o indirettamente l’essenza → etica o virtuosa delle società che lo precedono e delle quali è espres- 237 sione. Deve piuttosto favorirla, in ordine alla realizzazione di un benessere anche relazionale. Leggi, ad es., che praticamente liberalizzano l’aborto e il divorzio o che non sostengono adeguatamente le famiglie tradizionali, giungendo addirittura ad equipararle alle unioni di fatto, possono a lungo andare danneggiare l’istituto della → famiglia e, di riflesso, la stessa vita politica. Recenti ricerche mostrano come tali politiche alimentano tassi decrescenti di natalità, una generale erosione del bene relazionale e stabile che è la società naturale fondata sul matrimonio, pro- duttrice di beni essenziali alla vita politica. Così, il principio di s. non viene inter- pretato adeguatamente quando gli amministratori cooptano società non-profit, ren- dendole funzionali ad un sistema di servizi deciso ed organizzato unilateralmente (si ha così una s. rovesciata) o se le si costringe a elemosinare o a costituirsi quale forza di tipo sindacale per difendere i propri diritti. Bibl.: PIO XI, Lettera enciclica Quadragesimo anno, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1931; TOSO M., Verso quale società? La dottrina sociale della Chiesa per una nuova progettualità, Roma, LAS, 2000; ID., Umanesimo sociale. Viaggio nella dottrina sociale e dintorni, Roma, LAS, 2002. M. Toso SVILUPPO PROFESSIONALE Lo s.p. si allinea agli sviluppi descritti in psicologia evolutiva accanto a quello in- tellettivo, affettivo, sociale e morale. Gli stessi sviluppi sono poi considerati nella ped. sotto l’aspetto formativo. 1. Lo s.p. è stato preso in considerazione verso la fine del XIX sec. nell’ambito della sociologia. L’attenzione dei sociologi è stata rivolta alla diretta trasmissione dell’occupazione dal padre al figlio. Nello stesso sec., questa continuità è stata in- terrotta a causa di una massiccia immigrazione negli USA, che ha avuto come ef- fetto un crescente numero di giovani in difficoltà ad inserirsi nel mondo del → la- voro. A Boston, l’avvocato Parsons credette di poter aiutare tali giovani con un semplice procedimento con il quale venivano accertati alcuni tratti di personalità, analizzati i requisiti di una possibile occupazione e raccordate poi le due realtà in vista di un soddisfacente adattamento lavorativo. La sua idea ebbe una buona acco- glienza in sede universitaria e presto si diffuse nelle scuole americane come la “teoria dei tratti”. 2. Nel 1951, Ginzberg e collaboratori hanno pubblicato un vol. dal titolo Occupa- tional choice in cui hanno articolato lo s.p. in alcune fasi ed hanno dato anche qualche indicazione su come dovrebbe essere elaborata una teoria per spiegare lo s.p. Nello stesso periodo, altri AA. hanno articolato lo s.p. in stadi che variavano in numero e specificità. Nel 1957, Super ha pubblicato The psychology of career in cui ha articolato l’intero arco della vita umana in cinque stadi: crescita (4-14), esplora- zione (15-24), stabilizzazione (24-44), mantenimento (45-64) e declino (65), suddi- 238 videndoli in fasi subordinate. Ogni stadio e ogni fase sono caratterizzati da → com- petenze da acquisire che diventano degli indici di → maturità professionale. Alla base dello s.p., Super pone il concetto di sé che da un lato assicura la continuità del processo dello s. e dall’altro viene a sua volta potenziato con le scelte effettuate e con le esperienze professionali. La teoria è stata rielaborata varie volte (Super, 1985). Nel complesso essa offre informazioni utili per capire la situazione profes- sionale di un soggetto. Le competenze che caratterizzano i singoli stadi e fasi pos- sono servire da indici di maturazione di soggetti di differente età cronologica. Essa offre anche delle indicazioni sulla successione delle fasi; per es., lo stadio della cre- scita è articolato in tre fasi in un ordine di sviluppo: fantasia, interessi e capacità; le scelte fantasiose cedono posto agli interessi e gli interessi vengono ridimensionati dalle capacità. 3. Accanto alle teorie dello s. si collocano altre teorie in cui la dimensione dello s. è solo implicita. Tali sono le tre teorie basate sulla scelta professionale: quella dei tipi e delle aree professionali, di Holland, e quelle dei → bisogni che possono essere soddisfatti con l’esercizio di una determinata professione, di Roe e di Bordin. Un altro gruppo di studiosi privilegia come quadro di riferimento la decisione profes- sionale. Così, per es., secondo Tiedeman, è importante formare la capacità decisio- nale a tutti i livelli dello sviluppo dei soggetti. Krumboltz punta l’attenzione sui fat- tori che favoriscono o ostacolano la realizzazione di un → progetto personale acco- gliendo in esso anche eventi casuali per farne un’opportunità. 4. Di fronte a queste svariate teorie, durante un recente simposio, una ventina di AA. ha cercato di far emergere delle convergenze ma senza un apprezzabile suc- cesso (Savickas - Lent, 1994). Le teorie sullo s.p. accusano la loro età. La nuova situazione socioeconomica non è più conciliabile con una articolata e sequenziale distribuzione degli eventi umani. La stabilità nella carriera professionale, supposta dalle citate teorie, in molti casi è inesistente (→ orientamento: risposta a nuove situazioni). Anche lo stesso s.p. non può essere considerato in un completo isola- mento; per questa ragione, viene integrato nelle teorie degli stadi della vita umana di Erikson e di Levinson. Per ironia della sorte, Super, per elaborare la sua teoria ha preso i cinque periodi in cui Bühler ha articolato la esistenza umana, applicandoli poi allo s.p. Bibl.: SUPER D., “Career and life development”, in D. BROWN - L. BROOKS (Edd.), Career choice and development, San Francisco, Jossey-Bass, 1985, 192-234; SAVICKAS M.L. - R.W. LENT (Edd.), Con- vergence in career development theories, Palo Alto, CPP Books, 1994; MULTON K.D., “Career deve- lopment”, in A.E. KAZDIN (Ed.), Encyclopedia of psychology, vol. 2, Oxford, University Press, 2000, 25-29. K. Poláček SVILUPPO SOSTENIBILE → Educazione; → Formazione 239 TIROCINIO 1. Si definisce t. (o stage) un’esperienza formativa, orientativa o professionaliz- zante, che non configura rapporto di → lavoro, realizzata presso luoghi di lavoro sulla base di una convenzione contenente uno specifico progetto fra il datore di la- voro e i soggetti del → sistema formativo, che assolvono a compiti di promozione ed assumono la responsabilità della qualità e della regolarità dell’iniziativa. I ter- mini di stage e t. nel linguaggio corrente sono usati come sinonimi, anche se in passato con il termine t. veniva indicato un periodo di preparazione pratica (da cui l’espressione “praticantato”), svolta sotto la guida di chi aveva già esperienza di la- voro e che poteva facilitare il conseguimento delle → competenze per esercitare un mestiere o una professione. Più che di → formaz., in senso generale, il termine t. si riferiva più espressamente ad un’attività di addestramento. Tuttavia, più per fedeltà linguistica che concettuale, i testi legislativi continuano a usare il termine “t.” e solo nell’ultimo decennio è comparso in qualche disposizione ministeriale anche il terme francese, ormai internazionale, di stage. 2. Il t. è un’esperienza orientativa e formativa. Esso si distingue in stage di → orien- tamento e stage di formaz. Lo stage rappresenta un ponte che collega i processi sco- lastici e formativi e il mondo delle → imprese. Il t. in Italia è regolato dalla L. 196/97 (e dal decreto di attuazione 142, del 25.3.98,). Le esperienze di t. possono essere effettuate da soggetti in attesa di occupazione con almeno l’→ obbligo scola- stico assolto e soggetti in formaz. scolastica, universitaria e professionale. La nor- mativa in vigore prevede che il t. sia regolato da una convenzione tra istituzione for- mativa e impresa (o associazione industriale). Il → tutor aziendale rappresenta l’in- terlocutore diretto del tirocinante, responsabile di assistere l’allievo, individuandone le potenzialità e facilitandone il percorso formativo. Le attività svolte nel corso dei t. di formaz. e orientamento, possono avere valore di → credito formativo. Per quan- to riguarda il costo, lo stage, non costituendo un rapporto di lavoro, deve essere con- siderato a titolo gratuito anche se le imprese possono riconoscere discrezionalmente ai tirocinanti una somma forfetaria a titolo di rimborso spese. Attualmente lo stage è molto diffuso nella → FPI, abbastanza diffuso nella scuola tra gli indirizzi economi- ci e tecnici, mentre è guardato ancora con una certa diffidenza negli indirizzi di ca- rattere umanistico. È la finalità formativa dell’esperienza, opportunamente progetta- ta e programmata, a conferire allo stage una peculiare condizione di → apprendi- mento, perché occasione di ricomposizione e integrazione di momenti diversi di la- voro quali: l’operare, il riflettere, il valutare l’operatività, il modificare i comporta- menti, il ricercare nuove conoscenze che migliorino le prestazioni. Bibl.: SCURATI C. (Ed.), L’educazione extrascolastica Problemi e prospettive, La Scuola, Brescia 1986; DI NUBILA R. (Ed.), Lo stage formativo, Roma, SIPI, 1995; SCHWARTZ B., Modernizzare senza escludere. Un progetto di formazione contro l’emarginazione sociale e professionale, Roma, Anicia, 1995; AA.VV., Lo stage e il tirocinio nei percorsi scolastici e formativi. Guida alla progettazione, Roma, SIPI, 1999; AA.VV., Tutor a sostegno dello stage: Attori, Fasi di lavoro, Procedure e stru- menti, Atti e Materiali del Progetto Mentore, Roma, MIUR, 2000; DI NUBILA R., La formazione oltre l’aula: lo stage, Padova, CEDAM, 2000; GENTILI C., L’orientamento alla formazione professionale, 240 in “Magellano - Rivista per l’orientamento” 1(2000); ID., Scuola e extrascuola, Brescia, La Scuola, 2002; MORIN E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Raf- faello Cortina editore, 2000; ASSOLOMBARDA, Dall’idea al progetto di stage: manuale per l’impresa, Roma, SIPI, 2002; GENTILI C., “La scuola di fronte all’impresa e al territorio”, in AA.VV., Rapporto sulla scuola dell’autonomia 2002, Roma, Armando, 2002. C. Gentili TUTOR Si tratta di una figura indispensabile in ogni azione di → istruz. e di FP che ha il compito di guidare l’→ équipe dei → formatori coinvolti e presiedere alle fasi di progettazione e programmazione (piano formativo personalizzato), coordinare le attività, facilitare i processi di → apprendimento e sostenere il miglioramento con- tinuo dell’attività formativa e didattica. Si tratta di una figura composita, sia dal punto di vista concettuale sia pratico, ragione per cui esiste una molteplicità di tipo- logie di t. il cui contenuto professionale si pone entro due limiti estremi: dal so- stegno organizzativo e documentativo dell’attività didattica fino al presidio della progettazione, del coordinamento e delle relazioni interno-esterno proprie della si- tuazione formativa. 1. La letteratura pedagogica e di psicologia dell’apprendimento tende a far emer- gere sempre di più tale figura come soggetto garante e responsabile dell’apprendi- mento dell’allievo, promotore del suo sviluppo e della sua autonomia. Egli riveste diverse funzioni: facilitazione e sostegno dell’apprendimento individuale e di gruppo, accompagnamento del/nel processo formativo, gestione e supporto dei di- scenti e dei formatori nelle fasi di progettazione e programmazione didattica (→ progettazione formativa) ed esperto delle dinamiche relazionali e dei processi co- municativi. In questo senso, il t. svolge anche funzioni di counselor: egli “può aiu- tare il cliente ad esaminare dettagliatamente le situazioni o i comportamenti che si sono rivelati problematici e trovare un punto piccolo ma cruciale da cui sia possi- bile originare qualche cambiamento. Qualunque approccio usi il counselor (…) lo scopo fondamentale è l’autonomia del cliente: che possa fare le sue scelte, prendere le sue decisioni e porle in essere” (Hough, 2002, 8-9). 2. Tale figura garantisce un punto di riferimento e di raccordo per l’allievo, l’é- quipe dei formatori e la → famiglia; la sua funzione di accompagnamento ha inizio dal momento dell’→ accoglienza dell’allievo e prosegue attraverso l’elaborazione e la condivisione di un progetto formativo personalizzato (→ progetto personale e professionale) fino al sostegno nei processi di transizione post-formativa. La fun- zione del t. è quella di presidiare il lavoro di squadra, facendo sì che i piani forma- tivi siano effettivamente personalizzati (→ personalizzazione), ovvero rispondenti alle caratteristiche ed esigenze di ciascuno. Egli cura in particolare l’elaborazione del “portfolio delle competenze” (→ valutazione), in modo da delineare percorsi coerenti, efficaci, ricchi di stimoli e di risultati. 241 3. Si possono distinguere quattro situazioni-tipo in cui opera il t.: a) il gruppo di ap- prendimento collocato in un contesto formale ed informale; b) l’→ alternanza for- mativa e il raccordo tra → formaz. e → lavoro; c) negli sportelli o servizi di → orientamento ed → accompagnamento individualizzato; d) il contesto comunitario (es.: comunità alloggio). Bibl.: MOTTANA P., Un’esperienza di tutorship. Materiali per pensare un ruolo paradossale, in “Ri- vista AIF” 10 (1990); SALOMONE I., Il setting pedagogico, Firenze, La Nuova Italia, 1996; BRUSCA- GLIONI M., La gestione dei processi nella formazione degli adulti, Milano, F. Angeli, 1997; BARROWS H.S., Il processo tutoriale, Milano, Fondazione Smith Kline, 1998; HOUGH M., Abilità di counseling. Manuale per la prima formazione, Trento, Erickson, 2002; PICCARDO C. - A. BENOZZO, Tutor all’o- pera, Milano, Guerini Editore, 2002. D. Nicoli TUTORATO (O TUTORAGGIO, O TUTORING) → Tutor UNITÀ DI APPRENDIMENTO, DIDATTICA, FORMATIVA, FORMATIVA CAPITALIZZABILE (UFC) → Insegnamento; → Contratto formativo; → Progettazione formativa; → Moduli; → Competenza UNIVERSITÀ E FP L’interazione tra il sistema formativo dell’U. e il → sistema formativo della → FP contribuisce alla creazione di un sistema formativo integrato che offra una vasta gamma di → formaz. rispondente alle esigenze del soggetto in → apprendimento. 1. Le finalità dell’interazione tra i sistemi U. e FP sono: offrire occasioni di con- fronto tra il mondo universitario e quello delle professioni in tema di → FP con- tinua, nel rispetto delle specifiche identità per lo sviluppo delle competenze nel- l’ambito delle politiche formative e dell’→ occupabilità in Italia e in Europa, se- condo una prospettiva di cooperazione e di sviluppo sostenibile; far divenire la si- nergia tra U. e FP un’opportunità di apprendimento nell’ottica dell’→ educ. perma- nente che consenta il riconoscimento e la → certificazione dei saperi e delle → competenze acquisite dagli utenti nella navigazione tra offerte differenti. La trans- izione dalla scuola agli altri sistemi formativi e al → lavoro è uno dei temi princi- pali sviluppati e monitorati in anni recenti nell’ambito delle diverse tipologie for- mative presenti nel sistema di FP. Tra le filiere formative nel cui ambito si assiste all’interazione tra i sistemi di U. e FP è significativo citare sia l’→ apprendistato, sia i percorsi di IFTS. Infatti l’apprendistato nella forma di apprendistato per l’ac- quisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione (le altre forme previste nel D.lgs. 276/2003 sono l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruz. e formaz. e l’apprendistato professionalizzante) consente il conseguimento 242 di titoli di studio universitari e della alta formaz. La disposizione normativa mira ad un tendenziale innalzamento della FP per contenuti e qualità e riconoscimento di competenze verso l’alta formazione. Un ulteriore es. di interazione tra U e FP è presente nella filiera dei percorsi IFTS che prevedono, nella fase di costruzione del partenariato (→ partnership) tra i soggetti eroganti l’iniziativa formativa, la pre- senza dell’U. nella fase progettuale e a valle del percorso per il riconoscimento e la certificazione dei saperi e delle competenze acquisite anche dagli utenti in possesso del Diploma universitario nel passaggio al conseguimento della → qualifica. 2. L’interazione tra U. e FP favorisce la sperimentazione di azioni e di attività for- mative innovative nell’interesse degli utenti. Alcune U. hanno attivato corsi di per- fezionamento e aggiornamento professionale per i quali rilasciano attestati sulle at- tività compiute. Per l’accesso a tali corsi, che si rivolgono ad operatori di specifici settori della realtà sociale e produttiva, può non essere richiesto alcun titolo di studio a livello universitario. Nella medesima direzione l’attivazione dell’offerta formativa dei Master universitari di I e II livello. Ancora, sempre più studenti sono inseriti all’interno di una serie di servizi e azioni, progettati ad hoc per stringere maggiori contatti con la struttura produttiva ed economica del territorio e favorire il collocamento professionale dei laureati, anche attraverso → tirocini e stage. Nel- l’ambito di tali tendenze occorre porre l’attenzione sia sul contenuto professionaliz- zante delle attività formative progettate che sul potenziamento di una cultura della valutazione della → qualità dei processi e dei prodotti delle attività erogate. Si raf- forza inoltre il contributo della FP ai processi di innovazione, al fine di migliorare la competitività e imprenditorialità del territorio in cooperazione anche con le → imprese, specie le piccole e medie imprese e sostenere l’occupabilità di giovani e di adulti nella condizione lavorativa di disoccupati, occupati e soggetti in cerca di prima occupazione. Il partenariato tra U. e FP promuove iniziative e progetti con una comune strategia di creare sinergie sul territorio per una maggiore opportunità di crescita culturale, economica e occupazionale. Bibl.: Legge n. 845 del 21 dicembre 1978, Legge-quadro in materia di formazione professionale; Leg- ge n. 144 del 17 maggio 1999, art. 69 istitutiva dei percorsi IFTS; Decreto del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica n. 509 del 3 novembre 1999, Regolamento recante norme con- cernenti l’autonomia didattica degli atenei; D.lgs. n. 276 del 10 settembre 2003, art. 47-53 riferiti al- l’apprendistato; ASSOCIAZIONE TREELLE, Università italiana, università europea? Dati, proposte e que- stioni aperte, Genova, Tipografia Araldica, 2003; COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE EUROPEA, Il ruolo delle università nell’Europa della conoscenza, del 5 febbraio 2003, COM (2003), 58 definitivo. G. Spagnuolo VALORI PROFESSIONALI Se assumiamo il termine → professionalità come insieme di → conoscenze e di → competenze operative in un determinato settore dell’attività umana, la definizione si presta anche a verificare i processi scolastici che risultano in grado di conse- guirla. In questo intervento, consideriamo la professionalità nell’ambito specifico 243 scolastico e, data la discussione in atto per la riforma della scuola, la valenza pro- pria della → FP ipotizzata dalla “Riforma Moratti” (L. 53/03). Un accenno conclu- sivo all’aspetto specifico cristiano e salesiano vuole sottolineare la continuità e l’integrazione che ne risultano. 1. L’ambito scolastico. Considerando l’ambito della scuola è importante rilevare la progressiva evoluzione semantica del termine. Schematicamente si potrebbe ricono- scere un graduale approfondimento che dalla considerazione delle competenze circa un posto preciso di → lavoro, si porta sulla rete di relazionalità operativa con un contesto complesso in cui entrano in gioco fattori legati al comportamento umano, alle attitudini, alle → motivazioni, alla rete delle relazionalità. La FP viene di conse- guenza verificata sulla sua valenza umanizzante: come ogni processo educativo (→ processo formativo) tende ad una gamma di v. che si compongono in una visione equilibrata e integrale della persona. Per distinguerli nei loro aspetti più rilevanti si potrebbe far riferimento ai “pilastri dell’educazione” del rapporto dell’UNESCO. Comprendono: a) il fare come processo dall’→ abilità alla competenza; b) il vivere insieme come disponibilità a relazionarsi con gli altri e ad operare secondo obiettivi condivisi; c) l’essere quale capacità di ciascuno “di risolvere i suoi problemi, di prendere le sue decisioni e di assumersi le sue responsabilità” (Delors, 1997, 87). 2. Nel dibattito attuale sulla Riforma. Nell’ambito del dibattito più attuale concer- nente il “secondo ciclo”, è esplicita la preoccupazione di garantire all’ → istruz. e alla FP pari dignità rispetto ai Licei. Molto lucida a proposito la presa di posizione del “Rapporto del gruppo ristretto di lavoro” (2002) coordinato da Bertagna: “Per un verso, istruzione e formazione sono due processi diversi (...). Per l’altro verso (...) ambedue i processi sono chiamati ad essere educativi, nel senso che l’uno e l’altro sono invitati a promuovere nel modo più integrato, armonico, simultaneo e progressivo possibile tutte le dimensioni della personalità di ciascuno”. È chiara la posizione teorica – e teoretica – che sta alla base dell’orientamento per il “secondo ciclo” proposta dalla Riforma che prevede senz’altro una → educ. paritaria del si- stema educativo di istruz. e formaz.: La L. Moratti scandisce perentoria “è pro- mosso l’apprendimento in tutto l’arco della vita e sono assicurate a tutti pari oppor- tunità di raggiungere elevati livelli culturali” (art. 2). Restano naturalmente da veri- ficare le condizioni di fattibilità; non solo a livello organizzativo e strutturale; ma anche e forse soprattutto a livello teoretico. La prospettiva è comunque carica di suggestione; ha bisogno di elaborazione pedagogica per riuscire efficace. In questo senso la verifica concreta è data dal progetto educativo che di fatto una certa tradi- zione e una determinata scuola vanno elaborando. 3. L’orizzonte educativo della tradizione cristiana e salesiana. La tradizione cri- stiana ha fatto della scuola una via privilegiata all’→ educ., ma anche alla matura- zione integrale, umana e cristiana, della persona, perseguita per lo più da spiritua- lità e pedagogie diverse che la storia conosce. Qui facciamo riferimento in partico- lare a quella salesiana. La tradizione salesiana è marcatamente segnata dalla sua at- 244 tenzione alle classi popolari, ai giovani disagiati (→ disagio), che dispongono di minori opportunità. La scelta dell’istruz. e della FP, sotto molti aspetti privilegiata, dice la concreta volontà di elaborare una proposta operativa efficace e mirata. Vale la pena esplicitare i v. che si impegna a perseguire. Rispetto all’attenzione attuale della scuola al soggetto il contesto salesiano si trova in evidente sintonia; con al- cune accentuazioni che caratterizzano una specifica → metodologia pedagogica: ri- badisce la prospettiva dell’UNESCO, sopra richiamata, la integra in alcuni aspetti peculiari: a) tende a fare della preparazione professionale la base di una compren- sione matura delle logiche e dei processi di produzione; b) si impegna per una com- petenza qualificante circa la professione specifica che persegue; c) si qualifica per l’attenzione a prevenire e di conseguenza ad attrezzare il soggetto di qualità e com- petenze che gli consentano un autentico protagonismo anche di fronte alle provoca- zioni dell’operatività, del guadagno e del consumo; d) assume l’esigenza di integra- lità nei processi di maturazione della persona: non solo ne afferma il primato sulla realizzazione concreta; non la esaurisce nella produttività, nel significato econo- mico, nel confronto commerciale. La orienta all’incontro e al servizio, la tiene aperta all’esigenza di trascendenza; ne legittima di conseguenza l’atteggiamento re- ligioso (cfr. Progetto Educativo Pastorale Salesiano - PEPS). Bibl.: DELORS J., Nell’educazione un tesoro, Roma, Armando, 1997; ZANNI N., “Professionalità”, in J.M. PRELLEZO - C. NANNI - G. MALIZIA (Edd.), Dizionario di scienze dell’educazione, Leumann (TO)/Roma/Torino, ElleDiCi/LAS/SEI, 1997, 859-861; DE MASI M., Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società postindustriale, Milano, Rizzoli, 1999; AMBROSINI M. (Ed.), Un futuro da formare. Verso un nuovo sistema di formazione professionale: tendenze, valutazioni e proposte, Brescia, La Scuola, 2000; BERTAGNA G., Strategie riformatrici e qualità del sistema di istruzione e formazione, in “Orientamenti Pedagogici” 47 (2000) 4, 642-665; ID., Rapporti fra istruzione, formazione e sviluppo socioeconomico. Quale modello?, in “Orientamenti Pedagogici” 49 (2002) 5, 763-784; Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro costituito con D.M. n. 672 del 18 luglio 2001 (2002), in “Annali dell’I- struzione”, vol. XLVII, n. 1/2, 3-176; MIUR, Legge 28 marzo 2003 n. 53. Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2003; TRENTI Z., Pedagogia dell’apprendimento nell’orizzonte ermeneutico, Leumann (TO), ElleDiCi, 2006. Z. Trenti VALUTAZIONE In termini sintetici, valutare significa attribuire un valore ad un’azione. Nel caso della → formaz., la v. è quell’attività che mira a rilevare il patrimonio di → capa- cità, → conoscenze, → abilità e → competenze di una persona, utilizzando una → metodologia che consenta di giungere a risultati certi e validi. L’espressione ri- chiama l’attribuzione di un giudizio o di un voto (stimare, apprezzare) all’azione stessa, che richiede a sua volta un modello di riferimento definito ed inoltre una metodologia operativa. 1. V. tradizionale. Per un lungo periodo, le prassi di v. degli apprendimenti si sono basate su modelli simili a quelli in uso nei contesti socio-economici che enfatizzano 245 il carattere “oggettivo” degli stessi e la dotazione di indicatori, per poi preferire, sul- la base degli esiti poco soddisfacenti di tali metodiche, su approcci che considerano la peculiarità dei fenomeni di → apprendimento, e quindi orientarsi verso una v. de- finita “autentica”. Nella letteratura, appare sempre più spesso la definizione di v. “tradizionale” rispetto alla v. “autentica”. Per “tradizionale” si intende solitamente una modalità di v. del profitto scolastico che risulta dal confronto dei risultati otte- nuti dagli studenti con i risultati attesi, normalmente espressi in → obiettivi resi in modo tale da poter essere rilevati empiricamente ed indicanti “valori di soglia” per determinarne il livello. È in base alla vicinanza o distanza dei risultati che si traggo- no inferenze sul grado di apprendimento. Tale operazione richiede pertanto una ri- duzione del fenomeno complesso, denominato apprendimento, in comportamenti osservabili (performance) e trattabili come oggetti tramite l’applicazione di metodi quantitativi. A fronte dell’esigenza di garantire una misura che fosse il più possibil- mente precisa, si è fatto soprattutto ricorso a prove standardizzate applicabili su po- polazioni omogenee. Tali prove hanno visto un’applicazione che in molti casi ha tracimato rispetto all’alveo euristico entro cui queste erano state pensate. Di conse- guenza, invece che risultare strumenti atti a rilevare soltanto il successo oppure l’in- successo dell’apprendimento per suggerire interventi di rinforzo o di aiuto, le prove standardizzate si sono diffuse generalmente come un sistema di giudizio selettivo in base al quale stabilire il contenuto, la validità ed il livello degli apprendimenti degli studenti e degli alunni. Ma tale esito non si giustifica a partire dal metodo adottato. Infatti, questo consente piuttosto di registrare ciò che una persona “sa” inteso come ripetizione del contenuto della lezione e del testo scritto, mentre non è in grado di ri- levare la capacità di “costruzione” della conoscenza e neppure la “capacità di appli- cazione reale” della conoscenza posseduta. 2. V. autentica. Di contro, la v. “autentica” rappresenta una metodologia – collocata entro un approccio formativo coerente – che mira a verificare non solo ciò che un allievo sa, ma ciò che “sa fare con ciò che sa”, fondato su una prestazione reale e adeguata dell’apprendimento che risulta così significativo, poiché riflette le espe- rienze reali ed è legato ad una → motivazione personale. Lo scopo principale con- siste nella promozione di tutti offrendo opportunità al fine di compiere prestazioni di qualità. Tale v., coinvolgendo gli allievi, le famiglie ed i partner formativi, mira pertanto alla dimostrazione delle conoscenze tramite prestazioni concrete, stimo- lando l’allievo ad operare in contesti reali con prodotti capaci di soddisfare precisi obiettivi. Particolarmente rilevante è il “capolavoro” che l’allievo esegue al ter- mine del percorso formativo e che documenta nelle forme e linguaggio proprio della → comunità professionale la sua preparazione, giustificando il rilascio della relativa → qualifica professionale. 3. Portfolio delle competenze. In tal senso, muta la prospettiva dell’intera attività formativa: se la prima forma di v. è intesa come verifica circa l’apprendimento da parte dello studente di una conoscenza trasmessa dall’insegnante, la v. autentica si muove in chiave formativa, ovvero in modo da consentire un incremento del pro- 246 cesso di apprendimento e di consapevolezza da parte dell’allievo. In questo modo, la v. è essa stessa formaz. e non un’interruzione del cammino. Da qui, la pratica del “portfolio delle competenze personali”. Esso rappresenta una raccolta significativa dei lavori dell’allievo che racconta la storia del suo impegno, del suo progresso o del suo rendimento. Tramite esso è possibile capire la storia della crescita e dello sviluppo di una persona corredandola con materiali che permettono di comprendere “che cosa è avvenuto” dal momento della presa in carico della persona (che ri- chiede un’attenta osservazione delle sue capacità e acquisizioni previe) fino al mo- mento della partenza, passando per le varie fasi di cui si compone il percorso for- mativo. In questo senso, il cuore della v. sta il più possibile nei prodotti di cui l’al- lievo va orgoglioso, e che segnalano (a se stesso, ai → formatori, ma anche agli altri attori, compresa la → famiglia) le sue acquisizioni ed in particolare il grado di possesso delle competenze. 4. V. dei sistemi formativi. Accanto alla v. degli apprendimenti, abbiamo anche la v. di → efficacia ed efficienza dei → sistemi formativi. Questa è intesa come verifica della capacità – del sistema nel suo insieme e degli organismi che vi fanno parte – di realizzare gli obiettivi per cui sono stati mobilitati (efficienza), e del rapporto tra i risultati conseguiti e le → risorse umane e finanziarie utilizzate per il loro rag- giungimento. La v. di efficacia dei piani formativi mira a verificare la congruità degli apprendimenti e la loro persistenza oltre che dinamica moltiplicativa. Il pro- blema di tale v. risiede nella possibilità di identificare con esattezza il contributo dell’apprendimento in processi economici, sociali e culturali cui concorrono molte- plici fattori. La v. di efficienza utilizza solitamente l’analisi costi/benefici avendo come oggetto un set di fenomeni obiettivi che vengono convenzionalmente intesi come risultati diretti ed indiretti delle pratiche formative. Bibl.: OCSE, Valutare l’insegnamento, Roma, Armando, 1998; IANES D. - S. ANDRICH, Programma- zione e valutazione scolastica, Trento, Erickson, 2000; PELLEREY M., Il portafoglio formativo pro- gressivo come nuovo strumento di valutazione delle competenze, in “Professionalità” 57 (2000) 5- 20; VARISCO B.M., Metodi e pratiche della valutazione: tradizione, attualità, nuove speranze, Mi- lano, Guerini & Associati, 2000; MONTEDORO C. (Ed.), Elementi di progettazione integrata per la formazione di qualità, Milano, F. Angeli, 2000; COMOGLIO M., La valutazione autentica e il port- folio, Roma, manoscritto, 2001; AA.VV., Dossier sulla valutazione, in “Libertà di Educazione” 2 (2002) 7-48. D. Nicoli VOLONTARIATO 1. Nell’ottica della “pedagogia dell’alterità” (Pieroni, 2005), produrre un’azione volontaristica significa avviare una relazione tra partner, accomunati l’uno da uno stato di bisogno e l’altro da offerta gratuita di servizio i quali, mediante un reci- proco apporto formativo-educativo e sulla base di una coscienza critica solidale/co- operativistica, si fanno agenti di cambiamento personale e comunitario/sociale (→ solidarietà e terzo settore). 247 2. Questo tentativo di inquadrare il v. nella logica dell’“educazionabile” è il frutto di un lungo e faticoso processo, tuttora in atto, di decostruzione di una consolidata forma mentis corporativistica e neo-colonizzatrice, e contestualmente del provo- carsi di una lenta ma improrogabile maturazione verso la “cultura dell’interdipen- denza”. Il v. ha conosciuto una stagione di “stato nascente” verso la fine degli anni ’60, sulla scia di valori etico-solidaristici (pace, uguaglianza, giustizia sociale…) che richiedevano di essere tradotti poi in attività solidaristiche (Ardigò, 1980). Da allora il fenomeno è andato incontro ad un progressivo incremento, in particolare tra le nuove generazioni di giovani. Tuttavia, già negli anni ’90, varie indagini rile- vavano che la crescita quantitativa stava andando a scapito della qualità della pre- stazione a seguito delle differenti modalità di interpretazione che lo riducevano per lo più ad un prodotto terapeutico dei mali sociali del nostro tempo, oppure veniva cavalcato sull’onda emotiva di esperienze alternative/esotiche/evasive. A partire da quegli anni, si è avvertito sempre più il bisogno di ridefinire la natura del feno- meno, nel tentativo di riscoprire/ricostruire il valore originale del suo “status” (Mi- lanesi, 1990; Gallino, 2000; Malizia-Pieroni, 2001). Oggi possiamo dire che il fe- nomeno sta attraversando un periodo di “decantazione” in quanto, sulla scia di nu- merosi studi che hanno fatto da “apripista” (da Lévinas, a Buber, a Bastide…) fino agli AA. dei giorni nostri, è in atto il tentativo di riportarsi a quei “principi attivi” e a quelle strategie formative che permettono alle attività solidaristiche di tornare utili e proficue non soltanto per gli individui a cui sono indirizzate, ma anche a quelli stessi che promuovono/producono tali azioni. 3. Uno dei principi-base trae origine dalla stessa connaturata condizione umana: se- condo alcuni AA. (Bastide, 1990; Di Cristoforo Longo, 1993; Ranci, 1994) non esiste infatti un “io” come terreno recintato, fine a se stesso, ma esiste piuttosto il “noi”, in quanto l’“altro” è già “in noi” fin dall’inizio, in una intersoggettività ori- ginaria. Ed è proprio su questo “noi”, appunto, che si fondamenta l’etica solidari- stica, ossia su un “io” che è insieme auto ed etero-relazione. Per questi AA. il ter- mine v. comprende infatti un’azione compiuta non tanto da singoli individui quanto piuttosto da gruppi, i quali costituiscono il luogo privilegiato di coagulo delle ri- sorse individuali e collettive. Altri AA. preferiscono invece concentrarsi sul prin- cipio del reciproco “riconoscer-si” tra l’“io” e il “tu” (Irigaray, 1992; Nanni - Sal- varani, 1994): l’“io”, in cerca d’→ identità, ha bisogno infatti di essere riconosciuto come tale da un “tu-altro”, diverso da sé, quale condizione del suo definirsi/com- pletarsi come soggetto unico e ineguagliabile. In altre parole, l’“altro”, inteso come “identità-diversa”, è la condizione perché l’“io” venga riconosciuto, così da diven- tare sempre più “io-identità”. Ne consegue che la costruzione dell’identità di “io” dipende paradossalmente ma inevitabilmente dalla relazione con il “tu-altro”. En- trambi questi principi confluiscono verso un ethos della “reciprocazione”, quale paradigma della relazione fondata sul valore della differenza (Milan, 1994). È qui dove la ped. dell’alterità costruisce il suo fondamento, nel tentativo di riprogettare il percorso educativo a partire dal “tu”. 248 4. Sulla base di queste dinamiche riprende vigore conseguentemente la “voca- zione” originaria sottesa al v. di trasformarsi in variabile educativa: l’obiettivo è quello di arrivare ad educare il “potere-di offrire” facendo scomparire anzitutto l’a- simmetria di un “dare” a senso unico, così da portare sia chi “dà” che chi “riceve” a divenire protagonisti di un “dare-ricevere” su un piano reciproco e soprattutto sim- metrico, di parità. In altri termini, per trasformare il v. nella logica dell’“educazio- nabile” non basta semplicemente educare a dare, ma occorre educare chi dà anche a saper ricevere e contemporaneamente chi riceve a saper/poter dare a sua volta. Ora affinché la relazione di → partnership diventi un fattore di cambiamento funzionale ad una crescita reciproca, occorre quindi che l’elemento scatenante, provocato da una posizione asimmetrica, di “disuguaglianza” e causato a sua volta da una condi- zione di “bisogno”, abbia come effetto non soltanto quello di colmare un tale bi- sogno, quanto piuttosto di produrre quella forma cooperativa ad un reciproco “dare-ricevere” educativo che costituirà poi la piattaforma per la crescita personale e comunitaria. Il v. diventa in tal modo una conditio-sine-qua-non che rientra tra le dimensioni fondanti della personalità, prima ancora che esprimersi/manifestarsi at- traverso azioni solidaristiche. Di conseguenza la formazione al v. non può conside- rarsi un’azione erogata a spruzzi, a seconda dell’età e degli ambiti d’intervento, tanto meno è una veste che si indossa al momento di gestire il “rito” del potere di offrire, ma essa deve contribuire a formare nell’individuo quell’habitus, quella forma mentis che permetterà poi di dare seguito a relazioni interattive fondate sul- l’ethos della reciprocazione, contribuendo così alla costruzione di un “umanesimo - a- dimensione-trasversale”. Sono queste le condizioni perché possano essere rico- nosciute/restituite al v. quelle prerogative originarie che ne fanno veicolo di “mondi vitali”, laboratorio dell’innovazione socio-culturale, profezia di “cieli e terre nuove”. Bibl.: ARDIGÒ A., Crisi di governabilità e mondi vitali, Bologna, Cappelli, 1980; LÉVINAS E., Dall’u- manesimo del soggetto all’umanesimo dell’altro uomo, Genova, Il Melangolo, 1985; BASTIDE R., Noi e gli altri. Luoghi di incontro e di separazione culturale e razziale, Milano, Jaca Book, 1990; MILA- NESI G., Il volontariato internazionale verso una nuova identità, Bologna, Dehoniane, 1990; IRIGARAY L., Io, tu, noi, Torino, Bollati-Boringhieri, 1992; DI CRISTOFORO LONGO G., Identità e cultura. Per un’antropologia della reciprocità, Roma, Studium, 1993; MILAN G:, Educare all’incontro. La peda- gogia di Martin Buber, Roma, Città Nuova, 1994; NANNI A. - B. SALVARANI, Educare a partire dal- l’altro, Bologna, EMI, 1994; RANCI C., “Altruismo e reciprocità: due modelli di solidarietà a con- fronto”, in B. CATTARINUSSI (Ed.), Altruismo e solidarietà. Riflessioni su prosocialità e volontariati, Milano, F. Angeli, 1994; GALLINO L., Globalizzazione e disuguaglianze, Bari, Laterza, 2000; MALIZIA G. - V. PIERONI, I gruppi/organizzazioni di volontariato salesiano nel mondo, Roma, 2001 (rapporto di ricerca riservato); PIERONI V., Volontari “perché”. Dalla “pedagogia dell’alterità” paradigmi e para- dossi, in “Orientamenti Pedagogici” 52 (2005) 1, 9-24. V. Pieroni VOUCHER → FP continua 249 PISTE DI LETTURA Per un utilizzo del volume come strumento di autoformazione, presentiamo 3 piste di lettura che aggregano le voci definite in base a: 1) Contesti • Contesto culturale della FP • Contesto socio-economico della FP • Organizzazione della FP • Soggetti della FP 2) Dimensioni • Dimensione educativa del sistema di FP • Dimensione culturale del sistema di FP • Dimensione professionale del sistema di FP 3) Processi/funzioni, servizi • Direzione e coordinamento • Progettazione • Erogazione • Valutazione • Orientamento 250 1) PISTE DI LETTURA: CONTESTI Contesto culturale della FP Alfabetizzazione Ambiente Bisogni formativi Cittadinanza Coesione sociale Comunicazione Comunità (famiglie) professionali Comunità educativo formativa Cultura professionale Diritti formativi Don Bosco e la FP Educazione Educazione alla cittadinanza democratica Educazione degli adulti Educazione interculturale Educazione permanente Educazione religiosa Esclusione sociale Etica professionale Europa e FP Formazione FP FP continua FP iniziale FP: sviluppo storico Globalizzazione e FP Governance e FP Inclusione sociale Insegnamento Ispirazione cristiana della FP Istruzione e FP Lavoro Libertà di educazione Nuove tecnologie Pari opportunità Pedagogia del lavoro Politiche formative Prevenzione Processo formativo Psicologia del lavoro Religione Riforma educativa Scienze umane ed etica Sistema formativo Sistema preventivo Sistema produttivo Società Sociologia del lavoro Solidarietà e Terzo settore Spiritualità del lavoro Spiritualità dell’operatore Sussidiarietà Università e FP Valori professionali Volontariato Contesto socio-economico della FP Capitale sociale Cittadinanza Coesione sociale Comunità (famiglie) professionali Contratti Cultura professionale Economia e formazione Educazione Educazione permanente Esclusione sociale FP continua Globalizzazione e FP Governance e FP Impresa 251 Aspetti organizzativi della FP Inclusione sociale Lavoro Mercato del lavoro Mobilità professionale Nuove tecnologie Occupabilità Pari opportunità Parti (forze) sociali Partnership Professionalità Accreditamento Alternanza scuola lavoro Apprendistato Associazioni CFP Diritti formativi Enti di FP Finanziamenti per la FP FP FP continua FP iniziale FP superiore FP: sviluppo storico Istruzione e FP Livelli essenziali delle prestazioni Monitoraggio Obbligo scolastico e formativo Politiche formative Proposta formativa Qualifica professionale Qualità Rete Riforma educativa Sede orientativa Sistema formativo Università e FP Soggetti della FP Associazioni Comunità educativo formativa Destinatari Direttore Enti di FP Équipe educativa Europa e FP Famiglia Formatore Impresa Mercato del lavoro Minori Parti (forze) sociali Partnership Risorse umane Servizi per l’impiego Sindacati Sistema formativo Sistema produttivo Società Tutor Università e FP Profilo professionale Qualità Rete Ruolo professionale Servizi per l’impiego Sindacati Sistema produttivo Società Sociologia del lavoro 252 2) PISTE DI LETTURA: DIMENSIONI Dimensione culturale della FP Alfabetizzazione Cultura professionale Diritti formativi Don Bosco e la FP Educazione Europa e FP Formazione Insegnamento Istruzione e FP Politiche formative Professionalità Psicologia del lavoro Ricerca Ruolo professionale Sistema formativo Società Sociologia del lavoro Dimensione educativa della FP Ambiente Aree formative Bisogni formativi Buone pratiche Cittadinanza Competenze chiave Comunicazione Comunità educativo formativa Congedo di formazione Contratto formativo D. Bosco e la FP Educazione Educazione alla cittadinanza democratica Educazione degli adulti Educazione interculturale Educazione permanente Educazione religiosa Etica professionale Formazione FP FPI FP: sviluppo storico Identità Ispirazione cristiana della FP Personalizzazione Prevenzione Processo formativo Progettazione formativa Progetto personale e professionale Proposta formativa Religione Scienze umane ed etica Sistema formativo Sistema preventivo Spiritualità del lavoro Spiritualità dell’operatore Dimensione professionale della FP Abilità Accompagnamento al lavoro Alternanza scuola lavoro Apprendimento Apprendimento organizzativo Apprendistato Aree professionali Capacità 253 Certificazione degli apprendimenti Competenza Comunità (famiglie) professionali Congedo di formazione Conoscenze Contratto formativo Credito formativo Cultura professionale Curriculum vitae Educazione degli adulti European Computer Driving Licence FP Impresa Insegnamento Laboratorio Lavoro Lingua straniera Mansione Maturità professionale Mercato del lavoro Orientamento Professionalità Profilo professionale Progetto personale e professionale Qualifica professionale Ruolo professionale Servizi per l’impiego Sicurezza sul lavoro Sindacati Standard formativi minimi Successo scolastico e professionale Tirocinio Valori professionali Valutazione 254 3) PISTE DI LETTURA: PROCESSI/FUNZIONI/SERVIZI Direzione e coordinamento Accreditamento Apprendimento organizzativo Autonomia CFP Comunicazione Comunità educativo formativa Cultura professionale Direttore Diritti formativi D. Bosco e la FP Economia e formazione Educazione Enti di FP Finanziamenti per la FP Formazione FP FP continua FPI FP superiore FP: sviluppo storico Impresa Ispirazione cristiana della FP Istruzione e FP Lavoro Livelli essenziali delle prestazioni Mercato del lavoro Obbligo scolastico e formativo Parti (forze) sociali Partnership Politiche formative Proposta formativa Qualità Rete Ricerca Riforma educativa Risorse umane Scienze umane ed etica Servizi per l’impiego Sindacati Sistema formativo Società Sperimentazione Standard formativi minimi Progettazione Abbandono Accreditamento Alternanza scuola lavoro Apprendistato Aree formative Aree professionali Autonomia Bisogni formativi Bullismo Buone pratiche Comunità (famiglie) professionali Competenze chiave Congedo di formazione Cultura professionale Disagio Diversabilità e FP Economia e formazione Educazione interculturale Educazione alla cittadinanza democratica Educazione religiosa Enti di FP Équipe educativa Esclusione sociale Famiglia Finanziamenti per la FP FP 255 FP continua FP superiore FPI Impresa Lavoro Libretto formativo Mercato del lavoro Moduli Monitoraggio Obiettivi Partnership Percorsi/progetti destrutturati Politiche formative Prevenzione Processo formativo Profilo professionale Progettazione formativa Proposta formativa Qualità Rete Ricerca Riforma educativa Risorse umane Servizi per l’impiego Sicurezza sul lavoro Sistema formativo Sistema preventivo Sistema produttivo Sperimentazione Standard formativi minimi Tirocinio Università e FP Valutazione Erogazione Abilità Alfabetizzazione Apprendimento Buone pratiche Bullismo Capacità Colloquio Competenza Comunicazione Comunità educativo formativa Conoscenze Destinatari Didattica induttiva Diversabilità e FP Educazione Efficacia Équipe educativa Famiglia Formatore Formazione FP Insegnamento Laboratorio Lingua straniera Metodologia Minori Moduli Motivazione Nuove tecnologie Obiettivi Percorsi/progetti destrutturati Personalizzazione Processo formativo Profilo professionale Proposta formativa Qualifica professionale Sperimentazione Spiritualità dell’operatore Tirocinio Valori professionali Valutazione 256 Valutazione Abbandono Abilità Accreditamento Apprendimento organizzativo Aree formative Buone pratiche Capacità Certificazione degli apprendimenti Certificazione delle competenze Competenza Competenze chiave Conoscenze Contratto formativo Credito formativo Curriculum vitae Diversabilità e FP Efficacia Équipe educativa European Computer Driving Licence (ECDL) Famiglia Formazione FP FPI Livelli essenziali delle prestazioni Maturità professionale Metodologia Monitoraggio Motivazione Obiettivi Personalizzazione Prevenzione Professionalità Progetto personale e professionale Qualifica professionale Sperimentazione Standard formativi minimi Successo scolastico e professionale Sviluppo professionale Tirocinio Tutor Valori professionali Valutazione Orientamento Abbandono Accoglienza Accompagnamento al lavoro Alfabetizzazione Alternanza scuola lavoro Apprendistato Aree professionali Bisogni formativi Capacità Certificazione delle competenze CFP Colloquio Competenza Comunicazione Comunità educativo formativa Comunità (famiglie) professionali Congedo di formazione Coping Curriculum vitae Destinatari Disagio Diversabilità e FP Educazione Educazione degli adulti Efficacia Équipe educativa Europa e FP Famiglia 257 Formazione FP FPI Identità Impresa Istruzione e FP Lavoro Libretto formativo Lingua straniera Maturità professionale Mercato del lavoro Minori Mobilità professionale Motivazione Obiettivi Orientamento Percorsi/progetti destrutturati Prevenzione Problem solving Progetto personale e professionale Qualifica professionale Rete Sede orientativa Servizi per l’impiego Successo scolastico e professionale Sviluppo professionale Tirocinio Tutor Università e FP Valori professionali 259 SOMMARIO...................................................................................................................... 3 PRESENTAZIONE.............................................................................................................. 5 INTRODUZIONE ............................................................................................................... 7 1. Impostazione generale e destinatari.................................................................. 7 2. Scelta delle voci ................................................................................................. 8 3. Struttura delle singole voci................................................................................ 9 4. Indicazioni per l’uso .......................................................................................... 9 COLLABORATORI ............................................................................................................ 11 ABBREVIAZIONI E SIGLE ................................................................................................. 13 VOCI ............................................................................................................................... 15 Abbandono (S. Chistolini) ..................................................................................... 15 Abilità (D. Nicoli) .................................................................................................. 16 Accoglienza (S. De Pieri)....................................................................................... 17 Accompagnamento al lavoro (F. Ghergo).............................................................. 19 Accreditamento (S. Pugliese)................................................................................. 20 Addestramento ....................................................................................................... 21 Alfabetizzazione (G. Spaguolo).............................................................................. 22 Alternanza scuola lavoro (C. Genitili) .................................................................. 23 Ambiente (C. Di Agresti) ....................................................................................... 24 Apprendimento (M. Pellerey)................................................................................. 25 Apprendimento cooperativo................................................................................... 27 Apprendimento organizzativo (G. Malizia) ........................................................... 27 Apprendistato (S. D’Agostino) .............................................................................. 28 Area formativa (M. Pellerey)................................................................................. 30 Aree professionali (D. Nicoli - C. Catania) ........................................................... 32 Associazioni (P. Ransenigo)................................................................................... 33 Autonomia (G. Malizia) ......................................................................................... 34 Bilancio di competenze.......................................................................................... 35 Bisogni formativi (G. Vettorato) ............................................................................ 35 Bullismo (M. Becciu) ............................................................................................. 37 Buone pratiche (G. Spagnuolo) ............................................................................. 38 Capacità (D. Nicoli) .............................................................................................. 39 Capitale sociale (D. Nicoli)................................................................................... 41 Centro di formazione professionale - CFP (G. Malizia)....................................... 42 Centro per l’impiego.............................................................................................. 44 Certificazione degli apprendimenti (D. Nicoli)..................................................... 44 INDICE 260 Certificazione delle competenze (G. Di Francesco) .............................................. 45 Certificazione di qualità......................................................................................... 47 Cittadinanza (V. Orlando)...................................................................................... 48 Codice deontologico .............................................................................................. 48 Coesione sociale (A. Felice).................................................................................. 48 Colloquio (A.R. Colasanti) .................................................................................... 50 Competenza (D. Nicoli) ......................................................................................... 50 Competenze chiave (M. Pellerey) .......................................................................... 52 Comunicazione (C. Cangià) ................................................................................... 54 Comunità di pratiche.............................................................................................. 56 Comunità educativo formativa (C. Di Agresti) ..................................................... 56 Comunità (famiglia) professionale (D. Nicoli)...................................................... 58 Congedo di formazione (G. Spagnuolo) ................................................................ 59 Conoscenze (D. Nicoli).......................................................................................... 60 Contratti (P. Ransenigo) ........................................................................................ 61 Contratto formativo (L. Valente) ........................................................................... 63 Cooperazione ......................................................................................................... 64 Coping (A.R. Colasanti) ........................................................................................ 64 Credito formativo (D. Nicoli) ................................................................................ 65 Cultura professionale (G. Bocca) .......................................................................... 66 Curriculum vitae (R. Paggi) .................................................................................. 66 Destinatari (V. Pieroni).......................................................................................... 67 Devianza................................................................................................................. 69 Didattica induttiva (N. Zanni) ............................................................................... 69 Diploma professionale ........................................................................................... 70 Direttore (G. Malizia) ............................................................................................ 70 Diritti formativi (G. Malizia) ................................................................................. 72 Disagio (A. Felice) ................................................................................................ 75 Diversabilità e FP (G. Morante) ........................................................................... 75 Don Bosco e la FP (J.M. Prellezo)........................................................................ 77 Economia e formazione (M. Colasanto) ................................................................ 79 Educazione (C. Nanni)........................................................................................... 81 Educazione alla cittadinanza democratica (G. Malizia)....................................... 83 Educazione degli adulti - EDA (G. Spagnuolo) .................................................... 85 Educazione interculturale (V. Orlando)................................................................. 86 Educazione permanente (C. Di Agresti)................................................................ 87 Educazione religiosa (G. Tacconi)......................................................................... 89 Educazione tecnico - professionale ....................................................................... 91 Efficacia (K. Poláček)............................................................................................ 91 E-learning............................................................................................................... 92 Emarginazione ....................................................................................................... 92 Enti di FP (C. Colombo) ....................................................................................... 92 Équipe educativa (A.R. Colasanti) ........................................................................ 94 Esclusione sociale (A. Felice) ............................................................................... 94 Etica professionale (G. Gatti) ................................................................................ 95 Europa e FP (G. Malizia) ...................................................................................... 97 261 European Computer Driving Licence - ECDL (D.M. Giaccari) ........................... 100 Famiglia (R. Mion)................................................................................................ 101 Famiglia professionale ........................................................................................... 104 Filiere formative..................................................................................................... 104 Finanziamenti per la FP (S. D’Agostino) ............................................................. 104 Formatore (C. Montedoro) .................................................................................... 106 Formazione (C. Nanni) .......................................................................................... 111 Formazione a distanza - FAD (D.M. Giaccari) ..................................................... 112 Formazione on line ................................................................................................ 116 Formazione professionale - FP (M. Tonini).......................................................... 116 Formazione professionale continua - FPC (G. Allulli)......................................... 121 Formazione professionale iniziale - FPI (G. Allulli) ............................................ 122 Formazione professionale superiore - FPS (G. Allulli) ........................................ 123 Formazione professionale: sviluppo storico (J.M. Prellezo)................................. 124 Globalizzazione e FP (M. Colasanto).................................................................... 127 Governance e FP (M. Colasanto).......................................................................... 128 Identità (P. Del Core) ............................................................................................. 129 Immigrazione ......................................................................................................... 130 Impresa (F. Ghergo) ............................................................................................... 130 Inclusione sociale (A. Felice) ................................................................................ 132 Indicatori di qualità ................................................................................................ 133 Individualizzazione ................................................................................................ 133 Insegnamento (M. Pellerey)................................................................................... 133 Insegnamento sociale della Chiesa (M. Toso) ...................................................... 134 Inserimento professionale / lavorativo................................................................... 136 Intercultura ............................................................................................................. 136 Ispirazione cristiana della FP (B. Stenco)............................................................ 137 Istruzione e FP (G. Bertagna)................................................................................ 140 Istruzione Formazione Tecnica Superiore (IFTS) ................................................. 142 Laboratorio (N. Zanni) .......................................................................................... 143 Lavoro (G. Bocca) ................................................................................................. 143 Libertà di educazione (G. Malizia)........................................................................ 144 Libretto formativo (D. Nicoli) ............................................................................... 147 Lingua straniera (C. Cangià)................................................................................. 148 Livelli essenziali delle prestazioni -LEP (D. Nicoli) ............................................. 149 Mansione (L. Reghellin) ........................................................................................ 151 Maturità professionale (K. Poláček) ..................................................................... 153 Mercato del lavoro (M. Colasanto) ....................................................................... 154 Metodologia (H. - C.A. Chang) ............................................................................. 155 Minori (V. Pieroni)................................................................................................. 157 Mobbing (M. Becciu)............................................................................................. 158 Mobilità professionale (L. Valente) ....................................................................... 160 Moduli (H. - C.A. Chang)...................................................................................... 160 Monitoraggio (G. Malizia) .................................................................................... 161 Motivazione (S. De Pieri) ...................................................................................... 162 Nuove tecnologie (N. Zanni).................................................................................. 163 262 Obbligo scolastico e formativo (G. Malizia) ......................................................... 164 Obiettivi (M. Pellerey) ........................................................................................... 165 Occupabilità (G. Spagnuolo)................................................................................. 167 Orientamento (K. Poláček) .................................................................................... 168 Pari opportunità (S. Chistolini)............................................................................. 171 Parti (forze) sociali (P. Ransenigo) ....................................................................... 172 Partnership (E. Marsilii)........................................................................................ 174 Pedagogia del lavoro (G. Bocca) .......................................................................... 175 Percorsi/progetti destrutturati (V. Pieroni) ........................................................... 176 Percorso formativo................................................................................................. 178 Personalizzazione (D. Nicoli)................................................................................ 178 Politiche formative (G. Malizia)............................................................................ 179 Portfolio ................................................................................................................. 181 Prevenzione (G. Vettorato)..................................................................................... 181 Problem solving (A.R. Colasanti).......................................................................... 182 Processo formativo (H. - C.A. Chang) .................................................................. 183 Professionalità (M. Colasanto) .............................................................................. 184 Profilo professionale (D. Nicoli - C. Catania)....................................................... 186 Progettazione formativa (M. Pellerey) .................................................................. 187 Progetto personale e professionale (P. Del Core) ................................................. 188 Proposta formativa (M. Tonini)............................................................................. 190 Psicologia del lavoro (D. Antonietti) .................................................................... 192 Qualifica professionale (D. Nicoli) ....................................................................... 194 Qualità (S. Pugliese).............................................................................................. 195 Religione (Z. Trenti) .............................................................................................. 197 Rete (S. Pugliese) ................................................................................................... 197 Ricerca (V. Orlando) .............................................................................................. 198 Riforma educativa (G. Malizia) ............................................................................. 199 Risorse umane (C. Montedoro).............................................................................. 201 Ruolo professionale (D. Nicoli)............................................................................. 203 Scienze umane ed etica (G. Gatti) ......................................................................... 204 Seconda opportunità............................................................................................... 206 Sede orientativa (M. Tonini).................................................................................. 206 Servizi per l’impiego (D. Pavoncello) ................................................................... 208 Sicurezza sul lavoro (R. D’Agostino).................................................................... 212 Sindacati (P. Ransenigo) ........................................................................................ 213 Sistema formativo (G. Malizia).............................................................................. 214 Sistema preventivo (C. Nanni) ............................................................................... 216 Sistema produttivo (M. Colasanto) ........................................................................ 218 Sistema qualità ....................................................................................................... 220 Società (R. Mion)................................................................................................... 220 Sociologia del lavoro (M. Colasanto).................................................................... 223 Solidarietà e terzo settore (A. Raimondi).............................................................. 225 Sperimentazione (S. Chistolini) ............................................................................. 227 Spiritualità del lavoro (C. Nanni).......................................................................... 228 Spiritualità dell’operatore di FP (G. Fedrigotti)................................................... 230 263 Sportello informativo ............................................................................................. 232 Stage....................................................................................................................... 232 Standard formativi minimi (M. Pellerey)............................................................... 232 Successo scolastico e professionale (S. Chistolini)............................................... 234 Sussidiarietà (M. Toso).......................................................................................... 235 Sviluppo professionale (K. Poláček)...................................................................... 237 Sviluppo sostenibile ............................................................................................... 238 Tirocinio (C. Gentili) ............................................................................................. 239 Tutor (D. Nicoli) .................................................................................................... 240 Tutorato (o Tutoraggio, o Tutoring)....................................................................... 241 Unità di apprendimento, didattica, formativa, formativa capitalizzabile (UFC)... 241 Università e FP (G. Spagnuolo) ............................................................................ 241 Valori professionali (Z. Trenti) .............................................................................. 242 Valutazione (D. Nicoli) .......................................................................................... 244 Volontariato (V. Pieroni)........................................................................................ 246 Voucher .................................................................................................................. 248 PISTE DI LETTURA .......................................................................................................... 249 INDICE ............................................................................................................................ 259

Le sperimentazioni del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Rapporto di ricerca

Autore: 
Guglielmo Malizia - Vittorio Pieroni
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2007
Numero pagine: 
127
Guglielmo MALIZIA - Vittorio PIERONI Le sperimentazioni del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio Rapporto di ricerca CIOFS/FP PRESENTAZIONE Vari sono stati i provvedimenti che hanno influito, in questo decennio, sul rin- novamento del sistema della formazione professionale, soprattutto iniziale. Tra questi, due sono segnalati come più significativi ed incisivi: l’introduzione dell’obbligo di frequenza di attività formative attraverso la legge 17 maggio 1999 n. 144 e la definizione del diritto all’istruzione e alla formazione per almeno 12 an- ni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età attraverso il D. Lgs 15 aprile 2005, n. 76. Entrambi i provvedimenti sono stati accompagnati da coerenti sperimentazioni nazionali e regionali. La Regione Lazio può vantare di essere stata tra le Regioni che hanno concor- so a questo processo di rinnovamento. Il progetto sperimentato già a partire dal- l’anno 1999/2000, infatti, rendeva esplicite le principali caratteristiche della “nuo- va formazione professionale iniziale”: la natura formativa e non addestrativa della formazione professionale iniziale, tale da favorire una piena e completa formazio- ne della persona; l’acquisizione di una qualifica professionale scandita da un per- corso formativo basato sulle competenze e, quindi, in dialogo con il mercato del la- voro; l’assunzione di una metodologia attiva volta a valorizzare e sviluppare espe- rienze concrete della vita giovanile e del mondo lavorativo; la flessibilizzazione del percorso realizzata attraverso azioni aggiunte a monte e a valle quali i moduli di accoglienza e le misure di accompagnamento; la collocazione della formazione professionale iniziale all’interno del sistema educativo di istruzione e formazione al fine di facilitare gli eventuali passaggi da un sistema all’altro e il riconoscimen- to dei crediti acquisiti dagli allievi. Anche la sperimentazione successiva, ispirata alla legge 53/03, partendo da questa esperienza proseguiva con un progetto sperimentale organico le cui caratte- ristiche erano soprattutto: la scelta della formazione professionale iniziale resa con- comitante alle scelte che le famiglie compiono al termine della scuola media; la completezza dell’offerta, non limitata alla pura erogazione di corsi di formazione professionale ma aperta ad una prospettiva formativa di sistema in grado di creare circolarità tra formazione iniziale e formazione lungo tutto l’arco della vita; la va- lenza educativa del lavoro, considerato come il primo giacimento educativo, cultu- rale e didattico e ispiratore dell’organizzazione delle conoscenze fondamentali di cittadinanza e di professionalità; l’attivazione, attraverso la sperimentazione, di ve- ri laboratori di apprendimento (culturali, sociali, professionali) basati su compiti / problemi reali - condivisi dagli allievi - che richiedono una integrazione delle diver- se discipline o aree formative; la riorganizzazione delle qualifiche in un organico 3 progetto di comunità professionali intese come un aggregato di figure che condivi- dono un insieme relativamente omogeneo e nel contempo dinamico di fattori quali il know-how di base, i processi di lavoro ed i compiti che vi si svolgono, il contesto or- ganizzativo, l’itinerario di formazione coerente e progressivo che si svolge a partire dal livello della qualifica per giungere a quelli di tecnico e di quadro esperto. Le sperimentazioni sono state accompagnate anche dalla sottoscrizione di Ac- cordi che, nel rispetto delle competenze definite nel nuovo Titolo V della Costituzio- ne (L. 3/2001), hanno coinvolto non solo i Ministeri e le Amministrazioni locali fir- matari di tali Accordi, ma anche i ruoli e le funzioni delle Istituzioni formative im- pegnate ad assicurare e valorizzare il ruolo della formazione professionale nel complessivo sistema di Istruzione e formazione per tutto l’arco della vita. Il frutto di questa stagione è anche la presente pubblicazione che testimonia il cammino che gli Enti di formazione professionale, tra i quali il CNOS-FAP e il CIOFS/FP, hanno compiuto in questi anni, e, nel presente caso, nella Regione Lazio. Si tratta di un bilancio positivo, sottolineato anche dall’Assessore della Regio- ne Lazio, l’On. Silvia Costa: “L’esperienza dei percorsi triennali, rivolti ai ragazzi tra i 14 e i 18 anni, si è ri- velata estremamente positiva. Ad oggi sono stati coinvolti oltre 7.600, 2.800 dei qua- li hanno ottenuto una qualifica professionale e quasi la metà è rientrata nel percorso scolastico superiore. La domanda di accesso è in forte espansione, a dimostrazione del notevole interesse verso questi percorsi formativi, che accompagnano i giovani verso una professione o li aiutano a rientrare nella scuola e a proseguire gli studi. Nel Lazio, che presenta indici di dispersione scolastica del 15% circa (dato in costante diminuzione), stimiamo che l’attivazione dei percorsi triennali abbia pro- dotto una diminuzione dell’abbandono e della dispersione intorno al 2,1%”. Il CNOS-FAP e il CIOFS/FP, che sono stati in questa Regione attivi protagoni- sti di entrambe le fasi sperimentali, ringraziano tutti gli operatori che hanno con- corso al raggiungimento di questo lusinghiero traguardo e si augurano di poter proseguire nel completamento del disegno riformatore. La formazione professionale iniziale, infatti, dovrà affrontare la sfida dell’ob- bligo di istruzione, la stabilità dell’offerta raggiunta anche dalla adeguatezza delle risorse finanziarie e la sua collocazione nel più ampio disegno di sistema che, dal- la formazione iniziale possa accompagnare l’allievo verso traguardi professiona- lizzanti anche superiori. Valorizzando questo patrimonio di esperienza, la Regione Lazio potrà conti- nuare ad irrobustire il proprio sistema formativo regionale che permetterà di far conseguire, ai giovani che lo frequentano, qualifiche e diplomi professionali utili sia per l’occupabilità che per l’esercizio dei diritti di cittadinanza. Mario TONINI Lauretta VELENTE (Presidente CNOS-FAP) (Presidente CIOFS/FP) 4 INTRODUZIONE La presente ricerca intende contribuire allo sviluppo della formazione profes- sionale contestualmente e in sinergia con la riforma in corso del sistema educativo di istruzione e di formazione. Più specificamente, l’innovazione a cui l’indagine si collega riguarda la sperimentazione di nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale in coerenza con la legge 53/03, con l’Accordo Stato-Regioni su istru- zione e formazione del 2003 e con il D.lgs. 76/05. Richiamiamo brevemente il quadro di riferimento. Anzitutto, come si sa, la ri- forma Moratti ha assicurato a ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciot- tesimo anno di età, e inoltre ha introdotto un percorso graduale e continuo di for- mazione professionale parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che porta all’acquisizione di qualifiche e titoli (Malizia, 2005). Il salto di qua- lità realizzato in materia dalla legge 53/03 ha trovato la sua attuazione concreta con l’approvazione del D.lgs. 76/05 che definisce la norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione (Montemarano, 2005). A sua volta, l’Accordo Stato-Regioni su istruzione e formazione (2003) aveva consentito di avviare dal 2003 la sperimentazione dei percorsi triennali di istruzione e di formazione “intesa come un laboratorio per la definizione di un nuovo modello di percorso e di offerta di istruzione e di formazione, non legata alla semplice integrazione dell’esistente (istruzione da una parte e formazione professionale dall’altra), ma proteso a verifi- care la prospettiva aperta dalla riforma […]”, tenuto conto che “l’analisi degli ele- menti di crisi evidenziava come un sistema fondato sulla centralità dei modelli sco- lastici non riuscisse a rispondere a una domanda diffusa e diversificata di forma- zione” (Sugamiele, 2006, p. 35). In pratica, la realizzazione della sperimentazione dei percorsi del diritto-do- vere ha messo a confronto due tipologie molto diverse. Infatti, alcune Regioni hanno puntato all’integrazione dei percorsi di istruzione statale con moduli di for- mazione professionale. Al contrario, altre Regioni, come il Lazio, hanno mirato alla integrazione dei sistemi, in altre parole hanno sperimentato un percorso formativo, tutto nella formazione professionale, in conformità con lo spirito della riforma Mo- ratti che intendeva ridisegnare, nelle modalità di un percorso culturale ed educa- tivo, l’offerta tradizionale della formazione professionale finalizzata all’inseri- mento professionale secondo una impostazione predominantemente di natura pro- fessionalizzante. Ovviamente, alcune Regioni sperimentano ambedue le tipologie. 5 In proposito, va evidenziato che le verifiche sinora compiute a livello nazionale sulle due tipologie hanno riscontrato risultati più positivi nella seconda (Sugamiele, 2006). Lo scopo della presente ricerca rientra in questo quadro di verifica delle due di- verse impostazione. La portata non è nazionale, ma l’attenzione si concentra su una Regione e su due Enti di formazione. Più in particolare, la finalità principale dell’in- dagine che qui viene presentata consiste nel monitoraggio dei percorsi triennali del diritto-dovere realizzati dai Centri di Formazione Professionale di ispirazione cri- stiana appartenenti alle Delegazioni del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. La verifica ha riguardato le offerte che rientrano nella seconda tipologia e, come si vedrà, è stata positiva. Il successo di questi percorsi triennali trova la sua giustificazione più profonda nella impostazione complessiva della offerta che essi hanno adottato. Si tratta infatti di una proposta unitaria, organica, pedagogica- mente fondata e sistematica che si ispira ai seguenti principi: finalizzazione alla formazione integrale della persona in collegamento con i territori di riferimento e le realtà economiche e del lavoro e adozione di strategie specifiche mirate a una pedagogia del successo. I percorsi possiedono una peculiare metodologia forma- tiva basata su compiti reali, una vera didattica attiva, fondata sull’apprendimento dall’esperienza anche tramite tirocinio/stage formativo in stretta collaborazione con le imprese del settore di riferimento. Inoltre, presentano rilevanza orientativa, in modo da sviluppare nella persona la consapevolezza circa le sue prerogative, il progetto personale, il percorso intrapreso, comprese quindi le capacità personali quali la consapevolezza di sé, la comunicazione e la relazione con gli altri, la dis- posizione all’autonomia, alla responsabilità e alla soluzione dei problemi, il ri- spetto delle regole organizzative, la disposizione ad apprendere dall’esperienza. Carattere fondamentale della metodologia adottata è una forte integrazione tra le dimensioni del sapere, saper fare, saper agire e saper essere, al fine di favorire una chiara circolarità tra pratica e teoria, tra attività operativa e attività di riflessione sui significati dell’agire, mentre ogni sapere teorico trova continuo collegamento e applicazione in azioni concrete. Per il principio di sussidiarietà la realizzazione di questa offerta non significa l’adesione a un unico modello gestionale predeterminato, ma è consentita da una varietà di soluzioni operative. L’impostazione adottata delinea un percorso forma- tivo progressivo, che è aperto a sbocchi sia in verticale sia in orizzontale, senza mai precludere la possibilità di un proseguimento diretto nei percorsi formativi succes- sivi al termine di ciascun ciclo, e che consente alla persona di avanzare nel proprio cammino procedendo per livelli successivi di intervento/comprensione della realtà, seguendo tre tappe tipiche, corrispondenti ad altrettanti titoli: di qualifica (certifi- cato di qualifica professionale); tecnico (diploma di formazione professionale); 6 quadro/tecnico superiore (diploma di formazione professionale superiore). Per- tanto, a tali percorsi vanno garantite stabilità di organici, autonomia, distribuzione diffusa sul territorio e certezza di finanziamenti con esclusione dei bandi, trattan- dosi di attività formative destinate a minori per cui vale il diritto-dovere. All’interno dei due Enti la sperimentazione della nuova formazione professio- nale ha preso avvio da tempo ed è stata oggetto di varie indagini (Malizia, Nicoli e Pieroni, 2002; Malizia e Pieroni, 2003; Malizia e Pieroni, 2006). Pertanto, la pre- sente ricerca ha esaminato, dell’esperienza pregressa, soltanto le azioni formative relative al periodo 2000-05 di cui ha fornito una sintesi descrittiva. A sua volta, il monitoraggio dei percorsi triennali del 2005-06 è avvenuto attraverso il ricorso a un progetto articolato di valutazioni che ha richiesto ai differenti attori della speri- mentazioni (coordinatori dei corsi, formatori, allievi e genitori) di esprimere le loro opinioni in merito sulla base della compilazione di sette schede diverse. Il rapporto che segue, dopo una prima presentazione introduttiva sugli obiet- tivi sottesi al monitoraggio, è suddiviso in due corpi centrali a cui si aggiungono le conclusioni, la bibliografia e un’appendice. Nella I parte, relativa al quadro teorico, viene ricostruita criticamente l’evoluzione sul piano della riflessione pedagogica e delle riforme che ha portato alla sperimentazione dei percorsi triennali sul diritto- dovere (capitolo 1). La II sezione è suddivisa in due articolazioni maggiori: l’una (capitolo 2) comprende le relazioni sintetiche sulle attività pregresse degli 8 Centri che nel Lazio hanno collaborato al progetto, e cioè 3 del CNOS-FAP (Gerini, Borgo e Pio XI) e 5 del CIOFS/FP (Roma-Togliatti, Roma-Ginori, Roma-Morrone, Ladispoli, Colleferro); la seconda (capitolo 3) presenta e commenta i dati relativi all’anno formativo 2005-06 che emergono dall’applicazione delle sette schede uti- lizzate per il monitoraggio. A questo riguardo va osservato che una parte degli stru- menti di rilevamento si caratterizza per la natura prettamente descrittiva dei per- corsi, mentre gli altri mirano a valutare la qualità della formazione offerta. Di con- seguenza nel capitolo in questione si terrà conto proprio di questa distinzione, pre- sentando nella prima sezione i dati relativi al numero degli iscritti e dei formatori, alle tipologie formative e al relativo monte-ore, agli spazi e agli strumenti messi a disposizione, mentre la seconda analizzerà le valutazioni ed il gradimento dei diffe- renti attori (coordinatori dei corsi, formatori, allievi e genitori) nei confronti delle principali azioni formative di tale tipologia di percorsi. In sintesi, il monitoraggio ha messo in evidenza una serie importante di risul- tati positivi della tipologia dei percorsi triennali, tutti nella formazione professio- nale. Aumentano gli allievi e i percorsi rivelano un alto tasso di continuità tra gli anni con una crescita anche degli iscritti dalla scuola; gli esiti formativi sono me- diamente più elevati di quelli dell’istruzione tecnica e professionale; le varie com- ponenti (allievi, formatori, genitori) delle comunità formative manifestano in gene- rale un elevato gradiente di soddisfazione. 7 8 Da ultimo intendiamo ringraziare vivamente la Delegazione Regionale del CNOS-FAP e la Associazione Regionale del CIOFS/FP, i relativi responsabili e i coordinatori regionali dei dati del monitoraggio, per la disponibilità offerta a colla- borare alla raccolta delle informazioni necessarie per la ricerca. Inoltre, siamo grati ai direttori dei CFP, ai coordinatori dei corsi, ai formatori, agli allievi e ai genitori per aver partecipato attivamente all’iniziativa compilando le schede appositamente indirizzate loro. Parte I IL QUADRO TEORICO Capitolo 1 Il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione: bilancio di un dibattito Guglielmo MALIZIA Come si è precisato nell’introduzione, la finalità principale della ricerca di cui si fa relazione in questo volume consiste nel monitoraggio dei corsi triennali del di- ritto-dovere realizzati dai Centri di Formazione Professionale di ispirazione cristiana appartenenti alle Delegazioni del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Non po- teva pertanto mancare, all’inizio del rapporto, la presentazione di un congruente quadro teorico di riferimento: a questo scopo, il capitolo è articolato secondo due prospettive, una che sarà tributaria principalmente della riflessione pedagogica e l’altra che si focalizzerà prevalentemente sull’evoluzione delle politiche educative del nostro Paese. 1. LA PROSPETTIVA PEDAGOGICA Certamente non è questo il contesto adatto per delineare la lunga evoluzione attraverso cui è passato il diritto all’educazione sul piano pedagogico, anche solo a partire dall’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (UNESCO, 2000). Mi limiterò di conseguenza alle vicende più recenti, concentrando l’atten- zione sugli sviluppi che si sono verificati durante gli anni ‘80 e ‘90. In pratica arti- colerò il discorso che segue distinguendo tra i contenuti e i soggetti, da una parte, e le strategie, dall’altra, e dedicando alla fine una considerazione specifica circa l’e- voluzione in atto dal concetto tradizionale e benemerito di obbligo scolastico a quello più nuovo e promettente di diritto all’istruzione e alla formazione. 1.1. I contenuti del diritto all’educazione e i soggetti protetti Come si è anticipato sopra, gli anni ‘80 e ‘90 hanno segnato l’allargamento del diritto all’educazione, caratterizzato prevalentemente dai tratti della quantità, dell’u- niformità e dell’unicità, fino a comprendere gli aspetti della qualità, della differenzia- zione e della personalizzazione (UNESCO, 2000; Malizia, 2004). Pertanto non basta assicurare l’accesso di tutti all’istruzione e alla formazione e l’eguaglianza dei risul- tati fra i vari strati sociali, ma è necessario garantire il diritto a un’educazione di qua- lità. Infatti, il problema non è solo di svantaggio economico, ma anche (e soprattutto) 11 di disparità culturali, per cui si richiedono processi di insegnamento-apprendimento efficaci, tali cioè da compensare le differenze tra allievi di gruppi sociali diversi. Nella stessa prospettiva si dovrà anche contemperare unità e diversità, tutela ed eccellenza. Ambedue i poli esprimono esigenze valide e rilevanti: da una parte la difesa dei più deboli, la giustizia e l’oggettività, e dall’altra la qualità, l’effi- cienza e la personalizzazione. La composizione non è impossibile, ma di fatto si è finora preferito rifugiarsi nell’uniformità di comportamenti e di trattamenti. L’uni- formità però non garantisce l’eguaglianza delle opportunità e la protezione delle fasce più deboli. Ignorando le differenze, vengono lasciate intatte le diseguaglianze esistenti di fatto e, inoltre, risulta alla fine premiata la mediocrità di chi non fa niente oltre il minimo. A maggior ragione l’uniformità non assicura la qualità: questa è più diffusa a livello locale di quanto si possa immaginare sulla base delle vicende delle riforme globali, ma le iniziative valide rimangono isolate e ignorate perché l’uniformità non riesce a utilizzare la vivacità diffusa alla base, come sti- molo e spinta all’innovazione del sistema. Un altro orientamento è consistito nel potenziamento della scuola come istitu- zione della comunità. La riduzione e l’eliminazione delle diseguaglianze di oppor- tunità non possono essere realizzate senza il coinvolgimento dei gruppi che sof- frono direttamente dell’impatto delle disparità. Pertanto, è imprescindibile che gli strati emarginati partecipino alla gestione delle singole unità scolastiche, assu- mendo un ruolo attivo nella loro conduzione e, in particolare, nella lotta alle dis- eguaglianze. La scuola dovrà divenire veramente scuola di tutta la comunità, cioè essere per la comunità e della comunità, come al tempo stesso la comunità è per la scuola e della scuola. Da una parte, la scuola andrà orientata alla formazione dei singoli membri della comunità e alla crescita civile dell’intera comunità; di conse- guenza, può contare sulla collaborazione della comunità per realizzare le sue fina- lità. Contemporaneamente, la comunità mette a disposizione della scuola le sue ri- sorse e prende parte democraticamente e responsabilmente alla sua vita e gestione. Il diritto all’educazione, mentre si è esteso e diversificato sul piano dei conte- nuti, ha dato vita a principi autonomi in riferimento ai soggetti tutelati. In proposito si può ricordare anzitutto quello dell’eguaglianza fra i sessi. In generale, se è vero che l’eguaglianza formale tra l’uomo e la donna di fronte all’educazione è stata so- stanzialmente raggiunta, non si può dire lo stesso per l’eguaglianza delle opportu- nità, rispetto alla quale gli sforzi compiuti non hanno portato a risultati pienamente soddisfacenti. Un altro principio che è legato al diritto all’educazione è rappresentato dall’e- ducazione interculturale. Esso consiste nella messa in rapporto delle culture, nella comunicazione reciproca, nell’interfecondazione, mentre esclude l’assimilazione. Rientra nello stesso quadro il principio dell’integrazione dei disabili nella scuola ordinaria, che può essere enunciato nei seguenti termini: rispondere ai bi- sogni di tutti gli alunni e di ciascuno; dare risposte differenziate perché gli alunni sono diversi; fornirle all’interno della scuola ordinaria. 12 1.2. Le strategie Ho ritenuto opportuno raggrupparle intorno alle tre componenti fondamentali del diritto all’educazione: eguaglianza, differenziazione e corresponsabilità (UNESCO, 2000; Malizia, 2004). 1.2.1. Le strategie dell’eguaglianza Una prima strategia consiste nella messa in opera delle aree prioritarie nell’i- struzione. Si tratta più specificamente di focalizzare gli interventi su zone a rischio, di attribuire a tali azioni un carattere di vera e propria campagna, di promuovere l’impegno congiunto fra l’istituzione scolastica, lo Stato, gli enti locali ed altri sog- getti istituzionali e di organizzare progetti speciali a servizio di giovani in diffi- coltà. L’approccio ha il vantaggio di essere unitario, globale e mirato a un’area pre- cisa, senza rischi di interventi a pioggia. A continuazione delle aree prioritarie sarà anche necessario procedere a un cambiamento delle logiche che presiedono al governo della scuola, nel senso di concentrare l’azione sulle situazioni che si trovano più divaricate dalla media, sia in negativo che in positivo. Bisognerà, pertanto, creare delle reti di qualità che per- mettano di stimolare, aiutare, verificare e diffondere le innovazioni. Una terza strategia consiste nell’introdurre un sistema nazionale di valutazione per definire gli interventi. Globalmente si dovranno individuare i livelli conseguiti sul piano nazionale; quanto, poi, a ciascuna scuola si cercherà di determinare le istituzioni particolarmente valide e le più carenti; inoltre, sul piano della relazione formativa bisognerà puntare a definire la situazione di ciascun allievo per indivi- dualizzare gli interventi. L’introduzione di tale sistema richiede a monte la fissa- zione di standard minimi di istruzione su tutto il territorio nazionale. 1.2.2. Le strategie della personalizzazione Un primo orientamento consiste nell’attuazione di una pedagogia personaliz- zata. Questa significa fondamentalmente la messa in opera di quattro strategie: di- versificazione dei contenuti dell’insegnamento secondo le potenzialità e l’interesse di ciascuno, differenziazione degli obiettivi (eguali nelle conoscenze fondamentali e diversi negli altri settori, in base alle capacità e agli interessi degli allievi), diver- sificazione dei metodi e differenziazione temporale, che vuol dire il riconoscimento ad ogni alunno della possibilità di studiare secondo il ritmo più confacente. Quanto alla parità tra i sessi, un primo gruppo di interventi riguarda i fattori che incidono sulle scelte scolastiche e professionali della donna. In proposito si raccomandano strategie quali: evitare le scelte precoci rispetto alle quali genitori e insegnanti esercitano di solito una forte incidenza; creare passerelle tra i vari tipi di scuole e di indirizzi; rendere coscienti i protagonisti dei processi formativi circa le problematiche della scelta femminile; potenziare le relazioni tra le strutture educa- tive e quelle produttive. Un’altra serie di azioni è rivolta ad evitare la metacomuni- 13 cazione di stereotipi sfavorevoli alle donne: si tratta fra l’altro di rivedere in senso egualitario i sussidi didattici e di espandere la presenza femminile nei posti di auto- rità all’interno del sistema formativo. L’educazione interculturale richiede di guardare agli immigrati non come a cit- tadini di serie B, ma di serie A con diritti e doveri eguali ai nazionali e, quindi, di riconoscere loro un ruolo attivo nell’elaborazione, scelta e messa in opera delle strategie educative. Inoltre, si dovranno ridisegnare le funzioni, i contenuti e i me- todi della scuola in modo da porre fine ad ogni eventuale monoculturalismo di tale istituzione. Bisognerà anche focalizzare prioritariamente gli interventi di natura in- terculturale sull’educazione prescolastica, l’istruzione dell’obbligo e la formazione professionale. Infine, le strategie educative dovranno essere inquadrate in una poli- tica sociale più ampia, rivolta a valorizzare l’apporto delle famiglie, in particolare delle madri, e del contesto socio-culturale. L’integrazione degli disabili non può essere affrontata da un operatore singolo, fosse pure l’insegnante di sostegno, o da un’istituzione isolata, ma esige un inter- vento collettivo e concertato a livello di scuola che sia sostenuto sul territorio da una rete efficace di servizi educativi e sociali. Ogni istituto dovrà darsi, nello svolgimento dell’attività educativa, un programma organico di azione entro un quadro generale determinato a livello locale, regionale e nazionale. L’elaborazione del progetto educa- tivo è chiamata ad articolare in modo coerente una serie di interventi: la diagnosi della situazione di partenza; l’individualizzazione attiva dell’atto educativo; la presa in considerazione dei ritmi differenti di apprendimento di ciascun allievo; l’adatta- mento dei contenuti dell’insegnamento; la messa in opera di modalità differenziate d’azione; il lavoro di gruppo (l’équipe scolastica degli insegnanti ordinari e di so- stegno e l’équipe dei docenti allargata, in modo da comprendere specialisti esterni di vario genere); la messa a disposizione di varie risorse umane e tecniche. 1.2.3. Le strategie della corresponsabilità Anzitutto l’autonomia e il progetto educativo costituiscono strumenti privile- giati per realizzare il passaggio dallo Stato assistenziale alla società solidale nel si- stema formativo. Infatti, essi permettono la costituzione e il funzionamento di una sede intermedia di aggregazione sociale in cui le libertà dei singoli utenti si incon- trano per gestire insieme corresponsabilmente la risposta ai bisogni educativi. Inoltre, è condizione indispensabile perché l’unità scolastica possa costruirsi sulla libertà e l’accordo dei soggetti educativi: studenti, docenti, genitori e forze sociali. Più in particolare, l’autonomia dovrebbe assicurare l’esercizio della responsa- bilità educativa da parte del singolo istituto in un quadro unitario garantito dal centro. A questo spetterebbe la propulsione politica, in particolare la tutela dell’e- guaglianza delle opportunità, della libertà e della qualità su tutto il territorio nazio- nale; a sua volta, l’unità scolastica dovrà diventare centro di attribuzione di tutti i poteri che le garantiscano il controllo sul complesso delle condizioni del suo fun- zionamento, in modo da poter fornire risposte efficaci alle domande di formazione 14 e di lavoro che provengono dalla società. In sintesi, bisogna ridistribuire le funzioni tra il centro e la periferia secondo i principi della distinzione e della complementa- rità, al fine di decentrare le decisioni e di accentrare i controlli. Una malintesa interpretazione della dimensione professionale e della libertà di insegnamento determina attualmente una scarsa regolabilità del comportamento degli insegnanti e fanno della singola unità scolastica un’organizzazione “disintegrata”. Più che essere al servizio della propria scuola, ciascun docente si serve di essa come di uno strumento per realizzare i propri interventi formativi in una relazione quasi priva- tistica con gli utenti. Pertanto la singola unità scolastica diventa incapace di stabilire in modo riflesso obiettivi di sistema e il prodotto della sua azione globale si presenta del tutto casuale. In sostanza essa attualmente non è in grado di gestire in prima per- sona e con un progetto unitario le relazioni con il contesto sociale. Per ovviare al problema accennato, la strategia principale d’azione va ricercata nella crescita e nella diffusione di un’adeguata cultura organizzativa che significa fondamentalmente sviluppo della capacità di avviare prassi progettuali di sistema. In altre parole, bisognerà anzitutto passare dall’attuale approccio organizzativo in- dividualistico e disintegrato ad uno integrato che si traduca in proposte unitarie qualificanti di istituto e di classe. In secondo luogo, la dimensione progettuale non può essere solo una caratteristica dell’azione del singolo operatore, ma deve conno- tare l’attività di tutto il sistema: essa trova il luogo più appropriato di realizzazione negli organi collegiali. Inoltre, la programmazione dovrà includere come compo- nente imprescindibile il controllo, altrimenti i risultati dell’azione organizzativa continueranno a presentarsi come casuali. Una terza strategia della corresponsabilità consiste nel riconoscimento reale e pieno da parte dello Stato della libertà di educazione, cioè della libertà di scelta della scuola da frequentare secondo le proprie convinzioni. Questa può contare al- meno su tre giustificazioni molto significative: il diritto di ogni persona ad educarsi e a essere educata secondo le proprie convinzioni e il correlativo diritto dei genitori di decidere dell’educazione e del genere d’istruzione da dare ai loro figli minori; il modello dell’educazione permanente la cui attuazione è assicurata non solo dalle istituzioni formative statali, ma anche da una pluralità di strutture educative pub- bliche o private che, in quanto operano senza scopo di lucro, hanno diritto di rice- vere adeguate sovvenzioni statali; l’emergere nelle dinamiche sociali fra Stato e mercato di un “terzo settore” o del “privato sociale” che, creato dall’iniziativa dei privati e orientato a perseguire finalità di interesse generale, sta ottenendo un so- stegno sempre più consistente dallo Stato a motivo delle sue valenze solidaristiche. Non bisogna neppure dimenticare che le ragioni dell’autonomia sono le stesse che fondano la parità. Alla base di ambedue le strategie si riscontra la stessa idea del primato della società sullo Stato. Inoltre, autonomia e parità si costruiscono sulla libertà dei soggetti educativi. In terzo luogo, esse si presentano come istituti capaci di dare un contributo valido per affrontare in modo vincente la questione centrale nell’attuale dibattito sull’istruzione in Italia che è quella della qualità. 15 1.3. Obbligo o diritto-dovere? In questo momento si registra in Europa una tendenza interessante all’allarga- mento del concetto stesso di obbligo scolastico attraverso il riconoscimento del di- ritto-dovere per ciascun giovane ad una istruzione e formazione prolungata (Ma- lizia - Nanni, 2000a). La ragione principale consiste nel fatto che l’inserimento nella società esige in tutti i campi un livello di conoscenze e di competenze accre- sciute rispetto al passato. Questa strada può assicurare ai giovani un’ampia prepara- zione di base idonea a promuovere la crescita personale, l’orientamento, la prose- cuzione degli studi, l’inserimento nell’attività lavorativa e la partecipazione respon- sabile alla vita democratica. Il diritto-dovere ad un’istruzione e formazione prolungata per tutti i giovani si traduce, sul piano strutturale, in una serie di orientamenti fondamentali. Anzitutto, la scuola secondaria deve essere una scuola aperta a tutti, che offre a ciascuno le opportunità più ampie di apprendere, che evita gli sbocchi senza uscita verso livelli superiori, che in tutte le filiere conserva elementi essenziali comuni, che consente di rettificare le proprie scelte in itinere e che prevede ponti o moduli di collega- mento tra i vari indirizzi. Inoltre, si raccomanda di assicurare la trasparenza e la semplicità delle strutture, una definizione chiara dell’identità delle opzioni e degli indirizzi, l’indicazione di sbocchi reali e realistici. Il punto più delicato è quello che riguarda la realizzazione di un mix di inte- grazione e di diversificazione. Per quanto riguarda la prima, è essenziale realizzare due tipi di integrazione. Anzitutto tra diversi livelli del sistema ed in particolare fra l’istruzione e la formazione secondaria e l’università. Una seconda forma va attuata all’interno della stessa scuola secondaria tra i cicli, le sezioni e le classi, combat- tendo la frammentazione mediante la definizione di aree comuni di conoscenze e di competenze, la garanzia della compatibilità dei metodi e la preparazione di progetti unitari di istituto. Da questo punto di vista è anche importante un rinnovamento dei programmi dell’istruzione secondaria che preveda un’associazione stretta fra la pratica e la teoria. Al tempo stesso, la diversificazione dovrà essere la più ampia nel senso che l’i- struzione e la formazione potranno essere a tempo pieno o a tempo parziale, e ge- nerale, tecnica o professionale anche se questa distinzione tende a perdere d’impor- tanza, e dovrà coinvolgere oltre alla scuola, la formazione professionale e le di- verse agenzie di socializzazione interessate. Nel contesto di tale differenziazione si tende ad assicurare un sistema adeguato di passerelle tra i vari indirizzi. Un problema che si pone a questo riguardo in molti paesi europei è costituito, infatti, dalla percentuale consistente di insuccessi scolastici nella scuola secon- daria. Non tutti i giovani sono motivati a frequentare una scolarità lunga di tipo ge- nerale e, soprattutto in certi paesi di forte immigrazione, il tasso di insuccesso può raggiungere un terzo degli iscritti. La diversificazione è probabilmente l’unica via di uscita sul piano strutturale: in altre parole deve rimanere il diritto ad un’istru- zione e formazione prolungata, ma le forme possono essere varie. Quello che è im- 16 portante è evitare di imporre gli stessi standard, obiettivi, contenuti e metodi a tutti, indipendentemente dalle abilità e dalle attese di ciascuno. 2. IL RECENTE CAMMINO DELLE RIFORME ORDINAMENTALI IN ITALIA È da oltre cinquant’anni che nel nostro paese si discute dell’esigenza di rifor- mare l’istruzione e la formazione pubblica (Malizia - Nanni, 2000b). Messo fine al fascismo, si è cercato di dare corso a varie iniziative specifiche di riforma scola- stica, formativa e più largamente educativa, nel contesto della ricostruzione demo- cratico-repubblicana (nuove elementari, scuola media unica, scuola materna e rela- tivi programmi). Durante gli anni ‘70 e ‘80 si sono avute una serie di “micro-ri- forme” (decreti, delegati, organi collegiali, integrazione dei disabili, nuovi pro- grammi della media, delle elementari e della materna), che hanno cercato di dare qualità democratica, respiro all’innovazione culturale, stimolo alla sperimenta- zione, alla creatività personale e alle soggettività locali. Nel corso dei primi anni ‘90, si è cercato per un verso di collegare scuola, famiglia, società, problemi giova- nili, ed evitare il disagio, la devianza, il malessere e ricercare la buona qualità della vita (cfr. il Progetto giovani, l’educazione alla salute, la lotta alla tossicodipen- denza); per altro verso, di riformare le medie superiori attraverso la via della speri- mentazione innovativa (cfr. i Programmi sperimentali Brocca, scuole sperimentali). Verso la metà degli anni ‘90, peraltro, nei programmi dei nuovi schieramenti politici (l’Ulivo di centro-sinistra e il Polo delle Libertà di centro-destra), il pro- blema della scuola e della formazione è diventato un punto di primaria importanza, espressamente enfatizzato nei programmi e nella propaganda elettorale. In effetti, era emersa con chiarezza l’inadeguatezza del sistema di istruzione a rispondere ad una domanda in rapida crescita che esprimeva i bisogni di una realtà familiare e so- ciale e di un mondo produttivo in profondo cambiamento. Ma mentre durante gli anni ‘80, la priorità era stata data alla riforma della secondaria superiore (senza però che si riuscisse a varare un provvedimento che ottenesse il consenso dei due rami del Parlamento), nella decade di quelli ‘90, si è andata diffondendo nell’opi- nione pubblica la convinzione che non bastasse intervenire sull’uno o l’altro dei li- velli dell’istruzione per risolvere i problemi alla radice, ma che si dovesse proce- dere ad una ridefinizione dell’intera struttura. 2.1. Un diritto ancora inattuato Prima di presentare sinteticamente il percorso delle riforme in relazione al di- ritto all’educazione, è opportuno redigere un sintetico bilancio della realizzazione del diritto stesso. I dati che si posseggono mettono chiaramente in evidenza una si- tuazione che, a dir poco, appare molto insoddisfacente (Sugamiele, 2006; Audi- zione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, 2006). Un primo dato riguarda il tasso di mobilità sociale del nostro Paese che è 17 fermo al 6% rispetto per esempio al 20% degli Stati Uniti. Di questa situazione, una parte rilevante di responsabilità è da attribuirsi alla scuola che tende a ripro- durre la stratificazione esistente e che trova grosse difficoltà a promuovere l’ascesa di chi appartiene ai ceti meno abbienti. In proposito, basta ricordare che i giovani delle famiglie di status sociale o culturale basso dispongono solo di ridotte possibi- lità di procedere regolarmente negli studi e il 2.7% di laurearsi (Sugamiele, 2006). Di fatto, il sistema scolastico risulta molto aperto negli accessi, ma al tempo stesso selettivo nei risultati perché fa leva sull’uniformità degli itinerari educativi, ritenen- dola sufficiente ad assicurare l’eguaglianza delle opportunità. Un altro fattore della situazione appena ricordata si può ricercare nel capitale culturale delle famiglie. Richiamo solo un dato per tutti: sono i tre quarti circa (73.4%) dei diplomati che possono vantare un padre munito di laurea a essere iscritti all’università, mentre la percentuale scende a poco più del 40% (42.6%) per i figli dei diplomati, a un quarto circa (26.9%) per i ragazzi con padre in possesso di licenza media e a neppure un quinto (17.7%) per i giovani il cui genitore può contare unicamente su una licenza elementare. In sintesi, l’opportunità di diplo- marsi e di laurearsi aumenta in modo rilevante tra gli studenti che appartengono a famiglie di laureati e questa situazione condiziona in maniera evidente la scelta degli studi nella secondaria di 2° grado e nell’istruzione superiore. E va anche ag- giunto che l’uniformità e la rigidità dei nostri percorsi educativi non solo non riesce a vincere i condizionamenti sociali, ma non sembrano neppure capaci di rispondere alle differenze di genere. Analoga problematicità emerge dai dati sulla dispersione scolastica e forma- tiva. Anzitutto, è la scuola media a deludere grandemente, in quanto non riesce a qualificarsi come capace di promuovere lo sviluppo globale della personalità di tutti o quasi i nostri ragazzi, portandoli a esiti diffusamente positivi. Infatti, più del 10% dei suoi alunni risulta in ritardo, il 40% circa (37.4%) ottiene agli esami finali solo il minimo di sufficiente e poco oltre un quarto (25.9%) ha riportato una valuta- zione di buono: in altre parole, è un 40% appena a conseguire risultati pienamente soddisfacenti. Anche in questo caso, il fattore principale di tale inefficacia sembra vada ricercato nell’incapacità o nella mancata volontà di organizzare un’offerta in grado di venire incontro alle esigenze formative differenziate degli alunni, inco- minciando con il mettere a profitto le 160 ore annue del curricolo che la legge 517/77 aveva previsto per iniziative di sostegno e per interventi individualizzati. La situazione non è migliore a livello di scuola secondaria superiore. Il dato positivo è la crescita imponente della domanda delle famiglie di assicurare ai loro figli la continuazione dell’istruzione e della formazione dopo la media. Pertanto, alla vigilia dell’entrata in vigore della legge 9/99 sull’innalzamento dell’obbligo di istruzione, la quasi totalità dei licenziati della media (94.5%) si iscriveva alla se- condaria superiore. Nonostante la presenza di condizioni sociali particolarmente favorevoli, il risultato dell’applicazione della legge appena richiamata è stato a dir poco disastroso. Nel biennio successivo la percentuale di “drop-out” si è collocata 18 su livelli molto rilevanti, in particolare negli istituti professionali e tecnici dove si è anche superato il 30% degli iscritti. Inoltre, “[…] circa il 16,5% (a.s. 2000/01; dato pressoché invariato negli anni successivi 2002 e 2003) dei giovani ha abban- donato gli studi nel corso dell’ultimo anno dell’obbligo (il quindicesimo anno) o al termine dell’obbligo scolastico non si è iscritto in alcun percorso di istruzione e di formazione. Si tratta di circa 240.000 giovani dai 15 ai 18 anni che nel primo triennio di applicazione dell’obbligo formativo sono rimasti al di fuori di qualsiasi percorso formativo, anche nell’apprendistato. La struttura prevalentemente genera- lista dell’istruzione, determinata da un continuo processo di licealizzazione dell’i- struzione tecnica e professionale, non ha condotto al successo e ha lasciato il 33% dei giovani in età fuori del percorso formativo, segno evidente che non basta una legge che obbliga alla frequenza e che l’attuale modello scolastico non riesce a dare risposta a una domanda diffusa e diversificata di formazione” (Sugamiele, 2006, p. 35). Altrettanto drammatica appare la situazione del ritardo di scolarità nella scuola secondaria e non solo. Secondo i dati del 2003-04, già nella prima primaria si riscontra un 2% di alunni in questa situazione, che poi si raddoppiano in quinta (3.9%); inoltre, nel passaggio alla secondaria di 1° grado si verifica un ulteriore raddoppio (7.3%). Un vero balzo in avanti, nel senso che il dato si triplica, si regi- stra tra il 10.5% del terzo anno della secondaria di 1° grado e il 28.9% del primo della secondaria di 2° grado che poi diviene oltre un terzo (34.2%) nell’ultimo. I tassi assumono connotazioni veramente allarmanti nelle Isole, con il 42.6% in Sar- degna e il 40.4% in Sicilia. Uno dei fattori di questa situazione va ricercato nelle ripetizioni. Più di un quarto (27%) degli studenti del primo anno degli istituti professionali viene boc- ciato e la percentuale continua a mantenersi elevata anche nel secondo (20%) e per- sino nel quarto (14%), pur in presenza di un’area di professionalizzazione di 300 ore. In aggiunta, da un terzo a oltre il 40% degli studenti del 1° e del 2° anno della secondaria di 2° grado ottengono la promozione solo con debito formativo. In questo contesto, va affermato chiaramente che l’innalzamento dell’obbligo scolastico non ha veramente senso se la riforma non viene accompagnata e soste- nuta da un’attuazione efficace del diritto al successo formativo. 2.2. La riforma Berlinguer (Legge 30/2000 sul riordino dei cicli) Mi limito a richiamare gli aspetti rilevanti per il tema qui trattato. I commi 2 e 3 dell’art. 1 definiscono l’articolazione rispettivamente dell’istruzione e della formazione (Nanni, 2003; Bertagna, 2001abc; Capaldo Rondinini, 2002; Malizia, 2005). “L’istruzione si articola nella scuola dell’infanzia, nel ciclo dell’istruzione primaria che assume la denominazione di scuola di base e nel ciclo secondario che assume la denominazione di scuola secondaria” (art. 1 c. 2). Si rimanda invece alle leggi 196/1997 e 144/1999 per la strutturazione del sistema educativo di forma- zione. 19 La scuola di base ha la durata di sette anni, sostituisce la scuola elementare e la scuola media con la conseguente riduzione di un anno dell’iter formativo ed è caratterizzata da un percorso educativo unitario e articolato in rapporto alle esi- genze di sviluppo degli alunni (art. 3 c. 1). A sua volta, la scuola secondaria “ha la finalità di consolidare, riorganizzare ed accrescere le capacità e le competenze ac- quisite nel ciclo primario, di sostenere e incoraggiare le attitudini e le vocazioni degli studenti, di arricchire la loro formazione culturale, umana e civile, sostenen- doli nella progressiva assunzione di responsabilità, e di offrire loro conoscenze e capacità adeguate all’accesso all’istruzione superiore universitaria e non universi- taria ovvero all’inserimento nel mondo del lavoro” (art. 4 c. 1). Dura cinque anni e si articola in aree: classico-umanistica, scientifica, tecnica e tecnologica, artistica e musicale. Ciascuna area è ripartita in indirizzi (tendenzialmente in numero inferiore agli attuali). La scuola secondaria si realizza negli istituti di istruzione secondaria di secondo grado che assumono tutti la denominazione di “licei”. Nei primi due anni (fatta salva la caratterizzazione specifica dell’indirizzo scelto e la frequenza del relativo curricolo) è garantita la possibilità di passare da un modulo all’altro anche di indirizzo diverso mediante l’attivazione di apposite iniziative didattiche di tipo integrativo per preparare adeguatamente alla nuova scelta. Nel secondo anno possono essere realizzate attività complementari di colle- gamento con le diverse realtà culturali, sociali, produttive e professionali da attuare anche presso altri istituti, Enti o agenzie di formazione professionale accreditate, secondo norme da definirsi mediante accordi tra Ministero della Pubblica Istru- zione, Ministero del Lavoro e Conferenza permanente Stato-Regioni. A conclu- sione del periodo dell’obbligo scolastico è rilasciata una certificazione attestante il percorso didattico svolto e le competenze acquisite. Brevi periodi di stage sono previsti negli ultimi tre anni e collegamenti con l’Istruzione Formazione Tecnico- Superiore e l’università. Certamente le disposizioni più rilevanti per la tematica in esame sono quelle che sanciscono l’innalzamento dell’obbligo scolastico, che “inizia al sesto anno e termina al quindicesimo anno di età” (art. 1 c. 3), e l’introduzione dell’obbligo di frequenza di attività formative fino al compimento del diciottesimo (art. 1 c. 4). Ambedue le normative erano state anticipate da provvedimenti puntuali. Anzitutto, con la legge 9/99 l’obbligo di istruzione era elevato da otto a dieci anni, ma la prima applicazione, fino all’approvazione di un generale riordino del sistema scola- stico e formativo, prevedeva solo una durata novennale. A sua volta, la legge 144/99 aveva stabilito all’art. 68 che, al fine di potenziare la crescita culturale e professionale dei giovani, fosse progressivamente istituito l’obbligo formativo fino ai 18 anni, che poteva essere assolto in tre distinti percorsi, anche integrati, di istru- zione e formazione: nel sistema d’istruzione scolastica, nel sistema di formazione professionale, di competenza regionale e nell’esercizio dell’apprendistato. Da subito l’applicazione della legge 9/99 aveva dimostrato di penalizzare for- temente gli adolescenti, soprattutto i più svantaggiati e in difficoltà, sia con lo spo- 20 stamento della scelta dell’obbligo formativo al secondo anno della scuola secon- daria superiore, sia soprattutto con l’imposizione dell’obbligo scolastico e di fre- quenza ad una scuola che li costringeva a un parcheggio di un anno nelle aule sco- lastiche o li teneva lontano dalla formazione professionale, sebbene l’obiettivo delle riforme fosse quello di introdurre un canale paritario di formazione professio- nale per togliere l’Italia dalla posizione di fanalino di coda in cui si trova a questo proposito. In aggiunta, le ricerche sull’attuazione del nuovo obbligo di istruzione documentavano con riscontri empirici tale andamento. Negli altri paesi dell’UE la formazione professionale è riconosciuta come parte legittima e non sussidiaria dell’offerta formativa, come un canale percorribile di pari dignità con la scuola. Tale possibilità non viene vista come un compromesso, ma come un ampliamento reale del diritto alla formazione, nel senso di un avvici- namento a quella equivalenza dei risultati - piuttosto che dei programmi, dei conte- nuti o delle strutture - oggi internazionalmente affermata come principio cardine dei sistemi educativi. La pari dignità della formazione professionale candida questo segmento a ottenere un riconoscimento adeguato non solo nella formazione ini- ziale, ma anche in quella superiore, nella formazione sul lavoro e nella formazione continua: in proposito, va tenuto presente che nei diversi paesi europei questa tipo- logia formativa presenta uno sviluppo molto più consistente che da noi. In Italia, invece, si è preferito mantenere la formazione professionale in una posizione di marginalità e di subalternità per quanto riguarda l’elevazione dell’ob- bligo di istruzione. Al contrario tale innalzamento avrebbe dovuto essere realizzato riconoscendo ad essa una collocazione paritaria. Più positiva è la valutazione riguardo all’introduzione dell’obbligo formativo. Uno degli effetti più significativi di tale riforma, consiste nel riconoscimento di pari dignità a tutti gli itinerari previsti dopo l’obbligo scolastico. In altre parole, l’uscita dalla scuola per iscriversi alla formazione professionale non può essere più vista come un abbandono, ma come un completamento normale del proprio curri- colo formativo in vista del conseguimento della qualifica. Pertanto “drop-out” non va considerato chi esce dalla scuola, ma chi esce dal sistema scolastico e formativo senza aver conseguito un diploma o una qualifica. Da questo punto di vista, il documento del governo sul programma quinquen- nale di progressiva attuazione del riordino dei cicli avrebbe dovuto rendere piena- mente operativo il principio accolto dalla legge sul riordino dei cicli, secondo cui non è sostenibile né culturalmente, né socialmente l’idea di un sistema educativo composto unicamente da scuole (Programma quinquennale…, 2001). Se la cultura, che consente di comprendere in modo adeguato la società in cui siamo inseriti e di agire in modo positivo in essa, è il frutto di differenti apporti, è necessario che vi siano almeno due ambiti del sistema educativo: la scuola e la formazione professio- nale, ognuno connotato da una propria identità ed autonomia, in grado di cooperare in forma reciproca, ma con la garanzia della peculiarità di ciascuno. Al contrario il documento non ha sviluppato adeguatamente tale questione. 21 Più in generale, il riconoscimento della pari dignità tra istruzione e formazione richiede di assicurare un’equivalenza nelle condizioni a monte. È noto che uno degli ostacoli allo sviluppo della formazione professionale è costituito dalla sua distribuzione a macchia di leopardo sul territorio. Se si fosse voluto che la forma- zione professionale non venisse frequentata solo dal 5% della popolazione giova- nile, ma che raggiungesse una percentuale “europea”, sarebbe stato necessario rea- lizzare il passaggio degli istituti professionali alle Regioni, come d’altronde ri- chiede la Costituzione, ma questo non è stato previsto né dalla legge 30/00, né dai documenti attuativi. In conclusione, si può dire che i testi per la realizzazione del riordino dei cicli segnano un passo avanti significativo verso l’integrazione tra sistema di istruzione e di formazione. Essi restano però ancora molto lontani dal riconoscimento di una piena parità tra scuola e formazione professionale. 2.3. La Legge Moratti (Legge delega 53/03) Anche in questo caso presenterò solo quegli aspetti che sono importanti per la problematica in questione. Secondo la riforma Moratti, il sistema educativo di istruzione e di formazione si articola nella scuola dell’infanzia, in un primo ciclo che comprende la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado, e in un se- condo ciclo di cui fanno parte il sistema dei licei e quello dell’istruzione e della formazione professionale (Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro, 2002; Ber- tanga, 2003abc; Nicoli, 2003; Malizia, 2005). La scuola primaria dura 5 anni ed è articolata in un primo anno teso al rag- giungimento della strumentalità di base e in due periodi didattici biennali. È pre- vista, sin dall’inizio, l’alfabetizzazione in almeno una lingua dell’Unione Europea e nelle tecnologie informatiche. Scompare, inoltre, l’esame di quinta. La scuola se- condaria di primo grado viene potenziata sotto il profilo delle discipline: è prevista una seconda lingua comunitaria obbligatoria e un approfondimento delle tecniche informatiche. Nei tre anni, che si concludono con un esame di Stato, viene anche progressivamente sviluppata nei ragazzi la capacità di scelta del percorso succes- sivo. Una novità che riguarda l’intero primo ciclo consiste nell’intento di valoriz- zare la tradizione culturale insieme all’evoluzione sociale, culturale e scientifica della realtà contemporanea. A sua volta nel secondo ciclo deve essere data un’attenzione costante alla cre- scita educativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il fare e l’agire e la riflessione critica su di essi. Quanto ai licei, sono confermati gli assi culturali tradizionali, classico, scientifico e artistico; al tempo stesso ne nascono dei nuovi, economico, tecnologico, musicale, linguistico, delle scienze umane. Essi hanno durata quinquennale: l’attività didattica si sviluppa in due periodi bien- nali e in un quinto anno che prioritariamente completa il percorso disciplinare e prevede, inoltre, l’approfondimento delle conoscenze e delle abilità caratterizzanti il profilo educativo, culturale e professionale del corso di studi. Si concludono con 22 un esame di Stato, il cui superamento rappresenta titolo necessario per l’accesso all’università. Ferma restando la competenza regionale, il sistema dell’istruzione e della for- mazione professionale realizza profili educativi, culturali e professionali ai quali conseguono titoli e qualifiche di differente livello, valevoli su tutto il territorio na- zionale se rispondenti ai livelli essenziali di prestazione definiti su base nazionale. Inoltre, i giovani che seguono questi percorsi non soltanto si vedranno garantita anno dopo anno una passerella per trasferirsi nei licei, ma avranno anche modo di proseguire dopo i quattro anni per un quinto, un sesto e un settimo anno, così da ac- quisire una qualifica professionale superiore. Potranno altresì disporre di un quinto anno per affrontare l’esame di Stato per l’iscrizione all’università. In ogni caso, da un sistema all’altro sono sempre possibili passaggi interni. Dopo i 15 anni, sia i di- plomi che le qualifiche possono essere conseguiti in alternanza scuola-lavoro o at- traverso l’apprendistato. Un salto di qualità che riguarda da vicino la nostra tematica, consiste nell’assi- curare ad ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età (Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro, 2002). In altre parole, la legge si muove nella linea della tendenza, emersa recentemente in Europa, al superamento del con- cetto stesso di obbligo scolastico. Dal punto di vista storico, questa strategia ha esercitato una funzione essenziale nel passaggio da una scuola per pochi ad una per tutti, ma al presente sembra costituire piuttosto un impedimento alla piena realizza- zione dei diritti di cittadinanza. In una società complessa come l’attuale, la focaliz- zazione scolasticistica perde di senso perché ciò che conta è il risultato e la sua qualità, e non i percorsi con cui si ottengono, che possono essere i più vari. Inoltre, l’istruzione e la formazione, prima che dei doveri, sono dei diritti della persona e vanno assicurate a tutti in modo pieno. Pertanto, le varie istituzioni che le garanti- scono devono operare in rete, in una prospettiva di solidarietà cooperativa piuttosto che come alternative tra loro escludentisi. Molte sono le ragioni che militano a favore della scelta a 14 anni tra scuola e formazione professionale. Anzitutto, la psicologia evolutiva ha messo in risalto come lo stadio 10-14 anni costituisca una fase della vita con una sua identità speci- fica, nella quale matura progressivamente la capacità di scelta consapevole. Inoltre, non va dimenticato che allo stato attuale i drop-out della terza media sono oltre 35.000 ogni anno e certamente non si potrebbe pensare di obbligarli per altri due anni ad un percorso scolastico. L’indagine effettuata dall’ISTAT in occasione degli Stati Generali, mette in evidenza come la gran parte dei genitori e dei docenti e oltre il 40% degli studenti siano d’accordo con la scelta dei due percorsi a 14 anni (Rapporto del gruppo ristretto di lavoro, 2002). Anche l’iniziativa di introdurre un percorso graduale e continuo di formazione professionale parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che porti all’acquisizione di qualifiche e titoli, è in piena linea con le tendenze più dif- 23 fuse e avanzate del nostro continente (Bertagna, 2003a; Nicoli, 2003). Infatti, la formazione professionale non viene più concepita nella gran parte dei paesi europei come un addestramento finalizzato esclusivamente all’insegnamento di destrezze manuali, né la distinzione con l’istruzione è vista nel fatto che questa si focalizza nell’acquisizione di saperi in qualche misura astratti rispetto al contesto, mentre quella si occupa della loro realizzazione nel mercato del lavoro, o nel fatto che l’oggetto è differente, essendo la cultura del lavoro quello proprio della formazione professionale, perché anche la scuola si interessa di cultura del lavoro. La forma- zione professionale non è qualcosa di marginale o di terminale, ma rappresenta un principio pedagogico capace di rispondere all’esigenze del pieno sviluppo della persona secondo un approccio specifico fondato sull’esperienza reale e sulla rifles- sione, in ordine alla prassi che permette di intervenire nel processo di costruzione dell’identità personale. Questo, tuttavia, non significa che sia la stessa cosa dell’i- struzione: conoscere con l’obiettivo principale di agire, costruire e produrre non può essere confuso con il conoscere e agire con l’intento prioritario di conoscere. In ogni caso, la legge Moratti interrompe una deriva delle politiche di riforma della secondaria superiore che ha dominato la scena dal 1971 al 2001 e che si ba- sava su quattro pilastri: una concezione del lavoro non bisognoso di istruzione/for- mazione, l’educatività come caratteristica esclusiva della scuola, la natura “ospeda- liera” della formazione professionale, la dissociazione tra cultura e professionalità. Essa supera, invece, la tradizionale gerarchizzazione e separatezza tra sistema dei licei e sistema dell’istruzione e della formazione professionale; evita ogni confu- sione tra i due, affermandone la pari dignità culturale; riscopre la cultura del lavoro e delle professioni. 2.4. Il decreto legislativo sul diritto-dovere e i percorsi sperimentali triennali Il salto di qualità realizzato in materia dalla riforma Moratti ha trovato la sua attuazione concreta con l’approvazione del D.Lgs. 76/05, che definisce la norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione (Montemarano, 2005). Nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arco della vita, esso ribadisce l’impegno della legge 53/03 a garantire a tutti eguali opportunità di conseguire livelli culturali elevati e di sviluppare capacità e competenze adeguate ad una transizione soddisfa- cente nella società e, in particolare, nel mondo del lavoro. L’obbligo scolastico e l’obbligo formativo non vengono dimenticati, trascurati o indeboliti, ma trovano un loro inveramento più pieno nella nuova normativa, nel senso che vengono ridefiniti e ampliati come diritto all’istruzione e alla formazione: in altre parole, la fruizione dell’offerta educativa viene a rappresentare per tutti, includendo anche i minori stranieri, sia un diritto soggettivo sia un dovere sociale. Più precisamente: “La Re- pubblica assicura a tutti il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno trien- nale entro il diciottesimo anno di età. Tale diritto si realizza nelle istituzioni del primo e del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione, co- 24 stituite dalle istituzioni scolastiche e dalle istituzioni formative accreditate […]” (art. 1 c. 3). I giovani incominciano a fruire concretamente del diritto-dovere con l’iscri- zione alla scuola primaria e nella secondaria di 1° grado tale tutela si traduce al- meno nell’organizzazione da parte delle scuole di iniziative di orientamento. Quanti poi ottengono il titolo del 1° ciclo si iscrivono ad un istituto del sistema dei licei o del sistema di istruzione e formazione professionale, fino al conseguimento di un diploma liceale o di un titolo o di una qualifica professionale di durata al- meno triennale sino al diciottesimo anno di età. Sul piano informativo, a sostegno dell’attuazione del diritto-dovere viene creato il sistema nazionale delle anagrafi degli studenti. L’anagrafe nazionale, che si trova presso il MPI, realizza il trattamento dei dati sui percorsi scolastici, forma- tivi e in apprendistato dei singoli studenti a partire dal primo anno della scuola pri- maria. A loro volta, le anagrafi regionali contengono i dati sui percorsi scolastici, formativi e in apprendistato dei singoli studenti a partire sempre dal primo anno della scuola primaria; le Regioni devono assicurare l’integrazione di queste ana- grafi con le anagrafi comunali della popolazione e anche il coordinamento con le funzioni svolte dalla province. I genitori dei minori e coloro che a qualsiasi titolo ne facciano le veci sono re- sponsabili dell’assolvimento del dovere di istruzione e di formazione e pertanto sono obbligati ad iscriverli alle istituzioni scolastiche e formative, anche se una dis- posizione del D.lgs., l’art. 1 c. 4, riconosce il diritto dei genitori di provvedere priva- tamente o direttamente all’istruzione e alla formazione dei propri figli, dimostrando però al tempo stesso di averne capacità tecnica o economica. Ad un gruppo nume- roso di soggetti individuali e istituzionali viene affidata la vigilanza sull’adempi- mento del dovere di istruzione e di formazione: il comune di residenza; il dirigente dell’istituzione scolastica o il responsabile dell’istituzione formativa di riferimento; la provincia attraverso i servizi per l’impiego; i soggetti responsabili dello svolgi- mento dell’apprendistato. Le responsabilità e la vigilanza non restano affidate alla buona volontà delle persone, ma la normativa stabilisce che le sanzioni previste fi- nora in caso di mancato assolvimento dell’obbligo scolastico si applichino ai sog- getti che non abbiano adempiuto al dovere di istruzione e di formazione. Anche sul D.lgs. 76/05 il giudizio è sostanzialmente favorevole. Esso, infatti, assicura realmente a tutti e a ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciot- tesimo anno di età. Questo richiede sia di realizzare un percorso graduale e con- tinuo di formazione professionale, parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che porti all’acquisizione di qualifiche e titoli; sia di garantire effetti- vamente la scelta a 14 anni tra il sistema dell’istruzione e quello dell’istruzione e della formazione professionale. Manca, invece, nel D.lgs. la garanzia della libertà di scelta educativa delle famiglie tra istituzioni scolastiche e formative statali e pa- ritarie e questo certamente costituisce una carenza grave della normativa: da tale 25 punto di vista, va ricordato che si tratta di un diritto fondamentale della persona umana che in Italia continua ad essere disatteso. È stato senz’altro positivo che l’attivazione dei corsi d’istruzione e di forma- zione professionale, rivolti alle ragazze e ai ragazzi che, concluso il primo ciclo di studi, manifestino la volontà di accedervi, non sia stata rimandata a un momento successivo all’emanazione dello specifico decreto legislativo sul secondo ciclo. L’Accordo Stato-Regioni su istruzione e formazione (2003) ha consentito di avviare già dal 2003 la sperimentazione dei percorsi triennali di istruzione e di formazione “intesa come un laboratorio per la definizione di un nuovo modello di percorso e di offerta di istruzione e di formazione, non legata alla semplice integrazione dell’esi- stente (istruzione da una parte e formazione professionale dall’altra), ma proteso a verificare la prospettiva aperta dalla riforma costituzionale (L.C. 3/01) e dalle leggi 30/03 (Biagi) e 53/03 […]”, tenuto conto che “l’analisi degli elementi di crisi evi- denziava come un sistema fondato sulla centralità dei modelli scolastici non ri- uscisse a rispondere a una domanda diffusa e diversificata di formazione” (Suga- miele, 2006, p. 35). Il raggiungimento dell’accordo e l’emanazione del testo hanno evitato la perdita di un altro anno scolastico-formativo. In questa stessa linea è da considerare un passo avanti l’affermazione che i percorsi appena citati debbano avere una durata almeno triennale. Inoltre, ai fini dei passaggi fra sistemi vengono riconosciuti i crediti formativi, acquisiti non solo negli itinerari appena ricordati, ma anche sull’apprendistato; in aggiunta, si conviene sull’esigenza di attivare un percorso articolato di partenariato istituzionale a livello nazionale, in raccordo con il livello regionale, per la definizione degli standard formativi minimi. Ma a livello attuativo non pare superata in alcune Regioni come l’Emilia-Ro- magna, la Campania, la Toscana e la Puglia, la concezione di “crocerossa” che viene attribuita ancora preminentemente al canale di istruzione e di formazione professionale (cioè di puro salvataggio di drop-out). Sembra, inoltre, che continui a essere messa in primo piano un’idea di “integrazione” che riduce la formazione professionale a laboratorio tecnico della scuola. In pratica, la realizzazione della sperimentazione dei corsi del diritto-dovere ha messo a confronto due tipologie molto diverse, due modelli in un certo senso opposti. Infatti, le Regioni richiamate sopra hanno puntato all’integrazione dei percorsi di istruzione statale con moduli di formazione professionale. Al contrario, Lombardia, Liguria, Piemonte e Veneto hanno mirato all’integrazione dei sistemi, in altre parole hanno sperimentato un percorso formativo, tutto nella formazione professionale, in conformità con lo spi- rito della riforma Moratti che intendeva ridisegnare, nelle modalità di un percorso culturale ed educativo, l’offerta tradizionale della formazione professionale finaliz- zata all’inserimento professionale secondo un’impostazione prevalentemente di na- tura professionalizzante. Naturalmente, ci sono anche delle Regioni che sperimen- tano entrambe le tipologie. Un dato positivo, che ha valore indipendentemente dal confronto fra le due ti- pologie, riguarda il favore con cui la proposta dei percorsi triennali sperimentali è 26 stata accolta dai giovani e dalle famiglie. Le iscrizioni sono aumentate in misura molto consistente, anzi si sono quasi raddoppiate nella prima applicazione dell’Ac- cordo, in quanto si è registrata una crescita del 46.9%, che però non ha riguardato i percorsi integrati, raggiunti da una flessione (-7.8%) (Sugamiele, 2006, 36-38; ISFOL, 2005). Più precisamente, tra il 2003-04 e il 2004-05, a fronte di un aumento degli iscritti nell’Emilia-Romagna del 34% e del 73% in Campania, ma di una ridu- zione del 27.7% nella Toscana, la Lombardia e il Veneto hanno visto una crescita così imponente che ha impedito alle due Regioni di accogliere tutta la domanda. Passando poi al confronto tra le due tipologie, va anzitutto osservato che l’ipo- tesi del percorso formativo tutto nella formazione professionale assicura un flusso di passaggi tra il primo e il secondo anno del 97.7%, a fronte del 73.4% del mo- dello che vede l’integrazione tra scuola e formazione professionale. Al termine del primo tipo di percorsi, la più gran parte degli allievi hanno domandato di iscriversi al quarto anno e nel caso del Veneto si riscontra un’equivalenza complessiva di passaggi tra il sistema dell’istruzione e quello della formazione professionale. L’Emilia-Romagna, che, come si è ricordato sopra, ha adottato il modello inte- grato tra scuola e formazione professionale, presenta nel 2003-04 un numero di re- spinti al primo anno dei percorsi sperimentali (28.2%) che risulta più elevato di quasi 3 punti percentuali in paragone a quello dei percorsi tradizionali (25.6%). Se si passa ai promossi con debito formativo, i tassi si equivalgono e non si nota perciò nessun miglioramento nei percorsi integrati. L’anno successivo, 2004-05, ha visto una diminuzione nei bocciati e un aumento nei promossi con debito formativo che però non cambiano sostanzialmente il quadro globale. Infatti, nel caso di insuc- cesso, il 54% degli allievi dei percorsi tradizionali si ferma nell’istituto ripetendo l’anno e quasi nessuno di loro sceglie i percorsi integrati offerti dall’istituto fre- quentato, preferendo piuttosto cambiare scuola; al contrario, il tasso di quanti si iscrivono alla medesima tipologia di percorso si riduce al 12% tra gli allievi dei percorsi integrati e, in aggiunta, il 37% di questi ultimi opta per la ripetizione del percorso tradizionale nel medesimo istituto. Questi dati mettono chiaramente in evidenza che gli allievi non riscontrano diversità rilevanti fra i percorsi integrati tra scuola e formazione professionale e quelli tradizionali. In conclusione, i percorsi sperimentali triennali, tutti nella formazione profes- sionale, mettono in evidenza una serie importante di risultati positivi (Malizia - Pieroni, 2005 e 2006). Aumentano gli allievi a tal punto che le Regioni non ri- escono a soddisfare tutte le richieste, e i percorsi rivelano un alto tasso di continuità tra gli anni con una crescita anche degli iscritti dalla scuola; gli esiti formativi sono mediamente più elevati di quelli dell’istruzione tecnica e professionale con meno del 10% di insuccessi rispetto al 25%; le varie componenti (allievi, formatori, geni- tori) delle comunità formative manifestano in generale un elevato gradiente di sod- disfazione. Il successo di questi percorsi triennali trova la sua giustificazione più pro- fonda nell’impostazione complessiva dell’offerta che essi hanno adottato. Si tratta, 27 infatti, di una proposta unitaria, organica, pedagogicamente fondata e sistematica che si ispira ai seguenti principi: finalizzazione alla formazione integrale della persona in collegamento con i territori di riferimento e le realtà economiche e del lavoro e adozione di strategie specifiche mirate ad una pedagogia del successo. I percorsi possiedono una peculiare metodologia formativa basata su compiti reali, una vera didattica attiva, fondata sull’apprendimento dall’esperienza, anche tra- mite tirocinio/stage formativo in stretta collaborazione con le imprese del settore di riferimento. Inoltre presentano rilevanza orientativa, in modo da sviluppare nella persona la consapevolezza circa le sue prerogative, il progetto personale, il per- corso intrapreso, comprese quindi le capacità personali quali la consapevolezza di sé, la comunicazione e la relazione con gli altri, la disposizione all’autonomia, alla responsabilità e alla soluzione dei problemi, il rispetto delle regole organizzative, la disposizione ad apprendere dall’esperienza. Carattere fondamentale della meto- dologia adottata è una forte integrazione tra le dimensioni del sapere, saper fare, saper agire e saper essere, al fine di favorire una chiara circolarità tra pratica e teoria, tra attività operativa e attività di riflessione sui significati dell’agire, mentre ogni sapere teorico trova continuo collegamento e applicazione in azioni concrete. Per il principio di sussidiarietà la realizzazione di quest’offerta non significa adesione a un unico modello gestionale predeterminato, ma è consentita una varietà di soluzioni operative. L’impostazione adottata delinea un percorso formativo pro- gressivo, che è aperto a sbocchi sia in verticale sia in orizzontale, senza mai preclu- dere la possibilità di un proseguimento diretto nei percorsi formativi successivi al termine di ciascun ciclo, e che consente alla persona di avanzare nel proprio cam- mino procedendo per livelli successivi di intervento/comprensione della realtà, se- guendo tre tappe tipiche, corrispondenti ad altrettanti titoli: di qualifica (certificato di qualifica professionale); tecnico (diploma di formazione professionale); quadro/tecnico superiore (diploma di formazione professionale superiore). Per- tanto, a tali percorsi vanno garantite stabilità di organici, autonomia, distribuzione diffusa sul territorio e certezza di finanziamenti con esclusione dei bandi, trattan- dosi di attività formative destinate a minori. 3. CONCLUSIONE. VERSO L’OBBLIGO DI ISTRUZIONE: UN RITORNO AL PASSATO? Il nuovo Governo di centro-sinistra sembra intenzionato a realizzare quanto pre- visto dal programma dell’Unione sul tema in questione: “secondo ciclo: elevare l’obbligo di istruzione gratuita fino al 16 anni (primo biennio della scuola supe- riore)” (Per il bene dell’Italia, 2006, p. 232). Nell’audizione alla VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati del 29 giugno 2006, il Mini- stro della PI ha confermato tale impegno, affermando che “Due anni in più di istru- zione sono necessari non solo per consolidare ed innalzare le competenze di base di 28 tutti, ma anche per consentire di effettuare le scelte di indirizzo e di percorso ad un’età non troppo acerba e con una maggiore consapevolezza, da parte dei giovani e delle loro famiglie, delle propensioni e delle attitudini effettive” (pp. 18-19). Veramente le innovazioni da adottare più urgentemente nel sistema educativo di istruzione e di formazione dovrebbero essere mirate a coinvolgere quei giovani che ne stanno fuori, come riconosce lo stesso Ministro. “Il tasso di passaggio dei li- cenziati della scuola media alla scuola superiore ha raggiunto il 97%, con un anda- mento in ulteriore crescita. La situazione, dunque, è molto diversa da quella degli anni settanta, quando l’obbligatorietà dell’istruzione era lo strumento principe, sim- bolico e fattuale, per forzare la resistenza, di quote ancora importanti delle fami- glie, ad investire nell’istruzione lunga dei figli. Oggi il nostro problema è quello di quel 25% di 14-18enni che alle superiori ci è andato, ma poi le ha abbandonate o ne è stato espulso” (Audizione del Ministro dell’Istruzione, 2006, 19-20). Da questo punto di vista, c’è da dubitare sull’opportunità di considerare come la prima emergenza da fronteggiare quella dell’introduzione dell’obbligo di istruzione. Soprattutto vanno richiamate le ragioni di merito: le sperimentazioni dei per- corsi triennali tutti nella formazione professionale si sono dimostrate valide, per cui dovrebbero quanto prima passare a regime nel nostro sistema educativo. Se si vuole ovviare alla situazione disastrosa della dispersione e dell’insuccesso che ho illustrato nella seconda sezione di questo capitolo, credo che la strategia appena ri- cordata costituisca una strada obbligata. In secondo luogo, nel confronto tra obbligo di istruzione e diritto-dovere di istruzione e di formazione, ritengo che vada preferita senz’altro la seconda impo- stazione. E la giustificazione più sintetica ed efficace di questa affermazione la si può trovare nelle seguenti parole di Romei: “L’obbligo presuppone una concezione di cittadini come sudditi o comunque come soggetti non del tutto in grado di com- prendere l’importanza del proprio sviluppo personale e sociale, che uno Stato bene- vole e lungimirante e sollecito degli interessi loro e dell’intera società costringe ad istruirsi anche contro il loro stesso disinteresse se non addirittura renitenza. L’iscri- zione obbligatoria dà infatti luogo ogni anno a vere e proprie leve di coscritti, co- stretti a fruire di un servizio formativo a prescindere dalla propria volontà e da quella dei loro genitori o tutori legali. Il diritto (soggettivo)-dovere (sociale) […] fa invece affidamento sulla consa- pevolezza di sé dei cittadini, e sulla loro capacità di assumere in prima persona il compito della propria formazione. Sollecita ogni membro della società a rendersi conto che l’appartenenza ad essa da un lato gli conferisce il diritto di vedersi met- tere a disposizione, quindi di poterne fruire, un’adeguata offerta di istruzione e for- mazione, di acquisire i ‘livelli culturali … le capacità e le competenze… cono- scenze e abilità, generali e specifiche’ […] che gli consentano di inserirsi da prota- gonista nella vita attiva; dall’altro lato, la stessa appartenenza comporta il dovere di istruirsi e formarsi e di contribuire, di conseguenza, alla convivenza civile e allo sviluppo sociale complessivo” (Romei, 2005, 20-21). 29 30 Parte II L’INDAGINE SUL CAMPO NEL QUADRO DELLA SPERIMENTAZIONE DEL DIRITTO-DOVERE 31 Capitolo 2 I percorsi triennali del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP. Un quadro sintetico delle attività formative pregresse (2000-05) Vittorio PIERONI I Centri coinvolti nel rilevamento dell’attività dei corsi del diritto-dovere rea- lizzati nella regione Lazio sono complessivamente 8, suddivisi tra quelli apparte- nenti al CNOS-FAP (Roma-Gerini, Roma-Borgo Ragazzi Don Bosco, Roma-Pio XI) e quelli del CIOFS/FP (Roma-Togliatti, Roma-Ginori, Roma-Morrone, Ladi- spoli, Colleferro). 1. I CENTRI DEL CNOS-FAP DEL LAZIO Il CNOS-FAP della Regione Lazio ha presentato relazioni separate per cia- scuno dei tre CFP appena citati. Pertanto, nel riportate i relativi dati si seguirà lo schema da loro adottato. 1.1. Relazione del CFP “T. Gerini” Il documento presenta due serie di dati: una riguarda il numero dei corsi ed i relativi flussi degli allievi, mentre l’altra rileva il relativo gradimento. 1.1.1. Numero dei corsi e degli allievi Duranti gli anni 2002-03, 2003-04 e 2004-05, il CFP ha offerto in totale 20 corsi, distribuiti su due comunità professionali, 9 nel comparto meccanico e 11 nell’elet- trico, mentre gli iscritti nell’arco dei 3 anni assommano complessivamente a 659. Passando ad analizzare in dettaglio corsi e flussi degli allievi, emerge il se- guente andamento: – nel I anno (2002-03) è stato offerto 1 solo corso, a cui si sono iscritti in 12, nessuno si è ritirato e alla fine del corso gli allievi sono risultati tutti idonei (100%); – nel II anno (2003-04) i corsi sperimentali sono diventati 11 e la somma di tutti gli iscritti è arrivata a 252; di essi 34 si sono ritirati in itinere (di cui 2 per tra- sferimento ad altro corso/Istituto) e a fine corso 25 non sono risultati idonei, per cui il tasso di idoneità è stato del 76.6% (=193); 33 – nel III anno (2004-05) sono stati realizzati 8 corsi sperimentali e il totale degli allievi ha raggiunto quota 395; di essi 50 si sono ritirati in itinere (di cui 6 per trasferimento ad altro corso/Istituto) e a fine corso 40 non sono risultati idonei, per cui il tasso di idoneità è risultato del 77.2% (=305); tra essi soltanto 12 non hanno conseguito la qualifica triennale. 1.1.2. Il gradimento degli allievi Alla fine di ciascun anno è stata applicata agli allievi risultati idonei una scheda mirata a valutare 6 aree e gli aspetti che le compongono. I risultati della somministrazione hanno messo in evidenza che: – le valutazioni si caratterizzano in generale per la tendenza a crescere dal “suffi- ciente” del I anno verso il valore di “alto” gradimento nei corsi successivi; più precisamente, nell’insieme del triennio i dati presentano un andamento simile alla curva di Gauss, nel senso che partendo da un livello più che “sufficiente” del I anno, si inarcano nel II, per poi assestarsi nel III più o meno su livelli in- termedi; – in aggiunta, alcuni aspetti fanno riscontrare un livello di soddisfazione che si colloca tra “alto” e “molto alto” e riguardano in particolare: nel I anno, gli ap- prendimenti tecnico-professionali (M=4.25); nel II, il giudizio sui formatori (M=4.20), l’organizzazione dei tempi (M=4.17) e degli spazi (M=4.09) e lo stage (M=4.17); nel III, ancora lo stage che ha fatto registrare il maggiore ap- prezzamento (M=4.25). A seguito di questi risultati positivi, la direzione del CFP Gerini ha ritenuto che lo svolgimento dei corsi sperimentali potesse contribuire in modo significativo a migliorare le prestazioni degli allievi e a promuovere la corresponsabilità delle fa- miglie per cui ha deciso di finanziare un programma di attività di particolare rile- vanza educativa, che ha affidate al coordinamento del servizio d’orientamento, quali in specie: – ormai da quattro anni, una volta alla settimana è previsto un intervento di tre psicologi in convenzione siglata con il CEIS (Centro Italiano di Solidarietà di don Picchi) per la prevenzione della droga e per la riduzione dei rischi, inter- vento che è rivolto sia ai ragazzi singolarmente o in gruppi sia alle famiglie; – due volte alla settimana viene offerto, tramite due psicologhe, un servizio di psicoterapia familiare gratuito che consiste in colloqui e altre attività finaliz- zate a superare situazioni di difficoltà; – ancora due volte alla settimana è assicurata la presenza di una psicologa che segue gli allievi con problemi; – si sta sperimentando da quattro anni il portfolio delle competenze in tutte le classi (al momento tale iniziativa ha raggiunto più di 700 allievi) con due mo- delli diversi a secondo degli anni. 34 1.2. Relazione del CFP “Borgo Ragazzi Don Bosco” Nel CFP “Borgo Ragazzi Don Bosco” la sperimentazione è stata impostata su un arco di 2 anni, 2003-04 e 2004-05, e il monitoraggio ha riguardato soprattutto la soddisfazione dei formatori e degli allievi. 1.2.1. Il gradimento dei formatori La griglia è stata applicata ai docenti che al termine di ciascun anno hanno par- tecipato al collegio dei formatori: più precisamente, nel 2003-04 hanno risposto in 15 su 20 e nel 2004-05 in 10 su 20. I risultati dei due anni sono stati messi a confronto in ciascuna area della gri- glia di valutazione e il paragone ha evidenziato il seguente andamento: – per quanto riguarda il servizio formativo, nel 2003-04 il gradimento si è situato mediamente sull’“abbastanza”, mentre nel 2004-05 la valutazione si è collo- cata tra “poco” e “abbastanza”; – in riferimento agli apprendimenti, giudizi “abbastanza” positivi sono stati espressi tanto nel 2003-04 che nel 2004-05; – anche in merito al personale formativo la valutazione si è posizionata sul li- vello dell’“abbastanza” in entrambi gli anni; – la congruenza del progetto formativo con gli obiettivi prefissati è stata consi- derata nel 2003-04 appena “sufficiente”, mentre nel 2004-05 è risultata “abba- stanza piena”; – il giudizio sull’organizzazione dei corsi si è collocato globalmente sul “poco” durante il 2003-04, ma si è elevato fino all’“abbastanza” nel 2004-05; – infine, per quanto riguarda la valutazione complessiva del corso, i formatori si sono dichiarati “abbastanza” soddisfatti nel 2003-04 e il gradimento è cre- sciuto nel 2004-05 in quanto si è posizionato tra “abbastanza” e “molto”. 1.2.2. Il gradimento degli allievi Al termine di ciascun anno formativo il relativo questionario è stato sommini- strato a tutti i ragazzi che hanno frequentato la sperimentazione. Nel 2003-04 hanno risposto 134 allievi e, nel 2004-05, 156. Anche in questo caso i risultati dei due anni sono stati paragonati all’interno di ciascuna area della griglia e il confronto ha consentito di riscontrare i seguenti esiti: – globalmente si può dire che i contenuti hanno risposto “abbastanza” alle attese degli allievi sia nel 2003-04 sia nel 2004-05; – anche riguardo alle competenze dei formatori il giudizio è rimasto sull’“abba- stanza” durante i due anni; – la valutazione complessiva dei metodi invece è apparsa appena “sufficiente” sia nel 2003-04 sia nel 2004-05; – nel 2003-04 l’organizzazione del corso è stata ritenuta “poco” pertinente, mentre nel 2004-05 il giudizio è salito al livello dell’“abbastanza”; 35 – gli apprendimenti hanno ottenuto una valutazione decisamente “abbastanza” positiva in entrambi gli anni; – per quanto riguarda il giudizio complessivo, nel 2003-04 gli allievi sono risul- tati globalmente “abbastanza” soddisfatti del corso che hanno frequentato e nel 2004-05 il loro gradimento si è avvicinato al punteggio massimo. In definitiva, nel 2003-04 si è riscontrato un miglioramento generalizzato ri- spetto agli esiti degli anni precedenti, mentre nel 2004-05 si è verificato un salto di qualità nel gradimento degli allievi verso il corso frequentato. 1.3. Relazione del CFP “Pio XI” Il documento ricostruisce l’attività del CFP relativa agli anni 2000-2005 e a partire dal 2003-04 si occupa della realizzazione dei percorsi sperimentali triennali. Da una parte esso presenta i dati dei singoli anni riguardanti il numero dei corsi e la loro tipologia, il numero degli allievi qualificati e quello degli allievi occupati, mentre dall’altra esso riporta i livelli del gradimento dei diretti interessati. 1.3.1. Dati di scenario Nell’anno formativo 2000-01, sono stati offerti 8 corsi tutti nel settore grafico: 3 nel I anno, per un totale di 57 allievi che sono risultati idonei per il passaggio al II anno; 3 nel II anno, con 47 allievi qualificati che successivamente si sono iscritti al III anno di specializzazione; 2 corsi di specializzazione con 43 allievi che, arri- vati al termine, hanno trovato in 41 un’occupazione. Nel 2001-02, il numero e la tipologia dei corsi sono rimasti inalterati, mentre è cambiato ovviamente il numero degli allievi. Di essi 49 sono risultati idonei nel I anno, tutti si sono qualificati nel II e poi si sono iscritti nell’annualità al III anno di specializzazione; al termine del III anno i qualificati sono stati 40 e hanno trovato tutti un lavoro eccetto uno. Nel 2002-03, il numero degli iscritti non è cambiato (49) e così pure la tipo- logia dei corsi. Al tempo stesso è aumentato lievemente il numero degli idonei al passaggio al II anno (54), mentre resta pressappoco eguale il numero dei qualificati che si iscrivono al III anno (48), come pure il numero di quanti hanno portato a ter- mine la specializzazione (39). Al contrario, è diminuito sensibilmente il numero di coloro che hanno trovato lavoro (24); quest’ultimo dato si spiega per il fatto che al- cuni degli allievi hanno proseguito gli studi presso l’Istituto Professionale di Stato con l’inserimento al terzo e/o al quarto anno mediante il superamento dell’esame integrativo. Inoltre nel 2002-03 è da tenere presente l’inizio di un percorso forma- tivo sperimentale con 12 allievi. Nel 2003-04, viene avviato il sistema misto. Nel I anno il percorso sperimen- tale triennale parte con 3 corsi, 2 di specialistica in prestampa (con un totale di 34 allievi che sono risultati idonei al passaggio al II anno) e 1 di specialistica in 36 stampa offset (con 14 allievi idonei al II anno). Contemporaneamente continua il II anno impostato sul sistema precedente, con 4 corsi di cui 1 sperimentale, per un to- tale di 63 allievi qualificati che successivamente si sono iscritti al III anno di spe- cializzazione. Infine si registrano ancora 2 corsi di specializzazione per un totale di 42 allievi i quali hanno trovato quasi tutti lavoro, a parte 2. Nel 2004-05, la situazione si presenta ancora più articolata. Per quanto ri- guarda i percorsi triennali, il numero degli allievi che sono risultati idonei al pas- saggio al III anno è esattamente lo stesso dell’anno precedente (ossia 34 per i 2 corsi di specialistica in prestampa e 14 per quelli di specialistica in stampa offset). Nel contempo è stato avviato il I anno di una nuova sperimentazione triennale, an- cora con 2 percorsi, uno di specialistica in prestampa (per un totale di 38 allievi che sono tutti risultati idonei al passaggio al II anno) e uno di specialistica in stampa offset (per 20 allievi). Inoltre è continuato il III anno di specializzazione in 3 per- corsi (di cui uno sperimentale), per un totale di 57 allievi che hanno portato a ter- mine il corso; di essi 40 hanno conseguito anche il diploma di qualifica presso un Istituto Professionale di Stato. 1.3.2. Il gradimento degli allievi Al termine dell’anno 2004-05, un questionario volto ad indagare i diversi aspetti del servizio offerto è stato somministrato a 110 allievi scelti su base campio- naria tra i primi, i secondi e i terzi corsi. I risultati sono stati analizzati in riferi- mento ai principali ambiti presi in considerazione nello strumento di indagine ed inoltre si è cercato di fornire una lettura delle risposte che potesse essere utilizzata nell’attività formativa futura con l’obiettivo di consolidare eventuali punti di forza e di superare le debolezze che si fossero manifestate. I risultati principali possono essere sintetizzati nei seguenti punti: – in tema di accoglienza il 70% ha risposto di sentirsi accettato con “familiarità ed entusiasmo”; – oltre l’80% si è trovato bene con quasi tutti i compagni e un altro 70% con quasi tutti gli insegnanti per cui il clima familiare è risultato molto positivo; – il metodo di studio è stato analizzato attraverso 6 domande ed è emerso che nello svolgere un’attività formativa gli alunni si sono divisi in parti uguali (attorno il 30%) tra chi ha preferito lavorare da solo, chi con un compagno e chi a piccoli gruppi, mentre pochi hanno chiesto di lavorare con il sostegno dell’insegnante; – l’area delle motivazioni personali era concentrata sul successo o meno nelle materie di studio e va sottolineato che le discipline che hanno riportato le più alte segnalazioni di riuscita riguardano l’informatica, la progettazione e quelle proprie del settore di qualifica; – nei rapporti con i formatori, ciò che gli allievi hanno temuto di più è di essere presi di mira dai docenti a causa di preferenze o di antipatie personali; – l’area delle predisposizioni personali è stata analizzata attraverso una serie di 37 domande diversificate. In particolare, circa un terzo ha ammesso di non aver mai sperimentato lo scoraggiamento e il 20% circa lo ha attribuito all’incom- prensione da parte dell’insegnante. 2. I CENTRI DEL CIOFS/FP LAZIO Il CIOFS/FP ha optato per una relazione di sintesi sulla sperimentazione dei nuovi modelli di percorsi formativi del diritto-dovere che è stata realizzata nei 5 Centri della Regione (Roma-Togliatti, Roma-Ginori, Roma-Morrone, Ladispoli, Colleferro). Di seguito, si riporta la relazione inviata dal CIOFS/FP. Fin dal 1999-2000 il CIOFS/FP della Regione Lazio ha fattivamente parteci- pato a tutte le iniziative avviate in questo ambito a livello prima regionale ed, in se- guito, provinciale. Si è iniziato con la sperimentazione in materia d’innalzamento dell’obbligo formativo, prendendo avvio da quanto sancito dall’articolo 68 della legge 144/99. Seguendo un modello unitario e articolato di lavoro, si è adottato il seguente im- pianto strutturale: corsi di durata triennale, distribuiti su due anni di base più uno di specializzazione. Il 2002-03 ha visto l’introduzione dei percorsi biennali in alternanza tra forma- zione e lavoro; al termine dell’intero iter la professionalità conseguita veniva certi- ficata con attestato di qualifica regionale. In contemporanea si dava avvio a sei corsi triennali per la sperimentazione dell’assolvimento dell’obbligo scolastico. A seguito dell’abrogazione della legge 9/99 sull’innalzamento dell’obbligo di istruzione, nel 2003-04 si è passati ai “percorsi triennali integrati per l’assolvi- mento dell’obbligo formativo”. La relativa offerta si sviluppava per un totale di 3600 ore comprensive delle attività, riconducibili a 9 macroaree: – accoglienza/orientamento/accompagnamento; – competenze di base; – competenze professionali; – tirocinio orientativo/formativo; – valutazione/validazione/certificazione; – recupero/sostegno/raccordo; – educazione fisica; – competenze trasversali. Come nell’anno precedente, il 2004-05 assisteva all’espansione di “percorsi triennali integrati per l’assolvimento dell’obbligo formativo” e nel frattempo si pro- cedeva a una nuova modifica dell’impianto dell’alternanza-lavoro. Come risulta dalle informazioni fin qui esposte, durante il settennio appena 38 evocato si è vissuta una serie interminabile di passaggi e di modifiche che hanno visto il sovrapporsi di più modelli nelle medesime annualità. Lo sforzo è stato quello di adottare un modello unico che, grazie alle sperimentazioni e alla crescita continua perseguita dall’Associazione in materia di nuove didattiche e tecnologie, di una aderenza sempre maggiore alla proposta educativa, grazie, anche, a buone prassi ormai consolidate si potesse contribuire alla realizzazione di un sistema. Per una migliore comprensione degli aspetti intrinseci di questo cammino, viene richiamata una serie di dati statistici, ordinati per anno formativo, relativi ai 6 Centri CIOFS/FP: Ginori, Marghera, Morrone, Togliatti, Colleferro, Ladispoli, Ostia. Le informazioni toccano i seguenti aspetti: offerta formativa, successo, sod- disfazione degli alunni e valutazione delle risorse umane. Nel 2000-01, quando sono stati effettuati soltanto i corsi dell’obbligo forma- tivo, l’offerta formativa ha corrisposto in maniera piena alla domanda. La percen- tuale di successo è risultata in crescita rispetto alle verifiche precedenti mentre è in diminuizione la percentuale di dispersione in dipendenza dei ritiri. La valutazione delle risorse umane - formatori risulta alta. Nonostante il generale calo dell’utenza e le incertezze derivanti dai ritardi sul piano normativo della riforma della scuola, il 2001-02 ha registrato un livello sod- disfacente di domanda. L’offerta formativa ha corrisposto al 94% della domanda espressa da territorio laddove la percentuale indica la quantità di domanda che si è potuta soddisfare in corrispondenza delle possibilità offerte dal Piano Regionale. La percentuale del successo è risultata in leggera crescita, dato che nelle verifiche si è preso in considerazione un più lungo tempo di attesa per entrare nel mercato del lavoro e si è tenuto conto anche della possibilità di rientro nel sistema scola- stico, i relativi test sul gradimento-cliente sono stati applicati anche a sei mesi di distanza e hanno registrato buone percentuali di ricaduta. La valutazione delle ri- sorse umane è stata positiva. Nel 2002-03, l’offerta formativa ha corrisposto al 90.6% alla domanda sempre in riferimento alle possibilità offerta dal Piano Regionale; nel contempo si è regi- strato un elevato livello di gradimento da parte dell’utenza. La percentuale di suc- cesso ha continuato ad essere molto alta (97.2%), e i ritiri in calo rispetto al ri- esame precedente. Gli obiettivi relativi all’apprendimento risultano raggiunti e così pure appaiono sempre elevati i livelli di gradimento sulle risorse umane. Nel 2003-04 la percentuale di successo si è mantenuta alta (97%) e contempo- raneamente il tasso dei ritiri è risultato in leggero calo rispetto all’anno precedente. Gli obiettivi relativi all’apprendimento sono stati tutti completamente raggiunti e si rivelano sempre alti i livelli di gradimento sulle risorse umane e sui fornitori. Nel 2004-05 è cresciuta la domanda di formazione rispetto al precedente anno formativo e la percentuale di successo è arrivata al 100%. Gli obiettivi relativi al- l’apprendimento risultano tutti pienamente conseguiti, in corrispondenza con quanto è stato programmato. 39 Capitolo 3 L’indagine sul campo Vittorio PIERONI Dopo avere descritto sinteticamente le attività relative al diritto-dovere fino al 2005, il presente capitolo analizza e commenta i dati riguardanti l’anno formativo 2005-06, dati che emergono dall’applicazione delle sette schede utilizzate per il monitoraggio. A questo proposito va osservato che una parte degli strumenti di rile- vazione si caratterizza per la natura prettamente descrittiva dei percorsi, mentre l’altra mira a valutare la qualità della formazione offerta. Di conseguenza nel capi- tolo in questione si terrà conto proprio di questa distinzione, presentando nella prima sezione i dati relativi al numero degli iscritti e dei formatori, alle tipologie formative e al relativo monte-ore, agli spazi e agli strumenti messi a disposizione, mentre la seconda analizzerà le valutazioni ed il gradimento dei differenti attori (al- lievi, genitori, coordinatori dei percorsi, formatori) nei confronti delle principali azioni formative. 1. CARATTERISTICHE DEI CENTRI, DEGLI ALLIEVI, DEI FORMATORI E DELL’OFFERTA FORMATIVA Sulla base delle schede che sono state utilizzate per raccogliere soprattutto dati quantitativi, si cercherà anzitutto di descrivere le caratteristiche generali dei CFP coinvolti nella ricerca-azione. Successivamente l’attenzione viene concentrata sugli allievi che frequentano la formazione professionale iniziale, sui loro formatori e sui genitori e sui rapporti con le forze sociali del territorio. In un terzo momento l’ana- lisi è stata focalizzata sulla qualità dell’offerta formativa e sulle modalità di valuta- zione. 1.1. I Centri e l’offerta formativa Come anticipato, i CFP che nel Lazio hanno compilato la scheda n. 1 del moni- toraggio sui percorsi sperimentali triennali sono complessivamente 7: 5 del CIOFS/FP e 2 del CNOS-FAP. Tenendo conto dei dati riportati nella griglia, essi pre- sentano le caratteristiche che cercherò di evidenziare nel prosieguo della disamina. Per quanto riguarda i settori operativi, i Centri del CIOFS/FP si collocano per lo più nel terziario (lavori di ufficio, segreteria, informatica, turismo, lingue, com- 41 mercio, artigianato, servizi alle persone, ambiente servizi socio-educativi…), mentre quelli del CNOS-FAP si situano per lo più nel secondario (grafica, mecca- nica, elettro/elettronica, informatica). Le funzioni attivate nei CFP possono essere ripartite tra: a) quelle presenti solo in 1 o 2 Centri o in 5 Centri (in pratica solo del CIOFS/FP): - autoproduzione di strumenti per l’apprendimento; - sviluppo o innovazione del servizio; b) quelle riscontrabili in almeno una metà dei Centri: - progettazione di azioni formative; - valutazione del potenziale delle persone; - definizione delle strategie del servizio; - promozione e marketing del servizio; c) e quelle che si trovano in tutti i Centri: - diagnosi dei bisogni e della domanda individuale di formazione; - analisi della domanda di formazione; - facilitazione all’apprendimento individuale e di gruppo; - counseling/tutoring all’inserimento lavorativo; - valutazione e monitoraggio delle azioni formative; - valutazione dei requisiti di qualità del servizio verso clienti/utenti; - gestione del sistema qualità; - gestione delle relazioni esterne con le imprese, gli organismi e gli attori locali; - formazione del personale. Dai dati emerge che lo staff di direzione è stato costituito quasi dappertutto. Di fatto, si riscontra una sola eccezione e riguarda un Centro. Per poter determinare l’entità dell’offerta formativa nel suo complesso, sempre la scheda n. 1 richiedeva di indicare (relativamente all’ultimo anno formativo, 2005-06) il numero complessivo degli allievi e dei formatori coinvolti nelle attività, ed inoltre quello delle ore formative erogate e delle strutture messe a disposizione. Gli allievi che hanno potuto usufruire dell’offerta formativa complessiva dei 7 CFP, assommano in totale a 4.273: di essi il 55.7% (2.378) appartiene al CIOFS/FP e il 44.3% (1.895) al CNOS-FAP (cfr. Tav. 1). La loro distribuzione in base alle differenti azioni formative e agli Enti di ap- partenenza presenta il seguente andamento. a) Per quanto riguarda le tipologie di percorsi: - 1.491 hanno partecipato alla formazione iniziale, pari al 34.9% del totale, e si dividono in quantità non molto diverse tra 792 (53.1%) del CIOFS/FP e 699 del CNOS-FAP (46.9%); - altri 561 frequentano la formazione continua, quasi tutti del CNOS-FAP (542); 42 - mentre della formazione superiore, speciale e per progetti integrati hanno usufruito quote assai più limitate di allievi, rispettivamente: 55 (1.3% - solo CIOFS/FP), 29 (0.7% - solo CIOFS/FP) e 14 (0.3% - solo CNOS-FAP); - infine l’attività formativa è stata rivolta anche a 196 soggetti che fanno parte del personale dei Centri, di cui 125 (6.6%) del CNOS-FAP e 71 (3%) del CIOFS/FP. b) Per quanto riguarda invece le tipologie di servizi: - la quota maggioritaria va all’orientamento, che è rivolto a 1.620 allievi (il 37.9% del totale delle azioni formative), in buona parte del CIOFS/FP (1.190=50%, contro 430=22.7% del CNOS-FAP); - mentre la porzione minoritaria ha usufruito di altri servizi formativi (rivolti complessivamente a 136=3.2% soggetti di entrambi gli Enti) e 171=4% di attività varie che sono state segnalate unicamente nel CIOFS/FP. 43 Tav. 1: Allievi iscritti nei CFP (2005-06; per tipologia di azioni formative) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze Prima di terminare l’argomento, va osservato che la formazione superiore e “altri” tipi di formazione non specificati nella scheda sono stati impartiti unica- mente dal CIOFS/FP, mentre la formazione speciale e per progetti integrati è stata offerta solo dal CNOS-FAP. Per erogare le diverse tipologie di azioni formative analizzate sopra, nell’anno 2005-06, sono state impiegate complessivamente 83.007 ore, di cui 43.070 (51.9%) nel CIOFS/FP e 39.937 (48.1%) nel CNOS-FAP (cfr. Tav. 2). Il quadro comples- sivo è il seguente: a) Per quanto riguarda le tipologie di percorsi di formazione: - quella iniziale ha occupato da sola il 41.5% del totale delle ore (71.200), a loro volta suddivise tra le 37.400 del CNOS-FAP (e che corrispondono al 93.6% delle ore erogate dai CFP dell’Ente) e le rimanenti 33.800 del CIOFS/FP (pari al 78.5% del monte-ore complessivo svolto dai 5 Centri delle Figlie di Maria Ausiliatrice); - entrambi gli Enti offrono anche la formazione continua (1.110=1.3%), rea- lizzata per lo più dal CNOS-FAP (960=2.4% ore contro le 150=0.3% del CIOFS/FP), e quella destinata ai formatori (508=0.6%), svolta principal- mente dal CIOFS/FP (350=0.8% contro 158=0.4% del CNOS-FAP); - coerentemente a quanto già emerso nella tavola precedente, alcune tipologie di formazione sono state erogate soltanto da uno dei due Enti: la formazione superiore con 1.800 ore (2.2%) si è svolta unicamente nei CFP del CIOFS/FP; invece la formazione speciale (1.000 ore, 1.2% del totale) e quella per progetti integrati (220 ore, lo 0.3%) sono state effettuate solo dal CNOS-FAP; b) Per quanto riguarda invece le tipologie di servizi: - l’orientamento ha assorbito il 5.9% del monte-ore complessivo, con 4.978 ore, quasi tutte svolte nei CFP del CIOFS/FP (4.770=11.1%); - infine 541 ore (0.7%) sono state impiegate per svolgere servizi formativi, di cui una maggioranza ancora nel CIOFS/FP (450=1% contro 91=0.2% ore del CNOS-FAP). Per realizzare l’insieme delle azioni formative offerte dai Centri sono state im- piegate complessivamente 277 figure professionali, di cui 146 del CIOFS/FP (52.7%) e 131 (47.3%) del CNOS-FAP, e che sono così ripartite in base ai ruoli (cfr. Tav. 3): – la quota maggioritaria è composta ovviamente da coloro che svolgono unica- mente attività formative, ossia dai docenti/formatori (172=62.1%, 97=66.4% del CIOFS/FP e 75=57.3% del CNOS-FAP); ad essi si aggiungono, con una media di due o tre figure per Centro, i tutor (28=10.1%: 18=12.3% del CIOFS/FP e 10=7.6% del CNOS-FAP) e i coordinatori/progettisti (18=6.5%: 11=8.4% del CNOS-FAP e 7=4.8% del CIOFS/FP); – mentre la quota residua è assorbita da figure che si occupano esclusivamente o principalmente della gestione dei Centri, ossia i direttori (naturalmente uno per Centro), gli amministrativi (17=6.1%: 11=8.4% al CNOS-FAP e 6=4.1% al CIOFS(FP), gli ausiliari (9=3.2%: 6=4.6% e 3=2.1% rispettivamente) ed altro personale ancora (26=9.4%), di cui non è stato precisato il ruolo svolto. 44 45 Tav. 2: Ore formative erogate (2005-06; per tipologia di azioni formative) (in Fq. e %) Tav. 3: Personale impiegato (2005-06; per figure professionali) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze Legenda: Fq.=Frequenze A completamento dello scenario vengono infine i dati relativi alle strutture che è stato necessario utilizzare per lo svolgimento delle e attività corsuali. Esse assom- mano complessivamente a 155, di cui 92 del CNOS-FAP (59.3%) e 63 del CIOFS/FP (40.7%), e così distribuite in base alle diverse tipologie (cfr. Tav. 4): – le quote maggioritarie sono assorbite ovviamente dalle due strutture su cui poggia principalmente l’attività formativa dei Centri, ossia le aule (60=38.7%: 34=37% del CNOS-FAP e 26=41.3% del CIOFS/FP) ed i laboratori (47=30.3%: 26=28.3% e 21=33.3%, rispettivamente); – vengono quindi segnalate anche 9=5.8% palestre e/o impianti sportivi, 4=2.6% centri didattici e 5=3.2% biblioteche o sale di lettura (tutte nel CIOFS/FP), più altre 30=19.4, che anche in questo caso non sono state precisate e che sono per la maggior parte presenti nel CNOS-FAP. 46 1.2. Caratteristiche degli allievi Dei 4.273 allievi che nell’anno formativo 2005-06 hanno usufruito delle di- verse azioni formative elencate nella sezione precedente, quelli iscritti ai percorsi sperimentali triennali assommano a 1.3421, pari a circa un terzo dell’utenza com- plessiva (31.4%). Di essi 778 (58%) frequentano i CFP del CIOFS/FP e 564 (48%) del CNOS-FAP; al loro interno i maschi sono una maggioranza (925=69%) e al loro interno una quota non indifferente è presente anche nei Centri del CIOFS/FP (372=40.2%). In pratica si conosce la provenienza di 990 allievi sui 1.342 iscritti ai percorsi sperimentali triennali. Dalla Tav. 5 risulta che: Tav. 4: Strutture utilizzate dai CFP (2005-06; per tipologia) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze 1 La diversità di numeri con il punto 1.1. dipende dalla provenienza dei dati da domande e gri- glie diverse. 47 – la maggioranza (539=54.4%) proviene direttamente dalla scuola media infe- riore seguendo, si suppone, un lineare percorso ascendente; di essi 328 (59.9%) frequentano i Centri del CNOS-FAP e 211 (47.7%) quelli del CIOFS/FP; – mentre una quota niente affatto indifferente (370=37.4%) ha scelto questa tipo- logia di percorso formativo dopo aver subito insuccessi nelle scuole superiori o comunque a causa di ostacoli e difficoltà varie che hanno scoraggiato il pro- seguimento in tali studi; di essi 205 (37.4%) si trovano tra le fila degli allievi del CNOS-FAP e 165 (37.3%) del CIOFS/FP; – le altre provenienze presentano quote piuttosto ridotte: quella più consistente riguarda il passaggio da gruppi/associazioni (63 – tutti del CIOFS/FP), mentre alcuni sono stati inviati anche dai centri per l’impiego (4), dai servizi socio-as- sistenziali (3) e da altri Enti ancora (11). Tav. 5: Provenienza degli allievi dei percorsi triennali (2005-06) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze Circa uno su quattro degli allievi dei percorsi sperimentali (235=23.7% del to- tale) presenta particolari caratteristiche e la maggioranza (178=75.8%) è iscritto ai CFP del CIOFS/FP, mentre solo un quarto circa (57=24.2%) frequenta il CNOS- FAP: – la quota maggioritaria è composta da extracomunitari (157=66.8%), di cui 110=61.8% del CIOFS/FP e 47=82.5% del CNOS-FAP); – 28 (11.9%) sono soggetti diversamente abili, presenti tutti nel CIOFS/FP; – la stessa porzione riguarda i soggetti segnalati come portatori di disagi di varia entità, divisi tra 18 del CIOFS/FP e 10 del CNOS-FAP; – mentre non sono state evidenziate le caratteristiche di altri 22 (9.4%). Ai 1.342 iscritti iniziali, durante l’anno si sono aggiunti altri 27, di cui 22 dalla scuola, 2 dalla FP e 3 direttamente dalla famiglia. Nel contempo si sono ritirati 122, in più i due terzi dei casi maschi (84), e ripartiti tra 55 del CNOS-FAP e 67 del CIOFS/FP; tale abbandono è da attribuire sia al proseguimento degli studi presso altre scuole (23) o CFP (7), sia all’aver trovato nel frattempo un lavoro (28), sia ad altre ragioni (20); invece, 35 non hanno fatto nessuna di queste scelte, cioè si sono ritirati per inattività. Alla fine dell’anno sono arrivati in 1.106, di cui 594 (53.7%) del CIOFS/FP e 512 del CNOS-FAP (46.3%). Tuttavia, conosciamo l’esito finale soltanto di 435 al- lievi, tutti del CNOS-FAP: 199 sono risultati “positivi” e ad essi si aggiungono altri 65 giudicati “eccellenti”; la quota residua è composta da 125 giudicati “carenti”, mentre altri 45 sono stati valutati “insufficienti”. 1.3. Caratteristiche dei formatori Stando alle risposte della scheda n. 6, i formatori coinvolti nella sperimenta- zione del Lazio assommano complessivamente a 155. In base agli Enti di apparte- nenza essi sono distribuiti tra 77 (49.7%) dei 3 Centri del CNOS-FAP (di cui 50 del Gerini) e 78 (50.3%) dei 5 CFP del CIOFS/FP (cfr. Tav. 6). Quest’ultimo è anche l’unico dato di cui disponiamo sulla diversa appartenenza dei formatori ai due Enti, mentre i risultati delle altre domande anagrafiche sono stati elaborati unitariamente, per cui le informazioni riguardano il totale dei 155 formatori: – nella distribuzione per la variabile di genere, i maschi sono in rapporto di due terzi a un terzo sulle femmine (61.3 e 37.4%, rispettivamente); – l’età si presenta abbastanza ben proporzionata nelle tre fasce in cui è stata sud- divisa: fino a 35 anni il 29.7%; tra 36 e 45, il 27.1%; oltre i 46 anni, il 33.5%; la media si aggira attorno ai 46 anni; – il titolo di studio vede una suddivisione di massima tra laureati (43%) e non; di questi ultimi il 46% è in possesso di un diploma ed il 6.7% di una qualifica professionale; – appena uno su quattro (24.5%) dei formatori dichiara di essere iscritto ad un albo professionale; – l’85.8% svolge il ruolo di formatore; seguono in graduatoria i tutor (15.5%), i coordinatori (6.5%), gli orientatori (3.9%), i docenti di sostegno (0.6%) e altre figure ancora (2.6%); considerando che l’insieme supera il 100%, se ne deduce che alcuni svolgono contemporaneamente più incarichi; – anche gli anni di insegnamento si presentano abbastanza proporzionati nelle tre fasce in cui sono stati suddivisi: il 38.1% insegna da meno di 5 anni; il 30.3% tra 5 e 15; il 25.8% da più di 15; la media si colloca attorno ai 10 anni; – prima del presente incarico la metà circa (48.4%) svolgeva attività coerenti con quella attuale, anche se solo uno su cinque (19.4%) ha dichiarato espres- samente di fare già il formatore; la quota residua si suddivide tra chi proviene direttamente dagli studi (31%) e chi svolgeva attività non congruenti con quella attuale (27.1%); 48 – le motivazioni della scelta di insegnare nei percorsi sperimentali si suddivi- dono in parti simili tra l’interesse specifico verso la formazione professionale (45.8%) e le opportunità di lavoro che essa offre (43.2%). Tav. 6: Distribuzione dei formatori in base ai Centri e agli Enti di appartenenza (2005-06) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze 1.4. Forme di collaborazione con gli allievi, le famiglie, le imprese ed il terri- torio Il rapporto tra il CFP e la famiglia viene considerato dai progetti formativi dei due Enti un elemento determinante per l’attività educativa ed è stato realizzato po- nendo in essere le seguenti iniziative: – nella fase di accoglienza, la famiglia incontra uno o più responsabili del corso (il direttore, il coordinatore, il tutor…) e durante i colloqui (individuali e/o di gruppo) essa viene messa a conoscenza delle principali caratteristiche del corso e al tempo stesso può esprimere le proprie aspettative; – durante l’anno formativo, poi, il collegamento con le famiglie e la partecipa- zione dei genitori alla vita del Centro avvengono attraverso numerose inizia- tive come: colloqui individuali e di gruppo (per comunicare l’andamento del figlio, per consegnare le schede di valutazione, per applicare questionari di gradimento…), riunioni con i rappresentanti dei genitori, invio di circolari in- formative, telefonate, partecipazione a feste della comunità educativa, o a ri- correnze salesiane, supporto psicologico, momenti veri e propri di formazione (scuola per genitori…). La collaborazione tra il CFP e gli allievi viene formalizzata anzitutto attra- verso la sottoscrizione del patto d’aula e/o del contratto formativo. In itinere poi si 49 50 concretizza mediante numerose iniziative: esperienze formative (ritiri, partecipa- zione a incontri a scopo formativo e religioso…), proposte di partecipazione ad at- tività extracurricolari (sportive, musicali, espressive…), consultazioni e richiesta di pareri e suggerimenti in occasione di particolari azioni ed eventi, questionari di gradimento, strutturazione di percorsi personalizzati, confronto e collaborazione con il tutor d’aula per la condivisione di iniziative e di problematiche individuali e di classe, partecipazione a vari organi collegiali. Anche il rapporto tra il CFP e le imprese non si limita solo allo stage, ma le aziende vengono coinvolte nell’attività del Centro mediante iniziative varie: pre- sentazione di nuove tecnologie, donazione di materiali e macchinari, formazione continua del personale (corsi di aggiornamento…), assunzione di ex-allievi, visite guidate e/o tirocini orientativi, stipula di protocolli d’intesa, partecipazione a con- vegni e a incontri territoriali, consulenze e proposte per migliorare il servizio, pro- gettazione di nuovi corsi e/o di nuove figure professionali, per arrivare in alcuni casi fino ad una vera e propria forma di partnership per il cofinanziamento di atti- vità formative e anche allo scambio di personale qualificato. 1.5. Le strategie della qualità formativa Tra gli strumenti per la progettazione formativa che i Centri hanno utilizzato nei percorsi triennali, sono stati menzionati: il regolamento interno del CFP, la pro- posta formativa, la carta dei valori, il sistema preventivo, il contratto formativo, il progetto corsuale generale e individualizzato per casi di disagio, la scheda del com- portamento sociale e di lavoro dell’allievo, il manuale della qualità, le unità forma- tive per percorsi individualizzati, il progetto pastorale, i questionari di gradimento e di valutazione. Per quanto concerne le modalità prevalenti di erogazione formativa, oltre alla formazione d’aula e/o frontale (sempre meno preponderante), troviamo: la didattica attiva, i laboratori, le forme di apprendimento per simulazione d’impresa, la proie- zione di audiovisivi, le iniziative espressivo-culturali (cineforum, teatro, visite cul- turali…), le attività di orientamento e i tirocini orientativi, gli incontri a scopo for- mativo, gli stage e le visite aziendali, i lavori di gruppo, il tutoring, le tecniche di animazione, l’attivazione di percorsi personalizzati finalizzati ai recuperi indivi- duali e di gruppo-classe. Inoltre il processo di insegnamento-apprendimento ha luogo non solo mediante la formazione in presenza, ma anche attraverso quella a distanza e l’autoformazione assistita. Per il riconoscimento dei crediti formativi, tra le procedura previste dall’at- tuale normativa si è fatto ricorso soprattutto alla compilazione in itinere da parte degli allievi di apposite schede al fine di valutare il livello di competenze rag- giunto. Così pure nella più gran parte dei CFP la certificazione ha riguardato l’in- tero organismo nell’insieme delle sue attività formative e orientative. Infine è stato realizzato un raccordo stretto tra l’accreditamento esterno e il si- stema di gestione della qualità. In proposito, va tenuto conto che il primo non 51 viene concesso senza una previa certificazione che si richiama agli aspetti proget- tuali e di erogazione dell’azione formativa presenti in ISO 9001/2000 che è, per- tanto, inteso come strumento per monitorare la qualità del servizio in tutte le atti- vità richieste. 1.6. Il sistema di valutazione Quest’ultima area della scheda n. 1 si compone di una serie di domande mirate a verificare le modalità di valutazione dei risultati conseguiti dalla sperimentazione, i criteri in base ai quali la formazione erogata si intende riuscita e la ricaduta dell’a- zione formativa all’esterno del Centro, nel contesto territoriale d’appartenenza. Nel valutare i risultati dell’apprendimento degli allievi si è fatto ricorso a vari strumenti di rilevamento applicati in più riprese durante il percorso, quali test d’in- gresso, prove di verifica in itinere, schede di osservazione, interrogazioni, colloqui, esami finali. Secondo i coordinatori che hanno compilato la scheda, la formazione erogata si può dire “riuscita” quando risponde ai seguenti criteri: – le schede di gradimento allievi e famiglie riportano alti livelli di soddisfazione per il servizio offerto e per gli obiettivi conseguiti a fronte delle motivazioni iniziali della scelta del percorso da parte degli allievi; – si registra un numero di qualificati pari o superiore ai livelli di Lisbona, a di- mostrazione della capacità di recupero di questi percorsi; – oltre alle competenze di base, trasversali e specialistiche, viene verificata la presenza anche di quelle di crescita/maturazione della personalità integrale; – si registra un’alta percentuale di soggetti che si reinseriscono nel sistema di istruzione e di formazione (recuperando le motivazioni andate perdute) e un elevato tasso di allievi che invece entrano direttamente nel sistema produttivo, mentre nessuno o ben pochi rimangano inattivi al termine del percorso. Per effettuare la verifica e la regolazione della qualità sono stati inseriti nella scheda i seguenti modelli di riferimento (cfr. Tav. 7): – in primo luogo la tabella mette in evidenza che: tutti e 7 i Centri hanno realiz- zato la certificazione ISO 9001/2000; 6 anche l’accreditamento regionale/pro- vinciale, mentre quello associativo è stato realizzato solo in 2; 6 hanno effet- tuato l’autovalutazione del Centro; sono, invece, 5 ad aver realizzato il con- trollo della gestione e il modello didattico-formativo; – scendendo all’interno dei dati disaggregati troviamo che i 2 CFP del CNOS- FAP hanno attuato soltanto tre dei modelli elencati (la certificazione ISO 9001/2000, l’accreditamento regionale/provinciale e l’autovalutazione); mentre nel CIOFS/FP, tutti i Centri hanno adottato i modelli presi in considera- zione nella scheda, avendo il CIOFS/FP adottato una metodologia di certifica- zione della qualità su un sistema di accreditamento interno nazionale. 52 Tav. 7: Modelli di verifica e regolazione della qualità utilizzati nella sperimentazione (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 1=didattico-formativo 2=controllo di gestione 3=autovalutazione del Centro 4=accreditamento associativo 5=accreditamento regionale/provinciale 6=certificazione ISO 9001-2000 Tav. 8: Valutazione delle principali performance dei Centri (2005-06) (in M*) Legenda: M= Media * I valori della media sono compresi tra: 1=minimo; 5=massimo La domanda richiedeva inoltre che ai fini di una maggiore obiettività fossero indicati anche i criteri di riferimento dei giudizi espressi. Sono stati segnalati i se- guenti: – la soddisfazione manifestata dagli allievi nel rispondere al questionario di gra- dimento somministrato al termine dell’attività formativa; – la riduzione della dispersione scolastica; – i risultati della indagine telefonica effettuata periodicamente sugli ex-allievi per verificare l’inserimento occupazionale dopo il conseguimento della quali- fica; – il numero di nuove iscrizioni superiore rispetto all’offerta formativa; Passando a esaminare le principali performance dei Centri si osserva che i più alti apprezzamenti sono andati all’immagine che essi hanno dato di sé (M=4.67), cui fa seguito il giudizio positivo per la capacità che hanno questi corsi di dare oc- cupazione (M=4.00) (cfr. Tav. 8). A loro volta, le valutazioni circa gli apprendi- menti (M=3.67), la maturazione personale degli allievi (M=3.67) e l’impatto socio- economico (M=3.60) si presentano su posizioni abbastanza vicine e tutte su livelli medio-alti. 53 – i contatti costanti con le aziende presenti nel territorio e il loro interesse a par- tecipare all’attività formativa; – l’assunzione da parte delle imprese; – la fiducia espressa dalle famiglie e dai giovani del territorio; – l’interesse delle scuole a collegarsi con la sperimentazione; – il riconoscimento da parte degli Enti locali; – l’adesione alla rete da parte di altre agenzie formative quali scuole, imprese, centri per l’impiego, ASL, amministrazioni locali. La scheda si chiudeva invitando a dare un giudizio complessivo circa l’impatto che ha avuto nel territorio l’azione del Centro. L’esito di questa domanda risulta molto positivo perché i valori sono vicini al massimo (M=4.33; il CNOS-FAP=4.00 e il CIOFS/FP=4.50). Inoltre gli elementi su cui è basato tale giudizio prendono in considerazione: la stipula di protocolli con le aziende, le scuole e altre agenzie ter- ritoriali; i progetti da realizzare in rete; la richiesta di iscrizioni; l’afflusso ai vari servizi erogati (sportello informativo, orientamento…) e, più in generale, la ridu- zione del disagio nel contesto. L’immagine che il Centro proietta sul territorio è stata giudicata molto positiva anche in considerazione della collaborazione con Università e Istituti di ricerca, dei contatti e della cooperazione con Enti locali, del coinvolgimento nell’iniziativa di piccole e medie imprese, delle trasmissioni dei mass media dedicate all’attività del Centro, del buon livello di occupazionalità post-qualifica, degli inviti frequenti a partecipare ad eventi organizzati nel territorio, dell’accompagnamento dei giovani all’inserimento nella vita sociale e attiva. 2. VALUTAZIONE DELLA SPERIMENTAZIONE DA PARTE DEI DIVERSI ATTORI: ALLIEVI, FORMATORI, COORDINATORI E GENITORI Come anticipato nella premessa iniziale, in questa seconda parte vengono prese in considerazione le valutazioni espresse (attraverso apposite schede – nn. 4,5,6,7,8) dai protagonisti dei percorsi triennali di formazione professionale ini- ziale, ossia gli allievi, i formatori, i coordinatori del progetto ed i genitori. 2.1. Il gradimento degli allievi Alla scheda hanno risposto in 1.217, divisi in parti uguali tra i 3 CFP del CNOS-FAP (608=49.9) ed i 5 del CIOFS/FP (609=50.1). La tavola 9 mostra la loro distribuzione in base agli Enti e ai Centri di appartenenza2. 2 Per quanto riguarda le schede che verranno analizzate in questa seconda parte del report si fa presente che in generale i dati statistici sono stati trattati unitariamente, ossia senza tenere in conside- razione la divisione per Enti. 2.1.1. Valutazione dei contenuti Essi sono stati esaminati in riferimento alla chiarezza degli argomenti, alla loro importanza, all’attinenza alla vita concreta e all’interesse che suscitano (cfr. Tav. 10). Prima di analizzare in dettaglio i singoli aspetti, va osservato che quasi tutte le medie si collocano sul livello che dall’“abbastanza” sale verso il “molto”; inoltre, nel complesso si può affermare che i contenuti vengono considerati anzitutto “im- portanti”, quindi “interessanti”, “chiari”, ma un po’ meno “coerenti con la vita”. L’importanza degli argomenti trattati nei corsi è stata valutata tra “molto” e “abbastanza” da oltre l’85% degli allievi (M=3.24). Solo un centinaio di soggetti ha espresso giudizi meno positivi. Anche l’interesse per gli argomenti trattati ottiene un buon livello di gradi- mento da parte di più dell’80% degli allievi (M=3.13). Tuttavia, nel frattempo è leggermente aumentato il numero di coloro che hanno manifestato valutazioni infe- riori. Quanto alla chiarezza dei contenuti offerti dal percorso, una netta maggioranza (l’85% circa) risulta tra “molto” e “abbastanza” soddisfatta (M=3.10), ma rispetto alle precedenti domande diminuiscono coloro che si collocano sul “molto” mentre aumentano parallelamente coloro che si situano sull’“abbastanza”. Quando si è trattato poi di mettere a confronto i contenuti appresi con la vita concreta, il gradimento è in rapporto di due terzi di soddisfatti a un terzo di scon- tenti (M=2.86), un elemento di criticità da tenere certamente in considerazione. Tav. 9: Distribuzione degli allievi in base ai Centri e rispettivi Enti di appartenenza (2005-06) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze 54 2.1.2. Valutazione dei formatori da parte degli allievi In questo caso il giudizio è stata formulato in riferimento a quattro parametri: se i formatori conoscono e sanno fare le cose che insegnano, se insegnano in modo chiaro, se capiscono i problemi degli allievi e se, quando spiegano, si aiutano con esempi della vita reale. Gli esiti della valutazione sono presentati nella Tav. 11. I formatori vengono “molto” (56.8%) e “abbastanza” (35.3%) apprezzati so- prattutto per il loro saper fare, che ottiene uno dei più alti livelli di gradimento (M=3.47). Sono ben pochi quelli che non riconoscono loro queste qualità (1.9%) o gliele attribuiscono solo parzialmente (5.8%). Tav. 10: Valutazione dei contenuti trattati nel corso (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media Tav. 11: Valutazione dei formatori da parte degli allievi (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media Coerentemente a quanto emerso sopra, oltre il 90% degli allievi dichiara che quando spiegano si aiutano attraverso esempi presi dalla vita reale (M=3.15). Più dell’80% afferma che nell’insegnamento i formatori sono tra “molto” e “abbastanza” chiari (M=3.10). Un elemento di criticità va individuato invece nel fatto che non sempre capi- scono i problemi degli allievi. Infatti, quest’ultimo aspetto trova divisi gli allievi tra due terzi a favore dei formatori e un terzo contrario e tale esito abbassare la media al di sotto del livello dell’“abbastanza” (M=2.79). L’andamento, pur sempre posi- tivo, mette tuttavia in evidenza un punto debolezza che non va trascurato. 2.1.3. Valutazione dei metodi Questa sezione della scheda intendeva verificare le strategie didattiche dei for- matori: se coinvolgevano gli allievi, se li valutavano correttamente e se esistevano tra loro forme di collaborazione che consentissero di migliorare la formazione im- partita ai giovani (cfr. Tav. 12). Sotto l’aspetto metodologico, ciò che è stato più apprezzato (da oltre l’80% 55 Legenda: M= Media degli allievi) è la correttezza dei formatori nel valutare le prestazione degli allievi (M=3.11), anche se un quinto circa non concorda su tale giudizio. Quanto alla collaborazione tra i formatori, è l’80% circa che si esprime positi- vamente e la valutazione media si colloca sul livello dell’“abbastanza” (M=3.05). Invece emerge anche in quest’area un punto di criticità che viene individuato in una metodologia che fa sentire circa il 30% circa degli allievi scarsamente coin- volti nelle attività formativa. Il gradimento scende in questo caso al 70% e la media si colloca leggermente al di sotto dell’“abbastanza” (M=2.82). Tav. 12: Valutazione dei metodi utilizzati nel corso (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media 2.1.4. Valutazione dell’organizzazione In questo caso gli indicatori riguardavano la distribuzione dei tempi tra le varie attività del Centro e le modalità di utilizzo sia degli spazi che degli strumenti (cfr. Tav. 13). L’indice di gradimento torna su livelli elevati per quanto riguarda l’adegua- tezza degli strumenti messi a disposizione del Centro per realizzare l’offerta forma- tiva (86.5%; M=3.34); ben pochi allievi contraddicono questo andamento. Una quota simile valuta positivamente anche gli spazi messi a disposizione dai CFP (M=3.21). Si è invece meno d’accordo (ma restando pur sempre intorno al livello dell’“abbastanza”, M=2.98) sulla distribuzione dei tempi tra le differenti azioni for- mative. Tav. 13: Valutazione dell’organizzazione del corso (2005-06) (in % e M) 2.1.5. Valutazione degli apprendimenti In proposito sono stati utilizzati quattro parametri: l’acquisizione di conoscenze generali e tecnico-professionali e delle capacità operative, e la percezione che quanto è stato appreso sia poi spendibile anche al di fuori del Centro (cfr. Tav. 14). Come ci si poteva aspettare, sono le capacità operative ad essere “molto/abba- 56 Legenda: M= Media Tav. 14: Valutazione degli apprendimenti (2005-06) (in % e M) Tav. 15: Valutazione della distribuzione degli orari (2005-06) (in % e M) stanza” apprezzate da oltre il 90% degli allievi, raggiungendo così uno dei più alti indici di gradimento fra i vari aspetti finora oggetto di valutazione (M=3.43). In misura quasi pari vengono valutate le conoscenze tecnico-professionali ac- quisite grazie al percorso (M=3.38). Il gradimento per le conoscenze e le capacità acquisite contribuisce a sua volta a far esprimere ad una netta maggioranza degli allievi (85.5%) una valutazione po- sitiva circa la spendibilità di quanto appreso in rapporto alla vita al di fuori del Centro (M=3.33). Da ultimo, seppure leggermente meno apprezzate (trattandosi di un’utenza prettamente mirata all’acquisizione di apprendimenti pratici), vengono le cono- scenze teoriche, di base (M=3.19). Rimane un dato di fatto che gli allievi hanno valutato positivamente pressoché tutto quanto è stato appreso nel corso, sebbene le preferenze vadano ovviamente per le capacità operative immediatamente spendibili in una professionalità. 2.1.6. Valutazione della distribuzione degli orari In quest’area è stata presa in considerazione la ripartizione delle ore tra teoria, laboratorio, stage e attività di accoglienza/orientamento. Va inoltre sottolineato che cambia contestualmente anche la scala di valutazione, che viene a comprendere tre misure: di tempo “eccessivo”, “adeguato” e “insufficiente” (cfr. Tav. 15). Da un’analisi d’insieme dei dati si evince anzitutto che il 50-70% degli allievi ha giudicato “adeguati” i tempi dedicati alle varie attività del corso. Scendendo nei dettagli, si osservano tuttavia alcune sfumature di rilievo: il 16.7% degli intervistati ha considerato “eccessive” le ore dedicate alla teoria, mentre in rapporto alle rima- nenti voci (laboratorio, stage, orientamento…) si riscontrano gruppi minoritari (tra il 10-15%) che considerano il tempo dedicato a tali attività chi “insufficiente” e chi, in altrettanta misura, “eccessivo”. Legenda: M= Media *I valori della media sono: 1= eccessivo; 2=adeguato; 3=insufficiente 57 2.1.7. Valutazione complessiva dell’esperienza da parte degli allievi Al termine della griglia gli allievi sono stati invitati a esprimere un giudizio globale sulla sperimentazione. In questo caso è stato possibile distinguere i dati in base agli Enti di appartenenza (cfr. Tav. 16). Tav. 16: Valutazione complessiva dell’esperienza del corso (2005-06) (in % e M) Il risultato di spicco va individuato in quella metà esatta di allievi che hanno dichiarato espressamente di essere rimasti “molto” soddisfatti dell’esperienza fatta al Centro, a cui si aggiunge un altro 38% che lo sono “abbastanza”, con una media che si avvicina conseguentemente ai valori massimi di apprezzamento (M=3.39); la quota residua si suddivide tra i “parzialmente” (7.3%) o “per nulla” soddisfatti (2.4%) e chi non ha risposto (1.8%). Passando ad analizzare i dati disaggregati per Enti, l’unica divergenza può essere individuata nelle quote dei “molto” soddisfatti, leggermente più presenti tra le fila degli utenti del CIOFS/FP (53%), rispetto a quelli del CNOS-FAP (47.9%), ma in seguito la media generale torna a pareggiare le valutazioni (M=3.42). 2.2. Il gradimento dei formatori I dati che vengono presentati nel prosieguo sono tratti dalle domande conte- nute nella seconda parte della scheda n. 63, la quale prendeva in considerazione sette ambiti di valutazione: gli allievi, il personale formativo, il progetto, l’organiz- zazione, gli apprendimenti, la distribuzione dei tempi, per finire con un giudizio complessivo dell’esperienza. 2.2.1. Valutazione degli allievi da parte dei formatori Oltre due terzi affermano di interessarsi ai problemi degli allievi (M=3.69)4 e una metà ritiene che gli allievi hanno trovato “molto” giovamento dal corso (M=3.50), mentre la quota si riduce a un terzo quanto si tratta di rapportare il bene- ficio al proprio insegnamento (M=3.35) (cfr. Tav. 17). Le valutazioni scendono leg- Legenda: M= Media 3 La prima parte della scheda 6 riguardava lo status e la condizione professionale dei formatori ed è stata analizzata nella sezione precedente, al punto 1.3. 4 Dato che tuttavia viene smentito da questi ultimi, se confrontato con quanto emerso nel para- grafo precedente, al punto 2.1.2. 58 Tav. 18: Valutazione del personale da parte dei formatori (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media germente al di sotto dell’“abbastanza” al momento di verificare la corrispondenza degli allievi alle proprie aspettative (M=2.88): in questo caso solo l’11% si di- chiara “molto” soddisfatto, mentre una quota doppia (22.6%) si colloca suo “poco”. 2.2.2. Valutazione del personale da parte dei formatori Seppure in odore di autoreferenzialità, il 60% ha valutato “molto” il personale formativo in merito alla preparazione sul piano tecnico-professionale (M=3.59), il 51% alla formazione sul piano dei contenuti (M=3.47) e un’altrettanta quota alla capacità di stabilire relazioni amichevoli con gli allievi (M=3.43) (cfr. Tav. 18). Al contrario, solo il 29.7% ritiene i formatori “molto” capaci di sviluppare una didat- tica attiva/coinvolgente; anche se la media supera l’“abbastanza” (M=3.15), l’anda- mento richiede di essere migliorato, considerando quanto già messo in evidenza al riguardo dagli allievi5. 5 Un tale andamento infatti trova conferma al punto 2.1.3., dove gli allievi hanno ammesso di es- sersi sentiti “poco” coinvolti nelle metodologie didattiche utilizzate nel corso. 2.2.3. Valutazione del progetto del percorso Passando ai vari aspetti del progetto del corso, il 90% circa dei formatori ha espresso un giudizio di piena adeguatezza sia sul piano professionale (M=3.31) che contenutistico (M=3.20) (cfr. Tav. 19). Tuttavia, un 20% ha dichiarato di essere ri- masto “poco” soddisfatto dell’adattamento del progetto alla tipologia degli allievi, e questo dato ha fatto abbassare al livello dell’“abbastanza” il giudizio complessivo in merito a tale aspetto (M=3.03). 59 Tav. 17: Valutazione degli allievi da parte dei formatori (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media 2.2.4. Valutazione dell’organizzazione Così come agli allievi, anche ai formatori è stato chiesto di giudicare l’orga- nizzazione del corso in base alla distribuzione dei tempi, agli spazi e agli strumenti utilizzati (cfr. Tav. 20). Coerentemente alle valutazioni espresse dai giovani, anche i docenti hanno manifestato i maggiori apprezzamenti riguardo all’adeguatezza degli strumenti (M=3.42) e degli spazi messi a disposizione (M=3.25), mentre ancora una volta sono i tempi a far riscontrare un minor grado di soddisfazione (M=3.14). In conclusione, formatori e allievi concordano abbastanza sulle valutazioni degli aspetti organizzativi. Tav. 19: Valutazione del progetto del percorso da parte dei formatori (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media Tav. 20: Valutazione dell’organizzazione da parte dei formatori (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media Tav. 21: Valutazione degli apprendimenti da parte dei formatori (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media 2.2.5. Valutazione degli apprendimenti Ancora in coerenza con l’andamento già riscontrato tra gli allievi, la quasi to- talità dei formatori presenta alti livelli di gradimento in fatto di apprendimenti, in particolare per quanto riguarda l’acquisizione delle conoscenze tecnico-professio- nali (M=3.42), le capacità operative (M=3.39), la loro spendibilità nella vita pro- fessionale (M=3.39) e le conoscenze generali di base (M=3.18) (cfr. Tav. 21). Al tempo stesso circa uno su quattro ritiene meno spendibili le capacità acquisite ai fini di un eventuale proseguimento degli studi (M=2.86). 60 Tav. 22: Valutazione da parte dei formatori dei tempi delle attività (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media Legenda: Fq = Frequenza; M = Media 2.2.6. Valutazione della distribuzione dei tempi in rapporto alle varie azioni svolte nel corso Così come per gli allievi, è stato chiesto anche ai formatori di prendere posi- zione sui tempi dedicati alla teoria, al laboratorio, allo stage e all’orientamento; in più si è voluto da loro anche un giudizio circa l’attività di accoglienza e di accom- pagnamento. Inoltre, si è inteso valutare l’area in rapporto sia al grado di “suffi- cienza” che a quello di “adeguatezza” (cfr. Tav. 22). Se si prende in considerazione la prima serie di valutazioni, un tempo relativa- mente “insufficiente” è stato attribuito dal 12-20% dei formatori alla teoria (M=1.96) e alle attività di laboratorio (M=1.83). In realtà poi in base alla seconda modalità di giudizio sono proprio i tempi dedicati al laboratorio (M=2.20), unita- mente a quelli dello stage (M=2.21) e dell’accoglienza (M=2.17) a far riscontrare livelli di “adeguatezza” giudicati quasi “ottimali”, mentre è ancora il tempo della teoria che viene ritenuto leggermente meno di adeguato (M=1.93). 2.2.7. Valutazione complessiva dell’esperienza del corso da parte dei formatori Anche in chiusura di questa scheda è stato chiesto ai formatori di dare una va- lutazione complessiva del corso (cfr. Tav. 23). La media generale (M=3.40) è suffi- ciente da sola ad attestare l’elevato gradiente di soddisfazione di chi ha partecipato allo svolgimento delle differenti azioni formative previste dal progetto: nessuno ha Tav. 23: Valutazione complessiva della esperienza del corso da parte dei formatori (2005-06) (in Fq, % e M) 61 bocciato l’iniziativa ed i meno soddisfatti si contano sulle dita. Questo apprezza- mento corale è stato poi ulteriormente confermato dal dato secondo cui più del 90% dei formatori consiglierebbe anche ad altri di fare questa esperienza; e co- munque tutti sono intenzionati a ripeterla: i più tale e quale (84%) e una minoranza apportando parziali modifiche (16%). 2.3. Valutazione delle azioni formative da parte dei coordinatori Il giudizio è stata espresso mediante la scheda n. 4; alla griglia hanno risposto 16 coordinatori della sperimentazione, con una media di 2 per Centro. 2.3.1. Valutazione della partecipazione degli allievi da parte dei coordinatori La partecipazione dei giovani è stata monitorata attraverso i seguenti indicatori (cfr. Tav. 24): 1) la registrazione delle presenze: tutti e 16 i coordinatori concordano che è stata effettuata sempre, dappertutto attraverso l’apposito registro, in alcuni Centri anche mediante i fogli di presenza; 2) la frequenza degli allievi: per circa la metà dei coordinatori è risultata abba- stanza assidua e per l’altra metà molto, mentre in un solo caso si registra una scarsa presenza da parte dell’utenza; la frequenza è stata rilevata dappertutto con il registro, ma anche con i fogli di presenza e di dimissione; 3) le motivazioni sottese agli eventuali ritiri: sono state considerate pienamente adeguate da parte di 7 coordinatori e da altri 5 parzialmente; il dato è stato rile- vato per lo più mediante l’apposita documentazione di dimissione. 2.3.2. Valutazione dell’orientamento degli allievi da parte dei coordinatori In questo ambito si è ricorso ai seguenti criteri (cfr. Tav. 25): 1) la rispondenza del sistema informativo ai bisogni degli allievi e delle famiglie: per 13 coordinatori è stata ritenuta abbastanza adeguata e da parte di altri 3 molto; passando sul piano dei supporti strumentali, va evidenziata la presenza Tav. 24: Valutazione della partecipazione degli allievi da parte dei coordinatori (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 62 dappertutto del servizio informativo di segreteria e in parte anche dello spor- tello informativo, mentre nessun coordinatore ha citato il libretto personale; 2) l’azione di orientamento in ingresso: secondo 10 coordinatori è stata realizzata mediante tutti e 3 i programmi previsti (accoglienza, orientamento e bilancio orientativo dell’utente) e da parte di altri 6 con 2 programmi; tutti e 16 concor- dano sul fatto che i CFP hanno organizzato i programmi di accoglienza e di orientamento ed una parte (10) segnala che è stato effettuato anche il bilancio orientativo a favore dell’utente; 3) la situazione di partenza: quasi tutti i coordinatori segnalano che è stata rile- vata con entrambi i documenti previsti dal progetto; questi riguardano le prove d’ingresso, utilizzate dappertutto, mentre in altri casi si è fatto ricorso anche al rilevamento della condizione dell’allievo riguardo alle sue capacità di appren- dimento; 4) la redazione degli strumenti di autoformazione: 5 coordinatori hanno segnalato che non ne è stato redatto alcuno; 9 hanno indicato il Piano di lavoro persona- lizzato ed anche altri supporti; di conseguenza il rilevamento è stato documen- tato per lo più con quest’ultimo e in alcuni CFP anche mediante strumenti di autovalutazione appositamente elaborati. 2.3.3. L’esecuzione del progetto formativo e la gestione degli interventi di modifica In questa area il monitoraggio è stato effettuato in base alle seguenti modalità (cfr. Tav. 26): 63 Tav. 25: Valutazione dell’orientamento degli allievi da parte dei coordinatori (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 64 Tav. 26: L’esecuzione del progetto formativo e la gestione degli interventi di modifica (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 1) per quanto riguarda le attività realizzate, tutti e 16 i coordinatori concordano sul fatto che esse sono risultate “pienamente” conformi al progetto formativo approvato dalla Regione/Provincia; così pure i 16 hanno documentato questa completa corrispondenza segnalando l’utilizzo di tutti e tre gli strumenti di ri- levazione indicati nella scheda, ossia il progetto generale, il piano didattico- formativo e le esercitazioni; 2) per 10 coordinatori gli interventi in itinere di modifica del progetto non sono stati necessari, mentre altri 6 segnalano che si sono apportati vari cambiamenti al progetto iniziale; nel documentare tali dati ci si è rifatti al piano generale; 3) sebbene in contrasto con l’andamento precedente, la maggioranza dei coordi- natori rileva che la valutazione degli interventi di modifica del progetto è stata effettuata qualche volta e in taluni Centri spesso, e ciò è avvenuto attraverso i verbali di verifica; 4) le azioni di recupero e approfondimento: si sono rivelate pienamente efficaci quasi dappertutto; così pure ovunque le attività in questione sono state docu- mentate attraverso il verbale degli incontri degli organismi di lavoro finalizzati a esaminare tali attività e attraverso la documentazione delle azioni correttive; 5) il coinvolgimento nella valutazione del progetto formativo degli operatori, degli allievi, delle famiglie e dei partner ha riguardato per lo più gli operatori, oltre a una o due categorie di soggetti tra quelle elencate nella scheda; la veri- fica è stata documentata per lo più con il progetto formativo e con i verbali degli organismi di lavoro; 6) in genere gli esiti della valutazione in vista del miglioramento del percorso sono stati tenuti pienamente in considerazione; la valorizzazione è stata effet- tuata in tutti i CFP attraverso il progetto di dettaglio e mediante anche altri do- cumenti di adeguamento del progetto. 2.3.4. La qualità della docenza e della didattica In quest’area la valutazione è stata effettuata utilizzando i seguenti parametri (cfr. Tav. 27): 1) la corrispondenza tra i requisiti del personale e quelli richiesti dal progetto: è stata affermata da tutti e 16 i coordinatori che hanno risposto alla scheda; così pure la conformità è stata documentata da parte di ognuno di loro attraverso l’archivio dei curricoli e le schede dei formatori; 2) il coordinamento delle diverse figure e ruoli: a detta di 11 coordinatori si è di- mostrato pienamente efficace e abbastanza secondo altri 5; è stato documen- tato in ogni CFP attraverso i verbali delle riunioni di gruppo, l’organigramma e il cronogramma delle attività; 3) il riesame dell’azione in corso: la maggioranza dei coordinatori ha affermato che nella più gran parte dei CFP è stato effettuato qualche volta e solo in alcuni casi spesso; in quasi tutti i CFP esso è stato attestato dai verbali delle riunioni finalizzate al riesame delle azioni e/o dai documenti di revisione dei piani di- dattici; 4) la corrispondenza delle metodologie didattiche e formative alle indicazioni del progetto: in genere è risultata sufficiente e in alcuni casi anche piena; per do- cumentare tale conformità si è fatto riferimento quasi dappertutto alle verifiche effettuate attraverso i gruppi di lavoro o agli stati di avanzamento o ai docu- menti di revisione dei piani didattici. 65 Tav. 27: La qualità della docenza e della didattica (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 2.3.5. Il clima dei rapporti in aula e fuori Il clima formativo è stato monitorato mediante le seguenti modalità (cfr. Tav. 28): 1) quasi tutti i coordinatori hanno affermato che la collaborazione e/o il coinvol- gimento degli allievi in aula sono stati pienamente realizzati; inoltre in tutti i CFP si è fatto ricorso per la documentazione a questionari di gradimento ed anche al piano didattico-formativo; 2) invece il coinvolgimento degli allievi nelle iniziative del Centro è stato giudi- cato più parziale che completo; per rilevare la partecipazione, in tutti i CFP ci si è basati su momenti di aggregazione programmati, attività religiose, oppor- tunità di incontri/colloqui; inoltre da parte di una metà dei coordinatori si è fatto riferimento anche all’associazionismo e agli organismi di partecipazione. 66 2.3.6. L’adeguatezza dell’organizzazione Per la verifica di questa area si è ricorso ai seguenti parametri (cfr. Tav. 29): 1) quanto all’attivazione delle funzioni previste nel progetto formativo, quasi tutti i coordinatori hanno confermato che esse sono state avviate molte o tutte; a sua volta, la presenza di tale indicatore è stata attestata in tutti i CFP dai documenti di formalizzazione degli incarichi; 2) l’adeguatezza degli ambienti rispetto alle attività del progetto formativo è stata ritenuta piena da quasi tutti i coordinatori; passando a quantificarne il numero, tutti (o quasi) i CFP hanno utilizzato in media 4 aule, 5 laboratori, più altri 3 ambienti di varia natura; 3) anche la conformità del sistema di sicurezza alle norme vigenti è stato valutata completamente soddisfacente da quasi tutti i coordinatori; la documentazione di tale giudizio è offerta in tutti i CFP dall’adeguatezza al piano per la sicu- rezza; 4) la conformità delle modalità di trattamento dati degli allievi alle norme vigenti è stata trovata piena solo da una metà dei coordinatori, mentre l’altra metà non ha risposto; e comunque in tutti i CFP tale corrispondenza è stata documentata Tav. 28: Il clima dei rapporti in aula e fuori (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 67 attraverso la tenuta della modulistica di riferimento per la raccolta e l’elabora- zione dei dati; 5) quanto all’efficacia delle funzioni direttive e di coordinamento rispetto all’at- tuazione del progetto, esse sono state valutate in pari misura o di grande aiuto o abbastanza d’aiuto; a sua volta una tale efficacia è stata documentata in tutti i CFP facendo riferimento a tutti e tre gli strumenti menzionati nella griglia, ossia il progetto formativo, l’organigramma ed i verbali degli incontri per le verifiche; 6) le funzioni di supporto all’utenza sono risultate a tutti i coordinatori completa- mente soddisfacenti; così pure in tutti i CFP la documentazione ha fatto riferi- mento alla pianificazione dei servizi, delle funzioni e dei tempi di segreteria; 7) infine le funzioni di supporto ai formatori sono state giudicate pienamente effi- caci da quasi tutti i coordinatori, mentre la valutazione di parzialmente ade- guate si è riscontrata solo in alcuni casi; tale successo è stato documentato at- traverso il piano di formazione dei formatori presente in quasi tutti i CFP e in parte anche mediante i verbali delle riunioni del personale. Tav. 29: Adeguatezza dell’organizzazione (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 2.4. Valutazione complessiva del corso da parte dei coordinatori Questa scheda (n. 7) aveva l’obiettivo di analizzare il progetto formativo nel suo insieme per individuare in che modo sono stati realizzati i suoi snodi fonda- mentali. La valutazione complessiva è stata effettuata da parte dei coordinatori 68 delle attività corsuali ed i parametri si suddividono tra quelli che riguardano il coin- volgimento di altre strutture nella conduzione delle attività e quelli che fanno riferi- mento alle modalità di realizzazione delle principali azioni formative. 2.4.1. I livelli di coinvolgimento delle parti interessate Le parti di cui si è inteso valutare il coinvolgimento comprendevano anzitutto la scuole; quindi altre strutture come i centri per l’impiego, i servizi di orienta- mento e socio-assistenziali, le parrocchie, le associazioni; inoltre è stata presa in considerazione la partecipazione delle famiglie e delle imprese nelle attività del Centro. La scheda in primo luogo ha inteso verificare le modalità con cui avviene la collaborazione con le scuole, riportandone alcune tra quelle più comuni: – in relazione ai vari possibili tipi di segnalazioni, esse hanno cooperato indi- cando potenziali utenti ed i loro fabbisogni formativi, facendo pubblicità del Centro, ma soprattutto attraverso attività a scopo orientativo su progetti co- muni per rilevare le competenze degli allievi e indirizzarli verso percorsi for- mativi pertinenti; – al momento dell’iscrizione sono state utilizzate varie modalità, di cui quelle più usuali riguardano l’iscrizione presso la segreteria del CFP o direttamente nella scuola in seguito a precedenti interventi di orientamento; – la collaborazione è avvenuta anche mediante incontri periodici tra docenti e formatori, in occasione di collegi, comitati tecnici ecc., dove in genere sono state pianificate attività di orientamento presso le scuole-partner oppure visite guidate di gruppi presso il Centro; – tra le forme di cooperazione più segnalate vi è la partecipazione a specifici momenti di programmazione, effettuati soprattutto per co-progettare corsi triennali oppure per il riconoscimento dei crediti; – la partecipazione a momenti di verifica/miglioramento per lo più ha riguardato la co-presenza di docenti e formatori nei percorsi personalizzati, nelle attività di recupero, nel monitoraggio e nelle valutazioni trimestrali e/o in itinere e fi- nali; – inoltre è stata menzionata la collaborazione allo stage, all’inserimento lavora- tivo e a varie altre iniziative/attività svolte in comune. La scheda prendeva in considerazione anche la collaborazione con altre strut- ture, ossia: – con i centri per l’impiego: attraverso segnalazioni di casi di allievi drop-out, contatti telefonici e/o visite periodiche, interventi di accompagnamento al la- voro, diffusione di materiale pubblicitario del corso (depliants…); – con i servizi di orientamento: per lo più mediante segnalazione di allievi ed in- dividuazione di un percorso di inserimento; – con i servizi socio-assistenziali: cooperando attivamente al sostegno di giovani svantaggiati o comunque di portatori di particolari problemi; – con le parrocchie: in questo caso la collaborazione è avvenuta unicamente me- diante la diffusione di materiale pubblicitario del corso; – con le associazioni, in particolare degli ex-allievi, mediante incontri a tema su problematiche giovanili, organizzazione di feste o con la diffusione di mate- riale pubblicitario del corso; – infine tra le strutture altre sono state menzionate anche le amministrazioni lo- cali che hanno collaborato per la partecipazione del Centro ad iniziative di rete. La sperimentazione ha previsto il coinvolgimento delle famiglie: – all’atto dell’iscrizione: tramite la partecipazione alla presentazione del corso, colloqui individuali con il direttore e/o con il coordinatore del corso per la con- divisione del progetto formativo e specifici momenti di orientamento; – negli incontri periodici: in genere a scopo informativo, formativo e di orienta- mento; essi sono stati formalizzati attraverso il calendario delle riunioni e delle assemblee (per fare il punto sulla situazione degli allievi e sull’andamento del corso, per la consegna della scheda di valutazione…), affisso in bacheca fin dall’inizio dell’anno in modo che tutti potessero esserne a conoscenza; tali in- contri hanno assunto anche la forma di colloqui individuali con i formatori ed in qualche caso sono serviti pure per monitorare lo stato di avanzamento della sperimentazione; – con la partecipazione a momenti di programmazione e di verifica: tramite la consegna di circolari informative in cui sono state illustrate le caratteristiche del corso e dove sono stati accolti i suggerimenti offerti dalle famiglie per quanto riguarda in particolare la gestione di problematiche didattiche e disci- plinari; inoltre alcuni genitori hanno partecipato anche ad incontri finalizzati al monitoraggio, al miglioramento in itinere e alla verifica finale dell’andamento del corso. La collaborazione con le imprese è stata realizzata: – nella progettazione: in particolare per la preparazione dello stage, tenendo conto dei suggerimenti offerti per la definizione degli obiettivi formativi, la va- lutazione delle competenze di base, l’analisi dei fabbisogni formativo-profes- sionalizzanti delle imprese del territorio; in tutti questi casi ci si è avvalsi della consulenza di esperti del settore, oppure si è fatto ricorso a indagini di mercato per l’analisi dei fabbisogni; inoltre in alcuni Centri il coinvolgimento ha ri- guardato l’offerta da parte delle imprese di macchine/strumenti corrispondenti a quelli in uso nelle principali aziende; – nell’orientamento e nelle visite alle aziende: ospitando gli allievi per il tiro- cinio orientativo, facendo ricorso alla competenza di esperti di settore per la 69 conoscenza delle dinamiche aziendali, per la programmazione dello stage e/o delle visite didattiche in azienda finalizzate ad approfondire la conoscenza e l’organizzazione del futuro lavoro, per la definizione dei percorsi mirati ad im- plementare le competenze tecnico-professionali e relazionali; – nello stage: stipulando convenzioni e ospitando gli stagisti e, successivamente, collaborando all’inserimento lavorativo. 2.4.2. La realizzazione delle azioni formative più rilevanti Nella seconda parte della scheda sono state valutate le modalità di realizza- zione delle seguenti azioni formative: l’accoglienza, lo svolgimento dell’orienta- mento, il bilancio personale, la gestione dei crediti/passerelle, le azioni di potenzia- mento/approfondimento, la modularità, le metodologie didattiche, la valutazione, il libretto personale e il portfolio. L’accoglienza è stata realizzata in tutti i Centri secondo le modalità previste nel progetto di dettaglio. Più specificamente e in via generale tale azione formativa è stata attuata mediante: – incontri con ragazzi e famiglie per visite iniziali al Centro; – moduli di attività compresi nel programma del corso (presentazione e visita guidata del corso, test, questionari, giochi di animazione/conoscenza, festa del- l’amicizia per l’integrazione…); – descrizione del profilo professionale che verrà conseguito al termine del corso; – presentazione delle unità formative da parte del tutor; – ascolto delle aspettative degli allievi. Nella maggioranza dei Centri l’orientamento è stato realizzato secondo tutte le modalità previste nella domanda, ossia: – prima dell’iscrizione, in integrazione con la scuola secondaria di 1° e 2° grado; – nella fase iniziale, mediante la presentazione del corso e di materiali, gli in- contri con testimoni, le visite aziendali; – in itinere, integrandolo nelle azioni periodiche previste nella progettazione (con- sulenze, colloqui individuali e di gruppo, percorsi di ri-orientamento, procedure di passaggio al sistema di istruzione e/o di passerelle tra i due sistemi…); – e ovviamente al termine del percorso; per cui si può sostenere che nessun Centro ha utilizzato più l’orientamento come una semplice presentazione del corso. Anche il bilancio personale è stato realizzato in tutti i CFP mediante colloqui individuali, confronti di classe con il tutor del corso, bilancio delle competenze, compilazione del portfolio, dell’agenda di automonitoraggio, delle schede di auto- valutazione e di altro materiale appositamente redatto (manuale per l’orientamento, supporti didattici…); inoltre, dal punto di vista temporale questa attività è stata rea- 70 lizzata sia all’inizio sia in itinere (trimestralmente) sia al termine del corso oppure a richiesta della persona. Così pure è stata realizzata dappertutto la gestione dei crediti/passerelle. Scen- dendo nei dettagli, la scheda richiedeva di specificare: – se la gestione delle passerelle è avvenuta da e per la scuola o altro CFP, oppure da e per il lavoro/apprendistato: per quanto riguarda il primo caso, il passaggio dalla scuola al CFP si è realizzato dando seguito a richieste per inserimenti, mentre quello dal CFP alla scuola è avvenuto mediante il riconoscimento delle competenze acquisite; – in riferimento ai crediti, è stato chiesto anzitutto se essi sono stati riconosciuti in ingresso (modello “C”, cfr. appendice) e con quali modalità; ancora una volta si osserva che tale attività è stata attuata dappertutto, seppure con moda- lità differenti quali test d’ingresso e/o di valutazione, la compilazione di un’ap- posita scheda-allievo, la documentazione della scuola di provenienza, l’inter- vento di una specifica commissione d’esame; mentre i crediti in uscita sono stati certificati attraverso il modello “B” (certificato delle competenze). Anche le azioni formative sia di recupero che di approfondimento sono state realizzate in ogni CFP. Passando in rassegna le prime, si riscontra che unità di re- cupero sono state attivate durante quasi tutto lo svolgimento del percorso formativo e in particolare nelle fasi iniziali e intermedie, oppure mediante calendarizzazioni personalizzate; la loro realizzazione è avvenuta mediante la programmazione di azioni individuali e di gruppo nelle materie risultate più lacunose, ricorrendo anche ad interventi attivati dai docenti della scuola-partner. Così pure le unità di appro- fondimento sono state attuate quasi sempre in contemporanea con quelle di recu- pero e con le stesse procedure, ossia attraverso percorsi di raccordo con la scuola- partner, in previsione del passaggio al 4° e 5° anno della secondaria di 2° grado in vista del conseguimento del diploma. Tutti i Centri inoltre hanno dichiarato che il percorso sperimentale è stato rea- lizzato in forma modulare, attraverso la scansione dei contenuti in unità formative che hanno dato luogo ai crediti, o seguendo quanto previsto nella progettazione, o mediante la calendarizzazione, nel tentativo di ottenere una pianificazione il più possibile continua durante tutto il percorso formativo. Nell’utilizzo delle diverse metodologie didattiche si osserva che in una netta maggioranza dei Centri sono state segnalate tutte quelle elencate nella scheda, ossia l’interdisciplinarità, una didattica per centri d’interesse e forme di simulazione, ed inoltre è stata effettuata una distinzione tra l’area culturale e quella tecnico-profes- sionale; infine alcuni Centri hanno segnalato, tra le metodologie “altre”, anche l’a- dozione di interventi di autoformazione assistita. La domanda sulla valutazione delle prestazioni degli allievi prendeva in consi- derazione la metodologia utilizzata nel verificare l’acquisizione delle conoscenze, 71 6 Anche in questo caso i tabulati statistici non hanno riportato la distinzione tra quelli del CNOS- FAP e del CIOFS/FP. 7 Con particolare riferimento sempre alle due citate sperimentazioni del Piemonte (Malizia - Pie- roni, 2006). 72 abilità, capacità e competenze; in rapporto a ciascun aspetto è stato segnalato l’uti- lizzo delle seguenti metodologie e strumenti: a) le conoscenze: test di profitto e/o di verifica, colloqui, osservazioni, prove strutturate e non, portfolio; b) le abilità: esercitazioni, simulazioni di processi, role-playing, prove interdisci- plinari, svolgimento di mansioni e incarichi; c) le capacità: osservazioni, elaborazioni di progetti, relazioni tecniche, prove scritte e pratiche, schede, portfolio, osservazione da parte dei formatori, simu- lazione di laboratorio; d) le competenze: simulazioni di ambiente di lavoro, prove per competenze, rea- lizzazione di un prodotto, tirocini ed esercitazioni addestrative, prove profes- sionali di fine modulo, stage, esame finale di qualifica. Infine, tanto il libretto personale degli studenti che il portfolio sono stati se- gnalati entrambi in tutti i Centri, a significare la realizzazione di strategie di avan- guardia. 2.5. Valutazione complessiva del corso da parte dei genitori Attraverso la scheda n. 8 si è inteso raccogliere le valutazioni dei genitori degli allievi sugli aspetti più significativi legati all’esperienza della sperimentazione. Alla scheda hanno risposto complessivamente 580 genitori dei CFP del CNOS- FAP e del CIOFS/FP6 (cfr. Tav. 30). L’andamento d’insieme dei dati presenti nella tavola porta a constatare un ele- vato grado di soddisfazione dei genitori nei confronti di pressoché tutte le dimen- sioni oggetto di valutazione. La media infatti risulta ovunque notevolmente al di sopra dell’“abbastanza”. E comunque, stando alle medie più elevate, ciò che i genitori hanno gradito maggiormente sono gli stessi aspetti evidenziati anche dai genitori di altre speri- mentazioni triennali7, ossia: – la ricaduta delle attività del corso sul futuro professionale del figlio (M=3.49); – la soddisfazione nei confronti della figura del coordinatore o del tutor (M=3.48). Le rimanenti valutazioni si collocano ugualmente su indici di gradimento medio-alti e si concentrano essenzialmente su due aspetti fondamentali sottesi al- l’intera attività formativa. Tav. 30: Gradimento e valutazione complessiva dell’esperienza da parte dei genitori (2005-06) (in % e M*) Legenda: M = Media * I valori della media sono: 1=per nulla; 2=in parte; 3=abbastanza; 4=molto 73 a) La maturazione acquisita progressivamente dal figlio lungo la sperimentazione è stata valutata anzitutto in rapporto alla capacità di socializzare e di collabo- rare (M=3.30) e alla conseguente diversità riscontrata a livello di prepara- zione, se confrontata con quella all’atto dell’iscrizione (M=3.16); inoltre, sono stati assai apprezzati (stando sempre ai valori della media) il “piacere” mani- festato dai propri figli nel frequentare il corso (M=3.23) ed i momenti d’in- contro tra i genitori e il Centro (M=3.30). b) Nel passare a verificare anche l’aspetto organizzativo i genitori hanno mag- giormente considerato anzitutto l’adeguatezza degli ambienti messi a disposi- zione (M=3.48), e conseguentemente anche quella relativa agli strumenti (M=3.45), all’offerta dei servizi (M=3.34) e alla distribuzione dei tempi (M=3.31). Il gradiente di soddisfazione manifestato sopra è stato poi ulteriormente con- fermato da quel 90% dei genitori che, coerentemente a quanto già emerso in altre sperimentazioni, consiglierebbero ad altre famiglie di iscriversi al CFP presso cui il figlio si è formato. 74 Osservazioni conclusive Guglielmo MALIZIA - Vittorio PIERONI La presente ricerca intende contribuire allo sviluppo della formazione profes- sionale contestualmente e in sinergia con la riforma in corso del sistema educativo di istruzione e di formazione. Più specificamente, l’innovazione a cui l’indagine si collega riguarda la sperimentazione di nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale in coerenza con la legge 53/03, con l’Accordo Stato-Regioni su istru- zione e formazione del 2003 e con il D.lgs. 76/05. Richiamiamo brevemente il quadro di riferimento. Anzitutto, come si sa, la ri- forma Moratti ha assicurato a ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciot- tesimo anno di età, e inoltre ha introdotto un percorso graduale e continuo di for- mazione professionale parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che porta all’acquisizione di qualifiche e titoli (Malizia, 2005). Il salto di qua- lità realizzato in materia dalla legge 53/03 ha trovato la sua attuazione concreta con l’approvazione del D.lgs. 76/05 che definisce le norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione (Montemarano, 2005). A sua volta, l’Accordo Stato-Regioni su istruzione e formazione (2003) ha consentito di avviare dal 2003 la sperimentazione dei percorsi triennali di istruzione e di formazione “intesa come un laboratorio per la definizione di un nuovo modello di percorso e di offerta di istruzione e di formazione, non legata alla semplice integrazione dell’esistente (istruzione da una parte e formazione professionale dall’altra), ma proteso a verifi- care la prospettiva aperta dalla riforma […]”, tenuto conto che “l’analisi degli ele- menti di crisi evidenziava come un sistema fondato sulla centralità dei modelli sco- lastici non riuscisse a rispondere a una domanda diffusa e diversificata di forma- zione” (Sugamiele, 2006, 35). In pratica, la realizzazione della sperimentazione dei percorsi del diritto-dovere ha messo a confronto due tipologie molto diverse. Infatti, alcune Regioni hanno puntato all’integrazione dei percorsi di istruzione statale con moduli di formazione professionale. Al contrario, altre Regioni, come il Lazio, hanno mirato alla integra- zione dei sistemi, in altre parole hanno sperimentato un percorso formativo, tutto nella formazione professionale, in conformità con lo spirito della riforma Moratti che intendeva ridisegnare, nelle modalità di un percorso culturale ed educativo, l’of- ferta tradizionale della formazione professionale finalizzata all’inserimento profes- 75 sionale secondo una impostazione predominantemente di natura professionalizzante. Ovviamente, alcune Regioni sperimentano ambedue le tipologie. In proposito, va evidenziato che le verifiche sinora compiute a livello nazionale sulle due tipologie hanno riscontrato risultati più positivi nella seconda (Sugamiele, 2006). Lo scopo della presente ricerca rientra in questo quadro di verifica delle due diverse impostazioni. La portata non è nazionale, ma l’attenzione si concentra su una Regione e su due Enti di formazione. Più in particolare, la finalità principale dell’indagine che qui viene presentata consiste nel monitoraggio dei corsi triennali del diritto-dovere realizzati dai Centri di Formazione Professionale di ispirazione cristiana appartenenti alle Delegazioni del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. La verifica ha riguardato le offerte che rientrano nella seconda tipologia e, come si vedrà, è stata positiva. Il successo di questi percorsi triennali trova la sua giustificazione più profonda nella impostazione complessiva della offerta che essi hanno adottato. Si tratta infatti di una proposta unitaria, organica, pedagogica- mente fondata e sistematica che si ispira ai seguenti principi: finalizzazione alla formazione integrale della persona in collegamento con i territori di riferimento e le realtà economiche e del lavoro e adozione di strategie specifiche mirate a una pedagogia del successo. I percorsi possiedono una peculiare metodologia forma- tiva basata su compiti reali, una vera didattica attiva, fondata sull’apprendimento dall’esperienza anche tramite tirocinio/stage formativo in stretta collaborazione con le imprese del settore di riferimento. Inoltre, presentano rilevanza orientativa, in modo da sviluppare nella persona la consapevolezza circa le sue prerogative, il progetto personale, il percorso intrapreso, comprese quindi le capacità personali quali la consapevolezza di sé, la comunicazione e la relazione con gli altri, la dis- posizione all’autonomia, alla responsabilità e alla soluzione dei problemi, il ri- spetto delle regole organizzative, la disposizione ad apprendere dall’esperienza. Carattere fondamentale della metodologia adottata è una forte integrazione tra le dimensioni del sapere, saper fare, saper agire e saper essere, al fine di favorire una chiara circolarità tra pratica e teoria, tra attività operativa e attività di riflessione sui significati dell’agire, mentre ogni sapere teorico trova continuo collegamento e applicazione in azioni concrete. Per il principio di sussidiarietà la realizzazione di questa offerta non significa l’adesione a un unico modello gestionale predeterminato, ma è consentita una va- rietà di soluzioni operative. L’impostazione adottata delinea un percorso formativo progressivo, che è aperto a sbocchi sia in verticale sia in orizzontale, senza mai pre- cludere la possibilità di un proseguimento diretto nei percorsi formativi successivi al termine di ciascun ciclo, e che consente alla persona di avanzare nel proprio cammino procedendo per livelli successivi di intervento/comprensione della realtà, seguendo tre tappe tipiche, corrispondenti ad altrettanti titoli: di qualifica (certifi- cato di qualifica professionale); tecnico (diploma di formazione professionale); quadro/tecnico superiore (diploma di formazione professionale superiore). Per- tanto, a tali percorsi vanno garantite stabilità di organici, autonomia, distribuzione 76 diffusa sul territorio e certezza di finanziamenti con esclusione dei bandi, trattan- dosi di attività formative destinate a minori per cui vale il diritto-dovere. All’interno dei due Enti la sperimentazione della nuova formazione professio- nale ha preso avvio da tempo ed è stata oggetto di varie indagini (Malizia - Nicoli - Pieroni, 2002; Malizia - Pieroni, 2005; Malizia - Pieroni, 2006). Pertanto, la pre- sente ricerca ha esaminato, dell’esperienza pregressa, soltanto le azioni formative relative al periodo 2000-05 di cui ha fornito una sintesi descrittiva. A sua volta, il monitoraggio dei percorsi triennali del 2005-06 è avvenuto attraverso il ricorso a un progetto articolato di valutazioni che ha richiesto ai differenti attori delle speri- mentazioni (coordinatori dei corsi, formatori, allievi e genitori) di esprimere le loro opinioni in merito sulla base della compilazione di sette schede diverse. La rilevanza dell’offerta formative dei Centri del Lazio appare ben evidente già nella presentazione delle attività svolte tra il 2000 e il 2005. In proposito vanno presi anzitutto in considerazione il numero dei corsi sperimentali sul diritto-dovere, la crescita continua dei loro iscritti e le alte percentuali di successo dei qualificati finali che, oltre a raggiungere e talora a superare i livelli di Lisbona, in alcuni Centri e/o in certe annualità ha riguardato il 100% dell’utenza. A questi dati si accompagna un’apposita documentazione sulle differenti ini- ziative, mirata a rilevare i livelli di soddisfazione di tutti i protagonisti, allievi, ge- nitori, formatori e coordinatori. Nei confronti della maggioranza delle azioni for- mative tali valutazioni e gradimenti hanno riportato valori vicini ai massimi pun- teggi, in particolare per quanto riguarda gli apprendimenti tecnico-professionali, le attività di laboratorio e stage, le metodologie didattiche utilizzate, la preparazione del personale, i servizi erogati. Entro il quadro della vasta mole di iniziative forma- tive svolte all’interno di ciascun CFP, una sempre maggiore attenzione viene riser- vata nel tempo ai percorsi triennali che nell’anno 2005-06 raggiungono ormai un terzo degli allievi. In proposito va subito messo in evidenza che, se il 54% di questi ultimi proviene dal canale regolare, la quota residua (46%) raccoglie per lo più l’in- successo e la dispersione di coloro che arrivano dalla secondaria di 1° grado, ma anche chi viene da particolari condizioni di svantaggio come i soggetti diversa- mente abili, gli immigrati ed i portatori di disagi di varia entità. Passando quindi ad analizzare i dati del nostro rilevamento sulla sperimenta- zione dei percorsi triennali nel 2005-06, anzitutto va sottolineato in merito alle mo- dalità di realizzazione dei corsi che le strategie prevalenti, utilizzate a sostegno di una formazione di qualità, hanno incluso una gamma di interventi che sono andati da una didattica attiva, ai laboratori, alle forme di apprendimento per simulazione d’impresa, al ricorso agli audiovisivi, alle attività di orientamento e ai tirocini orientativi, agli incontri a scopo formativo, agli stage e alle visite aziendali, ai la- vori di gruppo e alle tecniche di animazione, al tutoring, all’attivazione di percorsi personalizzati finalizzati ai recuperi individuali e di gruppo-classe, all’autoforma- zione assistita. A questo si deve aggiungere un vasto ventaglio di iniziative extra- curricolari, con particolare riferimento a quelle espressivo-culturali (cineforum, 77 teatro, visite culturali…) e sportivo-ricreative (tornei, feste, incontri vari…). Tutto ciò ha trovato successivamente conferma in una serie di valutazioni in merito alle principali performance su cui si è basata l’attività dei Centri. Queste hanno fatto riscontrare livelli vicini ai punteggi massimi, in particolare per quanto riguarda: la maturazione personale degli allievi; il successo conseguito nel reperi- mento di una occupazione o nel reinserimento nel sistema di istruzione/formazione; la ricaduta d’immagine che ha il Centro nel territorio circostante, in particolare circa i rapporti con le imprese (stage, visite guidate, accompagnamento al lavoro, inserimento lavorativo…); la collaborazione con le scuole e le università (scambi di personale, partenariato…); e soprattutto l’inserimento di questi Centri in progetti da realizzare in rete. Per completare la sintesi di quanto emerso dall’indagine sui percorsi del 2005- 06, è necessario fare riferimento anche ai diversi protagonisti che hanno dato le proprie valutazioni in merito, ossia agli allievi, ai formatori, i coordinatori ed ai ge- nitori, articolando i risultati a seconda di ciascuno gruppo di attori. a) Gli allievi hanno espresso valutazioni vicine ai massimi punteggi anzitutto per quanto riguarda ciò che hanno appreso e, più specificamente, le conoscenze tecnico-professionali, le capacità operative e quindi anche la loro spendibilità in vista delle future scelte professionali. In una misura simile vengono apprez- zati i formatori, in quanto hanno saputo facilitare l’acquisizione degli appren- dimenti, dimostrando capacità quanto a sapere e a saper fare, a chiarezza nel- l’esposizione e a padronanza delle metodologie utilizzate. I giudizi positivi si sono poi estesi anche al contesto in cui è avvenuto lo svolgimento dei corsi, ossia agli strumenti e agli spazi a disposizione. Pertanto, la valutazione com- plessiva non poteva che esprimere un elevato indice di gradimento nei con- fronti dell’intera attività. Se l’insieme delle positività riscontrate sopra attesta indubbiamente dei punti forti su cui si è sviluppata l’azione formativa, al tempo stesso gli allievi non hanno mancato di far emergere anche alcune debolezze su cui bisognerebbe in- tervenire al fine di ottimizzare l’efficacia dei percorsi sperimentali triennali; in ogni caso, va messo in evidenza che si tratta di valutazioni che rimangono sempre intorno alla sufficienza. Un primo punto critico, fatto osservare anche dagli allievi di indagini similari, riguarda la distribuzione dei tempi nella loro ripartizione tra le varie azioni; in questo caso lo scontento fa capo alla richiesta di meno ore di lezioni teoriche a favore delle attività pratiche e/o di labora- torio. Contestualmente si richiede che i contenuti siano più attinenti alla vita pratica e vengano utilizzate metodologie più coinvolgenti. In aggiunta, non- ostante i forti apprezzamenti dell’attività dei formatori, tuttavia anche nei loro confronti è stato rilevato un elemento di criticità, consistente in particolare nella richiesta di un maggiore impegno per comprendere i non pochi problemi che i giovani di questa età si trovano a dover affrontare (di apprendimento, ma anche di relazionalità e più in generale di crescita della personalità…). 78 b) Dal canto loro i formatori si sono dimostrati ancora più positivi nel valutare i vari aspetti sottesi alla sperimentazione. In primo luogo hanno affermato l’ine- quivocabile giovamento che hanno tratto gli allievi da questa esperienza, tanto sul piano delle conoscenze generali e delle competenze di base, come su quello più tipicamente operativo e/o professionalizzante. Tale successo va at- tribuito, coerentemente a quanto già evidenziato dagli allievi, non solo alla preparazione e alle competenze del personale formativo, ma anche all’orga- nizzazione, in particolare per quanto riguarda gli strumenti e gli spazi messi a disposizione dal Centro. Anche in questo caso la valutazione complessiva si colloca sullo stesso gradiente di apprezzamento e di soddisfazione manifestato dagli allievi, giudizio che è stato successivamente confermato in quanto i for- matori hanno manifestato espressamente la propria disponibilità a ripetere esperienze del genere. Al tempo stesso devono anche qui essere evidenziate non tanto delle debolezze quanto degli aspetti che, non avendo conseguito nella loro realizzazione delle quote di gradimento pari agli altri, richiederebbero di conseguenza un mag- giore impegno ai fini del loro miglioramento. In particolare si tratta di una mi- gliore distribuzione dei tempi da ripartire in rapporto alle varie azioni, con la differenza, rispetto agli allievi, di dare più attenzione alle conoscenze generali e/o teoriche, al fine di utilizzare quanto appreso anche in funzione di un even- tuale proseguimento degli studi. Inoltre si fa presente, coerentemente a quanto espresso già dai giovani, il bisogno di ricorrere a metodologie didattiche più coinvolgenti, per finire con l’ammettere che si sarebbero aspettati dagli allievi una maggiore corrispondenza alle proprie attese. c) I coordinatori avevano a disposizione 2 schede per documentare le modalità di svolgimento della sperimentazione. Con una prima sono state espresse le se- guenti valutazioni: - la partecipazione al corso da parte degli allievi è stata giudicata tra abba- stanza e molto assidua; - l’attività di orientamento si è svolta utilizzando tutti e tre i programmi pre- visti dal progetto; - l’esecuzione delle attività è avvenuta in maniera conforme a quanto è stato approvato dall’Ente pubblico e ha compreso tutte le azioni previste (coinvol- gimento dei vari attori, azioni di recupero/approfondimenti, verifiche…); - la qualità della docenza e della didattica è stata ritenuta pienamente efficace e corrispondente alle indicazioni del progetto; - il clima d’aula e fuori è stato considerato alquanto soddisfacente; - l’organizzazione è stata trovata abbastanza/pienamente adeguata in tutte le sue parti (riguardo alle attività previste, alle funzioni direttive e di coordina- mento, alle norme vigenti, alle modalità di trattamento degli allievi, al sup- porto offerto agli allievi e ai formatori…). 79 80 Inoltre, con una ulteriore scheda, di tipo descrittivo sono state riportate le mo- dalità di attuazione che hanno compreso: - il coinvolgimento nelle attività delle scuole-partner, delle famiglie, delle aziende e di altre strutture quali i centri per l’impiego, i centri di orienta- mento, i servizi socio-assistenziali, le parrocchie e le associazioni; - azioni formative molto rilevanti quali: l’accoglienza, l’orientamento, il bi- lancio delle competenze, la gestione dei crediti/passerelle, le metodologie di- dattiche, le azioni di recupero/approfondimento, l’adozione del libretto per- sonale e del portfolio, il sistema di valutazione. a) Infine i genitori si sono espressi con alti livelli di soddisfazione nei confronti di pressoché tutti gli aspetti oggetto di valutazione. In particolare essi hanno accentuato la ricaduta della sperimentazione sulla maturazione della persona- lità globale del figlio (dal punto di vista relazionale, collaborativo, morale, spi- rituale…) e sul suo futuro professionale, grazie soprattutto alla presenza molto apprezzata delle figure del coordinatore e del tutor. Tale gradimento è stato poi ulteriormente confermato da quel 90% dei genitori che, coerentemente a quanto già emerso in altre sperimentazioni, consiglierebbero anche ad altre fa- miglie di iscrivere il proprio figlio presso il CFP. I risultati messi in evidenza portano a concludere che, stando al giudizio di tutti i protagonisti coinvolti nella sperimentazione, complessivamente questa si può ritenere “ben riuscita”. E tuttavia, per una realizzazione che si potrebbe definire pienamente riuscita occorrerebbe migliorare quei (pochi) aspetti di criticità che le varie parti interessate hanno messo in evidenza. 81 BIBLIOGRAFIA Accordo Stato-Regioni su istruzione e formazione, firmato il 19 giugno 2003, in “Presenza CONFAP” 27 (2003)3/4, 5-8. Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni. VII Commissione Cultura, Scienza e Istru- zione (29 giugno 2006), Roma. BENADUSI L. - P. CATALDI - A. CENSI (a cura di), Riforme: una lettura sociologica, in “Scuola Democratica” 20 (1997)2/3, 5-254. BERTAGNA G., L’essenziale e l’accessorio, in “Scuola e Didattica” 46 (2001a) 13, 8-17. BERTAGNA G., La fretta fa i micini ciechi, in “Scuola e Didattica” 46 (2001b)14, 8-13. BERTAGNA G., Fare i conti con la riforma, in “Nuova Secondaria” 18 (2001c)10, 8-15. BERTAGNA G., La scuola tra «theoría», «téchne» e apprendistato. 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Ore erogate negli anni 2005-06 relativamente alle tipologie formative del Centro 8. Allievi iscritti nell’anno 2005-06 85 10. Quali di queste funzioni sono attivate nel Centro? 11. Esiste uno staff di direzione? Sì No 12. Specificare le strutture a vostra disposizione 13. Quali sono gli strumenti di progettazione educativo-formativa che utilizzate (pro- posta formativa, regolamento, carta del valori, manuale…)? 14. Quali sono le modalità prevalenti di erogazione formativa? (aula, laboratorio, di- dattica attiva, autoformazione assistita, FAD…) 9. Nel 2005-06 di quante figure (sia interne che esterne) vi siete avvalsi per svolgere tali attività? 86 Commenti (ed eventuali modifiche della lista dei modelli proposti) 21. Secondo quali criteri la formazione si intende riuscita? 22. La certificazione della classe ISO 9000/2000, interessa l’intero organismo oppure una sola o alcune parti di esso, precisando quali 23. Quale tipo di interazione esiste tra accreditamento esterno e sistema di gestione della qualità? 15. Quali sono le modalità di valutazione dei risultati dell’apprendimento degli al- lievi? 16. Prevedete la certificazione ed il riconoscimento dei crediti formativi? Se sì, in che modo? 17. Quali sono le forme di cooperazione previste con le famiglie degli allievi? (com- presa la partecipazione anche agli organi collegiali) 18. Quali sono le forme di collaborazione con gli allievi? 19. Quali sono le forme di collaborazione con le imprese? 20. Quali sono i vostri modelli di verifica e regolazione della qualità? 87 Commenti 25. Qual è l’impatto dell’azione del Centro nel contesto sociale e culturale, e quali ele- menti vi consentono di esprimere tale giudizio? 26. Qual è l’attuale immagine che il Centro proietta sull’esterno, e con quali indica- tori siete in grado di coglierla? Data 24. Esponete il vostro giudizio circa le performance principali del Centro (1 = min; 5= max), indicando su quali basi si poggia tale giudizio (percezione non strutturata, ri- cerca, valutazione strutturata…) 88 02 GESTIONE DESTINATARI 3. Provenienza degli iscritti nel 2005-06 A cura del Direttore/Coordinatore (l’anno di riferimento è il 2005-06) CFP: Sede operativa: Denominazione del percorso triennale di I e FP: Referente del monitoraggio: 1. Totale allievi iscritti all’inizio dell’anno formativo 2005-06: 1.1. di cui maschi: 1.2. di cui del 1° anno del percorso triennale: 14enni ................................ 15enni 2. Caratteristiche particolari degli allievi 89 5. Motivo del ritiro degli allievi durante l’anno 2005-06 6. Allievi aggiunti durante l’anno 2005-06 7. Situazione scolastica / formativa alla fine del corso (anno 2005-06) (1) per “insoddisfacente” si intende: non qualificato o passaggio con 3 o più debiti (2) per “carente” si intende: passaggio con 1 o 2 debiti (3) per “positivo” si intende: nessun debito e con punteggio medio complessivo tra 18 e 26 (4) per “eccellente” si intende: con punteggio medio complessivo oltre 27 4. Flusso degli allievi lungo l’anno formativo 90 03 CHEK-LIST PER LA VALUTAZIONE DELL’ATTUAZIONEDELLE AZIONI FORMATIVE * Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 1.1 – La presenza dell’utenza è stata registrata: 1. mai o solo in pochi casi 2. abbastanza frequentemente 3. sempre (o quasi) 1.2 – La frequenza dell’utenza è stata: 1. poco assidua (molte assenze) 2. abbastanza assidua 3. molto assidua (scarse assenze) 1.3 – Le motivazioni relative ai ritiri complessivamente sono state: 1. inadeguate o assenti 2. solo in parte adeguate 3. pienamente adeguate A cura del Direttore/Coordinatore CFP: Sede operativa: Denominazione corso: Data di compilazione: 91 * Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 2.1 – Nei confronti dei bisogni dell’utenza, il sistema informativo di base è risultato: 1. poco rispondente/inadeguato 2. abbastanza rispondente/adeguato 3. molto rispondente/adeguato 2.2 – L’azione di orientamento ha realizzato: 1. solo un programma su tre di quelli indicati al punto 2.2 2. due programmi su tre 3. tutti e tre i programmi (ed eventuali altri…) 2.3 – La situazione di partenza degli utenti: 1. non è stata rilevata 2. è stata rilevata con uno dei documenti indicati al punto 2.3 3. è stata rilevata con due documenti (ed eventuali altri…) 2.4 – Per l’autovalutazione: 1. non è stato predisposto alcuno strumento 2. è stato redatto solo il Piano di lavoro personalizzato 3. sono stati redatti anche altri supporti oltre al Piano 92 ** Riportare il numero * Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 3.1 – Rispetto al progetto formativo le attività realizzate sono risultate: 1. scarsamente conformi 2. conformi solo in parte 3. pienamente conformi 3.2 – Gli interventi in itinere di modifica del progetto sono stati gestiti: 1. non apportando nessuna modifica (o quasi) 2. apportando varie modifiche*** 3. riaggiustando il tiro ogni volta*** 3.3 – La valutazione degli interventi di modifica in itinere del progetto è stata fatta: 1. mai (o quasi) 2. qualche volta 3. spesso 93 94 3.4 – Le azioni di recupero/approfondimento: 0. non è stata fatta nessuna azione di recupero e di approfondimento 1. sono state scarsamente efficaci (nessun recupero o pochi) 2. sono state solo in parte efficaci (recupero nella metà dei casi) 3. sono state pienamente efficaci (recupero di tutti o quasi i casi) 4. non sono state necessarie azioni di recupero/approfondimento 3.5 – Nella valutazione del progetto formativo: 0. non è stata fatta nessuna valutazione 1. sono stati coinvolti solo gli operatori 2. sono stati coinvolti gli operatori e un’altra categoria tra quelle citate sopra 3. sono stati coinvolti gli operatori e almeno altre due categorie tra quelle citate sopra 3.6 – In rapporto al miglioramento del percorso gli esiti della valutazione: 1. non sono stati presi in considerazione (o poco in considerazione) 2. sono stati presi in considerazione solo alcuni e/o una parte 3. sono stati presi in considerazione tutti o quasi *** Chi ha valutato 2 o 3 è pregato di descrivere in sintesi, in un foglio a parte, cia- scuno degli interventi di modifica realizzati. 95 * Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 4.1 – La corrispondenza tra i requisiti del personale e quelli richiesti dal progetto, è stata: 1. bassa/minima (si è data in pochi casi) 2. intermedia/sufficiente (si è data in circa metà dei casi) 3. piena (si è data in tutti i casi o quasi) 4.2 – Il coordinamento delle diverse figure e ruoli si è dimostrato, complessiva- mente: 1. poco efficace 2. abbastanza efficace 3. pienamente efficace 4.3 – Il riesame dell’azione in corso è stato fatto: 1. mai (o quasi) 2. qualche volta 3. spesso 4.4 – La corrispondenza delle metodologie didattiche alle indicazioni progettuali, è stata: 1. bassa/minima (si è data in pochi casi) 2. intermedia/sufficiente (si è data in circa metà dei casi) 3. piena (si è data in tutti i casi o quasi) Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 5.1 – Il clima d’aula è stato caratterizzato da: 1. scarsa collaborazione/coinvolgimento degli utenti 2. parziale collaborazione/coinvolgimento degli utenti 3. piena collaborazione/coinvolgimento degli utenti 5.2 – Il coinvolgimento degli utenti nelle iniziative del Centro è stato: 1. scarso (si sono coinvolti attivamente in pochi) 2. sufficiente (si sono coinvolti attivamente circa una metà) 3. pieno (si sono coinvolti attivamente in molti) 96 ** Riportare il numero * Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 6.1 – Le funzioni previste nel progetto formativo sono state attivate: 1. nessuna (o quasi) 2. varie (circa una metà) 3. molte/tutte 6.2 – Gli ambienti rispetto alle attività del progetto formativo, sono: 1. poco adeguati 2. abbastanza adeguati 3. pienamente adeguati 6.3 – Il sistema sicurezza rispetto alle norme vigenti, è: 1. scarsamente conforme 2. conforme solo in parte 3. pienamente conforme 97 6.4 – Le modalità di trattamento dati degli allievi rispetto alle norme vigenti, sono: 1. scarsamente conformi 2. conformi solo in parte 3. pienamente conformi 6.5 – Rispetto agli esiti del progetto formativo le funzioni direttive e di coordina- mento sono state: 1. di scarso aiuto (hanno contribuito poco) 2. abbastanza d’aiuto 3. di grande aiuto 6.6 – Il supporto all’utenza nell’insieme delle funzioni citate (segreteria…) è risul- tato: 1. poco/scarsamente efficace 2. efficace solo in parte 3. pienamente efficace 6.7 – Il supporto ai formatori nell’insieme delle funzioni citate (segreteria…) è ri- sultato: 1. poco/scarsamente efficace 2. efficace solo in parte 3. pienamente efficace NB – Chi ha realizzato interventi di modifica al punto 3.2 è pregato di descrivere, sin- teticamente, in un foglio a parte, ciascuno degli interventi di modifica realizzati. 98 04 GRADIMENTO ALLIEVI Al centro di elaborazione dati, andranno consegnati direttamente i questionari compilati dai ragazzi (cfr. pagine seguenti). Ai formatori viene richiesto di compilare solo la parte sottostante. CFP: Sede operativa: Denominazione corso: Annualità: TERZA Data di compilazione: 99 100 A cura di ciascun allievo ISTRUZIONI La scheda ha lo scopo di raccogliere le tue impressioni sull’esperienza forma- tiva a cui hai partecipato. Ti chiediamo di esprimere la tua valutazione mettendo una croce (X) nel ri- quadro relativo al punteggio (da 1 a 4) che desideri dare alla domanda. Ricorda che il valore più alto corrisponde al numero 4, e il valore più basso al numero 1: 1 = per nulla 2 = in parte 3 = abbastanza 4 = molto Ecco un esempio - Domanda: “La giornata trascorsa al centro è piacevole?” Se questo corrisponde in pieno a quello che pensi, risponderai facendo una X sul quadrato con il numero 4: Valore più basso Valore più alto Se invece non trovi che la giornata al centro sia piacevole, risponderai facendo una X sul quadrato con il numero 1: Valore più basso Valore più alto Al termine di ciascuna domanda, troverai un breve spazio che potrai utilizzare per comunicare le tue osservazioni e offrire dei suggerimenti. Ti chiediamo di scrivere in modo leggibile; il tuo contributo è molto impor- tante per la qualità del nostro servizio. BUON LAVORO 1 2 3 4 1.1. Trovi chiari gli argomenti affrontati? 1.2. Ti sembrano importanti gli argomenti trattati? 1.3. Gli argomenti su cui devi lavorare, li trovi anche nella vita, fuori dal Centro? 1.4. Ti interessano gli argomenti che sono trattati al centro? Annotazioni: 1. Contenuti 101 1 2 3 4 2.1. Ti sembra che i tuoi formatori conoscano le cose di cui parlano e che le sappiano fare? 2.2. Pensi che i tuoi formatori parlino in modo chiaro, li capisci facilmente? 2.3. Quando spiegano, i tuoi formatori si aiutano con esempi della vita reale? Utilizzano esperienze che conosci? 2.4. Ti sembra che i tuoi formatori capiscano i tuoi problemi? Annotazioni: 2. Formatori 1 2 3 4 3.1. Il modo in cui si svolgono le lezioni ti coinvolge? Ti fa sentire interessato? Ti aiuta a restare attento e concentrato? 3.2. Ti sembra che tra i tuoi formatori ci siano forme di collaborazione che possano migliorare il loro lavoro con voi? 3.3. I tuoi formatori sono corretti nel valutare le tue prestazioni? Annotazioni: 3. Metodi 1 2 3 4 4.1. Trovi che i tempi delle varie attività del centro siano ben distribuiti? 4.2. Trovi che gli spazi a disposizione del centro siano ben utilizzati? 4.3. Gli strumenti che il centro mette a disposizione sono adeguati ai compiti che devi svolgere? Annotazioni: 4. Organizzazione 1 2 3 4 5.1. Ritieni che il corso ti abbia aiutato ad acquisire conoscenze generali (cultura)? 5.2. Ritieni che il corso ti abbia aiutato ad acquisire conoscenze tecnico-professionali (materie tecniche)? 5.3. Ritieni che il corso ti abbia aiutato ad acquisire capacità operative (laboratori)? 5.4. Ritieni che quanto hai imparato al centro potrai usarlo nella vita fuori dal Centro (spendibilità operativa)? Annotazioni: 5. Formatori 102 1 2 3 4 7.1. Sei soddisfatto della tua esperienza al Centro? Annotazioni: 7. Soddisfazione Eccessivo Adeguato Insufficiente Come trovi il tempo dedicato a: 6.1. Teoria 6.2. Laboratorio 6.3. Stage 6.4. Orientamento, accoglienza, accompagnamento/tutoraggio Annotazioni: 6. Tempi 103 06 GRADIMENTO FORMATORI CFP: Sede operativa: Denominazione corso: Data di compilazione: Area di insegnamento: 1) Linguaggi 2) Scientifica 3) Tecnologica 4) Storico-socio-economica 5) Professionale 6) Altro Gentile formatrice / formatore, a conclusione dell’anno di sperimentazione del progetto, Le chiediamo di esprimere un parere sull’esperienza realizzata. Nelle pagine che seguono, troverà una serie di domande alle quali Le chiediamo di ri- spondere indicando l’informazione richiesta, o esprimendo una valutazione (mettendo una X sulla risposta scelta). È importante che risponda a tutte le domande. In coda a ciascuna area di indagine, abbiamo inserito uno spazio (“Considerazioni aggiuntive”) in cui Le chiediamo di esprimere liberamente il Suo parere in merito all’area in oggetto. Grazie per la Sua preziosa collaborazione. 104 1. INFORMAZIONI GENERALI E MOTIVAZIONI 1.1. Anno di nascita 1.2. Sesso F M 1.3. Titolo di studio 1.3.1. Licenza media 1.3.2. Qualifica professionale 1.3.3. Diploma 1.3.4. Laurea 1.3.5. Altro (specificare) 1.8.1 Studente 1.8.2 Formatore 1.8.3 Occupato in un settore coerente rispetto a quello attuale 1.8.4 Occupato in un settore non coerente rispetto a quello attuale 1.8.5 Altro (specificare) 1.9.1. Opportunità di lavoro 1.9.2. Per interesse generico nei confronti della FP 1.9.3. Per un interesse specifico nei confronti della FP 1.9.4. Perché non mi è possibile accedere ad altre attività 1.9.5. Altro (specificare) 1.4. È iscritto ad un albo professionale? NO SI 1.5. Se sì, indichi quale 11.6. Qual è il suo incarico nel corso? (Può contrassegnare più risposte) 1.6.1. Formatore 1.6.2. Orientatore 1.6.3. Tutor 1.6.4. Coordinatore 1.6.5. Docente di sostegno 1.6.6. Altro (specificare) 1.7. Da quanti anni insegna nella formazione professionale iniziale? 1.8. Cosa faceva prima? (Può contrassegnare più risposte) 1.9. Per quali motivi insegna nel corso sperimentale di IeFP? (Può contrassegnare più risposte) 1.10. Considerazioni aggiuntive 105 3.1. Pensa che il personale formativo sia preparato sul piano dei contenuti? 3.2. Le sembra che il personale formativo sia preparato sul piano tecnico-professionale? 3.3. Le sembra che il personale formativo sia in grado di sviluppare una relazione amiche- vole e promozionale con gli allievi? 3.4. Le sembra che il personale formativo sia in grado di sviluppare una didattica attiva e coinvolgente? 3.5. Considerazioni aggiuntive 106 2. ALLIEVI 2.1. Gli allievi del corso corrispondono alle sue aspettative? 2.2. Le interessano le questioni e le problematiche che i suoi allievi le pongono? 2.3. Ritiene che i suoi allievi possano trovare giovamento dal corso nel suo insieme? 2.4. Ritiene che i suoi allievi possano trovare giovamento dal suo insegnamento / servizio? 2.5 Considerazioni aggiuntive per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 3. PERSONALE FORMATIVO per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 107 4. PROGETTO per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 4.1. Il progetto formativo è adeguato sul piano professionale? 4.2. Il progetto formativo è adeguato sul piano contenutistico? 4.3. Il progetto formativo è adeguato in rapporto agli allievi del corso? 4.4. Considerazioni aggiuntive 5. ORGANIZZAZIONE per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 5.1. Trova che i tempi delle varie attività del Centro siano ben distribuiti? 5.2. Trova che gli spazi a disposizione del Centro siano ben utilizzati? 5.3. Trova che gli strumenti che il Centro mette a disposizione siano adeguati ai compiti che il personale e gli allievi sono chiamati a svolgere? 5.4. Considerazioni aggiuntive 6. APPRENDIMENTO per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 6.1. Il corso ha aiutato gli allievi ad acquisire conoscenze generali? 108 6.2. Il corso ha aiutato gli allievi ad acquisire conoscenze tecnico - professionali? 6.3. Il corso ha aiutato gli allievi ad acquisire capacità operative? 6.4. Ritiene che quanto gli allievi hanno imparato al centro possa essere proficuamente uti- lizzato nella loro futura vita professionale? 6.5. Ritiene che quanto gli allievi hanno imparato al centro possa essere proficuamente uti- lizzato per il proseguimento degli studi? 6.6. Considerazioni aggiuntive per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 6. APPRENDIMENTO 7.1. Come trova il tempo dedicato a: (Per ogni riga dare 2 risposte: 1 per il tempo +/- “sufficiente” e l’altra per l’”ade- guatezza”) 7.2. Considerazioni aggiuntive 7.1.1. Teoria 7.1.2. Laboratorio 7.1.3. Stage 7.1.4. Orientamento 7.1.5. Accoglienza 7.1.6. Accompagnamento “SUFFICIENZA” Insufficiente Sufficiente Eccessivo Inadeguato Adeguato Ottimale “ADEGUATEZZA” 109 Scriva di seguito le sue osservazioni e i suoi suggerimenti Grazie per la collaborazione 8. SODDISFAZIONE E FUTURO Annotazioni per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 8.1. Si ritiene soddisfatto della sua esperienza nel corso? 8.2. Consiglierebbe questo lavoro ad un suo amico/ad una sua amica? Sì No 8.3. Nel prossimo futuro, cosa intende fare? 8.4. Considerazioni aggiuntive 8.3.1. Continuare questa esperienza 8.3.2. Continuare nelle funzioni attuali, ma in un altro tipo di corso 8.3.3. Modificare le attuali funzioni entro il corso 8.3.4. Modificare le attuali funzioni entro il centro 8.3.5. Modificare le attuali funzioni fuori dal centro 8.3.6. Altro (specificare) 1. SCUOLE Livello di coinvolgimento 1.1. � segnalazione Come? 1.2. � iscrizione Come? 1.3. � incontri periodici Come? 1.4. � partecipazione a momenti di programmazione Come? 1.5. � partecipazione a momenti di verifica/miglioramento Come? 1.6. � altro: Come? 2. ALTRE STRUTTURE Livello di coinvolgimento 2.1. � Centri per l’Impiego Come? 2.2. � Servizi di Orientamento Come? 2.3. � Servizi socio-assistenziali Come? 2.4. � Parrocchie Come? 2.5. � Associazioni e gruppi Come? 2.6. � altro: Come? 110 A cura del Direttore/Coordinatore CFP: Sede operativa: Denominazione corso: Data di compilazione: La presente scheda ha l’obiettivo di fissare in termini sintetici il progetto formativo per individuare in che modo sono stati delineati gli snodi fondamentali dello stesso. La scheda delinea un “modello formativo” concordato in sede progettuale. Si chiede di compilare la scheda in chiave interpretativa – con l’ausilio delle note in- dicate – in modo da far emergere le modalità reali in cui sono stati previsti ed attuati gli elementi indicati. 07 VALUTAZIONE COMPLESSIVA DEL CORSO 111 3. FAMIGLIE Livello di coinvolgimento 3.1. � iscrizione Come? 3.2. � incontri periodici Come? 3.3. � partecipazione a momenti di programmazione Come? 3.4. � partecipazione a momenti di verifica/miglioramento Come? 3.5. � altro: Come? 4. IMPRESE Livello di coinvolgimento 4.1. � nella progettazione Come? 4.2. � nell’orientamento e nelle visite Come? 4.3. � nello stage Come? 4.4. � altro: Come? 5. ACCOGLIENZA È stata fatta l’accoglienza? 5.1. � SI 5.2. � NO Come? 6. ORIENTAMENTO Modalità di svolgimento 6.1. � si svolge prima dell’iscrizione, in integrazione con la scuola secondaria di I e II grado 6.2. � consiste nella presentazione del corso 6.3. � si svolge nella fase iniziale con materiali, incontri con testimoni, visite aziendali… 6.4. � è un percorso integrato nella progettazione formativa con azioni periodiche 6.5. � altro: 8. GESTIONE CREDITI/PASSERELLE 8.1 - Sono state realizzate delle passerelle? 8.1.1. � SI 8.1.2. � NO (vai al n. 9) (se SI) Di che tipo? 8.1.1.1. � da e per la scuola o altri CFP Come ? 8.1.1.2. � da e per il lavoro/apprendistato Come ? 8.2 - È stato attuato il riconoscimento dei crediti in ingresso (“modello C”)? 8.2.1. � SI 8.2.2. � NO (se SI) Con quali modalità sono stati riconosciuti i crediti in ingresso? 8.3 - È stata attuata la gestione dei crediti in uscita? 8.3.1. � SI 8.3.2. � NO (se SI) Con quali modalità vengono certificati i crediti in uscita? 8.3.1.1. � certificato competenze (“modello B”) 8.3.1.2. � altro 7. BILANCIO PERSONALE Viene effettuato? 7.1. � SI 7.2. � NO (se SI) Come viene fatto ? Quando? 112 10. MODULARITA’ Il percorso formativo è stato realizzato in forma modulare? 10.1. � SI 10.2. � NO (se SI) Come ? (se NO) In quale altro modo è stato realizzato il percorso formativo? 11. METODOLOGIE DIDATTICHE Le metodologie: 11.1. � sono state distinte tra area culturale e tecnico-professionale 11.2. � prevedono forme di interdisciplinarità 11.3. � prevedono forme di simulazione 11.4. � prevedono approcci didattici per centri d’interesse 11.5. � altro: 9. RECUPERI/APPROFONDIMENTI 9.1 - Sono state realizzate unità formative di recupero? 8.1.1. � SI 8.1.2. � NO (se SI) In quali fasi ? Come? (contenuti/esperienze) 9.2 - Sono state realizzate unità formative di approfondimento? 9.2.1. � SI 9.2.2. � NO (se SI) In quali fasi ? Come? (contenuti/esperienze) 113 114 12. VALUTAZIONE Quali strumenti vengono utilizzati per valutare: 12.1. le conoscenze: 12.2. le abilità: 12.3. le capacità: 12.4. le competenze: 13. LIBRETTO PERSONALE E PORTFOLIO 13.1 È stato compilato il libretto personale per tutti gli allievi? 13.1.1. � SI 13.1.2. � NO 13.2 È stato compilato il portfolio delle competenze per tutti gli allievi? 13.2.1. � SI 13.2.2. � NO 115 La compilazione della prima pagina è a cura del centro di formazione CFP: Sede operativa: Denominazione corso: Annualità: TERZA Data di consegna: ISTRUZIONI Il questionario ha lo scopo di raccogliere le impressioni delle famiglie (genitori o chi ne fa le veci) sull’esperienza vissuta dagli allievi del centro di formazione professionale du- rante questo anno. Dopo ogni domanda, troverete un breve spazio che potrete utilizzare per commentare le risposte date. In fondo al questionario è stato inoltre riservato uno spazio per ulteriori osservazioni e suggerimenti su qualsiasi aspetto del corso. I suggerimenti e le valutazioni espresse saranno preziosi contributi per il migliora- mento della proposta formativa. Grazie per la collaborazione 08 VALUTAZIONE COMPLESSIVA DEL CORSO 1) Ritiene che il ragazzo partecipi volentieri alle attività proposte nel corso frequen- tato? Per nulla Poco Abbastanza Molto Commenti: 2) Ritiene che gli argomenti affrontati e le attività svolte siano importanti e utili per il futuro professionale del ragazzo/a ? Per nulla Poco Abbastanza Molto Commenti: 3) Ritiene soddisfacenti i risultati raggiunti dal ragazzo /a rispetto alla sua prepara- zione all’inizio del corso? Per nulla Poco Abbastanza Molto Commenti: 4) Ritiene che il ragazzo/a abbia maturato la capacità di socializzare e collaborare con gli altri? Per nulla Poco Abbastanza Molto Commenti: 5) Ritiene utile ed efficace la presenza di una persona di riferimento all’interno del corso? (coordinatore del corso oppure tutor oppure responsabile del corso) Per nulla Poco Abbastanza Molto Commenti: 116 117 6) Ritiene sufficienti i momenti di incontro preposti per favorire la collaborazione e lo scambio fra il centro di formazione e le famiglie? Per nulla Poco Abbastanza Molto Commenti: 7) Ritiene che gli ambienti a disposizione dei ragazzi/e nel centro di formazione siano adeguati alle attività svolte? (aule, laboratori, aule informatiche, ecc…) Per nulla Poco Abbastanza Molto Commenti: 8) Ritiene soddisfacente il tempo dedicato alle varie attività del corso? Per nulla Poco Abbastanza Molto Commenti: 9) Ritiene adeguati gli strumenti messi a disposizione dal centro di formazione per supportare le attività che i ragazzi devono svolgere? (computer, macchine, libri, dispense, materiali per le esercitazioni, ecc…) Per nulla Poco Abbastanza Molto Commenti: 10) Ritiene soddisfacenti nell’insieme i servizi offerti dal centro di formazione? (orientamento, attività formative, segreteria, animazione, mensa, ecc..) Per nulla Poco Abbastanza Molto Commenti: 11) Consigliereste ad altri il nostro Centro? Sí No Forse 118 OSSERVAZIONI E SUGGERIMENTI 119 120 121 INDICE PRESENTAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 Parte I IL QUADRO TEORICO Capitolo 1 IL DIRITTO-DOVERE ALL’ISTRUZIONE E ALLA FORMAZIONE. BILANCIO DI UN DIBATTITO (G. Malizia) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1. La prospettiva pedagogica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.1. I contenuti del diritto all’educazione e i soggetti protetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.2. Le strategie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 1.2.1. Le strategie dell’eguaglianza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 1.2.2. Le strategie della personalizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 1.2.3. Le strategie della corresponsabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 1.3. Obbligo o diritto-dovere? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16 2. Il recente cammino delle riforme ordinamentali in Italia . . . . . . . . . . . . . . 17 2.1. Un diritto ancora inattuato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 2.2. La riforma Berlinguer (Legge 30/2000 sul riordino dei cicli) . . . . . . . . . . . . . . . 19 2.3. La Legge Moratti (Legge delega 53/03) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22 2.4. Il decreto legislativo sul diritto-dovere e i percorsi sperimentali triennali . . . . . . 24 3. Conclusione. Verso l’obbligo di istruzione: un ritorno al passato? . . . . . . 28 Parte II L’INDAGINE SUL CAMPO NEL QUADRO DELLA SPERIMENTAZIONE DEL DIRITTO-DOVERE Capitolo 2 I PERCORSI TRIENNALI DEL DIRITTO-DOVERE NEI CFP DEL CNOS-FAP E DEL CIOFS/FP. UN QUADRO SINTETICO DELLE ATTIVITÀ FORMATIVE PREGRESSE (2000-05) (V. Pieroni) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 1. I Centri del CNOS-FAP del Lazio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 1.1. Relazione del CFP “T. Gerini” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 1.1.1. Numero dei corsi e degli allievi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 1.1.2. Il gradimento degli allievi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34 1.2. Relazione del CFP “Borgo Ragazzi Don Bosco” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 1.2.1. Il gradimento dei formatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 1.2.2. Il gradimento degli allievi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 1.3. Relazione del CFP “Borgo Ragazzi Don Bosco” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 1.3.1. Dati di scenario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 1.3.2. Il gradimento degli allievi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 2. I Centri del CNOS-FAP del Lazio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38 Capitolo 3 L’INDAGINE SUL CAMPO (V. Pieroni) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41 1. Caratteristiche dei Centri, degli allievi, dei formatori e dell’offerta formativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41 1.1. I Centri e l’offerta formativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41 1.2. Caratteristiche degli allievi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 1.3. Caratteristiche dei formatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48 1.4. Forme di collaborazione con gli allievi, le famiglie, le imprese ed il territorio . . . 49 1.5. Le strategie della qualità formativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50 1.6. Il sistema di valutazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 2. Valutazione della sperimentazione da parte dei diversi attori: allievi, formatori, coordinatori e genitori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53 2.1. Il gradimento degli allievi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53 2.1.1. Valutazione dei contenuti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54 2.1.2. Valutazione dei formatori da parte degli allievi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55 2.1.3. Valutazione dei metodi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55 2.1.4. Valutazione dell’organizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 2.1.5. Valutazione degli apprendimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 2.1.6. Valutazione della distribuzione degli orari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 2.1.7. Valutazione complessiva dell’esperienza da parte degli allievi . . . . . . . . . . . . 58 2.2. Il gradimento dei formatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58 2.2.1. Valutazione degli allievi da parte dei formatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58 2.2.2. Valutazione del personale da parte dei formatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 2.2.3. Valutazione del progetto del percorso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 2.2.4. Valutazione dell’organizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60 2.2.5. Valutazione degli apprendimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60 2.2.6. Valutazione della distribuzione dei tempi in rapporto alle varie azioni svolte nel corso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61 2.2.7. Valutazione complessiva dell’esperienza del corso da parte dei formatori . . . . 61 122 2.3. Valutazione delle azioni formative da parte dei coordinatori . . . . . . . . . . . . . . . 62 2.3.1. Valutazione della partecipazione degli allievi da parte dei coordinatori . . . . . 62 2.3.2. Valutazione dell’orientamento degli allievi da parte dei coordinatori . . . . . . . 62 2.3.3. L’esecuzione del progetto formativo e la gestione degli interventi di modifica . 63 2.3.4. La qualità della docenza e della didattica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65 2.3.5. Il clima dei rapporti in aula e fuori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66 2.3.6. L’adeguatezza dell’organizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66 2.4. Valutazione complessiva del corso da parte dei coordinatori . . . . . . . . . . . . . . . . 67 2.4.1. I livelli di coinvolgimento delle parti interessate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68 2.4.2. La realizzazione delle azioni formative più rilevanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70 2.5. Valutazione complessiva del corso da parte dei genitori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72 Osservazioni conclusive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 Appendice - Gli strumenti di rilevazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83 Indice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 123 124 Pubblicazioni 2002-2007 nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” ISSN1972-3032 1. Nella sezione “studi” 1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. La formazione professio- nale per lo sviluppo del territorio. Castel Brando (Treviso), 9 - 11 settembre 2002, 2003 2) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XV seminario di formazione europea. Il sistema dell’istruzione e formazione professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi, 2004 3) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVI seminario di formazione europea. La formazione professio- nale fino alla formazione superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, 2005 4) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orientativi, 2003 5) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Ca- tania, Noto, Modica, 2004 6) CNOS-FAP (a cura di), Gli editoriali di “Rassegna CNOS” 1996-2004. Il servizio di don Stefano Colombo in un periodo di riforme, 2004 7) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, 2002 8) MALIZIA G. - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto sul follow - up, 2003 9) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale, 2004 10) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, 2004 11) D’AGOSTINO S. - G. MASCIO - D. NICOLI, Monitoraggio delle politiche regionali in tema di istru- zione e formazione professionale, 2005 12) PIERONI V. - G. MALIZIA (a cura di), Percorsi/progetti formativi “destrutturati”. Linee guida per l’inclusione socio-lavorativa di giovani svantaggiati, 2005 13) NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale nell’anno formativo 2004-2005, 2006 14) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Rapporto di ricerca, 2007 15) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVIII seminario di formazione europea. Standard formativi nell’i- struzione e nella formazione professionale. Roma,7-9 settembre 2006, 2007 16) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, Ristampa 2007 17) COLASANTO M. - LODIGIANI R. (a cura di), Il ruolo della formazione in un sistema di welfare at- tivo (2007) 18) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Rapporto di ricerca (2007) 19) NICOLI D. - R. FRANCHINI, L’educazione degli adolescenti e dei giovani. Una proposta per i percorsi di istruzione e formazione professionale (in stampa) 20) MALIZIA G. et alii, Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere (in stampa) 21) MALIZIA G. et alii, Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Pro- blemi e prospettive (in stampa) 22) NICOLI D., La rete formativa nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP (in stampa) 2.Nella sezione “progetti” 23) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 24) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio meto- dologico e proposte di strumenti, 2003 125 25) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003 26) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004 27) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 28) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e pro- poste di strumenti, 2003 29) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale alimentazione, 2004 30) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004 31) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004 32) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale estetica, 2004 33) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004 34) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale tessile e moda, 2004 35) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003 36) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffu- sione di una buona pratica, 2004 37) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004 38) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale grafica e multimediale, 2004 39) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale legno e arredamento, 2005 40) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale meccanica, 2004 41) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004 42) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, 2003 43) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa. Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d. 44) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003 45) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003 46) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003 47) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istru- zione e della formazione professionale, 2004 48) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel si- stema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 49) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003 50) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui per- corsi formativi, 2003 51) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il percorso quadriennale, 2005 52) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005 53) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005 54) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Percorsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005 55) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006 56) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006 126 3. Nella sezione “esperienze” 57) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003 58) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in itinere, 2003 59) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento fi- nale, 2003 60) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage, 2003 61) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti, 2003 62) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordina- tore delle attività educative del CFP, 2005 63) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i per- corsi di istruzione e formazione professionale, 2006 64) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro polifunzionale diurno di Roma, 2006 65) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei per- corsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006. Rapporto finale, 2006 127 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net Luglio 2007 128

Le sperimentazioni del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Rapporto di ricerca

Autore: 
Guglielmo Malizia - Vittorio Pieroni
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2007
Numero pagine: 
135
A cura di Guglielmo MALIZIA - Vittorio PIERONI Le sperimentazioni del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia Rapporto di ricerca CIOFS/FP 3 SOMMARIO Sommario ........................................................................................................ 3 Presentazione..................................................................................................... 5 Introduzione ...................................................................................................... 9 Parte I IL QUADRO TEORICO ........................................................................................... 13 Capitolo 1 - Il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. Bilancio di un dibattito ................................................................................................... 15 1. La prospettiva pedagogica......................................................................... 15 2. Il recente cammino delle riforme ordinamentali in Italia ......................... 21 3. Conclusione. Verso l’obbligo di istruzione: un ritorno al passato? .......... 32 Parte II L’INDAGINE SUL CAMPO NEL QUADRO DELLA SPERIMENTAZIONE DEL DIRITTO-DOVERE .......................................................................................... 35 Capitolo 2 - I percorsi triennali del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia (2000-05). Un quadro sintetico delle attività formative pregresse ........................................................................ 37 1. I Centri del CNOS-FAP della Sicilia ....................................................... 37 2. I Centri del CIOFS/FP della Sicilia ......................................................... 44 Capitolo 3 - L’indagine sul campo ................................................................... 49 1. Caratteristiche dei Centri, degli allievi, dei formatori e dell’offerta formativa .................................................................................................. 49 2. Valutazione della sperimentazione da parte dei diversi attori: allievi, formatori, coordinatori e genitori............................................................. 61 Osservazioni conclusive.................................................................................... 89 Riferimenti bibliografici .................................................................................. 95 4 Appendice: Gli strumenti di rilevazione ........................................................ 97 Allegato: Scheda normativa e legislativa della Sicilia................................... 131 Indice.................................................................................................................. 133 5 PRESENTAZIONE La ricerca presentata in questo volume intende rispondere alla necessità di ave- re una prima valutazione dei nuovi percorsi formativi triennali di istruzione e for- mazione professionale attuati nella Regione Sicilia sulla base dell’accordo Stato-Re- gioni del 19 giugno 2003 e offrire spunti di riflessione a quanti a vario titolo ne so- no stati coinvolti per proseguire nel cammino intrapreso. Il monitoraggio mette in luce vari aspetti positivi quali l’aumento della richie- sta di iscrizione degli allievi ai percorsi sperimentali di Istruzione e Formazione professionale, una notevole riduzione degli insuccessi da parte degli stessi ed una accresciuta soddisfazione manifestata dai formatori, dai genitori e dagli allievi. Questo risultato è stato il frutto di un processo innovativo che ha riguardato i Centri di Formazione Professionale (CFP) coinvolti nella sperimentazione e in par- ticolare quelli delle Associazioni del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. L’in- novazione si è concretizzata, in particolare, nel porre il giovane e i suoi interessi al centro della proposta, offrendogli un cammino che fa leva sull’apprendimento più che sull’insegnamento e lo guida attraverso un percorso formativo unitario che su- pera la tradizionale separazione tra teoria e pratica, in coerenza con l’attuale sce- nario della società cognitiva. Il processo formativo adotta una strategia circolare tra saperi, esperienza, educazione nella prospettiva del life long learning. La valo- rizzazione dell’esperienza e della pratica, il rapporto diretto col mondo produttivo come giacimento formativo, culturale e didattico, pongono l’allievo in situazione di apprendimento attivo, facilitando l’acquisizione di competenze, lo svolgimento di compiti, la soluzione di problemi operativi legati a concrete operazioni da svolgere. La dimensione professionale presente nella scelta pedagogica assume un valore me- todologico che si presenta alternativo all’approccio disciplinare. È stato soprattutto l’approccio induttivo che ha permesso ai molti giovani, che hanno frequentato i percorsi formativi, di acquistare o riacquistare fiducia nelle pro- prie capacità di apprendere e di utilizzare progressivamente le competenze matura- te nei percorsi affrontati al CFP (Centro di Formazione Professionale) anche nella vita professionale e quotidiana. Sono riusciti così a superare le tante forme di de- motivazione che li hanno afflitti a motivo soprattutto degli insuccessi o di forme di insoddisfazione maturati negli anni precedenti. È stato fondamentale far sperimentare agli allievi, sul piano educativo, espe- rienze positive che li hanno stimolati a continuare a crescere e a migliorare le loro capacità di interagire positivamente con le varie situazioni vitali, imparando conti- nuamente dall’esperienza. Naturalmente quanto detto è valso anche per il formatore: egli stesso ha auto 6 continuamente bisogno di imparare dall’esperienza ed è l’esperienza che lo ha reso capace di adeguare costantemente il suo metodo di accompagnamento. La sperimentazione dei percorsi triennali ha rappresentato certamente una sfi- da. Si è trattato, infatti, di produrre un cambiamento in situazioni in cui, per moti- vi più diversi, le forme tradizionali di insegnamento, fondate prevalentemente sul- lo statuto delle discipline, hanno finito per escludere una gran parte di giovani dai percorsi scolastici. L’impegno tuttavia è ancora duro in rapporto alla non esclu- sione. La Regione Siciliana, valorizzando i risultati positivi ricavati dalle sperimenta- zioni, potrà perfezionare questo modello di formazione professionale iniziale (FPI), inserendolo nel più ampio ordinamento regionale, nazionale ed europeo. Stato e Regioni hanno giudicato positivamente questo cammino compiuto tra gli anni 2003 e 2006, considerandolo per il sistema Paese un significativo elemento di novità, un primo quadro omogeneo condiviso tra i sistemi di Istruzione e Formazio- ne (Accordo Stato-Regioni del 5 ottobre 2006). Al termine di questa prima fase di sperimentazioni, si legge ancora nell’Accor- do citato, Stato e Regioni hanno elaborato un percorso formativo che garantisce al- la persona, nell’ottica dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita ed in co- erenza con le indicazioni europee, la possibilità di transitare tra gli stessi sistemi ed i differenti territori, grazie alla trasparenza e leggibilità degli apprendimenti acqui- siti nei diversi ambiti di studio, di formazione e di lavoro. Questo percorso trienna- le si colloca entro una cornice unitaria di riferimento di standard di base e tecnico professionali, condivisa a livello nazionale, imperniata sulla definizione e l’indivi- duazione delle figure professionali, rispetto al quale i diversi sistemi regionali rela- tivamente ai percorsi di istruzione e formazione declineranno i propri specifici pro- fili; il sistema di Istruzione e Formazione professionale si è dotato di un primo elen- co di qualifiche professionali a valenza nazionale (14 profili) che sono il frutto del- le sperimentazioni attivate dal 2003 e certificate da una qualifica professionale cor- rispondente almeno al secondo livello europeo (85/368/CEE). Nell’arco di un triennio, pertanto, dal 2003 al 2006, la FPI si è dotata di un idealtipo di percorso caratterizzato da forti elementi di sistema, anche se richiedo- no ulteriori miglioramenti: le specifiche finalità del percorso formativo, distinte da quelle dell’istruzione, la definizione di standard di base e tecnico professionali pro- pri delle macro aree, l’età di accesso dopo la conclusione del primo ciclo di studi, la durata del percorso, almeno triennale, la certificazione in itinere e finale, le mo- dalità per passare da un sistema all’altro e l’ingresso nel mondo del lavoro, un elen- co di qualifiche di valenza nazionale e corrispondenti almeno al secondo livello eu- ropeo che consente l’avvicinamento ai riferimenti europei adottati dal programma “Istruzione e Formazione 2010”. Valorizzando questo patrimonio, la Regione Siciliana potrà continuare ad irro- bustire un sistema che permetterà di far conseguire ai giovani che lo frequentano una qualifica professionale utile sia per l’occupabilità che per l’esercizio dei diritti di cittadinanza. 7 Gli Enti di formazione potranno collaborare con la Regione Siciliana soprat- tutto nel proseguire con una attenta sperimentazione che permetterà di individuare criteri metodologici per la manutenzione e l’aggiornamento degli standard formati- vi minimi nazionali sia di base che tecnico professionali. La sperimentazione porte- rà, altresì, alla creazione di relazioni stabili con le istituzioni scolastiche in rappor- to al riconoscimento dei crediti maturati dagli allievi nei diversi sistemi formativi. In questo processo, i formatori saranno supportati da azioni di formazione continua. Sono state infatti istituite, a livello regionale, équipe per l’accompagnamento dei formatori dei diversi Centri in rapporto alla pianificazione dei percorsi, alla predi- sposizione degli strumenti didattici, degli stage, dei modelli di verifica, di valuta- zione, ecc. I CFP potranno accrescere il patrimonio di risorse umane e di beni stru- mentali, oltre a quelli già in loro possesso: processi di progettazione, di program- mazione, di orientamento, di tutoraggio, di accompagnamento, di analisi del terri- torio e di mercato; un patrimonio di attrezzature: laboratori adeguati, procedure operative, dispositivi per la ricerca, collocazione tutoraggio del percorso di stage. Il CREA (Centro Risorse Educative per l’Apprendimento) opera in vista della valida- zione e condivisione delle risorse didattiche, educative e orientative prodotte dagli operatori e condivise attraverso i sito del CNOS-FAP. L’impegno è quello di porre in essere un servizio di qualità per una diversificazione e ampliamento dell’offerta formativa costantemente monitorato ed aggiornato. È il contributo che ci proponia- mo di offrire alla Regione Siciliana per il successo della formazione iniziale ma an- che di quella superiore, continua e permanente. Catania, 18 marzo 2007 Cataldo Ballistreri (Presidente CNOS-FAP Sicilia) Mariella Lo Turco (Presidente CIOFS/FP Sicilia) 9 INTRODUZIONE La presente ricerca intende contribuire allo sviluppo della formazione profes- sionale contestualmente e in sinergia con la riforma in corso del sistema educativo di istruzione e di formazione. Più specificamente, l’innovazione a cui l’indagine si collega riguarda la sperimentazione di nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale in coerenza con la legge 53/03, con l’Accordo Stato-Regioni su istru- zione e formazione del 2003 e con il D.Lgs. 76/05. Richiamiamo brevemente il quadro di riferimento. Anzitutto, come si sa, la ri- forma Moratti ha assicurato ad ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciot- tesimo anno di età, e inoltre ha introdotto un percorso graduale e continuo di for- mazione professionale parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che porta all’acquisizione di qualifiche e titoli (Malizia, 2005). Il salto di qua- lità realizzato in materia dalla legge 53/03 ha trovato la sua attuazione concreta con l’approvazione del D.Lgs. 76/05, che definisce la norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione (Montemarano, 2005). A sua volta, l’Accordo Stato-Regioni su istruzione e formazione (2003) ha consentito di avviare dal 2003 la sperimentazione dei percorsi triennali di istruzione e di formazione “intesa come un laboratorio per la definizione di un nuovo modello di percorso e di offerta di istruzione e di formazione, non legata alla semplice integrazione dell’esistente (istruzione da una parte e formazione professionale dall’altra), ma proteso a verifi- care la prospettiva aperta dalla riforma […]”, tenuto conto che “l’analisi degli ele- menti di crisi evidenziava come un sistema fondato sulla centralità dei modelli sco- lastici non riuscisse a rispondere a una domanda diffusa e diversificata di forma- zione” (Sugamiele, 2006, p. 35). In pratica, la realizzazione della sperimentazione dei percorsi del diritto-dovere ha messo a confronto due tipologie molto diverse. Infatti, alcune Regioni hanno puntato all’integrazione dei percorsi di istruzione statale con moduli di formazione professionale. Al contrario, altre Regioni, come la Sicilia, hanno mirato all’integra- zione dei sistemi, in altre parole hanno sperimentato un percorso formativo, tutto nella formazione professionale, in conformità con lo spirito della riforma Moratti che intendeva ridisegnare, nelle modalità di un percorso culturale ed educativo, l’of- ferta tradizionale della formazione professionale finalizzata all’inserimento profes- sionale secondo un’impostazione prevalentemente di natura professionalizzante. Ovviamente, alcune Regioni sperimentano ambedue le tipologie. In proposito, va evidenziato che le verifiche sinora compiute a livello nazionale sulle due tipologie hanno riscontrato risultati più positivi nella seconda (Sugamiele, 2006). 10 Lo scopo della presente ricerca rientra in questo quadro di verifica delle due diverse impostazioni. La portata non è nazionale, ma l’attenzione si concentra su una Regione e su due Enti di formazione. Più in particolare, la finalità principale dell’indagine che qui viene presentata consiste nel monitoraggio dei corsi triennali del diritto-dovere realizzati dai Centri di Formazione Professionale di ispirazione cristiana appartenenti alle Delegazioni del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Si- cilia. La verifica ha riguardato le offerte che rientrano nella seconda tipologia e, come si vedrà, è stata positiva. Il successo di questi percorsi triennali trova la sua giustificazione più profonda nell’impostazione complessiva dell’offerta che essi hanno adottato. Si tratta infatti di una proposta unitaria, organica, pedagogicamente fondata e sistematica che si ispira ai seguenti principi: finalizzazione alla forma- zione integrale della persona in collegamento con i territori di riferimento e le realtà economiche e del lavoro e adozione di strategie specifiche mirate ad una pe- dagogia del successo. I percorsi possiedono una peculiare metodologia formativa basata su compiti reali, una vera didattica attiva, fondata sull’apprendimento dall’e- sperienza anche tramite tirocinio/stage formativo in stretta collaborazione con le imprese del settore di riferimento. Inoltre, presentano rilevanza orientativa, in modo da sviluppare nella persona la consapevolezza circa le sue prerogative, il pro- getto personale, il percorso intrapreso, comprese quindi le capacità personali quali la consapevolezza di sé, la comunicazione e la relazione con gli altri, la disposi- zione all’autonomia, alla responsabilità e alla soluzione dei problemi, il rispetto delle regole organizzative, la disposizione ad apprendere dall’esperienza. Carattere fondamentale della metodologia adottata è una forte integrazione tra le dimensioni del sapere, saper fare, saper agire e saper essere, al fine di favorire una chiara cir- colarità tra pratica e teoria, tra attività operativa e attività di riflessione sui signifi- cati dell’agire, mentre ogni sapere teorico trova continuo collegamento e applica- zione in azioni concrete. Per il principio di sussidiarietà, la realizzazione di questa offerta non significa l’adesione ad un unico modello gestionale predeterminato, ma è consentita una va- rietà di soluzioni operative. L’impostazione adottata delinea un percorso formativo progressivo, che è aperto a sbocchi sia in verticale sia in orizzontale, senza mai pre- cludere la possibilità di un proseguimento diretto nei percorsi formativi successivi al termine di ciascun ciclo, e che consente alla persona di avanzare nel proprio cammino procedendo per livelli successivi di intervento/comprensione della realtà, seguendo tre tappe tipiche, corrispondenti ad altrettanti titoli: di qualifica (certifi- cato di qualifica professionale); tecnico (diploma di formazione professionale); quadro/tecnico superiore (diploma di formazione professionale superiore). Per- tanto, a tali percorsi vanno garantite stabilità di organici, autonomia, distribuzione diffusa sul territorio e certezza di finanziamenti con esclusione dei bandi, trattan- dosi di attività formative destinate a minori per cui vale il diritto-dovere. All’interno dei due Enti la sperimentazione della nuova formazione professio- nale ha preso avvio da tempo ed è stata oggetto di varie indagini (Malizia, Nicoli e 11 Pieroni, 2002; Malizia e Pieroni, 2005 e 2006). Pertanto, la presente ricerca ha esa- minato, dell’esperienza pregressa, soltanto le azioni formative relative al periodo 2000-05 di cui ha fornito una sintesi descrittiva. A sua volta, il monitoraggio dei percorsi triennali del 2005-06 è avvenuto attraverso il ricorso a un progetto artico- lato di valutazioni, che ha richiesto ai differenti attori della sperimentazione (coor- dinatori dei corsi, formatori, allievi e genitori) di esprimere le loro opinioni in me- rito sulla base della compilazione di sette schede diverse. Il rapporto che segue, dopo una prima presentazione introduttiva sugli obiet- tivi sottesi al monitoraggio, è suddiviso in due corpi centrali a cui si aggiungono le conclusioni, la bibliografia e un’appendice. Nella I parte, relativa al quadro teorico, viene ricostruita criticamente l’evoluzione sul piano della riflessione pedagogica e delle riforme che ha portato alla sperimentazione dei percorsi triennali sul diritto- dovere (capitolo 1). La II sezione è suddivisa in due articolazioni maggiori: l’una (capitolo 2) comprende le relazioni sintetiche sulle attività pregresse dei CFP che in Sicilia hanno collaborato al progetto, di cui 6 appartenenti al CNOS-FAP (Catania- Barriera, Catania-Salette, Gela, Misterbianco, Palermo e Ragusa) e 13 al CIOFS/FP (Acireale, Agrigento, Barcellona, Bronte, Catania, Gela, Palagonia, Palermo, Mes- sina, Modica, Pietraperzia, Noto, S. Agata Militello); l’altra (capitolo 3) presenta e commenta i dati relativi all’anno formativo 2005-06 che emergono dall’applica- zione delle sette schede utilizzate per il monitoraggio. A questo riguardo, va osser- vato che una parte degli strumenti di rilevamento si caratterizza per la natura pret- tamente descrittiva dei percorsi, mentre gli altri mirano a valutare la qualità della formazione offerta. Di conseguenza nel capitolo in questione si terrà conto proprio di questa distinzione, presentando nella prima sezione i dati relativi al numero degli iscritti e dei formatori, alle tipologie formative e al relativo monte-ore, agli spazi e agli strumenti messi a disposizione, mentre la seconda analizzerà le valutazioni ed il gradimento dei differenti attori (coordinatori dei corsi, formatori, allievi e geni- tori) nei confronti delle principali azioni formative di tale tipologia di percorsi. In sintesi, il monitoraggio ha messo in evidenza una serie importante di risul- tati positivi della tipologia dei percorsi triennali, tutti nella formazione professio- nale. Aumentano gli allievi e i percorsi rivelano un alto tasso di continuità tra gli anni con una crescita anche degli iscritti dalla scuola; gli esiti formativi sono me- diamente più elevati di quelli dell’istruzione tecnica e professionale; le varie com- ponenti (allievi, formatori, genitori) delle comunità formative manifestano in gene- rale un elevato gradiente di soddisfazione. Da ultimo intendiamo ringraziare vivamente le Delegazioni regionali del CNOS-FAP e del CIOFS/FP, i relativi responsabili e i coordinatori regionali dei dati del monitoraggio, per la disponibilità offerta a collaborare alla raccolta delle informazioni necessarie per la ricerca. Inoltre, siamo grati ai direttori dei CFP, ai coordinatori dei corsi, ai formatori, agli allievi e ai genitori per aver partecipato at- tivamente all’iniziativa compilando le schede appositamente indirizzate loro. 13 Parte I IL QUADRO TEORICO 15 Capitolo 1 Il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione. Bilancio di un dibattito Guglielmo MALIZIA Come si è precisato nell’introduzione, la finalità principale della ricerca di cui si fa relazione in questo volume consiste nel monitoraggio dei corsi triennali del di- ritto-dovere realizzati dai Centri di Formazione Professionale di ispirazione cri- stiana appartenenti alle Delegazioni del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Non poteva pertanto mancare, all’inizio del rapporto, la presentazione di un con- gruente quadro teorico di riferimento: a questo scopo, il capitolo è articolato se- condo due prospettive, una che sarà tributaria principalmente della riflessione peda- gogica e l’altra che si focalizzerà prevalentemente sull’evoluzione delle politiche educative del nostro Paese. 1. LA PROSPETTIVA PEDAGOGICA Certamente non è questo il contesto adatto per delineare la lunga evoluzione attraverso cui è passato il diritto all’educazione sul piano pedagogico, anche solo a partire dall’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (UNESCO, 2000). Mi limiterò di conseguenza alle vicende più recenti, concentrando l’atten- zione sugli sviluppi che si sono verificati durante gli anni ‘80 e ‘90. In pratica arti- colerò il discorso che segue distinguendo tra i contenuti e i soggetti, da una parte, e le strategie, dall’altra, e dedicando alla fine una considerazione specifica circa l’e- voluzione in atto dal concetto tradizionale e benemerito di obbligo scolastico a quello più nuovo e promettente di diritto all’istruzione e alla formazione. 1.1. I contenuti del diritto all’educazione e i soggetti protetti Come si è anticipato sopra, gli anni ‘80 e ‘90 hanno segnato l’allargamento del diritto all’educazione, caratterizzato prevalentemente dai tratti della quantità, del- l’uniformità e dell’unicità, fino a comprendere gli aspetti della qualità, della diffe- renziazione e della personalizzazione (UNESCO, 2000; Malizia, 2004). Pertanto non basta assicurare l’accesso di tutti all’istruzione e alla formazione e l’egua- glianza dei risultati fra i vari strati sociali, ma è necessario garantire il diritto a un’educazione di qualità. Infatti, il problema non è solo di svantaggio economico, 16 ma anche (e soprattutto) di disparità culturali, per cui si richiedono processi di inse- gnamento-apprendimento efficaci, tali cioè da compensare le differenze tra allievi di gruppi sociali diversi. Nella stessa prospettiva si dovrà anche contemperare unità e diversità, tutela ed eccellenza. Ambedue i poli esprimono esigenze valide e rilevanti: da una parte la difesa dei più deboli, la giustizia e l’oggettività, e dall’altra la qualità, l’effi- cienza e la personalizzazione. La composizione non è impossibile, ma di fatto si è finora preferito rifugiarsi nell’uniformità di comportamenti e di trattamenti. L’uni- formità però non garantisce l’eguaglianza delle opportunità e la protezione delle fasce più deboli. Ignorando le differenze, vengono lasciate intatte le diseguaglianze esistenti di fatto e, inoltre, risulta alla fine premiata la mediocrità di chi non fa niente oltre il minimo. A maggior ragione l’uniformità non assicura la qualità: questa è più diffusa a livello locale di quanto si possa immaginare sulla base delle vicende delle riforme globali, ma le iniziative valide rimangono isolate e ignorate perché l’uniformità non riesce a utilizzare la vivacità diffusa alla base, come sti- molo e spinta all’innovazione del sistema. Un altro orientamento è consistito nel potenziamento della scuola come istitu- zione della comunità. La riduzione e l’eliminazione delle diseguaglianze di oppor- tunità non possono essere realizzate senza il coinvolgimento dei gruppi che sof- frono direttamente dell’impatto delle disparità. Pertanto, è imprescindibile che gli strati emarginati partecipino alla gestione delle singole unità scolastiche, assu- mendo un ruolo attivo nella loro conduzione e, in particolare, nella lotta alle dis- eguaglianze. La scuola dovrà divenire veramente scuola di tutta la comunità, cioè essere per la comunità e della comunità, come al tempo stesso la comunità è per la scuola e della scuola. Da una parte, la scuola andrà orientata alla formazione dei singoli membri della comunità e alla crescita civile dell’intera comunità; di conse- guenza, può contare sulla collaborazione della comunità per realizzare le sue fina- lità. Contemporaneamente, la comunità mette a disposizione della scuola le sue ri- sorse e prende parte democraticamente e responsabilmente alla sua vita e gestione. Il diritto all’educazione, mentre si è esteso e diversificato sul piano dei conte- nuti, ha dato vita a principi autonomi in riferimento ai soggetti tutelati. In proposito si può ricordare anzitutto quello dell’eguaglianza fra i sessi. In generale, se è vero che l’eguaglianza formale tra l’uomo e la donna di fronte all’educazione è stata so- stanzialmente raggiunta, non si può dire lo stesso per l’eguaglianza delle opportu- nità, rispetto alla quale gli sforzi compiuti non hanno portato a risultati pienamente soddisfacenti. Un altro principio che è legato al diritto all’educazione è rappresentato dall’e- ducazione interculturale. Esso consiste nella messa in rapporto delle culture, nella comunicazione reciproca, nell’interfecondazione, mentre esclude l’assimilazione. Rientra nello stesso quadro il principio dell’integrazione dei disabili nella scuola ordinaria, che può essere enunciato nei seguenti termini: rispondere ai bi- sogni di tutti gli alunni e di ciascuno; dare risposte differenziate perché gli alunni sono diversi; fornirle all’interno della scuola ordinaria. 17 1.2. Le strategie Ho ritenuto opportuno raggrupparle interno alle tre componenti fondamentali del diritto all’educazione: eguaglianza, differenziazione e corresponsabilità (Unesco, 2000; Malizia, 2004). 1.2.1. Le strategie dell’eguaglianza Una prima strategia consiste nella messa in opera delle aree prioritarie nell’i- struzione. Si tratta più specificamente di focalizzare gli interventi su zone a rischio, di attribuire a tali azioni un carattere di vera e propria campagna, di promuovere l’impegno congiunto fra l’istituzione scolastica, lo Stato, gli enti locali ed altri sog- getti istituzionali e di organizzare progetti speciali a servizio di giovani in diffi- coltà. L’approccio ha il vantaggio di essere unitario, globale e mirato a un’area pre- cisa, senza rischi di interventi a pioggia. A continuazione delle aree prioritarie sarà anche necessario procedere a un cambiamento delle logiche che presiedono al governo della scuola, nel senso di concentrare l’azione sulle situazioni che si trovano più divaricate dalla media, sia in negativo che in positivo. Bisognerà, pertanto, creare delle reti di qualità che per- mettano di stimolare, aiutare, verificare e diffondere le innovazioni. Una terza strategia consiste nell’introdurre un sistema nazionale di valutazione per definire gli interventi. Globalmente si dovranno individuare i livelli conseguiti sul piano nazionale; quanto, poi, a ciascuna scuola si cercherà di determinare le istituzioni particolarmente valide e le più carenti; inoltre, sul piano della relazione formativa bisognerà puntare a definire la situazione di ciascun allievo per indivi- dualizzare gli interventi. L’introduzione di tale sistema richiede a monte la fissa- zione di standard minimi di istruzione su tutto il territorio nazionale. 1.2.2. Le strategie della personalizzazione Un primo orientamento consiste nell’attuazione di una pedagogia personaliz- zata. Questa significa fondamentalmente la messa in opera di quattro strategie: diversificazione dei contenuti dell’insegnamento secondo le potenzialità e l’inte- resse di ciascuno, differenziazione degli obiettivi (eguali nelle conoscenze fonda- mentali e diversi negli altri settori, in base alle capacità e agli interessi degli al- lievi), diversificazione dei metodi e differenziazione temporale, che vuol dire il riconoscimento ad ogni alunno della possibilità di studiare secondo il ritmo più confacente. Quanto alla parità tra i sessi, un primo gruppo di interventi riguarda i fattori che incidono sulle scelte scolastiche e professionali della donna. In proposito si raccomandano strategie quali: evitare le scelte precoci rispetto alle quali genitori e insegnanti esercitano di solito una forte incidenza; creare passerelle tra i vari tipi di scuole e di indirizzi; rendere coscienti i protagonisti dei processi formativi circa le problematiche della scelta femminile; potenziare le relazioni tra le strutture educa- tive e quelle produttive. Un’altra serie di azioni è rivolta ad evitare la metacomuni- cazione di stereotipi sfavorevoli alle donne: si tratta fra l’altro di rivedere in senso 18 egualitario i sussidi didattici e di espandere la presenza femminile nei posti di auto- rità all’interno del sistema formativo. L’educazione interculturale richiede di guardare agli immigrati non come a cit- tadini di serie B, ma di serie A con diritti e doveri eguali ai nazionali e, quindi, di riconoscere loro un ruolo attivo nell’elaborazione, scelta e messa in opera delle strategie educative. Inoltre, si dovranno ridisegnare le funzioni, i contenuti e i me- todi della scuola in modo da porre fine ad ogni eventuale monoculturalismo di tale istituzione. Bisognerà anche focalizzare prioritariamente gli interventi di natura in- terculturale sull’educazione prescolastica, l’istruzione dell’obbligo e la formazione professionale. Infine, le strategie educative dovranno essere inquadrate in una poli- tica sociale più ampia, rivolta a valorizzare l’apporto delle famiglie, in particolare delle madri, e del contesto socio-culturale. L’integrazione dei disabili non può essere affrontata da un operatore singolo, fosse pure l’insegnante di sostegno, o da un’istituzione isolata, ma esige un inter- vento collettivo e concertato a livello di scuola che sia sostenuto sul territorio da una rete efficace di servizi educativi e sociali. Ogni istituto dovrà darsi, nello svol- gimento dell’attività educativa, un programma organico di azione entro un quadro generale determinato a livello locale, regionale e nazionale. L’elaborazione del pro- getto educativo è chiamata ad articolare in modo coerente una serie di interventi: la diagnosi della situazione di partenza; l’individualizzazione attiva dell’atto educa- tivo; la presa in considerazione dei ritmi differenti di apprendimento di ciascun al- lievo; l’adattamento dei contenuti dell’insegnamento; la messa in opera di modalità differenziate d’azione; il lavoro di gruppo (l’équipe scolastica degli insegnanti or- dinari e di sostegno e l’équipe dei docenti allargata, in modo da comprendere spe- cialisti esterni di vario genere); la messa a disposizione di varie risorse umane e tecniche. 1.2.3. Le strategie della corresponsabilità Anzitutto l’autonomia e il progetto educativo costituiscono strumenti privile- giati per realizzare il passaggio dallo Stato assistenziale alla società solidale nel si- stema formativo. Infatti, essi permettono la costituzione e il funzionamento di una sede intermedia di aggregazione sociale in cui le libertà dei singoli utenti si incon- trano per gestire insieme corresponsabilmente la risposta ai bisogni educativi. Inoltre, è condizione indispensabile perché l’unità scolastica possa costruirsi sulla libertà e l’accordo dei soggetti educativi: studenti, docenti, genitori e forze sociali. Più in particolare, l’autonomia dovrebbe assicurare l’esercizio della responsa- bilità educativa da parte del singolo istituto in un quadro unitario garantito dal centro. A questo spetterebbe la propulsione politica, in particolare la tutela dell’e- guaglianza delle opportunità, della libertà e della qualità su tutto il territorio nazio- nale; a sua volta, l’unità scolastica dovrà diventare centro di attribuzione di tutti i poteri che le garantiscano il controllo sul complesso delle condizioni del suo fun- zionamento, in modo da poter fornire risposte efficaci alle domande di formazione e di lavoro che provengono dalla società. In sintesi, bisogna ridistribuire le funzioni 19 tra il centro e la periferia secondo i principi della distinzione e della complementa- rità, al fine di decentrare le decisioni e di accentrare i controlli. Una malintesa interpretazione della dimensione professionale e della libertà di insegnamento determina attualmente una scarsa regolabilità del comportamento degli insegnanti e fanno della singola unità scolastica un’organizzazione “disinte- grata”. Più che essere al servizio della propria scuola, ciascun docente si serve di essa come di uno strumento per realizzare i propri interventi formativi in una rela- zione quasi privatistica con gli utenti. Pertanto la singola unità scolastica diventa incapace di stabilire in modo riflesso obiettivi di sistema e il prodotto della sua azione globale si presenta del tutto casuale. In sostanza essa attualmente non è in grado di gestire in prima persona e con un progetto unitario le relazioni con il con- testo sociale. Per ovviare al problema accennato, la strategia principale d’azione va ricercata nella crescita e nella diffusione di un’adeguata cultura organizzativa che significa fondamentalmente sviluppo della capacità di avviare prassi progettuali di sistema. In altre parole, bisognerà anzitutto passare dall’attuale approccio organizzativo in- dividualistico e disintegrato ad uno integrato che si traduca in proposte unitarie qualificanti di istituto e di classe. In secondo luogo, la dimensione progettuale non può essere solo una caratteristica dell’azione del singolo operatore, ma deve conno- tare l’attività di tutto il sistema: essa trova il luogo più appropriato di realizzazione negli organi collegiali. Inoltre, la programmazione dovrà includere come compo- nente imprescindibile il controllo, altrimenti i risultati dell’azione organizzativa continueranno a presentarsi come casuali. Una terza strategia della corresponsabilità consiste nel riconoscimento reale e pieno da parte dello Stato della libertà di educazione, cioè della libertà di scelta della scuola da frequentare secondo le proprie convinzioni. Questa può contare al- meno su tre giustificazioni molto significative: il diritto di ogni persona ad edu- carsi e a essere educata secondo le proprie convinzioni e il correlativo diritto dei genitori di decidere dell’educazione e del genere d’istruzione da dare ai loro figli minori; il modello dell’educazione permanente la cui attuazione è assicurata non solo dalle istituzioni formative statali, ma anche da una pluralità di strutture edu- cative pubbliche o private che, in quanto operano senza scopo di lucro, hanno di- ritto di ricevere adeguate sovvenzioni statali; l’emergere nelle dinamiche sociali fra Stato e mercato di un “terzo settore” o del “privato sociale” che, creato dall’i- niziativa dei privati e orientato a perseguire finalità di interesse generale, sta otte- nendo un sostegno sempre più consistente dallo Stato a motivo delle sue valenze solidaristiche. Non bisogna neppure dimenticare che le ragioni dell’autonomia sono le stesse che fondano la parità. Alla base di ambedue le strategie si riscontra la stessa idea del primato della società sullo Stato. Inoltre, autonomia e parità si costruiscono sulla libertà dei soggetti educativi. In terzo luogo, esse si presentano come istituti capaci di dare un contributo valido per affrontare in modo vincente la questione centrale nell’attuale dibattito sull’istruzione in Italia che è quella della qualità. 20 1.3. Obbligo o diritto-dovere? In questo momento si registra in Europa una tendenza interessante all’allarga- mento del concetto stesso di obbligo scolastico attraverso il riconoscimento del di- ritto-dovere per ciascun giovane ad una istruzione e formazione prolungata (Ma- lizia e Nanni, 2000a). La ragione principale consiste nel fatto che l’inserimento nella società esige in tutti i campi un livello di conoscenze e di competenze accre- sciute rispetto al passato. Questa strada può assicurare ai giovani un’ampia prepara- zione di base idonea a promuovere la crescita personale, l’orientamento, la prose- cuzione degli studi, l’inserimento nell’attività lavorativa e la partecipazione respon- sabile alla vita democratica. Il diritto-dovere ad un’istruzione e formazione prolungata per tutti i giovani si traduce, sul piano strutturale, in una serie di orientamenti fondamentali. Anzitutto, la scuola secondaria deve essere una scuola aperta a tutti, che offre a ciascuno le opportunità più ampie di apprendere, che evita gli sbocchi senza uscita verso livelli superiori, che in tutte le filiere conserva elementi essenziali comuni, che consente di rettificare le proprie scelte in itinere e che prevede ponti o moduli di collega- mento tra i vari indirizzi. Inoltre, si raccomanda di assicurare la trasparenza e la semplicità delle strutture, una definizione chiara dell’identità delle opzioni e degli indirizzi, l’indicazione di sbocchi reali e realistici. Il punto più delicato è quello che riguarda la realizzazione di un mix di inte- grazione e di diversificazione. Per quanto riguarda la prima, è essenziale realizzare due tipi di integrazione. Anzitutto tra diversi livelli del sistema ed in particolare fra l’istruzione e la formazione secondaria e l’università. Una seconda forma va attuata all’interno della stessa scuola secondaria tra i cicli, le sezioni e le classi, combat- tendo la frammentazione mediante la definizione di aree comuni di conoscenze e di competenze, la garanzia della compatibilità dei metodi e la preparazione di progetti unitari di istituto. Da questo punto di vista è anche importante un rinnovamento dei programmi dell’istruzione secondaria che preveda un’associazione stretta fra la pratica e la teoria. Al tempo stesso, la diversificazione dovrà essere la più ampia nel senso che l’i- struzione e la formazione potranno essere a tempo pieno o a tempo parziale, e ge- nerale, tecnica o professionale anche se questa distinzione tende a perdere d’impor- tanza, e dovrà coinvolgere oltre alla scuola, la formazione professionale e le di- verse agenzie di socializzazione interessate. Nel contesto di tale differenziazione si tende ad assicurare un sistema adeguato di passerelle tra i vari indirizzi. Un problema che si pone a questo riguardo in molti Paesi europei è costituito, infatti, dalla percentuale consistente di insuccessi scolastici nella scuola secon- daria. Non tutti i giovani sono motivati a frequentare una scolarità lunga di tipo ge- nerale e, soprattutto in certi Paesi di forte immigrazione, il tasso di insuccesso può raggiungere un terzo degli iscritti. La diversificazione è probabilmente l’unica via di uscita sul piano strutturale: in altre parole deve rimanere il diritto ad un’istru- zione e formazione prolungata, ma le forme possono essere varie. Quello che è im- 21 portante è evitare di imporre gli stessi standard, obiettivi, contenuti e metodi a tutti, indipendentemente dalle abilità e dalle attese di ciascuno. 2. IL RECENTE CAMMINO DELLE RIFORME ORDINAMENTALI IN ITALIA È da oltre cinquant’anni che nel nostro Paese si discute dell’esigenza di rifor- mare l’istruzione e la formazione pubblica (Malizia e Nanni, 2000b). Messo fine al fascismo, si è cercato di dare corso a varie iniziative specifiche di riforma scola- stica, formativa e più largamente educativa, nel contesto della ricostruzione demo- cratico-repubblicana (nuove elementari, scuola media unica, scuola materna e rela- tivi programmi). Durante gli anni ‘70 e ‘80 si sono avute una serie di “micro-ri- forme” (decreti, delegati, organi collegiali, integrazione dei disabili, nuovi pro- grammi della media, delle elementari e della materna), che hanno cercato di dare qualità democratica, respiro all’innovazione culturale, stimolo alla sperimenta- zione, alla creatività personale e alle soggettività locali. Nel corso dei primi anni ‘90, si è cercato per un verso di collegare scuola, famiglia, società, problemi giova- nili, ed evitare il disagio, la devianza, il malessere e ricercare la buona qualità della vita (cfr. il Progetto giovani, l’educazione alla salute, la lotta alla tossicodipen- denza); per altro verso, di riformare le medie superiori attraverso la via della speri- mentazione innovativa (cfr. i Programmi sperimentali Brocca, scuole sperimentali). Verso la metà degli anni ‘90, peraltro, nei programmi dei nuovi schieramenti politici (l’Ulivo di centro-sinistra e il Polo delle Libertà di centro-destra), il pro- blema della scuola e della formazione è diventato un punto di primaria importanza, espressamente enfatizzato nei programmi e nella propaganda elettorale. In effetti, era emersa con chiarezza l’inadeguatezza del sistema di istruzione a rispondere ad una domanda in rapida crescita che esprimeva i bisogni di una realtà familiare e so- ciale e di un mondo produttivo in profondo cambiamento. Ma mentre durante gli anni ‘80, la priorità era stata data alla riforma della secondaria superiore (senza però che si riuscisse a varare un provvedimento che ottenesse il consenso dei due rami del Parlamento), nella decade di quelli ‘90, si è andata diffondendo nell’opi- nione pubblica la convinzione che non bastasse intervenire sull’uno o l’altro dei li- velli dell’istruzione per risolvere i problemi alla radice, ma che si dovesse proce- dere ad una ridefinizione dell’intera struttura. 2.1. Un diritto ancora inattuato Prima di presentare sinteticamente il percorso delle riforme in relazione al di- ritto all’educazione, è opportuno redigere un sintetico bilancio della realizzazione del diritto stesso. I dati che si posseggono mettono chiaramente in evidenza una si- tuazione che, a dir poco, appare molto insoddisfacente (Sugamiele, 2006; Audi- zione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, 2006). Un primo dato riguarda il tasso di mobilità sociale del nostro Paese che è 22 fermo al 6% rispetto per esempio al 20% degli Stati Uniti. Di questa situazione, una parte rilevante di responsabilità è da attribuirsi alla scuola che tende a ripro- durre la stratificazione esistente e che trova grosse difficoltà a promuovere l’ascesa di chi appartiene ai ceti meno abbienti. In proposito, basta ricordare che i giovani delle famiglie di status sociale o culturale basso dispongono solo di ridotte possibi- lità di procedere regolarmente negli studi e il 2.7% di laurearsi (Sugamiele, 2006). Di fatto, il sistema scolastico risulta molto aperto negli accessi, ma al tempo stesso selettivo nei risultati perché fa leva sull’uniformità degli itinerari educativi, ritenen- dola sufficiente ad assicurare l’eguaglianza delle opportunità. Un altro fattore della situazione appena ricordata si può ricercare nel capitale culturale delle famiglie. Richiamo solo un dato per tutti: sono i tre quarti circa (73.4%) dei diplomati che possono vantare un padre munito di laurea a essere iscritti all’università, mentre la percentuale scende a poco più del 40% (42.6%) per i figli dei diplomati, a un quarto circa (26.9%) per i ragazzi con padre in possesso di licenza media e a neppure un quinto (17.7%) per i giovani il cui genitore può contare unicamente su una licenza elementare. In sintesi, l’opportunità di diplo- marsi e di laurearsi aumenta in modo rilevante tra gli studenti che appartengono a famiglie di laureati e questa situazione condiziona in maniera evidente la scelta degli studi nella secondaria di 2° grado e nell’istruzione superiore. E va anche ag- giunto che l’uniformità e la rigidità dei nostri percorsi educativi non solo non riesce a vincere i condizionamenti sociali, ma non sembrano neppure capaci di rispondere alle differenze di genere. Analoga problematicità emerge dai dati sulla dispersione scolastica e forma- tiva. Anzitutto, è la scuola media a deludere grandemente, in quanto non riesce a qualificarsi come capace di promuovere lo sviluppo globale della personalità di tutti o quasi i nostri ragazzi, portandoli a esiti diffusamente positivi. Infatti, più del 10% dei suoi alunni risulta in ritardo, il 40% circa (37.4%) ottiene agli esami finali solo il minimo di sufficiente e poco oltre un quarto (25.9%) ha riportato una valuta- zione di buono: in altre parole, è un 40% appena a conseguire risultati pienamente soddisfacenti. Anche in questo caso, il fattore principale di tale inefficacia sembra vada ricercato nell’incapacità o nella mancata volontà di organizzare un’offerta in grado di venire incontro alle esigenze formative differenziate degli alunni, inco- minciando con il mettere a profitto le 160 ore annue del curricolo che la legge 517/77 aveva previsto per iniziative di sostegno e per interventi individualizzati. La situazione non è migliore a livello di scuola secondaria superiore. Il dato positivo è la crescita imponente della domanda delle famiglie di assicurare ai loro figli la continuazione dell’istruzione e della formazione dopo la media. Pertanto, alla vigilia dell’entrata in vigore della legge 9/99 sull’innalzamento dell’obbligo di istruzione, la quasi totalità dei licenziati della media (94.5%) si iscriveva alla se- condaria superiore. Nonostante la presenza di condizioni sociali particolarmente fa- vorevoli, il risultato dell’applicazione della legge appena richiamata è stato a dir poco disastroso. Nel biennio successivo la percentuale di “drop-out” si è collocata su livelli molto rilevanti, in particolare negli istituti professionali e tecnici dove si è 23 anche superato il 30% degli iscritti. Inoltre, “[…] circa il 16,5% (a.s. 2000/01; dato pressoché invariato negli anni successivi 2002 e 2003) dei giovani ha abbandonato gli studi nel corso dell’ultimo anno dell’obbligo (il quindicesimo anno) o al termine dell’obbligo scolastico non si è iscritto in alcun percorso di istruzione e di forma- zione. Si tratta di circa 240.000 giovani dai 15 ai 18 anni che nel primo triennio di applicazione dell’obbligo formativo sono rimasti al di fuori di qualsiasi percorso formativo, anche nell’apprendistato. La struttura prevalentemente generalista del- l’istruzione, determinata da un continuo processo di licealizzazione dell’istruzione tecnica e professionale, non ha condotto al successo e ha lasciato il 33% dei gio- vani in età fuori del percorso formativo, segno evidente che non basta una legge che obbliga alla frequenza e che l’attuale modello scolastico non riesce a dare ri- sposta a una domanda diffusa e diversificata di formazione” (Sugamiele, 2006, p. 35). Altrettanto drammatica appare la situazione del ritardo di scolarità nella scuola secondaria e non solo. Secondo i dati del 2003-04, già nella prima primaria si riscontra un 2% di alunni in questa situazione, che poi si raddoppiano in quinta (3.9%); inoltre, nel passaggio alla secondaria di 1° grado si verifica un ulteriore raddoppio (7.3%). Un vero balzo in avanti, nel senso che il dato si triplica, si regi- stra tra il 10.5% del terzo anno della secondaria di 1° grado e il 28.9% del primo della secondaria di 2° grado che poi diviene oltre un terzo (34.2%) nell’ultimo. I tassi assumono connotazioni veramente allarmanti nelle Isole, con il 42.6% in Sar- degna e il 40.4% in Sicilia. Uno dei fattori di questa situazione va ricercato nelle ripetizioni. Più di un quarto (27%) degli studenti del primo anno degli istituti professionali viene boc- ciato e la percentuale continua a mantenersi elevata anche nel secondo (20%) e per- sino nel quarto (14%), pur in presenza di un’area di professionalizzazione di 300 ore. In aggiunta, da un terzo a oltre il 40% degli studenti del 1° e del 2° anno della secondaria di 2° grado ottengono la promozione solo con debito formativo. In questo contesto, va affermato chiaramente che l’innalzamento dell’obbligo scolastico non ha veramente senso se la riforma non viene accompagnata e soste- nuta da un’attuazione efficace del diritto al successo formativo. 2.2. La riforma Berlinguer (Legge 30/2000 sul riordino dei cicli) Mi limito a richiamare gli aspetti rilevanti per il tema qui trattato. I commi 2 e 3 dell’art.1 definiscono l’articolazione rispettivamente dell’istruzione e della for- mazione (Nanni, 2003; Bertagna, 2001abc; Capaldo Rondinini, 2002; Malizia, 2005). “L’istruzione si articola nella scuola dell’infanzia, nel ciclo dell’istruzione primaria che assume la denominazione di scuola di base e nel ciclo secondario che assume la denominazione di scuola secondaria” (art. 1 c.2). Si rimanda invece alle leggi 196/1997 e 144/1999 per la strutturazione del sistema educativo di forma- zione. La scuola di base ha la durata di sette anni, sostituisce la scuola elementare e 24 la scuola media con la conseguente riduzione di un anno dell’iter formativo ed è caratterizzata da un percorso educativo unitario e articolato in rapporto alle esi- genze di sviluppo degli alunni (art. 3 c.1). A sua volta, la scuola secondaria “ha la finalità di consolidare, riorganizzare ed accrescere le capacità e le competenze ac- quisite nel ciclo primario, di sostenere e incoraggiare le attitudini e le vocazioni degli studenti, di arricchire la loro formazione culturale, umana e civile, sostenen- doli nella progressiva assunzione di responsabilità, e di offrire loro conoscenze e capacità adeguate all’accesso all’istruzione superiore universitaria e non universi- taria ovvero all’inserimento nel mondo del lavoro” (art. 4 c. 1). Dura cinque anni e si articola in aree: classico-umanistica, scientifica, tecnica e tecnologica, artistica e musicale. Ciascuna area è ripartita in indirizzi (tendenzialmente in numero inferiore agli attuali). La scuola secondaria si realizza negli istituti di istruzione secondaria di secondo grado che assumono tutti la denominazione di “licei”. Nei primi due anni (fatta salva la caratterizzazione specifica dell’indirizzo scelto e la frequenza del relativo curricolo) è garantita la possibilità di passare da un modulo all’altro anche di indirizzo diverso mediante l’attivazione di apposite iniziative didattiche di tipo integrativo per preparare adeguatamente alla nuova scelta. Nel secondo anno possono essere realizzate attività complementari di colle- gamento con le diverse realtà culturali, sociali, produttive e professionali da attuare anche presso altri istituti, Enti o agenzie di formazione professionale accreditate, secondo norme da definirsi mediante accordi tra Ministero della Pubblica Istru- zione, Ministero del Lavoro e Conferenza permanente Stato-Regioni. A conclu- sione del periodo dell’obbligo scolastico è rilasciata una certificazione attestante il percorso didattico svolto e le competenze acquisite. Brevi periodi di stage sono previsti negli ultimi tre anni e collegamenti con l’Istruzione Formazione Tecnico- Superiore e l’università. Certamente le disposizioni più rilevanti per la tematica in esame sono quelle che sanciscono l’innalzamento dell’obbligo scolastico, che “inizia al sesto anno e termina al quindicesimo anno di età” (art. 1 c. 3), e l’introduzione dell’obbligo di frequenza di attività formative fino al compimento del diciottesimo (art. 1 c. 4). Ambedue le normative erano state anticipate da provvedimenti puntuali. Anzitutto, con la legge 9/99 l’obbligo di istruzione era elevato da otto a dieci anni, ma la prima applicazione, fino all’approvazione di un generale riordino del sistema scola- stico e formativo, prevedeva solo una durata novennale. A sua volta, la legge 144/99 aveva stabilito all’art. 68 che, al fine di potenziare la crescita culturale e professionale dei giovani, fosse progressivamente istituito l’obbligo formativo fino ai 18 anni, che poteva essere assolto in tre distinti percorsi, anche integrati, di istru- zione e formazione: nel sistema d’istruzione scolastica, nel sistema di formazione professionale, di competenza regionale e nell’esercizio dell’apprendistato. Da subito l’applicazione della legge 9/99 aveva dimostrato di penalizzare for- temente gli adolescenti, soprattutto i più svantaggiati e in difficoltà, sia con lo spo- stamento della scelta dell’obbligo formativo al secondo anno della scuola secon- daria superiore, sia soprattutto con l’imposizione dell’obbligo scolastico e di fre- 25 quenza ad una scuola che li costringeva a un parcheggio di un anno nelle aule sco- lastiche o li teneva lontano dalla formazione professionale, sebbene l’obiettivo delle riforme fosse quello di introdurre un canale paritario di formazione professio- nale per togliere l’Italia dalla posizione di fanalino di coda in cui si trova a questo proposito. In aggiunta, le ricerche sull’attuazione del nuovo obbligo di istruzione documentavano con riscontri empirici tale andamento. Negli altri Paesi dell’UE la formazione professionale è riconosciuta come parte legittima e non sussidiaria dell’offerta formativa, come un canale percorribile di pari dignità con la scuola. Tale possibilità non viene vista come un compro- messo, ma come un ampliamento reale del diritto alla formazione, nel senso di un avvicinamento a quella equivalenza dei risultati – piuttosto che dei programmi, dei contenuti o delle strutture – oggi internazionalmente affermata come principio car- dine dei sistemi educativi. La pari dignità della formazione professionale candida questo segmento a ottenere un riconoscimento adeguato non solo nella formazione iniziale, ma anche in quella superiore, nella formazione sul lavoro e nella forma- zione continua: in proposito, va tenuto presente che nei diversi Paesi europei questa tipologia formativa presenta uno sviluppo molto più consistente che da noi. In Italia, invece, si è preferito mantenere la formazione professionale in una posizione di marginalità e di subalternità per quanto riguarda l’elevazione dell’ob- bligo di istruzione. Al contrario tale innalzamento avrebbe dovuto essere realizzato riconoscendo ad essa una collocazione paritaria. Più positiva è la valutazione riguardo all’introduzione dell’obbligo formativo. Uno degli effetti più significativi di tale riforma, consiste nel riconoscimento di pari dignità a tutti gli itinerari previsti dopo l’obbligo scolastico. In altre parole, l’uscita dalla scuola per iscriversi alla formazione professionale non può essere più vista come un abbandono, ma come un completamento normale del proprio curri- colo formativo in vista del conseguimento della qualifica. Pertanto “drop-out” non va considerato chi esce dalla scuola, ma chi esce dal sistema scolastico e formativo senza aver conseguito un diploma o una qualifica. Da questo punto di vista, il documento del governo sul programma quinquen- nale di progressiva attuazione del riordino dei cicli avrebbe dovuto rendere piena- mente operativo il principio accolto dalla legge sul riordino dei cicli, secondo cui non è sostenibile né culturalmente, né socialmente l’idea di un sistema educativo composto unicamente da scuole (Programma quinquennale…, 2001). Se la cultura, che consente di comprendere in modo adeguato la società in cui siamo inseriti e di agire in modo positivo in essa, è il frutto di differenti apporti, è necessario che vi siano almeno due ambiti del sistema educativo: la scuola e la formazione professio- nale, ognuno connotato da una propria identità ed autonomia, in grado di cooperare in forma reciproca, ma con la garanzia della peculiarità di ciascuno. Al contrario il documento non ha sviluppato adeguatamente tale questione. Più in generale, il riconoscimento della pari dignità tra istruzione e formazione richiede di assicurare un’equivalenza nelle condizioni a monte. È noto che uno degli ostacoli allo sviluppo della formazione professionale è costituito dalla sua 26 distribuzione a macchia di leopardo sul territorio. Se si fosse voluto che la forma- zione professionale non venisse frequentata solo dal 5% della popolazione giova- nile, ma che raggiungesse una percentuale “europea”, sarebbe stato necessario rea- lizzare il passaggio degli istituti professionali alle Regioni, come d’altronde ri- chiede la Costituzione, ma questo non è stato previsto né dalla legge 30/00, né dai documenti attuativi. In conclusione, si può dire che i testi per la realizzazione del riordino dei cicli segnano un passo avanti significativo verso l’integrazione tra sistema di istruzione e di formazione. Essi restano però ancora molto lontani dal riconoscimento di una piena parità tra scuola e formazione professionale. 2.3. La Legge Moratti (Legge delega 53/03) Anche in questo caso presenterò solo quegli aspetti che sono importanti per la problematica in questione. Secondo la riforma Moratti, il sistema educativo di istruzione e di formazione si articola nella scuola dell’infanzia, in un primo ciclo che comprende la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado, e in un se- condo ciclo di cui fanno parte il sistema dei licei e quello dell’istruzione e della formazione professionale (Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro, 2002; Ber- tanga, 2003abc; Nicoli, 2003; Malizia, 2005). La scuola primaria dura 5 anni ed è articolata in un primo anno teso al rag- giungimento della strumentalità di base e in due periodi didattici biennali. È pre- vista, sin dall’inizio, l’alfabetizzazione in almeno una lingua dell’Unione Europea e nelle tecnologie informatiche. Scompare, inoltre, l’esame di quinta. La scuola se- condaria di primo grado viene potenziata sotto il profilo delle discipline: è prevista una seconda lingua comunitaria obbligatoria e un approfondimento delle tecniche informatiche. Nei tre anni, che si concludono con un esame di Stato, viene anche progressivamente sviluppata nei ragazzi la capacità di scelta del percorso succes- sivo. Una novità che riguarda l’intero primo ciclo consiste nell’intento di valoriz- zare la tradizione culturale insieme all’evoluzione sociale, culturale e scientifica della realtà contemporanea. A sua volta nel secondo ciclo deve essere data un’attenzione costante alla cre- scita educativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il fare e l’agire e la riflessione critica su di essi. Quanto ai licei, sono confermati gli assi culturali tradizionali, classico, scientifico e artistico; al tempo stesso ne nascono dei nuovi, economico, tecnologico, musicale, linguistico, delle scienze umane. Essi hanno durata quinquennale: l’attività didattica si sviluppa in due periodi biennali e in un quinto anno che prioritariamente completa il percorso disciplinare e prevede, inoltre, l’approfondimento delle conoscenze e delle abilità caratterizzanti il profilo educativo, culturale e professionale del corso di studi. Si concludono con un esame di Stato, il cui superamento rappresenta titolo necessario per l’accesso all’univer- sità. Ferma restando la competenza regionale, il sistema dell’istruzione e della for- 27 mazione professionale realizza profili educativi, culturali e professionali ai quali conseguono titoli e qualifiche di differente livello, valevoli su tutto il territorio na- zionale se rispondenti ai livelli essenziali di prestazione definiti su base nazionale. Inoltre, i giovani che seguono questi percorsi non soltanto si vedranno garantita anno dopo anno una passerella per trasferirsi nei licei, ma avranno anche modo di proseguire dopo i quattro anni per un quinto, un sesto e un settimo anno, così da ac- quisire una qualifica professionale superiore. Potranno altresì disporre di un quinto anno per affrontare l’esame di Stato per l’iscrizione all’università. In ogni caso, da un sistema all’altro sono sempre possibili passaggi interni. Dopo i 15 anni, sia i di- plomi che le qualifiche possono essere conseguiti in alternanza scuola-lavoro o at- traverso l’apprendistato. Un salto di qualità che riguarda da vicino la nostra tematica, consiste nell’assi- curare ad ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età (Rapporto del Gruppo Ristretto di Lavoro, 2002). In altre parole, la legge si muove nella linea della tendenza, emersa recentemente in Europa, al superamento del con- cetto stesso di obbligo scolastico. Dal punto di vista storico, questa strategia ha esercitato una funzione essenziale nel passaggio da una scuola per pochi ad una per tutti, ma al presente sembra costituire piuttosto un impedimento alla piena realizza- zione dei diritti di cittadinanza. In una società complessa come l’attuale, la focaliz- zazione scolasticistica perde di senso perché ciò che conta è il risultato e la sua qualità, e non i percorsi con cui si ottengono, che possono essere i più vari. Inoltre, l’istruzione e la formazione, prima che dei doveri, sono dei diritti della persona e vanno assicurate a tutti in modo pieno. Pertanto, le varie istituzioni che le garanti- scono devono operare in rete, in una prospettiva di solidarietà cooperativa piuttosto che come alternative tra loro escludentisi. Molte sono le ragioni che militano a favore della scelta a 14 anni tra scuola e formazione professionale. Anzitutto, la psicologia evolutiva ha messo in risalto come lo stadio 10-14 anni costituisca una fase della vita con una sua identità speci- fica, nella quale matura progressivamente la capacità di scelta consapevole. Inoltre, non va dimenticato che allo stato attuale i drop-out della terza media sono oltre 35.000 ogni anno e certamente non si potrebbe pensare di obbligarli per altri due anni ad un percorso scolastico. L’indagine effettuata dall’ISTAT in occasione degli Stati Generali, mette in evidenza come la gran parte dei genitori e dei docenti e oltre il 40% degli studenti siano d’accordo con la scelta dei due percorsi a 14 anni (Rapporto del gruppo ristretto di lavoro, 2002). Anche l’iniziativa di introdurre un percorso graduale e continuo di formazione professionale parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che porti all’acquisizione di qualifiche e titoli, è in piena linea con le tendenze più dif- fuse e avanzate del nostro continente (Bertagna, 2003a; Nicoli, 2003). Infatti, la formazione professionale non viene più concepita nella gran parte dei Paesi europei come un addestramento finalizzato esclusivamente all’insegnamento di destrezze manuali, né la distinzione con l’istruzione è vista nel fatto che questa si focalizza 28 nell’acquisizione di saperi in qualche misura astratti rispetto al contesto, mentre quella si occupa della loro realizzazione nel mercato del lavoro, o nel fatto che l’oggetto è differente, essendo la cultura del lavoro quello proprio della formazione professionale, perché anche la scuola si interessa di cultura del lavoro. La forma- zione professionale non è qualcosa di marginale o di terminale, ma rappresenta un principio pedagogico capace di rispondere all’esigenze del pieno sviluppo della persona secondo un approccio specifico fondato sull’esperienza reale e sulla rifles- sione, in ordine alla prassi che permette di intervenire nel processo di costruzione dell’identità personale. Questo, tuttavia, non significa che sia la stessa cosa dell’i- struzione: conoscere con l’obiettivo principale di agire, costruire e produrre non può essere confuso con il conoscere e agire con l’intento prioritario di conoscere. In ogni caso, la legge Moratti interrompe una deriva delle politiche di riforma della secondaria superiore che ha dominato la scena dal 1971 al 2001 e che si ba- sava su quattro pilastri: una concezione del lavoro non bisognoso di istruzione/for- mazione, l’educatività come caratteristica esclusiva della scuola, la natura “ospeda- liera” della formazione professionale, la dissociazione tra cultura e professionalità. Essa supera, invece, la tradizionale gerarchizzazione e separatezza tra sistema dei licei e sistema dell’istruzione e della formazione professionale; evita ogni confu- sione tra i due, affermandone la pari dignità culturale; riscopre la cultura del lavoro e delle professioni. 2.4. Il decreto legislativo sul diritto-dovere e i percorsi sperimentali triennali Il salto di qualità realizzato in materia dalla riforma Moratti ha trovato la sua attuazione concreta con l’approvazione del D.Lgs. 76/05, che definisce la norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione (Montemarano, 2005). Nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arco della vita, esso ribadisce l’impegno della legge 53/03 a garantire a tutti eguali opportunità di conseguire livelli culturali elevati e di sviluppare capacità e competenze adeguate ad una transizione soddisfa- cente nella società e, in particolare, nel mondo del lavoro. L’obbligo scolastico e l’obbligo formativo non vengono dimenticati, trascurati o indeboliti, ma trovano un loro inveramento più pieno nella nuova normativa, nel senso che vengono ridefiniti e ampliati come diritto all’istruzione e alla formazione: in altre parole, la fruizione dell’offerta educativa viene a rappresentare per tutti, includendo anche i minori stranieri, sia un diritto soggettivo sia un dovere sociale. Più precisamente: “La Re- pubblica assicura a tutti il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica di durata almeno trien- nale entro il diciottesimo anno di età. Tale diritto si realizza nelle istituzioni del primo e del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione, co- stituite dalle istituzioni scolastiche e dalle istituzioni formative accreditate […]” (art. 1 c. 3). I giovani incominciano a fruire concretamente del diritto-dovere con l’iscri- zione alla scuola primaria e nella secondaria di 1° grado tale tutela si traduce al- 29 meno nell’organizzazione da parte delle scuole di iniziative di orientamento. Quanti poi ottengono il titolo del 1° ciclo si iscrivono ad un istituto del sistema dei licei o del sistema di istruzione e formazione professionale, fino al conseguimento di un diploma liceale o di un titolo o di una qualifica professionale di durata al- meno triennale sino al diciottesimo anno di età. Sul piano informativo, a sostegno dell’attuazione del diritto-dovere viene creato il sistema nazionale delle anagrafi degli studenti. L’anagrafe nazionale, che si trova presso il MPI, realizza il trattamento dei dati sui percorsi scolastici, forma- tivi e in apprendistato dei singoli studenti a partire dal primo anno della scuola pri- maria. A loro volta, le anagrafi regionali contengono i dati sui percorsi scolastici, formativi e in apprendistato dei singoli studenti a partire sempre dal primo anno della scuola primaria; le Regioni devono assicurare l’integrazione di queste ana- grafi con le anagrafi comunali della popolazione e anche il coordinamento con le funzioni svolte dalla Province. I genitori dei minori e coloro che a qualsiasi titolo ne facciano le veci sono re- sponsabili dell’assolvimento del dovere di istruzione e di formazione e pertanto sono obbligati ad iscriverli alle istituzioni scolastiche e formative, anche se una dis- posizione del D.Lgs., l’art. 1 c. 4, riconosce il diritto dei genitori di provvedere pri- vatamente o direttamente all’istruzione e alla formazione dei propri figli, dimo- strando però al tempo stesso di averne capacità tecnica o economica. Ad un gruppo numeroso di soggetti individuali e istituzionali viene affidata la vigilanza sull’a- dempimento del dovere di istruzione e di formazione: il comune di residenza; il di- rigente dell’istituzione scolastica o il responsabile dell’istituzione formativa di rife- rimento; la Provincia attraverso i servizi per l’impiego; i soggetti responsabili dello svolgimento dell’apprendistato. Le responsabilità e la vigilanza non restano affi- date alla buona volontà delle persone, ma la normativa stabilisce che le sanzioni previste finora in caso di mancato assolvimento dell’obbligo scolastico si appli- chino ai soggetti che non abbiano adempiuto al dovere di istruzione e di forma- zione. Anche sul D.Lgs. 76/05 il giudizio è sostanzialmente favorevole. Esso, infatti, assicura realmente a tutti e a ognuno il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciot- tesimo anno di età. Questo richiede sia di realizzare un percorso graduale e con- tinuo di formazione professionale, parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che porti all’acquisizione di qualifiche e titoli; sia di garantire effetti- vamente la scelta a 14 anni tra il sistema dell’istruzione e quello dell’istruzione e della formazione professionale. Manca, invece, nel D.Lgs. la garanzia della libertà di scelta educativa delle famiglie tra istituzioni scolastiche e formative statali e pa- ritarie e questo certamente costituisce una carenza grave della normativa: da tale punto di vista, va ricordato che si tratta di un diritto fondamentale della persona umana che in Italia continua ad essere disatteso. È stato senz’altro positivo che l’attivazione dei corsi d’istruzione e di forma- zione professionale, rivolti alle ragazze e ai ragazzi che, concluso il primo ciclo di 30 studi, manifestino la volontà di accedervi, non sia stata rimandata a un momento successivo all’emanazione dello specifico decreto legislativo sul secondo ciclo. L’Accordo Stato-Regioni su istruzione e formazione (2003) ha consentito di avviare già dal 2003 la sperimentazione dei percorsi triennali di istruzione e di formazione “intesa come un laboratorio per la definizione di un nuovo modello di percorso e di offerta di istruzione e di formazione, non legata alla semplice integrazione dell’esi- stente (istruzione da una parte e formazione professionale dall’altra), ma proteso a verificare la prospettiva aperta dalla riforma costituzionale (L.C. 3/01) e dalle leggi 30/03 (Biagi) e 53/03 […]”, tenuto conto che “l’analisi degli elementi di crisi evi- denziava come un sistema fondato sulla centralità dei modelli scolastici non ri- uscisse a rispondere a una domanda diffusa e diversificata di formazione” (Suga- miele, 2006, 35). Il raggiungimento dell’accordo e l’emanazione del testo hanno evitato la perdita di un altro anno scolastico-formativo. In questa stessa linea è da considerare un passo avanti l’affermazione che i percorsi appena citati debbano avere una durata almeno triennale. Inoltre, ai fini dei passaggi fra sistemi vengono riconosciuti i crediti formativi, acquisiti non solo negli itinerari appena ricordati, ma anche sull’apprendistato; in aggiunta, si conviene sull’esigenza di attivare un percorso articolato di partenariato istituzionale a livello nazionale, in raccordo con il livello regionale, per la definizione degli standard formativi minimi. Ma a livello attuativo non pare superata in alcune Regioni come l’Emilia-Ro- magna, la Campania, la Toscana e la Puglia, la concezione di “crocerossa” che viene attribuita ancora preminentemente al canale di istruzione e di formazione professionale (cioè di puro salvataggio di drop-out). Sembra, inoltre, che continui a essere messa in primo piano un’idea di “integrazione” che riduce la formazione professionale a laboratorio tecnico della scuola. In pratica, la realizzazione della sperimentazione dei corsi del diritto-dovere ha messo a confronto due tipologie molto diverse, due modelli in un certo senso opposti. Infatti, le Regioni richiamate sopra hanno puntato all’integrazione dei percorsi di istruzione statale con moduli di formazione professionale. Al contrario, Lombardia, Liguria, Piemonte e Veneto hanno mirato all’integrazione dei sistemi, in altre parole hanno sperimentato un percorso formativo, tutto nella formazione professionale, in conformità con lo spi- rito della riforma Moratti che intendeva ridisegnare, nelle modalità di un percorso culturale ed educativo, l’offerta tradizionale della formazione professionale finaliz- zata all’inserimento professionale secondo un’impostazione prevalentemente di na- tura professionalizzante. Naturalmente, ci sono anche delle Regioni che sperimen- tano entrambe le tipologie. Un dato positivo, che ha valore indipendentemente dal confronto fra le due ti- pologie, riguarda il favore con cui la proposta dei percorsi triennali sperimentali è stata accolta dai giovani e dalle famiglie. Le iscrizioni sono aumentate in misura molto consistente, anzi si sono quasi raddoppiate nella prima applicazione dell’Ac- cordo, in quanto si è registrata una crescita del 46.9%, che però non ha riguardato i percorsi integrati, raggiunti da una flessione (–7.8%) (Sugamiele, 2006, 36-38 e Isfol, 2005). Più precisamente, tra il 2003-04 e il 2004-05, a fronte di un aumento 31 degli iscritti nell’Emilia-Romagna del 34% e del 73% in Campania, ma di una ridu- zione del 27.7% nella Toscana, la Lombardia e il Veneto hanno visto una crescita così imponente che ha impedito alle due Regioni di accogliere tutta la domanda. Passando poi al confronto tra le due tipologie, va anzitutto osservato che l’ipo- tesi del percorso formativo tutto nella formazione professionale assicura un flusso di passaggi tra il primo e il secondo anno del 97.7%, a fronte del 73.4% del mo- dello che vede l’integrazione tra scuola e formazione professionale. Al termine del primo tipo di percorsi, la più gran parte degli allievi hanno domandato di iscriversi al quarto anno e nel caso del Veneto si riscontra un’equivalenza complessiva di passaggi tra il sistema dell’istruzione e quello della formazione professionale. L’Emilia-Romagna, che, come si è ricordato sopra, ha adottato il modello inte- grato tra scuola e formazione professionale, presenta nel 2003-04 un numero di re- spinti al primo anno dei percorsi sperimentali (28.2%) che risulta più elevato di quasi 3 punti percentuali in paragone a quello dei percorsi tradizionali (25.6%). Se si passa ai promossi con debito formativo, i tassi si equivalgono e non si nota perciò nessun miglioramento nei percorsi integrati. L’anno successivo, 2004-05, ha visto una diminuzione nei bocciati e un aumento nei promossi con debito formativo che però non cambiano sostanzialmente il quadro globale. Infatti, nel caso di insuc- cesso, il 54% degli allievi dei percorsi tradizionali si ferma nell’istituto ripetendo l’anno e quasi nessuno di loro sceglie i percorsi integrati offerti dall’istituto fre- quentato, preferendo piuttosto cambiare scuola; al contrario, il tasso di quanti si iscrivono alla medesima tipologia di percorso si riduce al 12% tra gli allievi dei percorsi integrati e, in aggiunta, il 37% di questi ultimi opta per la ripetizione del percorso tradizionale nel medesimo istituto. Questi dati mettono chiaramente in evidenza che gli allievi non riscontrano diversità rilevanti fra i percorsi integrati tra scuola e formazione professionale e quelli tradizionali. In conclusione, i percorsi sperimentali triennali, tutti nella formazione profes- sionale, mettono in evidenza una serie importante di risultati positivi (Malizia e Pieroni, 2005 e 2006). Aumentano gli allievi a tal punto che le Regioni non ri- escono a soddisfare tutte le richieste, e i percorsi rivelano un alto tasso di continuità tra gli anni con una crescita anche degli iscritti dalla scuola; gli esiti formativi sono mediamente più elevati di quelli dell’istruzione tecnica e professionale con meno del 10% di insuccessi rispetto al 25%; le varie componenti (allievi, formatori, geni- tori) delle comunità formative manifestano in generale un elevato gradiente di sod- disfazione. Il successo di questi percorsi triennali trova la sua giustificazione più profonda nell’impostazione complessiva dell’offerta che essi hanno adottato. Si tratta, infatti, di una proposta unitaria, organica, pedagogicamente fondata e sistematica che si ispira ai seguenti principi: finalizzazione alla formazione integrale della persona in collegamento con i territori di riferimento e le realtà economiche e del lavoro e adozione di strategie specifiche mirate ad una pedagogia del successo. I percorsi possiedono una peculiare metodologia formativa basata su compiti reali, una vera didattica attiva, fondata sull’apprendimento dall’esperienza, anche tramite tiro- 32 cinio/stage formativo in stretta collaborazione con le imprese del settore di riferi- mento. Inoltre presentano rilevanza orientativa, in modo da sviluppare nella per- sona la consapevolezza circa le sue prerogative, il progetto personale, il percorso intrapreso, comprese quindi le capacità personali quali la consapevolezza di sé, la comunicazione e la relazione con gli altri, la disposizione all’autonomia, alla re- sponsabilità e alla soluzione dei problemi, il rispetto delle regole organizzative, la disposizione ad apprendere dall’esperienza. Carattere fondamentale della metodo- logia adottata è una forte integrazione tra le dimensioni del sapere, saper fare, saper agire e saper essere, al fine di favorire una chiara circolarità tra pratica e teoria, tra attività operativa e attività di riflessione sui significati dell’agire, mentre ogni sa- pere teorico trova continuo collegamento e applicazione in azioni concrete. Per il principio di sussidiarietà la realizzazione di quest’offerta non significa adesione a un unico modello gestionale predeterminato, ma è consentita una varietà di soluzioni operative. L’impostazione adottata delinea un percorso formativo pro- gressivo, che è aperto a sbocchi sia in verticale sia in orizzontale, senza mai preclu- dere la possibilità di un proseguimento diretto nei percorsi formativi successivi al termine di ciascun ciclo, e che consente alla persona di avanzare nel proprio cam- mino procedendo per livelli successivi di intervento/comprensione della realtà, se- guendo tre tappe tipiche, corrispondenti ad altrettanti titoli: di qualifica (certificato di qualifica professionale); tecnico (diploma di formazione professionale); quadro/tecnico superiore (diploma di formazione professionale superiore). Per- tanto, a tali percorsi vanno garantite stabilità di organici, autonomia, distribuzione diffusa sul territorio e certezza di finanziamenti con esclusione dei bandi, trattan- dosi di attività formative destinate a minori. 3. CONCLUSIONE. VERSO L’OBBLIGO DI ISTRUZIONE: UN RITORNO AL PASSATO? Il nuovo Governo di centro-sinistra sembra intenzionato a realizzare quanto previsto dal programma dell’Unione sul tema in questione: “secondo ciclo: elevare l’obbligo di istruzione gratuita fino al 16 anni (primo biennio della scuola supe- riore)” (Per il bene dell’Italia, 2006, 232). Nell’audizione alla VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati del 29 giugno 2006, il Mi- nistro della PI ha confermato tale impegno, affermando che “Due anni in più di istruzione sono necessari non solo per consolidare ed innalzare le competenze di base di tutti, ma anche per consentire di effettuare le scelte di indirizzo e di per- corso ad un’età non troppo acerba e con una maggiore consapevolezza, da parte dei giovani e delle loro famiglie, delle propensioni e delle attitudini effettive” (pp. 18-19). Veramente le innovazioni da adottare più urgentemente nel sistema educativo di istruzione e di formazione dovrebbero essere mirate a coinvolgere quei giovani che ne stanno fuori, come riconosce lo stesso Ministro. “Il tasso di passaggio dei li- cenziati della scuola media alla scuola superiore ha raggiunto il 97%, con un anda- 33 mento in ulteriore crescita. La situazione, dunque, è molto diversa da quella degli anni settanta, quando l’obbligatorietà dell’istruzione era lo strumento principe, sim- bolico e fattuale, per forzare la resistenza, di quote ancora importanti delle fami- glie, ad investire nell’istruzione lunga dei figli. Oggi il nostro problema è quello di quel 25% di 14-18enni che alle superiori ci è andato, ma poi le ha abbandonate o ne è stato espulso” (Audizione del Ministro dell’Istruzione, 2006, 19-20). Da questo punto di vista, c’è da dubitare sull’opportunità di considerare come la prima emergenza da fronteggiare quella dell’introduzione dell’obbligo di istruzione. Soprattutto vanno richiamate le ragioni di merito: le sperimentazioni dei per- corsi triennali tutti nella formazione professionale si sono dimostrate valide, per cui dovrebbero quanto prima passare a regime nel nostro sistema educativo. Se si vuole ovviare alla situazione disastrosa della dispersione e dell’insuccesso che ho illustrato nella seconda sezione di questo capitolo, credo che la strategia appena ri- cordata costituisca una strada obbligata. In secondo luogo, nel confronto tra obbligo di istruzione e diritto-dovere di istruzione e di formazione, ritengo che vada preferita senz’altro la seconda impo- stazione. E la giustificazione più sintetica ed efficace di questa affermazione la si può trovare nelle seguenti parole di Romei: “L’obbligo presuppone una concezione di cittadini come sudditi o comunque come soggetti non del tutto in grado di com- prendere l’importanza del proprio sviluppo personale e sociale, che uno Stato bene- vole e lungimirante e sollecito degli interessi loro e dell’intera società costringe ad istruirsi anche contro il loro stesso disinteresse se non addirittura renitenza. L’iscri- zione obbligatoria dà infatti luogo ogni anno a vere e proprie leve di coscritti, co- stretti a fruire di un servizio formativo a prescindere dalla propria volontà e da quella dei loro genitori o tutori legali. Il diritto (soggettivo)-dovere (sociale) […] fa invece affidamento sulla consa- pevolezza di sé dei cittadini, e sulla loro capacità di assumere in prima persona il compito della propria formazione. Sollecita ogni membro della società a rendersi conto che l’appartenenza ad essa da un lato gli conferisce il diritto di vedersi met- tere a disposizione, quindi di poterne fruire, un’adeguata offerta di istruzione e for- mazione, di acquisire i ‘livelli culturali … le capacità e le competenze… cono- scenze e abilità, generali e specifiche’ […] che gli consentano di inserirsi da prota- gonista nella vita attiva; dall’altro lato, la stessa appartenenza comporta il dovere di istruirsi e formarsi e di contribuire, di conseguenza, alla convivenza civile e allo sviluppo sociale complessivo” (Romei, 2005, 20-21). 35 Parte II L’INDAGINE SUL CAMPO NEL QUADRO DELLA SPERIMENTAZIONE DEL DIRITTO-DOVERE 37 Capitolo 2 II percorsi triennali del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia (2000-05). Un quadro sintetico delle attività formative pregresse Vittorio PIERONI I Centri coinvolti nel rilevamento dell’attività dei percorsi del diritto-dovere realizzati nella Regione Sicilia sono complessivamente 19, di cui 6 appartenenti al CNOS-FAP (Catania-Barriera, Catania-Salette, Gela, Misterbianco, Palermo e Ra- gusa), e 13 al CIOFS/FP (Acireale, Agrigento, Barcellona, Bronte, Catania, Gela, Palagonia, Palermo, Messina, Modica, Pietraperzia, Noto, S. Agata Militello). 1. I CENTRI DEL CNOS-FAP DELLA SICILIA Il CNOS-FAP della Regione Sicilia ha presentato relazioni separate per cia- scuno dei sei CFP appena citati. Pertanto, nel riportare i relativi dati si seguirà lo schema da loro adottato; preciso che le informazioni, che di seguito verranno pre- sentate, si collocano tra il 2000 e 2005. 1.1. Relazione del CFP di Catania-Barriera Il CFP del CNOS-FAP di Catania-Barriera è strettamente collegato con il con- testo produttivo territoriale sia industriale che artigianale, con gli istituti di istru- zione secondaria e con l’Università di Catania. Il quadro organico del CFP è costi- tuito da 70 operatori, oltre 450 allievi e circa 22.000 ore di formazione. 1) L’attività formativa Il CFP è accreditato presso la Regione Sicilia. L’offerta prevalente consiste nella formazione iniziale che si articola nelle comunità professionali meccanica, grafica ed elettro-elettronica. I percorsi sono tutti triennali e di fatto erano stati già avviati nel 2000 con le iniziative sperimentali dell’assolvimento dell’obbligo scola- stico, a sua volta, il diploma di formazione di quattro anni è attualmente in speri- mentazione solo nella meccanica. Ogni anno vengono attivati, con piccole variazioni, 21 percorsi di formazione iniziale triennale, 3 di formazione superiore e 2 corsi di formazione continua, per un totale di 26 corsi. Il percorso triennale è costituito da 3.150 ore, suddivise in 1.050 ore per ogni annualità. In ciascun corso sono presenti circa 20/25 allievi. 38 2) Gli allievi Gli allievi che vorrebbero iscriversi risultano molto più numerosi di quelli che il CFP può accogliere. Di conseguenza, ogni anno, per mancanza di corsi au- torizzati dalla Regione, una percentuale che va dal 13% fino al 48% di giovani rimane esclusa dai percorsi offerti dal Centro. A motivo del costante e forte le- game tra il CFP e le aziende del territorio, la quasi totalità degli allievi qualificati riesce a trovare un’occupazione già entro i primi sei mesi dal conseguimento del titolo. Gli allievi hanno dimostrato attraverso questionari e test di valutazione di es- sere complessivamente più che soddisfatti del Centro, sia sul piano dell’acco- glienza sia riguardo alle prospettive professionali. 3) I formatori L’organizzazione del personale privilegia la presenza dei formatori all’interno di un solo settore per favorire la relazione con gli allievi e garantire una didattica omogenea ed efficace1. 4) Le famiglie La relazione del CFP con le famiglie è molto intensa. Durante l’attività forma- tiva sono previsti vari incontri in occasione di valutazioni periodiche, mentre i con- tatti con i genitori vengono mantenuti dai tutor e dai coordinatori di settore utiliz- zando anche il libretto personale. 5) Le imprese Il Centro dispone di una notevole rete di rapporti con le imprese del contesto territoriale che gli consentono di organizzare efficacemente lo stage formativo e di facilitare l’inserimento occupazionale degli allievi qualificati. 1.2. Relazione del CFP di Catania-Salette Storicamente il CFP del CNOS-FAP di Catania-Salette è nato nei primi anni cinquanta con grandi laboratori artigianali di calzoleria, meccanica e sartoria, al servizio soprattutto dei ragazzi più svantaggiati (orfani, poveri, figli di detenuti); attualmente accoglie principalmente allievi del quartiere. Inoltre il Centro è forte- mente collegato con il contesto produttivo territoriale sia industriale che artigia- nale. Da ultimo, il complesso organico del CFP è costituito da 21 operatori e 120 allievi, con 6.300 ore di formazione. 1 Né per questo CFP né per gli altri non si forniscono i dati sugli abbandoni perché o mancano o non sono completi nel senso che non si distingue tra il vero abbandono, quello cioè per inattività (che consiste nel lasciare ogni forma di impegno rivolto a sviluppare le proprie capacità nell’istruzione e nella formazione, o a metterle a frutto nel lavoro) e il ritiro dal CFP per riorientamento o verso la scuola, o verso altri corsi di formazione professionale, o in vista dell’inserimento nel mondo del la- voro. Infatti, le sole informazioni sugli abbandoni senza queste specificazioni potrebbero fornire un quadro distorto della realtà. 39 1) L’attività formativa L’attività prevalente è costituita dalla formazione iniziale che si avvale della presenza delle comunità professionali di estetica, confezione e termoidraulica. I percorsi sono tutti triennali e sono stati avviati già nel 2002 con le iniziative speri- mentali dell’assolvimento dell’obbligo scolastico interamente nel CFP e con la pro- secuzione nel biennio di qualificazione. Ogni anno sono offerti con pochi cambia- menti: un percorso di formazione iniziale triennale di estetica; due corsi di termoi- draulica; un corso di confezionista, per un totale di 6 corsi. Il percorso triennale è di 3.150 ore, suddiviso in 1.050 ore per annualità; anche gli altri corsi hanno 1.050 ore per ogni annualità, per un totale di 6.300 ore annue. In ogni corso sono presenti circa 20/25 allievi. 2) Gli allievi Anche in questo caso gli allievi che vorrebbero iscriversi risultano molto più numerosi di quelli che il CFP può accogliere. Di conseguenza, ogni anno, per man- canza di corsi autorizzati dalla Regione, una percentuale di giovani che oscilla dal 30 al 40% rimane esclusa dai percorsi offerti dal Centro. A motivo del costante e forte legame tra il CFP e le aziende del territorio quasi tutti gli allievi qualificati riescono a reperire un lavoro già entro i primi sei mesi dall’ottenimento del titolo. I test di gradimento mostrano che gli allievi sono complessivamente più che soddisfatti sia sul piano dell’accoglienza sia sul piano prospettico della colloca- zione professionale. 3) I formatori Anche in questo caso, l’organizzazione del personale privilegia la presenza dei formatori all’interno di un solo settore per favorire la relazione con gli allievi e ga- rantire una didattica omogenea ed efficace. 4) Le famiglie I rapporti tra il CFP e le famiglie risultano molto stretti. Durante l’attività for- mativa sono previsti incontri in occasione delle valutazioni periodiche, mentre le relazioni con i genitori sono tenute dai tutor e dai coordinatori di settore, utiliz- zando anche il libretto personale. 5) Le imprese Il Centro può contare su una notevole rete di relazioni con le aziende del terri- torio che gli permettono di realizzare in maniera soddisfacente lo stage formativo e di facilitare la transizione degli allievi qualificati nel mondo del lavoro. 1.3. Relazione del CFP di Ragusa Il CFP di Ragusa accoglie ragazzi da tutta la Provincia, e nello stesso tempo è caratterizzato dalla presenza al suo interno anche di minori stranieri che risiedono nel territorio. Gli interventi mirano ad una completa integrazione di questi ultimi 40 nel tessuto sociale, evitando così fenomeni di emarginazione o, ancora peggio, di criminalità. Il CFP è profondamente inserito nel contesto produttivo locale nel settore sia dell’industria che dell’artigianato. Il quadro organico delle attività è costituito da 24 operatori, 149 allievi e circa 9.300 ore di formazione. 1) L’attività formativa L’attività prevalente consiste nella formazione iniziale, basata su percorsi triennali sperimentali per l’attuazione del diritto-dovere formativo. Ogni anno ven- gono attivati i seguenti corsi: 3 di installatore manutentore impianti elettrici civili e industriali, 3 di costruttore alle macchine utensili, 2 di serramentista in allumino, per un totale di 9.300 ore di formazione e di 149 iscritti. 2) Gli allievi Gli allievi che frequentano il Centro provengono dalla città di Ragusa e dai co- muni della Provincia. Dal 2000 al 2005 tutti coloro che hanno fatto domanda di iscrizione hanno trovato collocazione nei corsi. A motivo del costante e forte le- game tra il CFP e le imprese del territorio si registra, già entro i primi sei mesi dalla qualifica, la quasi piena occupazione degli allievi che hanno ottenuto il titolo. In generale gli allievi esprimono un livello elevato di gradimento sia sul piano dell’accoglienza che su quello prospettico del futuro professionale. 3) I formatori Il Centro si impegna ad assicurare le condizioni affinché l’assunzione dei for- matori avvenga all’interno di ciascun settore, al fine di favorire la relazione con gli allievi e di garantire maggiore efficacia didattica. Quest’anno, per l’aumento del numero dei corsi e per la precarietà dei finanziamenti regionali, sono state effet- tuate nuove assunzioni di personale a tempo determinato. 4) Le famiglie I rapporti tra il CFP e le famiglie sono molto positivi. L’avvio dell’attività for- mativa per i primi anni è preceduta da un incontro con i genitori per presentare la comunità professionale, la carta dei valori del CNOS-FAP e l’organizzazione com- plessiva del Centro. Durante lo svolgimento dei percorsi sono organizzate riunioni con i genitori per la valutazione periodica, mentre i contatti stabili con loro sono te- nuti, utilizzando anche il libretto personale, dai tutor e dai coordinatori di settore. 5) Le imprese Il Centro dispone di una notevole rete di rapporti con le imprese del contesto territoriale che gli consentono di organizzare efficacemente lo stage formativo e di facilitare l’inserimento occupazionale degli allievi qualificati. 1.4. Relazione del CFP di Misterbianco Sin dalla sua fondazione il CFP ha adottato lo spirito e il metodo educativo di Don Bosco, perseguendo finalità istituzionali di orientamento, di formazione e di 41 aggiornamento professionale, ma soprattutto ha inteso divenire il punto di riferi- mento per l’accompagnamento e la formazione globale della personalità di ogni giovane. Il CFP ha due sedi, una nei quartieri periferici di Misterbianco e l’altra nel centro storico di Catania L’offerta formativa principale consiste nella formazione iniziale, per complessive 14.700 ore finanziate dall’Assessorato Regionale al la- voro, con percorsi triennali che rientrano nelle comunità professionali elettro-elet- tronica, della ristorazione – sala bar e cucina, dei servizi alla persona – acconciatori e addetti alle vendite. Sempre nell’ambito della formazione iniziale sono stati rea- lizzati altri due progetti: “Una possibilità per tutti”, finanziato dal Comune di Mi- sterbianco nell’ambito dell’iniziativa Comunitaria URBAN 2, per complessive 2.200; “Progetto pilota di obbligo formativo” elaborato dall’IPSSAR, autorizzato e finanziato dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Sicilia, per complessive 2.200 ore. 1) L’attività formativa Dall’inizio dell’attivazione dei percorsi triennali di formazione iniziale ad oggi, si è passati dai 6 corsi dell’anno 2000-2001 agli attuali 14, andando così a re- gime con la triennalità in tre settori su quattro (gli addetti alle vendite hanno solo primo e secondo anno), per un totale di 14.700 ore di formazione. Ogni percorso triennale si articola in 3.150 ore, suddivise in 1.050 ore per ogni annualità. In ogni corso sono presenti sino ad un massimo di 18 allievi, tranne in quelli della ristora- zione che vengono approvati per un massimo di 14. 2) Gli allievi I dati relativi ai primi anni dei percorsi triennali fanno registrare una percen- tuale media del 48% di allievi che non vengono avviati per mancanza di corsi auto- rizzati dalla Regione. A motivo del costante e forte legame tra il CFP e le aziende del territorio quasi tutti gli allievi qualificati riescono a reperire un lavoro già entro i primi sei mesi dall’ottenimento del titolo; inoltre, per alcuni si registra la ripresa degli studi con l’inserimento nei percorsi dell’istruzione superiore. La soddisfazione degli allievi è stata rilevata tramite questionari somministrati al 30% degli allievi al termine del- l’attività formativa. I risultati attestano di un gradimento che si colloca su un livello che dall’“abbastanza” contenti sale verso il “molto”. 3) I formatori Includendo anche il resto del personale dei corsi regionali della formazione professionale iniziale, i formatori arrivano a 50 e sono distribuiti su due sedi. Tut- tavia, solo il 30% delle ore di attività formativa è coperto da formatori con con- tratto a tempo indeterminato, mentre il 70% è affidato a formatori con contratti a tempo determinato; inoltre sono presenti nel CFP 6 formatori a progetto. Per favorire l’instaurarsi di relazioni significative con gli allievi e garantire omogeneità e continuità metodologica, didattica ed educativa, i formatori hanno 42 svolto incarichi per aree omogenee e per una sola sede. L’omogeneità tra le due sedi è assicurata dalla loro dipendenza da una Direzione unica. A ciascun operatore del CFP di appartenenza è stata proposta una scheda che richiedeva, per ogni punto di ciascuna area (comunità formativa, attività e organiz- zazione), di darne una valutazione, indicando al tempo stesso i punti forti e deboli dell’attività e le proposte di miglioramento. 4) Le famiglie Il rapporto con le famiglie è fondamentale e viene curato costantemente du- rante tutto il periodo dell’attività formativa con almeno 4 incontri annuali, organiz- zati periodicamente in vista del confronto sui risultati e della realizzazione di mo- menti formativi ed informativi comuni. Il gradimento delle famiglie degli allievi è stato rilevato tramite questionari somministrati alla fine dell’attività formativa. Anche in questo caso l’indice di soddisfazione si è avvicinato alle punte massime. 5) Le imprese Gli allievi di tutti i settori svolgono periodi di stage, all’interno delle ore di at- tività formativa, a partire dal primo anno. Su 14.700 ore di formazione ben 2.384, pari al 16.2 % dell’attività complessiva, si realizzano in azienda con gli stage. Il gradimento delle imprese presso le quali gli allievi svolgono lo stage è stato rile- vato alla fine di tale attività tramite questionari: in più dell’80% dei casi si sono ot- tenute valutazioni positive. 1.5. Relazione del CFP di Palermo Il CFP del CNOS-FAP di Palermo opera nella formazione professionale ini- ziale con percorsi triennali nei settori: meccanico, elettrico, grafico e della ristora- zione. Attualmente sono impegnati 60 operatori e 409 allievi, per un totale di 21.720 ore di formazione. 1) Gli allievi Gli allievi che hanno iniziato nel 2002-03 il loro percorso e che nel 2004-05 hanno frequentato il terzo anno nei settori elettrico e meccanico, hanno sostenuto gli esami di qualifica e conseguito tale titolo, sono stati monitorati attraverso appo- site schede di rilevamento i cui risultati hanno dimostrato alti livelli di gradimento per l’esperienza fatta. 2) Le famiglie Il questionario proposto alle famiglie degli allievi intendeva rilevare la loro percezione e il relativo gradimento nei confronti di alcuni aspetti delle attività del Centro. Il giudizio globale è risultato molto positivo. È stato inoltre chiesto ad esse di esprimere – qualora lo avessero ritenuto opportuno – osservazioni e/o suggeri- menti in ordine ai servizi offerti da parte del Centro. Nelle risposte parecchi geni- tori hanno manifestato notevole apprezzamento ed ampia condivisione per quanto riguarda i valori formativi trasmessi complessivamente ai propri figli. Meno posi- tivi sono stati, invece, i giudizi relativi ad altri interventi quali: il servizio bar, in 43 quanto continua a mantenere uno standard di igiene piuttosto modesto; gli incontri periodici con i docenti, che non brillano per organizzazione ed efficienza; il ser- vizio di segreteria, che in genere non risulta particolarmente efficiente. 3) Le imprese Da diverso tempo il Centro ha attivato una notevole collaborazione con le im- prese, sia per quanto riguarda gli stage formativi che anche in relazione all’occupa- bilità degli allievi. Negli ultimi due anni si sono avviati con l’AMAT (Azienda Mu- nicipalizzata dei Trasporti di Palermo) dei tirocini formativi della durata di 6 mesi per i qualificati del settore meccanico auto. Da ultimo, è risultato molto elevato il gradimento delle aziende in merito al comportamento dei corsisti durante gli stage. 1.6. Relazione del CFP di Gela Storicamente il CFP del CNOS-FAP di Gela è nato nei primi anni sessanta come laboratorio artigianale della meccanica. Attualmente raccoglie prevalentemente ra- gazzi di Gela e del relativo comprensorio. Il CFP è strettamente collegato con il con- testo produttivo territoriale sia industriale che artigianale. Il quadro organico del CFP è costituito da 70 operatori, 350 allievi e circa 20.000 ore di formazione. 1) L’attività formativa L’attività prevalente consiste nella formazione iniziale che si articola nelle co- munità professionali meccanica, elettro-elettronica e ristorazione. Nell’anno 2005- 06 sono stati avviati 18 percorsi di formazione iniziale triennale e 2 di formazione superiore per un totale di 20. Il percorso triennale è di 3.150 ore, suddiviso in 1.050 ore per ogni annualità. In ogni corso sono presenti circa 20/25 allievi. 2) Gli allievi I dati relativi ai primi anni evidenziano una percentuale elevatissima di giovani che non vengono iscritti per mancanza di corsi autorizzati dalla Regione. Molto forte rimane, dopo la qualifica, il legame con il CFP e con i settori di appartenenza, grazie alla formazione valoriale, culturale e professionale acquisita presso il Centro. 3) I formatori La maggior parte dei formatori sono impegnati a tempo pieno, mentre l’assun- zione può essere a tempo indeterminato o determinato. L’organizzazione del perso- nale privilegia la presenza dei formatori all’interno di un solo settore per favorire i rapporti con gli allievi e assicurare una didattica omogenea ed efficace. 4) Le famiglie L’iscrizione degli allievi al CFP comporta un primo contatto dei genitori che serve ad approfondire l’aspetto della corresponsabilità con gli operatori dello Spor- tello Multifunzionale. Durante l’attività formativa inoltre sono previsti incontri per la valutazione periodica, mentre i contatti con i genitori sono tenuti, utilizzando anche il libretto personale, dai tutor, dai coordinatori di settore e dai referenti del 44 progetto di corresponsabilità. Il giudizio espresso dalle famiglie nei confronti del CFP è stato più che positivo. 5) Le imprese Il Centro può contare su una notevole rete di relazioni con le aziende del terri- torio che gli permettono di realizzare in maniera soddisfacente lo stage formativo e di facilitare la transizione degli allievi qualificati nel mondo del lavoro. 2. I CENTRI DEL CIOFS/FP DELLA SICILIA Al contrario del CNOS-FAP, che ha deciso di preparare un rapporto separato per ogni CFP, il CIOFS/FP ha optato per una relazione di sintesi sulla sperimenta- zione dei nuovi modelli di percorsi formativi del diritto-dovere che è stata realiz- zata nei 13 Centri della Regione (Acireale, Agrigento, Barcellona, Bronte, Catania, Gela, Palagonia, Palermo, Messina, Modica, Pietraperzia, Noto, S. Agata Mili- tello). I destinatari delle azioni formative dei CFP del CIOFS/FP della Sicilia sono i giovani dai 14 ai 18 anni, portatori di diritto-dovere di proseguimento nell’istru- zione o formazione professionale, secondo la legge n. 53/03. Gli obiettivi di base che i Centri intendono conseguire sono i seguenti: 1) favorire la crescita e la valorizzazione della persona umana; 2) promuovere l’apprendimento lungo l’arco della vita; 3) promuovere il conseguimento di una formazione spirituale e morale; 4) sviluppare negli allievi una visione del lavoro come realtà viva. Molto rilievo viene dato all’azione di accoglienza e informazione dell’allievo, che si realizza con le attività caratteristiche del “Sistema Preventivo” di Don Bosco. 2.1. Presupposti didattici e formativi Le azioni dell’obbligo formativo rientrano in una progettazione che si articola in un percorso di tre anni, che prevede una base comune di formazione, lo sviluppo delle competenze di base e una differenziazione di indirizzi, esplicitati nella ge- stione delle competenze professionali, e che comprende anche i LARSA (labora- torio di recupero e sviluppo degli apprendimenti). Sono privilegiati la didattica attiva e l’apprendimento dall’esperienza, per cui sono previste differenti metodologie didattiche: il gruppo classe, i laboratori di ap- prendimento, l’alternanza tra le varie modalità di impostazione del percorso forma- tivo, la simulazione di impresa. Viene sollecitata pure l’adozione della strategia dell’alternanza formativa, che consente ai singoli allievi di realizzare il percorso formativo integrando tra loro attività formative d’aula ed esperienze svolte nella concreta realtà di lavoro. Dal canto suo l’attività di organizzazione, realizzazione e valutazione dello 45 stage ha lo scopo di mettere in situazione l’allievo per conoscere la spendibilità delle competenze acquisite. L’obiettivo di base è di favorire la transizione dalla for- mazione al lavoro, vissuta come fonte di cambiamento e di maturazione personale prima ancora che professionale. Viene effettuato inoltre il monitoraggio in itinere, che implica un coinvolgimento diretto del tutor d’azienda e che è svolto attraverso le schede di osservazione e valutazione standard. Un’attenzione particolare meritano anche l’organizzazione delle visite didat- tiche e del project work. La finalità delle visite didattiche va individuata nella co- noscenza diretta dei luoghi di lavoro, con un impatto non virtuale o semplicemente descrittivo, ma reale, personale e possibilmente con l’opportunità di fare domande specifiche per conoscere meglio la realtà sociale e lavorativa; mentre il project work è un progetto di lavoro che si propone di prolungare il tempo di apprendi- mento, durante e dopo l’attività d’aula, attraverso la stesura di un progetto che parte dall’analisi del marcato fino alla stesura definitiva del documento progettuale e alla sua presentazione. 2.2. Valutazione quali-quantitativa Il CIOFS/FP della Sicilia pone un notevole accento sull’aspetto della valuta- zione, soprattutto degli allievi in obbligo formativo, in quanto risponde in partico- lare ad esigenze di accompagnamento lungo il percorso di apprendimento e di ma- turazione socio-culturale dell’allievo. Secondo quanto decritto nel sistema di qualità del CIOFS/FP, il processo di va- lutazione si articola in tre fasi ben distinte: valutazione iniziale, in itinere e finale. Per rilevare la soddisfazione del cliente diretto e indiretto, il CIOFS/FP utilizza dei questionari da applicare, con cadenze stabilite, a differenti partecipanti: come minimo, 3 rilevazioni all’anno per gli allievi; 2 per i genitori degli allievi; 1 per i formatori; 1 per le aziende presso cui gli allievi fanno lo stage. I dati della rilevazione sono poi elaborati statisticamente dal valutatore (forma- tore o tutor) e quindi viene riportata in un apposito documento (“Elaborazione sta- tistica del questionario …”) la media dei giudizi espressi, secondo quanto previsto dalle procedure del sistema qualità. 2.3. Sintesi dei dati sull’attività formativa relativamente agli anni 2000-2005 Ai fini di una maggiore chiarezza le informazioni vengono raggruppate per anno. 1) Anno 2000-01 Sono stati avviati 97 corsi, di cui 16 dell’obbligo formativo, e sono state ero- gate 68.700 ore di cui 15.750 per l’obbligo formativo biennale. Sul piano geogra- fico i percorsi erano distribuiti tra le diverse Province: 5 a Catania, 2 a Caltanis- setta, 1 ad Enna, 2 a Ragusa, 2 a Palermo, 3 a Messina e 1 ad Agrigento. L’accesso alla formazione professionale era previsto solo dopo i 15 anni; in generale gli al- lievi provenivano da situazioni di dispersione scolastica ed erano stati raccolti ad 46 uno ad uno o dal CFP o dai Servizi Sociali. In quell’anno, il numero degli allievi è stato di 1.444 di cui 255 nell’obbligo formativo. I profili professionali proposti sono stati tre: addetto servizi d’impresa indirizzo turistico, addetto servizi d’im- presa indirizzo segreteria, operatore dell’abbigliamento con supporto CAD. La valutazione degli apprendimenti per una maggioranza degli iscritti ha fatto registrare livelli bassi. I formatori hanno avvertito il “peso” di questi corsi; a loro volta i genitori li hanno interpretati come un obbligo. È risultato anche molto diffi- cile inserire le allieve per lo stage nelle piccole imprese del territorio. Tutte le pro- blematiche richiamate dipendono principalmente dalla tipologia degli allievi (quasi tutti drop-out) e dall’assenza della cultura del prolungamento dell’obbligo fino al 18esimo anno di età2. 2) Anno 2001-02 Si è proseguito con il secondo anno e contemporaneamente sono stati attivati 8 nuovi corsi di primo anno, sempre dell’obbligo formativo biennale, che ha rag- giunto complessivamente 22.950 ore di formazione. Gli allievi, distribuiti tra il primo e secondo anno, ammontavano a 319 e ancora una volta erano tutti drop-out. Sono stati proposti due nuovi profili professionali: addetto ai servizi d’impresa negli indirizzi di contabile e import export. La valutazione degli apprendimenti si è attestata sul “discreto”. I formatori han- no avvertito la differenza tra gli allievi nuovi e quelli del secondo anno, mentre i ge- nitori dal canto loro hanno incominciano ad accettare l’idea che con la sola terza me- dia i loro figli non avrebbero avuto un grande futuro. Pure in questo caso, non sono mancate difficoltà nell’inserimento per lo stage, anche se i titolari delle aziende han- no incominciato ad apprezzare sempre più gli apprendimenti degli allievi. 3) Anno 2002-03 Le sedi che offrono formazione per l’obbligo formativo sono diminuite di tre unità. Sono state erogate circa 89.740 ore di cui 21.600 di obbligo formativo. Com- plessivamente sono stati avviati 116 corsi, di cui 20 dell’obbligo formativo; gli al- lievi sono 1.672, di cui 283 quelli dell’obbligo formativo. La valutazione degli apprendimenti si è attestata su un valore medio al di sopra del “discreto”, mentre il gradimento del servizio da parte dei formatori è andato oltre il “buono”. Ai genitori è stato chiesto due volte nell’anno di valutare l’offerta formativa: i risultati del rilevamento si sono attestati sul “buono”. Anche la soddi- sfazione per lo stage si è portata su valori alti. È stato adottato il libretto formativo e a livello regionale si è insistito affinché 2 Anche in questo caso non si forniscono i dati sugli abbandoni perché o mancano o non sono completi nel senso che non si distingue tra il vero abbandono, quello cioè per inattività (che consiste nel lasciare ogni forma di impegno rivolto a sviluppare le proprie capacità nell’istruzione e nella for- mazione, o a metterle a frutto nel lavoro) e il ritiro dal CFP per riorientamento o verso la scuola, o verso altri corsi di formazione professionale, o in vista dell’inserimento nel mondo del lavoro. Infatti, le sole informazioni sugli abbandoni senza queste specificazioni potrebbero fornire un quadro distorto della realtà. 47 venissero utilizzate metodologie innovative; inoltre si è cercato di descrivere le competenze sviluppate. Per quanto riguarda l’inserimento lavorativo, su un cam- pione di circa 100 allievi il 90% ha trovato il lavoro (però quasi sempre in nero). 4) Anno 2003-04 Le sedi hanno erogato complessivamente 84.482 ore di formazione, di cui 28.050 di obbligo formativo, in 12 CFP. Il numero dei corsi è stato di 98, di cui 25 di obbligo formativo; complessivamente gli allievi hanno raggiunto la cifra di 1.380, di cui 357 in obbligo formativo (125 al II anno e 232 al I anno). Tra i profili professionali si è aggiunto a quelli degli anni precedenti uno nuovo, ad indirizzo in- formatico-gestionale, con il nome di operatore delle attività informatizzate. La valutazione degli apprendimenti è risultata sempre più che sufficiente. La soddisfazione dei formatori e dei genitori si è attestata su un livello che dall’“abba- stanza” sale a “molto”; anche per quanto riguarda lo stage il livello di “molto” gra- dimento ha riguardato la quasi totalità delle parti interessate (allievi e imprendi- tori). La programmazione dei corsi è rimasta quella standard, che prevede l’acqui- sizione delle competenze di base secondo le condizioni stabilite dall’Accordo Stato Regioni. In aggiunta, è stato realizzato uno studio più approfondito sul modo di fare verifiche e valutazioni. Nel contempo si è cercato di preparare nuovi formatori che siano capaci di padroneggiare metodologie sempre più appropriate in funzione della formazione professionale. Per quanto riguarda l’inserimento lavorativo, va messo in risalto che l’85% dei qualificati ha trovato una occupazione. 5) Anno 2004-05 Durante l’anno in osservazione le sedi hanno erogato complessivamente 84.032 ore, di cui 29.700 per l’obbligo formativo (svolto in 11 sedi); il numero dei corsi è stato di 98, di cui 28 dell’obbligo formativo, e 1.800 quello degli allievi, di cui 496 nell’obbligo formativo. La tipologia dei profili professionali avviati si col- loca soprattutto nel settore dell’informatica gestionale (5 su 13) e della segreteria (4 su 13). In qualche Centro è stato avviato un profilo nel settore sociale di “Opera- tore per lo sport e il tempo libero” e un percorso nel campo dell’alimentazione: “Pizzaiolo, pasticcere, gelatiere”. La valutazione degli apprendimenti si è attestata ancora una volta su valori soddisfacenti. Il gradimento dei formatori e dei genitori è rimasto pressappoco sugli stessi valori dell’anno scorso. L’ultimo percorso richiamato sopra è stato ef- fettuato in stretta collaborazione con le aziende del settore: la docenza delle disci- pline professionalizzanti è stata affidata ai gestori delle stesse imprese presso cui gli allievi avevano frequentato le attività di laboratorio e di stage. Ciò ha facilitato l’approccio al lavoro, una conoscenza più diretta e personale del Centro da parte delle aziende e si è creato un legame tra gli allievi e i docenti che facilita l’espe- rienza lavorativa. Il livello di gradimento per lo stage raggiunge il 100% di soddi- sfazione al 3° anno. A questo proposito è da ricordare che, dopo la pubblicazione degli standard delle competenze minime di base da parte della Conferenza Stato Regioni, il 48 CIOFS-P ha standardizzato la progettazione dei percorsi secondo le aree prestabi- lite. Anche nella suddivisione oraria si è cercato di rispettare gli obiettivi della legge 53/03 che definisce il percorso del 2° ciclo come finalizzato alla crescita edu- cativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il fare e l’agire, e la riflessione critica su di essi, per cui qualunque sia il profilo professionale da rea- lizzare, l’organizzazione oraria, il monte ore e i contenuti delle competenze di base sono uguali per tutti. Naturalmente la metodologia di realizzazione varia da profilo a profilo e a secondo della sensibilità e dell’esperienza dei formatori. 6) Anno 2005-2006 L’attività formativa copre un totale di 78.070 ore distribuite tra 40 percorsi triennali, più uno quadriennale per l’obbligo formativo (43.050 ore) e 54 corsi per adulti ripartiti su diverse misure, che vanno dalla formazione superiore alla forma- zione continua e permanente. Ogni percorso triennale si articola in 3.150 ore, sud- divise in 1.050 annue. Inoltre sono presenti nell’intero territorio dell’isola 5 spor- telli orientativi. I dati relativi a tutte le sedi evidenziano 1.671 schede-allievi (tre rilevazioni per ciascun allievo) di cui 725 intervistati in obbligo formativo e 946 in percorsi per adulti, non intervistati. Purtroppo non tutte le domande di candidatura ricevono ri- sposta positiva e si è costretti ogni anno a fare la selezione per l’ammissione ai corsi. Includendo anche il resto del personale dei corsi regionali della formazione professionale iniziale, i formatori arrivano a 257, di cui 132 con contratto a tempo indeterminato e 125 con contratto a collaborazione. Il 90% dei formatori dell’ob- bligo sono laureati e parecchi di loro anche abilitati; l’altro 10% ha come minimo un diploma e attestati di qualifiche inerenti le discipline professionalizzanti Il rapporto con le famiglie è fondamentale e viene curato costantemente du- rante tutto il periodo dell’attività formativa con almeno 4 incontri annuali; di parti- colare importanza sono gli incontri preliminari alle iscrizioni e all’inizio dell’anno formativo, in cui viene presentato il percorso didattico-formativo e il patto forma- tivo che viene sottoscritto dalla famiglia e dall’allievo. Altri incontri lungo l’anno sono organizzati periodicamente in vista del confronto sui risultati e della realizza- zione di momenti formativi ed informativi comuni. Il gradimento delle famiglie viene rilevato due volte l’anno tramite questionari somministrati a metà percorso e alla fine dell’attività formativa annuale. L’indice di soddisfazione si è avvicinato alle punte massime (livello 4). Quanto ai rapporti con le imprese, gli allievi di tutti i settori svolgono periodi di stage, all’interno delle ore di attività formativa, a partire dal secondo anno. Al primo anno viene promosso uno stage orientativo (30 ore circa), con visite didat- tiche e informative per conoscere meglio il profilo professionale e l’ambiente lavo- rativo. Su 150 ore di formazione annua, circa 110 vengono dedicate allo stage in azienda. Il gradimento delle imprese presso le quali gli allievi svolgono lo stage è stato rilevato alla fine di tale attività tramite questionari: in più dell’99% dei casi si sono ottenute valutazioni positive. 49 Capitolo 3 L’indagine sul campo Vittorio PIERONI Dopo avere descritto sinteticamente le attività relative al diritto-dovere fino al 2005, il presente capitolo analizza e commenta i dati riguardanti l’anno formativo 2005-06, dati che emergono dall’applicazione delle sette schede utilizzate per il monitoraggio. A questo proposito va osservato che una parte del kit di strumenti di rilevamento si caratterizza per la natura prettamente descrittiva dei percorsi, mentre l’altra parte mira a valutare la qualità della formazione offerta. Di conseguenza nel capitolo in questione si terrà conto proprio di questa distinzione, presentando nella prima sezione i dati relativi al numero degli iscritti e dei formatori, alle tipologie formative e al relativo monte-ore, agli spazi e agli strumenti messi a disposizione, mentre la seconda analizzerà le valutazioni ed il gradimento dei differenti attori (al- lievi, genitori, coordinatori dei percorsi, formatori) nei confronti delle principali azioni formative. 1. CARATTERISTICHE DEI CENTRI, DEGLI ALLIEVI, DEI FORMATORI E DELL’OF- FERTA FORMATIVA Sulla base delle schede che sono state utilizzate per raccogliere soprattutto dati quantitativi, si cercherà anzitutto di descrivere le caratteristiche generali dei CFP coinvolti nella ricerca-azione. Successivamente l’attenzione viene concentrata sugli allievi che frequentano la formazione professionale iniziale, sui loro formatori e sui genitori e sui rapporti con le forze sociali del territorio. In un terzo momento, l’ana- lisi è stata focalizzata sulla qualità dell’offerta formativa e sulle modalità di valuta- zione. 1.1. I Centri e l’offerta formativa Come anticipato nel precedente capitolo, i Centri che in Sicilia hanno parteci- pato all’indagine sui percorsi triennali assommano complessivamente a 18 (anche se non sempre e/o non tutti hanno risposto a tutte le schede): 12 del CIOFS/FP e 6 del CNOS-FAP. Per quanto riguarda i settori operativi, i Centri del CIOFS/FP si situano per lo più nel terziario (lavori di ufficio, segreteria, informatica, servizi alla persona, servizi socio-educativi…), mentre quelli del CNOS-FAP si collocano nel secon- 50 dario (commercio, grafica, meccanica, elettro/elettronica, informatica, ristora- zione…). Le funzioni attivate nei CFP possono essere ripartite tra: quelle presenti solo in alcuni Centri (autoproduzione di strumenti per l’apprendimento; counseling/tu- toring all’inserimento lavorativo); quelle riscontrabili in almeno una metà dei Centri (progettazione di azioni formative; valutazione del potenziale delle per- sone; definizione delle strategie del servizio; promozione e marketing del servizio; diagnosi dei bisogni e della domanda individuale di formazione; analisi della do- manda di formazione; facilitazione all’apprendimento individuale e di gruppo; svi- luppo o innovazione del servizio); e quelle che si trovano pressappoco in tutti i Centri (valutazione e monitoraggio delle azioni formative; valutazione dei requi- siti di qualità del servizio verso clienti/utenti; gestione del sistema qualità; ge- stione delle relazioni esterne con le imprese, gli organismi e gli attori locali; for- mazione del personale). Lo staff di direzione esiste in 12 Centri (9 del CIOFS/FP e 3 del CNOS-FAP), ma non è presente in 2 CFP (del CIOFS/FP), mentre non hanno risposto i rimanenti 4 (2 per Ente). Gli allievi che nel 2005-06 hanno potuto usufruire delle differenti azioni for- mative elencate nella Tav. 1 assommano complessivamente a 5.457: di essi il 71.6% (3.908) appartengono al CNOS-FAP e il 28.4% (1.549) al CIOFS/FP. La loro distribuzione in base alle differenti azioni formative e agli Enti di ap- partenenza, per quanto riguarda le tipologie di formazione, presenta il seguente an- damento: a) 3.254 hanno partecipato alla formazione iniziale, pari al 59.6% di chi ha usu- fruito dell’insieme delle azioni formative; nella distribuzione per Enti ap- paiono percentualmente divisi in parti abbastanza simili tra il 60.8% (2.377) del CNOS-FAP ed il 56.6% (877) del CIOFS/FP1; b) segue la formazione continua, offerta a 700 allievi (il 12.8%), distribuita tra il 17.8% del CIOFS/FP (276) e il 10.8% del CNOS-FAP (424); c) mentre della formazione superiore, speciale e per progetti integrati hanno usu- fruito quote assai più limitate di utenti; la prima, la formazione superiore, è stata offerta a 241 utenti (4.4%), distribuiti tra 119 (7.7%) del CIOFS/FP e 122 (3.1%) del CNOS-FAP; la formazione per progetti integrati ha riguardato complessivamente 140 allievi (2.6%), di cui 122 (3.1%) del CNOS-FAP e 18 (1.2%) del CIOFS/FP; della formazione speciale hanno usufruito 60 allievi (1.1%), tutti del CNOS-FAP; d) infine l’attività formativa è stata rivolta anche a 142 (2.6%) soggetti che fanno parte del personale dei Centri, quasi tutti del CNOS-FAP (135, contro 7 del CIOFS/FP). 1 Le percentuali si riferiscono al totale degli iscritti di ciascun Ente. 51 Per erogare le diverse tipologie di azioni formative analizzate sopra, nell’anno 2005-06, sono state impiegate complessivamente 242.119 ore, di cui il 62.7% (151.219) nei CFP del CNOS-FAP e il 37.3% (71.508) in quelli del CIOFS/FP. Il quadro complessivo è il seguente (cfr. Tav. 2): 1) per quanto riguarda le tipologie di formazione: a) quella iniziale ha occupato da sola il 67.5% del totale delle ore formative (162.750), a loro volta suddivise tra le 119.700 attribuite al CNOS-FAP (e che corrispondono al 79.2% delle ore svolte all’interno dei relativi CFP) e le rimanenti 43.050 del CIOFS/FP (pari al 47.8% del monte-ore complessivo svolto all’interno dei CFP di questo Ente); b) seguono, in percentuale, la formazione superiore (28.060 ore, pari all’11.6% del totale), erogata per lo più dai CFP del CIOFS/FP (25.000 ore=27.8%, contro le 3.060=2% del CNOS-FAP), la formazione speciale (13.376 ore=5.5%) svolta più dal CIOFS/FP che dal CNOS-FAP (8.100 ore=8.9% contro 5.276=3.5%) e la formazione per progetti integrati (7.430 ore, pari al 3.1%), dove invece si distinguono i Centri del CNOS-FAP (7.200=4.8%) a fronte delle 230 ore del CIOFS/FP (0.3%). Viene quindi la formazione conti- nua (3.640=1.5%), realizzata leggermente più dal CNOS-FAP (1.960=1.3%) che dal CIOFS/FP (1.680=1.9%), mentre la formazione per i contratti di la- voro (1.440=0.6%) è realizzata solo dal CNOS-FAP (0.9%) e la formazione destinata ai formatori presenta un numero ridotto di ore (995=0.4%), divise tra 755 del CNOS-FAP (0.5%) e 240 (0.3%) del CIOFS/FP; 2 Nel piano formativo regionale la cifra è 725. 3 Nel piano formativo regionale non risulta questa tipologia di attività per il CNOS-FAP. Tav. 1 - Allievi iscritti nei CFP (2005-06; per tipologia di azioni formative) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze 52 2) per quanto riguarda invece le tipologie di servizi: a) l’orientamento ha assorbito il 9.1% del monte-ore complessivo, con 21.978 ore, svolte maggiormente nei CFP del CIOFS/FP (11.730=13%) che non in quelli del CNOS-FAP (10.248=6.81%); b) infine 1.580 ore (0.7%) sono state impiegate per svolgere servizi formativi, realizzate tutte dal CNOS-FAP (1%). Tav. 2 - Ore formative erogate (2005-06; per tipologia di azioni formative) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze Per realizzare l’insieme delle azioni formative offerte dai Centri, sono state impiegate complessivamente 699 figure professionali, di cui 441 (63.1%) del CNOS-FAP e 258 (36.9%) del CIOFS/FP, e che sono così ripartite in base ai ruoli (cfr. Tav. 3): a) la quota maggioritaria è composta ovviamente da coloro che svolgono unica- mente azioni formative, ossia i docenti/formatori (437=62.5%), di cui 170=65.9% del CIOFS/FP e 267=60.5% del CNOS-FAP; b) ad essi si aggiungono le figure di sistema con compiti specifici, quali i tutor (52=7.4%), suddivisi tra 16=6.2% del CIOFS/FP e 36=8.2% del CNOS-FAP; i coordinatori/progettisti (26=3.7%: 22=5% del CNOS-FAP e 4=1.6% del CIOFS/FP); c) mentre la quota residua è assorbita da figure che si occupano principalmente della gestione dei Centri, ossia i direttori (ovviamente uno per Centro), gli am- ministrativi (78=11.2%: 55=12.5% del CNOS-FAP e 23=8.9% del CIOFS/FP), gli ausiliari (48=6.9%: 35=7.9% e 13=5% rispettivamente) ed altro personale ancora (36=5.2%), di cui non è stato precisato il ruolo svolto. 53 Vengono infine, a completamento dell’organico, anche i dati relativi alle strut- ture che sono state utilizzate per lo svolgimento delle attività corsuali. Esse assom- mano complessivamente a 365, di cui 240 del CNOS-FAP (65.8%) e 125 del CIOFS/FP (34.2%), e risultano così distribuite in base alle diverse tipologie (cfr. Tav. 4): Tav. 3 - Personale impiegato in obbligo formativo (2005-06; per figure professionali) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze Tav. 4 - Strutture utilizzate dai CFP (2005-06; per tipologia) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze a) le quote maggioritarie sono assorbite ovviamente dalle due principali strutture su cui poggia l’attività formativa dei Centri, ossia le aule (183=50.1%: 121=50.4% del CNOS-FAP e 62=49.6% del CIOFS/FP) ed i laboratori (114=31.2%: 85=35.4% e 29=23.2%, rispettivamente); b) vengono quindi segnalate anche altre 18 strutture (4.9%), tra palestre e im- pianti sportivi, ed altrettante risultano le biblioteche o sale di lettura; entrambi 54 i tipi di strutture si distribuiscono in parti simili tra i due Enti; nei CFP sono presenti anche 12 centri didattici (3.3%) per lo più del CNOS-FAP ed altre strutture, che però non vengono specificate, la maggior parte delle quali si ri- scontrano invece nel CIOFS/FP. 1.2. Caratteristiche degli allievi Dei 5.457 allievi che nell’anno 2005-06 hanno usufruito delle diverse azioni formative elencate nel paragrafo precedente, quelli iscritti ai percorsi triennali as- sommano a 1.797, pari a circa un terzo dell’utenza complessiva (32.9%), di cui 505 (28.1%) del CIOFS/FP e 1.292 (71.9%) del CNOS-FAP. Attraverso i dati della Tav. 5 è possibile risalire anche alla loro provenienza: a) oltre due allievi su tre si sono iscritti dal canale della scuola secondaria di 1° grado, seguendo un regolare percorso ascendente: 1.241=69.1%, di cui 937 (72.5%) del CNOS-FAP e 304 (60.2%) del CIOFS/FP; b) altri 318 (17.7%) sono passati dalla scuola secondaria di 2° grado, di cui 233 (18%) iscritti nei Centri del CNOS-FAP e 85 (16.8%) nel CIOFS/FP; c) la quota residua (238=13.3%) riguarda la provenienza di piccoli gruppi dai centri per l’impiego (solo nel CIOFS/FP), dai servizi socio-assistenziali, dalle famiglie, dalle associazioni e dalle parrocchie (queste ultime segnalate solo nel CNOS-FAP); tra essi la quota più consistente riguarda l’orientamento interno (93=5.2%). Tav. 5 - Provenienza degli allievi dei percorsi triennali (2005-06) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze Il 7.8% degli iscritti ai corsi triennali (129) è composto da soggetti che presen- tano particolari caratteristiche; di essi la maggioranza (111) si colloca nel CNOS- FAP e 18 nel CIOFS/FP. Passando a specificarne l’entità, troviamo che la quota più numerosa (80) è composta da coloro che sono stati segnalati a motivo di speciali disagi e che si trovano quasi tutti nel CNOS-FAP (75); seguono i portatori di dis- abilità fisiche e/o psichiche, 38 (di cui 29 nel CNOS-FAP), mentre gli allievi extra- comunitari sono in tutto 11 (rispettivamente 7 e 4). 55 Durante l’anno formativo in osservazione, si sono ritirati 278 allievi, quasi tutti per iscriversi ad altri corsi di formazione professionale o per entrare nel si- stema dell’istruzione, e una minoranza per andare a lavorare, per cui si può soste- nere che non c’è stata alcuna vera dispersione. Al tempo stesso se ne sono aggiunti altri 153, provenienti quasi tutti dalla scuola e una minoranza da inattività. Al termine del corso si conoscono solo i risultati conseguiti da 1.619 allievi. Dei rimanenti 178 non abbiamo informazioni dettagliate. I 1.619 allievi (1.186=73.3% del CNOS-FAP e 433=26.7% del CIOFS/FP) am- messi agli esami di qualifica hanno riportato i seguenti risultati (cfr. Tav. 6): a) oltre la metà degli allievi del CNOS-FAP (57.3%=679) e più dei due terzi del CIOFS/FP (68.4%=296) hanno superato gli esami con una valutazione “posi- tiva”; ad essi si aggiungono anche gli eccellenti (107=9% e 52=12%, rispetti- vamente), per cui complessivamente il successo riguarda il 65-70% di coloro che hanno portato a termine il corso; b) sommando invece le quote degli allievi risultati insoddisfacenti e carenti, essi si trovano in rapporto di uno a cinque tra le fila del CIOFS/FP (19.6%=85) e di uno a tre in quelle del CNOS-FAP (33.8%=400). Tav. 6 - Risultati conseguiti dagli allievi al termine del corso (2005-06) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze 1.3. Caratteristiche dei formatori Stando alle risposte della scheda n. 6, i formatori dell’obbligo formativo coin- volti nelle diverse attività che fanno capo ai CFP della Sicilia assommano comples- sivamente a 145 nel CNOS-FAP e a 457 nel CIOFS/FP (cfr. Tav. 7). Quest’ultimo è anche l’unico dato anagrafico di cui disponiamo sul totale dei formatori degli Enti in questione e sulla distribuzione tra i due. Infatti, nei CFP del CNOS-FAP, la scheda n. 6 è rimasta sostanzialmente quella tradizionale, applicata nell’indagine nazionale del 2002 (Malizia, Nicoli e Pieroni) e successivamente anche in altre Re- gioni come Lazio, Lombardia, Piemonte e Veneto (Malizia, Nicoli e Pieroni, 2006), mentre il CIOFS/FP della Sicilia vi ha apportato un cambiamento per quanto ri- guarda il sistema di valutazione ed inoltre non ha mantenuto le domande iniziali, mirate a ricostruire un’immagine della professionalità dei formatori. 56 Di conseguenza i dati anagrafici analizzati qui di seguito riguardano unica- mente i 145 formatori del CNOS-FAP: a) nella distribuzione in base alla variabile di genere, i formatori maschi sono in rapporto di due terzi a un terzo sulle femmine (64.1 e 32.4%, rispettivamente); b) l’età si presenta abbastanza ben proporzionata nelle tre fasce in cui è stata sud- divisa: fino a 35 anni il 28.3%; tra 36 e 45, il 24.8%; oltre i 46 anni, il 29%; la Tav. 7 - Distribuzione dei formatori4 in base ai Centri e ai rispettivi Enti di appartenenza (2005- 06) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze 4 I dati non corrispondono pienamente a quelli della Tav. 3 perché lì si tratta di figure professio- nali e qui di persone. 57 media si aggira attorno ai 40 anni, tuttavia va notato che una quota non indiffe- rente (26=17.9%) non ha risposto in merito; c) il titolo di studio fa registrare una suddivisione di massima tra laureati e non, in rapporto di un terzo a due terzi (33.1 e 66.2%, rispettivamente); di questi ul- timi il 53.8% è in possesso di un diploma e l’11% di una qualifica professio- nale; d) più della metà dei formatori dichiara di essere iscritto ad un albo professionale (77=53.1%); e) l’86.9% svolge il ruolo di formatore; seguono in graduatoria i tutor (10.3%), i coordinatori (3.4%), gli orientatori (3.9%), i docenti di sostegno (1.4%), gli orientatori (0.7%), più altri incarichi ancora (5.5%); considerando che l’in- sieme delle risposte supera il 100%, se ne deduce che alcuni svolgono contem- poraneamente più ruoli; f) anche gli anni di insegnamento si presentano abbastanza proporzionati nelle tre fasce in cui sono stati suddivisi: il 33.8% insegna da meno di 5 anni; il 24.8% tra 5 e 15; il 32.4% da più di 15; la media si attesta attorno ai 10; g) prima del presente incarico il 44.1% dei formatori svolgeva attività coerenti con quella attuale; tuttavia, solo il 12% ha dichiarato espressamente di fare già il formatore, mentre la quota residua si suddivide tra chi proviene direttamente dagli studi (il 29%) e chi svolgeva prima attività non congruenti con quella at- tuale (14.5%); h) le motivazioni della scelta di insegnare nei percorsi sperimentali si suddivi- dono tra l’interesse specifico verso la formazione professionale (la maggio- ranza assoluta, 51%) e le opportunità di lavoro che essa offre (una minoranza consistente 39.3%)5. 1.4. Forme di collaborazione con gli allievi, le famiglie, le imprese del territorio Tornando alla scheda n. 1, nell’ultima parte erano presenti varie domande, in gran parte aperte, distribuite su due tematiche di fondo: le forme di cooperazione e le strategie utilizzate ai fini di una formazione di qualità. La collaborazione tra il Centro e gli allievi è stata formalizzata in tutti i Centri anzitutto attraverso la sottoscrizione del patto d’aula (o formativo). Gli allievi ven- gono stimolati a partecipare attivamente alla loro formazione attraverso l’elezione dei rappresentanti del corso e soprattutto dando loro l’opportunità di gestire sia atti- vità didattiche (di aula, di laboratorio…) che extra-curricolari (feste, campionati, gite, attività espressive, musicali, culturali…). In aggiunta, la cooperazione ha compreso inoltre la partecipazione a vari organi collegiali, la valutazione e/o solu- zioni congiunte da dare ad alcuni problemi collettivi (casi disciplinari, controllo 5 I dati relativi alle diverse variabili non sono distinti per Ente perché al Centro di calcolo del- l’Università Pontificia Salesiana, che ha elaborato le informazioni, sono mancati i dati per realizzare tale differenziazione a causa di un disguido nella redazione delle schede. 58 danni….), la condivisione delle regole, la compilazione periodica di test/questio- nari di verifica del corso e del grado di soddisfazione. Nell’ottica delle relazioni CFP-famiglia, considerato un elemento determi- nante dell’azione educativa, sono state realizzate le seguenti azioni: al momento delle iscrizioni vengono presentati gli obiettivi del corso, la proposta educativa e le attività da svolgere; seguono colloqui individuali e di gruppo con i coordinatori del corso e i tutor finalizzati all’orientamento; in itinere è stata segnalata la partecipa- zione agli organi collegiali, ai consigli di corso, alle assemblee, alle riunioni perio- diche per colloqui intermedi per la valutazione e la formazione, alla consegna delle valutazioni; in alcuni Centri ci sono stati incontri con i genitori; al termine del corso sono stati convocati i genitori per comunicare i risultati conseguiti dai figli e per affrontare problemi di ordine educativo e organizzativo in vista delle scelte fu- ture. Anche il rapporto tra il CFP e le imprese non si è limitato solo alla gestione in comune dello stage, ma si è allargato fino a coinvolgerle nell’attività del Centro (seppure su problematiche specifiche) mediante iniziative varie: confronto sulla progettazione didattica, fornitura di materiale didattico, presentazione di nuove tec- nologie, consulenze e/o proposte di progettazione di nuovi corsi e/o di nuove figure professionali, tirocini formativi, esercitazioni legate alla produzione di capolavori, visite aziendali, formazione sul lavoro, per finire con l’accompagnamento al la- voro, il tutoraggio dell’apprendistato e l’inserimento lavorativo dei qualificati. 1.5. Le strategie della qualità formativa In quest’area vengono presi in considerazione gli strumenti per la progetta- zione, le modalità di erogazione formativa, il riconoscimento dei crediti e la rela- zione tra l’accreditamento e la gestione della qualità. Nel progettare la formazione dei percorsi triennali, i Centri hanno utilizzato i seguenti strumenti: la carta dei valori, il regolamento interno del CFP, la proposta formativa e/o il contratto o patto formativo, il manuale della qualità, il progetto na- zionale, la programmazione didattica, il progetto pastorale. Oltre alle tradizionali lezioni frontali, il processo di insegnamento-apprendi- mento è avvenuto facendo ricorso ad un’ampia gamma di strategie: la didattica at- tiva, le attività di laboratorio, l’autoformazione assistita, l’autoaggiornamento con sussidi didattici, i lavori di gruppo, i supporti multimediali, l’attivazione di percorsi personalizzati finalizzati ai recuperi individuali e di gruppo, le tecniche di anima- zione. Per quanto riguarda il riconoscimento dei crediti formativi, una buona parte dei Centri non ha risposto ed altri hanno segnalato di non prevederlo. Quei pochi CFP che invece hanno risposto, hanno specificato anche le modalità: per gli allievi che hanno conseguito la qualifica è previsto il rilascio del relativo diploma secondo il modello standard stabilito dalla Regione, mentre per chi non ha raggiunto il titolo si procede al riconoscimento dei crediti. 59 La stessa assenza di risposte si è riproposta anche in merito alla richiesta di in- dicare l’interazione esistente tra l’accreditamento esterno e il sistema di gestione della qualità. La ragione principale di questo andamento può essere attribuita al fatto che il modello di accreditamento regionale è stato pubblicato solo recente- mente. 1.6. Il sistema di valutazione Quest’ultima area della scheda n. 1 si compone di una serie di domande, mi- rate a verificare le modalità di valutazione dei risultati conseguiti dalla sperimenta- zione, i criteri in base ai quali la formazione erogata si intende riuscita e la ricaduta dell’azione formativa all’esterno del Centro, nel contesto territoriale d’apparte- nenza. Nel valutare i risultati dell’apprendimento degli allievi si è fatto ricorso a vari strumenti di rilevamento previsti dal manuale della qualità quali, oltre alle tradizio- nali prove scritte e interrogazioni, test individuali e di gruppo, questionari struttu- rati, prove pratiche di laboratorio (“piccoli capolavori”), in modo da stabilire il grado di competenza acquisita. In tutti questi casi i formatori si sono prima con- frontati sui risultati del gruppo-classe e dei singoli allievi e successivamente hanno elaborato le schede di valutazione da consegnare agli allievi e quindi da inserire nella documentazione ufficiale. Secondo i formatori, l’attività formativa può essere considerata riuscita quando il grado di soddisfazione degli allievi e delle rispettive famiglie può essere misurato da una serie di indicatori quali la presenza quotidiana/assidua, il rapporto tra il numero degli iscritti e quello dei qualificati in percentuale pari o superiore ai livelli stabiliti a Lisbona, il conseguimento dei crediti formativi, la partecipazione delle famiglie agli incontri, l’inserimento lavorativo, la percezione positiva delle parti sociali e degli altri attori del sistema di istruzione e del lavoro. Un’ulteriore domanda richiedeva di indicare, nei confronti di 6 modelli di veri- fica e regolazione della qualità utilizzati nella sperimentazione, quali/quanti fos- sero stati ipotizzati, progettati, in via di realizzazione oppure già realizzati. Attra- verso la Tav. 8 si evince anzitutto che nella maggior parte dei Centri sono stati at- tuati quasi tutti i modelli in analisi, soprattutto tra i CFP del CIOFS/FP, dove si re- gistra in particolare un’adesione totale (12 Centri su 12) per la certificazione ISO 9001-2000, precisando poi che essa interessa l’intero organismo e non solo alcune parti di esso. All’andamento generale dei modelli realizzati fa eccezione l’accredi- tamento associativo, segnalato in soli 5 Centri, mentre in alcuni è in via di realizza- zione ed in altri si trova ancora a livello di ipotesi, assieme all’accreditamento re- gionale/provinciale e all’autovalutazione di Centro. Infine va osservato che alcuni modelli, sebbene non ancora attuati, in particolare l’accreditamento regionale/pro- vinciale, ma anche il modello didattico-formativo e l’autovalutazione di Centro, ri- sultano comunque in via di realizzazione. 60 Nel valutare poi le principali performance su cui è basata l’attività dei Centri, si può affermare che tutte hanno ricevuto elevati apprezzamenti, in particolare per quanto riguarda la ricaduta d’immagine (M=4.27), la maturazione personale degli allievi (M=4.06) e gli apprendimenti (M=3.81) (cfr. Tav. 9). A loro volta, l’occupa- zione e l’impatto socio-economico hanno fatto registrare livelli medi di soddisfa- zione (M=3.00 e 3.08, rispettivamente). Inoltre dall’analisi dei dati disaggregati, nel CNOS-FAP il più alto gradimento si registra in merito all’immagine che danno i CFP nel contesto territoriale di appartenenza (M=4.75), mentre nel CIOFS/FP, sebbene quest’ultimo aspetto venga ampiamente valutato, esso è tuttavia preceduto dall’impegno a promuovere la maturazione personale degli allievi (M=4.25). Tav. 8 - Modelli di verifica e regolazione della qualità utilizzati nella sperimentazione (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze Modelli: 1=didattico-formativo 2=controllo di gestione 3=autovalutazione del Centro 4=accreditamento associativo 5=accreditamento regionale/provinciale 6=certificazione ISO 9001-2000 Tav. 9 - Valutazione delle principali performance dei Centri (2005-06) (in M*) Legenda: M= Media * I valori della media sono compresi tra: 1=minimo; 5=massimo Nel tentativo di attribuire maggiore obiettività alle valutazioni appena menzio- nate, la domanda richiedeva inoltre di indicare le basi di riferimento del giudizio. Sono state riportate le seguenti: esiti finali dei corsi, messa a confronto degli atteg- giamenti degli allievi tra il primo e l’ultimo anno, dati sui qualificati, follow-up sugli occupati, riferimenti/riconoscimenti delle parti sociali e delle istituzioni pub- bliche, interessamento dei mass media, richiesta di ulteriore formazione (spesso su- periore alle possibilità del CFP), fiducia espressa dalle famiglie e dai giovani del 61 territorio e mantenimento dei contatti anche al termine e/o al di fuori del rapporto formativo, ampliamento dei rapporti con altre scuole, imprese, centri per l’impiego, amministrazioni locali. La scheda si chiudeva invitando a dare un giudizio complessivo circa l’impatto che ha avuto nel territorio l’azione del Centro. Tale valutazione presenta una media vicina al punteggio massimo (M=4.27; M=4.50 per il CNOS-FAP e M=4.18 per il CIOFS/FP). Anche in questo caso il giudizio si basa su criteri oggettivi come la valorizzazione e l’apprezzamento del lavoro formativo da parte delle famiglie, delle istituzioni locali, dei datori di lavoro delle scuole e dei sindacati; un ulteriore solido parametro di giudizio può essere visto nel numero degli iscritti, nel rapporto tra gli iscritti iniziali ed i qualificati (a dimostrazione della capacità di recupero della dispersione scolastica) e tra i qualificati e gli occupati (a prova della capacità di dare una formazione che permette di entrare subito nel mercato del lavoro). In- fine si tende ad evidenziare come tutto questo ha fatto sì che negli anni i Centri dei due Enti siano diventati una presenza “di eccellenza” nel territorio, venendo così ad assumere una collocazione di rilievo come punto di riferimento nella vita della co- munità locale. 2. VALUTAZIONE DELLA SPERIMENTAZIONE DA PARTE DEI DIVERSI ATTORI: ALLIEVI, FORMATORI, COORDINATORI E GENITORI Come anticipato nella premessa, in questa seconda parte vengono prese in con- siderazione le valutazioni espresse (attraverso apposite schede - nn. 4,5,6,7,8) dai protagonisti dei percorsi triennali di formazione professionale iniziale, ossia gli al- lievi, i formatori, i coordinatori del progetto ed i genitori. Al tempo stesso si fa pre- sente che alcune schede (nn. 5, 6 e 8) presentano dati separati per Ente, dal mo- mento che essi le hanno adottate in versioni differenti. 2.1. Il gradimento degli allievi Per verificare quanto l’utenza sia rimasta soddisfatta del trattamento formativo ricevuto e quali azioni siano state particolarmente apprezzate, si è fatto ricorso alla scheda n. 5 che tuttavia, come ricordato sopra, presenta a seconda degli Enti due distinte versioni. Più specificamente, essa è suddivisa in 6 aree principali (rimaste comuni ad entrambe le versioni, mentre cambiano leggermente al loro interno i parametri valutativi) che riguardano: i contenuti, i formatori, i metodi, l’organizza- zione, gli apprendimenti e la distribuzione dei tempi. Al termine viene la richiesta di dare una valutazione complessiva, richiesta che nella versione del CNOS-FAP è stata impostata su una sola domanda, mentre la scheda rielaborata dal CIOFS/FP ha preso in considerazione il grado di soddisfazione e gli obiettivi conseguiti dagli utenti. Un’altra diversità riguarda la scala di valutazione che il CNOS-FAP ha im- postata quasi dappertutto sulle alternative molto/abbastanza/poco/per nulla, a parte 62 il tempo/orario (valutato eccessivo, adeguato o insufficiente); mentre quella del CIOFS/FP utilizza le modalità negativa/accettabile/buona/positiva. Prima di procedere ad analizzare i dati, occorre far presente che alla scheda hanno risposto 1.091 allievi appartenenti a 5 CFP del CNOS-FAP (in questo caso non sono pervenute in tempo per l’elaborazione statistica le schede da parte del CFP di Palermo a causa di ritardi nella chiusura dell’anno formativo), mentre i CFP del CIOFS/FP procedono a più rilevazioni nel corso dell’anno ed il dato va riferito ai n. 1.755 questionari applicati nei 13 CFP del CIOFS/FP (cfr. Tav. 10). Tav. 10 - Distribuzione dei gradimenti degli allievi in base ai Centri e ai rispettivi Enti di appar- tenenza (2005-06) (in Fq. e %) Legenda: Fq.=Frequenze 63 2.1.1. Valutazione dei contenuti In entrambe le schede, i contenuti sono stati formulati in riferimento alla chia- rezza degli argomenti, alla loro importanza, all’attinenza alla vita concreta e all’in- teresse che suscitano (cfr. Tav. 11). Prima di passare ad analizzare in dettaglio i sin- goli aspetti, va osservato che tutte le medie si collocano su un livello soddisfacente in quanto nel CNOS-FAP vanno dall’“abbastanza” verso il “molto” e nel CIOFS/FP dal giudizio di “buono” passano a quello di “positivo”. Tav. 11 - Valutazione dei contenuti trattati nel corso (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media L’importanza degli argomenti trattati nei corsi è stata valutata tra “molto” e “abbastanza” da oltre l’85% degli allievi del CNOS-FAP (M=3.23) e, in partico- lare, da più del 90% di quelli del CIOFS/FP (M=3.36) in relazione alle prospettive di futuro lavoro; solo una minoranza attorno al 10% appare in disaccordo con questo giudizio. Pressappoco nella stessa misura è stato valutato l’interesse per gli argomenti trattati da parte dell’82% degli allievi del CNOS-FAP (M=3.18) e dell’83% del CIOFS/FP (M=3.14). Tuttavia, nel frattempo è leggermente aumentato il numero di coloro che hanno manifestato valutazioni meno positive. Quanto alla chiarezza degli argomenti trattati dal corso, entrambe le utenze ri- sultano leggermente più contenute nei giudizi, pur rimanendo sempre sul livello dell’abbastanza/buono (M=3.00 e 3.06, rispettivamente); di rimando, circa uno su cinque di entrambi gli Enti ha ammesso di essere rimasto poco o nulla soddisfatto in merito. Quando si è trattato poi di mettere a confronto i contenuti appresi con la vita concreta e con il proprio futuro professionale, il gradimento è stato manifestato da circa il 90% degli allievi del CIOFS/FP (M=3.39, il livello più alto raggiunto in quest’area), mentre nel CNOS-FAP la quota appare più ridotta (74.3% e M=3.10). In questo caso l’insoddisfazione riguarda circa uno su quattro degli allievi. Al termine di questa serie di valutazioni, è interessante sottolineare l’impor- tanza attribuita a quanto è stato appreso, a cui si accompagna la previsione di spen- dibilità nella futura vita professionale. 64 2.1.2. Valutazione dei formatori da parte degli allievi In questo caso la valutazione è stata formulata in riferimento a quattro para- metri. Di essi, due sono comuni ad entrambi gli Enti (se i formatori conoscono e sanno fare le cose che insegnano e se insegnano in modo chiaro). Al contrario, gli altri due presentano formulazioni distinte: per il CNOS-FAP si chiede se i formatori capiscono i problemi degli allievi e se, quando spiegano, si aiutano con esempi della vita reale; mentre per il CIOFS/FP si domanda se nel presentare gli argomenti attingono dall’esperienza e se hanno fatto apprezzare agli utenti gli argomenti trat- tati. Gli esiti della valutazione sono presentati nella Tav. 12. Tav. 12 - Valutazione dei formatori da parte degli allievi (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media In quanto a sapere e a saper fare, i formatori sono stati molto/abbastanza ap- prezzati da parte dell’85% circa di entrambe le utenze, raggiungendo in tal modo in quest’area uno dei più alti livelli di gradimento (M=3.35 per il CNOS-FAP e M=3.22 per il CIOFS/FP ). Sono ben pochi quelli che non riconoscono loro queste qualità (intorno al 2%) o gliele attribuiscono solo parzialmente (intorno al 10%). Quanto a chiarezza (M=33.10), i giudizi divergono leggermente: gli allievi del CIOFS/FP valutano maggiormente questa caratteristica per il modo in cui i forma- tori esprimono i contenuti delle discipline (81.8%, M=3.15), mentre quelli del CNOS-FAP appaiono leggermente meno positivi al riguardo (75%, M=3.01), rima- nendo pur sempre sul livello dell’“abbastanza”. Come anticipato, in rapporto agli altri due aspetti sono state utilizzate versioni diversificate. Nella scheda del CNOS-FAP l’80% degli allievi ha dichiarato che i formatori, quando spiegano, si aiutano attraverso esempi presi dalla vita reale (M=3.16), ma al tempo stesso una quota non indifferente (43.1%) ha affermato di non essere suf- ficientemente capita in merito ai problemi vissuti (M=2.63), un elemento di criticità che richiede di essere preso seriamente in considerazione in vista di un suo supera- mento. Nella scheda adottata dal CIOFS/FP, oltre tre allievi su quattro ha ammesso 65 che i formatori hanno saputo far apprezzare loro gli argomenti trattati (M=3.06) e che hanno saputo attingerli dall’esperienza (M=3.13). 2.1.3. Valutazione dei metodi Questa sezione della scheda intendeva verificare le strategie didattiche dei for- matori. Tuttavia nella formulazione delle domande sono state adottate due ottiche diverse (cfr. Tav. 13): nella scheda del CNOS-FAP l’attenzione si è focalizzata sui metodi utilizzati (se sapevano coinvolgere gli allievi, se i formatori valutavano cor- rettamente e se esistevano tra loro forme di collaborazione che consentissero di mi- gliorare l’attività con i giovani); mentre nella scheda del CIOFS/FP sono stati presi in considerazione il modo in cui si sono svolte le attività, i metodi utilizzati dai for- matori, la collaborazione tra i formatori nel processo di insegnamento-apprendi- mento e la distribuzione dei tempi tra le diverse attività. Per gli allievi del CNOS-FAP, l’aspetto metodologico che è risultato abba- stanza apprezzato riguarda le forme di collaborazione tra i formatori (M=3.01), mentre appaiono al di sotto di questo livello la correttezza dei formatori nel valu- tare l’operato degli allievi (M=2.96), e ancor più l’utilizzo di una metodologia che non ha aiutato gli allievi a sentirsi sufficientemente coinvolti nelle attività forma- tive. Tav. 13 - Valutazione dei metodi utilizzati nel corso (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media Anche gli allievi del CIOFS/FP appaiono in quest’area leggermente più cri- tici rispetto alle analisi precedenti: valutano abbastanza l’apprendimento frutto dalla collaborazione tra i formatori (M=3.11) ed il modo in cui si sono svolte le attività (M=3.07); mentre scendono al di sotto del livello medio i giudizi circa i metodi utilizzati (M=2.91) e la distribuzione dei tempi tra le diverse attività (M=2.90). In entrambi i casi, queste valutazioni sottolineano l’esigenza di migliorare aspetti della metodologia e di distribuire meglio i tempi delle diverse azioni. 66 2.1.4. Valutazione dell’organizzazione In entrambe le schede gli indicatori riguardavano la distribuzione dei tempi tra le varie attività del Centro e le modalità di utilizzo sia degli spazi che degli stru- menti (cfr. Tav. 14). Gli allievi del CNOS-FAP confermano anche in quest’area la minore soddisfa- zione per il modo in cui sono stati distribuiti i tempi (M=2.85) e viceversa apprez- zano l’utilizzo degli spazi (M=3.06) e ancor più l’adeguatezza degli strumenti (M=3.13) messi a disposizione del Centro per svolgere le attività formative. Da parte degli allievi del CIOFS/FP, invece, si manifesta ancora una volta un alto indice di gradimento su quasi tutti gli aspetti oggetto di valutazione in que- st’area, ossia (in graduatoria discendente): 1) un clima gradevole di relazioni con i formatori (M=3.22); 2) il buon utilizzo delle aule e dei laboratori (M=3.19); 3) il coinvolgimento della propria famiglia nell’esperienza formativa (M=3.16); 4) le relazioni positive intrattenute con i compagni di corso (M=3.12); 5) la funzionalità degli strumenti messi a disposizione (M=3.08); 6) mentre scende anche in questo caso l’apprezzamento per la distribuzione degli orari (M=2.90). Tav. 14 - Valutazione dell’organizzazione del corso (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media 2.1.5. Valutazione degli apprendimenti La valutazione è stata effettuata con riferimento a quattro parametri: nella scheda del CNOS-FAP gli aspetti presi in considerazione riguardano l’acquisizione di conoscenze generali e tecnico-professionali, il possesso di capacità operative e la consapevolezza che quanto è stato appreso sia poi spendibile anche al di fuori del Centro; mentre in quella del CIOFS/FP il corso è stato considerato in merito al- l’acquisizione di nuovi apprendimenti, alla capacità di produzione “specifica” nel settore di riferimento, alla spendibilità di quanto appreso nella futura vita attiva, alla motivazione a continuare la preparazione nel sistema scolastico. Mettendo in graduatoria i risultati, si riscontra il seguente andamento (cfr. Tav. 15). 67 Il 90% circa degli allievi del CNOS-FAP ha apprezzato assai quanto appreso in rapporto alle capacità operative (M=3.47) e tecnico-professionali (M=3.37) ac- quisite durante il percorso formativo e alla loro spendibilità nella vita professionale (M=3.40) e, comunque, riconoscono i vantaggi derivanti anche dall’acquisizione di un’ampia cultura di base (M=3.24). Dal canto loro, gli allievi del CIOFS/FP danno valutazioni leggermente più basse: considerano anzitutto i vantaggi derivanti dall’aver appreso competenze spendibili in una futura professione (M=3.27) e dall’aver migliorato le proprie ca- pacità (M=3.15); al tempo stesso non si pronunciano nella stessa misura in merito alla capacità di produrre ciò che è “specifico” del corso (M=2.97); oltre tre su quattro si sentono tuttavia motivati a continuare la propria formazione nel sistema dell’istruzione (M=3.12) ed anche questo rientra sicuramente tra i meriti principali dei percorsi in esame in quanto corrisponde pienamente agli obiettivi sottesi. Rimane comunque un dato di fatto che è stato apprezzato pressoché tutto quanto è stato appreso nel corso, sebbene le preferenze vadano ovviamente per quelle capacità operative immediatamente spendibili in una professionalità. 2.1.6. Valutazione della distribuzione degli orari In quest’area da parte del CNOS-FAP è stata valutata la ripartizione delle ore tra teoria, laboratorio, stage e attività di accoglienza/orientamento; va inoltre os- servato che cambia contestualmente anche la scala di valutazione, che viene a com- prendere tre misure: di tempo “eccessivo”, “adeguato” e “insufficiente”. Anche nel CIOFS/FP è stato preso in considerazione il tempo dedicato alle attività di labora- torio e allo stage, ma in più sono state apprezzate anche le attività di recupero/ap- profondimento, le verifiche, lo sviluppo delle capacità personali e la socializza- zione del corso (cfr. Tav. 16). Da un’analisi d’insieme dei dati presenti in quest’area si evince che nella mag- gioranza degli allievi del CNOS-FAP, il tempo sta bene così come è stato distri- buito in rapporto alle attività elencate. Sussistono, tuttavia, delle minoranze che hanno giudicato “eccessivo” il tempo dedicato alla teoria (22.9%) e, viceversa, “in- Tav. 15 - Valutazione degli apprendimenti (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media 68 sufficiente” quello dedicato allo stage (27%); quanto ai laboratori e all’orienta- mento, le percentuali di inadeguatezza nel senso di eccesso o scarso pressappoco si equivalgono. Nella scheda del CIOFS/FP i criteri di valutazione sono rimasti gli stessi utiliz- zati in tutte le altre aree. Dalla graduatoria delle medie si evince che l’adeguatezza del tempo ha riguardato pressoché tutti gli aspetti presi in considerazione: priorita- riamente quello dedicato allo sviluppo delle capacità personali (M=3.17), cui ha fatto seguito il tempo dedicato alle attività di recupero (M=3.09), alle verifiche (M=3.06) e alla socializzazione del corso (M=3.03); diversamente dagli allievi del CNOS-FAP, i tempi di laboratorio/stage sono stati meno enfatizzati (M=3.04) e ciò è dovuto probabilmente alla differenza dei settori coinvolti. Tav. 16 - Valutazione della distribuzione degli orari (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media Tav. 17 - Valutazione complessiva dell’esperienza del corso nei CFP CNOS-FAP (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media 2.1.7. Valutazione complessiva dell’esperienza da parte degli allievi Al termine della griglia, gli allievi sono stati invitati a esprimere un giudizio globale su tutti gli aspetti della sperimentazione. Ancora una volta troviamo una di- versa impostazione nella modalità di valutazione a seconda degli Enti di apparte- nenza. Nel CNOS-FAP è presente la classica scala a quattro livelli, da cui si evince che il gradiente di soddisfazione ha riguardato molto/abbastanza l’86.3% dell’u- tenza, con una media proiettata verso i valori massimi (M=3.39), mentre la quota degli scontenti si aggira attorno al 10% (cfr. Tav. 17). 69 Mentre nel CIOFS/FP la valutazione appare assai più articolata e suddivisa tra i risultati conseguiti (cfr. Tav. 18) e gli obiettivi raggiunti (cfr. Tav. 19). Tra i risultati, il grado di soddisfazione più elevato riguarda i lavori prodotti durante il percorso formativo (M=3.15); a loro volta, gli altri aspetti presi in consi- derazione (recupero/approfondimento, relazioni…) riportano una stessa media (M=3.08); inoltre, per il 15-20% circa tali risultati sono “accettabili”, mentre solo il 2% è rimasto insoddisfatto; Tav. 18 - Valutazione complessiva dei risultati conseguiti nei CFP del CIOFS/FP (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media Tav. 19 - Valutazione complessiva degli obiettivi raggiunti attraverso il corso nei CFP del CIOFS/FP (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media Quanto al conseguimento degli obiettivi, oltre l’80% degli utenti afferma di aver raggiunto i traguardi che si attendeva dal corso, in merito soprattutto al saper utilizzare quanto appreso (M=3.15) e alla sua spendibilità nel mondo del lavoro (M=3.16), ma anche alla corrispondenza tra ciò che è stato conseguito e ciò che è stato presentato inizialmente (M=3.05), e quindi anche con ciò che erano le attese al momento dell’iscrizione (M=3.00); gli altri giudizi, di “accettabilità” o di insod- disfazione, ripropongono le stesse quote evidenziate sopra. 2.2. Il gradimento dei formatori La scheda n. 6 mirava a rilevare il gradimento dei formatori in rapporto all’e- sperienza dei corsi. È stata adottata da entrambi gli Enti e aveva in comune le se- guenti aree di valutazione: gli allievi, il personale formativo, il progetto, l’organiz- zazione, gli apprendimenti, la distribuzione dei tempi; per finire con una valuta- zione complessiva dell’esperienza. Secondo quanto anticipato, all’interno degli 70 ambiti gli aspetti specifici da valutare divergevano lievemente a seconda degli Enti. 2.2.1. Valutazione degli allievi da parte dei formatori L’unico risultato meno positivo di questa area consiste nella valutazione della corrispondenza degli allievi alle proprie aspettative che si colloca su valori infe- riori alla sufficienza (CNOS-FAP, M=2.80; CIOFS/FP, M=2.84) (cfr. Tav. 20). Al contrario sui rimanenti aspetti si riscontrano giudizi assai più elevati: Tav. 20 - Valutazione degli allievi da parte dei formatori (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media La quasi totalità dei formatori del CNOS-FAP ha dichiarato di essere interes- sato ai problemi degli allievi (M=3.63), ed inoltre ritiene che gli allievi hanno tro- vato giovamento dal corso (M=3.47) e dal proprio insegnamento (M=3.35). Anche i formatori del CIOFS/FP concordano con i primi nell’affermare l’uti- lità che gli allievi hanno tratto dal corso (M=3.39); sul resto degli aspetti, tuttavia, sono rimasti meno entusiasti in quanto le loro valutazioni si situano appena sul- l’abbastanza [gli allievi sono interessati alle prestazioni offerte dai formatori (M=3.06), hanno posto questioni interessanti (M=3.00)] per cui anche il grado di soddisfazione in merito ai risultati conseguiti dagli allievi si è abbassato (M=2.92). 2.2.2. Valutazione del personale da parte dei formatori Nel valutare il proprio operato il livello della media si è notevolmente alzato, al punto da far sospettare una certa autoreferenzialità (cfr. Tav. 21). Il 90% circa dei formatori del CNOS-FAP ha messo in evidenza in primo luogo la propria preparazione sul piano tecnico-professionale (M=3.44) e dei con- tenuti (M=3.27), quindi anche il rapporto amichevole instaurato con gli allievi (M=3.31); al tempo stesso, e coerentemente a quanto avevano già fatto osservare gli allievi, hanno ammesso anche che avrebbero potuto sviluppare meglio una di- dattica attiva e coinvolgente (M=3.02). La quasi totalità dei formatori del CIOFS/FP ha tenuto a dimostrare anzitutto la collaborazione tra i colleghi (M=3.62) e la familiarità di rapporti con gli utenti 71 (M=3.60); quasi nella stessa misura viene evidenziata una preparazione corrispon- dente alle specifiche del servizio (M=3.52), mentre viene espressa anche qui una valutazione più modesta in fatto di didattica attiva/coinvolgente (M=3.23). Tav. 21 - Valutazione del personale da parte dei formatori (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media Tav. 22 - Valutazione del progetto del corso da parte dei formatori (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media 2.2.3. Valutazione del progetto del corso L’adeguatezza del progetto è stata giudicata diversamente dai formatori, a se- conda degli Enti di appartenenza (cfr. Tav. 22). Quelli del CNOS-FAP danno valutazioni intorno alla sufficienza sia sul piano professionale (M=3.15) che contenutistico (M=3.02), ma scendono al di sotto nel rapportare l’adeguatezza del corso alla tipologia degli allievi (M=2.87); viceversa, per quelli del CIOFS/FP tanto il progetto (M=3.35) che i contenuti delle discipline insegnate (M=3.32) sono risultati più adeguati al profilo professionale del corso; così pure l’organizzazione viene giudicata maggiormente conforme agli obiettivi (M=3.28); inoltre, le metodologie si sono rivelate più efficaci (M=3.24), mentre forse bisognerebbe adattare meglio i contenuti delle discipline agli allievi (M=3.10). 72 Pertanto, in definitiva, stando all’insieme di queste valutazioni, si potrebbe so- stenere che i formatori del CIOFS/FP riscontrino una migliore corrispondenza nei loro CFP tra quanto progettato e quanto realizzato attraverso i percorsi sperimentali triennali, anche se i giudizi dei loro colleghi del CNOS-FAP restano sostanzial- mente positivi. 2.2.4. Valutazione dell’organizzazione In quest’area, oggetto comune di valutazione sono stati i tempi, gli spazi e gli strumenti (cfr. Tav. 23). Anche in questo caso si osservano, da parte dei formatori del CNOS-FAP, giu- dizi meno favorevoli rispetto ai colleghi del CIOFS/FP, che non vanno oltre il li- vello dell’“abbastanza”: per quanto riguarda l’adeguatezza degli strumenti (M=3.07); per l’utilizzo degli spazi (M=3.03); per la distribuzione dei tempi (M=2.97). Tra i formatori del CIOFS/FP, infatti, la media riporta valori più elevati per quanto riguarda l’adeguatezza delle aule e dei laboratori (M=3.27), per le attrezza- ture (M=3.26) e per i tempi (M=3.13); a queste valutazioni si aggiunge, da parte della quasi totalità, un alto livello di soddisfazione nei confronti dell’efficacia delle verifiche effettuate (M=3.50). Tav. 23 - Valutazione dell’organizzazione da parte dei formatori (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media 2.2.5. Valutazione degli apprendimenti Circa gli aspetti presenti in quest’area le valutazioni sono rovesciate (cfr. Tav. 24). I formatori del CNOS-FAP, se si prescinde dal fatto che appaiono poco con- vinti che quanto appreso dagli allievi possa essere utilizzato per proseguire gli studi (M=2.69), sui restanti aspetti si sono espressi con una media che dall’“abba- stanza” sale verso il “molto”, in particolare per quanto riguarda l’acquisizione di conoscenze tecnico-professionali (M=3.37) ed operative (M=3.25) e la loro appli- cabilità nella futura vita professionale (M=3.36), mentre non ritengono in eguale misura spendibili le conoscenze generali (M=3.11). Viceversa, i formatori del CIOFS/FP valutano “buona” solo l’acquisizione di 73 un metodo di lavoro (M=3.10), mentre sui restanti aspetti scendono verso il livello dell’”accettabile”: le competenze tecnico-operative (M=2.96), la maturazione degli allievi ai valori (M=2.93), la capacità di trasferire le abilità acquisite anche in altri settori (M=2.91), le conoscenze generali (M=2.85). Tav. 24 - Valutazione degli apprendimenti da parte dei formatori (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media Tav. 25 - Valutazione dei tempi da parte dei formatori del CNOS-FAP (2005-06) (in % e M) Legenda: M= Media 2.2.6. Valutazione della distribuzione dei tempi Quest’area è presente solo nella scheda dei formatori del CNOS-FAP ed è arti- colata su due serie di valutazioni relative al tasso di “sufficienza” e di “adegua- tezza”, a loro volta suddivise, la prima, tra il giudizio di insufficiente/sufficiente/ec- cessivo e, la seconda, di inadeguato/adeguato/ottimale (cfr. Tav. 25). Dall’insieme delle risposte emerge che i giudizi più positivi sulla distribuzione dei tempi hanno riguardato, coerentemente a quanto già evidenziato dagli allievi, l’attività di laboratorio e di stage; viceversa, ci si lamenta del tempo insuffi- ciente/inadeguato riservato alle attività di orientamento, accoglienza e accompa- gnamento; mentre sembra trovare tutti concordi il tempo riservato alle esposizioni teoriche. 74 2.2.7. Valutazione complessiva dell’esperienza dei corsi Così come per gli allievi, anche ai formatori è stato richiesto di esprimere una valutazione globale sull’esperienza dei corsi attraverso due distinte modalità, a se- conda degli Enti di appartenenza. A quelli del CNOS-FAP è stata riproposta la stessa scala già utilizzata dagli al- lievi, da cui si evince un livello di soddisfazione abbastanza alto da parte del 90% circa (M=3.29), mentre non arrivano al 10% gli scontenti; il gradimento viene ulte- riormente confermato dall’unanime disponibilità a ripetere/continuare l’esperienza, semmai apportando qualche modifica (cfr. Tav. 26). Tav. 26 - Valutazione complessiva della esperienza del corso da parte dei formatori del CNOS- FAP (2005-06) (in Fq, % e M) Legenda: Fq.=Frequenza; M= Media Tav. 27 - Valutazione complessiva della esperienza del corso da parte dei formatori del CIOFS/FP (in Fq, % e M) Legenda: Fq.=Frequenza; M= Media Nella scheda dei formatori del CIOFS/FP la valutazione complessiva è stata impostata su diversi aspetti, anche in questo caso giudicati positivamente da oltre il 90%, in particolare per quanto riguarda il clima dei rapporti con i colleghi (M=3.63) e con gli allievi (M=3.52) e l’esperienza del corso (M=3.43); un apprez- zamento elevato, benché leggermente inferiore, viene espresso pure in merito al- l’aggiornamento (M=3.28) (cfr. Tav. 27). 2.3. Valutazione delle azioni formative da parte dei coordinatori La valutazione è stata effettuata attraverso la scheda n. 4, rimasta la stessa in entrambi gli Enti, e alla griglia hanno risposto 16 Centri, 4 del CNOS-FAP e 12 del CIOFS/FP. 75 2.3.1. Valutazione della partecipazione degli allievi da parte dei coordinatori La partecipazione degli utenti è stata monitorata attraverso i seguenti indicatori (cfr. Tav. 28): 1) la registrazione delle presenze: 15 coordinatori concordano sul fatto che è stata effettuata sempre; dappertutto attraverso l’apposito registro, in una metà circa dei Centri anche mediante i fogli di presenza o altro ancora; 2) la frequenza dell’utenza: in 9 CFP è risultata abbastanza assidua e in altri 6 molto; essa è stata rilevata dappertutto con il registro, e in una metà dei Centri anche con i fogli di presenza e di dimissione; 3) le motivazioni sottese agli eventuali ritiri: sono state considerate pienamente adeguate da parte di 2 coordinatori e da altri 11 parzialmente; il dato è stato ri- levato per lo più mediante l’apposita documentazione di dimissione6. 6 Nelle tavole che seguono i dati non sono distribuiti per Ente perché il Centro di calcolo del- l’Università Pontificia Salesiana ha ritenuto che il totale fosse numericamente così ridotto da non giu- stificare statisticamente ulteriori distinzioni interne. Tav. 28 - Valutazione della partecipazione degli allievi da parte dei coordinatori (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 2.3.2. Valutazione dell’orientamento degli allievi da parte dei coordinatori Per valutare quest’area sono stati utilizzati i seguenti parametri (cfr. Tav. 29): 1) la rispondenza del sistema informativo ai bisogni degli allievi e delle famiglie: per 8 coordinatori è stata ritenuta abbastanza adeguata e da parte di altri 7 molto; passando sul piano dei supporti strumentali, va evidenziata quasi dap- pertutto la presenza del servizio informativo di segreteria e del libretto perso- nale e in parte anche dello sportello informativo; 2) l’azione di orientamento in ingresso: secondo 10 coordinatori è stata realizzata mediante tutti e 3 i programmi previsti (di accoglienza, di orientamento e di bi- lancio orientativo dell’utente) e da parte di altri 4 con 2 o con 1 solo pro- gramma; tutti e 16 concordano comunque sul fatto che i CFP hanno organiz- zato i programmi di accoglienza e 14 anche di orientamento, mentre altri 11 segnalano che è stato effettuato anche il bilancio orientativo a favore dell’u- tente; 76 3) la situazione di partenza: la metà dei coordinatori ha segnalato che è stata rile- vata con un documento e l’altra metà con entrambi i documenti previsti dal progetto; tali testi riguardano le prove d’ingresso, utilizzate quasi dappertutto, mentre in altri 13 CFP si è fatto ricorso anche al rilevamento della situazione di partenza dell’allievo riguardo alle sue capacità di apprendimento; 4) la redazione degli strumenti di autoformazione: 3 coordinatori hanno segnalato che nel proprio Centro non ne è stato redatto alcuno; 9 hanno indicato il piano di lavoro personalizzato ed altri 3 hanno fatto riferimento anche alla redazione di ulteriori supporti; di conseguenza il rilevamento è stato documentato per lo più con il piano di lavoro personalizzato (in 12 CFP) e in altri 7 anche me- diante strumenti di autovalutazione appositamente elaborati. Tav. 29 - Valutazione dell’orientamento degli allievi da parte dei coordinatori (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 2.3.3. L’esecuzione del progetto formativo e la gestione degli interventi di modifica In quest’area il monitoraggio è stato effettuato in base alle seguenti modalità (cfr. Tav. 30): 1) le attività realizzate: 13 coordinatori concordano sul fatto che sono risultate “pienamente” conformi al progetto formativo approvato dalla Regione/Pro- vincia e 2 solo parzialmente; i 16 CFP hanno documentato questa piena con- formità segnalando l’utilizzo di tutti e tre gli strumenti di rilevazione indicati nella scheda, ossia il progetto generale, il piano didattico-formativo e le eserci- tazioni; 2) gli interventi in itinere di modifica del progetto: per 10 coordinatori non sono stati necessari, mentre 1 ha segnalato che si è intervenuti apportando modifiche 77 varie al progetto iniziale e 2 riaggiustando il tiro di volta in volta; non sono per- venute segnalazioni circa l’utilizzo di documenti appositi; 3) la valutazione degli interventi di modifica del progetto: la metà dei coordinatori (8) ha rilevato che non è stata effettuata; soltanto 4 hanno ammesso di averla compiuta qualche volta o spesso, attraverso i verbali di verifica; 4) le azioni di recupero e approfondimento: in 9 CFP si sono rivelate pienamente efficaci e in altri 4 parzialmente; in 1 solo Centro è stata ammessa la scarsa effi- cacia; le attività in questione sono state documentate quasi dappertutto attraver- so il verbale degli incontri degli organismi di lavoro finalizzati alle azioni di re- cupero e approfondimento (13) e attraverso la documentazione delle azioni cor- rettive (15); 5) il coinvolgimento nella valutazione del progetto formativo degli operatori, de- gli allievi, delle famiglie e dei partner: ha riguardato soprattutto gli operatori più una o due categorie di soggetti tra quelle elencate nella scheda (9), solo in 2 casi unicamente gli operatori, mentre in altri 3 non si è verificato alcun coinvol- gimento; la verifica è stata documentata per lo più con il progetto formativo e con i verbali degli organismi di lavoro; 6) gli esiti della valutazione in vista del miglioramento del percorso: in 10 CFP so- no stati tenuti pienamente in considerazione e in altri 4 poco o per niente; la va- lorizzazione è stata effettuata in tutti i CFP attraverso il progetto di dettaglio (13) e mediante anche altri documenti di adeguamento del progetto (4). Tav. 30 - L’esecuzione del progetto formativo e la gestione degli interventi di modifica (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 78 2.3.4. La qualità della docenza e della didattica In quest’area la valutazione è stata effettuata utilizzando i seguenti parametri (cfr. Tav. 31): 1) la corrispondenza tra i requisiti del personale e quelli richiesti dal progetto: è stata piena nella quasi totalità dei Centri e in 1 appena sufficiente; così pure la conformità è stata documentata da parte di tutti attraverso l’archivio dei curri- coli e le schede dei formatori; 2) il coordinamento delle diverse figure e ruoli: si è dimostrato pienamente o ab- bastanza efficace in quasi tutti i Centri; esso è stato documentato dappertutto attraverso i verbali delle riunioni di gruppo, l’organigramma e il cronogramma delle attività; 3) il riesame dell’azione in corso: la maggioranza dei coordinatori ha affermato che è stato effettuato qualche volta (9) o spesso (6); in quasi tutti i CFP esso è stato attestato dai verbali delle riunioni finalizzate al riesame delle azioni (14) e/o dai documenti di revisione dei piani didattici (10); 4) la corrispondenza delle metodologie didattiche e formative alle indicazioni del progetto: in genere è risultata piena (12) e in alcuni sufficiente (3); anche per documentare tale conformità si è fatto riferimento quasi dappertutto alle veri- fiche effettuate attraverso i gruppi di lavoro (15) o agli stati di avanzamento (15) o ai documenti di revisione dei piani didattici (9). Tav. 31 - La qualità della docenza e della didattica (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 2.3.5. Il clima dei rapporti in aula e fuori Il clima formativo è stato monitorato mediante le seguenti modalità (cfr. Tav. 32): 1) quasi tutti i coordinatori hanno affermato che la collaborazione e/o il coinvol- gimento degli allievi in aula sono risultati pienamente realizzati (14); inoltre in tutti i CFP si è fatto ricorso per la documentazione a questionari di gradimento (16) ed in parte anche al piano didattico-formativo (14); 79 2) anche il coinvolgimento degli utenti nelle iniziative del Centro è stato giudi- cato pieno quasi dappertutto (in 12 CFP); per rilevare la partecipazione, in tutti i CFP ci si è basati su momenti di aggregazione programmati, attività religiose, opportunità di incontri/colloqui; inoltre da parte di una metà dei Centri si è fatto riferimento anche all’associazionismo e agli organismi di partecipazione. Tav. 32 - Il clima dei rapporti in aula e fuori (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 2.3.6. L’adeguatezza dell’organizzazione In questa area si è ricorso, per il monitoraggio, alle seguenti modalità (cfr. Tav. 33): 1) l’attivazione delle funzioni previste nel progetto formativo: quasi tutti i coordi- natori (13) hanno confermato che esse sono state avviate molte o tutte; a sua volta la presenza di tale indicatore è stata attestata in tutti i CFP dai documenti di formalizzazione degli incarichi; 2) l’adeguatezza degli ambienti rispetto alle attività del progetto formativo: è stata riscontrata piena da una buona parte dei coordinatori; in questo caso la documentazione richiedeva di riportare il numero delle aule, dei laboratori e di altri ambienti, ma ciò non è stato fatto, per cui per ottenere tale informazione si deve fare riferimento alla precedente Tav. 4, da cui si evince che per svolgere i percorsi triennali sperimentali ognuno dei CFP ha occupato in media 4 aule, 5 laboratori, più altri 3 ambienti di varia natura; 3) la conformità del sistema di sicurezza alle norme vigenti: è stata valutata piena da quasi tutti i coordinatori (12) e in alcuni (3) parziale; così pure in tutti e 16 i CFP è stata documentata attraverso il piano per la sicurezza; 4) la conformità delle modalità di trattamento dati degli allievi alle norme vi- genti: è stata trovata piena quasi dappertutto (14); e comunque in tutti i CFP tale corrispondenza è stata documentata attraverso la tenuta della modulistica di riferimento per la raccolta e l’elaborazione dei dati; 5) l’efficacia delle funzioni direttive e di coordinamento rispetto all’attuazione del progetto: tali funzioni sono state valutate in 10 CFP di grande aiuto e in altri 5 abbastanza; a sua volta, tale efficacia è stata documentata in tutti i CFP facendo riferimento ai tre strumenti menzionati nella griglia, ossia il progetto formativo, l’organigramma ed i verbali degli incontri per le verifiche; 6) le funzioni di supporto all’utenza: da parte di 12 coordinatori sono risultate 80 pienamente efficaci e parzialmente da altri 3; così pure in quasi tutti i CFP (14) la documentazione ha fatto riferimento alla pianificazione dei servizi, delle funzioni e dei tempi di segreteria; 7) le funzioni di supporto ai formatori: sono state giudicate pienamente efficaci da 12 coordinatori e parzialmente da altri 3; tale successo è stato documentato per lo più attraverso il piano di formazione dei formatori (15) e in parte anche dai verbali delle riunioni del personale (11). Tav. 33 - Adeguatezza dell’organizzazione (2005-06) (in Fq.) Legenda: Fq.=Frequenze 2.4. Valutazione complessiva del corso da parte dei coordinatori Questa scheda (n. 7) aveva l’obiettivo di analizzare il progetto formativo nel suo insieme per individuare in che modo sono stati realizzati i suoi snodi fonda- mentali. La valutazione complessiva è stata effettuata da parte dei coordinatori delle attività corsuali ed i parametri si suddividono tra quelli che riguardano il coin- volgimento di altre strutture nella conduzione delle attività e quelli che fanno riferi- mento alle modalità di realizzazione delle principali azioni formative. 2.4.1. Il coinvolgimento delle parti interessate La scheda in primo luogo ha inteso verificare le modalità con cui avviene la collaborazione con le scuole, riportandone alcune tra quelle più comuni: 81 1) in relazione alle varie possibilità di segnalazione, le scuole hanno collaborato indicando potenziali utenti ed i loro fabbisogni formativi, casi di abbandono o a rischio, ma soprattutto attraverso pubblicizzazione, volantinaggio, promo- zione dell’offerta formativa, contatti telefonici, postali, e-mail, partecipazione a percorsi comuni di orientamento; 2) al momento dell’iscrizione sono state utilizzate varie modalità, di cui quelle più usuali riguardano l’iscrizione presso la segreteria del CFP o direttamente nella scuola in seguito, appunto, a precedenti interventi di orientamento, op- pure per invio delle domande di candidatura attraverso moduli prestabiliti, pre- iscrizione degli allievi delle secondarie di 1° grado ai percorsi dell’obbligo for- mativo, incontri con la direzione e/o con i formatori; 3) gli incontri periodici sono avvenuti per lo più attraverso l’organizzazione in comune di seminari e convegni sulla dispersione scolastica, visite ai laboratori, incontri con dirigenti e insegnanti delle diverse scuole secondarie di 1° grado presenti nel territorio in occasione di collegi, comitati tecnici ecc., dove in ge- nere sono state pianificate attività di orientamento presso le scuole-partner op- pure visite guidate di gruppi scolastici presso il Centro; 4) la partecipazione a specifici momenti di programmazione è avvenuta per ela- borare progetti comuni con le scuole-partner, effettuati soprattutto per co-pro- gettare corsi triennali oppure per il riconoscimento dei crediti; 5) la partecipazione a momenti di verifica/miglioramento per lo più ha riguardato la co-presenza di docenti e formatori ai percorsi personalizzati, alle attività di recupero, al monitoraggio e alle valutazioni trimestrali e/o in itinere e finali; 6) inoltre è stata menzionata la collaborazione allo stage, all’inserimento lavora- tivo e a varie altre iniziative/attività svolte in comune, quali la partecipazione del Centro all’organizzazione annuale della settimana dello studente e incontri periodici di orientamento formativo. La scheda prendeva in considerazione anche la cooperazione con altre strut- ture, ossia: 1) con i centri per l’impiego: attraverso lo sportello multifunzionale per segnala- zioni d’ufficio, il monitoraggio permanente delle liste di coloro che intendono iscriversi, le visite didattiche, richiedendo informazioni sull’andamento occu- pazionale, l’espletamento delle pratiche burocratiche al fine di adempiere a quanto stabilito dalla normativa vigente in fatto di avviamento e monitoraggio delle attività, la diffusione di materiale pubblicitario del corso (depliants, ecc.); 2) con i servizi di orientamento: per lo più mediante segnalazione di allievi ed in- dividuazione di un percorso di inserimento, compresenza degli operatori all’in- terno dei corsi per azioni di accompagnamento, colloqui e visite didattiche, in- formagiovani, depliants informativi; 3) con i servizi socio-assistenziali: cooperando attivamente al sostegno di allievi svantaggiati o comunque di utenti portatori di particolari problemi, attivando contatti con la direzione ed il personale amministrativo, segnalando casi di dis- 82 agio, operando interventi comuni su casi particolari, monitorando la disper- sione scolastica; 4) con le parrocchie: in questo caso la collaborazione è avvenuta mediante la dif- fusione di materiale pubblicitario del corso e delle proposte formative, incontri di preghiera, segnalazione da parte dei parroci di giovani interessati alla for- mazione, di casi difficili o di situazioni a rischio; 5) con le associazioni: mediante incontri a tema su problematiche giovanili, orga- nizzazione di feste, diffusione di materiale pubblicitario del corso, incontri di orientamento, segnalazioni di casi difficili o a rischio, presentazione delle pro- poste formative, animazione nel campo sociale. La sperimentazione ha previsto il coinvolgimento delle famiglie: all’atto del- l’iscrizione: tramite incontri con la direzione, con gli orientatori e con il personale dello sportello multifunzionale per la conoscenza del Centro, l’illustrazione della proposta formativa e la sottoscrizione del patto formativo, ed in aggiunta anche mediante la compilazione di moduli, test e questionari; negli incontri periodici sin- goli e/o di gruppo: in genere a scopo informativo, formativo e di orientamento; in- contri che sono stati formalizzati attraverso il calendario delle riunioni e delle as- semblee al fine di fare il punto sulla situazione degli allievi e sull’andamento del corso, per la consegna della scheda di valutazione; con la partecipazione a mo- menti di programmazione e di verifica: tramite la consegna di circolari informative in cui sono state illustrate le caratteristiche del corso e dove sono stati raccolti i suggerimenti offerti dalle famiglie per quanto riguarda in particolare la gestione di problematiche didattiche e disciplinari, le attività extracurricolari, ecc.; inoltre al- cuni genitori hanno partecipato anche al consiglio o collegio di corso e a riunioni plenarie per la presentazione delle azioni formative; con la partecipazione a mo- menti di verifica/miglioramento: attraverso soprattutto la somministrazione di que- stionari di gradimento del corso, test e schede di verifica. La collaborazione con le imprese è stata realizzata: nell’orientamento e nelle vi- site alle aziende: attraverso scambi, confronti e programmazione di visite didattiche per comprendere l’organizzazione, le funzioni e la gestione di un’azienda, l’invio di tutor aziendali, colloqui con i dirigenti d’impresa finalizzati ad approfondire la co- noscenza e l’organizzazione del futuro lavoro, in vista della definizione dei percorsi mirati ad implementare le competenze tecnico-professionali e relazionali; nello sta- ge: per la determinazione degli obiettivi e dei contenuti, per la valutazione degli al- lievi in itinere e al termine, per la collocazione in azienda alla fine del corso. 2.4.2. La realizzazione delle azioni formative più rilevanti Nella seconda parte della scheda sono state valutate le modalità di realizza- zione delle seguenti azioni formative: l’accoglienza, lo svolgimento dell’orienta- mento, il bilancio personale, la gestione dei crediti/passerelle, le azioni di potenzia- mento/approfondimento, la modularità, le metodologie didattiche, la valutazione, il libretto personale e il portfolio. 83 L’accoglienza è stata realizzata in quasi tutti i Centri secondo le modalità pre- viste nel progetto di dettaglio. Più specificamente e in via generale tale azione for- mativa è stata attuata mediante: incontri periodici con il direttore, l’orientatore ed il tutor; compilazione dei moduli e/o della “scheda di registrazione utente”; incontri con ragazzi e famiglie per visite iniziali al Centro ed ai laboratori; dichiarazione degli impegni reciproci per la condivisione degli obiettivi formativi; attività di ani- mazione (power point, brain storming, autopresentazione, gite ed altre iniziative volte a favorire la conoscenza e la socializzazione degli allievi, per farli sentire “in famiglia”…). In una maggioranza dei Centri, l’orientamento è stato realizzato secondo tutte le modalità previste nella domanda, ossia: prima dell’iscrizione, in integrazione con la scuola secondaria di 1° e 2° grado; nella fase iniziale, mediante la presentazione del corso e di materiali, incontri con testimoni, visite aziendali; in itinere, integran- dolo nelle azioni periodiche previste nella progettazione (consulenze, colloqui indi- viduali e di gruppo, percorsi di ri-orientamento, procedure di passaggi al sistema di istruzione e/o di passerelle tra i due sistemi…); e ovviamente al termine del per- corso; per cui, in definitiva, si può sostenere che più nessun Centro utilizza l’orien- tamento come una semplice presentazione del corso. Anche il bilancio personale è stato realizzato in quasi tutti i Centri mediante il progetto oppure attraverso test d’ingresso e schede di valutazione, per rilevare la mappatura delle competenze, i punti di forza e di debolezza dell’allievo, il li- vello di autostima, gli interessi e le motivazioni. Inoltre risulta che, dal punto di vista temporale, questa attività è stata realizzata: all’inizio, per capire da dove partire; in itinere (trimestralmente), mediante l’uso di apposite schede per rilevare gli stati di avanzamento degli apprendimenti e l’eventuale ricorso ad attività di re- cupero/approfondimento; al termine, per verificare in generale il conseguimento degli obiettivi del corso e, a livello di singolo allievo, la realizzazione del pro- getto personale. Così pure è stata realizzata dappertutto la gestione dei crediti/passerelle. Scen- dendo nei dettagli, la scheda richiedeva di specificare: se la gestione delle passe- relle è avvenuta da e per la scuola o altro CFP, oppure da e per il lavoro/apprendi- stato: per quanto riguarda il primo tipo, il passaggio dalla scuola al CFP si è verifi- cato, in alcuni Centri, con moduli di allineamento sia per la scuola che per il CFP, in altri casi mediante l’ammissione diretta al secondo o al terzo anno dei ragazzi provenienti dalla scuola superiore ed in possesso dei requisiti, in altri casi ancora tramite la valutazione dei crediti formativi acquisiti, più un esame integrativo (con la partecipazione di un commissario esterno) di accesso alle materie professionaliz- zanti, oppure attraverso il recupero di quei moduli che non erano stati seguiti nel precedente percorso formativo; invece, per quanto riguarda da e per l’apprendi- stato, le passerelle sono state realizzate per lo più mediante la presentazione da parte dell’allievo del contratto di apprendistato; per quanto riguarda i crediti, è stato chiesto anzitutto se essi sono stati riconosciuti in ingresso (modello “C”) e con quali modalità; ancora una volta si osserva che tale attività è stata realizzata 84 dappertutto, seppure con caratteristiche differenti quali il bilancio in ingresso del- l’allievo con le competenze previste nel profilo di nuovo inserimento, un colloquio multidisciplinare, la documentazione in possesso dell’utente emessa dalla scuola di provenienza; mentre i crediti in uscita sono stati certificati attraverso il modello “B” (certificato delle competenze) attuato in genere attraverso l’esame finale. Anche le azioni formative sia di recupero che di approfondimento sono state realizzate quasi dappertutto. Passando in rassegna ciascuna di esse, si riscontra che le unità di recupero sono state attivate durante quasi tutto lo svolgimento del per- corso formativo e in particolare nelle fasi iniziali e intermedie, oppure mediante ca- lendarizzazioni personalizzate; la loro realizzazione è avvenuta attraverso recuperi con percorsi destrutturati, gruppi omogenei per livello, gruppi di lavoro con unità specifiche, ricerche su internet per esercizi di consolidamento, colloqui individuali e di gruppo con i formatori, laboratori di personalizzazione, moduli LARSA per ap- profondire alcuni contenuti specifici. Così pure le unità di approfondimento sono state realizzate quasi sempre in contemporanea con quelle di recupero e con le stesse procedure, ossia all’interno dei LARSA attraverso l’elaborazione di tesine, ricerche su internet nell’ambito delle varie discipline, laboratori di personalizza- zione, percorsi di raccordo con la scuola-partner. In proposito, riportiamo un esempio di buona prassi: “Alcuni approfondimenti si sono realizzati in merito a temi di attualità, legati alla vita dell’adolescente (amicizia, il valore della vita, il debito pubblico…); in queste attività erano pre- viste poi la visione di film con la lettura guidata, le riflessioni personali, le testimo- nianze di giovani su temi trattati e alla fine la realizzazione di un lavoro di sintesi da presentare ai compagni”. Tutti i Centri inoltre hanno affermato che il percorso formativo è stato realiz- zato in forma modulare, e cioè attraverso la scansione dei contenuti in unità di ap- prendimento disciplinari a loro volta distribuite per saperi di base, trasversali e pro- fessionalizzanti; o seguendo quanto previsto nel piano formativo di dettaglio; o me- diante la calendarizzazione dei moduli ripartendo il monte ore di 1.050 in due tempi di 525 ore per ogni anno formativo e individuando specifici obiettivi per ogni modulo, nel tentativo di ottenere una pianificazione il più possibile progres- siva durante tutto il percorso formativo. Alcuni Centri tengono a specificare, inoltre, il planning modulare interno al proprio CFP, che viene suddiviso in compe- tenze di base, percorsi di personalizzazione e competenze professionali e in cui l’i- nizio e la fine di ogni modulo sono fissati secondo un criterio didattico di priorità dei requisiti. Nell’utilizzo delle diverse metodologie didattiche si osserva che in una netta maggioranza dei Centri sono state segnalate tutte quelle elencate nella scheda, ossia: l’interdisciplinarità, una didattica per centri d’interesse e per forme di simu- lazione, la distinzione tra l’area culturale e quella tecnico-professionale. Infine al- cuni Centri hanno segnalato, tra le metodologie “altre”, anche l’adozione di inter- venti di autoformazione assistita a distanza. La domanda sulla valutazione delle prestazioni degli allievi prendeva in consi- 85 derazione la metodologia utilizzata nel verificare l’acquisizione delle conoscenze, abilità, capacità e competenze; in rapporto a ciascun aspetto è stato segnalato l’uti- lizzo delle seguenti metodologie e strumenti: a) le conoscenze: attraverso test, così distribuiti: in ingresso, sui prerequisiti; in itinere, di verifica del profitto; e finali, sugli obiettivi e sui risultati conseguiti; oppure mediante il ricorso al portfolio, a colloqui, ad osservazioni, a questio- nari, a prove strutturate e non; b) le abilità: mediante esercitazioni, simulazioni di processi, role-playing, prove interdisciplinari, prove di laboratorio, svolgimento di mansioni e incarichi; c) le capacità: attraverso osservazioni, esercitazioni, elaborazioni di progetti, re- lazioni tecniche, prove scritte e pratiche, schede, portfolio, osservazioni da parte dei formatori, simulazioni di laboratorio, produzione di testi; d) le competenze: mediante project work, simulazioni di ambiente di lavoro, prove per competenze, realizzazione di un prodotto, attività individuali e di gruppo, tirocini ed esercitazioni addestrative, prove professionali di fine mo- dulo, stage, esame finale di qualifica. Infine, anche l’utilizzo del libretto personale degli studenti è stato segnalato in tutti i Centri, mentre il portfolio solo in una metà, a significare un percorso forma- tivo di avanguardia che nella più parte dei CFP è stato realizzato, mentre in una mi- noranza richiede di essere ancora avviato. 2.5. Valutazione complessiva del corso da parte dei genitori Attraverso la scheda n. 8 si è inteso raccogliere le valutazioni dei genitori degli allievi sugli aspetti più significativi della sperimentazione. Anche questo strumento presenta modalità diverse in base agli Enti, motivo per cui è necessario analizzare i dati separatamente. 2.5.1. Valutazione da parte dei genitori del CNOS-FAP I Centri del CNOS-FAP nel valutare l’esperienza dei corsi a cui erano iscritti i figli hanno adottato la stessa scheda utilizzata nel Lazio, in Lombardia, in Piemonte e nel Veneto. Alla scheda hanno risposto complessivamente 449 genitori (cfr. Tav. 34). L’andamento d’insieme dei dati presenti nella tavola evidenzia un elevato grado di soddisfazione dei genitori nei confronti di pressoché tutti gli aspetti og- getto di valutazione. La media, infatti, risulta dappertutto molto al di sopra dell’“abbastanza”. E comunque, stando alle medie più elevate, ciò che i genitori hanno gradito maggiormente sono ancora una volta gli stessi aspetti evidenziati anche dai genitori delle altre sperimentazioni triennali (Malizia e Pieroni, 2005 e 2006), ossia: la rica- duta delle attività del corso sul futuro professionale del figlio (M=3.49, esattamente la stessa media riscontrata nel Lazio); la soddisfazione nei confronti della figura del coordinatore o del tutor (M=3.44). 86 Le rimanenti valutazioni si collocano ugualmente su indici di gradimento medio-alti e si concentrano essenzialmente su due aspetti fondamentali sottesi al- l’intera attività formativa: la maturazione della personalità dei figli, sia dal punto di vista educativo che professionalizzante, e la logistica organizzativa. La maturazione acquisita progressivamente dal figlio lungo la sperimentazione è stata valutata anzitutto in rapporto alla capacità di socializzare e di collaborare (M=3.31) e alla conseguente diversità riscontrata a livello di preparazione, se con- frontata con quella all’atto dell’iscrizione (M=3.23). Sono stati assai apprezzati inoltre (stando sempre ai valori della media) il “piacere” manifestato dai propri figli nel frequentare il corso (M=3.30) ed i momenti d’incontro tra i genitori e il Centro (M=3.11); quest’ultimo dato tuttavia richiede una maggiore attenzione da parte degli organizzatori dei corsi in quanto, sebbene soddisfacente, presenta la media più bassa rispetto non solo alla gamma delle valutazioni riportate nella scheda ma anche nei confronti dei genitori delle sperimentazioni del Lazio e del Piemonte. Nel valutare l’aspetto organizzativo, i genitori hanno apprezzato l’adeguatezza degli ambienti messi a disposizione (M=3.23) e conseguentemente anche quella re- lativa agli strumenti (M=3.32), all’offerta dei servizi (M=3.17) e alla distribuzione dei tempi (M=3.24), apprezzamenti tuttavia che, anche in questo caso, risultano più bassi, se confrontati con quelli dei genitori delle altre sperimentazioni. E comunque, anche in questo caso il livello di soddisfazione richiamato sopra è stato poi ulteriormente confermato da quell’87.3% dei genitori che, coerente- mente a quanto già emerso in altre sperimentazioni, consiglierebbero anche ad altre famiglie di iscriversi al CFP presso cui il figlio si è formato. Gli scontenti rappre- sentano una minoranza che, complessivamente (compresi anche i non rispondenti), si aggira attorno al 10%. Tav. 34 - Gradimento e valutazione complessiva dell’esperienza da parte dei genitori del CNOS- FAP (2005-06) (base 449; in % e M*) Legenda: M= Media * I valori della media sono: 1=per nulla; 2=in parte; 3=abbastanza; 4=molto 87 2.5.2. Valutazione da parte dei genitori del CIOFS/FP I Centri del CIOFS/FP hanno elaborato una scheda a parte, del tutto nuova nelle diverse articolazioni in cui è composta (cfr. Tav. 35). Sono state prese in con- siderazione varie aree (conoscenza del progetto, apprendimenti, utilità del corso, competenze dei formatori, metodologie, organizzazione, livello di soddisfazione), a loro volta suddivise in un numero variabile di indicatori; inoltre, la valutazione è stata impostata su una scala a quattro livelli già utilizzata nelle due precedenti schede analizzate separatamente per Enti (nn. 5 e 6). Da una prima visione sinottica si evince che, in tutta la numerosa serie di aspetti presi in considerazione, i giudizi presentano un andamento che da “buono” sale verso il “positivo”, ossia godono dei massimi apprezzamenti da parte dell’85- 90% dei genitori. A questo punto non rimane che passare in rassegna i contenuti e le relative valutazioni di ciascuna area. Nei confronti del progetto, ciò che i genitori conoscono meglio sono i forma- tori (M=3.36); ma, seppure leggermente ridimensionate, non sono da meno le co- noscenze che hanno delle finalità del corso (M=3.22), delle competenze che si è in- teso sviluppare (M=3.21) e dell’organizzazione nel suo complesso (M=3.23). Quanto agli apprendimenti, ciò che è stato apprezzato di più è l’acquisizione di cose sempre nuove (M=3.42), che il proprio figlio considera interessanti (M=3.32), utili (M=3.24) e vicine alla realtà (M=3.15). Le medie si elevano nel valutare l’utilità del corso, per quanto riguarda in par- ticolare l’acquisizione di una qualifica (M=3.52), l’accesso ad una specializzazione (M=3.47) e/o l’inserimento nel mondo del lavoro (M=3.46). L’utilità è stata co- munque ugualmente apprezzata anche nel prendere in considerazione semplice- mente le conoscenze acquisite (M=3.34) e la possibilità di continuare gli studi (M=3.21). Dal canto loro presentano valutazioni uguali o simili tutti gli aspetti presi in considerazione nel giudicare la capacità dei formatori di comunicare (M=3.38), di coinvolgere gli allievi (M=3.36), di organizzare (M=3.36) e di valorizzare le espe- rienze (M=3.36). In merito poi alle metodologie utilizzate, viene evidenziata la convergenza dei formatori nel farne una selezione (M=3.20), l’equilibrio nella ripartizione tra la- voro individuale e di gruppo (M=3.21) e tra teoria e pratica (M=3.19) e la capacità di coinvolgimento (M=3.13). In fatto poi di organizzazione, viene messo in evidenza anzitutto il clima di re- lazione che ha caratterizzato i rapporti tra i formatori (M=3.49) e in parte anche tra gli allievi (M=3.29); così pure riscuotono ampi apprezzamenti le strutture messe a disposizione (laboratori, aule… - M=3.37), gli strumenti (M=3.32) e la distribu- zione oraria delle azioni formative (M=3.11). Al fondo della scheda è stato richiesto di esprimere il proprio grado di soddi- sfazione in merito ad una serie di aspetti, quali i risultati raggiunti dal figlio attra- verso il corso, globalmente (M=3.16) e mediante azioni di recupero (M=3.17), le 88 conoscenze acquisite (M=3.21), le capacità sviluppate (M=3.21), le abilità poten- ziate (M=3.13), lo stage (M=3.23), i lavori prodotti (M=3.22) ed il conseguimento delle attese personali (M=3.16). Tav. 35 - Gradimento e valutazione complessiva dell’esperienza da parte dei genitori del CIOFS/FP (2005-06) (base 931; in % e M) Legenda: M= Media 89 Osservazioni conclusive Guglielmo MALIZIA - Vittorio PIERONI Nei confronti dei corsi triennali sull’obbligo formativo realizzati in Sicilia, un primo dato di successo va indubbiamente identificato nella consistenza del feno- meno rapportato tanto al numero dei Centri (e quindi anche degli allievi coinvolti e dei differenti settori formativi a cui fanno capo), quanto all’arco di tempo in cui sono stati attuati. Dal punto di vista quantitativo, dal 2000 al 2005 sono stati erogati numerosi corsi all’anno, rapportati ai principali settori produttivi, al cui interno una quota non indifferente è stata sempre riservata all’obbligo formativo e poi ai percorsi triennali. Dal punto di vista qualitativo, poi, è stata privilegiata un’ottica che, ricorrendo ad una didattica attiva e all’apprendimento dall’esperienza, prevedeva l’introdu- zione di differenti metodologie, tra cui in particolare la formazione del gruppo- corso, i LARSA, il project work, la simulazione d’impresa, l’alternanza, al fine di sviluppare negli allievi una visione del lavoro come realtà viva e di promuovere l’apprendimento lungo l’arco della vita. Stando alle relazioni annuali, tali obiettivi e metodi sono stati poi costantemente monitorati attraverso una serie di rilevamenti effettuati a più riprese lungo l’anno formativo e mirati a coinvolgere non solo gli allievi ma anche i formatori ed i genitori. A convalidare il successo di tutto questo lavoro vengono poi i dati relativi all’occupazione. Passando dall’attività pregressa a quella dei dati del rilevamento da noi effet- tuato, nel primo gruppo di schede sono presenti le informazioni sugli allievi del CNOS-FAP e del CIOFS/FP che nell’anno formativo 2005-06 hanno usufruito dei percorsi triennali. Essi rappresentano circa un terzo dell’utenza complessiva; due su tre provengono dal regolare canale della scuola media, mentre nei confronti della rimanente quota tali percorsi hanno avuto una funzione di recupero; al loro interno il 10% circa dei corsisti è portatore di particolari disagi di varia entità; se si prescinde da un inevitabile flusso in entrata/uscita lungo l’anno, di difficile valuta- zione in mancanza di indicazioni precise sugli sbocchi dei ritiri1, oltre l’80% ha portato a termine il corso con valutazione di “positivo” o di “eccellente”. 1 Infatti nel capitolo 2 non sono stati forniti i dati sugli abbandoni perché i CFP non li hanno dati o li hanno dati in modo incompleto nel senso che non si distingue tra il vero abbandono, quello cioè per inattività (che consiste nel lasciare ogni forma di impegno rivolto a sviluppare le proprie capacità nell’istruzione e nella formazione, o a metterle a frutto nel lavoro) e il ritiro dal CFP per riorienta- mento o verso la scuola, o verso altri corsi di formazione professionale, o in vista dell’inserimento nel mondo del lavoro. Infatti, le sole informazioni sugli abbandoni senza queste specificazioni potrebbero fornire un quadro distorto della realtà. 90 La scheda-Centro richiedeva inoltre di indicare le funzioni attivate per la rea- lizzazione dei corsi. Sono state menzionate, in particolare: la progettazione delle azioni formative, l’analisi della domanda di formazione, la diagnosi dei bisogni in- dividuali e di gruppo, la gestione del sistema qualità, l’autoproduzione di strumenti per l’apprendimento, il monitoraggio e la valutazione all’inizio, in itinere e al ter- mine, il counseling/tutoring all’inserimento lavorativo, la gestione delle relazioni esterne con le imprese, gli organismi e gli attori sociali. Come anticipato, il secondo gruppo di schede è stato appositamente impostato su una serie di valutazioni in merito alle azioni formative erogate e mirate a verifi- care il grado di soddisfazione da parte dei principali protagonisti (allievi, formatori, coordinatori, genitori). I più alti apprezzamenti espressi dagli allievi, nei confronti dei numerosi aspetti presi in considerazione all’interno di varie aree, hanno messo in evidenza soprattutto: i contenuti degli argomenti trattati, e la loro importanza/interesse in prospettiva della futura vita professionale; le competenze dei formatori, grazie al loro sapere/saper fare; le metodologie utilizzate dai formatori e la loro capacità di collaborazione; l’organizzazione, gli strumenti e gli spazi messi a disposizione dal Centro e il clima delle relazioni presenti al suo interno; gli apprendimenti, le cono- scenze tecnico-professionali, le capacità operative e la loro spendibilità in una fu- tura professione; la distribuzione degli orari, l’adeguatezza del tempo dedicato alle attività di laboratorio e allo stage. L’insieme delle valutazioni relative anche a numerosi altri aspetti della speri- mentazione confluisce, in ultima istanza, in un giudizio complessivo di medio-alta soddisfazione espresso dal 90% circa degli allievi. E comunque non mancano nel contesto alcune valutazioni più modeste, che proprio per questo sottolineano l’esi- genza di introdurre dei miglioramenti. Questi dovrebbero essere apportati in parti- colare: anzitutto dai formatori, per quanto riguarda in particolare la loro disponibi- lità a comprendere i problemi degli allievi; nell’uso di metodologie più coinvol- genti; nel dare valutazioni più giuste; in una più adeguata distribuzione dei tempi nei confronti soprattutto delle attività di laboratorio e di stage. Pure i formatori hanno espresso più alte valutazioni in particolare nei con- fronti: degli allievi, per l’utilità che hanno tratto dal percorso formativo grazie so- prattutto al proprio insegnamento e al proprio interessamento; del personale opera- tivo, per la capacità di sviluppare collaborazioni tra loro e relazioni amichevoli/fa- miliari con gli allievi, e per la preparazione sul piano tecnico-professionale; del progetto, per l’adeguatezza dei contenuti delle discipline, delle metodologie e dell’organizzazione agli obiettivi e al profilo professionale del corso; dell’organiz- zazione, per la messa a disposizione degli strumenti e degli spazi (aule, labora- tori…) e per l’efficacia delle verifiche effettuate; degli apprendimenti, per le com- petenze tecnico-professionali e le capacità operative acquisite, e la spendibilità nella vita professionale di quanto appreso. Anche in questo caso, al termine della scheda si richiedeva di confermare le singole valutazioni attraverso un giudizio globale: questo ha trovato pienamente 91 soddisfatti dell’esperienza almeno il 90% dei formatori. Tale apprezzamento è stato ulteriormente confermato dall’unanime disponibilità a ripetere e a conti- nuare l’esperienza, introducendo eventualmente qualche modifica. Proprio per questo è possibile evidenziare anche tra i formatori valutazioni che portano a ri- flettere su ciò che andrebbe migliorato, e in particolare: una maggiore adegua- tezza del progetto del corso alla tipologia degli allievi; una migliore distribuzione dei tempi tra le diverse attività; una messa a punto delle discipline che tenga conto che quanto appreso dagli allievi possa essere utilizzato anche per il prose- guimento degli studi; un maggiore impegno a servizio degli allievi in vista della formazione ai valori. Dal canto loro, i coordinatori dei corsi, oltre a valutare, sono stati chiamati anche a “documentare” le varie attività sottese alla realizzazione dei percorsi for- mativi. Gli aspetti che hanno maggiormente accentuato in positivo, riguardano: la frequenza della partecipazione al corso da parte degli allievi; la rispondenza del si- stema informativo ai bisogni degli allievi e delle famiglie; l’attivazione di tutti i programmi (e relative prove) sottesi all’attività di accoglienza, orientamento e alla rilevazione della situazione di partenza degli utenti (bilancio di competenze); la re- dazione di strumenti di autoformazione; l’attuazione di azioni di recupero e di ap- profondimento; il coinvolgimento nella valutazione di altri attori, oltre ai formatori, e il conseguente utilizzo degli esiti valutativi in rapporto al miglioramento del per- corso; la corrispondenza dei requisiti del personale e delle metodologie utilizzate a quanto richiesto/previsto dal progetto; il clima d’aula ed il coinvolgimento degli al- lievi nelle iniziative del Centro; l’adeguatezza degli spazi/ambienti per la realizza- zione del progetto; il rispetto delle norme in fatto di sicurezza e più in generale delle modalità di trattamento degli allievi. Attraverso un’ulteriore scheda di tipo più descrittivo, i coordinatori hanno po- tuto puntualizzare meglio numerosi altri aspetti sottesi alla realizzazione dei corsi, in particolare il coinvolgimento di altre strutture nelle attività e le modalità di rea- lizzazione delle principali azioni formative. Per quanto riguarda il coinvolgimento nelle attività di altre strutture, la collaborazione hanno riguardato: le scuole- partner, nei cui confronti si è instaurato un rapporto basato su percorsi di orienta- mento, partecipazione a momenti di programmazione e verifica, incontri tra diri- genti/insegnanti, visite guidate, stage, organizzazione di seminari e convegni; i centri per l’impiego, per segnalazioni di potenziali utenze, visite didattiche, diffu- sione di materiale pubblicitario; i servizi di orientamento, per l’attivazione in co- mune di azioni di accompagnamento, colloqui, visite didattiche; i servizi socio-as- sistenziali, per interventi a sostegno di particolari categorie di soggetti svantaggiati, per segnalazioni di casi di disagio e per il monitoraggio della dispersione scola- stica; le parrocchie e associazioni, per indicazioni di potenziali utenze, incontri di orientamento e di proposte formative, segnalazione di casi difficili, diffusione di materiale pubblicitario; le famiglie degli utenti, per un più diretto coinvolgimento nell’attività formativa del Centro attraverso la sottoscrizione del patto formativo, la compilazione di moduli, test e questionari di valutazione/gradimento, la calendariz- 92 zazione di incontri periodici finalizzati alla gestione di attività curricolari ed extra, l’attivazione di attività formative espressamente indirizzate ai genitori; le imprese, per un coinvolgimento che, a partire dalla fase di progettazione/programmazione per orientare i corsi in base ai fabbisogni formativi del mercato del lavoro, si è esteso a quella di realizzazione dei corsi, collaborando nei momenti più significa- tivi per la definizione dei percorsi mirati ad implementare le competenze tecnico- professionali così come nell’organizzazione delle visite didattiche e dello stage, e inviando nei CFP personale d’azienda specializzato. Per quanto riguarda poi le mo- dalità di realizzazione delle principali azioni formative, sempre i coordinatori hanno sottolineato: l’accoglienza iniziale agli utenti e rispettive famiglie: facendo conoscere il Centro e attivando un patto formativo basato su impegni reciproci; l’o- rientamento, realizzato in tutte le fasi previste dal progetto, ossia all’atto di iscri- zione, con la presentazione del corso e dei materiali e il bilancio di competenze; in itinere, mediante consulenze/incontri individuali e di gruppo e percorsi di ri-orien- tamento; al termine del corso, come accompagnamento alle successive scelte di studio/lavoro; la gestione dei crediti/passerelle da e per la scuola/formazione pro- fessionale e/o da e per il lavoro/apprendistato: attività regolarmente realizzata fa- cendo riferimento alla modulistica regionale/locale; le azioni di recupero/approfon- dimento, per lo più realizzate all’inizio e in itinere mediante calendarizzazioni per- sonalizzate o indirizzate a gruppi omogenei per livelli per mezzo di unità speci- fiche, moduli LARSA, ricerche in internet, percorsi di raccordo con la scuola- partner; l’introduzione della modularità, mediante la scansione dei contenuti in unità didattiche disciplinari, a loro volta distribuite per saperi di base, trasversali e professionalizzanti; l’utilizzo di specifiche metodologie didattiche basate su interdi- sciplinarità, una didattica per centri d’interesse, simulazione di processi, project work, realizzazione di un prodotto di fine modulo; l’utilizzo del libretto personale e del portfolio. Infine anche i genitori sono stati chiamati ad offrire un proprio giudizio in me- rito all’esperienza in cui sono stati coinvolti. Nell’esprimersi in merito, sebbene siano state utilizzate schede diverse a seconda degli Enti, gli apprezzamenti sono risultati elevati su tutti gli aspetti presi in considerazione; in particolare in entrambe le schede essi si concentrano: sui vantaggi derivati al figlio dall’aver frequentato questi corsi, acquisendo una qualifica in previsione delle future scelte di studio/la- voro; sul gradimento e il sentimento di riconoscenza manifestato nei confronti delle principali figure (ossia il coordinatore e il tutor) che si sono interessate alla forma- zione del figlio riuscendo a svilupparne le competenze/abilità. In questo caso, non si sono registrate particolari insoddisfazioni da parte di una maggioranza dei genitori nei confronti di nessuno degli aspetti oggetto di valuta- zione. Pertanto, in definitiva, si può concludere sostenendo che da parte di tutti i protagonisti questi corsi complessivamente hanno conseguito un “buon successo”. Per arrivare ad un successo “pieno” bisognerebbe tuttavia tener conto di alcune delle osservazioni critiche che, seppure indirettamente, i protagonisti hanno avan- zato manifestando un minore apprezzamento: 93 1) anzitutto occorre prestare maggiore attenzione alla comprensione delle esi- genze di cui è portatore ciascun allievo preso nella sua unicità, in quanto sog- getto che si trova nel pieno di un processo evolutivo e che al tempo stesso è portatore anche di particolari problematiche (quale elemento da sempre carat- terizzante l’utenza della formazione professionale); 2) tutto ciò richiama alla necessità di riuscire a coinvolgere meglio gli allievi nelle azioni formative, al fine di una più piena partecipazione e responsabiliz- zazione rispetto ad un percorso formativo professionalizzante, ma anche etico, religioso, relazionale e di cittadinanza attiva; 3) questi primi due punti di criticità, a loro volta, richiedono che, nel program- mare i percorsi si miri ad una loro sempre maggiore adeguatezza alle tipologie degli allievi e alle loro problematiche; 4) e, non ultimo, va anche realizzata una migliore distribuzione dei tempi tra le differenti attività, fermo restando che determinante per l’avvio delle attività è la data di approvazione delle stesse da parte della Regione. 95 Riferimenti bibliografici Accordo Stato-Regioni su istruzione e formazione, firmato il 19 giugno 2003 (2003), in «Presenza Confap», 27, n. 3-4, pp. 5-8. 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In quali settori/sottosettori economici svolgete prevalentemente la vostra opera for- mativa? _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 7. Ore erogate negli anni 2005-06 relativamente alle tipologie formative del Centro 01 SCHEDA GENERALE DEL CFP A cura del Direttore/Direttrice (l’anno di riferimento è il 2005-06) 8. Allievi iscritti nell’anno 2005-06 100 9. Nel 2005-06 di quante figure (sia interne che esterne) vi siete avvalsi per svolgere tali attività? 10. Quali di queste funzioni sono attivate nel Centro? 11. Esiste uno staff di direzione? Sì † No † 12. Specificare le strutture a vostra disposizione 13. Quali sono gli strumenti di progettazione educativo-formativa che utilizzate (pro- posta formativa, regolamento, carta del valori, manuale…)? _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 14. Quali sono le modalità prevalenti di erogazione formativa? (aula, laboratorio, didattica attiva, autoformazione assistita, FAD…) _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 101 15. Quali sono le modalità di valutazione dei risultati dell’apprendimento degli allievi? _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 16. Prevedete la certificazione ed il riconoscimento dei crediti formativi? Se sì, in che modo? _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 17. Quali sono le forme di cooperazione previste con le famiglie degli allievi? (com- presa la partecipazione anche agli organi collegiali) _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 18. Quali sono le forme di collaborazione con gli allievi? _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 19. Quali sono le forme di collaborazione con le imprese? _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 20. Quali sono i vostri modelli di verifica e regolazione della qualità? Commenti (ed eventuali modifiche della lista dei modelli proposti) _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 21. Secondo quali criteri la formazione si intende riuscita? ______________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 102 22. La certificazione della classe ISO 9000/2000, interessa l’intero organismo oppure una sola o alcune parti di esso, precisando quali _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 23. Quale tipo di interazione esiste tra accreditamento esterno e sistema di gestione della qualità? _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 24. Esponete il vostro giudizio circa le performance principali del Centro (1 = min; 5= max), indicando su quali basi si poggia tale giudizio (percezione non strutturata, ri- cerca, valutazione strutturata…) Commenti _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 25. Qual è l’impatto dell’azione del Centro nel contesto sociale e culturale, e quali ele- menti vi consentono di esprimere tale giudizio? 26. Qual è l’attuale immagine che il Centro proietta sull’esterno, e con quali indicatori siete in grado di coglierla? _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ Data _________________ 103 CFP: Sede operativa: Denominazione del percorso triennale di I e FP: Referente del monitoraggio: 1. TOTALE allievi iscritti all’inizio dell’anno formativo 2005-06: ______________ 1.1. di cui maschi: ___________ 1.2. di cui del 1° anno del percorso triennale: 14enni _______ 15enni _________ 2. Caratteristiche particolari degli allievi 02 GESTIONE DESTINATARI A cura del Direttore/Coordinatore (l’anno di riferimento è il 2005-06) 3. Provenienza degli iscritti nel 2005-06 104 4. Flusso degli allievi lungo l’anno formativo 5. Motivo del ritiro degli allievi durante l’anno 2005-06 6. Allievi aggiunti durante l’anno 2005-06 7. Situazione scolastica / formativa alla fine del corso (anno 2005-06) (1) per “insoddisfacente” si intende: non qualificato o passaggio con 3 o più debiti (2) per “carente” si intende: passaggio con 1 o 2 debiti (3) per “positivo” si intende: nessun debito e con punteggio medio complessivo tra 18 e 26 (4) per “eccellente” si intende: con punteggio medio complessivo oltre 27 105 CFP: Sede operativa: Denominazione corso: Data di compilazione: 03 CHEK-LIST PER LA VALUTAZIONE DELL’ATTUAZIONE DELLE AZIONI FORMATIVE A cura del Direttore/Coordinatore * Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 1.1 – La presenza dell’utenza è stata registrata: 1. mai o solo in pochi casi 2. abbastanza frequentemente 3. sempre (o quasi) 1.2 – La frequenza dell’utenza è stata: 1. poco assidua (molte assenze) 2. abbastanza assidua 3. molto assidua (scarse assenze) 1.3 – Le motivazioni relative ai ritiri complessivamente sono state: 1. inadeguate o assenti 2. solo in parte adeguate 3. pienamente adeguate 106 * Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 2.1 – Nei confronti dei bisogni dell’utenza, il sistema informativo di base è risultato: 1. poco rispondente/inadeguato 2. abbastanza rispondente/adeguato 3. molto rispondente/adeguato 2.2 – L’azione di orientamento ha realizzato: 1. solo un programma su tre di quelli indicati al punto 2.2 2. due programmi su tre 3. tutti e tre i programmi (ed eventuali altri…) 2.3 – La situazione di partenza degli utenti: 1. non è stata rilevata 2. è stata rilevata con uno dei documenti indicati al punto 2.3 3. è stata rilevata con due documenti (ed eventuali altri…) 2.4 – Per l’autovalutazione: 1. non è stato predisposto alcuno strumento 2. è stato redatto solo il Piano di lavoro personalizzato 3. sono stati redatti anche altri supporti oltre al Piano 107 ** Riportare il numero * Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 3.1 – Rispetto al progetto formativo le attività realizzate sono risultate: 1. scarsamente conformi 2. conformi solo in parte 3. pienamente conformi 3.2 – Gli interventi in itinere di modifica del progetto sono stati gestiti: 1. non apportando nessuna modifica (o quasi) 2. apportando varie modifiche*** 3. riaggiustando il tiro ogni volta*** 3.3 – La valutazione degli interventi di modifica in itinere del progetto è stata fatta: 1. mai (o quasi) 2. qualche volta 3. spesso 108 3.4 – Le azioni di recupero/approfondimento: 0. non è stata fatta nessuna azione di recupero e di approfondimento 1. sono state scarsamente efficaci (nessun recupero o pochi) 2. sono state solo in parte efficaci (recupero nella metà dei casi) 3. sono state pienamente efficaci (recupero di tutti o quasi i casi) 4. non sono state necessarie azioni di recupero/approfondimento 3.5 – Nella valutazione del progetto formativo: 0. non è stata fatta nessuna valutazione 1. sono stati coinvolti solo gli operatori 2. sono stati coinvolti gli operatori e un’altra categoria tra quelle citate sopra 3. sono stati coinvolti gli operatori e almeno altre due categorie tra quelle citate sopra 3.6 – In rapporto al miglioramento del percorso gli esiti della valutazione: 1. non sono stati presi in considerazione (o poco in considerazione) 2. sono stati presi in considerazione solo alcuni e/o una parte 3. sono stati presi in considerazione tutti o quasi *** Chi ha valutato 2 o 3 è pregato di descrivere in sintesi, in un foglio a parte, ciascuno degli inter- venti di modifica realizzati. 109 * Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 4.1 – La corrispondenza tra i requisiti del personale e quelli richiesti dal progetto, è stata: 1. bassa/minima (si è data in pochi casi) 2. intermedia/sufficiente (si è data in circa metà dei casi) 3. piena (si è data in tutti i casi o quasi) 4.2 – Il coordinamento delle diverse figure e ruoli si è dimostrato, complessivamente: 1. poco efficace 2. abbastanza efficace 3. pienamente efficace 4.3 – Il riesame dell’azione in corso è stato fatto: 1. mai (o quasi) 2. qualche volta 3. spesso 4.4 – La corrispondenza delle metodologie didattiche alle indicazioni progettuali, è stata: 1. bassa/minima (si è data in pochi casi) 2. intermedia/sufficiente (si è data in circa metà dei casi) 3. piena (si è data in tutti i casi o quasi) 110 * Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 5.1 – Il clima d’aula è stato caratterizzato da: 1. scarsa collaborazione/coinvolgimento degli utenti 2. parziale collaborazione/coinvolgimento degli utenti 3. piena collaborazione/coinvolgimento degli utenti 5.2 – Il coinvolgimento degli utenti nelle iniziative del Centro è stato: 1. scarso (si sono coinvolti attivamente in pochi) 2. sufficiente (si sono coinvolti attivamente circa una metà) 3. pieno (si sono coinvolti attivamente in molti) 111 ** Riportare il numero * Modalità di valutazione di ciascun indicatore: 6.1 – Le funzioni previste nel progetto formativo sono state attivate: 1. nessuna (o quasi) 2. varie (circa una metà) 3. molte/tutte 6.2 – Gli ambienti rispetto alle attività del progetto formativo, sono: 1. poco adeguati 2. abbastanza adeguati 3. pienamente adeguati 6.3 – Il sistema sicurezza rispetto alle norme vigenti, è: 1. scarsamente conforme 2. conforme solo in parte 3. pienamente conforme 112 6.4 – Le modalità di trattamento dati degli allievi rispetto alle norme vigenti, sono: 1. scarsamente conformi 2. conformi solo in parte 3. pienamente conformi 6.5 – Rispetto agli esiti del progetto formativo le funzioni direttive e di coordinamento sono state: 1. di scarso aiuto (hanno contribuito poco) 2. abbastanza d’aiuto 3. di grande aiuto 6.6 – Il supporto all’utenza nell’insieme delle funzioni citate (segreteria…) è risultato: 1. poco/scarsamente efficace 2. efficace solo in parte 3. pienamente efficace 6.7 – Il supporto ai formatori nell’insieme delle funzioni citate (segreteria…) è risul- tato: 1. poco/scarsamente efficace 2. efficace solo in parte 3. pienamente efficace NB – Chi ha realizzato interventi di modifica al punto 3.2 è pregato di descrivere, sintetica- mente, in un foglio a parte, ciascuno degli interventi di modifica realizzati. 113 Al Centro di elaborazione dati, andranno consegnati direttamente i questionari compi- lati dai ragazzi (cfr. pagine seguenti). Ai formatori viene richiesto di compilare solo la parte sottostante. CFP: Sede operativa: Denominazione corso: Annualità: TERZA Data di compilazione: 04 GRADIMENTO ALLIEVI 114 A cura di ciascun allievo ISTRUZIONI La scheda ha lo scopo di raccogliere le tue impressioni sull’esperienza formativa a cui hai partecipato. Ti chiediamo di esprimere la tua valutazione mettendo una croce (X) nel riquadro rela- tivo al punteggio (da 1 a 4) che desideri dare alla domanda. Ricorda che il valore più alto corrisponde al numero 4, e il valore più basso al numero 1: 1 = per nulla 2 = in parte 3 = abbastanza 4 = molto Ecco un esempio - Domanda: “La giornata trascorsa al Centro è piacevole?” Se questo corrisponde in pieno a quello che pensi, risponderai facendo una X sul qua- drato con il numero 4: 1 2 3 4 Valore più basso † † † † Valore più alto Se invece non trovi che la giornata al Centro sia piacevole, risponderai facendo una X sul quadrato con il numero 1: 1 2 3 4 Valore più basso † † † † Valore più alto Al termine di ciascuna domanda, troverai un breve spazio che potrai utilizzare per co- municare le tue osservazioni e offrire dei suggerimenti. Ti chiediamo di scrivere in modo leggibile; il tuo contributo è molto importante per la qualità del nostro servizio. BUON LAVORO 115 1. Contenuti 1 2 3 4 1.1. – Trovi chiari gli argomenti affrontati? † † † † 1.2. – Ti sembrano importanti gli argomenti trattati? † † † † 1.3. – Gli argomenti su cui devi lavorare, li trovi anche nella vita, fuori dal Centro? † † † † 1.4. – Ti interessano gli argomenti che sono trattati al Centro? † † † † Annotazioni: _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 2. Formatori 1 2 3 4 2.1. – Ti sembra che i tuoi formatori conoscano le cose di cui parlano e che le sappiano fare? † † † † 2.2. – Pensi che i tuoi formatori parlino in modo chiaro, li capisci facilmente? † † † † 2.3. – Quando spiegano, i tuoi formatori si aiutano con esempi della vita reale? Utilizzano esperienze che conosci? † † † † 2.4. – Ti sembra che i tuoi formatori capiscano i tuoi problemi? † † † † Annotazioni: _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 3. Metodi 1 2 3 4 3.1. – Il modo in cui si svolgono le lezioni ti coinvolge? Ti fa sentire interessato? Ti aiuta a restare attento e concentrato? † † † † 3.2. – Ti sembra che tra i tuoi formatori ci siano forme di collaborazione che possano migliorare il loro lavoro con voi? † † † † 3.3. – I tuoi formatori sono corretti nel valutare le tue prestazioni?† † † † Annotazioni: _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 4. Organizzazione 1 2 3 4 4.1. – Trovi che i tempi delle varie attività del Centro siano ben distribuiti? † † † † 4.2. – Trovi che gli spazi a disposizione del Centro siano ben utilizzati? † † † † 4.3. – Gli strumenti che il Centro mette a disposizione sono adeguati ai compiti che devi svolgere? † † † † Annotazioni: _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 116 5. Apprendimento 1 2 3 4 5.1. – Ritieni che il corso ti abbia aiutato ad acquisire conoscenze generali (cultura)? † † † † 5.2. – Ritieni che il corso ti abbia aiutato ad acquisire conoscenze tecnico-professionali (materie tecniche)? † † † † 5.3. – Ritieni che il corso ti abbia aiutato ad acquisire capacità operative (laboratori)? † † † † 5.4. – Ritieni che quanto hai imparato al Centro potrai usarlo nella vita fuori dal Centro (spendibilità operativa)? † † † † Annotazioni: _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 6. Tempi Eccessivo Adeguato Insufficiente Come trovi il tempo dedicato a: 6.1. Teoria 6.2. Laboratorio 6.3. Stage 6.4. Orientamento, accoglienza, accompagnamento/tutoraggio Annotazioni: _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 7. Soddisfazione 1 2 3 4 7.1. – Sei soddisfatto della tua esperienza al Centro? † † † † Annotazioni: _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 117 CFP: Sede operativa: Denominazione corso: Data di compilazione: Area di insegnamento: 1) Linguaggi 2) Scientifica 3) Tecnologica 4) Storico-socio-economica 5) Professionale 6) Altro___________________________________________ Gentile formatrice / formatore, a conclusione dell’anno di sperimentazione del progetto, Le chiediamo di esprimere un pa- rere sull’esperienza realizzata. Nelle pagine che seguono, troverà una serie di domande alle quali Le chiediamo di rispon- dere indicando l’informazione richiesta, o esprimendo una valutazione (mettendo una X sulla risposta scelta). È importante che risponda a tutte le domande. In coda a ciascuna area di indagine, abbiamo inserito uno spazio (“Considerazioni ag- giuntive”) in cui Le chiediamo di esprimere liberamente il Suo parere in merito all’area in oggetto. Grazie per la Sua preziosa collaborazione. 05 GRADIMENTO FORMATORI 118 1. INFORMAZIONI GENERALI E MOTIVAZIONI 1.1. Anno di nascita 1.2. Sesso F M 1.3. Titolo di studio 1.3.1. Licenza media 1.3.2. Qualifica professionale 1.3.3. Diploma 1.3.4. Laurea 1.3.5. Altro (specificare) ______________________________________ 1.4. È iscritto ad un albo professionale? NO SI 1.5. Se sì, indichi quale _____________________________________________________ 1.6. Qual è il suo incarico nel corso? (Può contrassegnare più risposte) 1.6.1. Formatore 1.6.2. Orientatore 1.6.3. Tutor 1.6.4. Coordinatore 1.6.5. Docente di sostegno 1.6.6. Altro (specificare) ______________________________________ 1.7. Da quanti anni insegna nella formazione professionale iniziale? 1.8. Cosa faceva prima? (Può contrassegnare più risposte) 1.8.1 Studente 1.8.2 Formatore 1.8.3 Occupato in un settore coerente rispetto a quello attuale 1.8.4 Occupato in un settore non coerente rispetto a quello attuale 1.8.5 Altro (specificare) ________________________________________ 1.9. Per quali motivi insegna nel corso sperimentale di IeFP? (Può contrassegnare più risposte) 1.9.1. Opportunità di lavoro 1.9.2. Per interesse generico nei confronti della FP 1.9.3. Per un interesse specifico nei confronti della FP 1.9.4. Perché non mi è possibile accedere ad altre attività 1.9.5. Altro (specificare) ______________________________________ 1.10. Considerazioni aggiuntive _____________________________________________________________________ 2. ALLIEVI 2.1. Gli allievi del corso corrispondono alle sue aspettative? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 119 2.2. Le interessano le questioni e le problematiche che i suoi allievi le pongono? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 2.3. Ritiene che i suoi allievi possano trovare giovamento dal corso nel suo insieme? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 2.4. Ritiene che i suoi allievi possano trovare giovamento dal suo insegnamento / servizio? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 2.5. Considerazioni aggiuntive _____________________________________________________________________ 3. PERSONALE FORMATIVO 3.1. Pensa che il personale formativo sia preparato sul piano dei contenuti? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 3.2. Le sembra che il personale formativo sia preparato sul piano tecnico-professionale? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 3.3. Le sembra che il personale formativo sia in grado di sviluppare una relazione amichevole e promozionale con gli allievi? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 3.4. Le sembra che il personale formativo sia in grado di sviluppare una didattica attiva e coinvolgente? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 3.5. Considerazioni aggiuntive _____________________________________________________________________ 4. PROGETTO 4.1. Il progetto formativo è adeguato sul piano professionale? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 4.2. Il progetto formativo è adeguato sul piano contenutistico? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 120 4.3. Il progetto formativo è adeguato in rapporto agli allievi del corso? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 4.4. Considerazioni aggiuntive _____________________________________________________________________ 5. ORGANIZZAZIONE 5.1. Trova che i tempi delle varie attività del Centro siano ben distribuiti? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 5.2. Trova che gli spazi a disposizione del Centro siano ben utilizzati? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 5.3. Trova che gli strumenti che il Centro mette a disposizione siano adeguati ai compiti che il personale e gli allievi sono chiamati a svolgere? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 5.4. Considerazioni aggiuntive _____________________________________________________________________ 6. APPRENDIMENTO 6.1. Il corso ha aiutato gli allievi ad acquisire conoscenze generali? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 6.2. Il corso ha aiutato gli allievi ad acquisire conoscenze tecnico-professionali? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 6.3. Il corso ha aiutato gli allievi ad acquisire capacità operative? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 6.4. Ritiene che quanto gli allievi hanno imparato al Centro possa essere proficuamente utilizzato nella loro futura vita professionale? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 6.5. Ritiene che quanto gli allievi hanno imparato al Centro possa essere proficuamente utilizzato per il proseguimento degli studi? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 6.6. Considerazioni aggiuntive _____________________________________________________________________ 121 7. TEMPI 7.1. Come trova il tempo dedicato a: (Per ogni riga dare 2 risposte: 1 per il tempo +/- “sufficiente” e l’altra per l’“adeguatezza”) “SUFFICIENZA” “ADEGUATEZZA” Insufficiente Sufficiente Eccessivo Inadeguato Adeguato Ottimale 7.1.1. Teoria 7.1.2. Laboratorio 7.1.3. Stage 7.1.4. Orientamento 7.1.5. Accoglienza 7.1.6. Accompagnamento 7.2. Considerazioni aggiuntive _____________________________________________________________________ 8. SODDISFAZIONE E FUTURO 8.1. Si ritiene soddisfatto della sua esperienza nel corso? per niente poco abbastanza molto 1 2 3 4 8.2. Consiglierebbe questo lavoro ad un suo amico/ad una sua amica? Sì No 8.3. Nel prossimo futuro, cosa intende fare? 8.3.1. Continuare questa esperienza 8.3.2. Continuare nelle funzioni attuali, ma in un altro tipo di corso 8.3.3. Modificare le attuali funzioni entro il corso 8.3.4. Modificare le attuali funzioni entro il Centro 8.3.5. Modificare le attuali funzioni fuori dal Centro 8.3.6. Altro (specificare) ______________________________________ 8.4. Considerazioni aggiuntive _____________________________________________________________________ Annotazioni Scriva di seguito le sue osservazioni e i suoi suggerimenti _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ Grazie per la collaborazione! 122 CFP: _____________________________ Sede operativa: _______________________________ Denominazione corso: ___________________________________________________ Data di compilazione: ______________ La presente scheda ha l’obiettivo di fissare in termini sintetici il progetto formativo per individuare in che modo sono stati delineati gli snodi fondamentali dello stesso. La scheda delinea un “modello formativo” concordato in sede progettuale. Si chiede di compilare la scheda in chiave interpretativa – con l’ausilio delle note indi- cate – in modo da far emergere le modalità reali in cui sono stati previsti ed attuati gli ele- menti indicati. 1. SCUOLE Livello di coinvolgimento 1.1. ❏ segnalazione Come? _________________________________________________________ 1.2. ❏ iscrizione Come? _________________________________________________________ 1.3. ❏ incontri periodici Come? _________________________________________________________ 1.4. ❏ partecipazione a momenti di programmazione Come? _________________________________________________________ 1.5. ❏ partecipazione a momenti di verifica/miglioramento Come? _________________________________________________________ 1.6. ❏ altro: ___________________________________________________________ Come? _________________________________________________________ 06 VALUTAZIONE COMPLESSIVA DEL CORSO A cura del Direttore/Coordinatore 123 2. ALTRE STRUTTURE Livello di coinvolgimento 2.1. ❏ Centri per l’Impiego Come? _________________________________________________________ 2.2. ❏ Servizi di Orientamento Come? _________________________________________________________ 2.3. ❏ Servizi socio-assistenziali Come? _________________________________________________________ 2.4. ❏ Parrocchie Come? _________________________________________________________ 2.5. ❏ Associazioni e gruppi Come? _________________________________________________________ 2.6. ❏ altro: ___________________________________________________________ Come? _________________________________________________________ 3. FAMIGLIE Livello di coinvolgimento 3.1. ❏ iscrizione Come? _________________________________________________________ 3.2. ❏ incontri periodici Come? _________________________________________________________ 3.3. ❏ partecipazione a momenti di programmazione Come? _________________________________________________________ 3.4. ❏ partecipazione a momenti di verifica/miglioramento Come? _________________________________________________________ 3.5. ❏ altro: ___________________________________________________________ Come? _________________________________________________________ 4. IMPRESE Livello di coinvolgimento 4.1. ❏ nella progettazione Come? _________________________________________________________ 4.2. ❏ nell’orientamento e nelle visite Come? _________________________________________________________ 4.3. ❏ nello stage Come? _________________________________________________________ 4.4. ❏ altro: __________________________________________________________ Come? _________________________________________________________ 5. ACCOGLIENZA È stata fatta l’accoglienza? 5.1. ❏ SI 5.2. ❏ NO Come? _________________________________________________________ 124 6. ORIENTAMENTO Modalità di svolgimento 6.1. ❏ si svolge prima dell’iscrizione, in integrazione con la scuola secondaria di I e II grado 6.2. ❏ consiste nella presentazione del corso 6.3. ❏ si svolge nella fase iniziale con materiali, incontri con testimoni, visite aziendali… 6.4. ❏ è un percorso integrato nella progettazione formativa con azioni periodiche 6.5. ❏ altro: ___________________________________________________________ 7. BILANCIO PERSONALE Viene effettuato? 7.1. ❏ SI 7.2. ❏ NO (se SI) Come viene fatto ? _______________________________________________ Quando? _______________________________________________________ 8. GESTIONE CREDITI/PASSERELLE 8.1 - Sono state realizzate delle passerelle? 8.1.1. ❏ SI 8.1.2. ❏ NO (vai al n. 9) (se SI) Di che tipo? 8.1.1.1. ❏ da e per la scuola o altri CFP Come ? __________________________________________ 8.1.1.2. ❏ da e per il lavoro/apprendistato Come ? __________________________________________ 8.2 - È stato attuato il riconoscimento dei crediti in ingresso (“modello C”)? 8.2.1. ❏ SI 8.2.2. ❏ NO (se SI) Con quali modalità sono stati riconosciuti i crediti in ingresso? ____________________________________________________________ 8.3 - È stata attuata la gestione dei crediti in uscita? 8.3.1. ❏ SI 8.3.2. ❏ NO (se SI) Con quali modalità vengono certificati i crediti in uscita? 8.3.1.1. ❏ certificato competenze (“modello B”) 8.3.1.2. ❏ altro 125 9. RECUPERI/APPROFONDIMENTI 9.1 - Sono state realizzate unità formative di recupero? 8.1.1. ❏ SI 8.1.2. ❏ NO (se SI) In quali fasi ? ______________________________________________ Come? (contenuti/esperienze) __________________________________ 9.2 - Sono state realizzate unità formative di approfondimento? 9.2.1. ❏ SI 9.2.2. ❏ NO (se SI) In quali fasi ? ______________________________________________ Come? (contenuti/esperienze) __________________________________ 10. MODULARITÀ Il percorso formativo è stato realizzato in forma modulare? 10.1. ❏ SI 10.2. ❏ NO (se SI) Come? ____________________________________________________ (se NO) In quale altro modo è stato realizzato il percorso formativo? ___________________________________________________________ 11. METODOLOGIE DIDATTICHE Le metodologie: 11.1. ❏ sono state distinte tra area culturale e tecnico-professionale 11.2. ❏ prevedono forme di interdisciplinarità 11.3. ❏ prevedono forme di simulazione 11.4. ❏ prevedono approcci didattici per centri d’interesse 11.5. ❏ altro:______________________________________________________ 12. VALUTAZIONE Quali strumenti vengono utilizzati per valutare: 12.1. le conoscenze:__________________________________________________ 12.2. le abilità: ______________________________________________________ 12.3. le capacità: ____________________________________________________ 12.4. le competenze:__________________________________________________ 126 13. LIBRETTO PERSONALE E PORTFOLIO 13.1 È stato compilato il libretto personale per tutti gli allievi? 13.1.1.❏ SI 13.1.2.❏ NO 13.2 È stato compilato il portfolio delle competenze per tutti gli allievi? 13.2.1.❏ SI 13.2.2.❏ NO 127 CFP: Sede operativa: Denominazione corso: Annualità: TERZA Data di consegna: ISTRUZIONI Il questionario ha lo scopo di raccogliere le impressioni delle famiglie (genitori o chi ne fa le veci) sull’esperienza vissuta dagli allievi del Centro di formazione professionale durante questo anno. Dopo ogni domanda, troverete un breve spazio che potrete utilizzare per commentare le risposte date. In fondo al questionario è stato inoltre riservato uno spazio per ulteriori osservazioni e suggerimenti su qualsiasi aspetto del corso. I suggerimenti e le valutazioni espresse saranno preziosi contributi per il migliora- mento della proposta formativa. GRAZIE PER LA COLLABORAZIONE 07 GRADIMENTO FAMIGLIE La compilazione della prima pagina è a cura del Centro di formazione 128 1) Ritiene che il ragazzo partecipi volentieri alle attività proposte nel corso frequen- tato? Per nulla Poco Abbastanza Molto † † † † Commenti:____________________________________________________________ _____________________________________________________________________ 2) Ritiene che gli argomenti affrontati e le attività svolte siano importanti e utili per il futuro professionale del ragazzo/a ? Per nulla Poco Abbastanza Molto † † † † Commenti:____________________________________________________________ _____________________________________________________________________ 3) Ritiene soddisfacenti i risultati raggiunti dal ragazzo /a rispetto alla sua prepara- zione all’inizio del corso? Per nulla Poco Abbastanza Molto † † † † Commenti:____________________________________________________________ _____________________________________________________________________ 4) Ritiene che il ragazzo/a abbia maturato la capacità di socializzare e collaborare con gli altri? Per nulla Poco Abbastanza Molto † † † † Commenti:____________________________________________________________ _____________________________________________________________________ 5) Ritiene utile ed efficace la presenza di una persona di riferimento all’interno del corso? (coordinatore del corso, oppure tutor, oppure responsabile del corso) Per nulla Poco Abbastanza Molto † † † † Commenti:____________________________________________________________ _____________________________________________________________________ 6) Ritiene sufficienti i momenti di incontro preposti per favorire la collaborazione e lo scambio fra il Centro di formazione e le famiglie? Per nulla Poco Abbastanza Molto † † † † Commenti:____________________________________________________________ _____________________________________________________________________ 129 7) Ritiene che gli ambienti a disposizione dei ragazzi/e nel Centro di formazione siano adeguati alle attività svolte? (aule, laboratori, aule informatiche, ecc.) Per nulla Poco Abbastanza Molto † † † † Commenti:____________________________________________________________ _____________________________________________________________________ 8) Ritiene soddisfacente il tempo dedicato alle varie attività del corso? Per nulla Poco Abbastanza Molto † † † † Commenti:____________________________________________________________ _____________________________________________________________________ 9) Ritiene adeguati gli strumenti messi a disposizione dal Centro di formazione per supportare le attività che i ragazzi devono svolgere? (computer, macchine, libri, dispense, materiali per le esercitazioni, ecc.) Per nulla Poco Abbastanza Molto † † † † Commenti:____________________________________________________________ _____________________________________________________________________ 10) Ritiene soddisfacenti nell’insieme i servizi offerti dal Centro di formazione? (orientamento, attività formative, segreteria, animazione, mensa, ecc.) Per nulla Poco Abbastanza Molto † † † † Commenti:____________________________________________________________ _____________________________________________________________________ 11) Consigliereste ad altri il nostro Centro? Sì No Forse † † † OSSERVAZIONI E SUGGERIMENTI _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ _________________________________________________________________________ 131 ALLEGATO Scheda normativa e legislativa della Sicilia REGIONE SICILIA Aggiornato al marzo 2007 1. NORMATIVA VIGENTE 1.1. Legge/i sulla formazione professionale – Legge Regionale n. 24 del 6 marzo 1976, “Addestramento professionale dei lavoratori”, in G.U.R.S. n. 13 del 09.03.1976 – Legge Regionale n. 12 del 22 04 1987, “Provvedimenti in favore del personale della formazione professionale”, in G.U.R.S. n. 17 del 24.04.1987 – Legge Regionale n. 36 del 21 09 1990, “Norme modificative ed integrative della legge 28 febbraio 1987, n. 56 e delle leggi regionali 23 gennaio 1957, n. 2, 27 dicembre 1969, n. 52 e 5 marzo 1979, n. 18, in materia di disciplina del collocamento e di organizzazione del mercato del lavoro. Norme integrative dell’articolo 23 della legge 11 marzo 1988, n. 67, concernente attività di uti- lità collettiva in favore dei giovani”, in G.U.R.S. n. 45 del 29.09.1990 – Legge Regionale n. 27 del 15 maggio 1991, “Interventi a favore dell’occupa- zione”, in G.U.R.S. n. 25 del 18.05.1991 – Legge Regionale n. 25 del 1 settembre 1993, “Interventi straordinari per l’oc- cupazione produttiva in Sicilia”, in G.U.R.S. n. 42 del 06.09.1993 – Legge Regionale n. 30 del 7 agosto 1997, “Misure di politiche attive del lavoro in Sicilia. Modifiche alla legge regionale 21 dicembre 1995, n. 85. Norme in materia di Attività produttive e di Sanità. Disposizioni varie”, in G.U.R.S. n. 43 del 11.08.1997 – Legge Regionale n. 24 del 26 11 2000, “Disposizioni per l’inserimento lavora- tivo dei soggetti utilizzati nei lavori socialmente utili. Norme urgenti in ma- teria di lavoro ed istituzione del fondo regionale per l’occupazione dei dis- abili”, in G.U.R.S. n. 54 del 28.11.2000 – Legge Regionale n. 23 del 23 12 2002, “Norme finanziarie urgenti. Variazioni al bilancio della Regione siciliana per l’anno finanziario 2002. Seconda mi- sura salva deficit”, in G.U.R.S. n. 59 del 27.12.2002 132 1.2. Normativa sull’apprendistato – Decreto Assessoriale del 19 gennaio 2005, Approvazione del “Protocollo d’in- tesa per la realizzazione di sperimentazioni per l’apprendistato del 8 ottobre 2004” 1.3. Normative / delibere sull’accreditamento – Decreto Assessoriale n. 872 del 12 aprile 2005 “Accreditamento delle sedi for- mative e orientative. Linee guida per le visite di audit. Finalità, Procedure e Modalità di svolgimento”, in G.U.R.S. n. 19 del 06.05.2005 – Decreto del 13 aprile 2006, “Disposizioni 2006 per l’accreditamento delle sedi orientative e formative degli organismi operanti nel territorio della Regione siciliana”, in G.U.R.S. n. 32 del 30.06.2006, S.O. 2 – Decreto Assessoriale n. 1037 del 13 aprile 2006, Approvazione “Disposizioni 2006 per l’accreditamento delle sedi orientative e formative degli organismi operanti nel territorio della Regione siciliana” 2. NUOVE PROPOSTE Diritto dovere – Protocollo d’intesa fra la Regione Siciliana, il MIUR e il MLPS, “Per la realiz- zazione dell’anno scolastico 2003/04 di una offerta formativa sperimentale di istruzione e formazione professionale”, 18.09.2003 – Decreto 27 febbraio 2006, “Approvazione del Piano regionale dell’offerta for- mativa - 2006, obiettivi Diritto/dovere alla formazione (DDF), Formazione continua e permanente (FC e FP), Formazione ambiti speciali (FAS) ed Ap- prendistato (APPR)”, in G.U.R.S. n. 16 del 31.03.2006 – Accordo “Per la realizzazione del Protocollo d’intesa fra la Regione Siciliana, il Ministero dell’ Istruzione, dell’Università e della ricerca (MIUR) e il Mini- stero del Lavoro e delle Politiche Sociali (MLPS), firmato a Roma in data 18.09.2003, riguardante l’avvio di una offerta formativa sperimentale di istru- zione e formazione professionale di cui alla legge 28 marzo 2003, n. 53” – Accordo del 26 gennaio 2007 tra Regione e USR della Sicilia sui percorsi for- mativi previsti dalla Finanziaria 2007 per l’innalzamento dell’obbligo di istru- zione di 2 anni dopo la III media 133 Indice Sommario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Parte I IL QUADRO TEORICO Capitolo 1 IL DIRITTO-DOVERE ALL’ISTRUZIONE E ALLA FORMAZIONE. BILANCIO DI UNDIBATTITO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 1. La prospettiva pedagogica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 1.1. I contenuti del diritto all’educazione e i soggetti protetti . . . . . . . . . . . 15 1.2. Le strategie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 1.2.1. Le strategie dell’eguaglianza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 1.2.2. Le strategie della personalizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 1.2.3. Le strategie della corresponsabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18 1.3. Obbligo o diritto-dovere? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 2. Il recente cammino delle riforme ordinamentali in Italia . . . . . . . . . . . . . 21 2.1. Un diritto ancora inattuato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 2.2. La riforma Berlinguer (Legge 30/2000 sul riordino dei cicli) . . . . . . . . 23 2.3. La Legge Moratti (Legge delega 53/03) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26 2.4. Il decreto legislativo sul diritto-dovere e i percorsi sperimentali triennali 28 3. Conclusione. Verso l’obbligo di istruzione: un ritorno al passato? . . . . . . 32 Parte II L’INDAGINE SUL CAMPO NEL QUADRO DELLA SPERIMENTAZIONE DEL DIRITTO-DOVERE Capitolo 2 I PERCORSI TRIENNALI DEL DIRITTO-DOVERE NEI CFP DEL CNOS-FAP E DEL CIOFS/FP DELLA SICILIA (2000-05). UN QUADRO SINTETICO DELLE ATTIVITÀ FORMATIVE PREGRESSE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 1. I Centri del CNOS-FAP della Sicilia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 134 1.1. Relazione del CFP di Catania-Barriera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 1.2. Relazione del CFP di Catania-Salette . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38 1.3. Relazione del CFP di Ragusa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 1.4. Relazione del CFP di Misterbianco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 1.5. Relazione del CFP di Palermo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42 1.6. Relazione del CFP di Gela . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 2. I Centri del CIOFS/FP della Sicilia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44 2.1. Presupposti didattici e formativi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44 2.2. Valutazione quali-quantitativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 2.3. Sintesi dei dati sull’attività formativa relativamente agli anni 2000-2005 45 Capitolo 3 L’INDAGINE SUL CAMPO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 1. Caratteristiche dei Centri, degli allievi, dei formatori e dell’offerta forma- tiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 1.1. I Centri e l’offerta formativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 1.2. Caratteristiche degli allievi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54 1.3. Caratteristiche dei formatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55 1.4. Forme di collaborazione con gli allievi, le famiglie, le imprese del terri- torio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 1.5. Le strategie della qualità formativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58 1.6. Il sistema di valutazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 2. Valutazione della sperimentazione da parte dei diversi attori: allievi, formatori, coordinatori e genitori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61 2.1. Il gradimento degli allievi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61 2.1.1. Valutazione dei contenuti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63 2.1.2. Valutazione dei formatori da parte degli allievi . . . . . . . . . . . . . . 64 2.1.3. Valutazione dei metodi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65 2.1.4. Valutazione dell’organizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66 2.1.5. Valutazione degli apprendimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66 2.1.6. Valutazione della distribuzione degli orari . . . . . . . . . . . . . . . . . 67 2.1.7. Valutazione complessiva dell’esperienza da parte degli allievi . . 68 2.2. Il gradimento dei formatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69 2.2.1. Valutazione degli allievi da parte dei formatori . . . . . . . . . . . . . . 70 2.2.2. Valutazione del personale da parte dei formatori . . . . . . . . . . . . 70 2.2.3. Valutazione del progetto del corso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71 2.2.4. Valutazione dell’organizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72 2.2.5. Valutazione degli apprendimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72 2.2.6. Valutazione della distribuzione dei tempi . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73 2.2.7. Valutazione complessiva dell’esperienza dei corsi . . . . . . . . . . . 74 2.3. Valutazione delle azioni formative da parte dei coordinatori . . . . . . . . 74 135 2.3.1. Valutazione della partecipazione degli allievi da parte dei coordi- natori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 2.3.2. Valutazione dell’orientamento degli allievi da parte dei coordi- natori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 2.3.3. L’esecuzione del progetto formativo e la gestione degli interven- ti di modifica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 76 2.3.4. La qualità della docenza e della didattica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78 2.3.5. Il clima dei rapporti in aula e fuori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78 2.3.6. L’adeguatezza dell’organizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79 2.4. Valutazione complessiva del corso da parte dei coordinatori . . . . . . . . 80 2.4.1. Il coinvolgimento delle parti interessate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 80 2.4.2. La realizzazione delle azioni formative più rilevanti . . . . . . . . . . 82 2.5. Valutazione complessiva del corso da parte dei genitori . . . . . . . . . . . . 85 2.5.1. Valutazione da parte dei genitori del CNOS-FAP . . . . . . . . . . . . 85 2.5.2. Valutazione da parte dei genitori del CIOFS/FP . . . . . . . . . . . . . 87 Osservazioni conclusive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89 Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 Appendice: Gli strumenti di rilevazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 97 Allegato: Scheda normativa e legislativa della Sicilia . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131 Indice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net aprile 2007

Atti del XVIII Seminario di Formazione Europea. Standard formativi nell'istruzione e nella formazione professionale. Roma, 7-9 settembre 2006

Autore: 
Sede Nazionale CIOFS/FP
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2007
Numero pagine: 
233
CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 102 Roma, Hotel Divino Amore “Casa del Pellegrino” 7/9 Settembre 2006 SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA XVIII EDIZIONE Standard formativi nell’Istruzione e nella Formazione Professionale CIOFS/FP Centro Italiano Opere Femminili Salesiane Formazione Professionale Forma Associazione Nazionale Enti di Formazione Professionale CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 1 Il coordinamento scientifico del Seminario è stato condotto da Lauretta Valente e Angela Elicio della Sede Nazionale del CIOFS-FP. Autori del volume sono: Paola Bottaro, Claudio Cecchini, Margherita Dal Lago, Novella Gigli, Jean Leonard Touadì (cap. 1) Anna D’Arcangelo, Michele Pellerey, Lauretta Valente (cap. 2) Giulia Antonelli, Maurizio Drezzadore, Luciano Falchini, M. Maddalena Novelli, Franca Rizzuni, M. Teresa Sarpi, Mario Tonini (cap. 3) Michele Colasanto, Gabriella Di Francesco, Arduino Salatin (cap. 4) Vittoria Gallina, Dario Nicoli, Bruno Scazzocchio, Alessandra Tomai, Sergio Viglierchio (cap. 5) Olga Turrini (cap. 6) Fiorella Farinelli, Giuseppe Fioroni, Pietro Gelardi, Michele Pellerey (cap. 7) Sandra D’Agostino, Irene Gatti, Nadia Lombardi, Arduino Salatin, Domenico Sugamiele, Ismene Tramontano, Rosaria Ventura (cap. 8) Il cordinamento editoriale finale è stato curato da: Irene Gatti, Angela Elicio, Fabrizia Pittalà, Lauretta Valente Si ringraziano gli Operatori della Formazione Professionale e rappresentanti del: CIOFS-FP Abruzzo, CIOFS-FP Basilicata, CIOFS-FP Calabria, CIOFS-FP Campania, CIOFS-FP Emilia Romagna, CIOFS-FP Friuli Venezia Giulia, CIOFS-FP Lazio, CIOFS-FP Liguria, CIOFS-FP Lombardia, CIOFS-FP Piemonte, CIOFS-FP Puglia, CIOFS-FP Sardegna, CIOFS-FP Sicilia, CIOFS-FP Toscana, CIOFS-FP Veneto. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 2 INDICE Premessa. Lauretta Valente - CIOFS-FP 5 1. Apertura del Seminario 1.1 - Saluti delle Autorità 9 Margherita Dal Lago - CIOFS Novella Gigli - CIOFS-FP Lazio 11 Claudio Cecchini - Assessorato alle Politiche Sociali - Provincia di Roma 13 Jean Leonard Touadì - Assessorato all’Università e alle Politiche Giovanili - Comune di Roma 16 Paola Bottaro - Dipartimento XI, Servizi per il lavoro e la formazione - Provincia di Roma 18 2. Presupposti per la costruzione degli standard 2.1 - Quadro di riferimento e contesto del seminario Lauretta Valente - CIOFS-FP 23 2.2 - Gli standard formativi: implicazioni pedagogiche, psicologiche e didattiche nella loro formulazione, utilizzazione operativa e valutazione. Michele Pellerey - UPS 26 2.3 - Processo di costruzione degli standard professionali e formativi nell’attuale contesto italiano. Anna D’Arcangelo - ISFOL 49 3. Esperienze e punti di vista sugli standard 3.1 - Introduzione. Maurizio Drezzadore - ENAIP 57 3.2 - Presupposti per la costruzione degli standard Luciano Falchini - Regione Toscana 62 3.3 - Il dialogo degli apprendimenti nell’integrazione tra istruzione e formazione professionale Giulia Antonelli - Regione Emilia Romagna 73 3.4 - Le esperienze e i percorsi integrati nella Regione Lazio M. Maddalena Novelli, M. Teresa Sarpi - Uff. Regionale Scolastico Lazio 84 3.5 - Punti di vista sugli standard: l’esperienza di ENAIP Franca Rizzuni - ENAIP 88 3.6 - Punti di vista sugli standard. L’esperienza del CNOS-FAP e del CIOFS-FP. Mario Tonini - CNOS-FAP 98 3 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 3 4. Standard e valutazione. Confronto con l’Europa 4.1 - Considerazioni a margine degli standard professionali e formativi. Michele Colasanto - FORMA 121 4.2 - Il sistema di certificazione nazionale ed europeo (EQF ed ECVET). Gabriella Di Francesco - ISFOL 126 4.3 - Standard professionali e formativi: confronto con alcune esperienze europee. Arduino Salatin - ISRE 131 5. Standard e valutazione 5.1 - Introduzione. Dario Nicoli - Università Cattolica di Brescia 145 Intervengono: 5.2 - Alessandra Tomai - Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale 150 5.3 - Vittoria Gallina - INVALSI 153 5.4 - Bruno Scazzocchio - Confindustria 158 5.5 - Sergio Viglierchio - Regione Piemonte 162 6. Programmazione dei Fondi strutturali 2007-2013 6.1 - La programmazione dei Fondi strutturali 2007-2013: stato dell’arte. Olga Turrini - ISFOL 169 7. Prospettive istituzionali in rapporto alla predisposizione degli standard 7.1 - Introduzione Michele Pellerey - UPS 175 Intervengono: 7.2 - Giuseppe Fioroni - Ministero della Pubblica Istruzione 177 7.3 - Pietro Gelardi - CISL 178 7.4 - Fiorella Farinelli - Ministero della Pubblica Istruzione 181 8. Contributi dei Gruppi di Lavoro 8.1 - La costruzione degli standard professionali e formativi - Confronto con altri Paesi. Irene Gatti - Ministero della Pubblica Istruzione, Rosaria Ventura - CIOFS-FP Sicilia, Nadia Lombardi - CIOFS-FP Emilia Romagna 187 8.2 - Competenze e standard formativi - Ipotesi di correlazione. Arduino Salatin - ISRE 193 8.3 - La normativa esistente in Italia - Possibili agganci applicativi. Domenico Sugamiele - Esperto in sistemi formativi 196 8.4 - Standard professionali e formativi e inserimento lavorativo. Sandra D’Agostino - ISFOL 201 8.5 - La valutazione degli apprendimenti nella formazione professionale. Ismene Tramontano - ISFOL 205 9. Normativa/Bibliografia/Sitografia 211 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 4 Premessa Presentiamo gli Atti della XVIII edizione del Seminario di Formazione Europea, che ha visto la presenza del Ministro Giuseppe Fioroni, di Assessori, Funzionari, Esperti e Ricercatori, e la partecipazione attiva degli operatori del settore della Formazione Professionale di diverse organizzazioni provenienti da quasi tutte le regioni italiane. Il tema trattato, Standard formativi nell’Istruzione e nella Formazione Professionale, è stato di immediata attualità cogliendo il dibattito e le preoccupa- zioni per la sostenibilità della Formazione Professionale. Ai contenuti degli Atti è stata data una struttura prevalentemente fedele allo svol- gimento dell’evento con alcuni pochi spostamenti e l’aggiunta di documenti che hanno consentito di rispettarne la logica. La registrazione ha permesso di riprodurre fedelmente le relazioni, riviste succes- sivamente dagli autori. Purtroppo un problema tecnico ha mandato perduti alcu- ni interventi tra cui quello dell’On.le Silvia Costa. Ce ne scusiamo vivamente e la ringraziamo per essere stata con noi. Così come ringraziamo in primo luogo il Ministro Fioroni, i relatori, tutte le autorità intervenute, gli operatori e gli Enti di formazione per la loro partecipazione attiva ed il loro contributo, in particolare ringraziamo le associazioni CONFAP e FORMA. Lauretta Valente 5 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 5 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 6 1. APERTURA DEL SEMINARIO CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 7 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 8 1.1 - Saluti Autorità Margherita Dal Lago Presidente Ente CIOFS Un saluto e un ringraziamento da parte dell’Ente CIOFS a tutte le autorità pre- senti, ecclesiastiche e civili; a tutti i Rappresentanti degli Enti Locali, del Ministero del Lavoro e dell’Istruzione; un grazie a tutti gli esperti che, non solo in questo evento, e spesso con amicizia e simpatia, ci aiutano a proseguire nell’impegno di dare qualità a percorsi formativi che hanno come destinatari i giovani. Un saluto particolare agli operatori dei nostri Centri, che di anno in anno si danno appuntamento a questo seminario quasi per cominciare e accogliere insieme la sfida educativa che richiede sempre di più una professionalità alta. Anche quest’anno il tema del Seminario Europa tocca un punto nevralgico del processo di Riforma del Sistema di Istruzione e Istruzione e Formazione Professionale. Sono ormai 5 anni che il tema approfondisce uno degli aspetti inerenti tale pro- cesso, che risulta spesso faticoso, e che, lo riconosciamo, è complesso. L’Associazione CIOFS-FP ha il merito di aver continuamente fatto ricerca e speri- mentazione attorno ai temi dibattuti e di aver convocato per dibatterli i protago- nisti, le diverse parti politiche che, proprio in merito alla Riforma, assumono posi- zioni differenti. Un anno fa, in Sardegna, l’auspicio rivolto ai politici era quello di non dimentica- re i ragazzi, nel momento in cui si fanno le leggi; di non dimenticare le famiglie e le loro richieste. Ma si tratta anche di non dimenticare la domanda di professionalità vecchia e nuove che nasce sul territorio. Fermarci quest’anno sul tema degli standard formativi ha un doppio significato: puntare sulla creatività e intraprendenza delle istituzioni formative e sulla loro autonomia; riflettere su un denominatore comune al sistema di istruzione. Sappiamo bene che da parecchi anni si usano parole nuove su cui occorre costruire significati comuni. In realtà - per quella passione educativa che ci caratterizza - molto abbiamo fatto, anche con altre iniziative promosse tra scuola e formazione professionale, per ‘precedere’ il dettato della Legge, ma siamo consapevoli che di lavoro ce n’è ancora tanto. 9 APERTURA DEL SEMINARIO CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 9 Sappiamo che molte Regioni, in assenza di precisi Regolamenti nazionali, hanno messo in campo Direttive per rendere possibile il riconoscimento dei percorsi. Perché la pluralità dei percorsi richiede di precisare gli standard formativi. Il mio augurio è che la riflessione e il confronto di esperienze e di ‘posizioni’ che stiamo per cominciare dia vigore ad un cammino che mentre lascia libertà e rico- nosce la diversità delle esperienze, traccia anche orizzonti precisi e standard di apprendimento. La regione Piemonte auspica - in una sua recentissima delibera (D.G.R. n. 152- 3672 del 2 agosto 2006) - un repertorio nazionale unico delle professioni, che contenga i diversi standard professionali minimi per rendere leggibili sia le speci- ficità, sia i diversi livelli di qualificazione. In questa direzione stiamo lavorando insieme. Ed è bello attivare scambio tra prospettive diverse - operatori e formatori, esper- ti, politici - per non rischiare che i documenti siano troppo lontani dalla realtà dei giovani, dalle loro modalità di apprendimento. È prerogativa del CIOFS-FP aver lavorato sempre in prospettiva - con grande tenacia e audacia - senza mai rinunciare a verificare sul campo le intuizioni e gli obiettivi perseguiti. Sarà così anche in questi giorni. E mentre ringrazio ognuno dei presenti, voglio esprimere un grazie particolare a tutti i formatori e/o docenti. Alla loro passione educativa e alla loro capacità di prendersi a cuore i giovani è affidato il futuro della nostra società. Con Don Bosco noi crediamo che la società si rinnova … a partire dai giovani. Buon lavoro! … ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 0 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 10 Novella Gigli Presidente CIOFS-FP Lazio A me spetta il compito piacevole di darvi il saluto di accoglienza nel Lazio. Il CIOFS-FP Lazio è veramente orgoglioso di poter ospitare la XVIII edizione del seminario di formazione europea. Siamo particolarmente contenti di accogliervi in questo luogo che è il santuario di Roma, la Madonna del Divino Amore che ha libe- rato Roma dalla guerra e che la libera ogni giorno da mille problemi. Don Bosco, spaventato per la missione che l’aspettava, ricevette un’indicazione da un perso- naggio misterioso: “ti darò la maestra, che ti insegnerà la sapienza, t’insegnerà che cosa e come devi fare per aiutare i ragazzi”. Quindi la Madonna per noi salesiani è un pilastro fondamentale; anche oggi pensiamo di averne bisogno, soprattutto di fronte agli attentati palesi ed occulti alla nostra opera, in modo particolare alla formazione professionale. In questo seminario vogliamo cercare la convergenza di linee educative e formative, soprattutto per poter proporre alle istituzioni un per- corso adeguato alle necessità reali dei nostri ragazzi. Sono veramente tanti i ragaz- zi che ci interpellano, che continuano a domandarci di dare un senso alla loro vita: sono i ragazzi della formazione professionale che forse hanno solo noi ancora per trovare un segno di speranza. Noi vorremmo continuare questa missione che don Bosco ci ha lasciato, vorremmo parlare con le istituzioni e soprattutto continuare ad offrire un servizio proficuo a questi ragazzi. Servizio non solo per i ragazzi ma anche per la società, che ha ancora bisogno del contributo della formazione pro- fessionale. Siamo qui per lavorare questi tre giorni e siamo contenti della presen- za significativa di figure istituzionali con cui vogliamo condividere la nostra pro- posta, sulla base dell’esperienza che vogliamo in qualche modo trasmettere. Il mio augurio, inoltre, è che in questi giorni possiamo concretizzare proposte sulle metodologie e sui percorsi, e soprattutto dialogare con le istituzioni. Auguro a ciascuno una buona permanenza e buon lavoro. Vorrei spendere una parola per ringraziare i nostri amici qui presenti. L’Assessore Cecchini, che rap- presenta il Presidente della Provincia di Roma Gasbarra, che non poteva essere oggi qui, ma che ci ha ascoltato e supportato in qualche momento particolarmen- te difficile, e siamo sicuri che si farà interprete della nostra urgenza educativa. L’assessore Touadì, che viene a nome del sindaco Veltroni, con il quale vorremmo continuare un dialogo anche nel Comune di Roma, sempre per poter creare nuove opportunità per l’educazione dei giovani. Permettetemi di indirizzare un saluto particolare a Paola Bottaro, dirigente per la Provincia di Roma del settore Formazione Professionale. In occasione di questo seminario nazionale mi sembra 1 1 APERTURA DEL SEMINARIO CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 11 doveroso ricordare suor Anita Della Ricca, fondatrice dell’Ente CIOFS e dell’Associazione CIOFS-FP. Suor Anita è qui presente, sicuramente ci segue ed è contentissima di noi tutti, sono sicura. Paola Bottaro ha lavorato tantissimi anni con suor Anita. L’ha sempre aiutata e sostenuta, fin da quando ha iniziato a lavorare in Regione. Paola Bottaro veramente è sempre stata il punto di riferimento istituziona- le, prima per suor Anita, attualmente per me come per tutto il CIOFS-FP Lazio. Abbiamo un’immensa gratitudine nei suoi confronti, quindi riteniamo la sua pre- senza oggi particolarmente significativa. È doveroso da parte mia leggere un fax che è arrivato dal Presidente della Regione Piero Marrazzo, il quale ci ringrazia per l’invito ma oggi è impegnato nella Conferenza delle Regioni. Il suo indirizzo di saluto recita: “desidero tuttavia far giungere il mio più sincero augurio per il pieno successo del seminario, unitamen- te alle mie migliori espressioni di cordialità. Il Presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo.” Leggo anche una comunicazione da parte del Sottosegretario al Ministero del Lavoro Rosa Rinaldi, Assessore alla Formazione Professionale e Vicepresidente della Provincia di Roma che nel mese di maggio è stata eletta Sottosegretario al Ministero del Lavoro: “si comunica che il sottosegretario Rosa Rinaldi per impro- rogabili impegni istituzionali precedentemente assunti non potrà partecipare al seminario di formazione europea. Ringrazia per l’invito e porge cordiali saluti.” Con ciò rinnovo il mio benvenuto, il mio augurio di buon lavoro a tutti. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 2 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 12 Claudio Cecchini Assessore alle Politiche Sociali e Rapporti Istituzionali - Provincia di Roma Vi porto con molta cordialità i saluti della Provincia di Roma e in particolare del nostro Presidente Enrico Gasbarra. Sono qui ad esprimere il nostro apprezzamen- to e la nostra condivisione non solo per questa vostra importante iniziativa, ma più in generale per la importantissima azione che esercitate in particolare sul nostro territorio provinciale, ma anche in tutta Italia. Sarò breve e poco formale, dal momento che in un seminario di studio sono le rela- zioni il cuore della giornata. Non ho in Provincia la delega della formazione professionale, sono l’Assessore alle Politiche Sociali, ma ho la delega dei rapporti istituzionali e quindi ho il compito di sostituire il Presidente quando lui per impedimenti di agenda non può essere presente in occasioni come queste. Oggi però qui lo sostituisco con un supplemen- to di soddisfazione sia per il rapporto personale di amicizia che mi lega a suor Novella Gigli, sia perché pur essendo Assessore da soli tre anni, non è la prima volta che ho la possibilità di apprezzare direttamente con affetto le opere salesia- ne femminili in Provincia e in tutta Italia. Nei diciannove anni precedenti ho lavo- rato alla Caritas diocesana di Roma, gli ultimi dieci ne sono stato il vicedirettore generale, quindi conosco da tempo cosa sono le opere salesiane femminili, e que- sto consentitemi di esplicitarvelo con simpatia e affetto. Per quanto riguarda il ruolo e l’azione nella Provincia di Roma rimando all’inter- vento successivo della nostra dirigente, Paola Bottaro, che rappresenta un perno della gestione amministrativa e della formazione professionale nella Regione Lazio e da alcuni anni svolge un prezioso lavoro in Provincia. Vorrei sottolineare solo due concetti: il valore e l’importanza della vostra iniziati- va, che discute un tema impegnativo, ma anche il metodo che vi caratterizza, quel- lo dell’appuntamento annuale, in un percorso di confronto e di condivisione. Siamo consapevoli che tutti ci troviamo in difficoltà, voi per il ruolo specifico che avete come enti di formazione, noi come istituzioni, perché ragioniamo su un tema piuttosto caldo da alcuni anni, inserito nel più ampio e complesso quadro di rifor- ma del sistema dell’istruzione in Italia. Le Province dal 2003 hanno ricevuto la delega ed hanno quindi un ruolo maggio- re nella formazione professionale, per cui, dopo anni di un rapporto diretto e spe- cifico con la Regione, vi trovate a dovere interloquire ora con le Province. È neces- sario che l’ente pubblico mantenga il suo protagonismo e non sia deresponsabiliz- zato rispetto al dovere di definire il quadro delle regole, e quindi questo quadro va 1 3 APERTURA DEL SEMINARIO CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 13 fatto in maniera condivisa con quelli che sono i protagonisti. Nelle nostre scelte interne abbiamo avuto l’ambizione di definire come ente anche un “polo pubbli- co” della formazione, decidendo di esaltare il ruolo di alcuni comuni nella titola- rità dei centri di formazione professionale sul territorio. Contemporaneamente ci siamo impegnati nel trovare gli equilibri per la valorizzazione e l’esaltazione del ruolo dei soggetti privati. Ritengo che non si debba guardare più di tanto alla natura del soggetto che fa le azioni, perché se un soggetto privato svolge un’azio- ne perché riceve denaro pubblico, è individuato anch’esso con un avviso pubblico e stipula una convenzione con l’ente pubblico, svolge di conseguenza un’azione pubblica di utilità comune. Con questo intendo dare evidenza alle giuste rivendi- cazioni del CIOFS-FP Lazio. In Provincia si è ragionato sul fatto che esaltare la missione pubblica e il protagonismo diretto dei Comuni non deve in ogni modo intaccare il giusto riconoscimento e l’azione dei soggetti privati convenzionati che svolgono un’azione pubblica. Quando gestivo le cooperative della Caritas mi capitava di discutere qualche volta con il Comune, perché non mi accontentavo di essere soltanto un soggetto gestore ma pretendevo di partecipare ai tavoli di definizione delle regole. Come voi rite- nevo, e ritengo, che chi tocca con mano la quotidianità è giusto che dia un contri- buto, e quindi, è giusto e necessario che i soggetti privati convenzionati debbano avere un ruolo nella definizione delle regole, nel momento in cui insieme al sog- getto pubblico si definisce il quadro normativo di riferimento. Su questi inevitabili rischi di contraddizione dobbiamo lavorare insieme perché dobbiamo salvaguardare la necessità che il pubblico abbia il suo ruolo di sogget- to pubblico, cercando di evitare i rischi di deresponsabilizzazione, come ad esem- pio quando all’ente pubblico qualche volta fa comodo un privato sociale che fun- ziona bene, perché è più facile finanziare progetti piuttosto che avere il coraggio di assumere decisioni. Quindi, il pubblico deve avere il ruolo di decidere, le deci- sioni vanno costruite assieme ai soggetti che operano sul campo, questi soggetti devono avere l’intelligenza e la capacità di coniugare, consentitemelo, il cuore, la testa e il portafoglio. Sono le motivazioni e gli ideali che danno ispirazione alla vostra azione, ma le azioni vanno ragionate ed inoltre, è anche necessario far qua- drare i conti. È chiaro che prioritario è il benessere dei ragazzi, destinatari delle azioni formative, ma c’è anche un livello occupazionale da considerare e i bilanci da far quadrare. È necessario trovare un equilibrio tra questi elementi, trovare un dialogo con le istituzioni, per poter dare un contributo alla definizione delle rego- le, ed è necessario che dentro queste possiate acquisire un vostro legittimo ruolo, nella trasparenza e nella regolarità, come fate da sempre in nome della qualità e della professionalità Come Provincia abbiamo attivato una serie di azioni promosse dalla Regione ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 14 Lazio, una serie di consultazioni ed un importante provvedimento ha definito finalmente le linee guida della nostra Regione per le Province, un contesto comu- ne di riferimento da cui poi ogni Provincia individua le sue scelte e gli avvisi pub- blici. È stato pubblicato un avviso, con scadenza nel mese di settembre, per l’as- segnazione di dieci milioni di euro di finanziamento, di cui sei milioni e mezzo di euro da riferirsi a corsi triennali e poco meno ai biennali. Questi sono gli spazi in cui dovete cercare collaborazione, penso che questi momenti di ragionamento e di riflessione siano sicuramente utili a voi ma consentano a noi di ricevere stimoli e suggerimenti. Abbiamo bisogno anche noi di essere, se necessario, criticati, stimo- lati e incalzati, e quindi aiutati. Auguri di buon lavoro. 1 5 APERTURA DEL SEMINARIO CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 15 Jean Leonard Touadì Assessore all’Università e alle Politiche Giovanili - Comune di Roma Vi porto i saluti del Sindaco di Roma, l’onorevole Walter Veltroni. Non avendo la specifica delega per la formazione e non occupandomi di formazione dirò solo alcune cose abbastanza brevi sulla città, i giovani e la formazione. Tengo ad evi- denziare che il quadro sociale dentro il quale spesso si svolge il vostro lavoro è quello della città, il quadro urbano. Parlare di città vuol dire soprattutto parlare di crescita delle megalopoli e dilatazione degli spazi materiali e tutto questo porta una grande disgregazione sociale. Quei paesini raccolti di un tempo sono soltanto retaggio del passato, esiste una grande disgregazione sociale che deriva proprio da questa dilatazione degli spazi materiali, con la conseguente perdita degli ancorag- gi tradizionali e dei riferimenti culturali, che hanno sempre guidato da secoli la vita delle comunità e dei singoli. Questo è il contesto dentro il quale molte volte si svolge il lavoro degli operatori. I giovani all’interno di questo che cosa diventano? Un’espressione molto usata, e secondo me anche abusata, è quella di “disagio giovanile”, anche se a volte il disa- gio giovanile in realtà non è altro che il disagio degli adulti che viene proiettato sui giovani. Proprio in presenza di questa disgregazione sociale, di questa perdita di ancoraggi tradizionali diventa necessario scommettere di nuovo sui giovani e di agire in tempo e contro tempo con loro e per loro. E questo per esempio è una delle cose che tutti i testi dell’Unione europea oggi raccomandano, sotto il segno della partecipazione. La parola partecipazione non è vuota, soprattutto per quanto riguarda i giovani, non possiamo essere noi a tracciare le politiche giovanili, le potremo tracciare solo se sapremo essere “obbedienti ai giovani” nel senso di ab audienses, ovvero in ascolto profondo e quotidiano delle istanze che dolorosamente e drammaticamen- te a volte esprimono. Scommettere su di loro, agire a tempo e contro tempo con loro e per loro, e per quanto mi riguarda nella formazione professionale. In un quadro di economia globalizzata, investita da cambiamenti veloci di natura tecnologica e di natura produttiva, in quella che il sociologo Bauman chiama la società liquida, l’economia liquida, che è chiamata ripetutamente a rivedere i pro- pri valori di riferimento e i propri modelli produttivi, non è facile tracciare degli standard formativi. Il metodo sicuramente è quello della falsificazione, dove ogni punto di arrivo diventa un nuovo punto di partenza, per mettere i ragazzi in grado di avere una solida formazione di base, quindi una capacità di reggersi su se stes- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 6 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 16 si, ma nello stesso tempo metterli in grado di leggere i mutamenti produttivi del- l’economia liquida globalizzata, che ormai avvengono nel giro di cinque a volte anche di tre anni, mentre prima ne servivano venticinque. In questo quadro, gli standard devono consentire ad una persona di acquisire la capacità di adattarsi a questa società liquida. Auguro quindi che i vostri lavori si svolgano serenamente e che siano fecondi e fruttuosi per il bene delle istituzioni che vi accompagnano, ma soprattutto per il bene di tutti i nostri giovani. Qualcuno diceva “se il futuro del mondo dipende dai giovani, guardando la condizione che è riservata ai giovani oggi, non c’è granchè da sperare per il futuro del mondo”. Spero che attraverso la formazione professio- nale questa speranza sia restituita ai giovani. 1 7 APERTURA DEL SEMINARIO CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 17 Paola Bottaro Dirigente Dipartimento XI Servizi per il lavoro e la formazione - Servizio II formazione profes- sionale - Provincia di Roma Devo dirvi che sono molto commossa per ciò che mi è stato detto sia da suor Lauretta che da suor Novella. Mi trovo verso la fine della carriera, sono trentatré anni che lavoro nella formazione professionale e penso che sia molto gratificante sentirsi dire di aver lavorato bene. Tengo, comunque, a sottolineare che aver lavorato bene è stato possibile perché dall’altra parte ci sono stati dei soggetti che hanno dato l’opportunità di farlo. L’Assessore Touadì parlava dei giovani: noi, come istituzione pubblica, abbiamo lavorato sempre con i salesiani per i giovani, questo ci ha sempre unito e ci ha fatto lottare. Il mondo della formazione è costantemente in movimento da sempre e ogni volta ci si è dovuti rimboccare le maniche per essere sempre al passo con le innovazio- ni e le esigenze dei giovani, e insieme abbiamo potuto lavorare bene, ripeto, anche come istituzioni, perché i soggetti privati che erano dall’altra parte avevano pro- fessionalità, strutture, attrezzature, risorse umane in grado di poter affrontare qualsiasi tipologia di innovazione e quant’altro. Questo stesso seminario, realizza- to ogni anno dal CIOFS-FP, denota proprio l’attenzione a seguire tutte le situazio- ni e costantemente informare i propri operatori e, quindi, adeguare questa capa- cità di portare i nostri giovani verso il successo. Infatti, in buona parte, essi hanno bisogno di essere sostenuti, in molti casi non hanno una famiglia alle spalle e non hanno avuto un’educazione con dei punti di riferimento; per questo è molto difficile poter costruire e ricominciare da capo attraverso loro. I giovani che escono dai vostri centri di formazione, e anche chia- ramente da quelli dei salesiani, hanno la possibilità di potersi immettere nel mondo del lavoro. L’anno scorso per la prima volta abbiamo terminato la speri- mentazione dei corsi triennali e molti dei nostri giovani hanno potuto continuare nella scuola media superiore. La legge 845 affrontava il discorso dei rientri scola- stici, ma questi rientri riguardavano i ragazzi che abbandonavano la scuola media superiore e venivano accolti nei nostri centri di formazione professionale; ma se i nostri ragazzi volevano passare alla scuola media superiore dovevano superare tutti gli esami, e, di conseguenza, c’erano grosse difficoltà. Invece per noi la situa- zione è differente, ricordo per esempio il centro di Colleferro dove il 90% dei ragazzi e delle ragazze che hanno terminato i percorsi triennali si sono iscritti alla scuola media superiore. Nella Provincia di Roma la media di coloro che hanno ter- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 8 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 18 minato e sono rientrati a scuola è del 60%. Questo significa che i ragazzi conti- nueranno nella scuola media superiore, molto probabilmente andranno all’univer- sità, ma significa anche che i processi, i contenuti, le metodologie sono state vali- de per fare in modo che si potesse continuare nell’educazione permanente di que- sti giovani che possono raggiungere dei traguardi migliori. Rivolgo anche io un piccolo pensiero a suor Anita. Ho lavorato molto con lei, mi ha insegnato molte cose che non conoscevo della formazione professionale, mi ricordo che nelle situazioni all’interno dell’ente la vedevo battagliera e diversa da come quando veniva in Regione Lazio. Con lei per la prima volta sono riuscita a realizzare i corsi di secondo livello, perché prima si facevano solo per i giovani fino ai 18 anni, poi siamo riusciti ad ottenere che entrambi questi percorsi fossero fatti sia dal CIOFS-FP che dal CNOS-FAP. Capisco le vostre preoccupazioni per il futuro della formazione professionale ma vi invito a pensare che non ci sono alternative a voi, perché non può essere sosti- tuita facilmente questa solidità di offerta per i nostri giovani. Penso che il nostro mondo, pur essendo turbolento e a volte colpito da vuoti legislativi, ci darà l’op- portunità di andare avanti proprio perché il nostro obiettivo è sempre quello di dare ai ragazzi un loro diritto, cioè quello di potersi formare per affrontare il mondo del lavoro. E finché saremo in grado di rispondere positivamente avremo sempre il successo di tutti quanti. 1 9 APERTURA DEL SEMINARIO CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 19 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 20 2. PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 21 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 22 2.1 - Quadro di riferimento e contesto del seminario Lauretta Valente Associazione CIOFS-FP Per esplicitare le motivazioni della scelta del tema ho ritenuto opportuno colloca- re l’evento nel processo di crescita professionale che gli Enti Storici della Formazione Professionale (FP) hanno curato in rapporto alla preparazione speci- fica degli operatori. L’evento si inserisce in una serie di studi realizzati in ordine alla attuazione della riforma del sistema scolastico e formativo nel nostro Paese. In particolare sono stati realizzati: lo studio di 17 comunità/famiglie professionali con la pubblicazio- ne di 11 guide formative che costituiscono già di per sé degli standard e conten- gono delle specifiche di riferimento per la attuazione del processo formativo; la realizzazione di un filone di sperimentazioni accolte e realizzate in diverse regio- ni; la messa in atto di attività interattive Scuola - FP; la attuazione di eventi, quali il Seminario di Formazione Europea, che hanno accompagnato l’evolversi della riforma e hanno contribuito al dibattito e diffuso formazione; la partecipazione al dibattito politico e, per quanto possibile e concesso, alla riflessione istituzionale; la messa a disposizione delle buone pratiche e del know how acquisito,... La scelta del tema Gli standard formativi si colloca ancora nel contesto della serie di iniziative e di impegni che sono seguiti agli obiettivi indicati dal Consiglio di Presidenza Europeo a Lisbona nel 2000 e che hanno previsto misure applicative in tutti i paesi dell’Unione. Nella preparazione dell’evento abbiamo ritenuto che il tema scelto fosse della mas- sima importanza in questo momento storico di riforme istituzionali per la forma- zione e l’istruzione, e di impegno per l’attuazione appunto degli obiettivi di Lisbona. Le precedenti edizioni dell’iniziativa costituiscono il lavoro pregresso che ci consente di affrontare il tema. A titolo esemplificativo ne enucleiamo alcuni tito- li: “L’Obbligo Formativo, il contributo della Formazione Professionale - Esperienze in Italia e in Europa;” “Il sistema dell’Istruzione e Formazione Professionale nel contesto della riforma - Significato e Percorsi”; “La Formazione Professionale fino alla Formazione Superiore - Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, “Il Territorio e il Sistema di Istruzione e Formazione Professionale - L’interazione istituzionale per la preparazione delle giovani generazioni all’inse- rimento lavorativo in rapporto agli obiettivi di Lisbona”. Di alcuni eventi sono stati pubblicati gli atti. L’approfondimento degli standard, sia dal punto di vista formativo che professio- 2 3 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 23 nale, riveste una importanza fondamentale in rapporto al tipo di approccio stu- diato e adottato dal canale della FP. Più volte nei nostri lavori abbiamo ritenuto importante specificare la necessità, per la FP, di un approccio epistemologico basato su uno studio di competenze in alter- nativa all’approccio basato prevalentemente sulle discipline. Questo può voler dire per l’FP l’adozione del sistema induttivo rispetto a quello deduttivo. Volendo esprimere visivamente il concetto: nel caso delle discipline la struttura epistemologica dell’apprendimento è affrontata a canne d’organo, nel caso della adozione delle competenze la struttura si configura a radar o a tela di ragno. Pur affermando la necessità di entrambi gli approcci nei processi dell’istruzione e della formazione, abbiamo ritenuto di assoluta necessità l’approfondimento delle competenze formativo-professionali, per il canale della FP, come più adeguato alla configurazione della domanda e come ipotesi più affidabile in rapporto al contri- buto per la soluzione al problema della dispersione scolastica. In questa prospettiva riteniamo importante approfondire, in rapporto alla costru- zione degli standard formativi, le specifiche metodologiche relative alla diversità degli approcci. Pur conservando un impegno unitario nel progetto di istruzione e formazione, la costruzione degli standard domanda una articolazione adeguata sia per gli aspetti comuni o generali che per quelli specifici in rapporto all’approccio adottato. In particolare la FP ha necessità di porre l’attenzione sull’aspetto professionale degli standard, come scelta induttiva, su cui far convergere con didattiche appro- priate la dimensione formativa. L’offerta credibile della opportunità per tutti all’istruzione e alla formazione passa anche, necessariamente, attraverso l’attenzione alla diversità degli stili cognitivi con cui la mente umana conosce e costruisce il proprio patrimonio di saperi. La motivazione che ha spinto alla scelta del tema nel contesto degli impegni degli Enti Storici della FP e dell’iniziativa seminariale, appare dunque chiara. Va nella linea applicativa della formazione continua degli operatori e del contributo al dibattito ed alle scelte istituzionali. Ci piacerebbe molto infatti avere lo spazio istituzionale per dialogare operativa- mente di più con gli organismi pubblici. Costituirebbe anche un riconoscimento dopo mezzo secolo di impegno nel settore. I contenuti scelti riguardano la dimensione pedagogica, la dimensione tecnica, quella istituzionale, quella operativa e sperimentale. Nel contesto di quest’ultima, un aspetto importante cui dare spazio è quello valutativo. Il filone epistemologico scelto porta con sé, oltre alla configurazione degli standard, la strutturazione di un sistema valutativo. Il rischio infatti è quello di considerare ciascuno di questi aspetti avulso dagli altri; ciascuno con riferimenti fondanti che non trovano ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 24 riscontro e collegamento con gli altri. La scelta di invitare al panel del secondo giorno l’INVALSI ha lo scopo di conoscere e verificare quanto il contesto valutati- vo istituzionale sia attento alla realtà di cui dibattiamo. Sul versante istituzionale il complesso di queste tematiche viene studiato in diver- se sedi: Regioni, ISFOL, Tecnostruttura, INVALSI… con un coordinamento a nostro parere non perfettamente chiaro, a cui finora non pare abbia interessato un coinvolgimento di chi lavora sul campo per mandato pubblico e lo fa con serietà e senso di solidarietà sociale. Un coinvolgimento maggiore delle realtà operative agevolerebbe i lavori e permetterebbe una migliore comprensione delle specifiche necessarie all’impegno formativo. Sarebbe auspicabile la presenza di FORMA e CONFAP ai tavoli del dibattito come esigenza di confronto con la dimensione operativa. 2 5 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 25 2.2 - Gli standard formativi: implicazioni pedagogiche, psicologiche e didattiche nella loro formulazione, utilizzazione operativa e valutazione1 Michele Pellerey Università Pontificia Salesiana 1. Introduzione Il termine “standard formativi” è stato introdotto all’inizio degli anni ottanta nel mondo scolastico americano sulla scia delle discussioni in merito alla cosiddetta “accountability”, cioè alla necessità che le istituzioni scolastiche rendessero conto alla società della loro produttività educativa. Ho usato apposta l’espressione “pro- duttività”, perché la parola standard designa nel mondo tecnologico l’intervallo di accettabilità della qualità di un prodotto, di un suo pezzo o componente, di un ser- vizio, ecc. È un concetto essenziale del mondo industriale perché racchiude due elementi fondamentali nella valutazione della accettabilità di un bene o servizio: il suo livello minimo, tenuto conto del progetto tecnico, e il suo livello massimo, tenuto conto di un costo di produzione accettabile, cioè del progetto economico. A differenza di un prodotto artigiano, non si esige una qualità che vada oltre un certo limite di perfezione, se questo importa un costo non accettabile dal punto di vista economico. In altre parole, in un progetto generale includente anche l’aspetto eco- nomico, lo standard designa un margine di tolleranza rispetto a una media attesa. Nel caso della scuola gli standard del servizio formativo indicherebbero il margi- ne di tolleranza circa i risultati ottenuti in termini di apprendimento, tenendo conto della spesa implicata2. In realtà, come vedremo, nel mondo statunitense gli standard educativi sono stati prospettati per migliorare i risultati scolastici in ter- mini di apprendimento. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 6 1 Il mio contributo farà riferimento soprattutto agli standard formativi riferibili alla dimensione edu- cative e culturale del processo formativo, e solo indirettamente a quella più direttamente tecnico- professionale. 2 Uno standard è “qualcosa che si stabilisce come regola base di confronto per misurare o giudicare la quantità…o la qualità…” Webster Dictionary. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 26 2. Un po’ di storia sugli standard negli Stati Unità d’America3 e in Inghilterra Nel 1983 veniva pubblicato negli Stati Uniti d’America il rapporto A Nation at Risk, che forniva dati allarmanti circa la qualità del sistema educativo di tale nazione. Ne seguì una serie di indagini rivolte a cercare le strade per responsabi- lizzare di più le scuole circa i risultati che esse erano in grado di conseguire. Nel 1990 G. Bush padre convocò i Governatori dei 50 Stati, titolari esclusivi delle poli- tiche scolastiche del loro territorio, al fine di trovare un accordo su alcuni obietti- vi prioritari da raggiungere. Il lavoro si basava sui dati raccolti dal programma National Assesment of Educational Progress (NAEP), che mostrava scarsi miglio- ramenti della situazione nel corso del decennio precedente. Le raccomandazioni concordate consacravano la tendenza sempre più marcata verso la responsabiliz- zazione delle scuole e la valorizzazione di standard intesi come traguardi progres- sivi di miglioramento. Ciascuno Stato nella sua autonomia doveva determinare politiche coerenti con gli obiettivi concordati. La situazione però non migliorava e le indagini TIMSS e OCSE PISA mostravano una situazione assai scadente, rispet- to a quella di molti altri Paesi. Nel 2001 il Congresso degli Stati Uniti approvò la legge No Child Left Behind. Veniva consacrata in questa legge la necessità che cia- scuno Stato determinasse standard di qualità per i risultati d’apprendimento degli studenti e ne verificasse periodicamente il conseguimento mediante test obbliga- tori per ogni scuola, pubblicandone i risultati. Nel frattempo il Movimento di riforma basato sugli standard attivato negli anni ottanta aveva già ottenuto alcuni effetti. Il Consiglio Nazionale degli Insegnanti di Matematica (NCTM) aveva redatto una prima stesura di standard per l’apprendi- mento della Matematica, poi revisionato ed ora adottato da molti Stati degli Stati Uniti d’America. Ben presto altre associazioni fecero lo stesso per le Scienze, l’Inglese, ecc. Intanto si diffondeva l’influenza degli orientamenti del NAEP, che estendeva progressivamente le sue competenze. Il pericolo di una settorializzazione disciplinare e, in qualche modo, di una esaspe- razione del livello degli standard era insito in un approccio per materie di insegna- mento, anche se nella loro redazione si è cercato di evitare l’assunto di un insegna- mento solo concettuale. In genere si è accettata l’idea che uno standard deve coordi- nare e integrare due elementi: il concetto coinvolto e le operazioni connesse4. Ciò 2 7 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD 3 Per ulteriori informazioni sull’approccio americano si può leggere il volume: L. Guasti L., A. Lapointe, Ricerca didattica e sistema educativo americano, Brescia, La Scuola, 2006. 4 L. Guasti, A. Lapointe, Ricerca didattica e sistema educativo americano, Brescia, La Scuola, 2006, 101. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 27 derivava anche dalla convinzione che “l’idea di produzione possa avere un valore trainante e motivante per la formazione”5. In altre parole viene veicolata una visio- ne operativa dei concetti. “Il concetto non va mai scisso dall’operazione che lo accompagna, anzi operazione e concetto determinano un particolare campo di azioni, che in presenza di un diverso dinamismo operatorio, potrebbero significa- tivamente modificarlo”6. Questo tipo di standard viene definito come “standard di contenuto”. A esso si collegano quelli denominati “standard di prestazione”, che entrano più nel dettaglio circa le conoscenze e le abilità coinvolte, esplicitando nel concreto le prestazioni che ne sono manifestazione di padronanza. In genere le giu- stificazioni che stanno alla base di un utilizzo degli “standard di contenuto” si pos- sono riassumere secondo quattro aree: a) tendono a favorire un alto livello di svi- luppo dello studente; b) viene accentuata la responsabilità dei docenti e degli stu- denti; c) si raggiunge una maggiore equità didattica; d) si realizza un diverso modello organizzativo più efficace nella finalizzazione delle risorse7. Vengono anche definiti standard detti cross-content, in quanto prendono in consi- derazione contenuti che attraversano più saperi e costituiscono in qualche modo una base comune a diversi settori culturali. Essi in genere sono riconducibili a cin- que aree educative: “a) Tutti gli studenti svilupperanno capacità di pianificare la carriera e di predi- sporsi positivamente al lavoro. b) Tutti gli studenti utilizzeranno tecnologie, informazioni e altri strumenti. c) Tutti gli studenti miglioreranno le proprie capacità di pensiero critico, di pren- dere decisioni e di problem solving. d) Tutti gli studenti dimostreranno capacità di autogestione. e) Tutti gli studenti applicheranno teorie sulla sicurezza”8. Quanto alla redazione degli standard, questi devono essere: a) chiari, la loro defi- nizione deve essere comprensibile sia ai docenti, sia agli studenti; b) valutabili, in quanto è possibile dimostrare in modo valido e affidabile che l’allievo li padro- neggia; c) realizzabili, nel senso che sono né troppo difficili, scoraggiando docen- ti e studenti ad affrontarli, né troppo facili, risultando irrilevanti.9 In Inghilterra e nel Galles fino al 1988 non si aveva un orientamento nazionale circa l’organizzazione delle scuole e i contenuti da insegnare. In quell’anno venne ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 8 5 Ibidem. 6 L. Guasti., A. Lapointe, o.c., 105. 7 L. Guasti, A. Lapointe, o.c., 113-114. 8 L. Guasti, A. Lapointe, o.c., 108. 9 L. Guasti, A. Lapointe, o.c., 134. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 28 emanata la legge di riforma del sistema educativo. Essa introdusse per la prima volta un curricolo e una valutazione nazionali. In base a questa legge vennero sta- biliti dei target o obiettivi bersaglio da conseguire al termine delle classi relative all’età di sette, undici, quattordici e sedici anni per Inglese, Matematica e Scienze. Tali obiettivi sono stati espressi in termini abbastanza operativi, fornendo anche esempi di prestazioni che ne segnalano il raggiungimento. Per quanto riguarda la valutazione del sistema e delle scuole è stato anche costituito un istituto autono- mo, che verifica periodicamente la qualità degli apprendimenti conseguiti dalle singole scuole; su questa base vengono anche determinati l’ammontare del finan- ziamento e la carriera dei dirigenti e degli insegnanti. 3. Standard tecnici e standard della complessità Naturalmente l’introduzione così massiccia e diffusa di standard formativi defini- ti a livello di Stati e da assumere obbligatoriamente dalle scuole ha portato non poche discussioni. L’impostazione adottata include non solo un orientamento poli- tico, bensì anche una filosofia dell’educazione scolastica. Ai nostri fini è utile approfondire un particolare aspetto del dibattito, che prende le mosse dalla con- trapposizione di due impostazioni. Tra esse si può pensare però a un continuo che include posizioni più sfumate o integrative rispetto ai poli estremi. La prima impo- stazione privilegia quelli che spesso sono stati chiamati “standard tecnici” o “stan- dard contenutistici”, mentre la seconda include i cosiddetti “standard della com- plessità” o “standard processuali”10. La differenza tra le due concezioni implica visioni differenti circa la natura della conoscenza, di come questa venga acquisi- ta, di come essa venga valutata. Cioè ci si appoggia su due definizioni differenti di curricolo, istruzione e valutazione. La razionalità che sottende il primo approccio è di tipo tecnico-scientifico, privi- legia un sapere sistematico, ben organizzato in discipline, di cui alcune hanno un ruolo essenziale, altre un ruolo integrativo; un sapere oggettivo che come tale deve essere fatto proprio e diventa quindi elemento fondamentale di valutazione. Il pro- cesso didattico di conseguenza può esser gestito in maniera progressiva e ben strutturata; esso è articolato secondo insegnamenti a carattere disciplinare, basa- to su una programmazione accurata e un controllo attento e sistematico dei risul- tati via via conseguiti. Il docente in questo caso è un esperto in una o più materie e ha come obiettivo fondamentale della sua azione didattica la promozione delle 2 9 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD 10 Cfr. R. A. Horn, Standards, New York, Peter Lang, 2004. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 29 conoscenze e abilità che caratterizzano la disciplina, o le discipline, che insegna. Il secondo approccio è più sensibile alle critiche rivolte a una esagerata fiducia nella razionalità tecnico-scientifica nell’impostare i percorsi educativi. Esso tende a valorizzare di più lo studente che apprende rispetto a ciò che gli viene proposto. Questi è visto più che come un soggetto che incorpora un sapere già bene orga- nizzato, come un attivo costruttore di conoscenze significative, stabili e fruibili, Queste inevitabilmente hanno una strutturazione e una coloritura personale. In particolare, la crescita della sua conoscenza non avviene per settori separati e per concetti e procedure, che trovano la loro ragione d’essere all’interno della materia insegnata, bensì una conoscenza più integrata e adeguatamente collegata ad atti- vità e a compiti che riguardano aspetti fondamentali dell’esperienza formativa, sociale e professionale. Di qui anche una diversa impostazione didattica e una maniera differente di valutazione. Il docente in questo caso ha un ruolo formativo più esteso e per questo la sua preparazione implica competenze di natura psico- pedagogica e capacità di applicazione dei concetti e delle procedure che insegna. Gli standard di natura tecnica di conseguenza privilegiano i contenuti da appren- dere e la loro strutturazione interna. Mentre quelli della complessità sono più sen- sibili ai processi e alle disposizioni interne degli studenti. Ad esempio, promuove- re la capacità di apprendere in maniera autonoma e significativa è un obiettivo formativo più facilmente considerato nel contesto degli standard della complessità che in quello degli standard di natura tecnica. L’organizzazione del processo didat- tico nel primo caso è sostanzialmente lineare e progressivo nel senso che le cono- scenze e la abilità proprie delle diverse discipline sono prospettate secondo una sequenza ritenuta ottimale o almeno ragionevole e che in gran parte deriva dalla strutturazione dei testi che vengono adottati. Nel secondo caso si privilegia una impostazione ricorsiva o a spirale, legata intimamente sia all’esperienza degli stu- denti, sia al loro progressivo apprendimento. La valutazione degli apprendimenti nel primo caso è legata agli argomenti successivamente sviluppati e meno diretta a verificare, come nel secondo caso, qual è la mappa concettuale complessiva o la strutturazione progressiva delle abilità, ormai diventate patrimonio significativo, stabile e fruibile da parte di ciascuno. Tuttavia la differenza più consistente sta nel prendere o meno in considerazione le componenti affettive, motivazionali, sociali e valoriali collegate al processo forma- tivo. Se l’attività educativa è rivolta alla crescita della persona dal punto di vista del suo status di cittadino e di lavoratore, l’attenzione non può essere rivolta solo alla considerazione di singoli pezzi di conoscenze e abilità, soprattutto se forte- mente legati all’organizzazione interna delle varie discipline. Si darebbe adito così ad una frammentazione notevole sia degli interventi, sia della valutazione, fram- mentazione che non favorisce certo né la costruzione personale e sociale del sape- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 3 0 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 30 re, né una sua valorizzazione nel contesto delle attuali e future esperienze. Sulla base di queste diverse concezioni della natura del processo formativo si danno anche diverse formulazioni degli standard formativi. Molte delle critiche rivolte in questi ultimi decenni al concetto stesso di standard derivano da una parte da una concezione molto tecnica e limitata, dall’altra dall’uso del termine standardizzazio- ne sia in senso generico come processo di omogeneizzazione, sia più specifico quan- do si introducono test standardizzati. Evidentemente l’esperienza concreta, soprat- tutto nel contesto dell’istruzione e della formazione professionale, evidenzia la gran- de differenziazione delle caratteristiche dei giovani a cui ci si dedica. Tale diversità tende ad accentuarsi ulteriormente con la presenza sempre più massiccia di sogget- ti stranieri, di studenti, di culture, lingue, stato di preparazione, storie personali e famigliari assai variegate. Pensare di impostare percorsi altamente strutturati e omo- genei, basati su sequenze prestabilite di argomenti e contenuti di natura disciplina- re, introdotti in maniera uniforme e poco o per nulla collegati all’esperienza prece- dente o attuale degli studenti, senza tener conto del significato e valore a essi attri- buito, né del grado di preparazione di ciascuno, è del tutto improduttivo. A questo si aggiunge la diversa finalizzazione dei percorsi formativi, più orientati verso l’uso pratico delle conoscenze promosse, che verso una loro costruzione di natura teorica. Da questo stato di cose deriva una prima conclusione evidente: occorre ripensare seriamente la definizione di standard formativi soprattutto nel contesto dell’istru- zione e della formazione professionale. Al fine di procedere ulteriormente in que- sta direzione riprendiamo alcuni elementi di riferimento che hanno dato luogo alla istituzionalizzazione attuale degli standard formativi minimi per l’area culturale. Essi dovrebbero caratterizzare la base culturale della cittadinanza attiva e respon- sabile e della professionalità posseduta a un livello facilmente adattabile al conte- sto lavorativo di primo inserimento. 4. Competenze di base e competenze chiave nel processo formativo In Italia, a partire dallo studio svolto dall’ISFOL sulle competenze che dovrebbe- ro caratterizzare il cittadino-lavoratore, si è diffusa la tendenza a distinguerle secondo tre categorie fondamentali: competenze di base, competenze trasversali, competenze tecnico-professionali11. Tale studio teneva conto in particolare dei pro- cessi di formazione continua. La distinzione è stata utilizzata sistematicamente nelle proposte formative elaborate nel contesto dei percorsi IFTS (Istruzione e 3 1 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD 11 Cfr. ad esempio: ISFOL Competenze trasversali e comportamento organizzativo. Le abilità di base nel lavoro che cambia, Milano, F. Angeli, 1994. ISFOL, Unità capitalizzabili e crediti formativi. I repertori sperimentali, Milano, F. Angeli, 1998. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 31 Formazione Tecnico Superiore) e, più recentemente, nella definizione degli stan- dard formativi minimi relativi alla conclusione del percorso sperimentale trienna- le di formazione professionale cui consegue l’acquisizione di una qualifica. Le competenze di base, secondo la prospettiva adottata dall’ISFOL, si riferiscono a saperi fondamentali utilizzabili nel contesto della vita quotidiana e lavorativa secondo necessità, trasferibili al variare delle condizioni di contesto e incrementa- bili secondo i diversi livelli di responsabilità12. Nell’accordo raggiunto nella Conferenza Stato-Regioni del 2004 esse sono state considerate come una “base più ampia di quella tradizionalmente utilizzata nella formazione professionale, in quanto non sono [gli standard] concepiti solo in riferimento all’occupabilità delle persone, ma anche al fine di garantire i pieni diritti di cittadinanza a partire dal possesso di un quadro culturale di formazione di base”. Gli standard minimi di competenza sono distribuiti secondo un’area linguistica, un’area tecnologica, un’area scientifica e un’area storico-socio-economica. Esaminiamo quanto questa impostazione si collega con l’attuale orientamento europeo e più generalmente del mondo industrializzato. Nel 1997 i Paesi membri dell’OCSE lanciarono un Progetto internazionale di valu- tazione delle competenze di tutti gli studenti denominato PISA (Program for International Student Assessment), al fine di monitorare fino a che punto gli stu- denti che stavano per giungere al termine dell’obbligo scolastico avessero acquisi- to le competenze essenziali per una piena partecipazione alla società13. Lo studio iniziale, poi progressivamente approfondito, si poneva la questione preliminare di “definire e selezionare le competenze” da prendere in considerazione, in gergo DeSeCo (Definition and Selection of Competencies). La definizione assunta all’av- vio delle indagini messe in atto nel 2000 (Pisa 2000) e nel 2003 (Pisa 2003) era ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 3 2 12 Le competenze trasversali hanno carattere generale e si riferiscono a qualità della persona che hanno rilevanza nel contesto di ogni sua attività e relazione. Si citano spesso tre macrocategorie: relazionarsi in modo adeguato con l’ambiente fisico, tecnico e sociale; affrontare e gestire operati- vamente l’ambiente, il compito e il ruolo sia mentalmente, sia a livello della condotta finale; dia- gnosticare le caratteristiche dell’ambiente, del compito e del ruolo assegnato. Quelle tecnico-pro- fessionali riguardano un settore specifico dell’attività professionale. 13 Dalla “Dichiarazione mondiale sull’educazione per tutti: dare risposta ai bisogni fondamentali di apprendimento” (UNESCO - Conferenza mondiale sull’educazione 1990): Art.1: “Ogni persona - bambino, giovane e adulto - dovrà poter beneficiare di opportunità educative progettate per rispon- dere ai loro fondamentali bisogni di apprendimento. Questi bisogni comprendono sia gli strumenti essenziali di apprendimento (literacy, espressione orale, numeracy e problem solving) sia i contenuti di base (conoscenze, abilità, valori e attitudini) necessari agli esseri umani per poter sopravvivere, sviluppare le loro capacità, vivere e lavorare dignitosamente, partecipare pienamente allo sviluppo, migliorare la qualità della loro vita, prendere decisioni informate e continuare ad apprendere” CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 32 la seguente: “Fronteggiare efficacemente richieste e compiti complessi comporta non solo il possesso di conoscenze e di abilità ma anche l’uso di strategie e di rou- tines necessarie per l’applicazione di tali conoscenze e abilità, nonché emozioni e atteggiamenti adeguati e un’efficace gestione di tali componenti. Pertanto la nozione di competenze include componenti cognitive ma anche componenti moti- vazionali, etiche, sociali e relative ai comportamenti. Costituisce l’integrazione di tratti stabili, risultati di apprendimento (conoscenze e abilità), sistemi di valori e credenze, abitudini e altre caratteristiche psicologiche. Da tale punto di vista, leg- gere, scrivere e far di conto sono abilità che, ai livelli di base, rappresentano le componenti critiche di numerose competenze. Mentre il concetto di competenza si riferisce alla capacità di far fronte a richieste di un elevato livello di complessità e comporta sistemi di azione complessi, il termine conoscenze è riferito ai fatti o alle idee acquisiti attraverso lo studio, la ricerca, l’osservazione o l’esperienza e desi- gna un insieme di informazioni che sono state comprese. Il termine abilità viene usato per designare la capacità di utilizzare le proprie conoscenze in modo relati- vamente agevole per l’esecuzione di compiti semplici”14. Verso la fine del 2005 veniva pubblicato dall’OCSE un rapporto che faceva il punto sulla questione delle competenze essenziali del cittadino rileggendole sotto la dizione di “competenze chiave”15. In tale documento si evidenziavano tre fon- damentali criteri per selezionarle e definirle: a) importanza dei benefici economi- ci e sociali che ne derivano; b) ampiezza dello spettro di contesti nei quali si mani- festano tali benefici; c) universalità di tali benefici, nel senso che non sono limita- ti a specifiche categorie di persone. L’aggregazione proposta per combinare tra loro le competenze individuate su tale base utilizza concetti di interazione e di riflessività. Le categorie individuate sono le seguenti. 1) Agire in modo autonomo implica due caratteristiche interconnesse: lo sviluppo dell’identità personale e l’esercizio di un’autonomia relativa, nel senso di saper decidere, scegliere e agire in un contesto dato. Per esercitare quest’autonomia, occorre avere un orientamento rivolto al futuro, essere sensibili al proprio ambiente, capire che cosa comprende, come funziona e qual è il posto che vi si occupa. Le competenze essenziali di questa categoria sono: la capacità di difen- dere e affermare i propri diritti, interessi, responsabilità, limiti e bisogni che permette di fare scelte come cittadino, membro di una famiglia, lavoratore, consumatore ecc.; la capacità di definire e realizzare programmi di vita e pro- 3 3 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD 14 Vedi ad esempio: OCDE, Definition and Selection of Competencies (DeSeCo): theoretical and con- ceptual foundations, Strategic Paper , 07- Oct-2002. 15 Cfr. OECD, The definition and selection of key competencies. Executive summary, Unpublished Paper, 27 - May 2005. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 33 getti personali, che permette di concepire e realizzare obiettivi che danno signi- ficato alla propria vita e si conformano ai propri valori; la capacità di agire in un quadro d’insieme, in un contesto ampio che consente di capire il funziona- mento del contesto generale, la propria collocazione, la posta in gioco e le pos- sibili conseguenze delle proprie azioni. 2) Servirsi di strumenti in maniera interattiva. La parola strumento è qui usata nel suo significato più ampio: strumenti cognitivi (es. la lingua), sociali e fisici (es. i computer). L’aggettivo interattivo è importante, si riferisce all’esigenza non solo di conoscere questi strumenti, ma anche di capire come modificano il nostro modo di interagire con il mondo, consentendoci di raccoglierne le sfide. Le competenze essenziali di questa categoria sono: la capacità di utilizzare la lingua, i simboli e i testi in maniera interattiva, che permette di comprendere il mondo, di comunicare e interagire efficacemente con il proprio ambiente; la capacità di utilizzare le conoscenze e le informazioni in maniera interattiva, che permette di gestire il sapere e le informazioni, servendosene come base per com- piere le proprie scelte, per prendere decisioni, agire e interagire; la capacità di utilizzare le nuove tecnologie in maniera interattiva: non solo abilità tecniche nell’uso della tecnologia, ma anche conoscenza delle nuove forme di interazio- ne che questa ha reso possibili. 3) Interagire in gruppi socialmente eterogenei. Il punto focale è l’interazione con l’“altro” diverso da sé. Per la propria sopravvivenza fisica e psicologica, per la propria autostima, identità e collocazione sociale, l’essere umano ha bisogno, per tutta “la vita, di legami con altri esseri umani. Questa categoria di compe- tenze favorisce la costituzione di relazioni sociali e la coesistenza con persone che non parlano necessariamente la stessa lingua (letteralmente o metaforica- mente) né appartengono alla stessa storia. Sono particolarmente importanti per lo sviluppo del capitale sociale. Le competenze essenziali di questa categoria sono: la capacità di stabilire buone relazioni con gli altri che permette di stabi- lire, mantenere e gestire relazioni personali; la capacità di cooperare, che per- mette di lavorare insieme e tendere a un fine comune; la capacità di gestire e risolvere i conflitti, che presuppone l’accettazione del conflitto come aspetto intrinseco alle relazioni umane e l’adozione di un modo costruttivo per gestirli. Quanto alla Commissione europea, in un documento redatto nel 2002 da un grup- po di esperti europei dal titolo “Le competenze chiave in una società fondata sulla conoscenza: un primo passo sulla via della loro selezione, della loro definizione e della loro descrizione” si accennava all’attenzione che il vertice di Lisbona del 2000 aveva dato alla questione delle “competenze di base”. Nel rapporto sugli obiettivi comuni elaborato e adottato dal Consiglio a febbraio del 2001, le com- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 3 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 34 petenze di base costituivano uno dei tre obiettivi prioritari, sui tredici individuati. Il gruppo ha pensato preferibile parlare di “competenze chiave” essenzialmente per le seguenti ragioni: 1) è difficile esprimere la differenza tra i termini inglesi “skills” (saper fare) e “competencies” (competenze) nelle altre lingue; 2) il termi- ne inglese “competencies” designa generalmente un insieme di saper fare, di cono- scenze e di disposizioni, tra tutti i termini possibili è considerato come il più gene- rico e include nozioni meno tangibili come gli atteggiamenti e le disposizioni, con- trariamente al termine “skills”; 3) per molte persone il qualificativo “di base” (competenze di base), ricopre un insieme limitato di competenze di lettura, di scrittura e di calcolo, ciò che dà luogo spesso a confusione nei dibattiti, mentre il termine “chiave” è più dinamico e non ha questo connotato; 4) nello stesso ordi- ne di idee, molte persone intendono le competenze “di base” come una serie di “competenze vitali”, mentre il dibattito attuale sulle competenze è lungi dal limi- tarsi al semplice aspetto vitale. Per giungere a una scelta il gruppo aveva individuato tre criteri: a) compiutezza personale ed evoluzione durante tutta la vita; b) inclusione nella società; c) capa- cità di inserimento professionale. Inoltre, si riconosce che il concetto di competen- za implica allo stesso tempo conoscenze, abilità e disposizioni interne stabili, che siano trasferibili e in qualche misura polivalenti. Nel caso delle competenze chia- ve, queste dovrebbero costituire un bagaglio trasferibile e polivalente necessario al compimento o allo sviluppo personale, come anche all’inclusione e all’impiego di ognuno, che si suppone essere state acquisite alla fine del periodo di scolarità o di formazione obbligatoria e che costituiscono il fondamento dell’educazione e della formazione lungo tutta la vita. È questa una posizione che può essere rivista con- siderando come nel corso degli ultimi decenni questo tipo di competenze sia note- volmente evoluto in seguito a importanti cambiamenti dal punto di vista cultura- le, sociale, personale e professionale. Basti pensare al campo delle scienze e della tecnologia, in particolare di quella dell’informazione e della comunicazione. Alle classiche competenze che costituiscono la lettura, la scrittura e il calcolo, omesse nelle conclusioni di Lisbona, si accostano ora competenze di natura più generale come l’apprendere ad apprendere, cioè le strategie devono permettere all’indivi- duo di costruire le competenze chiave, ma anche di conservarle, di rinnovarle e di aggiornarle, e di acquisire nuove competenze completandole e superandole; com- petenze culturali generali, che arricchiscano gli individui e contribuiscano alla loro ricerca di felicità. Le competenze chiave rappresentano un insieme di conoscenze, abilità, e atteggiamenti trasferibili e multifunzionali, di cui tutti gli individui hanno bisogno per un completo sviluppo personale, l’inclusione sociale e il lavoro. Queste competenze dovrebbero essere sviluppate al termine della scuola o forma- zione obbligatoria, e dovrebbero agire come fondamento dell’ulteriore apprendi- 3 5 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 35 mento come componente dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. A partire da queste premesse sono stati identificati otto ambiti o domini delle com- petenze chiave. 1) Ambito della comunicazione nella lingua madre. È l’abilità di esprimere e inter- pretare pensieri, sentimenti e fatti sia in forma orale, sia scritta (ascoltare, par- lare, leggere e scrivere) e di interagire linguisticamente in maniera appropriata nell’intero spettro dei contesti sociali e culturali (educativi e formativi, lavora- tivi, famigliari e del tempo libero). 2) Ambito della comunicazione in lingua straniera. Essa condivide le dimensioni delle principali abilità della comunicazione in lingua madre: è basata sull’abilità di capire, esprimere e interpretare pensieri, sentimenti e fatti sia in forma orale, sia scritta (ascoltare, parlare, leggere e scrivere) e di interagire linguisticamente in maniera appropriata nell’intero spettro dei contesti sociali e culturali (lavora- tivi, famigliari, del tempo libero, educativi e formativi) secondo il volere indivi- duale. Si richiedono anche abilità di mediazione e comprensione interculturale. Il livello di profitto varierà nella quattro dimensioni e i differenti linguaggi, tenen- do conto dell’ambiente e la tradizione linguistica individuale. 3) Ambito matematico e scientifico di base. Per la matematica si tratta dell’abilità di usare addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni, divisioni e rapporti in calcoli mentali e scritti per risolvere un insieme di problemi presenti nelle situazioni quotidiane. L’enfasi è posta sul processo più che sul risultato, sull’attività più che sulla conoscenza. Per le scienze ci si riferisce all’abilità e alla voglia di uti- lizzare un insieme di conoscenze e metodologie valorizzate per spiegare il mondo naturale. Per la tecnologia si considera la comprensione e l’applicazio- ne di tali conoscenze e metodologie per modificare l’ambiente naturale come risposta a volontà o bisogni percepiti dall’uomo. 4) Ambito delle competenze digitali. Coinvolge un uso sicuro e critico dei media elettronici per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Sono collegate al pensiero logico e critico, ad abilità di gestione di informazioni di alto livello, ad abilità ben sviluppate di comunicazione. Al livello più essenziale le abilità comprendono l’uso di tecnologie multimedia- li per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informa- zioni e per comunicare e partecipare in rete via Internet. 5) Ambito dell’apprendere ad apprendere. Comprende la disponibilità e l’abilità ad organizzare e regolare il proprio apprendimento, sia individualmente, sia in gruppo. Include l’abilità a gestire il proprio tempo produttivamente, a risolve- re problemi, ad acquisire, elaborare, valutare e assimilare nuove conoscenze e ad applicare queste e le abilità in una varietà di contesti (a casa, nel lavoro, nella scuola e nella formazione). Più in generale, essa contribuisce fortemente ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 3 6 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 36 alla gestione del proprio percorso di carriera. 6) Ambito delle competenze interpersonali e civiche. Si tratta di tutte le forme di comportamento che occorre padroneggiare per partecipare in maniera efficien- te e costruttiva alla vita sociale e a risolvere i conflitti, quando necessario. Le abilità interpersonali sono essenziali per una effettiva interazione personale e di gruppo e sono da valorizzare sia in pubblico, sia in privato. 7) Ambito dell’imprenditorialità. Ha una componente attiva e una passiva in quanto comprende sia la propensione a indurre cambiamenti in prima persona, sia ad accogliere, appoggiare e adattarsi alle innovazioni sollecitate da fattori esterni. L’imprenditorialità coinvolge il prendersi la responsabilità delle proprie azioni, positive e negative, sviluppando una visione strategica, ponendosi degli obiettivi e raggiungendoli ed essendo motivato ad avere successo. 8) Ambito dell’espressione culturale. Si tratta di apprezzare l’importanza dell’e- spressione creativa di idee, esperienze ed emozioni secondo uno spettro di forme, che includono musica, espressione corporale, letteratura e arti plastiche. Da questo quadro si evidenzia immediatamente lo spostamento di accento dalla considerazione di competenze base collegate più o meno direttamente ad aree del sapere, alla sottolineatura di competenze di natura più personale e legate non solo alla conquista di conoscenze e abilità definite in ambiti disciplinari, bensì soprattutto alla capacità di interagire validamente e responsabilmente nel contesto della vita civile e sociale e di progredire nella capacità di affrontare situazioni lavorative in forte dinamica innovativa. 5. Per una costruzione di standard formativi: prime indicazioni Partendo dal quadro di riferimento sopra delineato circa la natura delle compe- tenze chiave e dalla necessaria rilettura degli standard formativi minimi nel con- testo dei processi di istruzione e formazione professionale, occorre adesso svilup- pare alcuni orientamenti operativi che tengano conto più chiaramente delle esi- genze educative e psicopedagogiche dei soggetti destinatari di tali processi. A proposito di competenze di base degli adulti e di standard formativi si può ricor- dare la ricerca pubblicata nel dicembre 2002 sui «Quaderni degli Annali dell’Istruzione» realizzata a cura dell’Indire nel corso del 200216. Nella premessa metodologica L. Guasti tratta del concetto di standard riferendosi soprattutto alle esperienze in corso nel mondo anglosassone e statunitense in particolare. I cosid- 3 7 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD 16 Le competenze di base degli adulti, Quaderni degli Annali dell’Istruzione, 2001(97), Firenze, Le Monnier, Dicembre 2002. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 37 detti “content standards”, egli ricorda, dovrebbero descrivere “ciò che gli studen- ti dovrebbero conoscere ed essere capaci di fare” e pertanto “non si ha un puro contenuto senza una concettualizzazione operativa né un’operazione senza un con- cetto formale. Così il conoscere qualcosa richiede alcune operazioni intellettuali che possono essere dimostrate solo attraverso alcune «performance». […] Si ha così il valore degli standard come certificatori, che si occupano del rapporto con le competenze dimostrate e certificate, gli standard come predittori, che affronta- no la relazione tra le performances e la prospettiva di sviluppo del soggetto, gli standard come descrittori, che hanno la funzione di evidenziare i risultati e i pro- cessi finalizzati all’accertamento e alla valutazione, gli standard come motivatori, che hanno lo scopo di mettere il soggetto nella condizione di poter essere costan- temente attratto dall’apprendimento del livello successivo o di una conoscenza integrativa o correlata”(in grassetto nell’originale). Gli standard elaborati dalla ricerca avevano come base contenutistica le indica- zioni della direttiva 22, approvata dalla Conferenza Unificata Stato Regioni il 6 febbraio 2001 ed entrata in vigore il 2 aprile dello stesso anno, che individuava in quattro aree la cultura di base che un adulto deve possedere: socio-economi- ca, dei linguaggi, scientifica, tecnologica. Sono di conseguenza stati individuati 5 standard per l’area dei linguaggi, 16 per l’area socio-economica, 11 per l’area scientifica, 5 per l’area tecnologica, in tutto 37. Essi “sono definiti dal rapporto concetto-azione, in base al quale il contenuto che ne scaturisce assume conno- tazioni essenzialmente operatorie. Va qui ricordato che la dimensione operatoria non è ancora l’attività operativa - questa è propria degli standard di perfor- mance - che tanta parte ha nell’immaginario comune teso alla delegittimazione culturale degli standard. Ci sono aspetti dello standard che hanno carattere ope- rativo ma la loro legittimità è data dalla funzione operatoria dei dinamismi della mente e della coscienza del soggetto. […] La presentazione formale degli standard è caratterizzata dalla descrizione dello standard e dalla successiva indicazione dei livelli”. Vengono anche evidenziate le più rilevanti connessioni fra i diversi standard. Non è possibile riportare i vari standard e i rispettivi livelli. A titolo di esempio viene presentato uno degli standard dell’area socio-economica (standard E) e i relativi livelli. Comunque è assai utile valorizzare questa indagine nel formulare forme di standard che da una parte si avvicinano al concetto di competenza e, dal- l’altra, sono riferibili di più ai cosiddetti standard della complessità, rispetto a quelli solo tecnici. I vari livelli si prestano a una loro utilizzazione anche nella redazione delle cosiddette rubriche, spesso valorizzate nel contesto della cosiddet- ta valutazione “autentica”. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 3 8 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 38 Standard E: si riconosce come soggetto di diritti e doveri nell’ambito delle norme che regolano il rapporto di lavoro e comprende come opera un sistema di tutela del lavoro in relazione alle trasformazioni della società. Livello 1 Riconosce, a partire dall’esperienza personale, i principali diritti connessi al lavoro e li collega alle principali norme costituzionali. 1.1 Elenca e spiega i principali diritti costituzionali in materia di lavoro; 1.2 descrive modalità secondo le quali opera la tutela costituzionale nei rappor- ti di lavoro, attraverso riferimenti alle proprie esperienze personali; 1.3 esemplifica diritti e doveri con riferimento al vissuto lavorativo. Livello 2 2.1 Distingue le fonti di regolazione del rapporto di lavoro (Costituzione, legge, contratto collettivo, contratto individuale); 2.2 descrive, anche con riferimento a situazioni concrete, le relazioni tra le diverse fonti di regolazione del rapporto di lavoro; 2.3 identifica e spiega i principali diritti e doveri connessi al rapporto di lavoro; 2.4 identifica, nel testo della Costituzione, gli articoli relativi al lavoro; 2.5 spiega, attraverso esemplificazioni e a partire dalla propria condizione lavo- rativa, come opera la legislazione del lavoro. Livello 3 Legge e interpreta semplici norme che regolano il rapporto di lavoro; utilizza fonti, selezionate dall’insegnante, nella soluzione guidata di semplici casi legati all’esperienza personale. 3.1 Identifica, a partire da estratti della Costituzione, di leggi ordinarie, di con- tratti collettivi, norme significative per la definizione dei propri diritti e doveri come lavoratore; 3.2 utilizza le diverse fonti di regolazione come strumento per identificare e spiegare diritti e doveri delle parti nell’ambito del rapporto di lavoro; 3.3 utilizza le fonti di regolazione del rapporto di lavoro per comprendere situa- zioni concrete e risolvere semplici problemi connessi alla propria condizione lavorativa; 3.4 interpreta una busta paga e ne identifica le voci fondamentali (retribuzione fissa e variabile, ritenute fiscali e previdenziali). 3 9 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 39 È evidente come sotteso a questa impostazione sta un concetto di competenza inte- so come “sapere in azione”. Tuttavia, a mio avviso, occorre includere nel concetto di competenza assai più di un legame tra conoscenze dichiarative e conoscenze procedurali. Esso, infatti, può essere così descritto: “Capacità di far fronte a un compito, o a un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto (attivare) e a orchestrare (coordinare) su un piano operativo (pratico) le proprie risorse interne di natura cognitiva, affettiva e volitiva e a valorizzare quelle esterne utili e dispo- nibili in modo valido e produttivo”. Esaminiamo un po’ più da vicino gli elemen- ti che caratterizzano questa definizione. Livello 4 Comprende che la legislazione del lavoro definisce un equilibrio tra esigenze e interessi in funzione di un determinato contesto storico; identifica e utilizza in modo guidato le fonti pertinenti nella soluzione di casi. 4.1 Identifica le clausole principali di un contratto individuale di lavoro e le pone in relazione con la contrattazione collettiva e la legislazione sul lavoro; 4.2 mette in relazione il sistema di tutela del lavoro adottato dall’ordinamento italiano con il contesto storico che lo ha originato e con le sue successive evoluzioni; 4.3 distingue e analizza le esigenze della produzione e le esigenze di tutela del lavoratore; 4.4 trova la soluzione di semplici casi attraverso l’uso guidato delle fonti appro- priate. Livello 5 Discute criticamente le diverse modalità di regolazione del rapporto di lavoro in contesti storici e sociali differenti; identifica e utilizza in autonomia le fonti appropriate per la soluzione di casi. 5.1 Analizza e valuta con giudizi argomentati le modalità secondo le quali le esigenze di tutela del lavoratore si conciliano/non conciliano con il contesto della nuova organizzazione del lavoro; 5.2 confronta e valuta diversi sistemi (in Paesi diversi e/o in epoche diverse) di regolazione del rapporto di lavoro; 5.3 identifica e utilizza le norme pertinenti per la soluzione di casi problemati- ci relativi al lavoro. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 4 0 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 40 a) Una competenza è definibile a partire dalla tipologia di compiti o attività che si devono svolgere validamente ed efficacemente. La complessità e novità del compito o delle attività da sviluppare caratterizzano anche la qualità e il livel- lo della competenza implicata. b) Una competenza si manifesta perché si riesce a mettere in moto e coordinare un insieme di conoscenze, abilità e altre disposizioni interne (convinzioni, atteggiamenti, motivazioni, valori) al fine di svolgere positivamente il compito o l’attività prescelta. Queste risorse interne debbono essere quindi possedute a un grado di significatività, stabilità e fruibilità adeguato, tali cioè da poter esse- re individuate e messe in moto quando esse siano necessarie per affrontare il compito richiesto. c) Tra le risorse che occorre saper individuare, utilizzare e coordinare molto spesso occorre considerare non solo risorse interne, ma anche risorse ester- ne. Non si tratta solo di risorse di natura fisica o materiale come libri, stru- menti di calcolo, computer, ma anche umana come i compagni di studio o di lavoro, o qualsiasi altra persona che è possibile coinvolgere nella propria attività. Si parla oggi di comunità di pratica per indicare che molte volte è la capacità di coordinare la pluralità delle competenze possedute dai mem- bri del gruppo che consente di portare a termine il compito o i compiti asse- gnati. d) Va sottolineata la sua natura operativa (riferita alla capacità del soggetto di impiegare il proprio sapere), pluridimensionale (riferita alla integrazione di molteplici fattori cognitivi ed extracognitivi) e situata (riferita alla sensibilità al contesto, cioè a un uso funzionale delle variabili contestuali). Una competenza è dunque definita a partire dal compito, o dall’insieme di com- piti, che il soggetto deve saper svolgere positivamente, cioè secondo un modo e un livello validi e produttivi che siano riconoscibili non solo da chi la esplica, ma anche dagli altri. Inoltre, come sottolineato dal documento della Com- missione europea, per parlare di competenze occorre che esse rispondano anche al criterio della compiutezza personale e dell’evoluzione durante tutta la vita, mentre si riconosce che le conoscenze, abilità e disposizioni interne stabili coin- volte debbano essere trasferibili e in qualche misura polivalenti. Queste caratte- ristiche del patrimonio interiore, che forma come la base di partenza della messa in campo delle competenze, riguardano tutto il sistema che costituisce il sé, e quindi concetto di sé, autostima, interessi, valori, significati, motivazioni, capa- cità di persistenza e resistenza nel lavoro, ecc., ma ne segnalano anche la com- plessità e dinamicità. D’altra parte, la crescita delle competenze è certamente legata alla costruzione di conoscenze e abilità significative, stabili e fruibili, allo 4 1 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 41 sviluppo di disposizioni interiori valide e produttive in questa direzione, ma è la pratica, l’esercizio che ne sta alla base17. 6. Standard formativi di competenza: loro formulazione Sulla base delle indicazioni precedenti e tenendo conto degli studi sulle competen- ze possiamo ora tentare di prospettare alcuni orientamenti operativi, tenendo conto delle indicazioni dell’accordo del 2004 sugli standard minimi di competen- za al termine del triennio sperimentale e della natura sperimentale delle loro decli- nazioni. Per sviluppare un riflessione critica sugli standard formativi, che porti a un orien- tamento pratico nella loro definizione, si può partire da un confronto tra quanto è stato indicato nell’accordo del gennaio 2004 circa la lingua italiana e ciò che è pro- posto dalle altre fonti già segnalate. La prima competenza indicata tra le declina- zioni degli standard riferentesi all’area linguistica suona così: “1. Padroneggiare gli strumenti espressivi ed argomentativi indispensabili per gestire l’interazione comunicativa”. Tutto il testo riguardante l’area linguistica echeggia in maniera più sintetica quanto sviluppato dalla ricerca guidata da L. Guasti. In questo testo ven- gono previsti ben 6 livelli progressivi di competenza: “Parlare per frasi capire Livello 1: comunica su contenuti prevedibili e noti o strettamente riferibili al con- testo, con marcata gestualità. Livello 2: comunica su questioni correnti e usuali, in uno scambio di informazione sia faccia a faccia, sia mediato da mezzi tecnici anche sostenendo brevi monologhi. Livello 3: comunica, con limitato sostegno dai loro interlocutori, su contenuti non necessariamente legati all’esperienza personale, ma prevalentemente concreti o noti. Livello 4: affronta situazioni impreviste utilizzando strategicamente le proprie risorse linguistiche su contenuti anche astratti, ma noti o pertinenti all’esperienza diretta, ed esprimendo visioni soggettive. Livello 5: ottiene, scambia e presenta informazioni, idee ed opinioni per attività professionali, di studio, personali o di cittadinanza attiva. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 4 2 17 Un approfondimento del ruolo della pratica nello sviluppo delle competenze si può trovare in M.Pellerey, Le competenze individuali e il portfolio, Scandicci, La Nuova Italia, 2004, ca.4. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 42 Livello 6: produce un discorso orale fonologico o in interazione, formale o infor- male, generale o tecnico nel proprio campo di studio, di lavoro e in ambiti di cit- tadinanza attiva”. Questa tipo di competenza è segnalata dal documento dell’OCSE all’interno di un più vasto quadro, come precedentemente riportato: “la capacità di utilizzare la lin- gua, i simboli e i testi in maniera interattiva: permette di comprendere il mondo, di comunicare e interagire efficacemente con il proprio ambiente”. Mentre gli esperti della Commissione Europea, come già visto, a partire dalla definizione: “È l’abilità di esprimere e interpretare pensieri, sentimenti e fatti sia in forma orale, sia scritta (ascoltare, parlare, leggere e scrivere) e di interagire linguisticamente in maniera appropriata nell’intero spettro dei contesti sociali e culturali (educativi e formativi, lavorativi, famigliari e del tempo libero)”. In questo caso vengono quin- di esplicitate le conoscenze, le abilità e gli atteggiamenti che entrano in gioco in questo caso. È interessante la descrizione degli atteggiamenti. “Atteggiamento positivo verso la lingua materna, riconoscendola come una risorsa di arricchimen- to personale e culturale; disponibilità a conoscere le opinioni e le argomentazioni degli altri con mente aperta e a impegnarsi in un dialogo critico-costruttivo; fidu- cia nel parlare in pubblico; volontà di impegnarsi per una qualità estetica dell’e- spressione oltre che per la correttezza tecnica della parole e delle frasi; amore per la letteratura; atteggiamento positivo per la comunicazione interculturale”. Ben diversa è l’impostazione delle declinazioni per competenze dello standard for- mativo minimo per la matematica compreso nel testo dell’Accordo del 2004: “Comprendere le procedure che consentono di esprimere e risolvere le situazioni problematiche attraverso linguaggi formalizzati”. Ricordiamoli. “1.1 Comprende il significato e le proprietà delle operazioni e utilizza strumenti, tecniche e strategie di calcolo (fino all’impostazione e risoluzione di equazio- ni di 2° grado). 1.2 Analizza oggetti nel piano e nello spazio, calcolando perimetri, aree e volumi di semplici figure geometriche e costruisce modelli utilizzando figure. 1.3 Individua le strategie matematiche appropriate per la soluzione di problemi inerenti la vita quotidiana e professionale e motiva le risposte prodotte. 1.4 Analizza dati e li interpreta sviluppando deduzioni e ragionamenti sugli stessi anche con l’ausilio di strumenti statistici (analisi della frequenza, tassi, pro- babilità) e di rappresentazioni grafiche”. In Provincia di Trento si è tentata una differente declinazione: “1.1 Utilizzare consapevolmente notazioni e sistemi di rappresentazione vari per generalizzare o per astrarre. 1.2 Riconoscere, utilizzare funzioni tipiche del contesto professionale di riferimen- to e rappresentarle anche utilizzando i principali applicativi informatici. 4 3 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 43 1.3 Utilizzare il modello di funzione o di equazione per rappresentare e risolvere problemi che si presentano nel contesto professionale di riferimento”. Gli esperti della Commissione europea invece hanno impostato le competenze in questo modo. “a) A un livello di base fondamentale: abilità di usare addizioni, sottrazioni, mol- tiplicazioni, divisioni e rapporti in calcoli mentali e scritti per risolvere un insieme di problemi presenti nelle situazioni quotidiane. b) A un livello più sviluppato: la capacità e volontà di usare, in modo appro- priato al contesto, le modalità di pensiero matematico (pensiero logico e spa- ziale) e di descrizione matematica (formule, modelli, costrutti, grafici, dia- grammi) che hanno una applicazione generale nel descrivere e spiegare la realtà”. Anche in questo caso si esplicitano le conoscenze, le abilità e gli atteggiamenti che entrano a far parte della competenza matematica. Più radicale è invece l’impianto degli standard elaborati nel contesto della ricerca guidata da L. Guasti. Si è scelto di partire da una tipologia di compiti da affron- tare di natura diversa da quella strettamente matematica per evidenziare più chia- ramente il suo valore strumentale per affrontare situazioni di vita e di lavoro. Ad esempio sono stati presi in considerazione: a) compiti di gestione economica quo- tidiana e di comprensione di fenomeni di macroeconomia; b) compiti di gestione e amministrazione degli spazi domestici e problemi di edilizia urbana; c) compiti di natura fiscale sia personale, sia più generale; ecc. È abbastanza chiaro come nel caso della matematica solo questi ultimi standard hanno carattere vero e proprio di competenze specifiche. In maniera meno parti- colare, ma abbastanza vicina a una nozione di competenza, sono le indicazioni della Commissione europea e il tentativo realizzato in Provincia di Trento. Mentre tre delle declinazioni degli standard formativi minimi dell’Accordo sono chiara- mente di tipo contenutistico e del tutto interni alla matematica. Uno di essi apre genericamente al problema delle applicazioni della matematica a problemi delle vita quotidiana e professionale, ma ciò non è sufficiente. 7. Standard minimi di competenza: loro valorizzazione nel processo formativo Un volta definiti gli standard di competenza l’azione formativa deve essere impo- stata in modo coerente con la loro identità. Non mi soffermo sull’influsso che stan- dard di competenza di natura tecnica o contenutistica possono avere su tale impo- stazione. I primi effetti della riforma statunitense non appaiono molto esaltanti, ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 4 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 44 anche perché la valutazione condotta a livello degli Stati mediante test standar- dizzati ha una ricaduta perniciosa sull’attività docente. Molti insegnanti tendono a limitare la propria azione nel preparare gli studenti ad affrontare le prove uffi- ciali. Si perdono di vista i bisogni educativi propri di ciascuno di loro e l’impor- tanza di un processo educativo multidimensionale. Mi preme delineare qualche suggerimento a partire da una lettura degli standard in termini di complessità o, secondo quanto indicato da molti autori, come sollecitazione a considerarli come indicazione di grandi quadri concettuali e significative competenze procedurali. Questa tipologia di standard è più orientata a tener conto dei processi ed ha una ricaduta di tipo metodologico assai importante. Se, infatti, l’attenzione è rivolta più al processo di apprendimento, che a quello di trasmissione di contenuti, occor- re evitare, soprattutto nel caso di attività di formazione professionale iniziale, di rinunciare allo sviluppo di adeguate competenze nei settori chiave della formazio- ne culturale e alla cittadinanza, per concentrarsi soltanto su competenze di natu- ra tecnico-professionale. La questione pedagogico-didattica implica una particolare attenzione alla proget- tazione e alla realizzazione delle attività formative. Queste non possono assumere un carattere prettamente disciplinare nel senso di una progressione sistematica di unità didattiche dedicate a singoli argomenti. Occorre prospettare attività che integrino lo sviluppo di una pluralità di conoscenze e di abilità intorno ad espe- rienze significative. Oggi viene spesso utilizzato il concetto di unità di apprendi- mento per indicare come le attività proposte cerchino di promuovere un appren- dimento che sia situato nel contesto esperienziale degli allievi e che risulti per loro significativo. Tali attività potranno essere centrate più sullo sviluppo di compe- tenze professionali oppure di competenze più culturali, ma in maniera da garan- tire un lavoro di costruzione delle conoscenze e delle abilità in maniera il più pos- sibile significativa e aperta alla loro valorizzazione operativa e pratica. Competenze di tipo matematico applicato possono essere agevolmente sviluppate a partire da indagini guidate. Ad esempio si può esplorare il formato della carta, le sue conseguenze sul piano della cartotecnica e della riproduzione mediante mac- chine fotocopiatrici. È un’attività che permette un notevole sviluppo delle cono- scenze e abilità relative all’uso dei concetti di rapporto e proporzione partendo da verifiche anche di tipo empirico. Tali concetti possono poi essere applicati a campi economico-finanziari di vita quotidiana rinforzandone la comprensione e favoren- do il loro trasferimento ad altre situazioni. In questa prospettiva diventa estremamente importante la considerazione della dimensione affettiva e motivazionale. È una dinamica già chiaramente individua- ta e descritta da Aristotele, quando aveva sottolineato i caratteri energizzanti della percezione di possedere le risorse interne necessarie per conseguire l’obiettivo pro- 4 5 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 45 spettico individuato: “Le rappresentazioni cognitive degli obiettivi e le attività pre- figurate a questi strumentali non sono sostenute da proprietà dinamiche, cioè non danno energia o facilitano l’azione, finché non sia stata stabilita la loro compati- bilità con la struttura significativa personale (il sé) e/o finché esse non siano state tradotte in routine comportamentali disponibili all’organismo”. Una versione recente di tale impostazione è data dal modello moltiplicativo della motivazione, cioè dalla formula M = P x V, dove M sta per motivazione, P sta per percezione di possedere la competenza necessaria per conseguire un obiettivo o por- tare a termine positivamente un compito, V sta per valore attribuito all’obiettivo o al portare a termine positivamente il compito. P può essere espresso in maniera più sofisticata come probabilità soggettiva di essere in grado di conseguire l’obiettivo o di portare a termine positivamente il compito. In altri termini, P esprime il grado di fiducia che si ha nel verificarsi dell’evento “raggiungimento dell’obiettivo” o dell’e- vento “conclusione positiva del compito”. L’aspetto moltiplicativo del modello sta nell’analogia stabilita con la legge di annullamento del prodotto: se uno dei termini è zero, o tende a zero, il prodotto vale zero, o tende a zero. In altre parole se la per- cezione di competenza o il valore attribuito all’obiettivo (o tutti e due) sono deboli o inesistenti anche la motivazione è fragile o assente. 8. Standard minimi di competenza: loro valutazione e certificazione Per esaminare brevemente il problema della valutazione e della certificazione del raggiungimento degli standard formativi occorre premettere alcune osservazioni critiche relative all’uso di queste due espressioni. In primo luogo il termine valutazione va qui utilizzato come interpretazione delle informazioni valide e pertinenti raccolte e rese disponibili alla luce degli standard definiti. L’accento è messo sul processo di interpretazione, ben diverso da quello di misurazione, che implica una qualche forma di traduzione delle informazioni in dati, cioè in numeri o aggettivi da elaborare con procedure più o meno di tipo sta- tistico. L’espressione “valutare”, infatti indica “attribuire valore” a qualcosa o qualcuno sulla base di criteri generali e di informazioni valide e pertinenti. In que- sto caso i criteri generali sono gli standard, le informazioni sono ricavabili dalla documentazione comunque raccolta circa il raggiungimento delle capacità espres- se dalle competenze. È evidente che più gli standard riguardano caratteristiche personali complesse, più l’interpretazione del loro raggiungimento è difficile e segnata da fattori di soggettività e di intersoggettività. Valutare l’acquisizione di competenze da parte di soggetti in formazione è compi- to ancora più impegnativo, in quanto le competenze sono capacità personali inter- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 4 6 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 46 ne di cui possiamo cogliere solo le manifestazioni esterne o prestazioni. D’altra parte non basta una singola prestazione ad inferire la loro presenza o assenza. Per questo si parla anche di indicatori di competenza, che se convergenti favoriscono un giudizio positivo a un buon grado di affidabilità; se divergenti o incerti lascino non pochi dubbi. Va inoltre ricordato come inerente al concetto stesso di compe- tenza sta il fatto che queste possono essere acquisite sia in contesti formali, sia non formali, sia informali. In altre parole le competenze personali derivano dell’intera storia ed esperienza dei soggetti. Quanto all’espressione “certificazione” occorre usare ancora più cautela. Essa deriva dal latino “certum facere”, dare certezza, ma diverso è il caso di certifica- zioni relative alla città e alla data di nascita o alla nazionalità e la certificazione di competenze. Mentre nel primo caso si può parlare di certezza oggettiva, nel secon- do occorre specificare che si tratta di una certezza assai più sfumata e legata a giu- dizi di plausibilità, di probabilità. In altre parole si esprime un grado di fiducia da parte di una comunità formativa circa il raggiungimento di una o più competen- ze, o anche di livelli di competenza, sulla base delle informazioni disponibili e del referenziale dato dagli standard. Se questi sono poi generici e le informazioni non adeguatamente affidabili, il grado di fiducia che possiamo dare alla “certificazio- ne” è assai ridotto. Di qui la necessità di elementi di convalida della certificazione al fine di aumentarne la affidabilità sociale. Una valutazione della competenze è possibile solo sulla base di una molteplicità di fonti informative. La valorizzazione di più fonti informative migliora la fiducia che posso avere circa il giudizio finale. In questo caso si parla spesso di triangola- zione dei dati. In genere le fonti utilizzate nel caso delle competenze sono: a) l’os- servazione più o meno sistematica del comportamento dei soggetti in formazione mentre portano a termine i compiti caratterizzanti le competenze intese; b) un esame attento dei risultati delle loro prestazioni sulla base di griglie di analisi ade- guate; c) la descrizione narrativa dei processi messi in atto da parte dei soggetti in formazione quando impegnati nei compiti propri delle competenze considerate e la loro autovalutazione sia del processo, sia del prodotto finale. Queste fonti per- mettono di raccogliere una documentazione significativa relativa alle manifesta- zioni di competenza o prestazioni. Occorre, poi, che questa venga ordinata nel tempo, valutata secondo criteri definiti sia da parte dei formatori, sia dei soggetti in formazione. È in sostanza quanto previsto come modalità fondamentale di uti- lizzazione del metodo del portfolio di valutazione. Quanto alla certificazione oggi si insiste sul concetto di trasparenza degli attestati di competenza, come dei titoli e diplomi che vengono rilasciati al termine di per- corsi formativi, soprattutto in contesti formali. In ambito europeo, ad esempio, è stato sviluppato il progetto Europass che intende facilitare la presentazione di se 4 7 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 47 stessi nel mondo del lavoro mediante un insieme di documenti che comprendono il portfolio europeo delle lingue, le informazioni relative alla mobilità, il curricu- lum vitae europeo, i supplementi ai diplomi, i supplementi ai veri certificati. Questo insieme di documenti dovrebbe offrire una presentazione adeguatamente ricca della qualità personale in termini di competenze acquisite. In particolare sono diventati di uso comune i cosiddetti Supplementi ai diplomi e ai certificati. Si tratta di una descrizione puntuale dei percorsi formativi, dei contenuti e modalità formative, dei tempi di apprendimento (o cosiddetti crediti ECTS), delle compe- tenze effettivamente acquisite nel contesto di tali pratiche formative. 9. Conclusione L’insieme delle considerazioni precedentemente sviluppate porta a riconsiderare sotto una luce più ricca e impegnativa sia il concetto di standard formativi basati sull’acquisizione di effettive competenze e sia il ruolo del formatore nel promuo- verne lo sviluppo nei soggetti verso i quali si rivolge la sua azione educativa, sia la loro valutazione ed eventualmente certificazione. La mia proposta è quella di rileggere il concetto di standard formativo a partire da quello di competenze chia- ve del cittadino e del lavoratore, soprattutto se essi devono indicare una finalità fondamentale nella crescita personale, culturale, sociale e professionale dei sog- getti in formazione. In questo caso la condizione essenziale per una loro definizio- ne è che le competenze da essi segnalate possano progressivamente irrobustirsi ed essere utilizzabili in contesti sempre più complessi e meno famigliari. È questa una concezione delle competenze che possiamo definire dinamica, in contrasto con una possibile interpretazione riduttiva di tipo statico, quasi una piattaforma che può anche essere solida, ma chiusa in se stessa, che costituisce come una condizione indispensabile per poter impostare la costruzione dell’edificio conoscitivo proget- tato, che però presenta solo una labile continuità con gli elementi che compongo- no tale piattaforma. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 4 8 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 48 2.3 - Processo di costruzione degli standard professionali e formativi nell’attuale contesto italiano Anna D’Arcangelo Area Politiche ed offerte per la formazione iniziale e permanente - ISFOL Nel corso degli anni si è sviluppato un processo di elaborazione e costruzione di standard minimi delle competenze, ancora in fieri, che ha però molto risentito di una logica improntata a dare una risposta “di filiera”. A titolo esemplificativo pos- siamo ricordare l’esperienza relativa ai percorsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore, che ha visto Amministrazioni centrali, regionali ed esperti delle Parti Sociali impegnati nella realizzazione degli standard delle competenze di base e tec- nico-professionali relativi alle figure del “Tecnico superiore”. Le riflessioni attuali pongono, invece, maggiore attenzione ad una logica di più ampio respiro, anche grazie ad un quadro di riferimento europeo che suggerisce la costruzione di un sistema di apprendimento permanente caratterizzato dalla visi- bilità dei percorsi, dal riconoscimento dei crediti formativi maturati nei diversi momenti della vita sociale e lavorativa. Questo processo di costruzione, che vede l’Italia ancora in ritardo rispetto agli altri Paesi europei, non è stato supportato sufficientemente da un lavoro congiunto tra le istituzioni e il mondo professionale attraverso un lavoro organico di costruzione di un sistema di riferimento condiviso a livello nazionale e regionale, in un’ottica di integrazione dei sistemi formativi e del lavoro. In sintesi, e con tutta chiarezza, non esiste ancora un repertorio delle professioni e delle qualifiche a livello nazionale, anche se molti lavori sono stati completati e molti altri sono ancora in corso. Esiste un vecchio repertorio delle professioni che risale al 1949 ed è stato aggiornato nel 1960 dal Ministero del Lavoro, le cosid- dette Monografie. Si ricordano inoltre le recenti indagini realizzate dagli Organismi Bilaterali attorno al tema dell’analisi dei fabbisogni professionali e con- tenenti la descrizione delle figure, delle aree professionali, delle attività fonda- mentali delle figure e delle relative competenze. A livello territoriale sono inoltre stati costruiti repertori regionali, che di per sé non hanno inciso sul processo di costruzione di standard nazionali che comunque, come dimostrato dai recenti provvedimenti che verranno citati a breve, si sta indirizzando sempre più verso una logica di sistema. 4 9 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 49 Ripercorrendo le tappe istituzionali della costruzione degli standard sia di base che tecnico-professionali, è utile iniziare ricordando l’Accordo Stato-Regioni del 2000, una tappa storica in cui si è convenuto sulla necessità di affrontare la materia delle certificazioni delle competenze professionali, definendo le procedure per la costi- tuzione di un sistema nazionale di certificazione di tali competenze. Questo momento segna il primo accordo tra le parti, in cui al Ministero del Lavoro viene affidato il compito di formulare proposte relative a criteri e modalità di certifica- zione delle competenze acquisite nella formazione professionale. In questo primo Accordo si formula per la prima volta anche l’ipotesi di elaborazione del libretto formativo del cittadino, che grazie al recente decreto dell’ottobre 2005, è diventa- ta una realtà operativa, al momento in corso di sperimentazione. Il decreto ministeriale n. 174 del 2001 sulla certificazione delle competenze nel sistema della formazione professionale, all’art. 3 “Individuazione degli standard” afferma che al fine di assicurare basi minime omogenee per il sistema di certifica- zione su tutto il territorio nazionale, il Ministero del Lavoro, d’intesa con il Ministero della Pubblica Istruzione, il Ministero dell’Università e le Regioni, pre- vio confronto con le Parti Sociali, definisce con provvedimenti successivi gli stan- dard minimi di competenza. Tali standard contengono, in relazione ai diversi settori produttivi, i seguenti ele- menti: a) il riferimento alla figura o gruppi di figure professionali e alle attività o aree che le caratterizzano; b) la descrizione delle competenze professionali e i criteri per la valutazione del possesso di tali competenze; c) l’individuazione della soglia minima riferita al possesso delle competenze di cui al punto b), necessaria per la certificazione. Un’altra tappa di questo percorso di costruzione degli standard è rappresentata dal decreto interministeriale n. 152 del 2001, “Individuazione dei contenuti delle attività formative degli apprendisti in Obbligo Formativo”, in cui si definiscono: - le finalità e i contenuti dei moduli aggiuntivi di 120 ore della formazione esterna; - gli standard minimi in uscita formulati sulla base di indicatori internazionali di riferimento, relativamente alle seguenti aree di competenza: ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 5 0 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 50 I riferimenti alle indagini internazionali non sono casuali: il lavoro è stato realiz- zato in un’ottica di raffronto europeo, in particolare con i lavori dell’OCSE sulla misurazione delle competenze. Si pensi ad esempio alle indagini IALS-SIALS, ALL e PISA. Questo lavoro attorno alle scale internazionali è stato anche ripreso successiva- mente per la definizione delle competenze di base degli IFTS. Tutto ciò è stato rea- lizzato anche nell’ottica di mantenere la possibilità di una verticalizzazione della formazione, ovvero di agevolare i passaggi tra sistemi e segmenti formativi. Altro passaggio fondamentale per la costruzione di standard è rappresentato dall’Accordo in Conferenza Stato-Regioni del 2002 che ha portato alla approva- zione degli standard minimi delle competenze di base e trasversali per gli IFTS. Gli standard riguardano le seguenti aree di competenza: linguistica, scientifica e tecnologica, giuridico-economico-aziendale, trasversale. Due anni dopo, l’Accordo in Conferenza Stato-Regioni ha sancito anche gli “Standard minimi delle Competenze Tecnico Professionali per gli IFTS”. Gli stan- dard di competenza si riferiscono a 37 figure professionali relative ai seguenti set- tori: Agricoltura, Ambiente, Edilizia, ICT, Industria, Trasporti, Turismo. Le figu- re professionali di riferimento sono individuate a partire dalle scelte compiute dalle Regioni e dalle Province autonome nella precedente fase sperimentale e in relazione ai risultati delle ricerche sui fabbisogni formativi condotte anche dagli Organismi Bilaterali. Questa breve rassegna continua poi, in relazione alla formazione professionale di base, con l’Accordo siglato in Conferenza Stato-Regioni il 15 gennaio 2004, il quale prevede la definizione degli standard minimi delle competenze di base, in attuazione dell’Accordo del 19 giugno 2003. L’Accordo è inerente quindi ai per- corsi sperimentali triennali ed ha la finalità di garantire spendibilità nazionale 5 1 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD Area delle competenze linguistiche (lingua italiana) Area delle competenze matematiche Area delle competenze linguistiche (lingua straniera) Area delle competenze informatiche Riferimento al livello 3 della scala nata dalla Indagine IALS-SIALS (Indagine Internazionale sul letteratismo della popolazione adulta) Riferimento al livello 3 della scala nata dalla Indagine ALL (Indagine sul letteratismo e le abi- lità per la vita della popolazione adulta) Riferimento al livello 2 della scala ALTE, ovvero al livello B1 del Quadro Comune Europeo delle lingue (L2) Riferimento alla ECDL (Patente Europea di Guida del Computer) CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 51 degli esiti formativi certificati, intermedi e finali. Gli standard sono così articolati: area dei linguaggi, area scientifica, area tecnolo- gica, area storico-socio-economica e prevedono, per ogni area, la possibilità di una ulteriore declinazione a livello regionale attraverso la loro sperimentazione. Il lavoro è stato svolto attraverso un partenariato istituzionale, ovvero un gruppo di lavoro congiunto tra Ministero dell’Istruzione, Ministero del Lavoro, le Regioni e il supporto di vari Enti, tra cui INVALSI, ISFOL e Tecnostruttura. Strettamente legato al lavoro sulla definizione degli standard minimi delle compe- tenze di base per i percorsi triennali è l’Accordo siglato nell’ottobre del 2004 in Conferenza Unificata che ha sancito la certificazione a validità nazionale finale e intermedia, e il riconoscimento dei crediti maturati nei percorsi formativi. Gli obiettivi dell’Accordo riguardano la necessità di favorire la spendibilità nazio- nale delle certificazioni acquisite e il riconoscimento dei crediti formativi nel siste- ma dell’istruzione e della formazione, e di facilitare la prosecuzione dell’iter for- mativo anche attraverso passaggi tra i sistemi. Fanno parte integrante dell’Accordo i dispositivi in allegato quali l’attestato di qualifica professionale, il certificato di competenze intermedio con relativa legenda per la sua compilazione e l’attestazione di riconoscimento dei crediti ai fini dei passaggi al sistema della FP, dall’apprendistato e dalla scuola secondaria superiore, e anche ai fini dei passag- gi interni alla FP. Il decreto interministeriale n. 86 del 2004 prevede, in relazione al sopra citato Accordo, l’approvazione dei modelli di certificazione per il riconoscimento dei cre- diti, ai fini del passaggio dalla FP e dall’apprendistato al sistema dell’istruzione. Il decreto presenta due modelli allegati: il modello A riguarda il certificato per il riconoscimento dei crediti per il passaggio dal sistema di FP e dall’apprendistato alle classi degli istituti di istruzione secondaria superiori, con esclusione delle quarte e quinte classi degli istituti professionali e d’arte; il modello B riguarda il certificato per il riconoscimento dei crediti per il passaggio dal sistema di FP e dal- l’apprendistato al sistema dell’istruzione ai fini dell’ammissione all’esame di qua- lifica presso gli istituti professionali o all’esame di licenza di maestro d’arte pres- so gli istituti d’arte. Risulta evidente come questo decreto intervenga dunque sulla possibilità di favorire il dialogo tra sistemi e quindi la percorribilità dei percorsi formativi. Altro tassello significativo per favorire i passaggi tra sistemi è l’ordinanza mini- steriale n. 87 del 2004, la quale si occupa delle norme concernenti il passaggio dal sistema della FP e dall’apprendistato al sistema dell’istruzione, abolendo l’esame prima previsto e stabilendo che apposite Commissioni valutino le certificazioni introdotte dal su citato decreto interministeriale n. 86 e attestino che il giovane abbia le competenze adeguate per l’ammissione alla frequenza di una determina- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 5 2 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 52 ta classe dell’istituto a cui abbia fatto richiesta. Come già accennato precedentemente, riguardo al contributo per la costruzione di un sistema di standard riconosciuti a livello nazionale, non si può non citare il decreto interministeriale del 10 ottobre 2005 che, come noto, prevede l’ap- provazione del modello di Libretto Formativo del Cittadino. Si tratta di uno strumento per documentare le diverse esperienze di apprendimento dei cittadi- ni nonché le competenze acquisite nella scuola, nella formazione, nel lavoro e nella vita quotidiana. Il Libretto Formativo viene gestito e rilasciato dalle Regioni e Province Autonome e attualmente è in corso la sua sperimentazione in alcune Regioni, con modalità di applicazione differenziate a livello territoriale, secondo un piano di lavoro comune. Al termine di questo anno di sperimenta- zione si potrà avviare la diffusione e la messa a regime del Libretto per tutti i cittadini che lo richiederanno. Questi atti ministeriali dimostrano che in materia di condivisione di standard di competenze e certificazioni il Paese è andato molto avanti. Infatti, il 24 novembre 2005 è stato approvato anche l’Accordo delle Regioni, che prevede il riconosci- mento reciproco dei titoli in uscita dai percorsi sperimentali triennali ex Accordo del 19 giugno 2003. Le Regioni convengono di utilizzare i dispositivi approvati nell’Accordo del 28 ottobre 2004 per la certificazione finale e intermedia e il rico- noscimento dei crediti formativi, come format omogenei a livello interregionale. Per quanto riguarda il repertorio delle professioni, a cui abbiamo già accennato, è necessario citare il decreto legislativo n. 276/2003. All’art. 52 si afferma che allo scopo di armonizzare le diverse qualifiche professionali è istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali il repertorio delle professioni predi- sposto da un apposito organismo tecnico di cui fanno parte il Ministero dell’Istruzione, della Università e della Ricerca, le associazioni dei datori e presta- tori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e i rap- presentanti della Conferenza Stato-Regioni. In ultimo va citato lo schema di Accordo tra il Ministero dell’Istruzione, del Lavoro, le Regioni e Province autonome sugli standard minimi delle competenze tecnico-professionali, lavoro che nasce dal “Progetto interregionale competenze”. Riguarda l’adozione di standard formativi minimi relativi alle competenze tecni- co-professionali per i percorsi triennali riferite a 14 figure professionali individua- te sulla base di quanto comune certificato dalle Regioni. Lo schema di Accordo contiene un documento tecnico che presenta la metodologia adottata per la defi- nizione degli standard; le linee guida per la compilazione dei modelli A e B del già citato Accordo del 28 ottobre 2004; gli standard formativi tecnico professionali per le figure professionali dei percorsi triennali e la presentazione della struttura- zione degli standard. 5 3 PRESUPPOSTI PER LA COSTRUZIONE DEGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 53 È stato dunque realizzato un lavoro consistente in pressoché tutte le filiere forma- tive: l’apprendistato, gli IFTS, i percorsi di IFP sperimentali triennali, l’educazio- ne degli adulti. Sugli standard professionali e formativi hanno lavorato, come più volte evidenziato, tutti gli attori del sistema: Ministeri dell’Istruzione e del Lavoro, Regioni, Enti di formazione, tra i quali il CNOS-FAP e il CIOFS-FP, che hanno elaborato un sistema organico di standard della formazione professionale, Parti Sociali, ISFOL e altri organismi di assistenza tecnica. Come già detto più volte si è lavorato per lo più per filiera formativa. È mancato tuttavia un quadro di riferimento a livello nazionale condiviso ed organico con tutti gli altri attori del sistema dell’istruzione, formazione e lavoro. È per queste ragioni che il Ministero del Lavoro ha promosso l’avvio di un tavolo che a partire dall’esistente promuova le finalità già richiamate. Un lavoro di questo tipo si rende necessario, tra l’altro, per l’attenzione dell’Unione Europea verso un quadro europeo delle qualifiche: l’European Qua- lification Framework (EQF) richiede infatti un National Qualification Framework (NQF), ovvero un quadro nazionale delle qualifiche, fondamentale nel contesto di un mercato globalizzato. Per questo, l’Italia non può più presentarsi con una leggibilità delle competenze di livello regionale o di livello nazionale non sistemico e quindi non confrontabile con percorsi di mobilità formativa e lavorativa. Pena: perdere in competitività. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 5 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 54 3. ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 55 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 56 3.1 - Introduzione Maurizio Drezzadore Ente Nazionale ACLI Istruzione Professionale Quello degli standard formativi è uno dei problemi più spinosi del processo di costru- zione del sistema formativo italiano, processo ancora aperto dopo oltre 10 anni dal primo avvio di percorsi di riforma che hanno attraversato due legislature e che anco- ra attendono un definitivo compimento. La riforma della formazione professionale, avviata dal 1996 e che ha visto il suo dispiegarsi nelle due passate legislature, ha determinato una profonda trasformazio- ne del sistema disegnato dalla legge 845/78, dando vita ex novo nel nostro Paese a segmenti d’attività di fatto non ancora strutturati: 1. l’obbligo formativo; 2. la formazione di livello terziario, a partire dall’IFTS; 3. la formazione continua con l’introduzione dei fondi interprofessionali; 4. l’apprendistato e la formazione iniziale per il conseguimento della prima qualifi- ca e l’espletamento del diritto-dovere. Accanto a ciò, i governi che hanno preceduto l’attuale hanno posto mano - soprat- tutto grazie all’impiego dei Fondi strutturali riservati alle amministrazioni centrali - alla definizione di quadri di riferimento metodologici e procedurali comuni per i sistemi regionali di formazione: a) accreditamento, b) analisi di fabbisogno, c) relazioni con i servizi all’impiego, d) criteri di valutazione, ecc.. È rimasta sostanzialmente sottovalutata la definizione: a) degli standard minimi professionali, b) degli standard formativi, c) la messa a punto di un sistema di riconoscimento e certificazione delle competen- ze, tutti ambiti che afferiscono ad una funzione nazionale, decisiva per conferire razionalità e intelligibilità all’insieme e per garantire uniformità di esercizio al diritto individuale alla formazione. 5 7 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 57 È una questione di grande rilievo, che collega strettamente tra loro tutta una serie di tematiche: a) la costruzione di una mappa delle professioni e dei mestieri, b) la messa a punto di un sistema nazionale di certificazione delle competenze, c) la garanzia di standard di servizio omogenei a livello nazionale per quel che riguarda la tipologia delle competenze acquisibili, d) la qualità dei risultati di apprendimento e di professionalità offerti ai fruitori dei servizi formativi, e) la trasparenza complessiva del sistema, anche in riferimento alla valutazione del- l’efficienza del rapporto tra risultati conseguiti e risorse impiegate. È una questione che rende necessario mettere mano ad un quadro di riferimen- to nazionale, un quadro condiviso, a partire dal quale le Regioni possano muo- vere per la definizione di loro peculiarità, legate a specifiche esigenze dei conte- sti produttivi locali. Insomma, abbiamo in Italia un problema di definizione istituzionale che esige di essere tempestivamente affrontato: è urgente definire un quadro condiviso di regole, principi e standard a cui ricondurre le singole iniziative, sia per armonizzare in un insieme organico i risultati dei lavori già svolti sia per garantire una regia unitaria e la rispondenza a criteri comuni dei processi in corso o da avviare. Singole esperienze, per quanto condivise da tutti, non possono di per sé “fare siste- ma”. Peraltro, in assenza di una comune cornice, le Regioni sono costrette a defini- re autonomamente propri sistemi di classificazione delle qualifiche e di definizione degli standard formativi: con il rischio che, permanendo la mancanza di un quadro nazionale, si determini così l’allargarsi delle distanze e l’incrementarsi delle diffe- renze tra i vari sistemi regionali, con la conseguenza che diventa a mano a mano più difficile ricomporre un quadro unitario a partire dal quale le specificità regionali possano caratterizzarsi senza lacerare un tessuto comune. In più c’è da ricordare come il tema abbia ormai urgenti motivi per essere affronta- to anche per ragioni che provengono da oltre confine. Negli ultimi mesi infatti gli Stati membri e la Commissione Europea hanno animato un dibattito in vista della costruzione di un quadro europeo delle competenze (EQF) e di un sistema europeo di trasferimento di crediti formativi (ECVET). Si stanno così definendo reti e par- tenariati tra Stati e tra esperti per la reciproca conoscenza ed il confronto su temi e problemi comuni. In questo contesto non è mancato l’impegno del Ministero del Lavoro, di quello dell’Istruzione e delle Regioni nella definizione di una omogeneizzazione delle azio- ni formative - impegno che ha portato all’adozione di provvedimenti normativi e alla sottoscrizione di importanti accordi ed intese -, è mancata invece totalmente l’ope- ratività su tali accordi, che in molti casi si sono limitati a rappresentare l’ambito delle ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 5 8 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 58 buone intenzioni. Quello che è mancato quindi è la costruzione di una più forte con- divisione politica che sorregga l’avvio e la realizzazione del lavoro e di dispositivi normativi per legittimare e rendere “cogente” il percorso. Ma soprattutto è necessa- rio impegnare reciprocamente e formalmente tutti gli attori all’osservanza dei risul- tati del lavoro intrapreso. Solo la più ferma determinazione a conseguire con rapidità la definizione degli stan- dard potrà offrire quel contesto operativo che permetta a tutti i progettisti e i forma- tori, con chiarezza, di riferirsi a obiettivi comuni che tutti i corsisti debbono conse- guire, eventualmente secondo tempi e modalità adeguati alle capacità degli allievi. Non si tratta di porre limitazioni al processo di personalizzazione nell’apprendimen- to, ma quest’ultimo può riguardare la scelta da parte di ciascun allievo di quali stan- dard conseguire, non certo il livello di conseguimento degli stessi standard, che, in tal caso, cesserebbero di essere tali. Dobbiamo avere piena consapevolezza che abbracciando la strada della rapida defi- nizione degli standard formativi avremo come immediata conseguenza che, per la formazione nella qualifica, le tecniche di valutazione dei risultati dovranno essere sostanzialmente uniformi per la formazione professionale e l’istruzione scolastica. Pur rimanendo diversi i parametri di riferimento dell’una e dell’altra, in coerenza con i differenti curricula che ciascun percorso disegna. C’è un filo rosso che unisce in una sequenza logica e stringente la classificazione delle professioni, il quadro delle qualifiche, gli standard di competenze e sistemi di certi- ficazione dei crediti formativi. Mettere mano a uno di questi ambiti significa deter- minare la necessità di ritoccare gli altri per adeguarli ai cambiamenti apportati al primo. Da qui scaturiscono tre problemi, che potremo definire preminentemente di natura politica, e che voglio rapidamente evidenziare. Un primo problema - che è insieme politico, istituzionale e tecnico - è quello di tro- vare i modi per far lavorare assieme in modo rapido ed efficace le varie istituzioni che operano in questo ambito. È evidente infatti che mentre la Costituzione attribuisce competenza esclusiva alle Regioni per quanto riguarda la formazione professionale - e conseguentemente ne deriva che i titoli di qualifica e gli standard di competenze devono essere elaborati dalle Regioni - nel contempo, quello alla formazione è definito, sempre secondo la Costituzione, un diritto individuale e pertanto esigibile sull’intero territorio nazio- nale. Il nuovo punto di sintesi è quindi da ricercarsi tra universalità del diritto, degli standard e del titolo e la territorialità delle competenze gestionali, organizzative e programmatiche. Secondo problema fortemente connesso all’universalità del diritto è quello della sus- sidiarietà e del ruolo delle istanze nazionali relativamente alle modalità d’esercizio dei poteri sostitutivi dello Stato nel caso di mancato rispetto dei diritti individuali (e 5 9 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 59 abbiamo detto che quello alla formazione va considerato tale). Come si potrà esercitare questa funzione? Chi dovrà prendere l’iniziativa? Così com’è urgentissimo definire gli standard minimi a livello nazionale, per dare sostan- za ai diritti individuali e costringere le varie istanze (Regioni, Enti locali, enti e agen- zie di formazione) a rimboccarsi le maniche per far meglio il proprio lavoro; altret- tanto urgente è dare risposta a queste domande costruendo una definizione legisla- tiva del potere sostitutivo dello Stato, così come previsto dal comma 2 dell’art. 120 della Costituzione. Terzo ed ultimo tema importantissimo, che intendo segnalare a questa tavola roton- da, è quello della trasparenza. Definire gli standard e costruire dispositivi e strumenti di verifica (per esempio attraverso esami finali) del loro conseguimento al termine delle attività formative costituisce un poderoso strumento per valutare l’efficacia dei sistemi, degli Enti e agenzie, e delle loro singole sedi. Un significativo strumento di governo e di emersione della qualità e dell’inefficienza. È evidente che chi ha le carte a posto (e gli Enti di Forma le hanno) pretende che questi strumenti, capaci di farci distinguere il grano dal loglio, siano rigorosi, scien- tificamente costruiti, disponibili al più presto, prima che il dumping sociale, ad opera di soggetti non qualificati, scarnifichi il sistema degli Enti di formazione, con il loro patrimonio di saperi e la loro qualificata esperienza, per lasciare il vuoto dell’appa- rente efficienza, ma in realtà della polverizzazione organizzativa e dell’incompeten- za pedagogica, didattica e formativa. Un’altra conseguenza della gestione trasparente degli standard formativi e dei siste- mi di valutazione sarà quella di consentire comparativamente la misurazione del- l’efficacia, in termini di apprendimenti, delle varie articolazioni operative che ero- gano servizi formativi o che svolgono attività d’istruzione. Sarà cioè possibile, su una base oggettiva e condivisa, comparare i risultati di una scuola e metterli a confron- to con un’altra, o di un centro di formazione professionale rispetto a un altro. Di più, sarà possibile comparare, in condizioni omogenee, i risultati della formazione pro- fessionale e della scuola, nell’area del diritto-dovere, in cui vi è obiettivamente con- vergenza di utenze e contenuti. Ed infine una considerazione specifica per gli Enti di formazione. Se proviamo ad incrociare il tema della trasparenza e quello della sussidiarietà ne viene fuori un nuovo ruolo, oltre che per le istituzioni ministeriali dello Stato anche per gli Enti nazionali di formazione professionale. Essi infatti sono chiamati, nei confronti delle proprie strutture territoriali, ad un ruolo analogo a quello dello Stato centrale a dife- sa della qualità e della uniformità nazionale del servizio formativo erogato. Gli Enti nazionali sono chiamati quindi a intervenire ovunque le situazioni regionali entrino in crisi, o vi siano da correggere cadute di qualità nella prestazione formativa, ma soprattutto quando la qualità dell’offerta, in termini di risultati d’apprendimento, ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 6 0 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 60 risulti scadente e inferiore ai parametri di qualità che l’Ente ritiene irrinunciabili. Una funzione a difesa e a presidio della qualità del sistema, che va dalla formazio- ne del personale alla creazione - in collaborazione con gli altri enti e con le istanze nazionali e regionali - di centri di risorse didattiche; ma passa soprattutto attraver- so la conoscenza puntuale delle proprie reti regionali, la capacità di valutarne l’effi- cacia e l’efficienza e di intervenire prontamente dove necessario per migliorare la qualità dell’offerta formativa delle sedi territoriali. 6 1 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 61 3.2 - Presupposti per la costruzione degli standard Luciano Falchini Settore FSE e Sistema della Formazione e dell’Orientamento Regione Toscana Il contributo che ritengo di poter dare a questa occasione di confronto sul tema degli standard formativi nell’Istruzione e nella Formazione Professionale, nasce dall’espe- rienza di lavoro in corso in Regione Toscana che si sta sviluppando in parallelo a quella che vede coinvolte tutte le Regioni e Province autonome italiane in un con- fronto divenuto sempre più serrato ed impegnativo sui temi che riguardano i dispo- sitivi tecnici di attuazione, ovvero di messa in opera “sul campo” delle politiche di lifelong learning. È pertanto un contributo che inevitabilmente - soprattutto perché tale è la prospettiva all’interno della quale si colloca la tematica proposta - guarda a quanto in via di elaborazione in Toscana, ma in un’ottica di sistema (ancora in via definizione) nazionale. In Toscana la legge regionale 32/2002 ed il relativo regolamento di attuazione ha ri-disegnato una prospettiva unitaria di attuazione delle politiche di istruzione, formazione e lavoro, ponendo al centro di esse la garanzia per ciascun cittadino di poter fruire in ogni momento del diritto all’apprendimento ed al lavoro, svilup- pando quello che anche l’Unione europea riconosce quale risorsa più preziosa per la competitività delle società europee: la conoscenza. Tale prospettiva si realizza attraverso un sistema di servizi erogati da soggetti pubblici e soggetti privati (wel- fare e workfare) in un quadro di governance complessiva che impegna fortemen- te e prioritariamente le istituzioni ed i particolare i governi locali. Per rendere attuabile tale sistema e, quindi, erogabili tali servizi, la Regione ha delineato un percorso di lavoro - di tipo tecnico-metodologico, ma anche politico istituzionale - che coinvolge i diversi soggetti (istituzionali e non) che operano nei sistemi del lavoro e dell’istruzione e formazione, per mettere a punto quelle “infrastrutture” necessarie all’attivazione ed al funzionamento di servizi che, pur con dispositivi, attori e contesti diversi, abbiano riferimenti comuni, non soltanto in termini di principi (primo fra tutti la centralità della persona), e permettano anzi lo svilup- po di tali diversità, esaltando e, al contempo governando le istanze di autonomia che stanno dietro ad esse. Il Progetto competenze della Regione procede pertanto sul duplice piano della dif- fusione di un cambiamento culturale complessivo (tra gli operatori dei sistemi, ma ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 6 2 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 62 6 3 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD anche tra gli stessi utenti potenziali, spesso titolari non troppo consapevoli dei diritti di cui si diceva), e della predisposizione dal punto di vista tecnico-metodo- logico delle infrastruttura necessarie a realizzare tale cambiamento, che inevita- bilmente richiederà tempo. A partire dal 2004 ci si è concentrati su alcuni presupposti fondamentali; • l’adozione di una prospettiva in qualche modo “super partes”, ovvero che pre- scinde dal formativo: pur facendo capo ad un Settore regionale specifico, il lavo- ro procede attraverso una costante (a volte faticosa, ma sempre indispensabile) condivisione con tutti i Settori dell’Area di coordinamento orientamento, istru- zione, formazione e lavoro e, laddove necessario, anche con le altre Direzioni generali; • la costruzione di un modo condiviso, soprattutto - ma non solo - con le Parti socia- li, di descrivere il lavoro, in maniera che in esso si possano riconoscere i lavorato- ri, ma anche le imprese e si possa quindi consolidare su base comune quel dialogo che è indispensabile per lo sviluppo di servizi di incontro tra domanda ed offerta di lavoro (il match tra domanda ed offerta) efficaci ed efficienti; • l’individuazione delle correlazioni (di sistemi, di attori, di dispositivi) che occor- re definire tra questo modo di descrivere il lavoro ed i sistemi educativi e for- mativi che erogano servizi per supportare le persone nei percorsi di apprendi- mento ormai necessari ed indispensabili per adeguare costantemente le compe- tenze acquisite in relazione all’evoluzione dei contesti in cui esse vengono eser- citate: l’obiettivo è quello, da tempo ormai sollecitato dall’Unione europea, di rendere riconoscibili “erga omnes” e quindi spendibili, tali competenze, attra- verso sistemi formalizzati di riconoscimento e certificazione. Ad oggi, abbiamo raggiunto un primo risultato rispetto alla condivisione di una modalità di descrizione del lavoro (un repertorio di circa 300 figure professionali elaborate da esperti di settore, passando attraverso un processo di analisi di quan- to già realizzato e di condivisione dei concetti che costituiscono il riferimento del- l’intero sistema in via di definizione, per molti dei quali è necessaria una “rifon- dazione” di significato rispetto agli usi, molteplici, correnti). A fine anno contia- mo di completare il percorso di condivisione con le Parti sociali regionali. Allo stesso tempo abbiamo avviato la riflessione sui sistemi educativi e formativi al fine di ridefinire gli indirizzi ed i riferimenti standard per la progettazione e l’e- rogazione dei percorsi nella prospettiva dell’apprendimento come risorsa preziosa di ciascun individuo non soltanto per lo sviluppo della propria professionalità, ma più in generale, per vivere ed esercitare i propri diritti di cittadino. Proprio in con- siderazione di questi obiettivi finali, intendiamo affrontare questo lavoro tenendo conto delle diverse esigenze espresse dalle persone, ovvero delle diversità esistenti tra le diverse “filiere” formative; si tratta, pertanto, di individuare per ciascuna CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 63 tipologia di “filiera” i parametri di programmazione e progettazione che devono essere rispettati da ogni intervento formativo, finalizzato al rilascio dei diversi tipi di attestazione nell’ambito del sistema regionale di formazione professionale come disciplinato dall’art. 17 della L.R. 32/2002. Tale è il significato che attribuiamo al ruolo di indirizzo che la stessa legge regionale assegna alla Regione. Abbiamo anche avviato un percorso di revisione (che è anche un percorso forma- tivo per gli stessi funzionari regionali e provinciali) dell’architettura dei processi e dei relativi dispositivi per il riconoscimento e la certificazione delle competenze comunque apprese dall’individuo (sino ad oggi in Toscana sono formalmente defi- niti unicamente i dispositivi per l’attestazione dei risultati conseguiti dalle perso- ne al termine di percorsi di formazione realizzati in contesti di tipo formale). Abbiamo impiegato alcuni mesi per condividere soprattutto con le Province (che in Toscana sono titolari della funzione di programmazione e gestione della FP) un impianto abbastanza innovativo, che vede quale fulcro centrale dei servizi al cit- tadino per il riconoscimento e la certificazione delle competenze proprio l’ambito provinciale, quale livello di erogazione più vicino ai fabbisogni reali delle persone; è una sfida consistente a rilanciare il ruolo dei servizi per l’impiego come servizi per il lifelong learning. Nel portare avanti quelli che abbiamo definito i tre filoni portanti del progetto (standard professionali, standard di processo per il riconoscimento e la certifica- zione delle competenze, e standard per la progettazione formativa) abbiamo necessariamente ri-definito convenzionalmente il concetto di “standard” (che a breve aggiungeremo all’insieme dei concetti ri-definiti con gli altri attori del pro- cesso in atto, e formalizzati nel glossario regionale) nell’ambito del sistema regio- nale integrato delle competenze, identificandolo come un insieme di caratteristi- che (di prodotto e di processo; qualitative e quantitative) che costituisce un requi- sito il cui rispetto è una delle condizioni di approvazione e finanziamento/ricono- scimento dell’intervento da parte del soggetto pubblico di programmazione (Regione o Provincia). Non si pretende di dare a questa definizione un valore assoluto; riteniamo, però, che mettendo in trasparenza il significato del termine così come condiviso con tutti gli altri soggetti del sistema, manteniamo fede all’i- stanza di trasparenza e leggibilità del sistema regionale, che costituisce fin dall’i- nizio una delle prerogative fondamentali del progetto. Ed è proprio questa prerogativa che, sul versante nazionale, ci ha portato anche a condividere il percorso in atto all’interno della Regioni con le altre Regioni e Province autonome nell’ambito di un progetto Interregionale (ormai noto come “Progetto Interregionale Competenze”), che è diventato il luogo tecnico di svilup- po della riflessione e delle proposte regionali per la definizione di un sistema-paese per il lifelong learning. In realtà, la formula del “Progetto Interregionale” (previ- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 6 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 64 sta quale strumento per la realizzazione di interventi congiunti attraverso le risor- se del FSE da parte di più Regioni e Province autonome) è stata individuata quale occasione per avviare un percorso di confronto ed approfondimento reale, ovvero basato sulle singole realtà regionali/provinciali, per l’individuazione di ciò che ragionevolmente può essere preso quale punto di partenza per delineare il sistema- paese, secondo un approccio che “parte da ciò che c’è”, ma guarda avanti. La valenza di questo lavoro è proprio nel metodo di lavoro; avvalendosi anche del contributo dei tecnici e degli esperti che supportano le Regioni e Province autono- me nel corredare di solide basi metodologiche l’impostazione delle proprie politi- che e dei dispositivi attuativi delle stesse, il tema dello sviluppo e della valorizza- zione delle competenze apprese dagli individui in contesti diversi, attraverso il riconoscimento formale e la certificazione, è stato affrontato a partire dalle neces- sità che il governo locale del sistema dei servizi per il lifelong learning pone. Con questa prospettiva sono stati affrontati i primi step attuativi della riforma intro- dotta dalla legge 53/2003, in particolare quelli riguardanti la sperimentazione di percorsi integrati per l’assolvimento del diritto-dovere di istruzione e formazione, avviati a seguito dell’Accordo siglato in Conferenza Unificata il 19 giugno 2003 dalle Regioni e Province autonome ed i Ministeri dell’Istruzione e del Lavoro, che ha avviato una stagione di notevoli cambiamenti, ancora in atto. Il lavoro di approfondimento tecnico svolto dal Progetto Interregionale ha permesso al Coor- dinamento delle Regioni e Province autonome di giocare un ruolo primario, pro- positivo nel dialogo con i Ministeri e con le Parti sociali, e di conseguire, in parti- colare con gli Accordi del 15 gennaio 2004 sugli standard formativi per le compe- tenze di base, quello del 28 ottobre 2004 sui modelli di attestazione e certificazio- ne, quello del 14 luglio 2005 sul Libretto formativo e quello in via di conclusione sugli standard formativi minimi relativi alle competenze tecnico-professionali: tutti risultati “operativi” importanti, immediatamente utilizzabili per il governo dell’attuazione delle sperimentazioni. Ma il risultato maggiore (nella prospettiva del sistema-paese) consiste proprio nell’avvio del processo, tuttora in corso, mediante il quale si sperimentano modalità di lavoro tra le Regioni e Province autonome, e tra queste ed il Governo centrale, che permettono di far emergere le potenzialità effettive del nuovo assetto costituzionale introdotto con la riforma del Titolo V, e, quindi, di definire una nuova governance per il Paese. Tale modello di lavoro, che pure ancora deve essere ulteriormente sviluppato, soprattutto attra- verso un percorso - che è anche di maturazione della cultura amministrativa delle amministrazioni locali - capace di cooptare tutte le Regioni e Province autonome attraverso un coinvolgimento operativo (che, inevitabilmente, in questi primi anni ha particolarmente impegnato alcune di esse, con un ruolo di “avanscoperta”). La garanzia di tale sviluppo è data dalla misura in cui il lavoro di studio, riflessione 6 5 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 65 ed elaborazione viene costantemente condiviso con tutte le Regioni e Province autonome (al di là dell’adesione di tutte le Regioni e Province autonome al Progetto Interregionale, è al Coordinamento - tecnico e politico - delle Regioni che di volta in volta il gruppo dell’Interregionale riporta i risultati del lavoro). Come si può immaginare è un metodo di lavoro molto oneroso e faticoso, che in que- sti due anni ha contato soprattutto sulla buona volontà individuale e di gruppo, e sul supporto di Tecnostruttura, che pure ha dovuto ri-definire il proprio ruolo di assi- stenza tecnica al Progetto Interregionale, costituendosi quale task force di coordina- mento degli apporti tecnici “regionali” (con tutte le difficoltà che sorgono quando si persegue l’istanza della “comprensione” piuttosto che della “selezione” dei diversi approcci tecnico-metodologici, adottati dai sistemi regionali). Ma la formula sembra funzionare; il percorso avviato ha portato all’elaborazione di proposte per quella che almeno a coloro, come il sottoscritto, che la stanno vivendo, appare come una formidabile ed impedibile opportunità per il Paese di avviare una nuova fase nei rapporti tra Regioni e Province autonome, Parti socia- li e Ministeri per la definizione di un quadro nazionale di riferimento per l’attua- zione di politiche della lifelong learning, che, nel rispetto delle prerogative e del- l’autonomia dei singoli soggetti, permetta la realizzazione di interventi e servizi e, al contempo, ne garantisca la fondatezza e la solidità tecnico-scientifica dei dispo- sitivi attuativi e degli strumenti. La vastità e la molteplicità dei diversi aspetti che compongono tale visione, mi sug- gerisce, quindi, di procedere in questo mio intervento evidenziando - in maniera molto sintetica - i principali tra tali aspetti e proponendo per ciascuno di essi alcu- ne suggestioni, alcuni spunti di riflessione che possono risultare utili alla “comu- nità degli operatori”, come anche a quella degli “amministratori” (intendendo il termine “comunità” in senso molto ampio); si tratta di tasselli che possono essere utili per un puzzle la cui composizione è ancora tutta da realizzare. Del resto stan- te l’attuale scenario nazionale, che, come dicevo, risulta ancora in via di defini- zione anche relativamente ad alcune importanti opzioni politiche di fondo, soprat- tutto in materia di istruzione e formazione professionale, le occasioni quale quel- la di questo seminario non possono che costituire un contributo allo sviluppo di un dibattito, che sostanzialmente non ricerca verità assolute, ma verità possibili e condivise, che permettano al Paese di “stare” effettivamente in Europa. E per con- dividere, si sa, è indispensabile conoscere, capire e confrontare le rispettive idee ed esperienze, possibilmente senza arroccarsi ciascuno sulla convinzione di essere depositario dell’unica verità. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 6 6 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 66 Il “ritorno” dello standard Accade spesso che i concetti che caratterizzano momenti e fasi di dibattito, in par- ticolare laddove esso deve nutrire la pratica politica e, quindi, l’azione delle isti- tuzioni, abbiano vicende alterne nelle quali a momenti di “oscuramento” (per non dire di oblio) si succedono “ritorni” in auge; accade per il “famigerato” concetto di “competenza”, ma anche per quello di “standard” che, in questo specifico momento sembra avere un ritorno particolarmente significativo, non soltanto nel- l’ambito del dibattito nazionale sul lifelong learning, ma anche a livello europeo, non soltanto in termini di standard di qualità per i servizi, ma anche in termini di standard di risultato dell’apprendimento; si pensi in particolare, all’evoluzione degli ultimi venti anni che ha portato la Commissione europea a lavorare ad un documento come quello sull’European Qualifications Framework. Inevitabile ed anzi necessaria, diventa allora la domanda: quale standard? quale accezione di standard si sta recuperando? e prima ancora: siamo sicuri che stiamo facendo tutti riferimento alla medesima accezione? o forse è opportuno innanzi- tutto fare chiarezza su essa ed arrivare a condividerne una? Come dicevo sopra, sia nell’ambito del progetto regionale che del lavoro con le altre Regioni e Province autonome, questa operazione ci appare assolutamente preliminare e, quindi, indi- spensabile. Lo standard o il sistema di standard Lo scenario che abbiamo di fronte, a tutti i livelli di intervento per il lifelong lear- ning, da quello locale a quello sopranazionale e comunitario, si caratterizza per un alto livello di complessità: molteplicità e diversità dei fabbisogni, molteplicità degli attori e dei soggetti coinvolti e diversità delle rispettive competenze e ambiti di azione, molteplicità delle connessioni, degli impatti/ripercussioni, anche indiretti, che devono essere tenuti presenti nella gestione degli interventi rispetto ad altri settori (quello delle attività produttive, ma anche ricerca ed innovazione, altri ambiti del welfare etc.), molteplicità e diversità negli approcci culturali. Siamo sicuri che l’obiettivo sia definire standard per ciascun aspetto di tale sce- nario (formativi, di descrizione del lavoro, di qualità delle strutture, di erogazione dei servizi) e non, piuttosto, un sistema di standard, nel quale cioè si lavora all’in- dividuazione di riferimenti/standard di natura anche diversa, ma comunque com- presi in un quadro la cui garanzia di unitarietà è data dalla visione complessiva del sistema dei sistemi, e, proprio per questo permette l’articolazione e la diffe- renziazione (per livelli di governo, per “ampiezza” del contenuto del riferimen- to/standard)? 6 7 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 67 Quali condizioni necessarie (e sufficienti?) per l’efficacia del sistema degli standard È evidente che per individuare, delineare e mettere a punto un sistema articolato di standard occorre innanzitutto una notevole “lucidità” di disegno e la piena con- sapevolezza della diversa natura degli “oggetti” con i quali dobbiamo lavorare. Utilizzando quelle che sono le espressioni maggiormente ricorrenti nel dibattito attuale, anche quello all’interno dello stesso Progetto Interregionale, riteniamo sia sufficientemente acquisita la consapevolezza che lavorare alla individuazione e condivisione di standard professionali (intesi quali riferimenti per una rappresen- tazione/descrizione condivisa del mondo del lavoro) è altra cosa rispetto al lavoro sugli standard/riferimenti per la progettazione e realizzazione dei percorsi forma- tivi, quelli che vengono definiti sommariamente standard formativi e che il con- cetto di competenza, sul quale pure, al di là del dibattito teorico, dobbiamo indi- viduare un’intesa convenzionale per renderlo “operazionabile”, non è “curvabile” all’uno o all’altro mondo (competenze professionali vs competenze formative), ma semmai costituisce il focus, l’obiettivo, che i due mondi (lavoro ed education) guardano da angolazioni - e con finalità - diverse? Ed ancora: concordiamo sul fatto che tale distinzione è indispensabile in quanto netta è la separazione di campo in termini di soggetti, luoghi e livelli coinvolti, metodologie, dispositivi e strumenti di lavoro, tra ciò che riguarda la definizione di standard professionali, ovvero di descrizione del lavoro incentrata sulle competenze dell’individuo che lavora, da quanto attiene l’individuazione degli standard formativi, in quanto atti- nenti l’apprendimento, lo sviluppo, l’approfondimento/specializzazione e l’aggior- namento di tali competenze, a partire dall’apprendimento in contesti formali di istruzione/formazione? Appare però altrettanto essenziale avere la consapevolezza della stretta connessio- ne che esiste tra questi due ambiti ed avere la capacità di governare i diversi ambi- ti di lavoro nell’ambito di un disegno unitario. Questa istanza di unitarietà (che è tecnico-metodologica, ma primariamente politica) come può essere concretizzata? chi o che cosa potrebbe garantire lo sviluppo di un percorso di costruzione del qua- dro nazionale del sistema complesso ed articolato degli standard per il lifelong learning, all’interno di un disegno politico unitario e secondo direttrici tecnico- metodologiche di coerenza complessiva? Forse - anche guardando ad altre realtà europee che hanno percorso o stanno percorrendo una strada analoga - possiamo esaminare la possibilità di prevedere authorities o comunque soggetti nazionali che, in quanto “terzi” rispetto agli ambiti sui cui il sistema di standard, garanti- scano l’applicazione, la manutenzione e l’aggiornamento del sistema stesso. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 6 8 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 68 Standard formativo mono e multidimensionale Relativamente a quelli che dovrebbero costituire i riferimenti standard dei percor- si ed i servizi per l’apprendimento delle competenze, tenendo sullo sfondo il dibat- tito sulla standardizzabilità di un processo così personale quale è l’apprendimen- to, occorre tuttavia chiedersi quali siano i compiti, le mission istituzionali di sog- getti quali le pubbliche amministrazioni (centrali, regionali, locali), gli operatori dell’education (istituzioni scolastiche, formative, di ricerca, agenzie formative) rispetto alla promozione, la facilitazione, lo sviluppo dell’apprendimento dei sin- goli e quali i raccordi necessari. Rispetto a tali compiti ed obiettivi i vantaggi del ricorso a standard sono diversi; per ricordarne alcuni: riduzione della complessità e della variabilità delle situa- zioni locali, razionalizzazione della gamma degli interventi, garanzia di omoge- neità e affidabilità dei servizi erogati e dei relativi risultati, controllo di efficacia e di efficienza (anche comparato) dei servizi offerti su territori e da strutture diver- sificate, coordinamento e integrazione interorganizzativa e interistituzionale (a livello intra e inter regionale), trasparenza dei risultati, facilitazione della coope- razione tra operatori e servizi diversi). Come si riesce però a conciliare in un sistema di standard il rispetto dei livelli di autonomia dei diversi soggetti e lo sviluppo di un’offerta diversificata, anche nelle soluzioni organizzative ed operative dell’erogazione dei percorsi e dei servizi con la garanzia della “personalizzabilità” di percorsi e servizi, il rispetto di livelli omo- genei di qualità dei percorsi e dei servizi, la tutela che deve essere garantita a quel- le tipologie di utenza che per età e/o per condizione esprimono fabbisogni specifi- ci in termini di apprendimento, sviluppo della personalità e dei basilari diritti di cittadinanza attiva? Questo rappresenta il grande nodo che da tempo ci troviamo di fronte e che sem- bra comportare una contraddizione insanabile, un’alternativa tra una politica dei governi pubblici (centrale, regionale, locale) fortemente prescrittivi e regolatori nei confronti dei processi (che può portare all’illusione di poter definire ope legis cosa e come le persone devono apprendere) ed una politica di lassez fair che lascia senza vincoli, ma anche senza indirizzi, il mondo dell’education, affindandolo alla autoregolazione dettata dall’apprezzamento di qualità espressa dal mercato. Ma tra i due poli esistono infinite sfumature e soluzioni che possono essere ade- guatamente calibrate, attraverso la definizione di standard multidimensionali, capaci di comprendere questa complessità, senza comprimerla. Come sopra ricordavo, in Toscana ci troviamo proprio ad affrontare il grande sfor- zo di trovare un equilibrio possibile (nel senso di effettivamente attuabile) all’in- terno di un sistema formativo regionale tradizionalmente caratterizzato da ampi 6 9 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 69 spazi di autonomia dei diversi soggetti (non soltanto per il ruolo delle Province, ma anche e soprattutto per l’autonomia progettuale ed organizzativa riconosciuta alle agenzie formative) e la convinzione della necessità di garantire al cittadino un sistema pluralista, di qualità, ma al contempo unitario, ovvero operante in un quadro di indirizzi, riferimenti e vincoli omogenei, nonché trasparente e “leggibi- le” dagli altri sistemi formativi. Tale convinzione ha già prodotto risultati in ter- mini di predisposizione di dispositivi e strumenti “di sistema” capaci di agevolare i compiti dei diversi soggetti impegnati nel sistema formativo: dal sistema di accre- ditamento dei soggetti operanti nel sistema, nato, sviluppato ed attualmente in via di revisione, in una logica improntata al miglioramento continuo della qualità dei servizi, alla progettazione e predisposizione - attualmente in via di ultimazione nella loro forma prototipale - di un catalogo dell’offerta formativa, in particolare rivolta ad utenti che fruiscono di finanziamenti pubblici per la formazione, e del database degli operatori della formazione, alla ri-definizione condivisa con gli altri soggetti istituzionali e non operanti nel sistema dei servizi e degli interventi finan- ziati con risorse FSE, delle regole per la programmazione, la progettazione, la rea- lizzazione e la rendicontazione di tali interventi, al ripensamento del sistema dei servizi di orientamento, inteso come sistema trasversale a quello dell’education e dei servizi al lavoro. A breve potremo contare su un Repertorio di figure professionali che costituirà il riferimento per la descrizione del lavoro in termini di aree di attività e competen- ze necessarie allo svolgimento delle stesse e, quindi per l’attività di matching tra domanda ed offerta, ma anche per il sistema formativo, in quanto quelle compe- tenze dovranno rappresentare uno dei riferimento per la definizione degli obietti- vi di apprendimento nell’ambito dei percorsi formativi. Adesso si tratta di lavorare su quelli che abbiamo definito come standard di pro- gettazione cui si associano le procedure standard di progettazione degli interven- ti finalizzati allo sviluppo di competenze certificabili (e, quindi, spendibili dalle persone). Riteniamo indispensabile articolare l’insieme degli standard formativi, in modo da calibrarli in relazione alle diverse dimensioni di realizzazione dell’in- tervento ed a seconda dello specifico ambito di applicazione, ovvero della cosid- detta filiera formativa, in quanto rispondente a fabbisogno di specifiche tipologie di utenza (per età, per condizione sociale e/o lavorativa). Ci sembra, però, che l’ef- ficacia effettiva di simili standard sia subordinata ad una loro articolazione nelle diverse dimensioni: quella del risultato atteso in termini di apprendimento-com- petenze e quella del processo di formazione. Dal momento che siamo ancora agli inizi del lavoro di sviluppo ed elaborazione condivisa di un simile sistema di standard, non mi è possibile oggi rendere conto degli esiti dello stesso, ma ritengo importante sottolineare quanto uno standard ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 7 0 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 70 formativo così configurato sia strettamente connesso agli altri dispositivi e stru- menti di sistema sopra ricordati (Repertorio delle figure professionali, accredita- mento ecc.); in particolare, riteniamo strategico lavorare nell’ambito della dimen- sione degli standard di progetto alla dimensione del risultato, definendo i termini della connessione/distinzione tra standard professionali contenuti del Repertorio delle figure professionali (aree di attività e unità di competenze) e definizione degli obiettivi formativi dei percorsi: sta qui tutta la valenza e la potenzialità del dise- gno complessivo del nostro progetto. C’è lavoro per tutti… Che la complessità sia difficile da affrontare non c’è alcun dubbio; che la si possa affrontare con soluzioni assolute appare alquanto improbabile. La sfida per la costruzione di un “un sistema di sistemi”, ovvero di un quadro arti- colato di standard è notevole, soprattutto per un Paese e per una cultura quale la nostra che, come vediamo spesso nel confronto con altri Paesi/Regioni europee, magari all’interno di progetti di cooperazione, è storicamente fatta di diversità, di specificità che al contempo la rendono a sua volta diversa da quelle di altri Paesi (atteso poi che appare azzardato non riconoscere comunque un’unicità di fondo di ogni Paese). Probabilmente non “gioca a favore” le difficoltà che il Paese da anni sta attraversando in termini di competitività non soltanto di tipo economico-pro- duttivo, ma anche nella produzione di cultura (nel senso più ampio del termine) e di valori da essa veicolati; ma è comunque indubbio che è soltanto valorizzando l’identità storica e culturale che si può pensare ad una effettiva e non effimera “ripartenza”. Per l’Italia, più che per altre realtà, quindi governare la complessità è un imperativo, che va declinato in relazione al rispetto delle prerogative e del- l’autonomia dei soggetti attori di tale complessità. Ciascuno deve trovare la pro- pria collocazione in relazione al proprio ruolo; le amministrazioni pubbliche, loca- li e centrali, le Parti sociali, i soggetti pubblici e privati che operano nel mondo dell’education, o soggetti che svolgono attività di studio e ricerca, attività di moni- toraggio e valutazione di sistema etc. Riteniamo che sia possibile un orizzonte di lavoro che riesca a garantire a tutti ed a ciascuno lo svolgimento del ruolo che gli è proprio ed al contempo riesca a gover- nare i diversi livelli di azione nel giusto equilibrio tra istanze, che spesso qua e là emergono, di centralismo/dirigismo e decentramento/”monadismo”, tra contesa del primato e riconoscimento della co-azione? È possibile realizzare una sorta di “coordinamento aperto” nazionale, così come proposto dall’Unione europea ai Paesi membri per le materie attinenti le politiche di lifelong learning? 7 1 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 71 In una prospettiva di lungo periodo Se il punto nodale del ragionamento che ormai da tempo stiamo sviluppando come amministratori pubblici, operatori dei sistemi etc. sulla necessità di costruire un quadro di riferimento comune a tutto il Paese per l’attuazione delle politiche di lifelong learning, anche in relazione ad un sistema di standard, è quello della governance del sistema (piuttosto che l’invenzione di nuovi “modelli”), ancora forse non appare abbastanza chiara la prospettiva temporale in cui un simile dise- gno può ragionevolmente collocarsi. Una prospettiva che è sicuramente di lungo periodo, ma che soprattutto dovrebbe essere caratterizzata da un andamento a geometria variabile rispetto al consegui- mento dei diversi obiettivi, senza la pretesa di “fermare il mondo per pensare”, ma anzi con la costante consapevolezza che mentre si lavora alla costruzione del siste- ma, si deve garantire la gestione “del corrente”, tenendo d’occhio sempre e con- temporaneamente le fughe in avanti di situazioni e pratiche di eccellenza ed i ritar- di e gli “stalli” di contesti in difficoltà, mantenendo costante il riferimento allo svi- luppo del percorso europeo, in particolare rispetto all’EQF, e valorizzando al meglio le specificità e le diversità dentro il sistema-Paese. Come possiamo adottare questo “strabismo” come modus operandi costante nel tempo? È necessario pensare a strumenti dei quali il Paese possa dotarsi per affrontare questo lavoro? Di quale natura potrebbero essere tali strumenti (legi- slativi, ordinamentali…)? Tante domande, ma credo che per ciascuna ci siano potenziali opzioni di risposta (che talvolta ho anche esplicitato) da esplorare attentamente per delineare un per- corso condiviso, al quale ciascuno dei soggetti coinvolti - pur con le inevitabili dif- ficoltà ed anche tensioni che il lavorare “a sistema” richiede - possa contribuire con la propria specifica identità. Il tutto - se possibile - tenendo conto che il fatto- re tempo, in processi di questo genere è particolarmente importante: se è vero che i grandi cambiamenti si misurano in epoche, è altrettanto vero che essi si attuano lavorando molto, ogni giorno: occorre però … cominciare. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 7 2 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 72 3.3 - Il dialogo degli apprendimenti nell’integrazione tra istruzione e formazione professionale Giulia Antonelli Servizio Politiche per l’Istruzione e per l’Integrazione dei Sistemi Formativi - Regione Emilia Romagna La descrizione che segue è la sintesi di un progetto sperimentale che la Regione Emilia-Romagna ha promosso a partire dal 2005, che propone una metodologia didattica innovativa a supporto, rafforzamento e naturale conseguenza della poli- tica dell’integrazione tra sistemi formativi, con la quale si è gestita l’offerta for- mativa del complesso sistema dell’education in questi anni, di cui la legge regio- nale n°12 del giugno 2003 ne costituisce riferimento e sintesi normativa. L’intera documentazione dei risultati delle prime fasi del progetto (processo meto- dologico e materiali prodotti) sono pubblicate sul sito http://www.csc-er.it anche sotto forma di ipertesto, per accompagnare con un percorso formativo e non solo informativo i docenti e gli operatori interessati. Come nasce il progetto La Legge regionale n. 12 del 30 giugno 2003 “Norme per l’uguaglianza delle opportunità di accesso al sapere, per ognuno e per tutto l’arco della vita, attraver- so il rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale, anche in inte- grazione tra loro” sancisce, rilanciandolo, il concetto di integrazione tra sistemi e capitalizzando le pregresse esperienze, supera la logica delle buone pratiche favo- rendone la messa a regime dentro un sistema condiviso di regole e di cultura. L’integrazione mette al centro la persona anziché l’esercizio settoriale di compe- tenze, per cui i diversi soggetti o livelli istituzionali devono concordare l’esercizio delle loro attività in modo da rendere massimo il beneficio per il cittadino e, nel contempo, ridurre sprechi e duplicazioni. L’integrazione rappresenta il risultato di un’intesa tra soggetti che hanno precise identità e specifiche missioni istituzionali; la progettazione in comune è motivata dall’unificante obiettivo di assicurare il successo formativo a tutti i soggetti favo- rendo lo sviluppo personale di ciascuno, valorizzandone le peculiarità, innalzan- done i livelli culturali e favorendo l’acquisizione di competenze generali e specifi- che, indipendentemente dal canale formativo scelto. 7 3 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 73 L’offerta formativa integrata si connota attraverso un forte intreccio tra conoscen- ze teoriche ed applicazioni pratiche; rafforza il valore della cultura tecnico profes- sionale ed introduce metodologie di apprendimento basate su concrete esperienze, sulla conoscenza degli ambienti e dell’organizzazione del lavoro, al fine di raffor- zare la formazione alla cittadinanza, la maturazione di scelte consapevoli e le pos- sibilità occupazionali delle persone. La Legge regionale prevede che la modalità dell’integrazione nel biennio della Scuola secondaria di secondo grado costituisca una metodologia didattica rivolta a tutti gli allievi che al termine della terza media proseguono gli studi nell’istru- zione o nella formazione, quale valore aggiunto della loro preparazione. Si promuove, a partire dai diversi segmenti della scuola e della formazione, un percorso integrato che comprenda elementi culturali e professionali e che consen- ta, al termine di ogni anno, di proseguire in entrambi i sistemi con il riconosci- mento dei crediti maturati. L’integrazione dei percorsi costituisce un irrobustimento complessivo al sistema formativo, valorizzando metodologie e professionalità che operano secondo model- li logico - sistematici, tipici della scuola e quelli empirico - problematici della for- mazione professionale. L’una trae origine dall’analisi della tradizione culturale, declinata dalle diverse discipline, cerca di aprirsi alla realtà e di dare significato ai processi formativi, l’altra che parte dai profili tecnico - professionali, in genere più motivante, amplia la dimensione conoscitiva richiesta dalla diffusione delle tecno- logie, dalla complessità dell’organizzazione produttiva, ambientale e sociale. In nessun caso questa seconda opzione si configura di minore potenzialità forma- tiva rispetto alla prima, ma proprio la collaborazione tra le due è per il momento la migliore garanzia di implementazione di un apparato conoscitivo - operativo che deve tendere alla trasformazione dello stesso modello formativo attraverso l’innovazione didattica, la comune progettazione degli interventi, il riconoscimen- to delle competenze maturate, per la prosecuzione nei due rispettivi ambiti, scuo- la e formazione professionale, o per un più elevato livello di integrazione. La Ricerca-Azione Come già evidenziato, nel quadro dell’attuazione della L.R. 12/2003, particolare rilevanza assume la sperimentazione dei percorsi integrati di istruzione e forma- zione. A seguito della realizzazione delle prime due annualità dei percorsi integrati e delle relative azioni di sistema, si è inteso intervenire, attraverso lo stesso impianto, su un passaggio cruciale e particolarmente delicato per il decollo dell’integrazione, che riguarda il tema degli standard relativi alle competenze, i crediti e la certifi- cazione. In particolare, essendo stato siglato a livello nazionale in Conferenza ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 7 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 74 Unificata l’Accordo sulla certificazione dei percorsi integrati (28 ottobre 2004), si è reputato indispensabile individuare il percorso e le modalità per la composizio- ne ed il rilascio sul territorio regionale di tale certificazione, declinandola con la specificità dell’integrazione, nel rispetto delle norme nazionali per l’istruzione ed in coerenza con quanto previsto in proposito nell’Accordo territoriale fra la Direzione generale dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna e la Direzione generale dell’Area cultura, formazione, lavoro della Regione Emilia- Romagna, del 19 febbraio 2004, integrato da quello del 21 luglio 2005. Si tratta di uno snodo fondamentale per il consolidamento della strategia dell’inte- grazione fra istruzione e formazione, perché attraverso la certificazione si persegue uno degli obiettivi principali della L.R. 12/2003 (articoli n. 4 e n. 5): l’ottenimento, per tutti, del riconoscimento formale di quanto acquisito al fine di garantire la pos- sibilità di conseguire un diploma, una qualifica professionale o altro titolo valido a livello nazionale ed europeo, anche attraverso il passaggio da un sistema all’altro per favorire il completamento e l’arricchimento dei percorsi formativi. Il Progetto Si tratta di un percorso applicativo che, a partire da una riflessione a carattere teo- rico come premessa della nuova certificazione, individua i possibili raccordi fra gli standard delle competenze di base dei percorsi integrati, come definiti dalla Conferenza Unificata nell’Accordo del 15 gennaio 2004, e gli obiettivi formativi degli indirizzi di studio delle istituzioni scolastiche coinvolte nella sperimentazio- ne, tenendo anche conto delle unità di competenza previste nelle qualifiche della formazione professionale iniziale inserite nel SRQ (delibera GR n. 2212 del 10/11/2004 e successive integrazioni), al fine di rendere effettive, certificate ed agibili le possibilità di passaggio fra i due sistemi e di perseguire il principio delle pari opportunità di apprendimento. Il progetto mira al perseguimento dei seguenti obiettivi: • confermare e rafforzare gli indirizzi fin qui delineati dalle “Linee Guida” regio- nali con l’obiettivo primario di ottimizzare e consolidare ulteriormente la strate- gia dell’integrazione fra istruzione e formazione attraverso la messa in campo di un processo di valutazione dei diversi livelli di apprendimento e di una certifi- cazione dei crediti in sintonia con gli obiettivi prioritari della Legge 12/2004; • valorizzare la centralità dell’allievo nei processi di apprendimento in un’ottica di effettiva educazione alla libertà e alla responsabilità; • dare visibilità e trasparenza alle fasi che caratterizzano il percorso di apprendi- mento dell’allievo al fine di facilitare sia la mobilità tra i diversi indirizzi di stu- dio ed i sistemi formativi sia per gli eventuali rientri in formazione; • sperimentare, validare ed implementare una metodologia di valutazione dei 7 5 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 75 livelli di apprendimento e di certificazione dei crediti nel rispetto degli Standard delle Competenze di base dell’Accordo del 15/01/2004, coerente con gli indiriz- zi di studio delle istituzioni scolastiche ed in sintonia con le Unità di Competenza previste nel Sistema Regionale delle Qualifiche; • progettare e condividere con i due sistemi un modello di valutazione dei diversi livelli di apprendimento costruito sui concetti di affidabilità e trasparenza, fon- dato sulle competenze e nel rispetto del rapporto tra valore formale e sostanza dei titoli formativi; • valorizzare le buone prassi e le significative esperienze fin qui realizzate nei per- corsi integrati regionali dalle scuole e dagli enti di formazione professionale in materia di valutazione dei livelli di apprendimento e di certificazione dei crediti. La proposta progettuale, elaborata in seno al Comitato scientifico regionale (di cui alla determina della Direzione regionale competente n. 16785 del 12/11/2004) e presentata ai team provinciali di supporto per la validazione, è caratterizzata da approccio sperimentale, che impone la scelta di un numero limitato di partecipanti ed ha natura di ricerca-azione svolta da alcuni partenariati (istituzioni scolastiche- enti di formazione professionale), individuati dal Comitato secondo criteri di copertura territoriale, di presenza delle diverse aree di declinazione degli standard, di solida e convinta collaborazione reciproca, di qualità del progetto formativo che stanno conducendo. Descrizione Il sistema dei crediti formativi fondato sui livelli di apprendimento deve riuscire a valorizzare tre elementi importanti nel processo di insegnamento-apprendimento: - la conoscenza, come risorsa per l’arricchimento culturale e professionale della persona; - il protagonismo degli allievi nell’apprendere, funzionale a sviluppare la libertà e la responsabilità della iniziativa individuale; - la trasparenza ed il riconoscimento dell’apprendimento comunque acquisito, in modo da favorire i rientri in formazione ed i passaggi da una sistema formativo all’altro e tra i diversi indirizzi di studio. Si pensa, pertanto, ad un sistema di crediti e di livelli di apprendimenti che non ingabbia e burocratizza il processo di insegnamento-apprendimento, impoveren- done la ricchezza, ma lo orienta verso l’educazione alla conoscenza in funzione della crescita personale, consentendo nel contempo il riconoscimento dell’appren- dimento al fine di assicurare mobilità orizzontale nella realizzazione dei percorsi individuali di formazione. Ciò è maggiormente perseguibile se nel definire i livelli di apprendimento, accan- to ai contenuti cognitivi in esso rilevabili, si presta una particolare attenzione ai ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 7 6 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 76 processi che conducono all’apprendimento. La conoscenza è indubbiamente la risorsa che consente di incrementare l’appren- dimento individuale, ma l’obiettivo progettuale non è l’acquisizione di qualche nuovo segmento di conoscenza, bensì l’educazione alla conoscenza e lo sviluppo della capacità di assumersi ed esprimere responsabilità di iniziativa individuale (intellettuale, corporea, operativa, spirituale ecc.). Nell’individuare e descrivere i livelli di apprendimento occorre mantenere in evi- denza la stretta connessione esistente tra la conoscenza e l’attivazione dei proces- si mentali che permettono ad essa di diventare apprendimento. Gli obiettivi del progetto si collocano sia a livello di sistema integrato regionale, sia di processo di insegnamento-apprendimento. Per il sistema si intende: a. declinare gli standard formativi relativi alle competenze di base, approvati in sede di Conferenza Stato-Regioni ed assunti come riferimento per l’attuazione dei percorsi integrati, in livelli di apprendimento, in modo che essi (gli stan- dard) possano acquisire trasparenza e valore riconosciuto nell’ambito dei per- corsi di studio e della formazione professionale del secondo ciclo; b. attribuire a ciascun livello di apprendimento individuato un valore espresso da un determinato monte crediti, prevedendo soglie minime e massime per ogni livello; c. individuare prove standard con cui verificare il raggiungimento dei livelli acqui- siti in qualunque ambito formativo, in modo da favorire i rientri in formazione e la mobilità all’interno e tra i sistemi di istruzione e formazione professionale. I livelli di apprendimento ed i corrispondenti crediti attribuiti sono unici ed uguali a livello regionale. A variare sarà solo il tempo impiegato per raggiunge- re ciascun livello, in relazione ai diversi percorsi formativi attuati, o alle diffe- renti esperienze di lavoro accumulate; d. fondare la progressione verticale (a scuola e nella formazione professionale), i passaggi tra indirizzi, ordini di studio e sistemi formativi ed i rientri in forma- zione non sull’età o sul tempo trascorso in formazione, ma su standard forma- tivi effettivamente acquisiti; e. distribuire lungo i tre anni del percorso integrato previsto dall’Accordo USR- Regione i livelli individuati, in modo da assicurarsi che alla fine del biennio (v. Linee guida regionali) si raggiungano, almeno, gli standard minimi previsti per le competenze di base e che alla fine di ogni anno scolastico si creino le condi- zioni per la promozione a quello successivo. Per il processo di insegnamento-apprendimento si intende: 1. valorizzare il concorso effettivo delle istituzioni formative autonome nella pro- gettazione ed attuazione dei percorsi integrati attraverso i quali gli allievi pos- sono raggiungere gli standard assegnati; 7 7 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 77 2. favorire una gestione flessibile delle risorse assegnate ai percorsi integrati, nel senso, per esempio, che uno stesso livello può essere raggiunto in tempi diversi, utilizzando tecniche didattiche e strumenti diversi; oppure, che nello stesso tempo si possono raggiungere più livelli. L’obiettivo è di favorire una didattica realizzata in stretto raccordo con le diverse esigenze degli allievi, creando di volta in volta l’ambiente formativo (relazioni, metodologie, conoscenze, utilizzo dei materiali…) più favorevole affinché ciascuno apprenda e raggiunga gli stes- si livelli mediante differenziati percorsi; 3. sostenere il diffondersi di criteri di valutazione e di prove di verifica delle com- petenze coerenti con il sistema dei livelli di apprendimento e dei crediti. Per chiarire il senso di tutta la ricerca-azione, si fa riferimento ad alcuni termini che costituiscono il fondamento della possibilità di comunicazione reciproca tra sistemi: standard, apprendimento e livelli. L’esistenza di standard formativi di riferimento è la condizione necessaria per spe- rimentare un sistema di livelli di apprendimento e connessi crediti formativi che renda effettiva la possibilità di passaggi tra sistemi formativi e indirizzi, di rientri in formazione, di differenziazione dei percorsi progettati per raggiungere le stesse mete. L’apprendimento - nella sua nuova accezione per i percorsi integrati - è definito nelle Linee guida per la progettazione dei percorsi integrati della Regione Emilia- Romagna: l’apprendimento degli allievi, in tutte le discipline e per l’intero curri- colo formativo è “espresso in competenze (conoscenze/abilità) da acquisire. Nell’ambito delle singole competenze i due elementi che le connotano, le conoscenze e le abilità, rendono osservabile e valutabile cosa/come ogni allievo ha appreso. Tale impostazione tende a favorire un processo di apprendimento che utilizza nuove conoscenze ed esperienze per produrre una nuova e più ricca iniziativa personale. In questa prospettiva di lavoro, l’apprendere una nuova conoscenza non è mai fine a se stesso, ma diventa opportunità per sviluppare le capacità individuali.” È un concetto di apprendimento che puntualizza il risultato atteso (l’acquisizione di competenze) ed il processo per ottenerlo (sviluppo delle capacità individuali di apprendere). Introducendo l’articolazione degli standard in “livelli” (di apprendimento) si agi- sce in totale coerenza con questa idea di apprendimento. L’individuazione di livel- li significa solo dotarsi di una modalità operativa con la quale rendere trasparen- te e riconosciuta l’acquisizione delle competenze per favorire la mobilità orizzon- tale nei percorsi individuali di formazione. Per conferire effettivo riconoscimento, dentro e fuori i percorsi integrati, ai livelli di apprendimento, devono essere individuati in stretta connessione con le materie di insegnamento coinvolte nei percorsi integrati e previste dai rispettivi ordina- menti, ma evitando che ciò si traduca in un appiattimento sui contenuti (teorici ed ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 7 8 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 78 operativi) delle singole materie. Da una parte occorre tutelare il diritto di chi ha appreso di vedersi riconosciuti da tutti, in maniera semplice e diretta, i risultati (livelli di apprendimento) raggiun- ti; dall’altra, bisogna evitare che la necessità di arrivare ad un tale riconoscimen- to riduca la trasparenza dell’apprendimento a sequenza “oggettiva” e graduata di segmenti di conoscenze. L’equilibrio tra queste due esigenze è possibile realizzarlo se le materie sono con- cepite come risorse per l’apprendimento, ovvero: - se esse sono messe in campo affinché gli allievi realizzino conoscenza e non per trasmettere ad essi solo nozioni consolidate. Le materie, che traducono nella forma dell’insegnamento le varie discipline del sapere, non si devono limitare a trasmettere esclusivamente le conoscenze del sapere, poiché esso non è solo l’e- sito della ricerca della conoscenza, ma anche la ricerca stessa che chiama in campo tutte le potenzialità cognitive ed operative dell’uomo; - se insieme alle materie si individuano anche le principali modalità con cui esse sono proposte per facilitare/indurre apprendimento. È qui lo spazio di collaborazione/integrazione tra istruzione e formazione profes- sionale perché si tratta di far interagire il meglio delle esperienze didattiche rea- lizzate dai due sistemi per guidare il maggior numero possibile di allievi ad apprendere. Un’operatività di questo tipo, inoltre, consente all’integrazione di aprirsi verso l’intero sistema formativo fornendo almeno due contributi interes- santi per concorrere a migliorarlo: - evita che la sperimentazione dei livelli e dei crediti rimanga racchiusa all’interno dei percorsi integrati. Infatti, ogni allievo in uscita da questi percorsi porta con sé un patrimonio formativo attestato, oltre che da promozioni, anche da crediti che hanno un valore sostanziale immediatamente riconoscibile, in quanto strettamen- te connessi alle discipline previste dagli ordinamenti vigenti. In questo modo l’in- tegrazione fornisce un contributo di trasparenza e riconoscibilità di risultati for- mativi, utilizzabile e trasferibile al di fuori del proprio specifico ambito; - si confronta con il sistema formativo non integrato proponendo soluzioni tese a coniugare innovazioni didattiche e di sistema. In tal modo concorre a promuo- vere effettivi processi di cambiamento e di miglioramento. L’equilibrio sopra richiamato tra riconoscibilità dell’apprendimento e la sua intrinseca qualità, deve trasparire a vista, ovvero dalla titolazione dei livelli e dalle prove individuate per accertarne l’acquisizione. Esse dovranno evocare (la titolazione) e riguardare (le prove) sia cosa contiene ciascun livello, sia come far emergere il protagonismo degli allievi. A questo impianto operativo che pone in stretta connessione e coerenza gli stan- dard con il processo di insegnamento-apprendimento e con crediti e livelli occor- re ricondurre il senso da attribuire anche ad altri termini e concetti, usati abitual- 7 9 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 79 mente dall’istruzione e dalla formazione professionale, quali la trasversalità e l’in- terdisciplinarietà. Sulla trasversalità sono di immediato aiuto le Linee guida regionali sull’integra- zione tra istruzione e formazione professionale: “Il perseguimento di tale finalità (migliorare la qualità del complessivo sistema formativo sul territorio dell’Emilia- Romagna, n.d.r), fondata sull’arricchimento dell’offerta utilizzando le potenzia- lità insite nei due sistemi (quello logico - sistematico, più diffuso nella scuola, e quello empirico - problematico, che più caratterizza la formazione professionale), richiede l’attuazione di un impianto pedagogico-didattico nel quale conoscenze, azioni e comportamenti sono intrecciati per promuovere lo sviluppo delle capacità del giovane, che diviene protagonista della costruzione del proprio apprendimen- to anche mediante la valorizzazione dei caratteri tipici dell’esperienza: empatia, comunicazione, coinvolgimento, operatività.” Da queste parole emerge un’idea di trasversalità non riconducibile ad una tipolo- gia di competenze che si aggiungono ad altre (competenze di base, competenze tecnico-professionali), ma ad una modalità con cui si propone di insegnare. Essa è caratterizzata dall’impegno del docente a sviluppare le capacità individua- li dei giovani ed il loro protagonismo nell’apprendere. Ciò che attraversa (è trasversale a) tutte le discipline è costituito dai processi men- tali che consentono di apprendere e che ogni insegnante sa di dover attivare se vuole che le conoscenze che propone divengano reale apprendimento e soddisfino l’esigenza di raggiungere gli standard previsti.1 Partendo da questa consapevolezza ogni docente, qualunque sia la materia che insegna, privilegerà l’attenzione sulle “competenze ad apprendere” dei propri allievi che, essendo sempre le stesse, lo porranno “naturalmente” in sintonia con tutti i colleghi che si rivolgono alla medesima classe. Così concepita, la trasversa- lità richiama direttamente una modalità di lavoro che tende ad essere necessaria- mente interdisciplinare, almeno nelle fasi della progettazione e valutazione dei percorsi. In relazione all’impianto dei livelli di apprendimento e dei crediti fin qui delinea- ta, questa idea di trasversalità e connessa interdisciplinarietà non può più essere solo enunciata come opportuna: deve essere concretamente praticata. Se, infatti, insieme ai contenuti cognitivi si intende mettere in trasparenza anche il protago- nismo degli allievi nel realizzare l’apprendimento accreditato, non ci si può che ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 8 0 1 Su questo tema si veda in particolare quanto hanno scritto Rossella D’Alfonso e Mario Pinotti nel libro Curricoli per la scuola dell’autonomia, a cura di A. Colombo, R. D’Alfonso, M. Pinotti, La Nuova Italia, 2001, nei capitoli intitolati, rispettivamente, Una filosofia per i nuovi curricoli della scuola riformata (D’Alfonso) e Per una fondazione culturale di un curricolo delle competenze (Pinotti). CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 80 fondare su un insegnamento che è progettato ed attuato secondo modalità di tra- sversalità e di collegialità effettivamente praticate dagli insegnanti coinvolti. Le azioni A) Per completare un quadro di riferimento unico e condiviso dai due sistemi del- l’istruzione e della formazione professionale, occorre verificare se gli standard comprendono o meno, tutte le competenze di base necessarie per ottenere la promozione secondo gli ordinamenti degli indirizzi di studio coinvolti nei per- corsi integrati. L’azione di elaborazione di un quadro unitario e completo di standard costituisce un momento importante nella fondazione di un progetto formativo veramente unificante tra formazione professionale e scuola. Essa permette una rivisitazione e riappropriazione degli stessi che è l’occasione per far incontrare i due sistemi formativi sul terreno delle competenze: il mondo delle professionalità “meccaniche” (nel senso manzoniano del termine) si incontra col sapere “inutile”, per trarre da esso ingegnosità, creatività, ideati- vità; il mondo del sapere astratto della scuola si incontra con l’esecutività, per riuscire a fare i conti con la propria impotenza operazionale. B) Dagli standard ai livelli di apprendimento ed al loro valore espresso in crediti. Gli standard sono definibili e resi certificabili dalle competenze che l’insieme delle materie che compongono un curricolo individuano. Secondo questa ipotesi operativa, l’insieme delle competenze che conferiscono valore e trasparenza agli standard è da articolare per livelli di apprendimento, a ciascuno dei quali attribuire un valore in crediti. A completamento di questa breve sintesi, è interessante verificare la premessa della ricerca-azione, attraverso le parole del prof. Mario Pinotti, esperto metodologo. “Il lavoro di cui si dà conto vuole aprire una prospettiva nuova sul significato del- l’integrazione fra istruzione e formazione professionale, cominciando ad illustrar- ne la filosofia di fondo e a riflettere su di esso. Il punto di vista della relazione che segue è quella del coordinatore metodologico, ma va precisato che insieme a lui hanno lavorato in qualità di esperti la prof.ssa D’Alfonso per quanto riguarda l’area n° 1 degli standard nazionali minimi, ossia l’area dei linguaggi (italiano, lingua straniera, strumenti espressivi non verbali); il prof. Monari, per quanto riguarda l’area n° 3, matematico-scientifica, e l’area n° 2, tecnologica; il dirigente scolastico Giancarlo Mori per quanto riguarda l’area n° 4, storico-giuridico-economica; insieme ai docenti ed operatori dei nove consigli di classe integrati (uno per provincia) che hanno concorso alla realizzazione di que- sto lavoro. Prima di entrare nel merito per illustrarlo sono necessarie alcune considerazioni preliminari. 8 1 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 81 Da più parti ed in particolare dall’Ufficio Scolastico Regionale, si sono evidenzia- te le sofferenze del mondo scolastico: difficoltà di riconoscere la cultura del lavo- ro e difficoltà di riconoscere le intelligenze plurali. Questo misconoscimento non è imputabile alla nostra tradizione culturale. Nella riflessione filosofica infatti, quella platonica e soprattutto quella aristotelica, è presente una grande attenzione a ciò che noi oggi chiamiamo intelligenza plurale. Aristotele, attraverso la classificazione dei saperi in scienze teoretiche, etiche e poietiche, aveva voluto definire altrettante intelligenze: l’intelligenza generaliz- zante e formale della conoscenza astratta propria del sapere teoretico; l’intelligen- za valutativa propria della scelta etica che deve comprendere il rapporto tra l’uni- versalità dei princìpi e la particolarità della situazione empirica; infine, la razio- nalità creativa dell’intelligenza poietica, che deve imitare la natura carpendone i segreti congegni. Al sapere tecnico Aristotele, dunque, attribuiva un’accezione di ingegnosità, ben lontana da quel carattere di pura esecutività e meccanica manualità che oggi esso ha, come conseguenza della rivoluzione taylorista e dell’affermazione su grande scala dei sistemi della produzione e dell’organizzazione fordista. Oggi però il mondo sta rivelando nuovi processi dialettici. Il lavoro, là dove manifesta tutta la sua potenza creativa, sta configurandosi in forme nuove, condizionate dalla generalizzazione del mercato. Una transizione così profonda richiede una riflessione condivisa, una nuova sta- gione culturale che indaghi sulle esperienze di quei paesi europei o extraeuropei che hanno qualcosa da insegnarci a tale proposito, e riscopra la profondità e la ric- chezza umanistica del sapere del lavoro, del sapere scientifico-tecnologico. Oggi, dunque, non possiamo più limitarci semplicemente a percorrere strade già battute: fare appello al corpo docente, alla buona volontà di tutti; invocare mag- giori risorse finanziarie per la scuola, pretendere una migliore considerazione sociale di questa professionalità. Sono tutte richieste irrinunciabili, ma non risolutive. La radice dell’attuale patologia scolastica sta nella percezione frustrante dell’inse- gnante di essere portatore di un sapere che socialmente non è più rilevante e che lo studente sembra apprendere in modo sempre più superficiale ed estrinseco. Lasciato da solo davanti a così grande difficoltà, il docente patisce e patirà sem- pre di più la propria crisi di identità: invocherà la barbarie dei tempi presenti, denuncerà il decadimento dell’istituto familiare, rimpiangerà i giorni andati e verrà a patti con la realtà del momento accontentandosi di un profitto che gli apparirà sempre più in declino. In questa solitudine, risentimento, frustrazione, senso di colpa e disistima alimen- teranno un circolo vizioso deprimente. La mobilitazione congiunta della scuola e della formazione professionale per l’in- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 8 2 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 82 novazione didattica è antidoto contro la dispersione. “Non uno di meno”, come è precisato nella Legge regionale n°12/03, rappresenta questa sfida: concorrere nella pluralità di diverse esperienze culturali a migliorare l’offerta formativa. Se i soggetti che concorrono a questa scommessa sono la formazione professiona- le e la scuola, bisogna riconoscere la specificità culturale di cui ogni soggetto è por- tatore e, al contempo, ciò che le accomuna. Ciò che distingue la scuola e la formazione professionale, essenzializzando al limi- te il discorso, è che la prima è portatrice della tradizione dei saperi e la seconda della tradizione del saper fare. Su quale base è possibile realizzare l’incontro e la collaborazione tra queste due tradizioni culturali? Come è possibile definire un sistema di certificazioni di cre- diti riconosciuti? A quali condizioni si realizzerà quella sinergia tra i due soggetti formativi da cui dipende la diminuzione della dispersione scolastica? Sono state queste le riflessioni generali che hanno orientato il progetto della ricer- ca-azione.” 8 3 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 83 3.4 - Le esperienze e i percorsi integrati nella Regione Lazio Maria Maddalena Novelli - Maria Teresa Sarpi Direzione Scolastica Regionale del Lazio - Ministero della Pubblica Istruzione Secondo il testo predisposto nell’Ufficio Scolastico Regionale, si farà riferimento all’esperienza dei percorsi integrati nella regione Lazio, con attenzione particolare al punto di vista dell’istruzione, perché al di là di tutte le difficoltà istituzionali e di regolamentazione che riguardano essenzialmente i livelli istituzionali regionali e statali, esistono anche problemi culturali e di mentalità che, in qualche modo, devono scontrarsi con realtà completamente nuove con le quali ci confrontiamo. È su questo versante che si farà riferimento all’esperienza della regione. Quando nell’anno scolastico 2002-2003 la Direzione Scolastica Regionale del Lazio, in applicazione dell’intesa con la Regione, avviò la sperimentazione dei per- corsi triennali integrati di istruzione e formazione, in relazione al gruppo misto che ne curava la regia a livello territoriale ed interistituzionale, e al gruppo tecnico- scientifico regionale, formato da dirigenti tecnici e scolastici e da esperti della for- mazione professionale, che era stato incaricato di individuare un modello proget- tuale e strumenti operativi da offrire come supporto alle autonome e specifiche intese fra istituzioni scolastiche e formative (non un modello cogente, ma mate- riale di supporto da rielaborare nelle convenzioni), fu necessario affrontare preli- minarmente il problema della mancanza di standard condivisi, relativi non solo alle competenze in esito ai percorsi integrati, ma anche a procedure, a modelli organizzativi e didattici. Anche nel linguaggio fu necessario condividere termini e significati tra mondo della scuola e mondo della formazione professionale. La sfida primaria era il superamento di una sostanziale “ignoranza” reciproca, in senso etimologico, tra questi due mondi che, solo parzialmente o episodicamente, si erano incontrati e avevano collaborato, alimentata, in alcuni casi, da stereotipi, da diffidenze, da diversi approcci alle questioni della formazione e della didattica, da una diversa lettura dei bisogni formativi degli adolescenti e delle risposte da dare in termini di offerta formativa. Esistono anche altre difficoltà, come conflitti di interesse, più o meno esplicitati, tra scuola e formazione professionale, dovuti alla preoccupazione di perdere utenza e, di conseguenza, anche posti di lavoro. Interlocutori motivati al dialogo e all’integrazione, come le scuole e i centri di for- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 8 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 84 mazione professionali partecipanti alla sperimentazione, hanno dovuto confron- tarsi con questo tipo di riserve. Non mancavano, inoltre, tra gli stessi partecipanti alla sperimentazione, opinioni diverse su titolarità, tempi e modi di attuazione del cosiddetto obbligo scolastico e formativo. Non bisogna dimenticare che l’avvio della sperimentazione risale al 2002 e, quindi, in seguito alla legge 53, si è trasformato in diritto-dovere all’i- struzione e formazione e attualmente è di nuovo al centro della riflessione e del dibattito politico e culturale con l’innalzamento dell’obbligo di istruzione scolasti- ca a 16 anni. Si è discusso, inoltre, sul peso da attribuire, nell’organizzazione didattica complessiva, ai tradizionali saperi teorici e a quelli più immediatamente professionalizzanti, con le relative attività laboratoriali. Le linee guida degli istituendi percorsi integrati, elaborate dai gruppi di regia isti- tuzionale e tecnico-scientifico e condivise dalle Organizzazioni sindacali, sono state ispirate nel quadro normativo a quel tempo esistente e, comunque, in evolu- zione. Nel 2002-2003 era ancora in vigore la legge 9/99 sull’obbligo scolastico con il relativo regolamento, e le scuole dovevano, ancora, rilasciare l’assolvimento del- l’obbligo. Queste Linee guida sono state ispirate all’obiettivo non solo di superare i nodi problematici derivanti da lacune o contraddizioni normative su molti aspet- ti dell’integrazione fra i due sistemi dell’istruzione e della formazione, ma anche dalle loro diverse forme organizzative e procedurali. In altre parole, è stato neces- sario trovare raccordi tra le loro diverse prerogative istituzionali e individuare standard delle competenze, sia complessivi che trasversali, in relazione alle quali- fiche in esito, sia specifici per aree e per moduli disciplinari e/o pluri e interdisci- plinari. Primariamente, si trattava di favorire la cultura del confronto e dell’integrazione, come premessa a soluzioni operative, attraverso l’elaborazione delle Linee guida della sperimentazione e attraverso azioni di formazione congiunta e di coproget- tazione degli operatori dei due sistemi. Queste due azioni, formazione congiunta e coprogettazione, sono state essenziali nel percorso di lavoro che abbiamo seguito. Per ricordare una metafora che fu usata per rappresentare i principi ispiratori delle Linee guida, si trattava di muoversi all’interno non solo di una “fisica dei solidi” (i rapporti interistituzionali, le norme, le organizzazioni, le procedure, le responsabilità e i compiti dei soggetti implicati), ma anche di una “fisica dei liqui- di” e, cioè, le contaminazioni degli approcci, delle visioni, dei linguaggi, delle pro- fessionalità tecniche e scientifiche, per esplorare territori di confine e mettere in comune il meglio delle reciproche esperienze, avendo consapevolezza che solo per questa via era possibile individuare degli standard condivisi. Ovviamente non si partiva da zero. Gli istituti scolastici e gli enti di formazione coinvolti avevano già affrontato separatamente la questione degli standard, ne 8 5 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 85 avevano individuati alcuni sia alla luce della loro esperienza che della letteratura di riferimento, come quella prodotta dall’ISFOL, ma per la prima volta dovevano condividerli per un percorso integrato e, per tale obiettivo, non bastava una sem- plice sommatoria. Integrazione è cosa ben diversa da somma. A tal proposito, è stata ritenuta utile e interessante, a livello professionale, l’occa- sione offerta dal seminario di formazione congiunta tra gli operatori della scuola e della formazione, svoltosi all’inizio della sperimentazione, nel corso del quale sono state messe a fuoco non solo le soluzioni operative per lo sviluppo dei per- corsi integrati, ma soprattutto sono stati affrontati nodi scientifici e culturali: indi- viduazioni delle articolazioni sincroniche e diacroniche dei percorsi didattici, for- mulazione degli standard di competenze correlati alle qualifiche, ma anche alle aree disciplinari e a blocchi formativi significativi, non necessariamente una certi- ficazione unità formativa per unità formativa, ma anche certificazione di compe- tenze di sintesi di più unità formative. Le competenze individuate sono state quel- le della tripartizione competenze di base, nell’area linguistica, scientifica, storico- economica e tecnologica. Sono state, poi, individuate delle competenze comuni a macrosettori professionali e competenze professionali specifiche del profilo. È stata fatta, inoltre, una riflessione attenta sui metodi e sugli strumenti della valutazione, del sostegno e del recupero, della certificazione congiunta delle com- petenze, per la spendibilità degli esiti positivi dei vari segmenti formativi, oltre che per il mondo del lavoro, anche per i passaggi infra e intersistemici tra istruzione e formazione, e per l’eventuale proseguimento dei percorsi formativi nelle istituzio- ni scolastiche, alla fine del triennio integrato, per il conseguimento di un diploma. Per quanto riguarda gli standard individuati successivamente a livello nazionale e normativo, non è risultata alcuna sostanziale difformità tra questi e quelli indivi- duati nelle coprogettazioni dei percorsi integrati, in alcuni casi anche più articola- ti e specifici. Il 13 settembre, la Conferenza Stato-Regioni ha esaminato, in sede tecnica, lo schema di accordo sulle competenze tecnico-professionali dei percorsi di istruzio- ne e formazione. Il punto sull’esperienza si è svolto nel mese di aprile 2006 a Fiuggi. Vi hanno partecipato tutti i soggetti dell’istruzione e della formazione che hanno portato avanti i percorsi integrati nel Lazio. Da una parte, si è fatto il punto sull’evoluzione del percorso e vi ha partecipato anche il CIOFS-FP, dall’altra, è stata anche ripensata la certificazione delle competenze alla luce degli standard nazionali emersi. È stata messa a punto, quindi, un’ulteriore certificazione dei cre- diti. Per quanto riguarda gli esiti dei percorsi integrati nel Lazio, si registra un nume- ro crescente di iscritti rispetto al 2002-2003 e circa il 90% dei ragazzi che hanno partecipato a questi percorsi è attualmente iscritto al quarto anno degli istituti sco- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 8 6 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 86 lastici coinvolti nella sperimentazione. Ciò, però, non elimina alcuni problemi nor- mativi: infatti, mentre è automatica l’iscrizione al quarto anno degli istituti tecni- ci, la normativa che riguarda gli istituti professionali, che richiede che i ragazzi abbiano una qualifica triennale conseguita presso il sistema dell’istruzione, rap- presenta oggi un problema che solo apparentemente si supera, ovviamente, a livel- lo di intesa, ma richiederebbe, per essere sciolto definitivamente dal punto di vista normativo, un apposito intervento legislativo. Per questi motivi, è auspicabile che l’esperienza svoltasi in questi anni possa esse- re ritenuta un utile contributo per ulteriori riflessioni e ipotesi di lavoro, per un proficuo confronto tra istruzione e formazione e per l’individuazione di concrete forme di offerta formativa integrata, in un’ottica sistemico-nazionale e non solo regionale. Chi fosse interessato a conoscere le proposte emerse dal seminario di Fiuggi, può visitare il sito www.itismeucci.org. Qui, è possibile trovare documenti, proposte e riflessioni che non sono state elaborate solo dalla formazione professionale, ma anche dagli insegnanti, quegli stessi che, in un primo momento, erano diffidenti e preoccupati e che ora, invece, riconoscono che è stata un’esperienza arricchente delle reciproche professionalità e un’occasione, per i ragazzi, di confrontarsi con una flessibilità dell’offerta formativa di cui abbiamo bisogno. È il problema di oggi: anche per l’educazione degli adulti ci troviamo di fronte alla stessa difficoltà. Gli adulti sono i giovani adulti espulsi dal sistema scolastico, sono gli adulti inoccupati, quelli, cioè, che non hanno mai avuto lavoro, sono gli adul- ti disoccupati, con esigenze completamente diverse. Anche in questo ambito il lavoro degli standard è poco noto. C’è un ritardo culturale che deve essere colma- to. Potremo trovare tutte le soluzioni che crediamo opportune, potremo dire che il modello individuato non va bene nel percorso integrato, ma non si può fondare sull’ignoranza, sulla mancanza di conoscenza delle norme dei sistemi, una propo- sta che risulta fragile per la sua stessa inconsistenza culturale e per i pregiudizi che la viziano. 8 7 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 87 3.5 - Punti di vista sugli standard: l’esperienza di ENAIP Franca Adele Rizzuni Area Valutazione e Qualità - Ente Nazionale ACLI Istruzione Professionale 1. Definizione dei concetti base Il termine “standard” ha prodotto, in questi ultimi anni, una proliferazione di definizioni eterogenee con la conseguenza di suscitare incomprensioni ed a volte equivoci. In questa sede si propone di adottare la definizione utilizzata dall’ISFOL nell’am- bito del lavoro Monitoraggio permanente sui modelli e metodologie di definizione degli standard di competenze e formativi per il riconoscimento e la certificazione realizzato nel 2005-2006, discusso ed analizzato con gli Organismi di rilievo nazionale. Viene definito standard qualsiasi dispositivo/sistema finalizzato - in modo intenzio- nale (implicito o esplicito) formalizzato e pubblico e quindi riconosciuto/riconoscibi- le ed accreditato/accreditabile da diverse parti - a “mettere in trasparenza” un fenomeno qualitativo e/o quantitativo, ponendo le basi per la sua misurabilità. In questo lavoro vengono individuate quattro macro-tipologie di standard: - Standard di competenze. Hanno per oggetto la definizione delle competenze di base, delle competenze chiave, delle competenze tecnico-professionali. - Standard professionali. Hanno per oggetto la definizione delle caratteristiche della professione (oggettivamente intesa). - Standard formativi. Riguardano l’insieme dei requisiti che devono essere soddi- sfatti dagli organismi che erogano servizi nei sistemi di istruzione e formazione. - Principi comuni per la trasparenza, la certificazione e il riconoscimento (delle competenze e delle qualifiche). Riguardano le procedure per la certificazione, i crediti, le procedure di riconoscimento, i certificati rilasciabili con riferimento ai livelli europei ecc. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 8 8 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 88 2. Standard a confronto Oggi assistiamo ad una proliferazione di standard nelle diverse tipologie, sia ad opera delle Istituzioni che degli Organismi di formazione. Tale proliferazione da una parte crea confusione nella comunicazione tra i diversi attori ma, dall’altra, testimonia una ricchezza di progettualità e di impegno a coniugare istanze di lavo- ro locale, regionale e nazionale, istanze di formazione ed istanze identitarie. Al fine di evidenziare l’eterogeneità territoriale e la ricchezza presente all’interno degli organismi formativi, restringendo tuttavia il campo di applicazione degli standard all’ambito del diritto/dovere all’istruzione e formazione professionale, abbiamo elaborato una matrice di riferimento con alcune chiavi interpretative che consentono di confrontare gli standard rispetto ai livelli territoriali ed alle specifi- cità delle tre regioni considerate (Piemonte, Veneto e Puglia), scelte a titolo esem- plificativo, nelle quali ENAIP sta realizzando alcune sperimentazioni dei percorsi triennali. Una prima chiave interpretativa consiste nell’articolazione dei livelli territoriali. Gli standard si diversificano rispetto ai Soggetti istituzionali e sociali che li elabo- rano e rispetto ai livelli territoriali, che possono essere identificati dallo Stato Centrale (il livello nazionale), dall’Ente Regione (il livello regionale) e dagli orga- nismi di formazione che operano sul campo (il livello locale). Un secondo criterio riguarda l’uniformità, che traduce l’istanza espressa dagli standard nazionali di dare una medesima impronta di qualità alle attività forma- tive realizzate sul territorio nazionale. Un terzo criterio considera il coinvolgimento, cioè le modalità di lavoro con le quali le istituzioni regionali definiscono i diversi tipi di standard, prevedendo la com- partecipazione dei diversi attori (nello specifico gli organismi formativi). Un quarto criterio, la formalizzazione degli standard, fa riferimento alla quantità di standard definiti ed esplicitati dalle Regioni, attraverso leggi regionali, accordi e delibere, per “formalizzare” le condizioni di operatività. Un quinto criterio è rappresentato dagli ambiti di discrezionalità, ovvero gli spazi, all’interno della cornice dettata dalle istituzioni, nell’ambito dei quali l’organismo formativo è libero di elaborare (in maniera più o meno formalizzata), arricchire e creare nuovi standard, esprimendo la propria specificità vocazionale. Infine un ultimo criterio consiste nel leggere tutti gli standard prodotti ai diversi livelli territoriali attraverso la tipologia fornita dal progetto di monitoraggio dell’ISFOL: standard professionali, di competenza, di certificazione/trasparen- za/riconoscimento, standard formativi. 8 9 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 89 2.1 Il livello nazionale Il panorama normativo nazionale appare caratterizzato da una pluralità di prov- vedimenti (che in questa esposizione non saranno oggetto di approfondimento, anche perché già affrontati in altri interventi), di natura e con forza giuridica diversa, che riguardano principalmente, anche se non esclusivamente, gli stan- dard formativi ed i principi comuni per la trasparenza, la certificazione e il rico- noscimento delle competenze. Tuttavia sono state adottate delle misure che posso- no rientrare nella macro tipologia standard di competenze. Fra i provvedimenti afferenti alla tipologia standard formativi citiamo quello rela- tivo all’Accreditamento delle sedi formative (Decreto Ministeriale n. 166/2001) e quello inerente ai Livelli essenziali delle prestazioni del secondo ciclo ai sensi della legge 53/03 (Decreto legislativo 226 del 17/10/2005). Fra le normative appartenenti alla tipologia Principi comuni per la trasparenza, la certificazione e il riconoscimento delle competenze citiamo: l’Accordo firmato in Conferenza Unificata il 28 ottobre 2004, dedicato interamente alla certificazione delle competenze ed al riconoscimento dei crediti nei passaggi tra sistemi per i per- corsi sperimentali triennali e l’Accordo del 24 novembre 2005 tra Regioni e Province Autonome per il riconoscimento reciproco dei titoli in uscita dai percor- si sperimentali triennali. Infine, relativamente alla macro tipologia Standard di competenze ricordiamo l’Accordo siglato in Conferenza Stato-Regioni il 15/01/2004, dedicato alla defini- zione degli standard minimi relativi alle competenze di base. Ovviamente l’intento non è quello di dare un quadro esaustivo dei provvedimenti realizzati relativamente alla tematica degli standard nazionali, bensì di evidenzia- re sia la pluralità dei provvedimenti stessi - nell’ambito dei quali le diverse Regioni sono libere di articolare le specifiche attraverso una contestualizzazione territoria- le - sia la completezza delle misure messe in atto. 2.2 Il livello regionale A partire dal quadro normativo comune, le diverse Regioni si sono attivate con modalità diverse per definire i vari tipi di standard. Dal lucido relativo al quadro sinottico, si può osservare che, nelle tre regioni prese in considerazione, il coinvolgimento degli organismi formativi da parte delle isti- tuzioni regionali si modula con diversa intensità e modalità di espressione: è molto alto in Piemonte ed è basso in Puglia, mentre il Veneto si situa nel mezzo. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 9 0 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 90 La Regione Piemonte ha costituito sia un Tavolo regionale di progettazione sia diverse Commissioni tecniche come luoghi di ricerca in cui elaborare proposte di standard condivise con i diversi Soggetti formativi e sociali. Le commissioni tecni- che afferenti al Settore Standard formativi provvedono principalmente alle istrut- torie per la standardizzazione dei profili formativi, alla predisposizione delle prove finali standard, al monitoraggio delle prove non standard predisposte dalle agen- zie formative, alla progettazione/realizzazione di tutti quei materiali/strumenti che sono nel tempo reputati strategici per le attività di governance e/o supporto alle attività delle Agenzie. La Regione Veneto ha attivato un tavolo regionale, con gli Enti appartenenti a Formaveneto, finalizzato ad elaborare i profili e le relative competenze professio- nali, condivise con i soggetti formativi più rappresentativi del territorio. Infine, in Puglia non sono previste modalità di lavoro specifiche di coinvolgimen- to, da parte delle istituzioni, degli organismi formativi nell’elaborazione degli stan- dard, a parte “l’Organismo Regionale di indirizzo, monitoraggio e valutazione”, attivato in quasi tutte le regioni. Passando ad analizzare il criterio formalizzazione degli standard, ritroviamo un andamento simile a quello riscontrato per il coinvolgimento: un patrimonio ricco e formalizzato di standard è, infatti, presente in Piemonte, decresce in Veneto ed è quasi assente in Puglia. Il Piemonte con la Delibera regionale 152-3672 del 2 agosto 2006 formalizza il “Sistema Regionale degli Standard Formativi declinato per competenze”. Rileggendo il Sistema degli Standard del Piemonte1, il tentativo fatto (di cui ripor- tiamo una sintesi) è stato quello di far convergere i principali standard nelle 4 macro tipologie indicate da ISFOL. A. Standard di competenze Rientra in questo primo standard il Repertorio delle Competenze e delle Attività: le competenze sono a loro volta declinate in capacità, mentre le attività sono decli- nate in Azioni. Per ogni Attività e Competenza vengono indicati i Focus di valu- tazione. Una matrice evidenzia i livelli di interazione Competenze/Attività, i cui singoli incroci costituiscono un’Unità di Competenza (UC). B. Standard professionali Vi rientra il Repertorio delle professioni, intese come insieme di competenze rife- rite a specifici processi lavorativi. Relativamente ai profili afferenti all’ambito del Diritto/Dovere, la Regione ha declinato tutti gli standard minimi delle competen- ze di base; ha inserito alcune competenze trasversali e comuni, acquisendole da 9 1 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD 1 c.f.r. Delibera regionale 152-3672, 2-8-2006 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 91 una sperimentazione realizzata nel 2002-2003 da un’ATS composta, fra gli altri enti, da ENAIP Piemonte, valorizzando in tal modo il lavoro svolto dagli organi- smi di formazione professionale. C. Standard formativi Rientrano negli standard formativi sia il Repertorio Profili formativi (a) che gli Standard di erogazione (b). a) Il Repertorio dei Profili Formativi comprende, da una parte, i profili profes- sionali e gli obiettivi formativi e dall’altra, gli standard formativi, che descri- vono i requisiti, in termini di processo, relativi a percorsi formativi formali. b) Gli Standard di erogazione riguardano l’insieme di prescrizioni a cui le agen- zie formative devono attenersi sia per la presentazione delle domande che per l’erogazione del servizio. D. Principi comuni per la trasparenza, la certificazione e il riconoscimento In quest’ultima macro-tipologia rientrano numerosi standard, di cui si riporta un solo esempio relativo alle quattro tipologie di qualifiche e specializzazioni. • Standard: hanno carattere prescrittivo; sono, infatti, definite negli obiettivi, nei contenuti, negli strumenti, nei requisiti d’ingresso, nelle ore e nella tipologia di prova finale. • Standard validato: sono qualifiche standard, i cui profili professionali sono stati validati dalle Parti Sociali e/o in rapporti interistituzionali. • In osservazione: sono oggetto di monitoraggio da parte delle commissioni tecni- che al fine di garantire omogeneità di contenuti e di obiettivi fra corsi con la medesima denominazione. In genere si tratta di percorsi già svoltisi negli anni precedenti. • Nuove: sono qualifiche non previste dal sistema, ma proposte dalle agenzie for- mative in risposta ai bandi; successivamente potrebbero rientrare nelle tipologie in osservazione o standard o alla riconduzione a denominazioni già esistenti. Restando nell’ottica della formalizzazione degli standard, il Veneto vive una situa- zione leggermente diversa, caratterizzata da un quadro normativo attivo, ma non eccessivamente strutturato e prescrittivo. Riprendendo come chiave di riferimento le 4 macro tipologie indicate da ISFOL si evidenziano i principali standard indi- viduati nel sistema veneto. A. Standard professionali Il tavolo regionale, attivato dalla Regione Veneto e costituito dagli Enti apparte- nenti a Formaveneto, ha elaborato circa 30 figure professionali (indicate nell’alle- gato E della Dgr n.1563 del 23/05/2006), articolando una descrizione sintetica del profilo e la relativa descrizione delle competenze tecnico-professionali. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 9 2 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 92 B. Standard di competenze Sono state declinate dal tavolo regionale sia le competenze di base (Conferenza Stato-Regioni, 15/01/2004), sia le competenze tecnico-professionali descritte nelle figure professionali elaborate dal tavolo stesso. Tale lavoro svolto sulle com- petenze rappresenta un quadro di riferimento non vincolante per le agenzie for- mative venete. C. Standard formativi Rientrano in questa macro-tipologia la suddivisione oraria di massima e l’inseri- mento obbligatorio di alcuni moduli didattici, contenuti nelle Linee guida per la progettazione dei percorsi triennali. D. Principi comuni per la trasparenza, la certificazione e il riconoscimento Le Linee guida per lo svolgimento degli esami nei percorsi triennali in assolvi- mento del Diritto-Dovere all’Istruzione Formazione, oltre ad indicare diversi altri standard, stabiliscono che la prova finale deve essere una prova complessa, costi- tuita da diverse fasi, valide per tutte le qualifiche. Un altro aspetto interessante riguarda il giudizio di ammissione, per il quale si richiede una descrizione sinteti- ca che evidenzia il processo formativo dell’alunno, evidenziando alcune capacità esplicitate nel PECUP2. In Puglia è presente un quadro molto debole di standard delineato, oltre che dagli avvisi per la presentazione di progetti, da due protocolli di intesa (realizzati, comunque, in quasi tutte le regioni italiane). Facendo riferimento alle 4 macro tipologie ISFOL citiamo alcuni standard prin- cipali. A. Standard professionali Ad oggi a livello regionale non sono state definite le figure professionali e per la progettazione dei percorsi triennali la Regione chiede di fare riferimento alla clas- sificazione delle professioni del Ministero del Lavoro e ISFOL. B. Standard di competenze Le competenze, nella descrizione del profilo elaborata nel formulario di presenta- zione dei progetti, devono essere articolate nella tripartizione sapere, saper fare, saper essere. Non sono state ulteriormente declinate, da parte della Regione, le competenze di base definite nell’accordo Stato-Regioni del 2004. C. Standard formativi Rispetto a questa macro-tipologia è possibile citare alcuni standard, quali la sud- divisione oraria di massima; l’inserimento obbligatorio di misure di accompagna- 9 3 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD 2 Allegato A del decreto legislativo n. 226/2005. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 93 mento previste per i percorsi triennali; le misure congiunte di sistema (FP ed isti- tuzione scolastica); l’utilizzo di determinate risorse professionali coinvolte nei per- corsi triennali. D. Principi comuni per la trasparenza, la certificazione e il riconoscimento. Sono previste verifiche intermedie e finali degli apprendimenti degli allievi, effet- tuate congiuntamente dai docenti e dai formatori che hanno gestito il percorso. Si richiede agli organismi di adottare una metodologia per il riconoscimento recipro- co dei crediti formativi e la certificazione delle competenze, allo scopo di consen- tire agli allievi la massima flessibilità, in entrata ed in uscita, dai rispettivi sistemi formativi. 2.3 Il livello locale (di organismo) Gli ambiti di discrezionalità concessi all’organismo di formazione all’interno della cornice normativa finora delineata sono evidentemente eterogenei. In particolare si può ipotizzare che gli ambiti di discrezionalità siano inversamen- te proporzionali al livello di formalizzazione degli standard; quindi, laddove la for- malizzazione è elevata, si riscontrano spazi di iniziativa molto ristretti, al contra- rio, gli spazi d’azione dell’organismo sono ampi se nella Regione di appartenenza non è presente una formalizzazione elevata. Tuttavia, ENAIP Piemonte afferma di non sentirsi “ingabbiato” dal sistema di standard presente in Piemonte, in quan- to interpreta gli standard come prodotto sociale condiviso e non solo come pre- scrizione delle Istituzioni. Da queste affermazioni è possibile comprendere l’im- portanza che assume il metodo di lavoro (in particolare il coinvolgimento delle agenzie formative) che le istituzioni mettono in atto nell’elaborare i diversi tipi di standard, specialmente quelli che hanno un impatto ed un radicamento maggiore nella pratica formativa. Si mettono in evidenza, sempre utilizzando la ripartizione ISFOL, gli standard ela- borati da ENAIP Piemonte. A. Standard di competenze Le Competenze nell’ambito del Diritto Dovere sono Standard, hanno quindi carat- tere prescrittivo e non sono modificabili dall’organismo formativo. B. Standard professionali I Profili professionali, essendo Standard, non possono essere modificati dall’orga- nismo formativo. C. Standard formativi In questa tipologia, l’unico spazio di discrezionalità riguarda i contenuti e le modalità di interazione nei percorsi formativi; ENAIP Piemonte, nei suoi percorsi formativi, utilizza gli standard validati durante la già citata sperimentazione rea- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 9 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 94 lizzata in ATS. Realizza, quindi, le attività formative in base al proprio stile ed al proprio modello pedagogico. D. Principi comuni per la trasparenza, la certificazione e il riconoscimento Tutti gli standard che rientrano in questa macro-tipologia sono previsti dal siste- ma regionale e devono essere utilizzati dai vari organismi così come formalizzato. L’ambito di discrezionalità di ENAIP Veneto, rispetto alle quattro macro-tipologie, risulta essere diverso. A. Standard professionali Relativamente ai profili professionali, ENAIP Veneto fa riferimento agli standard regionali (cioè ai profili indicati nell’allegato E della Dgr n.1563 del 23/05/2006) ed alla declinazione dei profili realizzata dal gruppo di lavoro regionale. B. Standard di competenze ENAIP Veneto ha inserito una quinta area di Standard formativi minimi relativi alle competenze di base. Inoltre, sia rispetto alle 5 aree di competenze di base che rispetto alle competenze tecnico-professionali, ENAIP Veneto ha declinato ulte- riormente gli standard, per ciascun anno di percorso, in competenze ed attività elementari. C. Standard formativi Nella progettazione dei percorsi formativi triennali, ENAIP Veneto ha declinato ciascuna competenza in Obiettivi di apprendimento, Contenuti e Obiettivi di com- portamento. Un aspetto di particolare interesse riguarda il fatto che ENAIP ha tra- sformato in Standard formativi minimi alcuni degli obiettivi previsti dal PECUP ed ha elaborato le relative U.F. D. Principi comuni per la trasparenza, la certificazione e il riconoscimento Sulla base delle linee guida fornite dalla Regione e a partire dagli standard mini- mi, ENAIP ha elaborato gli strumenti di valutazione intermedi e finali utilizzati dalla rete regionale ENAIP. Un ultimo aspetto importante è l’elaborazione, da parte di ENAIP Veneto, di un proprio PECUP nel quale si evidenziano i principi educativi e le scelte metodolo- giche e didattiche finalizzate ad arricchire e dare senso educativo alle competenze di base e tecnico-professionali. Concludiamo l’analisi intrapresa con ENAIP Puglia, il cui ambito di discreziona- lità si situa in un quadro molto debole di standard definiti dalla Regione; si deve mettere in evidenza il ruolo centrale dell’Organismo di formazione nel costruire un sistema di riferimento locale che è stato accettato dalla stessa Regione come siste- ma di standard minimi. All’interno di questo quadro, l’ENAIP Puglia, con il contributo di ENAIP Nazionale, si è impegnato a delineare per tutte le azioni sperimentali alcune caratteristiche di base comuni a tutte le azioni, che si configurano come “standard locali”. 9 5 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 95 A. Standard di competenze A partire dagli standard minimi delle competenze di base, ENAIP Puglia articola le competenze, all’interno delle UFC, declinandole in sapere, saper fare e saper essere. B. Standard professionali ENAIP Puglia individua i profili di riferimento sulla base di studi e di analisi dei bisogni territoriali realizzati da altri organismi presenti sul territorio. I profili, che fanno comunque riferimento alla classificazione di ISFOL o del Ministero del Lavoro, vengono articolati sulla base delle indicazioni regionali. C. Standard formativi ENAIP Puglia ha previsto come standard un’area delle competenze trasversali, articolando le singole competenze. Un altro aspetto riguarda il lavoro svolto da ENAIP Nazionale, che ha visto coinvolto ENAIP Puglia, relativo alla costruzione di specifiche di qualità per le azioni di Progettazione regionale, Progettazione locale, Percorso didattico e Stage. Tali specifiche sono considerate degli standard minimi, delle linee guida per la realizzazione delle azioni suddette e sono, inoltre, oggetto di valutazione intermedia e finale. D. Principi comuni per la trasparenza, la certificazione e il riconoscimento L’elemento rilevante di questa macro-tipologia è il modello valutazione elaborato ENAIP Nazionale; tale modello ha come livelli di valutazione sia i processi che le competenze di base, rilevate tramite strumenti costruiti sulla base degli standard minimi definiti nel 2004. In tutte le regioni osservate si può sostenere che gli standard minimi costituiscono un vincolo progettuale per gli organismi che realizzano percorsi formativi finaliz- zati al conseguimento della qualifica, ma non esauriscono gli obiettivi di un per- corso formale che si propone finalità e obiettivi di apprendimento non limitati allo specifico professionale. 3. Conclusioni Ogni percorso di formazione professionale, così come viene indicato nella norma- tiva sul Diritto-dovere alla formazione, deve avere come riferimento due tipi pre- cisi di standard formativi: gli standard minimi formativi delle competenze di base e quelli delle competenze tecnico-professionali. Il rispetto di questi da parte degli Organismi erogatori di formazione non sembra costituire una garanzia per il con- seguimento dei traguardi di senso tracciati dal PECUP (“orizzonte di senso edu- cativo e formativo”), in quanto solo parzialmente sono orientati a caratterizzare le pratiche formative con valenze educative. Possono essere considerati, quindi, come ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 9 6 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 96 una risorsa necessaria ma non sufficiente per sviluppare “formazione” ed “educa- zione”. Ciò che oggi manca tra PECUP e competenze di base e tecnico-professionali sem- bra essere il “Progetto Pedagogico” o la “Proposta educativo-formativa” che defi- nisca le coordinate educative, valoriali e metodologico-didattiche dell’Organismo formativo da sviluppare sul campo per integrare, arricchire e dare senso educati- vo alle competenze di base e tecnico-professionali. 9 7 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 97 3.6 - Punti di vista sugli standard. L’esperienza del CNOS-FAP e del CIOFS-FP Mario Tonini Associazione CNOS-FAP 1. Premessa Il prof. Michele Pellerey ha messo in evidenza, nella sua relazione, la stretta con- nessione che esiste tra la natura di un “processo formativo” e la declinazione di “standard formativi”. “Molte delle critiche rivolte in questi ultimi decenni al concetto stesso di standard derivano da una parte da una concezione molto tecnica e limitata, dall’altra dal- l’uso del termine standardizzazione sia in senso generico come processo di omoge- neizzazione, sia più specifico quando si introducono test standardizzati. Evidentemente l’esperienza concreta, soprattutto nel contesto dell’istruzione e della formazione professionale, evidenzia la grande differenziazione delle caratteristiche dei giovani a cui ci si dedica. Tale diversità tende ad accentuarsi ulteriormente con la presenza sempre più massiccia di soggetti stranieri, di studenti, di culture, lingue, stato di preparazione, storie personali e famigliari assai variegate. Pensare di impostare percorsi altamente strutturati e omogenei, basati su sequen- ze prestabilite di argomenti e contenuti di natura disciplinare, introdotti in manie- ra uniforme e poco o per nulla collegati all’esperienza precedente o attuale degli studenti, senza tener conto del significato e valore a essi attribuito, né del grado di preparazione di ciascuno, è del tutto improduttivo. A questo si aggiunge la diversa finalizzazione dei percorsi formativi, più orienta- ti verso l’uso pratico delle conoscenze promosse, che verso una loro costruzione di natura teorica” (Standard formativi nell’Istruzione e nella Formazione professio- nale, pag. 31). La citazione fotografa alcuni aspetti della situazione della formazione professio- nale iniziale oggi e il conseguente atteggiamento assunto dagli enti di FP CNOS- FAP e CIOFS-FP nel progettare i percorsi formativi per gli adolescenti. La FPI, infatti, in Italia si sta confrontando con: - la complessa condizione dell’adolescente, - la presenza crescente di giovani stranieri, ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 9 8 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 98 - la fatica educativa nell’individuare strategie che motivano all’apprendimento, - il cantiere sempre aperto della FPI. Il prof. Dario Nicoli, nella sua relazione fotografa lo stato dell’arte degli standard in Italia: “Il lavoro sugli standard formativi essenziali (il professore preferisce ‘essenziali’ a ‘minimi’ perché, in chiave formativa, la parola “minimi” ha una valenza negativa) è in mezzo al guado: sono stati definiti quelli delle ‘competenze di base’, mentre mancano tutti gli altri” . Il Glossario dell’educazione degli adulti, un “glossario essenziale” voluto dalla Conferenza Stato - Regioni del 15 gennaio 2004 e messo a disposizione sul sito ISFOL in forma on-line dal 2005, contiene una prima definizione condivisa di “standard” e di “standard formativi”: - “Standard”: (1) criterio di qualità o livello riconosciuto in relazione al funzionamento del ser- vizio scolastico o del suo prodotto; (2) livello di prestazione riferito a specifici comportamenti di studio o di lavoro definitivi e condivisi, che ci si aspetta vengano realizzati in condizioni normali. - “Standard formativi”: insieme di competenze minime relative alla figura professionale di riferimento, assunto come obiettivo formativo e ritenuto indispensabile per il rilascio di qua- lifica o di altro titolo. I pochi cenni sono sufficienti per concludere che la metafora del cantiere applica- ta alla formazione professionale soprattutto iniziale in questi anni è appropriata; in questo cantiere il CNOS-FAP ed il CIOFS-FP, nel progettare percorsi formativi, hanno cercato di tenere presente, come punto di riferimento costante, l’adolescen- te; i medesimi enti hanno cercato di colmare l’assenza di standard formativi essen- ziali definiti con la promozione e/o la partecipazione a varie sperimentazioni regionali. Nella presente relazione mi limiterò, pertanto, ad esporre alcuni esempi di stan- dard elaborati dal CNOS-FAP e dal CIOFS-FP in occasione delle sperimentazioni dei percorsi formativi biennali prima e triennali poi, contenenti sia proposte di standard professionali, cioè compiti che l’allievo deve saper affrontare e presidia- re positivamente al fine di ottenere una validazione circa la possibilità di esercita- re una specifica attività lavorativa, sia standard formativi “minimi” o “essenzia- li”, immaginati, già prima dell’Accordo del 2004, come base culturale di cittadi- nanza attiva e responsabile. Preciso che la loro formulazione è stata - ed è ancora oggi - considerata sempre migliorabile in virtù della sperimentazione. Preciso anche che quanto descritto rispecchia l’esperienza vissuta dagli Enti in varie Regioni (non in tutte) e non coglie tutte le sfumature che sono patrimonio di ogni singola Regione. 9 9 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 99 Attenendomi al titolo della tavola rotonda che fa riferimento alle esperienze, mi limiterò, nel presente contributo, a “raccontare” quella vissuta dai due Enti. Volendo fare un bilancio complessivo dell’esperienza vissuta, posso affermare che, dopo anni di sperimentazione, pur in presenza di una normativa regionale e nazio- nale incompleta, la definizione di mete comuni, di un linguaggio di riferimento e di un sistema di standard essenziali e gestibili, può concorrere alla realizzazione di una FPI che, pur rispettosa delle specificità regionali, appartiene a pieno titolo all’unitario sistema educativo di Istruzione e Formazione italiano. Suddivido il contributo, scandendolo in due tappe, legate a due precise normati- ve: quello della legge 144 del 1999 e quello della legge 53 del 2003. Come le due normative sono distinte ma complementari e all’insegna della conti- nuità, anche la progettazione dei due Enti nelle due fasi è stata distinta ma si è rivelata complementare e all’insegna della continuità. 2. Fase della Legge 17 maggio 1999, n. 144 e dell’Accordo in C.U. del 2 marzo 2000 2.1. Stimoli desunti dalla normativa La legge, salutata da molti come “vero salto di qualità” per la formazione profes- sionale iniziale, all’articolo 68 dichiarava: “Al fine di potenziare la crescita cultu- rale e professionale dei giovani, ferme restando le disposizioni vigenti per quanto riguarda l’adempimento e l’assolvimento dell’obbligo di istruzione, è progressiva- mente istituito, a decorrere dall’anno 1999-2000, l’obbligo di frequenza di attività formative fino al compimento del diciottesimo anno di età. Tal obbligo può essere assolto in percorsi anche integrati di istruzione e formazione: a) nel sistema di istruzione scolastica; b) nel sistema della formazione professionale di competenza regionale; c) nell’esercizio dell’apprendistato”. La peculiarità dei diversi sistemi che concorrevano all’assolvimento dell’obbligo formativo era sancita anche dalla diversità delle soluzioni: nel sistema dell’istru- zione scolastica l’obbligo si intendeva assolto col conseguimento del diploma di scuola secondaria superiore; nel sistema della formazione professionale iniziale di competenza regionale veniva assolto con il conseguimento di una qualifica profes- sionale; nell’esercizio dell’apprendistato l’assolvimento era legato alla frequenza di ore formative annuali fino a 18 anni di età. Le indicazioni della legge 144 e la successiva Conferenza Unificata del 2 marzo 2000 permettevano di parlare di novità da due punti di vista: ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 0 0 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 100 - dal punto di vista della FPI, che viene definita con chiarezza “sistema”, - dal punto di vista del progetto che si caratterizzava non solo esclusivamente lega- to al mondo del lavoro ma anche alla crescita culturale della persona. Le norme, nel loro complesso, prefiguravano un percorso formativo1 che a) apparteneva a pieno titolo ad un sistema di formazione professionale iniziale rivolto ai giovani; b) era formativo e non puramente addestrativo, in quanto favoriva una piena e completa formazione della persona, dotandola di una adeguata base culturale oltre che professionale; c) era flessibile (percorso formativo più azioni di supporto) e articolato (cicli for- mativi con certificazioni che costituivano titolo valido per il passaggio al ciclo successivo e credito formativo per passare all’istruzione superiore o all’appren- distato); d) era finalizzato alla acquisizione di una qualifica professionale spendibile nel mercato del lavoro e quindi aperto alla progettazione per competenze; e) privilegiava la metodologia attiva, volta a valorizzare e sviluppare esperienze concrete della vita giovanile e del mondo lavorativo; f) era strutturato secondo i criteri della qualità nella valutazione dell’offerta for- mativa erogata e percepita nei suoi esiti da parte degli organismi; g) promuoveva una azione di rete tra gli attori formativi, scolastici e quelli del mondo del lavoro (coordinamento, progettazione, adozione di standard forma- tivi, dotazione di un sistema informativo, valutazione, gestione dei crediti e dei passaggi tra i diversi sistemi dell’obbligo formativo). 2.2. La proposta del CNOS-FAP e del CIOFS-FP per l’obbligo formativo (Anno 2000) Presenterò la proposta in forma schematica, rimandando alla lettura della docu- mentazione per gli approfondimenti. Il CNOS-FAP ed il CIOFS-FP, interpretando la normativa vigente, hanno agito su tre fronti: • il fronte della progettazione: hanno proposto un percorso formativo biennale, aperto ad un ulteriore ciclo di specializzazione, articolato su figure professionali; 1 0 1 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD 1 Una descrizione sintetica e schematica del progetto complessivo si può leggere in: NICOLI D., La nuova formazione professionale iniziale: il progetto del CNOS-FAP e del CIOFS/FP per l’obbligo for- mativo. Una proposta per rendere possibile l’attuazione dell’obbligo formativo nel sistema della for- mazione professionale regionale, in «Rassegna CNOS», anno 16, n. 2, maggio / agosto 2000. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 101 • il fronte del successo formativo: il percorso, per perseguire il raggiungimento degli obiettivi, si è arricchito di azioni formative di supporto a monte (accoglienza, orientamento e preformazio- ne), in itinere (moduli integrativi, recuperi, approfondimenti) e a valle (azione di accompagnamento); • il fronte degli Enti di FP impegnati nella FPI: il progetto mirava, attraverso specifiche proposte, a qualificare l’ente di FP attraverso la prospettiva della qualità e dell’accreditamento interno per l’eserci- zio ottimale della propria missione formativa. 2.2.1. Il fronte della progettazione Due sono state le azioni messe in campo per il primo fronte: la scrittura di un pro- getto contenente proposte di standard professionali e formativi; il superamento della logica della corso - qualifica con l’adozione della nuova categoria, la fami- glia professionale e delle competenze. 2.2.1.1.Il progetto complessivo Il progetto complessivo conteneva i seguenti documenti: Linee guida Le linee guida presentavano le finalità generali del progetto, proponevano stan- dard professionali e formativi, descrivevano la metodologia adottata e abbozzava- no un impianto generale di accreditamento. Allegati Allegati alle linee guida c’era il progetto vero e proprio. Il percorso formativo era articolato in aree: l’area comune, l’area professionaliz- zante, l’area dello stage. Strumenti Completavano il progetto alcune proposte di strumenti ulteriori da sperimentare quali quella di un libretto personale, quella di una articolazione oraria del percor- so che ipotizzava un equilibrio tra le esigenze professionalizzanti e quelle culturali del percorso formativo, materiali per la promozione delle capacità personali, ecc. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 0 2 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 102 Schematicamente, il quadro degli standard di apprendimento erano così riassunti: 1 0 3 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD A) Saperi di base B) Competenze professionali C) Capacità personali Area linguistica Area delle scienze umane e dell’etica Area scientifica, tecnologi- ca e di supporto Trasversali (o comuni) Specifiche (rif. Installatore impianti elettrici civili e industriali) • Lingua italiana • Lingua straniera (inglese) • Cultura storico - sociale • Diritto del lavoro • Organizzazione aziendale • Economia di base • Etica della persona e del lavoro • Logico-matematica • Scienze della materia • Scienze della natura • Informatica utente • Elaborare un budget e gestire gli atti amministrativi fondamentali • Conoscere, rispettare ed applicare le procedure relative alla sicurezza • Conoscere, rispettare ed applicare le procedure relative alla qualità • Analizzare e sviluppare le infor- mazioni ed i dati ricevuti • Progettare • Eseguire • Controllare e recuperare anomalie • Valutare • Diagnosticare e promuovere la propria realtà personale • Comunicare e gestire relazioni • Apprendere ad apprendere • Organizzare il lavoro e risolvere problemi • Lavorare in modo cooperativo • Progettare il proprio percorso di vita/di lavoro CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 103 Alcune precisazioni. Il progetto prevedeva, per ogni figura professionale (appartenente ad un macro - set- tore o ad un settore) la seguente impostazione circa gli standard professionali e for- mativi: • la figura professionale era descritta attraverso una specificazione, una collocazio- ne organizzativa, delle indicazioni di prerequisiti e delle indicazioni di continuità formativa; • le acquisizioni erano distinte in due categorie, specificate per componenti: - risorse: saperi di base e capacità personali, - competenze professionali: trasversali (o comuni) e specifiche. I saperi erano definiti come un “insieme di nozioni strutturate in una materia/disci- plina o area culturale. Possono riguardare teorie, modelli, sistemi di azione. Ogni ambito di sapere comprende nozioni, concetti, nessi, regole. I saperi sono - al pari delle abilità e delle capacità - cognizioni che occorre acquisire per porre in atto una competenza (di cui sono uno degli ingredienti)”. La competenza “non è uno stato od una conoscenza posseduta. Non è riducibile né a un sapere, né a ciò che si è acquisito con la formazione… La competenza non risie- de nelle risorse (conoscenze, capacità…) da mobilizzare ma nella mobilizzazione stessa di queste risorse… Qualunque competenza è finalizzata (o funzionale) e con- testualizzata: essa non può dunque essere separata dalle proprie condizioni di ‘messa in opera’… La competenza è un saper agire (o reagire) riconosciuto. Qualunque competenza, per esistere, necessita del giudizio altrui” (G. Le Boterf, De la competance, 1994). Le capacità personali rappresentano l’insieme delle caratteristiche (tratti, disposi- zioni, vocazione, attitudini…) che l’individuo pone in atto in differenti situazioni sia professionali sia di vita quotidiana e che ne connotano la personalità. Esse rifletto- no i valori ed i contenuti propri dell’educazione che la persona vive specie nell’età evolutiva; si riferiscono quindi alla famiglia di appartenenza, alle agenzie educative e formative ma anche ai legami individuali e di gruppo. In un percorso formativo le capacità riflettono la proposta, i valori e la testimonianza della comunità degli edu- catori - formatori; esse rappresentano, quindi, l’asse del percorso formativo lungo il quale l’allievo progredisce e matura in quanto persona. Tutte le acquisizioni erano articolate in unità formative specificate per cicli for- mativi. Le figure professionali previste per la formazione professionale iniziale si collocava- no nel 2° livello della classificazione Ue delle attività professionali. Al termine del percorso i destinatari della proposta dovevano essere in possesso di requisiti potenziali di programmazione e di coordinamento che potevano diventare effettivi dopo un periodo definito di esperienza lavorativa. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 0 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 104 2.2.1.2. Il passaggio dalla logica corso/qualifica alla logica della famiglia professio- nale e delle competenze In concomitanza all’avvio della sperimentazione dei percorsi in obbligo formativo, il CNOS-FAP ed il CIOFS-FP avvertivano l’urgenza di una riflessione approfondita sulle qualifiche professionali. La loro revisione li ha portati alla adozione di un dispositivo attraverso il quale si sono definiti, per ciascuno dei profili considerati, un percorso di riconoscimento della qualifica mediante il confronto con alcuni sistemi di classificazione delle professioni, sia tra quelli presenti all’interno dell’offerta formativa delle Regioni sia tra quelli ela- borati a sostegno dell’attività di incontro domanda-offerta di lavoro, sia infine tra i repertori costruiti per l’analisi delle professioni e a supporto delle politiche formati- ve e del lavoro2. Il lavoro di revisione è stato articolato in tre distinti livelli di analisi: - la ricerca delle denominazioni equivalenti, - l’elaborazione di un referenziale professionale, - l’elaborazione di un referenziale formativo. La scelta di proporre una metodologia così strutturata nasceva dalla consapevo- lezza che fermarsi alle sole denominazioni non avrebbe risolto di per sé la que- stione della validazione delle figure professionali, se non sul piano dell’«etichetta». In altre parole, si sarebbe richiesto di costruire un sistema in grado di garantire trasparenza e uniformità solo dal punto di vista formale (e quindi apparente), delegando alla soggettività dei diversi attori sociali il compito di riempire di con- tenuti le denominazioni proposte e sacrificando in tal modo la spendibilità socia- le delle qualifiche professionali. Occorreva, invece, sforzarsi di problematizzare la questione fino alle competenze che ciascuna figura sottendeva, poiché da ciò dipendeva, in ultima istanza, la possibilità di definire degli standard formativi validi per tutti in grado di dare ordine a una materia che da sempre si distingue per frammentazione e contingenza. Assumendo la categoria di “famiglia/comunità professionale”, inoltre, l’ente di FP si dotava di uno strumento interpretativo in grado di delineare le relazioni tra indi- viduo ed organizzazione secondo una prospettiva che non semplifica o “modelliz- za” i fattori in gioco con il rischio di rinchiudersi in una sorta di autoreferenzia- lità “sofisticata”, ma che procede affermando l’importanza culturale e sociale del lavoro, che risulta collocato entro le relazioni che lo conformano. In senso specifico, con l’espressione “comunità professionale” si intendeva un 1 0 5 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD 2 CNOS-FAP, Dispositivo di valutazione delle figure professionali (formazione professionale iniziale), manoscritto, aprile 2001. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 105 aggregato - coincidente di volta in volta con il settore (es. meccanica), il processo (es. servizi all’impresa) o la tecnologia (es. l’informatica) - di più figure, ruoli o denominazioni che hanno in comune: - una cultura distintiva composta di valori e di saperi peculiari, - le collocazioni organizzative, - i percorsi, - le competenze chiave. Le fonti utilizzate per questa revisione sono state le seguenti: - ErOnLine; - OBNF (anagrafe delle figure professionali); - ISFOL (Repertorio delle professioni); - CCNL; - Regione Piemonte (standard formativi), Regione Toscana (repertorio dei profili professionali), Regione Veneto (Banca dati Ulisse), Regione Lombardia (Direttiva regionale); - Indicazioni europee (direttiva 89/48/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1988; direttiva 92/51/CEE del Consiglio del 18 giugno 1992; 93/569/CEE del 22 otto- bre 1993); - ISCO 88, la classificazione internazionale ufficiale. Di ogni qualifica il lavoro ha prodotto: - l’operazione di denominazione, frutto del lavoro di analisi delle denominazioni equivalenti; - la compilazione del referenziale professionale con la specificazione della figura professionale, le indicazioni delle competenze professionali, il livello, la conti- nuità formativa; - la compilazione del referenziale formativo con l’indicazione di prerequisiti e tempi. Si allega - come esempio - il documento di avvio della revisione delle qualifiche presenti all’interno del CNOS-FAP e del CIOFS-FP. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 0 6 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 106 La mappa della revisione delle qualifiche all’interno del CNOS-FAP e del CIOFS-FP: 1 0 7 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD Famiglia prof. Comparto Metalmeccanico Elettrico Grafico Artigianato Turistico/Alberghiero Ambiente Servizi di impresa Figure professionali 01 Operatore alle macchine utensili 02 Operatore al banco 03 Saldatore 04 Operatore termoidraulico 05 Operatore meccanico d’auto 06 Operatore di carrozzeria 01 Installatore/manutentore impianti elettrici civili e industriali 02 Installatore/manutentore impianti elettrici di automazione industriale 01 Operatore di progettazione grafica 02 Operatore di prestampa 03 Operatore di premedia 04 Operatore di stampa offset 01 Operatore dell’abbigliamento - Sarta su misura con supporto CAD 02 Operatore dell’abbigliamento - Modellista confezionista su CAD 03 Addetto alla panificazione e pasticceria 01 Addetto di sala-bar 02 Addetto di cucina 01 Operatore ambientale 01 segreteria 02 turistico 03 contabile 04 supporto gestionale 05 import/export 06 assicurativo 07 Addetto alle vendite Livello di validazione Codificata Codificata Codificata Codificata Codificata Codificata Problematica Peculiare Codificata Peculiare Codificata Codificata Codificata Codificata Codificata Codificata Problematica Codificata Codificata Codificata Problematica Problematica Problematica Codificata Indica una coincidenza soddisfacente sia per la denominazione sia per il referen- ziale professionale e formativo. Ciò non esclude la presenza di aspetti discordan- ti meritevoli di un eventuale confronto. Indica una coincidenza solo parziale su uno o più aspetti riguardanti sia la denominazione sia il referenziale professionale e formativo. Necessita di un approfondimento. Indica la presenza di un progetto formativo ad hoc che non trova una sufficiente corrispondenza tra le classificazioni considerate. Codificata Problematica Peculiare CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 107 2.2.2. Il fronte del successo formativo Per questo aspetto mi limito a segnalare alcune pubblicazioni prodotte allo scopo. A supporto dei formatori il progetto offriva un manuale guida per le attività for- mative di accoglienza, orientamento e accompagnamento del giovane e un manua- le - guida per la progettazione e la realizzazione dello stage/tirocinio 2.2.3. Il fronte degli Enti di FP impegnati nella FPI Due le iniziative promosse per la qualificazione dell’Ente di FP impegnato nella FPI iniziale: - una proposta di indicatori di qualità e di accreditamento interno (manuale e guida all’uso); - l’adesione al progetto coordinato dal Centro Studi Scuola Cattolica “Per una cul- tura della qualità nella scuola cattolica: verifica e promozione. Sottoprogetto Formazione professionale di ispirazione cristiana” (marzo 2001), contenente pro- poste per la valutazione della qualità formativa e la gestione della qualità nella pro- spettiva di un “marchio di qualità” del Centro di formazione professionale. La tematica è stata ripresa ed approfondita da un successivo progetto al quale hanno partecipato gli Enti aderenti a FORMA: “Un servizio di studio e consulen- za per la creazione di un modello di qualità della istruzione e formazione profes- sionale di ispirazione cristiana nel quadro della riforma del sistema educativo” (giugno 2006). 3. Fase della legge 53/03 e dell’accordo-quadro (giugno 2003) 3.1. Stimoli desunti dalla legislazione e dalla normativa La riforma costituzionale ha ridisegnato le competenze nell’ambito dell’istruzione e dell’istruzione e formazione professionale tra Stato ed Enti locali. La legge 53/03, tenendo conto della suddetta riforma e introducendo il “diritto all’istru- zione e alla formazione per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età” (art. 2, comma 1, lettera c) chie- deva alle Regioni di intervenire direttamente, pur in assenza di decreti attuativi, per dare corso a tale diritto-dovere specie in riferimento alle attività di formazio- ne professionale regionale. L’Accordo - quadro del giugno 2003 dettava le condizioni minime per l’avvio della sperimentazione del percorso formativo. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 0 8 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 108 L’intenso dibattito sulle riforme ha inciso profondamente anche su una più com- piuta definizione di caratteristiche della formazione professionale iniziale che dovrebbero ormai essere considerate acquisite. Solo in maniera schematica e senza pretesa di completezza provo a richiamarne alcuni. - L’idea di “sistema educativo di istruzione e formazione” L’appartenenza della formazione professionale iniziale al sistema educativo di istruzione e formazione in forza delle sue finalità educative. - La natura della FPI La FPI è passata da una impostazione basata principalmente su un profilo pro- fessionale ad una impostazione dal profilo più ampio, che è educativo, culturale e professionale (PECUP), maggiormente rispondente alle nuove esigenze educa- tive e che ha posto l’allievo, prima del lavoro, al centro dell’azione formativa. - La natura del percorso formativo triennale o quadriennale Gli Enti di FP hanno cercato di superare da sempre la tradizionale separazione tra una parte culturale generale e una parte professionale; il nuovo quadro di riferimento permetteva di dare vita ad un progetto di percorso formativo unita- rio ed organico, centrato sulle competenze da acquisire attraverso la ricerca e il mantenimento di una forte integrazione tra le dimensioni del sapere, del sapere fare ed essere, al fine di assicurare quella circolarità tra pratica e teoria che è pro- pria della proposta formativa ed una metodologia centrata su compiti reali. Anche la “flessibilità” e la “personalizzazione” proprie dell’obbligo formativo si perfezionano nella nuova proposta. - Il radicamento della FPI e degli Enti di FP al territorio La FPI, avendo come destinatario un adolescente, un minore, coinvolge in sede di programmazione, progettazione, attuazione e valutazione del percorso tutti gli attori sociali (formatori, allievi, famiglie, imprese, enti locali): l’allievo con i suoi centri di interesse e il suo bisogno di vivere l’esperienza formativa da “protago- nista”; le famiglie con i suoi desideri di percorsi formativi aperti, che non pre- cludono opportunità ulteriori; le imprese che si attendono allievi formati non solo in competenze professionali, ma anche in virtù proprie della persona quali la curiosità, la responsabilità, il lavoro cooperativo, la creatività, la solidarietà, ecc. - Le caratteristiche del soggetto erogatore (accreditamento) L’attenzione posta alla necessità di mettere a disposizione un ambiente educati- vo e formativo che contribuisca a una nuova cultura dell’apprendimento, in grado di renderlo interessante, attraente, avvincente, ed a favorire nelle persone la capacità e l’interesse per un apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Il CNOS-FAP ed il CIOFS-FP, arricchiti della esperienza progettuale e sperimen- tale dell’obbligo formativo hanno collaborato alla scrittura ed alla sperimentazio- 1 0 9 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 109 ne del nuovo progetto proposto da FORMA “Progetto pilota per il sistema di istru- zione e formazione” (un percorso formativo triennale e quadriennale). Anche di questo complesso progetto, mi limito a richiamare solo alcuni aspetti salienti che riguardano il tema della presente tavola rotonda, accennando a quattro aspetti: (1) le caratteristiche del progetto complessivo, (2) la proposta di organizzazione di un (sotto)sistema di IeFP, (3) la mappa dell’offerta forma- tiva, (4) l’esemplificazione del percorso formativo triennale. 3.2. Il progetto del CNOS-FAP e del CIOFS-FP complessivo in sperimentazione Il CNOS-FAP ed il CIOFS-FP hanno elaborato il progetto in più fasi. 3.2.1. Le caratteristiche principali del progetto Il CNOS-FAP ed il CIOFS-FP hanno proceduto, innanzitutto, alla stesura di spe- cifiche Linee Guida per la realizzazione di percorsi formativi di istruzione e for- mazione professionale triennali e quadriennali. Il testo, pubblicato, rielaborava il percorso formativo biennale alla luce del nuovo scenario normativo e ordinamentale. Nella parte generale del testo sono stati analizzati: - i vincoli derivanti dalla normativa vigente (il nuovo Titolo V della Costituzione e la legge 53/03) con i nuovi compiti dello Stato (l’elaborazione del Profilo edu- cativo, culturale e professionale - PECUP - e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni - LEP) e i nuovi compiti delle Regioni (le Indicazioni regionali per i Piani formativi personalizzati); - le scelte proprie della formazione professionale iniziale (la valenza educativa del lavoro nella prospettiva del PECUP, gli obiettivi generali del processo formativo alla luce del PECUP e le azioni per conseguire gli obiettivi generali); - le nuove caratteristiche del sistema educativo di istruzione e formazione profes- sionale e della progettazione formativa. Nella seconda parte del volume è stato approfondito il modello di intervento for- mativo: - la carta della qualità, riferimento dell’Ente di FP; - la descrizione delle comunità e delle figure professionali; - il disegno globale dell’offerta formativa: i titoli rilasciati e le varie tipologie dei percorsi formativi; - i criteri di qualità degli organismi formativi; - la gestione delle risorse umane; - l’organizzazione e la strategia di rete nei vari territori. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 1 0 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 110 La terza parte è stata dedicata alla questione metodologica, descrivendo le fasi della gestione del processo formativo3. Il CNOS-FAP ed il CIOFS-FP, proseguendo nel lavoro di revisione delle qualifiche e dell’adozione del modello di comunità professionale, hanno progettato percorsi formativi triennali e quadriennali di varie comunità professionali, organizzando, per ciascuna area, anche proposte di elaborazione di piani formativi personalizza- ti con esemplificazioni di Unità di apprendimento. La proposta dei due Enti nell’anno 2003 era la seguente: Legno e Arredamento; Grafica e Multimediale; Turistica e Alberghiera; Estetica; Commerciale e Vendite; Elettrica ed Elettronica; Meccanica; Alimentare; Aziendale e Amministrativa; Sociale e Sanitaria; Tessile e Moda. Ogni guida è stata strutturata in due parti: a) una parte comune a tutte le comunità, costituita da una introduzione e una impostazione generale (valenza educativa del lavoro nella prospettiva del PECUP, indicazioni circa la valutazione e la gestione del portfolio); b) una parte specifica per ogni comunità professionale comprendente una presen- tazione della comunità professionale (natura economica, sociale e culturale della comunità; la comunità professionale in prospettiva formativa; le figure professionali: livelli e continuità; indicazioni su laboratori, stage e alternanza, scheda per il piano formativo e sua prospettiva temporale; proposte di unità di apprendimento dal 1° al 3° anno). A completamento della documentazione segnalo anche il testo, nato dalla speri- mentazione: CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Percorsi di istruzione e formazione professionale, Tipografia PIO XI, 2005. Le sperimentazioni hanno messo in evidenza che in varie Regioni la proposta ha trovato accoglienza, pur con le dovute attenzioni alle peculiarità regionali. Si ricordano, a solo titolo esemplificativo, alcuni modelli regionali4: 1 1 1 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD 3 NICOLI D., Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, Tipografia PIO XI, marzo 2004. 4 Per un approfondimento delle politiche delle Regioni Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Provincia Autonoma di Trento in tema di sistema di IeFP, di percorsi formativi, di standard forma- tivi, cfr. anche D’AGOSTINO S., NICOLI D., MASCIO G., MALIZIA G., Monitoraggio delle politi- che regionali in tema di Istruzione e Formazione professionale, Tipografia PIO XI, 2005. CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 111 LIGURIA La proposta della Regione Liguria è articolata in aree e figure professionali (qua- lifica e diploma). Un esempio: VENETO In una pubblicazione della Regione Veneto, a seguito di un progetto di sistema, nel volume Metodologie e strumento per un nuovo modello regionale di riconosci- mento delle qualifiche nel secondario e per un coerente processo di adeguamento delle competenze degli operatori della formazione professionale, è riportato un elenco di qualifiche professionali nel settore industriale. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 1 2 Area professionale Meccanica Qualifica professionale Operatore/trice meccanico/a - Costruttore alle macchine utensili - Montatore-manutentore (aggiustatore) - Saldocarpentiere e serramentista - Termoidraulico - Meccanico d’auto - Motorista Diploma professionale - Tecnico di manutenzione industriale - Tecnico termoidraulico - Tecnico di motoveicoli Ambito Meccanico Figura polivalente Operatore polivalente Figura professionale - Costruttore di m.u. - Montatore manutentore - Saldocarpentiere - Termoidraulico - Manutentore di sistemi meccani- ci ed elettronici dell’autoveicolo Figure critiche - Tornitore alla macchina a c.n. - Operatore macchine lavorazione su lamiera - Manutentore meccanico - Capoturno formatura - Responsabile collaudo finale CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 112 SARDEGNA Una pubblicazione recente dal titolo Repertorio dei profili professionali e dei cor- rispondenti percorsi formativi in Sardegna, parte di un progetto di sistema più ampio, descrive la mappa delle comunità professionali e delle relative qualifiche: 3.2.2. La proposta di organizzazione di un sotto(sistema) di Istruzione e Formazione Professionale Già nelle Linee Guida gli Enti hanno assunto - come ipotesi - un modello ordina- mentale di (sotto)sistema di Istruzione e Formazione Professionale di riferimento che è raffigurato come dalla figura 1. 1 1 3 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD Comunità professionale Meccanica Qualifica Figura polivalente e di indirizzo Operatore/trice mec- canico - costruttore alle m.u. - montatore manu- tentore - saldocarpentiere - termoidraulico - meccanico d’auto - carrozziere Diploma Figura professionale Tecnico meccanico Diploma Superiore Figura professionale - Tecnico superiore di disegno e progettazione industriale - Tecnico superiore di industrializzazione del prodotto - Tecnico superiore di conduzione e manuten- zione impianti 1-3 anni di diploma di formazione superiore (a tempo pieno o in alternanza) Anno di preparazione universitaria Larsa passaggi tra percorsi Larsa passaggi tra percorsi Anno di diploma di formazione (a tempo pieno o in alternanza) Triennio di qualifica professionale (a tempo pieno o in alternanza) Specializzazione Specializzazione M ondo del lavoro CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 113 La proposta elaborata appariva agli estensori coerente con quanto sancito dal nuovo Titolo V della Costituzione, dalla legge 53/2003 come pure dalla legge 30/2003 specificata nel Decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003, che concorrono a definire un nuovo scenario per il sistema di istruzione e formazione professionale. 3.2.3. La mappa dell’offerta formativa L’offerta formativa viene specificata in riferimento alle diverse tipologie di inter- vento che si propongono nel modo seguente: un servizio di orientamento perma- nente, percorsi triennali di qualifica professionale, diploma di formazione, diplo- ma di formazione superiore, specializzazione, formazione continua e permanente, alternanza formazione - lavoro, formazione per portatori di handicap, percorsi destrutturati (seconda chance). 3.2.4. Le caratteristiche generali del percorso formativo triennale Finalità Sono previsti percorsi di formazione che puntano all’acquisizione di una qualifica mirata, secondo le necessità espresse dal mercato del lavoro locale. La qualifica, riferita ad un numero contenuto di circa 20 comunità professionali e articolata in un massimo di 100 figure professionali, prevede una preparazione ampia e com- pleta che consenta alla persona, in possesso di una solida cultura di base, di svi- luppare competenze professionali e sociali, sapendo utilizzare in autonomia le tec- niche e le metodologie previste. Destinatari: giovani in possesso di licenza media. Nel caso in cui ragazzi quindicenni non abbiano tale titolo, è possibile concordare con il Centro territoriale permanente (CTP) un percorso formativo che, nel momento in cui si sviluppa il cammino di qualificazione, si acquisisca anche il diploma di licenza media. Durata Il percorso prevede 3 anni formativi, della durata complessiva di 1.050 ore circa per anno, così distinte: - percorso comune al gruppo-classe nella misura indicativa di 900 ore annue; - interventi personalizzati nell’ambito dei laboratori attivati dalle realtà formati- ve, con frequenza obbligatoria e con contenuti da definire in base alle necessità di ciascuno, nella misura indicativa di 150 ore annue. Metodologia Nell’ambito della prospettiva metodologica propria della istruzione e formazione professionale, centrata su piani formativi personalizzati ed unità di apprendimen- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 1 4 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 114 to con al centro compiti reali, si specificano le seguenti tappe. Il primo anno si caratterizza per l’orientamento attivo entro il settore di riferi- mento; ciò significa familiarizzare con il linguaggio, le tematiche, le tecniche, i processi di base che questo presenta. Durante il primo anno formativo è prevista pertanto una congrua attività di accoglienza, orientamento e formazione di base, con possibilità di modifiche del settore/figura professionale di riferimento. Il secondo anno mira al rafforzamento del patrimonio di conoscenze, abilità, com- petenze e capacità personali e prevede uno stage di supporto all’apprendimento. Il terzo anno mira al completamento formativo ed all’autonomia della persona in riferimento al ruolo professionale. La qualifica rappresenta il riferimento priorita- rio del progetto sia in senso professionale sia pedagogico. Essa è concepita non come somma di componenti, bensì in una visione integrale ed unitaria del proces- so formativo. È previsto uno stage di validazione. Si propone una distribuzione di orario indicativa. L’area delle scienze umane comprende tutte quelle discipline che concorrono alla conoscenza di sé, del mondo circostante, della collocazione della persona nel tempo e nella storia, dei significati attribuiti alla realtà, alle relazioni, ai progetti di vita. L’area scientifica concorre a fornire alla persona gli strumenti che permettono ad essa di cogliere le dimensioni costitutive della realtà naturale e di quella prodotta dall’opera umana, sapendo rintracciare - tramite modelli di tipo matematico ed interpretativo - gli aspetti fisici, le strutture della vita sociale, economica ed isti- tuzionale. L’area professionale attiene al mondo dei saperi, dei significati, delle tecnologie 1 1 5 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD 1 2 3 4 5 6 Area scienze umane Area scientifica Area professionale Stage Sviluppo capacità personali Laboratorio di recupero e sviluppo degli apprendimenti TOTALE AREE FORMATIVE 1° ANNO 2° ANNO 3° ANNO TOTALE 180 180 440 non previsto 100 150 1.050 160 160 330 160 90 150 1.050 150 150 330 200 70 150 1.050 490 490 1.100 360 260 450 3.150 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 115 connessi alla comunità professionale cui si fa riferimento, intesa come un insieme organico a carattere culturale, nel quale si svolge un percorso educativo di istru- zione e formazione professionale. Essa comprende anche organizzazione azienda- le e gestione dei progetti. Lo stage è l’elemento essenziale al percorso formativo tramite il quale la persona: - riconosce nel concreto del contesto di lavoro i tratti della cultura e dell’organiz- zazione in cui si svolge l’attività su cui intende cimentarsi, - acquisisce conoscenze, capacità e competenze specifiche, - mette alla prova le acquisizioni a fronte di richieste e di compiti reali, - si sottopone ad una valutazione e validazione probante circa le proprie compe- tenze. Il Laboratorio di recupero e sviluppo degli apprendimenti è uno strumento di per- sonalizzazione che consente ai formatori di sviluppare - in rapporto alle esigenze di piccoli gruppi omogenei o di singoli individui - interventi via via di recupero, potenziamento, accompagnamento e sostegno nel percorso di apprendimento. Il Laboratorio di sviluppo delle capacità personali è uno strumento didattico tra- mite il quale si aiuta l’allievo a conoscere i tratti della propria personalità, a svi- luppare capacità di relazione e cooperazione, a potenziare il proprio progetto di vita/di lavoro, a sviluppare capacità di autonomia, assunzione delle responsabilità, fronteggiamento e superamento delle difficoltà ed infine di apprendimento conti- nuativo. Il percorso può essere svolto, a partire dal 15° anno, anche tramite la metodologia della Alternanza formativa. Essa consente - in riferimento al singolo allievo - di realizzare un percorso formativo coerente e compiuto nel quale si integrano reci- procamente attività formative di aula, di laboratorio ed esperienze svolte nella concreta realtà dell’organizzazione di lavoro e di impresa. Valutazione finale La valutazione finale si basa precipuamente sulla prova professionale (capolavo- ro), su uno scritto e su un colloquio. Valore del titolo Il titolo di qualifica professionale consente: - l’ingresso nel mondo del lavoro, - l’iscrizione al quarto anno di diploma di formazione, - il passaggio - tramite Larsa - al percorso liceale. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 1 6 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 116 Esempio di standard professionali e formativi: Area professionale meccanica Indice del documento: 1. Natura economica, sociale e culturale dell’area professionale 2. L’area professionale in prospettiva formativa 3. La mappa delle figure per competenze essenziali 4. Gli obiettivi specifici di apprendimento per il percorso di diploma professiona- le di “tecnico meccanico”: a. Area della religione cattolica: conoscenze e abilità b. Area dei linguaggi: conoscenze e abilità in italiano, inglese, seconda lingua comunitaria c. Area socio-storico-economica: conoscenze e abilità in storia, geografia, eco- nomia, diritto d. Area scientifica: conoscenze e abilità in matematica (algebra e geometria), analisi matematica, dati e previsioni, matematica finanziaria, scienze (fisica, chimica, biologia, scienze della terra) e. Area tecnologica: conoscenze e abilità in informatica f. Area professionale: conoscenze e abilità in qualità, sicurezza, disegno - pro- gettazione, tecnologia, meccanica, macchine e automazione, lavorazioni g. Area professionale di indirizzo: conoscenze e abilità per il costruttore alle macchine utensili, il montatore manutentore, il saldocarpentiere, il termoi- draulico, il riparatore d’auto h. Educazione alla convivenza civile: conoscenze e abilità per l’educazione alla cittadinanza, l’educazione stradale, l’educazione ambientale, l’educazione alla salute, l’educazione alimentare, l’educazione all’affettività, l’educazione artistica e musicale e le scienze motorie e sportive. 5. Gestione del percorso formativo di diploma e di qualifica professionale 6. Vincoli e risorse circa i laboratori, lo stage e il project work. 1 1 7 ESPERIENZE E PUNTI DI VISTA SUGLI STANDARD CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 117 TECNICO MECCANICO Competenze essenziali - Padroneggiare gli strumenti espressivi ed argomentativi indispensabili per gestire l’in- terazione comunicativa - Leggere, comprendere, interpretare e produrre testi scritti - Comprendere e valutare la natura e la portata di affermazioni, giudizi, opinioni - Cogliere il nesso storico tra il presente ed il passato - Partecipare alla vita sociale nella consapevolezza dei propri diritti e doveri di cittadino - Conoscere il funzionamento del sistema economico e orientarsi nel mercato del lavoro - Gestire gli atti amministrativi fondamentali della vita quotidiana e professionale - Applicare strumenti matematici e logici alla rappresentazione ed alla soluzione di pro- blemi - Comprendere la realtà naturale tramite osservazione, studio e applicazione di procedu- re appropriate - Riconoscere leggi e principi che spiegano i processi tecnologici - Gestire informazioni utilizzando strumenti informatici - Adottare comportamenti preventivi a tutela della salute e della sicurezza propria e altrui - Diagnosticare le proprie capacità e risorse, elaborare un progetto personale di vita ed impegnarsi attivamente - Lavorare in modo cooperativo - Avere cura del proprio corpo e praticare il moto e lo sport - Coltivare sensibilità estetiche ed espressive di tipo artistico - Redigere e interpretare disegni meccanici, schede tecniche e cicli di lavoro per l’attua- zione del processo produttivo - Riconoscere materiali e scegliere strumenti adeguati al lavoro da eseguire - Utilizzare appropriate procedure e attrezzature per la realizzazione di lavorazioni di aggiustaggio e assemblaggio al banco. - Costruire e/o assemblare particolari e complessivi meccanici utilizzando macchine uten- sili tradizionali (trapano, tornio, fresatrice, rettificatrice) - Realizzare giunti saldati tramite il processo di saldatura elettrica - Applicare le tecniche di misura, di controllo e recupero delle anomalie - Realizzare il processo di manutenzione preventiva delle macchine e delle attrezzature - Utilizzare pacchetti informatici applicati al processo meccanico - Collaborare nella fase progettuale, anche utilizzando sistemi CAD, osservando ed applicando le regole della progettazione meccanica - Gestire la fase esecutiva, programmazione, esecuzione, controllo, monitorando la qua- lità del prodotto - Programmare ed eseguire una corretta manutenzione ordinaria delle varie attrezzatu- re e macchine come previsto dal sistema qualità - Supportare la gestione budget (acquisti dei prelavorati e costi dei prodotti realizzati ) - Collaborare con la gestione marketing (supporto tecnico e relazioni con i clienti). ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 1 8 CAP1_2006 2-03-2007 8:49 Pagina 118 4. STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 119 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 120 4.1 - Considerazioni a margine degli standard professionali e formativi Michele Colasanto FORMA Ritengo che questi appuntamenti annuali siano momenti utili a fare sintesi ed esperienza su temi e problemi che riguardano i sistemi formativi e, in modo par- ticolare, la formazione professionale. Vorrei cominciare con un richiamo alla contingenza, perché siamo in presenza, sul piano dei processi di riforma, di un ennesimo tentativo di svolta. Esiste l’ipotesi di introdurre i bienni di istruzione e formazione, con un obbligo di istruzione, non più scolastico, ai 16 anni e successivo obbligo di formazione dai 16 ai 18 anni, oltre ai percorsi formativi tradizionali, liceali. Il biennio di istruzione viene interpretato, lo dice il Ministro continuamente, in ter- mini di bienni unitari e non unici, bienni differenziati rispetto agli sbocchi succes- sivi allo stesso biennio (14 - 16 anni), che acquisterà più valore se prima dei 16 anni scatterà il divieto di lavoro. Quale sarà lo specifico dei bienni di istruzione perché i diversi percorsi possano essere considerati equivalenti tra di loro? In parte saranno differenziati, ma in parte no, altrimenti cade il senso di portare l’obbligo di istruzione dai 14 ai 16 anni. La risposta è nelle competenze chiave. Naturalmente queste vanno ridefinite, però ci sono delle indicazioni: si scopre, ad esempio, che i trienni sperimentali da que- sto punto di vista hanno già identificato competenze e standard di riferimento, che sono utili non solo per i trienni stessi ma possono essere utilizzate anche per gli altri percorsi di istruzione che porteranno ai licei, con il paradosso che le compe- tenze chiave sembrerebbero essere più desumibili da percorsi di tipo professiona- le piuttosto che da altri. Per quanto riguarda il biennio di istruzione non si può ragionare in termini di discipline, di materie di un tipo piuttosto che un altro; sarebbe un modo di ragio- nare piuttosto vecchio. Il riferimento alternativo è alle competenze. Dunque, se si dovesse arrivare ad una ridefinizione del diritto-dovere in termini di obbligo di istruzione e obbligo di formazione, probabilmente le competenze, così come sono state pensate ed elaborate in termini di standard ed obiettivi formati- 1 2 1 STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 121 vi, quelle codificate in sede di Conferenza Stato-Regione, potrebbero essere riferi- menti utili per poter definire la natura e l’identità dei bienni di istruzione. Ritengo che confrontarsi su questo spazio formativo possa portare alla crescita della qualità della formazione e di tutto il sistema, ma anche alla soluzione di qualche nodo politico, per poter lavorare con più tranquillità e non essere ogni volta messi in discussione. Con la legge 196/97, la certificazione delle competenze doveva essere in capo all’ISFOL, con un meccanismo che escludeva gli enti, ma metteva in moto gruppi di lavoro con le parti sociali, che avrebbero dovuto portare, attraverso analisi sofi- sticate, a definire i sistemi di competenze che sarebbero state poi utilizzate dal sistema formativo e produttivo. Questo è sempre stato un punto problematico, fin da quando si introdussero le fasce di qualifica, con la legge 845. Ci furono esperienze molto interessanti ad esempio in Piemonte, in settori come il grafico. Ma i risultati poi chi li utilizza? Sicuramente la formazione, ma il sistema delle imprese riprende questi esiti, li rideclina in chiave contrattuale? In altri Paesi le cose stanno diversamente. In Germania ad esempio per tradizione c’è una corrispondenza biunivoca tra quello che si acquisisce come competenza riconosciuta formalmente e quello che poi si pratica in azienda. Questo è un problema che non possiamo affrontare in questa sede, ma che è molto importante, è uno dei grandi significati delle competenze. Non vorrei riproporre un percorso storico, peraltro già presentato in questo conte- sto, ma vorrei tentare di fare una riflessione critica sul tema delle competenze, con qualche cautela, cercando di chiarirne il significato ed evitando un eccesso di tec- nicismi. Infatti, per inseguire le competenze a volte si perde il senso della compe- tenza, ovvero si identifica il processo educativo con le competenze, e questo è qual- cosa di esiziale. Ad esempio, l’università, che non ha nessuna cultura sulle competenze, poiché è il sapere che abilita la funzione della docenza, nel tentativo di rileggittimarsi, dopo essere diventata università di massa, ha cercato di recuperare, accettando il discor- so delle competenze e dei crediti. Ma è stato illusorio ridare senso al valore del processo formativo nell’università, trasformando le conoscenze in competenze perché siano più spendibili sul merca- to del lavoro. L’università ha così tradito il suo mandato, dimenticando che deve occuparsi di conoscenza, ricerca ed educazione. Ma torniamo al tema generale. Da quello che abbiamo già sentito non ci sono certezze, perché le competenze, gli standard e le stesse certificazioni sono fatti negoziali, in rapporto ad una serie di situazioni. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 2 2 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 122 L’errore che è stato fatto inizialmente è derivato dal fatto di avere avuto una visio- ne interna e non raccordata a quello che avveniva nei contesti esterni. Mi riferisco ad esempio a quanto si è detto in ordine al fatto che le competenze dovessero avere il compito di riuscire a dimostrare che il processo formativo confluisce nell’acqui- sizione di una serie di skill, abilità, motivazioni utili per il mercato del lavoro. La banalizzazione consisteva nel ridurre la competenza ad un nesso funzionale con il mercato del lavoro. Le competenze sono integrate con il lavoro e da questo punto di vista possono giocare un ruolo straordinario, in quanto possono essere una matrice che consente ad un sistema formativo allargato, che comprende anche l’impresa, di avere un linguaggio comune. Il problema dei sistemi e dei sottosiste- mi è che non dialogano tra di loro, la scuola con la formazione professionale, il liceo con l’istituto tecnico, l’istituto tecnico con l’impresa, l’impresa con la forma- zione professionale. Abbiamo bisogno di linguaggi comuni e sotto questo punto di vista le competenze potrebbero essere estremamente utili, per questo bisogna lavorarci. È nei vari contesti che poi assumono il loro vero significato. Ad esempio non si può immaginare che gli standard possano essere sganciati dal loro significato sociale. Essi non riguardano solo la formazione della persona in rapporto ad una presta- zione, ma sono un qualcosa che riguarda quel che, all’interno di un certo sistema sociale, comunemente alcune persone dovrebbero sapere e saper fare. Se si riduce il processo formativo esclusivamente alle competenze, si dimenticano i saperi, le conoscenze e si rischia di impoverire i sistemi professionali. Bisogna quindi parlare di competenze rispetto ai vari contesti e ai processi educati- vi, e rispetto alla trasparenza, che è equivalente all’equità. L’equità comprende la capacità di essere inclusivi, ma anche la capacità di valorizzare le eventuali eccel- lenze; l’equità deve permettere ad una persona di seguire la propria vocazione. Nel sistema dell’impresa si dà importanza alle famose tre T, il talento, la tecnolo- gia e la tolerance (l’apertura culturale). Quindi, mentre da una parte si discute di processi formativi per migliorare il sistema, dall’altra c’è chi non è interessato a tutto questo, ad esempio il singolo imprenditore. Una riflessione sulle competenze ci aiuta certamente a capire quello che avviene all’interno dei processi anche professionali. C’è un modo di ragionare sulle com- petenze che utilizza degli assi dicotomici, organizzazione-individuo, soggettività- oggettività. Molta parte del tema delle competenze si gioca nei tentativi di definire le stesse competenze rispetto a dimensioni di carattere oggettivo oppure a dimensioni di carattere soggettivo. Il dilemma sta proprio nel come mettere insieme le due cose senza penalizzare l’una o l’altra. Non c’è dubbio che esistono delle competenze che si acquisiscono se una persona 1 2 3 STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 123 è in rapporto con una organizzazione; peraltro l’atteggiamento individuale e il pro- filo psicologico è traducibile in competenze rispetto al modo di stare in una orga- nizzazione. Oggi, nella selezione del personale si tenta di evidenziare le qualità che possano garantire performance di successo sul lavoro. La valorizzazione della per- sona in se è un qualcosa che riguarda i processi formativi ma anche le politiche sociali e del lavoro. I policy maker ritengono che le persone non debbano essere assistite passivamente, ma debbano essere messe in condizione di reagire da sé rispetto al loro stato di bisogno. Il concetto di vulnerabilità sociale viene oggi rideclinato in questi termini: una per- sona è considerata vulnerabile se non riesce ad avere accesso ai propri diritti e se non riesce a mettere in campo le risorse di cui dispone. Al di là di questi ragionamenti, alla fine ci siamo “aggrappati” ad una definizione di competenze, che comprende quelle di base, trasversali e professionali. La certificazione rispetto a tutto questo diventa la garanzia che queste competen- ze esistono, che possono essere via via identificate come un obiettivo formativo, come un risultato, come un modo per gestire le risorse umane in azienda, come un codice, che riesce a far dialogare i sistemi formativi tra di loro, i sistemi formativi con il lavoro, il lavoro con la formazione. La qualità delle risorse umane è importante per far crescere un territorio. Ci sono territori che sono cresciuti nella loro forza-lavoro attraverso processi di acquisi- zione di conoscenze e competenze di tipo contestuale; come ad esempio avviene nei distretti, una sorta di laboratorio di piccole imprese in cui le conoscenze vengono trasmesse non tanto a scuola, ma al bar, al circolo delle bocce, nei luoghi infor- mali, e quando questo non basta più interviene la conoscenza, la competenza codi- ficata, il centro di formazione professionale o l’istituto tecnico. Alcune realtà sono state di grande successo perché c’era un intreccio fra la capacità di elaborare cono- scenze dal basso con una certa genialità e la capacità delle istituzioni di impadro- nirsi di queste competenze informali e contestuali, codificarle e consentire un loro trasferimento. In questo senso l’istruzione diventa fattore di sviluppo, anche attraverso questa contaminazione. Per un Paese è importante che le istituzioni formative siano in grado di operare trasferendo conoscenze codificate da un luogo all’altro, produ- cendo così l’innovazione. Da questo punto di vista l’idea di poli formativi potrebbe essere interessante, se si riuscirà ad utilizzare un linguaggio comune ed a “passare” le frontiere regionali e nazionali. Ma è vero anche che il gioco tra individuo e organizzazione, oggettività e sogget- tività, diventa un gioco tra le competenze come qualità intrinseche e le competen- ze come risultato. E però esiste anche la competenza come capacità di mobilita- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 2 4 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 124 zione delle risorse. Questa riconcettualizzazione porta a dire che probabilmente c’è una certa utilità nel definire le competenze come risultato e nell’individuare le qualità personali, ma se lasciamo questa polarità corriamo anche un rischio di lasciare il processo educativo di fronte ad una sorta di impotenza, nel senso che da un lato bisogna guardare al mondo produttivo che omologa necessariamente, dall’altro non tutte le persone hanno le stesse capacità. È sbagliato interpretare il tema delle competenze su questa dicotomia perché si viene a perdere l’importanza dell’educazione, mentre l’educazione rispetto alle competen- ze dovrebbe essere un modo per costruire una serie di opportunità che consentano alle persone di giocare le proprie qualità, valorizzando le risorse che hanno. In contesti come i nostri dunque il problema non è solo quello di capire come con- trastare le disuguaglianze attraverso la formazione e l’istruzione, ma come distri- buire le competenze rispettando e valorizzando le differenze. 1 2 5 STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 125 4.2 - Il sistema di certificazione nazionale ed europeo (EQF ed ECVET) Gabriella Di Francesco Area Sistemi e metodologie per l’apprendimento - ISFOL EQF ed ECVET sono due proposte dell’Unione europea che diventeranno una rac- comandazione nei prossimi mesi e coinvolgeranno il nostro sistema nazionale. La tematica degli standard è piuttosto complessa; esistono diversi punti di vista, esperienze ed anche esempi istituzionali importanti ma non è ancora pienamente affrontata nel nostro Paese; è certamente un tema in costante evoluzione. Possiamo far risalire agli anni ‘90 l’origine della tematica relativa alle competen- ze, agli standard ed alla certificazione e in particolare citare il Libro Bianco della Cresson Verso la società cognitiva; è in quegli anni che si inizia a parlare di por- tafoglio delle competenze. La costruzione della società della conoscenza è un aspetto richiamato dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000 che ha avviato numerosi processi di cooperazione tra gli Stati. In questi anni la strategia europea più importante che ha portato a primi risultati concreti, riguarda la tematica della trasparenza delle competenze, dei per- corsi, delle certificazioni, che è andata progressivamente a sviluppare il tema delle corrispondenze delle qualifiche che non ha prodotto (negli anni ‘90) risultati signi- ficativi; si trattava di materie difficili da trattare a causa delle diversità culturali tra paesi con sistemi diversi e lontani. Con il forum europeo sulla trasparenza delle qualifiche e delle certificazioni verso la fine degli anni ‘90, la Commissione europea si è posta l’obiettivo di arrivare a certificazioni trasparenti senza entrare nel merito della standardizzare dei percor- si, impossibile a livello europeo e ancora di più a livello nazionale. L’obiettivo era comunque quello di rendere trasparente l’output dei percorsi, cioè le conoscenze e le competenze che un individuo giovane o adulto deve acquisire al termine di un percorso formativo. L’Europa quindi sosteneva la trasparenza in termini di cono- scenze e di percorso, adottando tutti quegli indicatori che sono stati definiti all’in- terno di due Risoluzioni, quella del ‘92 e del ‘96, quest’ultima avviata durante il semestre di presidenza italiana. Il nostro attestato di qualifica, tuttora rilasciato al termine di percorsi di formazione professionale, è stato il primo esempio impor- tante di trasparenza delle certificazioni, anche se forse non adeguatamente valo- rizzato nello spazio europeo. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 2 6 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 126 La trasparenza non è stato l’unico aspetto importante della nuova strategia euro- pea, che si è evoluta negli anni. Dagli anni ‘90 in poi sono state condivise a livel- lo europeo nuove raccomandazioni avviate dal Consiglio europeo di Lisbona. Tutta la progressione di raccomandazioni scaturite dal confronto tra paesi e svi- luppate nell’ambito dei lavori del Consiglio europeo (il Consiglio europeo di Barcellona del marzo 2002, la Dichiarazione di Copenaghen di dicembre 2002, il Comunicato di Maastricht di dicembre 2004, l’European Council di marzo 2005 e 2006) hanno prodotto nuove indicazioni per il sistema educativo e formativo; da un’attenzione prevalente sul tema della trasparenza alla prospettiva più comples- siva di costruire sistemi di lifelong learning e quindi con un’attenzione per le cono- scenze e le competenze di cui l’individuo ha oggi bisogno per essere sempre attivo, competitivo e occupabile nel mercato del lavoro. L’impostazione politica e istituzionale dell’Europa in questi anni è stata quella di riuscire a costruire sistemi di offerta formativa di istruzione e formazione lungo tutto l’arco della vita, dalla formazione iniziale a quella continua e permanente, che abbia al centro le competenze delle persone, per costruire opportunità forma- tive più personalizzate e poter rispondere ai nuovi bisogni. Uno dei risultati concreti di questa strategia è il dispositivo Europass, il portafo- glio europeo delle competenze. La decisione del Consiglio europeo relativa ad Europass si colloca in questa prospettiva. Rientra in uno dei cinque obiettivi del processo di Bruges-Copenaghen, ovvero costruire uno strumento unico per la messa in trasparenza delle competenze e delle qualifiche acquisite nell’arco della vita. Europass è un portafoglio delle competenze aggiornabile lungo il percorso di acquisizione delle competenze da parte dei cittadini; può essere definito una sorta di curriculum vitae aggiornabile continuamente. È composto da cinque documen- ti, il curriculum vitae è certamente il più importante, il passaporto europeo delle lingue, Europass mobilità, che documenta le competenze e le conoscenze nei perio- di di mobilità all’estero, il supplemento al diploma e il supplemento al certificato. Sono cinque documenti importanti che hanno caratteristiche specifiche, quali la dinamicità, l’accessibilità, la flessibilità; non occorre avere necessariamente tutti i documenti, questo dipende dall’esperienza formativa e professionale degli indivi- dui. Europass è il primo risultato della strategia europea legato alla trasparenza ed è il primo degli obiettivi raggiunti dal processo di Bruges-Copenaghen. Un ulteriore obiettivo, definito dal Consiglio di Lisbona e ripreso dai documenti di Maastricht del 2004, oggi al centro del dibattito europeo, è quello della costruzio- ne dell’European Qualification Framework, un sistema europeo delle qualifica- zioni leggibili dalle persone, dalle istituzioni, dal mondo del lavoro. L’EQF non è una sistema che va a sostituire i sistemi nazionali delle qualificazio- ni, ma è un framework di lettura e di traduzione delle diverse qualificazioni. Ogni 1 2 7 STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 127 Paese è autonomo nel costruire i propri percorsi, l’importante è che li renda tra- sparenti e collegabili a questo sistema europeo. È un quadro comune di riferi- mento per facilitare il riconoscimento e la trasferibilità delle qualificazioni nel- l’ambito sia dell’istruzione (secondaria e post secondaria), sia dell’istruzione e for- mazione professionale, fondamentale per sviluppare la mobilità. Scopo principale dell’EQF è di agevolare (agli studenti, ai genitori, ai fornitori dei servizi formativi, ai lavoratori e ai decisori politici) la comprensione del significa- to e del valore di un titolo. Un concetto importante dell’EQF è quello della ‘progressività’, poiché le compe- tenze si acquisiscono progressivamente e continuamente è possibile acquisire nuove conoscenze. Questo concetto di progressività è realizzato attraverso otto livelli ed è quindi un quadro di riferimento di lettura delle competenze confronta- bile a livello europeo. All’interno di questo framework ci sono anche altri strumenti, che favoriscono la trasparenza e la spendibilità dei titoli (ad es. il portafoglio Europass). Altro ele- mento della proposta di EQF è l’insieme di principi e di procedure che forniscono ai diversi Paesi le linee-guida per l’applicazione e la condivisione dell’EQF nel pro- prio sistema, con particolare riguardo alla qualità, alla validazione dell’esperien- za, all’orientamento e alle competenze chiave. L’Europa va ora verso una formalizzazione attraverso una raccomandazione rela- tiva ai principi dell’EQF, che dovrebbe essere conclusa entro l’anno, sulla base di una condivisione di tutti i Paesi europei. L’EQF sarà un framework volontario per ogni Paese in quanto non c’è l’obbligo di adottare gli otto livelli comunitari, anche se l’Europa chiede ad esempio che entro il 2009 i paesi si organizzino per costruire proprie modalità di definizione del proprio sistema in riferimento. Un recente lavoro dell’OCSE del 2005 rafforza la necessità di costruire sistemi nazionali ispirati al principio del lifelong learning. Sono stati individuati venti fat- tori che facilitano l’avvio di sistemi orientati al lifelong learning: tra questi, ad esempio, comunicare il valore dell’apprendimento, individuare le skills per l’occu- pabilità, individuare un qualification framework, riconoscere gli apprendimenti non formali e informali, dare valore alle esperienze delle persone. La ricerca OCSE individua nel sistema dei crediti un fattore che ha un ruolo diretto importante nella prospettiva di un sistema di offerta formativa orientato al lifelong learning. Ma è importante esaminare e conoscere quali concetti sono alla base di questa nuova proposta dell’EQF. L’EQF ruota attorno ad alcuni concetti chiave: in primo luogo i risultati dell’ap- prendimento (learning outcomes). L’Europa sostiene che ogni sistema di offerta deve puntare a definire i propri risultati dell’apprendimento relativi ai diversi per- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 2 8 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 128 corsi. Fondamentalmente i learning outcomes esprimono le competenze che, com- plessivamente, un individuo ha acquisito nel suo percorso formativo o professio- nale. I risultati di apprendimento esplicitano ciò che ci si aspetta la persona cono- sca, comprenda e/o sia in grado di fare, al termine di un periodo di apprendi- mento. I risultati di apprendimento possono essere definiti per singoli corsi, unità, modu- li e programmi. Essi sono definiti a livello nazionale, locale, settoriale, per coprire tutte le qualificazioni. Possono essere definiti a livello internazionale per favorire la trasparenza, la comparabilità, il trasferimento dei crediti e il riconoscimento, ma anche a livello nazionale. Un secondo concetto chiave è quello delle unità (units), che possono essere riferi- te all’apprendimento, alle competenze, alla qualifica. Inoltre devono essere colle- gate ad un sistema di crediti formativi. Lo standard nella prospettiva europea è uno standard che deve essere centrato sui risultati di apprendimento, deve avere una definizione di unità e deve dar luogo a crediti formativi. Una unità (unit) è «la parte elementare (o la più piccola) di un curriculum, di una qualificazione o di un percorso di istruzione e formazione ed è orientata ai risultati di apprendi- mento». Si può definire un modulo formativo che però adotta il linguaggio dei learning outcomes, delle competenze, e dà la possibilità di fornire crediti formati- vi in ingresso o in uscita da un percorso. Un altro elemento importante del framework europeo è quello delle competenze chiave (key competencies), che devono rappresentare l’insieme di conoscenze, abi- lità e comportamenti di cui tutti gli individui hanno bisogno per la propria realiz- zazione e lo sviluppo personale, l’inclusione e l’impiegabilità. Le key competencies in primo luogo definiscono il cittadino europeo. Per quanto riguarda il sistema dei crediti (ECVET), c’è al momento un processo di consultazione avviato sui principi guida del sistema che dovrebbe permettere di accedere da un sistema non formale e informale a un sistema formale. Un ele- mento importante è il collegamento tra il sistema dei crediti universitari (ECTS), che lavora in una logica di punteggio quantitativo, e un sistema più qualitativo. Risulta inoltre necessario creare una coerenza tra il sistema dei crediti del sistema di istruzione e formazione e quello universitario. Gli otto livelli delle EQF dovreb- bero servire a creare questa coerenza che al momento è da costruire in ogni paese. Il sistema dei crediti rappresenta un sistema in grado di attribuire dei crediti alle qualifiche e/o alle sue componenti (definite unità). L’Europa richiede dunque a tutti i Paesi di: definire i sistemi nazionali e costruire sistemi di standard flessibili e dinamici; richiede inoltre cooperazione e accompa- gnamento, alle istituzioni, alle persone, alle strutture formative. 1 2 9 STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 129 In Italia esiste un processo avviato da tempo per arrivare a definire un NQF, National Qualification Framework, ovvero standard minimi nazionali; ci sono riforme in atto che dovranno tener conto di queste nuove prospettive europee ed un dibattito consolidato anche all’interno di sedi istituzionali nazionali. L’Europa chiede che ci sia cooperazione aperta, che nel nostro sistema significa sviluppare accordi tra Stato e Regioni, sviluppare il dialogo con le parti sociali, coinvolgere tutti i soggetti importanti per la definizione del sistema. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 3 0 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 130 4.3 - Standard professionali e formativi: confronto con alcune esperienze europee Arduino Salatin ISRE La questione degli standard professionali e formativi è oggi all’ordine del giorno in molti paesi dell’Ue. In particolare, per i sistemi di istruzione e formazione ini- ziale (IVET) una forte accelerazione è stata data da un lato dal processo di inte- grazione europea e dall’allargamento a molti nuovi paesi dell’Est e del Sud Europa, dall’altro dal processo di globalizzazione. In questo nuovo contesto infatti, in cui i fenomeni di mobilità geografica e profes- sionale e le spinte competitive sui sistemi di qualificazione sono destinati a cresce- re, il mondo dell’educazione e della formazione deve fare i conti con istanze di tra- sparenza, comparabilità, trasferibilità e riconoscimento di conoscenze, abilità, competenze a differenti livelli, paesi e sistemi. 1. Il nuovo scenario internazionale del lavoro e le sfide ai sistemi for- mativi e professionali L’evoluzione del mercato del lavoro nella “società della conoscenza” sta cambian- do profondamente i modelli culturali e organizzativi dell’accesso e dello sviluppo professionale facendo scoprire un potenziale spesso ignorato, ma rendendo obso- lete anche molte delle tradizionali politiche delle risorse umane. In particolare appare come fonte di crescenti contraddizioni il progressivo cedimento o trasfor- mazione dei “mestieri” (intesi come occupazioni basate sul saper fare pratico e facilmente trasmissibile) al “professionalismo” (basato su un corpus sistematico di conoscenze non immediatamente trasmissibili e accessibili in forma controllata con titoli di studio e statuti di rappresentanza)1. 1 3 1 STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 131 La recente Direttiva comunitaria relativa al “Riconoscimento delle qualifiche pro- fessionali”, approvata dal Parlamento europeo al fine di favorire la libertà di cir- colazione dei professionisti nel mercato europeo, prevede un regime generale di riconoscimento dei titoli di formazione, rilasciati da Autorità competenti, indicate dagli Stati membri. Le modalità di conseguimento di tali titoli sono disciplinati in modo autonomo da ciascuno Stato. L’Ue raccomanda che i sistemi nazionali - in un’ottica di lifelong learning - pre- vedano il riconoscimento e la validazione delle competenze professionali comun- que acquisite, siano esse formali (in contesti di studio), non formali (in contesti di lavoro) o informali (in contesti sociali), al fine di consentire all’individuo la capi- talizzazione continua del proprio patrimonio professionale, rendendolo spendibile sia per il conseguimento di ulteriori titoli di studio (riconoscimento di crediti for- mativi), sia per una migliore occupabilità nel mondo del lavoro. Tale sistema di validazione delle competenze, inoltre, è necessario per poter certificare la rispon- denza delle competenze professionali individuali agli standard europei, eventual- mente definiti anche tramite “piattaforme comuni”, come previsto dalla direttiva. Analoghi principi sono previsti nel documento della Commissione relativo al Quadro Europeo delle Qualifiche (EQF), in sperimentazione dal 2006. Si tratta di sfide non semplici, data la grande eterogeneità delle situazioni a livel- lo nazionale, come la recente vicenda del progetto ECVET (sul riconoscimento e la trasferibilità dei crediti formativi nei sistemi VET) sta a dimostrare, anche se proprio da tali sfide sembrano derivare anche nuove opportunità di riforma e innovazione dei sistemi IVET in Europa. 2. La situazione degli standard formativi e professionali nei sistemi ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 3 2 1 Per comprendere le nuove istanze di evoluzione del lavoro nella “seconda modernità”, la “moder- nità riflessiva”, occorre considerare a fondo l’ascesa di una nuova classe creativa (cfr. Florida R., L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Mondatori, Milano, 2003) che costituisce ormai in alcuni paesi avanzati quasi un terzo della forza lavoro, ma che richiede partico- lari condizioni organizzative, culturali e territoriali per espandersi. La «professionalità» e la creati- vità costituiscono ormai un vero marchio dell’epoca contemporanea che si sposa con le esigenze di libertà e qualità, ed è alla base dei progetti di mobilità professionale e geografica di molti individui (specie dei giovani). In questo quadro non va dimenticato quanto nota il sociologo Richard Sennett sui mutamenti culturali in atto nella società globalizzata (cfr. R. Sennett, La cultura del nuovo capi- talismo, Il Mulino, 2006). Secondo Sennett il nuovo capitalismo pone una grossa sfida alla conce- zione del lavoro di tipo “artigianale” o professionale. La tradizionale abilità “artigianale”, che si esprime nel sistema delle qualifiche e delle competenze, non si trova a suo agio nelle istituzioni del capitalismo flessibile in quanto esse pretendono che si sappia fare subito molte cose e in rapida successione: ciò impedisce di dedicare tempo al consolida- mento delle competenze, come avviene nei modelli di praticantato caratteristici sia della storia dei mestieri che della realtà delle professioni. “Il nuovo mondo del lavoro è troppo mobile perché il desi- derio di far bene una cosa per se stessa possa svilupparsi nel corso degli anni o decenni nell’espe- rienza del singolo individuo” (Sennett, p.143). CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 132 IVET in Europa: un breve sguardo comparato Per standard si intende generalmente un riferimento condiviso che assume valore di modello o regola. La disponibilità di standard riferiti a determinati ambiti (di tipo professionale o formativo), o di regole di rappresentazione e dispositivi comu- ni di attestazione, è la condizione per il costituirsi di uno spazio comune della for- mazione, il riconoscimento reciproco di eventuali crediti, la valorizzazione di certi saperi in contesti diversi. Lo standard ha dunque: -una funzione regolativa o autoregolativa, -un valore sociale, storico e contestuale che richiede da una lato legittimazione e consenso, dall’altro una costante revisione e adattamento. Queste prospettive, raccomandate da molti documenti e direttive comunitarie, non risultano tuttavia di facile traduzione sul piano pratico, producendo esiti molto diversificati a livello nazionale, in quanto devono superare una tensione tipica dei sistemi educativi europei tra: - un’istanza di armonizzazione, esigita dai processi di globalizzazione economica e del mercato del lavoro (e attestata dalla diffusione a livello Ue di un sistema comune di crediti formativi, di strumenti come Europass, supplemento di diplo- ma, ECTS, ECVET, ..), - un’istanza di differenziazione, collegata alla singolarità dei processi di appren- dimento delle persone, alle specificità dei contesti culturali e locali, e alla conse- guente flessibilizzazione dei sistemi educativi e delle strutture di qualificazione. La questione degli standard si colloca infatti nel quadro di un’evoluzione dei siste- mi formativi europei verso un approccio ispirato sempre più ai principi del lifelong e del lifewide learning, in grado cioè di favorire una maggiore accessibilità ai sape- ri, di sostenere i processi di libera circolazione delle persone e di mobilità profes- sionale. I riferimenti chiave sono quelli: - della trasparenza delle competenze, dei titoli e delle qualifiche, tra sistemi e tra paesi; - del riconoscimento e della spendibilità delle competenze e delle acquisizioni acquisite in modo formale e non formale. Venendo ora alla situazione specifica dei sistemi IVET dei paesi Ue, si può notare in generale che: - in quasi tutti i paesi esiste un quadro di riferimento nazionale di “standard” for- mativi, anche se tale quadro può basarsi su indicazioni vincolanti in termini di conoscenze o competenze minime, o limitarsi a riferimenti molto generici che rinviano a processi di definizione a livello decentrato (di sub sistema o a livello 1 3 3 STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 133 territoriale ma anche settoriale); - solo in alcuni paesi esistono dei sistemi nazionali organici di qualifiche (standard professionali), per lo più condivisi con le Parti sociali, che fanno da base anche per la progettazione dei percorsi formativi; - tutti i paesi hanno dei sistemi di valutazione, esami e diplomi, ma solo pochi paesi hanno adottato un sistema di certificazione delle competenze capace di garantire una personalizzazione dei riconoscimenti, della trasferibilità e accu- mulazione a livello formale, e ancor meno sono i paesi che hanno sviluppato dei modelli operativi nel campo del riconoscimento delle acquisizioni ottenute per via non formale (riconoscibilità del patrimonio professionale acquisito nelle molte e diverse esperienze di vita e di lavoro). Sul piano degli standard in particolare, possiamo trovare la seguente situazione, a seconda dell’oggetto da valicare o regolare, soprattutto per la natura formale o non formale delle acquisizioni: Fig. 1 - Tipi di standard necessari per valutare e validare acquisizioni di tipo for- male (cfr. Cedefop, 2005, p. 78) Fig. 2 - Tipi di standard necessari per valutare e validare acquisizioni di tipo non formale (cfr. Cedefop, 2005, p. 78) Sul piano dei sistemi nazionali di IVET (formazione iniziale) possiamo trovare poi diversi tipi di flessibilità: - istituzionale (ad esempio per facilitare il passaggio tra diversi percorsi viene isti- tuito un Sistema nazionale di qualifiche e di trasferimento crediti, vengono potenziati i sistemi di orientamento, …); - curricolare (ad esempio viene sviluppato un sistema modulare in funzione di spe- cifiche esigenze individuali o locali); ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 3 4 Step 1 Standard occupazionali Step 2 Standard formativi Step 3 Standard di valutazione Step 1 Standard occupazionali Step 3 Standard di valutazione CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 134 - organizzativa (ad esempio per favorire la mobilità verticale viene favorito il rico- noscimento del non formale e dell’informale e/o incoraggiata la cooperazione e gli scambi tra sotto-sistemi educativi). Alcuni esempi di tale flessibilità possono essere colti confrontando alcuni disposi- tivi operativi su questi vari piani (fig.3): Fig. 3 - Esempi di dispositivi nazionali che possono favorire la flessibilità formati- va e la mobilità professionale I dispositivi di validazione delle acquisizioni o delle competenze risultano invece basati soprattutto su 3 elementi: - identificazione di acquisizioni osservabili (learning outcomes), - assessment in base a standard (referenziali, norme, …) definiti dal sistema for- mativo o da attori esterni, - processi di riconoscimento delle acquisizioni. Uno studio del Cedefop ha recentemente proposto una classificazione di queste varie opportunità i cui risultati sono sintetizzati nelle figg. 4 e 5. Fig. 4 - Tipi di validazioni e natura dell’apprendimento (Cedefop, 2004) 1 3 5 STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA ambiti paesi paesi che hanno un sistema/quadro nazionale di qualifiche paesi che adottano modelli di modularizzazione dei percorsi formativi paesi che adottano dispositivi e programmi basati sulle competenze paesi che incoraggiano l’accesso alla formazione superiore UK, Repubblica Ceca, Irlanda, Lituania, Polonia, Olanda, Malta, Slovenia Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Polonia, Francia, Germania, Slovenia, Svezia, Portogallo, Ungheria Repubblica Ceca, Lituania, Polonia, Francia, Italia, Slovacchia, Lettonia, Ungheria Austria, Finlandia, Germania, Spagna, Svezia, Olanda Apprendimento formale Apprendimento non formale Apprendimento informale Diplomi Certificazioni (incluse quelle relative a crediti esperienziali) Autovalidazione Validazione autonoma Collegamento con riconoscimenti formali Autovalidazione Assenza di validazione CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 135 Fig. 5 - Tipi di validazione: esempi in uso nei paesi Ue (da E. Webb, 2005) 3. Alcuni esempi a livello nazionale Per contestualizzare queste varie articolazioni è opportuno ora prendere in esame alcuni casi nazionali che presentano modelli differenti tra loro, sia a livello dei sistemi formativi che di regolazione dei sistemi professionali. Per fare ciò si è ritenuto opportuno analizzare brevemente gli esempi di: - 4 grandi paesi (Germania, Regno Unito, Francia, Spagna), - 5 paesi più piccoli (Austria, Finlanda, Olanda, Irlanda e Danimarca). Sono state prese in esame le seguenti dimensioni: - le caratteristiche del sistema VET - presenza di standard - il ruolo degli stakeholder - le forme di riconoscimento crediti e/o validazione dei percorsi formativi - eventuali buone pratiche - i punti di forza o di criticità. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 3 6 Forme di identificazione Forme di riconoscimento Forme di assessment • Osservazione da parte di terzi • Autovalutazione • Definizione di un piano individuale di apprendimento • Portfolio • Bilancio delle competenze • Esenzione a partecipare a parti di programma sulla base di prerequisiti esistenti • Integrazione di apprendi- menti non formali • Promozione sul lavoro • Formativo (check up competenze, simulazioni, autovalutazione con supporto tutoriale, ...) • Sommativo (test, prove oggettive, con valutatori e giurie, …) CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 136 a) FRANCIA b) REGNO UNITO 1 3 7 STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA Sistema IFP Standard Stakeholder Riconoscimento crediti e/o validazione percorsi Segnalazione buone pratiche Punti di forza/criticità Obbligo 6-16 anni - modello centralizzato basato sulla scuola e sui titoli di diploma del Ministero dell’Istruzione Occupazionali (referenziali dei mestieri es. ROME, referenziali attività professionali, es. AFPA,..) Formativi (referenziali di diploma per settore, di valutazione) Ministeri - CNCP (commissione certificazione) Parti Sociali - Camere (certif. interprofessionali) Per gli adulti: VAP - VAE con riconoscimento apprendimenti non formali (con supporto bilanci di competenza) Progetto “professionalisation durable”: standards comuni a 9 paesi nell’istruzione tecnica secondaria (settore meccanico e alberghiero) Problemi nei passaggi scuola-FP Raccordo formazione continua attraverso la rete GRETA Sistema IFP Standards Stakeholders Riconoscimento crediti e/o validazione percorsi Segnalazione buone pratiche Punti di forza/criticità Obbligo fino a16 anni e modello su 4 key stages verso il college e l’alta formazione (HE) principi di decentramento - autonomia - accountability Occupazionali: NVQs framework - repertori su 11 aree professionali e 6 livelli di competenza Formativi: National Curriculum Stato (DfEE) - LEAs - categorie professionali Agenzie nazionali: QCA - Awarding Bodies - AVAs Certificazioni GSCE - titoli scolastici Certificazioni GNVQ - titoli professionali generali Certificati di competenza VQ (competence based), uso dispositivi APL e APEL (per l’ambito non formale) Modello di apprendistato (Modern apprenticeship) Standards di qualità per le aziende che gestiscono la for- mazione: es. investors in people IFP destrutturata - limiti sistema NVQs (Obsolescenza rapida di elementi di competenza - incertezza validazio- ne, accesso scolastico, …) CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 137 c) GERMANIA d) SPAGNA ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 3 8 Sistema IFP Standards Stakeholder Riconoscimento crediti e/o validazione percorsi Segnalazione buone pratiche Punti di forza/criticità Obbligo di 9 o 10 anni - sistema decentralizzato regionale - sistema duale armonizzato su base federale Professionali: sistema nazionale qualifiche (requisiti minimi di competenza) Formativi: accordo tra i lander (durata e contenuti) Stato - parti sociali Approccio olistico alla qualifica (occupabilità) Teilqualifikationen - Certificati di formazione delle imprese - Certificati professionali Camere di com- mercio Possibilità di qualificazioni aggiuntive post-diplo- ma/qualifica (lingue, informatica, …) Forte istituzionalità - Inadeguatezza del sistema qualifiche ai veloci mutamenti del mercato del lavoro e delle tecnologie Sistema IFP Standards Stakeholders Riconoscimento crediti e/o validazione percorsi Segnalazione buone pratiche Punti di forza/criticità Obbligo fino a16 anni - sistema integrato e decen- trato - formazione professionale regolata (di base e specialistica) - formazione occupazionale Occupazionali - Catalogo Nazionale qualifiche pro- fessionali (23 famiglie e 5 livelli) Formativi - sistema SNCP (validazione competenze) Catalogo integrato modulare della formazione Stato (Ministeri) - parti sociali - Regioni Istituto nazionale delle qualifiche (INCUAL) Certificato di professionalità Moduli professionali capitalizzabili Sistema corrispondenza tra moduli professionali dei diversi segmenti di IFP Attenzione alla qualità della formazione - difficoltà passaggi alla formazione superiore CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 138 e) Esempi di altri paesi Guardando ad esempio più in dettaglio al rapporto tra l’ordinamento del sistema IVET e il ruolo degli standard nei 3 paesi più grandi dell’Ue, possiamo ricavare la tabella della fig. 6. Confrontando questi casi, si può notare come i fattori di evoluzione presentino non solo differenze, ma anche significativi elementi di convergenza; ciò non deve stu- pire, se si tiene conto sia dei mutamenti del sistema dei saperi e del mercato del lavoro a livello internazionale, sia del ruolo esercitato dalle Istituzioni comunitarie in materia. 1 3 9 STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA Danimarca Finlandia Olanda Irlanda Austria Standard di IFP definiti dal Ministero dell’educazione in accordo con le Parti Sociali. Punto di forza: collegamento con la FC (es. il program- ma GVU). Standards basati su 3 tipi di qualifiche competence- based, elaborati in dettaglio a livello locale dalle scuole e dalle parti sociali. Standard nazionali di competenza definiti dal COLO, agenzia indipendente partecipata da tutti gli stakehol- ders. Standards nazionali di competenza del Quadro nazionale delle qualifiche, gestito dal NQA, raccordati con quelli della formazione superiore (HETAC) e continua (FETAC) (cfr. il progetto Skillnet). Sistema nazionale di qualifiche professionali (berufprofi- len) concordato con le Parti Sociali. CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 139 Fig. 6 - Modello di IVET e standard formativi e professionali nei 3 principali paesi Ue ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 4 0 Germania Francia Regno Unito Finalità della forma- zione IVET Standard formativi Regolazione delle certificazioni Organizzazione Percentuale di conte- nuti di tipo Durata della forma- zione in azienda Regolazione della for- mazione in azienda Esami Controllo qualità Abilità a conseguire una occupazione qualificata Minimi, per la parte fuori azienda e orientamento alle pratiche aziendali Stato + Parti sociali + BIBB Sistema duale Un terzo presso le scuole professionali 34-46 settimane Contenuti minimi con Ordinanze Camere di commercio Associazioni profes- sionali Preparazione tecnica per un’area profes- sionale Ideali, basati sulle pratiche delle grandi imprese Stato + consultazio- ne Parti Sociali Scuola + tirocinio Almeno metà presso le scuole professionali 4-10 settimane Contenuti raccomandati Esami di Stato Ispettori scolastici Competenza per assumere funzioni specifiche Orientati alla valuta- zione sulla base di buone pratiche Stato + associazioni imprenditoriali Non regolato Solo se richiesto dalla filiera professionale Non regolata Non regolata Esami interni Interna + esterna CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 140 In conclusione, dall’insieme della rassegna proposta, si può notare che: a) quasi tutti i paesi, anche quelli caratterizzati da una grande tradizione di decentramento ed autonomia, sono impegnati in un coordinamento ed armo- nizzazione di standard professionali e formativi a livello nazionale, soprattutto per garantire condizioni favorevoli alla competitività, alla mobilità, coinvolgen- do in questo soprattutto le Parti sociali; b) quasi tutti i paesi collegano o accompagnano gli standard con programmi che tendono a favorire la qualità dei servizi, l’equità degli accessi, l’eccellenza delle acquisizioni a livello educativo e/o professionale; c) in quasi tutti i paesi il principio del mutuo riconoscimento sta portando ad una crescita della cooperazione transnazionale in materia. Restano tuttavia non poche questioni aperte, tra cui merita segnalare - in rapporto al caso italiano - le seguenti: - in molti paesi non esiste una reale possibilità di passare da un ordine di studi ad un altro (indirizzi di tipo secondario generale o professionale) o dalla for- mazione iniziale alla formazione continua, senza qualche forma di esame2; - molti paesi con un approccio “olistico” alle qualificazioni trovano difficoltà a sviluppare un sistema di riconoscimento e trasferimento di crediti (basati su singole competenze); - in molti paesi i livelli di formazione superiore (soprattutto quello universita- rio) sono resistenti al riconoscimento di acquisizioni di tipo non formale3; - in molti paesi molte autorità locali e molte rappresentanze professionali (soprattutto nel campo delle professioni regolamentate) chiedono di mantene- re la propria autonomia regolatoria, costituendo di fatto un ostacolo ai pro- cessi di liberalizzazione promossi dalla Ue. 1 4 1 STANDARD E VALUTAZIONE. CONFRONTO CON L’EUROPA 2 Cfr. su questo punto ad esempio: G. Di Francesco (a cura di), Certificazione delle competenze e life- long learning. Scenari e cambiamenti in Italia e in Europa, I libri del FSE, ISFOL, Roma, 2004. 3 cfr. T. Leaney (ed.), Achieving the Lisbon goal: the contribution of VET, Final report to European Commission, 2005; D. Colardyn - J. Bjornavold, The learning continuity: european inventory on validating non-formal and informal learning, Cedefop, 2005. CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 141 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 142 5. STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 143 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 144 5.1 - Introduzione Dario Nicoli Università Cattolica di Brescia Standard formativi Anche nel nostro Paese, sia pure con notevole fatica, si stanno definendo le condi- zioni di un vero e proprio sistema educativo di istruzione e formazione, tra cui acquisisce un rilievo particolare la definizione degli standard formativi. Gli standard formativi rappresentano un insieme di elementi - definiti variamen- te sotto forma di mete, obiettivi, attività, attitudini, o competenze - che costitui- scono il parametro di riferimento per la valutazione degli apprendimenti, così da fissare le condizioni per il rilascio di un titolo corrispondente al percorso formati- vo intrapreso. Solitamente, tali standard sono associati ai Livelli essenziali delle prestazioni, ovvero alcune caratteristiche imprescindibili dei percorsi formativi e dei servizi che le Regioni e lo Stato si impegnano a delineare, affinché vi sia omogeneità e quin- di comparabilità e sussistano di conseguenza condizioni di sistema, a garanzia degli utenti e degli altri soggetti coinvolti. Nell’ambito dell’istruzione e formazione professionale gli standard formativi sono strettamente connessi agli standard professionali che costituiscono le caratteristiche del “lavoro competente” riferito ad un particolare settore/comparto economico e specificato solitamente in una figura professionale articolata per competenze. Ma si tratta di una questione affatto semplice, visto che, nel corso del tempo, si è passati da una definizione “performativa” di tali standard - ovvero centrata sulle attività - ad una definizione che via via ha inglobato altri fattori quali la capacità di comuni- cazione, la padronanza di tecniche di informazione, l’utilizzo di cifre e numeri ecc., ed inoltre le attitudini che permettono questa esecuzione, al fine di permettere una verifica delle possibilità di trasferire la competenza verificata anche in altri contesti. Ma tale ampliamento conduce a sua volta a dispositivi eccessivamente sofisticati che spesso perdono di vista la visione olistica dell’intera figura professionale e della stes- sa persona che la presidia. Essi conducono pertanto alla “atomizzazione” della com- petenza professionale ed una concezione delle professioni in termini di ruoli e capa- cità “disaggregabili” in particelle attraverso un’analisi di tipo funzionale, secondo una concezione “artificiale” della competenza. 1 4 5 STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 145 Di conseguenza al modo in cui si intendono gli standard professionali, possiamo avere diverse concezioni degli standard formativi: - come elenco di prestazioni/attività pratiche secondo una sorta di “mansionario” professionale; - come elenco di conoscenze/abilità/comportamenti che articolano la prestazione in componenti; - come “padronanza” della persona nel saper porre in atto, a fronte di compiti- problema, strategie di soluzione pertinenti ed efficaci, sapendo mobilitare a tale scopo le risorse disponibili. Sottostanti a tali modelli vi sono differenti visioni antropologiche: a) chi considera l’essere umano come un elemento del processo produttivo sotto- posto ad imperativi cui deve sapersi adattare tramite comportamenti conformi (visione neo-addestrativa); b) chi ne enfatizza la dimensione cognitiva e mira ad una formazione centrata essenzialmente sulle conoscenze spesso organizzate per materie o discipline (visione scolasticistica); c) chi infine concepisce il soggetto umano come soggetto unitario, volitivo e pro- gettuale, e ne sollecita la responsabilità a fronte di compiti-problemi che ne mettono in gioco l’implicazione e la capacità di mobilitazione delle risorse (visione olistica). Il tema è strettamente connesso al disegno di sistema: solitamente tali standard sono presenti in sistemi evoluti che prospettano una configurazione differenziata così da intercettare meglio la complessità della domanda, assicurando nel con- tempo omogeneità di mete/obiettivi e quindi pari dignità tra i diversi percorsi. Mentre sono assenti nei sistemi che prevedono generici “obblighi” scolastici e for- mativi e che si organizzano su programmi o sequenze di obiettivi rigidamente pre- definiti. Un esempio di standard formativi nella normativa italiana è quello riferito alle “competenze di base” inerenti i percorsi triennali sperimentali per il consegui- mento della qualifica professionale, definiti dalla Conferenza Stato-Regioni nella seduta del 15 gennaio 2004. Essi sono articolati in aree formative (dei linguaggi, scientifica, tecnologica, storico-socio-economica) e sono espressi in “obiettivi da raggiungere” e non predeterminano il percorso da compiere, in quanto”la modu- lazione dei percorsi va costruita sui centri di interesse dei giovani, legati allo svi- luppo della persona, al contesto di riferimento, allo sviluppo delle competenze pro- fessionali”. In altri paesi, quando obiettivi/risultati attesi, contenuti, competenze hanno assunto, la caratteristica di “standard” ciò è avvenuto dopo anni di esperienza, anni di ricerca e gli stessi “standard” sono periodicamente aggiornati, in base alle ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 4 6 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 146 rilevazioni statistiche sulla media delle prestazioni ed in base al livello di soddi- sfazione che lo Stato, le Regioni o, comunque, gli organismi accreditati a definire gli standard, esprimono nelle loro scelte politiche. Valutazione Nella letteratura appare sempre più spesso la definizione di valutazione “tradizio- nale” rispetto alla valutazione “autentica”. Per “tradizionale” si intende solitamente una modalità di valutazione del profitto scolastico che risulta dal confronto dei risultati ottenuti dagli studenti con i risul- tati attesi, normalmente espressi in obiettivi resi in modo tale da poter essere rile- vati empiricamente ed indicanti “valori di soglia” per determinarne il livello. È in base alla vicinanza o distanza dei risultati che si traggono inferenze sul grado di apprendimento. Tale operazione richiede pertanto una riduzione del fenomeno complesso denominato apprendimento in comportamenti osservabili (performan- ce) e trattabili come oggetti tramite l’applicazione di metodi quantitativi. A fron- te dell’esigenza di garantire una misura che fosse il più possibilmente precisa, si è fatto soprattutto ricorso a prove standardizzate applicabili su popolazioni omoge- nee. Tali prove hanno visto un’applicazione che in molti casi ha tracimato rispet- to all’alveo euristico entro cui queste erano state pensate. Di conseguenza, invece che risultare strumenti atti a rilevare soltanto il successo oppure l’insuccesso del- l’apprendimento per suggerire interventi di rinforzo o di aiuto, le prove standar- dizzate si sono diffuse generalmente come un sistema di giudizio selettivo in base al quale stabilire il contenuto, la validità ed il livello degli apprendimenti degli stu- denti e degli alunni. Ma tale esito non si giustifica a partire dal metodo adottato. Infatti questo consente piuttosto di registrare ciò che una persona “sa” inteso come ripetizione del contenuto della lezione e del testo scritto, mentre non è in grado di rilevare la capacità di “costruzione” della conoscenza e neppure la “capacità di applicazione reale” della conoscenza posseduta. Di contro, la valutazione “autentica” rappresenta una metodologia - collocata entro un approccio formativo coerente - che mira a verificare non solo ciò che un allievo sa, ma ciò che “sa fare con ciò che sa” fondato su una prestazione reale e adeguata dell’apprendimento che risulta così significativo, poiché riflette le espe- rienze reali ed è legato ad una motivazione personale. Lo scopo principale consi- ste nella promozione di tutti offrendo opportunità al fine di compiere prestazioni di qualità. Tale valutazione, coinvolgendo gli allievi, le famiglie ed i partner for- mativi, mira pertanto alla dimostrazione delle conoscenze tramite prestazioni con- crete, stimolando l’allievo ad operare in contesti reali con prodotti capaci di sod- disfare precisi obiettivi. Particolarmente rilevante è il capolavoro che l’allievo ese- 1 4 7 STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 147 gue al termine del percorso formativo e che documenta nelle forme e nel linguag- gio proprio della comunità professionale la sua preparazione, giustificando il rila- scio della relativa qualifica professionale. In tal senso, muta la prospettiva dell’intera attività formativa: se la prima forma di valutazione è intesa come verifica circa l’apprendimento da parte dello studen- te di una conoscenza trasmessa dall’insegnante, la valutazione autentica si muove in chiave formativa, ovvero in modo da consentire un incremento del processo di apprendimento e di consapevolezza da parte dell’allievo. In questo modo la valu- tazione è essa stessa formazione e non un’interruzione del cammino. Da qui la pra- tica del Portfolio delle competenze individuali. Esso rappresenta una raccolta significativa dei lavori dell’allievo che racconta la storia del suo impegno, del suo progresso o del suo rendimento. Tramite esso è pos- sibile capire la storia della crescita e dello sviluppo di una persona corredandola con materiali che permettono di comprendere “che cosa è avvenuto” dal momen- to della presa in carico della persona (che richiede un’attenta osservazione delle sue capacità e acquisizioni previe) fino al momento della partenza, passando per le varie fasi di cui si compone il percorso formativo. In questo senso, il cuore della valutazione sta il più possibile nei prodotti di cui l’allievo va orgoglioso e che segnalano (a se stesso, ai formatori ma anche agli altri attori, compresa la famiglia) le sue acquisizioni ed in particolare il grado di pos- sesso delle competenze. Accanto alla valutazione degli apprendimenti, abbiamo anche la valutazione di efficacia ed efficienza dei sistemi formativi. Questa è intesa come verifica della capacità - del sistema nel suo insieme e degli organismi che vi fanno parte - di rea- lizzare gli obiettivi per cui sono stati mobilitati (efficienza), e del rapporto tra i risultati conseguiti e le risorse umane e finanziarie utilizzate per il loro raggiungi- mento. La valutazione di efficacia dei piani formativi mira a verificare la congruità degli apprendimenti e la loro persistenza oltre che dinamica moltiplicativa. Il problema di tale valutazione risiede nella possibilità di identificare con esattezza il contri- buto dell’apprendimento in processi - economico, sociali e culturali - cui concor- rono molteplici fattori. La valutazione di efficienza utilizza solitamente l’analisi costi/benefici, avendo come oggetto un set di fenomeni obiettivi che vengono convenzionalmente intesi come risultati diretti ed indiretti delle pratiche formative. Ma la contrapposizione tra i due modelli di valutazione pare segnata da un ecces- so di manicheismo: forse sarebbe più opportuno parlare di “valutazione” senza aggettivazioni, così da contribuire al miglioramento continuo delle pratiche piut- tosto che all’affermazione dell’ennesimo modello taumaturgico. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 4 8 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 148 Questioni aperte Il momento attuale vede una fase di surplace del processo riformatore e quindi il processo di definizione degli standard formativi è piuttosto rallentato. Ciò che risulta oscuro è il disegno generale del nuovo Governo nazionale, che pare inten- zionato a modificare in parte le norme appena approvate, ma non è chiaro in quale direzione ciò avvenga e con quali strumenti. La prima questione aperta riguarda pertanto la prospettiva di riferimento: per ciò che consente il sistema nel suo insieme, si procede verso un triplice modello (licei generalisti, licei di indirizzo, istituti e centri di istruzione e formazione professio- nale) oppure si delinea una nuova prospettiva? Che valore in particolare viene attribuito alla istruzione e formazione professionale? La seconda questione riguarda la centralità della competenza: questa è stata più volte dichiarata da molti e dai vari documenti che si sono succeduti nel percorso di riforma, ma sappiamo bene le fortissime resistenze nel nostro Paese verso que- sta direzione, date dalla dominanza della “epistemologia delle discipline” che con- diziona di gran lunga la didattica. In che modo superare queste resistenze e come evitare che il tema delle competenze venga gestito nel senso della banalizzazione della cultura? La terza questione si riferisce invece al possibile travisamento della natura degli standard che sono in realtà misure di accettabilità degli apprendimenti, ma pos- sono essere gestiti come veri e propri obiettivi formativi. In questo modo, si otter- rebbe un ulteriore abbassamento delle mete (indotta anche dalla pessima aggetti- vazione con cui vengono associati: “minimi”) ed una conseguente mancata valo- rizzazione dei talenti dei destinatari. Come inserire correttamente il tema degli standard entro una vera pedagogia della personalizzazione? La quarta questione si riferisce alla valutazione: la proposta di modelli sempre più sofisticati e “costruttivi” può ingenerare un rifiuto da parte della classe docente, che in realtà emerge in modo vivace. Tutte le categorie professionali sviluppano valutazioni senza che nessuno metta in dubbio la validità dei loro metodi: per l’i- struzione e la formazione vale invece il principio del sospetto e della garanzia di procedure faticose fino all’estenuazione. Ciò finisce per confermare, piuttosto che frenare, il movimento conservatore presente nel nostro sistema, lasciando in tal modo i suoi gravi problemi nella forma irrisolta. Non vi è spazio nell’ambito del sistema educativo per un modello di valutazione più intuitivo e pratico, anche sulla base di supporti veramente facilitanti per gli insegnanti (es.: rubriche)? 1 4 9 STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 149 5.2 - Intervento panel Alessandra Tomai Politiche di orientamento e di formazione per l’occupabilità dei giovani - Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale Il tema degli standard e della valutazione è molto attuale e si avverte il bisogno di rendere il dibattito vivo e serrato, non soltanto da parte degli addetti ai lavori ma anche da parte di coloro che stanno proprio sul campo e che deve costringere un po’ l’amministrazione a non far perdere di importanza il tema. Ci sono diversi aspetti che ruotano intorno a questo argomento, ovviamente l’a- spetto più importante è l’approccio e la prospettiva che l’Amministrazione pub- blica si deve dare nel momento in cui affronta una simile questione. Anche se non è un argomento del tutto nuovo non si può dire che ad oggi si è arrivati ad un punto conclusivo. Ad esempio nel mese di settembre siamo stati impegnati a fornire alla Com- missione europea il punto della situazione dell’Italia sul lifelong learning, visto che l’Italia come tutti gli altri Paesi europei si è impegnata a costituire un sistema inte- grato e omogeneo fra istruzione, formazione e lavoro, che sia coerente con una strategia di apprendimento valida per tutto l’arco della vita. Alla richiesta dell’Europa sul punto della nostra situazione, l’Italia può dire che ha molte cose in corso e che sono state avviate, ma un sistema integrato, omogeneo, stabile, dife- so, a tutela dei cittadini onestamente non è ancora un dato di fatto. Il benessere e i diritti dei cittadini rappresentano un bene anche per il mercato del lavoro. L’Amministrazione pubblica è necessario che orienti la propria azione, in accordo con le parti sociali e con gli operatori dell’istruzione e della formazione, in termini di servizi da offrire, di tutele che si devono garantire, solo così si impo- sta il lavoro correttamente. Questo però implica che innanzitutto sia reso eviden- te il diritto alla formazione-istruzione che è un diritto vero e proprio e richiama un dovere, in primis delle istituzioni pubbliche. Questo tipo di approccio evidenzia che il servizio pubblico deve garantire possibi- lità formative qualitativamente di un certo livello, disponibili su tutto il territorio nazionale e collegabili con l’Europa. Quindi ha bisogno di una serie di dispositivi e di strumenti, perché ciò non rimanga solo a livello verbale. In primis è necessa- rio definire gli standard professionali e formativi e i criteri con cui descrivere e riconoscere le competenze acquisite. Le Regioni si cimentano da diverso tempo su ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 5 0 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 150 come costruire un sistema nazionale di standard formativi minimi e un sistema che consenta il riconoscimento di competenze acquisite nei vari contesti formali, non formali e informali, sul come certificare queste competenze, quali sono le proce- dure e i criteri, quali garanzie di trasparenza e di affidabilità. Si discute soprat- tutto sul come farlo in un contesto italiano in cui esistono tante diverse filiere for- mative, che non è una difficoltà da poco, dal momento che ognuna di esse è abi- tuata a percorrere il proprio tracciato più o meno indipendentemente dalle altre. Si tenga conto inoltre, che in Italia ci sono numerose Istituzioni e Amministrazioni chiamate a confronto, principalmente in riferimento alle Amministrazioni centra- li, al Ministero dell’Istruzione, del Lavoro, dell’Università e alle Regioni, che sono gli attori principali per la formazione professionale. Si impone l’esigenza, ormai da tutti condivisa, di arrivare a definire questo siste- ma di standard minimi, di descrizione delle competenze, di riconoscimento dei crediti. Con la prospettiva che il prodotto finale sia un sistema nazionale, altri- menti si rischia di rimanere sempre segmentati. Il problema attuale è che esistono vari sistemi territoriali, alcuni molto avanzati altri meno, infatti, non si può ancora affermare che un cittadino italiano di una data regione abbia le stesse opportunità, le stesse condizioni, gli stessi diritti di un altro cittadino italiano di regione diversa, ed è un problema che per prime le regio- ni avvertono. Il Ministero del Lavoro intende farsi carico di questa esigenza e sono partiti una serie di incontri con le parti sociali, le Regioni ed i Ministeri competenti, per un dibattito faticoso e non semplice, ma comunque indispensabile, per dare il via ai lavori di un tavolo, riunito per la prima volta il 20 settembre, che ha come obiet- tivo ambizioso quello di operare per la costruzione di un sistema nazionale di stan- dard professionali e formativi minimi, di certificazione delle competenze. Ma se il cittadino acquisisce consapevolezza, l’Amministrazione è costretta a proce- dere per offrire dei servizi di interesse generale, rispetto ai quali i cittadini hanno dei diritti, dei doveri e una propria responsabilità. Quindi l’amministrazione deve esse- re organizzata per rendere conto del suo operato, attraverso il monitoraggio e la valutazione. Essere consapevole del proprio operato serve a programmare meglio le proprie attività, ma anche ad orientare meglio l’azione delle agenzie formative, che si troverebbero avvantaggiate di fronte ai bandi pubblici e alle richieste da parte delle regioni, verso quegli obiettivi che la regione o che la Amministrazione provin- ciale si sta dando, che in ogni caso non lede minimamente la libertà dell’agenzia di saper progettare, pianificare e trovare l’innovatività delle proprie proposte. Alla luce di tutto ciò, risultano necessari questi sistemi di osservazione, di monito- raggio, di valutazione, per sapere che cosa si fa, come lo si fa, ovviamente, per dirlo ai cittadini. 1 5 1 STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 151 L’informazione serve anche a fornire argomenti un po’ sostanziali su quello che si fa, se si rimane nell’indeterminato, nel generale oppure se si ripetono slogan o obiettivi che tutti condividono, alla fine si autorizzano critiche senza contribuire alla riflessione e al dibattito che deve portare a riconoscere come un bene pubbli- co l’investimento sulle competenze della persona. Esistono delle risorse pubbliche da impegnare in questo, comunitarie, nazionali, regionali, provinciali, quindi ancora di più è necessario per un’Amministrazione rendere conto di come utilizza i fondi. Bisogna saper conciliare tutte le varie esigenze prima di tutto con l’obiettivo che se si vuole costruire un’informazione che serva per osservare e valutare bisogna farlo tenendo conto della ricchezza di quello che già esiste, i percorsi formativi, i soggetti che li erogano, i soggetti che li finanziano. Se non si trova un insieme di indicatori, di standard e di questioni da condividere e che accomunano queste cose, non si potrà restituire costruire un fotografia attendibile. Poiché è chiaro che troppe identificazioni e specificazioni alla fine potrebbero portare a risultati poco chiari. Nell’ambito del tavolo sulle competenze, la riflessione che viene richiesta all’avvio di questa legislatura a noi tecnici, che siamo di supporto e lavoriamo in funzione di obiettivi e indirizzi forniti dai politici, è di ragionare su un possibile disegno di normativa sul lifelong learning, tenendo necessariamente conto delle competenze previste dalla legge, dei ruoli dei diversi attori e delle funzioni su questa materia. Non è di poco conto che ci sia una prospettiva per poter arrivare ad una normati- va sull’apprendimento permanente, poiché una cornice normativa è quella che garantisce i diritti e le tutele, e spinge il pubblico ad assolvere alle proprie respon- sabilità, dando concretezza e attuazione. Attuare tale impegno di legislatura richiede del tempo, ma è importante dire che esiste questa prospettiva program- matica. Questo tavolo è importante perché senza attendere una legge, ma nell’ottica di una legge, intanto verifica, sperimenta e fa uscire allo scoperto i tanti problemi che poi nell’attuazione pratica emergono. È in fase di completamento la costruzione del futuro quadro europeo dei fondi strutturali, che rappresentano la linfa vitale per tutte le attività, e non è di secon- daria importanza, dato il contesto, che il tema della persona e delle competenze sia al primissimo posto. Ma questo comporta la necessità di lavorare su sistemi seri che mettano in evidenza cosa si fa e in che modo, perché l’obiettivo di tutti deve essere la qualità di quanto si realizza, raggiungendo dei buoni livelli di opportu- nità e rendendo queste opportunità realmente disponibili per tutti. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 5 2 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 152 5.3 - Intervento panel Vittoria Gallina Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Scolastico I due quesiti che vengono posti in questo panel, se li interpreto correttamente, ten- dono, il primo a rispondere alla domanda “a che punto siamo in Italia con la costruzione di un sistema di valutazione e di produzione di standard per l’istru- zione”, il secondo a trovare una ragione per la scarsa fiducia che trovano, nell’o- pinione corrente, le valutazioni che provengono dal sistema scolastico. I lunghi anni di lavoro da me svolto presso l’INVALSI nello studio delle politiche di lifelong learning e la mia posizione attuale di collaboratrice dello stesso istitu- to sugli stessi temi, mi consente di fare qualche riflessione, che nasce da un punto di osservazione interno all’istituto, ma non da addetta ai lavori, perché i miei com- piti passati ed attuali non hanno mai riguardato il sistema di valutazione in senso proprio. Sicuramente non si può sfuggire, parlando oggi di valutazione in Italia, da un dato di fatto; una voce sicuramente autorevole e responsabilmente preoccupata del futu- ro del sistema di istruzione del nostro Paese, si tratta del Ministro stesso della Pubblica Istruzione, ha espresso proprio nei giorni di questo seminario, una forte perplessità sulla attendibilità delle valutazioni che l’INVALSI ha prodotto in questi anni attraverso i vari progetti pilota ed ha indicato alcuni “punti di cambiamento”. Forse è utile richiamare brevemente alcuni momenti del percorso della esperienza finora condotta. La missione dell’istituto di valutazione è stata definita in un momento in cui si era in presenza di una ipotesi “ forte” di riforma del sistema, mi riferisco al progetto Berlinguer - De Mauro, appariva quindi coerente con la necessità di seguire e monitorare nel suo evolvere un processo che riguardava non solo l’estensione del diritto alla studio e il rafforzamento dell’autonomia scolastica, ma anche l’ade- guamento dei contenuti di studio e dei percorsi verso l’università e il lavoro in un quadro rinnovato di attribuzioni di competenze istituzionali, mi riferisco alla rifor- ma del Titolo Quinto della Costituzione. Da un lato si poneva il problema di offri- re alla scuola punti di riferimento sicuri per la definizione di offerte formative ade- guate e dall’altro di mettere a disposizione di tutti i soggetti, vecchi e nuovi com- petenti per le politiche di istruzione e formazione, elementi di conoscenza, di dati trasparenti necessari per la progettazione di nuove opportunità di apprendimento 1 5 3 STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 153 per l’insieme della popolazione nella prospettiva del lifelong learning. La partecipazione e l’impegno dell’istituto nelle ricerche internazionali, in parti- colare Ocse Ials, Ocse All e Ocse Pisa1, si inserivano in un progetto che si muove- va su diversi piani: individuare alcuni dei blocchi disciplinari sui quali si fondano i curricoli di studio, sperimentare modalità di assessment di questi, raccogliere in una sorta di archivio tutto il materiale che le scuole producono come strumenti di supporto alla valutazione, diffondere, a partire dall’esame di stato rinnovato, ele- menti di cultura della valutazione, attivare un Osservatorio sulla cultura della popolazione adulta (ONEDA)2, perché la scuola non agisce nel vuoto, ma dentro il “sistema paese” nella complessità di intrecci tra generazioni, tra cultura e lavo- ro, tra trasformazioni istituzionali e comportamenti individuali e sociali. La liquidazione della riforma Berlinguer - De Mauro e l’avvio della riforma Moratti hanno determinato un blocco di questo processo e di tutto il complesso lavoro, appena iniziato, di messa a punto del quadro teorico del sistema e dell’av- vio del “dialogo con la scuola”, finalizzato a produrre modelli di osservazione, strumenti di valutazione e di procedure volte a definire standard e indicatori, coe- renti con la scuola reale, condivisi con coloro che nella scuola operano. Il problema della ricerca è stato accantonato e si è privilegiato un lavoro volto a produrre una organizzazione capace di raggiungere, in tempi abbastanza celeri, coerenti con quelli della delega al Ministro, tutte le scuole; di qui i progetti pilota, tre se non sbaglio, che in fasi successive hanno prodotto una “macchina valutati- va “ che avrebbe dovuto censire tutte le scuole. Si è privilegiata la volontà di “coprire” il maggior numero di scuole con i test INVALSI a scapito di una riflessione, uno studio e una verifica preventiva dei cri- teri di costruzione di questi test di valutazione degli apprendimenti e della loro attendibilità; gli stessi test “scuola” [strumenti descrittivi del funzionamento della scuola, compilati dai dirigenti scolastici] sono stati elaborati e analizzati separata- mente, risultando quindi poco utili a produrre quadri interpretativi delle situazio- ni socio-ambientali in cui i processi di apprendimento si realizzano. A questo si è aggiunta l’ambiguità con cui la valutazione è stata di volta in volta presentata: • strumento per stimolare e valorizzare l’eccellenza, • strumento puramente conoscitivo per l’amministrazione scolastica, • indicatore per l’allocazione di risorse, • indicatore di criteri per premiare il lavoro dei docenti e dei dirigenti ecc. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 5 4 1 International Adult Literacy Survey e Project for International Student Assement 2 ONEDA Osservatorio Nazionale sull’Educazione degli Adulti CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 154 La scuola ha recepito quindi l’operazione “Progetti Pilota” come un intervento esterno ed estraneo, sostanzialmente inutile, che non ha fatto progredire la costru- zione di strumenti di “controllo democratico” sul funzionamento della scuola, strumenti che dovrebbero rendere trasparenti le attività e presidiare i luoghi in cui si garantisce ai cittadini il diritto all’apprendimento. Le ragioni tuttavia che hanno bloccato il processo di costruzione di standard e di indicatori sono un po’ più complesse e risiedono nella stessa filosofia della riforma Moratti. La scuola dell’autonomia era nata con finalità precise: tradurre le indicazioni nazionali e le finalità relative a curricoli e piani di studio nella offerta formativa concreta della singola scuola, questo per garantire, nella situazione reale del sin- golo istituto, a tutti e a ciascuno un percorso adeguato a bisogni, capacità e carat- teristiche personali; questo processo si è sempre chiamato individualizzazione dei percorsi ed indica il “passaggio” didattico - pedagogico necessario perché tutti e tutte raggiungano gli stessi obiettivi. La filosofia inaugurata dalla riforma Moratti, introducendo il concetto di perso- nalizzazione dei percorsi, è intervenuta proprio su questo punto: i percorsi devo- no corrispondere a diverse vocazioni delle persone, cui dovranno corrispondere obiettivi diversificati, l’offerta formativa della scuola costruisce quindi diverse opzioni, in accordo con la richiesta della utenza, la scelta della famiglia al primo posto, ne consegue l’opzionalità degli insegnamenti entro lo stesso quadro orario scolastico e la vanificazione di qualsiasi interesse a definire standard e obiettivi comuni. La nuova direttiva sul funzionamento dell’INVALSI, appena licenziata dal Ministro Fioroni, contiene alcuni elementi di novità che precisano alcuni elementi importanti; mi sembra se ne possano citare almeno due. In primo luogo si abbandona l’idea del censimento di tutte le scuole e si richiede all’INVALSI di operare su un campione rappresentativo di tutte le scuole, che per- metta di leggere i livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti e soprattutto le variabili che si correlano con i risultati. Non puntare al censimento ma operare a campione è un punto molto importante, perché in questo modo si sviluppa lo studio preventivo di variabili relative a con- dizioni socio-demografiche e socio-economiche, caratteristiche ambientali ecc. sulla base delle quali interpretare i risultati delle prove e produrre profili di stu- dente che apprende/ha appreso nelle diverse tipologie di situazione formativa. Queste procedure nel tempo dovrebbero permettere anche di sostenere processi di autovalutazione delle singole scuole, che in questo modo potranno avvalersi di punti di riferimento attendibili. Il secondo punto è rappresentato dall’intervento sull’esame di stato; ritorna alla 1 5 5 STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 155 scuola il compito di formulare una valutazione sommativa, per utilizzare un ter- mine di gergo, che raccolga sinteticamente, nel giudizio di ammissione alla prova finale, la valutazione dei risultati conseguiti dal singolo studente in tutto il per- corso secondario, in vista di ulteriori impegni di studio o dell’ingresso nel merca- to del lavoro. L’Italia è il Paese in cui il valore legale del titolo di studio assegna su questo specifico punto un ruolo importante alla scuola. La raccolta e lo studio, da parte dell’INVALSI, dei giudizi di ammissione alle prove finali e dei risultati con- seguiti nelle prove finali stesse rappresenteranno quindi un ulteriore elemento per lo studio degli outcomes del sistema istruttivo/formativo nel suo complesso. La scelta di attuare finalmente l’allungamento dell’obbligo della istruzione fino a 10 anni complessivi di studio, per tutti e tutte, trasforma il quadro della scolariz- zazione italiana, che finora ha collocato il nostro Paese agli ultimi posti dei siste- mi di istruzione del mondo. Sicuramente un forte impulso alla definizione di standard di apprendimento e di strumenti per la valutazione di questi verrà proprio dalla attuazione di questo provvedimento; attualmente un grosso sforzo in questo senso è stato fatto soprat- tutto in sede di Conferenza Unificata (Accordo quadro definito in CU il 19 giugno 2003; Conferenza Stato - Regioni del 15 gennaio 2004; CU 28 ottobre 2004) e nel lavoro che molte regioni hanno sostenuto nella declinazione dei livelli essenziali di acquisizione di competenze e nella declinazione di questi. Le esperienze realizzate in questi anni, penso al Piemonte, alla Emilia Romagna, alla Lombardia per cita- re solo alcune regioni, hanno messo bene in luce il rapporto tra conoscenze e com- petenze necessarie ai giovani e alle giovani per accedere ai saperi, alle professioni, alla vita relazionale, ed anche la valenza che le dimensioni cognitive acquisiscono in relazione alle dimensioni e capacità operative dei soggetti. Un rinnovato siste- ma di valutazione non potrà limitare la valutazione agli aspetti cognitivi dell’ap- prendimento, ma dovrà costruire una osservazione capace di cogliere la comples- sità di comportamenti autonomi, razionalmente e culturalmente fondati. Oggi si abusa molto della formula far dialogare i sistemi (scuola, università, for- mazione professionale, orientamento ecc.), ma il problema è che spesso si dimen- tica che dentro questi sistemi gli individui passano, nel corso della vita, ed hanno bisogno di essere aiutati a leggersi dentro i vari percorsi per capire come collocar- si e come operare le proprie scelte. I sistemi di valutazione sono, nei paesi che ne hanno consolidata esperienza, delle bussole di orientamento per chi si muove in realtà complesse. Concludo raccogliendo la seconda sollecitazione: “perché la valutazione della scuola non viene presa sul serio dalla opinione pubblica”. Cerco di dare una rispo- sta semplicistica: il valore legale del titolo di studio sposta l’interesse sul possesso del titolo di per sé, ovvero l’interesse più per il titolo che per il sapere che, da que- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 5 6 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 156 sto, dovrebbe essere indicato. La scuola avrebbe quindi una funzione solo stru- mentale nel garantire l’acquisizione di titoli. Accenno solo a una risposta più complicata che viene dalla mia esperienza di inse- gnamento. In un processo formativo la valutazione è uno strumento dell’apprendimento, stru- mento delicatissimo, che in gergo si chiama valutazione formativa. Si tratta di un passaggio necessario, essenziale per sostenere lo studio, ma anche un aspetto di un processo relazionale complesso in cui si gioca nello stesso tempo la fiducia di chi apprende verso chi insegna, ma anche la misura della autonomia di chi, imparan- do, sta diventando adulto. Non sempre chi insegna è capace di far capire che si sta valutando una prestazio- ne, non si sta dando un giudizio su una persona. Di qui una sorta di meccanismo di autodifesa, che porta ad interiorizzare una sva- lutazione complessiva di un processo “ giudicante”, che, giustamente, si ritiene arbitrario. Mi fermo qui perché non vorrei sconfinare in elucubrazioni di tipo psicologico che sarebbero fuori luogo. 1 5 7 STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 157 5.4 - Intervento panel Bruno Scazzocchio Area Formazione Professionale Confindustria Tra le caratteristiche strutturali più importanti dei sistemi socio - economici dei paesi industrializzati rientrano senza dubbio, oltre all’elevata complessità, la pro- gressiva tendenza alla dematerializzazione delle attività produttive e il conseguen- te crescente peso assunto, nell’ambito di queste ultime, dal “fattore produttivo” conoscenza. Conoscenza che sempre più rappresenta il fattore critico di successo nella competizione internazionale tra imprese e, più in generale, tra sistemi paese. Ma, per limitarci all’impresa, la conoscenza è anche la risorsa alla base della cre- scita personale e professionale di tutte le categorie di lavoratori (e degli imprendi- tori), la fonte di sicurezza più importante per affrontare un mercato del lavoro sempre più esigente e flessibile. A fronte della rilevanza della conoscenza, è di vitale importanza poter disporre di sistemi idonei a promuovere e garantire la qualità delle strutture, dei processi e dei prodotti delle istituzioni formative pubbliche e private che la creano e la diffon- dono. Sistemi utili a tutti gli attori del sistema formativo: alla domanda (imprese, enti non profit, amministrazioni pubbliche e lavoratori), che intende la qualità come la capacità del processo formativo di soddisfare in modo efficiente ed effica- ce i propri fabbisogni formativi e che chiede al sistema di qualità un ausilio nel- l’effettuare le proprie scelte formative in un mercato complesso e, a volte, caotico; ma utili anche all’offerta (istituti di formazione), che cerca nei sistemi di qualità stimoli al miglioramento continuo dei propri processi e prodotti, e fonti di van- taggio e regolamentazione nella competizione. L’esigenza e l’utilità di disporre di sistemi di qualità è molto viva nel nostro Paese, nel quale il sistema formativo si trova oggi ad affrontare una serie di sfide di enor- me portata. Sfide che, sul versante pubblico del sistema di istruzione e formazio- ne, sono originate dalla riforma del sistema con l’introduzione di innovazioni importanti e sfidanti in termini di implementazione; dalla presenza vincolante del dialogo sociale e della concertazione nell’innovazione e nello sviluppo della for- mazione continua, secondo una logica di lifelong learning; dall’esigenza di miglio- rare la qualità e la quantità dell’accesso e utilizzo dei finanziamenti comunitari, che sempre più richiedono competenze precise per accedervi; dalla complessità del sistema di programmazione e gestione degli interventi formativi, allo stesso tempo ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 5 8 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 158 orientato verso l’autonomia e il decentramento ma anche correlato con il sistema comunitario. Queste sfide coinvolgono il sistema formativo istituzionale (locale e nazionale), il sistema delle azioni e degli interventi formativi a livello territoriale e le relazioni tra i due sistemi. Il primo sistema, che espleta l’azione di normazione e controllo su attori e processi, si sta innovando nella direzione di una maggiore attenzione alla rispondenza ai fabbisogni dell’utenza e di una pianificazione per grandi pro- getti di sviluppo locale, in luogo della tradizionale programmazione globale. Il sistema delle azioni e degli interventi, nell’ambito del quale si vanno diffondendo iniziative di valutazione e certificazione, presenta una vasta casistica di sistemi organici di applicazione di criteri di qualità alle attività formative. Da ultimo, a livello di relazioni tra i due sistemi, è da registrare la nascita di sedi, strumenti e procedure di valutazione, accreditamento e certificazione della qualità della for- mazione. In ambito privato, il livello di complessità è sicuramente meno elevato rispetto al comparto pubblico, e questo sia per le ridotte dimensioni del sistema (in termini di domanda e offerta), sia per l’assenza delle normative nazionali e comunitarie che impongono mutamenti continui ai diversi attori. Nonostante queste caratteri- stiche, per motivazioni connesse all’interazione con istituti pubblici nazionali e comunitari e, soprattutto, per le sopra citate motivazioni competitive, gli istituti di formazione hanno sempre più adottato sistemi volti alla verifica, valutazione, accreditamento o certificazione della qualità. Sistemi elaborati dalle stesse istitu- zioni, da enti espressione della domanda o anche dell’offerta, bilaterali o, ancora, mutuati da sistemi originariamente utilizzati per la valutazione della qualità nella produzione industriale, e quindi che differiscono notevolmente tra di loro per obiettivi, contenuti e metodologie. Il moltiplicarsi di istituzioni, di sistemi e di modelli che si propongono di promuove- re, valutare, accreditare e certificare la formazione e l’inevitabile complessità che ne deriva, hanno fatto emergere, nell’ambito del dibattito tra studiosi ed operatori del settore, l’esigenza di inventariare e sistematizzare le principali esperienze di valuta- zione, accreditamento e certificazione della formazione realizzate in Italia. Da anni Confindustria opera concretamente per il miglioramento del sistema for- mativo: - ha promosso e sostiene il Progetto Qualità nelle Scuole, dal momento che è inte- resse prioritario delle imprese che le qualificazioni fornite dalla scuola siano vali- de e congruenti con i bisogni della domanda, oltre che con le legittime aspira- zioni delle famiglie e dei ragazzi; - ha collaborato con il Ministero del Lavoro e l’ISFOL alla costruzione di un siste- ma di “crediti formativi e certificazione”; 1 5 9 STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 159 - ha promosso e partecipa con le Organizzazioni sindacali a Fondimpresa e Fondirigenti; - ha avviato, nell’ambito del proprio consorzio SFC, iniziative rivolte all’applica- zione delle norme ISO 9000 alla formazione da parte dei propri associati. Alla radice dell’impegno di Confindustria sul tema della valutazione, si possono indicare quattro precisi obiettivi: 1. consentire un dialogo fra le diverse componenti dell’offerta formativa (scuola, formazione professionale, università, management education) con le rappresen- tanze istituzionali della domanda, le cosiddette Parti Sociali, sul tema della valutazione; 2. fare emergere con chiarezza la distinzione tra valutazione di prodotto e di pro- cesso (che in ambito pedagogico è definita valutazione degli esiti formativi e del servizio) e più in generale trovare un lessico comune sui diversi ambiti in cui può esercitarsi la valutazione; 3. dando per scontata la valutazione degli esiti formativi e degli apprendimenti, su cui esistono esperienze valide, concentrarsi sui soggetti pubblici e privati non- ché sui tempi e le modalità concrete per assicurare al nostro Paese forme di valutazione di processo (audit, rating, ecc.); 4. raccogliere esperienze, suggerimenti e proposte per mettere a punto in Italia un sistema di valutazione di processo anche in partnership tra soggetti pubblici e privati. Gli obiettivi che si pongono ad un sistema di valutazione sono fondamentalmente tre (stimolo al miglioramento, informazione degli utenti, assunzione di responsa- bilità da parte del sistema di controllo), e li troviamo rispettati in ogni sistema. In particolare, in Italia possiamo indicare come obiettivi: - il desiderio di disporre di dati oggettivi che, indicando i punti di forza e di debo- lezza delle istituzioni, consentano di migliorare la qualità complessiva del siste- ma, stimolando l’autovalutazione, intervenendo sulle criticità, conciliando il rag- giungimento dell’eccellenza con la lotta dell’insuccesso, e intervenendo in modo mirato in situazioni prioritarie; - l’esigenza di mettere a disposizione degli utenti le informazioni per quanto pos- sibile oggettive e comparabili sul tipo e la qualità del servizio offerto, informa- zioni che oggi sono disponibili solo per un numero limitato di utenti, spesso i più privilegiati. Un’adeguata diffusione delle informazioni potrebbe anche avere l’e- sito positivo di stimolare le istituzioni a migliorare la loro offerta, confrontando- si tra loro; - l’esigenza di fornire indicazioni utili alla certificazione di segmenti di percorso formativo capitalizzabili, base indispensabile per la costruzione del sistema di crediti prevista nel sistema formativo integrato. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 6 0 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 160 La realizzazione di questi obiettivi incontra non poche difficoltà, scontrandosi innanzitutto con una scarsa diffusione di una “cultura della valutazione” nelle strutture educative e nel Paese, aggravata anche dall’abitudine alla rendicontazio- ne per i progetti del Fondo Sociale Europeo, che è basata su dati formali piuttosto che sulla rilevazione della qualità progettuale e di processo, e dal timore che la presenza di agenzie private, o anche delle Parti Sociali, possa portare ad esprime- re un giudizio di “mercificazione” o a rischi di intrusione in cui la formazione ver- rebbe subordinata a criteri esclusivamente economicistici o corporativi. Per la loro realizzazione, oltre al superamento di resistenze e stereotipi, saranno necessari da un lato il massimo rigore scientifico, dall’altro il coinvolgimento siste- matico degli operatori, secondo procedure già sperimentate. La presenza dei sin- dacati e delle associazioni imprenditoriali nelle iniziative è un elemento che sotto- linea il legame della valutazione di qualità con la capacità di rispondere ai bisogni concreti della comunità locale. Per concludere vorrei riportare, condividendole, alcune raccomandazioni al siste- ma formativo italiano contenute nelle conclusioni di un recente Rapporto OCSE sugli “esami delle politiche nazionali dell’istruzione” per la transizione alla vita attiva. In esse si legge, a proposito di favorire la qualità della formazione tecnica e pro- fessionale: “Raccomandiamo l’istituzione di un sistema nazionale per valutare la qualità della formazione tecnica e professionale, definire standard nazionali appropriati e con- trollare i miglioramenti istituzionali sulla base di questi standard. In tale sistema devono essere rappresentate parti sociali a livello locale, regionale e nazionale. La funzione primaria di questo sistema sarà di assicurare la qualità dei programmi di formazione all’interno del sistema scolastico e nel sistema di formazione regiona- le, in particolare con lo scopo di facilitare gli scambi e i trasferimenti fra i due siste- mi, mantenendo la loro integrazione e la flessibilità dei percorsi individuali. Un’altra funzione sarebbe quella di accreditare e di approvare i programmi di for- mazione creati dalle iniziative locali, dalle associazioni, dalle imprese e dall’indu- stria, in collegamento, per esempio, con lo sviluppo di sistemi di apprendistato. Siamo anche convinti della necessità di un sistema nazionale di certificazione, sì che una qualifica conseguita in una data località abbia lo stesso valore e significato di quella ottenuta in qualsiasi altro luogo. Il sistema delle qualifiche dovrebbe essere trasparente e coerente con i sistemi analoghi esistenti negli altri paesi europei”. 1 6 1 STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 161 5.5 - Intervento panel1 Sergio Viglierchio Regione Piemonte Il dibattito sul tema delle competenze e degli standard è sentito e presente da lungo tempo all’interno della formazione professionale e delle Regioni. Nel mio intervento mi soffermerò su alcuni aspetti che riguardano la parte gene- rale del processo con cui le Regioni stanno tentando di costruire uno standard, anche rispetto ai profili professionali, riferiti, in questo caso, alla filiera del dirit- to-dovere. Vorrei, inoltre, intrecciare questo discorso anche con l’esperienza che vivo quoti- dianamente all’interno della mia regione, di confronto complessivo su questi temi. Il 2 agosto scorso è stata varata una nuova Delibera di Giunta regionale comples- siva degli standard, sul sistema e sulla certificazione degli standard. Questa nuova legge mette a sistema tutto il processo di sperimentazione che si è sviluppato in questi anni nella Regione Piemonte, al quale hanno preso parte tutte le compo- nenti che operano sul sistema della formazione professionale. Abbiamo trasfor- mato completamente il sistema regionale in profili descritti per competenze, gra- zie anche alla partecipazione diretta e attiva degli operatori della formazione pro- fessionale, le parti istituzionali e le province con il confronto delle parti sociali. Dunque, una parte di Regioni e di Province si sta confrontando da lungo tempo sulla questione della costruzione di un sistema nazionale di competenze. Per fare questo, da qualche anno, si ha a disposizione uno strumento tecnico che favorisce l’aumento della possibilità di trasformare questo dibattito in azioni concrete e, cioè, di fare sistema come Regioni. Questo strumento è il progetto interregionale di descrizione e certificazione delle competenze delle famiglie professionali, a cui tutte le Regioni hanno aderito e a cui partecipano attivamente. Tutto ciò grazie alla preziosa collaborazione, a livello nazionale, della nostra assistenza tecnica, senza la quale sarebbe molto difficile, da questo punto di vista, lavorare. Su alcuni aspetti metodologici è bene che intervenga il tavolo interregionale, che è un tavolo di confronto tecnico mentre il confronto politico avviene nel Coordinamento delle Regioni. Attualmente il dibattito su questi temi avviene in sede di Commissione “Istruzione, lavoro, ricerca e innovazione”, il confronto in ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 6 2 1 Intervento non rivisto dall’autore CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 162 sede di Conferenza Unificata. Grazie al lavoro prodotto dall’interregionale, sono stati fatti, in questi ultimi anni, una serie di passi in avanti nel mettere a sistema il ricco lavoro realizzato sui vari territori regionali, con una serie di accordi più volte citati in questa sede. Il pro- dotto del lavoro dell’interregionale si è concretizzato in questi accordi, che per- mettono di iniziare a fare sistema. Uno degli ultimi è quello che riguarda la defi- nizione di standard professionali, rispetto ad una serie di percorsi svolti nella diret- tiva diritto-dovere. Una delle componenti più importanti per costruire il sistema degli standard for- mativi professionali è la partecipazione di tutte le componenti. Il progetto interre- gionale ha iniziato questo percorso, aprendo un confronto serrato con il Ministero dell’Istruzione, Ministero del Lavoro, Province, Comuni, anche se rimane da approfondire la collaborazione delle parti sociali, che risulta una componente fon- damentale del processo di costruzione degli standard. Vorrei soffermarmi sui principi sui quali abbiamo lavorato, derivanti dalla piat- taforma tecnica del 26 luglio 2005, varata dal coordinamento degli assessori del- l’istruzione e della formazione professionale. Questa piattaforma stabilisce alcuni principi. Il primo è quello del “primato dell’ap- prendimento come acquisizione individuale”, indipendente dai luoghi in cui è pro- dotto. Questo è un principio non indifferente, perché se immaginiamo di proiettarci su quello che è definito da tutti il futuro, cioè, una prospettiva di crescita e forma- zione lungo tutto l’arco della vita, questo diventa uno dei principi essenziali. Non c’è un luogo deputato all’apprendimento; l’apprendimento come acquisizione indivi- duale può avvenire indipendentemente dal luogo in cui è prodotto. Il secondo principio su cui abbiamo concordato e su cui fondiamo la costruzione degli standard formativi è la “competenza come categoria formativa”. Le compe- tenze, come anche le certificazioni, non essendo un oggetto “fisico” rappresentano un oggetto “negoziabile”. Quindi, il problema delle competenze è un problema di negoziazione di un sistema di linguaggio che sia comprensibile a tutti, che sia uti- lizzabile da tutti i sistemi, sia della formazione che dell’istruzione e del lavoro. Questo è lo sbocco fondamentale del nostro lavoro. Nella formazione professiona- le lavoriamo per l’occupabilità dei nostri ragazzi. Il terzo ed ultimo principio è la necessità di individuare, in modo univoco e su base condivisa, i soggetti socio-istituzionali responsabili delle attività di riconoscimen- to e le loro relative competenze. Riteniamo che sia urgente individuare un tavolo unico, la sede in cui tutti noi attori coinvolti nell’attuazione delle politiche di lifelong learning possiamo confrontarci. Un concetto di cui vorrei chiarire il significato è quello di “standard minimo”. Non possiamo pensare allo standard o allo standard minimo come l’obiettivo da rag- 1 6 3 STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 163 giungere. Certo, da un punto di vista di certificazione, questo è un obiettivo. Lo standard, o lo standard minimo, è inteso come la parte necessaria, sufficiente e condivisa per procedere alla certificazione di una qualifica, di un profilo profes- sionale. Questo, però, non vuol dire che sia l’obiettivo. La competenza può essere agita a livelli diversi, quindi, non possiamo pensare che gli standard definiscano dei punti di arrivo, semmai sono dei punti di partenza. A seguito della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nella seduta del 5 ottobre 2006, sono stati adottati gli standard formativi minimi relativi alle competenze tecnico-professio- nali di 14 figure professionali2. Esse stabiliscono una figura a banda larga, defini- ta come attività lavorativa professionale, svolta normalmente nei processi lavora- tivi e, poi, declinata con dei descrittori centrati su attività e compiti che vanno a connotare questo tipo di professionalità. Questa è la figura professionale. A que- sto corrisponde lo standard professionale, che ha come dimensione generale quel- la di consentire ai professionisti che operano nella formazione di poter erogare ser- vizi formativi, di permettere di effettuare bilanci di competenza e di lavorare rispetto all’occupabilità delle persone. Questa riguarda la dimensione nazionale. Se lo standard professionale corrisponde alla dimensione nazionale della proposta, il profilo professionale è articolato all’interno delle varie Regioni, nel senso che queste figure professionali vengono declinate in più profili professionali, molto più aderenti alle varie realtà regionali. Questi profili professionali possono essere arric- chiti o adattati alle varie realtà socio-economiche produttive regionali, evidente- mente diverse da regione a regione. Quindi, noi possiamo e dobbiamo permettere l’articolazione di queste figure professionali in profili professionali. La figura professionale non è una figura di filiera, ma è una figura che può esse- re adottata da diverse filiere. Ad esempio, la qualifica di operatore di un percorso triennale, fatto nella direzione diritto-dovere, è una qualifica che può essere di riferimento anche per i percorsi di apprendistato in diritto-dovere. La parte pro- fessionalizzante può costituire un riferimento anche per una serie di altri percorsi che vengono effettuati in altri ambiti e può essere di riferimento a diverse filiere. Lo standard formativo è, invece, legato alla filiera. Esso definisce le caratteristi- che dei sistemi dell’istruzione e della formazione (la durata, le componenti,…). Nel percorso del diritto-dovere, oltre alle competenze professionalizzanti, devono entrare anche le competenze di base e trasversali, e il percorso deve essere trien- nale. Questi sono gli standard formativi. È necessario dunque, distinguere netta- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 6 4 2 Gli standard a cui si riferisce sono stati definiti a seguito del seminario. CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 164 mente il discorso degli standard da quello della figura professionale e dello stan- dard professionale che, invece, è una dimensione nazionale. Esiste una ricchezza profonda nelle varie realtà regionali, non estesa a tutto il ter- ritorio nazionale, probabilmente, ma una realtà molto ricca di provvedimenti sul- l’aspetto dell’adozione degli standard. Credo, quindi, che i tempi siano maturi per quanto riguarda questo discorso. Concludo dicendo che bisogna distinguere due aspetti. Uno riguarda la certificazione delle competenze: il diritto-dovere comprende il diritto del cittadino che sta al centro dei sistemi e il dovere delle istituzioni di garantire le competenze che il cittadino acquisisce. L’altro aspetto riguarda la valutazione. Per fare sistema, anche la formazione pro- fessionale ha bisogno di munirsi di un sistema di valutazione. Oltre ad un sistema di certificazione delle competenze, occorre avere un sistema di valutazione. Sappiamo che valutare una competenza significa valutare il possesso verificato delle abilità, delle conoscenze, dei comportamenti, dei saperi agiti insieme, che permettono alla persona di raggiungere il risultato attraverso l’efficacia e il presi- dio di un compito o di un’attività complessa. Tutto ciò sta scritto nella legenda del modello B dell’accordo in Conferenza Unificata il 28 ottobre 2005 a cui le Regioni hanno concorso. Si evince da ciò che valutare una competenza significa pensare alla valutazione come processo. La valutazione non può essere pensata semplice- mente come la parte accertativa di un percorso che sta finendo, ma è, piuttosto, un processo che deve essere sviluppato. Essa porta, al suo interno, una forte com- ponente formativo-orientativa. Da questo punto di vista, occorre lavorare nel siste- ma di formazione professionale per definire, in modo più preciso, un sistema di valutazione per tutta la formazione. 1 6 5 STANDARD E VALUTAZIONE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 165 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 166 6. PROGRAMMAZIONE DEI FONDI STRUTTURALI 2007-2013 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 167 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 168 6.1 - La Programmazione dei Fondi strutturali 2007-2013: stato dell’arte Olga Turrini Area Interventi Comunitari - ISFOL A livello comunitario si sta chiudendo, dal punto di vista formale, la cornice di riferimento per poter procedere con gli atti programmatori a livello nazionale. Con gli Orientamenti strategici comunitari, pubblicati nella Gazzetta Ufficiale, si deli- neano le linee guida per le programmazioni dei vari Stati membri. Le risorse sono state definite, perché a dicembre 2005 è stato approvato il bilancio dell’Unione europea e con questo il pacchetto di risorse per i Fondi strutturali. Sono state defi- nite le ripartizioni delle risorse dei Fondi strutturali per gli Stati membri e, in par- ticolare, tra Obiettivo 1 e Obiettivo 2. Quindi, la Commissione ha fatto il suo com- pito, ora devono farlo anche gli Stati membri. Questo presuppone, prima di tutto, la ripartizione interna delle risorse. Il nuovo Obiettivo 2 comprende tutte le regioni ad eccezione delle quattro regioni del nuovo Obiettivo 1 (Sicilia, Puglia, Calabria e Campania), a cui si aggiungono le due regioni, cioè che escono dal vecchio Obiettivo 1 ma hanno ancora le risorse per il periodo di transizione (Sardegna e Basilicata). Quindi, il Mezzogiorno diventa un aggregato che al suo interno non è più omogeneo come prima, mentre prima si era abituati a parlare di Mezzogiorno e Obiettivo 1 come se fossero sinonimi. Ora il Mezzogiorno comprende otto regioni, di cui quattro sono nell’Obiettivo 1, due sono in regime transitorio e le altre due sono dell’Obiettivo 2, ovvero l’Abruzzo e il Molise. Per le regioni dell’Obiettivo 2 è stato stabilito un pacchetto di risorse e sono le regioni a doversi mettere d’accordo su come ripartirlo tra di loro. Infatti, l’accor- do è il presupposto per chiudere il primo atto programmatorio previsto a livello nazionale, cioè il Quadro strategico di riferimento nazionale, che sostituisce il vec- chio Quadro comunitario di sostegno (QCS). Tuttavia non sono la stessa cosa per- ché, e questo è uno dei cambiamenti rilevanti della riforma, prima esisteva un QCS sia in Obiettivo 1 che in Obiettivo 2. Si trattava di una cornice normativa abba- stanza vincolante per i programmi operativi delle diverse regioni, perché contene- va delle regole comuni piuttosto stringenti a partire anche dalla definizione degli assi prioritari e delle misure. Ora non è più così. I regolamenti nuovi distinguono tra l’aspetto programmatorio in senso stretto, che riguarda i soli programmi ope- 1 6 9 PROGRAMMAZIONE DEI FONDI STRUTTURALI 2007-2013 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 169 rativi, e l’aspetto strategico, elemento di novità della nuova programmazione, rispetto al quale lo Stato membro non deve più fare dei Quadri comunitari di sostegno ma un documento, il Quadro strategico di riferimento nazionale, che ha una valenza più politica che procedurale e normativa, perché contiene la strategia dello Stato nel suo complesso, quindi tutti gli Obiettivi, 1 e 2, e tutti i Fondi strut- turali. I Fondi strutturali adesso sono tre: il Fondo sociale europeo (FSE), il Fondo euro- peo di sviluppo regionale (FESR) e il Fondo di coesione, che però non opera in Italia. Manca il FEOGA che prima era uno dei Fondi strutturali, adesso è un fondo a se stante che si chiama FEASR. È il Fondo che si occupa dell’agricoltura che però, a differenza del passato, opera con lo stesso meccanismo dei Fondi struttu- rali, quindi ha un Quadro di riferimento nazionale, predisposto dal Ministero dell’Agricoltura, e dei programmi operativi, uno per ciascuna regione. Il regola- mento definisce, a differenza dei Fondi strutturali, già gli assi, quindi la struttura di questi programmi operativi, che tra l’altro inglobano quella che una volta era l’Iniziativa comunitaria Leader, con i suoi gruppi di azione locale sul territorio. Questo programma ora non esiste più ed invece è diventato un asse del nuovo Fondo per l’agricoltura. Il Quadro strategico di riferimento deve comprendere la strategia generale per i due fondi e per gli Obiettivi 1 e 2 e, preferibilmente, anche per l’Obiettivo 3, che riguarda però la sola cooperazione transnazionale ed è finanziato solo dal Fondo di sviluppo regionale. Il Quadro strategico di riferimento deve sostanzialmente descrivere dove l’Italia, come obiettivi generali di Paese, vuole arrivare con queste risorse di fonte comunitaria, individuare la strategia globale e gli obiettivi macro, le macro priorità di riferimento. Quindi il primo passo è definire il Quadro strategico nazionale di riferimento ed inviarlo a Bruxelles. Nel frattempo dare corso alla predisposizione dei programmi operativi, che sono un programma per fondo e per regione, sia dell’Obiettivo 1 che dell’Obiettivo 2. Per l’Obiettivo 1 è diverso dal passato perché prima esisteva un programma plurifondo, adesso esistono tutti programmi monofondo. Quindi anche in Sicilia, in Sardegna o in Puglia ci saranno due programmi operativi, uno solo per il FESR e uno solo per il Fondo sociale europeo. Questo è un altro cam- biamento rilevante. Un’altra novità riguarda la ripartizione delle risorse. Ora il pacchetto finanziario viene diviso direttamente dalle Regioni tra loro e, quando ogni Regione avrà il suo pacchetto finanziario, dovrà decidere quante risorse assegnare al Fondo di svilup- po regionale e quante al Fondo sociale europeo. Nella vecchia riforma invece, le risorse del Fondo sociale europeo così come le risorse del FESR erano date da Bruxelles e la ripartizione e l’accordo tra le Regioni riguardava soltanto il fondo ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 7 0 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 170 singolo. Adesso invece Bruxelles assegna all’Italia le risorse complessive e poi sta a ciascuna Regione, al suo interno, decidere quante risorse assegnare al Fondo di sviluppo regionale e quante al Fondo sociale europeo. Con un’altra differenza rispetto al passato. Mentre prima il Fondo di sviluppo regionale nelle regioni Obiettivo 2, nel centro-nord, era zonizzato, cioè la possibilità di utilizzare i finan- ziamenti del fondo era legata ad un elenco di comuni prestabilito, stabilito dal regolamento, adesso questa zonizzazione non esiste più. La Regione decide indi- pendentemente dalle aree, non ha più un vincolo esterno. Chiaramente questo, dal punto di vista del Fondo sociale, è un problema in più perché rende molto più appetibile l’utilizzo del Fondo di sviluppo regionale che, essendo un fondo che finanzia soprattutto investimenti e infrastrutture, paga molto di più in termini di visibilità, resa politica, rispetto alla formazione. Questo potrà creare anche qualche problema in più causerà un dibattito interno alle Regioni, in quanto gli Assessori tradizionali referenti del Fondo sociale europeo, cioè gli Assessori al lavoro o alla formazione, non sceglierenno più da soli ma saranno i Presidenti ad avere la scelta complessiva nell’ambito di ciascuna Regione. Quindi, il quadro programmatorio è più complesso da questo punto di vista rispet- to a prima. È il problema della sussidiarietà, con le responsabilità, gli onori e gli oneri. In Italia la scelta della competenza esclusiva delle Regioni in questa partita fa sì che il ruolo dello Stato sia minimo, tant’è che mentre in passato c’era anche un ruolo mediatorio del Ministero del Lavoro nei momenti di trattativa insieme alla Commissione con le Regioni, adesso le Regioni devono decidere assolutamen- te da sole nella ripartizione delle risorse. Il Quadro strategico, da regolamento, viene inviato alla Commissione e solo dopo, o in contemporanea, possono essere inoltrati anche i Programmi operativi. Chiaramente sono tutti interessati a farlo il prima possibile perché il 1° gennaio 2007 è vicino, e solo nel momento dell’approvazione da parte della Commissione i programmi diventano operativi. In pratica sta succedendo che, per guadagnare tempo, tutte queste elaborazioni stanno verificandosi in parallelo, con qualche elemento di difficoltà ed incertezza. In piano parallelo si è cominciato a lavorare al Quadro strategico di riferimento, a regolamenti non chiusi e a risorse non definite. Mentre si definiva il Quadro stra- tegico, le Regioni cominciavano a lavorare ai programmi operativi, anche loro a risorse non definite e a Quadro strategico non definito (mentre i programmi ope- rativi dovrebbero derivare dal Quadro strategico). Più va avanti questo processo e più diventa impegnativo per la Regione che ha cominciato ad elaborare il suo sche- ma di programma operativo fare marcia indietro per renderlo coerente con il Quadro strategico, perché il regolamento dice anche che nel momento in cui si 1 7 1 PROGRAMMAZIONE DEI FONDI STRUTTURALI 2007-2013 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 171 fa il programma operativo bisogna concertarlo e verificarlo localmente con le parti sociali. Il limite più grande, a mio modo di vedere, di questi nuovi regolamenti è che, per essere il frutto di una mediazione che è durata lunghi mesi tra tutti gli Stati membri, vi è da una parte una spinta forte ad un approccio più di tipo strategi- co, in cui è venuto meno il Quadro comunitario di sostegno e le regole predefi- nite, mentre il Quadro strategico nazionale e i programmi operativi, non defini- scono assolutamente le procedure stesse. Il rischio è che, se manca il coordina- mento di tutto questo processo da parte della Commissione e dello Stato, ognu- no possa andare per conto suo. E lo stesso vale anche nell’ambito regionale. Secondo la logica del regolamento le politiche di coesione dovrebbero contribui- re oltre che alla coesione stessa, a raggiungere gli obiettivi di Lisbona, che sono quelli di crescita e occupazione. Inoltre, ed è un altro aspetto di novità, il fatto che ci sia un quadro di riferimento unico vuol dire che il Fondo di sviluppo regionale e il Fondo sociale europeo dovrebbero teoricamente essere degli strumenti finanziari che, ciascuno per il pro- prio campo di intervento, convergono verso una comune strategia, che è quella dello sviluppo. Portato a livello di una Regione questo vorrebbe dire che si dovreb- be assumere come riferimento il suo piano di sviluppo e ognuno dovrebbe dire come vi converge con i suoi strumenti. Ma rimane un’affermazione di tipo filoso- fico scritta nei regolamenti, perché non c’è uno strumento che dica anche come il programma operativo del FESR e del FSE si devono in qualche modo raccordare e convergere verso questo sviluppo, e non c’è uno strumento per farli coordinare tra di loro. Ritengo che l’idea sottesa a questa programmazione sia buona, riprende gli obiet- tivi di Lisbona, rimettere insieme quello che prima era in ordine sparso per farlo convergere e quindi accrescere l’impatto complessivo sull’occupazione e sulle risorse umane. Ma se all’idea non corrispondono gli strumenti, siamo consapevoli che non possiamo contare sulla buona volontà dei soggetti interessati. La mia opi- nione è che si tratta di un’altra opportunità che non si dovrebbe perdere. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 7 2 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 172 7. PROSPETTIVE ISTITUZIONALI IN RAPPORTO ALLA PREDISPOSIZIONE DEGLI STANDARD CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 173 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 174 7.1 - Introduzione Michele Pellerey Università Pontificia Salesiana È già stato accennato che la parola “standard” all’interno della formazione pro- fessionale può essere interpretata in vari modi, come “standard di apprendimen- to”, sviluppati soprattutto negli Stati Uniti e recentemente contestati, “standard di percorso”, come qualità procedurali, “standard professionali”, come descrizione di competenze nel lavoro, standard come “livelli essenziali di prestazione” nella nostra legislazione. Esiste dunque il pericolo di utilizzare termini che si presenta- no equivoci, come d’altronde molte volte avviene con la parola competenze. A noi interessa molto la definizione degli standard tecnico-professionali, in quanto ten- dono a qualificare il lavoro che viene fatto nell’ambito della formazione tecnico- professionale, e dal momento che ciò è di competenza regionale va messa in luce una contraddizione nel contesto europeo. A livello europeo, il quadro delle competenze tecnico-professionali che caratteriz- zano le varie professioni è di norma di competenza nazionale. Persino in Svizzera c’è stata una modifica costituzionale per riportare a livello nazionale le competen- ze nel definire i quadri o referenziali professionali che caratterizzano i diversi ambiti di qualifiche professionali e i relativi diplomi professionali. In Italia esiste una frammentazione che porta ad una situazione assai frammentata: le Regioni, le Province autonome, gli enti hanno sviluppato a questo proposito loro programmi, e mettere insieme tutto questo pone problemi di coordinamento. In Toscana stan- no tentando d realizzare una iniziativa interregionale con molte difficoltà. Per quel che riguarda la componente di base e culturale è emerso un accordo Stato-Regioni che tuttavia implica una sperimentazione a livello regionale. L’invocazione che è venuta da uno dei gruppi di lavoro è di mettere a disposi- zione delle politiche nazionali quello che è stato fatto da parte delle sperimenta- zioni in questi anni, che non sono solo quelle di questi ultimi tre anni ma sono di decine di anni. Ricordo, ad esempio, che in Veneto trienni di formazione pro- fessionale sono presenti sin dagli anni ottanta. In provincia di Trento dal ‘94 è ordinaria la sperimentazione del triennio di formazione iniziale per il 25% dei ragazzi della provincia. Per cui c’è già questa base conoscitiva che andrebbe valorizzata sempre più. La questione interessante, che è stata oggetto di un duro dibattito, è la definizio- 1 7 5 PROSPETTIVE ISTITUZIONALI IN RAPPORTO ALLA PREDISPOSIZIONE DEGLI STANDARD CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 175 ne di standard di apprendimento nazionali, perché con la legge 53 sembrava atte- nuarsi tale prospettiva per valorizzare di più competenze individuali. Diventava meno urgente identificare livelli culturali comuni da raggiungere, aspirazioni col- lettive per una piattaforma culturale diffusa per tutti. La definizione degli obiet- tivi formativi era rimandata alle singole autonomie scolastiche. L’idea, che volevo sottoporre all’attenzione del Ministro, è che quando si parla di obbligo di istruzione è necessario certamente porsi degli obiettivi da raggiungere al termine di questo obbligo e avere qualche riferimento circa gli elementi fondanti di questo obbligo. Ma per raggiungerli, valorizzare, laddove è possibile, istituzio- ni, che non siano quelle tradizionali scolastiche, come è il caso delle istituzioni for- mative. Il problema, più volte sottolineato, circa la certificazione dell’assolvimen- to dell’obbligo di istruzione può essere risolto mediante l’accreditamento a livello nazionale, o anche solo regionale delle istituzioni che sono in grado di offrire per- corsi formativi che garantiscano il raggiungimento degli obiettivi fondamentali di cittadinanza per tutti fino all’età di 16 anni. È questa una piccola provocazione, che pongo perché si tratta di un problema molto sentito anche in questa assemblea. Esiste la paura di trovarsi con situa- zioni precarie analoghe a quelle sperimentate con l’applicazione della legge 9, legge che ha provocato non indifferenti problemi nelle attività di formazione professionale. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 7 6 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 176 7.2 - Intervento tavola rotonda Giuseppe Fioroni Ministro della Pubblica Istruzione Non intendo affrontare il dibattito sull’innalzamento dell’obbligo di istruzione - che dovrà riguardare il Ministero, le Regioni e le parti interessate - prima di aver fatto con molta serenità e con un tendenziale ottimismo una valutazione: l’urgen- za in Italia è l’innalzamento dell’accesso al lavoro a 16 anni. Dobbiamo farlo per una serie di motivi che riscopriamo puntualmente solo quando qualche nostro bambino o ragazzo muore sul lavoro. Negli ultimi anni ne sono morti un numero significativo e ce ne sono più di 150mila che lavorano per meno di due euro al giorno, non in Thailandia ma qui in Italia: non possiamo far finta di nulla e non possiamo non tenere in considerazione questa situazione drammatica e preoccu- pante. Va da sé che, cogliendo il primo strumento legislativo in grado di consen- tirci l’innalzamento della soglia di età al lavoro, possiamo operare sul meccanismo che riguarda l’istruzione. Infatti se l’innalzamento dell’obbligo scolastico significasse solamente mandare a scuola negli attuali istituti superiori tutti i nostri ragazzi fino a 16 anni, il rischio sarebbe di raddoppiare il numero dei dispersi, che già raggiunge il 30%. È neces- sario approfondire i modi e le forme, perché è fondamentale consentire al ragazzo di essere protagonista delle scelte che vuole compiere, arrivando a scegliere defi- nitivamente uno degli indirizzi a 16 anni. Questo permetterebbe alla scuola di aiu- tare i ragazzi a prendere coscienza delle proprie inclinazioni, e alla famiglia di sostenerli. Credo invece che possa nascere in loro un sentimento di demotivazione se la scuola non riesce a stimolarli in modo adeguato. La scelta, quindi, rischia in molti casi di essere dettata dal bisogno e dai desideri di altri, compresa la fami- glia. Dobbiamo innalzare l’età dell’obbligo di istruzione per consentire al ragazzo una scelta che, prima di diventare irreversibile, gli permetta di avere un tempo maggiore di maturazione. In questi due anni in più è necessario definire che cosa dare al ragazzo, come qualità e quantità del sapere generalista e, stabilito questo, vedere insieme alle Regioni qual è il meccanismo migliore ma uniforme sul terri- torio nazionale per individuare chi è in grado di fornire questo sapere in modo plu- rale rispetto ai diversi stili cognitivi e alle diverse volontà dei ragazzi. Lavoreremo su questo. 1 7 7 PROSPETTIVE ISTITUZIONALI IN RAPPORTO ALLA PREDISPOSIZIONE DEGLI STANDARD CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 177 7.3 - Intervento tavola rotonda Pietro Gelardi CISL La costruzione di un sistema nazionale di standard minimi professionali, di stan- dard per il riconoscimento e la certificazione di competenze, e di standard forma- tivi è urgenza non rinviabile. Senza di esso la piena integrazione nelle politiche europee per il lavoro e la formazione, e il raggiungimento dei parametri di Lisbona diventano per noi traguardi lontani. Tanto più incerti quanto più basse sono le posizioni da cui partiamo. I nostri livelli di istruzione e formazione iniziali e supe- riori, di possesso di titoli di studio e qualifiche, di educazione permanente degli adulti, di formazione continua fra gli occupati corrispondono a tassi di partecipa- zione al lavoro al di sotto della media comunitaria e crescono a un ritmo che ci distanzia dalle aree economiche più avanzate. Sono un vincolo alla crescita equi- librata e duratura del Paese; un peso rispetto alle sfide del mercato globale e del- l’economia della conoscenza con cui l’Europa invita a misurarci, pena il nostro declino. Su quest’urgenza sembrano ormai convenire tutti gli attori in campo: soggetti isti- tuzionali (nazionali, regionali, locali) e forze sociali (rappresentanze associative delle imprese e dei lavoratori). È da oltre un decennio che si insiste sulla necessità di riformare dalle basi il sistema di formazione professionale e di inserirlo con pari dignità nel generale sistema di istruzione ed educazione; di dare regole certe e stru- menti operativi alla formazione continua, di unificare linguaggi, termini e proce- dure per la identificazione delle figure professionali, di uniformare i criteri per il riconoscimento e la certificazione delle competenze in esito ai percorsi formativi. Alla radice c’era il problema (avvertito come cruciale negli Accordi di concerta- zione dei primi anni Novanta) di superare il divario tra domanda e offerta di for- mazione; tra i fabbisogni del mondo della produzione e del lavoro e le risposte della scuola, dell’università, delle agenzie formative; tra le rapide trasformazioni indotte dai processi di sviluppo e la condizione professionale, la capacità di adat- tamento della forza lavoro. Tanto tempo da allora è passato e qualcosa è avvenu- to. Non partiamo dal nulla. Molte tessere di un ideale mosaico sono state compo- ste, sia pure in ordine sparso e senza un preciso disegno. Alcuni risultati ottenuti sono importanti e da essi occorre ricominciare. Ci sarebbe adesso da fare uno sfor- zo più convinto e compiuto per mettere insieme i vari pezzi e portarli a sintesi. Le ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 7 8 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 178 iniziative sin qui condotte rimangono inefficaci e rischiano di generare confusione ulteriore se non vengono riprese, coordinate da una regia unica, completate. Malgrado gli sbandamenti e le battute d’arresto, il pericolo che corriamo non è quello di stare fermi ma di muoverci troppo, e ciascuno per conto proprio. È quel- lo di una malintesa interpretazione del federalismo - rivendicato, la cosa è para- dossale, nel nome dell’unità europea -, di una concorrenza infruttuosa tra Regioni e Stato, di una separazione più larga tra istruzione scolastica e formazione profes- sionale, della incomunicabilità tra istituzioni formative e sedi di formazione sul lavoro e nel contesto sociale. Con effetti deleteri sull’agibilità e trasparenza del mercato del lavoro e sul valore stesso dell’apprendimento lungo il corso della vita come leva di occupabilità e di esercizio dei diritti di cittadinanza. Il pericolo è di ignorare che non si tratta tanto di fissare un apparato concluso di norme e di pro- tocolli, di emanare nuovi decreti, di stabilire nuovi codici ma di avviare un pro- cesso, una sequenza dinamica e aperta di azioni da aggiustare e migliorare secon- do criteri condivisi, attraverso patti e convenzioni. Ciò che è importante è concor- dare la strada, avere chiari la prospettiva e la meta, i modi, le regole e i parteci- panti del viaggio. Se di un processo parliamo, è evidente che non può essere calato dall’alto, a dispet- to dei beneficiari. Non può essere un soliloquio o un dialogo esclusivo tra pubbli- ci poteri, ma un confronto senza remore che coinvolga alla stessa stregua tutte le parti in causa. Non c’è distinzione netta fra titolari e destinatari degli standard. Alla loro defini- zione, al loro riconoscimento e alla loro certificazione concorrono in eguale misu- ra lavoratori, imprese, parti sociali, amministratori. Salva l’autonomia di ciascun soggetto contrattuale, salve le prerogative costituzionali sancite per le Regioni, salvo il ruolo di spinta, di guida e di garanzia del governo statale, va ricercato un terreno comune in cui operare, avendo presente che ciò di cui abbiamo bisogno è un sistema valido in ambito nazionale ed esigibile in tutto il territorio italiano. Forte di una marcata, inequivoca sanzione governativa ma anche flessibile quel tanto che consenta di adeguarlo a livello locale. Un sistema non astratto, ideato a tavolino, ma in grado di fare i conti con la realtà e di coglierne, se non anticipar- ne, i cambiamenti. Il catalogo delle figure professionali e delle caratteristiche che le sostanziano non può essere affidato a un comitato di esperti. Non è il prodotto di un’indagine socio- logica ma nasce dall’analisi sul campo dell’organizzazione dell’impresa e del lavo- ro, dei fabbisogni professionali e formativi degli addetti. Deve pertanto vederli protagonisti, aventi voce in capitolo. Stesso discorso, con le opportune cautele, dovrebbe valere per il riconoscimento e la certificazione delle competenze comunque acquisite e dei crediti che ne deriva- 1 7 9 PROSPETTIVE ISTITUZIONALI IN RAPPORTO ALLA PREDISPOSIZIONE DEGLI STANDARD CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 179 no. C’è un ampio spazio inesplorato, quello relativo alla formazione “informale” e “non formale”; con l’entrata a regime dei Fondi paritetici interprofessionali dello 0,30% assumerà dimensioni primarie la formazione continua sul lavoro gestita dai diretti interessati e dalle loro rappresentanze. Come intervenire per rendere certi- ficabili le attività formative erogate ai lavoratori (o ai cittadini, fuori dal luogo di lavoro) senza che, da un lato, siano fissati requisiti validi per tutti e che, dall’al- tro, sia assegnata alle stesse parti sociali (o a soggetti organizzati e accreditati) una qualche responsabilità di controllo e di attestazione? Vogliamo con ciò dire che il “sistema nazionale” degli standard - come il più complesso edificio del sistema della formazione - non sarà né statale né regionale, né pubblico né privato. Né solo sociale né solo istituzionale. Sarà tutte queste cose insieme e la vera scommessa è favorirne la combinazione ottimale. Non sarà semplice. Sui temi che affrontiamo si sta ricostituendo un tavolo nazio- nale - era il caso dopo una moratoria interminabile e dannosa. Le premesse sono buone, vanno nel senso che ho cercato di indicare. È auspicabile che la ripresa del dialogo fra Governo, Regioni e Parti sociali sia più stringente e feconda delle altre volte e dia l’avvio a un cammino meno tortuoso e altalenante. Sarebbe sbagliato sperare in risultati immediati e risolutivi. Ripetiamo: si tratta di aprire una stra- da, avendo chiari il punto d’arrivo e i riferimenti fondamentali. A questo scopo è decisivo che si esprimano volontà comune e fiducia reciproca. Allo Stato spetta l’o- nere di non venire meno alla sua funzione di orientamento, coordinamento e regia, in quanto titolare dell’interesse nazionale; alle Regioni il compito di non tentare fughe in avanti e soluzioni parziali ma di perseguire ogni forma di leale collabo- razione; alle forze sociali l’impegno di offrire il loro contributo essenziale nel meri- to e nel metodo e di farsi carico delle conseguenze. Come ci è stato ricordato, gli appuntamenti europei si avvicinano. Mancarli signi- fica tradire il nostro futuro e quello di milioni di giovani il cui destino si giocherà nel continente e nel mondo. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 8 0 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 180 7.4 - Intervento tavola rotonda Fiorella Farinelli Direzione Generale Studi e Programmazione - Ministero Pubblica Istruzione È vero che nel comparto della formazione professionale non siamo ancora appro- dati a una definizione condivisa della nozione di “standard” e che è sempre pre- sente il rischio di fraintendimenti della stessa nozione di “competenza”. Le ragio- ni - o, almeno, alcune ragioni - di questo ritardo affondano nell’ancora incerto sta- tuto della formazione professionale e nell’evoluzione nel tempo della normativa di riferimento, caratterizzata dal sovrapporsi e/o dall’alternarsi di interpretazioni che la definiscono strumento di politica attiva del lavoro ma anche ed insieme parte essenziale del sistema educativo di prima formazione. In verità, ben prima della normativa Berlinguer sull’obbligo formativo, del Titolo V riformato e della legge 53/2003, già la legge 845/1978, consentendo l’uso delle sedi e delle attrezzature di istituti di istruzione secondaria superiore e prevedendo l’attivazione di conven- zioni per l’utilizzazione di mezzi e personale delle Regioni da parte del sistema sco- lastico; facilitando la cooperazione tra agenzie formative e scuole; sancendo la facoltà di accesso alle diverse classi della scuola superiore da parte di chi abbia conseguito una qualifica professionale, aveva posto le basi delle strategie di inte- grazione e di un’inclusione della formazione professionale nell’ambito del sistema educativo. Ma è indubbio che ben più forte della definizione normativa è stata piuttosto la riluttanza o resistenza delle Regioni (in presenza di un ruolo assai debole in questo senso del Ministero del Lavoro) a fare quello che la legge 845 pre- vedeva, cioè la riorganizzazione dei diversi sistemi regionali e locali all’interno di un repertorio nazionale delle qualifiche. Col bel risultato, che tuttora incide nega- tivamente sullo statuto della formazione professionale - in presenza di qualifiche professionali di validità nazionale erogate dal sistema di istruzione -, di rendere assai problematico il valore delle qualifiche regionali nel mercato del lavoro e negli inquadramenti contrattuali e di allontanare il traguardo di un riconoscimento effettivo della formazione professionale come parte integrante del sistema. Per non parlare delle difficoltà/instabilità del finanziamento e della fortissima diversifica- zione locale in termini di sviluppo, di qualità, di visibilità dei sistemi regionali di formazione professionale. Quanto hanno pesato, in questo quadro, le convenienze e gli interessi sia del mondo produttivo sia delle stesse agenzie formative? Molta acqua è comunque passata sotto i ponti. Si tratta, in parte, dell’acqua tor- 1 8 1 PROSPETTIVE ISTITUZIONALI IN RAPPORTO ALLA PREDISPOSIZIONE DEGLI STANDARD CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 181 bida dei dispositivi di accreditamento, dell’utilizzo non sempre accorto e lungimi- rante delle risorse del Fondo Sociale Europeo; ma c’è anche un’acqua più limpida e promettente. Non sono solo le sperimentazioni attivate in parte della formazio- ne professionale nel campo della definizione degli standard e delle competenze in uscita cui si riferisce Michele Pellerey, ma anche le dinamiche evolutive che hanno condotto agli accordi del 2004 tra Stato e Regioni sulle competenze trasversali dei percorsi triennali e a quello più recente sulle competenze professionali; mentre, se pure con una lentezza esasperante, sta crescendo l’impegno delle Regioni nella costruzione di un repertorio nazionale delle qualifiche: un passaggio cruciale per il tema che qui ci interessa, che non riguarda solo la fisionomia, l’identità, la col- locazione della formazione professionale all’interno del sistema, ma la possibilità stessa, per i giovani e per gli adulti, di percorrerne le diverse articolazioni. Solo se, infatti, saremo in grado di certificare le competenze comunque e dovunque acqui- site - nell’istruzione, nella formazione professionale, nel lavoro - sarà possibile dis- solvere i vincoli e le paratie che non solo separano ma gerarchizzano i diversi com- parti formativi, e progredire verso quell’approccio del lifelong learning raccoman- dato dall’Unione Europea e reso ormai obbligatorio dalle evoluzione del mondo/mercato del lavoro e dalle trasformazioni delle professionalità. Ovviamente, tutto ciò comporta che la questione degli standard e delle competen- ze venga affrontata con la serietà e la determinazione necessaria anche nel siste- ma scolastico. È infatti quanto meno bizzarro, per esempio, che lo Stato pretenda di concordare con le Regioni le competenze trasversali e professionali rimanendo, com’è attualmente, largamente inadempiente rispetto alla definizione delle pre- stazioni essenziali nonché delle competenze in uscita dai percorsi di istruzione sco- lastica. Ma anche qui comincia a scorrere acqua più limpida, sollecitata dagli indi- rizzi dell’Unione Europea, oltre che dall’evidentissimo rischio di perdita di valore dei titoli di studio di un sistema che un’autonomia scolastica priva di quadri spe- cifici di riferimento oltre che di efficaci dispositivi di verifica degli esiti rischia di produrre; e, anzi, sta già di fatto producendo, come dimostrano i comportamenti delle università a proposito della selezione dei diplomati che chiedono di iscriver- si a questa o a quell’altra facoltà. Sarà decisivo, in questo contesto di problemi, il modo con cui il nuovo governo affronterà la questione del prolungamento di due anni dell’obbligo di istruzione: non solo dal punto di vista sollevato da Pellerey, che riguarda l’inclusione dei per- corsi triennali di formazione professionale nel sistema educativo dei 14-16 anni e quindi il superamento della tradizionale identificazione tra “istruzione” e “scuo- la”; ma anche rispetto all’utilizzo di un “approccio per competenze” nella ridefi- nizione degli obiettivi formativi in uscita, che si tratta di uscita dai bienni della scuola secondaria superiore come di uscita dai due primi anni dei percorsi trien- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 8 2 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 182 nali di formazione professionale, variamente integrati. Se, infatti, è auspicabile che - fuori da ogni antica identificazione tra istruzione e scuola - il percorso obbliga- torio aggiuntivo possa utilizzare l’insieme delle risorse formative disponibili e di qualità, al fine di contrastare il fenomeno degli abbandoni e di valorizzare la plu- ralità delle intelligenze, degli stili cognitivi, delle propensioni attraverso opportu- nità di formazione che mettano al centro l’operatività, la didattica laboratoriale, il rapporto con il mondo del lavoro e con la concretezza delle professioni; è altret- tanto necessario che, nella diversificazione dei percorsi, i diversi attori istituziona- li e professionali orientino la loro azione al conseguimento di competenze di citta- dinanza, di base, trasversali, di autorientamento ecc. riconosciute come traguardi condivisi in tutte le parti del sistema. Ciò pone, lo sappiamo, delicati e complessi problemi di nuovo accreditamento delle agenzie, ma anche l’attivazione di dispo- sitivi nazionali di accertamento scientifico dei risultati: un accertamento che ci riporta al punto di partenza, cioè alla definizione condivisa di ciò che occorre accertare in termini di risultati del sistema, di qualità del suo funzionamento, di attendibilità dei suoi processi. L’occasione è preziosa. Se dovesse andare perduta, sarebbe ancora più difficile misurarsi con il tema delle competenze, degli standard, della certificazione; e, insieme, dell’integrazione tra istruzione, formazione, lavoro. Sullo sfondo, ma molto a ridosso, ci sono inoltre temi di altrettanto valore strategico, come quello dello sviluppo in alto della formazione professionale e tecnico-professionale, anche in percorsi post-secondari non accademici; e quindi anche della disponibilità di risorse nazionali e regionali ordinarie, fuori dall’instabilità e anche dall’effetto doping delle risorse del Fondo Sociale Europeo. 1 8 3 PROSPETTIVE ISTITUZIONALI IN RAPPORTO ALLA PREDISPOSIZIONE DEGLI STANDARD CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 183 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 184 8. CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 185 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 186 8.1 - La costruzione degli standard professionali e formativi - Confronto con altri Paesi Irene Gatti - Ministero della Pubblica Istruzione Rosaria Ventura - CIOFS-FP Sicilia Nadia Lombardi - CIOFS-FP Emilia Romagna Premessa Nella dinamica in atto per la costruzione degli standard professionali e formativi, il confronto con gli altri paesi richiede il collocamento delle dinamiche nazionali e regionali, nel più ampio quadro comunitario. Nel panorama scolastico italiano è in corso il dibattito circa l’individuazione e l’uso di standard per l’offerta formativa e i suoi risultati d’apprendimento; si regi- strano alcune proposte concrete - con il supporto dei relativi strumenti normative - nelle filiere che riguardano i percorsi triennali per l’assolvimento dell’obbligo d’i- struzione e formazione e per gli IFTS, limitatamente alla definizione di ‘standard di competenza’. Esistono, di contro, nell’istruzione rigidi ‘standard di percorso’; infatti i curricoli sono strutturati in ambiti disciplinari, caratterizzati da rigorose partizioni orarie, sostanzialmente rispettate da tutti, nonostante l’attribuzione dell’autonomia delle scuole nella definizione dell’offerta formativa, nella gestione del monte ore, ecc. In realtà i processi di piena implementazione dell’autonomia scolastica e della costruzione di un sistema d’istruzione e formazione “accessibile” sia in orizzonta- le (passaggio tra sistemi) e in verticale (sviluppo dell’offerta di istruzione superio- re) determinano l’urgenza di un articolato quadro di standard nazionali, in meri- to a prodotti e processi che caratterizzano i servizi educativi e formativi. L’autonomia scolastica infatti non può essere sganciata dalla valutazione delle performance ottenute, valutazione impossibile senza aver stabilito i traguardi attesi - appunto - gli standard. E identicamente la transitabilità tra percorsi impo- ne forme di riconoscibilità di crediti formativi, che può essere attuata solo in pre- senza di standard condivisi. Si tratta di fornire uno strumento per l’individuazio- ne e condivisione dei livelli minimi degli apprendimenti per l’ingresso nei percor- si e per la certificazione in uscita, in relazione a particolari profili professionali e per le cosiddette competenze di base. 1 8 7 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 187 Nella formazione professionale gli standard di competenza vengono utilizzati mag- giormente, ancorché in modo molto vario nelle regioni, in relazione alle diverse filiere anche per la maggiore vicinanza della FP con il lavoro. In ambito comunitario, grazie ai numerosi programmi che hanno favorito lo scam- bio transnazionale e alle iniziative istituzionali (in particolare l’avere definito gli obiettivi europei per l’occupazione e per la formazione in vista del 2010 - previsti dal Consiglio di Lisbona e dal Patto di Stoccolma), si incentiva il riferimento a standard per monitorare, sia a livello dei singoli Paesi e poi a livello europeo, il raggiungimento di quegli obiettivi. Si vanno definendo nei diversi Paesi, pur con le differenze che rispecchiano le diversità delle culture e dei sistemi formali, ‘sistemi di standard’ che sono o simi- li o tali da consentire traduzioni o comunque da permettere di ‘dialogare’ fra loro. Gli aspetti comuni riguardano le metodologie di derivazione delle compe- tenze dal lavoro e il ‘formato’ di rappresentazione delle competenze (ad esempio Italia, Spagna e UK utilizzano un linguaggio simile); riguardano la definizione di sistemi di competenze settoriali (es. turismo, ambiente, ICT, ecc.); inoltre fun- zionano accordi fra Paesi per l’adozione di modelli di attestazione comuni (CVE, Europass, ecc.); un ulteriore campo comune riguarda la sperimentazione di dispositivi per la validazione delle competenze pregresse comunque acquisite (VAP e VAE; APL e APEL). Sul versante del miglioramento dell’efficacia dell’offerta formativa l’utilizzo di standard di competenze come ‘livello minimo degli apprendimenti attesi attraver- so un percorso formativo’ mostra importanti potenzialità educative. Infatti gli standard forniscono la base per la definizione e condivisione del ‘patto formativo’, consentono e stimolano la partecipazione degli individui allo sviluppo dei propri saperi e li responsabilizzano nella definizione del progetto personale e nella gestio- ne del percorso, si prestano all’autovalutazione, abituano al rispetto degli impegni presi, incrementano la motivazione allo studio grazie alla trasparenza della fina- lizzazione dell’impegno scolastico, divenendo uno strumento per la riduzione della dispersione, attestano ad un livello riconoscibile l’esito della prestazione della struttura formativa e quindi costituiscono un riferimento esplicito per la profes- sionalità degli operatori. Attività proposta Assumendo come sfondo di riferimento quanto emerso dalle relazioni presentate nel convegno, il lavoro di gruppo è consistito in un esame critico di alcune espe- rienze internazionali afferenti alla elaborazione e manutenzione di standard rela- tivi al campo dell’istruzione, a partire da alcuni documenti messi a disposizione. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 8 8 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 188 Si è proposto l’esame degli Atti del convegno promosso da INDIRE - Unità Italiana Di Eurydice svoltosi a Firenze, il 25-26 ottobre 2001 sul tema “Curricoli, standard competenze nell’istruzione secondaria superiore - esperienze internazionali”, la pub- blicazione The Development of National Educational Standards - An expertise, pre- sentata nel febbraio 2003 congiuntamente da Edelgard Bulmahn, Ministro federale per l’Educazione e la Ricerca tedesco, dal Presidente della Conferenza permanente dei Ministri per l’educazione e gli affari culturali dei Länder (KMK) e dal Dr. Eckhard Klieme del German Institute for International Educational Research (DIPF) e dall’e- splorazione del sito http://www.nap.edu/readingroom/books/nses/. Il gruppo di lavoro ha effettuato una ricognizione ed una valutazione comparati- va delle problematiche connesse alla produzione di standard educativo/formativi e alle differenze/similitudini con le altre esperienze esaminate in merito alla pro- duzione di standard professionali, per reperire stimoli e suggerimenti utili alla costruzione degli standard formativi nel nostro Paese. Sono state poste alcune domande per stimolare il confronto e la discussione tra i presenti: 1. Che cosa differenzia la modalità di produzione degli standard nelle esperienze esaminate? 2. Quali gli obiettivi dichiarati, da perseguire con la produzione/adozione degli standard? 3. Rispetto a quali parametri del percorso formativo sono stati elaborati gli stan- dard nelle diverse esperienze e quali peculiarità mostrano nella loro formula- zione? 4. Quali i soggetti/strutture/istituzioni chiamati a produrre gli standard? 5. Come è utilizzato lo standard rispetto al percorso formativo, e in particolare rispetto al curricolo ed alla valutazione? 6. Nella produzione degli standard quali sono i ruoli previsti, quali le responsabi- lità e quali i destinatari che li utilizzeranno nel contesto educativo/formativo? 7. Quali gli sviluppi prevedibili nel tempo rispetto ad oggi, in Italia, in Europa e nel resto del mondo, nell’ottica di una crescente globalizzazione? 8. Quali sono gli elementi più significativi delle esperienze esaminate, utili al per- corso da compiere in Italia? Risultati del lavoro di gruppo Il gruppo ha visionato i documenti forniti allo scopo di raccogliere stimoli per una comparazione e una riflessione sulla costruzione degli standard professionali e for- mativi. Sono stati visionati alcuni documenti provenienti dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra, 1 8 9 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 189 dalla Germania, e dall’INDIRE. La prima osservazione sottolinea la diversità della modalità di produzione degli standard, infatti il documento degli Stati Uniti mette in evidenza la vastità della produzione, la complessità dello studio e la molteplicità di risorse umane che hanno lavorato alla stesura degli standard. Lo studio è frutto della sensibilità dell’Associazione dei professori di Scienze che ha chiamato a raccolta un numero enorme di risorse umane con diverse competenze e ha affrontato il problema degli standard delle competenze scientifiche da vari punti di vista: - Organizzativo - Scelta e accompagnamento dei Docenti - Progetti - programmi - Destinatari - Contenuti - Livelli di competenze - Fasce d’età - Livelli di apprendimento-prestazioni. Quello che ha colpito benevolmente il gruppo e che in un certo senso lo ha mera- vigliato è che l’enorme mole di lavoro prodotto ha riguardato solo le competenze scientifiche ed è stato tutto a carico dell’Associazione Scientifica e non delle Istituzioni. Come se il problema degli standard (in questo caso scientifici) fosse una esigenza dell’Associazione e non una esigenza di sistematizzare i percorsi for- mativi con la standardizzazione delle competenze a livello istituzionale. L’altro documento visionato ha riguardato il caso dell’Inghilterra, che ha affidato il problema e lo studio degli standard ad un Gruppo di Coordinamento ben strut- turato, che si è impegnato sia nella descrizione degli standard, ma anche in un lavoro di monitoraggio e di manutenzione. Ha dunque assicurato un accompa- gnamento alla sperimentazione con finalità di miglioramento. Il modello tedesco, che ha affrontato questa tematica, era formato da diverse com- ponenti: il Ministero dell’Istruzione, affiancato da esperti esterni e da rappresen- tanti dei vari landers; quindi in pratica c’era una componente nazionale, una com- ponente regionale ma anche una componente di esperti. Il lavoro di confronto fatto un po’ rapidamente ha prodotto queste considerazioni: 1) In Italia si sente l’esigenza di modelli standard di descrizione e certificazione di competenze, con validità nazionale. La motivazione è ovvia: ad oggi alcune Regioni hanno cominciato a lavorare su alcuni modelli di figure professionali da offrire, ma pur trovandoci in presenza di un buon lavoro, siamo ancora lon- tani da un quadro che abbia validità nazionale, in quanto mancano le direttive essenziali, i criteri, i documenti normativi che li rendano fruibili non solo a livello descrittivo, ma soprattutto a livello di riconoscimento. Inoltre, i lavori ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 9 0 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 190 sono andati avanti a macchia di leopardo, mentre è necessario definire non solo l’iter organizzativo, ma l’architettura dell’intero sistema che va dalla progetta- zione all’erogazione - verifica - valutazione - certificazione, con la relativa descrizione dei ruoli: chi deve definire gli standard, chi si occupa della loro declinazione, chi sviluppa, chi riconosce, chi valida le certificazioni. Finché il puzzle non sarà completo, si navigherà sempre a vista e il lavoro fatto non avrà validità riconosciuta di per se stessa. Fino ad oggi il valore effettivo da associa- re alla dichiarazione di competenza è ancorato alla affidabilità e alla credibilità dell’Ente Formatore, che rilascia titoli e certificazioni di competenze, in nome e per conto della Regione di appartenenza. 2) Tutte le riforme scolastiche negli ultimi dieci anni hanno avuto un carattere comune: la parzialità e l’incompletezza, soprattutto nella completa impleta- mentazione delle norme. Il decisore politico da un lato si è trovato nella neces- sità di rispondere a preoccupanti segnali nazionali e internazionali, dall’altro ha dovuto fare i conti con un sistema ostile, che fa molta fatica ad affrontare i pro- blemi nella loro vastità e complessità e oppone molta resistenza. Le conseguen- ze si ripercuotono soprattutto sulla formazione iniziale, legata alla conclusione dell’obbligo scolastico, e in qualche modo con la scuola superiore, che fa con- seguire titoli e qualifiche qualche volta parallele a quelle della formazione pro- fessionale e che certe volte potrebbe essere il canale a cui trasferire gli utenti della FP, che hanno intenzione di continuare il loro percorso nell’istruzione. Il danno per l’utente è grave, vede violati i suoi diritti alla formazione, alla matu- razione di competenze, al riconoscimento delle sue conquiste, chiamiamoli standard, nell’ottica del suo inserimento di cittadino attivo e responsabile nella società e anche nel lavoro. 3) La Conferenza Stato-Regioni1 ha fatto passi lenti ma progressivi nel campo della definizione di standard minimi delle competenze di base e si avvia a defi- nire gli standard formativi minimi relativi alle competenze tecnico-professiona- li per il triennio sperimentale che fa conseguire qualifiche professionale di 2° livello europeo. Il carattere di sperimentazione delle attività, di cui si definisco- no gli standard - di base e tecnico-professionale - rende debole il riconosci- mento delle certificazioni da parte delle istituzioni scolastiche. Si può afferma- re che la Formazione Professionale, nel confronto con l’Istruzione, ha marciato più speditamente nel suo rinnovamento e nella definizione di standard, ma deve sempre lottare per avere i riconoscimenti opportuni, nel suo cammino di miglio- 1 9 1 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO 1 La Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano nella seduta del 5 ottobre 2006 ha convenuto di adottare gli standard formativi minimi relativi alle competenze tecnico-professionali di 14 figure professionali. CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 191 ramento e di adeguamento alle esigenze, non solo del mercato del lavoro, ma anche alle esigenze dei diritti del cittadino. 4) Nella prospettiva assunta dal dibattito maturato in questi anni, le competenze sono divenute il codice di riferimento e di comunicazione - per la tutela dei diritti delle persone: le competenze costituiscono fattore di occupabilità e patrimonio individuale da valorizzare e riconoscere; - per il mondo del lavoro: le competenze costituiscono fattore di efficacia, qua- lità e competitività; - per il sistema di istruzione e formazione: le competenze diventano gli obietti- vi formativi prevalenti e rilevanti. È quanto mai necessario quindi arrivare ad un sistema di standard nazionali, che rendano certificabili - quindi riconoscibili e spendibili - le competenze acquisite. Per la produzione di questo sistema di standard molte suggestioni e molti sugge- rimenti possono essere raccolti dalle esperienze fatte negli altri Paesi. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 9 2 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 192 8.2 - Competenze e standard formativi - Ipotesi di correlazione Arduino Salatin ISRE Nel lavoro di gruppo siamo partiti da una rassegna della situazione esistente in Italia, rimanendo soprattutto su un confronto tra le 8 Regioni presenti: Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sicilia e Veneto. Gli interrogativi di partenza riguardavano i seguenti punti: - quali tipi di standard sono previsti a livello regionale per la formazione iniziale, tenendo conto dei diversi tipi di standard presentati nelle giornate di seminario; - quali modelli e forme di correlazione sono stati adottati o proposti tra gli stan- dard esistenti, - quale approccio per competenze hanno gli enti e gli operatori di formazione per sviluppare i nuovi modelli e approcci, - quali benefici e quali difficoltà ha comportato o potrà comportare l’adozione di nuovi dispositivi. Analisi delle situazioni regionali Nel dibattito sono emersi elementi di convergenza e divergenza, ed è stata eviden- ziata la grande frammentarietà delle situazioni regionali. Tutte le Regioni presenti hanno segnalato che esistono dei repertori regionali di qualifica relativi alle figure professionali di riferimento per i percorsi formativi di base, ma variano significativamente i modelli di descrizione. In alcuni casi si arriva anche ai livelli di dettaglio, con forme di prescrittività delle indicazioni regionali rispetto alla progettazione di percorsi. Ad esempio, in alcune regioni i CFP, nel presentare i progetti, si devono attenere necessariamente a quel- lo che è già previsto nei Repertori. Tuttavia sono possibili delle progettazioni che vanno oltre i repertori di qualifica, laddove nascono nuove domande, nuove esi- genze del territorio. Ma anche questa è una situazione diversamente regolata. Un secondo elemento emerso riguarda i percorsi triennali, che vengono progettati o gestiti in molte Regioni in collaborazione e integrazione con la scuola. Questo è un elemento che differenzia spesso le situazioni locali. In qualche caso infatti c’è un’indicazione di crediti formativi (o formule equivalenti) che definiscono il valo- 1 9 3 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 193 re riconosciuto a questi percorsi o alle singole competenze. Tali elementi però non vengono sempre riconosciuti dal sistema scolastico in forma completa. In moltis- simi casi vengono richiamate le difficoltà che ancora esistono nei passaggi tra sistema scolastico e formazione professionale e viceversa. Solo in alcune Regioni la progettazione e la gestione dei percorsi è autonoma dalla scuola, con formule di accordi per cui la formazione professionale ha più libertà di movimento. Il terzo elemento emerso riguarda i riferimenti alle competenze che generalmente sono distinte tra quelle comuni di base (che fanno riferimento per lo più all’ac- cordo Stato-Regioni) e quelle tecnico-professionali, che sono oggetto di definizio- ne a livello regionale. Ma anche qui cambiano molto i criteri e i gradi di codifica da regione a regione, in qualche caso con indicazioni di forte dettaglio. In partico- lare cambiano molto le definizioni di livelli o “soglie di accettabilità”. Gran parte delle Regioni lasciano tuttavia alle situazioni dei singoli centri o dei singoli enti queste definizioni più specifiche, mentre varia molto la condivisione con il sistema scolastico circa i livelli di padronanza o le soglie. Altro elemento emerso riguarda le prove e gli esami finali, un elemento che fa capi- re molto chiaramente il raccordo con gli standard. In tutte le Regioni esistono delle indicazioni, soprattutto per le prove di qualifica e soprattutto per la parte profes- sionalizzante; si potrebbe parlare di elementi di standard di valutazione, ma ai CFP è generalmente affidata l’elaborazione in dettaglio delle prove. Solo in 3 Regioni le prove sono uniche e predisposte a livello regionale. In alcuni casi vengono comunicate via mail il giorno stesso come succede per gli esami di maturità. In una Regione, e questo è un altro dato interessante, le prove relative alle competenze di base sono somministrate su strumenti forniti dal Ministero della Pubblica Istruzione: si tratta di 28 elementi di prova che i CFP ricevono e sono concepiti dal Ministero. Indicazioni e proposte emerse Le principali indicazioni o proposte emerse sono state le seguenti: a) valorizzare l’esperienza delle sperimentazioni dei percorsi triennali rendendo noti i dati relativi ai risultati di apprendimento, specialmente in ordine al feno- meno della dispersione scolastica e alle opportunità di rientro o proseguimento nel sistema scolastico. Prima di accantonare una serie di investimenti e di espe- rienze realizzate, sarebbe bene infatti rendere noti i risultati, dire se ci sia stato o meno un contributo concreto e partire da questa analisi per prendere even- tuali decisioni. b) In alcuni casi gli accordi tra le singole Regioni e il Ministero non sono stati com- pletati. Quindi occorrerebbe completare gli impegni assunti e prevedere anche ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 9 4 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 194 le risorse necessarie per l’implementazione delle azioni ancora in corso o da fare. Inoltre, viene invocata, nell’ottica di una valorizzazione dell’intera filiera della formazione professionale, la possibilità di un proseguimento verso il quar- to o quinto anno della filiera professionale, la formazione superiore, come viene richiesto da moltissime famiglie e allievi. c) Altro punto critico è la questione dell’integrazione con il mondo della scuola. Spesso questa integrazione ha visto soccombente o marginalizzata la formazio- ne professionale e il suo ruolo, che invece ha acquisito un livello ed un patri- monio a livello metodologico-pedagogico molto importante. La FP deve diven- tare invece un’occasione per la diffusione del successo formativo, contro una omologazione di metodi e approcci che non tenga conto delle differenze, possi- bilità e opportunità create per gli allievi. Da questo punto di vista diventa importante non ridurre le risorse e l’impegno per l’orientamento, ma aumen- tarle, come invece non avviene in molte Regioni. d) Infine si chiede di elaborare un repertorio di “standard condivisi” con il mondo della scuola relativamente ai saperi essenziali su cui basare anche prove comu- ni in entrata e in uscita ai vari percorsi, almeno su quelli che vengono ritenuti i “saperi essenziali” (da non concepire in modo schizofrenico tra scuola e for- mazione professionale). 1 9 5 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 195 8.3 - La normativa esistente in Italia - Possibili agganci applicativi Domenico Sugamiele Esperto in sistemi formativi Il dibattito sugli standard formativi, nel nostro Paese, nasce e si sviluppa attorno alla formazione degli adulti e alla formazione tecnica superiore (IFTS). L’esigenza prioritaria è stata quella di definire strumenti che potessero consentire di compa- rare i percorsi degli IFTS in ambito nazionale ed europeo. In ambito europeo, infatti, si trovano indicazioni e orientamenti che sostengono la necessità di defini- re elementi per il riconoscimento e la “trasportabilità” dei titoli a livello comuni- tario. In Italia possiamo considerare il contributo dell’ISFOL sulle “competenze di base” dei lavoratori e sulle unità capitalizzabili. Elaborazione utilizzata nel model- lo degli IFTS. Una discussione, insomma, tutta interna al sistema della formazione continua e che ha interessato solo in parte la formazione professionale iniziale se non per la definizione dei crediti ai fini dei passaggi nel sistema di istruzione (e non il vice- versa). Il problema degli standard formativi non ha mai interessato, fino alla legge 53/03, il sistema dell’istruzione se non in qualche discussione accademica. La legge 53 è il primo riferimento legislativo sugli standard che interessa il siste- ma di istruzione e formazione nel suo complesso anche se, come diremo meglio in seguito, mantiene la differenziazione tra percorsi liceali e di istruzione e formazio- ne professionale. Per i primi non servono standard mentre per i secondi si. Appare utile, ai fini della discussione, riportare le fonti normative che hanno intro- dotto, anche se con finalità diverse, il concetto di standard formativo. Il primo riferimento normativo si trova nell’articolo 69 della legge 144/99 e riguarda i corsi di istruzione e formazione tecnica superiore (IFTS). Articolo 69 (Istruzione e formazione tecnica superiore) 1. Per riqualificare e ampliare l’offerta formativa destinata ai giovani e agli adul- ti, occupati e non occupati … è istituito il sistema della istruzione e formazione ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 9 6 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 196 tecnica superiore (IFTS), al quale si accede di norma col possesso del diploma di scuola secondaria superiore. Con decreto adottato di concerto …, sono defi- nite le condizioni di accesso ai corsi dell’IFTS per coloro che non sono in pos- sesso del diploma di scuola secondaria superiore, gli standard dei diversi per- corsi dell’IFTS, le modalità che favoriscono l’integrazione tra i sistemi formati- vi di cui all’articolo 68 e determinano i criteri per l’equipollenza dei rispettivi percorsi e titoli; con il medesimo decreto sono altresì definiti i crediti formativi che vi si acquisiscono e le modalità della loro certificazione e utilizzazione,…” Il regolamento di attuazione dell’art. 69, DI 436/00, distingue tra “Standard di percorso” (art. 4) e “standard minimi delle competenze per l’accesso e la valuta- zione dell’esito” (art. 5). Lo standard di percorso, previsto dall’articolo 4, indica gli elementi che attengono all’organizzazione dei corsi al fine di determinare modelli organizzativi comparabili su livello nazionale: la durata minima e massima; la natura dei soggetti realizzatori; la “tripartizione” dei curricoli in competenze di base, trasversali e tecnico professio- nali; i requisiti professionali dei docenti; la classificazione delle certificazioni;… Elementi che possono essere considerati, in coerenza con il Titolo V della Costituzione e la Riforma della legge 53/03, Livelli essenziali di prestazione. Gli standard previsti dall’art. 5 del regolamento 436/00, invece, si innestano nel processo programmatorio - valutativo dell’attività didattica. L’articolo 5 d parla, infatti, di “standard minimi di competenze verificabili e certificabili”. A partire da questa impostazione sono stati sviluppati “gli standard formativi minimi relativi alle competenze di base” dei percorsi triennali previsti dall’Accordo quadro del giugno 2003. Standard che sono articolati secondo un’area dei lin- guaggi, un’area scientifica, un’area tecnologica e un’area storico-socio-economica. Gli schemi allegati per le quattro aree riportano l’elencazione degli standard mini- mi di competenza per ciascuna area e una declinazione degli stessi. Essi non sono altro che la descrizione degli obiettivi generali e delle competenze di base. Lo stesso documento approvato in Conferenza Unificata afferma, infatti, che: “gli standard si riferiscono ad un’accezione di competenze di base più ampia di quella tradizionalmente utilizzata nella formazione professionale, in quanto non sono concepiti solo con riferimento all’occupabilità delle persone, ma anche al fine di garantire i pieni diritti di cittadinanza a partire dal possesso di un qua- dro culturale di formazione di base”… e che “… esprimono gli obiettivi da raggiungere e non il percorso da compiere, in quanto la modulazione dei percorsi va costruita sui centri di interesse dei gio- 1 9 7 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 197 vani, legati allo sviluppo della persona, al contesto di riferimento, allo sviluppo delle competenze professionali.” Da questa impostazione di standard (art. 5 del DI 436/00 e Accordo sui percorsi triennali) discendono due problemi che andrebbero approfonditi e meglio chiariti. Il primo attiene al significato di “minimo”. Il secondo si innesta nel rapporto tra definizione degli standard formativi minimi nazionali, da una parte, e curricolo- programmi, obiettivi di apprendimento, libertà di insegnamento e autonomia delle istituzioni, dall’altra. E ciò in particolare, se questa impostazione venisse estesa al sistema educativo di istruzione e formazione delineato dalla legge 53. Legge che, comunque, pone un problema di riflessione. La L. 53 all’art. 2 c 1 lettera h) definisce che i percorsi del sistema di istruzione e formazione professionale realizzano profili educativi, culturali e professionali di differente livello, valevoli su tutto il territorio nazionale se rispondenti ai livelli essenziali di prestazione di cui alla lettera c) - riferimento al diritto dovere per almeno dodici anni- e che le modalità di accertamento di tale rispondenza, anche ai fini della spendibilità dei predetti titoli e qualifiche nell’Unione europea, sono definite con il regolamento di cui all’articolo 7, comma 1, lettera c). L’articolo 7 della legge, disposizioni finali e attuative, al comma 1 afferma che i regolamenti da adottare, nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolasti- che, dovranno provvedere: a) alla individazione del nucleo essenziale dei piani di studio scolastici per la quota nazionale relativamente agli obiettivi specifici di apprendimento, alle discipline e alle attività costituenti la quota nazionale dei piani di studio, agli orari, ai limiti di flessibilità interni nell’organizzazione delle discipline; b) alle determinazione delle modalità di valutazione dei crediti scolastici; c) alla definizione degli standard minimi formativi, richiesti per la spendibilità nazionale dei titoli professionali conseguiti all’esito dei percorsi formativi, nonché per i passaggi dai percorsi formativi ai percorsi scolastici. Risulta evidente che la lettera a) si riferisce ai soli percorsi liceali e la c) a quelli di IeFP ed è altrettanto evidente che da una prima lettura potremmo assimilare gli OSA definiti per i Licei e allegati al D.Lgs 226/05 agli Standard minimi formati- vi per la IeFP. Se questa lettura fosse corretta allora le Regioni non potrebbero esercitare la loro competenza esclusiva in materia di IeFP con la predispozione degli OSA. D’altro canto se gli standard minimi formativi si intendessero come standard minimi di apprendimento - come viene da più parti interpretato - allora verrebbe ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 1 9 8 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 198 a cadere il principio del “rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche” (principio che si riferisce ad entrambe le lettere dell’art. 7 c. 1). Si verrebbe a determinare, cioè, una condizione “particolare” per le istituzioni del sistema di IeFP alle quali verrebbe negata l’autonomia didattica. Autonomia rico- nosciuta, invece, dall’articolo 117 della Costituzione e sancita all’art. 1 comma 4 del D.Lgs 226/05 (Tutte le istituzioni del sistema educativo di istruzione e forma- zione sono dotate di autonomia didattica, organizzativa, e di ricerca e sviluppo). Il DPR 275/99 affida, a partire dagli Obiettivi specifici di apprendimento, alla responsabilità delle istituzioni scolastiche e formative la determinazione degli obiettivi formativi, dei relativi standard di apprendimento e dei metodi con cui trasformarli in competenze di ciascun allievo. Le norme sull’autonomia, insomma, escludono che lo Stato possa stabilire per il sistema di istruzione gli standard delle competenze degli alunni. A maggior ragione lo Stato non potrà definire gli standard di apprendimento degli OSA per la sempli- ce ragione che ciò è competenza del corpo professionale e delle scuole autonome. Vale la pena ricordare che il sistema educativo di istruzione e formazione delinea- to nella Costituzione e definito dalla L. 53 è unitario ancorché articolato in due sottosistemi, dell’istruzione e dell’istruzione e formazione professionale. Ciò non consente di pervenire ad una interpretazione (che contrasterebbe profondamente con il dettato costituzionale) per cui ciò che lo Stato esclude per le “sue” scuole (quelle che realizzano i percorsi liceali rispetto ai quali detta le norme generali) lo imponga alle istituzioni formative dell’IeFP, di competenza esclusiva regionale, per le quali può dettare solo i Livelli essenziali di prestazione. Insomma, il dubbio che dietro lo sviluppo delle stesse Indicazioni nazionali, alle- gate ai decreti legislativi del primo e secondo ciclo, e degli standard formativi per il sistema di IeFP ci sia un ritorno ai programmi nazionali appare fondato. Altrimenti ci si può legittimamente chiedere che valore dare al Profilo educativo, culturale e professionale (PECUP). Il PECUP va inteso come l’enunciazione delle mete formative da raggiungere alla fine del primo e del secondo ciclo. In esso emerge in maniera chiara il concetto di competenza e nella parte riferita agli “stru- menti culturali” si individuano gli obiettivi specifici di apprendimento riferite alle discipline o agli ambiti culturali. È facile intravedere ciò che a livello europeo viene definito come literacy o numeracy. Allora quali sono gli spazi di applicabilità degli standard minimi formativi? Punti di riflessione per il dibattito. Una prima riflessione si può fare sulla possibile equiparazione tra standard mini- mo formativo e standard di percorso definito nel regolamento degli IFTS che ben 1 9 9 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 199 si presta a poter affrontare il significato di “minimo”. In questo caso gli Standard minimi formativi sono più assimilabili a Livelli minimi di prestazione di percorso che si aggiungono a quelli di sistema definiti dal D.Lgs 226/05. In questo caso potremmo esemplificare che gli Smf rappresentino i “vincoli e le risorse”: calendario scolastico, orario, regole per la formazione delle classi e dei gruppi, le dotazioni tecnologiche per gli indirizzi, requisiti professionali dei docen- ti e degli esperti, criteri e vincoli per il 5° anno di raccordo con l’Università,… Una seconda riflessione interessa il rapporto tra standard e obiettivi di apprendi- mento. Un primo punto di riflessione che andrebbe fatto è nel rapporto tra il Profilo edu- cativo, culturale e professionale e gli Obiettivi specifici di apprendimento. Il PECUP così come impostato contiene o no gli OSA? C’è bisogno di declinare le Indicazioni nazionali? Quale rapporto con gli OSA dei percorsi di IeFP? È sufficiente un “ampliamento” degli obiettivi del PECUP delineando il sistema delle famiglie e aree professionali del sistema di IeFP come è stato fatto per il PECUP dei Licei? ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 0 0 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 200 8.4 - Standard professionali e formativi e inserimento lavorativo Sandra D’Agostino Area Sistemi Formativi - ISFOL Il tema assegnato al mio gruppo era “Standard professionali e formativi e inseri- mento lavorativo”. Mi sembra importante ricordare le Regioni di provenienza dei partecipanti al gruppo, per dare evidenza alla ricchezza di esperienze che sono state portate come contributo alla discussione: Piemonte, Lombardia, Friuli, Liguria, Toscana-pro- vincia di Bolzano (non si tratta di una nuova entità amministrativa, ma semplice- mente del fatto che un formatore presente nel gruppo ha potuto raccontare l’e- sperienza dei due territori avendo operato in entrambi), Lazio, Calabria e Sicilia. Facendo una sintesi del dibattito di questi due giorni, alcune considerazioni sono state ricorrenti, riproposte nei diversi interventi ed assumono certamente una forte rilevanza. La prima questione che sembra sottesa a tutte, riportata anche dagli altri coordi- natori, riguarda la questione terminologica. Ovvero, è necessario definire e condi- videre un significato per alcune parole chiave, come standard, nell’accezione sia di standard professionali che di standard formativi. L’impressione di molti è di esse- re venuti al seminario con in tasca una definizione certa di standard formativo e standard professionale; ma questa certezza si è disintegrata alla luce dei diversi interventi di queste giornate. Pertanto, compiuta la pars destruens, sarebbe importante passare oltre, ossia pervenire alla condivisione di un significato univo- co da assegnare a questi termini. La distanza maggiore fra i diversi contributi dei relatori che si sono succeduti è stata registrata rispetto alla definizione di “standard formativo”. Siamo partiti dalla relazione di Michele Pellerey, imperniata su un concetto di “standard forma- tivo” inteso come livello di apprendimento da conseguire, e successivamente abbiamo sentito che per altri relatori lo standard formativo corrisponde invece ad una serie di caratteristiche strutturali dei percorsi formativi, che hanno a che fare con requisiti dei docenti, numero di ore complessive, numero di ore destinate allo stage, e così via. 2 0 1 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 201 Sembra quindi urgente pervenire ad una definizione che consenta di esprimersi in sintonia e di confrontarsi in maniera più efficace. La questione terminologica però va inquadrata anche sotto un altro aspetto. Al di là della condivisione che a livello macro è necessaria sui termini - cosa che si deve senz’altro fare in una sede nazionale, in un tavolo in cui siano rappresentati tutti gli attori del sistema -, è parimenti necessario compiere anche il passaggio succes- sivo, cioè condividere il significato di questi termini con una platea più ampia rispetto alla cerchia dei formatori, degli operatori della formazione professionale o comunque degli attori del sistema. Per citare un esempio: nel corso del seminario si è parlato dello strumento Europass e di altri strumenti in uso sui territori che vanno già nella direzione di tener conto del nuovo linguaggio delle competenze. Ebbene, alcuni formatori hanno evidenziato che quando si presentano questi strumenti alle imprese, le imprese non ne colgono il significato, la portata innovativa, hanno difficoltà a uti- lizzarli per la certificazione, per la selezione del personale, ecc. Ciò significa che la condivisione del linguaggio deve essere più ampia, deve valicare i confini del mondo della formazione per una vera integrazione con i sistemi del lavoro, oltre che dell’istruzione. Accanto al linguaggio delle competenze è opportuno non perdere di vista le figure professionali. Dietro espressioni come “figure professionali”, “qualifiche”, c’è tutto un vissuto pluridecennale, un sapere diffuso delle persone, delle imprese, che con- sente di dialogare e su cui può essere utilmente impostato il dialogo e il confron- to. Eppure qualche anno fa a utilizzare la parola “qualifica” sembrava di volersi accanire su un qualcosa di assolutamente superato, che negava il nuovo, rappre- sentato dal linguaggio delle competenze. Certamente c’è un’ampia condivisione tra gli operatori dell’importanza di stru- menti come gli standard professionali e formativi, e quindi della necessità che tali standard vengano finalmente definiti per favorire l’elevamento della qualità della formazione. Ma risulta ugualmente importante sottolineare il ruolo positivo dei processi attivati sul territorio per la discussione sugli standard, per la costruzione degli standard, nell’ottica di favorire il dialogo all’interno della formazione e con gli operatori dell’istruzione e del mondo del lavoro, per individuare le soluzioni più efficaci. Per cui, se è vero che è importante avviare un processo a livello naziona- le che definisca gli standard minimi nazionali, è anche importante mantenere ed anzi incrementare sul territorio le sedi di confronto per l’elaborazione degli stan- dard e la definizione dei più adeguati approcci metodologici. Con riferimento ad un modello dicotomico, che si esprime attraverso standard professionali e formativi - quale livello di apprendimento e quale requisito “strut- turale” del percorso formativo -, in alcuni interventi del gruppo è emersa la preoc- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 0 2 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 202 cupazione che un aspetto rimanga in ombra, ovvero le competenze trasversali. Se lo standard professionale si focalizza sulla professionalità in senso stretto, intesa come competenze tecnico-professionali; se lo standard formativo è quello che con- sidera soprattutto le caratteristiche dei percorsi, allora queste due tipologie di standard non sono in grado di tenere conto delle competenze trasversali e dell’im- portanza che queste rivestono in un percorso formativo. Invece, le competenze tra- sversali sembrano essere l’elemento che più degli altri viene richiesto dalle impre- se. Nel vissuto degli operatori le imprese spesso richiedono, più che un ragazzo che sappia già fare un mestiere, un ragazzo che sia in grado di impararlo, quindi che abbia quella metacompetenza che è la disposizione ad apprendere, insieme ad una serie di altre competenze quali la puntualità, l’ordine ecc. Certamente non si vuole dire che sia necessario definire anche uno standard spe- cifico per le competenze trasversali! Ma in questa costruzione di standard profes- sionali e standard formativi ci sembra che venga poco valorizzata l’istanza più profonda della formazione professionale, che è la funzione educativa della FP. Questa funzione, che è ancora quella preminente per la formazione professionale - in particolare quando si parla di formazione iniziale, comprendendo sia la for- mazione per l’obbligo che, più in generale, per i giovani -, non viene pienamente valorizzata in questa concezione di standard formativi e professionali. Una volta definiti gli standard formativi e professionali, è stato riconosciuto che questi non sono uno strumento di per sé autosufficiente. Vanno necessariamente ricollegati ad un’analisi dei fabbisogni nell’ambito di un sistema che ne consenta la manutenzione; altrimenti il rischio è che rapidamente il sistema di standard risulti non più rispondente ai fabbisogni delle imprese. In questi anni alcune cose sono state fatte, con risultati anche importanti; ma trop- po spesso si è trattato di interventi “spot”, non inseriti in una logica di processo in cui al primo intervento di definizione di un set di standard segua la sperimenta- zione, il monitoraggio, la valutazione, la ridefinizione degli standard stessi. Troppo spesso si è assistito a momenti anche alti, fondanti, importanti sui territori, che poi sono rimasti assolutamente nel vuoto. Lo standard è uno strumento per la qualità dei percorsi formativi, ma su tale qua- lità ha un peso rilevante l’affidabilità del soggetto. Nel rapporto con le imprese, quello che sembra essere il valore aggiunto di una certa struttura formativa rispet- to ad un’altra è proprio l’affidabilità del soggetto, caratteristica che è difficile fino in fondo misurare attraverso le tipologie di standard finora proposte. In questo sembra che l’esperienza dell’accreditamento, in maniera molto trasversale, vada sicuramente rifondata. È un’esperienza da cui ci si aspettava molto, ma è una opi- nione condivisa nel gruppo che il sistema di accreditamento vada ridefinito. Un’ultima considerazione emersa in diversi interventi è l’attenzione che deve esse- 2 0 3 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 203 re posta al momento della valutazione. È insufficiente definire standard professio- nali e standard formativi se poi il momento valutativo è affidato solamente alla volontà o all’intelligenza dei Centri di formazione. Con un’avvertenza in partico- lare: l’adozione del linguaggio delle competenze come strumento sul quale fonda- re standard professionali e standard formativi implica una riflessione anche sul momento valutativo, sul modello e sugli strumento per una valutazione efficace. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 0 4 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 204 8.5 - La valutazione degli apprendimenti nella formazione professionale Ismene Tramontano Area Sistemi Formativi - ISFOL 1. Quadro generale di riferimento La qualità della formazione è da intendersi come l’adeguatezza dell’offerta for- mativa a rispondere ai bisogni dell’utenza sia in quanto individuo con i propri obiettivi di professionalità e di cittadinanza attiva, sia in quanto collettività. D’altronde parlare di qualità dell’offerta formativa implica parlare di valutazione. È sul binomio qualità/valutazione che si concentra l’attenzione del pedagogi- sta/progettista oltre che del formatore nel tentativo di innalzare il livello dell’of- ferta di istruzione e formazione. L’accertamento della qualità nella formazione professionale può riferirsi al processo formativo o al prodotto della formazione, alle performance sul mercato del lavoro, ovvero alla qualità pedagogico-didattica o ancora a quella organizzativa. È tuttavia evidente che una valutazione della qualità dell’offerta formativa non può prescindere da una valutazione dei risultati di apprendimento conseguiti, che anzi ne costituiscono il principale indicatore. Maggiore è la qualità della formazione, miglio- ri sono i risultati conseguiti dagli studenti, minori sono gli abbandoni ed i ritardi, più contenuta è la dispersione formativa complessiva. Mentre nel sistema d’Istruzione, soprattutto negli ultimi anni, molto si è fatto per la valutazione degli apprendimen- ti e non abbastanza per la valutazione delle azioni e delle strutture formative, nella Formazione Professionale, quando si parla di valutazione, ci si riferisce nella prassi corrente alla valutazione complessiva dell’azione o del progetto formativo e non tanto alla valutazione dei risultati conseguiti dagli allievi. Tali ritardi sono da attribuire anche al fatto che, nel dibattito attualmente in corso a livello nazionale tra esperti ed operatori del sistema, sebbene ci sia un sostan- ziale accordo sulla centralità della valutazione quale strumento di assicurazione della qualità della formazione, incerti rimangono i metodi più corretti per svol- gerla; le posizioni più diffuse si concentrano, da una parte, intorno all’opportunità di una valutazione oggettiva, basata essenzialmente sulla somministrazione di test 2 0 5 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 205 e di prove oggettive e, dall’altra, sulla necessità di una valutazione ispirata ad approcci qualitativi che adottano strumenti poco strutturati, quali questionari con domande aperte, griglie per osservare il comportamento degli allievi ovvero per verificare gli elaborati da essi prodotti, ecc.. L’art. 3 della Legge di riforma del sistema di Istruzione e di Formazione Pro- fessionale n. 53 del 2003, affida “la valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti e del comportamento degli studenti del sistema educativo di istru- zione e di formazione, e la certificazione delle competenze da essi acquisite, ai docenti delle istituzioni”, mentre attribuisce “la valutazione del sistema di istru- zione e di formazione” all’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione, il quale effettua “verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze ed abilità degli studenti e sulla qualità complessiva dell’offerta formativa delle isti- tuzioni scolastiche e formative”. Questa norma, che distingue la valutazione del sistema formativo dalla valutazione degli apprendimenti con finalità formative e certificative - distinzione ripresa ed ulteriormente esplicitata nel decreto applica- tivo della riforma relativo ai “Livelli essenziali delle prestazioni nel secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione” - e lo scenario, sopra richia- mato, che caratterizza la Formazione Professionale, pongono con particolare urgenza la necessità di fornire servizi orientati a sostenere l’esercizio delle respon- sabilità valutative delle istituzioni di Istruzione e di Formazione e dei formatori, con particolare riguardo a chi opera nel sistema di Formazione Professionale. 2. Opzioni teorico-metodologiche Entrando nel merito delle opzioni operative da adottare, alla luce delle funzioni cui è chiamata la Formazione Professionale, intese a favorire negli studenti la rea- lizzazione di un progetto sia professionale che di cittadinanza attiva attraverso l’acquisizione di competenze, una corretta strategia valutativa deve prevedere verifiche tramite approcci diversi, anche situati in contesti formativi con caratte- ristiche reali, e consentire accertamenti oggettivi dei risultati conseguiti, senza escludere la verifica dei processi cognitivi che portano a tali risultati. Una strategia complessa che induce a considerare il concetto di valutazione degli apprendimenti molto più ampio di quello che prevede di utilizzare semplici test, ma che comunque riconosce alle prove oggettive - le quali, oltretutto, possono essere somministrate con costi contenuti - alcuni grandi pregi quali, ad esempio, ridurre la soggettività del giudizio, misurare l’efficacia dell’insegnamento e ren- dere confrontabili i risultati dell’apprendimento, contribuendo all’interazione tra i diversi canali formativi ed alla realizzazione di un effettivo sistema di Istruzione e di Formazione. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 0 6 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 206 Pertanto, alcuni aspetti dell’apprendimento, soprattutto nella Formazione Pro- fessionale che è chiamata a favorire l’acquisizione di competenze professionali, difficilmente si prestano ad essere rilevati/valutati solo ed esclusivamente attra- verso prove oggettive e non possono non implicare anche il ricorso ad una valuta- zione di carattere “comprensivo” (es. project work, colloquio), che possa consen- tire di cogliere il significato delle risposte date e di analizzare i processi mentali messi in gioco nella realizzazione di una prestazione complessa. Un paradigma valutativo, attento alla soggettività e al tempo stesso all’oggettività del giudizio ed alla praticabilità delle soluzioni operative dal quale l’ISFOL è par- tito nella sua proposta al sistema di Formazione Professionale di dispositivi e stru- menti di valutazione degli apprendimenti, richiede l’adozione di un mix di approc- ci valutativi che spaziano dalla somministrazione di varie tipologie di test a dei momenti di confronto e valutazione di carattere “autentico”, con assunzione di caratteristiche reali. In relazione al filone di attività dell’Istituto sulla “Promozione della Qualità del sistema di Formazione Professionale”, l’Area Politiche ed Offerte per la Forma- zione Iniziale e Permanente si è proposta di concentrarsi sulla elaborazione di modelli, metodologie e strumenti per la valutazione degli apprendimenti quale indicatore di qualità del sistema di Formazione Professionale. “La ricerca-intervento sulla Valutazione degli apprendimenti nella FP” sarà svol- ta a partire dai risultati già conseguiti nell’ambito del sistema nazionale di Istruzione, all’interno di gruppi di lavoro ad hoc e rappresentativi delle diverse istanze formative, e prevede in particolare lo svolgimento delle seguenti attività: 1. confronto all’interno di gruppi di lavoro costituiti ad hoc, rappresentativi delle diverse istanze formative, prendendo in considerazione ed analizzando i risul- tati finora conseguiti nell’ambito del Sistema Nazionale di Istruzione, al fine di individuare e capitalizzare gli approcci valutativi prevalenti e le buone pratiche; 2. ricognizione dei principali approcci valutativi e dei relativi strumenti di verifi- ca degli apprendimenti in atto nel Sistema Nazionale/Regionali di Formazione Professionale, con l’obiettivo di capitalizzare quelli che rispondono a requisiti di validità; 3. definizione delle soluzioni operative da adottare, sia in termini di approcci valu- tativi sia in relazione agli strumenti da realizzare, che rispondano alle esigenze sopra indicate; 4. elaborazione di strumenti di valutazione degli apprendimenti, che abbiano caratteristiche di oggettività ovvero di controllo qualitativo, relative ad alcune competenze di base; 5. sperimentazione delle prove in alcune Regioni sugli allievi frequentanti i corsi trien- nali di diritto/dovere formativo, svolti nell’ambito della Formazione Professionale; 2 0 7 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 207 6. analisi dei risultati conseguiti tramite gli strumenti valutativi somministrati, al fine di validare, attraverso l’applicazione di metodologie appropriate, gli stru- menti stessi; 7. rielaborazione ed adattamento successivo degli strumenti di valutazione, sulla base delle verifiche di validità precedentemente effettuate; 8. elaborazione dei Manuali d’applicazione, che prevedano la descrizione sintetica dei risultati della sperimentazione, finalizzati alla validazione degli strumenti, e contengano le necessarie istruzioni per un corretto utilizzo degli strumenti stessi. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 0 8 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 208 9. NORMATIVA/BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 209 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 210 NORMATIVA NORMATIVA EUROPEA Risoluzione del 1992 e 1996 sulla trasparenza http://www.csc-er.it/mdb-database/rbCMSFiles/CSC1.0/documents/attachment- manager/item379/Risoluzione%20Consiglio%20UE_15.07.96.pdf Consiglio europeo di Lisbona http://www.csc-er.it/mdb-database/rbCMSFiles/CSC1.0/documents/attachment- manager/item425/UE_Lisbona_24.03.00.pdf 17 Dicembre 2003 Proposta di Decisione per la costituzione di un quadro unico per la trasparenza delle competenze e delle qualifiche - COM (2003) 796 http://www.europarl.europa.eu/meetdocs/committees/empl/20040216/com(200 3)0796_IT.pdf Maastricht (dicembre 2004) http://www.csc-er.it/mdb-database/rbCMSFiles/CSC1.0/documents/attachment- manager/item427/UE_Maastricht_14.12.04.pdf European Council (marzo 2005) http://www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/it/ec/84343. pdf European Council (marzo 2006) http://www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/it/ec/89024. pdf European Council (giugno 2006) http://www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/it/ec/90128. pdf European Council (dicembre 2006) http://www.consilium.europa.eu/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/it/ec/92213. pdf 2 1 1 NORMATIVA/BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 211 NORMATIVA NAZIONALE Accordo Stato-Regioni 18 febbraio 2000 http://accreditamento.sirio.regione.lazio.it/normativa/nazionale/Accordo_Confer enza_Stato_Regioni.pdf Decreto ministeriale n.174/2001 Certificazione delle competenze nel sistema della formazione professionale http://www.welfare.gov.it/NR/rdonlyres/eglktvfdnulhwoz5zvp53z2f2dowaqbw- to2vom47tbspl76s6xxfbkjdei5abtfrlaekhbjzgft7neug5sdnmztf56h/dm31051742 001.pdf Decreto Interministeriale n. 152/2001 Individuazione dei contenuti delle attività formative degli apprendisti in OF http://www.wel fare .gov. i t /EaChannel/MenuIst i tuz ionale/normat i- ve/2001/20010516DI+16+maggio+2001+n.+152.htm Accordo in Conferenza Stato-Regioni 19 novembre 2002 Gli standard minimi delle competenze di base e trasversali per gli IFTS http://www.form-azione.it/operatori/Documenti/ifts_indice.pdf Decreto Legislativo n. 276/2003, art. 52 http://www.welfare.gov.it/EaChannel/MenuIstituzionale/normative/2003/ 20030910D.+Lgs+10+settembre+2003+n.+276.htm Accordo in Conferenza Stato-Regioni 29 aprile 2004 Standard minimi delle Competenze Tecnico Professionali per gli IFTS http://www.formazione.it/operatori/Documenti/conferenza_unificata_del_29_04 _2004.pdf Accordo siglato in Conferenza Stato-Regioni il 15 gennaio 2004 Definizione degli standard minimi sulle competenze di base in attuazione dell’Accordo del 19 giugno 2003 http://www.pubblica.istruzione.it/dg_postsecondaria/allegati/cu190104.pdf ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 1 2 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 212 Accordo firmato in Conferenza Unificata il 28 ottobre 2004 Certificazione a validità nazionale finale e intermedia e riconoscimento dei cre- diti formativi http://www.welfare.gov.it/NR/rdonlyres/ezfd6gvnabk6tnktgp2vddc74njvbe4sjvb 6hhjcek6ccn3btlixzrvsigrymrr5nqpnufq362p7cy7mgr27bqyi5ub/ConferenzaUnif icataaccordo.pdf Decreto Interministeriale n. 86/2004 Approvazione dei modelli di certificazione per il riconoscimento crediti, ai fini del passaggio dalla FP e dall’apprendistato al sistema dell’istruzione http://www.isfol.it/isfol/dnload/sf%20di_86_2004.doc Ordinanza ministeriale n. 87/04 Norme concernenti il passaggio dal sistema della FP e dall’apprendistato al sistema dell’istruzione http://www.isfol.it/isfol/dnload/sf%20om_87_04.doc Decreto interministeriale del 10 ottobre 2005 Approvazione del modello di Libretto Formativo del Cittadino http://www.welfare.gov.it/EaChannel/MenuIstituzionale/normative/2005/di1010 2005.htm Accordo delle Regioni del 24 novembre 2005 Riconoscimento reciproco dei titoli in uscita dai percorsi sperimentali trienna- li ex Accordo 19 giugno 2003 http://www.flcgil.it/content/download/2113/14094/version/1/file/Secondo+Ciclo+- +Accordo+Reg-Prov+autonome+titoli+in+uscita+dai+percorsi+sperimentali+trien- nali.pdf Schema di Accordo tra il Ministero dell’Istruzione, del Lavoro, le Regioni e Province Autonome sugli standard minimi delle competenze tecnico professionali http://www.rete.toscana.it/sett/poledu/dirittodovere/accordo.pdf Accordo in Conferenza Unificata del 14 luglio 2005 per la definizione del libretto formativo del cittadino http://www.governo.it/backoffice/allegati/25715-2646.pdf 2 1 3 NORMATIVA/BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 213 Accordo 5 ottobre 2006 (recepito il 20/12/06 dal MPI e dal MPLS) per la defi- nizione degli Standard formativi minimi relativi alle competenze tecnico pro- fessionali in attuazione dell’accordo quadro in conferenza unificata 19 giugno 2003. (Le disposizioni di cui al citato accordo e i relativi allegati si applicano ai percorsi sperimentali di istruzione e formazione professionale, di cui all’Accordo quadro in Conferenza unificata 19 giugno 2003, durante la fase transitoria previ- sta dal dlgs 226/2005.) http://www.pubblica.istruzione.it/dg_postsecondaria/allegati/stato_regio- ni51006.pdf PROVVEDIMENTI REGIONALI Emilia-Romagna: qualifiche professionali e relativi standard formativi approvati con delibere http://www.form-azione.it/operatori/documenti.htm. Liguria: Decreti contenenti Indicazioni regionali (operative per il triennio 2006-2009) per 9 aree professionali (denominazione figura, OSA, competenze ecc.) http://www.regione.liguria.it/MenuSezione.asp?page=http://sirio.regione.liguria.i t/ifl/fp/delib_c_r_23_piano%20ponte_18_7_06.pdf. http://www.regione.liguria.it/MenuSezione.asp?Parametri=10_20_36_207$10_2 0_36_207_$Formazione_professionale$10_20_36_207_-1$dec174.htm$. Lombardia: negli ultimi due anni sono stati adottati una serie di provvedimenti (ancora da formalizzare) per la progettazione dei percorsi sperimentali triennali http://www.istruzione.lombardia.it/riforma/pupazzoni/percorsi/provvedimen- to%20congiunto%20autorizzazione%20sperimentazione.doc www.f lcgi l . i t/content/download/484/2613/vers ion/3/f i le/Scuola+- +Formazione+professionale+-+documento+su+p... Piemonte: DGR n. 152 -3672 del 2-8-2006 “Il sistema regionale degli standard formativi declinato per competenze” http://www.regione.piemonte.it/formaz/competenze/dwd/dgr_stand06.doc Trento: DGP n. 2467 del 18-11-2005, DGP n. 1298 del 23-5-2006 (settore ser- vizi sanitari e socio-assistenziali) http://seminarioeuropa.ciofs-fp.org/%5Cdownload%5Cfiles%5CSergio%20Viglie rchio.ppt ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 1 4 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 214 BIBLIOGRAFIA SEZIONE A AJELLO A. M. (Ed.), La competenza, Bologna, il Mulino, 2002. 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MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA Percorsi di innovazione nell’educazione degli adulti: competenze, formazione, laboratori, Firenze, Le Monnier, 2006. NEGLIA G. (Ed.), Qualità, accreditamento e certificazione della formazione: i risultati di un’indagine nazionale, le testimonianze di esperti ed operatori, Milano, Franco Angeli, 2001. 2 1 5 NORMATIVA/BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 215 QUADERNI DI EURYDICE, Curricoli standard, competenze nell’istruzione secondaria superiore: esperienze internazionali: atti del Convegno, Firenze, 25-26 ottobre 2001, n. 22, 2002. VITERITTI A., (Ed.), I nuovi campi della formazione, in «Scuola Democratica» n. 1/2, Firenze, Le Monnier, 1998. SEZIONE B BUTERA F., La Formazione Tecnico-Professionale Superiore Integrata, Il Docu- mento FIS - Sintesi, Roma 1998. È la sintesi del Documento FIS sulla Formazione Tecnico-Professionale Superiore Integrata. Presenta gli stessi contenuti, in forma più schematica. BUTERA F., Formare i lavoratori della conoscenza. Il progetto della Formazione tecnico-professionale integrata (FIS), in «Annali della Pubblica Istruzione», volu- me 82, 1998. Il volume presenta i risultati aggiornati di una ricerca internazionale condotta nel 1995 in Francia, Germania e Usa riguardante i lavoratori della conoscenza: pro- fessional, tecnici, manager, ma anche impiegati e operai di alto livello. COMITATO NAZIONALE DI PROGETTAZIONE, Linee guida per la progetta- zione dei percorsi formativi, Roma, 1999. Le Linee guida, predisposte dall’ISFOL su incarico del Comitato di Progettazione, si pongono l’obiettivo di fornire un sostegno metodologico a tutti coloro che sono impegnati, a vario titolo, nella progettazione di questo nuovo percorso. COMITATO NAZIONALE DI PROGETTAZIONE, Dichiarazione dei percorsi IFTS, Roma 1999. Il documento illustra le modalità per la certificazione intermedia dei percorsi di istruzione e formazione superiore, approvato nella riunione del 15 luglio 1999 dal Comitato di progettazione Nazionale. COMITATO NAZIONALE DI PROGETTAZIONE, Linee guida per la program- mazione dei progetti pilota 1999-2000 e per le misure di accompagnamento per l’integrazione del Sistema FIS, Roma 1999. Il processo di programmazione si articola su una progressiva messa a punto - sia a livello nazionale che regionale. Gli strumenti che consentono tale risultato sono ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 1 6 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 216 individuati, ad entrambi i livelli, anche nelle linee di programmazione regionale e nazionale. COMITATO NAZIONALE DI PROGETTAZIONE, Linee guida riguardanti la composizione e le funzioni del Comitato regionale di programmazione, promozio- ne, monitoraggio e valutazione della sperimentazione IFTS, Roma 1999. Il Comitato nazionale di progettazione ha approvato queste linee guida quali cri- teri di riferimento per la costituzione dei Comitati regionali di programmazione. COMITATO NAZIONALE DI PROGETTAZIONE, Nota metodologica per la descrizione degli Standard Formativi Minimi relativi alla figura professionale prevista, Roma 1999. Le indicazioni espresse nella nota sono finalizzate ad una più omogenea e coeren- te compilazione della griglia di descrizione dello standard formativo minimo in relazione alle diverse figure professionali. COMITATO NAZIONALE DI PROGETTAZIONE, Schema di disciplinare per i bandi regionali relativi alla presentazione dei progetti pilota dei corsi di istruzio- ne e formazione tecnica superiore per l’anno 1999-2000, Roma 1999. Il documento fornisce indicazioni omogenee e riferimenti alle Regioni in fase di emanazione del bando. CONFERENZA UNIFICATA, Accordo tra governo, regioni, province, comuni e comunità montane, per la programmazione dei percorsi istruzione formazione tecnica superiore per l’anno 2000-2001 e delle relative misure di sistema a norma del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, 2000. Il documento, approvato nella seduta del 14 settembre 2000 della Conferenza Unificata, contiene le indicazione relative alla programmazione anche a livello regionale, all’individuazione delle figure professionali oltre che la Nota operativa per la progettazione, il formulario, lo schema di disciplinare per i bandi regionali, il modello di piano regionale. CONFERENZA UNIFICATA, Accordo tra Governo, regioni, province, comuni e comunità montane per riorganizzare e potenziare l’educazione permanente degli adulti, 2000. Il documento, approvato nella seduta del 2 marzo 2000 della Conferenza Unificata, riguarda l’educazione permanente degli adulti, con un’analisi delle motivazioni e degli strumenti per procedere alla riorganizzazione di questo ambito. 2 1 7 NORMATIVA/BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 217 ISTITUTO DI RICERCA INTERVENTO SUI SISTEMI ORGANIZZATIVI (IRSO), I tecnici superiori per il Made in Italy, Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, Roma, Le Monnier, 2001. Una rassegna delle esperienze di formazione superiore in alcuni Paesi europei e negli Stati Uniti. ISFOL, Nuovi bisogni di professionalità e innovazione del sistema formativo ita- liano. La formazione integrata superiore, Roma, Franco Angeli, 2000. L’indagine è volta ad approfondire gli elementi di contenuto relativi alla doman- da e all’offerta di formazione professionale superiore - tramite un’indagine di campo a livello nazionale e locale - e le loro implicazioni sulla progettazione meto- dologica e pedagogica dei percorsi formativi. Il volume è curato da Anna D’Arcangelo. ISFOL, Unità Capitalizzabili e crediti formativi. I repertori sperimentali, Roma Franco Angeli, 2000. Nel volume si riportano i risultati del lavoro che l’ISFOL ha ricevuto dal Ministero del lavoro e dall’Unione europea, ed in particolare i primi repertori di Unità Capitalizzabili relativi alle competenze di base, trasversali e tecnico-professionali in cinque ambiti professionali. Il volume è curato da Gabriella Di Francesco. ISFOL, Unità Capitalizzabili e crediti formativi. Metodologie e strumenti di lavo- ro, Roma, Franco Angeli, 2000. Si presenta in questo volume il risultato del progetto relativo agli standard forma- tivi. Il lavoro rappresenta una prima restituzione di quanto sin qui realizzato dall’ISFOL in tema di Unità Capitalizzabili e crediti formativi. Il volume è curato da Gabriella Di Francesco. ISFOL, Formare alla sicurezza: sperimentazione Isfol-Ispel di curricoli formativi standard conformi al D. LGS. 624/94, Milano, Franco Angeli, 2001. Il libro si propone di offrire alcune riflessioni e possibili chiavi di lettura e di inter- vento nel campo del benessere, della salute e sicurezza nelle organizzazioni ed un’esplorazione allargata, rispetto ai nuovi approcci e competenze professionali, da parte di unità organizzative e ruoli operanti nell’ambito delle risorse e scienze umane, per futuri scenari di riferimento. MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE - UFFICIO STUDI E PROGRAM- MAZIONE, Nota operativa per la progettazione esecutiva dei percorsi di IFTS, Roma, 1998. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 1 8 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 218 È il documento che contiene le indicazioni relative alle caratteristiche, agli stan- dard, alle figure professionali, ai destinatari, ai crediti formativi dei percorsi IFTS. MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA, Il chi è della scuola italiana.Gli insegnanti, Roma, Le Monnier, 2002. Con il presente volume si è inteso fornire un articolato quadro informativo del per- sonale che opera nella scuola ed è stato possibile elaborare una serie di tabelle e grafici che consentono di rappresentare alcuni principali aspetti del personale della scuola: consistenza, caratteristiche, reclutamento, mobilità, ecc. MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA, Il chi è della scuola italiana. Gli studenti, Roma, Le Monnier, 2002. Il presente lavoro si pone l’obiettivo - mediante l’elaborazione e la prospettazione di dati riferiti all’anno scolastico 2001/2002 - di fornire un articolato quadro informativo sulla consistenza e le caratteristiche della popolazione scolastica delle scuole statali e non statali. MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA, Istruzione e For- mazione Tecnica Superiore (IFTS) 1998-2003, Firenze Le Monnier 2004. Il presente volume tratta lo sviluppo e l’organizzazione del sistema dell’Istruzione e della Formazione Tecnico-Superiore (IFTS), nel contesto nazionale, regionale e locale, in relazione e in funzione delle innovazioni intercorse nel mondo del lavo- ro in questi ultimi anni. Il volume è stato pubblicato nei «Quaderni degli Annali dell’Istruzione» n. 103- 104, a cura di Maria Grazia Nardiello. REGIONE TOSCANA, Manuale d’uso per l’attuazione del sistema di formazione professionale, in «Bollettino Ufficiale della Regione Toscana», volume 42, parte seconda, Firenze 1997. Il manuale si occupa delle azioni di sistema, di quelle che accompagnano e inte- grano il sistema; degli strumenti, dei destinatari, degli aspetti finanziari, delle veri- fiche e dei controlli relativi al sistema di formazione professionale, nonché del pro- cesso di programmazione. STEEDMAN H., Valutazione, certificazione e riconoscimento delle qualifiche e competenze professionali, in «Formazione Professionale», a.1, n.1, gen-apr 1994, pp. 38-45. L’articolo si basa su un documento presentato al seminario organizzato dal Ministero portoghese per l’Istruzione e dall’OCSE il 27-30 ottobre 1992 a Porto. 2 1 9 NORMATIVA/BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 219 SITOGRAFIA http://www.pubblica.istruzione.it/argomenti/portfolio.shtml Nel sistema scolastico riformato il Portfolio delle competenze è strumento unitario che raccoglie ordinatamente e stabilmente le documentazioni più significative del percorso scolastico dell’alunno, registrandone esiti e modalità di svolgimento del suo processo formativo, e accompagnandolo dalla scuola dell’infanzia fino alla conclusione del 1° ciclo di istruzione per tracciare la sua "storia" e per offrirsi in ogni momento a supporto di analisi ragionate e condivise dei risultati ottenuti per i docenti, per l’alunno e per i suoi genitori. http://www.bdp.it/inriforma/ Uno spazio dedicato a tutti gli insegnanti che offre alcuni materiali informativi per un orientamento di base sulle principali innovazioni introdotte dal D.Lgs 59. Gli insegnanti già iscritti a Puntoedu DM61 - Sostegno ai processi d’innovazione (ma anche Inglese e Informatica) possono utilizzare una Community per discute- re ed avere indicazioni da esperti sui temi della Riforma. http://www.seieditrice.com/sei/Docenti/Orientamenti/281/pellerey.pdf documento pdf Il portafoglio formativo progressivo come nuovo strumento di valutazione delle competenze di Michele Pellerey. Sia in campo scolastico, sia in quello universitario, della formazione professionale e della formazione e aggiornamento del personale docente e dirigente della scuola si va diffondendo sempre più incisivamente una trasformazione di prospettiva, che trova indubbi riscontri in ambito internazionale europeo e nordamericano. La transizione in corso porta a valorizzare come centrale il concetto di competenza rispetto a quelli più consueti e tradizionali di contenuti disciplinari, di materie sco- lastiche, di discipline di studio, ecc. http://www.edulab.it/folio/ Il portfolio, più che un prodotto, è, nella nostra concezione, un processo che mira all’acquisizione di competenze autovalutative e una maggiore consapevolezza del proprio appredimento e del proprio profilo professionale. Il portale è costruito in supporto al testo di Pier Giuseppe Rossi: Progettare e costruire il portfolio, Carocci, Roma, 2005. È articolato in sezioni che rispecchiano la struttura del libro. Ogni sezione è orga- nizzata in percorsi tematici che guidano nella esplorazione di siti significativi. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 2 0 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 220 Inoltre vengono proposti materiali elaborati da scuole e istituzioni (che hanno con- cesso la pubblicazione). È presente una bibliografia e una webgrafia, e uno stru- mento di ricerca automatico. http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=IP/06/1148&for- mat=HTML&aged=0&language=IT&guiLanguage=en Il 5 settembre 2006 la Commissione ha adottato una proposta di raccomandazio- ne del Parlamento europeo e del Consiglio relativa all’istituzione di un Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (QEQ). Il QEQ fornirà una lingua comune per descrivere le qualifiche e aiuterà gli Stati membri, i dato- ri di lavoro e gli individui a confrontare le qualifiche dei diversi sistemi di istru- zione e di formazione nell’Ue. http://www.flcgil.it/notizie/news/2006/ottobre/apprendimento_permanente_qua dro_europeo_delle_qualifiche Il problema della certificazione delle competenze acquisite in percorsi anche non formali è alla base del progetto europeo “Education and Training 2010” a cui hanno partecipato 32 Paesi. I Paesi interessati hanno svolto una propria consultazione nazionale, che avrebbe dovuto coinvolgere esperti ed attori interessati allo sviluppo del Quadro Europeo delle Qualifiche (EQF) a livello nazionale. Il progetto si propone di creare un quadro europeo che permetta ai sistemi di qua- lifiche valide a livello nazionale o settoriale di porsi reciprocamente in relazione, in modo da facilitare il riconoscimento delle qualifiche stesse in Europa e facilita- re la mobilità dei lavoratori. http://www.erasmusmundus.it/servlets/resources?contentId=21818&resourceN ame=Inserisci%20allegato documento pdf Il link riporta al documento “Verso un quadro europeo delle qualifiche - European Qualifications Framework - EQF”, presentato dalla Commissione europea - DG Istruzione e Cultura. L’EQF è il punto di riferimento basato sui risultati d’apprendimento. È uno stru- mento per la comparazione delle qualifiche europee. http://www.europarl.europa.eu/news/expert/infopress_page/038-10962-268- 09-39-906-20060922IPR10879-25-09-2006-2006-false/default_it.htm Dimensione europea nell’istruzione e Quadro comune delle qualifiche professiona- li Istruzione - 26-09-2006. 2 2 1 NORMATIVA/BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 221 Il Parlamento chiede di promuovere l’accesso alle informazioni sulle istituzioni e sulle iniziative dell’UE nonché la conoscenza della storia e della cultura europei, ed insiste sull’insegnamento precoce di due lingue straniere. Inoltre saluta con favore la definizione di un Quadro europeo delle qualifiche professionali, ritenen- dolo di «importanza cruciale» per la mobilità dei lavoratori. Ma chiede lo svilup- po di principi europei per la convalida dei processi di apprendimento informali. http://www.europass-italia.it Un passaporto per l’Europa delle opportunità. La mobilità dei cittadini europei costituisce oggi un fattore fondamentale su cui investire per fare dell’Europa “la società della conoscenza più dinamica e compe- titiva del mondo”. Questo messaggio, lanciato in occasione del Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000, ha accompagnato i Paesi e le Istituzioni europee nel- l’individuazione e messa a punto di politiche e strategie volte ad offrire ai cittadi- ni strumenti e servizi per valorizzare il patrimonio di esperienze e conoscenze, e favorire la mobilità geografica e professionale. http://www.ipbz.it/Generale/VisualizzaDescrSezione.aspx?area=7&id=818 L’Istituto Pedagogico per il gruppo linguistico italiano è un istituto di ricerca peda- gogica e didattica che opera in autonomia scientifica. È un ente pubblico strumentale della Provincia Autonoma di Bolzano. Esso persegue le sue finalità attraverso un’attività di ricerca applicata per l’inno- vazione e per la sperimentazione educativa e didattica, per la documentazione e l’informazione nella scuola e nel sistema di educazione, istruzione e formazione, per la formazione continua di insegnanti, educatori e formatori. Opera in campo educativo, formativo, dell’istruzione, della formazione professio- nale, del lifelong learning, per favorire il massimo autonomo sviluppo possibile della persona che abita nella nostra provincia sul piano educativo, culturale, for- mativo e professionale. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 2 2 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 222 STUDI PROGETTI ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE Collana a cura del CIOFS-FP e CNOS-FAP CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 223 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 224 La collana si propone di contribuire al dibattito suscitato in Italia dalla riforma in atto, con particolare attenzione all'attivazione del percorso di Istruzione e di Formazione Professionale. Propone studi, progetti ed esperienze individuandole tra le realizzazio- ni più significative delle diverse organizzazioni impegnate nel settore formativo. 2006, BECCIU M., COLASANTI A.R., La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2006, NICOLI D., MALIZIA G., PIERONI V., Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale nell'anno formativo 2004-2005, (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2006, CNOS-FAP (Ed.), Centro Risorse Educative per l'Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2006, MALIZIA G., NICOLI D., PIERONI V. (Edd.), Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimentali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002 - 2006, (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professiona- le), Roma, CNOS-FAP. 2006, COMOGLIO M. (Ed.), Il Portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i percorsi di istruzione e formazione professionale, (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Torino, CNOS-FAP Piemonte. 2006, AA. VV., Il territorio e il sistema di Istruzione e Formazione Professionale. L'interazione istituzionale per la preparazione delle giovani generazioni all'inserimento lavorativo in rapporto agli obiettivi di Lisbona - Atti del XVII Seminario di Formazione Europea (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP. 2005, CIOFS-FP SICILIA (Ed.), Operatore Servizi Turistici in rete. Rivisitando il pro- getto: le buone prassi. Progettazione, Ricerca, Orientamento, Nuova Imprenditorialità, Inserimento Lavorativo (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professio- nale), Catania. 2005, CNOS-FAP (Ed.), Monitoraggio delle politiche regionali in tema di Istruzione e Formazione Professionale (Studi progetti esperienze per una nuova formazione pro- fessionale), Roma. 2005, CNOS-FAP (Ed.), Percorsi/progetti formativi “destrutturati”. Linee guida per l’inclusione socio-lavorativa di giovani svantaggiati (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma. 2005, CNOS-FAP (Ed.), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica pro- fessionale. Percorsi triennali di Istruzione e Formazione Professionale (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma. 2 2 5 STUDI PROGETTI ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 225 2005, AA.VV., La Formazione Professionale fino alla Formazione Superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità - Atti del XVI Seminario di Formazione Europea (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP. 2005, VALENTE L., Sperimentazione di Percorsi Orientativi Personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP. 2005, POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applica- zioni (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP. 2005, CIOFS-FP PUGLIA (Ed.), OrION Operare per l’Orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Martina Franca. 2005, NICOLI D. (Ed.), Il Diploma di Istruzione e Formazione Professionale (Studi pro- getti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP, CIOFS-FP. 2005, TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2004, AA. VV., Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Catania, Noto, Modica (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), CIOFS-FP Sicilia. 2004, MALIZIA G., ANTONIETTI D., TONINI M., Le parole chiave della formazio- ne professionale (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2004, CNOS-FAP, (Ed.), Comunità professionale Legno e Arredamento - Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma. 2004, CNOS-FAP, CIOFS-FP (Edd.), Comunità professionale Grafica e Multimediale - Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma. 2004, CNOS-FAP, CIOFS-FP (Edd.), Comunità professionale Turistica e Alberghiera - Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma. 2004, CIOFS-FP, CNOS-FAP (Edd.), Comunità professionale Estetica - Guida per l’e- laborazione dei piani formativi personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma. 2004, CIOFS-FP, CNOS-FAP (Edd.), Comunità professionale Commerciale e delle Vendite - Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 2 6 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 226 2004, CNOS-FAP, CIOFS-FP (Edd.), Comunità professionale Elettrica e Elettronica - Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma. 2004, CNOS-FAP, CIOFS-FP (Edd.), Comunità professionale Meccanica - Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma. 2004, CIOFS-FP (Ed.), Comunità professionale Alimentazione - Guida per l’elabora- zione dei piani formativi personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova for- mazione professionale), Roma. 2004, CIOFS-FP (Ed.), Comunità professionale Aziendale e Amministrativa - Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma. 2004, CIOFS-FP (Ed.), Comunità professionale Sociale e Sanitaria - Guida per l’ela- borazione dei piani formativi personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma. 2004, CIOFS-FP (Ed.), Comunità professionale Tessile e Moda – Guida per l’elabora- zione dei piani formativi personalizzati (Studi progetti esperienze per una nuova for- mazione professionale), Roma. 2004, RUTA G. (Ed.), Etica della persona e del lavoro (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2004, AA. VV., Il sistema dell’Istruzione e Formazione Professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi - Atti del XV Seminario di Formazione Europea (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP. 2004, CIOFS-FP PIEMONTE (Ed.), Le competenze orientative - Un approccio meto- dologico e proposte di strumenti (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP. 2004, CIOFS-FP PIEMONTE (Ed.), L’accoglienza nei percorsi formativi-orientativi - Un approccio metodologico e proposte di strumenti (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP. 2004, CIOFS-FP CAMPANIA (Ed.), OrION tra orientamento e network (Studi pro- getti esperienze per una nuova formazione professionale), CIOFS-FP. 2004, NICOLI D. (Ed.), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel siste- ma di istruzione e della formazione professionale (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP, CNOS-FAP. 2004, NICOLI D. (Ed.), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi orga- nici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale (Studi progetti espe- rienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP, CNOS-FAP. 2 2 7 STUDI PROGETTI ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 227 2003, MALIZIA G., PIERONI V. (Edd.), Ricerca azione di supporto alla sperimentazio- ne della formazione professionale iniziale secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS-FP - Rapporto sul Follow-up (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professio- nale), Roma, CIOFS-FP, CNOS-FAP. 2003, CIOFS-FP SICILIA (Ed.), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orientativi (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), CIOFS-FP. 2003, CIOFS-FP BASILICATA (Ed.), L’orientamento nello zaino. Percorso nella Scuola Media Inferiore (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), CIOFS-FP. 2003, ANTONIETTI D., VALENTE L., Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui percorsi formativi (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP. 2003, AA. VV., Un modello per la gestione dei servizi di orientamento (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOF-FP. 2003, TACCONI G. (Ed.), Insieme per un nuovo progetto di formazione (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2003, AA. VV., Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA) - Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2003, MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente (Studi proget- ti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2003, AA. VV., L’orientamento nel CFP - 4. Guida per la gestione dello stage (Studi pro- getti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP Piemonte. 2003, AA. VV., L’orientamento nel CFP - 3. Guida per l’accompagnamento finale (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP Piemonte. 2003, AA. VV., L’orientamento nel CFP - 2. Guida per l’accompagnamento in itinere (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP Piemonte. 2003, AA. VV., L’orientamento nel CFP - 1. Guida per l’accoglienza (Studi progetti espe- rienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP Piemonte. 2003, FONTANA S., TACCONI G., VISENTIN M., Etica e deontologia dell’operatore della FP (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2003, GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo - Una proposta di percorsi per la creazione d’impresa (Studi progetti esperienze per una nuova forma- zione professionale), Roma, CNOS-FAP. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2006 2 2 8 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 228 2003, BECCIU M., COLASANTI A.R., La promozione delle capacità personali - Teoria e prassi (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2003, AA. VV., La formazione professionale per lo sviluppo del territorio - Atti del XIV Seminario di Formazione Europea (Studi progetti esperienze per una nuova formazio- ne professionale), Roma, CIOFS-FP. 2003, AA. VV., Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa - Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS-FP (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP. 2002, MALIZIA G., NICOLI D., PIERONI V. (Edd.), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della formazione professionale iniziale secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS-FP - Rapporto finale (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CIOFS-FP, CNOS-FAP. 2 2 9 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2005 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 229 Tipolitografia: Istituto Salesiano Pio XI - via Umbertide, 11 - 00181 Roma tel. 06.78.27.819 - 06.78.440.102 - Fax 06.78.48.333 - e-mail: tipolito@pcn.net Impaginazione: Meta Studio - via Calpurnio Fiamma, 9 - 00175 Roma tel. 06.76.900.613 - e-mail: metastudio@tele2.it Finito di stampare: dicembre 2006 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 230 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 231 CAP4_2006 2-03-2007 8:55 Pagina 232

Verso una prospettiva di lungo periodo per il sistema della formazione professionale. Il ruolo della rete formativa. Rapporto finale

Autore: 
Claudia Donati, Luigi Bellesi
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2009
Numero pagine: 
74
Verso una prospettiva di lungo periodo per il sistema della formazione professionale Il ruolo della rete formativa Rapporto finale Anno 2007 Claudia DONATI - Luigi BELLESI La Federazione CNOS-FAP ha affidato la presente ricerca al CENSIS. L’indagine è stata realizzata da Claudia DONATI e Luigi BELLESI, ricercatori CENSIS, avvalendosi dell’apporto delle sedi regionali delle Associazioni Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte, Sicilia, Veneto. 3 PRESENTAZIONE La Sede Nazionale del CNOS-FAP, nel corso dell’anno 2009, avvalendosi del CENSIS, ha promosso una ricerca sul ruolo dell’interconnessione delle reti forma- tive per verificarne l’impatto positivo ai fini di una formazione post-secondaria più completa, idonea a considerare aspetti diversi nell’iter formativo, quali: sviluppo delle attitudini professionali; sviluppo delle competenze tecniche e tecnologiche; riconoscimento e potenziamento delle peculiari e autonome identità personali dei soggetti che vi partecipano. Questa ricerca evidenzia in modo particolare l’evoluzione del concetto di Polo formativo nell’ambito dell’istruzione e formazione professionale, definendolo come luogo privilegiato di incontro tra le diverse e variegate offerte educative dell’istru- zione e della formazione professionale tecnico-superiore. Il presente volume, dal titolo “Verso una prospettiva di lungo periodo per il sistema della formazione professionale. Il ruolo della rete formativa. Rapporto finale”, descrive le esperienze regionali di costruzione dei Poli formativi in Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte, Sicilia e Veneto, esperienze forgiate su un modello creato anche con il contributo della Federazione CNOS-FAP. Il risultato maggiormente significativo che emerge da questa ricerca è l’orientamento verso la predilezione di una maggiore radicalizzazione territoriale dell’offerta di istruzione e formazione professionale. Inoltre, l’individuazione di una terminologia specifica può rappresentare un valido aiuto alle autorità politiche e istituzionali verso l’uti- lizzo di un linguaggio comune sul quale fondare l’identità statale dell’istruzione e della formazione professionale. La Sede Nazionale si augura che il presente volume, che contiene alcune espe- rienze significative, possa essere di stimolo e di aiuto a quanti operano, a vario titolo, nel campo dell’istruzione e formazione professionale. La Sede Nazionale CNOS-FAP 5 INTRODUZIONE Negli ultimi anni si è sempre più diffusa la consapevolezza della necessità di pervenire ad una più stretta connessione tra i centri di produzione della cono- scenza ed il tessuto produttivo locale. La ricerca e la sperimentazione di modelli di integrazione ha interessato tutto il segmento della formazione post diploma ed universitaria, allo scopo di accrescere l’innovazione e la competitività a livello locale. L’attivazione di reti formative, più o meno ed in vario modo formalizzate, ha interessato, a partire dalla fine degli anni ’90, soprattutto il segmento della forma- zione post diploma non universitaria, e trae origine dalla constatazione di una lacuna del nostro sistema formativo in merito alla formazione di tecnici intermedi. Come si è visto, il quadro normativo e regolamentativo si è arricchito, via via, di nuovi strumenti e opportunità, arrivando con le più recenti norme a configurare la creazione di un sistema d’offerta più stabile e visibile. Vi sono però numerosi elementi che rendono ancora magmatica la situazione, caratterizzata allo stato attuale da una pluralità di soluzioni operative, correlate ad altrettanto plurali finalità dei modelli attivati, e da una significativa diversificazione dello stato di avanzamento nella attivazione di Poli/distretti/reti formative nelle diverse regioni: — l’esistenza di progetti, sperimentazioni, attività che fanno riferimento a diversi stadi dell’evoluzione normativa, con Regioni che hanno da poco fatto partire la costituzione di poli per gli Ifts e Regioni che già stanno predisponendo un sistema che si collega al recente Dpcm di gennaio 2008 di riorganizzazione dell’intero segmento post diploma; — l’adozione negli anni di una terminologia differenziata che, a parte la denomi- na zione comune di Poli formativi per gli Ifts, si è declinata (o correlata mante- nendo distinte le funzioni ed i campi di intervento) in Campus formativi, di- stretti formativi, Poli formativi tecnologici, ecc., cui vanno aggiunte altre espe- rienze correlate agli interventi di sviluppo locale, quali i patti formativi ed i di- stretti tecnologici; — la conseguente adozione di modelli di aggregazione più o meno ampi, dal punto di vista delle tipologie di formazione e di altri servizi offerti e/o della numerosità e tipologia dei soggetti, e/o del bacino territoriale di riferimento. Anche il riferimento settoriale, ad una specifica filiera produttiva presente sul territorio di riferimento, pur essendo una condizione essenziale della costitu- zione dei Poli Ifts, tende in alcuni casi a sfumare in una dimensione plurisetto- riale o trasversale. 6 In definitiva, la tensione comune verso forme di integrazione tra i sistemi for- mativi e polarizzazione delle competenze e dei soggetti territoriali si sta indiriz- zando verso modelli regionali differenziati, ed a volte anche verso la compresenza di diverse soluzioni in una stessa regione. D’altra parte, si tratta di un segmento d’offerta finalizzato proprio a rispondere a fabbisogni di sviluppo locale necessa- riamente diversificati e che, pur godendo di una struttura più solida di quelle che hanno caratterizzato nel passato altre forme di integrazione, deve poter mantenere un carattere spiccato di flessibilità ed adattabilità alle esigenze via via emerse. Al momento, nonostante alcune Regioni abbiano predisposto i Piani triennali per la formazione superiore previsti dalla più recente normativa, si assiste ad una sorta di “stasi” del processo di istituzione di un segmento di istruzione superiore non accademica più stabile e visibile,1 anche a causa del confronto e delle diver- genze tra istituzioni centrali e regionali, che riguardano un po’ tutto il quadro delle riforme e delle innovazioni in atto. Il quadro regolamentativo si è arricchito solo dell’aggiornamento del reper- torio nazionale delle figure professionali di riferimento a livello nazionale, tramite il recepimento con decreto Miur del 29 maggio 2009 dell’accordo stato-regioni del 5 febbraio 2009. Alcuni interlocutori regionali osservano che, per quanto riguarda il segmento di istruzione superiore, appare preferibile consolidare il sistema basato sui Poli, piuttosto che creare nuove ed ulteriori aggregazioni, di natura anche giuridica di- versa e di più difficile realizzazione. Ne consegue che la programmazione formativa effettuata nel corso del 2009 tende a ricalcare quella degli anni passati, con il finanziamento di percorsi Ifts tramite procedure di selezione, che a seconda delle realtà regionali sono riservate ai soli Poli o ampliate ad altre realtà formative. 1 Le ultime disposizioni legislative in materia (Finanziaria 2007 e cd Decreto Bersani) fanno sì che gli Ifts siano da considerarsi parte dell’ordinamento nazionale e, dunque, dal 2008, costi- tuiscono un segmento del sistema di istruzione e formazione. 7 1. L’evoluzione del concetto di Polo formativo nell’ambito dell’istruzione e formazione tecnica superiore Il concetto di Polo formativo viene elaborato come dispositivo di programma- zione dell’offerta formativa regionale tecnico superiore nell’ambito dell’Accordo in sede di conferenza unificata del 25 novembre 2004 (in s.o. n. 160 a G.U. n. 225 del 27.9.2005), che fissava i criteri per la programmazione dei percorsi Ifts del triennio 2004-2006 e delle relative misure di sistema. Principale finalità di tale accordo è quella di orientare la programmazione regionale su base triennale secondo criteri ispirati al consolidamento e alla territo- rializzazione della suddetta offerta. Per questa ragione è stata promossa la crea- zione dei Poli formativi per l’istruzione e la formazione tecnica superiore, quali elementi di superamento della frammentazione formativa e volano di una maggiore cooperazione in rete. I Poli vengono quindi ad essere non solo le denominazioni assunte dai soggetti formativi attuatori – istituti scolastici o sedi formative accreditate dalle Regioni – destinatari degli interventi previsti dai Piani regionali, ma costituiscono gli ambiti organizzativi della nuova offerta, all’interno dei quali scuole ed enti formativi devono strutturare più stabili relazioni di rete con gli altri soggetti che operano nei campi della ricerca, dell’università e dell’impresa. I principali obiettivi, che i Poli Formativi si pongono, consistono, infatti, nel- l’assicurare i collegamenti dei percorsi Ifts con i processi di innovazione e di trasferimento tecnologico e le relazioni tra istruzione, formazione e ricerca; nel capitalizzare il know how accumulato; nell’assicurare la riconoscibilità del sistema Ifts sul territorio, con sedi stabili riferite a specifici settori produttivi; nel rilanciare la competitività dei settori produttivi a sostegno soprattutto delle piccole e medie imprese; nello sviluppare, infine, la continuità con i percorsi di istruzione e forma- zione professionale. Le Regioni, da parte loro, tenendo conto delle priorità della propria programma- zione, sono chiamate ad attivare i Poli in aree afferenti allo sviluppo e alla vocazio - ne del territorio e per le quali siano state accertate particolari esigenze connesse al- l’innovazione tecnologica e alla ricerca in collaborazione con università, scuola, enti di ricerca, impresa, enti di formazione (parti costituenti degli stessi poli), garantendo così un’offerta formativa più qualificata e più aderente alle specificità terri toriali. 1.1. Dal Polo formativo per gli Ifts agli ITS La legge 40 del 2007 ed il successivo Decreto della presidenza del Consiglio dei Ministri del 25 gennaio 2008 “Linee guida per la riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione tecnica superiore e la costituzione degli istituti tecnici 8 superiori” hanno impresso un’ulteriore spinta a garanzia della stabilità dei Poli e dell’ampliamento delle aggregazioni reticolari loro sottese, con ulteriori possibilità di coinvolgimento delle istanze territoriali. Al fine di meglio comprendere attraverso quali traiettorie di integrazione le nuove disposizioni normative intendano raggiungere tali finalità, occorre illustrare il nuovo modello di governance previsto a supporto della riorganizzazione del sistema dell’Ifts. Asse portante del modello sono gli Istituti Tecnici Superiori (Its), una nuova tipologia di enti chiamati a realizzare percorsi formativi finalizzati all’acquisizione da parte dei giovani ed adulti di un diploma di specializzazione tecnica superiore in aree tecnologiche ritenute prioritarie dagli indirizzi nazionali di programmazione, con riferimento al quadro strategico dell’Unione Europea: – efficienza energetica; – mobilità sostenibile; – nuove tecnologie della vita; – nuove tecnologie per il made in Italy; – tecnologie innovative per i beni e le attività culturali; – tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ogni Regione autonomamente potrà prevederne o meno la costituzione, attra- verso la trasformazione delle strutture già impegnate nella precedente program - mazione in conformità con il dettato dell’art. 13 della suddetta legge e dei criteri presenti nelle linee guida. Gli Its – che devono concorrere alla diffusione della cultura tecnica e scienti- fica – si caratterizzano al pari di enti che hanno come particolarità intrinseca quella di scaturire dalla stabilizzazione di un partenariato multiattore. Infatti, se previsti dai Piani territoriali di intervento, deliberati dalle Regioni e dalle Province Autonome di Trento e Bolzano nell’esercizio della loro esclusiva competenza in materia di programmazione dell’offerta formativa, trovano il loro ente di riferimento in un istituto tecnico o professionale che, in partenariato con un ente locale, una struttura formativa accreditata per l’alta formazione, un’impresa del settore di riferimento, un dipartimento universitario o altro, ne promuove la costituzione in fondazione di partecipazione. In virtù delle diverse scelte strategiche e del diverso stato dell’arte, le Regioni nel corso del 2009 hanno dato luogo a modalità di programmazione diversificate e solo alcune hanno cercato di dare impulso al processo di riforma. In particolare, la maggioranza delle Regioni, ovvero quelle che prima delle novità legislative erano ancora impegnate nell’avvio o nel consolidamento dei Poli (attualmente presenti o programmati in 15 regioni) si è orientata verso una “manuten zione ordinaria” dell’esistente, a parte il fatto di dover predisporre dei piani territoriali triennali come presupposto indispensabile per la programmazione ed attivazione di percorsi Ifts. 9 1 . La Fo ndaz i o ne i n p art eci p az i o ne La Fo ndaz i o ne i n p art eci p az i o ne è un istituto giuridico che costituisce il nuovo modello italiano di gestione pubblico-privata di iniziative non-profit. I soggetti che aderiscono alla Fondazione devono apportare denaro, beni materiali o immateriali, professionalità o serv izi. È un’opportunità per valorizzare il ruolo e il pa- trimonio degli istituti tecnici e professionali e degli Enti Locali, nonché per integrare stabilmente le risorse messe a disposizione dal mondo del lavoro e da altri soggetti pubblici e privati. È uno strumento flessibile e articolato, già utilizzato in altri ambiti di interesse gene- rale e di utilità sociale per iniziative senza fini di lucro, che coniuga l’elemento patri- moniale della Fondazione con l’elemento personale dell’associazione, agevola l’inte- grazione delle risorse garantendo il riconoscimento delle diverse identità dell’auto- nomia dei soggetti che v i partecipano. La Fondazione acquista personalità giuridica mediante iscrizione del registro delle per- sone giuridiche istituito presso la prefettura, a norma del D.P.R 10 febbraio 2000, n. 361, articolo 1. Sono organi della Fondazione: - il Consiglio di indirizzo; - la Giunta esecutiva, di cui sono membri di diritto: il dirigente scolastico dell’istituto tecnico o professionale fondatore e il rappresentante dell’Ente locale fondatore; - il Presidente; - il Comitato tecnico scientifico; - l’Assemblea di partecipazione; - il Rev isore dei conti. Emilia Romagna e Toscana, che sostanzialmente ancora non avevano attivato Poli formativi ma finanziavano singole esperienze di Ifts, nel corso del primo seme - stre 2009 hanno dato avvio alla riorganizzazione del sistema di istruzione superiore in linea con il Dpcm del 2008, ma tale processo sembra essersi interrotto o co- munque sospeso in attesa di una maggiore definizione dell’architettura normativa e regolamentativa. 1.2. Oltre gli ITS i Poli tecnico professionali I “Poli tecnico-professionali” di cui all’art. 13 della legge 40/07 sono ulteriori aggregazioni tra soggetti afferenti a sistemi formativi diversi. Essi devono avere na- tura consortile in quanto costituiti nel rispetto delle modalità previste dall’articolo 7, comma 10, del regolamento del D.p.r n. 275/99,2 che riconosce alle isti tuzioni scola- stiche la facoltà di poter costituire o aderire a consorzi pubblici e privati per assol- 2 Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59. 10 vere compiti istituzionali coerenti con i rispettivi Piani dell’offerta formativa e per l’acquisizione di servizi e beni che facilitino lo svolgimento dei compiti di carattere formativo. Essi possono essere attivati da Istituti scolastici tecnici e professionali, enti di formazione professionale e possono anche aggregare eventuali Its. L’attribuzione della natura consortile ai Poli segna un passo in avanti a favore della stabilità di tale tipologia di “aggregazione funzionale” e della realizzazione dei molteplici compiti loro attribuiti dalla stessa legge 40/07, tenuto conto che i precedenti “Poli”, costituiti ai sensi dell’accordo in sede di conferenza unificata del 25 novembre 2004, avevano quale prevalente forma giuridico-organizzativa il Raggruppamento Temporaneo di Scopo. La stessa legge 40/07 prevede altresì che essi siano “costituiti sulla base della programmazione dell’offerta formativa, comprensiva della formazione tecnica superiore delle Regioni, che concorrono alla loro realizzazione in relazione alla partecipazione delle strutture formative di competenza regionale”, rimandando alle rispettive convenzioni costitutive l’individuazione degli organi deputati alla loro governance. 1.3. Verso una programmazione regionale triennale Le Regioni, in virtù di quanto disposto dal Dpcm del 25 gennaio 2008 sono tenute ad elaborare dei Piani territoriali triennali all’interno dei quali riorganizzare la pregressa offerta di istruzione e formazione tecnica superiore alla luce delle nuove previsioni normative e avviare la costituzione degli Its, oltre che perseguire misure di sistema per l’integrazione del sottosistema nel suo complesso, per il raf- forzamento dei Poli Ifts e per la loro eventuale trasformazione in Its. Sono stati esaminati i Piani territoriali di quelle Regioni che ad oggi, seppure in periodi diversi, hanno adempiuto al riguardo: Emilia Romagna, Toscana, Liguria, Lazio, Friuli Venezia Giulia e Marche.3 I contenuti dei documenti programmatici risentono del clima di incertezza e/o indefinitezza normativa che caratterizza il livello nazionale. Pertanto, i percorsi Ifts e le correlate azioni di revisione e rafforzamento costituiscono in ciascuna delle fattispecie esaminate il baricentro della programmazione di filiera; solo in due casi, Emilia Romagna e Toscana, si è tentato di implementare le norme per la costitu- zione degli Its (l’Emilia-Romagna ha ritirato l’invito per le candidature a costituire 3 Per completezza di informazione si evidenzia che alla base della programmazione dei per- corsi di istruzione e formazione tecnica superiore vi sono preesistenti accordi territoriali di dette amministrazioni con i rispettivi Uffici Scolastici Regionali: nel caso della Lombardia precedente al Dpcm del 28/01/2008 e di tipo verticale, ovvero centrato solo sulla programmazione plurien- nale di detta filiera e delle relative misure di sistema; nel caso dell’Abruzzo di tipo orizzontale, ovvero finalizzato al- l’attuazione delle linee di intervento, che per finalità e caratteristiche coinvolgono le diverse istituzioni scolastiche regionali nell’ambito del Piano 2007-2008 – Documento per l’avvio degli interventi del nuovo Programma Operativo – FSE Abruzzo 2007-2013, tra le quali appunto “raf- 11 Its, mentre della Toscana non si hanno informazioni sugli esiti dell’analoga proce- dura), nel resto delle Regioni, invece, sono state avviate iniziative esplorative o di concertazione istituzionale, quando non ci si è limitati a mere dichiarazioni di intenti; infine, solo in un caso (Emilia Romagna) nel disegno programmatorio è stato compreso anche il “Polo Tecnico”, adattamento regionale della fattispecie nazionale del Polo Tecnico Professionale. 1.3.1. I piani territoriali regionali Emilia Romagna Tra le finalità della programmazione 2008-2010 (riallineamento domanda di professionalità e offerta di competenze, innovazione formativa, ecc) individua quella di “riorganizzare e finalizzare l’offerta – pur in un possibile continuum for- mativo – a livelli diversi di specializzazione delle competenze, rispondenti ai bi- sogni delle persone e del mercato”. In questa prospettiva si collocano i “Poli tecnici”, che pure essendo il risultato dell’aggregazione di soggetti titolari di attività formative su temi specifici e specia- lizzati, solitamente ascrivibili a determinati contesti produttivi sub-regionali, ven- gono chiamati a svolgere il ruolo di “rete regionale” dell’offerta formativa alta, specialistica e superiore, in quanto erogatori di servizi formativi a favore di tutti i soggetti che nella regione possono fare riferimento al loro ambito tematico di inter- vento (per ulteriori dettagli cfr. Cap. 3 Emilia Romagna). A partire dalle aree tecnologiche previste dall’art. 7 del Dpcm vengono indivi- duati ambiti settoriali correlati e coerenti con le vocazioni produttive dei territori e rispondenti ai principali settori di futuro sviluppo e di innovazione strategica per la Regione. Si individuano, nell’ordine, quali opzioni formative della filiera dell’offerta di formazione alta e specialistica e superiore: corsi proposti dagli Its (1800/2000 ore), corsi Ifts (800-1000 ore), corsi di formazione superiore e di alta formazione riferiti al Sistema Regionale delle Qualifiche e rispondenti a fabbisogni dei mercati locali. L’attivazione delle tre tipologie di intervento è previsto che scaturisca dalla correla- zione tra le aree tecnologiche nazionali, gli ambiti settoriali regionali, le figure na- zionali Ifts, le aree professionali del Sistema Regionale delle Qualifiche, finalizzata a garantire la maggiore rispondenza e compatibilità tra aree ed ambiti, figure e aree professionali. In sintesi, l’insieme delle attività formative in rete (Poli Tecnici Regionali) si realizza a partire da un’offerta di percorsi di formazione specialistica (Ifts) e supe- riore (corsi brevi a qualifica) relazionati e coordinati con la formazione alta pro- posta dagli Its. Con la delibera n. 1079 del 6 maggio 2009 la Giunta Regionale dell’Emilia Romagna ha però di fatto cancellato gran parte delle linee programmatiche prece- dentemente delineate, decidendo di non attivare, per la mancanza a livello nazio- 2 . Requi s i t i s t rut t ural i e funz i o nal i p rev i s t i dal l a Reg i o ne Emi l i a Ro mag na p er l a co s t i t uz i o ne deg l i It s Requi s i ti s truttural i del partenari ato Dipartimento Istituto Organismo universitario o Ente scolastico Fp Impresa organismo locale del sistema RS&T Descrizione e quantità risorse finanziarie, logistiche, strutturali e di altro tipo X X X X X rese disponibili per Fondazione Its Descrizione e quantità risorse umane, strutturali e di altro tipo X X X X X rese disponibili per Fondazione Its Pregressa esperienza nella realizzazione Ifts X X X Pregressa esperienza nell’attuazione di misure per l’integrazione X X X dei sistemi formativ i nell’ambito Ifts N° addetti (2006-2008) X Fatturato (2006-2008) X Tasso internazionalizzazione X Possesso o meno di brevetti X Partecipazione in programmi X di ricerca e sviluppo Pi ano tri ennal e del l e atti v i tà – Ti po l o g i e di i nterv ento A Ricognizione dei fabbisogni formativi per lo sviluppo e l’innovazione delle im- p r e s e con particolare riferimento alle Pmi B Progettazione e realizzazione dell’offerta di formazione alta e specialistica se- c o n d o le seguenti opzioni – Indicare durata prevista B.1 Corso di istruzione tecnica superiore di durata biennale (1800-2000 ore) B.2 Corsi Ifts di durata annuale (800-1000 ore) – Indicare quanti, di 12 q u a n t e ore e per quale figura di riferimento nazionale C (a partire dal II anno) Accompagnamento al lavoro dei giovani specializzati a conclusione dei percorsi D Attività di aggiornamento rivolte al personale impegnato nella realizzazioned e i percorsi D.1 Aggiornamento del personale docente, sia della scuola sia della Fp,in discipline scientifiche e tecnico- professionali D.2 Formazione dei formatori (didattico-metodologica) E Orientamento dei giovani verso le professioni tecniche anche con il coinvolgi- m e n t o delle famiglie F Altre attività riferite all’offerta di formazione alta, specialistica superiore Ini zi ati v e di co l l eg amento , racco rdo i nteg razi o ne 1 Esemplificazione di apposite iniziative strutturate per un reale collegamento c o n : 1.1 L’offerta di istruzione per l’ambito settoriale di riferimento 1.2 I centri per l’innovazione, laboratori di ricerca industriale di cui alla L.R. N. 7/2002 Descrivere sinteticamente come la Fondazione intenda sviluppare le relazioni con il contesto socioeconomico del territorio nell’ambito settoriale di riferimento, te- n u t o conto anche degli obiettivi fissati per gli Its dal Dpcm del 25/01/08 con partico- l a r e 13 nale “degli indispensabili riferimenti normativi e regolamentari” e per l’impossibi- lità di rispettare “la tempistica prevista nella programmazione regionale”, gli Its e di revocare l’invito pubblico, in scadenza nei primi mesi del 2009, a presentare candidature (la cui descrizione vien di seguito riportata come primo esempio nazio- nale di traduzione della nuova normativa sull’istruzione e la formazione tecnica superiore in procedura di evidenza pubblica). Nel box 2 di approfondimento, nello specifico, sono state illustrate le caratteri- stiche strutturali e funzionali previste dal suddetto invito, per i soggetti/partenariati che intendano candidarsi. Al di là dei requisiti strutturali richiesti ai membri del partenariato (Istituto scolastico-capofila, Organismo Fp, Impresa, Dipartimento universitario o Orga- nismo del sistema RS&T, Ente locale), tesi a comprovare solidità ed esperienza della compagine partenariale, è interessante analizzare la gamma dei compiti e delle funzioni che i costituendi Its sono chiamati a svolgere nell’ambito del loro Piano triennale di attività, acquisendo una posizione di baricentro per l’attuazione della stessa programmazione regionale: 14 – in primo luogo, come attività propedeutica e necessaria per garantire un’offerta formativa coerente con i fabbisogni dei territori di riferimento, devono realiz- zare una ricognizione dei fabbisogni formativi per lo sviluppo e l’innovazione delle imprese con particolare riferimento alle PMI; – in secondo luogo, sono chiamati ad erogare un’offerta formativa differenziata in corsi di istruzione tecnica superiore di durata biennale (1800-2000 ore) e Corsi Ifts di durata annuale (800-1000 ore), divenendo così soggetti formativi di riferimento anche per i percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore finalizzati al conseguimento di un certificato di specializzazione tecnica, che, ai sensi del Dpcm del 2008, mantengono lo stesso impianto didattico e orga- nizzativo previsto dall’art. 69 legge n. 144/99, istitutivo degli stessi; – in terzo luogo, gli Its dovranno altresì prestare servizi di accompagnamento al lavoro dei giovani specializzati a conclusione dei percorsi, di orientamento dei giovani e delle loro famiglie verso le professioni tecniche, di aggiornamento del personale docente e realizzare iniziative di raccordo con il territorio, ov- vero una gamma di compiti funzionali al raggiungimento degli specifici obiet- tivi con cui il comma 2 art. 2 – capo II del Dpcm del 2008 delinea i contorni della riorganizzazione del sistema Ifts. Toscana Il documento di programmazione toscano (2007-2009) si concentra su due delle tre tipologie di intervento previste dall’art. 2 del Dpcm del 25 gennaio 2008 per la riorganizzazione dell’istruzione e formazione tecnica superiore: • offerta formativa assicurata attraverso gli Its: costituzione di un Its per pro- vincia, oltre ad almeno un Its per circondario (Empolese-Vandelsa e Val di Cornia); definizione dei criteri di selezione e delle figure professionali di rife- rimento per ciascuna delle provincie/circondari; • offerta formativa concernente i percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts). Vengono ridefiniti gli standard e le funzioni dei percorsi di Ifts: durata 800/1000 ore, corrispondenza delle figure professionali con quelle definite a livello nazionale e nel rispetto degli standard di competenze. Inoltre, vengono fornite indicazioni programmatiche in favore dell’integrazione della filiera: in ciascuna provincia possono essere attivati corsi Ifts preferibilmente in relazione a ciascuna delle figure professionali per le quali si è programmata l’istituzione di un Its; dal momento dell’istituzione di un Its non possono es- sere attivati corsi Ifts rivolti alle figure professionali oggetto di intervento degli Its; i corsi Ifts programmati in risposta alle esigenze espresse da imprese o da singole reti di imprese hanno la priorità rispetto ad altre ipotesi di intervento. Non viene presa in considerazione la terza tipologia di intervento prevista dal succitato art. 2, ovvero misure per facilitare lo sviluppo di Poli Tecnico Professio- nali. 15 La scadenza dell’invito alla presentazione di candidature per la costituzione degli Its inizialmente fissata per il 13 marzo 2009, con decreto dirigenziale è stata procrastinata al 20 aprile 2009. Ad oggi, non ci sono notizie sullo stato di avanza- mento di tale procedura, il cui completamento risulta essere dirimente, come nel caso dell’Emilia Romagna, per la realizzazione o meno delle linee programmatiche regionali in materia di istruzione e formazione tecnica superiore. Regione Lazio Il piano triennale del Lazio (2008-2010) riguarda: • la realizzazione dei percorsi Ifts a bando e riservati ai Poli formativi già costi- tuiti. Gli stessi percorsi sono disciplinati nel dettaglio dagli Accordi e dal Dpcm del 25 gennaio 2008. A seguito della sperimentazione dei Poli formativi, avviati nel 2008, l’Amministrazione regionale intende anche diversificare l’offerta, valutando meccanismi premiali per l’occupabilità dei cittadini formati. • l’attuazione di misure di sistema finalizzate allo sviluppo e al rafforzamento dei Poli formativi, al fine di rendere più efficace la loro attività sul territorio, valorizzando le competenze derivanti dalla sinergia tra scuola, formazione ricerca e mondo del lavoro. • l’implementazione di misure tese alla costituzione degli Its, ovvero attività di concertazione e approfondimento con Istituzione e Parti Sociali, in attesa di una situazione normativa più definita. Si prevedono finanziamenti per il funzionamento di edifici e laboratori solo per il 2010. Friuli Venezia Giulia Il piano triennale 2009-2011 prende in esame i seguenti ambiti di intervento: • realizzazione dei percorsi Ifts. Rispetto a questo ambito di intervento il docu- mento prevede di consolidare il processo di qualificazione e potenziamento del sistema regionale di formazione tecnica superiore, attraverso il completamento della sperimentazione dei modelli di Polo formativo Ifts sviluppati in Friuli Venezia Giulia a partire dal 2005; di promuovere sperimentalmente, all’interno di ciascuno Polo, un’offerta aggiuntiva rispetto ai percorsi Ifts, estendendone in tal modo la competenza rispetto ad altre tipologie formative (qualificazione superiore post-diploma, formazione permanente per gruppi omogenei, ecc). Allo scopo viene programmata l’emanazione di un avviso pubblico finalizzato all’individuazione di Poli formativi nei settori dell’economia del mare, dell’in- dustria meccanica, dell’industria del legno, del mobile e dell’arredo, dell’ICT e dell’Agroalimentare; • costituzione degli istituti tecnici superiori (Its): in attesa di una definizione del quadro normativo nazionale di riferimento, la Regione intende attivare un per- corso di consultazione istituzionale per valutare la fattibilità e la sostenibilità economica dell’istituzione degli Its e verificare con il Ministero dell’istruzione 16 la possibilità di accesso ad ulteriori fonti di finanziamento. Nell’individuazione degli Its si afferma che si terrà conto anche della possibilità di una trasforma- zione in tal senso dei Poli Ifts selezionati attraverso la procedura di evidenza pubblica descritta al punto precedente. Liguria Il piano territoriale 2007-2009 si attua mediante la pianificazione di percorsi Ifts (800-1000 ore) e la definizione di un piano di comunicazione per facilitare lo sviluppo dei Poli formativi (ICT, Economia del Mare, Turistico Alberghiero), già costituiti con deliberazioni di Giunta regionale, e la diffusione delle opportunità of- ferte dalla riorganizzazione del Sistema di Istruzione e Formazione Superiore. Al- l’interno non è contenuta alcuna previsione in merito alla costituzione degli Its. Regione Marche L’avviso pubblico per la presentazione dei progetti di formazione per percorsi Ifts, pubblicato nel luglio del 2008, concorre alla realizzazione del Piano di inter- vento territoriale per il sistema dell’istruzione e formazione tecnica superiore. L’avviso finanzia 10 corsi per 10 figure tecniche di formazione superiore tra quelle indicate all’interno dell’avviso stesso e selezionate a seguito di un’apposita indagine regionale sui fabbisogni formativi, che ha fornito una serie di indicazioni rispetto sia ai filoni tipici del tessuto produttivo marchigiano (in quanto tali da rivi- talizzare) sia ai filoni cosiddetti emergenti. La Regione ha inteso, inoltre, finanziare 3 progetti pilota ascrivibili alle pro- fessioni dell’innovazione produttiva e organizzativa, poiché rappresentano uno sbocco privilegiato per la fascia più alta dell’offerta formativa, in aree quali: effi- cienza energetica, mobilità sostenibile, nuove tecnologie della vita, nuove tecno- logie per il made in Italy, tecnologie innovative peri i beni e le attività culturali, tecnologie dell’informazione e della comunicazione. 17 PIEMONTE PROTOCOLLO D’INTESA stipulato in data 8 giugno 2004 tra la Regione Piemonte, la Regione Sardegna, il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, il Ministero del La- voro e delle Politiche Sociali per la costituzione di due Poli Formativi: nel settore della la- vorazione e trasformazione delle materie plastiche (plasturgia) e nel settore ICT Wireless. ACCORDO TERRITORIALE tra la Regione Piemonte – Assessorato delle Politiche So- ciali e della famiglia, Aspetti socio-assistenziali del fenomeno immigratorio, Volontariato, Affari Internazionali, Formazione Professionale – Direzione Formazione Professionale – Lavoro e il M.I.U.R. – Direzione scolastica regionale per il Piemonte per l’attuazione del Protocollo con la Regione Sardegna stipulato in data 8 giugno 2004. INDIRIZZI GENERALI per l’individuazione di un modello di Polo formativo per l’istru- zione e la formazione tecnica superiore (Ifts) – Approvati con D.G.R. n. 24 - 3997 del 09/10/06. BANDO PER LA PRESENTAZIONE DI CANDIDATURE E PROPOSTE PROGET- TUALI - Poli formativi per l’Ifts D.D. n. 606 del 27/10/06. Det. 6 2 0 del 1 0 -1 2 -0 8 – Approvazione delle attività 2008-2009 – Progetti di Ifts dei Poli formativi – POR FSE 2007-2013. LIGURIA ACCORDO TERRITORIALE per la costituzione del “Polo formativo dell’economia del mare” sottoscritto il 4 agosto 2005 e accompagnato da un documento programmatico che illustra motivi, contesto e obiettivi del “Polo”, promosso con delibera di Giunta regionale n.849 del 29 luglio 2005. Obiettivo dell’Accordo territoriale per il “Polo” è la sperimentazione di nuov i modelli di percorsi di istruzione e formazione integrati indirizzati alle figure professionali del com- parto della navalmeccanica, cantieristica ed attiv ità marittimo-portuali. A seguito dell’accordo la Regione Liguria ha inoltre reso pubblici due documenti contenenti le linee guida per la programmazione triennale e le indicazioni regionali per il sistema Ifts nell’Area professionale “Nautica-Economia del mare”. D. G. R. 3 3 8 -0 7 2 0 0 6 -2 0 0 7 Programmazione della prima annualità della seconda edi- zione di 5 corsi Ifts afferenti al Polo Formativo per l’Economia del mare – comparto tra- sporto marittimo. D. G. R. 5 7 -0 7 2 0 0 7 -2 0 1 0 Iniziativa regionale sperimentale per percorsi di istruzione e formazione professionale nell’ambito del Polo formativo dell’Economia del Mare, per il triennio 2007-2010, nonché avviso di presentazione e selezione delle candidature dei sog- getti attuatori. POLO FORMATIVO – ICT ACCORDO TERRITORIALE del 2 1 / 0 3 / 2 0 0 7 tra Re- gione Liguria, Provincia di Genova, Provincia di Imperia, Provincia di La Spezia, Provincia di Savona, Università degli studi di Genova, Ufficio scolastico regionale per la Liguria, Union camere Liguria Associazione Festival della Scienza, Confindustria Liguria Cnr Iitn, Isict, Siit-Sistemi intelligenti integrati tecnologia, Confindustria Liguria, CGIL, CISL, UIL. ACCORDO TERRITORIALE PER LA REALIZZAZIONE DEL POLO FORMATIVO TURISTICO ALBERGHIERO del 1 6 / 11 / 2 0 0 7 tra Regione Liguria, Provincia di Ge- nova, Provincia di Savona, Provincia di la Spezia, Provincia di Imperia, Università degli studi di Genova, Ufficio scolastico regionale per la Liguria, Unioncamere Liguria, Ascom Confcommercio, Federalberghi Liguria, Assoturismo, Confesercenti, Confindustria Liguria, 1.4. Rassegna della produzione normativa e regolamentativa in materia di Poli formativi - Ifts 18 Coordinamento dei parchi liguri, Fiavet, Cgil, Cisl, Uil. Deliberazione della Giunta Regionale n. 951 del 01/08/2008 “APPROVAZIONE DEL PIANO TERRITORIALE 2 0 0 7 / 2 0 0 9 – PERCORSI Ifts 2 0 0 8 e dell’avviso pubblico di Chiamata per i relativi progetti”. Successiva individuazione dei soggetti attuatori con DGR 1620/08. LOMBARDIA INTESA TRA REGIONE LOMBARDIA E UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE DELLA LOMBARDIA DELL’11 / 0 1 / 2 0 0 5 per la progettazione, a partire dall’anno for- mativo 2004/2005, e la realizzazione, a partire dall’anno formativo 2005/2006, di una of- ferta formativa sperimentale su base territoriale di istruzione e formazione professionale (Progetto “Campus dell’istruzione e formazione professionale”), nonché di percorsi Ifts (istruzione e formazione tecnica superiore) per l’Automazione industriale (A.I.) e le Tecno- logie d’informazione e comunicazione (T.I.C.) con la collaborazione del Polo Qualità della Scuola di Milano (PQS), di Assolombarda e dell’Associazione Industriali Monza e Brianza. Con l’intesa siglata l’11 gennaio 2005 tra Regione Lombardia e Ufficio Scolastico Regio- nale sono stati avviati due progetti Campus: 1-settore meccanica avanzata e automazione in- dustriale (Milano); 2-settore ICT (Milano). Altri due progetti Campus sono nati da una auto- noma iniziativa locale alla fine del 2005: 1-progetto Campus nel settore v itiv inicoltura, enogastronomia e marketing da sperimentare nella prov incia di Pav ia; 2-progetto Campus nel settore moda e marketing da sperimentare nella provincia di Milano. Successivamente alla fase sperimentale dei Campus, la Regione Lombardia ha inteso pro- muovere l’attivazione di Poli Formativi, al fine di rendere visibile l’offerta formativa pro- fessionalizzante del sistema di istruzione e formazione professionale, del sistema liceale, dell’istruzione tecnica superiore, della formazione continua e permanente lungo tutto l’arco della vita, quali modelli innovativi di intervento. Per la costituzione dei poli sono stati pubblicati due avvisi pubblici; il primo con D.D.G. n. 1755 del 17/02/2006 “Invito alla presentazione di candidature per la realizzazione di Poli Formativi quali modelli innovativi di intervento per la competitività del sistema socio eco- nomico lombardo, per la presentazione di candidature da parte dei soggetti che intendevano costituirsi in Poli formativi”; il secondo in forma di “Invito a gara ristretta per la realizza- zione delle attività dei Poli formativi percorsi Ifts 06-08 e azioni di sistema 06-07”. Il bando, pertanto, è riservato alle candidature ritenute ammissibili a seguito della fase di pre- selezione e ha rappresentato il secondo passaggio di valutazione e di selezione ai fini della realizzazione dei Poli formativi. ACCORDO TERRITORIALE TRA LA REGIONE LOMBARDIA E L’UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE DEL 2 2 / 0 3 / 2 0 0 6 per l’integrazione e lo sviluppo delle intese attuative dell’Accordo Stato-Regioni del 19 giugno 2003, per il rinnovo dell’offerta formativa sperimentale di istruzione e formazione professionale a partire dal 2006/2007 (nell’ambito di quanto previsto dal Capo II, III e IV del Decreto Legislativo n. 226 del 17 ottobre 2005) e per la definizione del Piano pluriennale regionale per la programmazione dei percorsi Ifts 2004/2006 e delle relative misure di sistema. VENETO D. G. R. n. 11 0 2 del 1 8 marzo 2 0 0 5 , con cui viene approvato un accordo tra la Regione Veneto, la Direzione Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto, le Ammini- strazioni provinciali, l’Università e le Parti Sociali avente ad oggetto la costituzione di Poli formativi per l’istruzione e la formazione tecnica superiore e l’attivazione di percorsi Ifts sulla base delle priorità per le aree ed i settori del territorio regionale espresse dalle Ammini- strazioni Provinciali. Tale accordo è stato sottoscritto tra le parti in data 2 novembre 2005. D. G. R. n. 3 3 2 2 del l ’8 no v embre 2 0 0 5 , con cui sono stati riconosciuti n. 12 Poli for- 19 mativi per l’Istruzione e la formazione tecnica Superiore (Ifts) ed approvati n. 24 percorsi di tecnico per l’anno formativo 2005-2006. ACCORDO TERRITORIALE del 0 2 / 11 / 2 0 0 5 tra la Regione Veneto – Assessorato alle Politiche dell’Occupazione, della Formazione, dell’Organizzazione e delle Autonomie lo- cali, il Miur – Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto – Direzioni Generali Provincia di Belluno, Provincia di Vicenza, Provincia di Padova, Provincia di Rovigo, Provincia di Tre- viso, Provincia di Venezia, Provincia di Verona, Università degli studi di Padova, Università degli studi di Venezia Cà Foscari, Università degli studi di Verona, I.U.A.V, Cgil, Cisl, Uil, Confartigianato del Veneto per la realizzazione dei percorsi Ifts 2004-2006. Co nv enzi o ne tra Reg i o ne Veneto e Di rezi o ne General e per l ’Uffi ci o Sco l a- s ti co per i l Veneto del 1 7 / 11 / 2 0 0 5 per regolazione dei rapporti nascenti dalla D.G.R. 3322 dell’08/11/2005. D. G. R. n. 2 3 2 6 del 2 7 . 0 7 . 2 0 0 6 , con cui si approva il Protocollo d’intesa tra l’Ufficio Scolastico Regionale e la Regione del Veneto per la realizzazione, in via sperimentale, di sette Distretti Formativi che riguardano i seguenti ambiti: meccatronico, robotico, agroali- mentare, moda, turistico, nautico. D. G. R. n. 3 6 5 4 del 2 3 no v embre 2 0 0 6 : Progetti di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (Ifts). Approvazione percorsi per l’anno formativo 2006-2007. D. G. R. n. 4 3 0 8 del 2 8 di cembre 2 0 0 6 , con cui si costituisce l’Associazione “Acca- demia del mare di Venezia” e si promuove l’adesione della Regione Veneto all’Associazione “Accademia del mare di Venezia” in qualità di associato fondatore. FRIULI VENEZIA GIULIA D. G. R. n. 3 0 4 9 del 2 1 no v embre 2 0 0 5 , con cui la Regione Friuli Venezia Giulia indi- vidua, a seguito di avviso pubblico, 4 Poli Formativi relativi ai seguenti settori economici: ICT, industria del legno e del mobile, economia del mare, industria meccanica. Ci rco l are 1 / 2 0 0 6 per la presentazione del piano annuale di attuazione dei Poli 2007 e Decreto Di ri g enzi al e 4 9 9 del 0 2 / 0 4 / 2 0 0 7 e Decreto Di ri g enzi al e 5 0 0 del 0 2 / 0 4 / 2 0 0 7 rispettivamente per le azioni di ricerca e buone prassi e per le azioni forma- tive. Decreto Di ri g enzi al e n. 1 3 4 8 del 2 9 / 0 7 / 2 0 0 8 , con cui viene approvato il Pro- gramma annuale di Attuazione 2008 dei Poli Formativi Ifts. UMBRIA D. G. R. n. 8 6 8 del 3 1 mag g i o 2 0 0 6 , relativa all’”Avviso Pubblico per l’individua- zione delle candidature per la costituzione di Poli formativi per la realizzazione dell’offerta formativa integrata di istruzione e formazione tecnica superiore per il periodo 2006-2008”. I Poli formativ i indiv iduati come rispondenti al fabbisogno territoriale regionale sono 2, relativ i al settore industria e in particolare ai comparti “tessile, abbigliamento e moda” e “meccatronica”. D. D. n. 1 0 9 0 0 del 2 9 / 11 / 2 0 0 6 “POR Ob. 3 2000/2006” “selezione candidature Poli Formativi Ifts 2006-2008: esiti della valutazione, approvazione Piano e impegno di spesa”. Pro v i nci a di Perug i a, D. D. n. 1 2 8 4 6 del 2 1 / 1 2 / 2 0 0 7 e D. D. n. 1 0 9 0 1 del 9 / 11 / 2 0 0 7 , con cui sono stati approvati i progetti esecutivi dei corsi Ifts gestiti dai Poli Formativi. MARCHE Pro to co l l o d’i ntes a per l a real i zzazi o ne del Pi ano Nazi o nal e Integ rato per i l s etto re cal zaturi ero , s o tto s cri tto i l 1 6 / 0 3 / 2 0 0 5 da Ministero dell’Istruzione, del- l’Università e della Ricerca, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e Regioni Con- 20 findustria, Anci, CGIL, CISL, UIL, Filtea-CGIL, Femca-CISL, Uilta-UIL. La Regione Marche, Assessorato alla Conoscenza, Istruzione, Formazione e Lavoro, ha ade- rito all’attuazione del protocollo d’intesa per il settore calzaturiero. Nell’incontro del 09.09.2005 tra Miur, Regioni, Datori di lavoro e Associazioni di lavoratori, al fine di realiz- zare il Piano Formativo Nazionale Integrato per il settore calzaturiero, è stato predisposto il Piano delle Misure Nazionali di Sistema che affida alla Regione Marche accurate priorità. La Regione Marche ha inoltre predisposto una serie di riunioni operative istituendo il Comitato di Pilotaggio del Polo, che, a seguito di una puntuale ricognizione dei fabbisogni formativ i delle imprese di settore, ha approvato due percorsi sperimentali Ifts. D. G. R. n. 5 7 4 del 1 5 mag g i o 2 0 0 6 , con cui si approva l’Accordo territoriale per la costituzione del “Polo formativo e tecnologico” nel settore delle calzature tra la Regione Marche – Assessorato alla conoscenza, Istruzione, Formazione e Lavoro, il Miur – Ufficio Scolastico Regionale per le Marche – Direzione Generale, Province di Macerata, Ascoli Pi- ceno, Ancona e Pesaro, Urbino, Università di Macerata, Camerino, Urbino, Politecnica delle Marche, Associazioni imprenditoriali e Organizzazioni sindacali Filtea Cgil, Femca Cisl, Uilta Uil. Decreto del di ri g ente del l a P. F. , i s truzi o ne, di ri tto al l o s tudi o e rendi co nta- zi o ne n. 2 0 0 / i ds del 3 1 / 0 7 / 2 0 0 8 con cui viene emanato l’avviso pubblico per la pre- sentazione dei progetti di formazione per percorsi di istruzione formazione tecnica superiore (Ifts), Anno 2008-09. (Por Marche Ob.2 Fser 2007-2013 Asse IV.O.S.). LAZIO D. D. n. D4 3 3 0 del 2 8 / 11 / 2 0 0 6 , co n cui l a Reg i o ne Lazi o ha pubbl i cato l ’“Av v i s o pubbl i co per l a pres entazi o ne del l e candi dature per l a co s ti tuzi o ne di Po l i fo rmati v i per l ’i s truzi o ne e l a fo rmazi o ne tecni ca s uperi o re (Ifts ) 2 0 0 6 / 2 0 0 7 ”, successivamente individuati con det. D0114/07 e D0226/07. MOLISE D. G. R. n. 9 8 1 del 1 3 l ug l i o 2 0 0 6 , con cui la Regione Molise ha approvato la nuova programmazione delle attività regionali Ifts 2004-2006. Il Comitato Regionale per l’Ifts, allargato alla partecipazione di una più vasta rappresentanza di parti sociali e datoriali, ha stabilito di attuare la suddetta programmazione mediante l’istitu- zione di un Polo formativo nel settore agroalimentare. A tal fine è stato bandito un invito alla presentazione di candidature di partenariati per la gestione del polo e delle relative attiv ità. ABRUZZO D. G. R. n. 7 9 2 del 3 ag o s to 2 0 0 7 , con cui la Regione Abruzzo ha pubblicato le Dispo- sizioni per la costituzione dei Poli formativi sperimentali e per la realizzazione dei percorsi Ifts. I Poli costituiti sono 4, relativ i ai seguenti settori economici: Elettronica, Serv izi (settore trasporto aereo), Agroalimentare, Meccanico. D. G. R. n. 7 6 2 del 1 2 ag o s to 2 0 0 8 , con cui viene approvato l’“Avviso per la costitu- zione dei Poli formativi finalizzati alla realizzazione dei Percorsi Ifts nel settore Tes- sile/Abbigliamento/Moda”, a seguito dell’adesione della Regione Abruzzo al Protocollo di intesa tra il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, il Miur, Confindustria, Federazione Imprese Tessili e Moda Italiane, le Confederazioni Sindacali Cgil, Cisl e Uil, Filtra Cgil, Femca Cisl, Uilta Uil. CAMPANIA 21 D. D. n. 7 4 del 1 7 no v embre 2 0 0 6 , con cui la Regione Campania ha pubblicato l’“Avviso pubblico per la presentazione di candidature finalizzato all’individuazione dei Poli formativi per l’Istruzione e la Formazione Tecnica Superiore (Ifts)” da realizzare anche con il contri- buto del Fse per il periodo 2007-2009 – P.O.R.Campania 2000-2006. Asse III. Misura 3.7. Azione A. Indi ri zzi g eneral i per l ’i ndi v i duazi o ne di un mo del l o reg i o nal e di “Po l o fo r- mati v o per l ’Ifts ”, approvato dal CTR per l’Ifts il 15/11/2006. D. D. n. 25 del 30 g iugno 2008 Area Generale di Coordinamento Istruzione-Educazione- For ma zione professionale-Politica giovanile e del Forum Regionale della Gioventù-Osserva- torio Regionale del Mercato del Lavoro (Ormel) Settore Politiche giovanili e del Forum Regio- nale della Gioventù-Presa d’atto accordo procedimentale tra Regione Campania e Direzione Scolastica Regionale per l’attuazione del Polo Sociale Ifts. Modifica Accordo del 06/12/2007 (Art. 15 L. n. 241/90). D. G. R. n. 5 3 4 del 2 8 marzo 2 0 0 8 , con cui viene approvato il Piano Regionale Ifts: Poli Formativi e Progetti Pilota-Programmazione risorse finanziarie. D. G. R. n. 1 / 2 0 0 9 – Approvazione Linee guida per la progettazione esecutiva dei Poli for- mativi Ifts ex D.D. 43 del 24/07/07 e Linee guida per la progettazione esecutiva dell’azione di sistema dei progetti pilota Ifts. DEL. 1 0 6 2 del 5 g i ug no 2 0 0 9 – Attuazione Piano regionale Ifts 2009-2013. CALABRIA “Inv i to al l a pres entazi o ne di candi dature per l a co s ti tuzi o ne di Po l i fo rmati v i per l a real i zzazi o ne del l ’o fferta fo rmati v a i nteg rata d’i s truzi o ne e fo rmazi o ne tecni ca s uperi o re (Ifts ) per l ’anno 2 0 0 6 -2 0 0 7 ” e relativi allegati, in attuazione della D. G. R. n. 5 9 5 del l ’8 ag o s to 2 0 0 6 e D. G. R. n. 7 2 7 del 0 7 . 11 . 2 0 0 6 “Is ti tuzi o - ne nuo v o Po l o fo rmati v o Ifts e appro v azi o ne l i nee g ui da atti v i tà bi enni o 2 0 0 6 -2 0 0 7 ”. D. D. n. 1 8 9 5 2 del 2 9 di cembre 2 0 0 6 , con cui la Regione Calabria ha pubblicato l’in- vito alla presentazione di candidature per la costituzione di Poli formativi per la realizza- zione dell’offerta formativa integrata di istruzione formazione tecnica superiore (Ifts) per il biennio 2006-2008. SICILIA Av v i s o Pubbl i co per l a co s ti tuzi o ne di Po l i fo rmati v i per l ’i s truzi o ne e l a fo r- mazi o ne tecni ca s uperi o re (Ifts ) 2 0 0 6 / 2 0 0 7 del 3 g ennai o 2 0 0 6 , pubblicato da parte dell’Assessorato regionale beni culturali, ambientali e pubblica istruzione Diparti- mento pubblica istruzione. DDG n. 3 6 / XIV del 30/01/07– Approvazione della graduatoria dei Poli formativi per gli Ifts e DDG 831/XIV del 02/08/07 – Individuazione del Polo formativo per le nuove tecno- logie. SARDEGNA PROTOCOLLO D’INTESA stipulato in data 8 giugno 2004 tra la Regione Sardegna, la Regione Piemonte, il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, il Ministero del La- voro e delle Politiche Sociali per la costituzione di due Poli Formativi: nel settore della la- vorazione e trasformazione delle materie plastiche (plasturgia) e nel settore ICT Wireless. In sede di Comitato regionale per l’Ifts, è stata assunta la decisione di costituire gradual- mente ulteriori Poli formativ i, con carattere interprov inciale, in settori considerati strate- gici per lo sv iluppo della Sardegna: trasporti, ambiente, agroalimentare. 23 2. Riferimenti terminologici La più avanzata esperienza di aggregazione/integrazione di più soggetti intorno a determinati obiettivi formativi è quella che ha preso avvio a partire dall’introdu- zione, nel nostro sistema d’offerta, di percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts). Dal 2004, infatti, come specificato più in dettaglio nelle pagine seguenti, in virtù di un Accordo in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni, si sono poste le basi per la creazione di “Poli formativi per gli Ifts”, stabilendo alcune caratteristiche comuni a tutte le esperienze eventualmente poste in essere sul terri- torio nazionale. Ciononostante, il combinato disposto di stati d’avanzamento diversi, adat - tamento alla realtà locale (sia in termini di soggetti presenti sia in relazione alle pregresse o coeve esperienze di integrazione/collaborazione) ed, infine, le diffe- renti politiche formative messe in atto dalle Regioni, hanno fatto sì che, nel corso degli anni, si sia assistito ad una stratificazione di iniziative, che hanno a volte assunto anche denominazioni diverse, e a “curvature” diverse dell’esperienza dei Poli. Di seguito, si illustrano sinteticamente i diversi termini che sono stati o sono ancora oggi utilizzati per indicare i diversi modelli di “Polo” sperimentati sul terri- torio nazionale, sia in relazione con il processo di “stabilizzazione” della filiera postsecondaria, sia in relazione ad altre forme di aggregazione locale finalizzate ad implementare lo sviluppo locale tramite la realizzazione di attività formative di diversa natura. 2.1. Campus La creazione di Campus, intesi come “centri polivalenti” e “comunità di ap- prendimento”, per il raccordo tra la filiera liceale e quella dell’istruzione e forma- zione professionale (secondo il modello riforma della legge 53/2003 cosiddetta legge “Moratti”) è prevista dal Decreto legislativo 226 del 17/10/2005 “Definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni sul secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione ai sensi della legge 28 marzo 2003, n.53.”, all’art. 1 comma 15. Tale denominazione è considerata un sinonimo di “Polo formativo”, inteso in senso lato. Esso si pone l’obiettivo di fornire unitarietà all’attività educativa formativa e, di conseguenza, l’accento è posto non tanto sulla composizione della rete dei soggetti attuatori quanto più sull’offerta formativa organizzata territorialmente, anche se si richiede di assicurare la rappresentanza di associazioni imprenditoriali ed enti locali. 24 Art . 1 co mma 1 5 Dl g s 2 2 6 / 2 0 0 5 I percorsi del sistema dei licei e quelli del sistema di istruzione e formazione professio- nale possono essere realizzati in un’unica sede, anche sulla base di apposite conven- zioni tra le istituzioni scolastiche e formative interessate. Ognuno dei percorsi di inse- gnamento- apprendimento ha una propria identità ordinamentale e curricolare. I percorsi dei licei inoltre, ed in particolare di quelli articolati in indirizzi di cui all’articolo 2, comma 8, possono raccordarsi con i percorsi di istruzione e formazione professionale costi- tuendo, insieme, un centro polivalente denominato “Campus” o “Polo formativo”. Le convenzioni predette prevedono modalità di gestione e coordinamento delle attiv ità che assicurino la rappresentanza delle istituzioni scolastiche e formative interessate, delle associa- zioni imprenditoriali del settore economico e tecnologico di riferimento e degli enti lo- cali. La sperimentazione di Poli formativi (in senso lato), ispirati al modello Campus prefigurato dalla riforma “Moratti” è stata portata avanti nella sola Regione Lombardia, a partire dal 2005, sulla base di una Intesa siglata tra Regione e Ufficio scolastico regionale (11 gennaio 2005). Tale Intesa prefigura la creazione di Poli che propongano sia un’offerta speri- mentale di istruzione e formazione professionale (filiera Moratti), sia un’offerta di Ifts, correlandosi dunque a quanto appena stabilito dalla Conferenza Unificata del 25 novembre 2004 in materia di Poli formativi per gli Ifts, in modo da: – garantire un’offerta di qualità, territorialmente e settorialmente connotata, aggregando vari soggetti e attivando percorsi con vari livelli d’uscita, dalla qualifica al diploma di tecnico superiore; – promuovere “Poli di eccellenza”, con una maggiore stabilità e una prospettiva pluriennale di intervento. Dall’Intesa è partita una prima sperimentazione di due progetti Campus, nel settore meccanica avanzata e automazione industriale (Milano) e nel settore Ict (Milano). Alla fine del 2005, su iniziativa locale sono stati creati altri due Campus: – progetto Campus nel settore vitivinicoltura, enogastronomia e marketing da sperimentare nella provincia di Pavia; – progetto Campus nel settore moda e marketing da sperimentare nella provincia di Milano. A partire dalla sperimentazione dei Campus, ed in considerazione della sospensione del processo di riforma della scuola secondaria di II grado avviato con la legge 53, anche la Regione Lombardia si è indirizzata verso la definizione di “Polo formativo”. 25 Il termine “Campus” è ancora rintracciabile nel sito del Polo di Pavia, ad indi- care una rete di istituti e centri di formazione professionale nata per contrastare la dispersione scolastica. 2.2. Poli formativi per gli Ifts Costituiscono la prima evoluzione verso una maggiore stabilità ed omogeneità, a livello nazionale, dell’offerta e dell’architettura istituzionale della filiera dell’i- stru zione tecnico superiore. Essi sono stati, infatti, definiti nell’Accordo della Con- ferenza Unificata Governo-Regioni del 25/11/2004, quale possibile ed auspi cabile forma di aggregazione dei soggetti attuatori dei percorsi Ifts. Ciò allo scopo di assi- curare una maggiore visibilità, stabilità e qualità dell’offerta, favorire lo sviluppo di reti di collaborazione a livello locale, nazionale, comunitario (cfr. Cap. I per mag- giori dettagli su evoluzione normativa e regolamentativa del concetto di “Polo”). Il partenariato, rispetto alle precedenti esperienze di Ifts che prevedono la colla- borazione tra istituti scolastici, formazione professionale, università ed imprese, si allarga ai Centri di ricerca pubblici e privati. Essi hanno una connotazione di tipo settoriale, e legata alla programmazione postsecondaria. La loro costituzione avrebbe dovuto modificare la modalità di assegnazione delle risorse tramite bando di gara, sostituti con strumenti di programmazione negoziata, anche se in effetti ancora nel- l’ultima programmazione in molte regioni si è ricorsi ad un “sistema misto”, così come in altre i Poli, o parte dei Poli previsti, sono ancora in via di costituzione. La programmazione regionale in materia si intreccia con iniziative di respiro nazionale/interregionale: – nel settore calzaturiero, moda, tessile, la concertazione con le Parti sociali ha prodotto un Accordo quadro per il rilancio del settore, prevedendo anche la realizzazione di specifiche iniziative all’interno di Poli Ifts appositamente costituitisi; – nelle regioni del Mezzogiorno, il Miur con i fondi Cipe ha promosso espe- rienze di Ifts, prefigurando un modello di intervento basato su una rete di par- tenariati, nella quale sia compreso uno specifico nodo di interfaccia con gruppi di consulenza ed assistenza tecnica, per risolvere eventuali problemi didattici ed organizzativi. L’obiettivo è quello di pervenire ad un collegamento organico tra il sistema di Ifts e il sistema di ricerca scientifica e tecnologia del Mezzo- giorno. 2.3. Distretti formativi Una prima definizione di Distretto formativo è quella proposta da Confindustria, nell’ambito del Rapporto “Education 2004”, al fine di rafforzare il legame tra offerta formativa e fabbisogni di innovazione dei sistemi economici locali. Si tratta in parti- colare di soggetti di supporto alla crescita e competitività dei distretti industriali. Un esempio di sperimentazione di tale fattispecie di “Distretto formativo” è quello che si sta realizzando in Sardegna, nell’ambito del programma Equal 26 “Distretti Formativi e produttivi Nord Sardegna” (cfr. Box di approfondimento 3), in un’ottica integrata di collegamento sistemico e strutturato fra i rappresentanti del contesto imprenditoriale locale e quello scolastico-formativo, per creare una rete stabile che favorisca l’alternanza e l’integrazione scuola-lavoro, nella quale le scuole e le imprese abbiano un ruolo sostanziale. In questa esperienza, il distretto formativo è definito come un sistema educa- tivo locale caratterizzato da una doppia integrazione: – verticale: livelli di interazione-cooperazione tra sistemi formativi presenti e mondo del lavoro, risorse culturali, sistema della ricerca; – orizzontale: l’insieme di rapporti e strumenti funzionali al conseguimento di obiettivi condivisi tra le diverse tipologie formative del territorio, anche in rap- porto ai passaggi che possono realizzarsi tra percorsi in parallelo o al transito verso sistemi sovraordinati ed a una strutturazione dell’offerta formativa ricor- rente e continua lungo tutto l’arco della vita. Il termine Distretto formativo identifica anche la più recente evoluzione dei “Poli formativi” costituitisi nella Regione Veneto. Essi sono definiti come sistemi educativi locali che si caratterizzano per l’interazione di una pluralità di offerte educative, frutto dell’insieme di rapporti e strumenti funzionali al conseguimento di obiettivi condivisi tra le diverse tipologie formative. Il Distretto Formativo si configura come contesto privilegiato di incontro tra le istanze provenienti dal mer- cato del lavoro e dal sistema economico e la progettazione dell’offerta formativa. I rapporti tra i diversi soggetti coinvolti sono regolati da Associazioni Temporanee di Scopo (Ats) ma è prevista anche la possibilità di assumere una forma consortile. La creazione di Distretti Formativi, potenziando il consolidamento di relazioni stabili tra i diversi enti e soggetti istituzionali (di cui si stanno studiando le rela- zioni ed integrazioni con i preesistenti 12 Poli formativi per gli Ifts), garantisce il delinearsi di un’offerta formativa organica a livello territoriale e facilita l’assun- zione di decisioni consapevoli da parte degli studenti e delle famiglie sia nella transizione alla scuola secondaria di II grado, sia in relazione ad eventuali cambia- menti di percorso e passaggi tra sistemi. L’avvio dei Distretti Formativi del Veneto si basa su un Protocollo d’intesa tra Regione Veneto e Direzione generale dell’Ufficio scolastico regionale per il Veneto (D.G.R. 2326 del 2006), per l’identificazione, in specifiche aree territoriali, di forme di aggregazione che, pur partendo dall’esperienza maturata nell’ambito della Formazione Tecnica Superiore, siano messe in grado di orientarsi verso una collaborazione stabile, ma ampliata a più livelli formativi. I Soggetti partecipanti ai Distretti formativi, attraverso intese funzionali, possono realizzare: – percorsi flessibili al fine di garantire a tutti l’esercizio del diritto/dovere, anche mediante l’apprendistato; – attuare l’alternanza scuola-lavoro, proseguire nella formazione tecnica supe- riore o negli studi a livello universitario; 27 – fruire delle opportunità per la riconversione professionale o per l’aggiorna- mento in un’ottica di apprendimento permanente lungo tutto l’arco della vita. Come per i Poli per gli Ifts, anche per i Distretti formativi del Veneto è stata individuata una “composizione minima” del partenariato, ovvero: – un istituto di istruzione secondaria superiore; – un’università o dipartimenti universitari, anche presenti attraverso consorzi, fondazioni o altre forme associative; – un centro di ricerca; – un’associazione imprenditoriale di categoria, imprese o associazioni di imprese; – un organismo di formazione professionale. 3 . Bo x di ap p ro fo ndi ment o s ui requi s i t i s t rut t ural i e funz i o nal i p rev i s t i dal l a Reg i o ne Emi l i a Ro mag na p er l a co s t i t uz i o ne deg l i It s Pro g etto Equal “Di s tretti fo rmati v i e pro dutti v i No rd Sardeg na” Il progetto Distretti formativ i e produttiv i Nord Sardegna rientra nel Programma di Ini- ziativa Comunitaria Equal II fase. È stato presentato da una Partnership di Sviluppo (PS)*, con capofila l’Associazione degli Industriali del Nord Sardegna, cui hanno aderito una business school, cinque istituti d’istruzione secondaria superiore della zona e l’Uni- versità di Sassari. La finalità del progetto è quella di sostenere il potenziale locale creando un di s tretto fo rmati v o e pro dutti v o , per migliorare le iniziative esistenti e valorizzare le po- tenzialità di soggetti locali pubblici e privati, all’interno di una rete stabile che integri i sistemi di istruzione e formazione, il sistema economico-produttivo ed il sistema cul- turale e sociale. Esso parte dalla constatazione dell’esistenza di problemi di dispersione scolastica, di disoccupazione giovanile, di elevati abbandoni universitari e di tendenza alla diminu- zione delle iscrizioni alla locale Università (Sassari) in favore di altri atenei, soprat- tutto fuori del territorio regionale. Esso si propone: - l’integrazione ed il miglioramento dell’offerta esistente; - la costruzione di strumenti di relazione tra il Distretto Formativo e gli ambiti produt- tivi del Nord Sardegna; - il rafforzamento delle politiche di sostegno alle persone; - l’utilizzo di modelli e strumenti per la valorizzazione della complementarietà, attra- verso il rafforzamento di azioni di comuni ca zione e di dialogo interorganizzativo, dei diversi soggetti pubblici e privati locali, con ruoli e funzioni nella progettazione, gestione, valutazione e sorveglianza dei servizi offerti; - l’adeguamento di metodologie di Formazione dei Formatori. * Raggruppamento di soggetti appositamente creato per l’attuazione di un progetto Equal, costituito da una pluralità di organismi con competenze ed esperienze diversi- ficate. Essi agiscono in un’ottica di cooperazione attiva sulla base della definizione congiunta di obiettivi comuni, ruoli e responsabilità formalizzati in un accordo di 28 partnership sottoscritto da tutti i partecipanti. La eventuale attivazione di percorsi Ifts deve rispondere al quadro giuridico nazionale comune ed alle disposizioni regionali in materia, coerenti con il livello nazionale. I percorsi che prevedono il rilascio di titoli regionali devono, invece, fare riferimento alle disposizioni regionali in materia (ad esempio, l’ultima D.G.R. n. 3245 del 28 ottobre 2008 che disciplina i “Percorsi integrati tra il sistema della formazione professionale e gli Istituti professionali. Riconoscimento azioni forma- tive da attuarsi nel biennio 2008-2009 e 2009-2010, ovvero le attività della Terza area professionalizzante degli istituti professionali – ma tra i corsi approvati non c’è alcun intervento di un Distretto Formativo in quanto tale). 2.4. Poli di formazione tecnologica Si tratta di una diversa denominazione proposta, nel 2005, per i Poli formativi per gli Ifts, correlata ovviamente ad una specifica strategia di sviluppo degli stessi, tramite il conferimento ai Poli di laboratori tecnologici adeguati a sostenere il per- corso formativo nel suo complesso. Tale denominazione, proposta dal “Piano per promuovere l’innovazione, la crescita e l’occupazione in attuazione del rilancio della Strategia di Lisbona” (Pico), della Presidenza del Consiglio (2006-2008), sot- tende una nuova concezione del Polo formativo, inteso non solo come laboratorio di innovazione curriculare e didattica ma anche come “Centro Servizi” specialistici per lo sviluppo delle imprese del territorio. In particolare, il suddetto Pico propone la creazione di “poli di formazione tecnologica, finalizzati a rilanciare la competi- tività dei settori produttivi in crisi e a favorire il trasferimento tecnologico, presso Centri polivalenti in concorso tra istituzioni scolastiche e formative, enti locali, il sistema produttivo locale e le sedi della ricerca scientifica e tecnologica”. In effetti tale denominazione, in base a quanto emerge dal Secondo Rapporto sullo stato di attuazione del Piano Nazionale di Riforma – Strategia di Lisbona, del 2007 è stata ben presto curvata verso quella di Poli tecnico-professionali, in coerenza con quanto stabilito dalla legge 40/2007. 2.5. Polo formativo tecnologico Tale denominazione è considerata una ulteriore evoluzione del concetto di Polo formativo per gli Ifts, in quanto i Poli formativi e tecnologici prevedono oltre alla formazione, il trasferimento di tecnologia. Denominazione assunta dal Polo formativo per gli Ifts attivato nella Regione Marche, nell’ambito dell’Accordo quadro nazionale per il rilancio del settore tessile, abbigliamento, moda (D.G.R. 574 del 15 maggio 2006 e Protocollo d’Intesa del 16 marzo 2005 per la realizzazione del Piano nazionale integrato per il settore calzaturiero). 29 2.6. Poli tecnico-professionali Si tratta di un’ulteriore innovazione, che si innesta sul processo di “stabilizza- zione dell’offerta postsecondaria, in atto dal 2004 con la costituzione di “Poli for- mativi”. La legge 40/2007 definisce i Poli tecnico-professionali come “organismi costi- tuiti sulla base della programmazione dell’offerta formativa, comprensiva della formazione tecnica superiore, delle Regioni, che concorrono alla loro realizzazione in relazione alla partecipazione delle strutture formative di competenza regionale. I Poli sono costituiti con il fine di promuovere in modo stabile ed organico la diffu- sione della cultura scientifica e tecnica e di sostenere le misure per la crescita so- ciale, economica e produttiva del paese”. Possono far parte dei Poli tecnico-professionali, gli Its, ovvero Istituti Tecnico Superiori, composti da partenariati che si organizzano come “Fondazioni di parteci- pazione”, con capofila un istituto tecnico o professionale, per la realizzazione di percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore, diversi dagli Ifts (che pos- sono essere realizzati dal Polo tecnico-professionale). Stante il quadro di compe- tenze in materia, ogni regione potrà autonomamente decidere se costituire o meno gli Its. Allo stato attuale, la maggior parte delle Regioni è ancora impegnata nella strutturazione e implementazione dei Poli per gli Ifts, così come definiti nella Con- ferenza Unificata del 2004. Emilia Romagna e Toscana hanno avviato il processo di individuazione degli Its, ma entrambe le Regioni si caratterizzano per non aver attivato in precedenza alcun Polo per gli Ifts. 2.7. Poli di settore Si tratta di un’altra denominazione con cui vengono appellati i costituendi Poli tecnico-professionali, in quanto articolati intorno a 6 aree strategiche di sviluppo individuate in correlazione con le politiche di sostegno allo sviluppo produttivo del paese (Ministero dello Sviluppo Economico). 2.8. Poli formativi d’eccellenza Denominazione utilizzata: – dalla Regione Marche per identificare organismi/realtà del sistema d’offerta re- gionale da sostenere, anche finanziariamente (con risorse regionali), in quanto eccellenze regionali che creano occupazione, innalzano la qualità del lavoro e valorizzano la cultura locale. Nel 2006 sono state individuate tre strutture (confermate nella programmazione 2007): l’Istituto musicale pareggiato “G.B. Pergolesi” di Ancona, Il Centro TAM- trattamento artistico dei metalli di Pie- trarubbia (PU) e l’Istituto superiore di gastronomia “Italcook” di Jesi. 30 – dalla Regione Friuli Venezia Giulia per identificare un ambito privilegiato per lo sviluppo economico della regione, entro cui fare confluire, in forma inte- grata ed in un’ottica di distretto tecnologico, azioni legate alla ricerca, sviluppo e trasferimento tecnologico, le politiche attive per il lavoro, la formazione e lo sviluppo delle risorse umane. Nel documento di Pianificazione periodica delle attività (Ppo) per l’anno 2008, in relazione al Por obiettivo 2 “Competitività regionale ed occupazione” si individuano due poli d’eccellenza, uno nel settore dell’Economia del Mare ed uno nel settore Turismo, da finanziare tramite lo strumento della Sovvenzione globale, in modo da garantire la continuità e un orizzonte pluriennale delle attività. I due Organismi intermedi che gestiranno i fondi dovranno “raccordarsi in forma continuativa con il sistema formativo e con le altre componenti che operano all’interno del Distretto quanto a azioni di ricerca, sviluppo e trasferimento tecnologico, ed allo sviluppo delle politiche attive per il lavoro, nonché con il polo Ifts che agisce nell’area di riferimento”. 2.9. Poli tecnici A seguito del Dpcm del 25 gennaio 2008, ed attraverso il Piano triennale 2008- 2010, la Regione Emilia Romagna ha riorganizzato la propria offerta di formazione alta, specialistica e superiore, sulla base di Poli Tecnici, articolati su base provin- ciale e settoriale (settori coerenti con quelli individuati a livello nazionale). Al momento, si tratta soprattutto di reti di soggetti che si impegnano a collaborare e relazionarsi con tutti gli altri soggetti coinvolti nell’attuazione dei percorsi di formazione alta, specialistica e superiore, e la cui offerta formativa complessiva rappresenta appunto il “polo tecnico”. L’interazione tra i soggetti dovrà rispondere alle finalità di promuovere e valorizzare l’innovazione espressa dai poli tecnolo- gici, la dimensione regionale trasversale dell’offerta formativa nel suo complesso, la diffusione delle esperienze maturate in ambito progettuale e didattico. 2.10. Patto formativo locale I Patti formativi locali nascono nell’ambito del processo di “Programmazione negoziata” e sono strettamente correlati alle diverse forme di aggregazione finaliz- zate allo sviluppo locale che possono nascere in un determinato territorio (Pit, Por, Prusst, Contratti di quartiere, Stu, Contratti di programma ecc.). Il Patto Formativo Locale (che può anche essere settoriale), definisce una politica, una strategia continuativa che valorizza la logica di integrazione tra le po- litiche formative, le politiche attive del lavoro e le iniziative locali per lo sviluppo. I Patti Formativi Locali sono prassi coalizionali negoziate finalizzate alla programma- zione dell’offerta formativa sulla base di specifiche analisi dei fabbisogni legati alle di- namiche di sviluppo di un determinato ambito territoriale e/o di filiera. Essi intendono: 31 - favorire la competitività dei sistemi produttivi locali attraverso l’integrazione tra le politiche formative e le iniziative locali per lo sviluppo; - realizzare una programmazione della formazione funzionale alle esigenze del terri- torio e delle filiere produttive in esso presenti; - migliorare l’efficacia e l’efficienza dei sistemi di istruzione, formazione e politiche attive del lavoro come fattori decisivi per innescare processi virtuosi di crescita; - sviluppare gli investimenti sulla valorizzazione delle risorse umane. Regioni che hanno inserito i Patti formativ i nella nuova programmazione Fse: - Bas i l i cata – As s e I Adattabi l i tà – Ob. Specifico c) Sv iluppare politiche e ser- v izi per l’anticipazione e la gestione dei cambiamenti, promuovere la competitiv ità e l’imprenditorialità - Campani a – As s e V Trans nazi o nal i tà ed i nterreg i o nal i tà – Promozione di partenariati, patti ed iniziative, attraverso la messa in rete dei principali stakehol- ders - Si ci l i a – As s e IV Capi tal e Umano – Ob. Specifico h2) Promuovere partenariati e Patti Formativ i Locali per la realizzazione di iniziative innovative a supporto della qualificazione del capitale umano – I Pfl s o no i no l t re b enefi ci ari di al t ri o b . Sp eci f i ci legati ai serv izi di orientamento degli indiv idui nel sistema dell’offerta formativa e dell’istruzione (I2.1) ed al potenziamento dei percorsi di formazione su- periore e post secondaria alternativa ai percorsi universitari (I2.2) - Cal abri a – As s e I Adattabi l i tà – Ob. Specifico b) Favorire l’innovazione e la produttiv ità attraverso una migliore organizzazione e qualità del lavoro. Attualmente sono diffusi soprattutto nelle regioni/province meridionali. In particolare, la Regione Campania nella programmazione FSE 2007-2013 affianca al sostegno per la creazione e il funzionamento di “Poli formativi” anche quello per i Patti formativi locali. I Patti Formativi si caratterizzano per il coinvolgimento diretto di molteplici attori locali nell’ideazione dello “scenario di sviluppo possibile”, nella ricognizione delle risorse e delle potenzialità, nonché nella progettazione di interventi di svi- luppo del capitale sociale a sostegno degli scenari individuati per il territorio/filiera di riferimento. 2.11. L’Accademia Italiana Marina Mercantile (A.I.M.M.) L’Aimm, all’interno dei Poli formativi per l’Ifts, costituisce un’esperienza atipica e con proprie peculiarità innovative. L’Aimm, infatti, viene costituita nel 2005 come Polo formativo dell’Economia del Mare della Regione Liguria, con l’obiettivo di sviluppare stabilmente le alte professioni marittime in raccordo con le imprese del cluster marittimo nazionale, avendo particolare attenzione al trasporto marittimo. Tra il 2005 ed il 2009 ha erogato corsi per tecnici superiori nella conduzione navi della marina mercantile (sez. Coperta e sezione Macchina) e nella gestione passeggeri (Commissari di bordo). 32 L’Aimm dal punto di vista giuridico è una società consortile costituita da Pro- vincia di Genova, Istituto Tecnico Nautico “S. Giorgio” di Genova, Confitarma, Fedarlinea, Assagenti, Autorità portuale di Genova, Fincantieri, RINA, Associa- zione Industriali di Genova, Fit-Cisl, Ucina e Federpesca. Contestualmente all’offerta corsuale di istruzione e formazione tecnica supe- riore, l’Aimm ha altresì sviluppato un’offerta post-diploma finalizzata all’abilita- zione professionale dei futuri ufficiali della marina mercantile italiana. Dal punto di vista della struttura gestionale, l’Aimm ha anticipato l’impianto degli Its attraverso un’organizzazione autonoma, partecipata, con una forte gover- nance istituzionale e di impresa, mentre dal punto di vista giuridico l’acquisizione della natura consortile rimanda ai Poli Tecnico Professionali (pur mancando all’in- terno della compagine costitutiva gli istituti professionali), previsti dall’art. 13 della legge 40/2007 per la promozione stabile della cultura tecnica e scientifica. 2.12. Polo nazionale formazione per lo shipping Si tratta di una società consortile, nata nell’ambito di un Patto formativo Locale “Un mare di lavoro” con sede a Napoli che, operando nell’ambito del cluster marit- timo, tende ad avere una dimensione sovraregionale. È stato infatti realizzato un ac- cordo specifico con l’Accademia del mare di Genova. Il Protocollo di collabora- zione, siglato il 21 gennaio 2008, recita al riguardo: “Con questo accordo i due istituti, che operano da anni nell’ambito della for- mazione e ricerca nel settore delle attività del cluster marittimo, operando in aree geografiche differenti ma condividendo strategie formative, valutano l’opportunità di candidarsi in partnership a progetti previsti dal Fondo Interprofessionale “Fon- dimpresa”. I due enti si sono impegnati a presentare un progetto per la valorizza- zione e qualificazione delle professionalità esistenti nel settore marittimo, attra- verso percorsi formativi e seminariali che accrescano le opportunità di sviluppo del settore. Tale attività verrà realizzata soprattutto con il contatto costante e l’in- contro tra imprese campane e imprese liguri, sotto il coordinamento dei due istituti di formazione”. 2.13. Distretti tecnologici Anche in virtù del successo di alcune esperienze internazionali quali la “Silicon Valley” e lo sviluppo del polo di Bangalore, in India, il concetto di distretto tecnolo- gico ha acquisito grande rilevanza per accompagnare lo sviluppo economico locale. L’idea di fondo di tale modello è che l’efficacia di un sistema di innovazione dipende da una stretta e continua interazione tra il governo locale, il settore impren- ditoriale ed il modo della ricerca scientifica pubblica. In Italia l’istituzione dei distretti tecnologici trova solide fondamenta nell’esperienza dei distretti industriali. I Distretti Tecnologici nascono e si sviluppano a partire da fenomeni di aggre- gazione spontanea, fortemente radicati in ambiti territoriali piuttosto circoscritti, 33 derivati da precedenti esperienze di interazioni tra università, enti di ricerca e im- prese pubbliche e private, come ad esempio i laboratori tecnologici. L’elemento fondamentale che li caratterizza e che li distingue dai distretti industriali, non è tanto lo specifico campo settoriale in cui essi operano, vale a dire la specializ - zazione in una determinata filiera scientifico-tecnologica, bensì il trasferimento di conoscenza tecnica e scientifica dalle università alle imprese private. Affinché tale trasferimento possa consolidarsi, è necessario che le università sviluppino anche funzioni di tipo imprenditoriale, ad esempio stipulando contratti diretti con le imprese, registrando brevetti, generando imprese spin-off. Sebbene la nascita dei singoli Distretti Tecnologici tragga spunto da iniziative a carattere locale, il loro riconoscimento formale avviene, infatti, a livello di go- verno centrale, nello specifico da parte del Miur (tale procedura dovrebbe garantire un accesso più semplice e rapido ai finanziamenti pubblici).4 All’inizio sono stati identificati 7 Distretti Tecnologici di cui due situati nel Mezzogiorno: il distretto sui materiali polimerici a Napoli, e il distretto della microelettronica a Catania. Da un punto di vista operativo, la fase preliminare per la costituzione di un distretto tecnologico è condotta dalle singole Regioni, le quali effettuano un’ana- lisi delle condizioni esistenti allo scopo di verificare se esistono le potenzialità e la disponibilità dei soggetti interessati (imprese, enti di ricerca, università) ad avviare un progetto di sviluppo di un particolare distretto tecnologico. In parti - colare, le Regioni devono verificare la presenza di una diffusa imprenditorialità, di risorse umane altamente qualificate, di università e centri di ricerca autorevoli, di un’adeguata rete di infrastrutture, di servizi dedicati al trasferimento tecnolo- gico. Qualora tali condizioni risultino soddisfatte, la Regione sottopone un docu- mento progettuale al Miur, che ne verifica la fattibilità. Se l’analisi del Miur è an- ch’essa favorevole, le parti interessate sottoscrivono un Accordo di Programma, che definisce le specifiche azioni di avvio per la costituzione del Distretto Tecno- logico, e la struttura di governance dell’organismo di coordinamento che dirigerà tutte le attività. Per quanto riguarda il ruolo che i Distretti Tecnologici sono chiamati a svol- gere nell’ambito più strettamente formativo, pur essendo la loro azione rivolta soprattutto all’Alta formazione e alla ricerca, occorre sottolineare: – da un lato, la necessità ed opportunità, sottolineate in più occasioni anche da Confindustria, di rendere coerenti e correlate le polarizzazioni tematiche terri- toriali e settoriali, per tutti i segmenti di intervento. Se, ad esempio, in un terri- torio si registra una spinta verso lo sviluppo ed il sostegno ad un determinato ambito settoriale, tecnologico, ecc, appare quantomeno eccentrico che i diversi poli/distretti presenti sul territorio operino in direzioni diverse e comunque non dialoghino tra loro; 4 Da un punto di vista normativo, il riconoscimento e il finanziamento dei distretti tecnolo- gici avviene nell’ambito del decreto legislativo 297 del 27/07/1999: “Riordino della disciplina e snellimento delle procedure per il sostegno della ricerca scientifica e tecnologica, per la diffu- sione delle tecnologie, per la mobilità dei ricercatori”. Tale decreto ha rappresentato un punto di svolta per le politiche pubbliche a sostegno delle attività di ricerca perseguite in ambito produt- tivo, in quanto oltre a riorganizzare le forme di agevolazione già esistenti, ha introdotto la possi- bilità di sviluppare nuovi strumenti di intervento. Tra questi possiamo ricordare, oltre al finanzia- mento dei distretti tecnologici, gli interventi a sostegno della nascita di nuove imprese di spin- off dalla ricerca pubblica, il finanziamento nel Mezzogiorno dei cosiddetti “laboratori pubblico- privati”, il sostegno a grandi programmi di ricerca strategici per la competitività dell’Italia. 34 – dall’altro, il fatto che, sia pure in maniera episodica, alcuni Distretti Tecnolo- gici si sono interessati direttamente anche alla realizzazione di percorsi post di- ploma non universitari, come ad esempio nel caso del Distretto Tecnologico calabrese dei Beni culturali “Cultura ed innovazione”, che ha contribuito in qualità di partner alla realizzazione del progetto pilota di Istruzione e di For- mazione Tecnica Superiore (Ifts) “Tecnico Superiore per il rilievo architetto- nico”. Il corso di formazione proposto da tale distretto rientra, infatti, tra le ipotesi di correlazione, indicate dal Miur, con le iniziative dei Distretti Tecno- logici nel Mezzogiorno finanziati con la Delibera Cipe n° 81/20045 ed è fina- lizzato a strutturare ed implementare l’area di Alta Formazione del Distretto Tecnologico dei Beni Culturali, arricchendo il percorso formativo già avviato nell’ambito del progetto Messiah.6 5 Il bando Cipe Ifts/Ricerca si configura come una misura di sistema a sostegno del consegui- mento degli obiettivi contenuti nell’accordo sancito in sede di Conferenza Unificata del 25 no- vembre 2004 in merito al collegamento organico, nelle regioni del Mezzogiorno, dell’Ifts con la ricerca scientifica e tecnologica. Uno dei principali obiettivi che il bando si pone è quello di svi- luppare il sistema dell’Alta formazione meridionale attraverso attività a sostegno della ricerca ap- plicata, indirizzata all’innovazione di prodotto, processo e organizzazione dell’impresa. I parte- nariati, valutati positivamente a seguito della prima fase di presentazione delle candidature, pro- getteranno le attività da realizzare seguendo le indicazioni delle linee guida nazionali. 6 Il progetto Messiah è finalizzato alla messa a punto di azioni preparatorie alla nascita di un Distretto Tecnologico dei Beni Culturali che interessa l’intero territorio regionale, favorendo lo sviluppo della ricerca scientifica e il sostegno dei processi di innovazione tecnologica, valoriz- zando le risorse presenti nella regione, rafforzando i processi di trasferimento alle imprese locali e creando condizioni competitive per l’attrazione di attori extra-regionali. L’obiettivo principale del progetto è lo sviluppo di metodi e tecnologie abilitanti e multifunzionali nei diversi segmenti della filiera culturale: identificazione, monitoraggio, restauro, conservazione, catalogazione e fruizione. Nell’ambito delle attività di ricerca previste si intende partire da un contesto specifica- tamente complesso, come quello dell’archeologia subacquea, per definire modelli di approccio della conoscenza applicabili all’intero sistema dei beni culturali. Il progetto Messiah è articolato in quattro Azioni e, per ciascuna di esse, in uno o più sotto-progetti specifici predisposti coeren- temente con il Por Calabria 2000-2006 (Misura 3.16 e Misura 3.7) e con il D.M. 593/2000.; Azione 2: Rafforzamento dei Laboratori Tecnologici Regionali sui Beni Culturali; Azione 3: Alta formazione sui temi dei Beni Culturali; Azione 4: Ricerca industriale sui temi dei Beni Culturali. 35 36 3. I modelli di intervento regionali ed il contributo del Cnos Fap Come accennato in precedenza, la costituzione di Poli formativi integrati ha avuto, nelle diverse regioni, modalità, tempi, strumenti diversi, pur in presenza di alcuni “paletti” comuni, dettati dalla normativa e dagli Accordi a livello nazionale. In questo paragrafo, si approfondiscono in particolare gli assetti di quelle regioni in cui il Cnos-Fap ha sviluppato esperienze significative nel campo della formazione tecnica superiore. 3.1. Emilia Romagna In Emilia Romagna il processo di costituzione di Poli formativi nel segmento dell’istruzione post secondaria è di recente attivazione, e segue le più recenti dispo- sizioni normative. Prima del 2008, non si registra alcuna costituzione ufficiale di Poli formativi per gli Ifts o altre forme di integrazione analoghe. Allo stato attuale, è stata realiz- zata una riorganizzazione dell’offerta di formazione alta specialistica e superiore, con una operazione “a matrice”, rispetto ai territori ed ai settori di interesse nazio- nale, visitati in base alle priorità regionali. Come recita la D.G.R. 630 del 2008, “l’insieme delle attività formative in rete, che costituisce i poli tecnici regionali, si realizza a partire da un’offerta di percorsi di formazione specialistica (Ifts) e superiore (corsi brevi a qualifica), che si dovranno relazionare e coordinare con la formazione alta che sarà proposta dagli Its, che ne perfeziona e ne condiziona la coerenza tra ambiti settoriali regionali ed aree tecnologiche nazionali”. Nel medesimo documento, si precisa che il Polo è costituito dalla rete delle atti- vità proposte dai soggetti – istituti scolastici, organismi di formazione professionale accreditati, imprese, università – negli ambiti settoriali di riferimento, per rafforzare e potenziare le singole iniziative raccordandole all’interno degli ambiti regionali co- erenti con le sei aree tecnologiche definite a livello nazionale, in modo da accelerare la diffusione dei risultati all’insieme del sistema sociale, economico e formativo. In particolare, il Polo tecnico dell’Emilia Romagna è la modalità con la quale i diversi soggetti titolari delle attività formative, in rete tra loro, svolgono il confronto organico su temi specifici e specializzati, per produrre modelli formativi, didattici e di ricerca, nonché “strumenti” utili a tutti quanti operano per la qualificazione e professionalizzazione delle persone; da un lato, costituisce inoltre concettualmente il superamento di una specializzazione di ambito locale, dall’altro non è prodotto di una “selezione” settoriale rispetto a vocazioni produttive proprie dell’Emilia- Romagna che, al contrario, risultano confermate e rafforzate dalla presenza dei soggetti formativi in luoghi non tradizionalmente vocati ad uno specifico settore. 37 È infatti evidente che, accanto alla imprescindibile esigenza di dare concre- tezza, visibilità, riconoscibilità e stabilità all’offerta formativa relativa ad ambiti settoriali riconducibili in prevalenza ad alcune parti del territorio regionale, esiste la necessità di non relegare in modo esclusivo e riservato la realizzazione di tale offerta ai soli soggetti (siano imprese, siano soggetti formativi – istituzioni scola- stiche, enti di formazione professionale, università) di quel territorio. I Poli sono pertanto “rete regionale” perché, pur essendo identificati di norma con i territori in cui l’ambito tematico individuato presenta il maggior numero di elementi di forza, svolgono il servizio formativo a favore di tutti i soggetti che, in regione, possono fare riferimento all’ambito tematico individuato. I Poli sono riferiti ad ambiti piuttosto ampi, ma hanno al loro interno la possi- bilità (in molti casi la necessità), di interagire fra loro perché molte delle compe- tenze tecnico-specialistiche che costituiscono l’offerta dell’uno possono essere in- trecciate con quelle di un altro. Il Cnos-Fap partecipa alla rete del Polo tecnico attivo nel settore dell’“Ict e Innovazione organizzativa”, con la realizzazione di un corso Ifts per “Tecnico su- periore per la comunicazione e il multimedia” (progettista grafico new media). Non risulta, invece, presente tra gli attuatori di percorsi di formazione superiore e di alta formazione. 3.2. Lazio L’avvio del processo di costituzione dei 13 Poli formativi della Regione Lazio è avvenuto con l’emanazione della Determinazione n. D4330 del 28/11/2006, rela- tiva alla pubblicazione di un Avviso pubblico per la presentazione delle candidature per la costituzione di Poli formativi per l’istruzione e la formazione tecnica supe- riore (Ifts) 2006/2007. A partire dalle indicazioni nazionali, la Regione Lazio si è posta l’obiettivo di ampliarne la portata ed il significato strategico nel quadro degli strumenti di pro- grammazione del Fse. I 13 poli selezionati sono provinciali, interprovinciali o re- gionali, di dimensioni diverse e con diversi contesti economici di riferimento, ma selezionati sulla base di una griglia comune di criteri individuati per garantire stabi- lità dei percorsi formativi, qualità delle competenze messe a disposizione e consi- stenza dei partner in rete. Ad essi è stato richiesto di elaborare una programmazione pluriennale di azioni diversificate: percorsi Ifts, attività di ricerca, di analisi dei fab- bisogni formativi ed azioni di sistema in grado di sostenere l’eccellenza formativa in una prospettiva di lungo periodo. Il 10 febbraio 2007 è stato ufficialmente riconosciuto dalla Regione Lazio il “Polo Formativo per la Grafica Editoriale”, di cui sono partner, oltre al Cnos-Fap- Centro di Formazione Professionale Pio XI (Ente capofila), l’Enipg, in qualità di ente di ricerca e formazione, il Centro di Formazione Professionale “Adriatico” di Roma; l’Iis “Carlo Urbani” di Roma, la Lumsa-Libera Università SS. Maria Assunta di Roma; l’Università degli Studi di Roma La Sapienza, l’Assografici di 38 Roma e l’Ente Provinciale per l’Istruzione Grafica di Roma. Il Polo ha attivato tre corsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore di grafica e stampa digitale e per la gestione del prodotto grafico. In effetti, il Polo riconosciuto dalla Regione Lazio costituisce un’evoluzione di processi di integrazione pregressi. Nel 2006, infatti, tramite un protocollo d’intesa era già stato costituito un “Polo tecnologico-formativo grafico della Capitale”, che raggruppava gran parte dei soggetti che hanno poi costituito il Polo regionale. 3.3. Lombardia Nella Regione Lombardia, prima dell’avvio del processo di costituzione dei 31 “Poli formativi” attualmente esistenti, sono state realizzate esperienze sperimentali tendenti ad una integrazione più stabile tra enti formativi, scuole e mondo del la- voro. Le partnership individuate sono state chiamate ad operare a tutto campo nei diversi segmenti formativi, non limitandosi dunque alla sola formazione postsecon- daria degli Ifts. Nello specifico, in forza dell’intesa siglata in data 11 gennaio 2005 tra Regione Lombardia e Ufficio scolastico regionale è stato avviato il progetto Campus (cfr. capitolo 2), finalizzato alla progettazione, a partire dall’anno formativo 2004/2005, ed alla realizzazione, a partire dall’anno formativo 2005/2006, di una offerta for- mativa sperimentale su base territoriale di istruzione e formazione professionale (Progetto “Campus dell’istruzione e formazione professionale”), nonché di percorsi Ifts per le aree dell’Automazione industriale (A.I.), cui ha partecipato il Cnos-Fap di Sesto San Giovanni e delle Tecnologie d’informazione e comunicazione (T.I.C.). In particolare, questo primo impianto pilota di Campus lombardo ha perseguito l’obiettivo di: – identificare, in aree territoriali specifiche, gli Istituti di istruzione secondaria di II grado, i Centri di formazione professionale e le Istituzioni universitarie inte- ressati alla sperimentazione di percorsi di istruzione e formazione professio- nale che prevedano diversi livelli di qualifica e di diploma, fino all’istruzione e formazione tecnica superiore; – intervenire nell’ambito dell’Ifts per la promozione di “poli di eccellenza” con il coinvolgimento di una rappresentanza dei predetti soggetti che, nella loro autonomia, collaborino stabilmente e con un impegno pluriennale alla realizza- zione degli interventi, in un quadro che assicuri nel contempo il raccordo con i percorsi di istruzione e formazione professionale ai livelli triennale, quadrien- nale e quinquennale. Il Progetto Campus attuato da Regione Lombardia e Ufficio Scolastico Regio- 7 Regione Lombardia “Modelli di innovazione delle strategie di intervento sul Capitale Umano: Distretti formativi, Campus, Poli formativi e tecnologici per la competitività del si- 39 nale ha inteso rappresentare un modello di organizzazione e gestione del sistema dell’istruzione e della formazione professionale ispirato ai principi che informano le scelte politiche e amministrative regionali in materia di servizi alla cittadinanza, di formazione delle persone, di sviluppo economico e sociale del territorio e ri- spondere pienamente al disegno della riforma della scuola (L. 53/03 e successivi decreti attuativi). La Formazione Tecnica Superiore trova infatti collocazione nel nuovo sistema ordinamentale del secondo canale, ponendosi in continuità con i percorsi quadriennali di Istruzione e Formazione Professionale per l’assolvimento del Diritto Dovere di Istruzione e Formazione. La costituzione di “Poli formativi”, ha dunque rappresentato per la Regione un’ulteriore fase di sviluppo di un processo già avviato e si è in parte innestata su partnership già consolidate. L’obiettivo è stato quello di rinnovare l’esperienza sino ad allora condotta nell’ambito del sistema Ifts, in un quadro che assicurasse il consolidamento del sistema educativo regionale e l’integrazione con le strutture impegnate nella ricerca e nell’innovazione scientifica e tecnologica. A differenza di altre regioni, il modello lombardo si caratterizza per una plura- lità di modalità di integrazione, proprio in quanto non si è voluto perdere il know- how e le buone pratiche sviluppate tramite le esperienze dei campus, dei distretti formativi e delle altre polarizzazioni pregresse. A fronte della varietà e della complessità della situazione, si è, infatti, svilup- pata la consapevolezza che la pluralità può essere regolata, ma non irrigidita in schemi precostituiti, senza con ciò perdere molte significative opportunità di svi- luppo e di crescita. Esistendo un numero ampio di opzioni di intervento tecnica- mente perseguibili, è anche vero che non esistono soluzioni univoche e generaliz- zabili a problemi che si differenziano sostanzialmente anche in realtà tradizional- mente omogenee. “Alla opportunità di riferirsi ad un’ampia tastiera di strumenti di intervento fa così da contrappeso la necessità di scendere ogni volta nelle specificità dei contesti locali e/o settoriali, sia in termini di proposte che in termini di istituzioni. Il fattore decisivo di successo per queste azioni è allora basato sulla capacità di individuare in maniera specifica e puntuale le esigenze di aggiustamento dei cicli produttivi lo- cali e di saperle tradurre in opportune e appropriate forme organizzative di inter- vento formativo”.7 Attraverso i Poli formativi, la Regione ha inteso rendere visibile l’offerta for- mativa professionalizzante del sistema di istruzione e formazione professionale, del sistema liceale, dell’istruzione tecnica superiore, della formazione continua e per- manente lungo tutto l’arco della vita, quali modelli innovativi di intervento per la competitività del sistema socio-economico lombardo. I Poli formativi così intesi sono ritenuti interlocutori privilegiati a supporto dell’attività di governo e program- mazione, ma non si tratta, per la Regione, di “nuovi soggetti” o di “sovrastrutture “ permanenti, bensì di un riposizionamento dei diversi soggetti di una filiera e di una innovazione dei modelli organizzativi. Un esempio di tale concezione di “polo” è 40 visibile analizzando i siti web finora costituitisi: di solito, nella descrizione dell’of- ferta formativa del Polo, infatti, non ci si limita a “pubblicizzare” le iniziative con- giunte, come gli Ifts, ma si illustra tutto il ventaglio dell’offerta formativa disponi- bile ed anche se erogata da uno solo dei soggetti della rete: da quella curricolare degli istituti scolastici, a quella finanziata dalla Regione, dalla formazione iniziale a quella continua e permanente. Il sito dunque diviene la “vetrina” del network, te- matico e/o territoriale e di tutti i soggetti che lo compongono. Non è un caso dunque che si sia in presenza di partenariati molto ampi ed in continua evoluzione. Il Cnos-Fap, sede di Sesto San Giovanni, partecipa al Polo formativo del set- tore meccanico “Polo Formativo a supporto dello sviluppo e dell’innovazione della Meccanica Strumentale e dell’Industria Manifatturiera Lombarda”, ma è stato anche coinvolto in esperienze precedenti, ed in particolare al Campus “Automa- zione industriale”. 3.4. Piemonte La Regione Piemonte ha concretamente avviato il processo di attivazione di una rete di Poli formativi a fine 2006, con la predisposizione degli “Indirizzi gene- rali per l’individuazione di un modello regionale di Polo formativo per l’Ifts”. In precedenza, la Direttiva/Atto di indirizzo 2005-2007 per la predisposizione di bandi per progetti Ifts (D.G.R. n. 40 - 633 del 2005) aveva, infatti programmato, in parallelo alla realizzazione di percorsi Ifts attraverso le tradizionali attività corsuali a bando, tutta una serie di azioni di sistema finalizzate alla definizione di Poli for- mativi territoriali. Nello specifico, il percorso regionale di individuazione dei Poli si è articolato proceduralmente in diverse e complesse fasi che hanno generato i seguenti atti: – i già citati “Indirizzi generali per l’individuazione di un modello regionale di Polo formativo per l’Ifts”, (D.G.R. n. 24 - 3997 del 9/10/06) in cui sono stati in- dividuati i settori strategici d’intervento per la collocazione dei Poli (Aerospa- ziale e settori innovativi dell’ingegneria - Agroindustria e agroalimentare - Am- biente e valorizzazione risorse forestali; energia, con particolare riferimento alle energie rinnovabili - Artigianato artistico e tipico - Beni e attività culturali - Biotecnologie e scienze della vita - Chimica, nuovi materiali e nanotecnologie - Enogastronomia - Ict - Meccanica - Logistica avanzata; Mobilità integrata e so- stenibile -Tessile, abbigliamento e moda - Turismo integrato e sostenibile); – il “Bando per la presentazione di candidature e proposte progettuali” (D.D. n. 606 del 27/10/06) propedeutica alla partecipazione al Bando “Azioni di Si- stema” ed alla contestuale azione informativa a livello regionale e provinciale in ordine a obiettivi e criteri per la riorganizzazione del sistema di formazione superiore connessa all’istituzione dei Poli. Con la D.D. n. 828 del 28/12/2006 la Regione ha approvato l’elenco delle candidature idonee a partecipare al Bando regionale “Azioni di sistema” finalizzato alla progettazione operativa 41 dei modelli organizzativi e didattici dei Poli formativi per l’Ifts; – l’Accordo Territoriale (D.G.R. n. 42 – 5589 del 26/03/07) tra la Regione Pie- monte (Assessorato F.P.L.) e le Province Piemontesi, alla presenza dell’Ufficio Scolastico Regionale, che stabilisce la precisa ripartizione per ambiti settoriali/ territoriali dei Poli formativi per l’Ifts; – il Bando Azioni di Sistema (D.D. n. 256 del 05/06/07) rivolto ai raggruppa- menti risultati idonei in esito al “Bando per la presentazione di candidature e proposte progettuali”, finalizzato alla selezione di Studi di fattibilità dei Poli formativi per l’Ifts (ai fini del completamento del processo di istituzione e mo- dellizzazione dei Poli stessi); – la Determinazione dirigenziale n. 168 del 29/11/07 di istituzione dei 18 Poli Ifts e relativo finanziamento delle azioni di sistema; – la D.G.R. n. 29 - 9755 del 6/10/08 di assegnazione delle risorse finalizzate alla realizzazione delle attività di Ifts su base pluriennale (2008/2011), – la Determinazione Dirigenziale n. 471 del 22/10/08 “Disposizione per la pre- sentazione delle attività di istruzione e formazione tecnica superiore 2008- 2009”, con la quale si è dato avvio alle attività formative dei Poli (approvate con Det. 620 del 10-12-2008). Il Cnos-fap è partner nel “Polo per la meccanica e le nuove tecnologie con l’utilizzo di materiali avanzati” e nel “Polo per le biotecnologie”. 3.5. Sicilia Nel gennaio 2006, la Regione Sicilia ha dato avvio operativo alla costituzione dei Poli formativi, pubblicando un Avviso pubblico per la presentazione delle can- didature. In precedenza, il Comitato regionale per gli Ifts aveva individuato 6 set- tori strategici, per ognuno dei quali attivare un apposito Polo. Successivamente è stato istituito un secondo polo, per il settore “Nuove tecnologie produttive in settori specifici di rilevanza locale”. I Poli siciliani hanno assunto un assetto “classico”, essendo finalizzati al “con- seguimento dell’obiettivo prioritario di assicurare stabilità, visibilità e qualità all’of- ferta formativa relativa al sistema Ifts, e garantire un maggiore raccordo con i fabbi- sogni formativi del mercato del lavoro”. I Poli sono chiamati dunque a “rafforzare l’integrazione tra i sistemi dell’istruzione della formazione, del lavoro nonché della ricerca, ottimizzare le disponibilità finanziarie attraverso economie di scala e l’attra- zione di risorse aggiuntive, garantire un’offerta formativa di qualità in tutto il terri- torio regionale anche attraverso l’elaborazione di una progettazione didattica dei percorsi, innovativa e correlata ad azioni di ricerca e di trasferimento tecnologico”. Una peculiarità del Bando è rappresentata dal fatto che, per ciascun Polo, è richiesta la partecipazione di almeno tre istituti scolastici, mentre per le altre tipologie di sog- getti (a parte le imprese del settore) basta un solo rappresentante. Il Cnos-Fap di Catania è partner del Polo formativo settore Turismo-Beni cul- 43 turali. A gennaio 2009, dovrebbe partire il primo corso Ifts del Polo relativo al “Tecnico superiore per la ristorazione e la valorizzazione dei prodotti territoriali e delle produzioni tipiche”. Inoltre, il Cnos-fap di Palermo ha fatto parte della rete che ha realizzato un Ifts per Tecnico in automazione industriale, nell’ambito del progetto Cipe Ifts/ricerca, da cui potrebbe scaturire un Polo formativo per la meccanica. 3.6. Veneto La Regione Veneto ha promosso sia Poli Formativi per gli Ifts, sia più recente- mente i Distretti Formativi (cfr. capitolo 2), che almeno allo stato attuale si aggiun- gono ai primi, da cui si distinguono per una maggiore concentrazione settoriale/ territoriale e per il carattere di snodo per tutte le attività formative relative al settore di riferimento (dall’apprendistato all’università). Il Cnos di San Zeno è partner del Polo Formativo per le tecnologie avanzate nei settori manifatturiero e dei servizi, che insiste sulla provincia di Verona. 44 45 4. L’evoluzione del polo – il caso della Regione Veneto 4.1. I distretti formativi: genesi e finalità I distretti formativi conseguenti alla sottoscrizione del protocollo di intesa tra Regione Veneto ed Ufficio Scolastico Regionale, approvato con Delibera Regio- nale n. 2326 del 27 luglio 2006, allo stato attuale sono da considerarsi alla stregua di un’iniziativa sperimentale promossa dalla stessa Regione Veneto, per certi versi ispirata alla legislazione regionale che disciplina le attività produttive e ripartisce il territorio veneto in distretti produttivi. Il suddetto protocollo, infatti, spinge in favore di una maggiore territorializza- zione dell’offerta di formazione ed istruzione professionale sulla base di sette am- biti produttivi omogenei e geograficamente definiti, quali il meccatronico, il robo- tico, l’agroalimentare (2 Padova-Rovigo, Verona-Rovigo) la moda, il turistico e il nautico, corrispondenti ad altrettanti distretti produttivi regionali. Quest’esperienza, che secondo il dettato del summenzionato protocollo avrebbe dovuto essere verificata e rifinanziata su base annuale da entrambe le Am- ministrazioni proponenti, allo stato attuale risulta essere sospesa, essendo l’anno in corso, anche per la situazione di grave crisi congiunturale che sta attraversando non solo il Veneto ma il Paese nel suo complesso, un anno transitorio di riesame delle priorità e delle misure di politica pubblica che devono essere finanziate. Tutto ciò premesso, al fine di comprendere la genesi e le motivazioni sottese all’avvio dei Distretti formativi, alcune considerazioni devono essere fatte in me- rito all’esperienza dei Poli Formativi per gli Ifts costituiti a seguito dell’Accordo in sede di conferenza unificata del 25 novembre 2004 (in s.o. n. 160 a G.U. n. 225 del 27.09.2005), che, come è noto, fissava i criteri per la programmazione dei percorsi Ifts del triennio 2004-2006 e delle relative misure di sistema. Quale motivazione sottostante ai Distretti Formativi viene indicata l’opportu- nità di individuare forme di aggregazione in aree territoriali specifiche, che tenendo conto dell’”esperienza maturata nella programmazione della Formazione Tecnica Superiore”, siano in grado di addivenire a collaborazioni stabili ai diversi livelli formativi, mettendo “in comune infrastrutture, strumenti didattici, conoscenze”. Pertanto, i Distretti Formativi, secondo la ratio del protocollo, devono essere intesi come: • sistemi educativi in cui l’offerta formativa risulta composta da una serie varia di elementi che interagiscono tra loro, protesi verso il raggiungimento di obiet- tivi condivisi dalle diverse tipologie formative e per ottenere un maggior grado di stabilità, essendo regolati da Associazioni Temporanee di Scopo (Ats) o in forma consortile; 46 • ambiti favoriti di incontro tra le richieste provenienti dal mercato del lavoro e dal sistema economico e la programmazione dell’offerta formativa. La creazione di Distretti Formativi, consolidando le relazioni già esistenti tra i diversi enti e soggetti istituzionali per la realizzazione delle attività dei Poli forma- tivi, avrebbe quindi dovuto: • garantire il delinearsi di un’offerta formativa organica a livello territoriale; • permettere il superamento del rischio di frammentazione e disorganicità nel- l’offerta formativa territoriale; • facilitare l’accumulazione e la capitalizzazione delle conoscenze e delle espe- rienze ed il raccordo col mercato del lavoro; • valorizzare le esperienze maturate nella realizzazione di percorsi IFTS al - l’interno dei 12 Poli formativi regionali, definendo, oltre che i percorsi del- l’IFTS, anche quelli realizzati in integrazione tra istituti scolastici ed orga- nismi di formazione professionale, le esperienze di alternanza scuola-lavoro, nonché i percorsi relativi all’Apprendistato ed alla riqualificazione professio- nale. Dal lato della domanda, i Distretti Formativi avrebbero dovuto agevolare l’as- sunzione di decisioni consapevoli sia da parte degli studenti e delle famiglie nella transizione alla scuola secondaria di II grado o alla formazione superiore post- diploma e in relazione ad eventuali cambiamenti di percorso e passaggi tra sistemi, sia da parte degli adulti interessati da processi di riconversione professionale o di aggiornamento in un’ottica di apprendimento permanente lungo tutto l’arco della vita. Struttura ed o rg ani zzazi o ne del Di s tretto Fo rmati v o Co mpo s i zi o ne mi ni ma del partenari ato : - un istituto di istruzione secondaria superiore (soggetto capofila); - un’università o dipartimenti universitari, anche presenti attraverso consorzi, fonda- zioni o altre forme associative; - un centro di ricerca; - un’associazione imprenditoriale di categoria, imprese o associazioni di imprese; - un organismo di formazione professionale. Altri soggetti che svolgono un ruolo essenziale nello sviluppo di un sistema produt- tivo, quali: - centri di innovazione o parchi scientifici e tecnologici; - centri per l’impiego; - camere di commercio; - associazioni, enti non profit e cooperative sociali; - enti locali; - CTP. 47 Ambi ti di i nterv ento : - percorsi flessibili al fine di garantire a tutti l’esercizio del diritto/dovere, anche me- diante l’apprendistato; - attuare l’alternanza scuola-lavoro, proseguire nella formazione tecnica superiore o negli studi a livello universitario; - fruire delle opportunità per la riconversione professionale o per l’aggiornamento in un’ottica di apprendimento permanente lungo tutto l’arco della vita. Atti v i tà: - sperimentazione di nuovi percorsi di formazione integrata nel Biennio della scuola secondaria di 2° grado, nei percorsi professionalizzanti del secondo ciclo ed, in parti- colare, nel biennio post qualifica degli istituti professionali; - realizzazione di percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore; - sperimentazione di modalità innovative di riconoscimento di crediti nei passaggi tra sistemi in senso verticale e orizzontale; - attivazione di laboratori di recupero degli apprendimenti da parte delle istituzioni formativo-scolastiche coinvolte; - azioni di sistema e, in particolare, di formazione comune dei formatori; - sperimentazione di nuove modalità di alternanza scuola lavoro; - iniziative per l’apprendimento permanente degli adulti. Fas i di attuazi o ne del Di s tretto Fo rmati v o : - ricognizione delle prestazioni professionali richieste dalla filiera produttiva pre- scelta e definizione delle relative competenze; - predisposizione di un piano di spesa preventivo coerente con le risorse assegnate (Regione del Veneto, Ministero dell’Istruzione, Imprese o realtà produttive, altre ri- sorse); - progettazione dell’impianto e della gestione del Distretto formativo; - progettazione delle modalità di personalizzazione dei percorsi e delle azioni di orien- tamento correlate; - progettazione di percorsi innovativi; - predisposizione di strumenti utili alla certificazione delle competenze ed al ricono- scimento dei crediti; - realizzazione, monitoraggio e valutazione dell’intervento nella sua complessità; - modellizzazione dell’esperienza e diffusione dei risultati raggiunti. Des ti natari : - giovani, per l’acquisizione di competenze a livello secondario e post-secondario al fine di sostenere una reale transizione al lavoro; - adulti occupati, per il completamento e la qualificazione delle competenze possedute al fine di esercitare il diritto alla formazione lungo tutto l’arco della vita; - adulti inoccupati e disoccupati, per la riconversione e l’ampliamento delle opportu- nità professionali; - imprenditori, per azioni di informazione e supporto; - docenti dell’istruzione e della formazione, impegnati a costruire un rapporto di si- nergia tra i due sistemi e tra mondo della scuola e mondo del lavoro. Go v ernance Ogni Distretto formativo presenta, ai fini della sua costituzione, un progetto articolato e supportato da precise ipotesi di fattibilità, scegliendo i propri ambiti di intervento in 48 coerenza con gli obiettivi generali di cui agli artt. 1 e 2 del Protocollo. Il progetto viene validato dal Gruppo tecnico designato rispettivamente Regione Ve- neto e l’Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto – Direzione Generale. Quest’ultimi, inoltre. - promuovono iniziative di coinvolgimento e di partecipazione istituzionale al fine di addivenire all’individuazione dei soggetti partecipanti ai Distretti formativi; - coordinano ed implementano le azioni dei Distretti formativi in un quadro regionale di istruzione e formazione professionale unitario, coerentemente con le specifiche esigenze delle singole realtà territoriali; - garantiscono il coordinamento a livello regionale dei Distretti formativi; - danno impulso, anche in coerenza con altre azioni formative programmate, ad inizia- tive collegate alla ricerca e all’innovazione. Il Comitato tecnico scientifico di ogni Distretto formativo è presieduto, in ciascuna provincia, dall’Assessore Provinciale all’Istruzione o da un suo delegato. 4.2. Il distretto formativo della robotica L’analisi in profondità ha riguardato il Distretto formativo della robotica geo- graficamente posizionato nella provincia di Verona. All’origine di tale Distretto vi è l’elaborazione e la presentazione da parte dell’istituto di istruzione capofila (nella fattispecie l’Ipsia G. Giorgi di Verona) di un organico progetto di fattibilità delle diverse tipologie di attività da realizzare secondo le procedure costitutive previste dal Protocollo. Dall’analisi delle testimonianze raccolte, emerge chiaramente come la rete di enti sottostante al Distretto sia da considerarsi emanazione di quella del preesi- stente “Polo per le tecnologie avanzate nei servizi e nel manifatturiero” costituito nel 2005. Infatti, sotto la guida della Provincia di Verona all’istituto G. Giorgi, venne dato mandato di invitare al tavolo di progettazione tutti quegli enti ritenuti utili e funzionali al perseguimento delle attività formative di competenza del costi- tuendo Distretto. Il primo passo formale avanzato al riguardo dall’Istituto G. Giorgi, già capofila del Polo formativo, è stato quello di coinvolgere l’esistente compagine partenariale Ifts, al fine di capire, da un lato, interesse e reale volontà ad essere coinvolti in una rete a maglie più strette di quella in essere (si ricorda che per il Distretto viene richiesta la costituzione di una Associazione temporanea di Scopo, in luogo della sottoscrizione di un più largo accordo di programma come per il Polo). Da ciò è conseguito che le reti distrettuali sono state definite ricalcando l’ar- chitettura scuolacentrica propria di quelle per l’istruzione e formazione tecnica superiore, in cui, una volta definito l’ambito di competenza dei Poli, in virtù di un processo decisionale condiviso dagli Enti Territoriali (Provincia e Regione), l’Uf- ficio Scolastico Regionale procedeva a designare come ente capofila un istituto di istruzione secondaria di II grado. Nei Poli infatti la “Scuola” è stata la principale artefice della progettazione formativa, mentre gli altri enti hanno contribuito per lo 49 sviluppo di quegli ambiti più vicini alle loro specificità (per esempio, Cfp per la formazione professionalizzante, l’Università per gli ambiti di carattere scientifico- innovativo e per i rapporti con le imprese, ecc). Diversamente all’interno dei Distretti, alla maggiore differenziazione formativa è seguita una maggiore segmen- tazione di ruoli ed attività. L’avvio della nuova rete formativa è stato, secondo l’opinione degli intervi- stati, agevole e rapido, come del resto si era già verificato al momento della costi- tuzione del Polo formativo, grazie al fatto che il territorio veronese, al pari del resto della regione, si caratterizza per essere un contesto con un elevato capitale sociale. Caratteri s ti che s truttural i del Pro g etto del Di s tretto del l a Ro bo ti ca Co mpo s i zi o ne del l a rete Istituto capofila Ipsia G. Giorgi Associazione datoriale Confindustria Veneto Organismo di formazione Cfp Don Calabria professionale Istituto Antonio Provolo Enaip Veneto Istituzione scolastiche Itis G. Marconi Itis Ferraris Itis G. Silva Consorzio Consorzio Verona tecnologia Azi o ni 2 0 0 7 / 2 0 0 8 (i n o rdi ne di p ri o ri t à) Ti po Des cri zi o ne Azioni di sistema Robotica: interazioni tra università e istituti supe- r i o r i : - adeguare la preparazione dei docenti ai costanti e continui sviluppi del settore dell’automazione - collegare la scuola al territorio attraverso lo studio di realtà territoriali avanzate - adeguare i percorsi formativi delle scuole tecniche e professionali Azioni di sistema – Attivazione di Sistema di formazione a distanza del distretto della laboratori di recupero degli appren- robotica: dimenti da parte delle istituzioni - Creare e sperimentare un sistema di erogazione di formativo-scolastiche coinvolte Formazione, che si avvale di un insieme di materiali didattici e di procedure di valutazione dell’appren di - mento, predisposti secondo obiettivi specifici e ap- plicabili in circostanze di luogo e di tempo diverse. - Promuovere una prima formazione per i docenti degli istituti facenti parte del distretto formativo. - Introdurre, nei corsi di istruzione e formazione di base, nei corsi di istruzione e formazione tecnica su- periore, nelle attività di formazione continua rivolte agli adulti, un sistema di formazione a distanza che completi e supporti la didattica frontale, faciliti la 50 comunicazione e la collaborazione tra vari soggetti coinvolti nelle azioni didattiche e formative. Realizzazione dipercorsidi istruzio- Tecnico superiore per l’automazione industriale (specia- ne e formazione tecnica superiore. lizzazione robotica): Ifts Il Percorso formativo è finalizzato alla formazione di un tecnico superiore con competenze specifiche nel settore della robotica e in generale dell’automa- zione industriale. L’Azione formativa è volta a creare dei tecnici in grado di installare, collaudare ed utilizzare impianti di automazione e sistemi informatici al fine di co- prire il gap tecnologico delle piccole e medie im- prese presenti nel territorio. Iniziative per l’apprendimento per- EDA Robot: manente degli adulti Il progetto formativo ha come obiettivo la realizza- zio ne di un modello di ambiente di apprendimento per la robotica e l’automazione industriale basato su esperienze laboratoriali, unitamente a supporti di carattere teorico, destinato prevalentemente ad adulti che, già inseriti nel proprio ambito lavora- tivo, necessitano di nuove conoscenze e più appro- fondite competenze nel settore di riferimento. Tali conoscenze potranno essere ridiffuse nel contesto lavorativo di provenienza. Sperimentazione di modalità inno- Interv enti di riorientamento, accompagnamento e p a s - vative di riconoscimento di crediti saggio: nei passaggi tra sistemi in senso - Migliorare l’offerta formativa ed educativa dei p a r t n e r verticale e orizzontale del distretto istituendo servizi di supporto all’o- rientamento e all’eventuale passaggio dello stu- dente; - Creare una procedura di riconoscimento dei crediti riconosciuta ed utilizzabile in vari contesti. Un esempio per tutti è stata l’esperienza del Consorzio Verona Tecnologia, primo consorzio di scuole a costituirsi in Italia, il cui operato ha permesso la crea- zione di un retroterra esperienziale e culturale incline alla collaborazione, all’intesa e allo scambio e condivisione di risorse. Le stesse azioni formative erogate sono il portato di intuizioni e sensibilità de- rivanti da una circostanziata conoscenza del territorio e dalla veicolazione delle stesse informazioni attraverso il reticolo relazionale che lega i diversi stakeholder. Tali sollecitazioni hanno trovato all’interno del Distretto uno spazio di realizza- zione, grazie alla messa in comune di risorse immateriali e materiali, attivando così un circuito virtuoso in cui qualità e intensità delle relazioni sono state rafforzate 51 dalla realizzazione di azioni congiunte. Nonostante non si sia verificata un’assoluta identità di rete, tuttavia la succes- siva creazione dei Distretti formativi ha dato origine, secondo i testimoni intervi- stati, ad una sovrapposizione di ruoli ed attività, disorientando talvolta l’azione degli operatori e originando disomogeneità di comportamenti nei diversi ambiti pro - vinciali, dove i Poli (12) sono risultati essere in numero superiore ai Distretti (7), quest’ultimi pressoché uno per provincia. Ad esempio, nei primi tempi di costitu- zione dei Distretti si credeva che questi andassero a sostituire i Poli; oppure diversa- mente da quanto deciso dal Distretto veronese, in altre province è stato stabilito che i percorsi Ifts non potessero essere attività finanziabili dai Distretti e così via. La mancata partecipazione delle Università, diversamente da quanto determi- nato dal dettato del Protocollo, a causa del loro mancato invito nella fase di avvio da parte della Regione, ha in qualche modo privato le reti distrettuali – sorte anche per innovare i contenuti formativi di un’offerta finalizzata a sostenere le vocazioni produttive dei diversi contesti sub regionali, incrementandone i rispettivi potenziali competitivi – di una componente fondamentale, solo in parte recuperata attraverso il coinvolgimento diretto di esponenti del mondo accademico, già partecipi delle pregresse iniziative dei Poli Ifts. Dall’analisi delle testimonianze si ha dunque come la sensazione che sia ve- nuta a mancare una necessaria azione di regia e di accompagnamento dei Distretti da parte delle Amministrazioni promotrici che, confidando forse eccessivamente nella reattività di territori e operatori, hanno promosso un’azione di sistema desti- nata a svilupparsi in un orizzonte temporale di medio-lungo periodo, senza garan- tire mezzi e strumenti congrui. L’aver previsto lo stanziamento di finanziamenti annuali (250.000,00 € che non sono stati rinnovati), la mancanza di un adeguato sistema di monitoraggio e valutazione del funzionamento e della gestione delle attività sperimentali di queste nuove reti hanno determinato, da un lato, una loro sospensione de facto e, dal- l’altro, un’aura di imponderabilità circa il valore aggiunto prodotto, inibendo così l’adozione di eventuali processi decisionali in favore di una loro messa a regime. Secondo alcuni, il successo e la ripetibilità nel tempo di esperienze simili a quelle dei Distretti Formativi implica certezza e continuità nei flussi di risorse e il superamento di logiche di funzionamento legate alla sperimentabilità di esperienze mai destinate a divenire prassi a regime. Tutto ciò va a detrimento del consolida- mento delle reti e delle sottese attività con inevitabile dispersione di know-how e ri- sorse e indebolimento del sistema di erogazione, dal momento che un’offerta forma- tiva innovativa e di qualità, quale è quella che ci si attende da Poli e Distretti Forma- tivi, richiede una massa critica notevole di mezzi, strumenti e saperi. Molte attese sono riposte nell’implementazione delle previsioni normative contenute nel Decreto “Linee Guida per la riorganizzazione del sistema di istru- zione e formazione tecnica superiore e la costituzione degli istituti tecnici supe- riori”del 25 gennaio 2008, approvato dalla PdCM in attuazione della legge 40 del 52 2007. Come è noto, asse portante del modello di governance assunto dal succitato decreto sono gli Istituti tecnici superiori (Its). Questi ultimi, che devono concorrere alla diffusione tecnica e scientifica, si caratterizzano alla stregua di enti aventi come intrinseca caratteristica quella di scaturire dalla stabilizzazione di un partena- riato multiattore (ente locale, struttura formativa accreditata per l’alta formazione, impresa, dipartimento universitario, ecc), che trova il proprio ente di riferimento in un istituto tecnico o professionale. Il partenariato nel suo complesso, a sua volta, dovrà dare origine ad un Its secondo le modalità proprie dell’istituto giuridico della Fondazione in Partecipazione. Sebbene da molti le Fondazioni in partecipazione (leggi Its) siano viste come un possibile punto di arrivo verso cui far confluire l’accumulazione delle esistenti reti formative già operanti nel campo dell’istruzione e formazione tecnica supe- riore, tuttavia non poche sono le incognite che gravitano intorno alla loro costitu- zione. In primo luogo, cambia la finalità dei finanziamenti non più destinati alla rea- lizzazione di progetti, ma al funzionamento e alla gestione di strutture a cui si de- lega la responsabilità di realizzare percorsi formativi collegati alle esigenze del ter- ritorio e necessariamente innovativi, in quanto relativi a aree tecnologiche “ritenute prioritarie dagli indirizzi nazionali di programmazione”. I trasferimenti di risorse alle Fondazioni per la natura stessa dei loro compiti e delle loro attività dovranno pertanto essere ingenti e presumibilmente concentrati su pochi “Poli”di eccellenza operanti sul territorio regionale, a fronte, tra l’altro, di un periodo, quale quello attuale, caratterizzato da pressanti vincoli di bilancio a causa della recessione economica in atto. In altri termini, il requisito dell’eccellenza formativa che si intende perseguire attraverso la riorganizzazione di questo segmento formativo rischia di collidere con la scarsità delle risorse disponibili, il cui efficace impiego dovrà essere territorial- mente concentrato. A sua volta, la mancanza di una diffusa distribuzione di risorse, soprattutto in un contesto come il Veneto organizzato sotto il profilo produttivo in distretti ciascuno dei quali portatore di proprie istanze, potrebbe originare a livello regionale uno scenario conflittuale non favorevole all’adozione di simili misure. ALLEGATO ELENCO DEI POLI ATTIVATI NELLE REGIONI ITALIANE AGGIORNATE ALL’ANNO 2009 55 ABRUZZO Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 Polo formativo sperimentale L’Aquila Itis “Maiorana” http://polotecnico.scuolabruzzo.it/if - Elettronica Avezzano tsitisav/ 2 Polo formativo sperimentale Pescara Itis “A. Volta” - Servizi Pescara (settore trasporto aereo) 3 Polo formativo sperimentale Teramo Ist. Prof. Agricoltura Agroalimentare Teramo 4 Polo formativo sperimentale Chieti Itis “Da Vinci” http://lnx.itislanciano.it/joom/index. Meccanico Lanciano php?option=com_content&task=vie w&id=238&Itemid=175 CALABRIA Poli in via di costituzione nei settori: 1. Economia del Mare e Turismo. 2. Agroalimentare. 3. Ambiente e sperimentazioni colturali. 4. Biotecnologie e scienze della vita. 5. High tech. 6. Design. 56 CAMPANIA Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente g es to re Si to 1 “Aeroform” Napoli Erfap Uil - settore aerospazio Campania 2 “Villaggio dei ragazzi” Caserta Ist. Tecn. Aeronautico www.villaggiodeiragazzi.it/evento. - settore aerospazio Fondazione asp?cod=3 “Villaggio dei ragazzi” 3 “Mario Vetrone Benevento Università popolare per l’agroalimentare” del Fortore 4 “Agroinnovatec” Napoli Fosvi - settore agroalimentare 5 “Arcobaleno” Napoli ITI “G. Marconi” - settore agroalimentare 6 SV.In.ECO.MA Napoli Città della Scienza (Sviluppo, innovazione S.C.p.A. Onlus economia del mare) 7 Tradizione ed innovazione Caserta I.S. “M. Buonarroti” nella filiera enogastronomica 8 “Mesoghea” Avellino AS.FOR.IN - settore enogastronomico 9 AL.FORM.ICT CAMPANIA Napoli Ipia “D. Sannino” (Alta formazione nell’Ict in Campania) 10 “Innovazionecomunicazione” Napoli Consorzio Promoter - settore ICT Service Pmi 11 Polo formativo I.T.M. Avellino ISISS “G. Ronca” (Innovazione tessile e moda) - settore moda 12 FOR.MODA Caserta Ente di formazione (Formazione per moda) “Directa” 13 TUR-MED CAMPANIA Napoli Pmi Consulting per il turismo società cooperativa integrato e sostenibile 14 TICKET Napoli Aita (Tourism integrated Campania associazione italiana keys for education and training) tecnologia e ambiente - settore turismo In via di costituzione: 1. Polo formativo nel settore sociale (provincia di Avellino; Isiss “De Sanctis” di Sant’Angelo dei Lombardi”. 2. Polo formativo nel settore sociale (Provincia di Napoli - IPSCT “Miano”). 57 EMILIA ROMAGNA Poli tecnici in via di costituzione nei settori: Pro v i nci a Ambi ti s etto ri al i reg i o nal i Aree tecno l o g i che nazi o nal i Piacenza Logistica e Trasporti Mobilità sostenibile Parma Agroalimentare Nuove tecnologie per il made in Italy Reggio Emilia Meccatronica Nuove tecnologie per il made in Italy Modena Meccanica e materiali Nuove tecnologie per il made in Italy Bologna Automazione meccanica Nuove tecnologie per il made in Italy Forlì Cesena ICT, Innovazione Organizzativa Tecnologie della informazione e della comunica- zione Ferrara Abitare, Edilizia, Recupero, Nuovi Materiali Tecnologie innovative per i beni e le attività cultu- rali Ravenna Energia e Ambiente Efficienza energetica Rimini Turismo e Benessere Nuove tecnologie per il made in Italy FRIULI VENEZIA GIULIA Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 Polo dell’ICT Pordenone Itis “J.F. Kennedy” www.poloict.fvg.it 2 Polo dell’Industria meccanica Udine ITI “A. Malignani” http://www.iftsmalignani.it/(S(do5e 1ef0peocdm5530nx0a21))/Default.a spx 3 Polo dell’Industria del legno Udine CFF http://www.pololegnofvg.it/(S(1ugf e del mobile Consorzio Friuli 1c45rpwhhe55csxesq55))/Default.a Formazione spx 4 Polo dell’Economia del mare Trieste ENAIP www.econmar.it In via di costituzione: - Polo Agroalimentare 58 LAZIO Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 Polo formativo Roma Percorsi Spa www.polocinemaudiovisivolazio.it per il Cinema e l’Audiovisivo 2 Polo formativo Roma Cnos-Fap www.polograficolazio.it della Grafica editoriale/ Polo tecnologico della Grafica editoriale 3 “Search” - Polo formativo Roma A.N.C.E.I. www.ancei.org integrato per l’ICT” (Frosinone) Formazione e Ricerca 4 “Agropolo”- Polo formativo Latina IPSAA www.ipasanbenedetto.eu Agroindustria e agroalimentare” (Roma, Viterbo, “San Benedetto” Frosinone) 5 Polo Ifts Roma, Viterbo, Aless Don Milani www.poloenergiambiente.it ambiente ed energie Latina 6 Polo formativo Viterbo I.I.S. www.tecnopolo.com tecnologia “U. Midossi” della produzione-ambiente Civitacastellana (VT) 7 Polo formativo Roma, Latina, Formedil Regionale http://www.formedilazio.it/Polo. per i beni e le attività culturali Viterbo, Rieti Lazio html 8 “Icaro” - Polo formativo Roma, Latina, Itis “M.O.V.M. www.poloicaro.it integrato Aerospaziale Frosinone Don G. Morosini” e settori innovativi dell’energia Ferentino (FR) 9 Polo regionale Roma, Latina, IISS www.nauticocaboto.it/_hp/sito/inde della formazione nautica Frosinone “Giovanni Caboto” x.php?idnode=101 Gaeta (LT) 10 “Biotecnoform” Roma, Latina, IPSIA http://www.ipsiacavazza.it Polo formativo Viterbo “Largo Bredolini” chimico-farmaceutico Pomezia (RM) 11 “Polis” - Polo formativo Roma, Latina, Agenzia Formativa www.polis.enea.it tecnologia Frosinone Albafor della produzione-manutenzione 12 Polo formativo Rieti Consorzio www.consorzioindustriale.com integrato per la logistica per lo sviluppo e mobilità sostenibile industriale della provincia di Rieti 13 “Turisforma” - Polo formativo Roma Ciofs Lazio www.ciofslazio.it per il Turismo Integrato, Enogastronomico, Cultura dell’Accoglienza 59 LIGURIA Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 Polo formativo Genova Accademia www.accademiamarinamercantile.it dell’Economia del mare della Marina Mercantile 2 Polo formativo ICT Genova ISICT Consorzio Istituto Superiore di Studi in Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione 3 Polo turistico-alberghiero In via di costituzione: - Polo del sociale LOMBARDIA Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 “Poiffi” - Polo Istruzione Varese ICT “Tosi” http://www.poiffi.net Formazione Finanza Impresa Busto Arsizio 2 SVILUPPO TERRITORIO Brescia Centro formativo provinciale G. Zanardelli 3 Polo formativo Milano Società cooperativa nuove tecnologie informatiche consorzio per l’innovazione di processo scuole lavoro e di prodotto 4 Polo formativo per lo studio Varese Aslam www.aslam.it e l’implementazione della filiera Associazione Scuole produttiva dei trasporti Lavoro Alto Milanese e della logistica intermodale 5 Polo formativo della Brianza Milano Futur com srl www.poloformativobrianza.it (PMI) 6 Polo di eccellenza Milano Università Milano www.polomateriali.unimib.it sui materiali innovativi Bicocca 7 Polo formativo Milano Fondazione www.polosocioassistenziale.net socio-assistenziale “Luigi Clerici” 8 Polo formativo“Sviluppo Milano Siam www.poloformativocommerciale.it della filiera di distribuzione Società e commercializzazione d’incoraggiamento di prodotti e servizi tecnologici” Arti e Mestieri 60 Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 9 Polo formativo Milano Istituto tecnico della moda e dell’Italian style commerciale statale “C. Dall’Acqua” 10 Agrinform Lodi Consorzio www.agrinform.org Innovazione e formazione (Cremona) per l’istruzione per l’agroalimentare e la Formazione Artigiana e Professionale e per l’Educazione Permanente 11 Polo formativo Brescia Isfor 2000 www.poloforminnovazione.bs.it innovazione tecnologica e internazionalizzazione per la competitività delle piccole e medie imprese manufatturiere della provincia di Brescia 12 Polo Pavese Pavia Odpf www.polopavese.it Ict e logistica integrata (opera diocesana produttiva dei trasporti di preservazione e della logistica intermodale della fede) Santachiara Cfp Voghera 13 Polo Chimico Milano Itis “Molinari” www.polochimico.eu per la formazione di tecnici del settore chimico industriale, delle tecnologie chimiche per l’ambiente, dei materiali e dei composti bioattivi 14 Costruzioni Milano CNR sui materiali innovativi Istituto per le tecnologie delle costruzioni 15 Polo formativo Milano www.poloformativofieristico.it per il sistema fieristico 16 Turismo Lecco Centro formativo e professionale “A. Moro” 17 Agroindustria Bergamo Custodia Srl 18 Polo formativo Bergamo Associazione sistemi www.confindustria.bg.it/sfa/pag/ Meccatronica formativi aziendali meccatronica.htm dell’unione industriali di Bergamo 19 Turismo Milano Agenzia per la formazione del lavoro 20 Polo formativo Milano Accademia www.polospettacolo.org per le professioni tecniche Teatro della Scala e tecnico-artistiche 61 dello spettacolo Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 21 Polo formativo Cremona Reindustria Agenzia www.polocosmesi.it Cosmesi regionale lavoro 22 Polo formativo Cremona Centro di formazione www.pololiutarte.it per la liuteria, professionale la cultura musicale della provincia e l’artigianato artistico di Cremona 23 Polo formativo Lodi Ce.S.R.A. www.poloformativoictcodogno.com per le tecnologie avanzate Centro Sviluppo dell’industria e dell’artigianato Risorse per l’Azienda 24 Polo formativo “habitat” Milano Confartigianato www.progetto-habitat.it innovazioni e tecnologie Lombardia per vivere il domani 25 Polo formativo Milano Fondazione per la valorizzazione Enaip dei Beni culturali Lombardia 26 Polo della calzatura Pavia Itis “G. Caramuel” www.polocalzaturiero.it per la valorizzazione Vigevano dei Beni culturali 27 Polo formativo integrato Sondrio Provincia di Sondrio www.poloformativo.so.it per lo sviluppo territoriale della provincia di Sondrio 28 Polo formativo Milano Consorzio www.polomeccanica.net a supporto dello sviluppo sistemi formativi e dell’innovazione UCIMU CSFU della Meccanica Strumentale e dell’industria Manufatturiera Lombarda 29 Polo formativo Milano Istituto Pavoniano www.poloformativografico.it Grafico Artigianelli 30 Polo formativo d’eccellenza Milano Università http://www.unibocconi.it/index.php per la gestione d’impresa Bocconi ?frcnav=@10%2C46%2C48673 31 Tessile Como Univercomo MARCHE Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 Polo formativo e tecnologico Accordo territoriale per il settore calzaturiero Comitato di pilotaggio 62 Poli proposti: - Polo formativo della montagna (Ancona - Confartigianato di Fabriano). - Polo formativo del mare (Ancona). MOLISE Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 “Parsifal” - Polo formativo ISISS di Bojano Agroalimentare PIEMONTE Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 Polo per l’innovazione, Torino Itis “A. Avogadro” www.polomeccanica.org la formazione e lo sviluppo (Alessandria, nel settore meccanico Asti, Verbania, Vercelli) 2 Polo per l’innovazione Torino Itis “Pininfarina” www.polo-ictwireless.org e la formazione nel settore (Piemonte/, di Torino dell’ICT Sardegna) 3 Energia & Ambiente Torino IIS “Maxwell” http://poloenergiaambiente.word/ Piemonte (Alessandria, di Nichelino press.com Asti, Cuneo, Vercelli) 4 Energia e compatibilità Verbania Iti “Cobianchi” www.cobianchi.it/html/home/9- 2008/ ambientale polo_formativo.html 5 Biotecnologie Piemonte Torino IIS “Olivetti” www.polobiotecnologie.it di Ivrea 6 “IN” - Piemonte Asti Consorzio http://formazione.euroqualita.it sistema territorio Euroqualità Soc. Coop. (Turismo integrato e sostenibile) 7 Polo formativo Torino Immaginazione & per i beni e le attività culturali: lavoro Soc. Coop. dal patrimonio all’innovazione 8 Innovazione Aerospazio Torino Itis “Grassi” www.poloaerospazio.it di Torino 9 “L’artigiano tecnologico” Alessandria For.Al. Scrl Polo per la ricerca, (Cuneo, lo studio Torino) e l’applicazione di tecnologie innovative 63 riferire alle forme d’arte d’eccellenza 10 “Mechanical Dis.Tr.I.C.T.” Torino C.IA.C. Scrl www.poloformech.it Distretto per il trasferimento e l’innovazione delle competenze tecniche Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 11 Polo per la meccanica Cuneo IIs “Vallauri” http://www.vallauri.edu/Attuale17 e le nuove tecnologie di Fossano Gennaio2007/ifts/fr_ifts.htm con l’utilizzo di materiali avanzati 12 La meccanica per lo sviluppo Novara Itis “Omar” www.meccanicasviluppo.it (Vercelli, Verbania) 13 Logistica intermodale Alessandria Istituto “Marconi” http://polologisticsmobility.word e mobilità metropolitana di Tortona press.com/about/ 14 Polo formativo Torino Itis “Natta” per i materiali polimerici (Alessandria) di Rivoli ed i nano compositi (Sviluppo - Trasformazione - Ambiente) 15 Piccole, medie e grandi economie: Cuneo Ips “Mucci” il primato enogastronomico di Bra del Piemonte 16 “Polo formativo Cuneo Agenform agroalimentare e agroindustriale Agenzia della provincia di Cuneo dei Servizi Formativi della provincia di Cuneo 17 Filiera Riso: una risorsa Vercelli Itas “Ferraris” agroalimentare territoriale salutistica da valorizzare 18 Formazione, innovazione, ricerca Biella Itis “Sella” per il sistema tessile, (Torino, abbigliamento, moda Novara, Vercelli, Cuneo) SARDEGNA Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 Polo formativo Cagliari ITN “Buccari” h t t p : / / w w w . i t n b u c c a r i . i t / c m s / i n d e x . - settore trasporti e logistica php?special=changearea&newArea= 133 2 Polo formativo Cagliari IIS “Deledda” http://www.graziadeleddacagliari.it - settore ambiente 64 3 Polo formativo Oristano IPSAA IPSAR - settore agroalimentare “Don Meloni di Nuraxinieddu” 4 Polo formativo Olbia ITS “Deffenu” - settore ICT wireless 5 Polo formativo Cagliari Itis “Scano” www.plasturgiasardegna.it - Plasturgia SICILIA Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 Polo formativo Messina IS “G. Minutoli” - Agroalimentare di Messina 2 Polo formativo Catania ITI “S. Cannizzaro” www.cannizzaroct.it - Ambiente di Catania 3 Polo formativo Palermo Liceo Scientifico - ICT Statale “S. Cannizzaro” di Palermo 4 Polo formativo Catania ISIS - Trasporti “Duca degli Abruzzi” di Catania 5 Polo formativo IPSSAR - Turismo - Beni culturali “Paolo Borsellino” di Palermo 6 Polo formativo per l’Ifts Liceo Ginnasio - settore Nuove tecnologie Statale produttive in settori specifici Maurolico di rilevanza locale di Messina 7 Polo formativo per l’Ifts Istituto Tecnico - settore Nuove tecnologie Industriale produttive in settori specifici Euclide di rilevanza locale di Caltagirone UMBRIA Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 IN.TEX Ecipa sede: - Polo per l’innovazione tessile ITAS “G. Bruno” in Umbria di Perugia 2 MCT SFCU - Polo formativo meccatronica Sistemi formativi 65 Confindustria Umbria 66 VENETO Deno mi nazi o ne Pro v i nci a Ente capo fi l a Si to 1 Polo formativo Belluno IPSSAR www.alberghiero-longa- rone.it/mbcn/ per il marketing “D. Dolomieu” leggi/22/38/lang,it e la valorizzazione di Longarone dei prodotti del territorio 2 Polo formativo Padova Itis “F. Severi” www.itiseveri.it per la tecnologia avanzata dell’industria e dell’artigianato 3 Polo formativo Padova ITG “G.B. Belzoni” www.belzoniboaga.it/ifts1.htm per il turismo integrato e lo sviluppo agroambientale “ 4 Polo formativo Rovigo IPSIA per un sistema polesine di qualità di Rovigo 5 Polo formativo Treviso IPSIA “G. Galilei” www.ipsia-galilei.it/default.htm meccanica e legno Castelfranco Veneto 6 Polo formativo Treviso IPSIA “C. Scarpa” www.ipsiamb.it/ifts sistema moda di Montebelluna 7 Polo formativo Venezia IPSSARCT www.cornaro.it per i nuovi mestieri del mare “E. Cornaro” e la valorizzazione di Jesolo Lido 8 Polo formativo Venezia Itis “Zuccante” www.zuccante.it/info/Ifts/index.asp valore ambiente di Venezia Mestre 9 Polo formativo Verona IPSIA “G. Giorgi” www.giorgivr.it/web/corsi_Ifts.htm per le tecnologie avanzate nei settori manifatturiero e dei servizi 10 Polo formativo Verona ITSG www.itgcangrande.it per l’agroalimentare “Cangrande la valorizzazione del territorio della Scala” e dei servizi 11 Polo formativo Vicenza Itis “A. Rossi” www.itisrossi.vi.it/ifts/ifts logistica e qualità nel settore manifatturiero e dei servizi 12 Polo formativo Vicenza LGS “G.B. Brocchi” terziario commercio e servizi di Bassano del Grappa nel settore manifatturiero e dei servizi 67 6. Bibliografia BOLIS M., S. COLETELLAZZI, I. PAIS, I. PICCOLI, La formazione competente. L’esperienza IFTS in Lombardia, F. Angeli, Milano, 2006. FONDAZIONE PER LA SCUOLA, L’istruzione e formazione tecnico-superiore (IFTS). L'esperienza di Liguria e Piemonte, Quaderni della Fondazione, n. 4. ISFOL, Nuovi bisogni di professionalità e innovazione del sistema formativo italiano. La forma- zione integrata superiore, F.Angeli, Milano, 2000. ISFOL, La nuova v ia della specializzazione. Analisi valutativa dei primi corsi IFTS, F. Angeli, Milano, 2001. ISFOL, I percorsi per Tecnici superiori: un’opportunità in crescita. Rapporto di monitoraggio e valutazione dei corsi IFTS 1999-2000, I nuovi confini della formazione, Roma, 2003. ISFOL, L’inserimento nel lavoro dei nuov i tecnici superiori. Gli esiti formativ i ed occupazionali dei percorsi 1998-1999, I nuovi confini della formazione, Roma, 2003. ISFOL, La filiera IFTS tra sperimentazione e sistema. Terzo rapporto nazionale sui percorsi IFTS, I libri del FSE, luglio 2004. ISFOL, Tecnici al lavoro. Analisi degli esiti formativ i ed occupazionali dei percorsi IFTS, I libri del FSE, luglio 2004. ISFOL, Il tutor di stage nei percorsi IFTS. Corso di autoformazione, Cd rom, MIUR, 2004. ISFOL, La filiera IFTS: il primo triennio sperimentale, in “Quaderni degli Annali dell’Istruzione”, n. 103, 104, Le Monnier, Firenze, 2004. ISFOL, Poli Formativ i per l’istruzione e la formazione tecnica superiore: un’analisi qualitativa di alcuni casi, aprile 2008. PELLERY M. (a cura di), Studio sull’intera filiera formativa professionalizzante alla luce delle strategie di Lisbona a partire dalla formazione superiore non accademica, in Ciofs/fp e Cnos- fap, collana “Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale”, 2008. REGIONE LOMBARDIA, Modelli di innovazione delle strategie di intervento sul Capitale Umano: Distretti formativ i, Campus, Poli formativ i e tecnologici per la competitiv ità del sistema lombardo, Direzione Istruzione, Formazione e Lavoro Sistema Informativo Integrato e Co- municazione. Piano di Informazione e Comunicazione, Quaderno n. 1, 2006. REGIONE MARCHE – Servizio Istruzione e Diritto allo Studio, Il sistema Ifts nelle Marche, in “I qua- derni di istruzione e formazione superiore, 2004. REGIONE SARDEGNA, Progetto Campus. Report ricognizione esperienze nazionali d’eccellenza, 2007. REGIONE VENETO, Forum sulla Competitiv ità. Conoscenza, Formazione Superiore, Università e Imprese: strutture organizzative e percorsi di collaborazione (Libro verde n. 2), 2006. REGIONE VENETO - USR VENETO, I Poli formativ i IFTS nel Veneto, 2006. 69 INDICE PRES ENTAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 1. L’evoluzione del concetto di Polo formativo nell’ambito dell’istruzione e forma- zione tecnica superiore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 2. I riferimenti terminologici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 3. I modell i di intervento regionali ed i l contributo del Cnos Fap . . . . . . . . . 35 4. L’evoluzione del polo – i l caso della Regione Veneto . . . . . . . . . . . . . . . . 43 5. Verso una fi l iera dell’istruzione tecnica e professionale . . . . . . . . . . . . . . . 51 Allegato - Elenco dei pol i attivati nel le Regioni i tal iane . . . . . . . . . . . . . . . 55 6. Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67 71 Pubbl i cazi o ni 2 0 0 2 -2 0 0 9 nel l a co l l ana del CNOS-FAP e del CIOFS/ FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” ISSN 1972-3032 Sezi o ne “Studi ” 2002 MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimenta- zione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. 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