Studio sull'intera filiera formativa professionalizzante alla luce delle strategie di Lisbona a partire dalla formazione superiore non accademica. Rapporto finale

Autore: 
Michele Pellerey (a cura di)
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2008
Numero pagine: 
290
Studio sull’intera filiera formativa professionalizzante alla luce delle strategie di Lisbona a partire dalla formazione superiore non accademica Anno 2007 CIOFS/FP A cura di Michele PELLEREY 3 SOMMARIO PRESENTAZIONE.............................................................................................................. 5 Parte prima: La formazione professionale superiore alla luce del Quadro Europeo delle Qualificazioni per l’Apprendimento Permanente (Elaborazione di Michele Pellerey) ............................................................................... 9 Parte seconda: Le esperienze europee nel campo della formazione professionale superiore che più possono aiutare a definire una soluzione italiana (Elaborazione di Benedetta Torchia e Heike Mueller) .................................................. 57 Parte terza: Le iniziative italiane nel dare risposta alle esigenze del mercato del lavoro nella preparazione di tecnici superiori (Elaborazione di Benedetta Torchia) ............................................................................. 115 Parte quarta: Scenari, esperienze, riflessioni e proposte per l’elaborazione di una metodologia di lavoro per giungere a una definizione e descrizione del “tecnico superiore”, per coglierne i fabbisogni, per promuoverne la formazione (Elaborazione di Mauro Frisanco) ................................................................................. 177 Conclusione generale: Su alcune ricadute relative al Sistema di Istruzione e Formazione professionale considerato nella sua complessità (Elaborazione di Michele Pellerey) ............................................................................... 249 Documentazione (Elaborazione di Francesco Orio).................................................................................. 267 RIFERIMENTI PRINCIPALI ............................................................................................... 275 INDICE ............................................................................................................................ 283 5 PRESENTAZIONE Gli anni 2007 e 2008 hanno segnato dal punto di vista della formazione profes- sionale terziaria non accademica in Italia un significativo passaggio. Già la Finan- ziaria approvata nel 2006 decretava una riorganizzazione del Sistema di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore, di cui all’art. 69 della legge 17 maggio 1999 n. 144. In seguito il decreto legge 31 gennaio 2007 n. 7 poi convertito in legge con modi- fiche il 2 aprile 2007 n.40, art. 13 comma 2 prevedeva l’istituzione degli Istituti Tec- nici Superiori. Il 20 dicembre è stata presentata alla Conferenza Stato Regioni una bozza di decreto attuativo di tali disposizioni di legge. Nel mese di aprile è stato pre- sentato il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che fornisce le linee guida da seguire nella costituzione degli Istituti Tecnici Superiori (ITS) e nell’impo- stare i programmi di Istruzione e Formazione Tecnico Superiore (IFTS). In questo quadro evolutivo occorre anche tener presente l’esperienza attuata nella Provincia Autonoma di Trento che ha attivato a partire dal 2006 percorsi di Alta Formazione Professionale a carattere biennale secondo una metodologia di lavoro specifica. Nel frattempo sia il cosiddetto Processo di Bologna, sia la Commissione europea hanno elaborato rispettivamente un Quadro di riferimento per le qualifica- zioni accademiche e un Quadro di riferimento per quelle professionali derivanti da processi di apprendimento permanente. Il primo quadro di riferimento comprende i cosiddetti descrittori di Dublino, approvati dai Ministri competenti per i problemi universitari nel loro incontro di Bergen nel 2005 e riconfermati in quello di Londra del 2007. Il secondo quadro europeo delle qualificazioni è stato approvato il 23 aprile 2008 dal Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo. Ambedue i quadri di riferimento prevedono un livello di qualificazione intermedio tra quello di fine scolarità secondaria superiore (quarto livello) e quello del primo ciclo universitario triennale (sesto livello), derivante da un percorso formativo terziario detto “ciclo corto” biennale (quinto livello). La qualificazione che si ottiene al termine di tale ciclo formativo viene comunemente definita di tecnico superiore. Da più di venti anni in Europa si è avuto un progressivo sviluppo dei percorsi formativi superiori a carattere professionalizzante e non universitari, mentre in Italia si è insistito fino a livelli eccessivi nel consegnare tutta la formazione terziaria, anche quella professionalizzante, nelle mani delle Università; ma queste molto spesso non erano in grado di garantire la preparazione dei cosiddetti tecnici supe- riori. I tentativi di risolvere la questione della formazione tecnico professionale superiore con i cosiddetti corsi IFTS hanno mostrato tutti i limiti di tale esperienza, che si configura più come completamento della preparazione secondaria, basata cioè su corsi di natura post-secondaria, che come formazione di autentico livello terziario. 6 L’impostazione data dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri rimane per molti versi ambigua e incongruente con le prevalenti esperienze europee e il Quadro Europeo delle Qualificazioni (QEQ). In effetti il Decreto legislativo 226 del 2005, in attuazione della legge 53/03 di riforma del sistema educativo nazionale, prevede all’art. 20 il Diploma di Tecnico Superiore in questa prospettiva: “d) che, ai fini della continuità dei percorsi, di cui all’articolo 1, comma 13, il titolo conclusivo dei percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore (IFTS) assuma la denomi- nazione di «diploma professionale di tecnico superiore»”. Questa disposizione di legge sembra essere superata, con non pochi problemi istituzionali, considerando che il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri prevede dopo il primo ciclo due percorsi: uno di IFTS di durata annuale aperto ai possessori di diploma professionale quadriennale che si conclude con “certificato di specializzazione tecnica superiore”, e uno di ITS di durata biennale aperto ai possessori di diploma di Stato quinquennale, che si conclude con un “diploma di tecnico superiore”. In altre parole si prospetta un canale che permette a 19 anni, dopo cinque anni dall’esame di Stato conclusivo del primo ciclo scolastico, di conseguire un “certificato di specializzazione di tecnico superiore” e un altro che consente a 22 anni, dopo sette anni dall’esame di Stato conclusivo del primo ciclo scolastico, di conseguire il “diploma di tecnico superiore” (quinto livello del QEQ). Ciò risulta in contrasto con il panorama europeo e con lo stesso QEQ, in quanto in genere in Europa la scuola secondaria superiore termina a 18 anni e il ciclo trien- nale terziario porta a ottenere a 21 anni una qualificazione del sesto livello. Inoltre l’espressione “certificato di specializzazione di tecnico superiore” può essere normalmente interpretata come allusiva di un livello di ulteriore qualificazione dopo il diploma di tecnico superiore. La nostra ricerca non si configura, quindi, come uno studio applicativo delle disposizioni presenti nel decreto precitato, bensì intende esplorare in maniera aperta e critica tutta la problematica relativa allo sviluppo dei processi di forma- zione professionale soprattutto nel loro aspetto più elevato, quello che porta alla figura di tecnico superiore, lasciando da parte, se non per confronto, l’impianto for- mativo di natura accademica, anche quando è orientato verso settori professionali di natura tecnica. La ragione teorica sta proprio nella diversa natura dei percorsi sia del secondo ciclo del sistema educativo, sia del sistema terziario che sono specifi- catamente orientati a un dialogo stretto con il mondo del lavoro e a rispondere alle richieste che provengono dal territorio. I percorsi tipicamente scolastici e universi- tari, pur potendo, e in molti casi dovendo, svilupparsi in maniera coerente con il sistema di produzione di beni e servizi, risentono di una urgenza minore in questa direzione, in quanto più direttamente aperti alle ricerca teorica, alla riflessione cri- tica, allo sviluppo delle discipline di natura scientifica e tecnologica, alla fonda- zione delle diverse professionalità, più che a un loro sviluppo compiuto. Il nostro studio analizza la questione della formazione professionale superiore non accademica nel quadro di quello che ormai viene definito, soprattutto in am- 7 bito OCSE, livello istruttivo terziario, esaminando da vicino le iniziative ormai consolidate in Europa e quelle in corso di incerto sviluppo in Italia. Su questa base intende evidenziare le condizioni fondamentali che devono essere messe in atto per avviare anche in Italia un vero e proprio sistema di formazione professionale di livello terziario di natura non accademica, proponendo anche alcune metodologie di lavoro, che sono risultate, sulla base anche dell’esperienza finora sviluppata, valide e fattibili. Tra queste condizioni oggi è più che mai urgente la definizione istituzionale della qualificazione finale di tecnico superiore in maniera da rispon- dere a quanto viene sollecitato dal Quadro Europeo delle Qualificazioni. La messa a punto del sistema di formazione professionale a livello di prepara- zione dei tecnici superiori permette di conseguenza anche una rilettura attenta dei livelli corrispondenti al diploma professionale di tecnico e al titolo di qualificato conseguente all’esame di qualifica professionale. Nel lavoro da sviluppare a livello nazionale, in applicazione del QEQ, si tratta di precisare le conoscenze, abilità e competenze richiesta rispettivamente dai livelli terzo e quarto. L’impegno è quello di elaborare un quadro nazionale che sia armonico con le indicazioni europee. Occorre in particolare rileggere i cosiddetti standard formativi minimi relativi alla qualifica professionale conseguita dopo il triennio dei percorsi di Istruzione e Formazione professionale per verificarne la compatibilità con quanto descritto per il livello 3 del QEQ ed eventualmente renderli più coerenti con esso. Inoltre, andrà prospettato quanto viene richiesto a livello europeo in ordine al diploma professionale di tecnico. La proposta più ragionevole è quella di operare tenendo conto di alcune fonti di riferimento principali: il quadro delle competenze chiave per l’apprendimento permanente; il QEQ; le indicazioni relative all’obbligo di istruzione; quanto finora elaborato per l’ambito delle cosiddette competenze di base e per quello delle competenze professionali; le sperimentazioni avviate nelle varie Regioni e Province autonome. In questo contesto, il presente rapporto di ricerca si propone di presentare le coordinate di riferimento fondamentali per leggere e interpretare le esigenze forma- tive poste dal quinto livello del Quadro Europeo delle Qualifiche per l’Apprendi- mento Permanente, tenendo conto del livello precedente, il quarto livello (diploma professionale di tecnico) e di quello successivo, il sesto livello (laurea del primo ciclo universitario). Esso si articola secondo quattro parti fondamentali, seguite da una conclusione generale. Prima parte. La formazione professionale superiore alla luce del Quadro Europeo delle Qualificazioni per l’Apprendimento Permanente (elaborazione di Michele Pellerey). Seconda parte. Le esperienze europee nel campo della formazione professionale superiore che più possono aiutare a definire una soluzione italiana (elaborazione di Benedetta Torchia e Heike Mueller). 8 Terza parte. La iniziative italiane nel dare risposta alle esigenze del mercato del lavoro nella preparazione di tecnici superiori (elaborazione di Benedetta Torchia). Quarta parte. Scenari, esperienze, riflessioni e proposte per l’elaborazione di una metodologia di lavoro per giungere a una definizione e descrizione del “tecnico superiore”, per coglierne i fabbisogni, per promuoverne la formazione (elaborazione di Mauro Frisanco). Conclusione generale. Su alcune ricadute relative al Sistema di Istruzione e Formazione professionale considerato nella sua complessità (elaborazione di Michele Pellerey). Viene anche allegata una ricca documentazione di testi riferiti direttamente o indirettamente alla problematica affrontata. Per agevolare la loro consultazione essi sono stati riprodotti in forma digitale e secondo una tecnica di facile accesso a essi sia in forma .pdf, sia .doc (elaborazione di Francesco Orio, che ha anche curato l’editing di questo rapporto). Parte I LA FORMAZIONE PROFESSIONALE SUPERIORE ALLA LUCE DEL QUADRO EUROPEO DELLE QUALIFICAZIONI PER L’APPRENDIMENTO PERMANENTE Elaborazione di Michele PELLEREY 11 1. UN NUOVO RIFERIMENTO EUROPEO 1.1. La proposta della Commissione Europea del 5 settembre 2006 di una Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio Il 5 settembre 2006 la Commissione della Comunità Europea ha presentato una proposta di Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio sulla Costituzione di un Quadro europeo delle Qualifiche e dei Titoli per l’apprendimento permanente. È utile rileggere alcune parti del testo elaborato dalla Commissione. In un’Europa caratterizzata da rapidi mutamenti tecnologici ed economici e da una popolazione che invecchia, l’apprendimento permanente è divenuto una necessità. Saper rinnovare continuamente conoscenze, abilità e competenze dei cittadini, è divenuto cru- ciale per mantenere la competitività e la coesione sociale dell’UE. L’apprendimento per- manente è però complicato dalla mancanza di comunicazione e di cooperazione tra i vari livelli delle autorità scolastiche e di formazione e tra i vari Paesi. Ne risultano barriere che impediscono ai singoli cittadini di accedere all’istruzione e alla formazione e alla possibilità di combinare titoli ottenuti da istituzioni diverse. Esse rendono difficile i mo- vimenti dei cittadini in seno al mercato del lavoro europeo e un genuino apprendimento permanente (che attraversi cioè tutti i livelli d’istruzione e formazione e usi modi d’ap- prendimento formali, non formali e informali). ... Si raccomanda agli Stati membri di usare l’EQF come strumento di riferimento per comparare i livelli dei titoli tra i vari schemi, legare i propri schemi all’EQF riferendo i livelli di qualifica ai corrispondenti livelli EQF ed eventualmente per sviluppare uno schema nazionale dei titoli. Inoltre, le nuove qualifiche e i documenti Europass dovranno contenere un chiaro riferimento a un appropriato livello EQF. Nelle situazioni di cui alla direttiva 2005/36/CE, sul riconoscimento delle qualifiche professionali, questi riferimenti non devono tuttavia ledere i diritti dei migranti. Si raccomanda inoltre agli Stati membri di usare un approccio basato sui risultati dell’apprendimento per definire e sviluppare le qualifiche, promuovere la convalida dell’apprendimento non formale ed informale e desi- gnare un centro nazionale EQF che aiuti e coordini la relazione tra schema nazionale dei titoli ed EQF e di servirsi, in particolare, di meccanismi di garanzia della qualità e di pro- cedure trasparenti. ... L’elemento centrale dell’EQF è costituito da una serie di 8 livelli di riferimento che fungono da punto comune e neutro di riferimento per gli enti di istruzione e formazione a livello nazionale e settoriale. Gli 8 livelli coprono l’intera gamma dei titoli, da quelli 12 ottenuti al termine dell’istruzione e della formazione obbligatoria a quelli assegnati ai più alti livelli di istruzione e formazione accademica e professionale. In quanto strumento che promuove l’apprendimento permanente, l’EQF comprende istruzione generale e per adulti, istruzione e formazione professionale e istruzione superiore. I livelli da 5 a 8 con- tengono un chiaro riferimento ai livelli definiti nello schema per lo Spazio europeo del- l’Istruzione Superiore nel contesto del Processo di Bologna. Gli 8 livelli di riferimento EQF sono descritti in base ai risultati dell’apprendimento: questi sono intesi nell’EQF come dimostrazione di ciò che un discente sa, capisce ed è in grado di fare al termine di un apprendimento. Ciò riflette un’importante differenza nel modo di concepire e descrivere l’istruzione, la formazione e l’apprendimento. Il fatto di puntare sui risultati dell’apprendimento introduce un linguaggio comune che rende possi- bile comparare i titoli secondo il loro contenuto e il loro profilo e non secondo metodi e processi di acquisizione. Nell’EQF i risultati dell’apprendimento sono definiti da una combinazione di conoscenze, abilità e competenze. L’equilibrio tra questi elementi varia da titolo a titolo poiché l’EQF copre tutti i titoli a tutti i livelli, sia accademici che profes- sionali. Usare i risultati dell’apprendimento per descrivere i livelli dei titoli facilita la con- valida dell’apprendimento acquisito al di fuori dell’istruzione formale e degli enti di for- mazione, considerato un elemento chiave dell’apprendimento permanente. ... L’EQF è anche uno schema di cooperazione e uno strumento per rafforzare la fiducia reciproca tra parti nazionali interessate e tra enti internazionali settoriali addetti all’istruzione e alla formazione. Perché l’EQF abbia successo occorre che gli enti di istruzione e formazione nazionali e le parti settoriali interessate vi si impegnino su base volontaria. Useranno l’EQF in primo luogo gli enti che elaborano schemi e sistemi di quali- fiche nazionali e/o settoriali. L’EQF sarà utile a cittadini singoli, datori di lavoro e perso- nale di istruzione e formazione solo dopo che a livello nazionale e/o settoriale sarà stato effettuato il processo di riferimento. ... Affinché il processo di attuazione sia coerente, soprattutto per i riferimenti ai livelli EQF dei livelli nazionali e settoriali di qualifica, occorrerà sviluppare, attraverso test, esperimenti e cooperazione diretta, dei materiali ausiliari e d’orientamento da usare a li- vello settoriale, nazionale ed europeo. La proposta raccomanda di riferire i sistemi nazio- nali dei titoli all’EQF entro il 2009 e di indicare, per i nuovi titoli e i documenti Euro- pass, il riferimento al rispettivo livello EQF entro il 2011. Va anche prestata molta cura all’impatto sulla classificazione di conoscenze, abilità e competenze dell’approccio basato sui risultati dell’apprendimento, usato dall’EQF. Futuri aggiornamenti di classificazioni e nomenclature statistiche, come ISCED 97, che aiutano a misurare i risultati dell’istruzione e della formazione, dovranno pertanto tener conto di ciò. La Commissione e agenzie come il Cedefop e la Fondazione europea per la forma- zione professionale dovranno sostenere e agevolare a livello europeo le attività di questo tipo. ... L’orientamento politico europeo è evidente. Meraviglia perciò che nel recente decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri si faccia ancora riferimento per quanto riguarda il Diploma di Tecnico Superiore al quarto livello della classifica- zione comunitaria delle certificazioni adottata con Decisione del Consiglio 85/368/ CEE. 13 1.2. La proposta di decisione della Commissione Europea del 6 novembre 2007 Per definire in maniera sufficientemente armonica e funzionale tutta la proble- matica connessa con il riconoscimento reciproco in sede comunitaria delle qualifi- cazioni conseguenti titoli e diplomi e più in generale delle conoscenze e compe- tenze effettivamente raggiunte dai cittadini in contesti sia formali, che non formali e informali, la Commissione europea aveva avviato negli anni duemila una vasta consultazione sulla base di una ipotesi di quadro europeo delle qualifiche per l’ap- prendimento permanente.1 Tale quadro, in breve QEQ, veniva in seguito approvato dalla Commissione europea e proposto al Parlamento e al Consiglio europeo per una sua adozione definitiva. Il Governo italiano2 rispose a tale consultazione indi- cando come la qualifica professionale relativa a un operatore prevista dalla norma- tiva italiana poteva collocarsi al terzo livello di tale quadro, mentre quella del di- ploma professionale, cioè di tecnico professionale, poteva essere collocata al quarto livello. Quanto a quella del Diploma professionale di tecnico superiore, essa poteva essere collocata al quinto livello. Rilevante ai fini del nostro esame è la proposta di decisione del Parlamento eu- ropeo e del Consiglio presentata dalla Commissione che mira alla abrogazione della decisone 85/368/CEE del Consiglio relativa alla corrispondenza delle quali- fiche di formazione professionale tra gli Stati membri delle Comunità europee.3 La relazione che presenta la proposta è assai significativa, anche se lunga e complessa. Ne riportiamo solo alcune considerazioni. La decisione del 1985 adottava un approccio dall’alto verso il basso che richiedeva una cooperazione intensa tra esperti di diversi Paesi al fine di aggiornare continuamente l’elenco, modificare le descrizioni delle occupazioni e delle qualifiche e, se del caso, aggiungerne di nuove. Il fatto che solo un campo limitato di occupazioni e solo una frazione delle qualifiche professionali siano stati coperti riflette il carattere poco pratico di questo approccio. Il QEQ adotta un approccio volontario e decentrato in cui la Comunità fornisce un punto di riferimen- to comune e le decisioni dettagliate sono lasciate agli organismi competenti a livello nazionale e settoriale. Le disposizioni previste per il lavoro di riferimento all’interno dei Paesi non sono eccessivamente onerose. I Paesi mettono i loro livelli di qualifiche in relazione con il QEQ in modo da poter assegnare un livello QEQ a qualunque qualifica di un livello particolare nel quadro o sistema nazionale. Il QEQ fornisce quindi un linguaggio comune per descrivere e comprendere le qualifiche. Le decisioni nazionali sulla corrispondenza delle qualifiche ai livelli QEQ sono successivamente trasmesse al gruppo consultivo QEQ che garantisce la qualità del processo. I Paesi hanno quindi un interesse ad effettuare una valutazione iniziale appropriata del livello delle proprie qualifiche e a contribuire al processo di garanzia della qua- lità a livello europeo. Il QEQ affronta i limiti della decisione del 1985 a due livelli: ponendo l’accento sul miglioramento della trasparenza delle qualifiche e introducendo un approccio decentrato di cooperazione più adatto alla crescente complessità delle qualifiche in Europa. 1 “Verso un quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente” (Sec(2005)957 del 08/07/05). 2 Esiti della Consultazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Dicembre 2005. 3 Proposta di decisione del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 novembre 2007, COM (2007) 680 definitivo. 14 D’altra parte il documento ricorda che sono stati nel frattempo elaborati altri strumenti e misure di trasparenza e mobilità a livello europeo che promuovono la tra- sparenza e aumentano la trasferibilità delle qualifiche, tra cui: Europass, il Sistema europeo di trasferimento crediti (ECTS), le conclusioni del 2004 del Consiglio sul- l’individuazione e la convalida dell’apprendimento non formale e informale, il na- scente Sistema europeo di trasferimento crediti per la formazione professionale (ECVET) (SEC (2006) 1431), nonché il portale Ploteus (http://ec.europa.eu/ploteus). Inoltre, il riconoscimento reciproco delle qualifiche nel campo delle professioni re- golamentate è disciplinato dalla direttiva 2005/36/CE del 7 settembre 2005. La diret- tiva, che consolida, aggiorna e semplifica 15 direttive approvate tra il 1975 e il 1999, istituisce un sistema di riconoscimento automatico delle qualifiche per professioni con percorsi di formazione armonizzati (medici, infermieri, ostetriche, odontoiatri, veterinari, farmacisti e anche per architetti). Per le altre professioni regolamentate (attualmente, sono regolamentate in uno o più Stati membri dell’UE circa 800 pro- fessioni) le modalità si basano sul riconoscimento reciproco: una persona qualificata a esercitare una professione in uno Stato membro, sarà autorizzata a esercitarla in un altro Stato membro. Alla luce di questa situazione la Commissione, dopo aver preso in considera- zione alcune opzioni alternative, ha proposto di abrogare la decisione del 1985 e realizzare i suoi obiettivi nell’ambito del nuovo QEQ e degli altri meccanismi sopra menzionati. Infatti, il QEQ raggiunge gli obiettivi in modo più efficiente grazie al suo quadro più semplice e in modo più efficace grazie alla sua maggiore trasparenza, al suo campo di applicazione più ampio e al fatto che si basa sui risul- tati dell’apprendimento. 1.3. La Raccomandazione approvata dal Parlamento e dal Consiglio europeo il 23 aprile 2008 Il Quadro Europeo delle Qualificazioni per l’Apprendimento Permanente è stato formalmente adottato il 23 aprile 2008 congiuntamente dal Parlamento eu- ropeo e dal Consiglio europeo. In tale occasione sono state impostate anche le poli- tiche di una sua valorizzazione da parte dei vari sistemi nazionali. Si tratta di una Raccomandazione che stabilisce il Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendi- mento permanente come schema di riferimento per correlare i sistemi e i quadri di qualifiche dei diversi Paesi. Esso fungerà da strumento di traduzione per rendere le qualifiche più leggibili e comprensibili ai datori di lavoro, ai singoli e alle istitu- zioni, di modo che i lavoratori e i discenti possano far valere le loro qualifiche in altri Paesi. Riprendiamo alcuni passaggi del comunicato ufficiale, che riassume le parti descrittive e operative più significative della Raccomandazione. Il QEQ rientra nel quadro dell’apprendimento permanente e interessa le qualifiche conseguite in tutti i campi dell’istruzione, compresa l’istruzione generale, l’istruzione su- periore e la formazione professionale. Esso è imperniato su otto livelli di riferimento delle qualifiche, da quelle conseguite a conclusione dell’istruzione dell’obbligo (livello 15 1) a quelle di livello più alto (livello 8: dottorato o equivalente). I tre livelli superiori cor- rispondono ai livelli dell’istruzione superiore quali definiti nel contesto dello Spazio eu- ropeo dell’istruzione superiore in relazione al Processo di Bologna, vale a dire laurea, master e dottorato. Ma in essi possono anche rientrare qualifiche professionali estrema- mente specializzate. Per assicurare l’efficacia del QEQ tra i diversi sistemi, i suoi livelli si basano sui risultati dell’apprendimento (ciò che un discente sa, comprende ed è capace di fare) più che sugli input dell’apprendimento (la lunghezza dell’esperienza apprendi- tiva, il tipo di istituzione, ecc.). Il QEQ renderà le qualifiche acquisite in diversi Paesi più agevoli da comparare e meglio leggibili e contribuirà quindi alla mobilità dei cittadini. Esso integra e sostiene l’attuale gamma di programmi e strumenti volti ad aiutare i cittadini a vivere e a lavorare in altri Paesi dell’UE, come ad esempio il programma Erasmus per la mobilità degli stu- denti e Europass che costituisce un portfolio standardizzato volto a consentire ai cittadini di descrivere, in modo trasparente, le loro abilità. Molti Paesi stanno già ponendo in atto il loro quadro nazionale delle qualifiche (QNQ) in risposta al QEQ. I quadri delle qualifiche sono sempre più considerati stru- menti in grado di correlare diverse parti del sistema educativo di un Paese consentendo alle persone di seguire svariati percorsi di apprendimento, spostandosi, ad esempio, più agevolmente tra diversi tipi di istituzioni quali Università o istituti di formazione profes- sionale o ottenendo il riconoscimento delle loro esperienze di apprendimento non for- male. Il QEQ – e le sue controparti nazionali – riconoscono quindi la realtà delle carriere moderne e dell’apprendimento moderno – il fatto cioè che la carriera di una persona con- siste di tutta una serie di tipi diversi di apprendimento, certuni strutturati, altri informali, in un’ottica che abbraccia l’intera durata della vita. Il QEQ e i QNQ possono contribuire quindi a preparare le società alle sfide dell’economia dei saperi. A livello pratico, la raccomandazione fissa al 2010 l’obiettivo di raggiungere una correlazione dei sistemi di qualifiche dei vari Paesi con il QEQ. A partire dal 2012, tutte le nuove qualifiche dovrebbero recare un riferimento al QEQ di modo che i datori di lavoro e le istituzioni possano identificare le conoscenze, abilità o competenze di un candidato. La Commissione e gli Stati membri stanno già lavorando assieme per mettere a punto gli aspetti pratici della fase di attuazione. Un gruppo consultivo, costituito di rappresentanti dei governi e delle Parti sociali (datori di lavoro e sindacati) coordinerà il processo necessario per rapportare i sistemi nazionali al QEQ. 1.4. Ricadute sul sistema italiano di formazione professionale a livello del secondo ciclo del sistema educativo e a livello terziario La Raccomandazione approvata dal Parlamento e dal Consiglio europeo il 23 aprile 2008 per una adozione generalizzata nei Paesi europei del Quadro Europeo delle Qualificazioni per l’Apprendimento Permanente implica un lavoro assai im- pegnativo su base nazionale per giungere a una razionalizzazione del sistema di qualifiche e diplomi di natura professionale. In particolare occorre rileggere con grande attenzione i risultati che si vogliono raggiungere sia in termini culturali, sia professionali al livello delle qualifiche professionali conseguite dopo il triennio di formazione professionale iniziale e dei diplomi professionali conseguiti al termine dal quarto anno. Occorre anche rivedere con cura quanto descritto nell’accordo tra Stato e Regioni del 15 gennaio 2004 circa gli standard formativi minimi relativi alle competenze di base e quanto è in via di elaborazione circa le competenze tec- 16 nico-professionali per quanto concerne le qualifiche. Analogo lavoro va intrapreso per quanto riguarda i diplomi professionali. Tuttavia, assai più impegnativo appare il lavoro da svolgere nei riguardi del di- ploma di tecnico superiore che dovrebbe corrispondere a quanto prefigurato relati- vamente a conoscenze, abilità e competenze per il quinto livello del QEQ e al primo dei descrittori di Dublino. Si tratta di risultati da ottenere attraverso percorsi che possono essere attivati in contesti non accademici e che fanno parte ormai da vari anni dei sistemi di istruzione terziari dei vari Paesi europei ed extraeuropei. Nella seconda parte di questa indagine esploreremo in dettaglio quanto è pre- sente in Europa, mentre nella terza parte approfondiremo i tentativi messi in atto in Italia per rispondere a una domanda crescente di qualificazioni professionali ele- vate, direttamente collegate con il mondo del lavoro e delle professioni. Il passo successivo della nostra ricerca implica, comunque, un chiarimento circa le tendenze in atto a livello dei Paesi dell’OCSE nei riguardi delle iniziative di istruzione e formazione terziaria. Questa espressione viene sempre più diffusa- mente adottata per includere tutta l’offerta formativa successiva alla scuola secon- daria, in Italia il secondo ciclo del sistema educativo nazionale, e che non può es- sere considerata come un suo completamento. In altre parole si vuole evidenziare la natura e le finalità di corsi che assumono una caratterizzazione specifica e che por- tano a un tipo di qualificazione professionale superiore chiaramente identificabile, da non confondere con attività di integrazione di quanto raggiunto alla fine della scuola secondaria e con attività di sostegno alla transizione al mondo del lavoro. Occorre, infatti, evidenziare con chiarezza gli elementi di discontinuità che sono presenti tra l’istruzione secondaria e quella terziaria, in quanto esse sono di- rette a raggiungere risultati formativi qualitativamente differenti. Non si tratta, in- fatti, di un aggiornamento di quanto conseguito con i titoli e diplomi del secondo ciclo, né di un processo di apprendimento che tende a mantenere e consolidare le competenze di un lavoratore in accordo con le evoluzioni tecnologiche e organizza- tive del settore professionale nel quale egli è inserito. In questi casi la figura pro- fessionale di riferimento non cambia sostanzialmente nelle sue caratteristiche di au- tonomia e responsabilità. Passare al livello terziario significa considerare figure professionali di più elevato livello, che svolgono all’interno delle organizzazioni ruoli chiaramente definibili come di tecnico superiore. Le considerazioni precedenti non intendono certamente sottovalutare l’impor- tanza di un aggiornamento sistematico delle qualificazioni raggiunte a livello di secondo ciclo del sistema educativo nazionale. Anzi. Iniziative dirette a favorire pro- cessi di apprendimento ulteriore, di consolidamento delle competenze conseguite, di loro adattamento alle nuove condizioni di lavoro dovute a trasformazioni tecnolo- giche e organizzative e/o di trasferimento a settori produttivi più o meno analoghi sono non solo opportune, ma necessarie in molte situazioni concrete. Inoltre, la stes- sa attività lavorativa può diventare palestra di apprendimenti di notevole importanza e qualità, consentendo una più elevata e consolidata preparazione professionale. 17 Tutto ciò rientra nel quadro dei processi di apprendimento permanente e può anche costituire credito riconoscibile ai fini di un avanzamento non solo di carriera, ma an- che di qualificazione. Tuttavia, sono le strutture formative responsabili dell’offerta di istruzione di livello terziario che sono deputate a un eventuale riconoscimento di conoscenze, abilità e competenze acquisite in contesti sia formali, sia non formali. Infine, la definizione della figura professionale, come ben chiarito nella quarta parte, implica un lavoro congiunto tra imprese del settore produttivo considerato e responsabili dei processi formativi, sotto un’attenta regia dell’autorità pubblica in- teressata. Differentemente dal sistema universitario, dunque, le conoscenze, abilità e competenze richieste non derivano principalmente da scelte dell’istituzione for- mativa, bensì da un’analisi approfondita delle esigenze poste da ruoli professionali presenti, o prospetticamente previsti, nel mondo del lavoro e delle professioni. 2. LA DEFINIZIONE DEL LIVELLO TERZIARIO SECONDO GLI INDIRIZZI DELL’OCSE, DELL’UNIONE EUROPEA E DEL COSIDDETTO PROCESSO DI BOLOGNA 2.1. L’indagine OCSE relativamente ai sistemi di formazione terziaria presenti nei vari Paesi aderenti all’organizzazione stessa Nel 2004 l’OCSE ha lanciato uno studio sull’educazione terziaria nei Paesi fa- centi parte dell’organizzazione stessa. Per esplorare in maniera sistematica la situa- zione presente essa ha elaborato una definizione di educazione terziaria (tertiary education), distinguendola da e integrandola con quella che ordinariamente è stata definita educazione superiore (higher education). In effetti, nel passato l’educa- zione o istruzione superiore veniva identificata con quanto offerto e attuato nelle Università, in particolare in quelle europee. Ciò comprendeva in generale: a) forme di insegnamento e apprendimento richiedenti abilità concettuali e intellettuali di alto livello nell’ambito degli studi umanistici, degli studi scientifici, delle scienze sociali; b) la preparazione specifica per un limitato numero di professioni come medicina, ingegneria e legge; c) ricerche avanzate e relative borse di studio. Negli ultimi trenta anni tale situazione è andata progressivamente modifican- dosi, e ciò per varie ragioni. In primo luogo si è avuto un aumento considerevole di presenza di studenti e le Università hanno assunto la responsabilità di preparare soggetti all’attività professionale in un più vasto numero di ambiti occupazionali, mentre la loro base conoscitiva si andava progressivamente allargando e approfon- dendo; per rispondere a tale domanda formativa si sono anche articolati i titoli e i diplomi che esse potevano conferire. In secondo luogo, le istituzioni universitarie hanno assunto sempre di più un ruolo consultivo nei riguardi delle aziende e degli stessi governi nazionali e locali. In alcuni casi sono state introdotte anche quelle che vengono denominate “corporate universities”, istituzioni formative di livello universitario legate a una singola azienda, o a un gruppo di aziende, a favore spesso dei loro dipendenti. 18 Tuttavia, lo sviluppo più innovativo è stato quello della presenza sempre più diffusa di istituzioni formative e di ricerca a livello superiore non identificantesi più con le istituzioni universitarie tradizionali, bensì più direttamente collegate con il mondo delle applicazioni tecniche e organizzative e delle attività professionali specificatamente presenti nel mondo del lavoro. Esempi di questa evoluzione sono le Fachochschulen tedesche, le IUT francesi, i Politecnici finlandesi, ecc. Inoltre, accanto a percorsi formativi abbastanza lunghi, di quattro o cinque anni, si sono attivati percorsi formativi più corti di due o tre anni, spesso collegati e/o integrati con quelli più lunghi. La situazione dell’insieme delle forme di educazione supe- riore è diventata così molto più complessa e articolata e l’OCSE di conseguenza ha sentito il bisogno di rilevare la situazione presente nei vari Paesi più industrializzati e a questo fine di giungere a una definizione di educazione o istruzione terziaria più comprensiva e aggiornata. Dal punto di vista statistico, in effetti, si aveva un quadro di riferimento elabo- rato in sede Unesco nel 1997 e denominato ISCED-97 (International Standard Classification of Education), che distingueva tre tipi di programmi di formazione terziaria. – ISCED 5A: programmi largamente basati su conoscenze teoriche e diretti a fornire sufficienti qualificazioni per poter entrare in programmi di ricerca avanzati e professioni che richiedono elevate competenze. Essi durano in ge- nere almeno tre anni, anche se esistono esempi di durata minore. – ISCED 5B: programmi che richiedono il completamento previo, come per il 5°, della formazione secondaria, ma che sono in genere più corti, più pratici e tecnicamente o dal punto di vista occupazionale più specifici di quelli del tipo 5A. – ISCED 5C: programmi di ricerca avanzati, che richiedono l’elaborazione di una tesi. Occorre, tuttavia, aggiungere che: a) la classificazione ISCED prevede un li- vello 4 corrispondente a un completamento della formazione secondaria superiore, non sempre distinguibile da quella terziaria; b) tale classificazione mal si adatta a facilitare una chiara differenziazione tra i programmi 5A e 5B. Di qui la necessità di compiere un ulteriore passo nella preparazione di un quadro di riferimento più comprensivo e funzionale. A questo fine si è chiesto ai vari Paesi partecipanti di fornire le informazioni relative alla situazione attualmente presente circa pro- grammi e istituzioni riferibili al livello 5 del quadro ISCED o a un livello supe- riore, mediante un rapporto strutturato secondo un quadro di informazioni predi- sposto ad hoc. Hanno risposto gran parte dei Paesi aderenti. Le loro risposte si pos- sono leggere sul sito dell’OCSE. I rapporti nazionali sono stati redatti sulla base di undici punti fondamentali: 1) Il contesto nazionale nel quale si svolge la formazione terziaria. 2) Una descrizione comprensiva del sistema di formazione terziaria. 19 3) Il sistema di formazione terziaria e il mercato del lavoro. 4) Il ruolo regionale della formazione terziaria. 5) Il ruolo della formazione terziaria nella ricerca e innovazione. 6) Modalità di attuazione dell’equità nell’educazione terziaria e attraverso di essa. 7) Le risorse del sistema di formazione terziaria. 8) Progettazione, governo e regolazione del sistema. 9) Assicurazione e miglioramento della qualità della formazione terziaria. 10) Internazionalizzazione e globalizzazione dell’educazione terziaria. 11) Conclusione. I risultati complessivi dell’indagine sono in via di pubblicazione. A esempio, è stato pubblicato nel gennaio del 2007 un rapporto relativo alla terza questione: “Il sistema di formazione terziaria e il mercato del lavoro”. Nella seconda parte di questa indagine esploreremo in dettaglio la situazione europea dal punto di vista del livello terziario di istruzione. Nella terza parte esami- neremo la vicenda italiana relativa al sistema di formazione professionale supe- riore, canale non accademico di istruzione terziaria. Nella quarta parte proporremo alcune indicazioni metodologiche utili ad attivare percorsi di formazione professio- nale superiore. Di seguito è bene richiamare per sommi capi sia quanto è avvenuto a livello universitario negli ultimi dieci anni, sia quanto è avvenuto circa le pro- poste di formazione post secondaria in Italia. 2.2. La riforma universitaria conseguente alla Dichiarazione di Bologna del 1999 Il 19 giugno del 1999 si riunirono a Bologna i responsabili delle istituzioni universitarie di 30 Paesi europei per definire un percorso di armonizzazione dei si- stemi universitari presenti nei rispettivi Paesi. La dichiarazione nella sua forma ori- ginaria prevedeva alcuni passaggi fondamentali. Adozione di un sistema di titoli di semplice leggibilità e comparabilità, anche tramite l’implementazione del Diploma Supplement, al fine di favorire l’employability dei cittadini europei e la competitività internazionale del sistema europeo dell’istruzione superiore. Adozione di un sistema essenzialmente fondato su due cicli principali, rispettivamente di primo e di secondo livello. L’accesso al secondo ciclo richiederà il completamento del primo ciclo di studi, di durata almeno triennale. Il titolo rilasciato al termine del primo ciclo sarà anche spendibile quale idonea qualificazione nel mercato del lavoro Europeo. Il secondo ciclo dovrebbe condurre ad un titolo di master e/o dottorato, come avviene in diversi Paesi Europei. Consolidamento di un sistema di crediti didattici – sul modello dell’ECTS – acquisibili anche in contesti diversi, compresi quelli di formazione continua e permanente, purché riconosciuti dalle Università di accoglienza, quale strumento atto ad assicurare la più ampia e diffusa mobilità degli studenti. Promozione della mobilità mediante la rimozione degli ostacoli al pieno esercizio della libera circolazione con particolare attenzione a: – per gli studenti, all’accesso alle opportunità di studio e formazione ed ai correlati servizi; 20 – per docenti, ricercatori e personale tecnico amministrativo, al riconoscimento e alla valorizzazione dei periodi di ricerca, didattica e tirocinio svolti in contesto europeo, senza pregiudizio per i diritti acquisiti. Promozione della cooperazione europea nella valutazione della qualità al fine di definire criteri e metodologie comparabili. Promozione della necessaria dimensione europea dell’istruzione superiore, con par- ticolare riguardo allo sviluppo dei curricula, alla cooperazione fra istituzioni, agli schemi di mobilità e ai programmi integrati di studio, formazione e ricerca. Per portare avanti il cosiddetto Processo di Bologna vennero istituzionalizzate riunioni dei ministri responsabili per i problemi universitari ogni due anni, mentre un Gruppo di lavoro doveva seguire lo sviluppo del processo stesso. Le ultime ri- unioni si sono svolte a Praga (2001), Berlino (2003), Bergen (2005), Londra (2007). Le adesioni dei governi europei sono aumentate nel tempo giungendo a circa 50, incluse la Santa Sede e la Russia. In questo periodo sono stati sviluppati ulteriori accordi intergovernativi riguardanti sia i cicli formativi e relativi titoli, sia le modalità di documentazione degli studi (supplemento al diploma), sia i crediti formativi da attribuire alle singole attività formative (ECTS), sia l’assicurazione della qualità dei sistemi formativi mediante valutazione interna ed esterna tramite agenzie nazionali costituite ad hoc. In particolare è stato adottato un quadro di rife- rimento per il riconoscimento reciproco delle qualificazioni accademiche. In Italia la riforma universitaria è stata attuata tra molte polemiche abbastanza presto tra il 2000 e il 2003. Sfortunatamente è stato interpretato in maniera assai riduttiva l’orientamento previsto per il primo ciclo circa l’apertura alla possibilità occupazionale dei diplomati, identificandolo spesso con l’adozione di profili pro- fessionali molto specifici, ma altrettanto spesso senza diretto rapporto con il mondo della produzione di beni e servizi. In questo modo si è andati contro la tradizione consolidata di molti sistemi accademici tradizionali. Anche per questo è emersa ben presto l’insoddisfazione circa lo stato di preparazione dei diplomati dopo tre anni al fine di affrontare positivamente il biennio accademico successivo. In seguito a ciò era stata anche ipotizzata una possibile articolazione del primo ciclo, dopo un primo anno di orientamento, in un biennio più professionalizzante e uno più diret- tamente aperto agli studi successivi. Quanto al livello terziario non accademico, si può accennare come nel periodo di preparazione della legge di riforma del sistema educativo italiano del 18 marzo 2003 furono realizzati alcuni focus group. In particolare in quello dedicato alla for- mazione professionale si pose il problema della formazione professionale supe- riore. Gli ordini professionali presenti (ragionieri e geometri) preferirono sostenere l’opportunità di prevedere la laurea di primo ciclo universitario a un percorso for- mativo non universitario che contemplasse in maniera integrata il praticantato ne- cessario per essere iscritti all’ordine. Di conseguenza la legge tacque su questo pro- blema, lasciando in qualche modo monco il canale di istruzione e formazione pro- fessionale, oltretutto prefigurato secondo due bienni e quattro anni complessivi con la conclusione di un diploma. 21 2.3. I descrittori di Dublino relativi ai titoli accademici in rapporto al Quadro Europeo delle Qualificazioni Nell’incontro di Bergen (2005) i ministri competenti per i problemi universi- tari hanno adottato un quadro di riferimento generale per descrivere le conoscenze, le abilità e le competenze che caratterizzano i vari livelli di qualificazione ricono- sciuti dalle Università europee attraverso i titoli o diplomi accademici da esse con- feriti (Overarching Framework of Qualifications in European Higher Eucation Area: EQF in EHEA). Questo quadro generale viene normalmente denominato: “descrittori di Dublino”, in quanto adottati nel dicembre 2004 al termine di una conferenza tenuta in quella città (Dublin descriptors). I livelli individuati da tale quadro generale sono quattro: a) il primo livello riguarda un ciclo corto (due anni, almeno 120 crediti ECTS), che può essere incluso o raccordato al primo ciclo uni- versitario; b) il secondo livello si riferisce al primo ciclo universitario vero e pro- prio (in genere di tre anni, e caratterizzato da almeno 180 crediti ECTS) al termine del quale viene conseguito il primo titolo accademico; c) il terzo livello è relativo al secondo ciclo universitario (in genere di due anni e comprendente almeno 120 crediti ECTS) al termine del quale viene conseguito il secondo titolo accademico; d) il quarto livello tiene conto del terzo ciclo universitario, o ciclo di dottorato, al termine del quale viene conseguito il titolo di dottorato di ricerca. I vari Paesi che hanno aderito alla Dichiarazione di Bologna sono stati invitati a elaborare sulla base di questo quadro di riferimento generale, e quanto prima, il quadro di riferimento delle qualifiche accademiche che caratterizzano il proprio sistema universitario (National Qualifications Framework: NQF). Intanto sono stati avviati studi per individuare un quadro di riferimento per le qualificazioni in settori specifici, o disciplinari o professionali (Sectorial Qualifi- cations Framework: SQF). Il progetto in questo caso è stato denominato Tuning Education Structures in Europe. Si è già richiamata la Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio Eu- ropeo che definisce un analogo quadro di riferimento per la formazione perma- nente. Questo quadro include l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze derivanti sia da studi accademici, sia da ogni altro tipo di formazione. I due quadri di riferimento sono analoghi e possono essere considerati complementari, in quanto al livello terziario individuano gli stessi livelli di qualificazione del EQF per la EHEA, anche se differiscono in molti aspetti quanto a terminologia adottata e a specificità di riferimenti. La Commissione Europea ha dichiarato di appoggiare i descrittori di Dublino e ha proposto forme di integrazione tra i due quadri di rife- rimento. Per comodità viene di seguito presentata una integrazione tra i due quadri di riferimento, che evidenzia i descrittori di Dublino mediante sottolineatura, mentre le parti provenienti dal documento della Commissione Europea e ora approvate dal Parlamento Europeo sono stampate con carattere normale. Per quanto riguarda questo ultimo documento è utile ricordare le definizioni generali dei descrittori. 22 Conoscenze: indicano il risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze sono l’insieme di fatti, principi, teorie e pratiche, relative a un settore di studio o di lavoro; le conoscenze sono descritte come teo- riche e/o pratiche. Abilità: indicano le capacità di applicare conoscenze e di usare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi; le abilità sono descritte come cogni- tive (uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (che implicano l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti). Competenze: indicano la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale; le competenze sono descritte in termine di responsabilità e autonomia. a) I titoli finali di istruzione superiore di ciclo corto (interno o collegato al primo ciclo) possono essere conferiti a studenti che: – abbiano dimostrato conoscenze e capacità di comprensione in un campo di studi di livello post secondario caratterizzato dall’uso di libri di testo avan- zati; tale conoscenza fornisce basi per un settore lavorativo o professionale, per la crescita personale e per studi ulteriori che consentano di completare un primo ciclo; – siano capaci di applicare le loro conoscenze e capacità di comprensione in contesti lavorativi; – possiedano l’abilità di reperire e usare dati per formulare risposte a problemi ben definiti di tipo concreto o astratto; – siano in grado di comunicare in merito a comprensione, abilità e attività con i propri pari, con i superiori e con i clienti; – possiedano la capacità di intraprendere studi più avanzati con una certa auto- nomia. I risultati dell’apprendimento relativi al livello sono: – conoscenza teorica e pratica esauriente e specializzata, in un ambito di lavoro o di studio e consapevolezza dei limiti di tale conoscenza; – una gamma esauriente di abilità cognitive e pratiche necessarie a dare solu- zioni creative a problemi astratti; – saper gestire e sorvegliare attività nel contesto di attività lavorative o di studio esposte a cambiamenti imprevedibili; esaminare e sviluppare le prestazioni proprie e di altri. b) I titoli finali di primo ciclo possono essere conferiti a studenti che: – abbiano dimostrato conoscenze e capacità di comprensione in un campo di studi di livello post secondario e siano a un livello che, caratterizzato dall’uso 23 di libri di testo avanzati, include anche la conoscenza di alcuni temi d’avan- guardia nel proprio campo di studi; – siano capaci di applicare le loro conoscenze e capacità di comprensione in maniera da dimostrare un approccio professionale al loro lavoro, e possie- dano competenze adeguate sia per ideare e sostenere argomentazioni che per risolvere problemi nel proprio campo di studi; – abbiano la capacità di raccogliere e interpretare i dati (normalmente nel pro- prio campo di studio) ritenuti utili a determinare giudizi autonomi, inclusa la riflessione su temi sociali, scientifici o etici ad essi connessi; – sappiano comunicare informazioni, idee, problemi e soluzioni a interlocutori specialisti e non specialisti; – abbiano sviluppato quelle capacità di apprendimento che sono loro necessarie per intraprendere studi successivi con un alto grado di autonomia. I risultati dell’apprendimento relativi al livello sono: – conoscenze avanzate in un ambito di lavoro o di studio, che presuppongano una comprensione critica di teorie e principi; – abilità avanzate, che dimostrino padronanza e innovazione necessarie a risol- vere problemi complessi ed imprevedibili in un ambito specializzato di lavoro o di studio; – gestire attività o progetti tecnico/professionali complessi assumendo la respon- sabilità di decisioni in contesti di lavoro o di studio imprevedibili; assumere la responsabilità di gestire lo sviluppo professionale di persone e gruppi. c) I titoli finali di secondo ciclo possono essere conferiti a studenti che: – abbiano dimostrato conoscenze e capacità di comprensione che estendono e/o rafforzano quelle tipicamente associate al primo ciclo e consentono di elabo- rare e/o applicare idee originali, spesso in un contesto di ricerca; – siano capaci di applicare le loro conoscenze, capacità di comprensione e abi- lità nel risolvere problemi a tematiche nuove o non familiari, inserite in con- testi più ampi (o interdisciplinari) connessi al proprio settore di studio; – abbiano la capacità di integrare le conoscenze e gestire la complessità, nonché di formulare giudizi sulla base di informazioni limitate o incomplete, includendo la riflessione sulle responsabilità sociali ed etiche collegate all’ap- plicazione delle loro conoscenze e giudizi; – sappiano comunicare in modo chiaro e privo di ambiguità le loro conclusioni, nonché le conoscenze e la ratio ad esse sottese, a interlocutori specialisti e non specialisti; abbiano sviluppato quelle capacità di apprendimento che consen- tano loro di continuare a studiare per lo più in modo auto-diretto o autonomo. I risultati dell’apprendimento relativi al livello sono: – conoscenze altamente specializzate, parte delle quali all’avanguardia in un am- bito di lavoro o di studio, come base del pensiero originario; consapevolezza critica di questioni legate all’interfaccia tra ambiti diversi; 24 – abilità specializzate, orientate alla soluzione di problemi, necessarie nella ri- cerca e/o nell’innovazione al fine di sviluppare conoscenze e procedure nuove e integrare la conoscenza ottenuta in ambiti diversi; – gestire e trasformare contesti di lavoro o di studio complessi, imprevedibili che richiedono nuovi approcci strategici; assumere la responsabilità di contribuire alla conoscenza e alla prassi professionale e/o di verificare le prestazioni stra- tegiche dei gruppi. d) I titoli finali di terzo ciclo possono essere conferiti a studenti che: – abbiano dimostrato sistematica comprensione di un settore di studio e padro- nanza del metodo di ricerca ad esso associato; – abbiano dimostrato capacità di concepire, progettare, realizzare e adattare un processo di ricerca con la probità richiesta allo studioso; – abbiano svolto una ricerca originale che amplia la frontiera della conoscenza, fornendo un contributo che, almeno in parte, merita la pubblicazione a livello nazionale o internazionale; siano capaci di analisi critica, valutazione e sin- tesi di idee nuove e complesse; – sappiano comunicare con i loro pari, con la più ampia comunità degli studiosi e con la società in generale nelle materie di loro competenza; – siano capaci di promuovere, in contesti accademici e professionali, un avanza- mento tecnologico, sociale o culturale nella società basata sulla conoscenza. I risultati dell’apprendimento relativi al livello sono: – le conoscenze più all’avanguardia in un ambito di lavoro o di studio e all’inter- faccia tra settori diversi; – le abilità e le tecniche più avanzate e specializzate, comprese la capacità di sin- tesi e di valutazione, necessarie a risolvere problemi complessi della ricerca e/o dell’innovazione e ad estendere e ridefinire le conoscenze o le pratiche pro- fessionali esistenti; – dimostrare effettiva autorità, capacità di innovazione, autonomia, integrità tipiche dello studioso e del professionista e impegno continuo nello sviluppo di nuove idee e di processi all’avanguardia in contesti di lavoro, di studio e di ricerca. 3. L’EMERGERE DI UNA DOMANDA DI ISTRUZIONE TERZIARIA NON UNIVERSITARIA IN ITALIA 3.1. La proposta IRI del 1991 per un disegno di legge sulla formazione non universitaria di tecnici superiori L’IRI, anche a seguito di esperienze fatte sul campo (corsi di istruzione tec- nico-superiore svolti in collaborazione tra le Università e le Aziende del gruppo) ha elaborato nel 1991 a cura di Livio Pescia, responsabile del settore formazione, una 25 proposta contenente elementi per un disegno di legge destinato ad istituire e rego- lare un gradino del sistema pubblico d’istruzione superiore (successivo, cioè, alla scuola secondaria superiore) destinato a formare attraverso un ciclo di due o più anni tecnici superiori destinati al sistema produttivo (soprattutto professionalità di tipo tecnologico e amministrativo). La proposta è stata consegnata al governo di allora, ma nulla ne è seguito. Viene di seguito riportato il documento elaborato in tale occasione. 3.1.1. La premessa: il fabbisogno di tecnici superiori Il fabbisogno di tali figure da parte del sistema produttivo italiano (e che ha in- dotto l’IRI a tentare di “prodursele” in casa con iniziative giustificate solo a causa della situazione di emergenza provocata dalle lacune vistose del sistema educativo pubblico) è ben noto, (anche se non si valutano abbastanza gli effetti negativi futuri dell’assenza di questa leva di politica industriale) e si dà qui per dimostrato; lo prova tra l’altro la necessità di impiegare, nonostante la loro scarsità, i laureati tec- nici in posizioni inadatte sottodimensionate con conseguenti fenomeni di spreco, frustrazione, sottoutilizzo ed alti tassi di costoso turn-over. Le prospettive offerte dal nuovo diploma universitario – da considerarsi un’utile risposta in alcuni settori, ma non l’unica necessaria – vengono esaminate più oltre nella parte dedicata all’il- lustrazione della proposta. In Europa, accanto alle istituzioni accademiche, caratterizzate dalla prevalente formazione scientifica, esistono canali ed organismi caratterizzati da una forma- zione prevalentemente pratica. Questi ultimi, soprattutto in Paesi come la RFT, l’O- landa, la Danimarca (ma è molto importante anche l’esperienza inglese e francese), forniscono al sistema produttivo un formidabile potenziale di risorse umane. Se noi volgiamo lo sguardo in avanti ci rendiamo conto che può essere un grave errore storico perpetuare il monopolio dell’istituzione accademica. È preferibile non scaricare su tale sistema tutta la nuova crescente domanda di formazione tecnica e professionale superiore successiva alla scuola secondaria che si preannuncia all’orizzonte dell’anno 2000. L’istituzione universitaria rischia vera- mente di venire soffocata e distolta dai suoi compiti tradizionali, che sono sempre più centrali per la società contemporanea basata sulla conoscenza. Essa, che ancora non si solleva dalla crisi di affidabilità dovuta al massiccio incremento della do- manda di istruzione degli ultimi decenni, come potrà salvaguardare il suo alto ed indispensabile compito scientifico (del quale giustamente in questo caso ha il mo- nopolio) se sarà spinta a rincorrere tutti i multiformi tipi di formazione e di adde- stramento, molti dei quali sono basati su obiettivi, contenuti e processi di apprendi- mento estranei alla propria attuale competenza? Con l’istituzione del Diploma universitario si fa pressante l’esigenza di diffe- renziare il sistema di istruzione superiore; c’è infatti il rischio che il diploma venga impropriamente utilizzato come occasione per canalizzare tutta la nuova e diversa domanda (vera o presunta) di cui sopra. 26 La proposta si fa perciò carico di indicare una organizzazione diversa che si distingue dal modello organizzativo universitario su alcuni punti fondamentali. Poiché la formazione tecnica e professionale non universitaria a cui si pensa è abbastanza specifica, cioè non polivalente ad ampio raggio, è mirata, è basata su abilità e conoscenze solo in parte fornite autonomamente dall’istituzione educativa, occorre dar vita ad un modello organizzativo che, a differenza di quello univer- sitario, sia basato sui seguenti criteri: – massima flessibilità e piena possibilità di discontinuità nell’erogazione dei corsi; – alta dipendenza e sensibilità nei confronti della domanda del mercato; – numero chiuso; – ampio ricorso a docenti non istituzionali con esperienza lavorativa; – sistema flessibile di certificazione dei titoli e di erogazione dei finanziamenti pubblici; – coinvolgimento in forma di joint-venture degli organismi che saranno i futuri datori di lavoro. Sembra pertanto preferibile adottare un nuovo modello organizzativo, anziché illudersi che l’ordinamento su cui poggia il diploma universitario sia idoneo ad assumere le suddette caratteristiche. Esso è in grado di garantire invece altri valori che sono quelli dell’autonomia della cultura e della ricerca, dello sviluppo del sapere. La proposta qui presentata vuole valorizzare (accanto ai diplomi universitari correttamente intesi) la positiva esperienza (anche se limitata e condizionata a causa del tipo di ordinamento) della Scuola a Fini Speciali; essa può essere infatti intesa anche come legge di riforma di dette scuole, liberate dal rigido inquadra- mento nell’organizzazione accademica, attivate mediante un più stretto aggancio con gli ambienti aziendali e professionali. Si ritiene, infine, che, nonostante l’opinione contraria, per aprire il canale del- l’istruzione superiore tecnica non universitaria, sia necessaria una nuova legge (non fosse altro che per riformare le Scuole a fini speciali che interessano l’industria). Gli ordinamenti e le misure pubbliche oggi esistenti si dimostrano in grado di sod- disfare bene il bisogno di brevi corsi (massimo un anno) di inserimento e di forma- zione post-diploma (di solito promossi dalle Regioni e dalle aziende). Ma la mac- china attuale non garantisce una adeguata risposta in termini di istruzione profes- sionale superiore di durata (da due a quattro anni) e di respiro culturale simile a quello degli altri Paesi europei. I corsi di durata almeno biennale sono infatti in nu- mero esiguo (e non solo per mancanza di fondi) e la grave crisi di cui soffrono le aziende, è la dimostrazione più evidente che la tradizionale abilità del nostro Paese nel piegare l’esistente all’evolversi delle esigenze in questo caso non scatta. Le ra- gioni sono tante, non ultima il fatto che un giovane non può impegnarsi in due o tre anni di istruzione superiore full-time senza una garanzia di qualità e di trasparenza del diploma o che un’azienda non è in grado (né è giusto chiederglielo) di sosti- 27 tuirsi per un periodo così lungo ad un compito che deve essere assolto dalle artico- lazioni del sistema scolastico pubblico. Qualora posizioni politiche ed istituzionali facessero propendere per un affida- mento della materia qui trattata al sistema regionale, anziché al sistema statale, le linee presentate continuerebbero ad essere utilizzabili e la necessità di nuova legis- lazione ad hoc per le ragioni sopra esposte non verrebbe meno; proprio al fine di pervenire a risultati di livello qualitativamente adeguato. Si registra, infine, con soddisfazione che la Commissione ministeriale presieduta dall’on. Brocca ha pro- dotto un documento sull’organizzazione dell’istruzione post-secondaria, il quale appare in notevole sintonia con le posizioni qui espresse. 3.1.2. Elementi per uno schema di legge 1) Definizione dell’Istruzione Tecnica Superiore Si definisce Istruzione Tecnica Superiore: a) l’istruzione non universitaria successiva al diploma di scuola secondaria supe- riore, di durata almeno biennale ovvero comprendente almeno 1800 ore di atti- vità didattica, rivolta ad acquisire abilità e competenze atte allo svolgimento di attività professionali, tecniche, industriali, amministrative e commerciali. Essa conduce al conseguimento di un titolo denominato Diploma di Tecnico Supe- riore, dotato dei riconoscimenti di cui al paragrafo 7; b) l’istruzione manageriale e professionale, di natura non specificamente universi- taria, successiva al diploma universitario ed alla laurea, svolta mediante corsi, non rientranti tra i Corsi di specializzazione delle Università, di almeno un anno o di 900 ore, nelle stesse aree professionali di cui al punto a. Essa conduce al con- seguimento di un diploma denominato Diploma di Studi Professionali Superiori. 2) Istituzione dei corsi I corsi possono essere istituiti dai consorzi o dalle associazioni illustrati al para- grafo successivo, da Università, da istituti di istruzione secondaria superiore, da centri pubblici regionali di formazione professionale post-secondaria. I corsi sono svolti di norma per iniziativa e con la collaborazione di: aziende, orga- nismi espressione dei settori produttivi dei beni e servizi ed organismi espressione del mondo professionale. 3) Consorzi e associazioni Al fine di realizzare il collegamento organico con i settori produttivi e professionali interessati i corsi potranno essere attivati da consorzi o associazioni formati da enti pubblici e privati ed aziende o loro associazioni. Ai fini dell’accesso ai finanzia- menti di cui al punto 8, ad essi dovranno partecipare tra gli altri, le Camere di Commercio e l’Università (ed eventualmente gli Istituti di istruzione secondaria); il Consiglio di amministrazione, inoltre, dovrà essere composto da almeno il 51% di rappresentanti di enti pubblici. 28 4) Personale docente Per la realizzazione dei corsi non è previsto un organico stabile di personale docente. La docenza sarà impartita da personale appartenente a vari settori (univer- sitario; scolastico; industriale; professionale) con contratti di collaborazione (inge- gnere part-time o per un numero limitato di anni); da personale dell’Università e della scuola secondaria superiore in posizione di comando senza assegno; scelto dagli organismi consortili e da questi retribuito con contratto di diritto privato. Ogni due anni i Ministri dell’Università e dell’istruzione definiscono il numero massimo di docenti che può essere comandato. Anche i docenti universitari a pieno tempo sono autorizzati a fornire le suddette collaborazioni didattiche. Gli organismi di cui al punto 3 potranno inoltre stipulare convenzioni con Università e scuole per ottenere prestazioni didattiche. 5) Finanziamenti I corsi possono essere finanziati, mediante convenzione, con contributi statali stan- dard atti, di fatto, a ricoprire, per quanto riguarda i titoli di tecnico superiore di cui al punto 1, di norma almeno il 70% dei costi complessivi per spese correnti ed in- vestimenti, computando fra questi, oltre che gli apporti in denaro, quelli costituiti da beni e servizi provenienti dal mondo produttivo. La parte rimanente potrà essere coperta con detti apporti e/o con tasse scolastiche a carico degli allievi o delle aziende. I corsi di cui al punto 1b (Diploma di studi professionali superiori) saranno di norma finanziati con contributi inferiori al 70%. I finanziamenti statali sono erogati dal Comitato di cui al paragrafo 8. I finanziamenti derivano da un fondo istituito con appositi capitoli dello stato di previsione del Ministero compe- tente. 6) Numero chiuso I corsi sono a numero chiuso. L’accesso è regolato in base al fabbisogno espresso dagli ambienti professionali di riferimento ed ai requisiti d’ingresso. 7) Comitato Nazionale per la Qualità dell’istruzione tecnica superiore È istituito il Comitato Nazionale per la Qualità dell’istruzione tecnica superiore. Esso è posto sotto la sorveglianza del Ministro competente ed è composto da rap- presentanti di elevata qualificazione, aventi requisiti professionali, di competenza ed esperienza specifiche nominati dal Ministero competente seguendo il seguente criterio: un terzo di essi, tra cui il presidente, con nomina diretta; due terzi su desi- gnazione del CUN, delle Regioni e dei rappresentanti delle aziende ed enti delle PP.SS. e delle organizzazioni (eventualmente attraverso il CNEL). Il Comitato ha il compito di certificare e convalidare i diplomi, ai quali è conferito valore legale anche ai fini del pubblico impiego, esaminando e deliberando in merito alle domande di riconoscimento dei corsi e dei diplomi dell’istruzione tecnica supe- riore. A tal fine definisce e garantisce le condizioni che consentono il riconosci- 29 mento, avendo riguardo ai criteri di ammissione e di valutazione degli allievi, alla qualificazione degli insegnanti, alle caratteristiche dell’organismo richiedente, agli standard; alla qualità ed ai contenuti formativi dei corsi. Può inoltre accreditare, sottoponendoli a permanente valutazione, organismi ed associazioni professionali dotati di consolidata esperienza e di acclarato valore tecnico e didattico ricono- scendo loro, tramite convenzione, la facoltà di rilasciare diplomi riconosciuti ai sensi del presente paragrafo (un esempio può essere 1’Asfor; l’associazione delle scuole di management). Il Comitato opera attraverso Commissioni tecniche. Il Co- mitato, fissandone le condizioni, può rilasciare il riconoscimento anche di corsi, promossi da organismi pubblici e privati diversi da quelli indicati al paragrafo 5. I diplomi appartenenti all’istruzione tecnica superiore aventi valore abilitante all’esercizio delle professioni regolamentate con legge, sono definiti secondo le modalità di cui agli artt. 3 e 9 del D.P.R. 10 marzo 1982 n 162 (Riordinamento scuole a fini speciali) sentiti le proposte ed i pareri del Comitato di cui al presente paragrafo. 8) Comitato Nazionale per il Finanziamento dell’Istruzione Tecnica Superiore È istituito il Comitato Nazionale per il Finanziamento dell’Istruzione Tecnica Superiore. II Comitato è posto sotto la sorveglianza del Ministero competente ed è composto da membri dotati di acclarata competenza ed esperienza nel campo imprenditoriale, manageriale, tecnologico o tecnico-professionale; nonché della P.A. e nominati dal Ministro competente con il seguente criterio: almeno un terzo (e tra essi il Presidente) per designazione diretta e la restante parte su designazione degli organismi pubblici e privati rappresentati anche nei Comitati per il riconosci- mento dei diplomi di cui al punto 7 ed inoltre, uno ciascuno, dai Ministri dell’Indu- stria, della Pubblica Istruzione (o dell’Università), del Lavoro e del Tesoro. Il Co- mitato ha il compito di elaborare, tenendo conto delle direttive programmatiche del Ministro integrate da proprie valutazioni, la programmazione dell’attività finanzia- bile per settori produttivi e professionali e per localizzazione, stabilendo le priorità e definendo gli standard dei contributi. Alla luce di tale programma provvede ad attribuire i finanziamenti agli organismi di cui al punto 2 sulla base delle domande da esso esaminate ed accolte per corsi e diplomi riconosciuti dal Comitato per il riconoscimento dei titoli (paragrafo 7). Può anche procedere al finanziamento di corsi in attesa di riconoscimento, nei casi previsti dal regolamento. Il Comitato eroga i finanziamenti tramite un fondo previsto dal bilancio statale. 9) Benefici ai fini del Servizio militare e diritto allo studio Gli allievi dei corsi di cui al paragrafo 1 usufruiscono degli stessi benefici degli studenti universitari ai fini del Servizio militare e del diritto allo studio. Gli allievi dei corsi possono essere titolari di contratti di formazione e lavoro. I corsi possono essere organizzati in alternanza con il lavoro ed è consentito ai fini del diploma il riconoscimento di competenze acquisite sul lavoro. 30 10) Mezzogiorno Gli organi dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno possono promuovere o finanziare corsi secondo modalità coerenti con le norme sopra illustrate. 11) Attestati di istruzione tecnica superiore Le Università, oltre a quanto previsto nei paragrafi precedenti, nell’ambito della loro autonomia ed ai sensi della legge 1911-90 n. 341. art. 6, possono determinare le condizioni in base alle quali esse possono rilasciare o riconoscere, anche a seguito di corsi svolti direttamente o tramite organismi consortili attestati di istruzione tecnica superiore. 3.2. Alcuni accordi e studi degli anni novanta Oltre alla proposta partita dall’IRI di allora e rivolta al Governo, iniziativa che rimase senza esiti, negli ultimi anni in Italia sono state avanzate proposte, condotti studi, avviate esperienze, che largamente possono essere ricondotte nel quadro del sistema di formazione terziaria così come è stato descritto dall’indagine OCSE 2004-2006. È utile riportare alcuni riferimenti significativi. 3.2.1. Accordo sul lavoro del 24 settembre 1996 “Va istituito, accanto all’offerta universitaria, un sistema di formazione superiore non in continuità rispetto alla scuola secondaria superiore, caratterizzata da: – collegamento stretto con le dinamiche occupazionali ed aderenza con le pro- blematiche professionali ed aziendali; – coinvolgimento dei vari soggetti formativi del mondo della produzione, delle professioni, della ricerca etc.; – massima flessibilità anche attraverso l’ utilizzo di docenti esterni; – uso delle tecnologie educative e introduzione di nuove didattiche attive, fon- date sul problem solving e sulla formazione in alternanza; – sistema integrato di certificazione. Alle Regioni spetta, sulla base di indirizzi nazionali, la funzione di programmazione e coordinamento delle esperienze presenti sul territorio, anche ricorrendo ad accordi di programma, secondo quanto previsto dalla l. 236/93, dagli accordi fra le parti e dall’intesa Governo e Regioni. La gestione delle attività dovrà vedere la partecipazione di tutti i soggetti presenti sul territorio (formazione professionale, Università, scuola, mondo del lavoro e delle professioni) nella logica dell’utilizzo ottimale delle risorse esistenti e della valorizzazione delle esperienze d’eccellenza”. 3.2.2. Uno studio elaborato da Federico Butera nel luglio del 1998 Uno studio approfondito sulla costituzione di un sistema formativo tecnico- professionale superiore integrato (FIS) è stato sviluppato da Federico Butera. Il do- 31 cumento finale del 9 luglio 1998 parte dalla considerazione dell’accordo sul lavoro sopra citato e dall’esame della situazione europea e italiana per delineare un quadro comprensivo delle iniziative formative a livello superiore in discontinuità con la scuola secondaria. È utile rileggere l’elenco dei vari passaggi normativi succedutisi fino ad allora, per evidenziare una progressiva presa di coscienza dell’urgenza della questione, anche se tutto ciò non aveva trovato adeguate risposte concrete. Vale la pena di ri- prendere alcuni di essi per il loro intrinseco interesse. Legge 27 dicembre 1997, n. 449, relativa alle misure per la stabilizzazione della finanza pubblica. In particolare, all’art. 40 comma 1, essa prevede che al “fine di incrementare la preparazione Tecnico-Professionale dei giovani dopo il conse- guimento del diploma finale di istruzione secondaria superiore, nel quadro del sistema formativo integrato e della programmazione regionale dell’offerta forma- tiva, lo Stato e le Regioni concordano modalità di intese per la realizzazione, anche nelle istituzioni scolastiche, di corsi di formazione superiore non universi- taria, anche mediante la costituzione di forme associative con altri soggetti del ter- ritorio ed utilizzando le risorse messe a disposizione dall’Unione europea, dalle Regioni, dagli enti locali e dalle altre istituzioni pubbliche e private”. La legge 18 dicembre 1997, n. 440, art. 1 comma 1, che istituisce il “Fondo per l’arricchimento e l’ampliamento dell’offerta formativa e per gli interventi perequa- tivi”. Il Fondo è destinato tra l’altro “alla realizzazione di iniziative di formazione post-secondaria non universitaria, allo sviluppo della formazione ricorrente, ... alla realizzazione di interventi perequativi in favore delle istituzioni scolastiche...” con interventi integrati. Il documento “Istruzione scolastica, formazione professionale e lavoro” del 5 giugno 1997 della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome che si esprimono a favore di “un sistema nuovo di formazione tecnico- professionale superiore verso cui possono confluire progressivamente anche parte degli attuali DU, differenziato rispetto ai titoli universitari e più vicino alle esi- genze del mercato, e dei mercati locali soprattutto, di livello elevato dal punto di vista qualitativo e caratterizzato da un ampio ricorso all’alternanza, spiccata fles- sibilità nei contenuti e nei percorsi in uscita verso il lavoro. Per far ciò occorre mettere insieme più soggetti pubblici e privati e favorire un forte e strutturato coin- volgimento dei sistemi produttivi locali”. Il Rapporto degli Esaminatori dell’OCSE sulla politica scolastica italiana, presentato il 7 maggio 1998 al Forum della Pubblica Amministrazione, ha indicato che “uno dei problemi maggiori nella transizione dalla scuola alla vita attiva è l’offerta di una vasta gamma di programmi e di opzioni di studio a livello ter- ziario”. Essi hanno raccomandato all’Italia “l’istituzione di un sistema di istruzione terziaria non universitaria... al fine di favorire la transizione alla vita attiva...” ed hanno raccomandato “altresì che... sia dedicata particolare attenzione alla flessibi- lità dell’offerta, al partenariato con le imprese locali e ai bisogni locali”. Inoltre 32 hanno raccomandato “l’istituzione di un sistema nazionale per valutare la qualità della formazione tecnica e professionale, definire standard...”. 3.3. L’istituzionalizzazione di un sistema di Formazione Integrata Superiore (FIS) e del sistema di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS) La normativa riguardante l’attivazione di corsi di Istruzione e Formazione Tec- nica Superiore, IFTS, all’inizio del nuovo millennio, faceva riferimento all’art. 69 della Legge 17 maggio 1999 n. 144. Occorre notare che questo sistema era conce- pito nell’ambito di un più vasto sistema di formazione integrata superiore, ma chia- ramente definito e attivo. Circa l’esperienza sviluppata nel corso degli anni passati si rimanda alla parte seconda del presente Rapporto. 1. Per riqualificare e ampliare l’offerta formativa destinata ai giovani e agli adulti, occupati e non occupati, nell’ambito del sistema di formazione integrata superiore (FIS), è istituito il sistema della istruzione e formazione tecnica superiore (IFTS), al quale si ac- cede di norma con il possesso del diploma di scuola secondaria superiore. Con decreto adottato di concerto dai Ministri della Pubblica Istruzione, del lavoro e della previdenza sociale e dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica, sentita la Conferenza uni- ficata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti le condizioni di ac- cesso ai corsi dell’IFTS per coloro che non sono in possesso del diploma di scuola secon- daria superiore, gli standard dei diversi percorsi dell’IFTS, le modalità che favoriscono l’integrazione tra i sistemi formativi di cui all’articolo 68 e determinano i criteri per l’e- quipollenza dei rispettivi percorsi e titoli; con il medesimo decreto sono altresì definiti i crediti formativi che vi si acquisiscono e le modalità della loro certificazione eutilizzazione, a norma dell’articolo142, comma 1, lettera c), del decreto legislativo31marzo1998,n.112. 2. Le regioni programmano l’istituzione dei corsi dell’IFTS, che sono realizzati con modalità che garantiscono l’integrazione tra sistemi formativi, sulla base di linee guida definite d’intesa tra i Ministri della Pubblica Istruzione, del lavoro e della previdenza sociale e dell’Università e della ricerca scientifica e tecnologica, la Conferenza unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e le parti sociali mediante l’istitu- zione di un apposito comitato nazionale. Alla progettazione dei corsi dell’IFTS concor- rono Università, scuole medie superiori, enti pubblici di ricerca, centri e agenzie di for- mazione professionale accreditati ai sensi dell’articolo 17 della legge 24 giugno 1997, n. 196, e imprese o loro associazioni, tra loro associati anche in forma consortile. 3. La certificazione rilasciata in esito ai corsi di cui al comma 1, che attesta le competenze acquisite secondo un modello allegato alle linee guida di cui al comma 2, è valida in ambito nazionale. 4. Gli interventi di cui al presente articolo sono programmabili a valere sul Fondo di cui all’articolo 4 della legge 18 dicembre 1997, n. 440, nei limiti delle risorse preor- dinate allo scopo dal Ministero della Pubblica Istruzione, nonché sulle risorse finaliz- zate a tale scopo dalle regioni nei limiti delle proprie disponibilità di bilancio. Possono concorrere allo scopo anche altre risorse pubbliche e private. Alle finalità di cui al pre- sente articolo la regione Valle d’Aosta e le province autonome di Trento e di Bolzano provvedono, in relazione alle competenze e alle funzioni ad esse attribuite, secondo quanto disposto dagli statuti speciali e dalle relative norme di attuazione; a tal fine ac- cedono al Fondo di cui al presente comma e la certificazione rilasciata in esito ai corsi da esse istituiti è valida in ambito nazionale. 33 3.4. Evoluzioni recenti 3.4.1. Le iniziative della Provincia di Trento Una disposizione urgente in materia di istruzione e formazione del 17 marzo 2005 inseriva all’art. 3 della legge provinciale n. 21 del 3 settembre 1987 il se- guente comma 1 bis: Nell’ambito del sistema della formazione professionale è compresa anche l’alta for- mazione professionale, volta allo sviluppo di figure professionali dotate di alta prepara- zione in grado di svolgere un’attività professionale con elevate competenze tecnico- scientifiche e livelli significativi di responsabilità e autonomia, da realizzarsi valoriz- zando la metodologia dell’alternanza tra ambito formativo e quello lavorativo. Possono accedere all’alta formazione professionale i giovani in possesso di titolo o qualifica pro- fessionale di durata quadriennale, o del titolo conseguito al termine dei percorsi della scuola secondaria di secondo grado. I percorsi di alta formazione hanno durata massima triennale e si concludono con il rilascio di un diploma che attesta l’acquisizione di com- petenze di alta formazione secondo le modalità e i criteri definiti dalla Giunta provin- ciale; la Giunta medesima promuove il riconoscimento in ambito nazionale ed europeo, anche attraverso forme di certificazione di qualità, del diploma di cui a questo comma e dei crediti formativi acquisiti; promuove altresì il riconoscimento legale del titolo in ambito nazionale. In seguito veniva emanata la legge provinciale n.5 del 7 agosto 2006 che al Capo quarto dedicato all’Alta formazione professionale istituiva tale segmento formativo mediante l’art.67. 1. L’alta formazione professionale è volta allo sviluppo di figure professionali dotate di elevata preparazione in ambiti specifici e di eccellenza, in grado di svolgere un’attività professionale con significative competenze tecnico-scientifiche e livelli elevati di responsabilità e autonomia da realizzarsi valorizzando la metodologia dell’alternanza tra l’ambito formativo e quello lavorativo, in raccordo con il sistema universitario e il sistema produttivo provinciale. 2. I percorsi di alta formazione professionale hanno durata massima triennale e si concludono con il rilascio di un diploma che attesta l’acquisizione di competenze di alta formazione, secondo le modalità e i criteri definiti dalla Provincia. 3. Possono accedere all’alta formazione professionale gli studenti in possesso di diploma professionale di durata quadriennale o che hanno superato l’esame di Stato al termine di un percorso del secondo ciclo. 4. La Provincia definisce con regolamento i piani di studio relativi ai percorsi di alta formazione professionale. 5. Per approfondire e monitorare i fabbisogni delle professioni, per definire le figure professionali, programmare gli indirizzi di alta formazione professionale e proget- tare e monitorare i percorsi da attivare attraverso le istituzioni scolastiche e formative è istituito un apposito comitato composto da rappresentanti della Provincia, delle istitu- zioni scolastiche e formative, delle forze sociali, delle associazioni di categoria, della co- operazione, dei soggetti no profit, degli ordini professionali e dell’Università. 6. Ai componenti del comitato sono attribuiti i compensi e le indennità previsti dalla vigente normativa provinciale in materia di comitati e commissioni. 34 7. Con regolamento sono stabilite le altre disposizioni per l’attuazione di quest’ar- ticolo. Nel frattempo erano state avviate alcune sperimentazioni a partire dall’ottobre 2005. Di ciò viene dato conto in una successiva documentazione. 3.4.2. Le iniziative del Governo Prodi Al termine dell’anno 2006 con l’approvazione della legge finanziaria è stato approvato anche il seguente comma sulla prosecuzione dei percorsi sperimentali di istruzione e di formazione professionale: 624. Fino alla messa a regime di quanto previsto dal comma 622, proseguono i percorsi sperimentali di istruzione e formazione professionale di cui all’articolo 28 del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 226. Restano, pertanto, confermati i finanziamenti destinati dalla normativa vigente alla realizzazione dei predetti percorsi. Dette risorse per una quota non superiore al 3 per cento sono destinate alle misure nazionali di sistema ivi compreso il monitoraggio e la valutazione. Le strutture che realizzano tali percorsi sono accreditate dalle regioni sulla base dei criteri generali definiti con decreto adottato dal Ministro della pubblica istruzione di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Nel 2007 venne inserito nel contesto della legge 40 del 2 aprile 2007 su alcuni provvedimenti urgenti un insieme di disposizioni relative ai Poli tecnologici che fanno riferimento alla formazione post secondaria. L’Art. 13 comma 2 recita: 2. Fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e nel rispetto delle compe- tenze degli enti locali e delle regioni, possono essere costituiti, in ambito provinciale o sub-provinciale, “poli tecnico-professionali” tra gli istituti tecnici e gli istituti profes- sionali, le strutture della formazione professionale accreditate ai sensi dell’articolo 1, comma 624, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e le strutture che operano nell’am- bito del sistema dell’istruzione e formazione tecnica superiore denominate “istituti tec- nici superiori” nel quadro della riorganizzazione di cui all’articolo 1, comma 631, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. I “poli” sono costituiti sulla base della program- mazione dell’offerta formativa, comprensiva della formazione tecnica superiore, delle regioni, che concorrono alla loro realizzazione in relazione alla partecipazione delle strutture formative di competenza regionale. I “poli”, di natura consortile, sono co- stituiti secondo le modalità previste dall’articolo 7, comma 10, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275, con il fine di pro- muovere in modo stabile e organico la diffusione della cultura scientifica e tecnica e di sostenere le misure per la crescita sociale, economica e produttiva del Paese. Essi sono dotati di propri organi da definire nelle relative convenzioni. All’attuazione del presente comma si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Sono fatte salve le competenze delle regioni a statuto speciale e delle province auto- nome di Trento e di Bolzano, in conformità ai loro statuti e alle relative norme di attua- zione. Una analisi delle evoluzioni successive all’approvazione di questi articoli di legge verrà sviluppata in un apposito contributo. 35 3.4.3. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 25 gennaio 2008 In attuazione dell’art. 13 comma 2 della legge 40 del 2 aprile 2007 è stato redatto e pubblicato un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (sulla Gazzetta Ufficiale dell’11 aprile 2008), recante le “linee guida per la riorganizza- zione del sistema di istruzione e formazione tecnica superiore e la costituzione degli istituti tecnici superiori”. Si riconosce così, anche in Italia, l’assenza – so- prattutto nella percezione degli utenti stessi – di un canale di istruzione e forma- zione tecnica superiore di tipo corto non accademico e si cerca di superare tale condizione. Si tratta di un’offerta che negli altri Paesi si caratterizza stabile sul territorio ma flessibile rispetto ai curricoli e alle qualificazioni proposte, forte- mente legata alle specificità settoriali, riconoscibile all’interno di un quadro na- zionale delle qualifiche e delle certificazioni e apprezzabile anche in relazione alla costruzione di un percorso professionale che può far leva su figure professio- nali ben individuate. Una analisi critica dettagliata del Decreto e delle problematiche connesse con la sua attuazione verrà prospettata nella terza parte di questa ricerca. 4. ELEMENTI DI RIFERIMENTO PER LO SVILUPPO DI UN SISTEMA DI FORMAZIONE PROFESSIONALE NON ACCADEMICO Come abbiamo visto, le prime ipotesi di attivazione in Italia di canali formativi terziari di natura non universitaria risalgono al 1991, quando per merito di Livio Pescia era stata elaborata una proposta di legge per la costituzione di un canale di formazione di tecnici superiori. La questione non ebbe seguito ma nel frattempo si sono diffuse molte iniziative di formazione a completamento della scuola secon- daria superiore con l’istituzione di corsi post-diploma, di qualifiche professionali di secondo livello. Per iniziativa delle Università erano stati anche avviati i cosiddetti Diplomi universitari triennali a carattere professionalizzante. Nel 1999 veniva ap- provata l’ipotesi di un sistema di formazione integrata superiore, cui sono seguite le iniziative di IFTS. Il Decreto legislativo 226 del 2005, in attuazione della legge 53/03 di riforma del sistema educativo nazionale, prevede all’art. 20 il Diploma di Tecnico Superiore in questa prospettiva: “d) che, ai fini della continuità dei per- corsi, di cui all’articolo 1, comma 13, il titolo conclusivo dei percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore (IFTS) assuma la denominazione di «diploma pro- fessionale di tecnico superiore»”. Questa disposizione di legge sembra essere superata, con non pochi problemi istituzionali, considerando che il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri prevede dopo il primo ciclo due percorsi: uno di IFTS di durata annuale aperto ai possessori di diploma professionale quadriennale che si conclude con “certificato di specializzazione tecnica superiore”, e uno di ITS di durata biennale aperto ai possessori di diploma di Stato quinquennale, che si conclude con un “diploma di 36 tecnico superiore”. In altre parole si prospetta un canale che permette a 20 anni, dopo cinque anni dall’esame di Stato conclusivo del primo ciclo scolastico, di con- seguire un “certificato di specializzazione di tecnico superiore” e un altro che con- sente a 22 anni, dopo sette anni dall’esame di Stato conclusivo del primo ciclo sco- lastico, di conseguire il “diploma di tecnico superiore” (quinto livello del QEQ). Ciò risulta in contrasto con il panorama europeo e con lo stesso QEQ, in quanto in genere la scuola secondaria superiore termina a 18 anni e il ciclo triennale terziario porta a ottenere a 21 anni una qualificazione del sesto livello. Inoltre l’espressione “certificato di specializzazione di tecnico superiore” può essere normalmente inter- pretata come allusiva di un livello di ulteriore qualificazione dopo il diploma di tecnico superiore. Questi tentativi, più o meno coerenti e coordinati, evidenziano già un bisogno non solo della costituzione di canali di formazione tecnico-professionale superiore, ma anche di un sistema adeguatamente istituzionalizzato di formazione terziaria non accademica. Tuttavia, ciò avviene in maniera non sistematicamente articolata per settori produttivi e secondo le situazioni specifiche delle diverse realtà territoriali, stante anche le specifiche competenze in materia delle Regioni. Sensibile a queste istanze la Provincia Autonoma di Trento con legge provinciale ha istituito il Sistema del- l’Alta Formazione e nell’autunno 2006 sono stati avviati i primi quattro percorsi formativi che portano al Diploma di Tecnico Superiore. La domanda presente in Italia, d’altra parte, non è dissimile da quella diffusa nei vari Paesi europei, e in molti Paesi non europei, come è stato recentemente ben documentato dallo studio finanziato dalla Banca Mondiale.4 Purtroppo, come accennato e come viene meglio evidenziato nella terza parte dallo studio di Benedetta Torchia, i recenti provvedimenti del governo Prodi, pur animati da buone intenzioni, non soddisfano pienamente alle esigenze di costitu- zione e sviluppo di un vero e proprio sistema formativo, che da una parte completi la filiera del settore della formazione professionale e dall’altra garantisca qualità e stabilità a una offerta flessibile e ben connessa con il sistema produttivo. In primo luogo non viene definito con chiarezza il livello terziario caratteriz- zante il percorso formativo che porta al diploma di tecnico superiore. I cosiddetti corsi attivati dagli ITS sembrano caratterizzati prevalentemente dal livello di entrata (diploma di scuola secondaria superiore con esclusione del diploma profes- sionale e dei soggetti provenienti dal mondo del lavoro senza diploma secondario superiore) e dalla durata biennale. Vengono designati in maniera generica alcuni settori professionali, con esclusione di altri, rimandando una loro articolazione a concertazioni successive abbastanza complesse. Si tratta di efficienza energetica, mobilità sostenibile, nuove tecnologie della vita, nuove tecnologie per il made in 4 J. MAZERAN et alii, Les enseignements supérieurs professionnels courts, Paris, Hachette, 2007. 37 Italy, tecnologie innovative per i beni e le attività culturali, tecnologie dell’infor- mazione e della comunicazione. Le domande sono: quali figure professionali di tecnico superiore sono richieste da questi ambiti di lavoro? quali organizzazioni di produzione di beni e servizi manifestano con chiarezza il loro bisogno e sono dis- poste ad assumerli se formati adeguatamente? una volta faticosamente individuate e definite tali figure, quale garanzia si ha di un loro flessibile adattamento o di una loro trasformazione radicale in base alle evoluzioni del mondo del lavoro? le figure professionali prefigurate si collocheranno poi chiaramente a livello terziario non accademico evitando da una parte di apparire semplici completamenti o integra- zioni della formazione secondaria e, dall’altra, di mettersi in competizione con l’istruzione universitaria? Quali, allora, dovrebbero essere gli elementi caratterizzanti la costituzione di un sistema di formazione professionale superiore basato su corsi biennali, spesso chiamati anche corsi corti, di livello terziario e di natura non accademica? È quanto cercheremo di descrivere nel seguito sulla base di un’esperienza internazionale ormai assai consistente e consolidata e di alcune sperimentazioni significative italiane. Per questo è bene in primo luogo distinguere con sufficiente chiarezza la formazione terziaria non accademica da quella accademica. 4.1. Alcuni caratteri differenzianti le offerte formative accademiche e non accademiche del sistema terziario L’idea di un sistema integrato di formazione superiore che includa accanto a quanto sviluppato dalle istituzioni universitarie percorsi non universitari chia- ramente collocabili a tale livello sollecita un approfondimento sistematico delle caratteristiche che possono garantire la natura di tali percorsi, differenziandoli adeguatamente da quanto proposto in sede universitaria. Già a suo tempo Livio Pescia aveva tracciato un quadro che evidenziava l’identità distinta anche se complementare delle offerte universitarie rispetto a quelle non universitarie. Egli lo ha recentemente riproposto in un convegno tenuto a Bologna il 4 marzo 2007. Il quadro di seguito riportato è una elaborazione che tiene conto anche di tale proposta. 38 Confronto tra alcuni caratteri propri dei due approcci alla istruzione e formazione terziaria. La tendenza italiana a concentrare in maniera talora esasperata l’offerta forma- tiva terziaria nei canali propri del sistema universitario provoca un generale impo- verimento di qualificazioni che si collochino al quinto livello del QEQ, quello pro- prio dei tecnici superiori. La conseguenza più ovvia è data dalla tendenza parallela presente in molte aziende di assumere giovani diplomati e giovani laureati inseren- doli contrattualmente come apprendisti per tempi prolungati. Per i laureati ciò può costituire una non piccola frustrazione professionale. In effetti si sente l’esigenza PERCORSI TERZIARI DI NATURA UNIVERSITARIA Si sviluppano secondo un piano formativo che prevede almeno tre anni e 180 crediti formativi ECTS. Si riferiscono alla classificazione ISCED 5°. L’impianto formativo è diretto a sviluppare competenze di natura polivalente fondate su una base teorica ampia e appro- fondita. L’offerta formativa è più collegata a una fondazione del sapere professionale e a un’impostazione abbastanza stabile, aperta a successivi approfondimenti e adeguamenti operativi. L’offerta formativa è diretta alla fondazione del sapere pro- fessionale ed ha un’impostazione abbastanza stabile, anche se aperta a successivi approfondimenti e adeguamenti opera- tivi. L’impostazione del percorso formativo valorizza esercitazioni e tirocini più legati a singoli insegnamenti che a ruoli gestionali presenti nei contesti lavorativi. Le attività formative sono difficilmente aperte a forme di didattica innovativa, eccetto nel caso di corsi a distanza e on line. Il profilo finale tiene conto in maniera generica della possi- bilità di inserimento lavorativo e di conseguenza la nozione di competenza è più riferita ai vari insegnamenti offerti. Gli insegnamenti sono sviluppati in maniera da fornire basi teoriche e metodologiche aggiornate dal punto di vista scien- tifico e tecnologico. La progettazione, gestione e valutazione dei percorsi forma- tivi sono di fondamentale competenza della istituzione uni- versitaria. I docenti provengono prevalentemente dal mondo accademi- co ed hanno con l’istituzione formativa un rapporto di lavoro di natura stabile. Al termine del percorso formativo non si è pronti ad assumere immediatamente un ruolo professionale. PERCORSI TERZIARI NON UNIVERSITARI Si sviluppano in genere secondo un piano formativo che pre- vede almeno due anni e 120 crediti formativi ECTS. Si riferiscono alla classificazione ISCED 5B. L’impianto formativo è diretto a sviluppare competenze chia- ramente identificabili in figure di tecnici superiori, presenti nei vari contesti produttivi di beni e servizi. L’offerta formativa è strettamente collegata con le esigenze del mondo del lavoro e quindi flessibile sia per quanto riguarda la sua attivazione, sia per quanto riguarda la sua finalizzazione. La partecipazione ai percorsi formativi è aperta in maniera sistematica a soggetti che sono già inseriti nell’attività lavora- tiva oltre che a soggetti provenienti dalla scuola secondaria su- periore o dalla formazione professionale almeno quadriennale. L’impostazione del percorso formativo valorizza in maniera ampia e sistematica il praticantato nel contesto lavorativo in modo da non solo conoscere, ma anche aver esercitato funzio- ni professionali coerenti con la figura professionale prevista. Le attività formative sono aperte a forme innovative come lavori di indagine di gruppo, project work, insegnamenti a distanza e on line, ecc. Viene usata sistematicamente la nozione di competenza come riferimento sia per descrivere le figure professionali intese, sia per impostare l’attività formativa. Gli insegnamenti sviluppati sono sistematicamente collegati con l’esperienza pratica e in particolare con il praticantato. La progettazione, gestione e valutazione dei percorsi formativi sono sviluppate in stretta connessione con il mondo della pro- duzione di beni e servizi. I docenti provengono prevalentemente dal mondo del lavoro ed hanno con l’istituzione formativa un rapporto di lavoro non stabile. Al termine del percorso formativo si è pronti ad assumere direttamente ruoli professionali nei contesti lavorativi. 39 di fornire loro quella parte della formazione sul campo che è venuta a mancare durante i periodi formativi formali precedenti. Ma l’effetto più dannoso, sul piano della crescita professionale personale, è la dissociazione che spesso ne deriva tra esperienza pratica e fondamenti scientifico- tecnologici. La prospettiva dell’apprendimento permanente porta invece a valoriz- zare forme circolari di apprendimento che colleghino strettamente l’esperienza pro- fessionale con una sua rilettura e riprospettazione a un livello di comprensione e progettazione superiore per mezzo di apporti di natura teorica e confronti con paral- lele situazioni operative. In altre parole va valorizzato in maniera sistematica il ciclo di apprendimento esperienziale delineato dal grafico che segue. Il ciclo dell’apprendimento esperienziale (adattamento da Le Boterf, 2000, 85) Ciò non può essere realizzato se non in un percorso formativo in cui il pratican- tato abbia un ruolo centrale, purché sia finalizzato all’acquisizione delle competenze necessarie ad assumere il ruolo prefigurato da una figura professionale specifica. Contemporaneamente deve essere alimentata una valida e adeguata concettua- lizzazione dell’esperienza pratica e arricchito l’insieme delle conoscenze scienti- fiche-tecnologiche che ne permettano una migliore comprensione e riprogettazione operativa. Ciò vale in particolare in una prospettiva formativa aperta alla ricerca e all’innovazione Tale caratterizzazione dei percorsi di alta formazione professionale va poi riletta tenendo conto del Quadro Europeo delle Qualificazioni che esplicita per il quinto livello, quello che qui interessa, i descrittori in termini di conoscenze, abilità e competenze. Concettualizzazione o modellizzazione; formalizzazione degli schemi e degli invarianti operatori Ritorno alla messa in pratica: transfer e trasposizione; contestualizzazione Esperienza vissuta Esplicitazione e narrazione dell’esperienza Apporti d’esperienze di concetti esogeni Apporti di conoscenze teoriche 40 Evidentemente si tratta di indicazioni generali, che vanno lette e interpretate secondo le figure professionali individuate per i comparti produttivi presi in consi- derazione. a) Conoscenze. Conoscenza teorica e pratica esauriente e specializzata in un am- bito di lavoro o di studio e consapevolezza dei limiti di tale conoscenza. b) Abilità. una gamma esauriente di abilità cognitive e pratiche necessarie a dare soluzioni creative a problemi astratti. c) Competenze. Saper gestire e sorvegliare attività nel contesto di attività lavora- tive o di studio esposte a cambiamenti imprevedibili: esaminare e sviluppare le prestazioni proprie e di altri. I descrittori di Dublino, elaborati nel contesto del Processo di Bologna, relativi al ciclo formativo corto aiutano di sicuro a portare a termine tale impegno. Il sog- getto che completa un ciclo corto biennale di circa 120 crediti ECTS, infatti: – dimostra di possedere conoscenze e approfondimenti in un ambito di studi che, basandosi su quanto appreso nella scuola secondaria, si avvalgono dell’uso di testi avanzati e formano la base di appoggio per un campo di lavoro o profes- sionale, per lo sviluppo personale e per ulteriori studi al fine di completare il primo ciclo; – riesce ad applicare tali conoscenze in contesti occupazionali; – ha l’abilità di identificare e usare dati e informazioni per fornire risposte a pro- blemi concreti e astratti ben formulati; – sa comunicare con colleghi, supervisori e clienti circa i propri approfondi- menti, le proprie abilità e le proprie attività; – ha le abilità di studio necessarie per continuare gli studi con una certa auto- nomia. 4.2. Ruolo del mondo della produzione di beni e servizi nel processo di identifi- cazione della domanda di formazione di tecnici superiori e nella attiva- zione di un sistema formativo valido ed efficace Nella quarta parte della nostra ricerca verrà descritto in dettaglio un modello di identificazione delle figure professionali di tecnico superiore, di prefigurazione delle competenze che ne costituiscono il referenziale professionale e di elabora- zione del progetto formativo conseguente. Tuttavia, si possono subito mettere in evidenza le condizioni fondamentali perché l’offerta formativa possa rispondere effettivamente ai bisogni del mondo economico e produttivo e i tecnici superiori preparati possano inserirsi in maniera coerente e agevole nei ruoli richiesti. La prima condizione è la riconoscibilità e valorizzazione sociale ed economica di un sistema formativo chiaramente identificabile nelle sue peculiarità e nelle sue ricadute occupazionali. È, infatti, necessario evidenziare in maniera adeguata e pre- cisa l’esigenza economica e sociale di attivazione di un canale formativo specifico al fine di preparare tecnici superiori in settori particolari della produzione di beni e 41 servizi e aventi una preparazione professionale collocabile effettivamente al quinto livello del Quadro Europeo delle Qualificazioni. In questo è determinante il ri- scontro delle imprese che dovranno assumere tali figure professionali: quali cono- scenze, abilità e competenze sono indispensabili; quale livello di approfondimento e di trasferibilità le caratterizzano; quanti tecnici superiori prevedono di utilizzare nell’immediato futuro o più a lungo termine; quale tipo di esperienza pratica deve caratterizzare la loro preparazione; ecc. Nei Paesi in cui questa rilevazione è stata condotta in maniera seria e detta- gliata ed è stato costituito un sistema di verifica continua della sua rispondenza alle esigenze mutevoli del mondo del lavoro, l’impianto che ne è seguito ha avuto una accettazione e valorizzazione assai consistente, come è stato il caso delle IUT fran- cesi, dei percorsi di formazione professionali corti della Corea, del Canada, del Messico, della Tunisia. Per contro, dove ciò non è stato fatto e si è proceduto in maniera più superficiale, basandosi sull’esistente o su ipotesi di lavoro non adegua- tamente verificate, si sono avute cocenti delusioni, con costi sociali ed economici importanti come è avvenuto in Cile, in Brasile, in Egitto e per alcuni versi nella stessa Inghilterra.5 È sulla base di un’attenta ricognizione dell’effettiva domanda di formazione di tecnici superiori per comparto produttivo e per ambito territoriale che va sviluppata l’impostazione del sistema formativo superiore non accademico. Si tratta infatti di: a) impostare un sistema organizzativo e di gestione che consenta una adeguata pro- gettazione e conduzione dei percorsi formativi, assicurandone la qualità, l’equità, le risorse in termini finanziari e di personale, il raccordo con il mondo delle imprese, il coinvolgimento dei vari interessati (Comuni, Province, Regioni, Stato, ecc.) in modo funzionale e responsabile; b) definire uno o più modelli di percorsi che for- mino figure professionali di livello superiore coerenti con i reali bisogni del terri- torio e del sistema socio-economico, anticipando anche le tendenze di cambia- mento dei sistemi produttivi, tenendo conto del quadro europeo delle qualifiche. Emerge subito l’esigenza di una sistematica cooperazione e interazione tra enti locali, istituzioni formative, ambienti di lavoro e istituti di ricerca al fine di preci- sare prima l’identità dei percorsi formativi proposti e incrementare, poi, la loro attrattività e la loro rilevanza sia nel contesto del sistema formativo, sia in quello della vita lavorativa. I titoli da rilasciare, infatti, si devono riferire a figure profes- sionali dotate di elevata preparazione in ambiti specifici di eccellenza, in grado di svolgere un’attività professionale con significative competenze tecnico-scientifiche e livelli elevati di responsabilità ed autonomia. L’identificazione delle figure pro- fessionali che possono essere formate attraverso questo sistema esige quindi un’at- tenta collaborazione tra imprese di un settore produttivo di beni e servizi e istitu- zioni formative, sotto il controllo dell’autorità pubblica. Vedremo più avanti come 5 J. MAZERAN et alii, Les enseignements supérieurs professionnels courts, Paris, Hachette, 2007. 42 una sistematica partnership tra enti pubblici, aziende e istituzioni formative deve portare a: a) identificare il referenziale di competenze da promuovere; b) svilup- pare i progetti di percorso formativo; c) garantirne un’attuazione valida ed efficace; d) valutarne la qualità complessiva. 4.3. Natura specifica dei corsi di formazione professionale diretti alla prepara- zione di tecnici superiori Emerge già con chiarezza la diversità dei corsi di formazione professionale superiore basati su un ciclo corto in genere di due anni. In qualche esperienza eu- ropea sono previsti corsi triennali, che raggiungono il sesto livello di qualificazione previsto dal QEQ. In questi ultimi casi potrebbe emergere il sospetto che si tratti di corsi del tutto analoghi a quelli universitari, solo un po’ più aperti alla professiona- lità. Per evitare equivoci è bene chiarire come sia dal punto istituzionale, sia meto- dologico, sia da quello del personale utilizzato essi debbano avere una loro precisa peculiarità. Come evidenziato nel paragrafo precedente in questi casi è condizione indi- spensabile la partnership sistematica del mondo aziendale interessato alla forma- zione delle figure professionali da promuovere. Già al livello di progettazione la componente proveniente dal mondo del lavoro e delle professioni deve partecipare alla definizione del cosiddetto referenziale professionale, cioè alla individuazione delle competenze che il tecnico superiore deve possedere in maniera adeguata per poter assumere il ruolo previsto. Si tratta di competenze di varia natura che in ge- nere tendono a integrarsi secondo alcune dimensioni fondamentali. A livello europeo spesso si distinguono competenze d’apprendimento, competenze comunicative e competenze professionali da manifestare a un elevato grado di autonomia e respon- sabilità in ambienti di lavoro complessi. E in effetti sono le attività che il soggetto deve essere in grado di svolgere nell’ambiente di lavoro considerato che permettono di evidenziare quali conoscenze, abilità e competenze devono essere padroneggiate dal tecnico superiore considerato. Ciò, però, in genere non è sufficiente, in quanto occorre essere aperti all’innovazione, al cambiamento, possedendo quindi le compe- tenze considerate a un elevato grado di trasferibilità, cioè di apertura all’adattamento o, se necessario, alla trasformazione. Ciò implica qualità personali specifiche. Dalla definizione del referenziale professionale espresso in termini di compe- tenze deve poi essere progettato quello che può essere denominato il referenziale formativo, cioè la prefigurazione delle aree di competenza da curare tramite una progressiva attività formativa basata su una varietà di pratiche di insegnamento. Tra queste pratiche assume un suo specifico contributo quello che può essere opportu- namente denominato in questo contesto come un praticantato di tipo particolare. Viene preferita l’espressione “praticantato” ad altre come tirocinio e stage, per evitare facili assimilazioni a pratiche poco funzionali allo sviluppo di effettive competenze professionali. Tale diversità deriva proprio dal fatto di essere diretto allo sviluppo delle competenze professionali previste dal profilo finale della figura 43 di tecnico superiore. Una pratica formativa di questo tipo non è quindi diretta a completare sul piano operativo insegnamenti legati a singole discipline, né a orien- tare gli studenti nelle loro scelte professionali, né, ancora, a completare una cultura del lavoro e dell’organizzazione aziendale. Il praticantato si prefigge di fornire la capacità di attivare e coordinare le varie conoscenze e abilità, già acquisite o in via di acquisizione, nello svolgimento di compiti gestionali di processi e/o di relazioni all’interno di una realtà di produzione di beni e/o servizi. Inoltre tale esperienza tende ad avere un effetto di ritorno nello stimolare e orientare lo studente verso l’approfondimento di conoscenze e verso lo sviluppo di abilità richieste per esercitare al meglio le incombenze sperimentate. Per svolgere in maniera adeguata una esperienza di praticantato in molti casi è necessario prima passare attraverso esperienze tipiche di stage di altro genere, di- rette cioè alla comprensione e/o padronanza di alcune componenti (conoscenze, abilità, competenze previe) che entrano a far parte delle competenze previste dal profilo formativo finale. A esempio, per cogliere nella gestione di una linea di pro- duzione il ruolo della sua componente economica, può essere necessario passare per uno stage adeguato che favorisca la comprensione del ruolo di tale componente non solo nella progettazione del prodotto finale e del processo produttivo, ma anche nella loro realizzazione e nel loro controllo di qualità. Così per una compe- tenza complessiva che deriva dalla integrazione di competenze più particolari, può essere necessario avere esperienze di tirocinio atte a raggiungere tali specifiche competenze. Tuttavia queste attività di stage o di tirocinio dirette a promuovere specifiche conoscenze, abilità o competenze non possono costituire un adeguato praticantato se non vengono poi integrate e sperimentate al livello previsto dal profilo finale. È nella natura propria di un praticantato portare progressivamente lo studente a saper gestire se stesso nel contesto dei compiti propri della figura professionale finale. Lo stesso vale per eventuali project-work sviluppati nel contesto sia del processo for- mativo, sia in vista della preposizione dell’elaborato finale. Il praticantato, infatti, implica una ricomposizione unitaria delle differenti competenze sviluppate al fine di raggiungere nella sua interezza il profilo professionale finale, sia dal punto di vista processuale, che organizzativo, gestionale e relazionale. Per questo non ci convince la dizione del recente Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che prevede genericamente che “Gli stage aziendali e i tirocini formativi, obbliga- tori almeno per il 30% della durata del monte ore complessivo, possono essere svolti anche all’estero” (Art. 4,2a). Un percorso formativo basato sullo sviluppo di competenze implica la neces- sità di una personalizzazione dei percorsi formativi sulla base del bilancio e valuta- zione delle competenze iniziali già possedute. Inoltre si evidenzia l’importanza di una valorizzazione sistematica di un tutor formativo che segua lo studente durante tutto il percorso e la utilizzazione di un tutor aziendale che segua lo studente durante il praticantato. La presenza del tutor formativo risulta indispensabile al fine 44 di dare continuità al processo formativo, anche perché il personale docente non può essere assegnato a queste attività formative in forme stabili. La docenza non può essere affidata in maniera prevalente a personale stabil- mente inserito nella istituzione formativa, bensì a personale proveniente da vari set- tori sia industriali, sia universitari, sia scolastici e formativi, a seconda dei casi con contratti di collaborazione limitati nel tempo e a tempo parziale. La continuità dei percorsi formativi dovrebbe essere così garantita da tutor adeguatamente formati che seguano i processi di apprendimento e di formazione a livello personale. Da questo punto di vista il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri spesso citato indica il seguente criterio: “i docenti provengono per non meno del 50% dal mondo del lavoro con una specifica esperienza professionale maturata nel settore per almeno cinque anni” (Art. 4,2e). Ma è evidente che la qualità dell’offerta formativa risulterà legata in maniera determinante alla qualità del personale dirigente e in particolare a un consiglio di gestione, denominato nel più volte citato decreto “comitato di progetto”, adeguata- mente costituito e nel quale siano presenti responsabili provenienti dal mondo del lavoro. Per questo è del tutto rilevante la scelta oculata del personale dirigente e del personale docente e la organizzazione e gestione di quest’ultimo. 4.4. Gli studenti e i loro impegni nel contesto del processo formativo I corsi di formazione professionale di tecnici superiori si rivolgono a soggetti che hanno completato positivamente il secondo ciclo del sistema educativo nazio- nale. In particolare la base di riferimento fondamentale dovrebbe essere il comple- tamento del secondo ciclo del sistema nazionale di istruzione e formazione. Ri- spetto alla legge 53/03, che prevedeva un percorso quadriennale per questo sistema e il conseguimento di un diploma finale, si è avuta una modifica di legge che ora distingue i percorsi di istruzione professionale a carattere quinquennale che portano al conseguimento del Diploma di Stato e quelli di formazione professionale di du- rata quadriennale che portano al Diploma professionale di competenza regionale. La questione relativa alla costituzionalità di tale normativa è tuttora in attesa di decisione. Ciò ha provocato nel recente Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri una discriminazione fastidiosa per i soggetti in possesso del solo Diploma professionale. Questi possono accedere solo ai corsi annuali di IFTS e non a quelli biennali di ITS. In Provincia di Trento l’accesso all’Alta Formazione è consentito, invece, sia ai possessori del diploma di Stato conseguito nell’istruzione professio- nale, sia al diploma provinciale professionale conseguito nella formazione profes- sionale. In Svizzera per accedere alle Scuole Professionali Universitarie viene invece richiesto a quanti provengono dai Licei un anno di stage professionale, cosa che non viene richiesta agli altri, perché ne hanno già usufruito. Proprio per il loro carattere professionale i corsi dovrebbero essere aperti anche a soggetti che hanno sviluppato adeguate esperienze lavorative congruenti. Ciò implica la realizzazione di bilancio e/o valutazione in entrata delle competenze 45 effettivamente acquisite. In generale occorre affermare che, data la specializzazione dei percorsi e il loro legame con le effettive richieste del mondo del lavoro, non potrà non essere previsto un numero chiuso di partecipanti. Quanto al bilancio in entrata la Provincia Autonoma di Trento ha espresso le seguenti linee guida: “Dal momento che il percorso formativo può riguardare varie tipologie di studenti, è evidente la necessità di prevedere in entrata una valutazione attenta: – dei crediti acquisiti da ciascuno nel corso dell’attività di studio: – delle competenze acquisite, anche nell’ambito di attività lavorativa e profes- sionale, ed eventualmente certificate; – delle aspirazioni e motivazioni che spingono a chiedere di iscriversi. Su questa base sarà possibile effettuare un vero e proprio bilancio delle com- petenze in vista di una progettazione personalizzata del percorso di alta forma- zione da seguire per ottenere il titolo inteso”. La valorizzazione dei crediti formativi già acquisiti e delle competenze effetti- vamente possedute porta alla considerazione di processi di personalizzazione dei per- corsi. Da questo punto di vista entra in gioco anche l’accompagnamento degli studen- ti durante tutta la loro esperienza formativa da parte di tutor formativi, che aiutino. Come ormai acquisito nei documenti europei relativi alla formazione perma- nente e all’istruzione universitaria l’attenzione si deve spostare dal sistema forma- tivo e i relativi insegnamenti e/o interventi formativi ai processi di apprendimento degli studenti. Il concetto di credito nel sistema ECTS, a esempio, considera il tempo formativo sulla base del tempo che gli studenti devono impiegare per acqui- sire le conoscenze, abilità e competenze proposte. Un credito corrisponde a circa 25 ore di impegno comprendente sia partecipazione a lezioni, lavori di gruppo, se- minari, esami, elaborazione di lavori scritti o project work, stage, tirocini e/o prati- cantato. Uno studente a tempo pieno dovrebbe essere impegnato ogni anno per ses- santa crediti, cioè circa 1500 ore di impegno personale. Possono anche essere prese in considerazione partecipazioni a tempo parziale con la conseguenza di un au- mento delle annualità. D’altra parte il carattere proprio di questo tipo di studio accosta a una frequenza di insegnamenti svolti in sede formativa, forme di appren- dimento auto-diretto e assistito (a distanza, e-learning, di gruppo) e, soprattutto, un praticantato professionale (più che stage occasionali) adeguato, accompagnato dalla elaborazione di progetti di innovazione e/o di ricerca applicata. 4.5. Forme e livelli di governo del sistema di alta formazione Nell’ambito delle esperienze internazionali la costituzione del sistema di formazione terziaria non accademica ha seguito molteplici modelli. Tali modelli ten- gono conto congiuntamente delle diverse tradizioni scolastiche e formative e delle esigenze poste dal sistema produttivo di beni e servizi. Così sono presenti sistemi 46 detti duali, nel senso che il sistema istruttivo non accademico si pone come un siste- ma autonomo rispetto sia a quello universitario, sia a quello secondario. Ciò è pre- sente in molti Paesi europei come la Finlandia e la Germania, o non europei, come il Canada. In altri, come la Svezia, nel sistema di istruzione terziaria riformato nel 1997 convivono percorsi di tipo accademico e percorsi di istruzione professionale con programmi di breve e lunga durata. In quest’ultimo caso le istituzioni d’istruzio- ne terziaria statale si configurano come Agenzie governative e molti dei compiti che in altri sistemi europei sono propri di Ministeri o di altri organismi vigilanti sono stati affidati proprio alle agenzie, come indagini, analisi, monitoraggio e valutazione. In Francia, le IUT sono supportate, nel loro funzionamento e nella loro evolu- zione da una sottodirezione all’interno dell’insegnamento superiore del Ministero. Il sistema inoltre prevede strutture di concertazione e supporto e organi rappresen- tativi degli attori coinvolti nell’erogazione dell’offerta. Per le IUT, in particolare, si rileva il ruolo dei referenti del settore produttivo nell’ambito delle CPN, dell’as- semblea dei direttori di IUT, dell’Unione Nazionale dei Presidenti delle IUT, delle Assemblee di capi dipartimento, ecc. Sia che si tratti di due sistemi paralleli, sia di un sistema unitario, tuttavia emerge con estrema chiarezza l’autonomia dell’organizzazione formativa sia dalle Università, sia dalle scuole secondarie, anche se in qualche caso Università e scuole secondarie possono essere promotrici e/o sedi di iniziative formative di tecnici su- periori nel quadro delle linee definite dagli organismi competenti, Ministeri, Dipar- timenti in seno a questi o Agenzie costituite ad hoc. In generale si evidenzia con grande chiarezza la necessità di una disposizione legislativa che porti alla costituzione del sistema di Alta Formazione. Tale disposi- tivo normativo dovrebbe almeno: a) chiarire la sua natura, distinguendolo dalla istruzione universitaria e da quella secondaria; b) indicare il ruolo del sistema delle imprese nella definizione delle figure professionali e del loro referenziale profes- sionale e formativo, nella progettazione e conduzione dei percorsi formativi, nella valutazione dei loro risultati; c) precisare il ruolo delle Regioni e Province auto- nome in ordine alla progettazione, distribuzione e attivazione dei percorsi, all’ac- creditamento delle strutture formative, al monitoraggio e valutazione, al rilascio dei titoli aventi valore sul territorio nazionale ed europeo; d) stabilire le forme di finan- ziamento del sistema, evidenziando l’apporto economico a livello nazionale, regio- nale e locale da parte dell’autorità pubblica e dei privati. Per inciso si può osservare che l’esigenza di una legge istitutiva era già stata indicata da Livio Pescia nel 1991 ed una conferma indiretta si è avuta esaminando le diverse stesure del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in riferi- mento alla definizione delle aree su cui devono insistere le figure IFTS e le figure ITS. Infatti, è stata soppressa la dizione figura professionale a favore della sem- plice denominazione figura in quanto, per la regolamentazione relativa alle figure professionali, la competenza in materia è riservata esclusivamente ad una legge e non ad un regolamento attuativo. 47 Quanto al governo effettivo del sistema, due modelli fondamentali possono essere presi in considerazione. Il primo è analogo a quanto avviene in Germania, in Canada, e in molti altri Paesi. Il governo è di competenza delle singole realtà regio- nali (i Länder in Germania, le Province in Canada, ecc.) e si ha un coordinamento delle politiche locali tramite un organismo di raccordo a livello nazionale. L’auto- nomia delle singole realtà regionali può essere più o meno accentuata, ma non è compito del governo nazionale intervenire a questo livello. L’altro modello è di natura più complessa, in quanto si basa su competenze a vario livello: nazionali, regionali, della singola istituzione. A esempio le Agenzie svedesi svolgono attività molteplici con larghe forme di autonomia, ma sotto il controllo e la valutazione di un organismo centrale nazionale. Là dove si hanno competenze condivise tra livello nazionale e regionale si ha in genere un organismo di coordinamento e di governo generale espresso da un’Agenzia nazionale, che include la presenza dei vari interessati, o da un Comitato nazionale analogo al- l’Agenzia. Tuttavia poi la competenza decisionale circa quali iniziative progettare, approvare, finanziare e da parte di chi, spetta al livello di governo regionale, tra- mite un Dipartimento dedicato o un’Agenzia regionale che assume i compiti fonda- mentali del governo del sistema regionale. La necessità di organismi di governo del sistema ai vari livelli diventa ancora più evidente se si considera che il sistema dell’Alta Formazione include spesso per- corsi formativi di carattere anche assai differenziato, molte volte progettati per rispondere alle tante esigenze di sviluppo del mondo economico e produttivo che caratterizzano in maniera specifica questo settore della formazione. Due esempi chiariscono bene la questione. In Germania esiste una struttura istruttiva terziaria binaria in cui il settore uni- versitario è chiaramente distinto da quello non universitario. Mentre il primo offre una preparazione teorica e alla ricerca, il secondo ha un orientamento più pratico e applicativo. Ogni Land è competente poi nello sviluppare le politiche formative e istruttive. Nel Land Baden-Württemberg l’istruzione terziaria non universitaria ha assunto caratteri molto differenziati, offrendo varie possibilità di formazione in diversi tipi di istituzioni: nella Fachhochschule, nella Berufsakademie e nella Fachschule. Le Fachhochschulen offrono un tipo di alta formazione professionale che assomiglia maggiormente ad un percorso universitario. Essa è caratterizzata da un continuo aggiornamento scientifico e da un forte orientamento alla applicazione pratica e verso il mercato del lavoro. La valorizzazione dell’applicazione pratica è ancora più evidente nelle Berufsakademien, nate dall’esigenza di trasferire il sistema duale tedesco della formazione professionale iniziale nella formazione terziaria. La formazione professionale ulteriore delle Fachschulen, invece, si basa su una Lehre (apprendistato secondo il sistema duale) con conseguente esperienza lavorativa pluriennale; essa mira da una parte alla preparazione a compiti di dire- zione o di maggiore responsabilità, dall’altra a favorire una loro autonomia profes- sionale. 48 Anche in Svizzera, proprio per valorizzare le istanze territoriali, il livello di Alta Formazione è articolato secondo due canali: a) le scuole universitarie profes- sionali (SUP); b) i diplomi federali e le altre scuole specializzate superiori (SSS). Così il sistema terziario comprende le Università cantonali, i due Politecnici fede- rali, le sette scuole universitarie professionali (SUP) e le scuole professionali supe- riori (nel caso del Ticino anche l’Alta Scuola Pedagogica). L’istituzione di scuole universitarie professionali ha valorizzato la via della formazione professionale per- mettendo anche ai professionisti qualificati di proseguire gli studi a livello univer- sitario. I Cantoni sono i promotori delle scuole universitarie professionali e si fanno carico di due terzi dei costi. Confederazione e Cantoni controllano congiuntamente il sistema delle scuole universitarie professionali. Il sistema di accreditamento in vigore dal 2006 fa riferimento a standard qualitativi nazionali e internazionali, mira alla comparabilità e alla trasparenza a beneficio di studenti, mercato del lavoro e scuole universitarie. Quanto agli enti erogatori, sono presenti anche in questo caso molteplici mo- delli. Nel sistema duale finlandese accanto alle Università gestite dallo Stato sono presenti i Politecnici, organismi specificatamente destinati all’Alta Formazione professionale, i quali, pur operando sotto il controllo del Ministero dell’istruzione, sono gestiti da Comuni, da Associazioni di Comuni o da Fondazioni. In essi i partner esterni hanno un ruolo più forte nella gestione e nell’influenza diretta sul funzionamento complessivo della struttura. A differenza di quanto accade per le Università – che sono istituzioni con ampia autonomia decisionale ma prevalen- temente finanziate da risorse statali – i Politecnici sono organismi municipali o di natura privata e sono finanziati da risorse erogate da organismi nazionali e locali. Comunque è il Parlamento Finlandese che promuove e promulga le politiche e gli atti di indirizzo in tema di politiche educative e determina gli atti e le leggi rela- tive all’Università e ai Politecnici secondo due distinti canali. Infatti, le decisioni concernenti i Politecnici sono regolamentate da Atti specifici e disgiunti da quelli che regolano il funzionamento delle Università. In conclusione, le opzioni possibili risultano abbastanza esplicitamente dal quadro dei sistemi attivati a livello europeo, come viene ben evidenziato nella seconda parte di questa indagine. Si può ipotizzare, infatti, un sistema autonomo rispetto all’Università, alla scuola e alla formazione professionale, come avviene in Finlandia. Oppure si può optare per un sistema che si appoggia alle istituzioni uni- versitarie, anche se rispetto a esse vengono garantiti precisi caratteri di autonomia, come in Francia. Si può anche pensare a istituzioni formative di particolare qualità ed eccellenza che possono assicurare il livello formativo individuato. In altre parole, accanto a un sistema chiaramente duale, che separa nettamente quello non universitario da quello universitario, può essere individuato un sistema multipolare a carattere integrativo. Evidentemente emergono subito indicazioni di pericolo e di opportunità. In Italia sembra al momento che venga preferita la strada della costituzione di fondazioni di partecipazione. 49 4.6. Compiti specifici di governo del sistema ai vari livelli (inclusa la valuta- zione esterna) Rispetto ai problemi di pianificazione e governo del sistema, le questioni più ri- levanti riguardano come distribuire le responsabilità tra Amministrazione centrale, Regioni e Province, e istituzioni formative del territorio. Da chi deve partire l’inizia- tiva di attivare una realtà di formazione professionale superiore? Chi costituisce o riconosce le istituzioni di formazione professionale superiore e ne rilascia i titoli? In Italia la competenza nella programmazione dell’offerta formativa è di com- petenza esclusiva delle Regioni e Province autonome. Di conseguenza vengono evocati dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri piani territoriali di in- tervento da queste elaborati. Tuttavia si accenna anche alla competenza nazionale in riferimento agli indirizzi della programmazione nazionale in materia di sviluppo economico e rilancio della competitività in linea con i parametri europei. Per un raccordo tra le diverse competenze e una integrazione e coordinamento degli inter- venti e delle risorse si fa riferimento a una conferenza di servizi a livello nazionale alla quale partecipano numerosi interessati. La risposta però più realistica e affidabile prevederebbe la costituzione a livello nazionale di un’Autorità, o Agenzia, o Comitato nazionale che coordini le iniziative, ne riconosca la rilevanza e la qualità e, sulla base di un’accurata analisi, proceda poi a prevedere priorità, modalità di finanziamento e indichi possibili impegni nazionali a cui dovrebbero essere aggiunte forme di finanziamento regio- nale, locale e imprenditoriale. Le proposte di attivazione di percorsi formativi di questo tipo dovrebbero provenire dalle Regioni, dalle Province, dalle Camere di commercio, ecc.; in qualche caso anche da istituzioni universitarie, scolastiche o formative, pubbliche o private. Tuttavia ai fini di una corretta programmazione ter- ritoriale si dovrebbe ottenere in questi casi l’approvazione delle Regioni interes- sate. Anche a livello di definizione dei caratteri specifici dei percorsi le domande a cui dare risposta sono numerose: chi definisce le figure professionali e i loro refe- renziali in termini di competenze? Quali requisiti essenziali devono essere garantiti nella definizione delle figure professionali? Chi partecipa alla definizione del refe- renziale professionale: aziende interessate, esperti? Come aggiornare e modificare le figure e i loro referenziali? Sembra abbastanza evidente che la definizione di speci- fiche figure professionali deve essere elaborata a livello il più possibile vicino alle esigenze di sviluppo e gestione delle imprese produttrici di beni e servizi. Sembra dunque necessario che ciò avvenga o a livello regionale o a livello provinciale. Tut- tavia è importante che linee guida progettuali impegnative vengano elaborate a livello nazionale a cura dell’Autorità o Agenzia o Comitato Nazionale per la Forma- zione Tecnica Superiore, che dovrà verificare la qualità dei progetti presentati. Si giunge così alla progettazione concreta dei percorsi formativi a partire dal referenziale professionale: da chi è realizzata tale progettazione? A livello centrale, regionale, provinciale, delle singole istituzioni? In questo caso sembra evidente- 50 mente che la elaborazione concreta del progetto avvenga a livello locale, cioè delle singole istituzioni coinvolte. Tuttavia il progetto realizzativo va verificato sia nella coerenza con il referenziale caratterizzante la figura professionale in oggetto, sia nella effettiva possibilità pratica di raggiungerlo secondo le risorse messe a dispo- sizione. A chi affidare questa verifica? Pare eccessivo che ogni singolo progetto realizzativo venga valutato dall’Autorità, o Agenzia, o Comitato Nazionale. Più opportunamente si potrebbe pensare a un’Agenzia o Comitato regionale. È opportuno che vengano definiti indirizzi nazionali per indicare a chi è possi- bile affidare la proposta e progettazione dei percorsi da attivare. In molte delle esperienze sviluppate in Europa spesso si tratta di istituzioni autonome, specificata- mente costituite per definire, progettare e realizzare percorsi di formazione profes- sionale superiore. Ciò garantirebbe maggiormente la continuità, la qualità, la tra- sparenza e la controllabilità delle varie iniziative. Questa soluzione potrebbe essere ipotizzata in alcuni casi, là dove esistano già condizioni di eccellenza in alcuni set- tori professionali e una continuità adeguata con la rete di aziende del territorio. Altra soluzione prevede di appoggiarsi a istituzioni formative già esistenti nel terri- torio e di riconosciuta eccellenza (Università, scuole, istituzioni formative, ecc.), che vengano giudicate idonee a far da riferimento per tali attività. Tuttavia, occorre prevedere un coordinamento e una gestione generale da parte di agenzie o comitati a livello regionale e provinciale, che abbiano un’adeguata autorità per vigilare che le iniziative si svolgano con coerenza e qualità. Le indicazioni del Decreto più volte citato valorizzano gli istituti tecnici e quelli professionali. Tuttavia la gestione dei progetti dovrebbe passare attraverso la costituzione di apposite fondazioni di partecipazione. Questa sembra essere una scelta un po’ restrittiva circa la possibi- lità di attivare percorsi di formazione professionale superiore. Le precedenti questioni hanno già aperto la strada a questo tipo di domande: a chi spetta il controllo e la valutazione delle iniziative messe in cantiere? In Europa è sempre più insistente l’esigenza di assicurare la qualità delle istituzioni e dei per- corsi e dei titoli che da queste sono rilasciati. Se si vuole giungere a un riconosci- mento reciproco dei diplomi e titoli di livello terziario non universitario occorre che venga identificato un riferimento nazionale adeguatamente strutturato. Ciò porta ulteriormente a ipotizzare la costituzione di una Autorità, o Agenzia, o Comi- tato nazionale, che abbia compiti istituzionalmente chiari e impegnativi di gestione del sistema nazionale di Alta Formazione. Probabilmente, a seconda degli sviluppi a livello locale è bene prevedere forme analoghe a livello almeno regionale. In qualche caso provinciale. Uno dei problemi particolarmente rilevanti per una gestione valida ed efficace del sistema formativo terziario non universitario è evidentemente collegato a un suo stabile e adeguato finanziamento. L’esperienza svizzera porta a prevedere forme di finanziamento misto, cioè sia statale, sia regionale, sia locale, sia proveniente dal mondo del lavoro. Tuttavia perché ciò sia possibile occorre che venga definita una normativa a livello nazionale e che venga costituita un’Autorità o Agenzia nazionale 51 che faccia da riferimento per le decisioni concernenti l’attivazione concreta dei percorsi e le eventuali forme di concertazione tra Stato e Regioni. Diverso sarebbe per finanziamenti che si basano prevalentemente su fondi regionali, nel qual caso si genererebbe un sistema assai diversificato sul territorio nazionale, come di fatto già avviene per la prima formazione professionale. Il coinvolgimento del settore produt- tivo dovrebbe essere comunque previsto soprattutto per quanto riguarda le attività di praticantato, la presenza di tutor aziendali e la possibilità di avere personale docente particolarmente qualificato sul piano professionale. Le prospettive indicate dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri evocano contributi statali e un cofinanziamento da parte delle Regioni e Province autonome. 4.7. Alcuni criteri di successo Nel 2005 si è tenuta a Sèvres in Francia una conferenza internazionale sull’in- segnamento superiore professionale corto, alla quale hanno dato il loro appoggio la Banca Mondiale, l’Unesco, e vari Ministeri francesi. I risultati di tale conferenza sono stati rielaborati in un volume apparso nel 2007 a cura di J. Mazeran e altri.6 Tenendo conto dei contributi illustrati soprattutto nel quarto capitolo, è possibile evidenziare alcuni criteri di successo di un sistema di formazione terziaria non accademica. 1) Un sistema di formazione terziaria non accademica deve essere espressione di una volontà politica chiara e continua Si tratta di attivare un sistema diretto a un’attività di formazione di massa. Per questo è necessario definire regole che diano ai contenuti e ai diplomi una loro leg- gibilità pubblica adeguata, assicurando qualità di base all’insegnamento e offrendo agli studenti, alle imprese e ai servizi pubblici garanzie di occupabilità agli uni e le competenze richieste agli altri. Lo Stato, di fronte alle istituzioni che danno titoli e diplomi di insegnamento superiore, gioca un ruolo regolatore e deve, quindi, assumere una funzione di con- trollo e di garanzia pubblica. In effetti occorre: a) modificare con chiarezza la struttura del sistema di istruzione terziaria; b) introdurre una nuova categoria di diplomi; c) sviluppare all’interno delle imprese nuovi equilibri tra i dipendenti. Tutto ciò richiede un impegno continuo di concertazione, informazione e comunicazione anche per superare le possibili resistenze che possono provenire non solo dal mondo universitario, bensì anche dalle stesse imprese, dalle organiz- zazioni sindacali e dagli studenti. In effetti, l’immagine di corsi di natura professio- nalizzante può giocare un ruolo negativo nel momento della scelta di un percorso di studi superiore. 6 J. MAZERAN el alii, Les enseignements supérieurs professionnels courts, Paris, Hachette, 2007. 52 2) Deve essere sviluppata una relazione forte e continua con il settore produttivo Si tratta di una relazione stretta e continua tra istituzione formativa e mondo del lavoro. Nell’esperienza internazionale si è visto che una iniziativa centrata solo sulle aziende può portare a una carenza di flessibilità e di apertura al cambiamento, mentre una centrata solo sul sistema formativo può facilmente perdere il contatto con le esigenze proprie del mondo economico. Certamente le imprese, sia a titolo individuale, sia come organizzazioni profes- sionali, ben difficilmente si impegnano senza un loro tornaconto. Questo non vuol dire che non interessi loro la dimensione umana e sociale della formazione. Oggi, soprattutto, l’attenzione per le qualità personali, rispetto a quelle esclusivamente tecniche è sempre più diffusa. Ciò che è importante prendere in considerazione sono i mutui benefici che derivano da questo stretto rapporto. A livello nazionale è fondamentale che le imprese partecipino alla definizione delle figure professionali di tecnico superiore, alla individuazione del loro fabbi- sogno numerico, alla prefigurazione dei dispositivi formativi da mettere in campo, alla stessa possibilità di cofinanziamento. A livello territoriale si tratta di sviluppare forme e modalità di attivazione di un vero partenariato nella progettazione e condu- zione dei percorsi formativi, nell’organizzazione dell’alternanza e nella valutazione finale ai fini della concessione dei diplomi. 3) Deve essere garantita la qualità del processo formativo e degli insegnanti La forte relazione istituzionale tra imprese, sistema di istruzione terziaria non accademica e istituzioni formative porta anche a considerare la questione delle modalità formative e della scelta dei docenti. Quanto alle modalità formative è evi- dente la necessità di una stretta correlazione tra conoscenze teoriche ed esperienze pratiche. L’originalità dei percorsi di insegnamento superiore professionale corti sta proprio nella capacità di garantire un buon equilibrio tra formazione teorica e com- petenza operativa, evitando di dare un peso troppo forte all’insegnamento delle discipline di natura teorica, come avviene nelle Università, o, viceversa, di centrare l’attenzione solo alla qualificazione legata alla pratica professionale, come avviene nei percorsi diretti a conseguire una qualifica. Di qui la centralità dell’alternanza, il contatto sistematico con l’ambiente con- creto nel quale acquisire le competenze previste e la presenza di un congruo nu- mero di docenti provenienti dal mondo delle imprese. Ma anche la necessità della presenza di insegnamenti di natura scientifica e tecnologica generale, di attività formative dirette allo sviluppo di competenze di natura comunicativa e relazionale, di perfezionamento di quelle linguistiche, in particolare nelle lingue straniere. 4) Deve essere garantita la qualità istituzionale e di governo del sistema e delle istituzioni formative Sia il sistema, sia le istituzioni formative impegnati nelle iniziative di forma- zione professionale superiore esigono, per risultare validi e produttivi, una gestione 53 attenta e continua dei vari fattori che entrano in gioco. Se è importante il momento dell’avvio dei corsi, è ancor più importante un controllo continuo ed efficace del loro svolgimento secondo criteri di qualità sufficientemente chiari e definiti. Nel caso di squilibri o di particolari criticità occorre poter intervenire con autorità e competenza. L’azione di monitoraggio non avrebbe molto valore, se non preve- desse la possibilità di intervenire efficacemente per risolvere i problemi che even- tualmente emergessero e per favorire i miglioramenti possibili. Anche per questa area del sistema istruttivo terziario si pone la questione della valutazione istituzionale, sia interna, sia esterna. Più le istituzioni formative sono dotate di autonomia progettuale, organizzativa e gestionale, più è evidente la neces- sità di avere garanzie di qualità soprattutto dal punto di vista delle competenze effettivamente acquisite dai frequentatori dei loro corsi, oltre che nella gestione delle risorse messe a disposizione. 5) Occorre assicurare adeguate forme di finanziamento sia pubblico che privato Tra le problematiche gestionali, è evidente quella concernente le forme di finanziamento. In generale è chiaro il ruolo del finanziamento pubblico (Stato, Regioni, Province, Enti locali in genere) nel promuovere il sistema di formazione professionale superiore. Ciò è vero soprattutto là dove esiste una tradizione di gra- tuità dei servizi di istruzione terziaria (come in Germania) o di una partecipazione modesta alle spese da parte degli studenti (come è in Italia per le Università statali). Sul piano internazionale si evidenzia una dicotomia che può risultare pericolosa. Le iniziative relative al settore industriale (a es. meccanico) richiedono investimenti molto maggiori per attrezzature e installazioni di quelle riferibili al settore terziario. Di conseguenza l’iniziativa privata tende a spostarsi su quest’ultimo settore. Se non interviene a riequilibrare la situazione l’intervento pubblico, si può generare un vero e proprio squilibrio di offerta con pesanti ricadute proprio sul sistema economico. Ciò è particolarmente presente nelle fasi di avvio delle attività formative, perché più im- portante e urgente è la necessità di finanziamento delle strutture e delle attrezzature. In generale, si può evidenziare il ruolo trainante del finanziamento pubblico anche al fine di favorire lo sviluppo economico dovuto alla immissione di nuove figure professionali richieste dal mercato del lavoro. Se il sistema formativo avviato risulta veramente di beneficio per il sistema produttivo, è facile poi riuscire a tro- vare forme di appoggio economico dal sistema delle imprese, almeno come offerta di collaborazione, di spazi di formazione in azienda, di partecipazione alla proget- tazione, conduzione, e valutazione delle attività formative, di fornitura di attrezza- ture e di personale docente. Infine, è opportuno notare che quanto più si afferma il sistema formativo, tanto più è facile che i partecipanti alle attività formative considerino un investimento per il proprio futuro la partecipazione alle spese. Tuttavia, è ancora difficile trovare nell’esperienza internazionale uno sviluppo di aiuti e borse di studio per gli stu- denti paragonabile a quello presente per il settore terziario universitario. 54 CONCLUSIONE Al termine di questa iniziale esplorazione sembra abbastanza evidente che la costituzione di un sistema di questo tipo esige una chiara definizione istituzionale. In altre parole appare necessaria almeno una legge quadro che definisca gli ele- menti principali che lo caratterizzano. Su questa base normativa le singole Regioni e Province Autonome potranno deliberare in maniera da promuovere un sistema coerente a livello nazionale e comparabile a livello internazionale. È proprio di una legge a livello nazionale definire chiaramente il livello di conoscenze, abilità e competenze che debbono costituire il risultato di un processo formativo diretto al raggiungimento di un diploma di tecnico superiore che sia coerente con il quinto livello del Quadro Europeo delle Qualificazioni e con ciò che indicano i descrittori di Dublino per il cosiddetto ciclo corto. Tra gli aspetti che più chiaramente emergono come pilastri di una legge quadro si può poi indicare la costituzione di una Agenzia, o Autorità o Comitato nazionale per l’Alta Formazione, che presieda al governo nazionale di tutto il sistema e al co- ordinamento delle iniziative a livello regionale e locale. A questa Agenzia dovreb- bero entrare a far parte gli Enti nazionali e locali che hanno competenze in materia ai vari livelli, in particolare le Regioni e Province autonome interessate a svilup- pare sul loro territorio il sistema. Dal momento che la programmazione delle iniziative formative a livello terri- toriale compete alle Regioni e Province autonome, in linea di principio esse dovrebbero svolgere i compiti seguenti: a) analizzare le tendenze del mondo del lavoro e delle professioni a livello terri- toriale e l’evoluzione di bisogni di formazione tecnica superiore nei vari settori produttivi; b) individuare le priorità e le esigenze di attivazione di corsi di formazione tec- nica superiore, segnalando anche eventuali poli di eccellenza per settori pro- duttivi specifici, soprattutto se legati a vocazioni territoriali; c) tracciare linee guida per quanto riguarda sia l’accreditamento delle sedi forma- tive, sia per quanto riguarda la definizione delle offerte formative, inclusi gli elementi di base del loro referenziale professionale; d) approvare le richieste di riconoscimento delle istituzioni o altri riferimenti for- mativi interessati a erogare corsi di alta formazione professionale, indicando le esigenze a cui deve rispondere il gruppo di gestione; e) approvare l’istituzione di corsi di alta formazione professionale, verificandone la coerenza con le linee guida elaborate; f) approvare i finanziamenti tenendo conto delle risorse nazionali messe a dispo- sizione e della partecipazione finanziaria delle imprese produttive; g) monitorare sistematicamente l’attività formativa e i risultati ottenuti, interve- nendo sia in fase di correzione di anomalie o criticità, sia al fine di migliorare i servizi prestati. 55 Tuttavia, non sempre le singole Regioni sono attrezzate a svolgere tutte queste funzioni. Inoltre, in molti casi di definizione delle figure professionali si tratta di specificazioni a livello locale più che di nuove e specifiche figure. Di qui l’oppor- tunità che l’Agenzia nazionale sviluppi in collaborazione con le Regioni, Province e le altre istituzioni interessate (imprese e sindacati) l’analisi delle essenziali com- petenze professionali che dovrebbero caratterizzare nei singoli settori produttivi di beni e servizi le figure di tecnico superiore. Inoltre a essa dovrebbe essere attribuita la competenza di assegnare le risorse nazionali a favore dell’attivazione di inizia- tive formative di questo tipo, sulla base delle indicazioni provenienti dalle singole Regioni. In altre parole, l’Agenzia nazionale dovrebbe svolgere alcune attività come sua competenza fondamentale, altre in supporto di singole Regioni o di reti di Regioni associate in questa impresa. A livello delle istituzioni formative del terziario non universitario vi sono in particolare responsabilità specifiche in ordine: a) alla costituzione del gruppo o consiglio di gestione, nel quale dovranno essere presenti rappresentanti del mondo del lavoro e degli studenti; b) alla progettazione concreta dei percorsi formativi anche per quanto riguarda la costituzione di una rete di riferimento con il mondo della produzione di beni e servizi al fine di attivare i praticantati previsti e i progetti di ricerca applicata; c) alla selezione del personale dirigente, docente e tutoriale, certificandone le competenze; d) al decidere le modalità di frequenza, di esame, ecc.; e) al rispondere alle esigenze di monitoraggio e valutazione da parte dell’agenzia o autorità di riferimento. Parte II LE ESPERIENZE EUROPEE NEL CAMPO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE SUPERIORE CHE PIÙ POSSONO AIUTARE A DEFINIRE UNA SOLUZIONE ITALIANA Elaborazione di Benedetta TORCHIA e Heike MUELLER 59 1. LE PREMESSE STORICHE La seconda guerra mondiale rappresenta, per tutti i Paesi europei, un momento di cesura nella storia recente anche per il nascere di una crescente attenzione ai temi e alle questioni inerenti il settore dell’istruzione superiore. Cesura che è stata posta in rilievo dal progressivo incremento – reciprocamente influenzato – dell’innalza- mento della domanda di istruzione superiore e del numero dei provider e istituti che, con caratteristiche differenziate per Paese e Regione, raccoglievano e anticipavano la domanda stessa. Dal punto di vista del versante della domanda di istruzione è ormai condiviso che, a partire già dalla seconda metà del XX secolo, una quota sempre più consi- stente della popolazione europea – superando sempre più spesso i fenomeni che correlano i meccanismi di accesso alla condizione e all’estrazione socio-economica degli individui – sia riuscita ad affermare mediante meccanismi spontanei il proprio diritto all’istruzione superiore. La domanda in questi anni si caratterizzava per lo più per una visione strumen- tale nell’ambito della costruzione del percorso di vita all’interno di un ampliamento delle aspettative sociali: l’acquisizione di titoli e competenze più elevate rappresen- tava uno strumento funzionale al miglioramento della propria condizione socio- economica. Fenomeno questo strettamente connesso e conseguenza del fatto che durante gli anni ’60 e ’70 si registrava, a livello europeo, un incremento significa- tivo di giovani leve che portavano a conclusione – conseguendo il relativo titolo – i percorsi di istruzione secondaria. I cambiamenti rilevati a livello europeo a partire dagli anni ’80 sul versante produttivo e, in particolare, l’abbandono progressivo dell’industria a favore di una economia basata sui servizi hanno rappresentato una ulteriore spinta per quel che riguarda la domanda di formazione di livello superiore. Contemporaneamente infatti il decremento occupazionale e le crisi dell’industria pesante sottolineavano la necessità di procedere al rafforzamento dell’occupabilità attraverso il consegui- mento di titoli spendibili in un mercato in forte trasformazione. D’altro canto, in questo particolare momento, gli stessi livelli istituzionali hanno iniziato a percepire l’istruzione superiore come volano per una crescita eco- 60 nomica e, più in generale, come leva per la trasformazione profonda di interi sistemi Paese. È a partire da queste riflessioni che la maggior parte dei Paesi europei si è con- frontata con la necessità e l’urgenza di riorganizzare il quadro dell’offerta forma- tiva in relazione al crescente numero di studenti ma anche e soprattutto in rapporto alla qualità dell’offerta stessa, in relazione agli investimenti, ai costi e all’efficienza del sistema stesso anche in termini di output occupazionali. 2. I TRATTI COMUNI DELLE STRATEGIE ADOTTATE A LIVELLO INTERNAZIONALE La crescente attenzione ai temi dell’alta formazione nel contesto europeo si è sviluppata a partire dalla intenzione e dalla rilevata necessità per gli Stati membri di svolgere un ruolo guida nella società globale basata sulla conoscenza. Il sistema di formazione superiore accademica e non accademica, nelle Raccomandazioni europee, rappresenta il fulcro per poter sostenere e potenziare i centri di ricerca e di alta formazione all’interno delle Università e i poli di sviluppo economico regionale. Le Linee di indirizzo condivise sino ad oggi a livello comunitario miravano ad avviare un dibattito circa il ruolo delle Università e di tutti gli istituti d’istruzione superiore, quali le “Fachhochschulen”, i Politecnici e le “Grandes Ecoles” nell’am- bito della società e dell’economia basate sulla conoscenza in Europa. I risultati prodotti dai tanti provvedimenti sinora condivisi si misureranno anche in relazione alle modalità attraverso cui tali istituti saranno in grado di svol- gere in modo efficace il loro ruolo chiave. L’Unione europea conta circa 3.300 istituti d’istruzione superiore, che salgono a 4.000 nell’intera Europa se si contano gli istituti presenti negli altri Paesi dell’Eu- ropa occidentale e nei Paesi candidati. Essi accolgono un numero di studenti sempre maggiore: oltre 12,5 milioni nel 2000 rispetto a meno di 9 milioni un decennio prima. Il segmento dell’alta formazione accademica e non accademica europeo è organizzato essenzialmente a livello nazionale e regionale ed è caratterizzato da un elevato livello di eterogeneità, che si riflette nell’organizzazione, nella direzione e nelle condizioni di funzionamento. Tutti gli Stati dell’area europea, tuttavia, si trovano ad affrontare difficoltà comuni e condividono l’esigenza di adattarsi a un contesto in evoluzione. Ci si trova ad agire in un ambiente in costante trasforma- zione e sempre più globalizzato, caratterizzato da un’aspra concorrenza per attrarre e mantenere al proprio interno i migliori talenti, nonché dalla comparsa di nuove esigenze che esse devono soddisfare. In tale contesto, le riforme strutturali ispirate dal processo perseguito dal Con- siglio Europeo di Bologna nel 1999 sono volte a organizzare la diversità entro un quadro europeo più organico e comparabile, a partire proprio da una rivisitazione del sistema accademico. 61 Cronologicamente, il processo di riforma dell’intero sistema di alta formazione (accademico e non accademico) attuato in ciascun Paese ha preceduto l’avvio del Processo di Bologna: ad esempio l’Austria, la Finlandia, la Norvegia avevano già realizzato un cambiamento strutturale prima del 2000. Si tratta di trasformazioni recenti che erano già state messe in atto anche dalla Germania e dai Paesi Bassi, Paesi in cui, già da alcuni anni, il sistema universitario era stato affiancato dal segmento di istruzione e formazione superiore non accademica. Anche il Regno Unito aveva già ridisegnato l’intero sistema nel 1992 proponendo una soluzione che – in controtendenza con le riflessioni dell’epoca che puntavano ad una diffe- renziazione dei sistemi accademici e non accademici – tendeva a superare il doppio canale di formazione terziaria rappresentato dall’Università e dai Politecnici pro- muovendo un processo di unificazione degli istituti all’interno di un unico sistema. Ad oggi, appare evidente che, nonostante le dichiarazioni internazionali, la gran- de varietà istituzionale che caratterizza i diversi sistemi rende ancora difficile un con- fronto internazionale soprattutto per quel che riguarda gli aspetti quantitativi del set- tore e in primo luogo proprio l’equivalenza della definizione di istruzione superiore. La lettura comparata dei diversi sistemi europei tende a mantenere una certa dicotomia anche tra il termine tertiary education (nell’ambito del quale solitamente si intendono inclusi anche tutti gli istituti e i percorsi afferenti alla formazione post secondaria di quarto livello nella classificazione Isced) e il termine higher educa- tion (intendendo i percorsi che permettono il raggiungimento del livello quinto della classificazione Isced). In particolare, non sempre risulta chiara la distinzione tra istruzione superiore di tipo accademico e altre proposte formative di istruzione post secondaria o ter- ziaria non accademica. La stessa definizione di alta formazione non accademica varia di Paese in Paese e quella adottata a livello nazionale può non coincidere con la definizione adottata dagli organismi internazionali che raccolgono e diffondono le informazioni (rete Eurydice, Cedefop, Ocse, ecc.).1 La distinzione prevista all’interno di ogni singolo sistema Paese tra istruzione superiore universitaria e istruzione superiore non accademica rappresenta l’esito di strategie nazionali compiute in base a criteri che non corrispondono a quelli adottati negli altri Paesi. Inoltre, in alcuni Paesi la distinzione si basa sul tipo di istituzione e sul tipo di programma offerto o sul loro livello, mentre in altri si basa invece su una sola di queste caratteristiche, in altri ancora la distinzione è ormai difficilmente avvertibile o è stata superata da riforme più o meno recenti.2 1 Per un approfondimento relativo agli studi e al dibattito condotto in merito alla tassonomia dei ter- mini “Alta formazione”, “formazione superiore”, tertiary education e “higher education” si rimanda agli studi condotti e pubblicati dall’ADI (www.adi.it) e agli studi condotti dalla Rete Eurydice – Unità Euro- pea di Eurydice – Commissione Europea – Direzione Generale Istruzione e Cultura (www.eurydice.org). 2 Si veda a tale proposito, Michele Rostan, Laureati italiani ed europei a confronto – Istruzione superiore e lavoro alle soglie di un periodo di riforme, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto – Studi sull’istruzione superiore – Collana Cirsis, Milano 2006. 62 Secondo uno studio condotto da Rostan3 sull’istruzione superiore e di cui si dà brevemente conto di seguito, in Germania, nei Paesi Bassi e nel Regno Unito l’esi- stenza di un settore non universitario dipende o è dipesa dall’istituzione di nuove istituzioni di istruzione superiore maggiormente orientate alla formazione professio- nale che presentano percorsi con programmi di studio differenziati, più recenti ri- spetto alla tradizionale presenza delle Università, maggiormente distribuite sul terri- torio che richiedevano requisiti di ammissione meno selettivi e offrono spesso anche corsi di breve durata. In Francia, al contrario, il settore non universitario comprende istituzioni orientate alla formazione professionale proponendo programmi di studio decisamente più impegnativi all’interno di strutture di grande prestigio che appli- cano criteri assai severi di ammissione e offrono corsi di lunga durata. Pur in presenza di uno sforzo congiunto compiuto in questi anni per poter faci- litare la trasparenza dei titoli e delle competenze, anche l’analisi dei programmi di studio non costituisce un metro sempre utile ai fini della comparazione dei diversi segmenti in quanto la durata dei programmi può rilevarsi un criterio non univoco per operare tale distinzione. La Raccomandazione dell’Unione Europea del 1998, poi ripresa nella Dichia- razione di Bologna, di includere nel segmento dell’istruzione superiore solo i pro- grammi della durata minima di tre anni può risultare non del tutto adeguata per rea- lizzare un confronto internazionale perché esistono corsi di studio biennali come quelli offerti dagli IUT francesi che rilasciano comunque titoli – come il Diplome universitarie de tecnologie (DUT) – considerati di istruzione superiore e che hanno incontrato il favore del mercato del lavoro al pari di titoli triennali. Anche il riferimento al tipo di titolo rilasciato a completamento degli studi non è un criterio univoco per distinguere tra settore accademico e settore non universi- tario. Infatti, accanto a casi in cui titoli di un certo tipo sono rilasciati da un unico tipo di istituzione, ne esistono altri in cui istituzioni di tipo differente rilasciano titoli identici o analoghi dello stesso livello (come avviene, ad esempio, nel Regno Unito). Un primo passo compiuto dai Governi – anche se con diverse velocità nei diversi Paesi e con diversi meccanismi legati anche allo stato di avanzamento delle politiche federali – è stato quello di dotare gli istituti di istruzione superiore di maggiore autonomia. In particolare, il livello di governo centrale mantiene in tutti i Paesi europei il ruolo e il compito di produrre linee di indirizzo che specificano i macro obiettivi della filiera formativa e individuano i parametri di efficienza e di qualità dell’of- ferta stessa cui sono connessi i finanziamenti. La stessa strategia è stata attuata anche in Italia, dove alla formalizzazione delle autonomie accademiche è seguita una spinta alla valorizzazione dell’auto- 3 Cfr. nota 2. 63 nomia degli istituti scolastici (primi protagonisti ad oggi dell’offerta non accade- mica post secondaria). Inoltre, il processo di delega per quel che riguarda la programmazione dell’of- ferta di formazione superiore si è dipanato anche sul versante più prettamente istitu- zionale. La riforma del Titolo V, la valorizzazione del ruolo di programmazione delle Amministrazioni regionali, le conseguenti deleghe alle Province e il crescente ruolo attribuito agli Enti Locali hanno contribuito a incrementare velocemente il processo di autonomia decisionale dei singoli soggetti chiamati a realizzare l’offerta formativa. Eppure, nell’alveo di tale tendenza si riscontrano differenze importanti per quel che riguarda il segmento della formazione post secondaria e in particolare il settore accademico e il settore non accademico. Se infatti sul primo versante siamo di fronte ad un processo pressoché compiuto, in cui le Università rappresentano effettivamente soggetti e interlocutori accreditati sul territorio, i soggetti attivi nel segmento dell’offerta di livello post secondario e anche gli stessi e più recenti Poli formativi istituiti sul territorio sono ancora in una fase transitoria su cui pesano sia i meccanismi di finanziamento delle attività, sia una scarsa visibilità nei confronti dei beneficiari finali e dell’economia locale. Rimandando ai paragrafi successivi una riflessione più approfondita sulle scelte che caratterizzano il quadro italiano, uno sguardo alle strategie attuate nei singoli Paesi può fornire qualche indicazione in più in merito alle soluzioni più funzionali a valorizzare l’alta formazione quale strumento di promozione della so- cietà della conoscenza tante volte richiamata nelle politiche comunitarie. Nel tracciare una descrizione complessiva delle strategie messe in atto in tema di alta formazione a livello europeo, si potrebbe affermare che la scelta più diffusa è stata quella di promuovere e mantenere una sorta di affidabilità istituzionale centrale e/o governativa pur delegando ai singoli istituti un più costante e proficuo dialogo con il territorio. In questo senso, nel corso degli anni, in misura sempre maggiore, le istituzioni centrali si impegnavano nella stesura delle linee guida che promuovessero l’ampliamento della concertazione locale e i provider, con le moda- lità, i tempi autonomamente regolati si sono aperti anche al versante produttivo in modo da verificare e sviluppare i curricula anche a partire dall’arricchimento del- l’impianto didattico attraverso esperienze di stage o di praticantato. In particolare, la trasformazione delle economie locali e la crescente competiti- vità internazionale ha rappresentato un elemento con cui confrontarsi per tutti gli istituti intenti nella programmazione di percorsi di istruzione superiore condu- cendo, da un lato, ad ampliare l’offerta di piani di studio e formazione e, dall’altra, a offrire e garantire servizi di supporto quali percorsi di orientamento, modalità di certificazione delle competenze da e verso il mercato del lavoro, la sistematizza- zione di un dialogo con il mondo imprenditoriale anche ai fini di un più veloce in- serimento occupazionale degli utenti. Nel complesso, i sistemi europei di istruzione e formazione professionale sono stati contrassegnati negli ultimi 3 decenni da cambiamenti in molti casi radicali, per 64 lo più collegati all’emergenza di nuovi fabbisogni a livello economico, organizza- tivo e socio-culturale, all’esigenza di un nuovo approccio all’apprendimento e alla domanda sociale da parte dei giovani. La capacità dei vari sistemi nazionali di adattarsi, accompagnare o addirittura prevenire questi cambiamenti risulta piuttosto eterogenea, con esiti ancora molto differenziati. Questa eterogeneità appare attribuibile sia alla specificità dei singoli contesti storici ed istituzionali, sia alle politiche seguite dai governi nazionali che si sono via via succeduti. L’impegno e i focus promossi nell’ambito delle strategie e delle Linee poli- tiche dell’UE ha contribuito a ridurre alcuni ritardi, a migliorare il confronto e la circolazione delle buone pratiche, ad avvicinare il traguardo di un sistema europeo dei crediti e delle qualifiche. Il Rapporto sulla formazione professionale formulato dalla Commissione Eu- ropea nel 1993 rappresenta in questo frangente uno dei primi documenti adottatati a livello comunitario per avviare una riflessione comune a livello europeo sui temi dell’alta formazione professionale e sui temi dell’integrazione quale strumento per favorire lo sviluppo e il processo di crescita economica attraverso la formazione di figure professionali qualificate. Da lì in poi, nella programmazione dell’offerta anche di livello superiore diventavano fondamentali due fattori: la globalizzazione ed il progresso tecnologico.4 A livello europeo, gli anni ’80-’90 rappresentano una fase di grande produ- zione normativa che ha portato all’avvio e in qualche caso al rapido compimento di una profonda ristrutturazione del sistema di istruzione e formazione superiore, attraverso ad esempio la creazione di scuole di formazione specializzata o all’am- pliamento del versante non accademico. Senza dilungarsi sulle implicazioni connesse alla competitività internazionale e alle questioni relative alla mobilità delle forze lavoro, l’invito della Comunità Europea è stato recepito dai singoli Paesi – che si erano già attivati per ampliare la propria offerta formativa – individuando nuove formule idonee a formare figure a banda larga più adatte a rispondere alla mutevolezza dei contesti economico- sociali e più vicine alle richieste di flessibilità espresse in prima battuta dal ver- sante produttivo. La rapida evoluzione dei fabbisogni professionali e la veloce trasformazione rispetto alla diffusione di nuove tecnologie e alla loro applicazione nei diversi contesti professionali diventano, dunque, una questione importante del dibattito in corso ai fini della adeguatezza dei sistemi di formazione superiore di livello terziario rispetto alle problematiche in campo. 4 Su questo tema si veda anche lo studio condotto da Rete Eurydice Unità Europea di Eurydice - Commissione europea - Direzione generale istruzione e cultura - Vent’anni di riforme nell’istruzione superiore in Europa: dal 1980 ai giorni nostri, Studi Eurydice, 2000. 65 Sul piano della programmazione didattica, le traiettorie assunte per dare risposta a tali bisogni hanno investito, in primo luogo, la necessità di trasformare il processo di trasferimento di conoscenze in un processo di implementazione delle competenze e abilità in relazione ai contesti di lavoro e in relazione all’autonomia decisionale delle singole figure professionali, indipendentemente anche dai diversi profili e inquadramenti contrattuali. È con queste premesse che il dibattito si con- centra sulla necessità di formare lavoratori della conoscenza e tecnici intermedi che, incardinati nel tessuto delle imprese, potessero facilitarne i cambiamenti di processo e prodotto per una maggiore competitività. In occasione della Conferenza Europea di Maastricht del dicembre 2004 è stato fatto il punto sui progressi finora realizzati e su quanto resta da fare in rela- zione agli obiettivi europei per il 2010. I risultati sono stati aggiornati e ridiscussi anche nel 2007 dando luogo al documento Progress towards the Lisbon objectives in education and training - Indicators and benchmarks. Il filo rosso delle valutazioni condotte a livello comunitario è costituito dalla considerazione che, tra i diversi obiettivi, quello di una più stretta interazione tra mondo della formazione e mondo del lavoro rimane certamente uno degli ambiti decisivi di lavoro, anche se particolarmente complesso. In questo quadro è necessario tenere presente che molto differenziate appaiono anche le relazioni tra i sistemi istituzionali di offerta formativa e tra i vari attori isti- tuzionali, economici e sociali e soprattutto i meccanismi di transizione dalla forma- zione al lavoro determinati non ultimi anche da indicatori strutturali dei singoli Paesi (relativi ai valori assoluti della popolazione e ai valori percentuali dei tassi di disoccupazione, di partecipazione femminile, ecc.).5 Nella quasi totalità dei Paesi membri le trasformazioni registrate a partire da un nuovo assetto normativo hanno anticipato molte delle Raccomandazioni europee in tema di alta formazione e si sono mosse nella direzione di una maggiore e più con- sapevole partecipazione sociale e politica collegata ai fenomeni di macro e micro- economia. Si sono venute a determinare alcune modificazioni del settore universi- tario da sistema di élite a sistema di massa, a seguito del cambiamento quali-quanti- tativo della domanda di formazione in relazione alla diversificazione dell’utenza. Questo ha comportato una conseguente diversificazione dell’offerta stessa caratterizzata da una forte richiesta di corsi più brevi, maggiormente orientati al versante pratico e professionalizzante, con una vocazione a carattere terminale per un più veloce inserimento nel mondo del lavoro. Pur in presenza delle molte diversificazioni proprie di ciascun Paese, tali corsi si differenziano dai cicli universitari per alcuni fattori: 5 DECSY P., TESSARING M. (eds), Training in Europe. Second report on vocational training research in Europe 2000, Vol. 1 e 2, Cedefop reference series, OPP Luxembourg, 2001; DECSY P., TESSARING M., Objectif compétence: former et se former, Cedefop reference series, OPP Luxem- bourg, 2002; LENEY T. (ed.), Achieving the Lisbon goal: the contribution of VET, Final report to the European Commission, paper, Maastricht, 1-11-2004. 66 – Il sistema di alta formazione non accademica, benché possa presentare percorsi di durata analoga all’offerta universitaria – questo accade soprattutto negli ultimi anni a seguito della riorganizzazione degli stessi cicli universitari e della adozione di sistema 3+2+3 promosso dal Processo di Bologna – se ne dif- ferenzia per un più spiccato orientamento in senso applicativo finalizzato appunto a una specificità professionale, assumendo una logica strumentale o meglio funzionale nell’ambito del potenziamento dei meccanismi virtuosi di transizione al lavoro; – I percorsi proposti a livello europeo consentono l’acquisizione di titoli a carat- tere terminale e se, dunque, rimane la possibilità di verticalizzare ulteriormente il proprio percorso di studi mediante l’accesso a programmi specifici di specia- lizzazione o di ricerca all’interno dell’Università (come, ad esempio, accade in Danimarca), lo sforzo promosso dai livelli di governo centrali è stato quello di promuovere il concetto di sequenzialità e la qualificazione all’interno di un quadro nazionale delle qualifiche, diversificando eventualmente anche i percorsi di carriera e gli ambiti settoriali e disciplinari dei vari segmenti del sistema. La riorganizzazione dei sistemi di alta formazione e la conseguente definizione delle filiere formative ad essi riferite sono state il frutto – trasversalmente nei diversi contesti europei – di una pressione esercitata dal contesto civile, sociale e produttivo. Le strategie attuate per la costruzione dello stesso sistema sono però diversificate e possono prevedere: – la revisione e la trasformazione dei singoli interventi di istruzione superiore, a partire dalle caratteristiche e dai provider dei singoli percorsi; – l’innesto e l’arricchimento delle funzioni attribuite al sistema universitario mediante la creazione di strutture parallele ai tradizionali cicli accademici ma interne al sistema accanto (come accade in Francia per gli IUT); – la creazione di strutture nuove al di fuori del sistema scolastico e accademico (Fachhochschulen tedesche). In alcuni casi il nuovo ciclo nasce in modo ibrido, tra istruzione secondaria e superiore, e collocato in modo peculiare all’interno del sistema (così come accade nel Regno Unito con i Further education college) e/o da strutture di formazione specialistica inserite nell’area dell’istruzione secondaria ma diverse da essa (come appunto la formazione professionale post secondaria in Italia). Benché le molte scelte attuate sino ad oggi presentino strategie complesse che possono essere tipizzate solo in parte (per una lettura più approfondita si rimanda alle indicazioni contenute nelle schede di seguito presentate), dal punto di vista della struttura del sistema, i vari modelli sono comunque riconducibili a tre tipologie: – Binario, caratterizzato dalla presenza di un settore universitario e di un settore non accademico distinti da una diversa gestione e modalità di funzionamento 67 anche se sono possibili interrelazioni (Germania, Olanda). In particolare i percorsi sono dotati di pari dignità formativa, e si distinguono per la natura dei programmi che nel settore non universitario presentano un deciso carattere tecnico professionalizzante. – Integrato, in cui la creazione di un percorso di tipo professionalizzante avviene all’interno dello stesso sistema universitario attraverso un processo di differen- ziazione strutturale (Svezia). – Misto o pluralistico, in cui si dà luogo alla creazione di un sistema molto diver- sificato e legato ai singoli percorsi piuttosto che alla natura giuridica delle isti- tuzioni che erogano l’offerta (come ad esempio in Francia, in Inghilterra, ecc.).6 Al di là delle politiche formative e sociali e degli elementi di contesto che possono determinare in ogni Paese particolari scelte nel campo formativo, si può affermare che a livello generale è più facile riscontrare uno sviluppato settore di formazione superiore non universitario nei Paesi dove la cultura professionale è maggiormente valorizzata e l’insegnamento tecnico è tradizionalmente radicato. Ad esempio, in Germania, dove il modello duale rappresenta uno degli aspetti più peculiari del sistema formativo, gran parte degli studenti che accede agli studi superiori lo fa all’interno delle FH e quindi nel segmento tecnico professionale. Lo stesso fenomeno si rileva ad esempio anche in Svizzera e nei Paesi Bassi dove, pur in presenza di una differente articolazione dell’impianto del sistema, il segmento dell’istruzione superiore non accademica raccoglie una quota percentuale di studenti più ampia o comunque consistente rispetto al segmento universitario. La scelta strategica che ha accomunato i diversi Paesi europei è stata quella di dotare gli istituti di istruzione superiore di autonomia, in particolar modo per quel che riguarda le Università. Gli esiti di tale politica strutturale hanno avuto un im- patto sullo sviluppo del sistema stesso valorizzando la capacità e le competenze di programmazione degli istituti di istruzione superiore delegando loro le scelte e il diritto di definire statuti propri che potessero ampliare il dialogo e il coinvol- gimento degli attori più rappresentativi del territorio. Alcuni Paesi hanno basato la riforma su un processo normativo dettagliato includendo una serie di leggi, decreti e regolamenti che vengono singolarmente ap- provati dal Parlamento. Altri si sono basati su un numero limitato di leggi quadro, attuate attraverso leggi e documenti programmatici successivi. In situazioni ancora diverse è stata sperimentata una programmazione attraverso progetti pilota descritti nei documenti programmatici che hanno dato luogo a progressivi cambiamenti prima dell’approvazione della relativa legislazione.7 6 A questo proposito, per la tipizzazione delle strategie e la tipizzazione degli interventi strategici realizzati in Europa si veda anche: AA.VV. Nuovi bisogni di professionalità e innovazioni del sistema formativo italiano – La formazione integrata superiore, ISFOL, Franco Angeli, Milano, 2000. 7 A tale proposito cfr. Rete Eurydice Unità Europea di Eurydice – Commissione europea – Dire- zione generale istruzione e cultura, op. cit. (2000). 68 La legislazione relativa alla struttura del sistema dell’istruzione superiore è strettamente collegata alla riforma del curriculum. Ampliando lo sguardo a tutti i Paesi della Comunità europea, le riforme hanno spesso interessato la creazione di istituti di istruzione tecnologica superiore come la Technologika Ekpaideftika Idrymata (TEI) in Grecia, i Regional Technology Colleges in Irlanda, le Fachhochschulen in Austria, gli Institutos Politécnicos in Portogallo e la Fachhochshule Liechtenstein (FHL). Un altro tipo di legislazione ha regolamentato la ristrutturazione dell’intero si- stema di istruzione superiore per collocare il settore universitario e non universi- tario entro un quadro legislativo di riferimento (sebbene non necessariamente per riunire i due settori) e per favorire la pari considerazione di entrambi i settori, come nella Comunità fiamminga del Belgio, nei Paesi Bassi, in Portogallo, in Svezia, nel Regno Unito e in Norvegia. In alcuni Paesi, come la Norvegia e le Comunità francese e fiamminga del Belgio, la legislazione ha permesso la ristrutturazione e la razionalizzazione del settore non universitario attraverso l’unificazione degli istituti. Spesso questa legislazione era finalizzata anche a valorizzare nuovamente il segmento della formazione superiore (accademica e non accademica) e a rispon- dere alle problematiche che – trasversalmente a diversi Paesi europei – riguarda- vano sempre più sia i tassi di insuccesso e abbandono dei percorsi accademici, sia – sul versante dell’utenza – la motivazione a sostenere investimenti privati per un titolo che non sempre trovava una rispondenza in termini di proficuo inserimento occupazionale. La Danimarca e i Paesi Bassi hanno legiferato per creare un’Università aperta, mentre altri Paesi hanno istituito nuove Università, come ad esempio il Centro uni- versitario di perfezionamento di Krems in Austria. Nel 1993 la Danimarca ha introdotto la cosiddetta struttura 3+2+3, dividendo i programmi universitari in tre cicli: un ciclo triennale di primo livello, un ciclo bien- nale di candidatus e un ciclo triennale di dottorato. Infine, la Germania nel 1990 ha approvato una legislazione relativa alla riorganizzazione dell’istruzione superiore nei nuovi Länder dopo la riunificazione. Le riforme legislative o di orientamento politico relative ai corsi e ai pro- grammi dell’istruzione superiore hanno interessato, in prima battuta, per lo più la riorganizzazione dei corsi universitari. A seconda del Paese, ciò potrebbe implicare l’offerta di corsi di diploma universitario di tipo corto, la specificazione dei livelli in cui potrebbero essere conferiti diversi tipi di diplomi, aumentando la flessibilità dei programmi e/o istituendo legami più stretti fra l’offerta dei corsi e la domanda del mercato del lavoro, per esempio aumentando il numero dei corsi con un orien- tamento più prettamente tecnico. Alcuni Paesi hanno modificato il proprio mecca- nismo di programmazione dei corsi, istituendo o favorendo la creazione di organi consultivi nazionali oppure, più frequentemente, a livello dei singoli istituti, per sviluppare e valutare l’offerta dei corsi. 69 Il processo di promozione degli istituti e dei corsi professionali non universi- tari ha spesso comportato la ristrutturazione dei curricoli e, spesso, pur in decenni diversi (dal 1977, come avvenuto in Belgio, al 1989 in Francia, al 1991 in Fin- landia e al 1992 nei Paesi Bassi) ha portato all’ampliamento della durata dei corsi. In alcuni Paesi, anche le modifiche sui sistemi di aiuto finanziario agli stu- denti, comprese le disposizioni relative alle tasse di iscrizione, hanno influito sul- l’accesso e sull’abbandono. Un altro ambito importante della riforma è stato il miglioramento dell’accesso all’istruzione superiore per gli studenti adulti e per coloro in possesso di qualifiche non tradizionali. In momenti diversi, ad esempio, il Regno Unito (nel 1987) e la Finlandia (nel 1995) si sono impegnati nella promozione di politiche che sostenes- sero l’istruzione lungo tutto l’arco della vita e l’ampliamento dell’accesso all’istru- zione superiore. In Danimarca, dal 1990 in poi, è stato possibile per gli adulti ade- guatamente qualificati seguire corsi a tempo parziale dell’Università aperta o altri programmi di istruzione a tempo parziale per qualifiche professionali. Come noto, anche in Francia, dalla metà degli anni ‘80, le abilità professionali possono essere riconosciute ai fini dell’ammissione all’istruzione superiore e in Finlandia (1991) l’accesso all’istruzione superiore è stato esteso ai possessori di qualifiche profes- sionali post-secondarie. In Svezia, nel 1996 la collaborazione e l’interazione con gli stakeholders (la comunità locale, il mondo del lavoro e il settore pubblico) è stata definita con la legge sull’istruzione superiore come la terza funzione delle Università e degli istituti universitari. Gli studi in questi anni condotti dalla Rete Eurydice, in merito alla compara- zione degli atti legislativi relativi alla riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione superiore, permettono di approfondire alcuni aspetti legati alle strategie adottate all’interno dei diversi sistemi Paese.8 Nello specifico, alcuni Paesi hanno legiferato separatamente per il settore uni- versitario e per il settore non universitario, mentre molti altri hanno introdotto una legislazione che riguardava l’intero settore dell’istruzione superiore (Germania 1976, Francia 1984, Paesi Bassi 1992, Svezia 1992, Regno Unito 1992 e Norvegia 1995). Gli atti prodotti da questi Paesi rispondono alla precisa scelta di dotare le di- verse componenti del sistema di istruzione superiore di pari dignità riconducendo tutte le possibili offerte formative (siano esse afferenti al settore non universitario dell’istruzione superiore – anche a fronte del perdurare di differenti filiere in un sistema binario come quello tedesco – o percorsi di tipo accademico) all’interno dello stesso quadro legislativo. Negli stessi anni in Italia, così come pure in Belgio, nei Paesi Bassi, in Fin- landia, nel Regno Unito e in Norvegia la normativa di riordino del ciclo terziario si poneva come un elemento di continuità rispetto agli annunciati processi di riforma 8 Op. cit. (2000). 70 che si proponevano di affrontare le stesse problematiche (cambiamenti del mercato, richiesta di nuovi fabbisogni di professionalità, elevati tassi di dispersione universi- taria, crescita significativa della domanda di istruzione superiore, ecc.). In Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Austria, Finlandia, Svezia, Regno Unito e Norvegia, la riforma dell’istruzione superiore è stata attuata a partire dagli anni ’90 attraverso un numero relativamente ridotto di leggi quadro che specificavano gli obiettivi di sistema e le principali linee di indirizzo. Le stesse sono state successi- vamente attuate in modo graduale ma comunque all’interno di una strategia ben definita con tempi e obiettivi a medio e lungo termine. Il gruppo di Paesi presi in considerazione ha promosso e perseguito un processo di cambiamento e le proposte di riforma sono state sviluppate in accordo con i principali interessati, sulla base di documenti programmatici pubblicati, forum consultivi o progetti pilota. Queste proposte comprendevano: – l’Accordo pluriennale in Danimarca che gettava le basi per la graduale libera- lizzazione dell’accesso degli studenti, per l’introduzione di una nuova struttura dei programmi di studio e del finanziamento degli istituti secondo il sistema del “tassametro”; – nei Paesi Bassi il Memorandum su “Istruzione superiore, autonomia e qualità” (1985); – in Svezia il Memorandum sull’indipendenza delle Università e degli istituti universitari (1992); – nel Regno Unito i Libri bianchi sull’istruzione superiore (1987 e 1991) e il Rapporto nazionale del 1997 della Commissione d’inchiesta sull’istruzione superiore (Rapporto Dearing e Rapporto Garrick per la Scozia); – e infine le Commissioni Reali norvegesi del 1988 e 1992. Pur in presenza di un modello amministrativo centralizzato molti di questi Paesi non sono intervenuti mediante una produzione normativa dettagliata ma piut- tosto hanno indotto i cambiamenti attraverso la definizione delle linee generali di intervento all’interno delle quali si potessero sviluppare le diverse proposte di riforma del sistema di istruzione, elaborate a partire dai meccanismi secondo cui si sviluppava la domanda nei diversi territori. Tale approccio si è rapidamente diffuso in tutta la comunità europea tanto che in ogni Paese si è passati da una amministrazione centralizzata alla delega e al rico- noscimento dell’autonomia (di ruolo e di programmazione) sia dei livelli di go- verno più decentrati, sia dei singoli istituti d’istruzione superiore sul versante acca- demico e non accademico. Nell’ambito del processo di costruzione di un sistema articolato di istruzione e formazione superiore, alle scelte in tema di decentramento dei processi decisionali delle amministrazioni si collega in modo diretto la crescente attenzione al rapporto tra istruzione e mondo del lavoro. I due aspetti, in particolare, risultano fortemente integrati soprattutto se si pensa alla maggiore facilità di avviare un dialogo sistema- 71 tico dal basso piuttosto che a un processo di consultazione centralizzato che pre- suppone la necessaria generalizzazione dei fabbisogni. La necessità di un ancoraggio più forte e sistematico dei programmi al sistema produttivo allarga il dibattito europeo sui temi dell’istruzione e formazione supe- riore sino ad includere i temi delle condizioni di lavoro, delle carriere professionali, dei fenomeni di overeducation. Il 1998 segna un punto di svolta per tutti i Paesi (Francia, Germania, Italia e Regno Unito) che sottoscrivono una dichiarazione sulla armonizzazione dell’architettura dei sistemi di istruzione superiore funzionale alla costruzione di un comune quadro di riferimento che possa migliorare il riconosci- mento dei titoli di studio e favorire l’occupabilità dei soggetti anche mediante espe- rienze di studio e di lavoro all’estero. Negli anni a venire, seguono la Dichiarazione della Sorbona e la Dichiarazione di Bologna, atti che avviano concretamente la ri- forma del sistema di istruzione superiore. La definizione degli obiettivi di Lisbona da raggiungere entro il 2010 costituisce il metro condiviso secondo cui perseguire la modernizzazione dei sistemi di istruzione superiore. Tra gli obiettivi si ricorda l’aumento dei giovani tra i 18 e i 24 anni che conti- nuano gli studi dopo il completamento del ciclo secondario e un adeguamento dei sistemi di istruzione alle esigenze della società dei saperi e alla necessità di miglio- rare il livello e la qualità dell’occupazione. Diventa dunque prioritario procedere nella creazione di un sistema di alta formazione professionale. In questo caso, sono rilevanti i tipi di istituzioni di istruzione e formazione esistenti in un Paese, even- tualmente raggruppati in settori di istruzione, i tipi e i livelli dei corsi di studio offerti, i tipi e i livelli dei titoli conseguibili con il completamento degli studi, i raggruppamenti disciplinari degli insegnamenti, le modalità di accesso agli studi, le eventuali differenze di reptazione o di prestigio, la dignità attribuita agli stessi livelli e istituzioni che si occupano di erogare l’offerta sul territorio. In Europa, la varietà istituzionale dei sistemi di istruzione superiore ha radici storiche, tuttavia nello studio del rapporto tra istruzione e mondo del lavoro conta il fatto che l’espansione dei sistemi sia stata accompagnata da un processo di diffe- renziazione strutturale di tali sistemi che ha portato in molti Paesi alla creazione di due settori separati: uno universitario, uno non universitario. In molti Paesi europei, l’istruzione superiore è stata organizzata secondo un modello binario che ha pro- dotto un’offerta differenziata di forza lavoro altamente qualificata proveniente in parte da un settore di istruzione con un orientamento più professionale e, in parte, da un settore di istruzione con un orientamento più accademico. Le differenze si ripercuotono anche sull’organizzazione dei programmi didattici e curricolari. Un aspetto di particolare rilievo rispetto alle relazioni con il mondo del lavoro riguarda la possibilità che i corsi prevedano o meno delle esperienze di lavoro inserite come parte integrante nei programmi di studio oppure almeno inco- raggiate e sostenute dalle istituzioni di istruzione superiore. La crescente attenzione alle questioni relative alla transizione dalla formazione al lavoro ha avuto eco su due aspetti dell’offerta nel suo complesso: l’espansione 72 dei sistemi di istruzione superiore e, nella maggior parte dei casi, una loro diffe- renziazione strutturale che ha portato in molti Paesi alla costruzione di due settori separati di istruzione superiore; uno universitario, l’altro non accademico. Ad esempio, in Italia e Finlandia la struttura del sistema è dominata dal settore universitario. I sistemi di altri Paesi, come la Germania, l’Austria, i Paesi Bassi e la Norvegia hanno una struttura binaria che comprende due filiere separate. Nel Regno Unito il processo di razionalizzazione del sistema ha portato alla creazione di un sistema unitario all’interno del quale istituti differenti per storia e approccio possono rilasciare gli stessi titoli. Nel Regno Unito, in particolare, l’impianto del sistema è stato frutto dell’unificazione dei due settori precedentemente esistenti (Università e Colleges). Un’ulteriore formula infine è stata adottata nell’ambito del sistema francese che si articola all’interno dello stesso sistema accademico in proposte nettamente diversificate. Al di là dei modelli e delle tipologie strutturali e funzionali privilegiate dai sistemi formativi dei diversi Paesi, sono comunque rintracciabili alcune caratteri- stiche organizzative e didattiche comuni ai percorsi di alta formazione superiore non accademica: – la durata complessiva dei percorsi è pari in media a 6 semestri (tre anni). A se- guito delle innovazioni acquisite nella riorganizzazione del sistema accade- mico – già recepite in Italia e a fronte del quale è in corso un processo di ade- guamento dei diversi sistemi europei – non sembra più aver senso affrontare la questione della differenziazione dei percorsi parlando di cicli brevi contrap- posti ai cicli lunghi universitari. Si tratta di una scelta ben precisa a livello eu- ropeo, sia per dare dignità ai differenti percorsi nel settore accademico e non accademico, sia per trasferire competenze di livello adeguato e tali da poter operare una corrispondenza tra gli obiettivi formativi degli stessi percorsi e il livello V della classificazione Isced articolata recentemente dall’ampliamento dei descrittori di Dublino (cfr. cap. 1). – L’accesso è regolato con modalità di selezione iniziale che consentono di strutturare la didattica in relazione all’utenza, alle metodologie didattiche e alle caratteristiche dei percorsi stessi. Benché i meccanismi di regolamen- tazione dell’accesso risultino fortemente differenziati – tanto che si va da un sistema centralizzato come quello del Regno Unito presieduto da un’Agenzia Nazionale che determina le quote di accesso in relazione al successo for- mativo pregresso, a un sistema di completa delega ai singoli provider come nel resto dei Paesi del Nord Europa – i requisiti di accesso sono determinati a livello nazionale sia in termini di certificazioni necessarie (titoli, diplomi, ecc.) sia in termini di competenze necessarie al successo formativo degli in- terventi finanziati. Gli stessi percorsi, si caratterizzano per una progressiva apertura – anche parziale – ad adulti e soggetti privi dei titoli della scuola se- condaria superiore (o attraverso la normativa istitutiva o attraverso progetti pilota e sperimentazioni). 73 – I programmi hanno carattere professionalizzante e non prevedono piani di studio orientati alla ricerca tout court. Piuttosto sono focalizzati su contenuti professionali e utilizzano metodologie didattiche diversificate all’interno delle quali si privilegia la multidisciplinarietà e il ricorso ad un periodo di stage della durata non inferiore al 25% dell’intero percorso. L’apprendimento on the job, in particolare e soprattutto in Inghilterra e in Germania, è parte integrante del percorso tanto che spesso il percorso è articolato in alternanza o comunque prevede periodi di rientro in formazione piuttosto lunghi e tali da permettere il rafforzamento o il recupero delle competenze necessarie alla costruzione della professionalità oggetto del corso. A tal proposito si sottolinea che lo stage – a differenza di quanto avviene nella maggior parte dei percorsi, accademici e non accademici italiani –, quasi mai è posto al termine dei percorsi ma inte- grato all’interno di calendari più articolati. – I percorsi sono soggetti a controlli periodici e sistematici degli apprendimenti che consentono una verifica e certificazione del livello di competenza rag- giunto dai singoli. Questo meccanismo sottolinea gli sforzi compiuti dai sin- goli Paesi nel lavorare per una riconoscibilità dei titoli all’interno dello stesso sistema Paese anche nell’ambito della definizione di quadro nazionale delle qualificazioni. La rapida panoramica su alcune esperienze europee offre alcuni spunti di ri- flessione che permettono di considerare criticamente le variabili che caratterizzano il sistema italiano. Ad esempio, se da una parte, il fatto che negli altri Paesi europei l’istruzione tecnica superiore sia molto più radicata e sviluppata che in Italia potrebbe indurre a pensare che sia possibile una crescita per gli IFTS, crescita che si è arenata negli ultimi anni di programmazione a fronte invece di un sostanzioso incremento del volume degli iscritti ai percorsi universitari di primo livello. D’altro canto, però è necessario rilevare che il tasso di inserimento occupazionale coerente correlato con la domanda costante da parte delle imprese di circa 80.000 tecnici intermedi induce a riflettere sia sulla dimensione dell’offerta – del tutto insufficiente, sia sulla tipo- logia di figure professionali proposte all’interno di tale canale di formazione supe- riore – non sempre riconducibili a quelle dei tecnici richiesti. Come sottolinea anche il confronto con molte esperienze europee, il problema della concorrenzialità tra canale di formazione superiore e primo ciclo accademico appare, in Italia, più ancorato a questioni di certificazioni funzionali all’avvio della carriera professionale piuttosto che ad una reale valutazione della qualità del percorso da intraprendere. La duplicazione degli interventi si presenta come un problema appartenente ad un falso piano che, almeno per le professioni regolamen- tate, di fatto appartiene e dovrebbe essere risolta nell’ambito delle questioni inerenti la contrattualistica nazionale. Molto più problematico appare tutt’oggi in- vece il problema della visibilità dell’offerta e della sporadicità degli interventi che 74 si caratterizzano ancora per numeri piuttosto esigui e per la capacità di accogliere e sollecitare una domanda contenuta. Uno sguardo ai sistemi formativi di altri Paesi può consentire di affrontare il tema dei rapporti tra la filiera dell’alta formazione tecnico-professionale e quella universitaria: se da una parte, infatti il modello integrato della formazione non ac- cademica incardinato nel sistema universitario ha mostrato che è più agevole il pas- saggio ai percorsi universitari, il sistema francese sottolinea quanto il rischio che la formazione non universitaria tenda progressivamente a curvarsi verso la proposta accademica sia molto elevato. Al contrario, un impianto caratterizzato da una netta divisione dei canali – come quello tedesco – può rendere difficoltoso per i diplo- mati delle FH il passaggio all’Università proprio a causa di un modello fortemente binario. In Italia, l’osservazione dei diversi modelli ha prodotto una concentrazione istituzionale sul tema della certificazione dei crediti formativi acquisiti nei percorsi IFTS ma ha anche dimenticato che i giovani e gli adulti che sono intenzionati a spendere i crediti all’interno delle Università sono rappresentati da numeri assolu- tamente residuali (anche per il fatto che nella costruzione di un percorso professio- nale individuale non esiste sempre una corrispondenza o un livello di coerenza molto ampio tra indirizzo di studio accademico e figura di riferimento del corso frequentato). La grande attenzione dei livelli istituzionali che in alcune Regioni ha dato luogo a protocolli d’intesa tra le Amministrazioni regionali e gli atenei, come sempre in modo differenziato e disomogeneo rispetto al contesto e al territorio di riferimento, ha fatto passare in secondo piano che: – tra le motivazioni a monte dell’iscrizione ai corsi spicca l’intenzione di inse- rirsi proficuamente nel mercato del lavoro, abbreviando dunque i tempi dei processi di transizione dalla formazione al lavoro; – tra le finalità della filiera si indicava come prioritaria l’intenzione di trasferire competenze immediatamente spendibili nel mercato del lavoro e che dunque lo slittamento temporale dell’inserimento deve far riflettere i provider in merito al pericolo di invecchiamento delle competenze e dei contenuti proposti nei percorsi; – tra l’utenza, la percentuale di chi possiede già al momento un titolo di livello universitario è piuttosto elevata (15%) e in continua crescita e che una percen- tuale piuttosto elevata comunque ha già compiuto non sempre con successo una sezione dei percorsi accademici decidendo di rivolgersi al canale non uni- versitario per implementare la propria occupabilità. Tali premesse, da sole, dovrebbero restituire la misura che avrebbe dovuto spingere ad una riflessione sui rischi connessi alla volatilità delle competenze apprese piuttosto che sulle questioni connesse all’ulteriore prolungamento dei percorsi di studio. Un altro segno forse di una dignità mancata. 75 3. PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEI SISTEMI DI FORMAZIONE SUPERIORE DI TIPO NON ACCADEMICO IN ALCUNI PAESI DEL CONTESTO EUROPEO 3.1. Svezia Dal 1997 il sistema svedese di istruzione terziaria è stato trasformato da si- stema binario in sistema unitario che comprende: – istruzione terziaria accademica;9 – istruzione professionale con programmi di breve e lunga durata. A fronte dell’aumento progressivo e costante della domanda, è stato imple- mentato anche il numero di provider che erogano l’offerta, tanto che nell’alveo del- l’istruzione terziaria e della formazione professionale di alto livello, si contano 14 Università statali, 22 collegi universitari statali e 3 istituzioni private.10 Le istituzioni d’istruzione terziaria statale si configurano come Agenzie gover- native e molti dei compiti che in altri sistemi europei sono propri dei Ministeri o di altri organi vigilati dalle competenze nazionali, sono state affidate proprio alle Agen- zie, come ad esempio indagini, analisi, monitoraggio e valutazione. Al Ministero spetta invece la definizione delle linee di indirizzo e della promozione delle politiche. Come detto, dal 1997, la creazione di un sistema unico ha fatto sì che la rete dei soggetti eroganti includa e comprenda le Università e i Collegi Universitari. La differenza principale risiede nel fatto che le Università rimangono gli unici soggetti autorizzati a rilasciare titoli di dottorato. L’istruzione terziaria non accademica è impartita nell’Alta formazione profes- sionale, un tipo di formazione post secondaria progettata e realizzata in stretta col- laborazione con le imprese. 9 Rispetto al Processo di Bologna, la Svezia, benché non abbia ancora messo a regime la pro- posta avanzata, ha comunque configurato alcune misure che prevedono la suddivisione dell’istruzione superiore in tre cicli: – Livello pre-diploma: corsi generali di 2-3 anni e percorsi brevi professionalizzanti con la finalità di approfondire e ampliare le conoscenze acquisite nella scuola secondaria superiore. – Livello diploma (specializzazione) che approfondisce i contenuti del livello precedente. In questo livello si prevede di introdurre un nuovo diploma generale di Master della durata di due anni di studio. Tale proposta pone alcuni problemi ai Collegi universitari che non avrebbero diritto a ri- lasciare il nuovo diploma prefigurando di fatto una nuova separazione tra Università e College (superata invece a partire dal 1997). – Livello post diploma: terzo livello o dottorato. In questo percorso saranno approfondite le cono- scenze acquisite al secondo livello. Attualmente, un dottorato richiede quattro anni di studio a tempo pieno. Tuttavia, uno studente ammesso al terzo livello d’istruzione superiore dopo aver conseguito un diploma di Master può aver titolo al riconoscimento di crediti abbreviando così il tempo richiesto per il completamento del dottorato. In base a una decisione assunta dal Parlamento svedese (Riksdag) nel 2006 la nuova struttura potrebbe essere operante a partire dal 2008. 10 Nel settore dell’alta formazione professionale sono attive anche istituzioni indipendenti ma presentano numeri assai ridotti e si caratterizzano per piccole dimensioni e specializzazioni settoriali molto specifiche. 76 L’organizzazione dell’intero sistema e l’abolizione del sistema binario tra Uni- versità e college ha implicato che la Svezia abbia optato per una scelta di unifica- zione più generale al cui interno convive anche l’alta formazione professionale.11 Questa ultima nasce come progetto pilota nel 1996. Benché sia stata oggetto di spe- rimentazione un anno prima della scelta di optare per il sistema unitario, di fatto, ri- entra appieno tra le scelte ritenute più valide ai fini della diversificazione della ti- pologia dell’offerta operata dal Ministero competente, tanto che, nel 2002, tra- sforma il carattere sperimentale dell’iniziativa a favore di una sostanziale stabiliz- zazione all’interno dell’offerta ricorrente nel segmento dell’istruzione terziaria. La natura e l’organizzazione del sistema di alta formazione professionale è stata infatti formalizzata nel 2001 da apposita disposizione di legge (Kvalificerad yrkesutbildning 2000/01) che ne ha indicato anche gli obiettivi e le linee di indi- rizzo. In base alla durata dei programmi, l’alta formazione professionale rientra nella classificazione Isced 4C o 5B e si configura come un’offerta di formazione profes- sionale di tipo post-secondario. L’alta Formazione Professionale è di competenze della Myndigheten for kvali- ficerad yrkesutbildning, una specifica Agenzia cui il Ministero competente ha dele- gato la competenza dell’organizzazione dell’offerta. Nell’ambito dei compiti attri- buiti, l’Agenzia definisce le linee guida, l’approvazione dei piani dell’offerta di nuovi corsi, la distribuzione delle risorse finanziarie e il monitoraggio e la valuta- zione degli interventi formativi realizzati. L’agenzia nazionale inoltre partecipa alla formulazione dei programmi di sviluppo regionale relativi alla previsione a lungo termine del mercato del lavoro e delle qualificazioni professionali. In questo senso, in accordo con i criteri di qualità stabiliti dall’Agenzia, la definizione del piano del- l’offerta formativa dovrebbe includere anche una analisi dei fabbisogni a livello re- gionale e, a seguire, garantire anche la salvaguardia delle caratteristiche del tessuto regionale. Gli enti erogatori possono essere molteplici e tra questi i più abituali sono gli istituti di istruzione secondaria superiore, le scuole post secondarie, gli enti per l’educazione per gli adulti delegati a gestione di Comuni e specifici enti locali e na- zionali. La programmazione del volume dell’offerta e la tipologia dei corsi prende le mosse dall’analisi dei fabbisogni che indica una proiezione a breve periodo delle necessità e delle evoluzioni che caratterizzano il mercato del lavoro. Le necessità del mercato del lavoro sono valutate dall’Agenzia svedese per l’alta formazione professionale sulla base di dati statistici, consultazioni dirette con le organizzazioni datoriali e sulla base di studi e approfondimenti condotti dagli stessi provider formativi proponenti che devono dimostrare una reale necessità in relazione alla 11 Nota nei documenti ufficiali come Advanced Vocational Education, in svedese Kvalificerad yrkesutbildning. 77 specifica figura o profilo professionale per cui si organizza l’intervento formativo. I corsi stessi, infatti possono essere istituiti ex novo, sospesi, modificati nei pro- grammi e contenuti in relazione alle variazioni registrate nel mercato e sul territorio e sono soggetti a periodiche e regolari valutazioni che tengono conto anche dell’in- teresse dei datori di lavoro e della qualità degli interventi stessi. In caso di esito negativo, il corso può essere sospeso o escluso dal piano dell’offerta formativa nazionale. L’obiettivo prioritario della filiera è quello di fornire agli utenti qualificazioni professionali ad alto contenuto professionalizzante nei settori di interesse per lo sviluppo del sistema produttivo e dunque particolarmente richieste o di particolare interesse per il mercato del lavoro. La figura professionale di medio e alto livello prevista in uscita dai percorsi prevede l’acquisizione di conoscenze teoriche e competenze professionali avanzate fortemente ancorate ai bisogni del tessuto produttivo che consentano ai formati di inserirsi positivamente nel mercato operando sia alle dipendenze o nell’ambito di contesti e staff professionali già consolidati, sia in autonomia e in termini consu- lenziali. Gli interventi formativi devono obbligatoriamente essere frutto del lavoro di dialogo e cooperazione tra i soggetti formativi e imprese e sono finalizzati a supe- rare la disparità di genere anche in contesti di tradizionale appannaggio maschile e a contrastare fenomeni di esclusione sociale favorendo la mobilità intergenerazio- nale. I programmi dei corsi sono studiati a partire dall’offerta formativa già esistente a livello terziario e dallo studio dei diversi contesti professionali. Anche i percorsi di alta formazione professionale, così come avviene per altri percorsi di istruzione terziaria, sono in prevalenza finanziati con risorse pubbliche. L’ammontare delle risorse finanziarie pubbliche, attribuite dall’Agenzia centrale al singolo ente erogatore, è calcolato sulla base di un parametro individuato per il calcolo del costo allievo. La frequenza è completamente gratuita per i corsisti. Le risorse finanziarie di natura privata provengono dalle imprese coinvolte nel percorso di apprendimento che ospitano la componente obbligatoria del tirocinio (per un terzo del monte ore complessivo del percorso) e contribuiscono per circa un terzo del costo totale dell’alta formazione professionale. L’accesso ai corsi di alta formazione professionale è consentito a tutti i giovani in uscita dalla scuola secondaria superiore e a tutti coloro che, anche se occupati, sono intenzionati a sviluppare competenze professionali in uno specifico ambito settoriale. I requisiti di ingresso sono gli stessi predisposti per tutti gli altri percorsi del- l’istruzione terziaria. In ingresso, nella filiera di alta formazione professionale è possibile richiedere l’accertamento delle competenze apprese in esperienze di lavoro e in percorsi professionali e di studio già compiuti e ottenere il riconosci- mento di crediti formativi ai fini di una riduzione parziale del percorso. 78 I processi di selezione sono studiati da ciascun singolo ente erogatore e per questo motivo si differenziano per quel che riguarda gli indicatori presi in esame (voto della scuola secondaria superiore, esiti di prove e colloqui di selezione, ecc.). Poiché le modalità e gli esiti della selezione degli utenti impatta e orienta le poli- tiche di indirizzo anche in relazione agli obiettivi della filiera stessa, pur nell’auto- nomia gestionale, gli enti erogatori devono comunque render conto delle scelte me- todologiche operate all’Agenzia centrale. Specificità del sistema svedese La decentralizzazione delle competenze dal Ministero alle agenzie costituisce un punto di forza per il sistema svedese sia per quel che riguarda la flessibilità del- l’offerta in relazione alle variazioni del mercato sia in relazione alla efficacia e tempestività del monitoraggio e delle valutazioni. Lo stesso processo ha però sottolineato alcune linee d’ombra rispetto alla precedente organizzazione del sistema dell’istruzione terziaria. Le singole istitu- zioni dell’istruzione risultano meno incentivate a distinguersi per un autonomo profilo prefigurando il pericolo di un processo di omologazione dell’intero si- stema dell’offerta. Inoltre, la crescente pressione della domanda di alta forma- zione (e la crescente crescita del numero di iscritti, e diplomati) sta attualmente mettendo in moto un processo di revisione anche delle interpretazioni dei risultati monitorati tanto da implicare una maggiore attenzione alla qualità degli interventi e con particolare riguardo anche alla qualità delle collaborazioni avviate con i rappresentanti del mercato del lavoro che contribuiscono alla realizzazione dei percorsi. SVEZIA • Istituti per Advanced Vocational Education12 (rispondono all’Agenzia Nazionale per l’Alta Formazione Professionale danese) – Qualifica in entrata: L’accesso ai corsi di alta formazione professionale è consentito a tutti i gio- vani in uscita dalla scuola secondaria superiore e a tutti coloro che, anche se occupati, sono intenzio- nati a sviluppare competenze professionali in uno specifico ambito settoriale. I requisiti di ingresso sono gli stessi predisposti per tutti gli altri percorsi dell’istruzione terziaria. In ingresso, nella filiera di alta formazione professionale è possibile richiedere l’accertamento delle competenze apprese in esperienze di lavoro e in percorsi professionali e di studio già compiuti e ottenere il riconoscimento di crediti formativi ai fini di una riduzione parziale del percorso.13 Formazione terziaria non universitaria 1. Istituti per Advanced Vocational Education 12 Gli enti erogatori possono essere molteplici e tra questi i più abituali sono gli istituti di istru- zione secondaria superiore, le scuole post secondarie, gli enti per l’educazione per gli adulti delegati a gestione di Comuni e specifici enti locali e nazionali. 13 Più dell’80% degli studenti che si iscrivono all’istruzione terziaria sono in possesso di diploma di scuola secondaria superiore. Circa il 10% ha frequentato percorsi di educazione degli adulti e i rimanenti hanno un diploma conseguito presso le scuole secondarie popolari o un titolo di scuola secondaria conseguito all’estero. L’età media dei corsisti è pari a 28 anni e molti studenti hanno avuto esperienze professionali pregresse anche piuttosto lunghe prima di accedere a tali percorsi. 79 3.2. Finlandia Il sistema di istruzione post secondaria finlandese presenta una articolazione propria del modello binario in cui coesistono Università e Politecnici. La scelta di tale modello risale al 1989, anno in cui si è proceduto alla unifica- zione e razionalizzazione dei collegi professionali per trasformarli in soggetti di di- mensioni più grandi, in grado di garantire un’offerta di livello terziario. I Politecnici appunto. La scelta di procedere ad una articolazione dell’offerta su un doppio canale al- l’interno del quale si presentavano le Università con un’offerta di tipo accademico e i Politecnici che raccoglievano l’eredità dei vecchi collegi professionali è da ricercare soprattutto in due ordini di fattori: – il primo fa riferimento ad una valutazione complessiva del sistema dell’offerta dei collegi le cui potenzialità venivano ritenute poco sfruttate soprattutto per 14 Da uno studio condotto nel 2004, negli anni 1999, 2000 e 2001 l’80% degli ex corsisti ha tro- vato una occupazione entro i primi 6 mesi dalla conclusione dei percorsi. Di questi una percentuale pari all’80% mostrava una coerenza tra il settore dell’attività lavorativa e la formazione ricevuta. Il risultato si configura decisamente positivo soprattutto se si pensa che il 59% di coloro che si erano iscritti ai percorsi nel triennio 1996-1998 si era dichiarato disoccupato. Meno positivi i risultati per l’anno 2004 per cui solo il 69% dei diplomati dell’alta formazione professionale era occupato o aveva avviato una attività autonoma. Il dato comunque non può non tenere conto, da un lato, dell’incremento dell’utenza e del numero di iscritti e dell’incremento della domanda, dall’altro dei fenomeni recessivi che, seppur in misura ridotta rispetto ad altri sistemi Paese europei ha interessato negli anni 2000-2003 anche il mercato del lavoro svedese. I processi di selezione sono studiati da ciascun singolo ente erogatore e per questo motivo si diffe- renziano per quel che riguarda gli indicatori presi in esame (voto della scuola secondaria superiore, esiti di prove e colloqui di selezione, ecc.). Poiché le modalità e gli esiti della selezione degli utenti impatta e orienta le politiche di indirizzo anche in relazione agli obiettivi della filiera stessa, pur nel- l’autonomia gestionale, gli enti erogatori devono comunque render conto delle scelte metodologiche operate all’Agenzia centrale. – Qualifica in uscita: Tutti i percorsi, indipendentemente dalla durata, danno luogo al rilascio di un diploma. I diplomi rilasciati da tutte le istituzioni d’istruzione terziaria hanno la stessa validità e il principio fondamentale è che gli studenti con qualificazioni adeguate provenienti da qualsiasi filiera dell’istru- zione terziaria hanno la possibilità di accedere a studi di dottorato. Tutti i diplomi infatti sono consi- derati sia come qualificazioni terminali ai fini dell’inserimento nel mercato del lavoro, sia come ti- toli utili e funzionali alla prosecuzione degli studi.14 I diplomi possono essere rilasciati solo da soggetti che siano stati preventivamente accreditati dal- l’Agenzia svedese per l’alta formazione professionale. – Temporalità del percorso: I corsi durano da 1 a 3 anni e danno luogo a 40 crediti per ogni anno (fino a un massimo di 120 crediti). I crediti dell’alta formazione professionale, diversi da quelli adot- tati all’interno del sistema ECTS trovano una spendibilità solo all’interno del sistema dell’istruzione terziaria svedese. Un credito corrisponde ad una settimana di studio a tempo pieno. In media i percorsi dell’alta formazione professionale hanno una durata pari a 2 anni di studio a tempo pieno (per un totale di 80 crediti). – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: Un terzo del monte ore complessivo deve essere realizzato on the job al fine di applicare le conoscenze e competenze acquisite in aula. La frequenza è completamente gratuita per i corsisti. 80 l’apporto professionalizzante che potevano garantire e per il livello ritenuto troppo basso delle competenze che erogavano nei diversi settori professionali. – Il secondo fa riferimento all’aumento della domanda di formazione di livello terziario che le Università da sole non erano in grado di soddisfare. È interessante ricordare che, nei primi anni, la natura dei Politecnici rimase piuttosto confusa soprattutto perché il dibattito sorto nello stesso periodo poneva in rilievo la posizione delle associazioni universitarie che manifestavano la preoc- cupazione in ordine al finanziamento di canali concorrenziali rispetto al versante accademico. L’istituzione dei Politecnici, fortemente promossa dal governo centrale è stata frutto della volontà politica di procedere nella radicale riforma del sistema univer- sitario nazionale. In sintesi, i Politecnici sono stati istituti attraverso la valorizza- zione e la fusione di istituti specializzati che in precedenza si occupavano di forma- zione professionale. La trasformazione del sistema è avvenuta nell’arco di dieci anni e i primi Poli- tecnici hanno conseguito uno statuto definitivo nell’agosto del 1996. Gli ultimi nel- l’agosto del 2001. I Politecnici hanno acquisito uno statuto permanente con la legge approvata nel 2003 che ha stabilito che tali strutture potessero impartire istruzione professio- nale di livello terziario strettamente connessa con il mondo del lavoro. Il modello attualmente propone un sistema al cui interno convivono con pari dignità ma con caratteristiche specifiche l’una e l’altra tipologia di organismi: – le Università si caratterizzano per i programmi orientati prevalentemente alla ri- cerca scientifica. In tutto il Paese si contano 20 Università: dieci sono multidi- sciplinari, tre sono ad orientamento tecnologico, tre sono scuole di economia e gestione aziendale e quattro sono accademie d’arte. Si tratta della rete universi- taria più estesa d’Europa soprattutto in relazione alla popolazione residente; – mentre gli istituti Politecnici offrono corsi di studio strettamente collegati al mondo lavorativo e orientati all’acquisizione di competenze professionali. Il sistema dell’offerta presenta 29 Politecnici per un totale di circa 130.000 iscritti. I Politecnici (Ammattikorkeakoulut) permettono il completamento degli studi di formazione professionale secondaria, ma rappresentano anche una opportunità – per chi già lavora – di conseguire un titolo in modo flessibile. I Politecnici sono istituzioni che preparano gli studenti mediante un approccio più applicativo e con programmi ad alto contenuto professionalizzante. Essi offrono corsi di studio strettamente collegati al mondo lavorativo e orientati al- l’acquisizione di competenze professionali. Essi forniscono un percorso ad orientamento pratico, alternativo all’Università tradizionale. Connessioni estese con il sistema di educazione permanente e con la vita lavorativa assicurano una buona percentuale di impiego a chi li frequenta. 81 I programmi sono di tipo specialistico e sono convalidati dal Ministero del- l’Educazione; ma i Politecnici sviluppano direttamente i loro curricula e hanno un buon margine di autonomia didattica. La frequenza è gratuita e le modalità di partecipazione possono essere a tempo pieno o parziale. Specificità del modello finlandese Le Università sono gestite dallo Stato, mentre i Politecnici operano sotto il con- trollo del Ministero dell’istruzione ma sono gestiti da Comuni, da Associazioni di Comuni o da Fondazioni. Nei Politecnici i partner esterni hanno un ruolo più forte nella gestione e nell’influenza diretta sul funzionamento complessivo della struttura. I sistemi di finanziamento sono impostati per valorizzare la mission di cia- scuno dei due canali che caratterizzano il livello terziario (accademico e non acca- demico): nel sistema universitario, i finanziamenti sono per lo più indirizzati ai programmi di ricerca; nel sistema dei Politecnici, i fondi sono stati impegnati – nella prima fase – per il consolidamento dell’offerta e dell’istituzione, in una se- conda fase per potenziare e valorizzare l’insegnamento e le funzioni di assistenza e supporto alle Regioni e enti locali. A differenza di quanto accade per le Università – che sono istituzioni con ampia autonomia decisionale ma prevalentemente finanziate da risorse statali – i Politecnici sono organismi municipali o di natura privata e sono finanziati da risorse erogate da organismi nazionali e locali. Il Parlamento finlandese promuove e promulga le politiche e gli atti di indi- rizzo in tema di politiche educative; successivamente, il processo legislativo che determina gli atti e le leggi relative all’Università e ai Politecnici segue due distinti canali. Le decisioni concernenti i Politecnici infatti sono regolamentate da Atti spe- cifici e disgiunti da quelli che regolano il funzionamento delle Università. Le principali linee guida e gli obiettivi dei due canali sono determinati in linea generale nel Piano di sviluppo per l’educazione e la ricerca, adottato dal Governo per un sessennio e rivisitato ogni quattro anni. La valutazione dei risultati in rela- zione agli obiettivi posti costituisce lo strumento prioritario del governo stesso per prendere decisioni in materia, intervenire ed eventualmente modificare linee di indirizzo e le scelte istituzionali compiute in materia di politiche dell’istruzione e formazione di livello terziario. I Politecnici e le Università hanno il compito di monitorare e implementare i loro stessi risultati. Il Consiglio per la Valutazione del- l’Istruzione Terziaria (Higher Education Evaluation Council) nel 1995 ha istituito un organo di governo che assiste tutti i soggetti operanti sul territorio (Università e Politecnici insieme) e il Ministero dell’educazione promuove la valutazione come processo e attività imprescindibile per ciascun soggetto. Con la politica del modello duale i diversi livelli di governo hanno cercato di promuovere la diversificazione dell’offerta cercando di stabilizzarla mediante la definizione della natura degli stessi soggetti eroganti. Il principio alla base delle scelte compiute incentiva comunque il dialogo e la collaborazione tra le due filiere dell’istruzione e formazione superiore incentivando la collaborazione delle stesse. E in questo senso devono essere lette le diverse innovazioni proposte nell’am- bito del settore accademico, e che si stanno muovendo a partire dalla promozione dell’integrazione tra programmi di ricerca e fabbisogni territoriali. Per facilitare l’integrazione tra istituzioni terziarie e territorio, sono stati proposti e istituiti sei nuovi tipi di network formativi che operano in altrettante città (Lahti, Mikkeli, Ka- jaani, Kokkola, Pori e Seinäjoki). L’istituzione degli istituti di istruzione superiore è motivata in primo luogo dalla volontà di implementare l’attività dei provider più piccoli e decentralizzati e diffondere in modo più capillare e sul territorio la cul- tura della conoscenza e l’apprendimento per competenze. Ogni istituzione fa capo ad un’Università più grande in grado di assicurare e garantire alcune azioni di si- stema. Per quanto riguarda la formazione superiore non accademica, i Politecnici sono attivi su 80 località diverse ma riescono a coprire un territorio molto più vasto. Attualmente l’offerta dei Politecnici è articolata in modo che essi assicurino: – da un lato, l’erogazione diretta di formazione professionalizzante di alto livello come una gamba del sistema; – dall’altro, il consolidamento di una rete di servizi in grado di offrire azioni di supporto (orientamento, counselling, ecc.) Oltre alla funzione formativa, dunque i Politecnici, svolgono attività di ricerca- azione. L’obiettivo infatti è quello di costruire un network mediante il quale contra- stare tutti i fenomeni di esclusione sociale e i fenomeni di dispersione e abbandono dal sistema di istruzione terziaria e non ultimo quello di promuovere la qualità e il ruolo della ricerca e sviluppo a supporto delle politiche regionali e locali. La struttura dei Politecnici è stata pensata perché essi diventino lo snodo al- l’interno delle diverse realtà regionali per supportare lo sviluppo e il lavoro comune di enti locali, comuni e comunità locali. 82 FINLANDIA • Politecnici – Qualifica in entrata: Per iscriversi al Politecnico è necessario avere un diploma di maturità o aver conseguito una qualifica professionale. – Qualifica in uscita: I Politecnici rilasciano un titolo finale (degree) e, su richiesta dello studente, un “supplemento di diploma” con le informazioni sui contenuti informativi, le valutazioni e lo status didattico dello studente. Fino a poco tempo fa avevano un solo livello di diploma (Bachelor). Solo recentemente e in concomitanza delle indicazioni emerse nel Processo di Bologna, nel 2005, è stato introdotto un progetto pilota mediante il quale è possibile conseguire il master anche all’interno dei Politecnici. La possibilità di conseguire presso i Politecnici il diploma di secondo livello (master) è prevista per un numero ristretto di discipline. Formazione terziaria non universitaria 1. Politecnici 83 3.3. Germania A metà degli anni ’90 il sistema di istruzione superiore tedesco presenta almeno tre caratteristiche: – è un sistema unificato che comprende anche le istituzioni di istruzione supe- riore dei Länder orientali (dopo l’unificazione); – è un sistema che, pur sottoposto ad un processo di revisione, conserva la strut- tura binaria creata negli anni ’70 che comprende due settori principali, uno universitario, l’altro non universitario; – è un sistema in cui il settore non universitario15 è fortemente differenziato al suo interno mentre il settore universitario, nonostante la competenza per l’istruzione sia in gran parte affidata ai governi regionali e il grado di differen- ziazione vada progressivamente crescendo, continua a essere caratterizzato da una elevata omogeneità nella qualità dell’istruzione offerta e nella reputazione delle singole istituzioni. Il sistema di istruzione e formazione terziario è esplicitamente finalizzato alla erogazione di percorsi formativi funzionali alla preparazione di figure professionali identificabili come quadri professionali intermedi altamente specializzati con capa- cità gestionali e di amministrazione delle risorse. I canali dunque sono molteplici e si articolano: 1) nella formazione superiore non universitaria della Fachhochschule (che insieme alla Università costituisce la Hochschule, educazione superiore); 15 Il settore universitario comprende circa 90 tra Università, Università tecniche e Università omnicomprensive. Tutte le istituzioni appartenenti al settore universitario hanno in comune il diritto di conferire il dottorato e l’abilitazione all’insegnamento universitario. Il master politecnico differisce dal master universitario. Ha una durata di un anno e mezzo (60-90 crediti ECTS). I programmi sono strettamente collegati alle esigenze del mondo del lavoro ed è possibile studiare mentre si lavora. Uno dei requisiti di ammissione al master è il possesso di un’esperienza professionale di almeno tre anni dopo il diploma di primo livello. Il master politecnico si configura come un canale alternativo a quello universitario che punta non tanto sullo sviluppo di programmi di ricerca quanto piuttosto su tempi più ridotti per conseguire il titolo e su un più stretto raccordo con il mercato. – Temporalità del percorso: Il percorso di studio è variabile: da un minimo di tre fino ad un mas- simo di cinque anni (per un totale di 140-180 crediti finlandesi, ovvero 180-240 crediti ECTS). – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: Ogni indirizzo di studi si articola in: - una parte fondamentale pari a circa 90 crediti ECTS, - una parte professionale pari a circa 75 crediti, - una parte elettiva e di praticantato, pari a 30 crediti, - un project work comprensivo dell’esame finale, pari a 15 crediti. La frequenza è gratuita e le modalità di partecipazione possono essere a tempo pieno o parziale (per una durata variabile dai 3 anni e mezzo ai 4 anni e mezzo), compresi almeno 6 mesi di tirocinio. Tutti i programmi di formazione, dunque, propongono obbligatoriamente un periodo di stage e di applicazione delle competenze e conoscenze apprese durante il percorso d’aula. 84 2) nel livello post-secondario riconosciuto come parte integrante del terziario dal 1995 (ma non ancora Hochschule): la Berufsakademie; 3) nella Fachschule (annoverata nel terziario con il nuovo sistema ISCED del 1997 dell’UNESCO), che continua il percorso professionale secondario della Lehre (istruzione duale o in alternanza) e viene utilizzata anche come canale di formazione continua. Fachhochschule (FH). Le prime Fachhochschulen si sviluppano negli anni ’60. A questa prima fase segue, fino al 1999, una fase di ampliamento che si con- clude con l’inizio del Processo di Bologna e che comporta alcuni cambiamenti si- gnificativi per questo tipo di istituzione. Le Fachhochschulen offrono un tipo di alta formazione professionale su basi scientifiche caratterizzata da un forte orientamento alla pratica. Rispetto all’Univer- sità lo studio svolto in una Fachhochschule è più pratico e meno teorico. Si tratta di un sistema strutturato di formazione terziaria tecnico-professionale che garantisce con relativa facilità l’inserimento nel mondo delle professioni. Le caratteristiche per cui le Fachhochschulen sono considerate un valido sup- porto formativo sono: – il continuo aggiornamento scientifico, – l’attività di ricerca indirizzata alla prassi applicativa, – e soprattutto il forte orientamento verso il mercato del lavoro. Secondo quanto emerso da uno studio condotto dall’IRSO,16 la filiera è nata e si è sviluppata con il sostegno del mondo produttivo e delle aziende che hanno manifestato la necessità di un sistema formativo terziario differenziato dall’Uni- versità e con una capillare presenza territoriale, basata sulla realtà delle economie e dei mercati locali dei singoli Länder. La FH prevede infatti stage nelle imprese, stipula con gli imprenditori contratti per la sperimentazione di macchinari e la progettazione, e rileva insieme a loro i bisogni del mercato regionale per antici- pare le nuove tendenze produttive e per arricchire l’offerta formativa mediante l’introduzione di nuovi profili e l’aggiornamento dei piani di studio e dei conte- nuti didattici. L’accesso alle Fachhochschulen è diversificato: occorre o la Fachhochschul- reife (titolo di scuola secondaria superiore che però non permette di accedere ad uno studio universitario) o la Mittlere Reife (titolo che si consegue in uno dei canali del ciclo secondario della durata di 6 anni) insieme ad una Berufliche Vorbildung/Lehre o ancora a seguito del conseguimento del titolo Meisterprüfung (diploma di mastro). A seconda del corso di studio scelto a volte è richiesta anche la realizzazione di una esperienza di tirocinio. Con l’adeguamento del sistema alle raccomandazioni del 16 Istituto di ricerca intervento sui sistemi organizzativi, La formazione Tecnico-Professionale in Germania, 2000. 85 Processo di Bologna, i titoli sono stati trasformati: dal vecchio Diplom (FH) si è passati al titolo di Bachelor e di Master. Il Bachelor è il primo livello che si rag- giunge dopo 3-4 anni (6-8 semestri); il Master è il secondo ciclo della durata da uno a due anni. Il raggiungimento del titolo di Master permette di accedere al Dottorato universitario. Oggi c’è la tendenza a sostituire il nome di Fachhochschule con quello di Hochschule für angewandte Wissenschaften (University of Applied Sciences). Già nel 1974 è stato proposto un modello parallelo alle FH, costituito dalle Berufsakademie (BA), istituzioni formative terziarie non universitarie operanti nel segmento di livello terziario, anche se non comprese nella Hochschule (Università e Fachhochschule). Dal punto di vista storico la Berufsakademie nasce dall’idea di trasferire il si- stema duale nella formazione terziaria. Nel Baden-Württemberg dal 1974 al 1981 si assiste ad una prima sperimentazione in cui sono istituite varie BA. Al termine della sperimentazione del segmento di formazione terziaria non accademica, nel 1982, nel Land Baden-Württemberg entra in vigore il Gesetz über die Berufsaka- demie (la legge sulla Berufsakademie). Berufsakademien statali sono diffuse nei Länder Baden-Württemberg, Berlino, Sassonia e Turingia, mentre in forma privata, riconosciuta dallo Stato, si trovano nella Assia, nella Bassa Sassonia, nel Territorio della Saar e nel Schleswig-Holstein. Anche in altri Länder, come per esempio nella Renania Settentrionale-Vestfalia e nella Renania-Palatinato, esistono le Berufsakademien ma in tali Länder non appar- tengono al settore della formazione terziaria. Le Berufsakademie sono impostate secondo la logica del sistema duale e durano sei semestri. A differenza delle FH, potenziano l’aspetto pratico della for- mazione estendendo al 50% la quota di ore di apprendimento in azienda. All’inizio del percorso è necessario stipulare un contratto di lavoro con un’a- zienda dalla quale si percepisce uno stipendio mensile, mentre al contempo si è iscritti ad un corso di studio alla Berufsakademie. La stipula dei contratti deve avvenire prima ed è preliminare ai fini dell’ammissione alla Berufsakademie. Sono gli studenti stessi ad essere impegnati nella ricerca dell’azienda con cui stipulare il contratto triennale. L’offerta di corsi si concentra in tre settori: – assistenza sociale (lavoro con gli anziani, con i portatori di handicap, con i malati di mente e i tossicodipendenti, con i detenuti, con i bambini e i giovani, servizi sociali, servizi sociali nel settore medico, economia sociale, manage- ment sociale); – tecnica (economia edile, elettrotecnica, engineering e management tecnico, tecnica del legno, dell’informazione, manutenzione e management dei servizi, costruzioni, meccatronica – sistemi automatizzati, tecnica medica, metallurgia, tecnica di produzione, protezione ambientale, tecniche ambientali e dell’ap- provvigionamento, ingegneria economica – economia d’impresa tecnica); 86 – economia (economia automobilistica, bancaria, immobiliare, edile, turistica, d’impresa, dei media e della comunicazione, management e marketing dei ser- vizi, management di fiere e congressi, servizi finanziari, sanità e istituti sociali, commercio, artigianato, industria, amministrazione finanziaria, marketing in- ternazionale, logistica dei trasporti-spedizioni, economia pubblica, assicura- zioni, amministrazione e organizzazione, navigazione, informatica economica - management dell’informazione). Per quanto riguarda gli sviluppi nel Baden-Württemberg entro il 2009 il nome Berufsakademie dovrebbe essere sostituito con quello di Duale Hochschule (Isti- tuto superiore duale oppure istituto superiore con sistema duale). Un ulteriore canale di offerta post-secondaria è rappresentato dai percorsi erogati nelle Fachschulen, dal 1997 annoverate nel segmento terziario, a un livello interme- dio tra il diploma finale di apprendistato, la Lehre, e i titoli di tipo superiore.17 In genere, l’accesso alla Fachschule richiede il completamento di una beru- fliche Erstausbildung o Lehre e l’acquisizione di competenze professionali acquisite attraverso l’esperienza lavorativa. L’aggiornamento professionale attraverso la Fachschule ha l’obiettivo sia di abilitare le persone con una certa esperienza profes- sionale ad assumere posizioni direttive o compiti di maggiore responsabilità e dunque un avanzamento di carriera nelle imprese, amministrazioni o altri organismi, sia di favorire una maggiore indipendenza professionale. I corsi di studio sono o a tempo pieno della durata di due anni o a tempo par- ziale della durata tra i tre o quattro. Al termine del percorso si ottiene un diploma professionale con riconosci- mento statale. Secondo uno studio dell’IRSO la Fachschule, al suo interno si articola in: – Technikerschule – due anni a tempo pieno, e quattro anni a tempo parziale – che comprende curricoli come tecnica edile, biotecnica, tecnica chimica, tecniche di stampa, elettrotecnica, tecniche di colorazione e laccatura, tecnica di macelleria, tecniche galvaniche, tecnica del vetro, tecniche vetrarie, tecnica di riscaldamento/ventilazione-climatizzazione, tecniche del legno, tecniche della ceramica, tecniche delle materie sintetiche, tecniche di trasformazione alimentare, tecniche meccaniche, tecniche metallurgiche, tecniche cartarie, tecniche sanitarie, tecniche della pietra, tecniche tessili, tecniche ambientali. Conseguendo la certificazione finale si diventa Staatlich geprüfter Techniker (tecnico con esame di Stato) in un determinato indirizzo professionale. – Meisterschule (di tipo artigianale) per es. falegname, muratore, installatore elettrico, pittura di ambienti e laccatura, legatore, orafo e argentiere. La fre- 17 Dalle Fachschule è consentito l’accesso alla Fachhochschule (superiore non universitario) limitatamente all’indirizzo professionale specifico del candidato e al superamento di un esame inte- grativo. 87 quenza varia da sei mesi a due anni a tempo pieno. L’esame finale è il Meister- prüfung (esame di mastro) e si sostiene presso le Camere dell’artigianato, commercio o industria. – Kaufmännische Fachschule (per impiegati nel settore commerciale), per es. in economia aziendale, o elaborazione dei dati. I percorsi hanno una durata pari a due anni a tempo pieno, e termina con lo Staatliche Prüfung (esame di Stato) e il titolo di Betriebswirt staatlich geprüft (economo d’azienda con esame di Stato). – Hauswirtschaftliche und sozialpflegerische Fachschule (economia domestica e assistenza sociale), specializzata nei settori dell’assistenza geriatrica, assi- stenza familiare, economia domestica, rieducazione terapeutica. Dura uno-tre anni, con lo Staatliche Prüfung (esame di Stato). – Land-und forstwirtschaftliche Fachschule (scuole agrarie e forestali). – Fachschule speciali, come per es. quella alberghiera, della ristorazione, del- l’arte floreale, della lavorazione artistica del vetro, della lavorazione della por- cellana; si concludono con lo Staatliche Prüfung (esame di Stato). La specificità del sistema tedesco nel confronto con il quadro italiano In sintesi, in Germania l’insegnamento tecnico e la cultura professionalizzante godono di una tradizione consolidata che ha reso agevole l’istituzione anche a livello superiore di diversi percorsi formativi finalizzati alla preparazione di tecnici specializzati. In particolare le Fachhochschulen rappresentano il principale canale di forma- zione terziaria tecnico professionale del Paese, risultano ormai ben radicate nel sistema formativo dagli anni ’70 e possono essere considerate un esempio di mo- dello binario in quanto godono di un impianto completamente autonomo rispetto al sistema universitario. Pur nelle differenze dovute alla storia e al processo non ancora portato a com- pimento in Italia, le possibili affinità con le scelte compiute nel nostro Paese in re- lazione all’istituzione degli IFTS sono molteplici. In primo luogo si rintraccia l’obiettivo comune di rispondere ai fabbisogni del- l’economia regionale promuovendo l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro locale e la partecipazione anche di individui già inseriti nel mer- cato del lavoro e interessati a sviluppare e potenziare le proprie competenze profes- sionali. Una ulteriore convergenza si evidenzia nella figura professionale di riferi- mento. A prescindere dal settore, i corsi erogati nell’ambito degli IFTS e all’interno delle FH tendono alla formazione di figure di media e alta qualificazione, ricondu- cibili ai lavoratori della conoscenza e strettamene rispondenti alle esigenze delle realtà economiche locali. In entrambi i sistemi tale finalità è perseguita anche me- diante il decentramento delle competenze di governo che in Italia come in Ger- mania affida alle Amministrazioni Locali un ruolo preminente nella programma- zione. 88 Le similitudini emergono anche sul piano didattico e più in particolare sulla possibilità per le imprese di orientare il percorso didattico. Così come è avvenuto nella prima fase sperimentale della filiera – cioè prima dell’istituzione dei nuovi poli formativi – la partecipazione delle imprese, benché direttamente interessate si è esplicata per lo più mediante il contributo alla realizzazione dell’esperienza di stage. Poche invece le esperienze in cui le aziende hanno contribuito alla progetta- zione del percorso in aula e più nello specifico alla definizione dei curricula e alla scelta dei contenuti e dei livelli di contenuto. In questo senso, almeno in Italia, il consolidamento dei partenariati e l’auspicata stabilità del dialogo avviato sul terri- torio potrebbe essere facilitato dalla nuova formula assunta dagli enti erogatori, chiamati a costituirsi in reti più stabili all’interno dei Poli. Sia gli IFTS che i percorsi previsti nelle FH, pur essendo orientati al trasferi- mento delle competenze tendono a conservare l’impostazione tradizionale, con fre- quenza obbligatoria, verifiche e lezioni frontali. Così come è accaduto per gli IFTS anche i percorsi all’interno delle FH pos- sono costituire una occasione per la formazione degli occupati. Si tratta però per lo più di formazione a richiesta individuale piuttosto che l’erogazione di un servizio a beneficio di una o più imprese che richiedono l’attivazione o la partecipazione dei dipendenti al corso al fine di introiettare nuove competenze. Tra i punti di forza del sistema tedesco il tasso di inserimento coerente rappre- senta quello maggiormente appetibile per gli stessi utenti. Al contrario una forma- zione troppo specialistica e la difficoltà a ottenere il riconoscimento di crediti spen- dibili in altri segmenti del sistema di istruzione e formazione terziaria e la scarsa at- tenzione alle competenze di base e trasversali rappresenta un punto di attenzione per i livelli di governo. Il sistema tedesco presenta un affinato livello di differenziazione dei percorsi all’interno di un quadro istituzionale fortemente decentralizzato. A tal proposito sono stati analizzati i differenti percorsi previsti all’interno di un singolo Land – Baden-Württemberg – che presenta tutte le tipologie di offerta disaminate. GERMANIA (esempio del Land Baden-Württemberg): • Fachhochschule (FH) • Berufsakademie (BA) • Fachschule18 – Qualifica in entrata: Per accedere ad una Fachhochschule occorrono o la Fachhochschulreife (titolo di scuola secondaria superiore che però non permette di accedere allo studio ad una Fach- hochschule, ma non ad uno studio universitario), o la Mittlere Reife (titolo che si consegue in uno dei canali del ciclo secondario della durata di 6 anni) insieme ad una berufliche Vorbildung/Lehre terminata (tre anni di sistema duale; apprendistato triennale) o la Meisterprüfung (diploma di mastro). A seconda del corso di studio scelto a volte è richiesto un tirocinio pratico. Formazione terziaria non universitaria 1. Fachhochschule 18 La Fachschule secondo l’ISCED-97 fa parte del sistema terziario, mentre in Germania fa parte della formazione post-secondaria. 89 19 Nel Baden-Württemberg anche concorrenti senza la maturità che hanno conseguito una Lehre, a specifiche condizioni (dopo un’esperienza lavorativa pluriennale, un corso di specializzazione e il superamento di un esame di idoneità) possono accedere alla Berufsakademie. 20 Nel 1996, dopo anni di trattative, la Kultusministerkonferenz (KMK20) ha riconosciuto il diploma di una Berufsakademie come equipollente ad un diploma di una Fachhochschule. – Qualifica in uscita: Con il Processo di Bologna è avvenuto il passaggio a corsi di studio sulla base di crediti (ECTS), mentre i titoli accademici sono cambiati dal “vecchio” Diplom (FH) a quelli di Bachelor e di Master. – Temporalità del percorso: Il Bachelor è il primo livello che si raggiunge dopo 3-4 anni (6-8 semestri); il Master è il secondo ciclo della durata da 1 a 2 anni (2-4 semestri). Il raggiungimento del titolo di Master permette di accedere al Dottorato universitario. – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: Le Fachhochschulen offrono un tipo di alta formazione professionale su basi scientifiche caratterizzata da un forte orientamento alla pratica. Oggi nel Baden-Württemberg ci sono più di 30 Fachhochschulen, di cui alcune private, che offrono corsi di studio nei seguenti ambiti: - ingegneristica – in un’accezione molto ampia – con gli indirizzi di architettura, architettura di interni, ing. edile, meccanica, tecnica dei processi/ing. chimica, tecnica dell’approvvigiona- mento, dei media, della stampa, d’impresa, della trasformazione, tecniche fisiche, microtecnica, elettrotecnica, biotecnologia, tecnica dei trasporti e della mobilità/del rilevamento, agraria/scienze forestali/arch. giardini, tecnologia alimentare; - economia, soprattutto l’economia d’impresa - l’amministrazione; - scienze giuridiche; - assistenza sociale con il lavoro sociale; - pedagogia sociale; - sanità – ivi compresa pedagogia curativa, terapia musicale, artistica e tecniche dell’assistenza; - matematica; - informatica; - scienze della comunicazione e dell’informazione con archivistica, biblioteconomia, documenta- zione, traduzione, interpretariato, beni museali - scienze della nutrizione - arte, design e restauro. Il ciclo di Bachelor, attraverso la frequenza di lezioni, esercitazioni, tirocini e la realizzazione di vari lavori scritti, di un progetto pratico e della tesi finale, prevede il raggiungimento di almeno 180 crediti (numero che varia a seconda della durata). Inoltre, durante l’intero percorso sono richiesti uno o due semestri di tirocinio pratico in un’azienda (solitamente il 5° semestre). Spesso gli studenti trascorrono anche un semestre all’estero. Nel Baden-Württemberg come in molti altri Länder gli studenti che frequentano le Fachhochschulen devono corrispondere 500 Euro a semestre a titolo di tasse accademiche. – Qualifica in entrata: Per accedere ad una Berufsakademie è necessario il Abitur/ la Allgemeine Hochschulreife (Maturità generica) oppure fachgebundene (limitata a specifici corsi di studio (Matu- rità specifica); in altri Länder sono accettati anche diplomi alternativi, anche se solitamente la Fach- hochschulreife non è sufficiente. Inoltre è necessario stipulare un contratto di lavoro con un’azienda che per tutte le Berufsakademien del Baden-Württemberg è unificato e vincolante. Un contratto di lavoro implica uno stipendio mensile, anche se al contempo si è iscritti ad un corso di studi in una Berufsakademie. Sono gli studenti stessi ad impegnarsi a scegliere un’azienda con cui stipulare il contratto triennale, mentre sono le aziende che si occupano della selezione degli studenti. Nel con- tratto è anche previsto un determinato numero di giorni di ferie per ogni anno lavorativo.19 – Qualifica in uscita: Le qualificazioni in uscita possono essere diverse. Per gli iscritti prima del 2006 era il Diplom (BA) (Diploma statale), un titolo non accademico, mentre gli iscritti dopo il 2006 ottengono il titolo di Bachelor.20 Esistono tre tipi di Bachelor: - Bachelor of Engineering; - Bachelor of Science; - Bachelor of Arts. Nel Baden-Württemberg è anche possibile ottenere il Bachelor della Open University UK che è un grado accademico; per ottenere il Bachelor inglese all’inizio del terzo anno lo studente deve iscri- versi nella Open University UK. 2. Berufsakademie 3.4. Danimarca L’istruzione superiore, in Danimarca si articola in percorsi realizzati nell’am- bito del sistema dell’educazione superiore e in corsi di durata breve di istruzione superiore non accademica. 21 Nel BW nel 2005 sono circa il 67% di tutti i diplomati che continuano il rapporto di lavoro con l’azienda di formazione (fonte: www.ba-bw.de). 90 – Temporalità del percorso: La prima parte dello studio ha una durata di 2 anni e si conclude con un esame preliminare, per poi passare all’ultimo anno in cui a volte si può scegliere un orientamento specifico. – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: Oggi le otto diverse Berufsakademien offrono 40 diversi corsi di studio negli ambiti della: - tecnica; - economia; - assistenza sociale. La Berufsakademie in inglese denominata University of Cooperative Education, si caratterizza per un forte orientamento alla pratica, in quanto la metà della formazione va svolta in un’azienda, suddi- videndo ogni semestre in una fase trimestrale di teoria e in un’altra di pratica. Caratteristiche sono le classi di piccole dimensioni di circa 20-30 studenti. La frequenza è obbliga- toria e nei tre anni di formazione lo studente deve raggiungere 180 crediti (che corrispondono ad un massimo di 5400 ore) attraverso il superamento di diversi lavori scritti ed esami (i quali possono essere ripetuti solo una volta). Alla fine del percorso è richiesta una tesi scritta. Esistono anche corsi di studio con orientamento internazionale in cui la metà delle lezioni sono tenute in lingua inglese. Uno dei vantaggi più grandi dello studio in una Berufsakademie consiste nel fatto che in genere dopo i tre anni di formazione vi è una probabilità abbastanza alta di essere assunti dall’azienda.21 Essa stessa ha interesse a “tenere” gli studenti nella propria azienda per vari motivi: in parte ha finanziato la loro formazione; gli studenti conoscono già bene l’azienda e più rapidamente possono assumere posizioni di responsabilità; l’azienda invece non perde né tempo né denaro per inserire ed introdurre nuovo personale. Un altro vantaggio degli studenti delle BA rispetto ai laureati delle Università o delle Hochschulen è dato dalla esperienza pratica fatta durante gli anni di formazione. Dal 2007 nelle Berufsakademien sono state introdotte tasse accademiche semestrali. – L’aggiornamento professionale (berufliche Weiterbildung) attraverso la Fachschule ha l’obiettivo sia di abilitare le persone con una certa esperienza lavorativa ad assumere posizioni direttive o com- piti di maggiore responsabilità (per esempio nelle imprese, nelle amministrazioni o in istituti), sia di favorire una maggiore indipendenza professionale. – Qualifica in entrata: In genere l’accesso alla Fachschule richiede il completamento di una beru- fliche Erstausbildung o Lehre (apprendistato secondo il sistema duale) e un periodo di esperienza lavorativa, anche se i presupposti d’accesso variano a seconda dei settori. – Qualifica in uscita: Come qualificazione in uscita la Fachschule dà un diploma professionale con riconoscimento statale (staatlicher Berufsabschluss). Persone con questo tipo di diploma si collo- cano fra professionisti laureati (con titolo superiore) e quelle che hanno conseguito una Ausbil- dung/Lehre con Diploma di apprendistato (apprendistato triennale secondo il sistema duale). – Temporalità del percorso: I corsi di studio alle Fachschulen sono o a tempo pieno della durata di 2 anni (a volte anche solo di un anno) o a tempo parziale della durata fra 3 a 4 anni. Diplomati del percorso biennale ottengono anche la Fachhochschulreife. – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: Esistono Fachschulen nei seguenti ambiti: - scienze agrarie; - Gestaltung (creazione, arredamento, allestimento etc.); - tecnica; - economia; - assistenza sociale. 3. Fachschule 91 22 Il sistema accademico comprende 11 Università, (di cui 5 plurifacoltà, 6 specializzate in una determinata area disciplinare: ingegneria, educazione, veterinaria, agraria, farmacia ed economia) e istituti di ordine universitario specializzati in architettura, arte, musica, ecc. I programmi di studio sono basati sulla ricerca e offrono una formazione a medio termine, a lungo termine e post laurea. La struttura dei percorsi accademici prevede tre cicli: un primo livello (3 anni di studio); un secondo ciclo di 2 anni (ad eccezione di poche discipline – come medicina, veteri- naria e farmacia – che invece sono organizzate in un unico corso di studio di 5 o 6 anni); un terzo ciclo di ricerche e studi post laurea di durata triennale (che rilasciano il Ph.D). Alcune Università offrono corsi post laurea da 5 a 8 anni che rilasciano il titolo più elevato, il Doctoral Degree (quarto livello). Oltre ad offrire corsi, le Università ed i centri universitari conducono ricerche nelle discipline accademiche tradizionali. Di regola, un corso universitario è un programma della durata di tre anni che conferisce il titolo di bachelor, seguito da un biennio e dalla relativa laurea universitaria. Tre anni di studi post-lauream sotto la supervisione universitaria conferiscono il titolo di Ph.D. L’attività di ricerca che permette di conseguire il titolo di dottore ha una durata variabile fra i 5 e gli 8 anni. Il requisito di ammissione per intraprendere un programma Ph.D. in Danimarca è un “Master” danese o l’equipollente a livello accademico. Anche se il danese è la lingua ufficiale presso le Università, il nu- mero di programmi Ph.D. condotti in lingua inglese è in notevole aumento; è infatti possibile per uno studente straniero che parli l’inglese conseguire un Ph.D. nella maggior parte delle Università del Paese senza conoscere il danese. Il programma di studi di un Ph.D. è pianificato principalmente dalla facoltà o dal dipartimento dell’Università ospitante: tutte le domande in merito all’ammissione o alle modalità di partecipazione di studenti stranieri devono essere indirizzate alla facoltà o al dipartimento interessati. Uno studente straniero, preventivamente alla domanda di ammissione ad un programma di studi Ph.D., deve stringere contatti con la facoltà cui è interessato ed accordarsi con un ricercatore universitario che accetti di presiedere alla supervisione del Ph.D. Il sistema di educazione superiore è amministrato centralmente dal Ministero della Pubblica Istruzione e, in particolare, dal dipartimento di Educazione Supe- riore. Il sistema di educazione superiore offre una grande varietà di scelta: più di 150 istituti offrono un’ampia varietà di programmi, ognuno dei quali ha una diversa durata. La molteplicità di istituti e programmi rappresenta oggi una peculiarità del si- stema danese. L’ampiezza dell’offerta del sistema è andata progressivamente cre- scendo soprattutto nell’ultimo decennio in concomitanza con la rilevata crescente domanda di formazione superiore da parte degli utenti. L’offerta nell’area della alta formazione è erogata nell’ambito di tre tipologie di istituti: – le Università,22 – i College, – ed altri istituti di istruzione superiore. Con il compito di garantire una coesione interna rispetto alle scelte strategiche in materia di politiche educative che interessano l’istruzione superiore, sono state istituite cinque Commissioni settoriali con il compito di fornire consulenza e assi- stenza tecnica al Ministero: la Commissione Nazionale di consulenza per le scienze umanistiche, quella per l’educazione sanitaria, quella per le scienze naturali, quella per la consulenza tecnologica e quella per la consulenza per le scienze sociali. Ogni commissione è formata da dieci membri nominati dal Ministro. 92 Tale soluzione è particolarmente interessante ai fini di una comparazione con il sistema italiano. Si tenga infatti presente che a supporto del Comitato Nazionale – organo di governo nazionale del sistema IFTS – sono stati istituiti a livello centrale diversi sottogruppi di settore al cui interno sono rappresentati Ministeri, Regioni, Parti so- ciali datoriali e sindacali ed esperti di settore, al fine di definire le figure profes- sionali per i corsi IFTS in relazione ai diversi settori (ICT, servizi assicurativi fi- nanziari, edilizia, ambiente e territorio, agricoltura, trasporti, turismo, nautica) declinandone le competenze, le attività professionali e i possibili percorsi di car- riera a partire dalle regolamentazioni e dalla contrattualistica vigenti. Il sistema di educazione superiore è finanziato dallo Stato danese, anche se gli istituti possono in parte autosovvenzionarsi offrendo corsi privati e consulenze di “know-how”. Gli altri istituti di educazione superiore, a livello universitario, conducono ricerche ed offrono corsi in aree quali ingegneria, scienze veterinarie, farmacologia, architettura, musica, arte e varie materie relative all’economia ed al commercio. In Danimarca i corsi di tipo corto dell’istruzione superiore non universitaria, spesso derivati da corsi professionali di livello secondario, sono stati ampliati e regolamentati durante gli anni ’90 e successivamente riformati nel 1997 per miglio- rarne la qualità. Gli Istituti di istruzione superiore non universitaria, chiamati comunemente College, sono più di 150 ed offrono cicli di studio a breve (2 anni) e/o a medio (3/4 anni) termine. L’istruzione a ciclo breve comprende numerosi indirizzi professionali in settori quali: commercio, turismo, agricoltura, filiera alimentare, costruzioni, abbiglia- mento, tecnologia dell’informazione, elettronica e tecnologia meccanica. L’istru- zione di ciclo medio, prevede programmi completi che immettono direttamente nel mercato del lavoro e prevedono indirizzi in settori quali l’economia, l’ingegneria, le lingue, l’insegnamento, l’assistenza sociale e tutte le professioni sanitarie (es. fisioterapista, infermiere, ecc.). Alcuni corsi di formazione non accademici sono di pertinenza del Diparti- mento di Formazione Professionale; nel caso delle arti, l’architettura e l’ingegneria marina, la competenza è di altri Ministeri. La maggior parte di questi programmi prevede generalmente periodi di pra- ticantato e consente di proseguire gli studi per conseguire il Candidatus o Master. Rientrano in questi Istituti le scuole che si occupano della formazione pedagogica che preparano gli insegnanti della scuola dell’obbligo e dispongono di un proprio istituto di ricerca denominato Università Danese dell’Educazione (Danmarks Pæ dagogiske Universitet). Ogni istituto ha la facoltà di stabilire la quantità di posti disponibili per una disciplina. Il Ministero della Pubblica Istruzione regola infatti solo l’ammissione per i corsi di Medicina e per i corsi di insegnanti e di educatori. Nel caso in cui 93 pervenga un numero di domande superiore al numero dei posti disponibili, si rende necessaria una preselezione che suddivide le richieste in due gruppi: nel primo gruppo sono inserite solo le domande di studenti danesi che abbiano ottenuto al- l’esame di maturità un voto superiore ad un certo punteggio (in genere il punteggio varia a seconda delle varie facoltà); nel secondo gruppo (il quote) concorrono invece tutte le domande scartate dal primo, purché rispondano ai criteri di ammis- sione e di equipollenza. Rientrano nel secondo gruppo inoltre le domande presen- tate sulla base di esami di qualifica stranieri. Alcuni istituti adottano un metodo di ammissione basato su un test attitudinale specifico; tra questi ricordiamo l’Accademia Reale delle Belle Arti, il Conserva- torio di Musica e la Scuola di Giornalismo Danese. La molteplicità delle scelte è aumentata con l’affermarsi dei sistemi d’educa- zione non accademici nel campo di specializzazione successiva nei rami professio- nali tecnico e commerciale. Alcuni corsi di formazione non accademici sono di pertinenza del Diparti- mento di Formazione Professionale; nel caso delle arti, l’architettura e l’ingegneria marina, la competenza è di altri Ministeri. DANIMARCA • College – Istituti superiori non universitari – Qualifica in entrata: diploma del ciclo secondario di educazione e formazione pro- fessionale oppure diploma di scuola secondaria superiore. – Qualifica in uscita: certificato spendibile nel mercato del lavoro riconosciuto dalle imprese; in aggiunta si ricevono dei crediti per poter proseguire gli studi nel ciclo medio e nel sistema universitario (diploma). – Temporalità del percorso: I cicli di studio a breve termine hanno una durata di 2 anni. – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: Il programma è articolato fra teoria e pratica con un project work finale. Il ciclo breve comprende numerosi in- dirizzi professionali in settori quali: commercio, turismo, agricoltura, filiera alimen- tare, costruzioni, abbigliamento, tecnologia dell’informazione, elettronica e tecno- logia meccanica. – Qualifica in entrata: diploma di scuola secondaria superiore. – Qualifica in uscita: diploma che corrisponde al Bachelor universitario; dopo aver conseguito il ciclo medio si possono proseguire gli studi per conseguire il Bachelor o il Master/Candidatus nel sistema universitario. – Temporalità del percorso: I cicli di studio a medio termine hanno una durata di al- meno 3 anni in relazione all’ambito tematico. – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: La maggior parte di questi programmi prevede generalmente periodi di praticantato, in quanto preparano gli stu- denti ad una specifica professione in diversi ambiti, come per esempio nel lavoro so- ciale, nel giornalismo, nell’infermieristica o nell’ingegneria. – Rientrano in questi istituti le scuole che si occupano della formazione pedagogica che preparano gli insegnanti della scuola dell’obbligo e dispongono di un proprio isti- tuto di ricerca denominato Università danese dell’Educazione (Danmarks Pæ dago- giske Universitet). Formazione terziaria non universitaria 1. College 1.1. ciclo breve HE programmes 1.2. ciclo medio HE programmes 23 Il settore universitario comprende 12 Università e 6 scuole d’arte e di musica. Le Università di tipo tradizionale sono cinque, le Università tecniche sono due e cinque sono le Università specia- lizzate (geologia e scienze minerarie, agraria, economia e scienze dell’informazione, pedagogia). Il settore universitario è fortemente centralizzato e l’organizzazione delle Università e degli studi è uniforme. Esistono quattro tipi di corsi di studio: alcuni corsi brevi (Kurzstudium) che conducono al conseguimento di un titolo professionale non accademico: i corsi di diploma (Diplomstudium); i corsi di dottorato (Doktortsstudium) e due corsi tecnici avanzati (Aufbaustudium). I corsi più importanti sono quelli di diploma e quelli di dottorato. I primi portano al consegui- mento del titolo di Magister o di Diplom.-Ingenieur. 94 3.5. Austria Prima dei cambiamenti degli anni ’90, il sistema di istruzione superiore au- striaco è stato largamente dominato dal settore universitario al di fuori del quale esistevano alcune istituzioni di istruzione post-secondaria che godevano di minor prestigio: scuole per la formazione degli insegnanti, scuole commerciali e scuole per la formazione del personale paramedico. Negli anni ‘90 il sistema di istruzione superiore austriaco è stato sottoposto ad un intenso processo di revisione. Nel 1993 vengono varate: – la legge che riorganizza le Università attribuendo loro maggiore potere deci- sionale e maggiore autonomia allo scopo di accrescerne l’efficienza – e la legge sulle Fachochschulen che dota il sistema di un settore di istruzione professionale. Nel 1994 viene istituita una nuova istituzione pubblica dedicata all’istruzione permanente, l’Università del Danubio a Krems. Nel 1997, viene approvata la legge di riforma degli studi universitari e nel 1998 quella relativa alla trasformazione delle scuole d’arte e di musica in Università (Bundesgesetz über die Organisation der Universitäten der Künste). Negli anni successivi, una serie di modifiche alle leggi di riforma universitaria e di istituzione dell’istruzione professionale superiore introducono nelle Università la struttura tripartita dei titoli di studio prevista dal processo europeo di armonizzazione dell’istruzione superiore e il sistema europeo di accreditamento degli studi. A partire dai primi anni ’90, l’Austria si è dunque dotata di una rete di istituti di formazione tecnico-professionale improntata sul modello delle FH tedesche nel- l’ambito di un più generale processo di riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione superiore. Il Governo, mediante l’istituzione delle FH intendeva arricchire e completare il quadro dell’offerta formativa di livello terziario che fino ad allora era per lo più rappresentato quasi esclusivamente dall’offerta universitaria. L’istituzione delle FH austriache inoltre si poneva anche l’obiettivo di rispon- dere ai fabbisogni esplicitati dall’industria e in particolare alla richiesta pressante di tecnici intermedi in possesso di competenze professionali di medio e alto livello. Il sistema terziario dunque si articola in: 1) percorsi accademici23 e 95 2) percorsi del sistema terziario non accademico erogati presso: - la Fachhochschule (FH), - la Akademie, - il Kolleg. Fachhochschule – Introdotte, come detto, nel 1993 (Fachhochschulstudienge- setz, FHStG),24 offrono un tipo di alta formazione professionale a forte orienta- mento scientifico e tecnologico e un largo uso della pratica. I corsi di studio delle FH nell’anno accademico 2006/2007 erano 195.25 Per accedere alla Fachhochschule occorre la Matura o Reifeprüfung (Maturità) o la Berufsreifeprüfung26 (Certificato di istruzione superiore dopo la formazione professionale iniziale). Inoltre c’è da superare un esame di ammissione. I livelli di qualificazione in uscita sono gradi accademici. In linea con il Pro- cesso di Bologna, attraverso la Novelle per il FHStG (2002), sono stati introdotti i corsi di Bakkalaureus (Bachelor) e di Magister (Master). Il primo livello, il corso di Bakkalaureus, ha la durata di tre anni (6 semestri), mentre il secondo livello si conclude con il Magister e dura da uno a due anni (2-4 semestri). Inoltre vi è la possibilità di frequentare un corso di Diplom (diploma) che dura da quattro a cinque anni (8-10 semestri). Il titolo di Magister o di Diploma permette di frequentare un corso di dottorato all’Università. Akademie – si tratta di istituti non universitari per la formazione post-secon- daria. Ci sono tre grandi settori: – Formazione degli insegnanti:27 accademia pedagogica, accademia per la for- mazione di insegnanti di religione – Sanità: fisioterapia, ergoterapia, logopedia, tecnica radiologica, dietologia e consulenza alimentare, tecnica di laboratorio analisi, ostetricia, ecc. – Assistenza sociale.28 Esistono 11 diplomi di questo tipo stabiliti per legge corrispondenti ad altrettante aree disciplinari. I corsi di dottorato sono considerati corsi di secondo livello e vi si accede dopo aver conseguito un titolo conferito da un Diplomstudium (ad eccezione del corso in medicina che è costituito da un unico lungo ciclo). Nelle Università, vengono offerti anche corsi orientati alla formazione professionale al termine dei quali vengono rilasciati certificati che non sono però considerati diplomi di istruzione superiore. I corsi offerti nel settore non universitario possono essere molto brevi – anche solo di un mese – ma in media durano tra i 2 e i 4 semestri. 24 Fonte: www.bildungssystem.at 25 Fonte: www.bildungssystem.at 26 Berufsreifeprüfung: offre a lavoratori qualificati un’ulteriore possibilità di accedere all’istru- zione superiore (Università ed istituti superiori di formazione scientifica come le Fachhochschulen). 27 Dall’anno accademico 2007/08 la formazione degli insegnanti avviene in Pädagogischen Hochschulen. 28 Ultimamente le academie per l’assistenza sociale vengono trasformate in corsi di studio delle Fachhochschulen (fonte: Bundesministerium für Bildung, Wissenschaft und Kultur, www.bmbwk.at). Dall’anno accademico 2006/07 corsi per la formazione per i servizi medico-tecnici e per l’ostetricia possono essere eseguiti anche alla Fachhochschule (Bachelor). 96 I livelli di qualificazione per accedere ad una Akademie sono la Matura o Reifeprüfung (Maturità), la Berufsreifeprüfung29 (Certificato di istruzione superiore dopo la formazione professionale iniziale) o la Studienberechtigungsprüfung30 (Autorizzazione per lo studio universitario). Solitamente ci sono restrizioni all’am- missione. Al termine dei corsi si ottiene il Diplom31 (diploma), un titolo che non è un grado accademico ma che implica l’autorizzazione all’esercizio della professione e una determinata denominazione professionale. Per quanto riguarda i tempi del percorso ci sono sia corsi a tempo pieno della durata di tre anni (6 semestri), sia corsi serali della durata di tre o quattro anni (6-8 semestri). I Kolleg offrono corsi di tipo post-secondario in molteplici ambiti disciplinari. Per accedere ad un Kolleg bisogna avere almeno 18 anni di età e possedere una delle seguenti qualifiche: – Matura o Reifeprüfung (maturità); – Berufsreifeprüfung (Certificato di istruzione superiore dopo la formazione pro- fessionale iniziale o Maturità professionale); – Studienberechtigungsprüfung (Esame di autorizzazione per lo studio); – per alcuni Kolleg: istituto tecnico/professionale quadriennale; – per i Kolleg in ambito socio-pedagogico, artistico e linguistico: test di idoneità. La durata del percorso con due anni (4 semestri) a tempo pieno è breve. Coloro che sono già inseriti nel mondo del lavoro, parallelamente all’attività lavorativa possono seguire corsi serali della durata di tre anni (6 semestri). Per entrambi i tipi c’è l’obbligo di frequenza. Il Kolleg come qualifica in uscita dà un grado non accademico chiamato Diplom (Diploma); dopo il conseguimento del diploma ed un’esperienza lavorativa di almeno tre anni c’è la possibilità di ottenere il titolo o la denominazione di cate- goria professionale (Standesbezeichnung) di Ingegnere. Le affinità con le scelte italiane Così come avvenuto in Italia al momento dell’istituzione degli IFTS e, prima, dei Diplomi Universitari, il Governo austriaco, con la creazione del nuovo canale, intendeva anche contrastare i fenomeni di abbandono universitario proponendo percorsi maggiormente orientati al mercato del lavoro con caratteristiche (di durata e curricolari) decisamente differenti dalla proposta accademica. 29 La Berufsreifeprüfung è un esame che permette a coloro che hanno eseguito una Lehre (ap- prendistato) la possibilità di accedere ad uno studio universitario (fonte: Bildungsentwicklung in Österreich 2000-2003, 49, www.bmbwk.at). 30 La Studienberechtigungsprüfung è un esame che autorizza allo studio universitario limitato ad una materia specifica (fonte: Bildungsentwicklung in Österreich 2000-2003, 49, www.bmbwk.at). 31 es. Diplomsozialarbeiter/in (fonte: www.bmbwk.at). 97 Inoltre, l’attenzione posta per i percorsi IFTS sulla scelta di inserire standard in uscita per le competenze di base e trasversali – indipendentemente dalla figura professionale e dal settore di riferimento – suggerisce un rimando diretto all’espe- rienza austriaca che prevede il trasferimento di una ampia gamma di tali compe- tenze per potenziare l’occupabilità stessa degli individui in formazione. Per quel che riguarda i processi di integrazione, l’ancoraggio al mondo del la- voro, nelle FH austriache, è garantito dagli organi di governo presenti all’interno delle stesse istituzioni. Ciascuna, infatti, presenta un Consiglio all’interno del quale sono presenti, in modo paritetico, docenti universitari e professionisti provenienti dal versante del mercato del lavoro. Il Consiglio in particolare ha il compito di va- lutare il progetto e approvare i curricula e i contenuti dei corsi di studio. AUSTRIA • Fachhochschule (FH), • Akademie, • Kolleg. – La Fachhochschule (FH) offre un tipo di alta formazione professionale su basi scientifiche carat- terizzata da un forte orientamento alla pratica. – Qualifica in entrata: per accedere alla Fachhochschule occorre la Matura o Reifeprüfung (Matu- rità) o la Berufsreifeprüfung32 (Certificato di istruzione superiore dopo la formazione professionale iniziale). Inoltre c’è da superare un esame di ammissione. – Qualifica in uscita: i livelli di qualificazione in uscita sono gradi accademici. In linea con il Pro- cesso di Bologna, attraverso la Novelle per il FHStG (2002), sono stati introdotti i corsi di Bakkalau- reus (Bachelor) e di Magister (Master). Inoltre vi è la possibilità di frequentare un corso di Diplom (diploma). Il titolo di Magister o di Diploma permette di frequentare un corso di dottorato all’Uni- versità. – Temporalità del percorso: il primo livello, il corso di Bakkalaureus, ha la durata di tre anni (6 se- mestri), mentre il secondo livello si conclude con il Magister e dura tra da uno a due anni (2-4 seme- stri). Il Diplom (diploma) dura da quattro a cinque anni (8-10 semestri). – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: I corsi di studio delle FH nell’anno acca- demico 2006/2007 erano 195 nei seguenti settori: - Economia: economia internazionale, economia d’impresa, management della salute, manage- ment dei media, economia immobiliare; - Turismo: management del turismo, economia del tempo libero; - Tecnica: edilizia e legno, elettronica, industrial design, tecnologie dell’informazione, multi- media, tecnica della produzione, tecnica ambientale, tecnica ferroviaria, aviazione; - Scienze sociali: sanità, assistenza sociale. Caratteristico della Fachhochschule è l’obbligo di frequenza con piani di studi ed esami prestabiliti. Gli studenti devono conseseguire 30 ECTS per ogni semestre e 60 ECTS all’anno. Normalmente il penultimo semestre consiste in un tirocinio pratico. Dal Novembre 2000 sono state introdotte tasse accademiche semestrali (363,36 €). Riguardo all’organizzazione del percorso di studio ci sono tre forme organizzative: a tempo pieno, parallelamente all’attività lavorativa e per un’utenza specifica. Le ultime due forme offrono la possi- bilità di studiare anche a persone che sono già inserite nel mondo del lavoro. Formazione terziaria non universitaria 1. Fachhochschule 32 Berufsreifeprüfung: offre a lavoratori qualificati un’ulteriore possibilità di accedere all’istru- zione superiore (Università ed istituti superiori di formazione scientifica, come p.e. le Fachhoch- schulen); è un esame che permette a coloro che hanno conseseguito una Lehre (apprendistato) la pos- sibilità di accedere ad uno studio universitario. 33 La Studienberechtigungsprüfung è un esame che autorizza allo studio universitario limitato ad una materia specifica. 34 es. Diplomsozialarbeiter/in (fonte: www.bmbwk.at). 35 Dall’anno accademico 2007/08 la formazione degli insegnanti avviene alla Pädagogische Hochschule. 36 Ultimamente le accademie per l’assistenza sociale vengono trasformate in corsi di studio delle Fachhochschulen. Dall’anno accademico 2006/07 corsi per la formazione per i servizi medico-tecnici e per l’ostetricia possono essere seguiti anche nella Fachhochschule (Bachelor). 98 – Akademien (Accademie) sono istituti non universitari per la formazione post-secondaria. – Qualifica in entrata: la qualificazione per accedere ad una Akademie sono la Matura o Reifeprü- fung (Maturità), la Berufsreifeprüfung (Certificato di istruzione superiore dopo la formazione profes- sionale iniziale) o la Studienberechtigungsprüfung33 (Autorizzazione per lo studio universitario). Solitamente ci sono restrizioni all’ammissione. – Qualifica in uscita: al termine dei corsi si ottiene il Diplom34 (Diploma), un titolo che non è un grado accademico ma che implica l’autorizzazione all’esercizio della professione e una determinata denominazione professionale. – Temporalità del percorso: per quanto riguarda i tempi del percorso ci sono sia corsi a tempo pieno della durata di tre anni (6 semestri), sia corsi serali della durata di tre o quattro anni (6-8 semestri). – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: Ci sono tre grandi settori: - Formazione degli insegnanti35: accademia pedagogica, accademia per la formazione di inse- gnanti di religione; - Sanità: fisioterapia, ergoterapia, logopedia, tecnica radiologica, dietologia e consulenza alimen- tare, tecnica di laboratorio analisi, ostetricia, ecc.; - Assistenza sociale36. Nelle Akademien pubbliche o statali la frequenza è gratuita. – I Kolleg sono forme speciali delle berufsbildende höhere Schule (istituti superiori di formazione professionale) per diplomati di altre scuole superiori (di tipo non professionale). – Qualifica in entrata: per accedere ad un Kolleg bisogna avere almeno 18 anni di età e possedere una delle seguenti qualifiche: - Matura o Reifeprüfung (Maturità); - Berufsreifeprüfung (certificato di istruzione superiore dopo la formazione professionale iniziale che permette lo studio universitario); - Studienberechtigungsprüfung (esame di autorizzazione per lo studio universitario riguardante alcuni indirizzi); - per alcuni Kolleg: istituto tecnico/professionale quadriennale; - per i Kolleg in ambito socio-pedagogico, artistico e linguistico: test di idoneità. – Qualifica in uscita: il Kolleg come qualifica in uscita dà un grado non accademico chiamato Diplom (Diploma); dopo il conseguimento del diploma ed un’esperienza lavorativa di almeno tre anni c’è la possibilità di ottenere il titolo o la denominazione di categoria professionale (Standesbe- zeichnung) di Ingegnere. – Temporalità del percorso: la durata del percorso con due anni (4 semestri) a tempo pieno è breve. Coloro che sono già inseriti nel mondo del lavoro, parallelamente all’attività lavorativa possono seguire corsi serali della durata di tre anni (6 semestri). – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: I Kolleg offrono corsi di tipo post- secondario in diversi ambiti: energia, tecnica edilizia, chimica, disegno, tecnica di stampa e dei media, elettronica, elaborazione elettronica dei dati e organizzazione, tecnica elettronica, facility management, fotografia e media visuali, arredamento interno e tecnica del legno, pedagogia dell’in- fanzia, tecnica delle materie sintetiche, commercio, professioni economiche, ingegneria meccanica, costruzione dei mobili e ampliamento degli spazi interni, moda e tecnica d’abbigliamento, multimedia, optometria, pedagogia sociale, turismo ed economia del tempo libero, ingegneria gestionale, ecc. La frequenza è obbligatoria. 2. Akademie 3. Fachschule 99 3.6. Paesi Bassi L’attuale configurazione del sistema di istruzione superiore è il frutto di un processo di riforma che si è attuato lungo gli ultimi venti anni ed ha avuto sostan- zialmente inizio negli anni ‘80. Nel 1985 sono state approvate due importanti leggi: – la legge sull’istruzione universitaria finalizzata a migliorare l’efficienza del- l’amministrazione universitaria – e la legge sull’istruzione superiore professionale che trasferisce l’istruzione superiore professionale dal settore dell’istruzione secondaria al settore del- l’istruzione superiore. In questo modo il sistema di istruzione superiore dei Paesi Bassi diventa un si- stema unitario ma basato su un doppio binario formato da due distinti canali: uno universitario e uno non universitario. Il processo di riforma si conclude nel 1993 quando entra in vigore una nuova legge sull’istruzione superiore e sulla ricerca scientifica che sostituisce le leggi e i re- golamenti precedenti e crea un’unica struttura legale per l’istruzione superiore profes- sionale, per quella universitaria e per quella a distanza (Wet op het hoger onderwijs en wetwnschappelijk onderzoek - WHW). Essa conferma inoltre i piani per l’istru- zione superiore e la ricerca introdotti nel 1987 come strumento di governo del si- stema. Nel 2002, nel quadro del Processo di Bologna, il Parlamento modifica la legge sull’istruzione superiore rendendo possibile il conferimento dei titoli di Bachelor e di Master e ne approva una sull’accreditamento degli studi basato sul sistema di crediti ECTS. In realtà molte Università e scuole superiori professionali avevano già intro- dotto l’organizzazione degli studi basata sul sistema Bachelor/Master tanto che l’applicazione delle raccomandazioni europee non sembrava porsi in contrasto con le pratiche già in atto nel Paese. Il sistema di istruzione superiore olandese comprende dunque l’istruzione uni- versitaria (WO Wetenschappelijk Onderwijs) e l’istruzione superiore professionale (HBO Hoger Beroepsonderwijs) che viene impartita nelle Hogescholen. Per quanto riguarda la formazione universitaria, esistono in Olanda 13 Univer- sità di cui 9 specializzate nelle scienze sociali, scienze naturali e in materie umani- stiche (Leiden, Groningen, Limburg, Rotterdam, Amsterdam, Utrecht, Nijmegen, Tilburg, Maastricht), 3 ad orientamento tecnico (TU Delft, TU Eindhoven e Uni- versiteit Twente) e una specializzata in materie relative all’agricoltura (Universiteit Wageningen). Il settore non universitario dell’istruzione superiore professionale ha dimen- sioni maggiori di quello universitario. Nella prima metà degli anni ‘90 infatti circa il 60% degli studenti frequentava corsi offerti dagli istituti di formazione professio- nale superiore. 100 Il settore comprende le istituzioni per la maggior parte coincidenti con le Hogescholen, nate dalla fusione o dall’accorpamento di più di 350 istituti di istruzione professionale esistenti prima della riforma. Si tratta di 54 istituti HBO finanziati dal Ministero dell’educazione, cultura e scienza, e 63 accreditati presso lo stesso Ministero che però non ricevono finanziamenti statali. Essi devono presentare un numero minimo di studenti pari a 700 unità, ma la dimensione media è in crescita, anche per attirare – attraverso una offerta più articolata – più studenti. Gli istituti di HBO forniscono una preparazione teorica e pratica orientata all’inserimento occupazionale in una molteplicità di settori chiave dell’economia olandese e per la pubblica amministrazione. La partecipazione ai corsi è gratuita per gli utenti ma rispetto al meccanismo di finanziamento dei corsi dal 2006 è stata introdotta in via sperimentale una nuova modalità di finanziamento “basata sulla domanda”, attraverso un sistema di greater account (voucher) che lascia allo studente la scelta di come e dove completare i propri studi. L’offerta formativa degli istituti di HBO è strettamente collegata ai fabbisogni territoriali e alla domanda delle imprese, che viene monitorata costantemente. Gli istituti possono fornire anche servizi di supporto e trasferimento tecnologico a beneficio delle imprese locali. Nella maggior parte dei corsi di istruzione superiore, lo sviluppo di competenze professionalizzanti e l’applicazione on the job è una parte importante della preparazione per il mercato di lavoro. Di conseguenza gli istituti hanno numerosi contatti con le imprese ed organizzazione nel loro ambito professionale. Nel settore di HBO il rapporto fra il mercato di lavoro ed i corsi è particolar- mente chiaro. Recentemente anche le Università si stanno ponendo sempre più spesso la questione di avviare un dialogo sistematico con il mercato del lavoro ma complessivamente è possibile identificare politiche e azioni differenti che caratte- rizzano la filiera universitaria e la filiera delle Hogescholen. Nelle Hogescholen i bisogni del mercato di lavoro assumono particolare rilievo in quanto determinano la stessa esistenza o meno di uno o più interventi formativi. Per tale motivo le Hogescholen hanno consolidato rapporti molto stretti con i referenti del mercato del lavoro (associazioni di commercio, organizzazioni senza scopo di lucro, ecc.) e alcune di queste sono proprio emanazione o sono state fondate dalle stesse or- ganizzazioni datoriali. I corsi realizzati nelle Hogescholen prevedono una parte di stage pari ad almeno un quarto del monte ore complessivo. Ovviamente tale collaborazione ha implicazioni stringenti sia sui contenuti, sia sulla valutazione della qualità dei programmi. L’interesse nella programmazione e realizzazione dei corsi appare pariteticamente ripartito tra l’ente gestore e l’impresa o il gruppo di imprese afferenti al settore di riferimento. Per formalizzare e regolare il rapporto vigente, a tale proposito è stato siglato anche un protocollo d’intesa (dicembre del 2005). 101 A seguito della legge del 2002, al termine degli studi viene conferito il titolo di baccalaureus per tutti i corsi ad eccezione di quelli in ingegneria e agraria che mantengono in uscita il titolo tradizionale di ingenieur. In alternativa al titolo di baccalaureus è possibile conferire il titolo di Bachelor. Alcune istituzioni HBO offrono corsi professionali avanzati anche in collaborazione con Università che di solito rilasciano un certificato e non un diploma. Tuttavia, anche in questo canale è possibile conseguire il titolo di Master. Diagram of the Dutch Education System 102 Relativamente alle relazioni con il canale universitario, il fatto che il titolo di diploma di HBO sia equipollente al titolo universitario di primo grado e che il di- plomato HBO possa iscriversi al secondo ciclo universitario è una dimostrazione concreta della pari dignità dei due canali e della loro integrazione. Gli HBO erogano una formazione della durata di quattro anni, caratterizzata dall’alternanza tra insegnamento teorico e pratico con un ampio ricorso agli stage (della durata complessiva di un numero di mesi compreso tra 6 e 10) e che in alcuni casi possono essere svolti anche in più di una realtà aziendale. Dal 1981 sia il settore universitario sia quello non universitario offrono nume- rosi corsi di studio avanzati. Nel settore universitario questi corsi sono chiamati post-doctoral e sono dedicati alla preparazione professionale avanzata per medici, insegnanti e, in altre discipline, propongono programmi di ricerca avanzati. Chi si prepara a un dottorato non frequenta tali corsi ma è assunto dalle Università come assistente e ha 4 anni per scrivere la propria tesi. Nel settore non universitario i corsi avanzati sono denominati post HBO, hanno una durata variabile e offrono una formazione professionale avanzata in molti campi. Dal 1984 fa parte del sistema di istruzione superiore dei Paesi Bassi anche una Open Universiteit che offre corsi di studio a distanza di primo e di secondo livello sia nel settore HBO, sia nel settore universitario. PAESI BASSI • Istruzione superiore professionale (HBO) – Qualifica in entrata: Per essere ammessi agli HBO bisogna avere almeno 17 anni e un diploma di formazione professionale. Dal 2005 è in corso una sperimentazione che permette l’accesso anche a coloro che sono privi del titolo di studio ma a cui ven- gono riconosciute competenze acquisite in altri contesti (formali o non formali) con particolare attenzione alle esperienze professionali. Al settore HBO si accede prove- nendo dalla scuola secondaria che prepara a questo tipo di studi, hoger algemeen voortgezet onderwijs (HAVO). Le domande di iscrizione ai corsi HBO sono presentate ai singoli istituti. Rispetto ai criteri di accesso, in particolare, i singoli HBO possono definire in autonomia requi- siti aggiuntivi (ad esempio un’esperienza professionale coerente con l’indirizzo di studi prescelto). Gli istituti, inoltre, sono autonomi rispetto alla programmazione dei corsi e degli esami per i quali – a livello di governo centrale – sono definiti solo al- cuni criteri e parametri generali. – Qualifica in uscita: A seguito della legge del 2002, al termine degli studi viene conferito il titolo di baccalaureus per tutti i corsi a eccezione di quelli in ingegneria e agraria che mantengono quello tradizionale di ingenieur. In alternativa al titolo di baccalaureus è possibile conferire il titolo di Bachelor. Alcune istituzioni HBO offrono corsi professionali avanzati anche in collaborazione con Università che di solito rilasciano un certificato e non un diploma. Tuttavia, anche in questo canale è possibile conseguire il titolo di Master. – Temporalità del percorso: Le Hogescholen offrono corsi di studio a tempo pieno o tempo parziale in ingegneria, economia aziendale, agraria, arte e corsi di formazione per gli insegnanti e per il personale paramedico e dei servizi sociali. I corsi hanno una durata di 4 anni (5 per i corsi di arte). Formazione terziaria non universitaria 1. Istruzione superiore professionale -HBO 103 3.7. Regno Unito Numerosi fattori rendono il sistema d’istruzione superiore del Regno Unito più complesso di quello di altri Paesi. Le legislazioni di Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord rendono differenti alcuni tratti caratteristici dei rispettivi sistemi di istruzione riguardo all’accesso, alla durata dei corsi, al tipo di titoli conferiti. A dif- ferenza di ciò che avviene in altri Paesi, la definizione di istruzione superiore non si basa sul tipo di istituzione che garantisce l’erogazione del servizio bensì sul tipo di corsi di studio offerti da diverse istituzioni. Può accadere, infatti, che la stessa istituzione offre corsi che sono considerati facenti parte dell’istruzione superiore accanto a corsi che, pur essendo di livello post secondario, non lo sono. La struttura del sistema è cambiata nel tempo. Negli anni ’60 grazie alla crea- zione dei Politecnici il sistema si è differenziato assumendo una struttura binaria con un settore non universitario accanto a quello universitario. I due settori tuttavia presentavano somiglianze e sovrapposizioni maggiori di quanto non accadesse tra quelli di altri Paesi con un sistema d’istruzione superiore unitario. Il dibattito sui temi dell’alta formazione si è andato sempre più sviluppando in questi ultimi quaranta anni ed è stato per lo più stimolato dalla domanda che, come nel resto dell’Europa, è cresciuta rapidamente soprattutto nell’ultimo decennio. Il nodo principale del dibattito era incentrato sulla necessità di garantire e incre- mentare una preparazione post secondaria quale strumento per favorire la cittadinanza attiva e, negli ultimi anni, per supportare e anticipare sia i cambiamenti dei mercati, sia la competitività del sistema produttivo alla luce delle innovazioni tecnologiche e delle loro applicazioni anche in comparti tradizionali e dell’apertura di nuovi mercati. Fino al 1988 l’offerta di educazione superiore si muoveva su un sistema bi- nario che vedeva: – da un lato, le Università istituite mediante atto di concessione del Governo centrale e la cui governance si avvaleva di un Comitato delle Università che aveva la duplice funzione di collegare le singole Università e di costituire un collegamento tra queste e il Governo centrale impedendo grandi interferenze con la politica; – dall’altro, 30 Politecnici (gestiti da Autorità Locali) e da College. I corsi degli HBO sono caratterizzati dall’alternanza tra insegnamento teorico e pra- tico con un ampio ricorso agli stage (della durata complessiva di un numero di mesi compreso tra 6 e 10) e che in alcuni casi possono essere svolti anche in più di una realtà aziendale. – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: Gli istituti di HBO forni- scono una preparazione teorica e pratica orientata all’inserimento occupazionale in una molteplicità di settori chiave dell’economia olandese e per la pubblica ammini- strazione. I corsi realizzati nelle Hogescholen prevedono una parte di stage pari ad almeno un quarto del monte ore complessivo. La partecipazione ai corsi è gratuita per gli utenti. 104 Nel 1988 il sistema propende per un modello di self government e si istitui- scono due Fondi: – il Fondo per il Politecnici e i College; – il nuovo Consiglio delle Università. Queste ultime rimangono indipendenti ma si caratterizzano appunto per l’istituzione di un nuovo fondo che ha funzioni di governo e controllo delle risorse finanziarie. Nel 1991, attraverso la Carta Bianca – Affrontare la sfida – il Governo annuncia l’abolizione del doppio canale motivando tale scelta con la necessità di eliminare le sovrapposizioni nella tipologia dell’offerta. Molti Politecnici, infatti, offrivano lauree che potevano essere comparate ai programmi avanzati di studio finalizzati alla ricerca. Ogni Università dunque sarebbe stata istituita dal corrispon- dente livello di governo regionale. Il disegno complessivo per i più significativi cambiamenti ha preso vita dalla consultazione avviata a seguito della pubblicazione del White Paper cui è seguita la sottoscrizione di una serie di regolamenti normativi del Parlamento da linee di indi- rizzo per i Fondi (Funding Council) e dalla definizione dei meccanismi di assegna- zione di risorse. La legge del 1992 rappresenta un momento fondamentale per l’articolazione attuale del sistema di istruzione e formazione superiore. La legge di riforma dell’istruzione superiore (The Further and Higher Educa- tion Act) ha eliminato la distinzione tra Università/Politecnici e istituti d’istruzione superiore. Il nuovo sistema ha permesso a tutti gli istituti interessati di ottenere l’autorizzazione a conferire autonomamente i propri “Degree” (diplomi e certifi- cati) e di aggiungere al loro nome la qualifica “university”, purché venissero garan- titi determinati standard e una certa qualità educativa. Di fatto, con la legge del 1992 si sostituiscono i “vecchi” Council e si istitui- scono nuovi organi che determinano l’operatività dei Fondi di nuova istituzione. In Inghilterra è stato istituito HEFCE (Higher Education Funding Council for En- gland). Simili Fondi sono stati istituiti in Scozia e Galles a cui è stato conferito anche il controllo dei Politecnici (in Galles37) e dei Further College (in Scozia). L’Irlanda del Nord rimane l’unico Paese in cui non è stato istituito alcun Fondo o Consiglio e riceve direttamente i Fondi dal DEL (Department for Employment and Learning - Governo Centrale del Regno Unito). I tre Fondi e il DEL sono identificati come Founding Bodies: – il Learning and Skills Council è responsabile, in Inghilterra, delle risorse, fi- nanziamento e programmazione di percorsi di educazione e formazione dedi- cate a individui con più di 16 anni di età. 37 In Galles fino al 2006 la gestione del sistema prevedeva dipartimenti distinti per Higher edu- cation e Further education. 105 – The National Council for Education and Training for Wales è responsabile, in Galles, delle risorse rese disponibili dal National Assembly for Wales. – The Scottish Further Education Funding Council, in Scozia, definisce le stra- tegie e alloca le risorse per Further Education. – La Further Education nell’Irlanda del Nord è finanziata direttamente dal Department of Education Northern Ireland. – Lifelong Learning UK (LLUK) è responsabile di una ampia serie di misure volte a incrementare le competenze professionali di lavoratori e cittadini. Tra le attività di propria competenza è responsabile anche di alcuni programmi per l’higher education, e la further education. In Galles e Inghilterra i Politecnici ottengono la possibilità di assumere uno status universitario: la differenziazione tra i due settori viene superata creando un sistema di istruzione superiore unificato. Un processo analogo, in tempi e modi di- versi ha connotato anche il sistema della Scozia e dell’Irlanda del Nord. La formazione professionale basata sul sistema delle qualifiche professionali NVQ (National Vocational Qualification), viene promossa dagli istituti di forma- zione per adulti – Further Education Colleges – attraverso vari tipi di corsi annuali o biennali: a tempo pieno, parziale, serali o sul posto di lavoro. Dall’anno scolastico 2004/2005 sono stati attivati anche i New Technologies Institutees che offrono una formazione di livello superiore, strettamente collegata al mondo del lavoro locale, proprio perché programmati dai Further education Colleges e da organizzazioni del settore privato. La formazione professionale britannica è strutturata in modo tale da offrire di- versi servizi. In primo luogo sono previste certificazioni al termine di un solo anno di formazione: il GNVQ General National Vocational Qualification o l’Edexcel First Diploma, le quali permettono di acquisire una professionalità generica di base e, allo stesso tempo, consentono di proseguire gli studi per la preparazione di un A-level, diploma post obbligo scolastico che permette l’accesso universitario. In secondo luogo si possono intraprendere percorsi formativi più articolati, strutturati su due anni, come l’AVCE Advanced Vocational Certificate of Education o l’Edexcel National Diploma che garantiscono una buona qualifica professionale e i requisiti per l’iscrizione ad un first degree. Come ultimo traguardo nella formazione professionale è stato istituito l’Edexcel Higher National Diplomache si può sostenere solo dopo aver già ottenuto due A-levels. Questa ulteriore qualifica permette di conseguire una formazione avanzata, con la quale è possibile iscriversi direttamente al secondo o al terzo anno di un first degrees. L’accesso all’istruzione superiore è molto differenziato ed è più selettivo che in altri Paesi. Ogni istituzione di istruzione superiore può determinare i requisiti va- lidi per l’ammissione ai propri corsi di studio. D’altra parte ogni istituzione deter- mina pure i titoli o le qualifiche che conferisce rendendo il sistema dei titoli di istruzione superiore britannico molto complesso. 106 Negli anni successivi alcuni documenti – come il rapporto della Commissione Dearing del 1997, il Libro verde The Learning age del 1998, il Libro bianco The future of higher education del 2003 – influiscono profondamente sulle politiche dell’istruzione superiore portando anche all’approvazione della legge di riforma (Higher education Act) del 2004. A metà degli anni ’90 il sistema comprende circa 90 Università tutte finanziate pubblicamente. L’istruzione superiore è impartita anche in altre istituzioni: i colleges e gli Institutes of higher education. Molte di queste istituzioni sono specializzate in particolari discipline (ingegneria, agraria, arte architettura, business administration, ecc.) o nella formazione degli insegnanti; altre offrono una gamma di corsi più ampia e aspirano a diventare Università. Molte offrono corsi e titoli che non sono considerati facenti parte dell’istruzione superiore ma piuttosto dell’istruzione profes- sionale post secondaria o Further Education. Le Università britanniche offrono corsi di studio a diversi livelli. – A un primo livello possono essere collocati i corsi che hanno un orientamento professionale: questi ultimi hanno una durata di uno o due anni e conducono al conseguimento di qualifiche professionali o Certificates – come l’Higher national certificate– e a diplomi professionali, come l’Higher national diploma o il diploma di Higher education. Molti di questi titoli, pur certificando il possesso di una qualifica ottenuta me- diante la conclusione di un corso completo di studi, sono ritenuti di livello in- feriore a quello del primo titolo universitario o first regular degree che nella maggior parte dei casi conferiscono il titolo di bachelor. La maggior parte di questi corsi dura 3 anni in Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord; 4 anni in Scozia. I corsi in alcune discipline scientifiche e di ingegneria, i corsi di lingue stra- niere i corsi di formazione iniziale degli insegnamenti e i corsi che prevedono un’esperienza di lavoro – i cosiddetti corsi sandwich – durano 4 anni, mentre i corsi di medicina, odontoiatria e veterinaria durano 5 anni. – A un livello successivo – o postgraduate – si possono collocare tre tipi di corsi: i corsi che dopo 1 o 2 anni di ulteriore studio conducono all’ottenimento di un post graduate diploma o di un post graduate certificate tra cui il post graduate Certificate of education per gli insegnanti; i corsi che dopo almeno un altro anno di ulteriore studio conducono all’ottenimento di un master’s degree; i corsi di dottorato che dopo almeno 3 anni di studio conferiscono l’Academic degree di Doctor of Philosophy. In sintesi, i titoli di studio che si possono conseguire con l’istruzione superiore universitaria sono denominati generalmente degrees e sono di due livelli: – First o Undergraduate degree (Laurea di primo livello) e – Higher o Postgraduate degree (Laurea magistrale o specialistica). 107 I first degree e i postgraduate degree vengono rilasciati indistintamente da Università e College mentre gli Institutes of higher education o istituti d’istruzione superiore abbinano una formazione di livello universitario ad un’esperienza lavora- tiva. Questa ultima tipologia di degree nasce dalla collaborazione delle Università con le imprese. Per questa ultima tipologia di corsi non sono richiesti i requisiti di ammissione necessari per l’iscrizione alle Università e college. Al termine del per- corso di due anni viene rilasciato un Foundation Degree che consente eventual- mente di frequentare il terzo anno di un undergraduate degree soltanto però in quegli istituti che riconoscono tale titolo di studio. La formazione universitaria (Higher Education - HE) viene offerta da due tipi di istituti: le Università, organismi autonomi con facoltà di istituire e rilasciare titoli accademici, e i College e gli Istituti di istruzione superiore (in Scozia chiamati Scottish centrally-funded Institutions) che offrono diplomi distinti grazie ad accordi di collaborazione con altri enti di istruzione superiore. Tra questi si ritrovano anche i Foundation Degrees, istituiti nel 2001 per rispondere alle esigenze di specializzazione tecnica provenienti dal mercato del lavoro (i corsi vengono studiati in collaborazione con i datori di lavoro). I corsi hanno durata biennale; con un ulteriore anno di studio si ottiene l’Honour Degree equivalente ad una qualifica di livello universitario. In particolare i Foundation Degrees sono stati istituiti a seguito della proposta annunciata dalla Segreteria di Stato nel febbraio 2000. I corsi sono per lo più erogati in collaborazione tra Further e Higher education institutions e mirano a far raggiungere un livello di competenza intermedia in periodi più brevi e a rendere più ampia la partecipazione all’Higher education e implementare la formazione lungo tutto l’arco della vita. Questi sono focalizzati su determinate aree professionali come informatica, supporto all’inse- gnamento, assistenza sociale, attività ludico ricreative e turismo. I Foundation degrees non rappresentano il primo ciclo dell’Higher education nei termini del Processo di Bologna: essi sono progettati per offrire l’opportunità di conseguire successivamente un Honoris degree il quale rappresenta l’effettivo completamento del primo ciclo di istruzione superiore. Sul piano istituzionale, la white Paper “The future of higher Education” (DfES 2003) sancisce l’impegno per istituire un nuovo organo nazionale, Foundation De- gree Forward (FDF), già peraltro previsto per supportare e promuovere lo sviluppo e la validazione dell’alta qualità dei foundation degrees. In aggiunta, nel 2005, è stato istituto un servizio nazionale di validazione dei Foundation degrees National Validation Council (NCV) presso le University Voca- tional Awards Council (UVAC) al fine di valicare i foundation degrees e altri corsi di livello higher a carattere professionalizzante per Colleges e altri provider formativi. Un ultimo modo per ottenere una qualifica di livello universitario è quello di frequentare una Open Università, struttura universitaria dedicata all’insegnamento a distanza. I titoli rilasciati da questa Università sono riconosciuti da tutti gli istituti accademici pubblici e privati. 108 Nel Regno Unito, l’accesso all’istruzione superiore è più selettivo che in altri Paesi e la sua descrizione è resa difficile da numerosi fattori: la struttura dell’istru- zione primaria e secondaria non è uniforme in tutto il Regno poiché dipende da de- cisioni prese sia dalle autorità statali di Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord sia dai singoli istituti di istruzione; gli esami finali delle scuole secondarie possono riguardare soltanto singole discipline e non tutte quelle studiate e condu- cono all’ottenimento di diploma o di certificato differenziati in relazione ai voti conseguiti; le credenziali educative ottenute nel campo dell’istruzione superiore professionale possono essere considerate equivalenti a certificati ottenuti in scuole secondarie; ciascuna istituzione di istruzione superiore può stabilire propri criteri di accesso e di selezione che sono applicabili a tutti i corsi di studio offerti o soltanto ad alcuni. Generalmente, all’eccesso ai singoli corsi di studio dipende dal supera- mento di un certo numero di esami al livello più alto di certificazione previsto dal sistema scolastico e dai voti riportati in ciascuno esame. Le Università più presti- giose richiedono il superamento di esami finali di scuola secondaria in particolari discipline e il possesso di voti più alti. In considerazione dell’esistenza del numero chiuso presso le Università britan- niche, non è previsto il diritto automatico di iscrizione. In ogni caso tutte le domande, ad eccezione di alcune lauree professionali, devono essere presentate attraverso l’UCAS (Universities and Collages Admissions Service), il Servizio di Ammissione delle Università e College, il quale pubblica un elenco dettagliato di tutti i corsi del Regno Unito nonché un libretto informativo sulle procedure d’iscrizione. Ogni singolo istituto comunque stabilisce propri criteri per l’ammissione degli studenti. Due sono gli aspetti più interessanti del sistema tecnico-professionale britan- nico che possono offrire alcune note funzionali ad una riflessione più ampia sul si- stema dell’alta formazione professionale: in primo luogo il sistema garantisce una ampia gamma di corsi e soluzioni che possono variare per l’impegno nella fre- quenza (part time, full time, corsi sandwich, ecc.), per le soluzioni didattiche che valorizzano l’alternanza scuola lavoro o esperienze di studio all’estero e per l’im- pianto didattico (si tratta spesso di corsi di durata di circa quattro anni che preve- dono esperienze di stage piuttosto lunghe e articolate). In secondo luogo l’insegnamento è organizzato in moduli ed è ampiamente diffuso il ricorso al sistema di crediti: questo permette ai progettisti di realizzare corsi flessibili e agli utenti di costruire più liberamente il proprio percorso di studi usufruendo di un sistema di riconoscimento delle competenze ormai radicato da e verso il mondo del lavoro. 3.8. Svizzera Il sistema svizzero di formazione superiore professionale si basa su 2 canali. a) Le scuole universitarie professionali (SUP). b) I diplomi federali e le (restanti) scuole specializzate superiori (SSS). 109 Le SUP sono nate circa alla metà degli anni ’90 da una riforma che si propo- neva di dare nuovi impulsi all’economia e di valorizzare il sistema svizzero della formazione professionale, collegandolo al livello terziario della formazione univer- sitaria. Per rispondere alla crescente richiesta di personale qualificato e per facilitare il riconoscimento internazionale dei diplomi, la maggior parte delle scuole professio- nali superiori è stata portata al rango di “Scuole Universitarie Professionali” (SUP) (Fachhochschulen). A questo proposito, le camere federali hanno adottato una legge federale sulle scuole universitarie professionali. Questo ha fatto sì che si po- tesse accedere a queste scuole, senza esame d’ammissione, con l’attestato di matu- rità professionale, introdotto ex novo per una serie di formazioni professionali. Questa riforma ha posto la formazione professionale sullo stesso livello del bi- nomio liceo/Università. Semplificando, per questo motivo i due tipi di formazione superiore verranno considerati equivalenti, anche se diversi. Per definizione, la formazione superiore comprende tutti i curricoli di forma- zione più approfonditi rispetto alla formazione secondaria e a cui si può accedere normalmente con un diploma secondario superiore, come ad esempio la maturità liceale o quella professionale. In Svizzera, questo ambito comprende le Università cantonali, i due Politecnici federali, le sette scuole universitarie professionali (SUP) e le scuole professionali superiori (come, nel caso del Ticino, l’Alta Scuola Peda- gogica). Le attuali scuole universitarie professionali derivano dalle precedenti scuole specializzate superiori (STS, SSQEA, scuole superiori di arti applicate), di cui una parte è stata integrata, nel 1998, nelle nuove SUP. Alla fine del 2003 il Consiglio federale ha concesso l’autorizzazione a tempo indeterminato a 7 scuole universi- tarie professionali. Nel 2005 ha autorizzato per la prima volta una scuola universi- taria professionale promossa da privati, che deve adempiere gli stessi requisiti delle scuole di diritto pubblico. Con il motto “equivalenti, ma differenti”, le scuole universitarie professionali offrono cicli di formazione a livello universitario orientati all’applicazione pratica. Il mandato delle scuole universitarie professionali sancito dalla legislazione com- prende: curricoli di studio che portano al conseguimento di diplomi, formazione continua, ricerca applicata e sviluppo tecnologico, servizi al territorio. Le SUP sono orientate all’applicazione immediata e alla trasposizione dei risultati dalla ricerca di base in prodotti e prestazioni di servizi adatti al mercato, in stretta collaborazione con le aziende. Da allora sono divenute partner ideali per piccole e medie imprese. Le scuole universitarie professionali sono così diventate, al pari degli altri isti- tuti universitari, un importante pilastro del sistema universitario svizzero. Comples- sivamente 160.000 studenti hanno seguito una formazione universitaria nel 2004, di cui oltre due terzi in un’Università e un terzo scarso in una scuola universitaria professionale (SUP). 110 L’istituzione di scuole universitarie professionali ha valorizzato la via della formazione professionale permettendo anche ai professionisti qualificati di prose- guire gli studi a livello universitario. I Cantoni sono i promotori delle scuole universitarie professionali e si fanno carico di due terzi dei costi. Confederazione e Cantoni controllano congiuntamente il sistema delle scuole universitarie professionali. La recente revisione parziale della legge sulle scuole universitarie professio- nali getta le basi per la costituzione di un sistema di accreditamento e di assicura- zione della qualità nel settore SUP. Il nuovo sistema di accreditamento, in vigore dal 2006, che fa riferimento a standard qualitativi nazionali e internazionali, mira alla comparabilità e alla traspa- renza a beneficio di studenti, mercato del lavoro e scuole universitarie. Le scuole universitarie professionali (SUP) offrono cicli di studio ad orienta- mento pratico nei settori tecnica e tecnologia dell’informazione; architettura, edi- lizia e progettazione; chimica e scienze della vita; agricoltura ed economia fore- stale; economia e servizi; design; sanità; lavoro sociale; arti, musica, teatro come anche psicologia applicata e linguistica applicata. Le alte scuole pedagogiche (ASP) sono competenti per la formazione degli insegnanti. I diplomi federali di formazione superiore sono rilasciati invece da istituti che fanno capo ad Associazioni private e/o delle Parti sociali. Gli esami federali di pro- fessione e gli esami federali professionali superiori sono curati dalle organizzazioni del mondo del lavoro. Queste ultime nonché le scuole private e pubbliche offrono corsi di preparazione agli esami. Il superamento di questi esami permette di conseguire un titolo riconosciuto a livello federale. Gli esami professionali superiori sono più complessi degli esami di professione. Questo tipo di formazione professionale superiore si propone di dispensare e far conseguire le qualificazioni necessarie per l’esercizio di attività professionali che richiedono un alto livello di preparazione e di responsabilità. Vengono offerti oltre 350 esami di professione e/o esami professionali supe- riori riconosciuti. L’esame di professione si conclude con un certificato federale di capacità, l’esame professionale superiore con un diploma. Le scuole specializzate superiori (SSS) offrono cicli di formazione ricono- sciuti a livello federale e studi postdiploma nei settori tecnica, ristorazione e alber- ghiero, turismo ed economia domestica; economia; agricoltura ed economia fore- stale; sanità; lavoro sociale e formazione degli adulti; arti e arti applicate. I cicli di formazione delle scuole specializzate superiori terminano con un diploma federale riconosciuto. Essi si basano su standard minimi statali e sono comparabili tra loro. L’insegnamento superiore non universitario occupa un posto molto importante in Svizzera. In media dal 1993 più di un quarto degli studenti della stessa età, hanno iniziato una formazione superiore non universitaria. Gli ingegneri svizzeri 111 diplomatisi alle Scuole tecniche superiori sono il triplo di quelli che hanno studiato ai Politecnici federali. Attualmente, a livello di formazione superiore non universi- taria, si possono seguire una ventina di indirizzi e corsi molto diversi per settore e ambito di applicazione. Si distinguono, in particolare, per il tipo di studio, per la missione educativa, per le condizioni d’ammissione, per la durata degli studi, per il quadro istituzionale – cantonale o federale – che regola questi studi e per le fonti di finanziamento. Tutto il settore della formazione superiore non universitaria offre una forma- zione molto più legata alla pratica professionale (tecnica, agricoltura, commercio, gestione, insegnamento, settore sociale e sanitario, arti e mestieri). Molte di queste scuole – confrontate con l’estero – corrisponderebbero in fondo a Università. Per questo motivo, nelle statistiche la Svizzera figura come Paese con pochi diplomi universitari ma con un’enorme quantità di diplomi di scuole professionali superiori. Orientamento allo studio in Svizzzera 112 38 In tedesco: Fachhochschule. SVIZZERA Il sistema svizzero di formazione terziaria consiste in: 1. Università 2. Alte Scuole Pedagogiche 3. Scuole Universitarie Professionali (SUP) 4. Formazione professionale superiore L’Alta Formazione Professionale si basa su due canali: 1. Scuole universitarie professionali (SUP) 2. Diplomi federali e Scuole specializzate superiori (SSS) – Sono caratterizzate da cicli di formazione a livello universitario orientati all’applicazione pratica. – Qualifica in entrata: sono ammessi coloro che hanno assolto un tirocinio con maturità professio- nale e titolari di una maturità liceale (senza esame d’ammissione se sono in grado di comprovare un’esperienza lavorativa di un anno); singoli campi specifici prevedono anche delle prove di ido- neità. Attraverso le Scuole Universitarie anche persone con una determinata qualificazione profes- sionale hanno la possibilità di proseguire gli studi a livello universitario. – Qualifica in uscita: è stata adottata la struttura europea a due livelli di studio con il consegui- mento rispettivamente della laurea triennale (Bachelor) e di quella specialistica (Master); ciò per- mette l’acquisizione di qualificazioni professionali riconosciute a livello nazionale e internazionale. – Temporalità del percorso: i corsi che danno luogo al conseguimento del Bachelor hanno una durata di 3 anni. – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: Le SUP offrono corsi di studio nei se- guenti settori: tecnica e tecnologia dell’informazione; architettura, edilizia e progettazione; chimica e scienze della vita; agricoltura ed economia forestale; economia e servizi; design; sanità; lavoro sociale; arti, musica, teatro come anche psicologia applicata e linguistica applicata. Sono caratte- rizzate da un orientamento all’applicazione immediata e alla trasposizione dei risultati dalla ricerca di base in prodotti e prestazioni di servizi adatti al mercato, in stretta collaborazione con le aziende. Da allora sono divenute partner ideali per piccole e medie imprese. – I Diplomi federali di formazione superiore sono rilasciati da istituti che fanno capo ad associa- zioni private e/o delle Parti sociali. – Questo tipo di formazione professionale si propone di dispensare e far conseguire le qualificazioni necessarie per l’esercizio di attività professionali che richiedono un alto livello di preparazione e di responsabilità. – Le scuole specializzate superiori (SSS) offrono cicli di formazione riconosciuti a livello federale e studi postdiploma nei settori tecnica, ristorazione e alberghiero, turismo ed economia domestica; economia; agricoltura ed economia forestale; sanità; lavoro sociale e formazione degli adulti; arti e arti applicate. – I cicli di formazione delle scuole specializzate superiori terminano con un diploma federale rico- nosciuto. Essi si basano su standard minimi statali e sono comparabili tra loro. Formazione terziaria Alta Formazione Professionale 1. Scuole Universitarie Professionali (SUP)38 2a. Diplomi federali di formazione superiore 2b. Scuole specializzate superiori (SSS) 3.9. Norvegia La Norvegia ha visto una recente e profonda ristrutturazione del sistema di istruzione superiore. Il sistema di istruzione superiore si compone di differenti tipi di istituzioni superiori. Nel 1995 viene varata una nuova legge sulle Università e sugli istituti di istruzione superiore (Lov om universiteter og hogskoler) che fornisce 113 una legislazione unitaria sia al settore universitario sia a quello non universitario sostituendo la precedente legislazione sull’iterazione universitaria del 1989. Si tratta dunque di un sistema unitario al cui interno convivono due soluzioni riconducibili al livello ISCED 5 e 6, regolamentati dallo stesso quadro normativo, con una grande autonomia decisionale e programmatica e con la possibilità di rila- sciare gli stessi titoli. Il problema più rilevante nel sistema concerne la differenziazione di attività e responsabilità tra Università e College universitari specialmente in relazione alla possibilità e ai finanziamenti per la ricerca. Per molti decenni alcuni college mira- vano a trasformarsi in Università ma la politica governativa era quella di limitare il numero delle Università a quattro. Anche questa scelta è stata in parte superata dalla riforma del 2002 (Quality Reform) secondo cui i college universitari e le Uni- versità specialistiche (Specialized university institution) potrebbero chiedere di es- sere accreditate come istituzioni universitarie anche per rilasciare il titolo di master o di dottorato (si tratta di un processo molto simile a quello britannico). Il processo di unificazione del sistema universitario e dei college universitari si avvia nel 1990, quando nel “Libro bianco” pubblicato si evinceva l’intenzione di implementare le funzioni di coordinamento del livello centrale al fine di allocare le risorse nel modo più funzionale allo sviluppo di programmi specialistici e della ricerca. Le consultazioni avviate dal Ministero si concludono con la riorganizzazione del settore non universitario e con la trasformazione delle 98 scuole regionali in 26 college universitari. In realtà nessuna delle scuole è stata chiusa o soppressa ma sono state riorganizzate in modo da distinguerle sul territorio come centri poli- funzionali e multidisciplinari. Oggi il sistema dell’istruzione superiore si articola in: – Università (di cui 4 storiche e 2 istituite nel gennaio 2005 a seguito dell’accre- ditamento di un college universitario e di una istituzione universitaria ad indi- rizzo specialistico). – 5 specialized university insititution che offrono una formazione specialistica in veterinaria, architettura, scienze motorie ed economia e business administra- tion. Tali istituzioni offrono programmi professionali a livello avanzato e a livello post laurea, dottorati e programmi di ricerca. – University college. – Altri collegi (categoria che include le accademie militari e l’accademia nazio- nale di Polizia). – Il settore privato dell’educazione terziaria. Le differenze tra i diversi tipi di istruzione superiore sono principalmente col- legate alla tipologia di accreditamento che esse stesse sono in diritto di richiedere. Per esempio le Università possono offrire programmi di studio a tutti i livelli, così come pure i college universitari possono offrire un corso di studi per il consegui- mento di un PhD a patto che abbia ottenuto il relativo accreditamento. 114 NORVEGIA • Scuole superiori statali - University College – Qualifica in entrata: La legge del 1995 non pone esplicitamente la pari dignità dei canali come un obiettivo specifico del sistema di istruzione superiore ma, benché non sia stata oggetto della legislazione, l’equità di accesso alla educazione terziaria potrebbe essere considerata come un im- portante obiettivo della riforma stessa. La legge infatti specifica i requisiti di accesso che di fatto risultano identici per l’uno e l’altro canale. Si accede all’istruzione superiore con il diploma di scuola secondaria superiore. Chi non possiede questo titolo può accedere ai corsi di studio superiori ricorrendo a diversi criteri tra cui il riconoscimento di competenze. In molte aree disciplinari l’am- missione ai corsi è selettiva e le istituzioni sia del settore universitario sia di quello non universitario selezionano i propri studenti soprattutto in base ai voti riportati nella scuola secondaria superiore. – Qualifica in uscita: La maggior parte dei programmi professionali all’interno del settore non uni- versitario è stato ridefinito in relazione alla struttura del modello che prevede il rilascio del bachelor. Il titolo più basso a conclusione di un percorso di 3 anni e mezzo – 4 (cand. Mag. Degree) è stato trasformato in un nuovo diploma triennale (three-year bachelor’s degree). Nel 2003 nel quadro di un’ulteriore riforma dell’istruzione superiore e dell’armonizzazione dell’istruzione superiore europea, anche in Norvegia, viene introdotta con alcune eccezioni la struttura di titoli di studio basata sul modello del Bachelor, Master e Dottorato – o modello del 3+2+3 e il sistema nazionale di crediti di studio viene sostituto con l’ECTS – Temporalità del percorso: I colleges universitari offrono prevalentemente programmi professio- nali della durata di 3 anni e conducono al titolo di hogskolekandidat. Sono previsti anche programmi di diversa durata (da uno a cinque anni). Inoltre, la maggior parte dei colleges offrono programmi principalmente in media di un anno a livello undergraduate. Questi programmi permettono agli studenti di continuare presso le Università i loro studi ma sono anche validi e utilizzati per proseguire gli studi nel sistema di educazione degli adulti. Il Bachelor ha una durata di 3 anni, mentre il Master dura 2 anni. Comunque a secondo delle aree disciplinari sia le istituzioni del settore universitario sia quelle del settore non universitario offrono corsi di laurea di durata variabile e diplomi di diversi livelli rendendo piuttosto complessa la struttura dei percorsi e dei titoli di studio. Tuttavia, in alcune aree disciplinari come ingegneria e nella formazione degli insegnanti essi possono durare 4-5 anni e condurre a titoli specifici (hogsko- leingenior). Le scuole superiori statali e le istituzioni pubbliche e private conferiscono anche il titolo di cand.mag. – Caratteristiche del percorso e impegni dello studente: Gli ambiti disciplinari in cui offrono corsi di studio sono: formazione degli insegnanti, del personale infermieristico e paramedico, servizi sociali e giornalismo, biblioteconomia, ingegneria, scienze nautiche, ecc. Formazione terziaria non universitaria 1. Scuole superiori statali -University college Parte III LE INIZIATIVE ITALIANE NEL DARE RISPOSTA ALLE ESIGENZE DEL MERCATO DEL LAVORO NELLA PREPARAZIONE DI TECNICI SUPERIORI Elaborazione di Benedetta TORCHIA 117 1. INTRODUZIONE Nonostante le prime riflessioni intorno alla necessità di creare un sistema di istruzione superiore non accademica in grado di formare tecnici specializzati nella innovazione dei prodotti e dei processi produttivi risalga nel nostro Paese agli inizi degli anni ’901 per arrivare ad una proposta concreta all’interno di un quadro defi- nito è necessario aspettare il 1999. Le prime proposte che ponevano una relazione diretta tra le nuove esigenze delle piccole e medie imprese e la formazione di figure intermedie che potessero supportare lo sviluppo economico del territorio si sono concretizzate in sporadiche esperienze nate attorno all’approccio più lungimirante di singole realtà imprendi- tive capaci di contribuire anche finanziariamente ai progetti allestiti. Le prime spe- rimentazioni, nonostante i risultati incoraggianti, non hanno però dato luogo ad una più ampia e sistematica riarmonizzazione del sistema. È appunto solo con l’atto formale dell’istituzione dei percorsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (art. 60 legge 144/99) e con il successivo decreto attuativo (n. 436/2000) che si comincia a parlare di un sistema all’interno del quale convivono una molteplicità di opportunità formative diversificate. In particolare, il segmento dell’IFTS si collocava all’interno di un disegno più articolato di formazione integrata superiore (FIS)2 che contemplava al suo interno i diplomi universitari, i corsi IFTS appunto e i corsi di formazione profes- sionale di II livello. Dopo le importanti riforme che hanno investito il sistema uni- versitario con la progressiva scomparsa dei diplomi universitari e l’organizzazione del ciclo terziario in percorsi triennali di base e lauree specialistiche, nei docu- menti ufficiali è stata pian piano abbandonata anche la visione unitaria del sistema di alta formazione professionale ponendo piuttosto in confronto diretto il primo ciclo di lauree di base triennali con il corso IFTS. Tale scelta nella pratica – anche per la natura e i livelli di competenza differenziati e di cui si darà conto più avanti – di fatto ha costituito un momento di discontinuità rispetto allo sviluppo di una 1 Si fa qui riferimento alla proposta di Livio Pescia e a tal proposito cfr. Cap. 1. 2 F. BUTERA, Annali della Pubblica Istruzione, 1998. 118 riflessione più approfondita in merito alla volontà di garantire una molteplicità dell’offerta. La prima conseguenza della perdita di una visione complessiva del sistema è oggi equivalente ad una mancata occasione di costruire realmente un sistema alter- nativo all’Università. I corsi IFTS, pochi e scarsamente visibili all’utenza finale inoltre non si pongono come percorso istituito nell’ambito dei descrittori relativi al quinto livello della classificazione ISCED. Piuttosto, pur a partire dalle innovazioni introdotte in sede di conferenza unificata, prima, e dai termini di legge, poi, si tratta di percorsi che non superano il livello della qualificazione ISCED 4. In Italia, ancora oggi, al di fuori dell’Università non esiste una alternativa concreta di alta qualificazione non universitaria. Soltanto l’esperienza dell’Accademia del Mare di Genova, nata a seguito della istituzione del Polo formativo ligure per l’economia del mare e frutto di una incubazione più che decennale e degli sforzi compiuti localmente dall’Amministrazione Regionale, Provinciale e delle Parti sociali, potrebbe essere assimilabile ad un canale di alta formazione non accademico in cui la specificità degli ambiti produttivi e lavorativi sta facendo sì che rappresenti una delle alternative per tutti i diplomati degli istituti nautici e degli occupati nel settore intenzionati a sviluppare competenze di alto livello e acquisire titoli e certificazioni riconosciute per la navigazione internazionale. Inoltre, l’offerta di II livello è stata posta in secondo piano rispetto alle po- tenzialità che poteva offrire in termini di supporto alla costruzione di un sistema ar- ticolato in quanto ritenuto un segmento prettamente regionale. La titolarità della programmazione e gestione di tali corsi è affidata alle Amministrazioni Regionali (o Provinciali per quelle Regioni che hanno attuato la delega in materia). Il titolo rilasciato equivale alla qualifica regionale di II livello ed ha una spendibilità legata al territorio di riferimento. Non sono previsti – a livello nazionale – standard di percorso e le formule didattiche prescelte dipendono dagli enti erogatori accreditati presso le Regioni che definiscono nei bandi per l’assegnazione delle risorse solo per grandi linee le caratteristiche dell’offerta. Solo recentemente, inoltre, molte Amministrazioni regionali hanno proceduto al riordino del sistema delle qualifiche professionali regionali, definendo i livelli di competenze in modo più puntuale e in relazione ad un quadro più ampio di certificazione, e sono stati avviati i lavori interregionali del Tavolo Unico sugli standard che definisce gli obiettivi formativi in uscita dai percorsi del sistema della formazione professionale. Da questo punto di vista il processo di costruzione del sistema di formazione post secondaria sembra ancora tutt’altro che concluso e sembra importante che si riacquisisca la visione di un quadro più ampio per ridefinire le relazioni che dovrebbero intercorrere tra un livello e l’altro (secondo ciclo/formazione superiore) e tra una filiera e l’altra anche al fine di non produrre sovrapposizioni o una dupli- cazione di percorsi analoghi che conducono a titoli differenti. Nonostante il quadro di riferimento si sia sostanzialmente modificato a seguito della riforma universitaria che ha visto la dismissione dei diplomi universitari e 119 la nuova articolazione dei percorsi di laurea in percorsi triennali e specialistici, gli obiettivi per cui sono stati istituiti i percorsi IFTS risultano tuttora validi. In particolare, la creazione del canale di Istruzione e Formazione Tecnica Su- periore intendeva rispondere alle trasformazioni del mercato e ai nuovi meccanismi di competitività delle imprese italiane che iniziano a puntare non solo sul volume della produzione ma anche, e soprattutto, sulla valorizzazione della qualità del pro- dotto (e dunque sulla riconoscibilità del prodotto nei mercati internazionali) e sulla innovazione dei servizi connessi alla commercializzazione del prodotto e finalizzati alla fidelizzazione del cliente nazionale o internazionale. Non a caso, il profilo professionale di riferimento per la Formazione Tecnica Superiore è il lavoratore della conoscenza. Al di là degli inquadramenti, dei con- tratti nazionali e della letteratura prodotta,3 il Knowledge worker è un lavoratore che propone i propri input – che si identificano nelle conoscenze, competenze e nel bagaglio culturale ed esperienziale – per poter produrre degli output, spesso imma- teriali, che si concretizzano sostanzialmente in una innovazione di processo e di prodotto. I lavoratori della conoscenza, secondo quanto emerge dalle indagini condotte a livello nazionale e internazionale, pur inquadrati, in genere, come impiegati e quadri, non assumono dunque compiti esclusivamente esecutivi ma si muovono su tracce di lavoro che fanno della libertà di azione una leva per valorizzare i mecca- nismi produttivi e il contesto organizzativo all’interno del quale sono impegnati. In un mercato del lavoro – anche a fronte del nuovo assetto dei sistemi indu- striali e delle nuove linee di sviluppo – nell’ambito del quale si assiste ad un pro- gressivo allontanamento degli stabilimenti industriali a favore delle attività di pub- blicizzazione, marketing e assistenza al cliente durante e post vendita, continua ad emergere la necessità di puntare molto sulla innovazione di processo senza per questo danneggiare la qualità del prodotto stesso. Sul versante del sistema dell’offerta formativa, l’istituzione di un ulteriore canale di formazione post secondaria intendeva, inoltre, verticalizzare il sistema di forma- zione professionale; prima dell’istituzione dei percorsi IFTS, infatti, i giovani e gli adulti che avevano scelto percorsi diversi dall’istruzione scolastica scontavano una sorta di penalizzazione in quanto potevano rivolgersi solo al segmento della forma- zione professionale regionale di I o di II livello. Poiché i percorsi IFTS consentono l’accesso anche a coloro che sono privi del diploma di scuola secondaria superiore, si assiste, di fatto, ad un ampliamento del panorama delle opportunità formative. Da questo punto di vista, il canale dell’Istruzione e Formazione Tecnica Supe- riore, ha raccolto molta parte delle esperienze europee soprattutto in tema di ricono- 3 Il termine si deve all’americano P. Drucker che, nell’ambito dell’analisi sociologica dei pro- cessi organizzativi, fa riferimento ai Knowledge workers. Si ricorda, a questo proposito, anche il vo- lume I tecnici superiori per il made in Italy, Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione n. 94-95, Le Monnier, agosto 2001, Firenze. 120 scimento delle competenze acquisite in contesti non formali ed ha cercato di speri- mentare anche la creazione di passerelle orizzontali e verticali tra canali formativi. Inoltre, nonostante il tasso di passaggio all’Università in Italia faccia rilevare una crescita costante, è necessario sottolineare che, nell’ambito dell’analisi relativa ai processi educativi di livello terziario, decisamente preoccupante risulta il tasso di abbandono registrato nei primi anni dei percorsi accademici così come pure appare difforme il tasso di successo dei percorsi intrapresi e la percentuale di chi riesce a conseguire il titolo entro i termini legali previsti dal proprio percorso di studi. Sul versante del sistema, dunque, si definisce come canale alternativo a quello universitario, non in continuità con l’istruzione secondaria superiore. In particolare, la nuova filiera è finalizzata alla formazione di figure caratterizzate da tipologie di competenze tecnico-specialistiche di livello medio-alto, in grado di rispondere all’evoluzione dei processi organizzativi e tecnologici del mondo produttivo. Riassumendo dunque gli obiettivi a cui intendono rispondere i percorsi IFTS sono tre: – la verticalizzazione del sistema dell’offerta; – il supporto alla competitività e ai nuovi meccanismi che caratterizzano il sistema produttivo locale; – il raggiungimento da parte di un più ampio numero di persone, di livelli di qualificazione medio-alti. Una osservazione deve comunque riguardare il processo legislativo che ha con- dotto all’istituzione dell’allora nuova filiera IFTS. I percorsi infatti venivano istituiti mediante l’introduzione di un articolo dedicato nella legge finanziaria. Si trattava all’epoca di una novità che suggeriva l’urgenza di intervenire sulla costruzione di un sistema attraverso un dispositivo normativo che assicurasse in primo luogo le risorse finanziarie. La definizione delle caratteristiche della filiera sono state elaborate in seguito attraverso il decreto di attuazione già citato e successivamente dibattute in seno al Comitato nazionale e approvate in sede di Conferenza Unificata Stato-Re- gioni quale istituto di regolamentazione che, attraverso il metodo della concertazione, rendesse attuativi gli indirizzi e le indicazioni più cogenti relative ai singoli percorsi. A tale proposito, infatti, è necessario ricordare che, benché gli unici soggetti titolari della programmazione siano le Amministrazioni Regionali,4 la filiera IFTS presenta un sistema di governo piuttosto complesso che la distingue da qualsiasi altro segmento della formazione e dell’istruzione. I livelli di governo sono infatti tre e prevedono la sollecitazione delle istituzioni nazionali, regionali e locali. 1) Il livello nazionale Quale sede per l’individuazione delle linee di indirizzo del nuovo segmento, nel 1998 è stato istituito il Comitato Nazionale IFTS al cui interno sono rappresen- 4 Ha fatto eccezione solo la prima annualità di programmazione – a carattere sperimentale – la cui titolarità era del Ministero della Pubblica Istruzione. 121 tati i Ministeri della Istruzione, Università e Ricerca e del Lavoro e delle Politiche Sociali, le Regioni, le Autonomie locali e le Parti sociali. Attraverso un confronto continuo, le varie istanze coinvolte hanno proceduto alla definizione dell’impianto complessivo, che viene sintetizzato nel primo docu- mento di programmazione, completato da una nota operativa e da linee guida di supporto alla progettazione esecutiva dei percorsi. Si delinea, dunque, un’offerta strutturata nell’ottica del potenziamento delle opportunità occupazionali e della spendibilità del titolo e delle competenze acquisite: di conseguenza gli obiettivi ge- nerali della filiera contemplano sia l’adeguatezza dei contenuti scientifici e tecnici, sia la stretta correlazione ai fabbisogni di professionalità del mondo del lavoro. Il Comitato Nazionale rappresenta, ancora oggi, l’organo tecnico che, a livello nazionale, definisce le linee di indirizzo, le caratteristiche dell’offerta e stila le note operative secondo cui ciascuna Regione procede alla programmazione dell’offerta. La composizione del Comitato Nazionale IFTS testimonia di un dialogo siste- matico tra i livelli nazionali e regionali che, per la valenza nazionale della Certifi- cazione finale (Certificato di Tecnico Superiore), mira a garantire omogenee carat- teristiche quanti-qualitative dell’offerta su tutto il territorio nazionale. Tutti i documenti prodotti e condivisi nell’ambito del Comitato Nazionale o dei Sottogruppi ad esso collegati sono approvati dalla Conferenza Unificata Stato Regioni che costituisce l’organo politico dell’intero sistema. Per la risoluzione di specifici aspetti connessi alla nuova filiera, il Comitato Nazionale per la definizione degli obiettivi formativi in uscita in particolare è stato costituito il sottogruppo Certificazione Crediti e standard e ulteriori due sotto- gruppi: Sottogruppo Tecnico per le Competenze Tecnico Professionali, attivato per ciascuno dei settori professionali ritenuti prioritari per lo sviluppo del tessuto pro- duttivo italiano; Sottogruppo Tecnico per le Competenze di Base e Trasversali. A differenza dei corsi di formazione professionale regionale di II livello, i percorsi IFTS, si ricorda, rilasciano un titolo spendibile a livello nazionale. Tra gli stessi membri del Comitato Nazionale, la definizione di standard minimi formativi per le competenze di base, trasversali e tecnico-professionali è stata reputata la soluzione più adeguata per garantire livelli di uscita omogenei su tutto il territorio nazionale. La notevole attenzione posta in relazione alla definizione dei livelli di uscita relativi alle competenze di base e trasversali non risulta fondamentale solo al fine di garantire livelli omogenei su tutto il territorio nazionale ma si presenta come una attività prioritaria per promuovere e assicurare una elevata qualità della formazione erogata anche in vista di una più diretta concorrenza della forza lavoro in Europa. Ad oggi, gli operatori (progettisti, enti gestori, ecc.) hanno a disposizione le risultanze prodotte dai sottogruppi del Comitato Nazionale. La Conferenza Unificata Stato Regioni, il 19 novembre 2002, ha, infatti, ap- provato gli standard minimi delle competenze di base e trasversali. La portata inno- vativa dei lavori è significativa; per la prima volta, infatti, sono stati approvati e condivisi standard in uscita identici su tutto il territorio nazionale. 122 Ciascun percorso, infatti, deve prevedere un’articolazione in Unità Formative tali da garantire il raggiungimento degli standard definiti nel Documento appro- vato in Conferenza Unificata5 (cfr. Allegato A - Documento Tecnico approvato il 19 novembre 2002). Gli standard minimi delle competenze di base e trasversali in esito al percorso si riferiscono a quattro differenti aree: – l’Area delle competenze linguistiche, nell’ambito della quale sono state identi- ficate le unità capitalizzabili denominate Utilizzare l’Inglese in modo auto- nomo e Utilizzare l’Inglese come linguaggio tecnico; – l’Area delle competenze scientifiche e tecnologiche, nell’ambito della quale sono state identificate le unità capitalizzabili denominate Informatica di base e Dati e previsioni; – l’Area competenze giuridico - economico – aziendali, nell’ambito della quale sono state identificate le unità capitalizzabili denominate Le norme di diritto nazionale, comunitario, internazionale, La sicurezza e la prevenzione, Il rap- porto di lavoro, L’impresa e la sua organizzazione e La realizzazione dell’idea di impresa; – l’Area competenze trasversali, nell’ambito della quale sono state identificate le unità capitalizzabili denominate Diagnosticare, Relazionarsi ed Affrontare. Il documento presenta, per ciascuna Unità capitalizzabile: – la denominazione specifica (titolo); – le competenze obiettivo (il soggetto è in grado di...); – i contenuti (il soggetto ha bisogno di sapere come...); – le modalità di valutazione articolate secondo i descrittori (il soggetto deve dimo- strare di...) e gli indicatori (che definiscono il livello della competenza acquisita). Successivamente, nel 2004, la Conferenza Unificata ha approvato gli standard minimi delle competenze tecnico professionali per i primi 5 settori produttivi rite- nuti strategici nello sviluppo dell’economia italiana. Il lungo lavoro che ha preceduto la definizione degli standard minimi delle com- petenze tecnico professionali ha avuto inizio con l’individuazione di 37 figure, affe- renti a 5 macro settori, ritenute di interesse per lo sviluppo del sistema produttivo nazionale (cfr. Allegato A - Documento Tecnico approvato in C.U. - agosto 2002). Oggi le figure approvate in sede di conferenza Unificata sono 49 e i settori ritenuti prioritari sono: Ambiente, Turismo, Trasporti, ICT, Edilizia, Manifatture, Agricoltura, Nautica, Servizi assicurativi e finanziari. Per lo studio e l’approfondimento delle attività professionali fondamentali delle figure individuate e per la definizione degli standard in uscita dai percorsi sono stati 5 Il documento relativo agli standard minimi delle competenze di base e trasversali, così come tutti quelli che saranno citati nel testo, è consultabile sul sito ISFOL alla pagina www.isfol.it. 123 istituiti sette ulteriori sottogruppi: uno per ciascun comparto di riferimento. La com- posizione di ciascun Sottogruppo (Comitato di settore) ha ricalcato le rappresen- tanze presenti nel Comitato Nazionale anche al fine di valorizzare le connessioni e le possibili curvature rispetto ai singoli contesti territoriali di riferimento. In merito all’individuazione delle figure professionali, è necessario sottoli- neare che l’elenco delle figure professionali non limita le capacità programmatorie delle singole Regioni. Ciascuna Amministrazione Regionale può, infatti, mettere a bando e finanziare fino al 50% di corsi che fanno riferimento a figure professionali che, pur non approvate in Conferenza Unificata, risultano di interesse per lo svi- luppo dell’economia locale. Si ricorda, inoltre, che i lavori in seno al Comitato Nazionale e in seno ai sotto- gruppi individuati non si considerano conclusi ma si prevede un aggiornamento con- tinuo, sia in merito all’individuazione di ulteriori comparti e di ulteriori figure di inte- resse nazionale, sia in merito alla definizione delle attività professionali fondamentali e dunque in merito agli standard minimi delle competenze in uscita dai percorsi. Per ciascuna figura professionale individuata, gli operatori del sistema IFTS possono consultare la descrizione della figura professionale di interesse, la descri- zione delle attività professionali di riferimento e gli standard minimi per le compe- tenze tecnico professionali. Rispetto ai lavori prodotti e condivisi in seno al Comitato Nazionale IFTS è necessario infine sottolineare che tutti i documenti fanno riferimento alla dizione “standard minimi”. Si intende infatti che ciascuna Regione e ciascun CTS può im- plementare sia il numero, sia il livello degli standard di competenza in uscita. Tale operazione, infatti, determina la curvatura del profilo professionale di riferimento in base alle caratteristiche del tessuto produttivo locale ed anche in base alle carat- teristiche dell’utenza in aula. 2) Il livello di governo regionale La programmazione dei percorsi è di competenza delle Regioni; sulla base di Accordi siglati in Conferenza Unificata Stato - Regioni - Autonomie locali, le Re- gioni o gli enti delegati stilano un Piano di programmazione, solitamente annuale, ed emanano i bandi per la presentazione dei progetti IFTS, i quali vengono poi va- lutati da apposite Commissioni costituite a livello regionale. A ciascuna Regione spettano i compiti di programmazione, gestione e valuta- zione delle attività formative avviate. Molte Regioni hanno istituito un Comitato Regionale presieduto dalla Regione e nell’ambito del quale sono prevalentemente rappresentate le Università della Regione, l’Ufficio scolastico regionale e le Parti sociali, datoriali e sindacali, più rappresentative del territorio. 3) Il livello locale Il terzo e ultimo livello di governo dei percorsi IFTS è rappresentato infine dal Comitato Tecnico Scientifico, organo deputato alla progettazione e gestione del 124 singolo intervento al cui interno devono essere presenti almeno un rappresentante per ciascun componente della forma associativa prescelta per la gestione congiunta del corso (scuola, formazione, Università e mondo del lavoro). 2. LE PECULIARITÀ DELLA FILIERA La formula prescelta per l’allestimento dei percorsi è stata la progettazione e la gestione condivisa da una pluralità di soggetti formativi e produttivi, in grado di garantire la realizzazione dei presupposti concettuali prima richiamati: formare tecnici superiori con professionalità adeguate alle necessità produttive, nel quadro di una solida preparazione culturale e scientifica. Per conseguire tali finalità l’im- pianto dei percorsi è contraddistinto da alcuni elementi fondanti: – l’organismo di progettazione e gestione è rappresentato da una forma asso- ciativa (Associazione temporanea di scopo o altre forme consortili) cui parte- cipano pariteticamente e obbligatoriamente quattro soggetti: un’Università, un istituto secondario superiore, un centro di formazione professionale e un orga- nismo rappresentativo del mondo del lavoro; – il monte ore del percorso si articola da un minimo di 1.200 ad un massimo di 2.400 ore, di cui almeno il 30% deve essere dedicato ad attività di stage; – il 50% dei docenti e formatori deve provenire dal mondo del lavoro e delle professioni. Aldi làdelle variabili che caratterizzano i percorsi IFTS(durata dei percorsi, peso percentuale dello stage, ecc.), gli elementi innovativi dei percorsi IFTS risiedono: – nella gestione congiunta dei percorsi ad opera di quattro differenti soggetti (sistema scolastico, sistema della formazione professionale, sistema accade- mico e mondo del lavoro); – e nella introduzione delle misure di accompagnamento ai percorsi che possono concretizzarsi in molteplici azioni; dalla erogazione di moduli formativi ag- giunti per l’omogeneizzazione delle competenze in aula, all’accompagnamento al lavoro; dalla individualizzazione dei percorsi, all’accreditamento delle com- petenze. Rispetto alla gestione congiunta, è necessario sottolineare che i corsi IFTS, sin dalla loro istituzione, hanno recepito per le modalità integrate di gestione e per l’ar- ticolazione stessa dei percorsi, tutti i temi emersi dal dibattito che, dagli anni ’90 in avanti, ha interessato il settore della formazione e dell’istruzione: tra questi si ri- corda la valorizzazione dello stage come momento di apprendimento privilegiato, la valorizzazione delle esperienze di apprendimento formale, informale e non for- male dei giovani e degli adulti, la sempre crescente attenzione ai temi della forma- zione continua e dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, l’esigenza di rela- 125 zionarsi con il territorio. Il risultato di tale riflessione ha portato ad assumere come agenzie formative anche soggetti tradizionalmente ritenuti lontani dalle mission formative (come le aziende e il mercato del lavoro tout court). Con l’istituzione dei corsi IFTS è stato, dunque, formalizzato anche a livello istituzionale un segmento formativo all’interno del quale sono ugualmente rappre- sentati i soggetti che concorrono: – alla formazione dell’individuo come cittadino attivo e consapevole delle op- portunità e delle potenzialità del territorio, nazionale ed europeo e – alla sua preparazione finalizzata ad un inserimento professionale o allo svi- luppo di nuova autoimprenditorialità. Non è un caso che la formula prescelta per la gestione dei percorsi IFTS abbia promosso un processo integrato a cui concorrono almeno quattro soggetti (scuola, Università, formazione professionale e mondo del lavoro) necessariamente costituiti in forme associative sin dalla fase di macro-progettazione dell’intervento formativo. In questo senso, nonostante la persistenza di alcuni problemi legati soprattutto al- l’impegno richiesto in fase di progettazione e gestione degli interventi, i CTS sinora operanti hanno saputo evitare di presentarsi come soggetti puramente formali. Rispetto alla introduzione delle misure di accompagnamento è invece neces- sario sottolineare che, anche per il carattere sperimentale delle iniziative sinora condotte e per la giovane età della filiera stessa (si ricorda che siamo oggi al suo quarto anno di vita), le soluzioni sinora proposte hanno esplorato in misura estre- mamente ridotta le potenzialità di tale canale. Pochi sono ancora gli interventi for- mativi che hanno, ad esempio, sperimentato una reale individualizzazione dei per- corsi e residuali sono gli interventi che, nella predisposizione di misure di accom- pagnamento al lavoro, sono stati capaci di proporre soluzioni diverse dall’eroga- zione di moduli formativi dedicati all’orientamento al lavoro. 3. BREVE STORIA DEI PRIMI QUATTRO ANNI DI VITA DEGLI IFTS: I PRINCIPALI FENO- MENI 6 La filiera dell’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore, nata come speri- mentazione nel 1998/1999, ha rappresentato un laboratorio aperto a tutti gli attori istituzionali e alle Parti sociali e orientato a valorizzare il dialogo tra sistemi forma- tivi e mondo del lavoro, rientrando appieno nello scenario delle politiche europee che sollecitano l’integrazione tra sistemi dell’istruzione superiore, versante produt- tivo e mondo della ricerca. 6 Le informazioni contenute nel paragrafo, sono state rielaborate a partire dai risultati emersi dalle periodiche attività di monitoraggio e valutazione dei percorsi IFTS condotte dall’ISFOL nel- l’ambito delle Azioni di Sistema del Ministero del Lavoro PON 2000-2006. In particolare, si veda: 126 Il volume dei corsi programmati ha conosciuto un progressivo incremento sino all’annualità 2002-2003, per poi attenuarsi nelle annualità successive, anche in ra- gione di alcune sostanziali modifiche subentrate in termini di modalità di program- mazione da parte delle amministrazioni responsabili. Se, infatti, anche nel periodo precedente si assisteva ad una disomogeneità tra tempi di programmazione e di realizzazione dei percorsi, a tali elementi si è poi ag- giunta l’introduzione dei Poli formativi ed una nuova articolazione della program- mazione su base triennale. Ciò ha fatto sì che dall’annualità 2004/2006 le Regioni abbiano programmato con modalità e tempi ancora più differenziati anche in ra- gione delle scelte attuate in tema di Poli formativi per l’IFTS. Ad ogni modo, nei suoi primi quattro anni di vita, la filiera ha dato luogo a circa 3.000 percorsi formativi. Si tratta di numeri che hanno più volte sollecitato gli stessi decisori politici a domandarsi se il volume dell’offerta si mantenesse conte- nuto a causa dell’elevato grado di specializzazione che caratterizza le figure profes- sionali formate attraverso i percorsi IFTS, o se invece la filiera si caratterizzasse soprattutto per il suo carattere ancora sperimentale e che soffrisse di un mancato consolidamento. Di fatto, dunque, i numeri del sistema non sembrano presentare ancora i per- corsi IFTS come un canale alternativo rispetto all’istruzione terziaria per la forma- zione di professionalità tecniche di medio- alto livello. Ad una domanda di 80.000 tecnici superiori che il sistema delle imprese for- mula annualmente (cfr. Indagine Excelsior, 2006), la filiera IFTS sembra, infatti, in grado di rispondere solo in parte, in quanto i partecipanti interessati dalle iniziative sono stati complessivamente circa 55 mila. Per quanto riguarda, poi, le caratteristiche dei percorsi, si ricorda che la norma istitutiva prevedeva che gli interventi potessero avere una durata variabile dai 2 ai 4 semestri, per un numero complessivo di ore compreso tra un minimo di 1.200 ed un massimo di 2.400. Nella lettura comparata del dato raccolto per le diverse annualità è emerso quanto la durata dei percorsi si sia progressivamente contratta sino a connotare i percorsi IFTS come interventi formativi di durata per lo più annuale. ISFOL, Nuovi bisogni di professionalità e innovazione del sistema formativo italiano - La Forma- zione Integrata Superiore, Franco Angeli, Milano, 2000; ISFOL, La nuova via per la specializza- zione, Franco Angeli, Milano, 2001; ISFOL, I percorsi per Tecnici Superiori: un’opportunità in cre- scita – Rapporto di monitoraggio e valutazione dei corsi IFTS 1999-2000, I nuovi confini della for- mazione, Roma, 2003; ISFOL, L’inserimento nel lavoro dei nuovi tecnici superiori – Analisi degli esiti formativi ed occupazionali dei corsi IFTS 1998-99, I nuovi confini della formazione, Roma, 2003; ISFOL, La filiera IFTS: tra sperimentazione e sistema – Monitoraggio e valutazione dei corsi IFTS 2000-2001, ISFOL, I libri del FSE, Roma, giugno 2004; ISFOL, Tecnici al lavoro – analisi degli esiti formativi ed occupazionali dei corsi IFTS 1999-2000, I libri del FSE, Roma, giugno 2004; ISFOL, Rapporto Annuale sui corsi IFTS – Esiti formativi ed occupazionali dei corsi programmati nell’annualità 2000-2001 e monitoraggio dei corsi programmati nell’annualità 2002-2003, I libri del FSE, dicembre 2007. 127 Il numero medio delle ore di ciascun corso monitorato corrisponde, infatti, a poco più di 1.227 ore, di cui circa 400 dedicate all’esperienza di stage. Conside- rando che la norma istitutiva dei percorsi IFTS indicava come vincolo che il 30% del monte ore formativo dovesse essere dedicato alla realizzazione dello stage, la prescrizione sembra essere stata non solo ampiamente rispettata ma, nella maggior parte dei casi, pienamente valorizzata. Rispetto alla contrazione della durata dei percorsi, inoltre, si deve tenere in considerazione che la riforma universitaria ha incentivato la concorrenzialità del canale accademico attraverso l’istituzione di corsi di laurea triennali e di conse- guenza l’offerta IFTS si è orientata verso percorsi più brevi. Secondo quanto contenuto nella normativa in vigore, l’accesso ai percorsi era consentito a giovani e adulti, occupati e non occupati, diplomati e non diplomati, purché in possesso di adeguate competenze funzionali al successo formativo. Nel momento in cui il sistema di formazione post secondario non accademico si stava configurando, si prevedeva il coinvolgimento di un numeroso e variegato bacino di utenti potenzialmente interessati dalla nuova filiera formativa. Nonostante le politiche per l’accesso fossero tutt’altro che restrittive, ben il 31,4% dei referenti dei corsi coinvolti nel monitoraggio (dunque quasi uno su tre) si è trovato a confrontarsi con le difficoltà connesse al reperimento di corsisti. Si tratta di una percentuale piuttosto ampia, che non accenna a diminuire no- nostante l’intervallo di tempo trascorso dalla nascita della nuova filiera. È proba- bile, infatti, che i responsabili di corso abbiano scontato alcune difficoltà dovute ad una scarsa visibilità dell’offerta o alla percezione di una debolezza del titolo conse- guibile al termine dei percorsi, soprattutto verso il mondo del lavoro. A fronte di una difficoltà così diffusa, comunque, gli stessi referenti dichiarano di aver ricevuto un numero di domande di iscrizione superiore alle disponibilità. È probabile, dunque, che questa apparente contraddizione sia da ricondurre più alla mancata corrispondenza tra utente ideale e utente reale (in termini di compe- tenze richieste e attese) o a una difficoltà nell’intercettare la domanda, piuttosto che ad una poca consistenza della domanda stessa di formazione superiore. A questo proposito, per quanto riguarda la partecipazione, nel corso degli anni le indagini ISFOL hanno messo in evidenza come nei percorsi IFTS il tasso di ab- bandono abbia rappresentato un fenomeno significativo, pari per l’ultima annualità monitorata (2002-2003) al 32,8%. In questo contesto, la lettura del dato fa anche riferimento al fatto che gli abbandoni avvengono indipendentemente dalla presenza o assenza di misure che contribuiscono a rendere qualitativamente significativo il percorso. Il fenomeno, dunque, più che essere collegato alla qualità dei percorsi, può essere imputato ad un atteggiamento degli utenti che producono una domanda di formazione evidente- mente più difficile da catturare e stabilizzare. Rispetto al profilo degli utenti, la distribuzione dei corsisti per classi di età si è mantenuta pressoché costante nel quadriennio. Si pensi che per l’annualità 2002- 128 2003, in aula la presenza più consistente è quella di giovani fino ai 24 anni (30,1%) seguiti dai giovani tra i 25 e i 30 anni (28,1%); meno numerosi i giovanissimi fino a 20 anni (21,1%) e, in ultima posizione, gli adulti con oltre 31 anni (20,7%). Più interessante risulta però il confronto quadriennale in base al quale emerge il decremento della quota di corsisti tra i 21 e i 24 anni di età (perché probabil- mente attratti da nuovi percorsi universitari) mentre aumenta la partecipazione degli adulti ultratrentunenni. Per quanto riguarda il titolo di studio, l’aspetto più rilevante nel confronto del quadriennio è che la percentuale dei corsisti in possesso di titoli di livello universi- tario è via via cresciuta, arrivando a rappresentare il 15,6% di tutti corsisti coinvolti nel monitoraggio. Ciò sembra dimostrare che, nonostante la filiera IFTS sia stata pensata per lo più come un canale post secondario non accademico, è risultata appetibile anche per tutti quei laureati interessati a rafforzare il profilo mediante la frequenza di interventi professionalizzanti che potessero – anche mediante lo stage – facilitare la transizione verso il mercato del lavoro. È cresciuta anche la presenza di giovani e adulti privi del titolo di scuola se- condaria superiore per i quali i percorsi IFTS potevano rappresentare un momento per sistematizzare le competenze apprese direttamente sul posto di lavoro o per proseguire in direzione verticale il percorso intrapreso con la formazione professio- nale. Benché sin dalla prima annualità i corsisti occupati abbiano rappresentato una quota interessante ai fini della composizione delle classi e della progettazione didattica, è nell’ultima annualità di programmazione monitorata (2002/2003) che la partecipazione dei lavoratori ha toccato un valore di assoluto rilievo (pari al 44,3%). Per quel che riguarda la progettazione e l’organizzazione della formazione on the job, non inferiore come detto al 30% del monte ore, dalle informazioni fornite dai responsabili risulta un elevato grado di adesione e di partecipazione alle attività di stage da parte di esponenti del mondo produttivo, con una distribuzione abba- stanza equilibrata tra le diverse aree territoriali. La presenza di rappresentanti del mondo delle imprese in seno al Comitato Tecnico Scientifico, in grado di orientare la definizione dei contenuti specifici della formazione e l’intensificarsi delle oppor- tunità di integrazione e di raccordo tra mondo dell’istruzione e della formazione e sistema produttivo, anche in relazione alla progettazione delle diverse componenti del percorso, ha fatto sì che lo stage fosse riconosciuto sempre più come strumento condiviso ed efficace. Tra le difficoltà nell’organizzazione degli stage, quella segnalata più frequen- temente (38,1%) rimaneva quella del reperimento delle aziende disponibili ad ac- cogliere i corsisti. Ciò fa riflettere sull’importanza di mantenere attive le modalità di raccordo e di collaborazione con le imprese del territorio al fine di garantire effettiva continuità tra il momento dell’adesione iniziale e della partecipazione dei rappresentanti del mondo produttivo alla fase di progettazione e l’effettivo coinvol- 129 gimento in fase operativa, soprattutto in considerazione dei tempi spesso lunghi che intercorrono di fatto tra questi due momenti. Al termine dei corsi, a circa 12 mesi, il dato riguardante i nuovi inserimenti oc- cupazionali – vale a dire la percentuale di coloro che hanno modificato la propria condizione o attività lavorativa nell’intervallo considerato tra la fine del corso e l’intervista –, che nella seconda annualità di programmazione aveva subito una forte diminuzione, si è andato assestando al 47,3%. Nel complesso, la disaggregazione per età, genere e titolo di studio, del dato relativo agli occupati, mostra che trovano più facilmente occupazione gli individui maschi, con meno di 24 anni e con titoli di studio più spendibili (diploma o lauree di tipo tecnico o professionale, qualifiche professionali). Rispetto alle dinamiche di inserimento, dunque, sembra che i corsi IFTS facciano registrare risultati molto positivi soprattutto per coloro che presentano caratteristiche socio-anagrafiche che, in generale, contribuiscono a delineare l’ampia occupabilità dei soggetti. Per approfondire i fenomeni che incidono sui percorsi di transizione dalla for- mazione al lavoro è comunque utile procedere al confronto tra la condizione occu- pazionale dichiarata dai corsisti stessi, prima e dopo il corso IFTS. L’analisi dei percorsi e dei cambiamenti verificatisi contribuisce a definire in misura più chiara il ruolo che la formazione ha esercitato sui meccanismi di inserimento o perma- nenza nel mercato del lavoro. Tra coloro che si dichiarano in cerca di prima occupazione il 48,9% risulta oc- cupato. A fronte di un risultato così positivo appare comunque significativo che più di un individuo su tre (37%) permane nella stessa condizione. Lo stesso vale anche per i disoccupati: quasi il 60% di questo gruppo riesce a re-inserirsi nel mercato del lavoro. Di contro più del 39% rimane in stato di disoc- cupazione. Si rileva dunque una certa staticità nei processi di cambiamento. Se da un lato, una maggiore qualità delle misure di accompagnamento al lavoro potrebbe facilitare l’inserimento occupazionale, dall’altro è necessario valorizzare anche le formule di integrazione già sperimentate tra soggetti con differenti competenze e mission. Si rende quindi evidente la necessità di puntare sulla costruzione di un sistema integrato di soggetti capaci di garantire adeguate misure di accompagnamento al lavoro che troppo spesso sono delegate ai singoli referenti dei corsi. Rispetto alle caratteristiche dell’occupazione prodotta, è necessario sottoli- neare che la coerenza tra formazione e lavoro interessa circa la metà dei corsisti (48% circa per l’ultima annualità rilevata). Se tale dato è comunque positivo, in quanto si alza in misura più consistente per la nuova occupazione prodotta e per i corsisti che hanno cambiato lavoro e dunque per tutti coloro che hanno fatto registrare una variazione a seguito della frequenza del corso, è comunque neces- sario sottolineare che la quota di chi si è inserito in modo non coerente rispetto all’intervento seguito rimane piuttosto alta e invariata per il quadriennio monito- rato. 130 4. UNO SGUARDO D’INSIEME: L’EVOLUZIONE DELLA FILIERA Nell’ambito dell’evoluzione della filiera – a quasi dieci anni dalla sua istitu- zione – è possibile tracciare un bilancio articolato in più fasi. La prima fase coincide con il primo anno di sperimentazione a gestione esclu- siva del Ministero della Pubblica Istruzione attorno alla quale il sistema stesso si è andato dotando di organi tecnici e consultativi ai fini della definizione dei princi- pali aspetti dei percorsi stessi. La seconda fase si caratterizza per il trasferimento delle competenze alle Re- gioni che procedono mediante programmazione annuale e al finanziamento me- diante avviso pubblico. Questa seconda fase ha prodotto la parte più consistente dell’offerta formativa nel suo complesso ed è ascrivibile agli anni 2001-2004, ov- vero gli anni in cui sono stati realizzati i percorsi afferenti agli anni di program- mazione 1999-2000, 2000-2001, al potenziamento dell’annualità 2000-2001 e alle annualità 2002-2003 e 2003-2004. In questi anni, alle attività programmate dalle Amministrazioni Regionali si è comunque affiancata una programmazione centrale ad opera del Ministero del- l’Istruzione che, a valere sui fondi previsti dal piano di intervento CIPE o delle risorse stanziate nell’ambito del Programma Operativo Nazionale a titolarità del MPI Una scuola per lo sviluppo, ha concorso alla realizzazione di ulteriori inter- venti di Istruzione e Formazione tecnica superiore, a volte incrementando l’offerta sui territori, a volte sostituendosi alle attività che avrebbero dovuto programmare le singole amministrazioni regionali, a volte duplicando un’offerta formativa già esistente. Ulteriori progetti nell’ambito dell’Istruzione e formazione tecnica supe- riore, inoltre, sono stati promossi a livello nazionale per sperimentare soluzioni in relazione a temi e questioni specifiche. È stato ad esempio il caso dei progetti IFTS Oplà e del progetto Sud-Nord-Sud realizzati nell’area del Mezzogiorno con l’Assi- stenza tecnica di Italia Lavoro e finalizzati a facilitare il processo di inserimento occupazionale o supportare i processi di mobilità delle forze lavoro. Al termine di questa seconda fase cresce l’attenzione verso alcuni aspetti carat- terizzanti l’istruzione e la formazione tecnica superiore. Essa si presta ad essere il laboratorio privilegiato all’interno del quale sperimentare formule sistematizzate dalla pratica di altri segmenti formativi o successivamente trasferiti ad altre filiere formative. Sono gli anni in cui i moduli didattici vengono sostituiti dalla progetta- zione dell’UFC che – indipendentemente dagli effetti prodotti in termini di certifi- cazione rilasciata e dall’adesione dei diversi livelli di governo dei corsi – contribui- scono a diffondere un approccio orientato al trasferimento di competenze e abilità. Sono gli anni in cui si definiscono – per la prima volta – gli standard in uscita per le competenze di base e trasversali e tecnico professionali. Sono gli anni in cui il ruolo delle Parti sociali e degli esperti di settore è particolarmente valorizzato per dare voce ai fabbisogni professionali accolti e trasformati dai diversi livelli istitu- zionali nella individuazione di figure professionali di interesse nazionale e dei rela- 131 tivi profili professionali articolati nelle diverse regioni italiane e all’interno dei sistemi di qualificazione regionali. Sono gli anni, infine in cui continua a crescere il volume di una offerta nata con meno di 200 corsi annui ma che non riesce a superare ancora al suo quarto anno di vita le 600 proposte su tutto il territorio nazionale. Aspetto questo che rap- presenta una criticità rilevante soprattutto se posto in relazione con la dimensione della richiesta del mercato di tecnici e quadri intermedi. Un’offerta che stenta an- cora a crescere anche perché poco conosciuta sul territorio, dall’utenza e dalle im- prese. Il carattere spontaneo delle aggregazioni sul territorio, la sporadicità delle esperienze da imputare ai meccanismi dello strumento del bando, i diversi tempi di programmazione delle stesse Amministrazioni Regionali nelle aree del Paese non aiutano il sistema a trasformare la nuova proposta formativa in un segmento consi- stente del quadro di Alta formazione superiore. Tutto questo a fronte, invece: – di risultati più che positivi rispetto ai primi inserimenti occupazionali monito- rati e soprattutto per quel che riguarda la fiducia accordata alle soluzioni didat- tiche da parte degli utenti coinvolti e – di esperienze particolarmente importanti che, nate a partire da una integrazione già radicata sul territorio tra versante del mercato del lavoro e formazione, hanno dato luogo a progetti e prodotti importanti e innovativi. È con queste premesse che si passa alla terza fase dell’evoluzione degli IFTS, quando, nel novembre del 2004 sono stati introdotti i Poli formativi per l’IFTS, soggetti multi attore chiamati ad operare su base pluriennale e non più annuale. Nel 2004 con l’Accordo tra Governo, Regioni, Province, Comuni e Comunità montane in Conferenza Unificata, era già stato avviato un processo di messa a re- gime del sistema per superare il carattere sperimentale della filiera. In tale accordo vennero approvate le “Linee Guida per la programmazione dei percorsi IFTS e delle misure per l’integrazione dei sistemi formativi 2004-2006”, nelle quali veniva stabi- lito che i soggetti attuatori (istituzioni scolastiche o sedi formative accreditate dalle Regioni) potessero costituirsi in organismi denominati Poli formativi per l’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore, al fine di assicurare una maggiore visibilità, stabi- lità e qualità dell’offerta, nonché di favorire il collegamento e lo sviluppo della co- operazione in rete, in ambito nazionale e comunitario. L’istituzione dei Poli IFTS ha introdotto una politica regionale di programmazione degli interventi formativi, fun- zionale a favorire la capitalizzazione delle conoscenze e delle esperienze poste in es- sere, promuovendo forme consolidate di cooperazione in rete, anche nella logica dello sviluppo locale, in collaborazione con Università, imprese, Istituti Superiori, Organismi di formazione e Centri di ricerca. In tal modo, le azioni di formazione vengono a connettersi in modo sistematico alle attività di ricerca scientifica e tecno- logica ed ai bisogni di sviluppo economico di un determinato territorio, attraverso forme di partenariato pubblico-privato che operano mediante piani di intervento plu- 132 riennali (almeno triennali). Inoltre, l’individuazione di sedi formative stabili e il col- legamento a specifici settori produttivi contribuiscono a favorire la riconoscibilità del sistema IFTS e, nel contempo, a promuovere la competitività dei medesimi settori, sostenendo in particolare lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Gli obiettivi condivisi nell’Accordo del 2004 sembrano quindi trovare un loro successivo riposizionamento nell’art. 13 della legge n. 40/2007 che individua i Poli Tecnico-Professionali come organismi “costituiti sulla base della programmazione dell’offerta formativa, comprensiva della formazione tecnica superiore, delle regioni, che concorrono alla loro realizzazione in relazione alla partecipazione delle strutture formative di competenza regionale. I poli sono costituiti con il fine di promuovere in modo stabile e organico la diffusione della cultura scientifica e tecnica e di sostenere le misure per la crescita sociale, economica e produttiva del Paese”. In questo contesto il sistema che si va delineando sembra andare verso un ridi- segno della filiera che possa realmente garantire un’offerta formativa professionale di alto livello, in grado di formare quei tecnici della conoscenza così indispensabili allo sviluppo economico del territorio a livello locale e nazionale. Uno degli snodi da affrontare, comunque, riguarda la riorganizzazione del sistema della scuola se- condaria superiore che deve promuovere e accompagnare ad una formazione tec- nica e professionalizzante, non come scelta residuale ma come possibile strada per l’acquisizione di competenze effettivamente spendibili nel mercato del lavoro. Il quadro si configura in modo assai più complesso, inoltre, alla luce della presenza di ulteriori strumenti già attivi sul territorio e che mirano all’integrazione di compe- tenze e mission (Università, ricerca, impresa, formazione, scuola, ecc.) in una logica di sviluppo di filiera di settore piuttosto che di singolo segmento formativo. Il rac- cordo tra i nuovi soggetti provider e gli altri interventi relativi alla programmazione regionale e/o iniziative presenti nella medesima area – Patti formativi, Progetti inte- grati territoriali, Distretti industriali, Parchi scientifici, Poli tecnologici, ecc. – è sicuramente uno degli aspetti da precisare. Infine va sicuramente sottolineata la necessità di individuare linee di finanziamento pubbliche e private stabili, tramite l’implementazione dell’integrazione fino ad oggi realizzata sul piano progettuale e didattico (tra formazione, lavoro, scuola, Università e ricerca). Ad oggi, il processo di costituzione dei Poli non si è ancora concluso e la pro- grammazione annuale legata ai meccanismi dei bandi non è affatto scomparsa. In particolare, molte Regioni presentano soluzioni miste che prevedono la rea- lizzazione delle iniziative sia all’interno dei Poli sia mediante l’assegnazione delle risorse ad associazioni temporanee sulla base di criteri individuati all’interno di bandi pubblici. Solo alcune Regioni, come il Veneto e la Lombardia esauriscono la program- mazione esclusivamente all’interno dei Poli. Lì dove la concertazione con le Parti sociali è stata condotta a livello interregionale si è giunti ad accordi quadro per in- tere filiere produttive. È il caso ad esempio del settore calzaturiero e della moda e del tessile che vedono la realizzazione di iniziative all’interno di Poli appositamente 133 costituiti in diverse Regioni e che mettono in atto azioni diversificate ma tutte fun- zionali al rilancio del settore produttivo (Toscana, Marche, Veneto, Lombardia, Emilia, Piemonte, Puglia, ecc.). Alcune Regioni, infine, sono ancora in fase di costi- tuzione dei Poli e dunque stanno procedendo ai processi di consultazione a più li- velli (sino ad arrivare al coinvolgimento diretto degli operatori del settore). Ad oggi, si contano circa 130 Poli istituiti (o in fase di costituzione) nelle diverse Regioni. La battuta d’arresto del volume dell’offerta dovuta alla riorganizzazione del sistema è stata solo in parte arginata dalla offerta realizzata nell’ambito della pro- grammazione annuale a bando. Il decremento, in particolare, è da imputare allo sforzo compiuto dai livelli istituzionali di dotare il sistema di istituzioni (per lo più ATI e ATS) che, per mission e tradizione, potessero apportare un valore aggiunto alla formazione erogata. La novità in particolare per i Poli è stata data dall’allarga- mento del partenariato che oltre alla scuola, formazione, Università e mercato del lavoro deve includere anche un centro di ricerca pubblico o privato che potesse of- frire un supporto ulteriore in termini di definizione delle linee di sviluppo e innova- zione di processi e prodotti e potesse supportare il processo di trasferimento tecno- logico da e verso il mondo del lavoro. In questo senso l’operazione, almeno for- malmente, rientra in un più ampio processo di revisione dell’intero quadro comuni- tario di sostegno che punta sull’innovazione e sulla ricerca per facilitare la compe- titività dei sistemi, da un lato, e l’occupabilità dei singoli, dall’altro. Anche in questa fase, che di fatto è tutt’altro che conclusa, accanto alle inizia- tive promosse dalle singole Regioni si rintracciano esperienze promosse dal Mini- stero della Pubblica Istruzione nelle Regioni del Mezzogiorno mediante i finanzia- menti del CIPE. In particolare il modello previsto dal governo centrale prevede la costituzione di una rete di partenariati che, facendo riferimento ad un nodo di rete quale interfaccia con gruppi di consulenza e di assistenza tecnica, possano risolvere le questioni legate ad aspetti didattici e organizzativi. Il modello in particolare mira a sperimentare nel Sud, anche in raccordo con le Amministrazioni Regionali com- petenti, delle formule allargate che possano preludere l’individuazione e la costitu- zione di determinati Poli. Su questo processo di riforma, che puntava alla stabilità dell’offerta è andata ad innestarsi una ulteriore innovazione di sistema. La legge finanziaria 2007, stru- mento legislativo ormai familiare nella revisione di questo particolare segmento del sistema, e il cosiddetto Decreto sulle liberalizzazioni di Bersani hanno introdotto il concetto di Polo Tecnico Professionale all’interno del quale gli ITS, quali evolu- zione delle migliori esperienze dei percorsi IFTS, dovranno erogare percorsi non accademici di formazione superiore. Il quadro legislativo è tutt’altro che concluso ma l’indicazione più rilevante è che gli IFTS fanno ormai parte dell’ordinamento nazionale dell’istruzione e dunque costi- tuiscono dal 2008 un segmento del sistema di istruzione e formazione nel suo com- plesso. Le modalità di attuazione di tale segmento non sono ancora del tutto definite. Tra le stesse amministrazioni regionali, alcune continuano ad operare mediante il so- 134 stegno alle attività dei POLI quali predecessori degli ITS, alcune tendono a conside- rare conclusa l’esperienza dei Poli lavorando sulla definizione dei criteri per l’istitu- zione degli ITS. Altre ancora sono impegnate nella costruzione dei Poli tecnico pro- fessionali orientati ad una più generale diffusione della cultura tecnologica trasversal- mente ai vari livelli di istruzione e formazione piuttosto che procedere al sostegno di iniziative funzionali solo alla realizzazione di un numero ridotto di attività corsuali organizzate in base alla complessità degli standard di percorso degli IFTS. Tale processo è stato determinato dalle molte attenzioni che in questi anni sono state dedicate al segmento della formazione post secondaria di tipo professionalizzan- te, ritenuto strategico sia per l’innalzamento qualitativo delle forze lavoro, sia per favorire il rilancio dell’economia del Paese, e dall’avvio di una riflessione più ampia in merito alla necessità di creare un sistema di formazione tecnico-professionalizzante di livello post secondario non accademico, così come accade nel contesto europeo. Inoltre il passare degli anni ha fatto registrare una pressione rilevante della domanda di formazione tecnica superiore, sia da parte dei potenziali utenti (le candidature in media sono spesso doppie o triple rispetto alle chanche formative previste), sia da parte delle aziende che sempre più esprimono fabbisogni professionali di tipo tecnico. I dispositivi introdotti non abrogano la documentazione normativa precedente- mente prodotta ma modificano l’assetto del sistema di Istruzione e Formazione tec- nica professionale; in particolare la nuova normativa:7 – pone i percorsi per la Formazione superiore non accademica all’interno del- l’Ordinamento Nazionale dell’Istruzione, pur continuando ad essere un seg- mento per la formazione post secondaria non in continuità con la scuola secon- daria superiore; – introduce nuovi provider, gli Istituti Tecnici Superiori, che verranno indivi- duati a partire dall’esperienze già in atto nell’ambito dell’Istruzione e Forma- zione Tecnica Superiore (IFTS); – istituisce i Poli Tecnico-Professionali, organismi di natura consortile che po- tranno essere costituiti in ambito provinciale o sub-provinciale tra gli istituti tecnici e gli istituti professionali, le strutture della formazione professionale accreditate e gli Istituti Tecnici Superiori; 7 La normativa più recente non abroga la documentazione normativa precedentemente prodotta e si richiama: Conferenza unificata – Seduta del 25 novembre 2004 – Accordo tra Governo, Regioni, Province, Comuni e Comunità montane, per la programmazione dei percorsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore per il triennio 2004-2006 e delle relative misure di sistema. Allegato n.1 – Linee Guida per la programmazione dei percorsi IFTS e delle misure per l’integrazione dei sistemi formativi 2004/2006 – Le Linee Guida fanno riferimento, per la prima volta ai Poli formativi per l’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore con l’indicazione del settore di riferimento, attraverso i quali le Regioni, secondo le indicazioni della propria programmazione in ambito di alta formazione, attivano corsi IFTS, con prio- rità per aree e settori del proprio territorio nelle quali siano individuate particolari esigenze connesse all’innovazione tecnologica e alla ricerca, in collaborazione con Università, imprese, Istituti Superiori, Organismi di formazione e Centri di ricerca. 135 – istituisce il Fondo per l’Istruzione e la Formazione tecnica superiore, orga- nismo tecnico che deve provvedere al finanziamento stabile delle iniziative sul territorio, “nel quale confluiscono le risorse per progetti finalizzati alla rea- lizzazione dell’istruzione e formazione tecnica superiore, con l’obiettivo di migliorare l’occupabilità dei giovani che hanno concluso il secondo ciclo di istruzione e formazione, al fine di una più efficace utilizzazione delle risorse finanziarie destinate all’attuazione di interventi” (articolo 1, c. 875 l.f. 2007). Legge finanziaria 2007: Il complesso delle misure contenute nella finanziaria in tema di istru- zione e formazione persegue l’obiettivo di valorizzare il ruolo degli istituti di istruzione tecnica e pro- fessionale sino a livello terziario nel quadro dell’alta formazione tecnica e del rafforzamento della filiera tecnico-scientifica attraverso la loro riorganizzazione e la costruzione di stabili collegamenti sul territorio con la formazione professionale, il mondo del lavoro, dell’Università e della ricerca da rea- lizzare con la definizione di nuovi modelli organizzativi (ad esempio, poli, reti, distretti formativi) che arricchiscano l’offerta formativa anche per facilitare l’occupabilità dei giovani (art. 1 c. 631 l.f. 2007). A decorrere dall’anno 2007, il sistema dell’istruzione e formazione tecnica superiore (IFTS), di cui all’articolo 69 della legge 17 maggio 1999, n. 144, è riorganizzato nel quadro del potenziamento dell’alta formazione professionale e delle misure per valorizzare la filiera tecnico-scientifica, secondo le linee guida adottate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della pubblica istruzione formulata di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale e con il Ministro dello sviluppo economico, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’arti- colo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, ai sensi del medesimo decreto legislativo. Al fine di una più efficace utilizzazione delle risorse finanziarie destinate all’attuazione di inter- venti, in tal senso, è istituito un Fondo per l’Istruzione e la formazione tecnica superiore nel quale confluiscono le risorse per progetti finalizzati alla realizzazione dell’istruzione e formazione tecnica superiore con l’obiettivo di migliorare l’occupabilità dei giovani che hanno concluso il secondo ciclo di istruzione e formazione (art. 1, c. 875 l.f. 2007). Legge 11 gennaio 2007 n. 1 – Disposizioni in materia di esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore e delega al Governo in materia di raccordo tra scuola e le Università – articolo 2 – Delega in materia di percorsi di orientamento di accesso all’istruzione post secondaria e di valorizzazione di risultati di eccellenza. Il Governo è delegato ad adottare su proposta del Ministro dell’Università e ricerca e del Ministro della Pubblica Istruzione previo parere delle com- ponenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica uno o più decreti legis- lativi finalizzati a (….) realizzare appositi percorsi di orientamento finalizzati alla scelta, da parte degli studenti, di corsi di laurea universitari e dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, di percorsi della formazione tecnica superiore, nonché di percorsi finalizzati alle professioni e al lavoro. Legge n. 40/2007 art. 13: Riordino degli Istituti Tecnici e Professionali e Istituzione dei Poli Tecnico-Professionali. Il comma 1 abroga l’architettura della legge 53/2003 e sancisce che il secondo ciclo dell’istru- zione si compone dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali. La legge (comma 2), inoltre, istituisce i Poli Tecnico-Professionali quali organismi di natura con- sortile formati da Istituti tecnici e professionali; strutture formative accreditate e le strutture che ope- rano nell’ambito del sistema dell’istruzione e formazione tecnica superiore denominate Istituti Tecnici Superiori. I Poli sono costituiti sulla base della programmazione dell’offerta formativa, comprensiva della formazione tecnica superiore, delle regioni, che concorrono alla loro realizzazione in relazione alla partecipazione delle strutture formative di competenza regionale. I poli sono costituiti con il fine di promuovere in modo stabile e organico la diffusione della cultura scientifica e tecnica e di sostenere le misure per la crescita sociale, economica e produttiva del Paese. Essi sono dotati di propri organi da definire nelle relative convenzioni. All’attuazione del presente comma si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Sono fatte salve le competenze delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, in conformità ai loro statuti e alle relative norme di attuazione. 136 L’intento era quindi quello di rilanciare e stabilizzare la filiera dell’istruzione e formazione tecnica superiore, superandone i nodi critici presenti nell’attuale si- stema, come ad esempio: il carattere ancora sperimentale; la spendibilità del titolo del Certificato IFTS; l’assenza di un sistema di valutazione, in grado di misurare nelle diverse realtà territoriali il raggiungimento degli standard di competenza, anche nell’ottica della trasparenza e mobilità europea; l’assenza di misure di ac- compagnamento specifiche per i soggetti con difficoltà di permanenza o inseri- mento nel mondo del lavoro; la presenza di meccanismi di transizione al lavoro che si indirizzano in modo preponderante e prioritario verso soggetti che possiedono già i requisiti per l’occupabilità. Al tempo stesso la normativa tiene conto dell’esperienza maturata dalla filiera in questi anni di sperimentazione, recependo alcuni aspetti qualitativi, soprattutto per quello che riguarda l’integrazione tra i sistemi e la partecipazione dei diversi attori (mondo della scuola, della formazione, dell’Università e delle imprese), nel- l’ottica di “promuovere in modo sistemico sia l’ampliamento delle scelte di forma- zione tecnica professionale a livello post secondario, sia la diffusione della cultura scientifica e tecnica e le misure per lo sviluppo economico e produttivo” (Decreto Legge n. 7/2007, art. 13). 5. LA STORIA RECENTE L’iter della riorganizzazione del sistema IFTS è ancora in corso e si configura come un percorso complesso. La riconfigurazione del sistema IFTS sta avvenendo a partire dalla fase di programmazione relativa al triennio 2007-2009, attraverso lo strumento delle linee guida approvate, previa intesa in Conferenza unificata, e la pubblicazione del DPCM previsto dal comma 631 della legge finanziaria (avvenuta nell’aprile 2008). Il DPCM ha per oggetto la definizione dei principi fondamentali e dei livelli essenziali. Per quanto concerne gli Istituti Tecnici Superiori (ITS), ogni Regione, nella sua autonomia, potrà prevederne o meno la costituzione, attraverso la trasforma- zione, in attuazione dell’art. 13 della legge 40/2007 e secondo i criteri concordati nelle linee guida, delle strutture già impegnate nella precedente programmazione. La loro organizzazione, secondo quanto contenuto nell’allegato al DPCM segue la normativa in vigore per la “fondazione di partecipazione” che si configura un soggetto pubblico/privato, senza fini di lucro, che potrà richiedere il riconosci- mento della personalità giuridica su tutto il territorio nazionale ex art. 1 DPR n. 361/2001. Per la creazione dei Poli tecnico-professionali di cui all’art. 13 citato, a regime, occorre attendere la riorganizzazione dell’istruzione tecnica e professionale pre- vista dall’a.s. 2008/2009. Le linee guida potrebbero stabilire che comunque le 137 Regioni autonomamente sperimentino la costituzione dei Poli tecnico-professionali nell’ambito delle misure di sistema. L’istituto tecnico superiore costituisce un’evoluzione dell’IFTS. L’evoluzione non può però comportare l’eliminazione di quanto di positivo è stato fatto nelle precedenti programmazioni che va mantenuto e sviluppato. Ad oggi, le Regioni sono chiamate a predisporre Piani triennali – a partire dal 2007-2009 – contenenti la programmazione di: – Offerta formativa allestita all’interno degli ITS – Offerta formativa degli IFTS – Misure di sistema che possano in prima battuta facilitare la trasformazione dei Poli esistenti in ITS e in seconda battuta facilitare e implementare il dialogo sul territorio dei soggetti presenti all’interno dei Poli tecnico professionali. In particolare per quel che riguarda gli ITS, questi avranno la forma giuridica della Fondazione di Partecipazione e dovranno essere previsti necessariamente al- l’interno dei Piani triennali – pena la non costituzione. I fondatori degli ITS e istituzioni di riferimento saranno esclusivamente istituti tecnici e istituti professionali. Gli ITS sono chiamati a presentare un’offerta desti- nata esclusivamente a giovani e adulti in possesso del diploma di scuola secondaria superiore, di durata pari a 4 semestri (per un totale di 1800/2000 ore) e che in al- cuni casi può essere estesa ad un massimo di 6 semestri. I percorsi conducono al conseguimento del “Diploma di tecnico superiore”. Per quel che riguarda gli IFTS questi rimangono di competenza esclusiva della programmazione regionale. Mantengono lo stesso impianto didattico e organizza- tivo previsto dall’articolo istitutivo. Devono anch’essi essere inseriti nel piano triennale regionale. Rispetto alle caratteristiche sinora in vigore, per gli IFTS si prevede una riduzione del monte ore (800/1000 ore, pari a due semestri). Possono continuare ad accedere anche coloro che sono privi del diploma di istruzione se- condaria superiore (previo accreditamento delle competenze). Il titolo rilasciato è costituito dal “Certificato di specializzazione tecnica superiore”. Le finalità che nel corso degli anni hanno portato molti tra i principali Paesi europei ad istituire dei canali formativi da affiancare al canale universitario sono ri- conducibili a quelle che in Italia hanno portato all’introduzione degli IFTS: – migliorare l’efficacia dell’istruzione superiore riducendo il tasso di abbandono universitario; – formare figure professionali di livello intermedio rispondenti ai fabbisogni del mercato; – diversificare l’offerta formativa. Le questioni che ancora rimangono aperte interessano: – le caratteristiche dell’offerta formativa così come si sta configurando (durata biennale, diploma rilasciato e governance del sistema) e la correlazione sia con 138 il quadro delle qualifiche regionali e nazionali, sia con la corrispondenza inter- nazionale della classificazione Isced. – Il carattere sporadico che hanno assunto le iniziative sino ad oggi. Si tratterà dunque di provare a stabilizzare l’offerta senza cristallizzare i piani didattici offerti che invece dovrebbero essere frutto della prosecuzione del dialogo e del confronto con gli ambiti produttivi più rappresentativi del territorio. – La questione degli accessi in relazione alla qualità e alla quantità della do- manda di qualificati. – La spendibilità del titolo soprattutto in relazione, da un lato, all’impegno ri- chiesto, dall’altro, alle certificazioni conseguibili in altri segmenti dell’offerta post secondaria. – La definizione delle peculiarità di percorsi IFTS brevi e lunghi in relazione alle possibili interrelazioni con le questioni relative ai titoli di accesso e al si- stema dell’offerta accademica. – La concorrenza delle competenze tra Stato e Regioni per questioni connesse alla gestione e realizzazione delle iniziative e la necessità di linee guida e stan- dard validi a livello nazionale su cui insistono i lavori ancora in corso dei Ta- voli su cui avviene il confronto Stato-Regioni in merito alla costruzione di un sistema nazionale delle qualifiche. 6. LE SCELTE DI OGGI NEL CONFRONTO INTERNAZIONALE L’iter legislativo che ha come oggetto la costituzione del segmento dell’inse- gnamento tecnico superiore – nell’ottica di una diversificazione della formazione post secondaria all’interno dell’ordinamento nazionale dell’istruzione (così come configurato dalla legge finanziaria e dagli atti collegati e relativi alla natura dell’of- ferta) – presenta, ad oggi, evoluzioni significative. La pubblicazione del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (aprile 2008), recante le “Linee guida per la riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione tecnica superiore e la costituzione degli istituti tecnici superiori” costituisce un momento nodale a partire dal quale si riconosce, anche in Italia, la presenza di una vision politica nel contrastare l’assenza – soprattutto nella perce- zione degli utenti stessi – di un canale di istruzione e formazione tecnica supe- riore di tipo corto non accademica. Un’offerta che negli altri Paesi si caratterizza stabile sul territorio ma flessibile rispetto ai curriculi e alla offerta formativa, for- temente caratterizzata dalle specificità settoriali, riconoscibile all’interno di un quadro nazionale delle qualifiche e delle certificazioni e apprezzabile anche in relazione alla costruzione di un percorso professionale che può far leva su figure professionali ben individuate. Il Decreto risulta il frutto di un dibattito ormai tren- tennale che si è alimentato di avvicinamenti progressivi e soprattutto si è andato costruendo, in questo ultimo decennio, a partire dalle pratiche sperimentate a 139 livello regionale dei percorsi IFTS che hanno rappresentato, pur con tutte le diffi- coltà legate ad un approccio non sistematico, un campo importante da cui sono state recuperate molte delle indicazioni più cogenti confluite nel più recente decreto. Il modello di governance degli IFTS – adottato anche in vista e in conse- guenza dell’avvenuta riforma del Titolo V della Costituzione, dell’esclusiva com- petenza rispetto alla programmazione delle Regioni e delle più recenti deleghe in materia alle Province – testimonia, come già accennato, di questo tentativo di conciliazione tra istanze nazionali e istanze locali. Il modello infatti prevedeva un primo livello di integrazione attuato nel Comitato Nazionale IFTS, presieduto dal Ministero dell’Istruzione (nel corso del tempo riunificato e poi di nuovo scisso dal Ministero dell’Università e della Ricerca) cui sono chiamati a partecipare atti- vamente Regioni, Ministero del Lavoro, rappresentanze dell’UPI e ANCI, delle Parti sociali datoriali e sindacali e le assistenze tecniche dei differenti Ministeri tra cui l’ex Indire, oggi Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scola- stica, l’Isfol e l’Istat. Un secondo livello di integrazione doveva attuarsi a livello regionale nel- l’ambito dei Comitati regionali al cui interno sarebbero dovute essere rappresen- tate le stesse istanze presenti a livello nazionale. Tra i ruoli dei Comitati regionali si rintracciava quello afferente alla programmazione dell’offerta e all’individua- zione di settori specifici di intervento che avrebbero dovuto orientare la program- mazione annuale dei percorsi promuovendo di volta in volta la formazione di tec- nici superiori a supporto dello sviluppo del tessuto produttivo, sia nell’ottica delle vocazioni tradizionali del territorio, sia nell’ottica della creazione di linee di pro- cesso e prodotto innovative e di impatto per l’economia regionale e nazionale. A quasi dieci anni dalla prima sperimentazione dei percorsi IFTS, si evidenzia una difformità di comportamenti e modelli che hanno caratterizzato i lavori dei diversi Comitati regionali (quando istituiti) che, presieduti dalle singole Amministrazioni Regionali, hanno adottato stili e metodologie molto eterogenee su tutto il terri- torio nazionale in relazione ai meccanismi di definizione dell’offerta. Il terzo livello si realizza a livello di singolo comitato di progetto che ha rap- presentato il primo esempio di integrazione normata e resa obbligatoria a livello centrale per la realizzazione dei singoli interventi. Se, in alcune realtà, la familia- rità con diversi stili e approcci ha rappresentato una risorsa importante per il suc- cesso formativo e gli impatti occupazionali dei singoli interventi corsuali, nelle zone del Paese dove il tessuto produttivo vive momenti di sofferenza legati anche alla congiuntura economica, la stessa ha rappresentato una difficoltà ulteriore che si sommava ad una difficoltà di reperimento dei corsisti, ad un tasso di abbandono significativo, ad un limitato coinvolgimento degli esponenti del mondo produttivo e ad un parziale accompagnamento dei livelli istituzionali che avrebbero potuto facilitare le necessarie sollecitazioni dei diversi attori della filiera. Lo sforzo che si è chiesto ai singoli partenariati, prima nella definizione di una proposta forma- 140 tiva che fosse soggetta alla valutazione ex ante legata all’ammissibilità ai finan- ziamenti, in una seconda fase, nella trasformazione in direzione di un Polo for- mativo per gli IFTS e, oggi, nella riorganizzazione delle reti territoriali più stabili in Istituti tecnici superiori, è stato quello di muoversi in direzione di un progres- sivo abbandono della specifica natura e missione per dirigersi verso un soggetto pluralistico e multi attore che potesse far leva sull’integrazione come risorsa per moltiplicare know how, competenze, prestigio e, non ultime, risorse umane e fi- nanziarie e che potesse risolvere al proprio interno molte delle questioni rimaste irrisolte a livello nazionale. Così, ad esempio, il processo di individuazione di figure professionali di rife- rimento ritenute strategiche per lo sviluppo dell’economia nazionale (e i relativi standard di competenza minimi in uscita) avvenuta in sede di comitato nazionale, ha trovato una sua completezza solo a livello di singolo comitato di progetto che concorreva al bando regionale proponendo eventualmente una declinazione terri- toriale. In tal modo, è avvenuto nel corso degli anni che, nel confronto interregio- nale, la declinazione di un profilo professionale in alcune realtà si configurava come tale e dunque si presentava come una specificità di una figura riconosciuta a livello nazionale, mentre, in altre realtà, lo stesso profilo rientrava nell’alveo dei Progetti Pilota e dunque assumeva la valenza di una figura auto consistente e au- tonoma rispetto alla famiglia delle figure adottate nella Regione limitrofa. Il recente Decreto, pur con le innovazioni introdotte rispetto alla natura giuri- dica dei soggetti chiamati ad erogare l’offerta, sembra riproporre lo stesso mo- dello, nell’ambito del quale le figure, i settori di intervento, le aree, continuano ad essere definite in seno al Comitato nazionale e riproposte solo successivamente e a cascata nei diversi territori derogando di volta in volta in relazione a criteri non sempre definiti a priori. Il Decreto stesso richiama sei aree tecnologiche proposte contestualmente anche dalla legge finanziaria. Sulla base delle decisioni concordate in seno al Comitato Nazionale e ratifi- cate dalla Conferenza Unificata Stato Regioni, le Amministrazioni Regionali sa- ranno chiamate a predisporre – a partire dalle risultanze della concertazione istitu- zionale con le Province e le Parti sociali del territorio – piani triennali contenenti anche i criteri per l’individuazione degli ITS e i criteri per la selezione dei pro- getti per le azioni di adeguamento. I piani triennali dovranno essere adottati dalle Regioni nell’ambito della programmazione con riferimento a indirizzi della pro- grammazione nazionale. A tale proposito è significativo sottolineare alcuni aspetti: – il DPCM costituisce un atto di indirizzo per la definizione macro del sistema ma non assume la valenza di un regolamento in quanto la regolamentazione del sistema rimane competenza esclusiva delle Regioni. – Nel passaggio dal DPCM alla proposta di regolamento non si prende più in considerazione la possibilità di procedere alla realizzazione di interventi cor- suali che si possano configurare come Progetti Pilota. 141 – Nelle diverse stesure, in riferimento alla definizione delle aree su cui devono in- sistere le figure IFTS e figure ITS è stata soppressa la dizione figura professio- nale a favore della semplice denominazione figura in quanto, per la regolamen- tazione relativa alle figure professionali, la competenza in materia è riservata esclusivamente ad una legge e non ad un regolamento attuativo. Al momento, dunque, nonostante le perplessità più volte sottolineate dalle stesse Parti sociali in merito al rischio di ingenerare uno smarrimento nei confronti di un dialogo tra versante formativo e dell’istruzione e mondo del lavoro, il tavolo degli stan- dard e i lavori condotti dall’Istat rappresentano gli unici riferimenti nazionali per la declinazione delle figure. L’iter legislativo avviato rappresenta ancora solo una cornice all’interno della quale dovranno essere portati a compimento ulteriori adempimenti. La prima tappa coincide con la predisposizione da parte del Ministero della Pubblica Istru- zione, di concerto con il Ministero del Lavoro e del Ministero dello Sviluppo Eco- nomico, nuovo membro del Comitato Nazionale, di una proposta per l’articola- zione in settori delle 6 aree tecnologiche previste dall’articolo 7 del DPCM sulla base delle proposte del Comitato Nazionale per l’IFTS. A questo fine, si prevede che la proposta sia ratificata in seno alla Conferenza dei servizi a livello nazionale (e prevista ciascun anno) e l’oggetto di tale lavoro è quello di facilitare l’integra- zione e il coordinamento degli interventi e delle relative risorse (almeno di quelle statali). I soggetti coinvolti in questa fase sono il MIUR, il MLPS, le Regioni, il MISE, l’UPI, l’ANCI, le Parti sociali e ulteriori Ministeri individuati sulla base di esigenze specifiche (in relazione alle competenze esercitate rispetto ai possibili settori di intervento). A seguire, il MPI, di concerto con il Ministero del Lavoro e il Ministero dello Sviluppo Economico, predispone uno schema da trasmettere alla Conferenza Uni- ficata in relazione alle indicazioni emerse dalla conferenza dei servizi. L’accordo, in particolare conterrà l’articolazione dei settori di riferimento delle sei aree consi- derate per lo sviluppo dell’ITS e l’aggiornamento dei settori di riferimento per l’IFTS. Successivamente, il Comitato Nazionale per l’IFTS stila proposte avvalendosi dei lavori dei Comitati di Settore già istituiti per: – l’analisi delle 49 figure di riferimento già definite in sede di conferenza unifi- cata e dei relativi standard sulla base dei piani regionali attuati nell’ambito della programmazione 2004-2006; – l’individuazione degli ambiti interessati in modo ricorrente dai Progetti per la definizione di eventuali nuove figure nazionali di riferimento; – la manutenzione degli standard delle competenze comuni a tutti i percorsi nei due canali formativi (IFTS e ITS) sulla base dei risultati delle precedenti pro- grammazioni; – la definizione dei modelli di certificazione. 142 Le proposte presentate costituiranno l’oggetto di uno o più regolamenti attua- tivi in relazione alla: – definizione delle figure nazionali di riferimento di tecnico superiore e dei rela- tivi standard per il conseguimento dei certificati di specializzazione tecnica su- periore (al termine degli IFTS) e dei diplomi di tecnico superiore (al termine degli interventi promossi all’interno degli ITS); – definizione dei modelli di certificazione e della relativa disciplina con riferi- mento al format EQF. Pur nella molteplicità delle attività istruttorie necessarie alla predisposizione dei passi che proseguono la costituzione del sistema, si evidenziano i tratti del mo- dello di governance già sperimentato per gli IFTS che si caratterizza per una forte sollecitazione degli attori a livello nazionale e per la molteplicità della tipologia degli interventi che potranno insistere sullo stesso territorio (ITS e IFTS) pur senza decretarne a priori le differenze sostanziali anzi piuttosto sottolineandone le affinità in termini di obiettivi e finalità generali. Il dialogo sul territorio in relazione allo specifico ambito di attività, ora come negli anni precedenti, appare delegato ai singoli partenariati o reti di partner che si costituiranno come fondazioni di partecipazione. Una riflessione più approfondita sui temi della programmazione, sui criteri e sulla individuazione delle variabili da tenere in considerazione per l’osservazione progressiva e la valutazione del sistema è affrontata solo marginalmente attraverso il richiamo alla concertazione istituzionale e il confronto con le Parti sociali in modo strumentale rispetto alla stesura dei piani di intervento triennali. Le decisioni relative, ad esempio, al dimensionamento del sistema stesso, alla sua articolazione sul territorio, alla natura dei contenuti continua a costituire argo- mento del dibattito in seno al Comitato Nazionale, piuttosto che costituire materia di negoziazione territoriale. Nell’ambito di una ristrutturazione del sistema che possa rappresentare una in- novazione anche in termini di attrattività e di accreditamento sullo stesso territorio nel quadro internazionale, in molti Paesi è stata rilevata l’esigenza di costituire un organismo per l’alta formazione (spesso configurato come agenzia espressione dei livelli di governo nazionali e locali) in grado di operare a livello territoriale e che potesse fungere da facilitatore tra il livello di governo nazionale e il sistema locale. In Italia, tale ruolo originariamente attribuito ai Comitati regionali sembra essere stato solo in parte assolto per quel che riguarda gli aspetti più propriamente tecnici anche alla luce del fatto che questi si sono dotati di modalità operative, modelli e compiti molto differenziati sul territorio. Negli altri Paesi i compiti attribuiti ad organismi esterni al Ministero compe- tente si riferiscono per lo più alla definizione di politiche evolutive del sistema stesso, alle questioni relative al funzionamento del dispositivo, alla definizione di un quadro generale di controllo e di finanziamento. 143 Secondo quanto riportato nello studio condotto da Mazaran8 relativo ai per- corsi di formazione superiore di tipo corto a vocazione professionalizzante, studio che ha permesso di realizzare approfondimenti relativi anche ai Paesi emergenti e da cui si citeranno alcuni esempi. In Messico, tale funzione è stata assegnata al Coordinamento Generale delle Università Tecnologiche (CGUT), servizio del Ministero dell’Istruzione compe- tente in materia. Dalla nascita del segmento ad oggi, è l’organo di Coordinamento che garantisce la prosecuzione dei lavori, definisce gli orientamenti e le linee di in- dirizzo e ne assume la responsabilità e i compiti di valutazione e controllo. Tale or- gano è supportato da diverse strutture rappresentative del territorio e, in particolare, da una rappresentanza degli stessi enti erogatori, da rappresentanze di enti locali e territoriali e da rappresentanze delle Parti sociali datoriali. In Tunisia il sistema delle ISET, tutt’ora in fase di implementazione, è oggetto di un processo di osservazione progressiva ad opera di una Direzione del Ministero dell’Insegnamento Superiore – Direzione Generale degli Insegnamenti Tecnologici (DGET) al fianco della quale stanno per essere istituite strutture di concertazione e di supporto alla decisione, come la Conferenza dei direttori, degli Istituti eroganti e le Assemblee dei capi dipartimento. In Francia, le IUT sono supportate, nel loro funzionamento e nella loro evolu- zione, da una sottodirezione all’interno dell’Insegnamento superiore del Ministero. Il sistema inoltre prevede strutture di concertazione e supporto e organi rappresen- tativi degli attori coinvolti nell’erogazione dell’offerta. Per le IUT, in particolare, si rileva il ruolo dei referenti del settore produttivo nell’ambito delle CPN, dell’as- semblea dei direttori di IUT, dell’Unione Nazionale dei Presidenti delle IUT, delle Assemblee di capi dipartimento, ecc. In Canada dove il sistema si caratterizza per una grande autonomia dei com- munity college, il livello di governo nazionale o provinciale ha un ruolo fondamen- tale in materia di orientamento, finanziamento, valutazione e controllo. La maggior parte del sistema canadese è stato fondato tra la metà degli anni ’60 e ’70 e il ter- mine post secondario include tutti i tipi di istituti che intervengono dopo il ciclo se- condario: dalle Università ai community college, fino a tutti gli istituti specializzati o afferenti alle categorie professionali. L’offerta di formazione tecnica superiore di tipo non accademico è garantita dai community college, un insieme eterogeneo di istituti che comprende istituti di tecnologia e di studi avanzati, i collegi tecnologici e di arti applicate, i collegi universitari e, nel Quebec, i collegi d’istruzione gene- rale professionale (CEGEP). In Canada tutto il sistema dell’istruzione, compreso il segmento dell’alta for- mazione non accademica è di competenza delle province e, pur in assenza di un’a- genzia governativa federale con compiti gestionali, l’Associazione dei community 8 Jacques MAZERAN, Les enseignements supérieurs professionnels courts – Un défi éducatif mondial, Hachette Livre (Hachette éducation), The world Bank, 2007. 144 college del Canada (ACCC) rappresenta gli interessi di questi istituti incremen- tando le relazioni sia con il livello nazionale, sia con i livelli internazionali. L’istituzione di un sistema di competenza provinciale è stata concepita per pro- muovere il giusto equilibrio tra autonomia decisionale e responsabilità facilitando il dialogo alla pari tra diversi soggetti radicati sui territori. Il processo di autonomia, in questo caso, era finalizzato prioritariamente a restituire, attraverso la responsa- bilità diretta, una maggiore dignità nel dialogo con i soggetti rappresentativi del territorio che potessero contribuire allo sviluppo del sistema stesso di istruzione. L’autonomia delineata per i community college era assimilabile a quella di cui già godevano le Università. Tutti i community college hanno un consiglio di amministrazione all’interno del quale alcuni membri sono designati dal governo provinciale, altri sono eletti dagli utenti stessi (studenti, amministratori, insegnanti, personale tecnico, ecc.). Il consiglio elegge a sua volta uno staff (Ufficio Tecnico) responsabile nei con- fronti del governo provinciale della direzione dell’istituto, il cui presidente è chia- mato a produrre relazioni periodiche sull’andamento delle attività di fronte al con- siglio di amministrazione. I contenuti dei programmi sono definiti generalmente sulla base di tre criteri: – gli insegnamenti generali sono definiti a livello provinciale dal Ministero inca- ricato dell’insegnamento superiore; – gli insegnamenti specialistici sono definiti in seno a Comitati Consultivi di programmazione in funzione delle tendenze del settore e delle competenze richieste; – le norme di accreditamento sono definite dalle strutture riconosciute in materia di accreditamento. Le relazioni dei college con i datori di lavoro si manifestano in diversi modi: tutti i nuovi programmi devono essere creati a partire dal parere favorevole espresso in seno ai Comitati Consultivi e sono regolarmente approvati da questi stessi per ciascun college. In seguito, nell’ambito dei programmi di corso si attua un sistema di alternanza in cui i datori di lavoro sono incoraggiati dai governi pro- vinciali a fornire un impiego agli studenti. Infine, sulla base di accordi territoriali molti datori di lavoro consentono abitualmente ai propri dipendenti di insegnare nei cursus dei college. In Canada dunque l’istituzione di una agenzia governativa è stata in qualche modo superata dalla delega in materia a livello provinciale, dall’attività periodica e sistematica dei Comitati Consultivi di programmazione e dalle attività di supporto dell’Associazione di college. Se, da un lato, tale sistema sconta ancora alcune difficoltà tra cui un minore appeal nei confronti del sistema accademico, un costo di accreditamento presso il livello nazionale ancora molto elevato soprattutto per i colleges di piccole dimen- sioni, una diversificazione molto ampia dei programmi che può condurre a derive 145 accademiche o ad una diretta concorrenza con l’offerta universitaria o, ancora, ad un rapido invecchiamento dei programmi e dei contenuti, dall’altro, l’esperienza presenta elementi di sicuro interesse in quanto l’impianto ha consentito ai college di distinguersi per: – rispondere meglio e più in fretta di altri segmenti formativi alle esigenze eco- nomiche e produttive rilevate direttamente presso i territori, – sviluppare un dialogo sistematico con le imprese tale da poter non solo rispon- dere ma anche sostenere la qualità della domanda di lavoro, – perseguire criteri di qualità e la pertinenza di programmi anche grazie alla par- tecipazione attiva di tutti gli attori all’interno dei Comitati consultivi. La valorizzazione delle istanze territoriali è stata perseguita – sulla scia del modello tedesco – anche dalla Svizzera che presenta un sistema articolato in 2 canali: a) le scuole universitarie professionali (SUP) b) i diplomi federali e le (restanti) scuole specializzate superiori (SSS). Per rispondere alla crescente richiesta di personale qualificato e per facilitare il riconoscimento internazionale dei diplomi la maggior parte delle scuole professio- nali superiori è stata portata al rango di “Scuole Universitarie Professionali” (SUP) (Fachhochschulen). A questo proposito, le camere federali hanno adottato una legge federale sulle scuole universitarie professionali. Questo ha fatto sì che si po- tesse accedere a queste scuole, senza esame d’ammissione, con l’attestato di matu- rità professionale, introdotto ex novo per una serie di interventi di formazione pro- fessionale. Questa riforma ha posto la formazione professionale sullo stesso livello del binomio liceo/Università. Per definizione, la formazione superiore comprende tutti i curricoli di forma- zione più approfonditi rispetto alla formazione secondaria e a cui si può accedere normalmente con un diploma secondario superiore, come ad esempio la maturità liceale o quella professionale. I Cantoni sono i promotori delle scuole universitarie professionali e si fanno carico di due terzi dei costi. Confederazione e Cantoni controllano congiuntamente il sistema delle scuole universitarie professionali. La recente revisione parziale della legge sulle scuole universitarie professio- nali getta le basi per la costituzione di un sistema di accreditamento e di assicura- zione della qualità nel settore SUP. Il nuovo sistema di accreditamento, in vigore dal 2006, che fa riferimento a standard qualitativi nazionali e internazionali, mira alla comparabilità e alla traspa- renza a beneficio di studenti, mercato del lavoro e scuole universitarie. In Svezia, il cui sistema di istruzione terziaria è stato recentemente riformato a seguito della legge del 1997 al cui interno convivono percorsi di tipo accademico e percorsi di istruzione professionale con programmi di breve e lunga durata, le isti- 146 tuzioni d’istruzione terziaria statale si configurano come Agenzie governative e molti dei compiti che in altri sistemi europei sono propri di Ministeri o di altri orga- nismi vigilanti sono stati affidati proprio alle agenzie. Tra le attività di loro compe- tenza si annoverano la realizzazione di indagini, analisi, monitoraggio e valutazione. Al Ministero spetta la definizione della promozione delle politiche. Da questo punto di vista, pur nell’impianto completamente differente, è possi- bile rintracciare alcune similitudini con le strategie delineate dal Governo italiano in relazione alla tipologia di attività richieste prima ai Poli e successivamente agli ITS. All’articolo 4 dell’Allegato A del DPCM dell’11 aprile 2008 – Linee guida per la costituzione degli Istituti tecnici superiori, pur con i vincoli legati alla inclusione del piano regionale con riferimento alle aree strategiche per lo sviluppo economico del Paese, si definisce una ampia gamma di attività che ciascun ITS potrà realiz- zare: – ricognizione dei fabbisogni formativi per lo sviluppo (...) delle imprese real- mente attive sul territorio con riferimento alle PMI e alle sedi della ricerca – progettazione e realizzazione di percorsi – accompagnamento al lavoro dei giovani specializzati – realizzazione di attività di aggiornamento destinate al personale docente – orientamento di giovani verso le professioni tecniche anche con il coinvolgi- mento delle loro famiglie – ulteriori attività che rispondano alle linee guida della programmazione regio- nale riferita alla specializzazione tecnica superiore. Già i Poli IFTS avevano messo in atto piani operativi di respiro pluriennale all’interno dei quali la progettazione degli interventi corsuali rappresentava solo una delle azioni da realizzare. La tipologia delle azioni che ciascun Polo è stato chiamato a svolgere è stata definita ed esplicitata già negli atti istitutivi dei Poli stessi. La strategia delle Regioni è stata infatti quella di promuovere sia la realizza- zione di azioni formative, sia azioni a supporto delle azioni formative stesse anche nell’ottica della valorizzazione dei network individuati, delle loro competenze e delle loro risorse. Nelle strategie perseguite, le attività corsuali, infatti, si intendono come la naturale conseguenza operativa delle iniziative di sistema e ne costitui- scono l’articolazione più evidente sul territorio. Tra le azioni di sistema più fre- quentemente promosse a livello regionale, si ritrovano, in modo trasversale rispetto alle diverse realtà territoriali, l’analisi dei fabbisogni professionali, la riflessione relativa ad altre filiere formative, azioni per l’animazione territoriale in relazione allo specifico settore di riferimento. Il sistema svedese ha però puntato alla ridefinizione dell’intero sistema op- tando per una scelta di riunificazione più generale che ha implicato anche la riorga- nizzazione del sistema delle competenze legislative. L’alta formazione professio- nale, infatti, è di competenza della Myndigheten for kvalificerad yrkesubtbildning, 147 una specifica Agenzia cui il Ministero competente ha delegato la competenza del- l’organizzazione dell’offerta. Nell’ambito dei compiti attribuiti, l’agenzia definisce le linee guida, l’approvazione dei piani dell’offerta di nuovi corsi, la distribuzione delle risorse finanziarie e il monitoraggio e la valutazione degli interventi formativi realizzati. L’agenzia partecipa alla formulazione dei programmi di sviluppo regio- nale relativi alla previsione a lungo termine del mercato del lavoro e delle qualifi- cazioni professionali. In questo senso, in accordo con i criteri di qualità stabiliti dall’agenzia, la definizione del piano dell’offerta formativa dovrebbe includere anche attività di analisi dei fabbisogni formativi propri del territorio regionale. La programmazione del volume dell’offerta e la tipologia dei corsi prende le mosse dall’analisi dei fabbisogni che indica una proiezione a breve periodo delle ne- cessità e delle evoluzioni che caratterizzano il mercato del lavoro. Le necessità del mercato del lavoro sono valutate dall’Agenzia svedese per l’Alta formazione profes- sionale sulla base di dati statistici, consultazioni dirette con le organizzazioni dato- riali e sulla base di studi e approfondimenti condotti dagli stessi provider formativi proponenti che devono dimostrare una reale necessità in relazione alla specifica figura o profilo professionale per cui si organizza l’intervento formativo. I corsi stessi, infatti possono essere istituiti ex novo, sospesi, modificati nei programmi e contenuti in relazione alle variazioni registrate nel mercato e sul territorio e sono soggetti a periodiche e regolari valutazioni che tengono conto anche dell’interesse dei datori di lavoro e della qualità degli interventi stessi. In caso di esito negativo, il corso può essere sospeso o escluso dal piano dell’offerta formativa nazionale. Gli enti erogatori possono essere molteplici e tra questi i più abituali sono gli istituti di istruzione secondaria superiore, le scuole post secondarie, gli enti per educazione per gli adulti delegati a gestione di Comuni e Specifici enti locali e nazionali. Gli interventi formativi devono obbligatoriamente essere frutto del lavoro di dialogo e cooperazione tra i soggetti formativi e imprese e sono finalizzati a su- perare la disparità di genere anche in contesti di tradizionale appannaggio maschile e a contrastare fenomeni di esclusione sociale favorendo la mobilità intergenerazio- nale. I programmi dei corsi sono studiati a partire dall’offerta formativa già esistente a livello terziario e dallo studio dei diversi contesti professionali. La decentralizzazione delle competenze dal Ministero alle agenzie costituisce un punto di forza per il sistema svedese sia per quel che riguarda la flessibilità del- l’offerta in relazione alle variazioni del mercato, sia in relazione alla efficacia e tempestività del monitoraggio e delle valutazioni. Lo stesso processo ha però sottolineato alcune linee d’ombra rispetto alla pre- cedente organizzazione del sistema dell’istruzione terziaria. Le singole istituzioni dell’istruzione risultano meno incentivate a distinguersi per un autonomo profilo prefigurando il pericolo di un processo di omologazione dell’intero sistema del- l’offerta. Inoltre, la crescente pressione della domanda di alta formazione (e il 148 crescente aumento del numero di iscritti, e diplomati) sta attualmente mettendo in moto un processo di revisione anche delle interpretazioni dei risultati monitorati tanto da implicare una maggiore attenzione alla qualità degli interventi e, in parti- colar modo, delle collaborazioni avviate con i referenti del mercato del lavoro che contribuiscono alla realizzazione dei percorsi. Scelte analoghe, anche se in un contesto differente, caratterizzato per la dualità del sistema sono state compiute in Finlandia, dove le Università sono gestite dallo Stato, mentre i Politecnici, pur operando sotto il controllo del Ministero dell’istru- zione, sono gestiti da Comuni, da Associazioni di Comuni o da Fondazioni. Nei Politecnici i partner esterni hanno un ruolo più forte nella gestione e nell’influenza diretta sul funzionamento complessivo della struttura. A differenza di quanto accade per le Università – che sono istituzioni con ampia autonomia decisionale ma prevalentemente finanziate da risorse statali – i Politecnici sono organismi municipali o di natura privata e sono finanziati da risorse erogate da organismi nazionali e locali. Il Parlamento finlandese promuove e promulga le politiche e gli atti di indi- rizzo in tema di politiche educative; a seguire, il processo legislativo che determina gli atti e le leggi relative all’Università e ai Politecnici seguono due distinti canali. Le decisioni concernenti i Politecnici infatti sono regolamentate da Atti specifici e disgiunti da quelli che regolano il funzionamento delle Università. Le principali linee guida e gli obiettivi dei due canali sono determinati in linea generale nel Piano di sviluppo per l’educazione e la ricerca, adottato dal Governo per un sessennio e rivisitato ogni quattro anni. La valutazione dei risultati in rela- zione agli obiettivi posti costituisce lo strumento prioritario del Governo stesso per prendere decisioni in materia, intervenire ed eventualmente modificare linee di indirizzo e le scelte istituzionali compiute in materia di politiche dell’istruzione e formazione di livello terziario. I Politecnici e le Università hanno il compito di mo- nitorare e implementare i loro stessi risultati. Il Consiglio per la Valutazione del- l’Istruzione Terziaria (Higher Education Evaluation Council) nel 1995 ha istituito un organo di governo che assiste tutti i soggetti operanti sul territorio (Università e Politecnici insieme) e il Ministero dell’educazione promuove la valutazione come processo e attività imprescindibile per ciascun soggetto. Con la politica del modello duale i diversi livelli di governo hanno cercato di promuovere la diversificazione dell’offerta cercando di stabilizzarla mediante la definizione della natura degli stessi soggetti eroganti. Il principio alla base delle scelte compiute incentiva il dialogo e la collaborazione tra le due filiere dell’istru- zione e formazione superiore. I Politecnici, istituti di riferimento per la formazione superiore non accade- mica, sono attivi su 80 località diverse ma riescono a coprire un territorio molto più vasto. Attualmente l’offerta dei Politecnici è articolata in modo che essi assicurino: – da un lato, l’erogazione diretta di formazione professionalizzante di alto livello come una gamba del sistema; 149 – dall’altro il consolidamento di una rete di servizi in grado di offrire azioni di supporto (orientamento, counselling, ecc.). Oltre alla funzione formativa, dunque, i Politecnici svolgono attività di ricerca- azione. L’obiettivo infatti è quello di costruire un network mediante il quale contra- stare tutti i fenomeni di esclusione sociale e i fenomeni di dispersione e abbandono dal sistema di istruzione terziaria e non ultimo quello di promuovere la qualità e il ruolo della ricerca e sviluppo a supporto delle politiche regionali e locali. I programmi sono di tipo specialistico e sono convalidati dal Ministero del- l’Educazione; ma i Politecnici sviluppano direttamente i loro curricula e hanno un buon margine di autonomia didattica. La struttura dei Politecnici è stata pensata perché essi diventino lo snodo al- l’interno delle diverse realtà regionali per supportare lo sviluppo e il lavoro comune di enti locali, comuni e comunità locali. È interessante ricordare che, nei primi anni, la natura dei Politecnici rimase piuttosto confusa soprattutto perché il dibattito sorto nello stesso periodo poneva in rilievo la posizione delle associazioni universitarie che manifestavano la preoc- cupazione in ordine al finanziamento di canali concorrenziali rispetto al versante accademico. L’istituzione dei Politecnici, fortemente promossa dal governo centrale, è stata frutto della volontà politica di procedere nella radicale riforma del sistema univer- sitario nazionale, tanto che questi sono nati dalla fusione di istituti specializzati che in precedenza si occupavano di formazione professionale. La trasformazione del sistema è avvenuta nell’arco di dieci anni e i primi Poli- tecnici hanno conseguito uno statuto definitivo nell’agosto del 1996. Gli ultimi nel- l’agosto del 2001. Tutti hanno acquisito uno statuto permanente con la legge appro- vata del 2003 che ha stabilito che tali strutture potessero impartire istruzione pro- fessionale di livello terziario strettamente connessa con il mondo del lavoro. Differente è il caso danese, dove l’impianto si caratterizza per un modello di governo imperniato su competenze nazionali. Rispetto alla scelta di dotarsi di organi interni al Ministero competente, con l’obiettivo di garantire una coesione interna rispetto alle scelte strategiche in materia di politiche educative che interessano l’istruzione superiore, sono state istituite cinque Commissioni settoriali con il compito di fornire consulenza e assi- stenza tecnica al Ministero: la Commissione Nazionale di consulenza per le scienze umanistiche, quella per l’educazione sanitaria, quella per le scienze natu- rali, quella per la consulenza tecnologica e quella per la consulenza per le scienze sociali. Ogni commissione è formata da dieci membri nominati dal Ministro. In Danimarca i corsi di tipo corto dell’istruzione superiore non universitaria, spesso derivati da corsi professionali di livello secondario, sono stati ampliati e regola- mentati durante gli anni ’90 e successivamente riformati nel 1997 per migliorarne la qualità. 150 Tale soluzione è particolarmente interessante ai fini di una comparazione con il sistema italiano. Si tenga infatti presente che a supporto del Comitato Nazionale – organo di governo nazionale del sistema IFTS – sono stati istituiti a livello centrale diversi sottogruppi di settore al cui interno sono rappresentati Ministeri, Regioni, Parti sociali datoriali e sindacali ed esperti di settore, al fine di definire le figure professionali per i corsi IFTS in relazione a specifici settori (ICT, servizi assicurativi finanziari, edilizia, ambiente e territorio, agricoltura, trasporti, turismo, nautica) declinandone le competenze, le attività professionali e i possibili percorsi di carriera a partire dalle regolamentazioni e dalla contrattualistica vigente. Il sistema di educazione superiore è finanziato dallo Stato danese, anche se gli istituti possono, in parte, autosovvenzionarsi offrendo corsi privati, consulenze e servizi. Gli altri istituti di educazione superiore, a livello universitario, conducono ricerche ed offrono corsi in aree quali ingegneria, scienze veterinarie, farmacologia, architettura, musica, arte e varie materie relative all’economia ed al commercio. Una prassi ancora diversa si rileva nell’ambito delle scelte compiute dal Governo olandese, quando, nel 1985, sono state approvate due importanti leggi: – la legge sull’istruzione universitaria finalizzata a migliorare l’efficienza del- l’amministrazione universitaria; – e la legge sull’istruzione superiore professionale che trasferisce l’istruzione superiore professionale dal settore dell’istruzione secondaria al settore del- l’istruzione superiore. Pur con un sistema imperniato anch’esso su competenze nazionali, l’espe- rienza olandese si configura particolarmente interessante perché, a seguito delle at- tività e competenze attribuite a ciascun istituto di istruzione superiore, sono state sviluppate dal basso formule di integrazione che hanno in qualche modo superato le indicazioni nazionali. Il sistema di istruzione superiore dei Paesi Bassi si confi- gura come un sistema unitario ma basato su un doppio binario formato da due di- stinti canali: il sistema di istruzione superiore comprende infatti l’istruzione univer- sitaria (WO Wetenschappelijk Onderwijs) e l’istruzione superiore professionale (HBO Hoger Beroepsonderwijs) che viene impartita nelle Hogescholen. L’offerta formativa degli istituti di HBO è strettamente collegata ai fabbisogni territoriali e alla domanda delle imprese, che viene monitorata costantemente. Gli istituti possono fornire anche servizi di supporto e trasferimento tecnologico a be- neficio delle imprese locali. Nella maggior parte dei corsi di istruzione superiore, lo sviluppo di competenze professionalizzanti e il ricorso a pratiche di apprendimento on the job è una parte importante della preparazione per il mercato del lavoro. Di conseguenza gli istituti hanno numerosi contatti con le imprese ed organizzazione nel loro ambito professionale. Nel settore di HBO il rapporto fra il mercato del lavoro ed i corsi è particolar- mente chiaro. Recentemente anche le Università si stanno ponendo sempre più 151 spesso la questione di avviare un dialogo sistematico con il mercato del lavoro ma complessivamente è possibile identificare politiche e azioni differenti che caratte- rizzano la filiera universitaria e la filiera delle Hogescholen. Nelle Hogescholen i bisogni del mercato di lavoro assumono particolare rilievo in quanto determinano la stessa esistenza o meno di uno o più interventi formativi. Per tale motivo le Hogescholen hanno consolidato rapporti molto stretti con i referenti del mercato del lavoro (associazioni di commercio, organizzazioni senza scopo di lucro, ecc.) e alcune di queste sono proprio emanazione o sono state fondate dalle stesse organiz- zazioni datoriali. I corsi realizzati nelle Hogescholen prevedono una parte di stage pari ad almeno un quarto del monte ore complessivo. Ovviamente tale collabora- zione ha implicazioni stringenti sia sui contenuti, sia sulla valutazione della qualità dei programmi. L’interesse nella programmazione e realizzazione dei corsi appare pariteticamente ripartito tra l’ente gestore e l’impresa o il gruppo di imprese affe- renti al settore di riferimento. Per formalizzare e regolare il rapporto vigente, a tale proposito è stato siglato anche un protocollo d’intesa (dicembre del 2005). 7. LA COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ DELLA FORMAZIONE SUPERIORE NON ACCADE- MICA Il posizionamento del sistema di formazione superiore non accademico soprat- tutto rispetto alle Università dipende dalla finalità che è assegnata loro e ricono- sciuta come tale. Gli ambiti settoriali definiti come professionalizzanti compaiono negli ordinamenti universitari relativamente tardi – nella seconda metà del XX se- colo – in modo più o meno parallelo all’incremento delle iscrizioni accademiche e alla massificazione della domanda di istruzione universitaria. In tutti i Paesi europei l’offerta di formazione superiore non accademica infatti si posiziona: – esternamente all’Università (scuole private, istituti universitari, ecc.); – nell’alveo dell’Università ma con una dignità e personalità giuridica autonoma (come per le IUT francesi); – esterna all’Università e a titolarità di altri settori di governo nazionale (come accade, ad esempio, per i percorsi afferenti al settore sanitario). Indipendentemente dal posizionamento all’interno del sistema, tutti i percorsi consentono l’acquisizione di diplomi nazionali (o forniscono la preparazione ne- cessaria a sostenere gli esami per conseguire il diploma). Nella tradizione del Regno Unito, tutto il percorso di formazione di tipo tecnico è regolato secondo mo- dalità condivise con le strutture formative del territorio da categorie professionali che certificano e rilasciano contestualmente il titolo. Ovviamente queste forme di collaborazione sono facilitate sia dall’esistenza e dall’applicazione di un sistema nazionale di qualifiche professionali già consolidato, sia dalla presenza di un sistema di valutazione e accreditamento della qualità dei percorsi ormai patrimonio 152 peculiare del sistema anglosassone. Nel sistema inglese infatti la validazione a livello nazionale degli interventi non implica un confronto con il sistema universi- tario perché si orienta direttamente al riconoscimento delle qualifiche professionali. Questa pratica è stata anche frutto delle trasformazioni dei Politecnici in Università (legge 1992) a vocazione più propriamente tecnologica ma accreditati per rilasciare titoli universitari di tipo bachelor e master e dunque le qualificazioni intermedie di tipo tecnico si sono trasformate in appannaggio per ordini e rami professionali. In Paesi in cui il sistema è più giovane, come in Canada, gli ambiti di intervento universitario e del sistema di formazione superiore non accademico si caratterizzano per una diversità sostanziale anche se non mancano articolazioni funzionali a favo- rire il passaggio tra un sistema e l’altro e l’eventuale prosecuzione degli studi. I com- munity college, ad esempio presentano una doppia offerta: di tipo corto, più orientata alla transizione al lavoro; di tipo più lungo, per permettere l’accesso al sistema acca- demico. Lo stesso meccanismo potrebbe costituire la motivazione alla scelta della via italiana che fa convivere percorsi a programmazione regionale di tipo corto (cui possono accedere anche persone prive del titolo di scuola secondaria superiore, della durata di 800-1000 ore) e percorsi nell’ambito degli ITS (cui possono accedere solo persone in possesso di diploma di scuola secondaria superiore – unico titolo di ac- cesso per l’Università – caratterizzati da una durata più lunga di 1800-2000 ore). Pur nell’indipendenza dei due settori dunque si rileva la scelta di una certa armonizzazione. Unico elemento di riflessione per la via italiana può essere rappre- sentato da: – la considerazione che sino ad oggi gli utenti che hanno effettivamente speso il credito nelle Università rappresenta il 5 per mille dell’utenza complessiva e che la costruzione del sistema dei crediti si basa su convenzioni proposte a livello locale tra la struttura formativa e l’Università presente nel partenariato; – la scelta di sei aree tecnologiche definite a livello centrale per cui si sta av- viando, come detto, una ricodificazione delle esperienze e dei settori interes- sati dai Poli già in essere; – le raccomandazioni del livello di governo centrale rispetto alla possibilità o meno di programmare percorsi in determinati ambiti settoriali (come il settore sociale sociosanitario, dipendente per l’appunto da Ministeri differenti da quello dell’istruzione). Indipendentemente dalle naturali difficoltà legate anche alla percezione degli utenti secondo cui risulterebbe più vantaggioso investire tre anni nel consegui- mento di un diploma di laurea e assicurasi la possibilità di una eventuale prosecu- zione degli studi e insieme un titolo leggibile e riconosciuto anche dal mercato del lavoro, rimane evidente che la formazione professionale di tipo non accademico è destinata ad assumere una funzione di perno nei processi di transizione al lavoro e facilitare meccanismi di partecipazione e inclusione rispetto al sistema più generale di formazione permanente e continua. Rispetto alle diverse attività svolte dalle 153 strutture che erogano formazione professionale superiore di tipo non accademico (soprattutto nel mondo anglosassone) rimangono in essere comunque tre questioni: – la specificità della formazione di tipo tecnica rispetto alla formazione di tipo accademico; – i meccanismi di accesso alla formazione superiore che determinano la qualità e il livello di contenuti e dell’approccio tecnologico perseguito; – il legame con la formazione continua nell’ottica di una possibile distinzione tra formazione al lavoro e formazione sul lavoro. Una delle difficoltà dell’affermarsi risiede proprio nella specificità della for- mazione erogata che ha puntato in primo luogo sul trasferimento di competenze più che sul rilascio di titoli. Tale scelta, perseguita scientemente dai livelli di governo anche nella storia italiana e che ha condotto alla strutturazione dei percorsi per unità di competenza, risulta non sempre di facile comunicazione e i dispositivi sinora adottati per la certificazione finale non hanno facilitato né la trasparenza del titolo, né la leggibilità delle stesse competenze apprese. Inoltre, rispetto alla specificità della formazione erogata, è necessario porre la questione anche in termini di prerequisiti e di contenuti trattati. I requisiti richiesti sono di rado definiti in relazione alla specificità delle sin- gole figure professionali per cui si programma il singolo intervento. Si parte per lo più da un livello supposto di acquisizione del contenuto all’interno dell’intero ciclo di istruzione. Non è un caso infatti che, anche in Italia, l’analisi delle competenze e la biografia professionale del candidato si attivi soltanto nel processo di accredita- mento in ingresso riservato ad adulti privi del diploma di scuola secondaria supe- riore e, lo stesso, non è un caso che tra i requisiti di accesso dei nuovi dispositivi introdotti dal DPCM si faccia riferimento alla certificazione e a titoli conseguiti nell’ambito del sistema scolastico/formativo. Eppure i contenuti di un insegnamento superiore di tipo tecnico dovrebbero di- pendere soprattutto dalle competenze richieste per un efficace inserimento profes- sionale. In una logica sequenziale, il ciclo superiore si appoggia sulle conoscenze acquisite durante il corso di studi secondari ma comporta, proprio perché orientato al trasferimento di competenze specifiche, un salto qualitativo, sia rispetto alle com- petenze stesse, sia rispetto alle modalità di agire le competenze stesse. E dunque non sempre si rileva un legame così forte tra il secondo ciclo e il segmento terziario. Le esperienze del panorama europeo (e internazionale in genere) testimoniano di alcuni caratteri peculiari a livello di sistema, tra cui: – la valorizzazione della diversificazione rispetto ai percorsi accademici e ri- spetto alle formule insite nel livello terziario non accademico stesso (mediante percorsi brevi e più lunghi funzionali alla prosecuzione degli studi); – la connessione tra il settore pubblico e privato e la loro complementarietà sia in termini di risorse finanziarie sia in termini di politiche di accreditamento delle stesse strutture formative; 154 – la sperimentazione di metodologie di apprendimento orientate al trasferimento delle competenze piuttosto che per facilitare i processi di transizione al lavoro. Generalmente i sistemi di formazione superiore non accademici formano tec- nici superiori in due o tre anni. La definizione di questo tipo di percorsi però non si esaurisce nella definizione di una durata comune. Le funzioni alle quali sono chia- mati i tecnici superiori sono molto specifiche e si analizzano in termini di compe- tenze di base, trasversali e tecnico professionali. Queste, di fatto, sono piuttosto dif- ferenziate e non implicano lo stesso numero di ore, né che ad una specifica compe- tenza debba essere assegnata necessariamente una quota dedicata delle ore di inse- gnamento. All’interno dei sistemi formativi (anche a livello nazionale) si assiste ad una eterogeneità significativa rispetto all’articolazione interna dei programmi, sia in termini di ore, sia in termini di metodi di insegnamento. I fenomeni macro che nei diversi Paesi hanno condotto, pur con differenti tem- pistiche, alla creazione di un sistema di formazione superiore a carattere professiona- lizzante sono assimilabili nelle diverse parti d’Europa e del mondo. In particolare, la creazione di un sistema di formazione superiore costituisce la risposta alla massifica- zione della domanda di formazione superiore e insieme ai meccanismi che determi- nano il tasso di successo o insuccesso dei percorsi accademici e alla necessità di so- stenere lo sviluppo nazionale attraverso la preparazione di forza lavoro qualificata. Rimane evidente la molteplicità di obiettivi affidata a questo segmento dell’istru- zione e formazione e alle aspettative piuttosto elevate che si intende perseguire. Una delle variabili imprescindibili per la costruzione di un’offerta a carattere professionalizzante è il forte ancoraggio ai fabbisogni professionali e formativi in modo da garantire interventi in grado di rispondere e anticipare le esigenze del sistema produttivo. Come noto, in Italia, tale obiettivo costituisce la premessa stessa del DPCM: (comma 2 - articolo 1 - capo I) allo scopo di contribuire alla diffusione della cultura tecnica e scientifica e sostenere, in modo sistematico, le misure per lo svi- luppo economico e la competitività del sistema produttivo italiano in linea con i parametri europei, la riorganizzazione di cui al comma 1 si realizza progressiva- mente, a partire dal triennio 2007/2009, in relazione ai seguenti obiettivi: a) rendere stabile e articolata l’offerta dei percorsi finalizzati a far conseguire una specializzazione tecnica superiore a giovani e adulti, in modo da corri- spondere organicamente alla richiesta di tecnici superiori, di diverso livello, con più specifiche conoscenze culturali coniugate con una formazione tecnica professionale approfondita e mirata, proveniente dal mondo del lavoro pub- blico e privato, con particolare riferimento alle piccole e medie imprese e ai settori interessati da innovazioni tecnologiche e dalla internazionalizzazione dei mercati; 155 b) rafforzare l’istruzione tecnica e professionale nell’ambito della filiera tecnica e scientifica attraverso la costituzione degli istituti tecnici superiori di cui alla legge 2 aprile 2007 n. 40 articolo 13, comma 2; c) rafforzare la collaborazione con il territorio, il mondo del lavoro, le sedi della ricerca scientifica e tecnologica, il sistema della formazione professionale nel- l’ambito dei poli tecnico-professionali di cui all’articolo 13, comma 2 della legge 40/07; d) promuovere l’orientamento dei giovani verso le professioni tecniche e le ini- ziative di informazione delle loro famiglie; e) sostenere l’aggiornamento e la formazione in servizio dei docenti di discipline scientifiche, tecnologiche e tecnico-professionali della scuola e della forma- zione professionale; f) sostenere le politiche attive del lavoro, soprattutto in relazione alla transizione dei giovani nel mondo del lavoro e promuovere organici raccordi con la for- mazione continua dei lavoratori nel quadro dell’apprendimento permanente per tutto il corso della vita. Le aree di intervento sono definite già nell’articolo 7 e poste come imprescin- dibili ai fini della erogazione dell’offerta nell’ambito degli ITS. Si tratta di sei aree segnalate come strategiche per lo sviluppo del Paese già in finanziaria e riprese dallo stesso Ministero dello Sviluppo Economico per consolidare progetti e inizia- tive a favore delle piccole e medie imprese per la sperimentazione di prototipi di prodotto e di processo.9 Si tratta in particolare di: – efficienza energetica; – mobilità sostenibile; – nuove tecnologie della vita; – nuove tecnologie per il made in Italy; – tecnologie innovative per i beni e le attività culturali; – tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Nonostante, come già accennato, queste aree costituiscano ancora un conteni- tore da definire in modo più puntuale in relazione alle figure di riferimento per gli IFTS e per gli ITS anche a seguito della riarticolazione in settori delle 6 aree tecno- logiche sulla base delle proposte del Comitato nazionale per l’IFTS e dei lavori dei Sottogruppi di settore, non sfugge che un primo elemento di discontinuità rispetto alla fase di programmazione annuale dei percorsi IFTS sia rappresentato proprio dal fatto che tale segmento, almeno quello garantito nell’ambito degli ITS, non riguardi tutti gli ambiti produttivi. L’obiettivo è piuttosto quello di valorizzare l’an- coraggio agli indirizzi già presenti all’interno degli Istituti Tecnici e Professionali chiamati a costituirsi come soggetti referenti delle fondazioni di partecipazione. 9 Cfr. www.sviluppoeconomico.gov.it 156 Ad oggi, per quanto riguarda lo studio dei progetti IFTS e dei Poli di settore, funzionale alla prosecuzione dei lavori, il MPI in seno al Comitato nazionale IFTS ha proposto: 1) di procedere ad un primo studio dei porgetti IFTS al fine di individuare insiemi di competenze e figure riconducibili alle sei aree strategiche secondo le seguenti fasi: ATTIVITÀ 1. Classificazione dei progetti per tipologia di programmazione (bando/Poli) e per tipologia di percorso (standard/Pilota) 2. Raggruppamento dei progetti per settore Per i progetti relativi alle figure professionali standard (bando/Poli) 1. Analisi dei profili professionali regionali in relazione alla descrizione della figura 2. Definizione dell’eventuale associazione con una delle 6 aree strategiche Per i progetti Pilota (bando/Poli) 1. Analisi dei titoli dei progetti, delle descrizioni delle figure e dei profili professionali regionali 2. Definizione dell’eventuale associazione con una delle 6 aree strategiche 1. Analisi di informazioni relative alla durata del percorso 2. Analisi delle competenze aggiuntive allo standard minimo nazionale 3. Analisi dell’articolazione del percorso formativo CONDUZIONE DELL’ATTIVITÀ Estrazione di dati dalla banca dati nazionale IFTS Confronto delle informazioni presenti in ciascun campo e ipotesi di congruenza con le descrizioni delle caratteristiche delle 6 aree strategiche Studio delle informazioni e delle caratteristiche presenti in ciascun progetto in relazione all’area strategica FASI Analisi ricognitiva e processo di associazione dei progetti IFTS alle 6 aree strategiche Studio analitico dei progetti SOTTOFASI Organizzazione dei progetti per tipologie Associazione dei progetti per aree strategiche Individuazione di insiemi di competenze e figure ricondu- cibili a 6 aree strategiche 157 2) l’analisi dei partenariati che lavorano sullo stesso settore secondo la seguente metodologia: La maggior parte dei Paesi che presentano un sistema di formazione superiore non accademico piuttosto consolidato, al momento di avviare una riforma si è ba- sata sulla valutazione preliminare della fattibilità del progetto stesso e su un’analisi approfondita delle necessità che ne determinavano i cambiamenti o l’ideazione. In particolare gli studi di fattibilità condotti hanno riguardato i possibili modelli, le criticità, i mezzi, gli strumenti e le possibili soluzioni da adottare e sono stati svolti facendo ricorso a commissioni ad hoc, costituite da esperti, le cui relazioni rese pubbliche hanno rappresentato una prima tappa per promuovere la riforma in atto. In Francia, il Ministero dell’Istruzione crea nel 1963 una commissione com- posta da esperti provenienti dal mondo dell’impresa, dell’Università, dell’ammini- strazione, la cui relazione permette, due anni più tardi, di lanciare una sperimenta- zione funzionale all’emissione del decreto che sancisce la nascita del nuovo canale delle IUT (gennaio 1966), e di garantire un seguito dell’esperienza anche grazie al lavoro di un Comitato di 35 esperti nazionali. In Messico, fin dagli anni ‘80, il Governo promuove un Programma di valuta- zione e di miglioramento dell’insegnamento superiore. Nel 1990, sulla base della relazione affidata ad un esperto internazionale, ma anche ispirandosi alle espe- rienze condotte in diversi Paesi, si iniziano ad istituire Università tecnologiche con un’implicazione politica ed amministrativa delle autorità ministeriali nella prepara- zione e la messa in atto del dispositivo. In Tunisia, il Governo ha istituito le ISET con un dispositivo di legge (18 maggio 1992) a seguito di uno studio preparatorio di oltre tre anni, condotto con il supporto della Banca Mondiale anche con l’obiettivo di elaborare un articolato quadro legislativo (1995). ATTIVITÀ 1. Confronto fra il settore indicato come settore del Polo, i percorsi IFTS e le altre attività condotte dal Polo 2. Individuazione delle tipologie di settori 3. Classificazione dei Poli secondo le tipologie individuate 1. Comparazione fra i settori delle reti CIPE e i settori individuati per i Poli 2. Individuazione di un sistema di classificazione comune 3. Classificazione di Poli e reti in base alle tipologie individuate 1. Organizzazione delle informazioni relative ai partenariati dei Poli e delle reti CIPE 2. Analisi e individuazione dei soggetti che insistono sullo stesso settore. FASE DI ANALISI Ricognizione dei settori indicati dai Poli Aggregazione dei Poli e delle reti del piano d’intervento CIPE/IFTS/Ricerca in relazione al settore di riferimento Individuazione dei partenariati che insistono su uno stesso settore 158 In Italia, dopo lo studio condotto da Butera10 e presentato nel 1998 dal Mini- stero dell’Istruzione, il segmento dell’istruzione è stato avviato perché introdotto da un dispositivo legislativo atipico come la legge finanziaria cui hanno fatto se- guito i regolamenti attuativi che fornissero un’interpretazione fattiva di quanto con- tenuto nella legge. La scelta di utilizzare canali normativi che superassero più velo- cemente le eventuali difficoltà gestionali non si è esaurita e si è ripetuta anche per la costituzione dei Poli tecnico-professionali e degli ITS, successivamente ratificata con decreti, accordi in conferenza unificata e linee guida successivamente concor- date. Per quanto riguarda gli ITS, poi, la riflessione in merito ai settori produttivi cui dovessero fare riferimento gli interventi è stata proposta a priori e solo ad oggi è stato avviato un processo di consultazione nazionale per declinare i contenuti, i settori e le figure di riferimento. D’altro canto, pur in presenza di piani di comunicazione massimamente inclu- sivi, anche negli altri Paesi si è assistito alla presenza di resistenze sia del versante accademico sia del versante del mercato del lavoro. Molte delle organizzazioni pro- fessionali e delle categorie di imprese hanno spesso valutato in modo tutt’altro che positivo la confusione potenziale delle strutture salariali e delle convenzioni corri- spondenti che regolano le relazioni con le organizzazioni di lavoratori dipendenti. In particolare, in assenza di un disegno compiuto, le stesse organizzazioni sindacali hanno a volte presentato alcune perplessità in relazione alla comparsa di canali for- mativi che rischiavano, da un lato, di limitare la verticalizzazione delle carriere – dal momento che competenze acquisite in formazione sono suscettibili di fare concorrenza a quelle che derivano dall’esperienza per operai qualificati – e, dal- l’altro, di aprire questioni rilevanti in termini di accordi contrattuali e salariali. Alcune perplessità, infine, sono state rilevate anche presso gli stessi utenti, come ad esempio in Francia. L’insegnamento superiore articolato in due anni è stato a lungo ritenuto meno attraente di un percorso triennale che però rilasciava titoli tradizionalmente più conosciuti. Questo aspetto è particolarmente significativo perché mette in evidenza: – l’assimilazione tra insegnamento superiore ed Università, in gran parte condi- visa nella percezione dei più, che rappresenta il freno più evidente alla diversi- ficazione della formazione terziaria; – lo scarso appeal esercitato dalla formazione a carattere professionalizzante e più in generale il declino del prestigio delle professioni tecniche; – la difficoltà nella promozione del canale della formazione nel suo complesso come valido competitor del sistema accademico. Da questo punto di vista, il ruolo dello Stato appare evidente soprattutto per la funzione che deve assumere nella socializzazione e condivisione degli obiettivi e di sostegno agli investimenti e in particolare sul piano politico. 10 Op. cit. 159 Rispetto alla questione della definizione degli indirizzi cui i sistemi di forma- zione superiore fanno riferimento, in Europa, gli interventi coprono per lo più tutti i settori produttivi con un orientamento particolare in direzione della sperimenta- zione delle applicazioni delle nuove tecnologie nei settori tradizionali. In Francia la definizione degli indirizzi si è affidata ad un comitato composto da esperti con il compito di condurre una riflessione in merito ai settori strategici sia rispetto all’apertura di nuovi canali di formazione superiore, sia in relazione alle esigenze del mercato del lavoro. Il decreto che sancisce la nascita delle IUT riporta le conclusioni elaborate concludendo che la formazione di figure di tecnico supe- riore può risultare valida per tutti i settori. Gli IFTS hanno rappresentato un laboratorio sperimentale importante al cui in- terno sono confluite le risultanze dei dibattiti in tema di sviluppo locale e in tema di approcci pedagogici innovativi. Il processo di integrazione per la prima volta, dopo la sperimentazione del Progetto ’92 nell’istruzione professionale di secondo livello, è stata normata legando indissolubilmente la gestione dell’intervento formativo alla costituzione di un partenariato composto almeno da quattro referenti della scuola, della formazione, dell’Università e del mondo del lavoro. In particolare, la connes- sione con esponenti del mercato del lavoro per perseguire il rafforzamento delle competenze e l’implementazione dell’occupabilità dei soggetti rappresenta oggi, pur con tutte le difficoltà gestionali legate alla molteplicità degli attori, un punto fermo da cui le strategie nazionali e locali in tema di istruzione e formazione supe- riore non prescindono e non possono più derogare. Lo stesso concetto di Polo formativo, collegato ad altre realtà di sviluppo locale quali i distretti formativi, i distretti industriali e altri interventi finalizzati al trasferimento tecnologico da e verso i sistemi formativi del territorio, in realtà, stavano già sperimentando tali indicazioni. Il disegno di riorganizzazione del sistema di formazione tecnica superiore e il prefigurato processo di costituzione degli ITS, ovviamente, raccolgono e portano avanti tale strategia. Il dispositivo normativo del DPCM include la valorizzazione delle Parti so- ciali. Pone particolare attenzione alle piccole e medie imprese e considera l’inclu- sione delle rappresentanze del mondo del lavoro insieme come fine e come stru- mento per consentire il trasferimento di competenze di alto livello in grado di so- stenere le giovani leve della forza lavoro e l’aggiornamento professionale e tecno- logico del tessuto già in essere. Eppure nel quadro normativo nazionale, così come nei suoi allegati che speci- ficano l’organizzazione e lo statuto delle costituende fondazioni di partecipazione, non è definito in alcun modo il ruolo che il mondo del lavoro debba assumere al- l’interno delle strutture, né tantomeno le modalità di partecipazione (in termini di risorse umane e finanziarie). Da questo punto di vista, nonostante i piani triennali precedenti l’avvio della organizzazione del sistema richiamino più volte il valore della concertazione e consultazione a livello regionale, non sono definite al mo- mento le modalità per sistematizzare e rendere proficuo tale rapporto. Allo stesso 160 modo sembra che nonostante siano fondamentali per il successo, l’impatto e le ri- cadute sul sistema, le Parti sociali non assumano alcun ruolo di tipo istituzionale se non quello meno formalizzato nell’ambito delle consultazioni. La definizione del ruolo e la sollecitazione alla responsabilità diretta (anche finanziaria) agli interventi è delegata al piano locale e si gioca sulle relazioni più o meno già avviate sul terri- torio durante la realizzazione di precedenti esperienze. Benché la stesura dei criteri per la candidatura degli ITS costituisca materia da affrontare all’interno dei piani territoriali regionali, le esperienze dei Poli hanno mostrato quanto, da un punto di vista strutturale, oggi non sia più possibile ripen- sare una formazione tecnica senza un’implicazione reale, sistematica e concreta delle imprese sia per quel che riguarda l’insegnamento, sia per quel che riguarda i contenuti, sia per quanto riguarda lo sviluppo della catena lunga della formazione settoriale (dalla formazione iniziale, alla formazione continua), sia per quanto ri- guarda la natura delle risorse finanziarie messe in campo anche per il trasferimento tecnologico. Le esperienze più riuscite (e si fa qui riferimento alle esperienze di Genova, a quelle lombarde, alle esperienze piemontesi, a quelle venete) testimo- niano che un sistematico dialogo con il versante produttivo si attua quando sussiste un’organizzazione consolidata, una definizione di compiti puntuale e rispondente alle diverse mission e competenze proprie di ciascun soggetto. Dal punto di vista della definizione delle strategie politiche di livello nazio- nale, il partenariato con le imprese risulta indispensabile per l’autorigenerazione del sistema dell’offerta stesso e per garantire l’evoluzione contestuale della forma- zione ai cambiamenti del tessuto economico. In questo senso, le indicazioni conte- nute nella produzione normativa nazionale hanno fatto leva sulla riflessione avve- nuta in seno al sistema italiano ma anche e soprattutto sulle esperienze già consoli- date e presenti in altri sistemi europei. In Francia le IUT hanno un ruolo rilevante nel sistema di istruzione post secondaria anche perché il sistema produttivo le con- sidera il miglior fornitore di competenze e forza lavoro ed è anche per questo che nel corso di 40 anni di esperienza ha scelto di sostenerle anche economicamente benché sia rimasto nei fatti un dispositivo a carattere pubblico ma capace di orga- nizzarsi in modo flessibile e competitivo. Lo stesso accade ad esempio in Canada all’interno delle CEGEP. Oggi è indispensabile inscrivere in un’altra logica quale quella di Paesi come la Germania o la Svizzera dove si è potuto sviluppare più velocemente ed è partico- larmente vero e importante che ci siano insegnamenti professionali di livello supe- riore di tipo corto. Gli insegnamenti superiori hanno effettivamente bisogno di: – stage lunghi ed efficaci per gli studenti; – insegnanti che abbiano una reale esperienza professionale; – una evoluzione continua dei curricula perché si adattino a bisogni in costante diversificazione; – finanziamenti appropriati e dedicati per gli investimenti e il loro sviluppo. 161 Si tratta di un lavoro di lungo termine che presuppone delle abitudini alla riflessione congiunta ed un buon livello di interazione e familiarità reciproca. Per quel che riguarda il livello territoriale, il DPCM presenta lo statuto e il mo- dello organizzativo delle fondazioni di partecipazione. Benché sia ben esplicitata sia la composizione dell’organo esecutivo e la necessità di un comitato tecnico scientifico che supervisioni la specificità delle esperienze, il grado di parteci- pazione, il ruolo e le modalità di interazione tra i partner sono lasciati alle scelte attuate all’interno di singole esperienze con il rischio che, lì ove si assiste ad una debolezza dei legami in atto, non si riesca ad attuare su base spontanea una rela- zione proficua e a valore aggiunto. Benché l’intera riorganizzazione del sistema sarà ultimata nel momento in cui saranno sottoscritti e assunti regolamenti attuativi e linee guida da approvare in sede di Conferenza Unificata, a livello di regia regionale, costituisce un punto di attenzione rilevante la definizione di un sistema basato sulla esplicitazione di alcuni elementi utili al fine di sostenere e promuovere la creazione di una relazione forte con il mondo produttivo. In particolare, una relazione proficua si stabilisce nel momento in cui si con- corre alla costituzione di un partenariato in grado di generare vantaggi reciproci. Non si tratta, dunque, di superare le resistenze legate all’apertura del versante del- l’istruzione e della formazione verso il versante produttivo (e viceversa) ma di indi- viduare il piano dello scambio anche a livello di singola impresa, impresa che nella maggior parte nel nostro Paese ha dimensioni ridotte, con una scarsa possibilità di investire in ricerca e sviluppo e che spesso sconta una difficoltà di progettare nel medio e lungo periodo. Sul piano nazionale, e ciò avviene soprattutto in seno al Comitato Nazionale, le Parti sociali datoriali e sindacali possono trovare un loro spazio per poter avan- zare proposte anche in vista di prospettive economiche e tecnologiche. Lo stesso però non avviene sempre a livello di programmazione regionale soprattutto lì ove il funzionamento dei Comitati Regionali non presenta tratti siste- matici. Questo rappresenta una sorta di contraddizione in termini proprio perché a livello territoriale (municipio, dipartimento), i vantaggi reciproci in termini di opportunità di formazione, di occupazione e di politiche salariali sono più diretta- mente identificabili. Appare dunque evidente che il partenariato dovrà essere supportato anche mediante la definizione di un quadro istituzionale tale da poter permettere una reale rappresentanza di tutte le istanze chiamate a concorrere – anche ex lege – al suc- cesso dell’intervento. Non è secondario infatti il fatto che la definizione di ruoli e funzioni concorra alla individuazione di una responsabilità diretta nella progetta- zione, nella collaborazione sul piano didattico e nelle forme di accompagnamento al lavoro. La definizione di ruoli e funzioni, inoltre, contribuisce a esplicitare il peso di ciascun soggetto nella negoziazione ad esempio, rispetto ai contenuti o rispetto alla declinazione della figura professionale sulla base di esigenze locali, evitando 162 insieme uno scollamento e uno schiacciamento provocato spesso dalla emergenza o dalla contingenza di alcune riflessioni. In ambito europeo, le pratiche relative all’integrazione con il mondo imprendi- toriale si esplicitano secondo tre modalità: – la prima, definita nella letteratura come liberale, si rintraccia nel Regno Unito. L’organizzazione della formazione è frutto del negoziato tra organismi patro- nali, sindacati e strutture formative. I contenuti degli interventi non sono defi- niti a priori ma determinati anche dalle esigenze rilevate presso le imprese in un’ottica di breve e medio periodo. Le strutture formative stesse hanno una natura giuridica che ne sancisce l’autonomia gestionale e il finanziamento è generalmente garantito dai beneficiari finali dell’intervento stesso (imprese). In questo caso il sistema è soggetto a controlli specifici e deve rispondere alle valutazioni condotte in merito alla qualità del sistema solo se rilascia conte- stualmente titoli o diplomi che rientrano nel sistema nazionale delle qualifiche. – Nel secondo caso, si ritrovano tutti i sistemi Paese organizzati secondo un mo- dello centralizzato (come la Francia) dove è il livello di governo centrale che definisce l’organizzazione della formazione e determina i contenuti in collabo- razione con le parti sociali. L’insegnamento è erogato in strutture afferenti all’alveo del Ministero dell’Istruzione e il finanziamento è garantito in modo sistematico dallo Stato che chiede alle imprese di partecipare ai costi mediante un sistema di contributi gestiti a livello centrale. – Il terzo è rappresentato dal modello duale (Germania, Austria, ecc.). L’impianto generale è definito in collaborazione con organismi datoriali di livello nazio- nale. I contenuti sono individuati in modo congiunto da imprese, sindacati, rap- presentanti dei livelli di governo regionali e delle strutture formative. Nel com- plesso è caratterizzato dal ricorso a formule di alternanza scuola lavoro e le im- prese contribuiscono al finanziamento mediante un sistema di deduzione fiscale per una buona parte della formazione erogata. Le attività formative d’aula, al contrario, sono finanziate per lo più a valere su risorse statali e gli studenti percepiscono una retribuzione stabilita secondo i termini contrattuali nazionali. In Canada, i programmi delle CGEP e dei community college sono oggetto di studio all’interno dei comitati consultivi dove trovano una rappresentanza e una sede di confronto tutti gli attori della filiera. In modo analogo, in Francia, il conte- nuto dei programmi nazionali delle IUT è stabilito dalle commissioni pedagogiche nazionali che esprimono anche il loro parere sulla possibile apertura di nuovi indi- rizzi. In Messico, i programmi sono determinati dal lavoro delle commissioni nazionali accademiche, che si riuniscono tre o quattro volte in un anno per garan- tirne l’aggiornamento e la validazione, e dal lavoro delle commissioni di pertinenza a livello locale che individuano contenuti specifici in relazione alle esigenze del singolo territorio. Sia a livello nazionale, sia a livello locale le commissioni accol- gono al loro interno rappresentanze delle imprese. 163 Gli stessi dispositivi normativi, nella maggior parte dei Paesi e anche in Italia, fanno esplicito riferimento alla flessibilità di cui deve dotarsi il sistema. Benché questa sarà sempre insufficiente rispetto alla necessità di breve periodo delle im- prese, rappresenta un elemento importante di caratterizzazione del sistema soprat- tutto in relazione: – alla necessità di sviluppare soluzioni e modelli che sappiano valorizzare una formazione specificamente settoriale ma a diversi livelli (dalla formazione ini- ziale a quella continua) e contemporaneamente orientata a integrare la forma- zione per il lavoro con la formazione continua; – alla sperimentazione di nuovi approcci didattici che sappiano valorizzare le esperienze maturate e gli stili di insegnamento anche in direzione di una diffe- rente organizzazione dell’aula e in direzione di una più specifica attenzione alle esigenze della costruzione di percorsi professionali di adulti occupati e non occupati. Il partenariato da questo punto di vista può rappresentare una risorsa impor- tante per sperimentare forme di flessibilità difficilmente applicabili in altri contesti formativi. Solo in questa ottica è possibile comprendere appieno l’esistenza conte- stuale di percorsi IFTS a programmazione regionale e l’esistenza di percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore realizzati all’interno degli ITS. La diver- sificazione delle opportunità formative rappresenta un terreno che, per restituire un valore aggiunto nella riorganizzazione del sistema, dovrà essere soggetto ad una valutazione rigorosa delle scelte compiute in questo frangente. Benché nel DPCM si faccia esplicito riferimento al fatto che sia il diploma di tecnico superiore, sia il certificato di specializzazione tecnica superiore siano titoli validi a livello nazionale e costituiscano titoli per l’ammissione ai concorsi pubblici (a seguito del parere favorevole della Funzione Pubblica) di fatto, non si ha ancora una corrispondenza diretta in termini di definizione di percorsi di carriera. Se, da un lato, si è arrivati alla definizione di uno standard di qualificazione anche rispetto alla declinazione delle competenze, di fatto, risulta appena ancora agli inizi una riflessione in termini di ricadute sui meccanismi di inquadramento contrattuale. Lo stesso avviene un po’ ovunque nel resto dei Paesi anche se, in Francia ad esempio, i diplomi delle IUT hanno acquisito un riconoscimento e una visibilità tale da essere identificabili e distintivi rispetto al BTS con impatti più che positivi in termini di esiti occupazionali. In Cile, al contrario, l’assenza di un quadro supportato a livello nazionale e la completa de-regolazione del sistema di provider autorizzati a rilasciare i diplomi CFT ha condotto ad una scarsa riconoscibilità e affidabilità del titolo stesso pena- lizzando sia gli studenti, sia il sistema stesso. Al momento, il partenariato si configura come luogo privilegiato all’interno del quale, in assenza di un quadro nazionale delle qualifiche e di standard univoci sul territorio nazionale può maturare una riflessione relativamente al valore del titolo. 164 Sul piano nazionale, le esperienze condotte in questi ultimi anni hanno mostrato come la forma di integrazione più immediata si realizzi proprio a livello locale e si sia declinata per lo più attraverso: – la partecipazione degli esponenti del mondo produttivo all’insegnamento; – la partecipazione alla pianificazione e realizzazione degli stage. In Germania ad esempio, le forme di tale collaborazione si estendono sistema- ticamente sino alla costruzione comune di un percorso di alternanza come nell’am- bito dei contratti di apprendistato alto. Se la contaminazione degli stili di insegnamento è ormai ritenuta una risorsa importante per gli stessi utenti, è vero che ancora si scontano molte difficoltà per quel che attiene il coordinamento di tutti gli interventi e la preparazione dell’inter- vento stesso in quanto è indubbio che questa fase rappresenti un carico ulteriore per l’impresa o per il professionista e presuppone una divisione sottile delle responsa- bilità pedagogiche. In particolare, molto è ancora da fare rispetto alla valutazione degli apprendimenti per cui il sistema si è dotato di linee di indirizzo generali (alle- gato alle linee guida della CU marzo 2000). La esperienza di stage nel sistema italiano si configura come a cura e a carico del partenariato. In altre esperienze internazionali l’organizzazione dello stage può: – essere lasciata all’iniziativa dello studente, senza implicazione da parte della struttura formativa; – essere oggetto di una concertazione preliminare tra la struttura formativa e l’impresa. In questo caso la gestione e la valutazione dovrebbe essere con- giunta. Ad ogni modo tutti i sistemi di istruzione e formazione tecnica superiore di tipo corto prevedono la realizzazione di uno stage in quanto è considerato lo stru- mento attraverso cui facilitare i processi di transizione dalla formazione al lavoro. Nel quadro dei dispositivi internazionali il periodo di stage costituisce una parte istituzionale del percorso. L’Italia non fa eccezioni, destinando obbligatoriamente il 30% del monte ore allo stage, sia all’interno degli ITS, sia all’interno dei percorsi IFTS programmati dalle Regioni. Se l’obiettivo generale è quasi sempre lo stesso, ovvero mettere lo studente in situazione, gli impatti sul sistema dell’offerta nelle esperienze già realizzate nell’ambito degli IFTS sono stati diversi in relazione al livello di reale coinvolgimento delle imprese nella fase di programmazione e organizzazione delle esperienze. In Canada ed in Francia, si tratta di esperienze consolidate e la presenza dello stage nel percorso costituisce uno dei punti forti del sistema. Nel tempo ciascuna IUT ha sviluppato legami forti con le imprese che hanno permesso, successi- vamente, di lavorare in modo più articolato rispetto ai ruoli ritagliati nel singolo partenariato. Ad esempio, in Francia molte IUT hanno potuto sviluppare linee di 165 lavoro congiunto per l’analisi dei diversi settori produttivi al termine del quale sono state poi sottoscritte convenzioni specifiche con imprese interessate ad acquistare materiali e macchinari innovativi che sono stati a loro volta messi a disposizione per l’apprendimento. Le ISET in Tunisia, benché si muovano su un tessuto econo- mico più debole e dunque abbiano rilevato alcune difficoltà nello stabilire un rap- porto sistematico con le imprese, hanno avuto modo di sviluppare vivai di imprese mediante forme associative che facessero riferimento alla stessa struttura forma- tiva. In Corea l’organizzazione dei tirocini restituisce alla struttura formativa il finanziamento delle imprese private che beneficiano delle competenze degli sta- giaire. In Messico, nonostante si tratti ancora di esperienze sporadiche, sono state sviluppate forme di collaborazione con aziende multinazionali. 8. LE QUESTIONI CONNESSE ALLA DEFINIZIONE DELLE CARATTERISTICHE DELL’OF- FERTA Nei sistemi per cui il livello nazionale dipende da un ordinamento nazionale e da una valutazione del livello centrale i volumi orari, il carico orario degli insegna- menti, la loro ripartizione, l’obbligatorietà del periodo di stage, la durata comples- siva degli studi e le modalità di verifica degli apprendimenti e le modalità di rila- scio del titolo sono fissati all’interno di atti che rappresentano un vincolo impre- scindibile per ciascuna struttura formativa. È questo il caso anche dell’Italia che vede nella definizione degli standard for- mativi contenuti nel DPCM una articolazione puntuale sia rispetto ai percorsi IFTS programmati a livello regionale, sia rispetto agli interventi realizzati all’interno degli ITS. È in tutti i casi analoghi a livello europeo che si può parlare di diplomi (o comunque titoli) validi a livello nazionale, elemento questo che rappresenta uno strumento importante per poter concorrere con i titoli di livello differente (primo tra tutti quello accademico) e per accrescere la credibilità e la visibilità anche presso le imprese. Per quel che riguarda i contenuti specifici della formazione, sembra che i Paesi europei siano accomunati dal fatto che l’impianto nazionale lasci una parte non trascurabile all’iniziativa locale. Molti esempi testimoniano che una quota pari al 75% è dedicata alla programmazione nazionale e un ulteriore 25% è dedicata alla possibilità di declinare i contenuti in base alle esigenze locali (come ad esempio in Francia). La qualità della programmazione didattica si attua anche a livello locale soprattutto lì ove si rileva una funzione territoriale che funga da coordinatore in grado di promuovere la coesione dello staff docente attorno agli obiettivi di fine corso, di reperire il know how anche all’esterno del network formativo, di equi- librare i programmi di insegnamento e di mantenere le relazioni con le imprese par- 166 tecipanti. L’esperienza – anche italiana – mostra quanto questo rappresenti una fun- zione fondamentale che differisce in modo sostanziale dalla direzione del singolo corso o dalla direzione dell’istituto (vecchio e nuovo) ma si attua sul piano didattico con riflessi sul versante della progettazione e organizzativo. Da qui, la motivazione a costituire in rete gruppi di supporto agli esistenti comitati di progetto o alla direzione del corso. Nell’esperienza italiana tale pratica si è realizzata all’in- terno di ciascun provider chiamato a realizzare percorsi IFTS, con esiti molto diffe- renziati e legati allo spessore professionale della singola persona. In altri Paesi, il lavoro del singolo si avvale del supporto di reti che si presentano più strutturate e di collegamento tra un istituto e l’altro. In Francia, ad esempio, le assemblee dei capi dipartimento delle IUT hanno una funzione importante riguardo alla coesione, all’omogeneità delle scelte compiute rispetto alle indicazioni nazionali. Organizza- zioni simili si rilevano anche in Canada, in Messico e in Inghilterra. Le reti in questo senso assicurano, da un lato, l’autonomia di mettere in atto la capacità di programmazione e, dall’altro, la assicurazione di un elevato standard di qualità me- diante il controllo e la validazione nei confronti del livello nazionale. Per l’Italia, benché i settori come detto siano stati definiti (e limitati) a livello nazionale, il tentativo è quello di ragionare in termini di competenze previste in esito al percorso per le figure individuate anch’esse a livello nazionale. L’indicazione ge- nerale si assesta sulla definizione di standard minimi in esito al percorso, standard che possono essere implementati a discrezione dei provider e/o delle amministra- zioni regionali quando chiamate a supportare o a validare i progetti stessi e l’unica limitazione è costituita dalla durata dei percorsi. La natura e il livello delle compe- tenze in esito ai percorsi (soprattutto per quel che riguarda le competenze individuate come di base ovvero quelle connesse all’utilizzo della lingua inglese e delle tecno- logie informatiche) ha orientato le selezioni in direzione di un’utenza già formata, o ha implicato lo schiacciamento dei percorsi sui soli standard di competenza previsti a livello nazionale per mantenere una durata rispondente alle indicazioni nazionali. In questo senso i risultati, tuttora al vaglio, della sperimentazione dell’applica- zione degli standard di competenza assumono un peso fondamentale per la manu- tenzione dell’intero impianto contenutistico dei percorsi. La riorganizzazione italiana del sistema di istruzione e formazione tecnica superiore prevede per gli interventi realizzati nell’ambito degli ITS una durata complessiva di 4 semestri; dalle 1.800 alle 2.000 ore, mentre per gli IFTS una du- rata più breve compresa tra le 800 e le 1.000 ore. Ciò accomuna la scelta italiana al resto dell’Europa, dove i percorsi superiori non accademici prevedono una durata mediamente pari a 2000 ore (si va dalle 1800 ore per i percorsi ad indirizzo industriale delle IUT francesi fino alle 3000 ore circa per le Università tecnologiche messicane). Ad ogni modo, la durata degli studi si articola per lo più su due anni, scelta questa che determina un carico orario settima- nale piuttosto pesante (pari circa a 30 ore) a volte più importante di quello previsto all’interno degli stessi percorsi universitari. 167 Rispetto alla natura dei contenuti erogati, infatti è necessario tenere presente che la tripartizione in competenze di base, trasversali e tecnico professionali per- seguite mediante una molteplicità di metodologie didattiche che vanno dalla le- zione frontale, all’utilizzo delle tecnologie per la formazione a distanza, al ricorso dello stage, accomuna i percorsi italiani a quelli del resto dell’Europa, dove i con- tenuti sono trattati per lo più mediante lezioni frontali (discipline fondamentali generali o tecnologiche); attraverso pratiche laboratoriali, esercizi, ecc. e la speri- mentazione delle competenze apprese in un contesto protetto (stage, project work, ecc.). La valutazione degli apprendimenti e più in generale la ricognizione relativa al successo dell’intervento formativo nelle sue diverse componenti (aula, lavoro indi- viduale e stage) rappresenta un punto importante in ogni sistema sia ai fini della certificazione del titolo di uscita, sia in relazione all’acquisizione di una credibilità spendibile a livello di sistema presso le stesse imprese. La normativa prodotta a livello nazionale non supera né abroga quella prece- dentemente prodotta per il sistema degli IFTS e, rispetto alla valutazione finale funzionale al rilascio del titolo ad opera di una commissione presieduta della Re- gione e partecipata dai referenti di ciascun partner del progetto, rimane valido quanto esplicitato nei documenti approvati in Conferenza Unificata. La valutazione finale si esplica attraverso tre prove: una prova specifica che testi le conoscenze ap- prese in aula, una prova che permetta di valutare la capacità di agire la competenza appresa (prova questa che può essere costruita anche in collaborazione con l’a- zienda presso cui si è realizzato lo stage) e il colloquio di fine corso. Benché le in- dicazioni risultano per molti versi piuttosto specifiche la normativa non fornisce in- dicazioni in merito alla metodologia per la costruzione delle prove, fatto questo che dovrebbe essere superato dal lavoro a livello regionale della definizione di criteri per la composizione delle commissioni di valutazione finale e per lo svolgimento dei loro lavori. Tale aspetto risulta nodale anche nell’ambito di azioni di sensibiliz- zazione e comunicazione verso il territorio per sostenere la credibilità del titolo ri- lasciato in relazione alla trasparenza e ai meccanismi di certificazione da e verso il mercato del lavoro. Come detto, molte delle caratteristiche dei percorsi IFTS sono state riprese e valorizzate anche nella definizione degli standard formativi dei percorsi previsti dalla riorganizzazione del sistema (IFTS a programmazione regionale e percorsi realizzati nell’ambito degli ITS). Rispetto al corpo docente, si ripropone che una quota, non inferiore al 50%, sia espressione del mondo delle professioni o provenga direttamente dalle imprese. Sino ad oggi è stato rilevato che la maggior parte dei docenti che potessero rappre- sentare il mondo del lavoro coincideva per lo più con liberi professionisti e consu- lenti che avevano maggiore facilità nella gestione del carico di lavoro presupposto dalle ore di insegnamento a scapito di dirigenti, quadri e impiegati chiamati a parte- cipare allo svolgimento dei programmi didattici. Il carico di docenza infatti do- 168 vrebbe essere assegnato a individui che abbiano maturato una sufficiente espe- rienza anche rispetto ai possibili margini di attività della figura di riferimento dei corsi stessi. La contrattualizzazione di professionisti, tecnicamente validi, e impe- gnati sullo svolgimento di parti di programma ad alto contenuto specialistico pre- suppone che siano state precedentemente strette relazioni significative sia con le imprese, sia con il bacino dei consulenti aziendali. La questione relativa al corpo docente in realtà è molto più ampia e, in assenza di criteri chiari per la candidatura e selezione degli insegnanti, rischia di rimanere un elemento di cui non si riesce a sfruttare appieno la potenzialità in termini di di- versificazione degli approcci di insegnamento e tipologia di competenze. Allo stato attuale, solo alcune esperienze realizzate all’interno dei Poli IFTS hanno affrontato tale aspetto in modo specifico nell’ambito delle azioni di sistema a supporto delle attività più propriamente formative. In particolare gli attori del Polo ICT Wireless in Piemonte hanno messo a punto una metodologia finalizzata alla selezione dei docenti IFTS (indipendentemente dall’ambito di provenienza – scuola, formazione professionale, Università, impresa) che, attraverso la costru- zione di una matrice a più variabili, consentisse la selezione e l’attribuzione di un carico di docenza in relazione alle specifiche competenze da curare in aula. In Lombardia, gli attori del Polo grafico, nell’ottica della costruzione di un servizio allargato anche alle imprese partner del progetto, hanno costruito un albo di esperti del settore sia per poter avere un panorama più ampio dei professionisti cui chie- dere interventi di docenza, sia per poter offrire un servizio alle imprese interessate a usufruire di interventi consulenziali per lo svolgimento delle loro attività produt- tive. Benché tali esperienze presentino caratteri che facilitano la trasferibilità delle pratiche realizzate, di fatto, rimangono al momento casi isolati anche all’interno della stessa Regione perché determinate e costruite a partire proprio dalla peculia- rità delle relazioni con le imprese. Rispetto alle caratteristiche e alle competenze richieste al corpo docente in un percorso di tipo tecnico di alto livello è bene ricordare che a questi si richie- dono: – competenze disciplinari di livello tale da conoscere lo stato attuale, le sfide poste in essere dalle trasformazioni tecniche e tecnologiche, gli eventuali di- battiti in corso e soprattutto che sappia situare la disciplina rispetto agli altri campi della conoscenza. – Competenze tecnologiche tali da poter affrontare le relazioni esistenti con l’e- voluzione del tessuto economico e tali da poter trasferire competenze speci- fiche anche quando queste sono poste in relazione o trasversalmente ad altre discipline. – Competenze didattiche e pedagogiche tali da poter diversificare le metodologie didattiche in aula favorendo l’apprendimento attivo degli utenti e tali da poter sfruttare appieno le potenzialità connesse agli strumenti di formazione in pre- senza e a distanza. 169 Una lettura di quanto avviene in quei Paesi dove il segmento dell’istruzione e formazione tecnica superiore presenta numeri significativi evidenzia una eteroge- neità di scelte e pratiche. Il panorama è vasto e parte da situazioni in cui non si rileva una specifica pre- parazione dei docenti impegnati in questo tipo di percorsi, al caso delle ISET tuni- sine per cui si preparano gli insegnanti tecnologici. Si tratta cioè di insegnanti spe- cificamente preparati ad insegnare nel settore terziario che beneficiano di una con- trattualizzazione e di formazione specifica. Su questo versante però il panorama è talmente variegato che piuttosto che ra- gionare sulle competenze del singolo docente rimane, ancora, più facile affrontare le questioni relative al profilo del corpo docente articolato in: – insegnanti a tempo pieno che lavorano nell’insegnamento secondario che sarebbero chiamati a partecipare a moduli complementari di approfondimento in tecnologia e di formazione sui processi e prodotti delle imprese attive nel comparto produttivo specifico. – Docenti universitari delle discipline interessate chiamati a garantire un legame forte con gli aspetti più tecnici delle attività di ricerca. – Quadri e tecnici attivi nelle imprese afferenti al settore interessato dall’inter- vento chiamati a garantire un legame forte con le imprese. Un esempio della composizione del corpo docente secondo i macro profili descritti si trova nelle IUT francesi. Al momento della loro costituzione, alla fine degli anni ’60, si raccomandava che il gruppo dei docenti fosse composto almeno per un terzo di ciascun profilo indicato. Nel corso del tempo, nonostante sia rimasta forte l’esigenza di ricorrere a personale proveniente dal mondo delle imprese, le proporzioni generali si sono modificate e sono molto eterogenee tra una IUT e l’altra. Le ragioni di tale cambiamento sono da rintracciare nella disponibilità richiesta alle imprese senza poter usufruire di incentivi diretti, nel costo e nella pos- sibilità di far leva su interventi di formazione formatori che garantissero l’aggior- namento permanente in discipline ad alto contenuto scientifico e soggette a rapido invecchiamento. Ad ogni modo, guardando alle soluzioni adottate, sembra che quella di creare un corpo docente attingendo ai diversi versanti della scuola, dell’Università e del mondo delle professioni sia quella più frequentemente perseguita. La questione essenziale diventa dunque riuscire a valutare se e quanto i professionisti cui si ricorre siano effettivamente aperti e aggiornati rispetto ai temi da trattare in aula e da questo punto di vista non esiste ancora una prassi o una metodologia univoca e trasferibile. La diversa provenienza degli insegnanti può rappresentare una buona solu- zione quando supportata da un buon coordinamento didattico, ma presenta debo- lezze soprattutto legate ai carichi abituali di lavoro e al conseguente costo della docenza. 170 In Tunisia, la creazione di uno specifico corpo docente è stato uno degli ele- menti fondamentali per la costruzione delle ISET anche se i rischi di derivazione accademica e la natura delle progressioni di carriera non sono facilmente valutabili in quanto il sistema si presenta ancora troppo giovane per una valutazione più approfondita. Al di là della riflessione sui rischi rilevati rispetto alla costituzione di un corpo docente specificamente dedicato, per garantire un efficace trasferimento delle com- petenze in aula, da più parti (soprattutto sul versante delle Parti sociali sindacali) si rileva la necessità di procedere nella rielaborazione di uno statuto dei docenti impe- gnati nel segmento dell’istruzione e formazione tecnica superiore, tale da indivi- duare un giusto criterio di retribuzione (indipendente dai vincoli imposti dalle sole regole di rendicontazione del fondo sociale europeo come avvenuto sino ad oggi nelle esperienze italiane) che restituisca una dignità pari a quella dei quadri e dei tecnici che si intende preparare, che debba essere oggetto di una valutazione pun- tuale rispetto al ruolo professionale in essere e che permetta un aggiornamento con- tinuo rispetto alle innovazioni tecnologiche e di macro economia tali da consentire il trasferimento di competenze sempre competitive sul mercato. 9. LE QUESTIONI CONNESSE ALLA VALUTAZIONE DEL SISTEMA I livelli di valutazione di un sistema di formazione superiore di tipo non acca- demico sono numerosi perché correlati alla molteplicità di obiettivi e aspettative attribuite alla strutturazione del sistema dell’offerta formativa. Sul piano istituzionale, gli ambiti della valutazione potrebbero riguardare tanto il valore aggiunto rispetto allo sviluppo economico del territorio, quanto la capacità del sistema di produrre trasferimento tecnologico e servizi al tessuto produttivo anche in termini di forza lavoro in possesso di competenze tecnologicamente avan- zate e tali da poter essere inserite in processi produttivi innovativi e competitivi. In relazione alle dichiarazioni a monte dell’istituzione dei nuovi canali forma- tivi, altro versante della valutazione dovrebbe riguardare l’incremento della qualifi- cazione post secondaria di giovani e adulti e il conseguente incremento degli aspetti che determinano l’occupabilità del singolo anche in una logica di mobilità territoriale (nazionale e internazionale). Infine, la valutazione potrebbe riguardare la capacità degli interventi di aver sviluppato network funzionali al radicamento e diffusione di una cultura scientifica e tecnologica anche nell’ottica dello sviluppo di progetti concorrenziali sul mercato e in una logica di aggiornamento permanente e continua. Di fatto, la valutazione, al netto delle variabili di macro economia e al netto di reti e meccanismi già in essere presso i territori, si presenta come impraticabile a livello nazionale. Inoltre, il livello concorrente delle competenze di governo tra livello centrale e livello regionale non contribuisce a determinare una metodologia 171 uniforme di monitoraggio e valutazione dei fenomeni connessi all’istituzione di un canale di formazione superiore di tipo non accademico. Il monitoraggio e la valutazione compete alle singole amministrazioni regionali che determinano autonomamente e in modo difforme tra un territorio e l’altro sia la metodologia, sia gli obiettivi, sia l’accesso agli esiti dei processi realizzati sul terri- torio. Senza ora scendere nel dettaglio dei dataset e degli indicatori individuati a li- vello di singola amministrazione competente, al momento, sembra sia decisamente difficile effettuare una riflessione – sostenuta scientificamente – sui ritorni sociali degli investimenti effettuati e sulle loro ricadute su limitati contesti produttivi. Anche le attività svolte a livello centrale hanno restituito solo in parte informa- zioni funzionali a definire le caratteristiche e i fenomeni che hanno determinato l’e- voluzione della struttura dell’offerta, piuttosto che una relazione diretta tra inter- venti realizzati e benefici riconducibili agli investimenti effettuati. Si tratta dunque di ambiti di monitoraggio e valutazione decisamente più ridotti rispetto agli obiettivi posti in essere dalla scelta politica di rafforzare un sistema di formazione superiore non accademico. Il contenuto del DPCM in tema di monito- raggio e valutazione non sembra abbandonare le pratiche sinora perseguite. La costi- tuzione della banca dati nazionale presso l’Agenzia per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, assicura un sistema caratterizzato da un apparato di autoalimentazione del data base in grado di restituire un quadro quantitativo dell’offerta, nelle sue diverse articolazioni. Il DPCM, però, non presenta indicazioni in merito agli obiettivi di si- stema rispetto ai quali attuare una valutazione, né tantomeno sono riportate modalità o processi in base ai quali definire indicatori che possano contribuire alla definizione di risultati attesi in termini di correlazione diretta tra investimenti, azioni e benefici. Il rischio dunque è, ancora una volta, quello di identificare la robustezza delle scelte identificando la forza di un sistema con la sua capacità di incrementare i numeri dell’offerta senza necessariamente aver posto in essere una riflessione congiunta (Regioni, Parti sociali, strutture di assistenza tecnica, livelli di governo centrali, ecc.) che possa condurre a concordare, ad esempio, sulla effettiva dimensione dell’offerta e sulla sua articolazione territoriale in relazione ai diversi contesti economici. Per la valutazione degli apprendimenti, le linee guida hanno identificato la na- tura delle prove di valutazione distinguendo gli obiettivi delle prove e la scala dei punteggi da attribuire ma non sono stati identificati, né a livello regionale, né a li- vello nazionale, criteri condivisi. Anche rispetto alla assicurazione della qualità della formazione erogata, i pro- cessi di audit di livello ministeriale e regionale hanno assunto più una funzione ispettiva e legata ai processi della rendicontazione piuttosto che a una sistematica azione di verifica delle metodologie, dei contenuti e degli approcci adottati in rela- zione alla specificità tecnica e tecnologica richiesta per la formazione di specifiche figure. Lì dove in altri Paesi, come il Regno Unito, il sistema della qualità è assicu- rato dalla presenza di un’agenzia o di un valutatore esterno agli stessi organi di go- verno, in Italia spesso il sistema di accreditamento delle strutture formative ha ov- 172 viato il problema mediante la valutazione delle dotazioni strutturali e umane in reazione agli interventi già realizzati piuttosto che in relazione al possesso di know how e competenze per lo sviluppo di un sistema pluralistico e multi attore. All’interno dei partenariati, inoltre, non tutti i soggetti erano chiamati ad accre- ditarsi presso le amministrazioni regionali, come le Università e le imprese parte- cipanti. 10. LE LINEE DI FINANZIAMENTO Una delle condizioni per la stabilizzazione dell’offerta è rappresentata dal carattere e dalla natura dei finanziamenti. Fino ad oggi in Italia le esperienze IFTS sono state legate ai meccanismi della programmazione dei bandi annuali e da più parti si lamentava sia la troppo stretta connessione dei finanziamenti legati alla erogazione degli interventi formativi, sia il fatto che spesso i provider si trovassero a fungere da cassa in attesa delle risorse stanziate dalle amministrazioni nazionali e regionali. Da questo punto di vista, il ricorso alla programmazione a respiro triennale dei Poli, prima, e degli interventi previsti nei piani di intervento territoriali, dopo, fornisce sicuramente un respiro di- verso alla natura delle attività da realizzare soprattutto nell’ottica della promozione di rapporti più stabili con gli attori territoriali e di una più ampia visibilità nei con- fronti degli utenti. È importante ricordare che il fatto che ci siano canali di finanziamento stabili, dedicati e continuativi nel tempo è fondamentale per due ragioni: – in termini di investimenti; i materiali e le sedi devono risultare adeguati rispetto agli obiettivi formativi che si prefigge l’intervento; – in termini di funzionamento; è interessante notare quanto in quasi tutti i Paesi il costo di un intervento di formazione tecnica superiore è mediamente più elevato (costo ora/studente) di un percorso di tipo accademico. Quel che è certo è che lì dove ci sono stati investimenti importanti soprattutto nella fase iniziale, il sistema ha avuto modo di svilupparsi anche grazie all’agio di poter condurre attività a latere e a supporto dei singoli interventi formativi. Nella legge finanziaria 2007, articolo 1 c. 875 in relazione alla riorganizza- zione del sistema dell’istruzione e formazione tecnica superiore, viene istituito un Fondo per l’istruzione e la formazione tecnica superiore nel quale confluiscono le risorse per progetti finalizzati alla realizzazione dell’istruzione e formazione tecnica superiore con l’obiettivo di migliorare l’occupabilità dei giovani che hanno concluso il secondo ciclo di istruzione e formazione. Al momento non è quantificabile l’intero ammontare degli stanziamenti nazio- nali e regionali, e a tale proposito sembra utile segnalare quanto riportato nel DPCM all’articolo 12 capo IV. 173 1. Alla realizzazione dei Piani di cui all’articolo 11 concorrono stabilmente le risorse messe a disposizione dal ministero della pubblica istruzione a valere sul fondo per l’istruzione e la formazione tecnica superiore (...) 2. Ai fini dell’ammissibilità alle risorse del fondo di cui al comma 1 e della realizza- zione dei percorsi di cui al capo III, resta fermo l’obbligo del cofinanziamento da parte delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano per almeno il 30% dello stanziamento ad esse destinato sul fondo medesimo. 3. Il contributo del ministero della pubblica istruzione è ripartito tra le regioni che hanno deliberato e avviato con riferimento alla programmazione del triennio prece- dente, i paini territoriali di cui all’articolo 11 sulla base del criterio del numero dei giovani di età compresa tra i 20 e i 34 anni rilevato dall’ultimo censimento ISTAT. 4. I piani di cui all’articolo 11 deliberati dalle regioni in conformità alle linee guida sta- bilite nel presente decreto e dalle province autonome di Trento e Bolzano in relazione a quanto previsto all’articolo 16 sono sostenuti con il contributo di cui al comma 3 previa verifica da parte del ministero della pubblica istruzione, della sussistenza dei seguenti elementi: – provvedimento delle regioni e delle province autonome che stabilisce la misura delle risorse finanziarie messe a disposizione pari ad almeno il 30% del contributo del ministero della pubblica istruzione; – indicazione dei criteri di selezione delle candidature per la costituzione degli Istituti tecnici superiori; – indicazione dei criteri di selezione dei progetti per la realizzazione delle tipologie di intervento di cui al Capo III; – trasmissione del piano triennale in formato elettronico anche all’agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica. 5. Per la realizzazione delle misure nazionali di sistema, ivi compresa il monitoraggio e la valutazione è riservata una quota non superiore al 5% delle risorse complessiva- mente disponibili sul fondo di cui al comma 1. 6. Le risorse iscritte sul fondo di cui al comma 1 detratta la quota di cui al comma 5, sono destinate a sostenere i seguenti interventi: a) per il 70% alla realizzazione degli istituti tecnici superiori di cui al capo II b) per il 30% alla realizzazione dei percorsi di cui al capo III. L’integrazione più volte sottolineata nella natura e nelle caratteristiche dell’im- pianto trova la sua esplicitazione operativa anche dal punto di vista finanziario. Il pro- cesso di integrazione tra più soggetti assume la funzione di moltiplicatore di risorse. La scelta di individuare la fondazione di partecipazione come soggetto la cui natura giuridica risulta la più idonea alla costituzione degli ITS è da ricercarsi pro- prio nella volontà di integrare risorse pubbliche e private. La fondazione di parteci- pazione infatti è un istituto giuridico che costituisce un modello di gestione pub- blico-privata di iniziative no-profit. I soggetti che aderiscono alla fondazione devono partecipare alla costituzione del patrimonio della fondazione stessa. Si tratta dunque di una scelta funzionale a valorizzare il ruolo e il patrimonio degli istituti tecnici e professionali e degli enti locali nonché a integrare stabilmente le risorse messe a diposizione dal mondo del lavoro e da altri soggetti pubblici e privati. Si tratta di una forma giuridica che per- mette la gestione delle risorse in modo flessibile ma articolato. È già utilizzato in altri ambiti di interesse generale e di utilità sociale per iniziative senza fini di lucro 174 e coniuga l’elemento patrimoniale della fondazione con l’elemento personale del- l’associazione, agevola l’integrazione delle risorse garantendo il riconoscimento del valore delle diverse identità e dell’autonomia dei soggetti che vi partecipano. Lo standard minimo di organizzazione prevede la partecipazione di un ente locale, di un istituto tecnico o professionale, di una struttura formativa accreditata, di un organismo pubblico o privato appartenente al sistema della ricerca e di un’impresa. Tutti i soggetti, come anticipato, possono costituirsi soci fondatori a patto che par- tecipino all’incremento del patrimonio della fondazione stessa che presenta un’au- tonomia giuridica e distinta anche dalla personalità giuridica dell’istituto scolastico. In tutti i Paesi che presentano un sistema di formazione superiore di tipo corto gli investimenti sono stati ingenti soprattutto nella fase di start up. E benché non sia possibile stilare una valutazione in merito alla redditività degli investimenti compiuti è necessario tenere presente, da un lato, la molteplicità di obiettivi cui in- tende rispondere tale canale (da quelli di microeconomia, a quelli più prettamente connessi con le dinamiche sociologiche) che rende difficoltoso offrire un univoco indicatore di rendimento e, dall’altro, le variabili che caratterizzano il sistema stesso nel confronto ad esempio con il sistema universitario. In molti Paesi l’accesso all’offerta di formazione superiore non accademica è vincolato a politiche che regolano l’accesso e nella maggior parte dei casi l’utenza è soggetta a processi di selezione e ammissione in aula. Inoltre, all’interno dello stesso segmento formativo si è di fronte ad una di- seguaglianza di costi tra interventi afferenti o meno allo stesso comparto produt- tivo/disciplinare. Infine il sistema di partecipazione privata ad oggi si è manifestata in Italia solo per lo più attraverso il pagamento di rette di iscrizione e tasse di frequenza, costi a carico delle famiglie e degli utenti - sino ad oggi residuali o nulli per chi accedeva a interventi di formazione superiore di tipo non accademico. Nei Paesi europei in cui il finanziamento pubblico è dominante questo si iscrive in un quadro di gratuità generale degli studi percepita come il solo mezzo per garantire l’equità nell’accesso. In relazione alle diverse forme di delega delle competenze in materia di poli- tiche educative i finanziamenti sono a valere su: – risorse a bilancio dello Stato – risorse a bilancio delle Regioni (in Germania tale situazione è particolarmente evidente per la completa delega ai Laender) – risorse a valere su bilanci statale e locale (come nel Regno Unito dove l’inve- stimento dello Stato avviene attraverso i Funding Councils ed i costi di funzio- namento sono in parte a carico dello Stato e in parte a carico degli enti locali). Nel complesso dei Paesi, il finanziamento pubblico è di rado esclusivo ma coesiste con un cofinanziamento privato (che esclude le singole tasse di iscrizione a carico degli individui). 175 Il finanziamento privato assume molte forme e può andare dal pagamento di prestazioni fornite dalla struttura formativa, alla decisione congiunta tra partner di investire sul sistema di formazione acquistando attrezzature o infrastrutture. Il van- taggio in queste situazioni appare evidente in quanto la struttura formativa convo- glia più risorse e, con un investimento ridotto, permette l’acquisizione di servizi o strumenti cui le singole imprese avrebbero difficoltà ad accedere. Anche in questo caso, la partecipazione al controllo della spesa si attua in due diverse forme: la prima accomuna tutte quelle imprese che non sono associate alla struttura forma- tiva e, dunque, pur non potendo proporzionare e ripartire l’investimento compiuto partecipano alle attività programmate; la seconda accomuna tutte le imprese partner della struttura formativa e, attraverso le rappresentanze negli organi decisionali, orientano e controllano gli investimenti da compiere e quelli già fatti. La storia più e meno recente di un sistema dell’offerta di formazione superiore di tipo non accademico sottolinea quanto l’efficacia delle strutture sia legata alla efficacia con cui riesce a sviluppare una capacità attrattiva sul territorio anche trasformandosi in un catalizzatore di risorse pubbliche e private, sia in termini di concorrenzialità rispetto ad altre strutture formative acquisendo credibilità presso gli utenti, le famiglie e i referenti produttivi. I fattori che legano la competitività alla possibilità di gestire insieme risorse pubbliche e private, ovviamente non sono casuali ma si iscrivono all’interno di un sistema di regole che delineano il quadro generale entro cui operare e in cui con- cordare con le espressioni del privato i meccanismi di funzionamento e i criteri per l’accreditamento della struttura formativa. In questo senso il controllo di gestione è affidato a strutture miste in grado di mettere in relazione il piano locale della struttura e il piano politico di governo (na- zionale o regionale). Tale sistema risulta particolarmente efficace in un quadro in cui ai meccanismi più rigidi delle risorse pubbliche si affiancano in modo sistematico le risorse pri- vate che garantiscono maggior agio e flessibilità nella gestione ordinaria. È questo il caso ad esempio della rete di IUT francesi o dei college nel Regno Unito o ancora dei community college in Canada, dove gli stanziamenti privati acquisiti ad esempio mediante convenzioni dirette con imprese interessate a iniziative di for- mazione continua sono reinvestiti per l’acquisito di attrezzature, retribuzioni com- plementari del corpo docente, per il loro aggiornamento, per azioni di promozione, ecc. Al momento in Italia sembra che questa formula sia stata prescelta da alcuni Poli della Regione Lombardia che, insieme ai finanziamenti regionali e nazionali, sono riusciti a individuare prodotti e sevizi di interesse per il tessuto locale e hanno previsto un set di servizi a pagamento i cui proventi sono stati reinvestiti nelle atti- vità del Polo stesso per l’affinamento delle piattaforme informatiche, o per la rea- lizzazione di interventi e giornate seminariali utili, a loro volta, alla promozione del complesso delle attività del Polo. Parte IV SCENARI, ESPERIENZE, RIFLESSIONI E PROPOSTE PER L’ELABORAZIONE DI UNA METODOLOGIA DI LAVORO PER GIUNGERE A UNA DEFINIZIONE E DESCRIZIONE DEL “TECNICO SUPERIORE” PER COGLIERNE I FABBISOGNI, PER PROMUOVERNE LA FORMAZIONE Elaborazione di Mauro FRISANCO 179 1. LA DEFINIZIONE DEL TECNICO SUPERIORE, DEL FABBISOGNO E DELLE COMPE- TENZE DA PROMUOVERE: LE QUESTIONI DI FONDO La definizione di una professione e la costruzione del suo profilo è sempre stata, in generale, un’operazione tutt’altro che semplice, soprattutto nel contesto italiano storicamente caratterizzato dall’assenza di informazioni sistematiche sulle professioni in grado di mettere in evidenza sia i caratteri costitutivi delle stesse, sia la loro evoluzione nel tempo in termini di contenuti del lavoro, di requisiti neces- sari, di competenze connotative, di relazioni, di autonomia, di responsabilità, di sviluppo e di progressione professionale. Tale sfavorevole condizione di contesto ha in buona parte determinato lo strut- turale sfasamento tra i sistemi formativi e la domanda di professionalità delle orga- nizzazioni lavorative, con tutte le conseguenze ampiamente messe in luce dalla consistente mole di indagini relative al placement dei qualificati dell’istruzione e della formazione professionale, dei diplomati dell’istruzione superiore, dei laureati, ecc. Anche la diffusione, soprattutto nei sistemi locali più che sul piano nazionale, di pratiche volte a cercare di colmare tale vuoto informativo/cognitivo attraverso il confronto tra le parti interessate (sociali e formative) è riuscita solo in parte nell’in- tento, dovendo fare i conti con un’accelerazione e una rapidità dei cambiamenti nei contesti lavorativi tali da rendere evidente la necessità di rispondere ai fabbisogni con professioni e/o professionalità non solo adattive ma innovative, in grado di an- ticipare la domanda di conoscenze e di abilità. Dovendo assumere quest’ottica anti- cipatrice nella individuazione e nella definizione delle figure professionali come condizione di successo dell’offerta formativa sono diventati progressivamente sempre più evidenti i limiti delle metodologie disponibili, già deboli nella capacità di rappresentare le professioni come oggetti complessi. Alla questione cruciale del superamento delle sole attività lavorative come elemento d’indagine e della neces- sità di osservare anche altre dimensioni professionali – competenze richieste, rela- zioni sociali ed organizzative, contesti e condizioni di operatività, ecc. –, si è poi aggiunto il bisogno di assumere una logica di costruzione e rappresentazione delle professioni basata non solo sulla fotografia dei quadri empirici entro cui una pro- fessione si svolge ma anche, e soprattutto, sulla loro interpretazione al fine di una 180 diagnosi del fabbisogno effettivamente in grado di distinguere tra figure solo a prima vista simili. Tale occorrenza è emersa in tutta la sua strategicità soprattutto in riferimento alle professioni tecniche, area connotata dalla presenza di un range di figure caratterizzate da livelli più o meno elevati o complessi di responsabilità, di autonomia, di quantità e qualità delle competenze richieste. La questione dei “livelli” e della “complessità” professionale è poi ulterior- mente emersa come elemento connotativo cruciale soprattutto a seguito della recente costruzione e definizione di quadri comuni (es. il framework EQF) che cer- cano di standardizzare i requisiti essenziali che i sistemi di istruzione e formazione devono garantire alla formazione delle varie figure. Il ricorso a un linguaggio comu- ne europeo per descrivere e graduare i risultati di apprendimento (standard forma- tivi) ha generato ulteriori sollecitazioni anche per la costruzione di standard profes- sionali minimi rispondenti all’istanza di leggibilità delle figure, requisito descrittivo dei profili indispensabile ai fini della trasparenza dei titoli e delle qualificazioni. Tutto ciò ha reso evidente la necessità, non solo di cercare di standardizzare i linguaggi che afferiscono alla descrizione delle figure, ma anche di definire dispo- sitivi metodologici di rilevazione, osservazione, diagnosi e interpretazione dei fab- bisogni adeguati per: tipizzare, in questo caso, il lavoro tecnico e, nello specifico, la sua articolazione per livelli ai quali poi correlare le differenti qualificazioni quale quella del “tecnico superiore”; individuare le competenze da promuovere attraverso i percorsi formativi. L’assenza di riferimenti alla molteplicità delle dimensioni che intervengono nella definizione di una professione risulta senza dubbio ancora l’ele- mento di maggiore criticità nonostante alcune esperienze più recenti (cfr. di se- guito), abbiano adottato modalità di lavoro in grado di declinare da varie angola- ture lo standard professionale del “tecnico superiore”. La ricostruzione di un quadro empirico adeguato per connotare questa specifica figura non è tuttavia l’u- nica difficoltà che si incontra nell’orientare il lavoro di programmazione e di pro- gettazione di percorsi di formazione. È infatti necessario che figure e profili profes- sionali nascano e siano oggetto di manutenzione nel tempo secondo un approccio di lavoro che esige: – una costante piena correlazione con i reali bisogni del territorio e del sistema socio-economico; – l’accertamento sistematico dei bisogni secondo un’ottica anticipatrice e non adattiva, prestando attenzione alle tendenze di cambiamento; – un’attenta collaborazione tra Autorità pubblica e Parti sociali per declinare, secondo un modello negoziale, il referenziale di competenze da promuovere; – una sistematica partnership progettuale tra le istituzioni formative e le organiz- zazioni lavorative entro il quadro delineato dalla governance istituzionale. Tali condizioni possono favorire una risposta alle questioni di fondo che ci si trova a dover affrontare nel promuovere un’offerta di formazione superiore; tra le più significative: 181 – come individuare i/le settori/aree produttivi/professionali che sono effettiva- mente portatori di una domanda di formazione superiore, nello specifico di tecnici superiori; – come assicurare reale occupabilità alle figure professionali e spendibilità delle competenze che le connotano; – come evitare il rischio di realizzare corsi di formazione con obiettivi formativi concepiti in riferimento a professioni tecniche più o meno immaginarie o ad attività lavorative presunte; – quali requisiti professionali e personali essenziali privilegiare; – con chi individuare le figure professionali e i loro referenziali in termini di competenze; – come aggiornare, modificare e manutentare le figure professionali e i loro referenziali; – come realizzare, e con il contributo di quali soggetti, la progettazione dei per- corsi formativi a partire dal referenziale professionale delle figure. Partendo da queste considerazioni introduttive, le pagine che seguono inten- dono contribuire ad affrontare alcune delle problematiche emerse attraverso una riflessione critica sulle varie esperienze che possono aiutare nell’elaborazione di una metodologia di lavoro per la definizione delle figure professionali e per l’ela- borazione dei relativi profili professionali e formativi. Nello specifico, partendo dagli attuali riferimenti relativi al livello di qualificazione del tecnico superiore, in primo luogo tenendo conto del Quadro europeo delle qualificazioni, ma anche delle esperienze europee e di quelle più recenti a livello nazionale (in particolare quella svolta nella Provincia Autonoma di Trento), si intende fornire alcune proposte sia di un possibile format per la descrizione degli standard professionali, sia di un mo- dello di rilevazione e interpretazione dei fabbisogni a supporto della programma- zione e progettazione della formazione professionale superiore. 2. IL TECNICO SUPERIORE E I RIFERIMENTI EUROPEI Prendendo a riferimento il quadro europeo delle qualificazioni accademiche e professionali recentemente approvato,1 nello specifico l’integrazione tra i descrittori di Dublino e quelli del framework EQF for LLL per quanto concerne il livello quinto di qualificazione (livello e tipologia in uscita dai percorsi formativi del ciclo corto), si individuano i requisiti essenziali che i sistemi di istruzione e formazione devono garantire al tecnico superiore e le sue specifiche connotazioni rispetto alle figure cor- relabili al livello inferiore (quarto livello) oppure superiore (sesto livello). Vediamo, in dettaglio, il framework approvato dal Parlamento Europeo nell’ottobre 2007. 1 Cfr. Prima parte. 182 Dall’analisi delle conoscenze, abilità e competenze che, secondo i descrittori del livello quinto, connotano la qualificazione di tecnico superiore emerge il pos- sesso di conoscenze (teoriche e pratiche) esaurienti per poter operare in un ambito di lavoro, la capacità di riconoscere i limiti di tali conoscenze, di dare soluzioni creative a problemi astratti, di gestire e controllare attività che possono essere esposte a cambiamenti imprevedibili, di valutare e migliorare le proprie ed altrui prestazioni. Quadro EQF approvato dal Parlamento Europeo – estratto per i livelli 4, 5, 6. Essendo il Quadro europeo un dispositivo comune di riferimento a sostegno della trasparenza delle competenze e delle qualifiche ottenute dalle persone, ABILITÀ Le abilità indicano le capacità di applicare conoscenze e di uti- lizzare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le abilità sono descritte come cognitive (comprendenti l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (compren- denti l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti). Una gamma di abilità cognitive e pratiche necessarie a risolve- re problemi specifici in un cam- po di lavoro o di studio. Una gamma esauriente di abili- tà cognitive e pratiche necessa- rie a dare soluzioni creative a problemi astratti. Abilità avanzate, che dimostri- no padronanza e innovazione necessarie a risolvere problemi complessi ed imprevedibili in un ambito specializzato di la- voro o di studio. COMPETENZE Per competenze si intende la comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodo- logiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo pro- fessionale e/o personale. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le competenze sono descritte in termini di re- sponsabilità e autonomia. Sapersi gestire autonomamente, nel quadro di istruzioni in un contesto di lavoro o di studio, di solito prevedibili, ma soggetti a cambiamenti. Sorvegliare il lavoro di routine di altri, assumendo una certa responsabilità per la valutazio- ne e il miglioramento di attività lavorative o di studio. Saper gestire e sorvegliare atti- vità nel contesto di attività lavorative o di studio esposte a cambiamenti imprevedibili. Esaminare e sviluppare le pre- stazioni proprie e di altri. Gestire attività o progetti, tec- nico/professionali complessi assumendo la responsabilità di decisioni in contesti di lavoro o di studio imprevedibili. Assumere la responsabilità di gestire lo sviluppo professio- nale di persone e gruppi. CONOSCENZE Le conoscenze sono il risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze sono un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative a un settore di studio o di lavoro. Nel contesto del Qua- dro europeo delle qualifiche le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche. Conoscenza pratica e teorica in ampi contesti in un ambito di lavoro o di studio. Conoscenza teorica e pratica esauriente e specializzata, in un ambito di lavoro o di studio e consapevolezza dei limiti di tale conoscenza. Conoscenze avanzate in un am- bito di lavoro o di studio, che presuppongano una compren- sione critica di teorie e principi. DESCRITTORI DEI RISULTATI DELL’APPRENDIMENTOLIVELLI LIVELLO 4 LIVELLO 5 LIVELLO 6 183 dunque del loro diritto alla mobilità verticale e orizzontale nello spazio europeo, il profilo di tecnico superiore che emerge è esclusivamente quello in esito a percorsi di istruzione e formazione; si tratta cioè di requisiti di carattere “formativo” e non “professionale”. Ne consegue che il framework europeo, essendo centrato sui risul- tati di apprendimento, orienta la “produzione” del tecnico superiore ma non de- scrive la “figura professionale”, e nello specifico la sua professionalità. Tuttavia, è importante tenere presente alcuni aspetti che emergono dal Quadro: – il fatto che le competenze sono descritte in termini di responsabilità e auto- nomia; – l’implicito ricorso alle caratteristiche dell’ambiente lavorativo di riferimento (presenza di cambiamenti, prevedibilità e/o imprevedibilità degli stessi), alla tipologia di problemi da affrontare (specifici, astratti, complessi, imprevedi- bili), agli approcci di soluzione degli stessi (da protocollo, creatività, innova- zione), all’ampiezza e tipologia delle conoscenze (di base e ampie, specializ- zate, avanzate), al confine di presidio sulle attività (attività proprie, prestazioni di altri di routine, prestazioni esposte a cambiamenti) e al contributo per lo svi- luppo delle stesse (valutare e suggerire la tipologia di miglioramento, svilup- pare le prestazioni proprie e di altri, gestire lo sviluppo professionale di altri) come riferimenti di “esercizio” professionale ai quali associare, e dunque gra- duare, i differenti livelli di apprendimento previsti dal quadro. Rileggendo il quadro europeo da questa angolatura possiamo rielaborarlo con una struttura che agevoli un’analisi comparativa tra livelli, individuando gli snodi di articolazione degli stessi. Preservando le declinazioni concordate a livello eu- ropeo, la matrice seguente gradua, in un certo modo, l’esercizio della professiona- lità ai fini di una adeguata comprensione della figura, soprattutto del suo livello. Si può notare come, considerando gli elementi informativi che abbiamo de- sunto dalle abilità e dalle competenze, emerga un contesto di “esercizio della pro- fessionalità” che presenta tutte le dimensioni che connotano qualsiasi attività lavo- rativa; nello specifico, quella della complessità, quella dell’autonomia e quella del controllo (presidio): – la dimensione della complessità emerge sia dalle caratteristiche dell’ambiente di lavoro (assenza/presenza di elementi di variabilità e disturbo) sia dalla tipo- logia di problemi da affrontare (problemi specifici, astratti e complessi, con possibili numerose alternative di soluzione, dunque di variabili e di risultati da valutare per prendere una decisione); – la dimensione dell’autonomia emerge, invece, dall’approccio alla soluzione dei problemi, dunque dal quadro decisionale, dall’esistenza e/o dall’ampiezza di spazi per la definizione del set di alternative della scelta; – la dimensione del controllo, infine, emerge dal quadro di presidio e sviluppo delle attività funzionale alla presa di decisioni e alla messa in campo di azioni dalle quali dipende il raggiungimento degli obiettivi. 184 Considerando le caselle “vuote” e quelle “marcate”, si può giungere a una prima considerazione: il tecnico superiore può essere approssimativamente tipizzato attraverso i descrittori del Quadro europeo come quel “lavoratore tecnico” rispetto al quale emerge un “esercizio professionale” di medio-alta complessità, fondato su un processo decisionale non completamente autonomo; gli è richiesto l’apporto di alter- native d’azione, anche elaborate in modo originale non collaudate e predefinite, ma entro un quadro decisionale che può essere innovato, ricalibrato e stabilito solo da altri (coloro che sono in possesso delle qualificazioni correlate al livello “6”). Sottolineare la “tipizzazione approssimativa” della figura del tecnico superiore offerta dal Quadro europeo è quanto mai opportuno, date le espressioni intenzional- mente assai ampie che declinano i descrittori per i vari livelli. Dato che il Quadro è un framework “socialmente determinato” e convenzionale non ci si può attendere elementi più precisi per definire e identificare l’oggetto “tecnico superiore”. Vale la pena, inoltre, notare come la difficile ricerca di un linguaggio comune e condiviso da tutti gli Stati Membri nel corso del processo di elaborazione del Quadro abbia generato un impoverimento della sua capacità di distinguere i diversi livelli. LIVELLO 6                    LIVELLO 5               LIVELLO 4         Tipologia di conoscenze Di base Specializzate Avanzate Caratteristiche ambiente lavorativo Presenza di cambiamenti Prevedibilità dei cambiamenti Imprevedibilità dei cambiamenti Tipologia di problemi da affrontare Specifici Astratti Complessi Imprevedibili Approccio di soluzione dei problemi Protocollo Creatività Apporto di innovazioni Presidio delle attività Personali Di routine svolte da altri Esposte a cambiamenti Sviluppo delle attività Valutazione e suggerimenti di miglioramento Sviluppo delle prestazioni personali e di altri Gestione dello sviluppo professionale di altri 185 Nel documento di lavoro2 della Commissione del luglio 2005, ad esempio, il descrittore “competenze” era declinato in termini di autonomia e responsabilità, in competenze d’apprendimento, in competenze comunicative, in competenze profes- sionali. Da tale articolazione, come si può di seguito osservare (cfr. tavola se- guente), sarebbero infatti emersi ulteriori importanti elementi connotativi dei diffe- renti livelli: – ad esempio, la tipologia dei rapporti di comunicazione e di interazione/coope- razione con altri lavoratori avrebbe consentito tipizzazioni per livello meglio calibrate in riferimento alla dimensione della complessità dell’esercizio profes- sionale e, più in generale, dell’ambiente lavorativo; per il livello “5”, infatti, si osserva la significativa comunicazione/interazione sia verso interlocutori in- terni che esterni (assente per il livello “4”); – vi è poi, rispetto all’autonomia e responsabilità, una scala di livello articolata su “gestione del ruolo”, “gestione autonoma e sviluppo di progetti”, “gestione organizzativa e amministrativa delle risorse e della squadra”. Emergeva, in altri termini, una sorta di articolazione delle declinazioni dei de- scrittori che consentiva di poter tipizzare le figure da associare ai differenti livelli di qualificazione in base al prevalere dell’apporto “specialistico” su quello “gestio- nale” e/o viceversa oppure su differenti mix tra i due nonché in relazione a una dimensione di complessità maggiormente descritta e, dunque, messa a fuoco. Sulla base di tale proposta di Quadro elaborata nel 2005 era dunque possibile disporre di maggiori elementi informativi per correlare ai diversi livelli di qualifi- cazione qui considerati (4, 5, 6) la natura prevalente delle figure in esito ai percorsi formativi: – figure di tipo prevalentemente specialistico in riferimento al livello 4; – figure di tipo prevalentemente specialistico che tendono al gestionale in riferi- mento al livello 5; – figure che tendono prevalentemente al gestionale in riferimento al livello 6. Più in generale, a conclusione dell’analisi dei riferimenti europei per il “tecnico superiore” si possono fare le seguenti considerazioni: – dal framework EQF è possibile trarre solo indirettamente delle approssima- zioni riguardo alla connotazione del tecnico superiore come figura professio- nale, essendo il Quadro orientato a declinare i livelli di qualificazione in esito ai percorsi di apprendimento; – gli elementi informativi offerti necessitano di essere implementati secondo un approccio di lavoro che adotta “la categoria della figura professionale”, carat- terizzandola per una maggiore centratura sulla scomposizione del suo agire 2 Cfr. Commissione delle Comunità Europee, Verso un quadro europeo delle qualifiche per l’ap- prendimento permanente, Documento di lavoro della Commissione, 8 luglio 2005, ESC (2005) 957. 186 P ro po st a di Q ua dr o E Q F d a pa rt e de lla C om m is si on e E ur op ea ( 20 05 ) – es tr at to p er i liv el li 4, 5, 6 C O N O SC EN ZE U sa re un ’a m pi a ga m m a di co no - sc en ze p ra tic he e te or ic he s pe ci fi ch e di u n de te rm in at o am bi to . U sa re a m pi e co no - sc en ze t eo ri ch e e pr at ic he c he s on o sp es so sp ec ia liz za te in u n co nt es to e d i- m os tr ar e co ns ap e- vo le zz a de i lim iti de lle co no sc en ze ba se . A BI LI TÀ Sv ilu pp ar e ap pr oc ci st ra te gi ci a c om pi ti ch e em er go no n el la vo ro o n el lo s tu - di o ap pl ic an do c o- no sc en ze sp ec ia liz - za te e u til iz za nd o fo nt i d i i nf or m az io - ne a de gu at e. V al ut ar e i r is ul ta ti co ns id er at i g li ap - pr oc ci st ra te gi ci us at i. Sv ilu pp ar e ri sp os te cr ea tiv e e st ra te gi - ch e ne lla ri ce rc a di so lu zi on i a p ro bl e- m i co nc re ti ed as tr at ti be n de fi ni ti. D im os tra re c ap ac ità di t ra sf er ir e co no - sc en ze p ra tic he e te or ic he n el c re ar e so lu zi on i a p ro bl e- m i. A U TO N O M IA E R ES PO N SA BI LI TÀ G es tir e un ru ol o, in b as e a de i co ns ig li, i co nt es ti la vo ra tiv i o sc ol as tic i ch e no rm al m en te so no p re ve di bi li e do ve c i s on o m ol ti fa tto ri co in vo lti ch e ca us an o ca m bi am en ti e do ve al cu ni fa tto ri so no c or re la ti. Fa re p ro po st e ch e m ig lio ri no i ri su lta ti. Su pe rv is io na re le p ro ce du re la - vo ra tiv e de gl i a ltr i e a ss um er si la re sp on sa bi lit à di fo rm ar e al - tr i. G es tir e au to no m am en te p ro - ge tti c he ri ch ie do no u na s ol u- zi on e di p ro bl em i d ov e ci s o- no m ol ti pr ob le m i, al cu ni d ei qu al i i nt er ag is co no e p or ta no a ca m bi am en ti im pr ev ed ib ili . D im os tra re c re at iv ità n el lo sv i- lu pp ar e pr og et ti. G es tir e de lle p er so ne e d es am i- na re la p er fo rm an ce d i s e st es si e de gl i a ltr i. Fo rm ar e gl i a ltr i e s vi lu pp ar e la p er fo rm an ce d i s qu ad ra . C O M PE TE N ZE D ’A PP R EN D IM EN TO D im os tr ar e di s ap er o ri en ta re il pr op ri o ap pr en di m en to . V al ut ar e il pr op ri o ap pr en di - m en to e id en tif ic ar e le e si ge nz e ne ce ss ar ie p er i nt ra pr en de re un a fo rm az io ne u lte ri or e. C O M PE TE N ZE C O M U N IC AT IV E Pr od ur re (e ri sp on de re a ) m es - sa gg i s cr itt i e or al i d et ta gl ia ti in si tu az io ni in so lit e. U sa re la c on os ce nz a di s é pe r ca m bi ar e co m po rt am en to . Tr as m et te re id ee in m od o be n st ru ttu ra to e c oe re nt e a co lla - bo ra to ri , su pe rv is or i, cl ie nt i us an do in fo rm az io ni q ua lit at i- ve e q ua nt ita tiv e. E sp ri m er e un a vi si on e pe rs o- na le d el m on do c om pl et a e in - te ri or iz za ta c he ri fl et te l’ im pe - gn o co n gl i a ltr i. C O M PE TE N ZE PR O FE SS IO N A LI R is ol ve re p ro bl em i i nt eg ra nd o le in fo rm az io ni c on fo nt i a de - gu at e te ne nd o co nt o di p ro bl e- m at ic he s oc ia li ed e tic he r ile - va nt i. Fo rm ul ar e ri sp os te a p ro bl em i as tr at ti e co nc re ti. D im os tr ar e es pe ri en za d i i nt e- ra zi on e op er at iv a in u n am bi to . Es pr im er e gi ud iz i, ba sa ti su lle co no sc en ze , s u pr ob le m at ic he so ci al i e d et ic he ri le va nt i. LI V EL LO 4 5 C O M PE TE N ZE PE R SO N A LI E PR O FE SS IO N A LI 187 C O N O SC EN ZE U sa re c on os ce nz e de tta gl ia te te or ic he e pr at ic he d i u n am - bi to . U na p ar te d i q ue st e co no sc en ze è a ll’ a- va ng ua rd ia d i u n da - to a m bi to e im pl ic a un ’i nt er pr et az io ne cr iti ca d el le te or ie e de i p rin ci pi . A BI LI TÀ E ss er e in g ra do d i do m in ar e m et od i e st ru m en ti in u n am - bi to c om pl es so e sp ec ia lis tic o e di - m os tr ar e ca pa ci tà in no va tiv e in te rm i- ni d i m et od i u sa ti. C on ce pi re e s os te - ne re a rg om en ta zi o- ni p er ri so lv er e pr o- bl em i. A U TO N O M IA E R ES PO N SA BI LI TÀ D im os tr ar e re sp on sa bi lit à ne l- l’ or ga ni zz az io ne a m m in is tr a- tiv a, n el la g es tio ne d el le ri so rs e e de lla s qu ad ra , i n co nt es ti la - vo ra tiv i e d i s tu di o in at te si c he ri ch ie do no c he p ro bl em i c om - pl es si s ia no ri so lti la dd ov e in - te ra gi sc on o m ol ti fa tto ri . D im os tra re c re at iv ità n el lo sv i- lu pp o de i p ro ge tti e sp ir ito d ’i - ni zi at iv a ne lla g es tio ne d ei p ro - ce ss i c he im pl ic an o la f or m a- zi on e di a ltr i p er s vi lu pp ar e la pe rf or m an ce d el la sq ua dr a. C O M PE TE N ZE D ’A PP R EN D IM EN TO Va lu ta re co sta nt em en te il p ro pr io ap pr en di m en to e d id en tif ic ar e la n ec es si tà d i u na fo rm az io ne ul te ri or e. C O M PE TE N ZE C O M U N IC AT IV E C om un ic ar e id ee , p ro bl em i e so lu zi on i si a ad u n pu bb lic o sp ec ia liz za to c he n on s pe ci a- liz za to , u sa nd o un a ga m m a di te cn ic he c he im pl ic an o in fo r- m az io ni q ua lit at iv e e q ua nt ita tiv e. E sp ri m er e un a vi si on e pe rs o- na le d el m on do c om pl et a e in - te ri or iz za ta c he m an if es ta so li- da ri et à co n gl i a ltr i. C O M PE TE N ZE PR O FE SS IO N A LI R ac co gl ie re e d in te rp re ta re d at i ril ev an ti in u n am bi to p er ri so l- ve re d ei p ro bl em i. D im os tr ar e es pe ri en za d i i nt e- ra zi on e op er at iv a al l’i nt er no d i un a m bi en te c om pl es so . E sp ri m er e gi ud iz i ba sa ti su pr ob le m at ic he so ci al i e d et ic he ch e em er go no n el lo st ud io e n el la vo ro . LI V EL LO 6 C O M PE TE N ZE PE R SO N A LI E PR O FE SS IO N A LI 188 professionale dunque sulla base delle attività che svolge, sui processi che pre- sidia e sulle competenze necessarie, sugli elementi e sui livelli di complessità di esercizio (autonomia, responsabilità, livello di variabilità del contesto lavo- rativo, ecc.); – appare poi centrale un’attenzione anche a caratteri costitutivi della professione che non possono essere decodificati solo dalle attività lavorative ma che riguardano anche la persona e il contesto di riferimento, nello specifico il mer- cato del lavoro (bisogni quantitativi e qualitativi espressi dalla domanda di lavoro, volume di offerta presente/prospettica, richiesta da parte dei settori di riferimento, ecc.). Nella direzione di disporre di un quadro maggiormente articolato per giungere a una definizione e descrizione del “tecnico superiore” in rapporto al mercato del lavoro, oggetto della presente sezione del report, bisogna dunque attingere dai vari studi e dalle varie esperienze, anche recenti, che hanno cercato di classificare e descrivere questa figura professionale. Tra le più significative: – la metodologia ISTAT e il suo sviluppo nel tempo; – il modello progettuale di riferimento dell’esperienza dell’Istruzione e della formazione tecnica superiore; – la tipologia di standard professionali e l’impianto descrittivo degli stessi adot- tati nella recente esperienza di Alta formazione professionale. 3. LE PROFESSIONI TECNICHE SECONDO L’ISTAT L’ISTAT elabora e aggiorna ogni dieci anni in occasione dei Censimenti gene- rali della popolazione la “Classificazione delle professioni” (CP). L’ultima classifi- cazione (CP2001), prodotta nel 2001, organizza le professioni in 9 grandi gruppi dettagliati, a seconda del campo delle competenze, in 37 gruppi, 121 classi, 519 ca- tegorie e 6.300 voci professionali. Per quanto riguarda le professioni tecniche, la classificazione rimanda al grande gruppo “3”, denominato Professioni tecniche, che raccoglie quelle “profes- sioni che richiedono conoscenze operative ed esperienza in ambito scientifico, umanistico-sociale, sportivo e artistico leggero”. La Classificazione indica che “i loro compiti consistono nell’applicare, seguendo protocolli definiti e predetermi- nati, conoscenze esistenti e consolidate; nell’insegnare in percorsi particolari di istruzione formale e professionale; nell’eseguire performance sportive o artistiche leggere”. Le professioni tecniche sono poi articolate in 4 Gruppi, 17 Classi e 92 Cate- gorie professionali che colgono le differenze fra le professioni associandole a più ambiti di conoscenza e di specializzazione tecnica. Di seguito la Classificazione fino a due digit (per il quadro completo si rimanda all’allegato). 189 È opportuno tenere conto che la logica della Classificazione si fonda sul criterio della competenza (skill) definito come la capacità di svolgere i compiti di una data professione e visto nella sua duplice dimensione del livello delle compe- tenze (skill level) e del campo delle competenze (skill specialization). Ciò che distingue una professione dall’altra è il livello della competenza messo in gioco, la complessità e la stessa estensione dei compiti connessi allo svolgimento di ciascuna singola professione. La dimensione del livello delle competenze gradua verticalmente le professioni (o meglio i grandi gruppi di professioni), secondo una gerarchia che nella classifi- cazione viene approssimata dall’istruzione formale necessaria allo svolgimento della professione o, se si vuole, dal titolo di studio necessario per svolgerla. Sono quattro i livelli di istruzione formale utilizzati nella classificazione: – il quarto livello comprende la laurea o un titolo di studio post-universitario; – il terzo livello è associato a un diploma quinquennale di scuola secondaria superiore, a un titolo post-secondario o, anche, a un titolo universitario di primo livello; – il secondo livello è correlato a una qualifica o al conseguimento dell’obbligo scolastico, eventualmente con un breve periodo aggiuntivo di formazione pro- fessionale; – al primo livello si prevede una alfabetizzazione di base. Tali riferimenti sono considerati dalla Classificazione come un’approssima- zione adeguata del livello di conoscenze (competenze) necessario allo svolgimento della professione. Dalla seguente tabella si coglie come il livello di istruzione (di competenza) associato al grande gruppo delle professioni tecniche sia il terzo “diploma quin- quennale di scuola secondaria superiore, o un titolo post-secondario o, anche, un titolo universitario di primo livello”. La dimensione del campo delle competenze consente invece di individuare nel gruppo delle professioni tecniche i gruppi professionali distinti delle: – professioni tecniche nelle scienze fisiche, naturali, nell’ingegneria ed assimilate – professioni tecniche nelle scienze della salute e della vita – professioni tecniche nell’amministrazione e nelle attività finanziarie e commerciali – professioni tecniche nei servizi pubblici e alle persone. LA CLASSIFICAZIONE ISTAT DELLE PROFESSIONI TECNICHE (Fonte: ISTAT, Metodi e Norme n.12, edizioni 2001) - (Classificazione fino a 2 digit) 3 PROFESSIONI TECNICHE 3.1 Professioni tecniche nelle scienze fisiche, naturali, nell’ingegneria ed assimilate 3.2 Professioni tecniche nelle scienze della salute e della vita 3.3 Professioni tecniche nell’amministrazione e nelle attività finanziarie e commerciali 3.4 Professioni tecniche nei servizi pubblici e alle persone 190 Sulla base di questa dimensione ogni specifico gruppo delle professioni tec- niche, qui non distinte in ordine gerarchico ma articolate orizzontalmente, è identi- ficato in relazione alle conoscenze settoriali necessarie per svolgere le professioni di appartenenza, alle macchine e alle attrezzature utilizzate, ai materiali lavorati, oltre che alla natura dei beni e dei servizi prodotti. Secondo questa dimensione di classificazione per le professioni tecniche si ar- riva ad avere un dettaglio via via maggiore delle stesse (cfr. tavola seguente), fino alla codifica di 901 voci professionali per il grande gruppo qui considerato.3 Sulla base della definizione data alle professioni tecniche e alla logica di clas- sificazione delle stesse, la Classificazione delle professioni (CP2001) individua e classifica i “tecnici” rispetto a tre criteri: quello del livello delle competenze (dove la competenza è intesa come capacità di svolgere i compiti di una data profes- sione), quello del campo delle competenze e quello dei compiti che tali professioni si trovano generalmente a svolgere. È evidente, tuttavia, che si tratta di una rappresentazione delle professioni tec- niche che non offre, se escludiamo il dettaglio dei macro-compiti che connota il grande gruppo “professioni tecniche”, descrizioni e informazioni sulle professioni individuate a livello di gruppo, classe, categoria, voce professionale. Del resto l’ISTAT è chiamato alla produzione di dati statistici (quanta popolazione è occupata nelle varie professioni) e non a declinare i contenuti delle professioni classificate. Ciò ha reso utilizzabile la Classificazione delle professioni esclusivamente per ana- lisi del mercato del lavoro con finalità “censuarie” e non come “dizionario” delle professioni. L’assenza di informazioni sui caratteri costitutivi delle professioni ha storicamente creato inevitabili criticità nella ricerca di correlazioni fabbisogni-figure professionali per il corretto funzionamento del mercato del lavoro. 3 Cfr. http://www.istat.it/strumenti/definizioni/professioni/classificazione_2001.pdf LIVELLO DI COMPETENZA – 4 3 2 2 2 2 1 – GRANDI GRUPPI Legislatori, dirigenti e imprenditori Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione Professioni tecniche Impiegati Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi Artigiani, operai specializzati e agricoltori Conduttori di impianti e operai semiqualificati addetti a macchinari fissi e mobili Professioni non qualificate Forze Armate VOCI PROFESSIONALI 901 CATEGORIE 92 CLASSI 17 GRUPPI 4 GRANDE GRUPPO Professioni tecniche 191 L’ISFOL per migliorare i collegamenti tra i diversi tipi di informazione sui fab- bisogni professionali e le professioni “censite” ha dunque sviluppato insieme all’I- STAT un ulteriore livello della classificazione statistica ufficiale delle professioni CP2001. La nuova classificazione estesa delle professioni è denominata “Nomencla- tura delle Unità Professionali” (NUP). Ciascuna Unità Professionale è stata con- cepita per ospitare al proprio interno professioni il più possibile omogenee tra loro. A questo scopo è stata realizzata una estesa indagine campionaria4 che ha coin- volto oltre 16.400 lavoratori appartenenti a tutte le professioni attive in Italia. È stato loro somministrato un questionario unico per rilevare le caratteristiche del lavoro svolto, le caratteristiche necessarie al lavoratore per realizzare una perfor- mance ottimale e le caratteristiche del contesto di lavoro. Il questionario è stato costruito su un set di circa 400 variabili. Il modello concettuale di riferimento per l’indagine e i questionari utilizzati sono stati mutuati dall’Occupational Informa- tion Network (O*NETTM).5 In molte analisi documentarie comparate, nello specifico soprattutto quella che ha cercato di tracciare le coordinate metodologiche per la costruzione di un dizionario delle professioni tecniche6 su input del Comitato na- zionale per l’IFTS (Convenzione tra il MIUR e l’ISTAT per il biennio 1999/2001), si era indicato O*NETTM come il modello analitico, adottato dagli USA, “più adatto per sistematicità, innovazione, operatività ed economicità a costruire un Dizio- nario delle Professioni Tecniche” perché in grado di rappresentare il contenuto di una determinata professione attraverso descrittori e variabili che riguardano la per- sona, il lavoro, il contesto. Nello specifico, le conclusioni dello studio di fattibilità per un dizionario delle professioni tecniche ne raccomandavano l’adozione sugge- rendo ovvi adattamenti al contesto nazionale. 4 Le interviste sono state effettuate a partire dal mese di marzo 2006. 5 Cfr. http://www.online.onetcenter.org 6 Cfr. Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS) 1998-2003, Quaderni degli Annali del- l’Istruzione 103-104, 2003. Si veda anche lo studio IRSO (Ministero della Pubblica Istruzione, IRSO, I ‘knowledge workers’ - le categorie professionali di riferimento a livello UE ed USA con riguardo alla definizione degli standard formativi ed organizzativi dei corsi di istruzione e formazione tecnica superiore, 2000). 192 Il “Content model” di O*NETTM che descrive ogni singola professione può essere rappresentato attraverso il seguente schema. Di seguito i descrittori utilizzati dal Content model. Worker Characteristics – enduring characteristics that may influence both work performance and the capacity to acquire knowledge and skills required for effective work performance. – Abilities – Enduring attributes of the individual that influence performance. – Occupational Interests – Preferences for work environments. Occupational Interest Profiles (OIPs) are compatible with Holland’s (1985, 1997) model of personality types and work environments. – Work Values – Global aspects of work composed of specific needs that are important to a person’s satisfaction. Occupational Reinforcer Patterns (ORPs) are based on the Theory of Work Adjustment. – Work Styles – Personal characteristics that can affect how well someone performs a job. 193 Worker Requirements – descriptors referring to work-related attributes acquired and/or developed through experience and education. – Basic Skills – Developed capacities that facilitate learning or the more rapid acquisition of knowledge. – Cross-Functional Skills – Developed capacities that facilitate performance of activities that occur across jobs. – Knowledge – Organized sets of principles and facts applying in general domains. – Education – Prior educational experience required to perform in a job. Experience Requirements – requirements related to previous work activities and explicitly linked to certain types of work activities. – Experience and Training – If someone were being hired to perform this job, how much of the following would be required? – Basic Skills - Entry Requirement – Entry requirement for developed capaci- ties that facilitate learning or the more rapid acquisition of knowledge. – Cross-Functional Skills - Entry Requirement – Entry requirement for deve- loped capacities that facilitate performance of activities that occur across jobs. – Licensing – Licenses, certificates, or registrations that are awarded to show that a job holder has gained certain skills. This includes requirements for obtaining these credentials, and the organization or agency requiring their possession. Occupation-Specific Information – variables or other Content Model elements of selected or specific occupations. – Tasks – Occupation-Specific Tasks. – Tools and Technology – Machines, equipment, tools, software, and informa- tion technology workers may use for optimal functioning in a high performance workplace. Labor Market Characteristics – variables that define and describe the general characteristics of occupations that may influence occupational requirements. – Labor Market Information – Information related to economic conditions and labor force characteristics of occupations. – Occupational Outlook – Projections of future economic conditions and labor force characteristics of occupations. Occupational Requirements – a comprehensive set of variables or detailed elements that describe what various occupations require. – Generalized Work Activities – General types of job behaviors occurring on multiple jobs. – Detailed Work Activities – Detailed types of job behaviors occurring on multiple jobs. 194 – Organizational Context – Characteristics of the organization that influence how people do their work. – Work Context – Physical and social factors that influence the nature of work. Prendendo spunto da tale modello, la Nomenclatura e classificazione delle unità professionali si presenta come un insieme di unità professionali definite a partire dalla vigente Classificazione delle professioni (CP2001) e utilizzando i repertori delle figure professionali scaturiti dalle indagini nazionali sui fabbisogni realizzate dagli Organismi Bilaterali7 negli ultimi anni, costituendone un maggior livello di dettaglio. Per ogni categoria in cui la Classificazione delle professioni (CP2001) si articola, sono individuate una o più unità, intese come insieme di professioni omogenee ri- spetto a conoscenze, competenze, abilità e attività lavorative svolte. Rispetto alla Classificazione delle professioni (CP2001), la Nomenclatura e classificazione delle unità professionali, oltre ad aumentare il dettaglio della suddivisione, introduce una componente descrittiva delle professioni definendo, per ogni livello, i criteri classifi- catori e i contenuti del lavoro ad esso corrispondente. Ciò trasforma la classificazione in una sorta di “dizionario delle professioni” in grado di favorire l’avvio di un pro- cesso di rappresentazione dei contenuti del lavoro basato su un linguaggio comune. Le professioni vengono descritte e classificate attraverso le seguenti aree tema- tiche: – requisiti del lavoratore; – caratteristiche del lavoratore; – requisiti della professione; – caratteristiche specifiche della professione. Il modello NUP può essere così schematizzato e descritto. 7 OBNF (Organismo bilaterale nazionale per la formazione), EBNA (Ente bilaterale nazionale artigianato), ENFEA (Ente nazionale per la formazione e l'ambiente), ENBT (Ente bilaterale del settore turismo), ENCICREDITO (Ente bilaterale nazionale per il settore del credito), COOP-FORM (Ente bilaterale nazionale formazione ambiente), Chirone2000, Mastermedia, Agriform. REQUISITI DEL LAVORATORE • Conoscenze • Skills REQUISITI DELLA PROFESSIONE • Attività generalizzate di lavoro • Condizioni di lavoro CARATTERISTICHE DEL LAVORATORE • Attitudini • Valori professionali • Requisiti della professione CARATTERISTICHE SPECIFICHE DELLA PROFESSIONE • Attività specifiche di lavoro Indagine NUP 195 Vediamo più in dettaglio le varie aree tematiche. Area tematica - Requisiti del lavoratore Oltre alle informazioni sull’istruzione e la formazione, rientrano in quest’area le informazioni relative alle conoscenze e agli skills del lavoratore. Per conoscenze si intende l’insieme strutturato dei fatti, delle informazioni, dei principi, delle pratiche e delle teorie necessari al corretto svolgimento della pro- fessione e acquisiti nei percorsi di istruzione formali o con l’esperienza. Le cono- scenze sono organizzate in una tassonomia di 33 elementi (item) organizzati in 9 sub-aree: 1) Gestione d’impresa e contabilità 2) Processo di produzione 3) Ingegneria e tecnologia 4) Matematica e scienze 5) Salute e servizi alla persona 6) Formazione e istruzione 7) Scienze umane e sociali 8) Legislazione e pubblica sicurezza 9) Trasporti e comunicazioni Per skills si intendono le procedure e i processi cognitivi che determinano la capacità di eseguire bene i compiti connessi con la professione. Si tratta di pro- cessi appresi con il tempo e che consentono di trasferire efficacemente nel lavoro le conoscenze acquisite. Gli skills sono distinti in due gruppi (gli skills di base e gli skills funzionali) e sono articolati seguendo una tassonomia composta da 35 item in 7 sub-aree: 1) skills di base su contenuti e linguaggi 2) skills di base sulla gestione e controllo dei processi 3) skills funzionali di tipo sociale 4) skills funzionali per il problem solving 5) skills funzionali di tipo tecnico 6) skills funzionali per l’analisi dei sistemi 7) skills funzionali per la gestione delle risorse umane Area tematica - Caratteristiche del lavoratore In quest’area rientrano le informazioni sulle attitudini, i valori e gli stili di lavoro. Le attitudini sono le caratteristiche cognitive, fisiche, sensoriali e percettive dell’indi- viduo, che possono essere d’aiuto nello svolgimento della professione e nell’esecu- zione dei compiti e delle attività lavorative connesse. Queste comprendono 52 item, divisi in quattro gruppi (cognitive, psicomotorie, fisiche e sensoriali) e 15 sub-aree: A) Attitudini cognitive 1) Comunicazione 2) Ragionamento e ideazione 3) Confidenza con il ragionamento matematico 4) Memorizzazione 5) Flessibilità di pensiero 6) Orientamento nello spazio 7) Attenzione B) Attitudini psicomotorie 8) Destrezza fisica 9) Padronanza dei movimenti 10) Riflessi C) Attitudini fisiche 11) Forza fisica 12) Resistenza 13) Equilibrio D) Attitudini sensoriali 14) Percezione visiva 15) Percezione uditiva I valori professionali di ciascun lavoratore sono strettamente connessi alla valutazione di quanto importanti sono certe attività e certe caratteristiche dell’am- biente lavorativo. La tassonomia dei valori professionali è composta da 21 item ed è articolata in sei sub-aree: 1) Achievement o orientamento al risultato 2) Condizioni di lavoro 3) Riconoscimento 4) Aspetti sociali 5) Sostegno 6) Autonomia Per stili di lavoro si intendono una serie di caratteristiche legate alla persona- lità dell’individuo, che determinano il modo in cui il soggetto si relaziona all’am- biente di lavoro, esegue i compiti che la professione richiede e affronta i cambia- menti, che intervengono nel corso dello svolgimento della propria attività. Gli stili di lavoro considerati sono 16, articolati in sette sub-aree: 196 197 1) Orientamento all’obiettivo 2) Leadership 3) Orientamento alle relazioni 4) Stabilità 5) Coscienziosità 6) Autonomia 7) Pensiero produttivo Area tematica - Requisiti della professione In questa area rientrano le informazioni sulle attività generalizzate di lavoro e le condizioni di lavoro. Le attività generalizzate di lavoro sono quegli insiemi di attività lavorative, di pratiche e comportamenti che in varia misura sono comuni a più professioni o pos- sono essere variamente ritrovate nell’esercizio di professioni anche molto differenti fra loro. Le attività generalizzate sono articolate in 41 item, suddivisi in quattro gruppi (trattamento di informazioni, processi mentali, risultati del lavoro, interazione con altri) e 9 sub-aree: A) Trattamento di informazioni 1) Ricercare e ricevere informazioni per il proprio lavoro 2) Identificare informazioni rilevanti B) Processi mentali 3) Elaborare informazioni 4) Prendere decisioni C) Risultati del lavoro 5) Realizzare attività manuali 6) Realizzare attività tecniche o complesse D) Interazione e comunicazione 7) Comunicare e interagire con altri 8) Coordinare e fornire consulenze 9) Amministrare Le condizioni di lavoro rappresentano l’ambiente, le condizioni fisiche e i modi in cui il lavoratore si trova a svolgere il suo lavoro. Le condizioni sono sud- divise nei tre macro gruppi delle relazioni interpersonali, caratteristiche strutturali del lavoro e condizioni fisiche di lavoro. La tassonomia è articolata in 56 item e 13 sub-aree: A) Relazioni interpersonali 1) Comunicazione 2) Relazioni di lavoro 3) Responsabilità nei confronti di altri 4) Situazioni di conflitto B) Condizioni fisiche di lavoro 5) Caratteristiche dell’ambiente di lavoro 6) Condizioni ambientali in cui si svolge il lavoro 7) Esposizione a rischi e sicurezza sul lavoro 8) Aspetti ergonomici C) Caratteristiche strutturali del lavoro 9) Gravità degli errori commessi sul lavoro 10) Autonomia e responsabilità decisionale 11) Livello di routine/varietà del lavoro 12) Livello di competizione dell’ambiente lavorativo 13) Gestione del tempo Oltre alle sub-aree tematiche è anche opportuno tenere presente gli elementi (item) che compongono la tassonomia che articola gli stili di lavoro, le attività generalizzate di lavoro e le condizioni di lavoro. Di seguito la tassonomia adottata dall’ISTAT per la rilevazione e descrizione. STILI DI LAVORO Orientamento all’obiettivo (3 item) Concretizzazione e impegno Persistenza Iniziativa Leadership (1 item) Leadership Orientamento alle relazioni (3 item) Cooperazione Attenzione agli altri Lavoro di gruppo Stabilità (3 item) Autocontrollo Tolleranza allo stress Adattabilità e flessibilità Coscienziosità (3 item) Affidabilità Attenzione al dettaglio Integrità 198 199 Autonomia (1 item) Indipendenza Pensiero produttivo (2 item) Innovazione Analisi ATTIVITÀ GENERALIZZATE DI LAVORO A) Trattamento di informazioni Ricercare e ricevere informazioni per il proprio lavoro (2 item) Raccogliere informazioni Identificare oggetti, azioni ed eventi Identificare informazioni rilevanti (3 item) Controllare processi, materiali o ambienti circostanti Ispezionare attrezzature, strutture o materiali Stimare le caratteristiche quantificabili di prodotti, eventi o informazioni B) Processi mentali Elaborare informazioni (4 item) Valutare la qualità di oggetti, servizi o persone Determinare la conformità agli standard Elaborare informazioni Analizzare dati o informazioni Prendere decisioni (6 item) Prendere decisioni e risolvere problemi Pensare in modo creativo Aggiornare e usare conoscenze di rilievo Mettere a punto obiettivi e strategie Pianificare il lavoro e le attività Organizzare, pianificare e dare priorità al lavoro C) Risultati del lavoro Realizzare attività manuali (4 item) Svolgere attività fisiche generali Maneggiare e muovere oggetti Manovrare macchinari e processi Lavorare con i computer Realizzare attività tecniche o complesse (5 item) Manovrare veicoli, mezzi meccanici o attrezzature Scrivere bozze, stendere note e specifiche tecniche per componenti o attrezzature Riparare e manutenere attrezzature meccaniche Riparare e manutenere attrezzature elettroniche Documentare e registrare informazioni D) Interazione e comunicazione Comunicare e interagire con altri (8 item) Interpretare il significato delle informazioni Comunicare con superiori, colleghi o subordinati Comunicare con persone esterne all’organizzazione Stabilire e mantenere relazioni interpersonali Assistere e prendersi cura di altri Vendere merci o influenzare gli altri Risolvere controversie e negoziare con altre persone Esibirsi o lavorare a contatto diretto con il pubblico Coordinare e fornire consulenze (6 item) Coordinare il lavoro e le attività di altri Far crescere e attivare gruppi di lavoro Formare ed insegnare Guidare, dirigere e motivare i subalterni Addestrare e far crescere altre persone Fornire consulenze e suggerimenti ad altre persone Amministrare (3 item) Svolgere attività amministrative Reclutare il personale Monitorare e controllare risorse CONDIZIONI DI LAVORO A) Relazioni interpersonali Comunicazione (6 item) Frequenza comunicazioni faccia a faccia Frequenza comunicazioni in pubblico Frequenza conversazioni telefoniche Frequenza uso della posta elettronica Frequenza redazione di lettere e appunti Numero di contatti con altre persone Relazioni di lavoro (3 item) Importanza interazione con colleghi e gruppi di lavoro Importanza interazione con clienti esterni o con il pubblico Importanza coordinamento altre persone Responsabilità nei confronti di altri (2 item) Responsabilità salute e sicurezza di altri lavoratori Responsabilità della produzione e risultati di altri lavoratori Situazioni di conflitto (3 item) Frequenza situazioni di conflitto Frequenza contatto con persone arrabbiate o aggressive Frequenza contatto con persone violente o fisicamente aggressive 200 201 B) Condizioni fisiche di lavoro Caratteristiche dell’ambiente di lavoro (7 item) Frequenza lavoro al chiuso, in un luogo controllato dal punto di vista ambientale Frequenza lavoro al chiuso, in un luogo non controllato dal punto di vista ambientale Frequenza lavoro all’aperto, con esposizione a tutte le condizioni climatiche Frequenza lavoro all’aperto ma al riparo Frequenza lavoro in una attrezzatura o in un veicolo aperto Frequenza lavoro in una attrezzatura o in un veicolo chiuso Vicinanza fisica ad altre persone nello svolgimento del lavoro Condizioni ambientali in cui si svolge il lavoro (6 item) Frequenza esposizione a livelli di suono o rumore fastidiosi Frequenza esposizione a temperature molto calde o molto fredde Frequenza esposizione a fonti di luce o a condizioni di luminosità inade- guate Frequenza esposizione a agenti contaminanti Frequenza lavoro in spazi ristretti che costringono in posizioni non usuali Frequenza esposizione a vibrazioni in tutto il corpo Esposizione a rischi e sicurezza sul lavoro (6 item) Frequenza esposizione a radiazioni Frequenza esposizione a malattie o infezioni Frequenza lavoro in posti o luoghi elevati dal suolo Frequenza situazioni di rischio nel lavoro Frequenza lavoro con attrezzature pericolose Frequenza esposizione a piccole bruciature, piccoli tagli, morsi, punture Aspetti ergonomici (11 item) Per quanto tempo lavoro richiede di restare seduto Per quanto tempo lavoro richiede di arrampicarsi su scale, pali, impalcature Per quanto tempo cammina o corre Per quanto tempo lavoro richiede di inginocchiarsi, muoversi carponi o piegarsi Per quanto tempo lavoro richiede di mantenere o recuperare l’equilibrio Quanto tempo lavoro richiede di restare in piedi Per quanto tempo lavoro richiede di usare le mani per manipolare oggetti, attrezzi o sistemi di controllo Per quanto tempo lavoro richiede di piegarsi o storcere il corpo Quanto tempo lavoro richiede di eseguire movimenti ripetitivi Per quanto tempo lavoro richiede di indossare apparati di protezione o di sicurezza Quanto tempo lavoro richiede di indossare apparati specialistici di protezione o di sicurezza C) Caratteristiche strutturali del lavoro Gravità degli errori commessi sul lavoro (1 item) Gravità conseguenze errori commessi nel lavoro Autonomia e responsabilità decisionale (3 item) Impatto decisioni su altre persone o sull’immagine del datore di lavoro Quanto spesso decisioni condizionano altre persone o l’immagine del datore di lavoro Libertà prendere decisioni senza supervisione Livello di routine/varietà del lavoro (4 item) Livello di automazione del lavoro Importanza essere accurati e precisi sul lavoro Importanza e centralità svolgimento compiti ripetitivi Libertà definire compiti, priorità e obiettivi del lavoro Livello di competizione dell’ambiente lavorativo (1 item) Livello di competizione dell’ambiente lavorativo Gestione del tempo (4 item) Frequenza scadenze non rinviabili Importanza controllo sequenze di macchinari o attrezzature Regolarità organizzazione del lavoro Orario settimanale medio Il data base ISTAT (www.professioni.istat.it) è articolato secondo i livelli ripor- tati nella figura seguente (esempio riferito fino ai 5 digit del “tecnico meccanico” del grande gruppo delle “professioni tecniche”). 202 Per ogni livello che articola il “grande gruppo” è disponibile una descrizione generale del gruppo, della categoria, ecc.; di seguito alcuni esempi riferiti al grande gruppo delle professioni tecniche e successivamente alle sue articolazioni (esempio riferito al massimo livello disponibile per identificare il tecnico meccanico). 203 Descrizione di: 3 - PROFESSIONI TECNICHE Il terzo grande gruppo raccoglie le professioni che richiedono, per essere esercitate, le conoscenze opera- tive e l’esperienza necessarie a svolgere attività di supporto tecnico-applicativo in ambito scientifico, umanistico ed economico-sociale, sportivo e artistico. Conoscenze in genere acquisibili completando un ciclo di istruzione secondaria superiore o un corso universitario di studi di primo livello. I loro compiti consistono nell’applicare, eseguendoli in attività di servizio o di produzione, protocolli definiti e prede- terminati; conoscenze consolidate afferenti alle scienze quantitative fisiche, chimiche, ingegneristiche e naturali, alle scienze della vita e della salute; alle scienze gestionali e amministrative; all’insegnare in percorsi particolari di istruzione formale e professionale e al fornire determinati servizi sociali, pubblici e di intrattenimento. 204 Nelle descrizioni sintetiche sopra riportate, non declinabili allo stato in Unità professionali attraverso il data base, si rileva una modalità di descrizione delle atti- vità principali recante in alcuni casi l’esplicita indicazione di vincoli e limiti posti all’agire professionale. Ad esempio: – per le professioni tecniche nelle scienze fisiche, naturali, nell’ingegneria ed assimilate, si fa riferimento a professioni che “eseguono, eventualmente con la supervisione e il coordinamento di...”, che “sovrintendono ad attività...”, che “verificano l’applicazione di...”, che “applicano procedure di controllo...”; – per tecnici meccanici, si intendono coloro che “assistono gli specialisti nelle...”, che “applicano ed eseguono le procedure e le tecniche...”. Descrizione di: 3.1 - Professioni tecniche nelle scienze fisiche, naturali, nell’ingegneria ed assimilate Le professioni classificate in questo gruppo svolgono compiti connessi alla applicazione ed esecuzione di protocolli scientifici in attività e processi produttivi o di ricerca basati su metodi e concetti delle scienze quantitative, chimiche, ingegneristiche ed informatiche. Eseguono, eventualmente con la supervisione e il coordinamento di specialisti, le procedure di laboratorio, di elaborazione e di acquisizione di dati nelle attività di ricerca nel campo della fisica, della chimica e della statistica; sviluppano applicativi informatici attraverso l’uso di linguaggi di programmazione, installano e riparano calcolatori e reti telematiche; ese- guono disegni tecnici; sovrintendono ad attività produttive in ambito ingegneristico; guidano aeromobili e navi; operano con apparecchiature e macchine elettroniche ed ottiche, verificano l’applicazione delle misure di sicurezza degli ambienti, applicano procedure di controllo qualitativo della produzione. Descrizione di: 3.1.2 – Tecnici delle scienze ingegneristiche I Tecnici delle scienze ingegneristiche assistono gli specialisti ovvero eseguono ed applicano procedure e metodi connessi alla ricerca o alla progettazione esecutiva e al coordinamento delle attività di produzione nel campo della meccanica, dell’elettrotecnica, dell’elettronica, delle costruzioni civili, dell’estrazione dei minerali, controllano i relativi sistemi tecnici, apparati ed impianti e ne garantiscono il funzionamento e la sicurezza. L’esercizio delle professioni di Perito Industriale e di Ingegnere junior nelle specializzazioni ri- levate da questa classe è regolata dalle leggi dello Stato. Descrizione di: 3.1.2.1 - Tecnici meccanici I Tecnici meccanici assistono gli specialisti nelle ricerche nel campo dell’ingegneria meccanica, ovvero applicano ed eseguono le procedure e le tecniche proprie per disegnare, modificare, sviluppare e verifi- care prodotti, macchine, attrezzature, per controllare processi produttivi, impianti, apparati e sistemi tec- nici e garantirne il funzionamento e la sicurezza. Descrizione di: 3.1.2.1.0 - Tecnici meccanici I Tecnici meccanici assistono gli specialisti nelle ricerche nel campo dell’ingegneria meccanica, ovvero applicano ed eseguono le procedure e le tecniche proprie per disegnare, modificare, sviluppare e verifi- care prodotti, macchine, attrezzature, per controllare processi produttivi, impianti, apparati e sistemi tec- nici e garantirne il funzionamento e la sicurezza. 205 Si tratta di “espressioni” che possono articolare per livello, anche se in modo molto approssimativo, le professioni tecniche individuate, rendendo possibile qualche correlazione delle stesse con i riferimenti europei; tuttavia, come già sotto- lineato nel precedente paragrafo, evidenti sono i limiti di questa operazione se non si dispone di elementi informativi più “fini”. In generale, comunque, alcune prime considerazioni sul nuovo quadro ISTAT/NUP relativo alle professioni tecniche pos- sono essere organizzate sulla base dei benefici apportati da questa nuova metodo- logia di classificazione e di descrizione nonché sugli elementi di criticità che sem- brano emergere. Benefici apportati – Il quadro ISTAT/NUP consente di disporre di una descrizione sintetica sia per i gruppi professionali (digit a due cifre, nell’esempio “3.1”) sia per le categorie (digit a tre/quattro cifre, nell’esempio “3.1.2”, “3.1.2.1” e “3.1.2.1.0”) prima assenti nella Classificazione delle professioni CP/2001; – l’impianto di rilevazione e descrizione delle professioni avviene sulla base di un set di descrittori molto esteso ed articolato come messo in evidenza dalla tassonomia che articola le aree e le sub-aree tematiche di riferimento per la declinazione delle professioni; – si tratta di descrittori che, colmando le precedenti ampie lacune informative, facilitano la classificazione e la collocazione delle figure individuate nei vari grandi gruppi, gruppi, categorie, ecc. previsti dalla Nomenclatura delle unità professionali; – l’impianto metodologico adottato potrebbe dunque consentire di disporre di un data base nazionale di standard professionali per tutte le figure classificate. Allo stato, infatti, il data base non consente di poter accedere alla descrizione delle Unità professionali correlate alle varie figure professionali individuate; è necessario attendere la disponibilità di tale sezione del data base per poter valutare l’effettiva capacità e la significatività informativa delle Unità profes- sionali ai fini della costruzione di standard professionali nazionali. Criticità Qualche elemento di criticità emerge dalle descrizioni offerte dalla sezione accessibile del data base/NUP; si può osservare, in riferimento all’esempio qui riportato, come tra il digit “3.1.2.1” e il digit “3.1.2.1.0” non è prevista né una diversa definizione tra “classi” e “categorie” professionali (il “tecnico meccanico” è comune alle due) né una diversa descrizione.8 8 In allegato il descrittivo di tutte le professioni tecniche classificate dall’ISTAT secondo la nuova Nomenclatura delle unità professionali (NUP). 206 – nella descrizione del grande gruppo “professioni tecniche” si precisa che si tratta di professioni che “richiedono conoscenze in genere acquisibili comple- tando un ciclo di istruzione secondaria o un corso universitario di studi di primo livello”; in effetti, l’ampia categoria delle professioni tecniche qui con- siderate le contempla tutte indipendentemente dal livello di riferimento; ciò nonostante, sarebbe opportuno che fin dalla descrizione sintetica delle profes- sioni classificate nel “grande gruppo” fosse presente una correlazione esplicita delle professioni tecniche anche al ciclo corto e non solo a quello universitario di primo livello e/o all’istruzione secondaria; – nonostante la presenza di molti descrittori, articolati per aree e sub-aree tema- tiche, non è chiara, almeno fin quando non saranno disponibili “in chiaro” le Unità professionali, la struttura del format per la descrizione delle figure pro- fessionali tecniche e, dunque, non è possibile, allo stato, valutare se il referen- ziale professionale che le declina sia adeguato per poter parlare della presenza di un framework nazionale adeguato per la costruzione di uno standard profes- sionale nazionale delle professioni tecniche e, nello specifico, delle “profes- sioni tecniche superiori”. 4. I TECNICI SUPERIORI COME SEGMENTO DEI LAVORATORI DELLA CONOSCENZA: L’APPROCCIO IFTS La prima sperimentazione a cavallo tra il 1998 e il 1999 e la successiva istitu- zione dei percorsi IFTS (art. 69, legge n. 144 del 17 maggio 1999) ha rappresentato per il sistema-Paese la risposta al bisogno crescente di una formazione professiona- lizzante di medio-alto livello. Il profilo professionale alla base di questo nuovo ca- nale formativo, osserva Aviana Bulgarelli,9 è stato il lavoratore della conoscenza, ovvero un lavoratore ad alta qualificazione assimilabile a professionisti e tecnici, responsabili della gestione e dell’innovazione di processi economici e di servizio ma anche dell’integrazione di progetti, obiettivi, di conoscenze e di risorse. A tal proposito, Vincenzo Persichella,10 sulla base delle descrizioni di Federico Butera,11 sottolinea l’importanza di opportuni distinguo rispetto all’estesa area dei lavoratori della conoscenza. Nello specifico, dalle sue riflessioni emerge un identikit dei lavo- ratori tecnici generabili dalla formazione tecnica superiore – denominati “tecnici o esperti pratici” – come “figure con formazione meno teorica ma con elevata 9 Aviana BULGARELLI, I percorsi IFTS quale strumento per la crescita dei lavoratori della cono- scenza, Quaderni degli Annali dell’Istruzione, pag. 11, Istruzione e Formazione Tecnica Superiore 1998-2003, Le Monnier, 2003. 10 Vincenzo PERSICHELLA, La formazione tecnica superiore, Quaderni degli Annali dell’istru- zione,103-104, 2003, Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS) 1998-2006. Il dizionario delle professioni tecniche, uno studio di fattibilità. 11 BUTERA, 1998, 21-22. 207 formazione ed esperienza pratica, che svolgono attività di risoluzione di problemi o di realizzazione di processi incerti anche attraverso l’uso di specifica strumenta- zione”. Figure che “hanno sia conoscenze tecniche e metodologiche che cono- scenze del contesto applicativo aziendale”, con competenze che “si estendono da quelle solutorie, sensorio-motorie, a quelle diagnostiche e interpretative” e “che richiedono una conoscenza generale e un paradigma indiziario”. Parallelamente alla prima fase di sviluppo della sperimentazione IFTS, il Mini- stero della Pubblica Istruzione promuove e realizza attraverso l’IRSO12 uno speci- fico studio comparato tra diversi sistemi professionali (francese, germanico, spa- gnolo, statunitense) con particolare attenzione ai Knowledge workers; vengono messi a confronto le caratteristiche della formazione tecnico-superiore, i percorsi curriculari e didattici, i sistemi di classificazione e descrizione delle professioni per giungere all’elaborazione di una proposta metodologica per l’individuazione, la de- scrizione e la classificazione dei tecnici superiori e per la progettazione dei relativi percorsi. Riguardo al primo aspetto, lo studio comparato giunge alla conclusione che i “tecnici superiori” possono essere più precisamente identificati tenendo conto dei seguenti elementi connotativi: – hanno competenze e caratteristiche personali di un certo tipo; – di solito sono diplomati o in possesso di titoli di studio post-secondari non universitari; – hanno relazioni non solo con i propri colleghi ma anche con l’esterno; – lavorano per obiettivi e realizzano prestazioni che contribuiscono indiretta- mente alla performance complessiva del sistema organizzativo; – hanno responsabilità di efficacia, qualità o soddisfazione di clienti interni o esterni; – integrano competenze proprie con conoscenze organizzative e di altri; – agiscono da ponte tra mondo simbolico e mondo fisico (quindi per loro sono importanti non solo le dimensioni razionali/cognitive ma anche le competenze contestuali, applicative e le abilità fisiche); – assumono decisioni relative a problemi specifici (ma non relative a sistemi) in autonomia; – di solito lavorano in contesti di gruppo. Tra gli elementi chiave dell’impianto di progettazione dei percorsi IFTS tro- viamo poi ulteriori elementi per “leggere” il tecnico superiore prodotto da questo segmento della formazione superiore. Le figure individuate presentano denomina- zioni e profili “a banda larga”. In coerenza al significato di tale “connotazione”, 12 Ministero della Pubblica Istruzione, IRSO, I ‘knowledge workers’ - le categorie professionali di riferimento a livello UE ed USA con riguardo alla definizione degli standard formativi ed organizzativi dei corsi di istruzione e formazione tecnica superiore (IFTS), 2000. 208 l’approccio IFTS ha “prodotto” figure di tecnico superiore che non “esistono in natura”, concepite in maniera molto ampia e, conseguentemente, caratterizzate da un elevato grado di astrazione rispetto al reale. Ciò spiega: – il fatto che l’individuazione e la descrizione delle figure professionali di riferi- mento del sistema IFTS ha reso necessario un coinvolgimento significativo e un lungo confronto con le Parti sociali, data la necessità di condividere il signi- ficato dei descrittori delle “figure di riferimento” perché non direttamente mutuabili da quelli delle “figure aziendali”; – la necessità di caratterizzare i descrittori delle figure in termini di attività fondamentali da presidiare in riferimento a una determinata area professionale. Il format utilizzato per la descrizione della figura di “tecnico superiore” è risultato dunque articolato in due sezioni: descrizione della figura; attività profes- sionali fondamentali. Di seguito si riporta un esempio relativo al “tecnico superiore di automazione industriale”. In riferimento ai percorsi IFTS sono stati individuati e descritti i tecnici supe- riori elencati nella tavola posta a pagina seguente. DENOMINAZIONE DELLA FIGURA PROFESSIONALE TECNICO SUPERIORE DI AUTOMAZIONE INDUSTRIALE DESCRIZIONE DELLA FIGURA PROFESSIONALE Il tecnico superiore di automazione industriale possiede competenze di automazione industriale, ottenute dalla sintesi di competenze specifiche dei settori elettrico, elettronico, meccanico ed informatico. Collabora alla progettazione delle macchine automatiche e all’integrazione degli impianti automatizzati per la gestione dei processi produttivi. Cura la conduzione delle macchine/impianti relativi a specifiche fasi del processo produttivo. Verifica la conformità del risultato rispetto agli standard, effettuando le regolazioni necessarie e/o intervenendo su eventuali anomalie. ATTIVITÀ PROFESSIONALI FONDAMENTALI - controllare ed eseguire la programmazione di macchine a controllo numerico computerizzato: per la lavorazione, la costruzione e l’assemblaggio; - collaborare nel team di progetto dell’Ufficio Tecnico, per la progettazione di macchine automatiche; - programmare l’assemblaggio, il controllo e la messa in opera di macchine o impianti; - coordinare le attività di controllo sul processo produttivo e sui prodotti, in modo da garantire la qualità complessiva del prodotto-servizio, in conformità alle stabilite procedure aziendali; - a seguito di un’analisi dei rischi, legati alle movimentazioni e alle lavorazioni della macchina, predi- sporre le sicurezze per gli operatori, avendo cura di sincronizzare gli interventi dei dispositivi installati. 209 210 L’approccio IFTS nell’individuazione e connotazione del “tecnico superiore” si fonda inoltre su una impostazione “glocal”: le figure professionali di riferimento sono nazionali mentre i profili (le fisionomie professionali) sono territoriali. Ferma restando l’astrazione rispetto alla realtà concreta che caratterizza entrambi, si è pre- visto che il suo livello diminuisca nel passaggio dalla “figura al profilo”, data la progressiva specificazione rispetto ai contesti locali. Alla figura professionale di ri- ferimento è stato dunque attribuito il ruolo di elemento in grado di fare comunicare i vari sistemi e le istituzioni territoriali perché esplicativa di standard professionali nazionali connotativi dei tecnici superiori in esito a questa tipologia di percorsi. In realtà, effettuando un “campionamento” tra i progetti IFTS attuati, si rileva come tale approccio sia molte volte venuto meno, con adattamenti, anche significa- tivi, della figura di riferimento ancor prima che del suo profilo. Ad esempio, si ri- porta di seguito la comparazione tra la descrizione sintetica della figura del tecnico superiore di automazione industriale concertata a livello nazionale e poi adattata dal “contesto progettuale” di Messina. Rimane sostanzialmente immutata la deno- minazione che, tuttavia, fa riferimento a due figure significativamente diverse. Al di là di questo esempio, significativo tra i molti che si possono trovare, è evidente la difficoltà di assicurare, da parte del sistema-Italia, una “leggibilità” delle figure di tecnico superiore generabili dai percorsi IFTS sulla base di standard professionali convenzionali che possano fungere da punto di riferimento comune per “mettere in trasparenza” il proprio sistema di istruzione e formazione tecnica superiore nel suo complesso. Un’analisi attenta dell’articolazione del format, in particolare dei descrittori proposti, utilizzato per la descrizione delle figure evidenzia poi chiaramente come la struttura e le modalità descrittive degli standard non risultino adeguati rispetto alla necessità di identificare/descrivere la figura di tecnico superiore secondo modalità che consentano la sua correlazione, e collocazione di livello, ai quadri – in primis quelli di valenza europea - delle qualificazioni di riferimento (cfr. di seguito). DESCRIZIONE DELLA FIGURA DI RIFERIMENTO DEL PROGETTO DELL’ITI DI MESSINA TECNICO SUPERIORE DELL’AUTOMAZIONE INDUSTRIALE Il Tecnico dell’Automazione Industriale è un esperto nella gestione dei sistemi automazione applicata al settore indu- striale ai sistemi autronici e domotici. Il Tecnico intera- gisce all’interno del contesto lavorativo con professionisti e specialisti nell’ambito delle scienze ingegneristiche oltre che come operatore nel settore degli impianti di produ- zione, diagnostica e controllo automatico. Per l’esterno si relaziona in modo trasversale con quanti operano nel settore dell’automazione abbracciando ambiti disciplinari eterogenei nei seguenti settori: Impianti automatici per l’edilizia, impianti automatici per l’hotel automation. DESCRIZIONE DELLA FIGURA DA IFTS 463/2000 ART. 5 TECNICO SUPERIORE DI AUTOMAZIONE INDUSTRIALE Il tecnico superiore di automazione industriale possiede competenze di automazione industriale, ottenute dalla sintesi di competenze specifiche dei settori elettrico, elet- tronico, meccanico ed informatico. Collabora alla proget- tazione delle macchine automatiche e all’integrazione degli impianti automatizzati per la gestione dei processi produttivi. Cura la conduzione delle macchine/impianti relativi a specifiche fasi del processo produttivo. Verifica la conformità del risultato rispetto agli standard, effet- tuando le regolazioni necessarie e/o intervenendo su even- tuali anomalie. 211 Nello specifico, tenendo conto che i diversi livelli di qualificazione sono gra- duati principalmente su scale di complessità professionale, i descrittori delle figure IFTS non individuano in modo esplicito la complessità delle attività presidiate e il grado di autonomia e responsabilità richiesto. Eventualmente, qualche indicazione implicita sul livello di autonomia e responsabilità può emergere dallo schema tasso- nomico che può essere dedotto dalla descrizione delle attività fondamentali indi- viduate. A esempio, l’eseguire/l’applicare possono identificare un livello basso di autonomia e responsabilità, che crescono progressivamente man mano che si passa dal collaborare/coadiuvare/partecipare, al coordinare/predisporre, fino al formulare/ suggerire soluzioni/proposte di miglioramento. Ritornando al Tecnico di automazione industriale, in particolare alle attività che lo connotano, evidenziamo, ad esempio: – controllare ed eseguire la programmazione di macchine a controllo numerico computerizzato per la lavorazione, la costruzione e l’assemblaggio; – collaborare nel team di progetto dell’Ufficio Tecnico, per la progettazione di macchine automatiche; – programmare l’assemblaggio, il controllo e la messa in opera di macchine o impianti; – coordinare le attività di controllo sul processo produttivo e sui prodotti, in modo da garantire la qualità complessiva del prodotto-servizio, in conformità alle stabilite procedure aziendali; – a seguito di un’analisi dei rischi, legati alle movimentazioni e alle lavorazioni della macchina, predisporre le sicurezze per gli operatori, avendo cura di sin- cronizzare gli interventi dei dispositivi installati. Il descrittore – attività professionali fondamentali – offre comunque poche possibilità di cogliere il loro grado di complessità (che potrebbe dipendere, ad esempio, dal livello di variabilità del contesto nel quale si esplicano oppure dalla tipologia di relazioni interne/esterne che le caratterizzano, dall’incidenza delle pre- stazioni tipiche sulla performance complessiva del sistema organizzativo, ecc.). Per le ragioni evidenziate, appare evidente come, attraverso l’approccio IFTS è riuscito solo parzialmente a declinare la figura del tecnico superiore in termini di standard professionali e, di conseguenza, come sia molto difficoltoso correlare, in un’ottica comparata, i riferimenti nazionali con quelli di rilevanza internazionale, in primis con quelli europei. Questo anche a causa della non distinzione tra standard professionali e standard formativi. Il concetto di standard utilizzato nell’ambito del- l’IFTS si caratterizza, infatti, per una polarizzazione sul “formativo”. In effetti, al tecnico superiore, così come è connotato dall’esperienza IFTS, sono stati associati standard minimi delle competenze, intesi come il “risultato mi- nimo in esito ai percorsi formativi, specificato in termini di competenze verificabili e certificabili, che, a sé stanti, possono essere riconosciuti come crediti formativi” (Accordo del 19/11/2002 – Allegato C del Documento Tecnico, art. 1) e come 212 “punto d’incontro tra la domanda di professionalità del sistema produttivo e la costruzione di un percorso formativo coerente, che assicuri la più ampia occupa- bilità della persona ed insieme il suo sviluppo culturale e professionale, anche in relazione a successivi cicli di apprendimento in percorsi di studio e di lavoro” (Accordo del 19/11/2002 – Allegato C del Documento Tecnico, art. 4). Standard minimi delle competenze che hanno dunque l’obiettivo di: – assicurare la base minima di competenze comuni al tecnico superiore; – favorire l’occupabilità e dunque la flessibilità della professionalizzazione; – assicurare la confrontabilità con i parametri europei; – costituire il fondamento architettonico della progettazione di dettaglio delle unità formative, per la definizione della figura nazionale, nella quale sono ricompresi i profili regionali, conservandone la matrice comune. In riferimento alla figura di “tecnico superiore” sono stati dunque identificati e declinati standard minimi delle competenze di base e trasversali e standard delle competenze tecnico-professionali. Il format adottato per descrivere gli standard delle competenze è risultato articolato in unità capitalizzabili (“intese come insieme di competenze, autonomamente significativo, riconoscibile dal mondo del lavoro come componente di specifiche professionalità”, Accordo del 19/11/2002 – Alle- gato C del Documento Tecnico, art. 4). Il format dell’unità capitalizzabile ha previsto una sua definizione così artico- lata (cf. figura seguente): – denominazione specifica; – denominazione delle competenze che compongono l’insieme; – descrizione delle competenze in termini di “sapere in azione”; – modalità di valutazione. Indica le competenze il cui insieme consente il presidio di un’area di attività Indica gli elementi costitutivi di ciascuna competenza Indica ciò che deve essere considerato per valutare la padronanza delle competenze al livello minimo Indica ciò che viene richiesto al soggetto perché dimostri di aver acquisito le competenze dell’UC 213 Per quanto attiene alle competenze di base, le unità capitalizzabili relative agli standard previsti per i percorsi IFTS sono i seguenti: COMPETENZE LINGUISTICHE (del tecnico superiore) – Utilizzare l’Inglese in modo autonomo ‰ Comprendere (ascoltare ed elaborare) testi orali, anche complessi e articolati, su argomenti concreti e astratti inerenti la vita quotidiana (dominio pubblico-sociale e privato-personale), in presenza o da mezzi di comunicazione ‰ Comprendere (leggere ed elaborare) testi scritti, anche complessi e strutturati, su argomenti concreti e astratti inerenti la vita quotidiana (dominio pubblico-sociale e privato-personale), distinguendo le diverse fonti informative e disponendo di un proprio vocabolario personale ampio e articolato ‰ Interagire, con un certo grado di scioltezza e spontaneità, in conversa- zioni (orali) e comunicazioni (scritte) relative ad argomenti ordinari e straordinari nell’ambito dei propri interessi, esprimendo e sostenendo le opinioni personali con spiegazioni ed argomentazioni efficaci ‰ Esporre oralmente descrizioni e presentazioni su un’ampia varietà di argomenti noti, sviluppandone e supportandone i contenuti con appro- fondimenti ed esempi rilevanti ‰ Produrre testi scritti, anche complessi e dettagliati, su un’ampia varietà di argomenti noti, comparando e sintetizzando informazioni provenienti da fonti diverse – Utilizzare l’Inglese come linguaggio tecnico ‰ Utilizzare la lingua inglese per orientarsi all’interno del mercato del lavoro globale, individuando le opportunità professionali di interesse, a scopo formativo e/o occupazionale (looking out) ‰ Comprendere (ascoltare ed elaborare) testi orali, anche complessi e arti- colati, su argomenti concreti e astratti inerenti il dominio professionale (settore/contesto produttivo di riferimento), in presenza o da mezzi di comunicazione ‰ Comprendere (leggere ed elaborare) testi scritti, anche complessi e strutturati, su argomenti concreti e astratti inerenti il dominio professio- nale (settore/contesto produttivo di riferimento), distinguendo le diverse fonti informative e disponendo di un proprio vocabolario tecnico ampio e articolato ‰ Interagire, con un certo grado di scioltezza, spontaneità e precisione terminologica, in conversazioni (orali) e comunicazioni (scritte) relative ad argomenti ordinari e straordinari nell’ambito professionale (formativo e lavorativo), esprimendo e sostenendo le proprie tesi con spiegazioni ed argomentazioni efficaci 214 ‰ Esporre oralmente, in ambito formativo o lavorativo, descrizioni e pre- sentazioni su temi tecnico-specialistici relativi al dominio professionale, sviluppandone e supportandone i contenuti con approfondimenti ed esempi rilevanti ‰ Produrre testi scritti, anche complessi e dettagliati, su temi tecnico-spe- cialistici relativi al dominio professionale, comparando e sintetizzando in- formazioni provenienti da fonti diverse COMPETENZE SCIENTIFICHE E TECNOLOGICHE (del tecnico superiore) – Informatica di base ‰ Utilizzare in modo consapevole un computer e i principali programmi applicativi ‰ Comunicare con strumenti informatici nel proprio ambiente di lavoro e all’esterno ‰ Ricercare informazioni funzionali alla sua attività lavorativa ‰ Analizzare, elaborare e rappresentare informazioni – Dati e previsioni ‰ Interpretare dati utilizzando indicatori di sintesi e di variabilità ‰ Studiare connessioni e correlazioni ‰ Analizzare le caratteristiche e le proprietà di una variabile aleatoria COMPETENZE GIURIDICO - ECONOMICO – AZIENDALI (del tecnico superiore) – Le norme di diritto nazionale, comunitario, internazionale ‰ Distinguere le principali fonti normative e il loro ambito di applicazione ‰ Identificare i principali vincoli normativi che regolano la vita dell’impresa ‰ Orientarsi nel sistema giudiziario ed extragiudiziario per la gestione delle controversie – La sicurezza e la prevenzione ‰ Utilizzare il sistema della sicurezza nell’ambiente di lavoro ‰ Applicare i principi fondamentali di prevenzione ‰ Affrontare le principali situazioni di emergenza ‰ Collaborare al mantenimento delle condizioni di sicurezza nel luogo di lavoro – Il rapporto di lavoro ‰ Identificare le diverse forme contrattuali previste per il rapporto di lavoro ‰ Orientarsi nel mercato del lavoro ‰ Descrivere gli elementi essenziali di un documento retributivo – L’impresa e la sua organizzazione ‰ Individuare le caratteristiche del settore e dei mercati in cui opera un’im- presa ‰ Descrivere i principali elementi che contribuiscono al funzionamento del- l’impresa 215 ‰ Descrivere i più comuni modelli organizzativi ‰ Mettere in relazione le scelte organizzative dell’impresa con le caratteri- stiche del suo mercato e del territorio d’insediamento ‰ Individuare i fattori che concorrono a produrre i risultati dell’impresa – La realizzazione dell’idea di impresa ‰ Identificare un’idea di business ‰ Sviluppare un piano di realizzazione del progetto di business (business plan) ‰ Sviluppare le linee essenziali di un piano di finanziamento ‰ Orientarsi tra le forme d’impresa ‰ Valutare la fattibilità e convenienza del progetto complessivo Per quanto attiene alle competenze trasversali del tecnico superiore, gli stan- dard previsti per i percorsi IFTS sono i seguenti. DIAGNOSTICARE – Esplicitare le proprie motivazioni e aspettative – Esplorare la propria prospettiva temporale e delineare un progetto profes- sionale – Esaminare una situazione organizzativa e utilizzare le tecniche per la rac- colta di informazioni da fonti diverse – Utilizzare le tecniche per la diagnosi di problemi sia strutturati sia impliciti RELAZIONARSI – Dare e chiedere informazioni a livello interpersonale e di gruppo di lavoro con l’ausilio di strumenti (comunicazione orale, scritta, telefonica, mediata dal computer ecc.) – Codificare e decodificare i messaggi verbali e non verbali e quelli inviati con supporti di natura differente – Adattare i propri stili e le proprie strategie comunicative alle esigenze del contesto e degli interlocutori individuali e collettivi, riconoscendo le speci- fiche strategie comunicative e di feed-back adottate dagli altri (colleghi, su- periori, collaboratori) – Inserirsi in modo efficace in una rete comunicativa e riconoscere i principali fenomeni dell’interazione in un gruppo – Riconoscere i principali fenomeni che caratterizzano le dinamiche interne a un gruppo di lavoro e le relazioni tra gruppi – Riconoscere e controllare gli effetti dell’influenzamento sociale sulle attività di diagnosi collettiva e di decisione collettiva – Comparare le diverse soluzioni per facilitare la presa di decisione collettiva. Valutare la natura delle divergenze, dei vincoli e delle risorse per definire obiettivi realistici di soluzione 216 – Argomentare e utilizzare modalità di comunicazione persuasiva nelle rela- zioni interpersonali e nel gruppo di lavoro – Diagnosticare rapidamente situazioni di possibile conflitto interpersonale e di gruppo – Differenziare tecniche e stili di mediazione, concertazione e negoziazione, in relazione al contesto e agli scopi da raggiungere – Gestire situazioni di conflitto AFFRONTARE – Sviluppare strategie efficaci di apprendimento dall’esperienza in contesti diversi – Utilizzare tecniche per monitorare e regolare i propri percorsi di azione professionale – Utilizzare la diagnosi degli errori per migliorare i propri percorsi di azione – Mantenere un buon livello di coinvolgimento e di motivazione all’azione professionale – Valutare una situazione problematica o un compito complesso, mettendoli in relazione con le proprie capacità, i propri scopi e le risorse situazionali – Valutare il proprio grado di implicazione diretta e di responsabilità in una situazione o un problema o come (e se) delegare ad altri azioni e respon- sabilità – Definire con chiarezza obiettivi, risultati attesi e ambiti di azione possibili a fronte di un problema da risolvere di natura sociale, tecnica o organizzativa – Definire una strategia di azione per affrontare un problema o una situa- zione, valutando vincoli e risorse del contesto in relazione agli obiettivi da raggiungere, tenendo presenti le conseguenze delle azioni adottate – Definire criteri e modalità per monitorare e valutare i risultati di una strategia di azione, assumendo anche punti di vista diversi dal proprio – Produrre soluzioni creative in gruppo utilizzando specifiche tecniche di problem solving – Valorizzare i metodi per lo sviluppo della creatività, individuali e di gruppo – Organizzare le conoscenze individuali e di contesto per finalizzarle meglio alla attuazione dei progetti di routine e innovativi – Utilizzare in modo rapido le risorse esistenti (tecniche, strumentali, cono- scitive ecc.) per riportare a norma il processo di lavoro – Gestire le relazioni interpersonali e di gruppo influenzate dalle situazioni impreviste o di emergenza. Una sintesi degli elementi che connotano, dal punto di vista professionale e formativo, il tecnico superiore in uscita dai percorsi IFTS è poi offerta da vari documenti che accompagnano la sperimentazione. Nello specifico, troviamo che il tecnico specializzato nei percorsi IFTS: 217 – svolge principalmente attività di carattere tecnico-operativo, connesse alla ri- cerca e all’applicazione di concetti e metodi scientifici nel campo delle scienze umane, sociali, fisiche e naturali; – ha solide competenze di base e trasversali, coniugate con approfondite compe- tenze tecniche e professionali di settore; tra le competenze di base, si sottoli- neano quelle linguistiche (ascoltare, parlare, leggere e scrivere con efficacia, specialmente in inglese), quelle scientifiche e tecnologiche (soprattutto infor- matiche e statistiche) e quelle giuridico-economico-aziendali (riferite al diritto comunitario, internazionale e del lavoro, alla sicurezza, all’organizzazione aziendale, alla realizzazione dell’idea di impresa); tra le competenze trasversali si evidenziano quelle comunicative e relazionali (diagnosticare, comunicare, relazionarsi, affrontare, risolvere...) e quelle organizzative (lavorare in gruppo, negoziare, pianificare obiettivi e risorse, curare l’efficienza, l’efficacia...). 5. I TECNICI SUPERIORI E IL SISTEMA DI ALTA FORMAZIONE PROFESSIONALE: L’ESPERIENZA DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO La recente sperimentazione di percorsi di Alta formazione professionale da parte della Provincia autonoma di Trento (cfr. Prima parte) ha condiviso la visione del tecnico superiore alla base dei percorsi IFTS. Le linee guida per la progetta- zione dei percorsi pilota avviati nel 2006 precisano: L’Alta formazione professionale fa riferimento a quella gamma articolata di attività lavorative a forte incidenza delle componenti knowledge-based di carattere esperto sia nell’ambito tecnico sia in quello socio-organizzativo. Di conseguenza, le figure di riferimento dell’Alta formazione professionale si caratterizzano per: – responsabilità di innovazione e gestione di processi complessi; – produzione, nell’ambito dei processi produttivi e lavorativi, di output immateriali come servizi, integrazione, coordinamento, innovazione; – gradi di autonomia elevati. Si tratta, dunque, – precisano le linee guida di avvio della sperimentazione – “di figure professionali ad alta qualificazione, assimilabili a professionisti e tecnici, responsabili della gestione e dell’innovazione di processi economici e di servizio, ma anche dell’integrazione di progetti, di obiettivi, di conoscenze e di risorse. Ne consegue, il necessario riferimento a figure collocabili nella fascia medio-alta delle professioni, con particolare riferimento sia a “figure esperte”, sia a quelle tipiche del management intermedio”. Si precisa, inoltre, che “dal punto di vista delle finalità generali (competenze professionali e personali), l’Alta formazione professionale mira al potenziamento del processo di maturazione della persona attraverso una maggiore capacità di comprensione della realtà, una più decisa e puntuale capacità di giudizio e di deci- sione, una maggiore attenzione alle diversità dei fattori in gioco, una più approfon- 218 dita sensibilità etica e sociale. In tal senso, il tecnico superiore rappresenta una persona con gradi più elevati di coscienza di sé, autostima, capacità decisionale, re- sponsabilità, capacità di sostenere tensioni ed incertezze in vista degli scopi prefissi che comprendono aspetti produttivi e umani”. Dal punto di vista culturale, si prevede che “il tecnico superiore possieda quadri di riferimento concettuali adeguati per interpretare la realtà in vista della sua trasformazione. Deve essere abituato quindi a leggere la realtà secondo concetti che possono spiegare i diversi fenomeni ed adattarli meglio a nuove e diverse esi- genze.” Di qui la centralità, tra gli elementi che connotano il tecnico superiore ge- nerato dall’Alta formazione professionale, delle competenze a carattere generale ed a largo spettro che: – da una parte, riguardano il saper comunicare efficacemente, anche in una o più lingue straniere, avvalendosi delle espressioni tipiche del settore e del livello professionale previsto, la gestione della relazione con gli altri (interlocutori interni/esterni), la lettura dei contesti aziendali secondo approcci di carattere strategico, sistemico e di integrazione verticale e orizzontale delle strutture, l’uso corretto dei tipici strumenti informatici e statistici a supporto delle attività di programmazione, amministrazione e gestione, controllo, l’interpretazione e la valutazione di eventi, situazioni, fatti di natura tecnica, sociale, organizzativa avvalendosi di un buon livello di conoscenze attinenti alle scienze umane, fisiche e naturali, alle teorie della comunicazione e dell’organizzazione, ecc.; – e dall’altra, sono connesse ai processi di pensiero e di cognizione, alle moda- lità di comportamento nei contesti sociali e lavorativi, alle capacità di riflet- tere, usare strategie di autoapprendimento e di autocorrezione. L’approccio progettuale adottato in Trentino offre inoltre una connotazione, dal punto di vista professionale, del tecnico superiore come “figura capace di orchestrare – nel fronteggiare e risolvere problemi con implicazioni sul piano scientifico, tecnico e relazionale – tutte quelle risorse che gli consentono di assu- mere livelli significativi di responsabilità e autonomia nelle attività di programma- zione, amministrazione e gestione, controllo”. Come per l’esperienza IFTS, la figura di riferimento non deriva dalla “foto- grafia” di un ruolo lavorativo presente nelle aziende ma rappresenta il risultato di una elaborazione concettuale – un profilo condiviso cui tendere” (profilo “to be”) – che tiene conto: – delle aspettative che le Parti sociali esprimono in ordine al profilo che una fi- gura tecnica di questa natura deve avere per inserirsi e operare efficacemente nei processi lavorativi tipici di riferimento; – dell’esigenza di connotare il profilo “to be” come profilo “a banda larga”, ca- pace di operare con un buon livello di autonomia e responsabilità professionale nell’ambito dei diversi processi lavorativi chiave del settore/ambito di riferi- mento. 219 A differenza dell’approccio metodologico che connota le figure di riferimento dei percorsi IFTS, l’esperienza trentina presenta una significativa specificità: il ri- ferimento alle principali attività caratterizzanti il tecnico superiore è espresso in modo da consentire di individuare le aree di presidio professionale fondamentali della figura che viene scomposta secondo le caratteristiche del processo di lavoro che essa presidia. Al fine di assicurare la connotazione a “banda larga” della figura, il numero di processi/aree di attività individuati per ogni figura è limitato a quelli/ quelle effettivamente connotativi/e, individuati/e dall’analisi strutturata del proces- so lavorativo che, nel modello progettuale trentino, caratterizza la costruzione del referenziale professionale del tecnico superiore. I processi/aree connotativi ven- gono poi associati alla competenze fondamentali necessarie al loro presidio. La presenza di un referenziale professionale della figura di tecnico superiore, articolato attraverso uno specifico format è un ulteriore elemento di specificità del- l’approccio progettuale dell’Alta formazione professionale. Il format utilizzato è stato sviluppato partendo da quello proposto dall’ISFOL13 per la descrizione delle figure professionali dell’area meccanica in esito ai vari seg- menti di formazione. Parallelamente, l’approccio metodologico trentino ha anche tenuto conto degli esiti in progress del Progetto Interregionale denominato “Descri- zione e certificazione delle competenze e famiglie professionali – Standard minimi in una prospettiva di integrazione tra istruzione, formazione professionale e lavoro”, nello specifico della messa a punto di una proposta relativa alla struttura e agli indicatori che dovrebbero essere utilizzati per la costruzione di uno standard professionale nazionale. L’articolazione dei descrittori è risultata la seguente: • denominazione della figura; • descrizione sintetica della figura; • indicazione del settore professionale di riferimento; • descrizione della collocazione organizzativa della figura; • specificazione delle competenze connotative della figura; • specificazione delle caratteristiche personali che possono concorrere allo svolgimento di prestazioni o performance valide; • aspetti che possono caratterizzare l’evoluzione professionale prossima (medio periodo) della figura; • indicazione del livello europeo di riferimento delle classificazioni europee dei titoli e delle qualifiche; • indicazione delle attività economiche di riferimento (corrispondenza della figura con la Classificazione delle attività economiche ATECO); • indicazione dei profili professionali equivalenti (corrispondenza della figura con le Classificazioni delle professioni ISTAT); 13 Cfr. La riforma dell’istruzione e della formazione professionale. Mappe concettuali dell’area meccanica, ottobre 2002. 220 Ogni descrittore assume il seguente significato: Denominazione della figura professionale Indica la denominazione della figura professionale. Professioni NUP/ISTAT correlate Esplicita, facendo riferimento alla classificazione ISTAT delle professioni, la denominazione della/e figura/e professionale/i collegata/e – collegabile/i alla figura. Descrizione sintetica della figura professionale Descrive sinteticamente la figura sulla base di quanto dettagliato nei punti successivi del referen- ziale professionale. Caratterizzazione e collocazione organizzativa: • Descrizione dei processi lavorativi fondamentali • Descrizione delle attività/compiti • Indicazione delle interazioni principali nel contesto lavorativo Specifica le caratteristiche della figura professionale dal punto di vista: - del/i processo/i produttivo/i-lavorativo/i in cui opera; - delle attività e dei compiti fondamentali riferite (riferibili) ai processi nei quali opera la figura, specificando il livello di responsabilità e di autonomia professionale; - delle interrelazioni/collegamenti/collaborazioni con altri ruoli/professionalità del contesto organizzativo/lavorativo di riferimento e/o con interlocutori esterni al contesto lavorativo. Evoluzione professionale prossima Viene indicata la probabile evoluzione professionale prossima della figura professionale dopo periodi più o meno lunghi di esperienza e/o a seconda delle caratteristiche del contesto aziendale di riferimento. Quadro europeo delle qualifiche (EQF), livello correlato Livello di riferimento della figura (indicazione livello). Correlazione con le figure professionali IFTS (D.I n. 436/2000) Indica, sulla base dei repertori nazionali definiti attraverso gli Accordi in Conferenza Unificata del 14 settembre 2000, del 1° agosto 2002, del 29 aprile 2004 e del 25 novembre 2004, la deno- minazione delle figure professionali dell’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS) eventualmente correlabili alla figura. Competenze connotative Vengono, rispetto a ogni processo lavorativo individuato, indicate le competenze connotative della figura, nello specifico quelle competenze che sono più facilmente generalizzabili. Il quadro delle competenze è articolato nelle diverse dimensioni/aree di competenza: - dimensione/area strumentale (applicazione di tecniche, uso di tecnologie e applicazione di conoscenze teoriche, ecc.); - dimensione organizzativa; - dimensione relazionale; - dimensione strategica. Attività economiche di riferimento: • Indicazione settori/comparti • Correlazione con i settori/comparti indicati nella classificazione ISTAT/ATECO 2007 delle attività economiche Indica i settori/comparti economici ove è prevalente lo sbocco occupazionale. Esplicita, facendo riferimento alla classificazione ISTAT/ATECO/2007 delle attività econo- miche, la denominazione dei settori/comparti di riferimento della figura. 221 Tale struttura di referenziale, in coerenza con il format proposto per la descri- zione degli standard professionali dal Progetto Interregionale: – considera la figura, l’elemento centrale per la descrizione degli standard pro- fessionali; – esplicita i descrittori fondamentali per declinare la figura; – associa le aree di attività fondamentali presidiate dalla figura alle competenze necessarie. Notevole risulta quindi l’ampliamento dei descrittori del tecnico superiore di riferimento per l’Alta formazione professionale (AFP) rispetto a quello in esito ai percorsi IFTS. Per un’analisi comparata si veda la seguente matrice. Il confronto tra i due sistemi di descrizione mostra come, nel caso del tecnico superiore IFTS, vi sia l’indicazione delle attività svolte (breve lista) ma non le aree di presidio e/o i processi fondamentali della figura con alcune conseguenze: – la figura IFTS non può essere scomposta in competenze fondamentali al pre- sidio di processo; siamo dunque in assenza di quel descrittore (le competenze) che individua i prerequisiti di professionalità che sono indispensabili; – non è possibile cogliere la rete di relazioni (interne/esterne) che connota la figura e che, come si è avuto modo di vedere (cfr. par. 1.), contribuisce a caratterizzare l’ambiente del tecnico superiore. Considerando il referenziale professionale dei tecnici superiori AFP vi sono poi descrittori che cercano di mettere più a fuoco il contesto di operatività (ad esempio, le tipologie prevalenti di organizzazioni in cui la figura opera, i principali settori), al di là del rimando della classificazione ISTAT delle attività economiche PRESENZA DEL DESCRITTORE AFP x x x x x x x x x x x IFTS x x x x x DESCRITTORI DELLA FIGURA DI TECNICO SUPERIORE Denominazione della figura professionale Profili collegati – collegabili alla figura (ISTAT 2001) Descrizione sintetica della figura professionale Caratterizzazione e collocazione organizzativa Descrizione processi lavorativi fondamentali Descrizione delle attività/compiti Indicazione delle interazioni principali nel contesto lavorativo Competenze connotative Evoluzione professionale prossima Attività economiche di riferimento Indicazione settori/comparti Correlazione con i settori/comparti ISTAT/ATECO 2002 Correlazione con il quadro europeo delle qualifiche (prima ECTS poi EQF) 222 che in certi casi può anche risultare “stretta”, oppure che intendono dare una “veste dinamica” al referenziale, tracciando ciò che si può ipotizzare, guardando al medio periodo, in termini di evoluzione del profilo e delle conseguenti necessità di manu- tenzione. Anche nel referenziale professionale AFP vi è stato, come nell’approccio metodologico IFTS, il tentativo di esprimere il livello di complessità del profilo, soprattutto in termini di grado di autonomia e responsabilità richiesto. Anche qui sono stati impiegati descrittori che consentano di graduare i livelli di autonomia e responsabilità professionale attraverso “scale” costruite sulla base della tassonomia descrittiva delle attività svolte dalla figura. Ad esempio, considerando la figura di “tecnico superiore dei processi industriali automatizzati” (per un maggior dettaglio si veda l’allegato), evidenziamo: – collaborare alla definizione e implementazione dei cicli di lavorazione in stretta integrazione con la progettazione del prodotto; – realizzare la formazione/aggiornamento degli operatori addetti al processo pro- duttivo per quanto concerne gli obiettivi tecnologici, i metodi di lavorazione, gli esiti delle analisi dei fattori/parametri più influenti relativi a efficienza, qua- lità, sicurezza, gli sviluppi del miglioramento del processo e del prodotto; – definire la fattibilità e la priorità delle azioni (piani di intervento) e relative tempistiche per la eliminazione delle “anomalie” di funzionamento del pro- cesso; – formulare proposte di iniziative per migliorare l’efficienza e la prestazione globale degli impianti attraverso attività di miglioramento continuo e interventi di upgrade. Il “framework AFP” rappresenta – nella direzione di disporre di una griglia per una più puntuale identificazione delle caratteristiche che connotano un tecnico superiore – un passo avanti, rispetto all’approccio descrittivo IFTS. Tuttavia, non mancano necessità di ulteriore implementazione: – in coerenza con le indicazioni fornite a livello europeo, la scala delle comples- sità professionali, così come il format per la descrizione degli standard profes- sionali prodotto dall’Interregionale Competenze propone, dovrebbe necessaria- mente trovare un arricchimento sulla base di specifici descrittori della com- plessità delle attività presidiate, del grado di autonomia e responsabilità richiesto, del grado di complessità delle conoscenze necessarie, del livello di variabilità dei contesti lavorativi in cui la figura opera in modo prevalente; – non vi sono descrittori sulla presenza attuale e sulla richiesta, soprattutto prospettica, della figura sul mercato del lavoro e sulle tipologie contrattuali maggiormente applicate; – tra i descrittori analitici proposti dal framework potrebbero trovare colloca- zione anche le caratteristiche del lavoratore (valori e stili tipici, motivazioni necessarie, ecc.); in altri termini, un set di descrittori in grado di ampliare 223 l’approccio alla descrizione delle competenze alle “personal skills”; un’arti- colazione della dimensione delle competenze non solo per aspetti legati alle conoscenze o alle abilità ma per attitudini e caratteri personali (elementi ca- ratteriali che meglio si declinano con un esito di successo nella professione di riferimento oppure “doti” richieste per lo svolgimento delle attività tipiche della professione) andrebbe nella direzione di poter disporre di un modello di classificazione del “tecnico superiore” maggiormente correlabile non solo ai quadri europei di riferimento professionale ma anche a quelli utilizzati nei Paesi nei quali i sistemi di riferimento per la classificazione delle professioni risultano storicamente già evoluti (ad esempio, Stati Uniti, Francia, Germania, Svezia, Spagna, ecc.) e adeguati per graduare le figure di differente livello professionale. 6. IL FABBISOGNO DI TECNICI SUPERIORI: LA NECESSITÀ DI UN MODELLO INTER- PRETATIVO Sulla base delle diverse esperienze riscontrate e descritte in precedenza è possibile trarre alcune prime considerazioni. L’assenza strutturale a livello nazio- nale di informazioni sistematiche e ad ampio spettro sulle professioni in parte colmata attraverso il rinnovamento metodologico della Classificazione delle pro- fessioni Istat e il suo sviluppo verso la nuova Classificazione e Nomenclatura delle Unità Professionali. Tale evoluzione, come si è visto, costituisce un forte contributo metodologico e cognitivo soprattutto nella direzione di poter individuare, definire e descrivere meglio i costrutti delle professioni tecniche sulla scorta di esperienze, ormai ampiamente collaudate, come quella statunitense, considerata dagli studi comparati più recenti come “modello” di riferimento. Si dovrà, tuttavia, attendere che il sistema informativo a supporto della gestione delle Unità professionali entri a regime per verificare l’effettiva significatività e piena valorizzazione di tutti gli elementi informativi che possono essere generati dal nuovo impianto metodologico Istat. Ciò che è inoltre emerso da questa prima analisi è senza dubbio la non facile tipizzazione del lavoratore tecnico e, nello specifico, la sua articolazione per livelli ai quali poi correlare le differenti qualificazioni quale quella del “tecnico supe- riore”. Un aiuto soltanto approssimativo giunge dal Quadro europeo EQF recente- mente approvato, data la sua natura (framework socialmente determinato e conven- zionale) e le sue finalità (centratura sui risultati di apprendimento). Poco aiuta anche l’esperienza IFTS che ha definito un repertorio di figure nazionali di tecnico superiore alle quali sono stati associati standard prevalentemente formativi (le com- petenze in esito ai percorsi formativi) piuttosto che professionali, con informazioni sui contenuti delle professioni principalmente limitate alle attività professionali fondamentali. L’assenza di riferimenti alla molteplicità delle dimensioni che inter- vengono nella definizione di una professione è stata in parte colmata dall’imposta- 224 zione metodologica di messa a punto e di descrizione dei referenziali professionali delle figure di riferimento dell’Alta formazione professionale (tecnici superiori correlati al livello 5/EQF), recentissima esperienza promossa dalla Provincia auto- noma di Trento. La raccolta analitica di informazioni attraverso un’analisi dei pro- cessi di lavoro di riferimento delle figure di Alta formazione professionale, la distinzione tra attività e competenze, la declinazione per livelli di complessità, di autonomia/responsabilità decisionale e di interazione/comunicazione dell’agire pro- fessionale, rende disponibile un possibile modello, sperimentato sul campo, di format descrittivo dello standard professionale del “tecnico superiore”. Tale modello richiede, tuttavia, un’ulteriore implementazione nella direzione di considerare, al fine di individuare e descrivere gli elementi che connotano la professione (il profilo), non il solo ambito del lavoro ma anche le caratteristiche personali dei lavoratori e del mercato del lavoro di riferimento (dimensione quantitativa e qualitativa della do- manda emergente e prospettica, condizioni fisiche ed ergonomiche di lavoro, livelli retributivi, modalità di reclutamento, percorsi di ingresso, assestamento e sviluppo professionale, tipologia di rapporti di lavoro, ecc.). Emerge dunque in modo evidente la centralità di un modello di individuazione, descrizione e classificazione dei tecnici superiori fondato su un processo di carattere multidimensionale. Cogliere, dunque, il bisogno di tecnici superiori richiede un percorso ampio che guarda sia all’organizza- zione che all’individuo entro quel sistema di appartenenza (il contesto territoriale con le sue specificità, i suoi valori, le sue politiche) che ne determina e modula i comportamenti. Per questa ragione, l’analisi dei fabbisogni assume in questo caso, ancor più che in generale, il significato di fatto soprattutto interpretativo. 6.1. Bisogni del territorio e fabbisogno formativo: la necessità di un modello interpretativo La possibilità di rispondere ai bisogni di un territorio richiama, in generale, l’esigenza di disporre di strumenti di rilevazione e diagnosi in grado di consentire la formulazione di ipotesi interpretative. L’assunto di fondo è che la definizione del fabbisogno formativo non scaturisca solo e/o principalmente dalle dinamiche del mercato del lavoro e dalle preferenze espresse dai soggetti che operano sul terri- torio ma esiga l’elaborazione e l’interpretazione degli elementi emersi. Secondo questo approccio, la definizione del fabbisogno formativo assume la veste di un processo diagnostico teso alla costruzione di scenari più affidabili per la program- mazione e la progettazione formativa; difficilmente, infatti, la sola disamina delle tendenze occupazionali oppure della domanda emergente dal contesto produttivo può consentire la definizione del fabbisogno in relazione ad archi di tempo suffi- cientemente lunghi per assicurare una risposta formativa anticipatrice dei cambia- menti. La necessità che il modello di rilevazione e analisi del fabbisogno di tecnici superiori si caratterizzi per questo approccio metodologico è ovviamente ancor più sentita che in generale, dovendo supportare un processo di costruzione di identità professionali aperte al cambiamento. 225 Vi è poi un’altra questione di rilievo: oltre a prestare attenzione al contesto socio-economico di riferimento e alla ricognizione della domanda formativa espressa esplicitamente dal territorio, la traduzione dei fabbisogni in figure profes- sionali necessita anche dell’osservazione dell’impresa come contesto organizzativo ed economico-aziendale nel quale operano figure (in questo caso “aziendali”) che possono essere correlate e ricondotte a figure professionali più ampie e di riferi- mento dei percorsi di formazione superiore. Si è visto come, sia per l’esperienza nazionale dell’Istruzione e della formazione tecnica superiore che per quella di Alta formazione professionale della Provincia autonoma di Trento, la figura di riferi- mento dei percorsi formativi non deriva dalla “fotografia” di un ruolo lavorativo presente nelle aziende ma rappresenta il risultato di una elaborazione concettuale di un oggetto linguistico condiviso cui tendere (profilo “to be”) connotato “a banda larga”. Per questo ragione è importante che l’approccio metodologico fondante la lettura e l’interpretazione del fabbisogno si basi, in primo luogo, sull’individua- zione di categorie di analisi in grado di favorire l’identificazione e la costruzione di figure così connotate. Emergono quindi due concetti ai quali va attribuita partico- lare importanza: quello di “ambito di attività” e quello di “competenza conno- tativa”. Tali concetti, abbondantemente sperimentati in varie indagini nazionali sui fabbisogni formativi14 e caratterizzanti l’impianto metodologico del modello di rile- vazione e analisi dei fabbisogni formativi assunto dalla Provincia autonoma di Trento (cfr. di seguito), sembrano le categorie di analisi che meglio si prestano per: – nel caso della “categoria e/o ambito di attività”, aggregare e raggruppare diversi tipi sia di attività, anche diversa natura, che di azioni di tutte quelle persone che, indipendentemente dai livelli, dalle responsabilità e dalle specializzazioni, con- tribuiscono al perseguimento del medesimo obiettivo; – nel caso della “competenza connotativa”, per catalogare e raggruppare quelle competenze più facilmente generalizzabili, collegate anche a diversi livelli di esperienza oppure di conoscenza formalizzata ma in grado di distinguere, in quanto di natura omologa, l’azione di un individuo in un determinato ambito di attività. Ne consegue un modello di rilevazione e analisi del fabbisogno che, sia in ge- nerale sia ancor più in riferimento ai tecnici superiori, guardi anche all’individua- zione e alla diagnosi delle competenze connotative e dei processi di acquisizione/ emersione delle stesse (i percorsi di professionalizzazione) in rapporto ai diversi contesti organizzativi. Vediamo allora quali possono essere gli elementi a cui dare attenzione per la messa a punto di un possibile dispositivo (modello) per la rilevazione e la diagnosi 14 Il riferimento è, in particolare, alle Indagini nazionali sui fabbisogni formativi nell’artigianato promosse dall’EBNA. 226 del fabbisogno formativo di tecnici superiori. A tal fine è conveniente fare riferi- mento all’esperienza della Provincia autonoma di Trento potendo, in questo caso, anche collegare gli out-put “tipo” dell’operare del modello con i contenuti del format descrittivo del referenziale professionale di tecnico superiore adottato per la sperimentazione dell’Alta formazione professionale. 6.2. Il modello operativo per la rilevazione e analisi dei fabbisogni formativi della Provincia Autonoma di Trento: dall’impianto generale agli adatta- menti a supporto della formazione professionale superiore Obiettivo generale del modello operativo15 è quello di supportare la definizione dell’offerta formativa della Provincia autonoma di Trento attraverso la produzione di un quadro conoscitivo esteso sia ai vari comparti di possibile intervento forma- tivo (settori di attività economica e/o varie filiere produttive ad essi riconducibili, specifiche macro-aree occupazionali e tecnico-professionali), sia alle acquisizioni di ricerca in materia di “esercizio della professionalità” a livello locale, nazionale e internazionale. Il modello adottato si connota come strumento sistematico, con ope- ratività periodica (annuale/biennale), atto a coprire l’intero contesto territoriale di riferimento ed in grado di tenere conto delle principali dinamiche che hanno impli- cazioni sulla definizione di attività formative di vario livello. Il modello prevede percorsi di analisi in grado di: – costruire un quadro del contesto socio-economico di carattere quantitativo e qualitativo basato sulla pluralità di indicazioni offerte dalle fonti disponibili sul territorio. Tale quadro integra le indicazioni di carattere socio-economico già disponibili con quelle segnalate dagli interlocutori economici e della società co- involti nelle attività di ascolto e di confronto sul campo. Al fine di rendere “aper- to” questo primo quadro generale, le analisi di contesto prestano particolare at- tenzione all’individuazione di divergenze e/o ritardi del contesto territoriale in rapporto alle tendenze emergenti in altre realtà territoriali e/o sistemi produttivi; – individuare gli ambiti (o categorie) di attività rispetto ai quali orientare, sulla base delle criticità e priorità d’azione individuati, il lavoro di ricerca sulle competenze da promuovere e, da qui, di identificazione e declinazione delle possibili figure professionali di riferimento della risposta formativa ai vari li- velli della programmazione istituzionale (percorsi di formazione in diritto-do- vere d’istruzione, percorsi di specializzazione post-qualifica, post-diploma, post-laurea, percorsi di alta formazione professionale, percorsi di riqualifica- zione professionale, ecc.). Per quanto riguarda le caratteristiche generali dell’impianto metodologico adot- tato, una significativa caratterizzazione del modello qui esaminato è ascrivibile: 15 Il modello è stato adottato sperimentalmente dalla Provincia autonoma di Trento a partire dal 2002 e successivamente messo a regime a partire dal 2004. 227 – all’ampiezza, oltre che del campo di analisi, della concertazione delle pratiche di lavoro e del confronto sugli esiti con soggetti rappresentativi sia del mondo economico che della società civile; – al suo collegamento con le azioni strategiche di sviluppo generale del terri- torio; – all’apertura verso l’esterno, grazie al coinvolgimento nelle attività di esperti e di interlocutori espressione di settori e sistemi produttivi di altre realtà più avanzate. Nello specifico, l’impianto metodologico del modello “trentino” risulta così articolato: – costruzione mirata del contesto socio-economico di riferimento, con partico- lare attenzione agli aspetti di maggiore importanza ai fini del raggiungimento degli obiettivi del modello; – ricognizione della domanda formativa espressa dalle istituzioni intermedie e/o di rappresentanza e dalle singole organizzazioni lavorative in riferimento a “categorie e/o ambiti di attività”; – restituzione alle Parti sociali del quadro degli elementi di scenario e di do- manda formativa emersi e meritevoli di una ulteriore fase di elaborazione e di interpretazione; – individuazione condivisa con le Parti sociali delle possibili figure professionali di riferimento da verificare e declinare sul campo in rapporto alle attività e alle competenze delle figure presenti nei contesti aziendali; – analisi delle competenze connotative e dei processi di acquisizione delle stesse nei contesti organizzativi che meglio possono favorire, per tipologia di figure presenti, il confronto tra le figure professionali di riferimento individuate e le figure aziendali effettivamente presenti perché espressione dell’autodefini- zione, in termini di attività e competenze, da parte di coloro che occupano tali posizioni lavorative;16 – confronto sugli esiti delle attività di analisi e ricognizione con interlocutori esterni al territorio, al fine di disporre di opinioni autorevoli provenienti da os- servatori qualificati operanti in realtà territoriali, anche straniere, più avanzate rispetto a quella di riferimento; – messa in relazione dei risultati quantitativi e qualitativi di ciascuna fase di atti- vità e formulazione delle ipotesi interpretative del fabbisogno formativo; – tavoli di confronto con le Parti sociali ai fini della validazione delle ipotesi e delle tipologie di risposta formativa considerate strategiche a livello di sistema. 16 La distinzione tra figura professionale di riferimento, costrutto di natura linguistica frutto di un’interpretazione condivisa di molteplici elementi di “domanda” del contesto, e la figura aziendale consente di individuare i “delta” tra gli aspetti contingenti e quelli prospettici, favorendo quell’ottica anticipatrice che dovrebbe caratterizzare, in tutto e/o in parte, la risposta formativa. 228 Le metodologie di ricerca adottate dal modello prevedono attività di carattere documentario, mappature attraverso varie modalità di rilevazione (questionari po- stali, interviste telefoniche, messa a disposizione di aree web dedicate all’intera- zione e al confronto con specifici gruppi di interlocutori aziendali e di settore), studi di caso, colloqui in profondità con singoli operatori/lavoratori. Particolare attenzione viene data soprattutto ai seguenti elementi: – in riferimento alla documentazione, alla produzione statistica degli Osservatori istituzionali di valenza internazionale e nazionale, degli Osservatori istituzio- nali presenti sul territorio, degli Uffici Studi delle varie associazioni di rappre- sentanza, dei Sistemi informativi sull’occupazione e le professioni nonché ai vari documenti a contenuto strategico in termini di sviluppo e crescita del territorio; – in riferimento alla domanda formativa esplicita, ai ritardi/bisogni rispetto alle esigenze di competitività nel proprio mercato, ai bisogni emergenti e prospet- tici (medio periodo), alle strategie attuate nei contesti aziendali e auspicabili di fronteggiamento (innovazione di processo, innovazione di prodotto/servizio, acquisizione di nuove competenze sul mercato, riqualificazione e manuten- zione delle competenze già presenti nel contesto organizzativo) che connotano le varie categorie/ambiti di attività; – in riferimento all’analisi dei contesti organizzativi e delle competenze, alla storia dell’organizzazione, alla strategia attuale di presenza sul mercato e servizi offerti, ai dati di struttura, all’organizzazione e funzionamento, alle politiche del personale e alla domanda esplicita di formazione, alle relazioni con il “sistema di appartenenza”, alle strategie di sviluppo, alla storia di vita professionale di chi occupa le posizioni lavorative considerate, alle attività che svolge, alla rete di relazioni interne ed esterne all’organizzazione che le carat- terizza, ai processi di apprendimento, alle strategie di autopromozione, alla domanda esplicita di formazione. Il flusso delle macro-attività previste dall’operatività del modello e i soggetti chiamati ad interagire per il suo funzionamento sono indicati nello schema se- guente. 229 Lo schema mette in luce come il modello operativo sia “governato” da un nucleo tecnico di esperti nominato e partecipato dall’istituzione pubblica, e si carat- terizzi per una fattiva collaborazione da parte di vari rappresentanti dei settori inte- ressati, di singole aziende, delle organizzazioni datoriali e sindacali, di realtà (terri- toriali, settoriali, professionali) particolarmente significative in termini di innova- zioni e politiche formative attuate per il fronteggiamento di fabbisogni formativi 230 analoghi a quelli emergenti, previsti, ipotizzati per il contesto provinciale. Il parte- nariato “sociale” che sostiene il funzionamento del modello ne assicura il carattere negoziale. Dopo aver descritto in estrema sintesi il modello generale di rilevazione e ana- lisi dei fabbisogni formativi adottato dalla Provincia autonoma di Trento è possibile, a questo punto, mettere in evidenza gli adattamenti che si sono resi necessari in rife- rimento alla sua capacità di supportare la programmazione e la progettazione del- l’offerta formativa tecnica superiore. È utile, per schematizzare le riflessioni del gruppo di presidio della sperimentazione dell’alta formazione professionale sul- l’adeguatezza del modello istituzionale ai fini dell’individuazione delle figure e delle competenze da promuovere attraverso questa nuova offerta formativa, mettere in evidenza quelli che fin da subito apparivano punti di forza, elementi di debolezza, opportunità e rischi riconducibili all’utilizzo del modello (cfr. quadro sinottico se- guente). Questo approccio “swot” di analisi ha quindi orientato lo sviluppo metodo- PUNTI DI DEBOLEZZA, DETERMINATI DA • Mancata valorizzazione del patrimonio informativo prodotto in funzione della costruzione di un sistema di standard professionali dinamico, capace di cogliere gli aspetti innovativi dei fabbisogni professionali • Impianto e approccio metodologico solo in parte in grado di assicurare quella profondità descrittiva e quella ricchezza di aspetti necessari a una descrizione della figura in grado di evidenziare le correlazioni con le tipizzazioni professionali ricavabili dai framework a sostegno della trasparenza delle qualificazioni (es. framework EQK for LLL) • Limitatezza dell’impianto delle regole sintattiche, grammaticali e lessicali per la realizzazione di una de- scrizione delle figure professionali adatta a configu- rare standard professionali comparabili • Assenza di un out-put del modello (figura professio- nale) rappresentato attraverso un format che identifichi e descriva il profilo anche in riferimento alle istanze di connessione al quadro europeo delle qualificazioni • Limitata capacità di supportare le attività di progetta- zione • Mancata previsione di un sistema di aggiornamento/ manutenzione delle figure. MINACCE FUTURE, DOVUTE A • Possibile autoreferenzialità istituzionale • Rapida obsolescenza delle ipotesi interpretative a se- guito della velocità di mutamento degli scenari • Sollecitazioni provenienti in termini di comparabilità delle qualificazioni ai fini della trasparenza delle cer- tificazioni in esito alle risposte formative al fabbi- sogno attivate. PUNTI DI FORZA, DETERMINATI DA • Capacità di “osservare, rilevare, descrivere” attraverso un ampio e complesso processo sociale, fondato su un esteso coinvolgimento dei molteplici soggetti e sul- l’attivazione di risorse (istituzionali, di rappresen- tanza, di expertise) presenti sul territorio • Riconoscibilità del modello a livello territoriale • Approccio negoziale di programmazione, di progetta- zione delle attività e di validazione degli esiti • Apertura territoriale • Centratura sull’elaborazione e interpretazione di una vasta gamma di elementi che possono concorrere alla definizione del fabbisogno • Sistematicità operativa, con presenza di strumenti e metodologie in grado di garantire la ripetizione nel tempo delle ricognizioni e delle analisi • Capacità di ricostruire il contesto sociale, culturale e cognitivo attraverso concetti (azione, attività, ambito di attività, competenze connotative) in grado di rap- presentare e interpretare la complessità del lavoro • Capacità effettiva di implementazione della program- mazione formativa. OPPORTUNITÀ FUTURE, DETERMINATE DA • Presenza di reti fiduciarie consolidate a sostegno del- l’operatività del modello • Qualificazione degli attori coinvolti sistematicamente nelle attività • Sviluppo di nuove modalità e strumenti di coinvolgi- mento (web comunity di stakeholders) • Valenza come “buona pratica” a favore dell’occupa- bilità e dell’inclusione socio-economica assegnata da strutture nazionali ed europee. CARATTERISTICHE DEL MODELLO GENERALE DI RILEVAZIONE E ANALISI DEI FABBISOGNI FORMATIVI IN FUNZIONE AL SUO POSSIBILE UTILIZZO A SUPPORTO DELLA SPERIMENTAZIONE dell’Alta formazione professionale FONTE INTERNA FONTE ESTERNA 231 logico del dispositivo in funzione del suo impiego a supporto dell’alta formazione professionale. Sulla base dei punti di debolezza riscontrati, lo sviluppo del modello è avve- nuto soprattutto in queste direzioni: – le figure professionali individuate e validate attraverso il modello generale dovevano trovare progressivamente una valorizzazione, oltre che in termini di “figure di riferimento della programmazione formativa” (annuale o biennale) del sistema della formazione professionale provinciale, anche in termine di costruzione di veri e propri repertori descrittivi delle professioni, in questo caso di livello superiore; – per poter disporre di un out-put di questo tipo era però necessario adottare criteri di lavoro in grado di offrire una declinazione delle figure più “spinta”; ciò richiedeva l’impiego di un framework per l’analisi e la descrizione in grado di mettere in evidenza soprattutto i presidi professionali caratterizzanti; vi era la necessità di non limitarsi all’analisi dell’attività (o insiemi di attività) riconosciute/riconoscibili e alle competenze connotative, identificabili all’in- terno dei processi secondo criteri di finalizzazione funzionale, ma di estendere l’osservazione della professionalità anche dal punto di vista dell’auto-consi- stenza delle attività svolte, della dimensione delle relazioni (focus sul conti- nuum “lavoro isolato - lavoro in team), della dimensione dei processi decisio- nali (focus sul continuum “autonomia - dipendenza operativa”), della dimen- sione della complessità delle competenze da esprimere (focus sul continuum “problemi specifici e/o prevedibili - problemi complessi e/o imprevedibili da affrontare”, sul continuum “conoscenze/capacità di base - conoscenze/capacità avanzate”, ecc.); questa perimetrazione dei presidi professionali doveva tro- vare poi modalità descrittive in grado di far emergere la loro correlazione con le peculiarità tecnologiche e organizzative delle realtà lavorative di riferi- mento; – di qui l’attenzione che l’impianto metodologico del modello di rilevazione e analisi dei fabbisogni formativi e di produzione delle figure professionali avrebbe dovuto dare a modalità, criteri e regole di rilevazione, analisi e inter- pretazione in grado di assicurare strutture, elementi e codici descrittivi dei pro- cessi di lavoro adeguati per una identificazione e declinazione più precisa delle figure professionali dei tecnici superiori, condizione necessaria sia per dif- ferenziarli da altre figure, anche appartenenti alla medesima categoria dei “lavoratori della conoscenza”, sia per la proposizione dell’offerta formativa più adeguata; – a questo fine, era anche opportuno cercare di estendere l’analisi, e di poter disporre di out-put informativi, anche rispetto a dimensioni descrittive delle figure di ordine complementare quali i comportamenti attesi, gli stili di lavoro, le attitudini necessarie per lo svolgimento delle attività tipiche della profes- sione. 232 Attraverso varie applicazioni del modello17 è stato dunque possibile ricavare informazioni non solo per implementare la programmazione e la progettazione for- mativa, ma anche per configurare una metodologia di lavoro in grado di sostenere specificatamente l’individuazione e la declinazione delle figure di tecnico superiore nelle loro caratteristiche peculiari entro un quadro di leggibilità e di “riferibilità” anche alla struttura dei livelli comuni di riferimento (es. EQF for LLL) e di standard minimi18 già definiti, o in corso di definizione, in altri sistemi ai fini della garanzia di trasparenza e certificabilità delle competenze promosse attraverso la risposta forma- tiva ai fabbisogni rilevati. Di seguito, si delineano le possibili direttrici ed i criteri metodologici per il lavoro di progettazione e di applicazione di un possibile modello di rilevazione, analisi e interpretazione dei fabbisogni formativi a supporto della programmazione e progettazione dell’offerta di formazione professionale superiore. 7. L’INDIVIDUAZIONE E LA DEFINIZIONE DELLE FIGURE PROFESSIONALI DI RIFE- RIMENTO: PROPOSTA DI PROTOCOLLO METODOLOGICO PER I TECNICI SUPERIORI Analisi degli elementi di contesto – Prevedere un esteso coinvolgimento di molteplici soggetti e l’attivazione di risorse (istituzionali, di rappresentanza, di expertise) presenti sul territorio al fine di assicurare al modello una capacità di “osservare, rilevare, interpretare e descrivere” il fabbisogno come un ampio e un complesso processo sociale; – creare un “secondo” livello di analisi, complementare a quello che riguarda di- rettamente il territorio di riferimento, che assicuri possibilità di comparazioni di contesto con realtà che già stanno sperimentando cambiamenti (di mercato, di prodotto, di servizi, di processo, ecc.) che potranno determinare fabbisogni, a vari livelli di professionalità, nel contesto “locale”; – ricostruire il contesto sociale, culturale e cognitivo attraverso concetti (azione, attività, ambito di attività, competenze connotative) in grado di rappresentare e interpretare la complessità del lavoro. 17 Nello specifico, il modello, così sviluppato, è stato oggetto di applicazione e sperimentazione rispetto agli ambiti di attività riguardanti l’automazione industriale, il controllo gestionale e finanziario, la gestione dei processi grafici, il management turistico, il presidio dei processi tecnologici e organizzati- vi riguardanti l’energia, l’edilizia sostenibile, l’ambiente, i servizi di ristorazione, la logistica distributiva. 18 Per standard si intende l’insieme dei requisiti minimi, ovvero di ciò che identifica in modo ne- cessario, sufficiente e condiviso una determinata figura o profilo o le caratteristiche in uscita da un percorso formativo. 233 Individuazione delle figure professionali – Adottare la categoria della “figura professionale di riferimento” che, rispec- chiando la percezione condivisa degli attori che hanno preso parte all’in- terpretazione dei fabbisogni formativi emersi dall’analisi di contesto più che la realtà aziendale, consente di individuare “figure a banda larga”, ovvero figure che non rappresentino un’eccessiva parcellizzazione della professio- nalità; – favorire un approccio di ricerca congiunta e negoziale attraverso il coinvolgi- mento delle Parti sociali; – impiegare metodologie e strumenti che possano garantire sistematiche ripeti- zioni delle attività di ricerca nel tempo e la comparazione dei risultati; – assicurare una costante stretta relazione, per ciascuna fase della ricerca, tra ele- menti/risultati di carattere quantitativo e qualitativo; – stabilire criteri di campionamento qualitativo in grado di poter contare su “casi” che consentano, per significatività del contesto organizzativo caratterizzante, di studiare le competenze presenti come patrimonio del singolo ma anche come processo di azione collettiva; – assumere la centralità dei contesti di azione, e più specificatamente organizza- tivi, nell’analisi dei fabbisogni di competenza; – individuare la competenza (professionale) prestando attenzione ai percorsi della sua costruzione e non separando, nel processo di analisi, la sfera relativa alla vita lavorativa dalla globalità dell’expertise di vita dell’individuo; – ragionare per processi, in quanto strumenti di integrazione e organizzazione delle attività in funzione delle risorse umane coinvolte e particolarmente adatti per individuare più agevolmente sia gli aspetti di successione logico-temporale delle attività, sia quelli di connessione funzionale e, quindi, la successiva iden- tificazione di quelle su cui è coinvolta la figura professionale; – assumere la differenza tra le figure professionali di riferimento e le figure (aziendali) presenti nel contesto organizzativo come proxy delle professionalità proiettate in avanti nel tempo; – sistematizzare i risultati della ricerca oltre le specificità di ogni situazione, in- dividuando presidi professionali a prescindere dagli esatti contingenti connessi alle peculiarità tecnologiche e organizzative di ciascuna realtà lavorativa; – declinare i presidi professionali prestando particolare attenzione al livello di complessità delle competenze da esprimere, ai risultati attesi e alle responsabi- lità chiave sul loro conseguimento, alle modalità e al livello di autonomia che caratterizzano la “presa di decisioni”; – adottare un concetto di competenza che prescinde dalla distinzione tra compe- tenze di base e competenze specialistiche a favore di quello “di competenze connotative”, intendendo quelle che si incontrano più spesso, che sono più fa- cilmente generalizzabili e appaiono più forti nell’orientare l’operare dei sin- goli; 234 – articolare le competenze connotative in competenze di tipo strumentale, orga- nizzativo, relazionale, strategico19 al fine di contraddistinguere l’operato della figura a prescindere dalla posizione gerarchica occupata dal singolo. Descrizione delle figure professionali – Adottare un format di rappresentazione delle figure professionali individuate idoneo, per tipologia di descrittori utilizzati20 e per tipo di linguaggio tecnico utilizzato, a supportare la costruzione di standard professionali, in questo caso in riferimento ai tecnici superiori; – in coerenza con quanto di più recente è stato proposto a livello nazionale nel- l’ambito del testing del metodo di lavoro per l’elaborazione degli standard pro- fessionali,21 si tenga conto dal punto di vista del linguaggio dell’importanza di “ricondurre le proposizioni ad un format comune: verbo all’infinito + refe- rente (escludendo dalle etichette articoli - avverbi - aggettivi), evitare, quando possibile, di assumere la forma riflessiva dei verbi, adottare come unità di misura le proposizioni semplici con l’avvertenza che, in caso di proposizione di riferimento internamente articolata e composta da più di un verbo, è oppor- tuno scindere la stessa in modo che per ogni elemento sia riscontrabile un unico verbo oppure che se la proposizione di riferimento è composta da più complementi oggetto associati ad un unico verbo (quando possibile) è oppor- tuno scinderli in più etichette”. 8. L’APPLICAZIONE DEL PROTOCOLLO METODOLOGICO PER LA PRODUZIONE DEI REFERENZIALI PROFESSIONALI NELL’ALTA FORMAZIONE IN PROVINCIA DI TRENTO: UN ESEMPIO Riprendendo il format descrittivo dei tecnici superiori adottato dalla Provincia autonoma di Trento può essere utile, a titolo di esemplificazione, mettere in evi- denza la relazione tra le attività inerenti la rilevazione, l’analisi e l’interpretazione 19 Le competenze strumentali sono quelle finalizzate alla costruzione di un prodotto, di un seg- mento di prodotto o di un servizio. Esse si articolano in “tecniche/tecnologiche” e “concettuali” e pre- suppongono l’applicazione di tecniche, l’uso di tecnologie e l’applicazione di conoscenze teoriche; le competenze organizzative – che possono essere specifiche (a seconda dell’ambito produttivo o di ser- vizio) oppure trasversali (perché comuni ai differenti processi di lavoro; esempi tipici, quelle relative alla sicurezza e alla qualità) - sono finalizzate all’ottimizzazione delle modalità normali di produzione del prodotto/servizio e si articolano in “conoscenze” e in “uso delle risorse”; le competenze relazionali – anche in questo caso specifiche e/o trasversali - sono quelle che sostengono i flussi di comunicazione a fini produttivi (sia interni che esterni); le competenze strategiche sono quelle che sostengono il mi- glioramento delle performance. 20 Si vedano i descrittori proposti dal format presentato nel paragrafo 5. e in allegato. 21 Si tratta del testing compiuto nell’ambito dell’operatività del Tavolo Unico sugli standard pro- fessionali, di certificazione e formativi, Tecnostruttura e Isfol, 2007. 235 dei fabbisogni e il risultato finale (la descrizione del referenziale professionale della figura da promuovere). Denominazione della figura professionale • È prodotta come sintesi degli elementi connotativi riportati nelle sezioni successive del format. • È validata dalle Parti sociali. Descrizione sintetica della figura professionale • È prodotta come sintesi degli elementi connotativi riportati nelle sezioni successive del format. • È validata dalle Parti sociali. Profili collegati - collegabili alla figura • Sono individuati istituzionalmente attraverso un’analisi comparata tra gli elementi connotativi della figura e le figure professionali previste da classificazioni istituzionali delle professioni. Caratterizzazione e collocazione organizzativa: • Descrizione processi lavorativi fondamentali • Descrizione delle attività/compiti • Indicazione delle interazioni principali nel contesto lavorativo Emerge: - dall’analisi dei contesti organizzativi; - dal confronto tra il profilo di riferimento e quello presente nel contesto. - dalla perimetrazione dei presidi professionali. • È validata dalle Parti sociali. Competenze connotative Emergono: - dall’analisi dei contesti organizzativi; - dall’analisi dei percorsi di professionalizzazione; - dall’analisi dell’expertise di vita del singolo; - dalla declinazione dei presidi professionali. • Sono validate dalle Parti sociali. Evoluzione professionale prossima • Emerge dall’analisi di contesto. • È tracciata sulla base dell’analisi comparata con i contesti di altri sistemi sociali e produttivi più evoluti. • È validata dalle Parti sociali. Correlazione con il quadro europeo delle qualifiche • È evidenziata istituzionalmente. Correlazione con le figure professionali IFTS (D.I n. 436/2000) • È evidenziata istituzionalmente sulla base dei repertori nazionali. Attività economiche di riferimento: • Indicazione settori/comparti • Correlazione con i settori/comparti indicati nella classificazione ISTAT/ATECO 2002 delle attività economiche • Emerge dall’analisi di contesto. • È evidenziata istituzionalmente sulla base della Classificazione delle attività economiche, la denominazione dei settori/comparti di riferimento della figura. 236 9. DALLE FIGURE PROFESSIONALI ALLA PROGETTAZIONE FORMATIVA: UN POSSIBILE PERCORSO DI LAVORO, LE SUE MODALITÀ E CONDIZIONI DI ATTIVAZIONE Definito il referenziale professionale delle figure di riferimento sulla base dei fabbisogni emersi, il passo successivo è quello dell’elaborazione del referenziale formativo (il progetto generale del percorso formativo). Teniamo conto, come si è visto in precedenza, che la messa a punto del referenziale professionale si incentra sulla catena logica illustrata dalla figura seguente. Dalla figura si evince come, individuate le competenze che connotano la figura professionale, sia opportuno, ai fini della progettazione formativa, proce- dere a una clusterizzazione delle stesse al fine di disporre di aggregati (definibili, ad esempio, categorie/aree/unità di competenze) che possano fungere da trait d’union tra il profilo di competenza della figura professionale e il suo referenziale formativo. Ciò può avvenire attraverso una rilettura dell’albero delle competenze connotative della figura di riferimento che, attraverso l’accorpamento nello stesso aggregato di analoghe competenze menzionate su rami diversi dell’albero, con- sente di esplicitare: – le competenze di accesso (presupposte da quelle menzionate nell’albero), intese come “competenze di dominio tematico” necessarie per un’effettiva acquisizione di quelle tecnico-professionali; 237 – le competenze non riferite a specifici processi lavorativi ma “complementari” rispetto ad essi (ad esempio, la comunicazione in lingua straniera, dell’uso delle ITC, l’uso di metodiche di technical writing, ecc.), considerabili un “plus” utile anche ai fini dell’occupabilità; – le competenze di “trasversali” rispetto ai processi lavorativi, quelle cioè in grado di influire in modo significativo sulle prestazioni a prescindere dalle caratteristiche del lavoro in “sé”; si tratta, più analiticamente, di competenze che hanno una valenza “meta”, riferite alla consapevolezza del sé, alla capacità di relazione con gli altri, alle capacità cognitive di tipo generale (problem setting, problem solving, comprensione dei contesti organizzativi, ecc.); – le competenze tecnico-specialistiche connesse allo svolgimento delle attività in ciascun processo lavorativo. Le categorie di competenze così ricostruite non definiranno il percorso forma- tivo, ma faciliteranno l’individuazione degli standard formativi attinenti alla figura professionale; la clusterizzazione (o categorizzazione) della competenze connota- tive esplicitate dal referenziale professionale consente quindi di giungere a un quadro descrittivo e di riferimento centrato sui risultati di apprendimento, capace, dunque, di meglio favorire quel dialogo necessario con i principali sistemi (nazio- nale, europeo, ecc.) ai fini del riconoscimento delle competenze. 238 Vediamo ora qualche esempio di “traduzione” del referenziale professionale in referenziale formativo. Come per le precedenti dimostrazioni prendiamo a riferi- mento il caso del “tecnico superiore dei processi industriali automatizzati” (figura dell’Alta formazione professionale della Provincia autonoma di Trento). Nello specifico, lo schema seguente rappresenta il passaggio che porta, par- tendo dalle competenze associate alle varie attività dei processi lavorativi tipici della figura, ad esplicitare le competenze riconducibili alla categoria/area “com- plementari” e alla loro traduzione in standard formativi. 239 Analogamente possiamo rappresentare il passaggio che porta all’individua- zione e implementazione della categoria/area “trasversali”. 240 L’individuazione degli standard formativi non esaurisce la costruzione del “referenziale formativo” data la sua natura di quadro di riferimento della progetta- zione esecutiva (o di dettaglio) in termini di contenuto, di metodologie formative, di risorse formative (umane, tecnologiche, organizzative). Data questa specificità, il referenziale formativo non deve essere considerato una opera conchiusa ma un impianto formativo fondato su un insieme ben definito di opzioni di contenuto e di metodo, oggetto di sistematica verifica, e adattamento, sulla base degli esiti della pratica formativa. Dal punto di vista operazionale le attività progettuali necessarie per arrivare a disegnare l’impianto formativo sono sintetizzate dal seguente schema. l Si definiscono, per ogni categoria di competenze, le unità formative che con- sentono ai discenti di raggiungere gli standard. Ogni unità formativa sarà connotata dalla specifica impostazione didattica e comporterà anche il riferimento alle risorse impiegate nel processo formativo. In coerenza e in continuità a uno degli esempi forniti in precedenza rispetto alla costruzione delle categorie di competenze, il seguente schema (utilizzato nel referenziale formativo del “tecnico superiore dei processi industriali automatiz- zati”, Alta formazione professionale della Provincia autonoma di Trento) rappre- senta un format-tipo per descrivere compiutamente l’unità formativa. Categoria di competenze: Complementari Area: DIAGNOSTICA Unità formativa: DIAGNOSTICA Competenze in esito Livello generale • padroneggiare le strategie cognitive che servono per la diagnosi delle cause di malfunzionamento di una apparecchiatura impiegata nell’ambito di un processo lavorativo. Indicatori • saper individuare il malfunzionamento e descriverlo correttamente; • formulare ipotesi sulle cause di malfunzionamento basandosi su strutture logiche di pensiero (se .... allora....) e su espe- rienze pregresse; • organizzare una strategia di indagine delle cause di malfunzionamento di tipo inferenziale che porti ad escludere progres- sivamente possibili cause (evitare strategie casuali che procedono per prova ed errore); • impiegare nella strategia di ricerca le apparecchiature e le metodiche utili per eseguire ispezioni, test, ecc. 241 Livelli di padronanza Le capacità debbono essere dimostrate a due livelli (corrispondenti a due diverse fasi di sviluppo dell’apprendimento): • diagnosi di guasti semplici (caratterizzati da un limitato numero di cause possibili e/o da un livello di frequenza statistica relativamente elevato, che rendono relativamente facile il processo inferenziale); • diagnosi di guasti complessi (caratterizzati da un elevato numero di cause possibili, da numerose interdipendenze tra di esse e/o da un livello di frequenza statistica relativamente basso). Contesti formativi • esperienze di laboratorio (“casi tecnologici”) incentrate sulle tecnologie dell’A.I.; • esperienze pratiche (diagnosi di casi reali) svolti nell’ambito del praticantato; • unità formative specificatamente dedicate incentrate su aspetti “metacognitivi”. Articolazione temporale • calendario laboratorio; • calendario praticantato; • calendario unità formative specifiche. Contenuti • verbalizzazione del processo diagnostico svolto a fronte di un malfunzionamento; • struttura logica e rappresentazione grafica del processo diagnostico (attraverso diagrammi Ishikawa o altro); • indicazioni su come documentare sul diario di bordo le più significative attività diagnostiche incontrate durante la perma- nenza in azienda; • laboratorio diagnostico: esercizi per aumentare la consapevolezza dei fattori cognitivi che contribuiscono alla efficienza ed efficacia del processo diagnostico. Docenza • docente esperto di apparecchiature tecnologiche; • esperto di processi cognitivi. Durata: (ore) Verifica degli apprendimenti • esercitazione di diagnosi effettuate in “laboratorio diagnostico”. Definite le unità formative, l’impostazione dei dispositivi per il monitoraggio continuo e della valutazione finale degli apprendimenti concludono il progetto del- l’impianto formativo. L’attivazione di questo possibile percorso di lavoro implica un’interazione posi- tiva sul piano progettuale di una pluralità di soggetti. Come nel caso dell’elaborazio- ne del referenziale professionale anche per quello formativo è fondante la presenza di un “partenariato progettuale” con compiti di definizione dei percorsi formativi nelle loro componenti fondamentali ma anche, successivamente, di monitoraggio della fase attuativa al fine di individuare eventuali criticità legate alla progettazione e di propor- re correzioni (anche in itinere, se necessario) nonché di valutazione sommativa dei ri- sultati del percorso, al fine di individuare elementi utili per il miglioramento continuo. Il partenariato dovrebbe favorire l’operatività di un gruppo di lavoro composto, oltre che da esperti nella progettazione formativa, anche da tecnici del settore/comparto di riferimento e da progettisti espressi dall’agenzia formativa che attuerà il percorso formativo. Tale gruppo di progettazione dovrebbe operare in stretto raccordo con l’au- torità istituzionale promotrice dell’offerta formativa che deve assicurare la coerenza dello sviluppo del progetto rispetto al quadro programmatorio definito. 242 Prendendo spunto dalla sperimentazione avviata dalla Provincia autonoma di Trento, gli attori coinvolti, i ruoli ed i rapporti specifici tra i diversi soggetti nelle fasi della programmazione e della progettazione dei percorsi formativi possono essere sintetizzati dal seguente schema. Considerata l’esigenza prioritaria di assicurare un pieno collegamento della formazione superiore con i bisogni di un territorio - nello specifico del suo sistema 243 produttivo e più in generale del suo sistema sociale complessivo - l’individuazione e la definizione delle figure professionali nonché la progettazione formativa richie- dono un’azione di governance istituzionale supportata da dispositivi che, per ap- procci di lavoro, tipologia di attori coinvolti, articolazione dei ruoli e responsabi- lità, siano in grado di far sistematicamente interagire il sistema formativo (supe- riore) con tutti i fattori, endogeni ed esogeni, che nel tempo possono influenzare cumulativamente le scelte programmatorie e progettuali. Ciò implica una sistematica partnership tra autorità pubblica, Parti sociali, im- prese, istituzioni formative che va a configurarsi come elemento di identità del ciclo formativo superiore rispetto a quello di completamento dell’istruzione secon- daria, da un lato, e da quello universitario dall’altro. Tale specificità richiede un “governo della rete” che assicuri, oltre l’aggregazione di soggetti che hanno finalità comuni nella misura in cui tutti possono trarre beneficio dall’azione che suppor- tano, la qualità dei legami che connettono i vari attori. Una qualità che deve essere sostenuta e manutentata nel tempo attraverso il patrimonio di conoscenze e compe- tenze che maturano con l’esperienza e che devono diventare patrimonio non solo dei singoli attori partecipanti ma anche della rete, dunque, del “sistema-rete”. Da questa angolatura, di tipo più strettamente organizzativo, è evidentemente non indifferente la forma istituzionale scelta per poter ordinare le relazioni tra i vari attori, per assicurare la regia e l’indirizzo del sistema, per controllare e valutare l’efficacia delle scelte strategiche in merito a fabbisogni formativi ai quali dare ri- sposta, a figure professionali e competenze da promuovere. 244 10. ALLEGATO Format del referenziale professionale del tecnico superiore adottato nella spe- rimentazione Alta formazione professionale della Provincia autonoma di Trento. Denominazione della figura professionale Professioni NUP/ISTAT correlate Figure professionali IFTS correlate Quadro europeo delle qualifiche (EQF), livello correlato Descrizione Attività economiche di riferimento: ATECO 2007/ISTAT Caratterizzazione e collocazione organizzativa - Processi fondamentali e attività/compiti TECNICO SUPERIORE DEI PROCESSI INDUSTRIALI AUTOMATIZZATI 3 - Professioni tecniche 3.1.2 - Tecnici delle scienze ingegneristiche 3.1.2.1 - Tecnici meccanici - Tecnico superiore per l’automazione industriale - Tecnico superiore per l’industrializzazione del prodotto e del processo - Tecnico superiore di produzione - Tecnico superiore per la conduzione e la manutenzione degli impianti Livello Quinto Figura specialistica con responsabilità d’intervento su aspetti e problematiche tecnico/gestionali relative all’automazione del processo produttivo, nello specifico al funzionamento, al collaudo e alla messa in servizio di impianti automatizzati. Interagisce con varie figure ai fini del migliora- mento dell’efficienza dei processi, della qualità del prodotto e delle prestazioni globali delle ri- sorse tecnologiche e umane impegnate. - Figura con profilo polivalente e trasversale rispetto ai diversi comparti e impianti produttivi, indipendentemente dalle caratteristiche del prodotto; sbocco professionale rappresentato da tutte le aziende che producono sistemi automatici o che realizzano il proprio processo produt- tivo attraverso l’ausilio di sistemi automatici. - Sezione “C” - Attività manifatturiere - e relative sottosezioni (da “10” a “33”). I compiti riguardano i seguenti processi lavorativi fondamentali: - gestione dei processi produttivi che impiegano impianti automatizzati; - manutenzione di impianti automatizzati; - collaudo di impianti automatizzati; - messa in servizio di impianti automatizzati. Attività/compiti fondamentali attinenti alla gestione dei processi produttivi che impiegano im- pianti automatizzati: - collabora alla definizione e implementazione dei cicli di lavorazione in stretta integrazione con la progettazione del prodotto; - collabora alla definizione delle procedure di controllo dei cicli di lavorazione nei profili di at- tenzione (qualità, costi, tempi, performance, impatto ambientale, sicurezza, ecc.) ai fini del- l’assicurazione qualità e del perseguimento del miglioramento continuo; - elabora la documentazione tecnica di supporto alle attività del processo; - realizza la formazione/aggiornamento degli operatori addetti al processo produttivo per quanto concerne gli obiettivi tecnologici, i metodi di lavorazione, gli esiti delle analisi dei fattori/para- metri più influenti relativi a efficienza, qualità, sicurezza, gli sviluppi del miglioramento del processo e del prodotto; - collabora a verificare il rispetto, da parte degli operatori del processo produttivo, della norma- tiva in materia di sicurezza ed ergonomia del posto di lavoro, e del corretto utilizzo e funzio- namento dei dispositivi antinfortunistici; - realizza il monitoraggio del processo attraverso attività di controllo e diagnosi; - definisce la fattibilità e la priorità delle azioni (piani di intervento) e relative tempistiche per la eliminazione delle “anomalie” di funzionamento del processo; - collabora alla ricerca e analisi di alternative tecnologiche per il raggiungimento degli obiettivi di processo entro il rapporto costi/benefici stabilito; 245 - Interazioni principali nel contesto lavorativo - formula proposte di iniziative per migliorare l’efficienza e la prestazione globale degli impianti attraverso attività di miglioramento continuo e interventi di upgrade. Attività/compiti fondamentali attinenti alla manutenzione ordinaria e preventiva di impianti automatizzati: - stabilisce o collabora la/alla organizzazione e pianificazione del servizio di manutenzione; - effettua o collabora il/al coordinamento degli operatori del processo di manutenzione; - svolge le attività di diagnostica, riparazione e documentazione guasti e anomalie riscontrate; - esegue l’alimentazione e collabora all’aggiornamento e all’implementazione del sistema infor- mativo di raccolta dati di manutenzione; - realizza la valutazione del livello di servizio offerto dalla manutenzione; - realizza la definizione e l’attuazione di piani operativi per migliorare l’efficienza manutentiva dei mezzi di lavoro; - collabora ad effettuare valutazioni di make or buy per la gestione dei servizi manutentivi; - collabora a verificare il rispetto, da parte degli operatori del processo di manutenzione, della normativa in materia di sicurezza ed ergonomia del posto di lavoro, e del corretto utilizzo e funzionamento dei dispositivi antinfortunistici; - elabora la documentazione tecnica di supporto alle attività del processo; - realizza la formazione/aggiornamento degli operatori addetti alla manutenzione. Attività/compiti fondamentali attinenti al collaudo di impianti automatizzati: - applica le procedure di collaudo; - realizza le attività di diagnostica, riparazione e documentazione guasti e anomalie riscontrate; - realizza o collabora alla definizione, alla redazione e al continuo adeguamento delle procedure di collaudo; - realizza o collabora la/alla redazione della documentazione necessaria al controllo da parte dell’operatore del processo produttivo e/o dell’installatore presso il cliente; - collabora alla fase di progettazione delle innovazioni del prodotto e/o del processo, collau- dando i nuovi impianti (prodotti) e contribuendo ad identificare e realizzare il continuo miglio- ramento delle prestazioni dell’impianto; - formula, durante o al termine dell’attività di collaudo, proposte per il miglioramento o l’otti- mizzazione delle prestazioni, dell’affidabilità, del costo, della manutenzione, dell’ergonomia degli impianti e contribuisce ad implementarle; - collabora a verificare il rispetto, da parte degli operatori del processo di collaudo, della norma- tiva in materia di sicurezza ed ergonomia del posto di lavoro, e del corretto utilizzo e funzio- namento dei dispositivi antinfortunistici. Attività/compiti fondamentali attinenti alla messa in servizio di impianti automatizzati: - realizza l’installazione, messa in funzione, collaudo e regolazione di macchine e di impianti di produzione in base alle specifiche di progetto; - realizza la configurazione di macchine e di impianti di produzione secondo specifiche esi- genze del cliente; - collabora alla fase di progettazione di soluzioni innovative di automazione industriale sulla base di specifiche esigenze del cliente; - collabora all’impostazione e pianificazione del servizio di manutenzione secondo specifiche esigenze del cliente; - elabora la documentazione tecnica di supporto alle attività del processo; - realizza la formazione/aggiornamento degli operatori addetti alla gestione ed alla manuten- zione dell’impianto automatizzato nell’azienda cliente; - formula, durante o al termine della messa in servizio ed anche in conseguenza di richieste del cliente, proposte per il miglioramento o l’ottimizzazione delle prestazioni, dell’affidabilità, del costo, della manutenzione, dell’ergonomia degli impianti e contribuisce ad implementarle; - contribuisce alla progettazione e al miglioramento continuo delle attività di formazione del cliente sull’utilizzo dell’impianto e degli strumenti didattici. Per svolgere l’insieme delle attività/compiti sopra indicati, la figura è chiamata a frequenti inte- razioni con: - la direzione; - la funzione risorse umane; - la funzione assicurazione qualità e sicurezza; - la funzione di progettazione; - la funzione ingegneria di produzione; 246 Competenze connotative - la funzione pianificazione; - la funzione sistemi informativi; - la funzione logistica; - la funzione ingegneria di vendita e marketing; - gli addetti alla produzione/manutenzione; - i referenti tecnici dell’azienda cliente; - i ruoli operativi o manageriali dell’azienda cliente. La figura possiede competenze ottenute dalla sintesi di competenze specifiche dei settori elet- trico, elettronico, meccanico ed informatico. Le competenze connotative della figura riconduci- bili ai processi lavorativi che la vedono coinvolta ed alle attività/compiti individuate/i sono le se- guenti. Competenze comuni rispetto ai processi lavorativi individuati: - Analizzare le specifiche tecniche di prodotto e la documentazione tecnica nelle sue varie forme (disegni meccanici, schemi elettrici o elettronici, pneumatici, idraulici, ecc.; tabelle, gra- fici, diagrammi di flusso; programmi SW; ecc.). - Utilizzare le tecniche di assemblaggio dei componenti (lettura documentazione tecnica, regole per assemblaggi e cablaggi, attivazione programmi di controllo, ecc.). - Utilizzare i principali componenti e sottosistemi delle tecnologie dell’automazione industriale (componenti meccanici, elettromeccanici, elettropneumatici, oleodinamici; CNC, PLC, mo- tori, azionamenti, sistemi di supervisione e controllo, bus di campo, ecc.), realizzandone la ta- ratura e l’ottimizzazione. - Comprendere e/o definire la relazione tra le specifiche funzionali e le specifiche tecniche. - Impiegare alcune metodologie di progettazione di sistemi di automazione industriale. - Utilizzare la strumentazione per prove e misure sugli impianti automatizzati, conoscere in teoria ed applicare in pratica tecniche di misura e di analisi statistica dei dati. - Applicare metodiche tecniche e modelli logici per la diagnosi della natura e delle cause di guasti ed anomalie riscontrate nelle macchine e impianti automatizzati. - Applicare le metodiche di Technical Writing. Gestione dei processi produttivi che impiegano impianti automatizzati - Applicare le tecniche di analisi dei cicli. - Applicare le normative e le metodologie dei sistemi per la assicurazione qualità. - Applicare norme e procedure per la gestione della qualità, l’impatto ambientale e la sicurezza in riferimento all’impiego di macchine e impianti automatizzati. - Analizzare le situazioni ergonomiche e i comportamenti lavorativi che possono compromettere l’applicazione delle procedure nei diversi profili di attenzione. - Impiegare criteri statistici di verifica e diagnostica (carte di controllo, limiti di tollerabilità, ecc.). - Impiegare metodiche per la definizione di un action plan (distribuzione dei compiti, tempi, costi, ecc.) finalizzato alla rimozione di guasti e anomalie. - Applicare metodiche per la prevenzione di anomalie (affidabilità delle tecnologie, situazioni ergonomiche, manutenzione preventiva/predittiva, ecc.). - Analizzare le innovazioni tecnologiche relative ai diversi componenti e sottosistemi delle tec- nologie dell’automazione industriale (analisi della documentazione tecnica delle case forni- trici, analisi di capitolati tecnici di fornitura, ecc.). - Valutare le implicazioni dei flussi informativi rispetto alla efficienza ed efficacia nella gestione dei processi produttivi e collaborare alla loro ottimizzazione. - Applicare le tecniche di analisi del flusso produttivo, di individuazione ed eliminazione di atti- vità a valore aggiunto nullo e di valutazione dell’efficienza del processo automatizzato. - Cogliere le esigenze formative degli operatori a fronte di innovazioni tecnologiche, di pro- cesso ed organizzative. - Fornire supporto cognitivo in aula e on the job a singoli lavoratori ed a gruppi di lavoro (spie- gazioni tecniche, stimolo capacità di lettura della documentazione tecnica, diagnosi dei pro- blemi, ecc.). Manutenzione ordinaria e preventiva di impianti automatizzati - Operare secondo le finalità ed applicare le logiche aziendali della manutenzione preventiva, ordinaria, straordinaria e di verifica normativa. - Applicare le norme tecniche di manutenzione e quelle di gestione della sicurezza in ambito di manutenzione. 247 - Applicare metodiche di ispezione e controllo di macchine e impianti automatizzati. - Impiegare metodiche per la definizione di un action plan (distribuzione dei compiti, tempi, costi, ecc.) e/o di Project Management finalizzate alla rimozione di guasti e anomalie. - Utilizzare le tecniche di redazione delle procedure previste per i vari tipi di manutenzione. - Applicare le procedure previste per i vari tipi di manutenzione. - Garantire la comprensione ed il rispetto delle procedure (comunicazione assertiva). - Applicare modalità operative per la verifica dell’efficacia degli interventi manutentivi. - Valutare le implicazioni dei flussi informativi rispetto alla efficienza dei processi manutentivi e collaborare alla loro ottimizzazione. - Definire/aggiornare le prestazioni della manutenzione ed utilizzare e migliorare il sistema di reporting (indicatori delle prestazioni manutentive). - Cogliere le esigenze formative degli operatori a fronte di innovazioni tecnologiche ed organiz- zative. - Fornire supporto cognitivo in aula e on the job a singoli lavoratori ed a gruppi di lavoro (spie- gazioni tecniche, stimolo capacità di lettura della documentazione tecnica, diagnosi dei pro- blemi, ecc.). - (se la manutenzione viene effettuata presso le aziende clienti) comunicare con clienti in Italia e all’estero Collaudo di impianti automatizzati - Analizzare, in base alle caratteristiche dell’impianto e del processo, le modalità di avviamento, taratura e collaudo e definirne le procedure, relativamente a impianti semplici e/o consolidati (standard). - Analizzare, anche in collaborazione con la progettazione, le modalità di avviamento, taratura e collaudo e contribuire a definirne le procedure, relativamente a impianti complessi e/o innova- tivi (prototipi) e/o customizzati (a commessa). - Applicare le procedure previste per realizzare l’avviamento, la taratura e il collaudo relativa- mente a impianti semplici e/o consolidati e guidare altre persone alla loro applicazione. - Applicare le procedure previste per realizzare l’avviamento, la taratura e il collaudo relativa- mente a impianti complessi, innovativi e/o customizzati, in team con la progettazione dell’im- pianto/processo. - Applicare le norme tecniche ed organizzative per la gestione della sicurezza in ambito di avviamento e collaudo. - Intervenire sui componenti hw/sw che hanno dato luogo alle anomalie riscontrate ripristinando la corretta funzionalità o, se non possibile, fornire alla progettazione le informazioni o le pro- poste per la loro eliminazione a livello progettuale. - Impiegare metodiche di documentazione delle anomalie riscontrate. - Esaminare le procedure di collaudo anche in relazione ad elaborazioni sulle difettosità degli impianti nella loro vita utile, e formulare proposte di miglioramento della efficienza/efficacia. - Collaborare nei team di progetto. - Cogliere le esigenze formative degli operatori a fronte di innovazioni tecnologiche ed organiz- zative. - Fornire supporto cognitivo in aula e on the job a singoli lavoratori ed a gruppi di lavoro (spiegazioni tecniche, stimolo capacità di lettura della documentazione tecnica, diagnosi dei problemi, ecc.) Messa in servizio di impianti automatizzati - Analizzare, in base alle caratteristiche dell’impianto e del processo, le modalità di commissio- ning, installazione e messa in servizio e definirne le procedure, relativamente a impianti sem- plici e/o consolidati (standard). - Analizzare, anche in collaborazione con la progettazione, le modalità di commissioning, instal- lazione e messa in servizio e contribuire a definirne le procedure, relativamente a impianti complessi e/o innovativi (prototipi) e/o customizzati (a commessa). - Definire con il cliente le predisposizioni da attuare in vista della messa in servizio dell’im- pianto e collaborare alla programmazione delle attività della loro realizzazione. - Applicare le procedure per realizzare commissioning, installazione e messa in servizio, relativa- mente a impianti semplici e/o consolidati, anche guidando altre persone alla loro applicazione. - Applicare le procedure per realizzare commissioning, installazione e messa in servizio relati- vamente a impianti complessi e/o innovativi e/o customizzati, in team con la progettazione dell’impianto/processo. - Applicare le norme tecniche ed organizzative per la gestione della sicurezza in ambito di com- missioning, installazione e messa in servizio. 248 Evoluzione professionale prossima - Intervenire sui componenti hw/sw che hanno dato luogo alle anomalie riscontrate ripristinando la corretta funzionalità o, se non possibile, fornire alla progettazione le informazioni o le pro- poste per la loro eliminazione a livello progettuale. - Impiegare metodiche di documentazione delle anomalie riscontrate. - Utilizzare tecniche di addestramento del cliente all’utilizzo e alla manutenzione dell’impianto. - Impiegare tecniche e modalità di counselling orientate a supportare il cliente durante il ciclo di vita del prodotto. - Comunicare con clienti in Italia e all’estero. A seguito di esperienza acquisita ed a seconda delle caratteristiche del contesto aziendale, il tecnico superiore dei processi industriali automatizzati può, in prospettiva, assumere ruoli e/o compiti riguardanti il presidio tecnologico o manageriale dell’analisi e dello sviluppo dei processi automatizzati aziendali, dell’assistenza manutentiva, del miglioramento di impianti ad alto livello di automazione. Conclusione generale SU ALCUNE RICADUTE RELATIVE AL SISTEMA DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE PROFESSIONALE CONSIDERATO NELLA SUA COMPLESSITÀ Elaborazione di Michele PELLEREY 251 Il cammino italiano di definizione della filiera di Istruzione e Formazione Pro- fessionale ha subito non poche vicende, spesso anche contraddittorie, fin dalla eliminazione della scuola di avviamento al lavoro nel 1962. Si è dovuto aspettare il 1978 per avere una legge quadro sulla formazione professionale. Essa cercava di dare ordine al settore, mentre contemporaneamente si prospettava una riorganiz- zazione dello stesso obbligo scolastico. La legge 845 fu votata il 21 dicembre 1978 in un periodo particolare della nostra storia, quello della cosiddetta solidarietà nazionale. Essa definiva il rapporto con il sistema scolastico in quanto alla scuola spettava il compito di fornire la preparazione culturale di base, alla formazione professionale quello di avviare al lavoro attraverso l’intervento delle Regioni e dei privati. Contemporaneamente era stato elaborato un disegno di legge che portava l’obbligo scolastico a 16 anni. La formazione professionale poteva essere attivata solo per giovani che avessero assolto tale obbligo, ma questa seconda legge non venne mai approvata a causa della modificazione del quadro politico. La legge 845 prevedeva che le Regioni predisponessero programmi pluriennali e piani annuali di attuazione delle attività formative professionalizzanti, assicu- rando la partecipazione degli enti terzi interessati, in armonia con l’evoluzione della occupazione e delle esigenze formative e con il concorso delle forze sociali. Nell’ambito delle modalità gestionali, la legge definiva la presenza parallela di interventi pubblici e privati, chiarendo i vincoli e le condizioni al finanziamento pubblico per le iniziative promosse e realizzate dai privati. Le Regioni erano l’at- tore primario nella programmazione e gestione amministrativa dell’ampio venta- glio di iniziative che rientrano nella formazione professionale iniziale e continua, per tutti i livelli formativi. In particolare le Regioni attuavano di norma iniziative formative dirette alla qualificazione e specializzazione di coloro che avessero assolto l’obbligo scolastico e non avessero mai svolto attività di lavoro. Inoltre le attività di formazione professionale erano articolate in uno o più cicli, in ogni caso non più di quattro, ciascuno di durata non superiore alle 600 ore. Ogni ciclo era rivolto ad un gruppo di utenti definito per indirizzo professionale e per livello di conoscenze teorico-pratiche; non era ammessa la percorrenza continua di più di 4 cicli non intercalata da idonee esperienze di lavoro, fatta eccezione per gli allievi portatori di menomazioni fisiche, psichiche o sensoriali. 252 Non essendo stato approvato l’innalzamento dell’obbligo scolastico, i corsi di formazione professionale iniziale di competenza regionale vennero offerti a giovani che avevano assolto l’obbligo scolastico a 14 anni. Essi si attestarono su modelli prevalentemente biennali, articolati in quattro cicli, anche se non poche attività formative si limitarono a un anno, o due cicli. Solo alcune sperimentazioni furono impostate sulla base di un percorso triennale. Tra queste merita ricordare i corsi sperimentali nel campo delle arti grafiche, che in alcune Regioni vennero realizzati a partire da un accordo tra sindacati e imprenditori attraverso l’Ente Nazionale per l’Istruzione Professionale Grafica.1 La situazione della formazione professionale iniziale in Italia si presentava dunque fino al 2003 con caratteri di notevole incertezza. Alla qualifica professio- nale si poteva giungere con percorsi annuali (due semestri o due cicli), biennali (quattro semestri o cicli) e anche triennali (sei semestri o cicli). I percorsi triennali erano stati resi possibili o da accordi speciali tra le associazioni imprenditoriali e quelle sindacali, come nel caso della grafica, o definendo anno di specializzazione il terzo anno. In qualche caso si attivò un terzo anno che portava a una seconda qualifica, abbastanza vicina a quella originaria. Ne derivava anche una difficoltà non indifferente a definire con chiarezza il livello di qualificazione che veniva ga- rantito dalla qualifica professionale. Ciò portò a un riconoscimento di collocazione nel quadro europeo più o meno al secondo livello della classificazione prevista dalla Decisione del Consiglio delle Comunità Europee del 16 luglio 1985 (85/368/ CEE). Tale livello è descritto a partire dalla considerazione del percorso formativo seguito: “Formazione che dà accesso a questo livello: istruzione obbligatoria e pre- parazione professionale (compreso in particolare l’apprendistato). Questo livello corrisponde ad una qualifica completa per l’esercizio di una attività ben definita con la capacità di utilizzare i relativi strumenti e tecniche. Questa formazione deve permettere principalmente l’esecuzione di un lavoro relativamente semplice, la cui acquisizione può essere abbastanza rapida”. Il quadro di riferimento è stato modificato profondamente con la legge di rifor- ma del sistema educativo nazionale di istruzione e formazione del 28 marzo 2003, numero 53, che ha così definito la situazione: g) ... il secondo ciclo è costituito dal sistema dei licei e dal sistema dell’istruzione e della formazione professionale; dal compimento del quindicesimo anno di età i diplomi e le qualifiche si possono conseguire in alternanza scuola-lavoro o attraverso l’apprendi- stato; ... h) ferma restando la competenza regionale in materia di formazione e istruzione professionale, i percorsi del sistema dell’istruzione e della formazione professionale rea- lizzano profili educativi, culturali e professionali, ai quali conseguono titoli e qualifiche professionali di differente livello, valevoli su tutto il territorio nazionale se rispondenti ai livelli essenziali di prestazione di cui alla lettera c); le modalità di accertamento di tale 1 Cfr. M. PELLEREY, Sperimentare nella formazione professionale, Venezia, Regione del Veneto, 1991. 253 rispondenza, anche ai fini della spendibilità dei predetti titoli e qualifiche nell’Unione eu- ropea, sono definite con il regolamento di cui all’articolo 7, comma 1, lettera c); i titoli e le qualifiche costituiscono condizione per l’accesso all’istruzione e formazione tecnica superiore, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 69 della legge 17 maggio 1999, n.144; i titoli e le qualifiche conseguiti al termine dei percorsi del sistema dell’istruzione e della formazione professionale di durata almeno quadriennale consentono di sostenere l’esame di Stato, utile anche ai fini degli accessi all’Università e all’alta formazione artistica, mu- sicale e coreutica, previa frequenza di apposito corso annuale, realizzato d’intesa con le Università e con l’alta formazione artistica, musicale e coreutica, e ferma restando la possibilità di sostenere, come privatista, l’esame di Stato anche senza tale frequenza. La Conferenza Unificata del 19 giugno 2003 ha sancito un Accordo tra i Mini- steri interessati, le Regioni, le Province, i Comuni e le Comunità montane per atti- vare, nelle more dell’emanazione dei Decreti Legislativi previsti dalla legge 53, a partire dall’anno scolastico 2003-2004 un’offerta formativa sperimentale di istru- zione e formazione professionale, che di fatto si è configurata in percorsi triennali diretti al conseguimento della Qualifica professionale, seguiti, in alcuni casi, da un anno attivato per ottenere il Diploma professionale. Nel testo dell’accordo le parti citate: 2. considerano opportuno attivare, in via sperimentale, percorsi di istruzione e forma- zione professionale – rivolti alle ragazze e ai ragazzi che, concluso il primo ciclo di studi, manifestino la volontà di accedervi – caratterizzati da curricoli formativi e da modelli organizzativi volti a consolidare e ad innalzare il livello delle competenze di base, a so- stenere i processi di scelta dello studente in ingresso, in itinere ed in uscita dai percorsi formativi e la sua conoscenza del mondo del lavoro. 3. stabiliscono – anche al fine di consentire allo studente, che sceglie la nuova offerta, di continuare il proprio percorso formativo attraverso modalità che agevolino i passaggi ed i rientri fra l’istruzione e la formazione professionale e viceversa – che tali percorsi sperimentali debbano essere rispondenti alle seguenti caratteristiche comuni: – avere durata almeno triennale; – contenere, con equivalente valenza formativa, discipline ed attività attinenti sia alla formazione culturale generale sia alle aree professionali interessate; – consentire il conseguimento di una qualifica professionale riconosciuta a livello nazio- nale e corrispondente almeno al secondo livello europeo (decisione del Consiglio 85/368/CEE). In seguito a questo accordo a partire dall’anno scolastico 2003-2004 molte Regioni hanno attivato corsi di formazione professionale triennali sperimentali. Sulla base, poi, dell’accordo sopra citato si è giunti alla definizione degli Standard formativi minimi relativi alle competenze di base mediante un Accordo sancito il 15 gennaio 2004. L’accordo prevedeva anche una serie di azioni per rendere più stabile e trasparente il sistema delle qualificazioni professionali. L’impianto seguito per la definizione degli standard minimi delle competenze di base prevede quattro aree particolari (dei linguaggi, scientifica, tecnologica, storico-socio-economica) e valorizza un’accezione di competenze non solo in riferimento all’occupabilità delle persone, bensì anche al fine di garantire i pieni diritti di cittadinanza, fornendo un 254 quadro culturale di base. Quanto agli standard professionali è in atto un lavoro di definizione da parte di un coordinamento interregionale, anche se molte Regioni e Province autonome si sono mosse in maniera autonoma. In seguito è stato emanato il Decreto Legislativo relativo al secondo ciclo di istruzione e formazione il 17 ottobre 2005, n. 226. Per quanto riguarda la forma- zione professionale iniziale esso recita: “Le Regioni assicurano inoltre, agli stessi fini, l’articolazione dei percorsi formativi nelle seguenti tipologie: a) percorsi di durata triennale, che si concludono con il conseguimento di qua- lifica professionale, che costituisce titolo per l’accesso al quarto anno del sistema dell’istruzione e formazione professionale; b) percorsi di durata almeno quadriennale, che si concludono con il consegui- mento di un titolo di diploma professionale.” Tuttavia l’applicazione del suddetto Decreto è stato sospesa dal Governo Prodi con Decreti ministeriali n. 4018/FR del 31 maggio 2006 e n. 46 del 13 giugno 2006. Con il comma 622 dell’art. 1 della legge finanziaria per il 2007 l’obbligo di istruzione è stato elevato a 16 anni, come anche l’età minima per l’ingresso nel mercato del lavoro. A differenza dall’obbligo scolastico esso può essere adempiuto anche frequentando istituzioni formative e percorsi di istruzione e formazione pro- fessionale. Non è univoco e quindi non uniforme, perché “i saperi e le competenze di cui al comma 1 assicurano l’equivalenza formativa di tutti i percorsi, nel rispetto dell’identità dell’offerta formativa e degli obiettivi che caratterizzano i curricoli dei diversi ordini, tipi e indirizzi di studio” (art. 2, comma 2, DM n. 139/07). Il dispositivo italiano è stato elaborato avendo sullo sfondo le competenze chiave per l’apprendimento permanente predisposte in seno all’UE. Tuttavia, le competenze chiave per l’apprendimento permanente dell’UE comprendono la comunicazione nella madrelingua, la comunicazione nelle lingue straniere, la com- petenza matematica e le competenze di base in scienza e tecnologia, la competenza digitale, imparare a imparare, le competenze interpersonali, interculturali e sociali e la competenza civica, l’imprenditorialità, l’espressività culturale. Le competenze che rientrano nel dispositivo italiano dell’obbligo di istruzione sono, invece, ripar- tite in due gruppi, le competenze di base degli assi culturali (dei linguaggi, mate- matico, scientifico-tecnologico, storico-sociale) e le competenze chiave di cittadi- nanza (imparare a imparare, progettare, comunicare, collaborare e partecipare, agire in modo autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collega- menti e relazioni, acquisire e interpretare l’informazione). Inoltre, l’impostazione italiana tende ad attribuire eccessiva rilevanza alla dimensione disciplinare, intro- duce una pericolosa dicotomia tra conoscenze e competenze, mentre il documento dell’UE correttamente non prevede nessuna classificazione. Intanto alcune Regioni hanno definito mediante una legge apposita i percorsi di formazione professionale iniziale triennali inquadrandoli entro un Sistema del- l’Istruzione e Formazione professionale quadriennale. In particolare la Provincia 255 Autonoma di Trento ha sviluppato dall’anno formativo 2003-2004 un quarto anno di formazione professionale diretto al conseguimento del Diploma professionale basato su una forma pronunciata di alternanza.2 La filiera professionale, come ricordato più volte, veniva in questa Provincia completata a partire dall’anno formativo 2006-2007 con i corsi di Alta Formazione professionale biennali che portano al Diploma di Tecnico Superiore. Un giovane che inizia a 14 anni i percorsi di formazione professionale può così giungere, se regolarmente promosso, al titolo di Tecnico superiore dopo sei anni di istruzione all’età di 20 anni. È questa l’età che vede anche in Europa il completamento dei cosiddetti insegnamenti superiori professionali corti. Questo è il modello di riferimento che riteniamo più adatto per dare una struttura adeguata a tutta la filiera della formazione professionale. Esso si discosta notevolmente, come già richiamato, da quello prospettato dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’aprile 2008. Le conclusioni seguenti tengono conto di conseguenza prevalentemente di questo modello, che è del tutto coerente con il testo originario della legge 53 del 2003 di riforma del sistema edu- cativo italiano e il seguente Decreto legislativo relativo al secondo ciclo del sistema di istruzione e formazione. 1. LE NUOVE SFIDE ALLA FORMAZIONE PROFESSIONALE POSTE DAGLI ORIENTAMENTI EUROPEI Come ricordato nell’Introduzione, nell’ottobre del 2007 la Commissione Eu- ropea ha elaborato la proposta di Decisione del Parlamento europeo e del Consiglio che mira alla abrogazione della decisone 85/368/CEE del Consiglio relativa alla corrispondenza delle qualifiche di formazione professionale tra gli Stati membri delle Comunità europee.3 Ormai occorre fare riferimento solamente al Quadro Eu- ropeo delle Qualificazioni dal momento che esso è stato formalmente adottato il 23 aprile 2008 e che in tale occasione sono state impostate anche le politiche di una sua valorizzazione da parte dei vari sistemi nazionali. Tale Quadro, infatti, fungerà da strumento di traduzione per rendere le qualifiche più leggibili e comprensibili ai datori di lavoro, ai singoli e alle istituzioni, di modo che i lavoratori e i discenti possano far valere le loro qualifiche in altri Paesi. Il riferimento dunque per descrivere il livello della qualifica professionale conseguente il percorso triennale è il Quadro Europeo delle Qualifiche. Ciò vale anche per definire il livello proprio del Diploma professionale e del Diploma di Tecnico professionale superiore. A questo proposito si può notare la diversità di 2 M. FRISANCO (a cura di), Da qualificati a tecnici. La sperimentazione dei quarti anni di diploma professionale in alternanza formativa nella Provincia di Trento, Milano, Franco Angeli, 2007. 3 Proposta di decisione del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 novembre 2007, COM (2007) 680 definitivo. 256 traduzione dell’espressione inglese “qualification”. Nel testo ufficiale francese esso viene tradotto “certification”. In italiano ha prevalso finora l’espressione “qualifica”. Ciascuno dei livelli del QEQ è definito da una serie di descrittori che indicano i risultati dell’apprendimento relativi alle qualifiche. Questi vengono pre- cisati secondo tre indicatori: conoscenze, abilità e competenze. Le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche. Le abilità sono descritte come cognitive (comprendenti l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (compren- denti l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti e utensili). Le com- petenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia. Più specificata- mente: a) le conoscenze, indicano il risultato dell’assimilazione di informazioni at- traverso l’apprendimento, sono l’insieme di fatti, principi, teorie e pratiche, rela- tive a un settore di studio o di lavoro, e sono descritte come teoriche e/o pratiche; b) le abilità indicano le capacità di applicare conoscenze e di usare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi; esse sono descritte come cognitive (uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (che implicano l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti); c) le competenze indicano la com- provata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o meto- dologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o per- sonale; esse sono descritte in termini di responsabilità e autonomia. Occorre ricor- dare come in altra parte dei documenti si indichino anche gli atteggiamenti, che riguardano prevalentemente disponibilità stabili positive o negative verso attività, contenuti, ambienti, persone. In essi entrano aspetti valoriali, cognitivi, affettivi e volitivi. Risultati dell’apprendimento relativi al livello 1 Conoscenza generale di base. Abilità di base necessarie a svolgere mansioni/compiti semplici. Competenze nel lavoro o nello studio, sotto la diretta supervisione, in un contesto strutturato. Risultati dell’apprendimento relativi al livello 2 Conoscenza pratica di base in un ambito di lavoro o di studio. Abilità cognitive e pratiche di base necessarie all’uso di informazioni pertinenti per svolgere compiti e risolvere problemi ricorrenti usando strumenti e regole semplici. Competenze nel lavoro o nello studio sotto la supervisione con un certo grado di autonomia. Risultati dell’apprendimento relativi al livello 3 Conoscenza di fatti, principi, processi e concetti generali, in un ambito di lavoro o di studio. Una gamma di abilità cognitive e pratiche necessarie a svolgere compiti e risolvere problemi scegliendo e applicando metodi di base, strumenti, materiali ed informazioni. Competenze: assumere la responsabilità di portare a termine compiti nell’ambito del lavoro o dello studio; adeguare il proprio compor- tamento alle circostanze nella soluzione dei problemi. 257 Risultati dell’apprendimento relativi al livello 4 Conoscenza pratica e teorica in ampi contesti in un ambito di lavoro o di studio. Una gamma di abilità cognitive e pratiche necessarie a risolvere problemi specifici in un campo di lavoro o di studio. Competenze: sapersi gestire autonoma- mente, nel quadro di istruzioni in un contesto di lavoro o di studio, di solito preve- dibili, ma soggetti a cambiamenti; sorvegliare il lavoro di routine di altri, assu- mendo una certa responsabilità per la valutazione e il miglioramento di attività lavorative o di studio. Risultati dell’apprendimento relativi al livello 5 Conoscenza teorica e pratica esauriente e specializzata, in un ambito di lavoro o di studio e consapevolezza dei limiti di tale conoscenza. Una gamma esauriente di abilità cognitive e pratiche necessarie a dare soluzioni creative a problemi astratti. Competenze: saper gestire e sorvegliare attività nel contesto di attività lavorative o di studio esposte a cambiamenti imprevedibili; esaminare e sviluppare le prestazioni proprie e di altri. Come già accennato, il Ministero del Lavoro nel rispondere alla indagine conoscitiva promossa dalla Commissione europea aveva indicato come possibile inquadramento delle qualificazioni nel settore dell’Istruzione e formazione profes- sionale il livello 3 per la qualifica professionale, livello 4 per il diploma di tecnico professionale e il livello 5 per il diploma di tecnico professionale superiore. L’impegno attuale sarà dunque quello di elaborare un quadro nazionale che sia armonico con le indicazioni europee. Se si accetta, e la cosa sembra abbastanza scontata, l’indicazione di massima contenuta nella già citata risposta del Ministero del Lavoro, occorre rileggere in primo luogo i cosiddetti standard formativi minimi relativi alla qualifica professionale conseguita dopo il triennio dei percorsi di Istru- zione e Formazione professionale per verificarne la compatibilità con quanto de- scritto per il livello 3 del QEQ ed eventualmente renderli più coerenti con esso. Segue la necessità di elaborare un quadro analogo per quanto riguarda il Diploma professionale da conseguire dopo il quarto anno. Infine, va ripreso quanto finora elaborato nel contesto delle attività di IFTS, sottoporre il tutto a una attenta rilettura per fornire un quadro di conoscenze, abilità e competenze da promuovere al termine del percorso di Diploma di Tecnico Superiore. Di seguito ci limitiamo a prendere in considerazione i due livelli precedenti a quello di tecnico superiore. 1) La qualifica professionale Per quanto riguarda la qualifica professionale, la proposta è quella di operare tenendo conto di alcune fonti di riferimento principali: il quadro delle competenze 258 chiave per l’apprendimento permanente; il QEQ; le indicazioni relative all’obbligo di istruzione; quanto finora elaborato per l’ambito delle cosiddette competenze di base e per quello delle competenze professionali; le sperimentazioni avviate nelle varie Regioni e Province autonome. Un possibile schema di lavoro potrebbe essere analogo a quello elaborato in Francia per lo zoccolo comune delle conoscenze e competenze relativo all’istru- zione obbligatoria e che comprende: “Tutto ciò che è indispensabile padroneggiare alla fine della scolarità obbligatoria. [...] Un insieme di conoscenze e di compe- tenze che è indispensabile padroneggiare per portare a termine con successo la pro- pria scolarità, per perseguire la propria formazione, costruire il proprio avvenire personale e professionale e riuscire nella propria vita sociale”.4 In particolare si prendono in considerazione: la padronanza della lingua francese, la pratica di una lingua straniera vivente, i principali elementi di matematica e la cultura scientifica e tecnologica, la padronanza delle tecniche usuali della comunicazione e dell’infor- mazione, la cultura umanista, le competenze sociali e civiche, l’autonomia e l’ini- ziativa. A queste dimensioni va integrata la componente specificatamente profes- sionale. Nel nostro caso si dovrebbe dire a seconda dei livelli considerati: “Tutto ciò che è indispensabile padroneggiare per conseguire una qualifica professionale che corrisponde al 3 livello del QEQ” o “Tutto ciò che è indispensabile padroneg- giare per conseguire il diploma tecnico professionale che corrisponde al 4 livello del QEQ”. In questa prospettiva sembra potersi delineare un doppio quadro di riferi- mento: uno relativo alla padronanza di competenze fondamentali nell’ambito sia culturale e della cittadinanza, sia professionale; l’altro tiene conto di quanto indi- cato dalla legge 53 circa le finalità dell’intero sistema educativo italiano e che potrebbe essere riassunto secondo un profilo educativo e culturale e professionale di riferimento. A esempio la Provincia Autonoma di Trento ha adottato nel 2004 un documento che così presenta le dimensioni fondamentali del percorso forma- tivo: “Per quanto riguarda la crescita educativa dell’allievo, il percorso triennale mira alla crescita e alla valorizzazione della persona come elemento centrale del processo educativo-formativo, favorendo: l’educazione alla cittadinanza; l’educa- zione ambientale; l’educazione alla salute e al corretto rapporto tra esercizio fisico, alimentazione e benessere della persona; l’apertura alle problematiche della convivenza tra i popoli, della solidarietà e del rispetto reciproco; l’educa- zione civile attraverso l’esperienza, fatta anche nel periodo formativo, di vivere in relazione con gli altri in una prospettiva di rispetto, di tolleranza, di responsabilità e di solidarietà; la formazione spirituale e morale. Per quanto riguarda la crescita culturale, il percorso triennale persegue l’elevazione del livello culturale degli allievi al fine di favorire la loro partecipazione ai valori della cultura, della civiltà 4 Cfr. Ministère de l’Éducation Nationale, Le socle commun de connaissances et compétences, Paris, CNDP, 2006. 259 e della convivenza sociale e di contribuire al loro sviluppo. Per quanto riguarda la crescita professionale, il percorso triennale mette gli allievi nella condizione di poter assumere un ruolo lavorativo attivo, con adeguate competenze per inserirsi in attività di carattere esecutivo che prevedono l’utilizzo di strumenti e tecniche e che possono essere svolte autonomamente nei limiti delle tecniche a esse inerenti”. In generale sembra che la definizione del livello di qualificazione debba essere elaborata tenendo conto di tre dimensioni formative, che devono essere poi inter- pretate nella progettazione curricolare in maniera integrata. Prima dimensione Si tratta di conoscenze, abilità e competenze che permettono alla persona di crescere nella propria cultura e professionalità e di orientarsi nel mondo sociale, civile e professionale. Il loro perseguimento dovrebbe informare tutta l’attività for- mativa e didattica, a tutti i livelli, secondo una prospettiva progressiva e sistema- tica. Esse costituiscono come un quadro di riferimento che permette di impostare l’azione formativa e la valutazione della sua qualità da un punto di vista educativo. Si possono citare a esempio: – Competenze nel gestire se stessi nell’apprendere in modo da poterle valorizzare lungo tutto l’arco della vita. – Competenze nel progettare la propria vita e la propria professionalità con spi- rito di iniziativa e di imprenditorialità e con senso di solidarietà e partecipa- zione alla vita comunitaria. – Competenze relazionali e comunicative, relative sia alla interazione tra per- sone, sia alla collaborazione nello studio e nel lavoro. Seconda dimensione Competenze che da una parte radicano lo studente nella cultura, nella storia e nella geografia della propria terra, della propria nazione, dell’Europa e del mondo, sia quelle che favoriscono lo sviluppo e la valorizzazione delle forme espressive di sé e dei propri sentimenti, sia lo sviluppo armonico del proprio corpo e la cura della propria e altrui salute, sia quelle che l’aiutano a orientarsi nel mondo civile, sociale, professionale e religioso; dall’altra caratterizzano il soggetto dal punto di vista cul- turale e professionale a un livello coerente con quello descritto dal QEQ. Si pos- sono citare a esempio: – Competenze e sensibilità nell’ambito delle espressioni culturali che radicano la propria identità sia a livello locale, sia nazionale, sia europeo, sia interna- zionale. – Competenze tecniche e professionali che permettono di orientarsi prima e di inserirsi poi nel mondo della produzione di beni e servizi. – Competenze sociali e civiche, che permettono di partecipare in maniera consa- pevole, attiva e responsabile alla vita democratica del Paese. 260 Terza dimensione Si tratta di interventi diretti allo sviluppo della padronanza di competenze che fanno da fondamento sia alla prima, sia alla seconda dimensione. Tenendo conto anche dell’attuale configurazione dell’obbligo istruttivo, le discipline da includere dovrebbero essere: lingua italiana, lingue straniere, matematica, scienze. Si pos- sono citare a esempio: – Competenze fondamentali nella lingua italiana che portano a padroneggiarla sia nella comunicazione orale, sia in quella scritta. – Competenze fondamentali nella valorizzazione dei concetti e delle procedure matematiche sia nella vita quotidiana, sia nello studio delle varie discipline scientifiche e tecnologiche, sia nelle professionalità specifiche. – Competenze che permettono di utilizzare concetti, principi, teorie scientifiche per dare significato ai fenomeni naturali, per dare fondamento ai processi e ai prodotti tecnologici, per comprendere e risolvere problemi sia di natura scien- tifica, sia di natura sociale. – Competenze fondamentali nel leggere, ascoltare, esprimere i propri pensieri, interagire, scrivere nella lingua inglese. Per ciascuna di queste competenze è possibile poi precisare le conoscenze, le abilità e, quando conveniente, gli atteggiamenti da promuovere in maniera signi- ficativa, stabile e fruibile sia nel contesto dello studio, sia in quello del lavoro, sia in quello della vita sociale. La capacità di coordinare o di orchestrare tali risorse interne nello svolgimento delle attività specifiche o nell’adempimento dei vari compiti metterà in luce il livello di competenza raggiunto. Anche per questo occorre ricordare come la promozione dello sviluppo delle competenze in questi ambiti di insegnamento debba essere collegata in maniera valida e produttiva con tutti gli altri e con l’esperienza sia scolastica, sia extra- scolastica degli studenti. Inoltre il loro raggiungimento implica anche un’attenta valorizzazione di quelle necessarie per fruire sia in maniera ricettiva, sia produttiva delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione. 2) Il diploma professionale di tecnico Per quanto riguarda le conoscenze, abilità e competenze da conseguire alla fine del quarto anno del percorso di Istruzione e formazione professionale è utile riportare quanto è stato definito come quadro di riferimento per la progettazione dei quarti anni in alternanza presso la Provincia Autonoma di Trento.5 Si tratta in primo luogo del cosiddetto Profilo educativo, culturale e professionale, che fa riferimento a quello allegato al decreto legislativo 226 del 17 ottobre 2005. Di seguito vengono 5 M. FRISANCO (a cura di), Da qualificati a tecnici. La sperimentazione dei quarti anni di diploma professionale in alternanza formativa nella Provincia di Trento, Milano, Franco Angeli, 2007, 146-149. 261 evidenziati gli standard formativi per due grandi aree: quella culturale e quella tecnico-professionale. a) Standard formativi minimi delle competenze culturali Area dei linguaggi 1) Affronta situazioni comunicative diverse, impreviste, anche in contesti non noti, scambiando informazioni ed idee, utilizzando adeguate risorse lingui- stico-espressive ed esprimendo il proprio punto di vista motivato. 2) Affronta situazioni comunicative, anche complesse, sul piano professionale e relazionale. 3) Elabora sintesi di nozioni o informazioni lette o apprese oralmente. 4) Comprende e utilizza per l’ambito lavorativo testi professionali e documenta- zione con padronanza dei termini tecnici. 5) Produce, controlla e rettifica documenti, relazioni e prospetti specifici relativi al processo lavorativo di riferimento. 6) Esprime contenuti professionali e culturali attraverso un linguaggio integrato, utilizzando tutti gli strumenti tecnico-espressivi che possono favorire la comu- nicazione. Area dei linguaggi in lingua straniera 7) Descrive esperienze ed eventi relativi all’ambito professionale e personale. 8) Conosce operativamente il linguaggio tecnico del settore professionale per consultare siti, manuali, riviste, ecc. Area tecnica 9) Usa consapevolmente le potenzialità offerte da applicazioni informatiche per lo svolgimento di attività tipiche del settore professionale di riferimento. Area scientifica 10) Opera scelte nelle diverse situazioni problematiche del contesto professionale applicando idonee tecniche e procedure di soluzione. 11) Contestualizza nell’applicazione delle procedure e delle tecniche di settore una conoscenza approfondita dei fenomeni scientifici correlati. Area storico-socio-economica 12) Colloca la propria attività ed esperienza personale in modo consapevole nel sistema socio-economico e nel contesto normativo e tecnologico del settore professionale di riferimento. Area organizzativa 13) Si inserisce e si relaziona nel contesto organizzativo aziendale. 262 14) Assume comportamenti volti a rispettare le procedure del “sistema qualità”. 15) Identifica e rileva negli ambienti di lavoro fonti di criticità e di rischio per la sicurezza, il benessere e il rispetto dell’ambiente, promuovendone la consape- volezza. b) Standard formativi minimi generali delle competenze professionali Area tecnica 1) Sceglie, predispone e utilizza le tecnologie, le procedure, gli strumenti più adatti per lo svolgimento dei compiti, mette a punto le attrezzature, mantenen- done l’operatività. Area organizzativa 2) Pianifica le modalità di produzione/realizzazione del prodotto/servizio, identificando, organizzando e ottimizzando l’impiego delle risorse necessarie. Area relazionale 3) Collabora efficacemente con gli altri, stabilendo relazioni positive nel gruppo di lavoro, raccogliendo e gestendo in modo appropriato le informazioni neces- sarie ai fini dello svolgimento delle attività previste. Area strategica 4) Comprende, nella loro complessità, il funzionamento dei sistemi tecnologici e organizzativi, suggerisce modifiche o miglioramenti di tali sistemi, ne segue il funzionamento intervenendo in caso di anomalie. 5) Usa le potenzialità offerte da differenti fonti informative ai fini del proprio aggiornamento e sviluppo professionale. Gli standard formativi minimi delle competenze culturali e gli standard forma- tivi minimi generali delle competenze professionali costituiscono la guida per la valutazione continua e finale del quarto anno. 2. SPECIFICITÀ E LIVELLI DEI TITOLI E DIPLOMI DELL’ISTRUZIONE E FORMAZIONE PROFESSIONALE A conclusione del nostro lavoro occorre evidenziare una delle principali con- statazioni che hanno avuto un forte sostegno da tutte le evidenze raccolte: la di- versa vocazione formativa propria dei licei, degli istituti tecnici e dei corsi univer- sitari rispetto all’istruzione e formazione professionale e all’alta formazione pro- fessionale. È vero che l’attuale disposizione di legge prevede anche per gli istituti professionali una loro gestione statale e un percorso quinquennale, in contrasto 263 con quanto prevedeva la legge 53/03, ma anche su questo punto occorre che sia il governo, sia la comunità scolastica riflettano meglio. Un avvio di discussione era stato attuato in seno alla Commissione nominata per guidare il riordino della istru- zione tecnica e professionale. In quella sede era stata avanzata da alcuni la pro- posta di ripristinare la quadriennalità dell’istruzione e formazione professionale, in modo da offrire un canale formativo e scolastico che potesse concludersi a 18 anni con il conseguimento di un titolo a valenza statale. Ormai l’Italia è rimasta l’unica tra le nazioni dell’Unione Europea a protrarre la scolarità secondaria fino a 19 anni.6 A parte la auspicabile durata del percorso, a mio avviso ciò che caratterizza più chiaramente tutta la filiera istruzione e formazione professionale fino al livello superiore rispetto a ciò che caratterizza i licei, gli istituti tecnici e le stesse Univer- sità, è il suo collegamento immediato e continuo con il territorio e il suo sviluppo economico, sociale e produttivo. Il sistema di istruzione e formazione professionale ha certamente di mira anch’esso l’educazione della persona nelle sue varie dimen- sioni fondamentali (spirituali, morali, culturali, sociali e civiche), cosa che vale anche per l’alta formazione professionale per quanto concerne i fondamenti teorici e scientifici delle competenze professionali, ma tale processo si integra e prende una curvatura specifica in relazione al contesto territoriale nel quale si attua. È il canale formativo che si mette al servizio della comunità locale dal punto di vista della sua crescita come sistema di produzione di beni e servizi. Di qui la sua natura specifica e il suo rapporto sistematico e coerente con il mondo del lavoro e delle professioni presente nel territorio. L’offerta di formazione di conseguenza è stretta- mente correlata ai bisogni locali più che a una domanda generica e personale di for- mazione. Questa viene soddisfatta dal sistema dei licei e degli istituti tecnici. Qui sta la ragione fondamentale dell’attribuzione in esclusiva alle Regioni e Province autonome della competenza in merito al sistema di istruzione e formazione profes- sionale. Di qui le caratteristiche fondamentali di flessibilità, specificità, coerenza con il territorio e le sue esigenze, la centratura sull’acquisizione di competenze pro- fessionali spendibili immediatamente nel contesto lavorativo locale, il rapporto diretto con le aziende, l’alternanza scuola-lavoro protratta e consistente, ecc. Questa caratterizzazione non semplifica certo la prefigurazione del sistema dell’istruzione e formazione professionale, bensì responsabilizza maggiormente ai vari livelli sia i governanti in ambito nazionale, ragionale e locale, sia il mondo stesso del lavoro, che è chiamato non solo a collaborare nella definizione del refe- renziale di competenze professionali da promuovere a livello di qualificazioni e di diplomi, bensì anche nella gestione del processo formativo stesso offrendo am- bienti e contesti di esperienza e formazione sul campo e partecipando alla valuta- zione del conseguimento del profilo professionale finale da parte degli studenti. 6 Anche la Germania ha unificato tutte le terminalità del livello secondario di scuola a 18 anni. Rimane solo l’eccezione della Polonia. 264 Per i livelli 3 (qualifica professionale), 4 (diploma professionale), 5 (diploma di tecnico superiore) occorre dunque specificare adeguatamente non solo quali conoscenze, abilità e competenze debbano essere perseguite, ma anche descrivere meglio il loro livello di riferimento. A esempio, come già accennato, occorre verifi- care che gli standard minimi di competenza corrispondenti alla qualifica professio- nale specificati dall’accordo Stato-Regioni siano adeguati per poter riconoscere tale qualifica al terzo livello del QEQ. Non solo, occorrerebbe che essi venissero effet- tivamente sperimentati e verificati nella loro fattibilità operativa, anche perché essi sono stati descritti in maniera ipotetica, in qualche caso in maniera incongrua, e di conseguenza necessariamente bisognosi di una periodica valutazione sul campo ed eventuale revisione. Tanto più che essi sono stati proposti senza tener conto né delle competenze chiave del cittadino europeo, né di quelle previste dall’obbligo di istruzione. Analogamente occorre procedere per quanto concerne il livello successivo, quello del Diploma professionale, per poterlo collocare al quarto livello del QEQ. A questo proposito è già stata ricordata l’esperienza di attivazione del quarto anno del percorso di istruzione e formazione professionale nella Provincia Autonoma di Trento. Il principale risultato di tale esperienza ormai pluriennale è stato la verifica della fattibilità di un sistema formativo professionale diretto alla preparazione di tecnici basato su uno stretto dialogo tra esperienza lavorativa in azienda e comple- tamento delle conoscenze e competenze di natura personale, culturale e tecnico- professionale per una fascia di utenti di età 17-18 anni, che hanno conseguito la Qualifica professionale. Il rapporto tra formazione in azienda e formazione presso il Centro/Istituto è stato al minimo di 4 a 6, cioè 40% in azienda, 60% nell’isti- tuzione formativa. Una fattibilità condizionata però da alcuni fattori. Il primo è la presenza di un vero e proprio tutor aziendale. Ciò implica il coinvolgimento di aziende con cui si è in grado di interagire in maniera coordinata, sistematica e continua. Il secondo fattore è di natura metodologica. Tra esperienza in azienda e interventi formativi nella istituzione formativa va attivata una vera e propria circo- larità: l’apporto conoscitivo offerto dall’istituzione formativa deve trovare riscontro nella esperienza lavorativa, oltre che promuovere un più alto livello di competenza personale e culturale; l’esperienza lavorativa deve trovare spazio di riflessione critica e di consapevolezza progressiva all’interno degli interventi dell’istituzione formativa.7 La sollecitazione che deriva dal necessario ripensamento del processo di for- mazione professionale alla luce del Quadro Europeo delle Qualificazioni per l’ap- prendimento permanente implica anche una rilettura della sua stessa impostazione educativa. Non si può più separare il lavoratore dal cittadino, la persona dalla sua 7 M. FRISANCO (a cura di), Da qualificati a tecnici. La sperimentazione dei quarti anni di diploma professionale in alternanza formativa nella Provincia Autonoma di Trento, Milano, Franco Angeli, 2007. 265 prospettiva esistenziale, il lavoro dalla cultura, la vita quotidiana dalla istituzione formativa. Il soggetto in formazione esige da parte nostra un’azione che miri a pro- muovere un’integrazione feconda tra conoscenze culturali, professionali, esperien- ziali, abilità di natura pratica e intellettuale, prospettive di senso e qualità personali, nella prospettiva dello sviluppo di competenze fondamentali per affrontare le sfide della vita, del lavoro, della società, del futuro. Un concetto di competenza suffi- cientemente ricco e comprensivo centrato sull’unità e integrazione della persona permette di recuperare quanto di positivo era incluso nei concetti di interdisciplina- rità, di profilo unitario educativo culturale e professionale, di sviluppo integrale della persona. Le distinzioni spesso avanzate tra dimensione culturale e professio- nale, tra educazione del cittadino e del lavoratore, tra formazione di base e forma- zione tecnico-professionale, pur valide sul piano riflessivo, non possono diventare nella pratica educativa aree separate di intervento, spesso senza comunicazione tra loro e senza un sistematico collegamento esperienziale. La prospettiva spesso evocata, anche in documenti europei, di una maggiore e più consapevole personalizzazione dei processi formativi porta inevitabilmente a rileggere l’impianto e l’attività formativi come convergenti verso una promozione unitaria e integrata di ciò che viene ritenuto essenziale per la qualificazione di un cittadino-lavoratore ai vari livelli di competenza. La competenza, infatti, quando si manifesta in condotte umane autonome e responsabili, implica la capacità di coordinare, integrare, orchestrare valori e significati esistenziali, qualità personali, conoscenze e abilità culturali e professionali nell’assolvere i compiti e gli impegni che caratterizzano il ruolo da assumere nel contesto organizzativo nel quale si è inseriti. Nell’attività sia lavorativa, sia di partecipazione attiva alla comunità civile e religiosa, sia di conduzione della vita famigliare, entra in gioco tutta la persona, con le sue qualità e i suoi limiti, le sue ricchezze e le sue povertà. In altre parole la competenza umana fondamentale nel saper condurre una vita buona si declina certo in competenze specifiche nei vari contesti di vita, ma rimane comunque il riferi- mento e la base portante della qualità di ogni agire professionale, civile, comuni- tario e famigliare. Documentazione Elaborazione di Francesco ORIO 269 FILE DI CONSULTAZIONE DELLA DOCUMENTAZIONE Il CD allegato al testo contiene i seguenti documenti. FORMATO DOC • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • FORMATO PDF • • • • • • • • italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano inglese inglese italiano italiano italiano italiano LINGUAARGOMENTO R IC ER C A ST R AT EG IE , D IC H IA R A ZI O N I, C O M U N IC AT I CONTENUTO Progetto di massima (Cnos - Ciofs) Progetto di ricerca (Pellerey) Rapporto finale: Presentazione (Pellerey) Rapporto finale: Prima parte (Pellerey) Rapporto finale: Seconda parte (Torchia e Mueller) Rapporto finale: Terza parte (Torchia) Rapportofinale: Quarta parte (Frisanco) Classificazione ISTAT delle Professioni tecniche Rapporto finale: Conclusione generale (Pellerey) Rapporto finale: Documentazione (Orio) Rapporto finale: Riferimenti principali Dichiarazione della Sorbona (25.05.1998) Dichiarazione iniziale di Bologna (19.06.1999) Processo di Bologna Strategia di Lisbona (marzo 2000) Strategia di Lisbona (Innovazione) Strategia di Lisbona (Percorso) Strategia di Lisbona (Rilancio) Strategia di Lisbona (Obiettivi futuri) Strategia di Lisbona (Ruolo Università) Comunicato di Praga (19.05.2001) Dichiarazione di Copenaghen (29-30.11.2002) Dichiarazione di Copenaghen (29-30.11.2002) Comunicato di Berlino (19.09.2003) Comunicato di Bergen (10-20.05.2005) Comunicato di Londra (17-18.05.2007) 270 FORMATO DOC • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • FORMATO PDF • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • inglese inglese italiano italiano italiano italiano italiano italiano francese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese inglese italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano LINGUAARGOMENTO CONTENUTO Descrittori di Dublino (Ciclo corto, 1° ciclo, 2° ciclo, 3° ciclo) Descrittori di Dublino (Titoli accademici) Descrittori di Dublino (Considerazioni) Descrittori di Dublino (Trad. pp. 57-74) Descrittori di Dublino (Sintesi; Traduzione) Descrittori di Dublino (Estratto) Descrittori di Dublino (Slide) Dalla Dichiarazione di Bologna ai Descrittori di Dublino (Luzzatto) Directives Guidelines Belgio Corea Estonia Estonia 1 (Allegati: Tavole e Figure) Estonia 2 (Documenti) Finlandia Giappone Islanda Messico Norvegia Olanda Polonia Portogallo Portogallo 1 (Allegati) Regno Unito Repubblica Ceca Svezia Svezia 1 (Sintesi) Svezia 2 (Allegati) Svizzera Indicazioni generali per la progettazione dei percorsi di Alta Formazione Professionale Indicazioni generali per l’attuazione dei percorsi di Alta Forma- zione Professionale Linee guida per l’avvio di gruppi di lavoro dei percorsi pilota di Alta Formazione Professionale Percorsi pilota di Alta Formazione Professionale Progetto di avvio del sistema di Alta Formazione Professionale Protocollo d’intesa PAT-MIUR-MLPS Requisiti formali per l’adesione alla valutazione di ingresso per i percorsi pilota dell’Alta Formazione Professionale Valutazione in ingresso ai percorsi di Alta Formazione Professio- nale Delibera Giunta Provinciale n. 989 del 19.05.2006 Delibera Giunta Provinciale n. 1045 del 29.05.2006 Delibera Giunta Provinciale n. 1442 del 14.07.2006 Delibera Giunta Provinciale n. 2245 del 21.10.2005 approvazione avvio progetto Alta Formazione Professionale D ES C R IT TO R I D I D U BL IN O O EC D T E R ZI A R Y ED U C AT IO N PR O V IN C IA A U TO N O M A D I TR EN TO 271 FORMATO DOC • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • FORMATO PDF • • • • • • • • • • italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano francese italiano italiano italiano italiano inglese inglese italiano italiano italiano LINGUAARGOMENTO CONTENUTO Legge Provinciale n. 5 del 15.03.2005 istitutiva del sistema di Alta Formazione Professionale Legge Provinciale n. 5 del 07.08.2006 Assicurazione qualità standard e linee guida Considerazioni di Mattalucci nella costruzione dei referenziali formativi dei corsi di industria e artigianato Documento tecnico gruppo di lavoro su Stato, sviluppo e prospet- tive del sistema di Alta Formazione Professionale Il docente nell’Alta Formazione Mansioni coordinatore tutor docenti Valutazione AFP. Indicazioni operative e strumenti di registrazione AFP. Questionario partecipanti primo monitoraggio Strumento auto monitoraggio definitivo Contenuti supplemento al diploma Indicazioni e procedure per la valutazione finale Schema diploma AFP – Allegato delibera Schema supplemento al diploma AFP – Allegato delibera Pellerey: Possibili modelli di Alta Formazione Tecnico-Professio- nale in Italia Pescia: Mercato del lavoro e profili professionali dei tecnici supe- riori Pescia: Mercato del lavoro e profili professionali dei tecnici supe- riori Benoit: Gli Istituti Universitari Tecnologici in Francia (IUT) e l’IUT di Grenoble Bottani: Curricoli “Fast Food” e “Slow Food” nell’arena interna- zionale Drago: Cultura comune e percorsi differenziati nell’Italia del XXI secolo Luzzatto: Dalla Dichiarazione di Bologna ai Descrittori di Dublino Perrenoud: Construire un référentiel de compétences pou guider une formation professionnelle G.U. n. 31 del 07.02.2006: Circolare in materia di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione Alta Formazione Emilia Romagna Provincia di Forlì Cesena. Formazione superiore e formazione continua (con esempi stranieri) Commissione Comunità Europee: Costituzione del Quadro Euro- peo delle Qualifiche e dei Titoli per l’apprendimento permanente Commissione Comunità Europee: Establishment of the EQF for lifelong learning Commissione Comunità Europee: Towards a European Qualifi- cations Framework for lifelong learning Commissione Comunità Europee: Modernizzazione Università Commissione Comunità Europee: Competenze chiave per l’ap- prendimento permanente Commissione Comunità Europee: Sistema Europeo di crediti per l’Istruzione e la Formazione Professionale (ECVET) PR O V IN C IA A U TO N O M A D I TR EN TO C O M M IS SI O N E C O M U N IT À EU R O PE E 272 FORMATO DOC • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • FORMATO PDF • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • italiano italiano italiano inglese inglese italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano inglese inglese italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano italiano francese italiano italiano italiano italiano italiano LINGUAARGOMENTO CONTENUTO Consiglio Unione Europea: Apprendimento non formale e infor- male Consiglio Unione Europea: Certificazione della qualità nell’istru- zione superiore Consiglio Unione Europea: Cooperazione europea in materia di istruzione e formazione professionale Consiglio Unione Europea: “Education & Training 2010”. The success of the Lisbon strategy hinges on urgent reforms Consiglio Unione Europea: Establishment of the EQF for lifelong learning. General approach Consiglio Unione Europea: Orientamento lungo tutto l’arco della vita in Europa Consiglio Unione Europea: Qualità in materia di istruzione e formazione professionale G.U. Comunità Europee: Obiettivi dei sistemi di istruzione e formazione in Europa G.U. Unione Europea: Quadro comunitario unico per la traspa- renza delle qualifiche e delle competenze (Europass) Parlamento Europeo: Creazione di un quadro europeo delle quali- fiche Parlamento Europeo: EQF-LL Parlamento Europeo: Verso un quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente Parlamento Europeo: Proposta di decisione che abroga la decisione 85/368/CEE del 16 luglio 1985 Parlamento Europeo: Testi approvati OECD: Higher Education - Quality, Equity and Efficiency UNESCO: Resolutions Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 25 gennaio 2008 Decreto del 25 gennaio 2008 – Allegato A Decreto del 25 gennaio 2008 – Allegato B Decreto del 25 gennaio 2008 – Allegato C La Formazione Tecnico Professionale Superiore Integrata (FIS) IRSO. Lavoratori della conoscenza: Francia, Germania, Spagna, Stati Uniti ISFOL: Linee guida per la progettazione dei percorsi formativi Indicazioni sulle modalità dell’innalzamento dell’obbligo di istru- zione Stato di avanzamento della normativa sulla formazione superiore Options non universitaires Qualifications framework Verso un quadro europeo delle qualifiche: EQF Ministero del Lavoro: Verso un quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente Quadro europeo delle qualifiche CONFAPI: Definizione di modelli organizzativi di corsi IFTS per la formazione continua dei lavoratori occupati C O N SI G LI O U N IO N E EU R O PE A 273 FORMATO DOC • • • • • FORMATO PDF • • italiano italiano inglese italiano italiano LINGUAARGOMENTO CONTENUTO Schemi di riferimento per i titoli Conferenza Stato-Regioni: Standard formativi minimi Standard negli USA Tavola rotonda ADI Traduzione delle pagine 9-26 del documento Standards and Guidelines for Quality Assurance in the EHEA C O N SI G LI O U N IO N E EU R O PE A 275 RIFERIMENTI PRINCIPALI LINKOGRAFIA http://www.indire.it/eurydice/content/index.php?action=read_cnt&id_cnt=3123 Pubblicazione rete Eurydice Focus on Structures of Higher Education in Europe - National Trends in the Bologna Process 2007 Lo studio della rete Eurydice analizza l’evoluzione nell’organizzazione dei sistemi di istruzione superiore nei 45 Paesi firmatari della Dichiarazione di Bologna. L’indagine offre una panoramica in chiave comparata su ciascuno degli obiettivi chiave del Processo di Bologna in vista della creazione, entro il 2010, di uno spazio europeo dell’istruzione superiore. http://www.oecd.org/document/20/0,3343,en_2649_33723_39169364_1_1_1_ 1,00.html Cross-border Tertiary Education: A Way towards Capacity Development Lo studio approfondisce i temi dell’alta formazione nell’ottica della mobilità degli studenti e delle forze lavoro proponendo comparazioni sui temi dell’allestimento dell’offerta formativa e delle metodologie didattiche. http://www.oedc.org/document/16/0,3343,en_2649_39263238_35580240_1_1_1_ 1,00.html Thematic Review of Tertiary Education - Country Background Reports Attraverso il link si accede ai report predisposti da ciascuno dei seguenti Paesi: • Australia/Annex to the Background Report • Belgium (Flemish Community) • China • Croatia • Czech Republic • Estonia/Annex to the Background Report/Background Documents • Finland • Iceland • Japan • Korea • Mexico/Spanish version of the Mexican Background Report • Netherlands • New Zealand/Annexes/List of Supplementary Documents • Norway 276 • Poland • Portugal/Annexes to the Background Report • Sweden/Annexes to the Background Report/Research Overview • United Kingdom www.indire.it Portale della Banca Dati nazionale per gli IFTS. Il portale contiene informazioni relative ai corsi IFTS programmati annualmente dalle Regioni, informazioni rela- tive alla costituzione dei Poli formativi IFTS e ad iniziative e progetti promossi e finanziati dal Ministero della Pubblica Istruzione nell’ambito del PON e dei pro- grammi CIPE. http://www.findfoundationdegree.co.uk/fdfimages/homepagePanel.jpg Department for Education and Skills Il sito ministeriale contenente informazioni riguardanti i corsi del “Foundation Degree”, introdotti nel settembre 2001 come alternativa professionalizzante agli “Honours degrees”. http://ec.europa.eu/education/index_en.html Commissione Europea - Educazione e Formazione Sito della Commissione Europea dedicato all’educazione in Europa. Tra gli altri contiene un link al portale di Ploteus per le opportunità di apprendimento nello spazio europeo e un link al portale “elearningeurope.info”. http://www.regioni.it/mhonarc/details_confpres.aspx?id=128235 Documento della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome in merito a: Obbligo di istruzione, Istruzione tecnica e istruzione professionale, ITS e Poli tecnico-professionali. www.eurydice.co.org Eurydice European Unit Eurydice fa parte del progetto Socrates, un progetto della Commissione Europea, Direzione Generale dell’Istruzione e della Cultura. Su questo sito troviamo una det- tagliata descrizione dei sistemi educativi dei singoli Stati membri e informazioni utili relativamente alla politica europea e alla politica educativa in ciascun Paese. http://eng.uvm.dk/factsheets/dvu.htm?menuid=2520 Ministero dell’Educazione – descrizione del sistema danese di istruzione supe- riore. http://www.cedefop.europa.eu/images/header.jpg CEDEFOP - European Centre for the Development of Vocational Training www.adiscuola.it Associazione Docenti Italiani – il sito propone approfondimenti, documenti, riflessioni anche sui temi dell’alta formazione. 277 www.irso.it Il portale contiene la documentazione e il report finale sullo studio condotto nei primi anni del 2000 in quattro Paesi europei sul tema della formazione superiore non accademica. ttp://www.pubblica.istruzione.it/dg_post_secondaria/index.shtml http://www.annaliistruzione.it/riviste/quaderni/bandasx.html Numero 103/104 - Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS) 1998- 2003 Numero 94-95 - I tecnici superiori per il Made in Italy http://www.tecnostruttura.it/portal/alias_tecnostruttura/lang_it/tabID_3451/Desktop Default.aspx Il portale contiene informazioni relative alla normativa di riferimento e i materiali di approfondimento presentati in occasione del convegno del 30 ottobre 2007 tra cui: Polo formativo dell’economia del mare - Slide di E. Massolo presentate al semi- nario “IFTS: esperienze e prospettive”. Roma, 30 ottobre 2007. Polo formativo per il cinema e l’audiovisivo - Slide di F. D’Ausilio presentate al seminario “IFTS: esperienze e prospettive”. Roma, 30 ottobre 2007. Poli formativi per l’IFTS: la programmazione IFTS nel triennio 2004-2006. Un’analisi quantitativa - Slide di C. Orlandi (Agenzia nazionale sviluppo autono- mia scolastica ex Indire) presentate al seminario “IFTS: esperienze e prospettive”. Roma, 30 ottobre 2007. Polo formativo per un sistema Polesine di qualità - Slide di A. Previato presen- tate al seminario “IFTS: esperienze e prospettive”. Roma, 30 ottobre 2007. Punti di forza e debolezza del sistema - Slide di C. Bettoni (Tecnostruttura) pre- sentate al seminario “IFTS: esperienze e prospettive”. Roma, 30 ottobre 2007. Monitoraggio e valutazione dei percorsi IFTS: sintesi dei principali risultati - Slide di A. D’Arcangelo (Isfol) presentate al seminario “IFTS: esperienze e pro- spettive”. Roma, 30 ottobre 2007. Linee guida per la progettazione dei percorsi formativi - Le linee guida hanno lo scopo di fornire un sostegno metodologico per affrontare le diverse fasi della progettazione. Nota sulla classificazione delle figure professionali - Il Comitato Nazionale di Progettazione IFTS ha stabilito che la definizione della figura professionale oggetto dei corsi IFTS deve fare riferimento alla classificazione Istat delle professioni. Guida metodologica alla progettazione per UFC nella Formazione Integrata Superiore - La guida contiene una breve illustrazione dell’approccio per compe- tenze nella progettazione dei percorsi IFTS e una serie di schede che riproducono le fasi standard del processo di progettazione. 278 http://www.cimea.it - cimea@fondazionerui.it CIMEA, Centro d’Informazione sulla Mobilità ed Equivalenze Accademiche. L’istituto affronta le principali questioni relative alla riconoscibilità dei titoli di studio. http://www.britishinstitute.it/indexita.htm Istituti per la promozione della cultura del Regno Unito in Italia: Istituto di cultura della Gran Bretagna - The British Institute of Florence - Istituto britannico di Firenze. http://www.britishcouncil.org/it/italy Istituti per la promozione della cultura del Regno Unito in Italia: Istituto cultu- rale della Gran Bretagna - The British Council - Sede Italiana British Council - Ente britannico per le relazioni culturali e la promozione dell’istruzione nel Regno Unito. http://www.dfes.gov.uk/index.htm Ministero dell’Istruzione: Department for Education and Skills. Il sito contiene informazioni su orientamento scolastico, istruzione e formazione in età adulta, for- mazione universitaria e, in generale, sull’organizzazione del sistema di istruzione britannico. http://www.ucas.ac.uk - enquiries@ucas.ac.uk UCAS - Universities and Colleges Admissions Service: organizzazione centrale bri- tannica che valuta le iscrizioni a Università e College. http://www.educationuk.org British Council - ente britannico per le relazioni culturali e la promozione del- l’istruzione nel Regno Unito. Il sito, creato dal British Council appositamente per gli studenti stranieri, contiene informazioni su corsi attivati, compresi corsi di lingua inglese, universitari e corsi post laurea. http://www.studyuk.hobsons.com Hobsons Study UK - il sito contiene informazioni e indirizzi di istituti per la formazione post diploma (Colleges e Università), suddivisi territorialmente. Registrandosi gratuitamente on line all’Hobsons Student Service si possono ri- cevere suggerimenti personalizzati sui programmi formativi più adatti al proprio profilo. http://europa.eu.int/ploteus/portal/home.jsp Banca dati Ploteus - portale delle opportunità di apprendimento nei Paesi dell’Eu- ropa (Unione Europea, Bulgaria e Romania, Norvegia, Islanda, Svizzera e Turchia); informa sulle possibilità di istruzione e formazione disponibili in tutta Europa. È un servizio della Commissione Europea. Contiene i link e le relative descrizioni forniti e aggiornati dalla rete Euroguidance (rete dei Centri nazionali per l’orientamento professionale della Commissione europea). 279 www.kmk.org Ständige Konferenz der Kultusminister der Länder in der Bundesrepublik Deutschland: • istruzione: www.kmk.org/doku/dt-2006.pdf • formazione terziaria: www.kmk.org/dossier/tertiaerer/bereich.pdf • Fachschule: http://www.kmk.org/doc/beschl/rvfachschul.pdf www.mwk-bw.de Ministerium für Wissenschaft, Forschung und Kultur Baden-Württemberg: • Fachhochschule: http://mwk.baden-wuerttemberg.de/fileadmin/pdf/hochschulen/fachhochschul_ Brosch_deutsch2.pdf • Berufsakademie: http://mwk.baden-wuerttemberg.de/fileadmin/pdf/publikationen/ba_broschuere.pdf www.ba-bw.de Berufsakademie Baden-Württemberg www.ba-stuttgart.de Berufsakademie Stuttgart www.hs-weingarten.de Hochschule Ravensburg-Weingarten www.eurydice.org/resources/eurydice/eurybase/pdf/=_integral/DE_DE.pdf Rete di informazione sull’istruzione in Europa - Germania www.irso.it IRSO – Istituto di ricerca intervento sui sistemi organizzativi http://www.bmukk.gv.at Bundesministerium für Unterricht, Kunst und Kultur http://www.bmwf.gv.at Bundesministerium für Wissenschaft und Forschung www.bmbwk.at Bundesministerium für Bildung, Wissenschaft und Kultur: Tajalli E. - S. Polzer (2004), Bildungsentwicklung in Österreich 2000-2003. Kasparowsky H. - I. Wadsack (2004), Das österreichische Hochschulsystem Schulpsychologische Bildungsberatung, Bildungswege in Österreich. http://www.oeaw.ac.at Österreichische Akademie der Wissenschaften http://www.fhk.ac.at Österreichische Fachhochschulkonferenz 280 http://www.schulpsychologie.at/download/BW_nMat.pdf Bildungswesen nach der Matura http://www.bildungssystem.at Graphische Darstellung Bildungssystem http://www.donau-uni.ac.at/de/department/wbbm/forschung/lifelonglearning/projekte/ 05993/index.php http://www.fhr.ac.at Fachhochschulstudium www.ibw.at/html/bildungssystem/ITALIENISCH.pdf Bundesministerium für Wirtschaft und Arbeit - IBW (Institut für Bildungsfor- schung der Wirtschaft). 281 BIBLIOGRAFIA AMELIO S., “Una possibile strada alla formazione integrata e di qualità: l’IFTS”, in Magellano, n. 5, pp. 5-14, 2000. ANDRIOLO G., CONSOLINI M., Progettare l’accoglienza, Franco Angeli, Milano 2000. BRESCIANI P. 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UNESCO, Consolidated Report on the Fifth International Conference on Adult Education, 1997. 283 INDICE SOMMARIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 PRESENTAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 Parte I: LA FORMAZIONE PROFESSIONALE SUPERIORE ALLA LUCE DEL QUADRO EUROPEO DELLE QUALIFICAZIONI PER L’APPRENDIMENTO PERMANENTE (M. Pellerey) . . . . . . . . 9 1. Un nuovo riferimento europeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.1. La proposta della Commissione Europea del 5 settembre 2006 di una Racco- mandazione del Parlamento e del Consiglio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.2. La proposta di decisione della Commissione Europea del 6 novembre 2007 13 1.3. La Raccomandazione approvata dal Parlamento e dal Consiglio europeo il 23 aprile 2008 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 1.4. Ricadute sul sistema italiano di formazione professionale a livello del secondo ciclo del sistema educativo e a livello terziario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 2. La definizione del livello terziario secondo gli indirizzi dell’OCSE, dell’Unione Europea e del cosiddetto Processo di Bologna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 2.1. L’indagine OCSE relativamente ai sistemi di formazione terziaria presenti nei vari Paesi aderenti all’organizzazione stessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 2.2. La riforma universitaria conseguente alla Dichiarazione di Bologna del 1999 19 2.3. I descrittori di Dublino relativi ai titoli accademici in rapporto al Quadro Europeo delle Qualificazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 3. L’emergere di una domanda di istruzione terziaria non universitaria in Italia 24 3.1. La proposta IRI del 1991 per un disegno di legge sulla formazione non univer- sitaria di tecnici superiori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 3.1.1. La premessa: il fabbisogno di tecnici superiori . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25 3.1.2. Elementi per uno schema di legge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 3.2. Alcuni accordi e studi degli anni novanta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30 3.2.1. Accordo sul lavoro del 24 settembre 1996 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30 3.2.2. Uno studio elaborato da Federico Butera nel luglio del 1998 . . . . . . . 30 3.3. L’istituzionalizzazione di un sistema di Formazione Integrata Superiore (FIS) e del sistema di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS) . . . . . . . 32 3.4. Evoluzioni recenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 3.4.1. Le iniziative della Provincia di Trento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 3.4.2. Le iniziative del Governo Prodi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34 3.4.3. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 25 gennaio 2008 35 4. Elementi di riferimento per lo sviluppo di un sistema di formazione professio- nale non accademico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 4.1. Alcuni caratteri differenzianti le offerte formative accademiche e non acca- demiche del sistema terziario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 284 4.2. Ruolo del mondo della produzione di beni e servizi nel processo di identifi- cazione della domanda di formazione di tecnici superiori e nella attivazione di un sistema formativo valido ed efficace . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 4.3. Natura specifica dei corsi di formazione professionale diretti alla prepara- zione di tecnici superiori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42 4.4. Gli studenti e i loro impegni nel contesto del processo formativo . . . . . . . . . 44 4.5. Forme e livelli di governo del sistema di alta formazione . . . . . . . . . . . . . . . 45 4.6. Compiti specifici di governo del sistema ai vari livelli (inclusa la valutazione esterna) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 4.7. Alcuni criteri di successo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54 Parte II: LE ESPERIENZE EUROPEE NEL CAMPO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE SUPERIORE CHE PIÙ POSSONO AIUTARE A DEFINIRE UNA SOLUZIONE ITALIANA (B. Torchia - H. Mueller) . 57 1. Le premesse storiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 2. I tratti comuni delle strategie adottate a livello internazionale . . . . . . . . . . . . 60 3. Principali caratteristiche dei sistemi di formazione superiore di tipo non acca- demico in alcuni Paesi del contesto Europeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 3.1. Svezia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 3.2. Finlandia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79 3.3. Germania . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83 3.4. Danimarca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90 3.5. Austria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94 3.6. Paesi Bassi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99 3.7. Regno Unito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103 3.8. Svizzera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108 3.9. Norvegia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112 Parte III: LE INIZIATIVE ITALIANE NEL DARE RISPOSTA ALLE ESIGENZE DEL MERCATO DEL LAVORO NELLA PREPARAZIONE DI TECNICI SUPERIORI (B. Torchia) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 1. Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 2. Le peculiarità della filiera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124 3. Breve storia dei primi quattro anni di vita degli IFTS: i principali fenomeni . 125 4. Uno sguardo d’insieme: l’evoluzione della filiera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130 5. La storia recente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 136 6. Le scelte di oggi nel confronto internazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 138 7. La costruzione dell’identità della formazione superiore non accademica . . . . 151 8. Le questioni connesse alla definizione delle caratteristiche dell’offerta . . . . . . 165 9. Le questioni connesse alla valutazione del sistema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 170 10. Le linee di finanziamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172 285 Parte IV: SCENARI, ESPERIENZE, RIFLESSIONI E PROPOSTE PER L’ELABORAZIONE DI UNA METO- DOLOGIA DI LAVORO PER GIUNGERE A UNA DEFINIZIONE E DESCRIZIONE DEL “TECNICO SUPERIORE”, PER COGLIERNE I FABBISOGNI, PER PROMUOVERNE LA FORMAZIONE (M. Frisanco) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177 1. La definizione del tecnico superiore, del fabbisogno e delle competenze da promuovere: le questioni di fondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179 2. Il tecnico superiore e i riferimenti europei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181 3. Le professioni tecniche secondo l’ISTAT . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188 4. I tecnici superiori come segmento dei lavoratori della conoscenza: l’approccio IFTS . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 206 5. I tecnici superiori e il sistema di Alta formazione professionale: l’esperienza della Provincia autonoma di Trento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217 6. Il fabbisogno di tecnici superiori: la necessità di un modello interpretativo . . 223 6.1. Bisogni del territorio e fabbisogno formativo: la necessità di un modello inter- pretativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 224 6.2. Il modello operativo per la rilevazione e analisi dei fabbisogni formativi della Provincia Autonoma di Trento: dall’impianto generale agli adattamenti a supporto della formazione professionale superiore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 226 7. L’individuazione e la definizione delle figure professionali di riferimento: proposta di protocollo metodologico per i tecnici superiori . . . . . . . . . . . . . . . 232 8. L’applicazione del protocollo metodologico per la produzione dei referenziali professionali nell’Alta formazione in provincia di Trento: un esempio . . . . . . 234 9. Dalle figure professionali alla progettazione formativa: un possibile percorso di lavoro, le sue modalità e condizioni di attivazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 236 10. Allegato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 244 Conclusione generale: SU ALCUNE RICADUTE RELATIVE AL SISTEMA DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE PROFES- SIONALE CONSIDERATO NELLA SUA COMPLESSITÀ (M. Pellerey) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249 1. Le nuove sfide alla formazione professionale poste dagli orientamenti europei 255 2. Specificità e livelli dei titoli e diplomi dell’istruzione e formazione professionale 262 DOCUMENTAZIONE (F. Orio) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267 RIFERIMENTI PRINCIPALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 275 Linkografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 275 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 281 INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 283 287 Pubblicazioni 2002-2008 nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” ISSN 1972-3032 1. Nella sezione “studi” 1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. La formazione professionale per lo sviluppo del territorio. Castel Brando (Treviso), 9 - 11 settembre 2002, 2003 2) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XV seminario di formazione europea. Il sistema dell’istruzione e for- mazione professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi, 2004 3) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVI seminario di formazione europea. La formazione professionale fino alla formazione superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, 2005 4) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVIII seminario di formazione europea. Standard formativi nel- l’istruzione e nella formazione professionale. Roma,7-9 settembre 2006, 2007 5) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Cata- nia, Noto, Modica, 2004 6) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orien- tativi, 2003 7) CNOS-FAP (a cura di), Gli editoriali di “Rassegna CNOS” 1996-2004. Il servizio di don Stefano Colombo in un periodo di riforme, 2004 8) COLASANTO M. (a cura di), Il punto sulla formazione professionale in Italia in rapporto agli obiet- tivi di Lisbona, 2008 9) COLASANTO M. - R. LODIGIANI (a cura di), Il ruolo della formazione in un sistema di welfare attivo, 2007 10) D’AGOSTINO S. - G. MASCIO - D. NICOLI, Monitoraggio delle politiche regionali in tema di istruzio- ne e formazione professionale, 2005 11) DONATI C. - L. BELLESI, Giovani e percorsi professionalizzanti: un gap da colmare? Rapporto fina- le, 2007 12) DONATI C. - L. BELLESI, Ma davvero la formazione professionale non serve più? Indagine conosci- tiva sul mondo imprenditoriale, 2008 13) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, 2002 14) MALIZIA G. - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto sul follow - up, 2003 15) MALIZIA G. - V. PIERONI, Follow-up della transizione al lavoro degli allievi/e dei percorsi triennali sperimentali di IeFP, 2008 16) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Rapporto di ricerca, 2007 17) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Rapporto di ricerca, 2007 18) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale, 2004 288 19) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale. II edizione, 2006 20) MALIZIA G. et alii, Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Problemi e prospettive, 2007 21) MALIZIA G. et alii, Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere, 2007 22) NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale nell’anno formativo 2004-2005, 2006 23) NICOLI D. - R. FRANCHINI, Costruzione dell’identità personale e sociale negli adolescenti e nei giovani. La proposta dell’Istruzione e formazione professionale, 2007 24) NICOLI D., La rete formativa nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP, 2007 25) PELLEREY M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona. Dare senso e prospettiva al proprio impegno nell’apprendere lungo tutto l’arco della vita, 2007 26) PELLEREY M., Studio sull’intera filiera formativa professionalizzante alla luce delle strategie di Lisbona a partire dalla formazione superiore non accademica. Rapporto finale, in stampa 27) PIERONI V. - G. MALIZIA (a cura di), Percorsi/progetti formativi “destrutturati”. Linee guida per l’inclusione socio-lavorativa di giovani svantaggiati, 2005 28) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, 2004 29) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, Ristampa 2007 2. Nella sezione “progetti” 30) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 31) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodo- logico e proposte di strumenti, 2003 32) BALDI C. - M. LOCAPUTO, L’esperienza di formazioni formatori nel progetto integrazione 2003. La riflessività dell’operatore come via per la prevenzione e la cura educativa degli allievi della FPI, 2008 33) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006 34) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003 35) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale alimentazione, 2004 36) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004 37) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004 38) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale estetica, 2004 39) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004 40) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale tessile e moda, 2004 41) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003 42) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffu- sione di una buona pratica, 2004 43) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004 44) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 289 45) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 46) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004 47) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale grafica e multimediale, 2004 48) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale legno e arredamento, 2005 49) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale meccanica, 2004 50) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004 51) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, 2003 52) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006 53) CNOS-FAP (a cura di), Guida per la fruizione delle risorse formative CNOS-FAP, in stampa 54) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Percorsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005 55) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa. Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d. 56) D’AGOSTINO S., Apprendistato nei percorsi di diritto-dovere, 2007 57) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003 58) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003 59) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo. Una proposta di percorsi per la creazione di impresa. II edizione, 2007 60) MALIZIA G. - V. PIERONI - A. SANTOS FERMINO, Individuazione e raccolta di buone prassi mirate all’accoglienza, formazione e integrazione degli immigrati, 2008 61) MARSILII E., Dalla ricerca al rapporto di lavoro. Opportunità, regole e strategie, 2007 62) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003 63) NICOLI D. - G. TACCONI, Valutazione e certificazione degli apprendimenti. Ricognizione dello stato dell’arte e ricerca nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP. I volume, 2007 64) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il percorso quadriennale, 2005 65) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzio- ne e della formazione professionale, 2004 66) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 67) NICOLI D., Linee guida per i percorsi di istruzione e formazione professionale, in stampa 68) NICOLI D., Valutazione e certificazione degli apprendimenti. Ricognizione dello stato dell’arte e ricerca nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP. II volume, 2008 69) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005 70) RUTA G. (a cura di), Vivere in… 1. L’identità. Percorso di cultura etica e religiosa, 2007 71) RUTA G. (a cura di), Vivere con… 2. La relazione. Percorso di cultura etica e religiosa, 2008 72) RUTA G. (a cura di), Vivere per… 3. Il progetto. Percorso di cultura etica e religiosa, 2008 73) RUTA G. (a cura di), Vivere… Linee guida per i formatori di cultura etica e religiosa nei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale, 2007 74) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003 75) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui per- corsi formativi, 2003 76) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005 290 3. Nella sezione “esperienze” 77) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro polifunzionale diurno di Roma, 2006 78) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti, 2003 79) CNOS-FAP (a cura di), Educazione della persona nei CFP. Una bussola per orientarsi tra buone pratiche e modelli di vita, (in stampa) 80) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003 81) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in itinere, 2003 82) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento fina- le, 2003 83) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage, 2003 84) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i percorsi di istruzione e formazione professionale, 2006 85) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006. Rapporto finale, 2006 86) NICOLI D. - COMOGLIO M., Una formazione efficace. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimen- tali di Istruzione e Formazione professionale in Piemonte 2002-2006, 2007 87) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordinatore delle attività educative del CFP, 2005 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net Dicembre 2008

Politiche educative di istruzione e di formazione. La dimensione internazionale

Autore: 
Guglielmo Malizia
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2008
Numero pagine: 
164
POLITICHE EDUCATIVE DI ISTRUZIONE E DI FORMAZIONE La dimensione internazionale Anno 2007 Guglielmo MALIZIA 3 SOMMARIO INTRODUZIONE ............................................................................................................... 5 Parte prima: Il quadro di riferimento .............................................................................................. 9 Capitolo 1 - L’educazione per il XXI secolo...................................................................... 11 Parte seconda: I singoli livelli del sistema educativo .......................................................................... 43 Capitolo 2 - Educazione di base, elementare e per la prima infanzia................................. 45 Capitolo 3 - L’educazione secondaria e la formazione professionale un crocevia della vita 67 Capitolo 4 - Verso un’istruzione superiore di massa............................................................. 87 Capitolo 5 - L’educazione degli adulti: un livello essenziale del sistema............................. 107 Parte terza: Questioni trasversali .................................................................................................... 123 Capitolo 6 - Ruolo e formazione degli insegnanti: problemi e prospettive.......................... 125 Capitolo 7 - La scuola tra autonomia e libertà..................................................................... 135 CONCLUSIONI GENERALI ................................................................................................ 149 INDICE ............................................................................................................................ 155 5 INTRODUZIONE Questo libro è nato dall’esperienza di oltre trenta anni di insegnamento nel curricolo di Pedagogia per la Scuola e la Formazione Professionale della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Salesiana. Il corso è quello tradizionale di Legislazione e Organizzazione Scolastica, ma gli studenti sono italiani solo in una minoranza estremamente ridotta, mentre la grande maggioranza proviene da una gamma ampia di Paesi, situati in tutti i continenti: quest’ultima specificità mi ha impedito di parlare dell’Italia e mi ha imposto di fare riferimento alle dimen- sioni europea e internazionale della disciplina. Inoltre, molti degli allievi, quando si iscrivono da noi, possono già vantare un’esperienza più o meno lunga di insegna- mento o di coordinamento e talora pure di dirigenza. Per questi motivi, mi è sem- brato che il libro potesse essere proposto con utilità a una platea di formatori e di dirigenti della formazione professionale del CNOS-FAP ed anche degli operatori degli Enti di formazione professionale. Nel titolo del libro ho usato il termine politica e con esso intendo indicare l’in- sieme degli interventi posti in essere dall’autorità pubblica a livello macrostruttu- rale nel sistema educativo di istruzione e di formazione in vista del raggiungimento del bene comune. In altre parole, mi occupo di quella disciplina che gli studiosi europei chiamano “amministrazione scolastica” e che all’interno delle scienze del- l’educazione studia la gestione della scuola a livello di sistema (Federazione, Stato, Regione, Provincia, Distretto) allo scopo di conoscerla meglio e di renderla più efficace (Malizia, 2008). A questo punto mi permetto di ricordare in sintesi l’evoluzione di tale disci- plina sul piano degli approcci scientifici adottati. Fino alla metà del secolo scorso ha dominato la prospettiva giuridica per cui ha coinciso con la legislazione scola- stica. L’approccio delle scienze sociali ha esercitato un forte influsso sull’evolu- zione della politica e dell’amministrazione scolastica e formativa per tutto il nostro secolo, soprattutto tra la metà degli anni ’50 e ’70. Lo scopo era di potenziare l’in- segnamento universitario e la ricerca, facendoli uscire da uno stile prevalentemente esortatorio e impressionistico; d’altra parte, gli amministratori e i politici opera- vano in organizzazioni, comunità, gruppi, in situazioni cioè studiate proprio dalle scienze sociali. In particolare sono le teorie organizzative a influire sulla politica e sull’amministrazione scolastica e formativa. Così le posizioni tayloristiche risul- tano visibili nell’enfasi sull’efficienza, i risultati, la competenza, la responsabilità soprattutto nei paesi anglosassoni, la concezione weberiana della burocrazia nella costruzione dei sistemi centralizzati delle nazioni in via di sviluppo, la teoria delle relazioni umane nella domanda diffusa di democrazia e di una “leadership” parteci- 6 pativa, le impostazioni sistemiche nell’affermarsi dell’autonomia e della pedagogia del progetto. Agli inizi degli anni ’70 il panorama delle scienze sociali è percorso da forti dinamiche orientate al cambiamento. Anzitutto è la società ad essere scossa da un intenso attivismo politico che trova la sua espressione paradigmatica nella contesta- zione giovanile. Inoltre, viene denunciato da più parti il positivismo delle scienze sociali, cioè la pretesa che gli unici criteri di verità siano la verifica empirica e la logica analitica, che la metodologia delle scienze naturali debba essere trasferita senza adattamenti alle scienze sociali, che l’obiettivo di queste ultime consista nella elaborazione di leggi, che la ricerca debba essere neutrale sul piano dei valori. Emergono nuove prospettive tra cui va ricordato il “soggettivismo” che rifiuta ogni scientismo per affermare la necessità di tener conto nella politica e nell’amministra- zione scolastica e formativa anche dei valori e dei sentimenti. Pertanto, il campo degli studi va esteso dagli aspetti descrittivi a quelli normativi e la ricerca empirica non può limitarsi al quantitativo, ma deve affrontare temi come la volontà, le inten- zioni, il linguaggio, ciò che è giusto o sbagliato nella politica e nell’amministra- zione scolastica e formativa: di conseguenza la metodologia si orienta verso gli studi etnografici e qualitativi. Le carenze maggiori di tale prospettiva riguardano la concezione superata di scienze sociali che prende in considerazione il relativismo in cui rischia di cadere per la mancanza di criteri oggettivi di valutazione. Le “teorie critiche”, che si ispirano alla scuola di Francoforte, focalizzano l’analisi sulla falsa coscienza che viene creata nella massa della gente da sottili mec- canismi sociali, istituzionalizzati nel mondo del lavoro, nell’educazione, nei mass media, nel tempo libero, in funzione degli interessi della classe dominante. Sul piano della politica e dell’amministrazione scolastica e formativa si parte dalla constata- zione della funzione riproduttiva della scuola e del diverso trattamento prestato agli studenti secondo la classe sociale per affermare che i politici e gli amministratori sarebbero al servizio dei ceti dirigenti e, pertanto, non si impegnerebbero per realiz- zare una maggiore eguaglianza delle opportunità nell’istruzione e nella formazione. Le teorie critiche riflettono tutti i limiti delle posizioni marxiste: nell’ambito della politica e dell’amministrazione scolastica e formativa hanno espresso più critiche che proposte, appaiono estranee alla realtà scolastica e formativa e le loro ipotesi sulla funzione riproduttiva della scuola sono messe in discussione dai risultati della ricerca empirica. Altri approcci da ricordare sono: il “postmodernismo” o “poststrut- turalismo” che, a motivo del suo orientamento antintellettuale e antistituzionale, si rivela particolarmente critico nei confronti della scienza e della maggior parte delle forme di organizzazione e di amministrazione; l’area degli studiosi impegnati nella promozione dei gruppi svantaggiati a causa del sesso, della razza o della nazionalità, che evidenziano la situazione di sottorappresentazione e di diseguaglianza di tali gruppi nella politica e nell’amministrazione scolastica e formativa; le interpretazioni che rifiutano lo scientismo e il positivismo, ma accettano la scienza e una molte- plicità di metodi e che si ispirano al pragmatismo, alla fenomenologia e al realismo. 7 Gli anni ’90 e gli inizi del nuovo secolo offrono un quadro di riferimento sociale molto diverso: il crollo del socialismo reale, l’avvento di regimi moderati o conservatori, la sostituzione delle antiche controversie ideologiche con nuove pro- blematiche come l’inquinamento ambientale, il rapporto nord/sud, il nazionalismo, l’intolleranza. Anche nelle scienze sociali, mentre perdono quota le impostazioni radicali, prevalgono tendenze sia alla conciliazione tra analisi strutturale e culturale e fra prospettive macro e micro, sia a un empirismo pratico che fa comunque uso del metodo scientifico qualunque sia l’approccio teorico seguito. Anche nella poli- tica e nell’amministrazione scolastica e formativa si affermano prospettive meno polemiche, più flessibili e anche più sofisticate e una coscienza più acuta della complessità dell’oggetto porta sia all’accettazione di una pluralità di approcci e di metodologie sia ad un aumento della diversificazione, della frammentazione e della specializzazione. Si placa lo scontro tra sostenitori della ricerca quantitativa e qua- litativa, benché sia quest’ultima a ricevere un forte impulso. I valori assurgono al centro della scena soprattutto nel contesto dei processi decisionali e della defini- zione di soluzioni alternative. La politica e l’amministrazione scolastica e forma- tiva è riconosciuta come uno strumento indispensabile per il raggiungimento di obiettivi organizzativi e sociali. Il presente volume si ispira a questo orientamento fondato su una pluralità di approcci e in particolare a quelli delle scienze sociali, del soggettivismo e delle teorie critiche; naturalmente si è cercato di evitare i limiti di ciascuna di queste prospettive. Ritornando a questo libro, esso svolge una funzione di introduzione generale alla dimensione politica dei sistemi educativi di istruzione e di formazione. In particolare, esso vuole aiutare il lettore ad: acquisire una conoscenza generale dei modelli di sviluppo dei sistemi di istruzione e di formazione e una specifica delle politiche proprie dei diversi ordini e gradi di offerta; essere capace di valutare le politiche scolastiche e formative del proprio Paese a differenti livelli; essere capace di analizzare l’offerta di una scuola o di un centro di formazione professionale. Gli argomenti toccati prevedono anzitutto la presentazione del quadro generale delle politiche educative a livello internazionale. Seguono quattro capitoli in cui vengono illustrate le strategie secondo i vari gradi e ordini di scuole: l’educazione di base, elementare e per la prima infanzia; la scuola secondaria e l’istruzione e formazione tecnico-professionale; l’istruzione superiore; l’educazione degli adulti. Completano il panorama due tematiche di carattere trasversale: il ruolo e la for- mazione degli insegnanti; le relazioni tra centro e periferia dei sistemi e tra offerta statale e non statale. La mia gratitudine va al Presidente del CNOS-FAP, don Mario Tonini che ha deciso di pubblicare questo volume nella collana di opere per renderlo disponibile a quanti operano a vario titolo nel campo della formazione professionale. Desidero anche ringraziare tutti gli studenti di questi trent’anni che mi hanno aiutato a migliorare il presente saggio con i loro apprezzamenti, con le loro critiche e soprat- tutto con la loro vicinanza spirituale. 8 BIBLIOGRAFIA AUGENTI A., Europa chiama scuola, Roma, Sermitel, 1998. BENADUSI L. - P. CATALDI - A. CENSI (Edd.), Riforme: una lettura sociologica, in “Scuola Democratica”, 20 (1997) 2/3, 5-254. BLONDEL D. - J. DELORS et alii, Education for the twenty-first century: issues and prospects, Paris, UNESCO, 1998. 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Se l’educazione viene ad assumere una posizione centrale nella società, è chiaro che il servizio più significativo che possiamo offrire alle nuove generazioni consiste proprio in una formazione solida. Questa non va intesa naturalmente in un senso riduttivo come semplice istruzione o addestramento, ma deve fornire a ognuno le capacità per vivere al meglio in una società complessa. Si tratta di aiu- tare i giovani ad acquisire una preparazione valoriale, culturale e professionale ele- vata che consenta loro di inserirsi da protagonisti in un mondo sempre più artico- lato e privo di punti di riferimento forti, capaci di dare alle opzioni degli individui un orizzonte di senso e di significato e di offrire una guida alla discrezionalità del- l’agire umano e una prospettiva di futuro nel mondo del lavoro e delle professioni. Questa finalità si scontra con l’incapacità dei sistemi scolastici di garantire effettivamente a tutti almeno una formazione di base e una prima qualifica profes- sionale. Come si sa, si tratta di una carenza che assume valenze drammatiche nei Paesi in via di sviluppo, ma è anche seria negli stessi Paesi industrializzati (Delors et alii, 1996; Bindé, 2002; Malizia e Nanni, 2002; Blondel, Delors et alii, 1998). Entro questo quadro si è ritenuto opportuno articolare il presente capitolo in tre parti principali. Il centro dell’attenzione è costituito dalla presentazione delle tendenze principali delle politiche educative dell’istruzione e della formazione nel mondo, a cui è dedicata la terza sezione. Al tempo stesso le nuove strategie di inter- vento risulterebbero poco comprensibili se non si cercasse di identificare le caratteri- stiche dell’economia, del mondo del lavoro e della cultura nella società in trasforma- zione: pertanto, tali dinamiche rappresentano l’oggetto della prima parte del capitolo. A sua volta, la seconda sezione evidenzia luci e ombre dei sistemi educativi. 1. CRESCITA ECONOMICA E SVILUPPO UMANO: QUALE MODELLO Nelle nostre società stanno cambiando notevolmente “gli scenari” in cui si svolge l’esistenza singola e comunitaria (Malizia e Nanni, 2002). Questa è sempre 12 più segnata dall’internazionalizzazione della imprenditoria e dalla globalizzazione del mercato; da un forte incremento dello sviluppo scientifico e tecnologico, carat- terizzato dall’informatica e dalla telematica; da una nuova ed acuta coscienza dei diritti umani, soggettivi, comunitari, ecologici; dal pluralismo e dal multicultura- lismo dei modi di vita e della cultura; dalla secolarizzazione diffusa e da nuove forme di religiosità (new age, next age, sette, esoterismo), più appaganti le aspira- zioni e i bisogni soggettivi rispetto alle grandi confessioni religiose istituzionaliz- zate tradizionali (Melucci, 1994, Giddens, 2000). In particolare, c’è chi afferma che «La competitività dell’economia come l’occupazione, ma anche la realizzazione personale dei cittadini europei, non poggiano e non poggeranno più principalmente sulla produzione dei beni materiali. La vera ricchezza è ormai legata alla produ- zione e alla diffusione della conoscenza e dipende soprattutto dai risultati che otter- remo in materia di ricerca, istruzione e formazione, oltre che dalla nostra capacità di promuovere l’informazione» (Per un’Europa della conoscenza, 1998, 90). Le trasformazioni in atto comportano forti riflessi sulla istruzione e sulla formazione di cui, pertanto, richiedono una incisiva riforma. In questo contesto di complessità, di mutamento e di innovazione, ricco di contraddizioni e di polarizza- zioni (tra globale e locale, tra universale e individuale, tra tradizionale e innovativo, tra modernità e post-modernità, tra efficacia e rispetto delle persone, tra benessere e trascendenza, tra materiale e spirituale, tra cognitivo ed emotivo, tra ideale e reale, tra perennità e moda, tra memoria e futuro...), vengono messe in discussione sia le competenze di ruolo (che permettono di assolvere compiti sociali o un lavoro pro- duttivo) sia soprattutto le competenze umane più generali che consentono di vivere la vita in modo dignitoso e umanamente realizzato. La crescente complessità ri- chiede specializzazione tecnica, ma anche sapere, capacità di controllo e di gestione di processi, prospetticità di cogliere le linee di tendenza, creatività ed inventività imprenditoriale, capacità di innovazione e di aggiornamento continuo (Oecd, 1988). Lo stesso rapporto con la realtà e con il tempo vengono ad essere fortemente trasfor- mati ed innovati dalla rilevante esposizione quotidiana di tutti alla televisione, ad internet e altri mezzi di comunicazione sociale: il cosiddetto “virtuale” si impone al “reale” (Levy, 1996; Levy, 1997). 1.1. I fattori strutturali Semplificando al massimo il discorso, si può probabilmente affermare che sul piano economico lo scenario appare dominato da sei dinamiche principali: il passaggio graduale da un’economia di scala ad una della flessibilità, la progressiva terziarizzazione dei processi, l’avvento delle nuove tecnologie, la globalizzazione dei processi, l’emergere del concetto di qualità totale, la transizione da un modello meccanico di organizzazione e di gestione ad uno organico (Carnoy et alii, 1993; Giovine, 1998; Minardi, 1999; Malizia e Nanni, 2002). L’economia della flessibilità, pur mantenendo gli aspetti principali di quella di scala, che però perdono la posizione centrale, dà il primato al mercato rispetto alla 13 produzione: la riduzione dei costi di produzione conserva la sua rilevanza, ma diviene prioritaria la capacità di risposta alla domanda del mercato nel momento, nel luogo e nel modo appropriati. L’organizzazione del lavoro si contraddistingue di conseguenza per la flessibilità delle tecnologie e delle strutture, per il primato del conseguimento dei risultati sull’esecuzione fedele di prescrizioni e per l’impor- tanza assunta dal piccolo e dal decentramento. In questo contesto i servizi per il mercato o per la produzione si espandono dando vita ad aziende e amministrazioni specializzate (terziarizzazione esterna) o a strutture specializzate entro la grande impresa (terziarizzazione interna). Il feno- meno è connesso con due altri trend: uno tendente alla differenziazione e un altro alla integrazione strutturale. Il dato di partenza consiste nel fatto che tra i prodotti assumono rilevanza sempre maggiore i servizi immateriali ad alta tecnologia intel- lettuale. Ne segue anzitutto una diversificazione tra processi di produzione materiale e quelli delle informazioni, per cui si affermano nella realtà economica nuove fun- zioni come la ricerca e lo sviluppo e il “marketing”; si osserva anche una netta demarcazione fra la trasformazione di materiali e di informazioni da una parte e il coordinamento, il mantenimento e l’innovazione dall’altra. Il risultato finale delle diversificazioni consiste in una specializzazione e differenziazione delle strutture. Contemporaneamente si delinea la tendenza all’integrazione e alla ricomposizione del governo e del controllo: aumenta infatti la rilevanza di figure, funzioni, strutture e culture che sono finalizzate a fare unità nella diversificazione. Il terzo fattore è dato dall’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione. Queste sono nuove perché muta l’oggetto che non è più la produzione di un pezzo o la scrittura a macchina di una lettera, ma sono operazioni di natura più intellettuale come il controllo di processo o l’innovazione. Esse creano problemi per le occupa- zioni tradizionali in quanto tendono ad assumerne i compiti e perché restringono le possibilità di lavoro. In una prospettiva più ampia e in positivo le nuove tecnologie hanno introdotto l’umanità nella fase della comunicazione universale in quanto le informazioni possono essere messe a disposizione in tempo reale in qualsiasi punto della terra e l’interattività consente di trasmettere conoscenze e di dialogare senza limiti di distanza o di tempo. Al tempo stesso, come già si è accennato sopra, non mancano le contropartite negative. I sistemi d’informazione si presentano ancora relativamente costosi, per cui parecchi paesi incontrano problemi seri ad accedervi e, di conseguenza, una parte ancora numerosa della popolazione mondiale risulta svantaggiata rispetto ad altri Paesi in quanto esclusa da tali sviluppi. L’internazionalizzazione dell’imprenditoria porta alla concentrazione dei gruppi imprenditoriali e alla mondializzazione dei modi di lavorare e di consumare. Il potere economico si viene a riunire nelle mani di pochi, influenzando notevol- mente la politica e la vita di popoli e nazioni e riducendo la sovranità degli stati nazionali o le specificità produttive territoriali locali (Rifkin, 1999; Malizia e Nanni, 2002). La globalizzazione del mercato spinge ad aprirsi a scambi internazio- nali, “planetarizza” le informazioni e lo scambio dei beni di consumo, provoca una 14 accentuata mobilità umana tra una nazione e l’altra, anzi tra un continente e l’altro, dando luogo ad un indiscriminato contatto delle persone e delle culture, ma indu- cendo d’altra parte fenomeni di omologazione culturale e di erosione delle specifi- cità nazionali e locali o dei gruppi etnici particolari. Infatti il tendenziale oligopolio o monopolio delle agenzie di informazione e dei sistemi di comunicazione sociale facilmente porta allo sradicamento culturale; e a livello personale scatena prospet- tive ed aspettative di darwinismo sociale, ingenera la perdita dell’identità, aumenta le patologie dell’insicurezza (disincantamento valoriale, scetticismo e relativismo, stress, paura dell’altro, bisogno di certezze, affidamento a capi carismatici, fonda- mentalismo e razzismo, ecc.) (La Fay, 1998). Diventa alto il rischio di un fondamentale economicismo valoriale ed antro- pologico, che esalta i valori del successo, dell’efficacia, della produttività, del pos- sesso, dell’essere sempre “up-to-date”; e può portare ad una concezione di uomo quasi solo ridotto alla dimensione di “homo economicus”. In ogni caso l’accentua- zione delle capacità di concorrenza, di funzionalità, di competenza ed efficienza dovranno essere bilanciate da un rinforzo della dimensione della coscientizzazione, delle capacità di pensiero critico, del senso e delle virtù della collaborazione e della solidarietà (Mantovani e Thuruthiyil, 2000). L’affermarsi della qualità totale significa che è quest’ultima, intesa come sod- disfazione del cliente, e non il profitto, a occupare il primo posto nelle finalità di un’impresa. In altre parole diviene decisiva la qualità percepita dal cliente e la misura operativa è fornita dal successo commerciale. A monte dell’emergere di tale concezione vi sarebbe, al limite, la riscoperta della finalizzazione del processo produttivo all’uomo, che tornerebbe a occupare di nuovo il centro della scena; ma concretamente quel che rimane in cima ai pensieri resta il “vendere”. Pur tuttavia, le conseguenze sono molto rilevanti, anzitutto nei rapporti con l’esterno, in quanto diviene centrale l’impegno per identificare la domanda del cliente; e, all’interno del- l’azienda, in quanto l’organizzazione del lavoro va strutturata in modo da attribuire a ogni membro la parte di responsabilità e di merito che gli compete. Le cinque dinamiche appena ricordate sono alla radice della transizione da un modello meccanico di organizzazione e di gestione ad uno organico. In questo secondo caso l’organizzazione è assimilata a un organismo, qualificato da un alto grado di complessità, in cui le strutture e i ruoli si presentano come sistemi aperti che operano in base ad ambiti di autonomia, sono correlati in una rete di scambi informativi ed economici e si rapportano reciprocamente secondo le regole del gioco che essi stessi influenzano. Riguardo al contenuto del lavoro le nuove com- ponenti sono costituite dal controllo di processo (nella fabbricazione e negli uffici), dalle comunicazioni e deliberazioni (nei processi di innovazione e coordinamento) e dalle decisioni (in tutte le fattispecie); questo non significa fare a meno delle ope- razioni che conservano la loro rilevanza e che pertanto vanno identificate, preparate e remunerate. Di conseguenza, la nuova identità lavorativa si fonda su un insieme di ruoli individuati non tanto dalle operazioni o dai compiti particolari, quanto dalle 15 funzioni svolte nel controllo, coordinamento, mantenimento e innovazione di un processo. Questa trasformazione da un modello meccanico ad uno organico nasce dal- l’esigenza di sopravvivenza delle organizzazioni in ambienti complessi, turbolenti, dinamici, incerti, imprevedibili. Se la filosofia organizzativa che ispira i modelli meccanici è quella della dipendenza e dell’esecuzione, nei modelli organici si ven- gono a richiedere alle persone capacità di innovazione e di governo dell’imprevisto e delle varianze, competenze di problem solving, abilità comunicative e relazionali. Emerge, come conseguenza naturale, in fase di job description, l’attenzione alla definizione dei risultati piuttosto che ai compiti e quindi alla qualità oltreché al- l’efficienza. Il modello meccanico di organizzazione fa riferimento ai principi della scuola dell’organizzazione scientifica del lavoro, quindi enfatizza gli aspetti for- mali e strutturali dell’organizzazione: struttura, mansioni, sistemi di comando e controllo, procedure. Tutto è razionalmente e scientificamente predefinito attra- verso una dettagliata descrizione dei sistemi di divisione e controllo del lavoro. Il passaggio da questo modello a quello organico non è solo il risultato di scelte culturali e sociali, ma anche e soprattutto una necessità. È una necessità di risposta a diverse condizioni di ambiente. Pertanto i modelli organizzativi di tipo organico presentano elementi distintivi che riducono il peso e l’importanza della razionalità assoluta, introducendo i concetti di flessibilità e di razionalità limitata. Non vi sono organizzazioni, attività professionali, competenze “al sicuro”. A tutti i diversi attori è richiesta una grande capacità, quella di governare l’incertezza, di affrontare attivamente il cambia- mento. Adattarsi, anticipare, innovare, rischiare diventano abilità “trasversali”, attrezzi culturali di sopravvivenza di soggetti e organizzazioni. Questo contesto più mutevole ed incerto, se da una parte è fonte di minacce, apre dall’altra la via verso nuove opportunità. In altre parole, si sta compiendo il passaggio da un modello industriale di eco- nomia ad uno post-industriale. Il primo pone l’accento su una concezione quantita- tiva della crescita (“trarre più dal più”), sul volume della produzione, su una impo- stazione lineare, atomistica, gerarchica, dualistica e manipolativa del lavoro e della sua organizzazione; il secondo sottolinea la qualità e l’intensità dello sviluppo (“ottenere più dal meno”), il valore della produzione, la natura simbolica, interat- tiva, contestuale, partecipativa, autonoma e intellettuale dell’attività occupazionale e della sua strutturazione. Il mondo delle aziende è dominato da imprese piccole, flessibili, dinamicizzate dalla risorsa “conoscenza”, capaci di produrre una vasta gamma di beni e servizi che sono molto spesso immateriali. Sul lato negativo, le grandi imprese riducono le loro attività: le funzioni pro- duttive di base sono conservate, mentre i servizi di supporto vengono affidati a ditte o persone esterne; per questa via, la grande industria è riuscita a ridurre la forza la- voro in maniera anche molto drastica. Il passaggio al post-industriale si accompagna anche ad un aumento dei fenomeni di precarizzazione e di de-regolazione del lavoro 16 che mettono in crisi il tradizionale sistema di relazioni sociali. Nel contempo la glo- balizzazione e la informatizzazione contribuiscono ad aumentare la disoccupazione o sotto-occupazione che, a differenza della prima e della seconda rivoluzione indu- striale, non riesce più ad essere interamente assorbita dai settori emergenti (il quater- nario). Ciò spinge ad un aumento delle diseguaglianze e della forbice delle profes- sionalità, tra una ristretta élite di “ingegneri della conoscenza” e una massa di persone destinate a lavori dequalificati. Di conseguenza i nostri sistemi sociali non riescono ad assicurare a tutti un accesso equo alla prosperità, a modalità decisionali democratiche e allo sviluppo socio-culturale personale (Consiglio dell’Unione Europea, 2001). In questo contesto tra i gruppi più vulnerabili vanno senz’altro annoverate le persone che presentano specifici problemi di apprendimento. Ritornando ora alla questione occupazionale, si può dire in sintesi che il passa- ggio alla società della conoscenza trasforma il senso e il modo di lavorare, nascono nuove professioni, vecchi mestieri cambiano “pelle”, altri scompaiono definitiva- mente. Si diversificano i lavori, e prima ancora le tipologie e le forme giuridiche dei rapporti di lavoro. C’è un’indubbia “intellettualizzazione” del lavoro. È richiesta la flessibilità e la mobilità occupazionale e la polivalenza della cultura professionale (Avallone, 1995; Minardi, 1999; Malizia e Nanni, 2002; Callini, 2006). In sintesi, le più significative esigenze connesse con i mutamenti che toccano il mondo delle occupazioni sono le seguenti: – nuove e continue competenze richieste dall’innovazione tecnologica; – meno certezze e più sfide professionali; – crescente complessità e necessità di specializzazione tecnica; – sviluppo di competenze professionali e di abilità di integrazione; – più opportunità per le persone intraprendenti; – diversificazione delle tipologie e delle forme giuridiche di rapporto di lavoro; – maggiore interesse per i lavori creativi, ad alta responsabilità, indipendenti; – sviluppo di nuovi linguaggi tecnici e crescente attenzione alle competenze lin- guistiche; – diffusa intellettualizzazione del lavoro; – sviluppo di una cultura della mobilità professionale, organizzativa, geografica; – alternanza continua di studio e lavoro; – maggiore importanza di una cultura di base polivalente; – cultura del “saper essere” e importanza crescente delle abilità comportamentali; – più flessibilità rispetto a luoghi e tempi di lavoro; – più attenzione verso la qualità della vita e opzioni professionali diversificate sulla base di preferenze e necessità personali; – nuove forme di povertà e di emarginazione sociale, soprattutto per i soggetti a basso potenziale. Per rispondere al meglio a queste esigenze del mondo dell’occupazione si dovrà pensare a una nuova figura di lavoratore che non solo possieda i necessari 17 requisiti tecnici, ma anche nuovi saperi di base (informatica-informazione, inglese, economia, organizzazione), capacità personali (comunicazione e relazione, lavoro cooperativo, apprendimento continuo) e anche vere e proprie virtù del lavoro (affrontare l’incertezza, risolvere problemi, sviluppare soluzioni creative). La recente crisi del credito, la finanza “creativa” l’attuazione di un neo-libe- ralesimo selvaggio hanno comportato un’interruzione nella crescita economica. È soprattutto il sistema finanziario che è entrato in crisi con le conseguenze della bancarotta di varie grandi, medie e piccole imprese, della crescita della disoccupa- zione e di una maggiore diffusione di situazioni di estrema povertà. Inoltre, i prezzi della merci tendono a salire a fronte di famiglie sempre più impoverite dalla riduzione del reddito complessivo dei loro componenti. Milioni di persone che nei Paesi in via di sviluppo erano emigrate nelle grandi città per lavoro potrebbero essere costrette a ritornare nei loro villaggi e i figli a lasciare la scuola e cercare di procurarsi un’occupazione per accrescere le magre entrate della pro- pria famiglia. I governi si trovano nel pericolo di vedere diminuito il gettito delle tasse e di essere obbligati a ridurre le spese, incominciando come sempre proprio da quelle sociali. 1.2. Le dinamiche culturali La cultura della società della conoscenza risulta fortemente segnata dalla ri- voluzione silenziosa dei microprocessori (Pellerey et alii, 1997; Nanni e Rivol- tella, 2006; Malizia e Nanni, 2002; Botta, 2003; Malizia, 2006). L’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione origina spinte contrastanti: da una parte, con- tribuisce alla omogeneizzazione attraverso il linguaggio e la cultura dei mass media; dall’altra, ha svolto un ruolo importante nello spezzare la dominanza delle ideologie tradizionali e delle classi egemoni, favorendo l’emergere e la diffusione di una pluralità di subculture, ma al tempo stesso, contribuendo alla caduta di mo- delli che presentano un carattere universale ed immutabile, ha influito in maniera notevole sulla diffusione del relativismo etico. Inoltre, la televisione via cavo, il computer, il videogame, il video polifunzionale, la multimedialità consentono al recettore di assumere una funzione non solo passiva, ma anche attiva, di persona- lizzare le scelte di informazione, di mettere alla prova se stesso, di divenire pro- duttore di cultura: pertanto, la direzione della comunicazione non è più soltanto dall’alto verso il basso, dal produttore al consumatore, dal centro alla periferia. Ciò dà luogo ad una serie di antinomie nei processi e nelle richieste di cono- scenza: moltiplicazione delle opportunità di informazione e di formazione e crea- zione di nuove forme di analfabetismo e di nuove marginalità; elevazione dei li- velli di cultura generale e di competenze per l’accesso al mondo del lavoro e par- cellizzazione che ostacola ogni tentativo di sintesi; potenzialmente personaliz- zante e al tempo stesso generatrice di consumo passivo da parte soprattutto degli strati più deboli della popolazione; fattore di pluralismo, ma anche all’origine del relativismo etico. 18 In altre parole, si può dire che molti giovani, anche di famiglie tradizionalmente scolarizzate, portano nella scuola la cultura del frammento che, se ha il merito di aver contribuito a mettere in crisi il dogmatismo delle grandi ideologie, pone gravi problemi al sistema di istruzione e di formazione. Infatti, la cultura di quest’ultimo presenta caratteristiche opposte: tende a trasmettere una visione sistematica e orga- nica della realtà, vorrebbe offrire ad ogni allievo gli strumenti per costruire un pro- prio progetto di vita, radicato nel passato e aperto al futuro, intende aiutarlo ad elaborare un quadro di riferimento unitario, organico, coerente, trasmette il meglio delle conquiste della storia in continuità con il passato, forma all’impegno per il bene comune e al rispetto dei diritti umani che considera valori perenni da approfon- dire e da ampliare, ma non da ribaltare. 1.2.1. Nuove forme culturali tra modernità e post-modernità, tra secolarizzazione e ritorno del sacro La fine della seconda guerra mondiale ha portato ad esaltare l’ideale di vita democratico, secondo la prospettiva illuministica occidentale, passata nell’opinione pubblica come “modernità”: la vita privata e pubblica sono state improntate secondo i canoni della scienza e della tecnica. Tutto è stato visto e valutato alla luce della ragione, anche la vita religiosa. I prodotti industriali, realizzati su scala mondiale e venduti al mercato come beni di consumo (radio, televisione, auto, lavatrici, frigo- riferi, lavastoviglie e in tempi più recenti computer e telefonini) hanno cambiato la vita quotidiana e i menage familiari in tutto il mondo. Il loro possesso è in cima ai desideri di tutti, ricchi e poveri, in occidente e in tutte le altre parti del mondo. E tuttavia dagli anni settanta in poi queste stesse idealità hanno incominciato a mostrare tutti i loro limiti (Vattimo, 1985; Taylor, 1994; Malizia e Nanni, 2002). Si è avuto un significativo spostamento dal politico al personale, dall’ideologico all’antropologico e poi dagli anni ottanta all’ecologico. Sono entrate in crisi sia le ideologie dello sviluppo illimitato sia quelle del cambio politico-strutturale: dopo il fascismo e il nazismo, è finito anche il comunismo stalinista (la caduta del muro di Berlino e la fine dell’URSS ne sono due esempi illuminanti); e lo stesso capi- talismo, che pure sembra il più capace di adattamento alle novità dei mutamenti storici, è ciclicamente soggetto a crisi e offre i fianchi a periodiche contestazioni e continua solo a spese di larghe fasce e luoghi di esclusione e con la riproduzione di dislivelli di sviluppo tra paesi ricchi e paesi poveri, tra il nord e il sud del pianeta (e spesso all’interno degli stessi paesi del sovrasviluppo). Le grandi narrazioni “metafisiche”, i grandi miti dell’Occidente – come ha scritto Lyotard – non riescono più a difendere le loro pretese di assolutezza, di uni- cità e egemonia veritativa (1981). Ad un pensiero prevalentemente analitico, logico, dimostrativo si viene a con- trapporre (o preferire) un pensiero più narrativo, più espositivo; alle concettualizza- zioni generali si controbilanciano le molte forme dell’autobiografia, del saggio esplorativo attento alle sfumature, alle contaminazioni cognitive, ai giochi lingui- 19 stici, alle ibridazioni dei punti di vista. L’assolutezza della scienza lascia il passo a modi di vedere e di esprimersi più “ermeneutici” (cioè insieme più soggettivi, più interpretativi, più comprensivi). Si parla per questo di “pensiero debole” (Vattimo e Rovatti, 1983). Alle grandi ideologie, sulla scena delle idee di moda, sono succe- dute i molti racconti, le più disparate offerte di conoscenza e di saperi. La perdita delle totalità significative spesso diventa definitiva; frequentemente il frammento non si compone ulteriormente e scade nella frammentazione irrelata (Augé, 1993; Pera, 1994; Mari, 1995). La secolarizzazione religiosa (cioè una vita sociale senza religione), più che come “logica conseguenza” del trionfo della scienza e dello sviluppo tecnologico, si è attuata a livello pratico (in quanto le menti e i cuori della gente si sono rivolti più che altro al consumismo, al benessere e al divertimento), ma è stata controbi- lanciata da un ritorno di fiamma del sacro, della magia, dei riti, di nuove forme di religiosità e da quella diffusa tendenza ad una religiosità soggettivistica e cosmica, che ha avuto la sua classica espressione nei movimenti della New Age, della Next Age, nel ricorso a “guru”, a forme di pratiche tra il religioso e la cura di sé, ecc. Si è parlato di neopaganesimo e di politeismo post-cristiano, ma anche di mercato del sacro, di fiera dei misteri, di percorsi di religiosità e di mistica (Volli, 1992; Terrin, 1992; Malizia e Nanni, 2002). Ciò non è solo qualcosa che pone problemi alle religioni ufficiali, ma dice quanto l’attenzione alla buona qualità della vita, al mondo delle emozioni e del- l’affettività chiede di essere presa in considerazione in quanto non esaudita né dalle agenzie tradizionali di senso (chiese, partiti, politica, scienza, tecnica), né da quella che è stata detta la “speranza tecnologica”. Né manca chi lamenta un grave declino nella morale, coincidente con il passaggio da una cultura della solidarietà a una del- l’efficienza e della competitività esasperata: si tende, di conseguenza, a emarginare chi non produce, chi esce dal ciclo produttivo o non riesce ad entrarvi, chi non sta al passo con lo sviluppo economico (Thaiarry, 1999). Il vicinato incontra sempre maggiori difficoltà nello svolgere le sue funzioni tradizionali di aggregazione e di sostegno per cui le persone tendono a vivere nell’isolamento. Troppo preoccupata nella ricerca del benessere materiale, la famiglia appare meno capace di curare la qualità della vita e la sua disgregazione è un fenomeno in crescita. Il livello etico della popolazione soprattutto giovanile è intaccato non marginalmente anche dalla crudezza delle immagini di violenza, sesso e materialismo che i media portano nelle case. Certamente lo statuto del sapere e del conoscere si è trasformato. Agli studi della mente e della logica c’è da affiancare quelli sull’intelligenza emotiva, dei bisogni, del desiderio. La coscienza della parzialità di ogni affermazione e della sua inevitabile configurazione storica e culturale va bilanciata con l’irriducibile pretesa di verità e certezza che ognuno viene ad avere quando fa un percorso conoscitivo autentico. Il problema dell’identità va “composto” con quello della molteplicità, del pluralismo, della complessità, senza per forza avere la sensazione teorica e pratica di 20 cadute nel relativismo, nell’incertezza e nella confusione “babelica” (a cui segue solo lo scetticismo) (Morin, 1995). Tutto ciò non è senza riflessi sull’istruzione e sulla formazione. 1.2.2. La multiculturalità e le dinamiche interculturali (il meticciamento etnico- culturale) I movimenti storici vengono a combinarsi e a scontrarsi con gli spostamenti delle popolazioni per i motivi più svariati, da quelli di tipo economico a cui si è ac- cennato a quelli di tipo politico, culturale, turistico, dando luogo al fenomeno della multicultura (Malizia e Nanni, 2002; Nanni, 2000). Essa viene a caratterizzare sempre più la vita interna delle nazioni e il quadro internazionale (seppure non senza forme di difesa nazionalistica o localistica o confessionale). In effetti si viene ad avere non solo la compresenza sullo stesso territorio di persone o gruppi, diversi geneticamente. C’è anche la coabitazione delle differenze culturali, religiose, dei modi vita. Il vortice “virtuale” della vicinanza ravvicinata e delle informazioni di eventi a subitaneo tempo reale, innescato dal sistema della comunicazione sociale e dalle nuove forme della telematica (internet, e-mail), ac- crescono notevolmente la portata del fenomeno. Ben presto non solo si hanno forme di “meticciamento” genetico, ma anche etnico, culturale, religioso. A livello di cultura ciò viene ad esaltare il fenomeno del pluralismo a tutti i livelli. E inoltre può mettere in crisi i tradizionali modelli di uomo, di cultura e di sviluppo. L’invito è a trovare forme di dialogo interculturale, senza scadere nel relativismo culturale e valoriale; anzi dando luogo a dinamiche di arricchimento e di innovazione non solo genetica ma anche appunto culturale, valoriale, religiosa. Certamente si pone in modo nuovo la questione della “cittadinanza”, il senso dell’appartenenza sociale, nazionale, religiosa, l’impegno di promozione umana e la partecipazione allo sviluppo mondiale (Orsi, 1998; Niemi, 1999; Birzea, 2000; Chistolini, 2006). I diritti umani, nelle loro diversificate Dichiarazioni, pur nate sotto il segno della compromissione politica storica internazionale, possono essere visti come le “chiavi dell’intercultura”, nel senso che in quanto acconsentiti da tutti, possono far da “tramite” tra ciò che accomuna e ciò che differenzia, tra ciò che unisce e ciò che divide tra persone, gruppi, popoli, nazioni, nella prospettiva di una mondialità e di una comune umanità, per quanto differenziata. Ma oltre a una interculturalità a livello orizzontale, tra gruppi sociali etnica- mente, culturalmente, religiosamente diversi, c’è da promuovere anche una inter- culturalità di tipo longitudinale, tra generazioni, al fine di bilanciare la distanza generazionale con il dialogo intergenerazionale, pensando a modelli di sviluppo sostenibile in tempi lunghi oltre l’attuale congiuntura storica (dove la generazione adulta sembra trascinare nel proprio tendenziale presentismo consumistico tutte le altre fasce generazionali della popolazione mondiale) (Garelli e Offi, 1997; Garelli, 2007; Buzzi, Cavalli e De Lillo, 2007). 21 1.3. Quale sviluppo umano La seconda rivoluzione industriale, l’aumento della produttività e il progresso tecnologico hanno contribuito a una grande espansione della ricchezza mondiale (Rapport sur le développement humain.1995, 1995; Wilson, 2001). Nella seconda metà del XX secolo il prodotto interno lordo mondiale si è moltiplicato per otto e il reddito medio per abitante è cresciuto tre volte. Contemporaneamente si è assistito a una diffusione estremamente rapida delle Tic: mentre sono passati ben 38 anni prima che gli ascoltatori della radio raggiungessero la cifra di 50 milioni e 13 prima che la TV conseguisse tale traguardo, nel caso di internet sono bastati solo 4 anni. Sembrerebbe, pertanto, che l’obiettivo di realizzare il benessere dell’umanità attra- verso la modernizzazione dell’economia sia ormai a portata di mano. Tuttavia, questo salto di qualità nell’economia si compie in un contesto in cui la povertà si presenta come la caratteristica più diffusa fra gli uomini, come ha riconosciuto la Conferenza di Copenhagen sullo sviluppo sociale del 1995: infatti, l’attuale modello di sviluppo, basato unicamente sulla espansione dell’economia, sta creando nel mondo forti diseguaglianze (Sarpellon, 1995; Tikly, 2004; Wat- kins, 2005). I Paesi in via di sviluppo, pur accogliendo tre quarti della popolazione glo- bale, tuttavia partecipano solo al 16% del totale della ricchezza prodotta; inoltre le 500 persone più ricche del mondo guadagnano più dei 416 milioni dei più poveri e il 10% più ricco consegue il 54% del reddito mondiale rispetto al 50% circa (tre miliardi) che possono contare solo sul 5%; in terzo luogo oltre dieci milioni di bambini muoiono ogni anno prima dei cinque anni di vita per effetto della man- canza di medicinali e di alimenti. Più specificamente, nel quadro della globalizzazione dei processi la rivo- luzione che si è realizzata nelle tecnologie dell’informazione e le trasformazioni organizzative ad essa connessa hanno portato alla definizione di una nuova divi- sione internazionale del lavoro che è fondata più sulla capacità di elaborare nuove conoscenze e di applicarle in tempi rapidi a un ampio ventaglio di iniziative attra- verso gli strumenti di comunicazione che non sulla disponibilità di materie prime, di forza lavoro a buon mercato e di beni capitali (Carnoy et alii, 1993; Lodigiani, 1999). Nella nuova gerarchia che si è creata tra le nazioni il primo posto è sempre occupato dalle maggiori potenze industriali in cui si concentra la domanda di nuovi prodotti e la capacità di crearli e di produrli; la novità consiste nel fatto che all’egemonia degli Stati Uniti si sarebbe sostituita una multipolarità che trova nel Giappone, nella Germania e, più in generale, nell’Unione Europea e nella Cina i principali punti di riferimento. Un’altra differenza rispetto al passato è data dall’affermarsi di un secondo livello di nazioni produttrici di strumenti di alta tec- nologia: in particolare si tratta di Hong Kong, della Corea del sud, di Singapore e di Taiwan che hanno costruito le loro fortune di cosiddetti “Paesi di nuova indu- strializzazione” sulla padronanza di abilità elevate in campo tecnologico e orga- nizzativo e sull’impegno dei governi nello sviluppo di tali capacità. 22 Sul polo negativo di tale divisione internazionale del lavoro si trova gran parte dei Paesi dell’America Latina e dell’Africa che hanno subito le conseguenze nega- tive delle trasformazioni recenti dell’economia mondiale. I grossi prestiti contratti negli anni ’70 per risolvere i problemi strutturali del loro sviluppo si sono tradotti in enormi debiti esterni che hanno impedito a nazioni come l’Argentina, il Messico, la Nigeria o il Venezuela di partecipare al balzo in avanti delle “tigri” asiatiche ap- pena citate. A loro volta, gli altri Paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, ancora caratterizzati da bassi redditi e da una produzione prevalentemente agricola, risultano sempre più emarginati dallo sviluppo mondiale. Ne segue che le economie del Terzo Mondo si presentano distribuite in varie categorie. Un primo gruppo è costituito dai sicuri vincitori e tra questi si annove- rano le potenze emergenti dell’Asia citate sopra, la Cina, l’India e il Brasile, mentre Argentina, Cile, Colombia, Messico e Venezuela lo sarebbero solo potenzialmente. Al contrario, le aree rurali marginali dei tre continenti e le periferie delle grandi concentrazioni urbane dell’Africa e dell’America Latina costituiscono il Quarto Mondo dei veri perdenti. Il futuro delle nazioni ricche di potenzialità di sviluppo probabilmente dipenderà dalla capacità di modernizzare la loro struttura economica e formativa e di collegare alla produzione le attività di studio e ricerca di cui sono provviste, anche se in misura limitata. A sua volta, il Quarto Mondo dovrebbe pun- tare a creare nuove istituzioni e nuove basi per l’integrazione economica e sociale, anche se è dubbio che le dottrine neo-liberali sostenute dalle agenzie internazionali siano capaci di sostenere tale sforzo. Che lo sviluppo umano non possa essere garantito solo dalla crescita econo- mica, non discende solo dalla natura profondamente diseguale della seconda, ma anche dai guasti che arreca all’ambiente e in materia di lavoro. Con i ritmi attuali di produzione essa mette a rischio la consistenza delle risorse non riproducibili, la con- servazione della natura a motivo dell’inquinamento e più in generale le stesse condi- zioni di vita sulla terra. Inoltre, la sostituzione troppo rapida e sistematica della forza lavoro con le TIC1 allarga a macchia d’olio la disoccupazione rendendola un feno- meno non più solo congiunturale, ma strutturale. Gli effetti non si limitano al lavoro esecutivo, ma stanno raggiungendo i livelli qualitativamente più elevati delle attività occupazionali. Si crea, inoltre, una grave diseguaglianza tra chi può contare su un lavoro – e sono sempre meno – e chi non gode di quello che sta diventando un privi- legio; questo secondo gruppo sta crescendo a dismisura e ingloba numerosi giovani delle aree urbane che sono esposti a tutti i pericoli della esclusione sociale. Per uscire da questa situazione, le Nazioni Unite hanno proposto già dal 1990 una nuova definizione di sviluppo umano che si estende oltre la crescita economica fino a comprendere le dimensioni etiche culturali ed ecologiche (Rapport mondial sur le développement humain 1995, 1995). Esso non può coincidere con le teorie dell’economia. Infatti, non solo non basta l’aumento del prodotto nazionale lordo, 1 Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione. 23 come si è già visto, ma neppure sono sufficienti lo sviluppo delle risorse umane se le persone sono considerate come semplici fattori della crescita, come mezzi cioè, né la ricerca del benessere sociale, se le relative politiche considerano gli individui come semplici destinatari passivi del processo di sviluppo; anche l’impostazione che mira a soddisfare i bisogni essenziali, essendo focalizzata solo sull’offerta di beni e servizi ai settori svantaggiati della popolazione, è riduttiva perché non si occupa dell’ampliamento delle potenzialità umane. La definizione delle Nazioni Unite abbraccia produzione e sviluppo, allargamento e utilizzazione delle possibi- lità umane, tende ad oltrepassare le preoccupazioni elencate sopra, esamina tutte le problematiche sociali dal punto di vista delle persone, si focalizza sull’allarga- mento delle opportunità di scelta e riguarda tanto i Paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo. Naturalmente si deve trattare di sviluppo sostenibile che va incontro ai bisogni dell’attuale generazione senza precludere quelli delle generazioni succes- sive: in altre parole esso deve coniugare conservazione dell’ambiente ed elimina- zione della povertà, presente e futuro. È il benessere umano che va assunto come meta dello sviluppo e i relativi indi- catori devono comprendere la sanità, l’alimentazione, l’accesso all’acqua potabile, l’educazione e l’ambiente. In particolare la formazione dovrebbe fornire all’umanità la capacità di padroneggiare il proprio sviluppo. Da questo punto di vista è centrale l’educazione di base che deve fornire tutti gli elementi di conoscenza necessari per accedere eventualmente agli altri livelli successivi e soprattutto dare a ciascuno gli strumenti per costruire liberamente la propria vita e per partecipare all’evoluzione della società. Un altro aspetto importante è quello della preparazione al lavoro in gruppo e all’autoimprenditorialità, se si vuole puntare al coinvolgimento responsa- bile di tutti nello sviluppo. In conclusione, bisogna superare ogni concezione utilita- ristica dell’educazione quasi che il suo ruolo sia solo quello di provvedere alle strut- ture produttive e alle qualificazioni di cui hanno bisogno; al contrario, la sua meta ultima rimane quella di sviluppare i talenti e le attitudini di ogni persona. Per quanto riguarda le strategie per combattere la povertà, va segnalato un ribaltamento dell’ottica economicistica che fino ad anni recenti ha caratterizzato le politiche dello sviluppo dei Paesi ricchi e di quelli del Terzo Mondo (Buarque, Mohorèiè Špoalar e Zhang, 2006). Al contrario è stato proposto lo sviluppo sociale come «metodologia di governo delle trasformazioni sociali volte a soddisfare la globalità dei bisogni umani e cioè, oltre a quelli materiali, anche quelli sociali e spirituali, nel rispetto delle diversità culturali» (Sarpellon, 1995, p. 4). In aggiunta uno dei “comandamenti” del “decalogo dei capi di governo” elaborato a Copen- hagen nel 1995 suona così: «Ci impegniamo a promuovere l’accesso universale all’istruzione qualificata [...]» (Springhetti, 1995, p. 26). Un altro orientamento recente che si sta rivelando fecondo di risultati può essere identificato nell’emergere del concetto di capitale sociale (Donati, 2006). Esso si è affermato all’interno delle scienze umane allo scopo di spiegare lo svi- luppo e il mancato sviluppo dei sistemi sociali e la sua valenza positiva si rivela 24 nella duplice connotazione economica e sociale, cioè come forza di produzione capitale) e complesso coerente di relazioni (sociale). In concreto, sta a significare la rete di relazioni di natura fiduciaria o cooperativa che un individuo o una collet- tività presenta nel proprio contesto di vita: l’ipotesi soggiacente è che la persona e la comunità possano trarre dalle relazioni appena richiamate risorse che consentano di promuovere il proprio sviluppo. Le posizioni teoriche in proposito sono molte e diverse. Ricordo quella rela- zionale che intende il capitale sociale come caratteristica delle relazioni e non degli individui o delle strutture sociali in quanto tali. Inoltre, essa distingue vari tipi di capitale sociale: quello familiare (famiglia e parentela), comunitario (reti di amici e conoscenti), associativo e civico (fiducia nell’altro o nelle istituzioni). La loro esistenza e crescita sarebbe correlata positivamente con la riduzione della povertà e con lo sviluppo. Risulta chiaro che il passaggio dal concetto di crescita economica a quello di sviluppo umano è ormai internazionalmente accettato. Secondo la Commissione dell’UNESCO sull’educazione per il XXI secolo, la formazione va considerata sia come un elemento costitutivo sia come una finalità essenziale della nuova idea di sviluppo (Delors et alii, 1996). Una analisi della letteratura specializzata sull’argo- mento conferma questa tesi anche se con qualche sfumatura (Saha e Fägerlind, 1994; Lodigiani, 1999; Efa global monitoring report, 2005). Le indicazioni che ven- gono dalla ricerca più recente circa l’incidenza dell’educazione sullo sviluppo eco- nomico, sociale e politico hanno fugato le perplessità che si erano create negli anni ’70. Tuttavia, la relazione è tutt’altro che semplice e diretta: in altre parole non esi- stono automatismi per cui si possa affermare che qualsiasi investimento nel settore formativo conduca necessariamente ai risultati voluti e, pertanto, non sono da esclu- dere casi di eccessiva fiducia nelle strategie educative o di una scelta di modalità sbagliate di intervento formativo. Al tempo stesso va dichiarato con forza che non è pensabile per un Paese realizzare una politica per lo sviluppo senza il sostegno di una popolazione adeguatamente formata, in particolare se si tiene conto dell’attuale fase di esplosione delle conoscenze e di espansione della tecnologia. Pertanto, l’edu- cazione è il fattore principale dello sviluppo a condizione che la sua traduzione in un progetto concreto corrisponda alle esigenze proprie di ciascuna nazione. 2. LUCI E OMBRE DEL SISTEMA FORMATIVO Una delle questioni più urgenti da affrontare nella prospettiva del XXI secolo è costituita dalla incapacità dei sistemi scolastici di garantire effettivamente a tutti l’educazione di base, a tempo pieno, se possibile, o almeno sotto altre forme, valo- rizzando a tale fine tutte le offerte formative presenti sul territorio, comprese quelle non statali. A questo proposito è sufficiente ricordare i dati sugli 880 milioni di adulti analfabeti, sugli oltre 113 milioni di bambini del gruppo di età 6-11 che non 25 hanno accesso all’istruzione primaria, sugli altri 150 milioni che, pur iscrivendosi, abbandonano la scuola senza avere acquisito una alfabetizzazione di base (Osttveit, 2000; Forum mondial sur l’éducation. Rapport final, 2000; Delors et alii, 1996): in proposito, va sottolineato che tutte le persone appartenenti ai gruppi citati vengono private di un diritto umano fondamentale, quello all’educazione. Questa grave ingiustizia, che colpisce soprattutto i Paesi in via di sviluppo, di- pende principalmente dalla mancanza di risorse da investire in scuole e in docenti di cui soffrono tali nazioni: è sufficiente ricordare che la maggior parte dei governi assegnano al bilancio dell’istruzione meno del 4% del loro prodotto nazionale lordo con l’Africa “Subsahariana” ferma al 2.9% e i Paesi meno sviluppati al 2% (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Atal, 2001). A monte delle diffi- cili condizioni materiali dell’educazione si colloca certamente la povertà endemica e la diseguale distribuzione della ricchezza che affligge i Paesi in via di sviluppo e in particolare le regioni dell’Africa “Subsahariana” e dell’Asia Meridionale; tut- tavia la causa fondamentale risiede nel carattere diseguale degli scambi a livello internazionale. Altri fattori delle difficoltà che incontrano i paesi in via di sviluppo a realizzare un’educazione di base per tutti vanno visti: negli attentati perpetrati a danno della loro identità culturale; nella diffusione di modelli valoriali ispirati alla ricerca del profitto, all’egoismo e al consumismo; nell’inefficienza dei governi; nella situazione della maggioranza delle famiglie incapaci di provvedere al soddi- sfacimento dei bisogni essenziali dei propri membri (cibo, salute, vita dignitosa, educazione di base); nella condizione della gioventù che sperimenta sistemi forma- tivi carenti o selettivi, che non trova lavoro o, se lo reperisce, lo trova spesso inade- guato e che non infrequentemente è priva di prospettive di futuro per cui in gruppi consistenti si avvia per la strada del crimine. I sistemi educativi sono molto lontani dall’aver realizzato l’eguaglianza delle opportunità formative fra gruppi sociali diversi. Certi settori della popolazione non hanno beneficiato in maniera equa dell’educazione, come gli strati più bassi, le mi- noranze etniche, gli immigrati, le donne (Forum mondial sur l’éducation. Rapport final, 2000; World education report.1995, 1995). Riguardo a queste ultime va ricor- dato che all’incirca una donna adulta su tre è analfabeta rispetto a un uomo adulto su cinque: più precisamente i due terzi degli adulti analfabeti sono donne e questo si traduce in valori assoluti in una cifra di 562,2 milioni (Rapporto mondiale sul- l’educazione 2000). Inoltre, il livello di scolarizzazione delle ragazze è inferiore a quello dei loro coetanei maschi, se si considera la situazione su scala mondiale: in particolare, sono femmine i due terzi degli oltre 113 milioni di ragazzi del gruppo di età 6-11 anni che non vanno a scuola. Queste sperequazioni non solo determi- nano una situazione di svantaggio personale che incide sulle donne per tutta la loro vita, ma anche influisce negativamente sull’evoluzione delle aree più povere dato il ruolo strategico dell’educazione delle donne nello sviluppo. Un settore dell’educazione in cui si riscontrano limiti molto seri è quello della qualità (obiettivi, contenuti, metodi, organizzazione). Se nel recente passato l’inno- 26 vazione tecnologica era stata considerata come il motore dello sviluppo, oggi si ri- scontra un vasto accordo nel privilegiare l’importanza del fattore umano e nel sot- tolineare la rilevanza della qualità della sua formazione. Per preparare all’inseri- mento nella “infosocietà”, la scuola dovrà formare competenze e abilità quali le ca- pacità di: trattare con le persone, esprimersi in maniera semplice e precisa, ascol- tare gli altri, identificare gli elementi essenziali e saperli riassumere, organizzarsi, risolvere problemi, pensare logicamente e criticamente, lavorare con impegno, rac- cogliere, selezionare e assimilare informazioni, lavorare sia da solo che in gruppo, essere motivati ad un apprendimento continuo, adattarsi a nuove situazioni. Le percentuali di ripetenza e di abbandono risultano ancora molto alte, chia- mando in causa tra l’altro sia i sistemi di valutazione sia la capacità della scuola di motivare gli allievi (World Education Report. 1995, 1995; Rapporto mondiale sul- l’educazione 2000). Nonostante l’allungamento generale della durata dell’istru- zione, la situazione dei giovani socialmente svantaggiati o in situazione di insuc- cesso sembra sia peggiorata. Il fenomeno, se riguarda i Paesi in via di sviluppo – è sufficiente ricordare che in America Latina la percentuale dei ripetenti raggiunge ogni anno il 30% degli effettivi – non è da meno in quelli più industrializzati in cui una proporzione importante degli alunni ne risulta colpita. Per effetto della disper- sione scolastica si vengono a creare due categorie di giovani, una di serie A e una di serie B, e quel che è più grave tale divisione si riflette nel mondo del lavoro per cui i non qualificati o non diplomati soffrono di un grave svantaggio nel momento dell’inserimento professionale. In particolare, va tenuto presente che permane ele- vato il numero di quanti lasciano l’istruzione obbligatoria senza aver acquisito un titolo di studio che faciliti il reperimento di un’occupazione. La questione pone in maniera drammatica il problema dell’attuazione del principio dell’eguaglianza delle opportunità che, finora, è stato realizzato con eccessiva focalizzazione su stra- tegie uniformizzanti. La formazione impartita, soprattutto nella secondaria superiore, è troppo astratta, in quanto la finalizzazione all’accesso all’università mantiene un’impor- tanza eccessiva. Al contrario, risulta urgente allargare la gamma delle potenzialità da sviluppare che non dovrebbero essere solo le cognitive, ma comprendere anche: le abilità manuali, la creatività, le capacità di lavoro in gruppo, gli elementi profes- sionali e tecnici, l’esperienza di lavoro. Il prestigio sociale di cui gode presso gli adolescenti e le loro famiglie la for- mazione generale rispetto alla tecnica e alla professionale porta a uno squilibrio nella distribuzione interna del sistema educativo e accresce i tassi di insuccesso e di disoccupazione. Una specializzazione troppo spinta a livello di scuola secondaria superiore di formazione generale, come quella che si riscontra in alcuni Paesi, im- plica il rischio di preparare degli specialisti che il mercato di lavoro non accetta. Il modello tradizionale dell’amministrazione e dell’organizzazione scolastica appare del tutto inadeguato rispetto alle esigenze della società attuale. Il sistema si rivela chiuso nel senso che non si cura molto dell’equilibrio delle relazioni con 27 l’ambiente; invece, la preoccupazione fondamentale è di tipo burocratico, di ri- spetto cioè degli adempimenti formali. Le scuole si presentano spesso come delle organizzazioni “disintegrate” poiché mancano di un progetto unitario di forma- zione. Sul piano amministrativo sono diffusi il centralismo, la rigidità e la man- canza di efficacia, di produttività e di professionalità. La scuola sembra incapace di seguire il ritmo travolgente della rivoluzione tec- nologica. In ogni caso questa ha messo in crisi l’occupazione tradizionale e ha creato nuovi lavori che però spesso presentano un profilo ancora incerto, per cui è difficile individuare con precisione il tipo di formazione necessaria. Inoltre, non sembra che si siano ancora elaborate strategie didattiche soddisfacenti per formare i giovani a gestire le TIC con una mentalità critica. In molti casi l’informatica e i computer sono stati introdotti nelle scuole senza aver preparato gli insegnanti e senza disporre di un numero adeguato di programmi. Il problema Nord/Sud è la questione più grave che dovrà affrontare l’umanità nel prossimo futuro. È un problema che non potrà essere risolto solo sul piano poli- tico od economico, ma che richiede un cambio di mentalità, una conversione cultu- rale alla solidarietà mondiale anche attraverso la formazione. D’altra parte, sono ben noti i limiti dell’educazione civica nella scuola che incontra notevoli difficoltà persino nel formare i giovani ai diritti umani più elementari. Nel concetto di solidarietà rimane l’aspirazione alla giustizia sociale, al supe- ramento delle diseguaglianze tradizionali. Però, la nuova solidarietà dovrà contem- poraneamente coniugare i bisogni della soggettività, dare soddisfazione alle esi- genze individuali, valorizzare il diritto di ciascuno alla differenza. È centrale anche il concetto di corresponsabilità: la solidarietà non va confusa con l’assistenzia- lismo, ma richiede che ogni persona, anche l’emarginato, diventi attore dell’avve- nire proprio e collettivo. Gli insegnanti sono la chiave di volta della realizzazione di ogni progetto per l’edu- cazione e l’apprendimento in vista del XXI secolo. Tuttavia, il livello della loro formazione e delle loro competenze così come il loro status sono spesso insuffi- cienti. Nell’immagine tradizionale l’insegnante è il detentore delle conoscenze e delle competenze; la sua funzione consiste nel trasmetterle a chi non le possiede e cessa nel momento in cui l’allievo ha appreso tutto ciò che sa il docente. Tale mo- dello concepisce il sapere come qualcosa di determinato, di finito e di misurabile e l’apprendimento come l’accumulazione di pacchetti di conoscenze nell’allievo. È chiaro che nella società dell’informazione sono completamente superate sia l’idea del monopolio delle conoscenze da parte del docente sia della loro fissità. 3. L’EDUCAZIONE PER IL XXI SECOLO L’educazione costituisce un strumento indispensabile per realizzare un auten- tico sviluppo umano, per consentire cioè all’umanità di avanzare verso le mete 28 della pace, della libertà e della giustizia sociale. Indubbiamente, non rappresenta una specie di panacea per tutti i problemi, ma semplicemente offre un percorso fra tanti, anche se probabilmente più efficace e valido di molti. Ma di quale educazione si tratta, o meglio quale modello viene qui sostenuto? 3.1. Progetti globali Con una formula sintetica si può forse dire che in questo momento si conten- dono il campo quattro visioni diverse della politica dell’educazione (Callini, 2006; Bindé, 2002; Nanni, 2000; Malizia e Nanni, 2002; Blondel, Delors et alii, 1998; Delors et alii, 1996; Cresson e Flynn, 1995). Una prima ipotesi è costituita dalla scuola che istruisce, finalizzata cioè esclusivamente o quasi al perseguimento di obiettivi cognitivi. In tale modello la formazione intellettuale occupa il centro della scena e l’intelligenza viene immaginata a guisa di un calcolatore naturale che bisogna far funzionare nel modo più efficace in risposta alle sollecitazioni dell’am- biente. Inoltre, riprende credito la tesi tradizionale della separazione della scuola dalla vita, interpretata tuttavia in una maniera nuova, come strategia per consentire la simulazione scientifica delle operazioni da ripetere nel concreto. Le finalità del- l’educazione non vengono identificate in una formazione globale centrata sulla cultura generale, ma nella preparazione professionale focalizzata su contenuti di natura scientifico-tecnologica. L’ipotesi può comportare degli effetti negativi sulla dimensione educativa dei processi di insegnamento/apprendimento e, di conse- guenza, sul contributo della scuola alla maturazione della persona. Un’altra formula è quella della scuola che seleziona, della scuola meritocratica, di un sistema formativo che è modellato sulla base di “politiche di eccellenza”. È uno scenario tutto dominato dalla centralità degli esami e delle votazioni e dal pri- mato della qualità dell’insegnamento. L’analogia fondamentale è data dall’azienda: pertanto, la finalità prioritaria consiste nel produrre, mediante la combinazione otti- male dei vari fattori, un risultato che dovrà essere valutato sul piano quantitativo e qualitativo e di cui si dovrà rendere conto ai diversi utenti/pagatori; diviene essen- ziale il concetto di performance, cioè di acquisizioni formative misurabili e obietti- vamente registrate; la gestione delle strutture formative, personale e risorse, assume un carattere autonomo e flessibile. In sostanza, la scuola verrebbe ad essere pervasa dalla logica del merito e della concorrenza, il libero mercato entrerebbe nel mondo dell’istruzione e il sistema formativo si muoverebbe a due velocità, una per la massa e l’altra per un’élite intellettuale. In altre parole questa scuola significa il trionfo di un individualismo esasperato figlio di un capitalismo e di un neo-liberalesimo radicali che non vanno molto d’accordo con un’etica della solidarietà sociale. La terza ipotesi è costituita dal modello tecnocratico: si tratta di un’educazione che si basa tutta sulla telematica, sulle banche dati, sui computer. Si caratterizza per l’esplosione dei luoghi di formazione attraverso il decentramento dei processi di insegnamento/apprendimento nel proprio domicilio sulla base di reti telematiche e dell’interdipendenza di strutture diverse, collegate con una sede centrale di consu- 29 lenza, di risorse e di valutazione. Esso comporta una modificazione profonda delle condizioni di organizzazione interna del sistema educativo, compresa la gestione del personale, implica uno sviluppo adeguato del software didattico e soprattutto presuppone investimenti consistenti in attrezzature e nella preparazione dei forma- tori. In questo caso verrebbe messa a rischio la relazione educativa che non può essere solo virtuale, soprattutto nell’età giovanile. L’impostazione neo-umanistica e solidaristica anzitutto mantiene la priorità della funzione educativa sull’istruttiva: in altre parole, l’educazione viene intesa come sviluppo globale della personalità, tanto sul piano cognitivo, che su quello emotivo e valoriale, tanto degli aspetti individuali che della dimensione sociale. Sul piano strutturale i punti di riferimento sono la politica dell’alternanza e il sistema integrato. Le finalità educative vengono individuate nei valori emergenti della soli- darietà, dello sviluppo, della protezione dell’ambiente, della tutela dei diritti umani, della mondialità. L’innovazione viene perseguita mediante procedure democratiche e partecipative: in particolare la singola comunità educativa diviene lo strumento per eccellenza di gestione del sistema formativo e di costruzione del tessuto educa- tivo locale. Essa implica la scelta della progettualità, della flessibilità, della colla- borazione, della promozione del privato sociale, per ovviare alle inadeguatezze del gigantismo degli apparati amministrativi della scuola. Indubbiamente, la scelta neo-umanistica e solidaristica è esposta ai rischi della retorica delle proclamazioni inefficaci e del trionfalismo di un’utopia totalmente priva di agganci con la realtà concreta. Tuttavia, appare anche come l’unica strada che permette di affrontare in modo efficace le sfide educative attuali. Questa sembra sostanzialmente l’impostazione anche del rapporto Delors che presenta le strategie dell’UNESCO per il XXI secolo (Delors et alii, 1996; Blondel, Delors, 1998 et alii). 3.2. L’apprendimento per tutta la vita: il modello strategico Il documento appena citato ha confermato le strategie fondamentali dell’edu- cazione permanente, già enunciate nel rapporto Faure (Faure et alii, 1972). Il modello dominante di sviluppo dell’educazione fino a tutto il ’60 si può definire come “scuolacentrico”. Tra le caratteristiche principali vanno ricordati anzitutto il “panscolasticismo” e la “continuità iniziale”. A seguito di una lenta evo- luzione che, iniziata nei primi anni del ’900, si era conclusa intorno alla metà del secolo, la scuola aveva raggiunto una posizione di monopolio sulla formazione, mentre le altre istituzioni educative venivano a occupare una condizione subal- terna. Inoltre, la formazione era intesa come un processo unico, graduale e conti- nuativo che si realizzava senza interruzione una sola volta nell’esistenza sulla base del presupposto che l’istruzione necessaria e sufficiente per la vita potesse essere acquisita una volta per tutte nella giovinezza. Corollario dei due principi era la segregazione della scuola dalla società e la burocratizzazione del sistema educativo. La dicotomia tra il periodo dell’apprendi- 30 mento delle conoscenze e il periodo della loro applicazione, fra il momento dello studio e il momento del lavoro, aveva portato a concepire la scuola come un corpo separato rispetto al contesto socio-culturale. In aggiunta il sistema formativo, es- sendo privato di ogni rapporto reale con le componenti extrascolastiche, era dive- nuto una mega-organizzazione ingovernabile. Inoltre, l’educazione veniva conce- pita come un processo fondamentalmente impositivo, conservatore e integrativo che mirava ad adattare i giovani al sistema sociale così come era. Alla fine degli anni ’60 il modello “scuolacentrico” ha incominciato a essere messo in discussione in modo radicale. Esso sembrava ostacolare lo sviluppo inte- grale della persona umana poiché istituzionalizzava la discontinuità del ciclo vitale, separando nettamente il momento formativo dal momento produttivo e la giovi- nezza dall’età adulta e dalla vecchiaia. D’altra parte, non è sempre vero che la ca- pacità di apprendimento raggiunga il suo optimum nella giovinezza, mentre è di- mostrato che l’acquisizione di determinate cognizioni si rivela più facile da adulti in connessione con l’esperienza di lavoro. In una società in cui il ritmo del pro- gresso scientifico e tecnologico è accelerato, la frequenza iniziale per quanto pro- lungata della scuola non è sufficiente una volta per tutte a preparare per l’intero arco della vita. Inoltre, nella logica della continuità iniziale chi abbandona precoce- mente la scuola incontra gravi difficoltà a rientrare nel sistema educativo ed è con- dannato ad un ruolo di secondo piano nella società; in altri termini il modello “scuolacentrico” non riesce a contribuire alla democratizzazione dell’educazione in maniera soddisfacente in quanto non riduce, se non alquanto parzialmente, le dis- eguaglianze nelle opportunità formative tra alunni di gruppi sociali diversi. Un altro limite consisteva nel fatto che esso estende eccessivamente una fase ambigua della vita umana, lo status adolescenziale, caratterizzato da un divario tra maturità biologica e legale, da una parte, e l’esclusione dai poteri reali e dalle responsabilità della vita adulta, dall’altra, divario che è fonte non ultima delle frustrazioni e delle contestazioni dei giovani. Nel 1972 l’UNESCO lanciava la strategia dell’educazione permanente come idea madre delle politiche educative del futuro. Il nuovo scenario può essere sinte- tizzato in quattro assunti principali. Anzitutto, lo sviluppo integrale della persona umana e in particolare la realizzazione dell’utopia fondamentale dell’educazione permanente, l’educazione di ogni persona, di tutta la persona, per tutta la vita, richiede il coinvolgimento lungo l’intero arco dell’esistenza, oltre che della scuola, di tutte le agenzie educative in una posizione di pari dignità formativa, anche se ciascuna di esse interverrà in tempi e forme diverse secondo la propria natura, la propria metodologia e i propri mezzi (policentricità formativa). Il sistema forma- tivo deve prevedere la possibilità di spezzare la sequenza dell’educazione in diversi tempi – in modo da rinviare parte o parti della formazione a un momento succes- sivo al periodo della giovinezza – e di alternare momenti di studio e di lavoro (alternanza, ricorrenza). In terzo luogo, l’educazione è una responsabilità della società intera, comunità e singoli, che sono chiamati a gestire democraticamente 31 le iniziative formative (“cité educative” o società educante). Infine, l’educazione dovrà costituire un diritto di tutte le persone e di tutti i popoli, presentare un carat- tere propositivo, offrire strumenti per l’elaborazione di un progetto personale di vita e stimolare l’educando a porsi in maniera critica e innovativa rispetto ai messaggi trasmessi e ai valori circolanti nella società (educazione liberatrice). Ricordo che alla metà degli anni ’90 la commissione UNESCO sull’educa- zione nel XXI secolo ha confermato sostanzialmente il modello appena descritto con alcune correzioni significative (Delors et alii, 1996; Bindé, 2002; Blondel e Delors, 1998; Bindé, 2002; Caporale, 2008). Richiamo le due principali: la prima riguarda il nome del modello che è passato da educazione permanente ad appren- dimento per tutta la vita: e con ciò si è voluto così sottolineare ancora di più la centralità dell’alunno e del suo apprendere perché non basta disporre di docenti brillanti se poi i nostri ragazzi non imparano; con la seconda si intende evidenziare che il processo di insegnamento/apprendimento non solo deve essere coesteso in senso temporale alla durata della vita (“lifelong”), ma anche trasversalmente (“lifewide”) e comprendere non solo la scuola (l’educazione formale), ma anche ogni attività formativa sistematica organizzata fuori della scuola (l’educazione non- formale) e gli apprendimenti che avvengono occasionalmente nell’esperienza quo- tidiana (l’educazione informale). L’educazione permanente segna un notevole progresso rispetto al modello “scuolacentrico”. Riduce la separazione tra il momento formativo e produttivo attraverso l’alternanza studio-lavoro e aumenta la mobilità sociale assicurando la possibilità di rientro nel sistema educativo. In terzo luogo, allenta la rigidità del rapporto formazione-occupazione poiché favorisce una maggiore adattabilità della forza lavoro ai cambiamenti del mercato; può anche contribuire a ridurre la disoc- cupazione in quanto a turno una parte considerevole dei lavoratori si troverebbe impegnata nella formazione al di fuori del mondo del lavoro. Inoltre, l’educazione permanente diminuisce i pericoli di sclerosi delle istituzioni formative e il rischio dell’indottrinamento attraverso la partecipazione della comunità locale alla gestione dell’educazione. Tuttavia l’educazione permanente non è una panacea, né gli effetti positivi elencati sopra si realizzano automaticamente. Nonostante l’alternanza, i momenti formativi possono rimanere giustapposti alle altre attività dell’individuo senza inte- grarsi veramente nel flusso del ciclo vitale. Esiste il rischio non remoto che nella partecipazione alle iniziative di educazione permanente riemergano le disegua- glianze tra i ceti sociali, tra i sessi e tra i vari settori occupazionali. L’educazione permanente, inoltre, può essere intesa quasi esclusivamente come preparazione professionale ricorrente o come riciclaggio della forza lavoro, funzionale al ritmo accelerato del progresso scientifico e tecnologico. I corsi di formazione per disoc- cupati possono ridursi a puro parcheggio poiché di fatto non è prevedibile uno sbocco lavorativo e la preparazione non fornisce reali competenze. Anche la demo- cratizzazione delle istituzioni educative non è assicurata semplicemente dalla pre- 32 visione di organismi collegiali di gestione, ma richiede la partecipazione reale di tutte le componenti interessate. L’educazione permanente può certamente costituire una strategia di continua messa in discussione delle strutture sociali, di coscientizzazione, di educazione al cambio, di mobilità di gruppo. Al tempo stesso rimane possibile una sua utilizza- zione in modo distorto come strumento per realizzare dei semplici ritocchi margi- nali che non mettono in discussione le ingiustizie di fondo della nostra società, come semplice adattamento allo sviluppo tecnologico, come riqualificazione della forza lavoro e come mobilità individuale. Pertanto il verificarsi della prima alterna- tiva esige l’impegno di tutte le forze sinceramente democratiche e decisamente innovatrici di ogni paese. 3.3. I pilastri dell’educazione permanente A giudizio del rapporto Delors, l’educazione permanente si fonda su quattro pilastri: insegnare a vivere insieme, a conoscere, a fare e ad essere (Delors et alii, 1996; Caporale, 2008). Anzitutto si tratta di insegnare a comprendere gli altri, la loro storia, le loro tradizioni e la loro spiritualità. E a partire da questa base comune si dovrà promuovere uno spirito nuovo che, proprio in relazione alla crescente interdipendenza che si sperimenta nelle nostre società, spinga alla realizzazione di progetti comuni o, almeno, a una gestione efficace e pacifica dei conflitti. La società cognitiva richiede che la scuola offra a ciascuno gli strumenti per raccogliere le informazioni, selezionarle, ordinarle, gestirle e utilizzarle. È anche necessario fornire una cultura generale sufficientemente ampia e la possibilità di dominare in profondità un certo numero di aree di conoscenza. Inoltre, la cultura generale deve costituire la base dell’educazione permanente. Insegnare a fare significa trasmettere delle competenze che rendano capaci di affrontare e risolvere varie problematiche, molte delle quali imprevedibili, e che favoriscano il lavoro in gruppo. Tali competenze dovranno essere apprese offrendo la possibilità di un’esperienza diretta in situazioni protette attraverso le varie forme dell’alternanza. Infine, apprendere ad essere. Si tratta di formare la persona a una più piena capacità di giudizio e di autonomia e di rafforzare la responsabilità personale nella realizzazione del destino collettivo dell’umanità. 3.4. Le strategie macrostrutturali Passando più in particolare alle strategie, è opportuno distinguere fra piano macrostrutturale e micro strutturale (Callini, 2006; Bindé, 2002; Nanni, 2000; Malizia e Nanni, 2002; Blondel, Delors et alii, 1998; Delors et alii, 1996; Cresson e Flynn, 1995). Essendo il problema Nord/Sud la questione più grave che l’umanità dovrà affrontare nel futuro prossimo, gli interventi sul piano mondiale diventano la priorità delle priorità. In altra parole, non è possibile pensare di risolvere i problemi 33 educativi sul piano locale se non si risolvono al tempo stesso i problemi a livello mondiale, se non si riesce ad esempio a ridurre in misura importante le disegua- glianze di opportunità formative tra i Paesi del Nord e del Sud. Alcune delle strategie della mondializzazione non sono direttamente educative come per esempio la realizzazione di un governo mondiale efficace e la creazione di un nuovo ordine economico internazionale; in questo caso, il sistema educativo può contribuire sia formando a queste due prospettive sia cercando di elaborare proposte valide. Una strategia direttamente educativa consiste nel realizzare un cambio di mentalità, una conversione culturale alla solidarietà mondiale. A ri- guardo di questa strategia si possono avanzare tre suggerimenti: la solidarietà non dovrà essere realizzata a senso unico, cioè dal Nord al Sud, ma nelle due direzioni perché il dono è reciproco; la regola è l’intercultura poiché uno sviluppo soltanto endogeno non è sufficiente per affrontare le sfide della società complessa; l’educa- zione religiosa non può essere esclusa dalla scuola pubblica in quanto essa può esercitare un ruolo importante nella formazione alla solidarietà. In questo ambito la Commissione internazionale sull’educazione per il XXI se- colo ha avanzato specifiche raccomandazioni (Delors et alii, 1996; Blondel, Delors et alii, 1998; Bindé, 2002). Si richiede dai governi: interventi politici decisi a so- stegno dell’educazione delle donne; la destinazione al finanziamento della forma- zione di almeno un quarto dell’aiuto allo sviluppo; la diffusione dello “scambio tra debito esterno ed educazione” in modo da limitare le conseguenze sfavorevoli sugli investimenti nell’istruzione delle politiche economiche restrittive; la diffusione delle TIC anche nei Paesi in via di sviluppo per ovviare al pericolo di ulteriori dis- eguaglianze; valorizzazione del potenziale delle organizzazioni non governative. Un altro gruppo di politiche rientrano nel cosiddetto sistema integrato: questo significa il coordinamento tra le diverse strutture educative che consenta di valoriz- zare i rapporti di complementarità esistenti e di favorire transizioni complesse, in vista della realizzazione di sinergie generali e della creazione di una vera coerenza formativa. La “cité éducative” del Rapporto Faure (cioè che l’educazione è una re- sponsabilità della società intera, comunità e singoli, che sono chiamati a gestire democraticamente le iniziative formative) o la tesi del rapporto Delors che l’educa- zione riguarda tutti i cittadini, resi ormai attori da consumatori passivi che erano prima, non si possono attuare partendo solo dallo spontaneismo della società civile, ma richiedono anche un intervento del centro che dovrà dare l’impulso, offrire una guida e valutare l’attività della periferia (Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996). Non è pensabile che il mercato possa, lasciato a se stesso, correggere i propri limiti o che basti una specie di autoregolazione; è, invece, necessario che l’autorità poli- tica si assuma tutta la responsabilità che le compete. Lo Stato non è più in grado da solo di affrontare i problemi educativi, ma la sua azione dovrà essere completata dall’intervento del “privato sociale” e del mer- cato, cioè bisogna ipotizzare una dinamica sociale a tre dimensioni (Toso, 2003; Malizia e Nanni, 2002). Il “privato sociale” comprende le iniziative che, pur pro- 34 mosse da privati, sono finalizzate a scopi pubblici: pertanto, esse dovrebbero essere sostenute dal denaro di tutti, sebbene non completamente, perché conservano sempre un carattere e una responsabilità privata; in particolare questo principio vale per le scuole cattoliche. In terzo luogo, si dovrebbe fare ricorso al mercato libero per utilizzare anche le sue grandi risorse a condizione che siano garantite la qualità del servizio e l’eguaglianza delle opportunità. Da questo punto di vista bisognerebbe che venisse generalizzato il riconosci- mento reale e pieno della libertà di educazione (Dalla Torre, 1999; Malizia, 2008; Versari, 2002). Questa può contare almeno su tre giustificazioni molto significa- tive: il diritto di ogni persona ad educarsi e a essere educata secondo le proprie convinzioni e il correlativo diritto dei genitori di decidere dell’educazione e del ge- nere d’istruzione da dare ai loro figli minori; il modello dell’educazione perma- nente la cui attuazione è assicurata non solo dalle istituzioni formative statali, ma anche da una pluralità di strutture educative pubbliche o private che, in quanto ope- rano senza scopo di lucro, hanno diritto di ricevere adeguate sovvenzioni statali; l’emergere nelle dinamiche sociali fra Stato e mercato di un “terzo settore” o del “privato sociale” che, creato dall’iniziativa dei privati e orientato a perseguire fina- lità di interesse generale, sta ottenendo un sostegno sempre più consistente dallo stato a motivo delle sue valenze solidaristiche. Richiamo da ultimo sette strategie macrostrutturali enunciate dal Rapporto Faure già agli inizi degli anni 70 (Faure et alii, 1972). a. L’educando al centro del sistema formativo. «La scuola dell’avvenire deve fare dell’oggetto dell’educazione il soggetto della sua propria educazione» (Ibidem, 1612). A ogni uomo va assicurato il diritto a educarsi scegliendo libe- ramente il proprio percorso tra una molteplicità di vie, strutture, contenuti, me- todi e tempi; in sostanza è il sistema formativo che deve adattarsi all’educando e non viceversa. b. Autoformazione. «L’etica nuova dell’educazione tende a fare dell’individuo il padrone e l’autore del proprio progresso culturale» (Ibidem, 209). L’obiettivo non è tanto di insegnare una somma di nozioni quanto di fornire un metodo per apprendere da soli. c. Personalizzazione dell’insegnamento. Il processo formativo va organizzato in modo che ciascun alunno possa procedere nell’apprendimento secondo il ritmo che gli è più congeniale. d. Discriminazione positiva. Il sistema formativo, oltre a garantire l’accesso a tutti, deve anche assicurare l’eguaglianza di risultati tra gruppi sociali diversi al termine del processo educativo. Inoltre, l’eguaglianza delle opportunità nel- l’istruzione non significa eguaglianza di trattamento, ma eguale possibilità di essere trattati in maniera diversa per poter realizzare le proprie capacità. 2 Faccio osservare una volta per tutte che i testi in italiano di opere scritte in altre lingue sono stati tradotti dall’autore del presente volume. 35 e. Differenziazione delle strutture formative. La politica dell’educazione deve essere orientata a moltiplicare le istituzioni e i mezzi educativi, ad assicurare l’accesso più largo alle risorse formative, a diversificare le offerte educative nel modo più esteso possibile. f. Deformalizzazione delle istituzioni. A parità di risultati dovrebbe essere ricono- sciuta in linea generale l’eguaglianza di tutti i percorsi formativi, sia formali che informali, sia istituzionalizzati che non. g. Mobilità degli studenti. A livello sia strutturale che di curricolo si dovrà favo- rire il passaggio degli educandi tanto orizzontalmente che verticalmente, da un livello all’altro del medesimo istituto, da un istituto all’altro, da un tipo di educazione all’altro, o dalla vita attiva allo studio e viceversa. 3.5. Le strategie microstrutturali Venendo alle strategie microstrutturali (Callini, 2006; Bindé, 2002; Nanni, 2000; Malizia e Nanni, 2002; Blondel, Delors et alii, 1998; Delors et alii, 1996; Cresson e Flynn, 1995), è opportuno richiamare alcuni principi di natura trasver- sale per poi passare a quelli propri dei singoli ordini e gradi di scuola. 3.5.1. Trasversali Anzitutto va ricordata la scuola della comunità: ciascuna comunità educativa diviene lo strumento per eccellenza della gestione del sistema educativo e della co- struzione del tessuto educativo locale. Per realizzare questo scopo, ciascuna scuola dovrà essere dotata di autonomia ed elaborare il suo progetto educativo. Infatti, essi permettono la costituzione e il funzionamento di una sede intermedia di aggre- gazione sociale in cui le libertà dei singoli utenti si incontrano per gestire insieme corresponsabilmente la risposta ai bisogni educativi. L’autonomia consente alla singola scuola di gestire la sua vita sulla base della libertà dei soggetti educativi (docenti, genitori e studenti) e in particolare di venire incontro efficacemente alle esigenze dei giovani. In aggiunta, è in grado di aprire le strutture formative alle esigenze locali, rendendole più sensibili e attente ai bisogni del territorio e al tempo stesso più capaci di fornire risposte adeguate in tempi reali. Il potenziamento della qualità dell’istruzione, che attualmente rappre- senta un nodo fondamentale in tutti i sistemi formativi, può ricevere un impulso importante da un’autonomia che stimoli la creatività dal basso. In un contesto di continuo mutamento la possibilità di soddisfare le esigenze che insorgono inces- santemente dipende in primo luogo dalla rapidità degli interventi. Inoltre, le pro- babilità di successo di un’innovazione sono maggiori quando l’insegnante ne è partecipe, la sente propria, ha contribuito personalmente ad elaborarla, approvarla, attuarla. Il cuore dell’autonomia è costituito dal riconoscimento della competenza pro- gettuale: ogni scuola dovrà essere messa in grado di elaborare un proprio progetto educativo in cui si rispecchi la sua identità e la sua fisionomia. A questo proposito 36 vanno attribuiti ad ogni unità scolastica poteri adeguati di autonomia didattica, formativa, organizzativa e finanziaria. Tutto questo presuppone a monte la riorganizzazione dell’amministrazione scolastica: è necessario infatti rimettere in discussione le modalità del suo funzio- namento in quanto non è più accettabile, né si rivela efficiente che per esempio le riforme siano decise dai ministeri senza una vera consultazione dei diversi attori e senza una valutazione dei risultati. Bisognerà pertanto procedere a un ampio decen- tramento dei sistemi formativi che si fondi sul trasferimento di responsabilità alle istanze regionali e locali, sull’autonomia degli istituti e sulla partecipazione effet- tiva degli attori locali. Il principio fondamentale sarà che la decisione è locale, mentre l’impulso, il coordinamento, il controllo e la determinazione degli standard nazionali sono centralizzati. All’autorità politica centrale incombe il compito di definire chiaramente le proposte, di suscitare il dibattito e, dopo una vasta concer- tazione, prendere le opportune decisioni. Certamente il decentramento non va con- fuso con una privatizzazione selvaggia; nemmeno si può pensare ad una pura aboli- zione del centro, né basta un semplice deconcentramento della struttura centraliz- zata dello Stato. Il decentramento e in particolare l’autonomia deve invece assicu- rare l’esercizio della responsabilità educativa da parte dell’istanza regionale, locale e, soprattutto, del singolo istituto in un quadro unitario garantito dal centro. In un mondo in cui la qualità della vita ha assunto un’importanza centrale e la scienza e la tecnologia viaggiano verso la qualità sofisticata, non è pensabile che le istituzioni formative possano continuare a limitare la loro attenzione alle sole problematiche di ordine quantitativo, pena la progressiva emarginazione dalle dina- miche sociali. L’obiettivo della qualità totale delle strutture educative comprende differenti strategie: diminuire la dispersione scolastica; integrare i nuovi contenuti, esigiti dall’evoluzione sociale nei programmi scolastici; allargare il ventaglio delle capacità da formare in modo da includere, accanto alle cognitive, anche le abilità manuali, la creatività, le capacità di lavorare in gruppo, gli aspetti professionali e tecnici e l’esperienza di lavoro; sviluppare relazioni soddisfacenti fra le compo- nenti della comunità educativa; realizzare il decentramento amministrativo e una maggiore autonomia degli istituti; riorganizzare la formazione al lavoro secondo i principi della polivalenza, della partecipazione delle imprese e dell’alternanza. L’emergenza spettacolare della società dell’informazione, frutto della rivolu- zione tecnologica, sta creando forme nuove di socializzazione e nuove definizioni dell’identità individuale e collettiva per cui esige risposte specifiche da parte dei sistemi formativi. Pertanto, bisognerà procedere a una loro generalizzazione nella scuola. Poiché l’istruzione obbligatoria pone le basi di un processo di educazione permanente, il suo rinnovamento non può non tener conto dell’innovazione tecnolo- gica e dei cambi culturali e sociali che ne conseguono: in particolare i giovani vanno educati all’uso delle TIC in modo da diventare attori dello sviluppo economico, so- ciale e politico. Il computer può facilitare l’apprendimento individuale con effetti molto importanti sia sull’insegnante che sull’alunno: il compito di presentare il sa- 37 pere verrà assunto dallo strumento, mentre il docente potrà dedicarsi maggiormente a sviluppare una pedagogia di sostegno e una pedagogia differenziata; dalla parte dell’allievo tutto questo significa la possibilità di apprendere al proprio ritmo, di trovare nel computer una pazienza e una perseveranza che l’insegnante, occupato con tanti alunni, potrebbe non possedere e di recuperare il gusto di apprendere. Un’altra motivazione consiste nella necessità di introdurre i giovani alla cul- tura dell’informatica, se non si vuole aumentare la distanza tra la scuola e la vita. In aggiunta, l’attività informatica può contribuire a potenziare varie capacità che l’educazione cerca da sempre di sviluppare: memoria associativa, osservazione, confronto, classificazione, semplificazione, astrazione, ragionamento logico. Né bi- sogna dimenticare l’impatto della telematica che farà della nostra società la società dell’informazione; e il cittadino dovrà essere preparato a conoscere le modalità attraverso cui l’informazione nasce, viene scelta ed è trattata. L’introduzione delle TIC nella scuola presenta potenzialità particolari anche per l’educazione speciale. L’elaboratore può favorire la comunicazione; inoltre, le TIC possono accrescere le capacità degli studenti con bisogni speciali in campi come la motivazione, la cognitività, la motricità, la socialità, l’emozione e la perce- zione. In terzo luogo, la cultura informatica non può essere ignorata dai bambini handicappati pena l’aumento del loro svantaggio nella società. In ogni caso, più che prevedere una nuova materia è questione di assicurare una nuova dimensione ai processi di insegnamento/apprendimento attraverso l’ap- porto di tutto il curricolo scolastico. Gli obiettivi di quella che viene chiamata “media education” potrebbero essere i seguenti: ridurre lo scarto tra chi produce i media e chi li usa, in modo da fornire la capacità di decostruire i testi, promuovere l’autonomia critica degli studenti attraverso la ricerca, aiutarli a individuare i valori e le visioni del mondo a cui si ispirano. Come si è già osservato sopra, nella società dell’informazione la trasmissione delle conoscenze da parte del docente perde di priorità a motivo dell’apporto molto significativo che può essere offerto dalle TIC, mentre l’insegnante è chiamato sempre di più a svolgere un ruolo di mediazione tra l’educando e le informazioni per aiutare quest’ultimo a integrarle in un quadro sistematico di conoscenze. La sua fun- zione consiste più nel formare la personalità degli allievi e nell’aprire l’accesso al mondo reale che non nel trasmettere nozioni programmate, più nel fare da guida alle fonti che non nell’essere lui stesso fonte o trasmettitore di conoscenze. Nelle imma- gini molto efficaci del Rapporto Delors “l’insegnante deve stabilire una relazione nuova con l’educando, passare dal ruolo di “solista” a quello di “accompagnatore”, divenendo ormai non più tanto colui che dispensa le conoscenze quanto colui che aiuta i suoi allievi a trovare, a organizzare e a gestire il sapere, guidando gli spiriti piuttosto che modellandoli, ma conservando una grande fermezza quanto ai valori fondamentali che devono guidare tutta la vita” (Delors et alii, 1996, p. 160). L’azione formativa dell’insegnante dovrebbe spaziare dalla progettazione, alla programmazione, alla docenza, allo svolgimento di compiti tutoriali nei confronti 38 di singoli studenti o di gruppi, alla valutazione continua dei processi di insegna- mento-apprendimento, alla messa in opera e all’adeguamento di programmi e me- todi, all’inserimento in attività di ricerca-azione. Egli è chiamato a intervenire sempre più in profondità e ampiezza nei settori parascolastici, extrascolastici e del- l’orientamento, e sta assumendo il ruolo di agente dello sviluppo e del cambio della comunità locale. Nell’esercizio dell’attività educativa deve essere disponibile a rapporti più partecipativi e collaborativi con gli altri docenti, con gli allievi, con i genitori e con gli altri membri della comunità. In definitiva, il profilo del docente si sta trasformando in un sistema complesso di finalità, obiettivi, ruoli, compiti e con- tenuti, che richiede una nuova articolazione di funzioni e di figure professionali. Come risposta al nuovo ruolo si raccomandano questi interventi: migliora- mento della selezione allargando la base del reclutamento; elevazione dei livelli della formazione iniziale, stabilendo dei legami più stretti tra le università e gli isti- tuti di formazione degli insegnanti; generalizzazione della formazione in servizio; miglioramento dello status giuridico, sociale ed economico. In particolare nella loro preparazione si dovrà realizzare un corretto equilibrio tra le competenze disci- plinari e le pedagogiche e bisognerà trasmettere una visione della pedagogia che stimoli la problematizzazione, l’interazione e l’esame di ipotesi differenti e che svi- luppi le qualità di natura etica, intellettuale ed affettiva. In aggiunta, si richiede di formare gli insegnanti a lavorare in gruppo, a saper dialogare con le altre compo- nenti e la comunità, a padroneggiare le TIC. Una preparazione di qualità esige che i futuri insegnanti siano messi a contatto con professori esperti e anche con ricerca- tori data l’importanza della ricerca per il rafforzamento qualitativo della docenza, per cui la formazione degli insegnanti dovrebbe comprendere pure una introdu- zione alle metodologie della ricerca. Il potenziamento della formazione in servizio può contribuire significativamente ad elevare le competenze e le motivazioni. L’efficacia di una scuola dipende tra l’altro, se non primariamente, dall’azione del dirigente e questo tanto più perché l’autonomia del singolo istituto esige un’or- ganizzazione più imprenditoriale della formazione. Da tale punto di vista si deve pensare a un buon amministratore, competente e aperto, capace di organizzare il lavoro di gruppo. Pertanto, la direzione delle scuole va affidata sempre di più a professionisti qualificati che possiedono una preparazione specifica, soprattutto in materia di gestione. 3.5.2. Per livelli Dopo aver elencato sinteticamente le strategie microstrutturali che informano tutto il sistema, è necessario prendere in considerazione i suoi differenti livelli nel quadro naturalmente dell’educazione permanente. L’educazione di base dovrà sod- disfare i bisogni formativi fondamentali: questi riguardano “sia gli strumenti essen- ziali di apprendimento (lettura, scrittura, espressione orale, calcolo, risoluzione dei problemi) sia i contenuti educativi fondamentali (conoscenza, attitudine, valori, atteggiamenti) di cui l’essere umano ha bisogno per sopravvivere, per sviluppare 39 le sue facoltà, per vivere e lavorare con dignità, per partecipare pienamente allo sviluppo, per migliorare la qualità della sua esistenza, per prender decisioni illumi- nate e per continuare ad apprendere” (Delors et alii, 1996, p. 20). In particolare l’educazione di base va finalizzata a sviluppare il piacere di apprendere e la gioia di conoscere e, dunque, il desiderio di continuare la propria formazione lungo tutta la vita. Tale educazione deve iniziare prima dell’obbligo secondo formule diverse, in cui però vanno coinvolte le famiglie e le comunità locali. La priorità rimane quella di estendere l’educazione di base al miliardo e 200 milioni circa tra adulti, bambini e ragazzi che ne sono attualmente esclusi. Quanto all’istruzione secondaria, la proposta dalla Commissione Delors indica principalmente un rimedio, la più ampia diversificazione dei percorsi formativi (Delors et alii, 1996). La ragione di tale strategia va ricercata soprattutto nel fatto che essa consente di valorizzare tutti i talenti e, quindi, di ridurre il fenomeno del- l’esclusione dai sistemi scolastici di molti adolescenti. A livello secondario do- vranno essere previsti non solo gli indirizzi tradizionali che privilegiano l’astra- zione e la concettualizzazione, ma anche quelli che intrecciano attraverso formule di alternanza la formazione con l’attività professionale. Inoltre, si raccomanda di creare delle passerelle tra i vari percorsi in modo che sia possibile modificare in itinere le scelte compiute. La possibilità offerta a tutti di riprendere gli studi nel corso della vita in attuazione dei principi dell’educazione permanente può togliere ogni definitività alle scelte prese nell’adolescenza sotto l’eventuale influsso di con- dizionamenti sociali negativi, permettendo di correggerle. A questo punto va introdotto il tema dell’orientamento che, però, non deve essere considerato come un processo limitato a un livello scolastico, anche se la scuola secondaria è un momento forte dell’applicazione di tale intervento, ma che riguarda tutte le fasi del percorso formativo di una persona. In questi ultimi anni si è passati progressivamente dalla considerazione dell’orientamento come un insieme di servizi, spesso esterni alle istituzioni formative o almeno autonomi da esse, volti a facilitare la scelta professionale dell’individuo, a una concezione in cui l’orientamento è inteso come processo nel quale il soggetto si costituisce come at- tivo protagonista delle sue scelte. Più in particolare, si può affermare che l’orienta- mento si presenta come un processo educativo, continuo, finalizzato a far acquisire e far utilizzare alla persona le conoscenze, le abilità e gli atteggiamenti necessari per rispondere adeguatamente alle scelte che continuamente è chiamata ad operare, soprattutto in relazione all’attività professionale. La stessa strategia della diversificazione vale anche per l’istruzione superiore per cui accanto all’università dovrebbero svilupparsi altre istituzioni di istruzione superiore e il post-secondario. L’esplosione degli iscritti che si sta verificando nei Paesi sviluppati non deve essere risolta con l’introduzione di una selezione ancor più stringente, in quanto coloro che hanno ottenuto un diploma riconosciuto della scuola secondaria non possono essere esclusi dal passaggio al livello superiore; invece, si dovrà affrontare il problema dal lato della secondaria attraverso una dif- 40 ferenziazione dei canali che consenta di ridurre l’afflusso verso l’università. Questa svolgerà il suo ruolo nella coltivazione della scienza e della ricerca teorica e appli- cata, nella formazione degli insegnanti, nella preparazione a un livello elevato di professionalità attraverso un mix di saperi e di competenze, nell’educazione perma- nente, nella cooperazione internazionale. Di fronte alle sfide elencate sopra diventa una necessità per tutti i paesi, ma so- prattutto per quelli in via di sviluppo, l’impegno ad aumentare le risorse pubbliche consacrate all’educazione: da questo punto di vista la porzione del prodotto nazio- nale lordo destinata a tale fine non dovrebbe scendere al di sotto del 6% (Priorities and Strategies for Education, 1995; Delors et alii, 1996; Blondel, Delors et alii, 1998; Bindé, 2002). La ragione principale per questa raccomandazione va ricercata nel fatto che l’educazione non può essere classificata soltanto come una spesa sociale, ma rappresenta un investimento economico e politico di lungo termine. Certamente accanto al denaro pubblico va ipotizzato l’impegno del privato e del privato sociale secondo formule che potranno variare da Paese a Paese. In propo- sito è interessante la proposta di riconoscere a ciascuno nel quadro dell’educazione permanente un credito di tempo che dia diritto a un certo numero di anni di istru- zione, gestito da un’istituzione specifica, spendibile secondo i tempi e i modi che ognuno sceglie autonomamente e suscettibile di essere accresciuto mediante versa- menti fatti dall’interessato. BIBLIOGRAFIA ATAL Y., Education in the Changing Context: New Social Functions, in “Prospects”, 31 (2001) 1, 7-19. AUGÉ M., Non-luoghi. Introduzione ad una antropologia della sur-modernità, Milano, Elenthena, 1983. AVALLONE F., La metamorfosi del lavoro, Milano, Franco Angeli, 1995. BINDÉ J., What education for the twenty-first century?, in “Prospects”, 32 (2002) 4, 391-404. BIRZEA C., L’éducation à la citoyenneté démocratique: un apprentissage tout au long de la vie, DGIV/EDU/CIT (2000) 21, Strasbourg, Conseil de la Coopération Culturelle (CDCC), 2000. BLONDEL D. - J. 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Un altro aspetto importante dell’evoluzione che ha avuto luogo in questo ambito è consistito nello spostamento dell’attenzione dall’insegnamento (da ciò che la società dovrebbe offrire) all’apprendimento (a ciò che i membri della società domandano). Più in particolare, i cinquanta anni appena trascorsi possono essere articolati in tre fasi: dalla fine della decade ’40 agli inizi di quella ’60 l’impegno a livello internazionale si è concentrato sull’eliminazione dell’analfabetismo3 e sul- l’espansione dell’istruzione elementare; dalla metà degli anni ’60 all’inizio degli ’80 l’accento è stato messo sull’alfabetizzazione funzionale e di nuovo sull’espan- sione dell’istruzione elementare; dalla decade ’80 fino al 2000 le preoccupazioni si sono spostate sulle esigenze di apprendimento e sull’educazione di base. 1. L’EDUCAZIONE ELEMENTARE Agli inizi degli anni ’50 nella maggior parte dei Paesi l’educazione elementare stava ad indicare il primo livello, gratuito e obbligatorio, dell’educazione formale, mentre nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo era intesa non tanto come un livello del sistema formale, quanto come un’educazione che assicura a tutti i bambini una buona base per affrontare la vita (Rapporto mondiale sull’educa- zione 2000, 2000; Delors et alii, 1996; Blondel, Delors et alii, 1998; Blanc, 1985). La distinzione tra istruzione elementare ed educazione di base trova qui la sua prima giustificazione. 1.1. Le sfide dell’inizio Nei primi anni ’50 le stime statistiche dell’UNESCO mettono in evidenza che solo il 50% circa dei ragazzi (5-14 anni) era iscritto a una scuola primaria o secon- daria e che nella metà dei Paesi appena un quarto di questo gruppo di età frequen- tava una scuola primaria o secondaria (Rapporto mondiale sull’educazione 2000). Quasi subito dopo, già nel 1955, inizia l’espansione delle elementari per effetto 3 Cfr. il cap. 5 per ulteriori approfondimenti. 46 di due fattori: nelle nazioni in cui l’istruzione obbligatoria era consolidata, cioè in quelle sviluppate, si riscontra una forte spinta ad allungarne la durata; nei Paesi in cui mancava l’istruzione obbligatoria o era prevista solo in linea di principio, si afferma la tendenza ad estenderne l’accesso o ad assicurarne il completamento. Il problema comunque non è solo quantitativo, ma anche qualitativo: il mo- dello esistente di educazione elementare risulta inadeguato. Anzitutto, esso è tale nelle aree rurali perché era stato pensato per le zone urbane. A loro volta i libri di testo appaiono del tutto insoddisfacenti perché nella maggior parte dei casi sono trasferiti dai Paesi colonizzatori a quelli in via di sviluppo senza alcun adattamento. 1.2. L’allargamento dell’accesso e il potenziamento della qualità (anni ’50-’70) I nuovi Stati indipendenti sono più disposti a dare priorità all’educazione che non quelli colonizzatori per cui si registra una espansione straordinaria nelle regioni meno sviluppate (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000). Le iscrizioni si quadruplicano quasi in Africa, mentre si triplicano in Asia/Oceania e in America Latina/Caribi. Quanto all’attuazione della obbligatorietà e della gratuità, i governi adottano un approccio pragmatico. Le conferenze regionali dell’UNESCO, pur raccoman- dando un’obbligatorietà di 6/7 anni, consentono che gli Stati possano cominciare con una durata più breve. A sua volta, la gratuità significa soltanto l’assenza di tasse di frequenza e spesso la fornitura gratuita dei libri di testo; inoltre, nelle regioni meno sviluppate le comunità locali partecipano alla costruzione e al mante- nimento delle scuole e questo comporta la richiesta di contributi ai genitori. Aumentano anche le esigenze riguardo al processo di insegnamento-apprendi- mento. L’educazione elementare deve offrire qualcosa in più delle abilità a leggere, a scrivere e a fare di conto. Inoltre, all’inizio degli anni ’60 l’istruzione primaria e la secondaria incominciano ad essere intese come fasi di un processo continuo da rendere disponibile a tutti. In terzo luogo, crescono le pressioni da parte dei gruppi sociali, soprattutto di quelli marginali, per un eguale trattamento e la non- discriminazione nell’educazione elementare. Da ultimo, la crescente consapevo- lezza della valenza economica dell’istruzione anche come investimento fa emergere la necessità di una sua pianificazione nazionale da integrare nella pianificazione economica. 1.3. La dimensione non formale Anche l’espansione degli anni ’50-’70 incontra problemi notevoli: – la mancanza di insegnanti qualificati, di libri di testo e di altri materiali didattici; – la tentazione di curare solo gli aspetti formali (fornire solo le sedi scolastiche) senza preoccuparsi di accrescere i livelli di apprendimento degli alunni; – la disoccupazione dei licenziati della scuola elementare che cercano lavori impiegatizi senza riuscire a trovarli; 47 – l’espansione lineare (quantitativa) del costoso e inefficace sistema scolare esistente che era stato pensato per delle élites e non per la massa (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000). Un dato nuovo degli anni ’70 è rappresentato dall’affermarsi dell’idea della società che apprende sotto la spinta del Rapporto Faure (1972). In altre parole, l’educazione non si identifica più con l’insegnamento ma con qualsiasi intervento, anche non formale, che possa soddisfare le esigenze di apprendimento delle persone. Più in particolare, essa comprende: – l’educazione formale: il sistema scolastico gerarchicamente strutturato e cronologicamente distribuito; – l’educazione non formale: ogni attività educativa organizzata al di fuori del sistema formale; – l’educazione informale: il processo attraverso il quale ogni individuo apprende dall’esperienza quotidiana. 1.4. Verso le esigenze basilari di apprendimento Nel 1973 una ricerca internazionale dell’ICED (International Council for Educational Development) sull’educazione non formale propone il concetto di “un minimo di apprendimento indispensabile” (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000). In concreto esso dà un contenuto pratico al diritto all’educazione dei bambini perché traduce tale diritto nell’idea di un bagaglio minimo di atteggia- menti, abilità e conoscenze di cui ogni giovane ha bisogno per vivere una vita adulta e soddisfacente. Al tempo stesso, non sono mancate critiche perché l’idea di un minimo sembra porre dei limiti al diritto all’educazione. Negli anni ’70 e ’80 si afferma l’espressione meno restrittiva di “esigenze basilari di apprendimento”, perché sta a significare una base e non un minimo. Essa viene adottata definitivamente dalla Conferenza mondiale sull’educazione per tutti (1990) insieme al concetto di educazione di base. A questo punto l’evoluzione si biforca tra educazione elementare ed educazione di base: tra le due si riscontra distinzione (la prima è solo formale e si conclude con cinque o sei anni di fre- quenza, mentre la seconda comprende non solo l’educazione formale, ma anche quella informale e non-formale e raggiunge il suo obiettivo solo quando riesce a formare nei ragazzi una buona base per affrontare la vita), ma anche unità perché l’educazione elementare è parte dell’educazione di base. 1.5. L’evoluzione recente dell’educazione elementare Nel periodo 1970-00 continua l’impegno per lo sviluppo dell’educazione pri- maria: – nella maggior parte delle regioni meno sviluppate crescono le percentuali delle iscrizioni e si stabilizza (o si riduce) il numero dei bambini non iscritti; 48 – l’unica eccezione è l’Africa “Subshariana” dove negli anni ’80 le percentuali delle iscrizioni rimangono stabili o calano e aumenta il numero dei bambini non iscritti; – inoltre, l’obiettivo di realizzare l’educazione primaria universale negli anni ’80 in Africa (fissato nel progetto di Adis Abeba) e in Asia meridionale (stabilito nel progetto di Karachi) non viene raggiunto (Rapporto mondiale sull’educa- zione 2000, 2000). La conferenza mondiale sull’educazione per tutti (Jomtien, 1990)4 rilancia l’obiettivo dell’educazione primaria universale per l’anno 2000 e, in questa maniera, contribuisce a bloccare la diminuzione delle percentuali di iscrizioni in Africa. Comunque, le sue proiezioni non prevedono mutamenti notevoli del nu- mero di bambini non iscritti in Africa, mentre essi dovrebbero diminuire nell’Asia Meridionale. In questo contesto, gli orientamenti generali circa le strategie dell’educazione primaria si possono sintetizzare nelle seguenti linee di azione: – adozione di curricoli e metodi meno teorici e più rilevanti rispetto al contesto ambientale e, per quanto riguarda i Paesi in via di sviluppo, meno dipendenti dall’impostazione seguita dai sistemi scolastici delle società più industrializzate; – realizzazione di un sistema di valutazione permanente dell’allievo; – introduzione e potenziamento dell’orientamento scolastico e professionale; – rafforzamento della formazione iniziale e in servizio dei docenti; – promozione della cooperazione con i genitori; – garanzia della continuità tra l’educazione prescolastica, l’istruzione primaria e la secondaria. Per quanto riguarda i programmi, va precisato che lo sviluppo curricolare degli ultimi anni è passato attraverso due fasi. La prima fase è caratterizzata dall’aggiunta di nuove materie ai programmi esi- stenti e, più in particolare, dalle seguenti tendenze: – introduzione dell’educazione ambientale; – anticipazione dell’insegnamento delle scienze naturali; – potenziamento dello studio della matematica, delle scienze fisiche, della tecno- logia e della pratica di laboratorio; – riconoscimento di un posto centrale nei programmi di matematica alla forma- zione alla capacità di ragionamento e alla trasmissione delle nozioni fonda- mentali di logica; – rafforzamento dell’educazione sanitaria e sessuale; – introduzione dell’educazione ai consumi; – anticipazione dell’insegnamento della seconda lingua; 4 Cfr. la sezione 1.2. 49 – inserimento nei curricoli di molti Paesi dell’educazione alla comprensione in- ternazionale. La seconda fase è contraddistinta dalla revisione globale dei curricoli. Si cerca di conciliare due esigenze: da una parte ridimensionare i programmi che erano di- venuti troppo pesanti ed enciclopedici e che non permettevano approfondimenti; dall’altra identificare i contenuti essenziali. In pratica sono stati adottati i seguenti orientamenti. 1) La scolarità obbligatoria viene allungata e si sposta una parte dei contenuti al 1° ciclo della secondaria. 2) Per quanto riguarda i contenuti essenziali, non è questione di offrire tutte le competenze necessarie e sufficienti per l’intero arco della vita, quanto piut- tosto di fornire gli atteggiamenti e le abilità di base fondanti che consentiranno alla persona di apprendere senza difficoltà in ogni nuova situazione. Più in par- ticolare si tratta: di saperi, quali la conoscenza dei fenomeni essenziali della vita e della società e delle loro interconnessioni, e non di cognizioni puntuali e fattuali; di determinati saper fare, cioè di abilità pratiche nel senso di strategie cognitive e della risoluzione dei problemi e di tecniche della comunicazione, del lavoro di gruppo e dell’apprendimento; di un saper essere consistente in at- teggiamenti rispondenti alle esigenze dell’ambiente, della società, dello Stato e della tecnologia. 3) Le materie essenziali da mantenersi nei programmi della scuola elementare sono in ordine di priorità le seguenti: - la lingua materna o la lingua principale di comunicazione; - la matematica, le scienze fisiche e naturali, con elementi di tecnologia; - le scienze umane (storia, geografia, educazione civica, elementi di economia, educazione ai diritti umani e alla comprensione internazionale, educazione morale); - l’educazione artistica e la pratica di laboratorio; - l’educazione fisica e l’espressione corporale; - l’anticipazione dello studio di una seconda lingua. Le tendenze in tema di metodi di insegnamento prevedono anzitutto il ricorso alle tecnologie educative, antiche e nuove (radio, registratore, montaggi audiovi- sivi, TV, computer), e sollecitano a realizzare un equilibrio fecondo tra le TIC e l’insegnamento tradizionale. Inoltre, è necessario avviare gli alunni ad uno studio indipendente e personale, l’interdisciplinarità va potenziata, e bisogna adottare un metodo induttivo come anche procedere alla personalizzazione dei processi di inse- gnamento-apprendimento. In terzo luogo i metodi di valutazione vanno profonda- mente rinnovati nel senso che: le verifiche del profitto devono assumere un carat- tere più continuativo, basarsi sul confronto tra gli obiettivi propri di ciascuno stu- dente e il suo apprendimento, utilizzare i risultati non solo per giudicare il profitto 50 dell’allievo, ma soprattutto per aiutarlo a superare le eventuali carenze e a delineare i percorsi individuali e relazionarsi con l’orientamento scolastico e professionale. 2. L’EDUCAZIONE DI BASE: JOMTIEN E DAKAR Per rendere più facile la comprensione di questa importante evoluzione recente nel campo dell’educazione elementare presenterà i due eventi separatamente. 2.1. La Conferenza mondiale sull’educazione per tutti (Jomtien, 1990) Globalmente si caratterizza per i seguenti aspetti (Conferénce mondiale sur l’éducation pour tous, 1990; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000). Il punto di partenza è la constatazione di un rallentamento delle iscrizioni alla scuola, soprattutto elementare, durante gli anni ’80 in parecchie aree del mondo. In posi- tivo, le conclusioni dell’incontro affermano l’importanza centrale di assicurare a tutti un’educazione di base e sottolineano che l’educazione non può consistere semplicemente nella frequenza di una scuola, ma deve portare a un apprendimento reale ed efficace. Sul piano concreto la conferenza ha approvato una “Dichiara- zione Mondiale sull’educazione per tutti” e un “Quadro di azione” sulla cui base a ogni governo è stato richiesto di definire un programma fattibile di interventi. Secondo la Dichiarazione Mondiale sull’educazione per tutti ogni persona ha diritto di ricevere una formazione che risponda alle sue esigenze basilari di appren- dimento. Queste comprendono: – «gli strumenti essenziali di apprendimento (lettura, scrittura, espressione orale, calcolo, risoluzione dei problemi); – i contenuti educativi fondamentali (conoscenze, attitudini, valori e atteggia- menti); – di cui la persona ha bisogno per: - sopravvivere; - sviluppare tutte le sue facoltà; - vivere e lavorare con dignità; - partecipare pienamente allo sviluppo; - migliorare la qualità della sua esistenza; - prendere delle decisioni sagge; - continuare ad apprendere» (Conferénce mondiale sur l’éducation pour tous, 1990, 47). Di conseguenza, l’educazione di base conferisce a tutti la capacità e la conse- guente responsabilità di: – «rispettare e far fruttificare il patrimonio culturale, linguistico e spirituale co- mune; – promuovere l’educazione degli altri; 51 – difendere la causa della giustizia sociale; – proteggere l’ambiente; – mostrarsi tolleranti verso i sistemi sociali, politici o religiosi differenti dai propri; – vigilare sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo; – operare per la pace e la solidarietà internazionale» (Ibidem). Per rispondere alle esigenze basilari di apprendimento di tutti, si richiede un approccio strategico più ampio che vada al di là dei sistemi classici di formazione per valorizzare il meglio della pratica attuale. Pertanto, esso dovrà comprendere i seguenti orientamenti generali: – universalizzare l’accesso all’educazione di base e promuovere l’equità; – mettere l’accento sulla riuscita dell’apprendimento più che sulla frequenza for- male di una scuola; – allargare i mezzi e il campo dell’educazione di base, comprendendo quelli non formali e quelli informali; – migliorare il contesto dell’apprendimento (curricoli, metodologie, personale, organizzazione, attrezzature, edifici); – rinforzare i “partenariati”, cioè le forme di collaborazione (Conferénce mon- diale sur l’éducation pour tous, 1990). Tutti i bambini, gli adolescenti e gli adulti devono poter accedere alla educa- zione di base. Più in particolare ciò significa: – «offrire la possibilità di raggiungere un livello soddisfacente di istruzione e di conservarlo nel tempo; – garantire la priorità nell’accesso alle donne; – impegnarsi attivamente per eliminare le disparità educative di cui soffrono alcuni gruppi sociali; – assicurare un’attenzione speciale alle esigenze di apprendimento degli handi- cappati» (Conferénce mondiale sur l’éducation pour tous, 1990, 47). A sua volta, il Quadro di azione invita i Paesi a fissare i loro obiettivi per gli anni ’90, tenendo conto delle seguenti indicazioni: – «espansione dei servizi di protezione e sviluppo per la prima infanzia; – universalizzazione dell’accesso e del completamento dell’educazione primaria entro il 2000; – miglioramento dei risultati dell’apprendimento, fissando degli indicatori pre- cisi; – riduzione del tasso di analfabetismo degli adulti, suggerendo di portarlo alla metà di quello degli anni ’90; – espansione dei servizi dell’educazione di base e della formazione di altre com- petenze essenziali, destinati ai giovani e agli adulti; 52 – crescita nell’acquisizione da parte di individui e famiglie delle conoscenze, competenze e valori necessari per una vita migliore e per uno sviluppo sosteni- bile» (Conferénce mondiale sur l’éducation pour tous, 1990, 47). Inoltre, a livello centrale viene istituito presso l’UNESCO il Forum dell’Educa- zione per Tutti con il compito di monitorare il progresso dei Paesi, di promuovere l’educazione per tutti e di sviluppare la cooperazione fra tutte le parti interessate. 2.2. Il Forum Mondiale sull’Educazione (Dakar, 2000) L’incontro, che ha costituito l’evento terminale del decennio dell’“Educazione per tutti”, ha avuto come meta fondamentale quella di offrire un contributo decisivo ai fini di realizzare il diritto di tutti all’educazione (Forum mondial sur l’éducation, 2000; Osttveits, 2000; Goldstein, 2004; Abadzi, 2004; Mundy, 2006). Esso ha po- tuto contare su dati validi e sulla collaborazione efficace delle istanze interessate e ciò ha permesso di avanzare una serie di conclusioni rilevanti per il futuro dell’edu- cazione di base. In proposito va subito osservato che nel complesso le indicazioni del Forum non permettono facili ottimismi sulle prospettive; questo tuttavia non dovrebbe portare al pessimismo, alla passività o alla inazione, ma piuttosto costi- tuire una sollecitazione a rinnovare gli impegni presi ed ad agire in maniera urgente e più efficace. Sul piano concreto il Forum ha approvato un “Quadro di Azione” sulla cui base è stato richiesto a ogni governo di continuare i suoi sforzi per realiz- zare l’educazione di base per tutti secondo un programma fattibile di interventi. Una tematica centrale del Forum è consistita nel bilancio del decennio 1990- 2000. Globalmente, se da una parte non si possono negare i progressi compiuti, resta comunque ancora molto (troppo) da fare. Nessuno degli obiettivi stabiliti nel 1990 è stato integralmente realizzato, soprattutto quello della universalizzazione dell’educazione primaria nel 2000. Tuttavia, molti Paesi hanno preso provvedi- menti seri per realizzare Jomtien. Sul lato positivo, va riconosciuto che in parecchie nazioni in via di sviluppo il livello di istruzione è notevolmente cresciuto, mentre continua a diminuire la proporzione di adulti analfabeti. Più in particolare: – aumenta il numero dei bambini scolarizzati che è passato da 599 milioni nel 1990 a 681 nel 1998, con una crescita di 10 milioni all’anno, il doppio cioè dell’aumento annuale del periodo 1980-90. Le regioni dell’Asia Orientale e del Pacifico e quelle dell’America Latina/Caraibi hanno quasi raggiunto il tra- guardo della universalizzazione della primaria; a loro volta la Cina e l’India hanno fatto passi da giganti; – è cresciuta anche l’educazione della prima infanzia con un aumento del tasso di scolarizzazione del 5% nel decennio; – al tempo stesso è diminuito il numero di bambini non scolarizzati, che calano da 127 milioni a 113 tra il 1990 e il 1998, anche se in alcuni paesi dell’Africa 53 “Subsahariana” la crescita demografica impedisce una diminuzione significa- tiva di tale numero; – è cresciuto il numero degli adulti alfabeti da 2,7 a 3,3 miliardi; – si sono ridotte alcune disparità come quelle tra i sessi, i gruppi etnici, e la posi- zione geografica; – l’esplosione delle TIC ha messo a disposizione di milioni di persone opportu- nità enormi di apprendimento. Anche se i progressi sono innegabili, tuttavia le carenze continuano ad essere eccessive e gravi. – I bambini non scolarizzati ammontano a più di 110 milioni. – Gli adulti analfabeti toccano gli 880 milioni e da 10 anni i due terzi sono donne. – La distribuzione dell’educazione prescolastica nel mondo è molto diseguale. – Nonostante i miglioramenti, permangono disparità quantitative elevate a svan- taggio delle donne (due terzi degli analfabeti e dei bambini non scolarizzati di età 6-11 anni). Inoltre, si osservano gravi diseguaglianze nella qualità della educazione che ri- guardano: - le comunità povere, rurali o isolate, le minoranze etniche e le popolazioni in- digene; - l’Asia Meridionale e l’Africa “Subsahariana” dove meno di 3 bambini su 4 raggiungono il quinto anno della primaria; - le nazioni meno sviluppate dove molti lasciano dopo il 1° o il 2° anno; - un tasso elevato di alunni della primaria nei Caraibi e della secondaria nei paesi sviluppati che abbandona la scuole e presenta un basso livello di apprendimento. – 250 milioni di bambini lavora in condizioni pericolose e insalubri. – Uno scarto enorme si riscontra tra quanti hanno accesso alle TIC e quanti non lo hanno. Il Quadro di Azione approvato a Dakar costituisce un impegno collettivo coor- dinato dei governi ad agire per realizzare le finalità e gli obiettivi dell’educazione per tutti. In primo luogo, esso fornisce una definizione delle strategie da attivare a livello nazionale, regionale e internazionale per conseguire tali mete. Inoltre, precisa gli obiettivi da raggiungere nelle prime decadi del terzo millennio. 1) Sviluppare e migliorare l’educazione per la prima infanzia con particolare attenzione ai bambini più svantaggiati. In proposito vengono suggerite due strategie specifiche: sensibilizzare le parti interessate all’importanza dell’edu- cazione prescolastica con una molteplicità di azioni, soprattutto intersettoriali, in particolare promuovendo l’alfabetizzazione funzionale dei genitori; inclu- dere nei programmi le bambine alla pari con i maschi e gli handicappati. 54 2) Assicurare entro il 2015 l’universalizzazione di un’educazione primaria obbli- gatoria e gratuita di qualità e la possibilità di frequentarla sino al termine a tutti i bambini, e in particolare alle bambine, ai bambini in difficoltà e a quelli delle minoranze etniche. Per raggiungere questo obiettivo il Quadro di Azione di Dakar propone una serie di interventi: raccomandare ai governi di garantire effettivamente la gratuità; diminuire le distanze tra le abitazioni e le scuole; rea- lizzare una pianificazione decentrata; coinvolgere le comunità nell’organizza- zione delle scuole; cancellare il debito estero dei Paesi per liberare risorse per l’educazione primaria; promuovere la domanda di scolarizzazione da parte delle famiglie; realizzare l’integrazione degli handicappati nella scuola ordinaria. 3) Rispondere ai bisogni educativi di tutti i giovani e di tutti gli adulti, garantendo un accesso equo a programmi capaci di assicurare l’acquisizione delle cono- scenze e delle competenze necessarie per la vita quotidiana. 4) Ridurre della metà entro il 2015 i tassi di analfabetismo degli adulti, in parti- colare delle donne, e assicurare a tutti gli adulti un accesso equo ai programmi di educazione di base e permanente. 5) Eliminare entro il 2005 le diseguaglianze tra i sessi nell’educazione primaria e secondaria e realizzare entro il 2015 l’eguaglianza anche sul piano qualitativo. A questo proposito vengono suggerite le seguenti strategie specifiche: creare dei contesti educativi che favoriscano l’educazione delle ragazze; combattere nell’opinione pubblica e, in particolare, tra i genitori gli stereotipi che indu- cono a privare le ragazze di un’educazione di base; allargare il concetto di qua- lità dell’educazione in modo da includere quelli di educazione “favorevole alle ragazze” e di educazione attenta all’eguaglianza tra i sessi; rendere le scuole ambienti sicuri per le alunne; promuovere l’accesso delle donne ai corsi di scienze e di tecnologia, alla formazione professionale e agli studi superiori. 6) Migliorare sotto tutti gli aspetti la qualità dell’educazione, cercando anzi di puntare all’eccellenza in modo da ottenere per tutti risultati di apprendimento riconosciuti e quantificabili (in particolare riguardo alla lettura, alla scrittura, al calcolo e alle competenze indispensabili nella vita quotidiana). A tale fine il Quadro di Azione di Dakar raccomanda una serie di interventi quali: focaliz- zare l’insegnamento sulla risoluzione dei problemi; utilizzare forme di appren- dimento più interattive e basate sul metodo della ricerca, facendo ricorso alle TIC; formare all’apprendimento per tutta la vita; rinforzare l’educazione alla pace, alla tolleranza e al rispetto dei diritti dell’uomo; diffondere una cultura della valutazione. Per raggiungere gli obiettivi elencati sopra, viene suggerito un certo numero di strategie generali oltre a quelle specifiche, illustrate sopra. 1) Suscitare, a livello nazionale e internazionale, un forte impegno politico in favore dell’educazione per tutti, definire piani d’azione nazionali e aumentare sensibilmente gli investimenti nell’educazione di base. 55 2) Promuovere politiche di educazione per tutti nel quadro di un’azione settoriale durevole e ben integrata che al tempo stesso sia articolata strettamente con le strategie di eliminazione della povertà e dello sviluppo. 3) Creare dei sistemi di gestione e di governo dell’educazione che siano capaci di reagire alle provocazioni interne ed esterne e che siano anche partecipativi e valutabili. 4) Garantire un coinvolgimento attivo della società civile nella formulazione, messa in opera e verifica delle strategie di sviluppo dell’educazione. 5) Rispondere ai bisogni dei sistemi educativi che si trovano in difficoltà a motivo di conflitti, di catastrofi naturali e di situazioni di instabilità e condurre i programmi educativi secondo metodi tali da promuovere la pace, la compren- sione mutua e la tolleranza e da prevenire la violenza e i conflitti. 6) Realizzare con urgenza interventi educativi per lottare contro la pandemia del- l’aids. 7) Creare un ambiente educativo sano, sicuro, inclusivo e dotato di risorse ade- guate che favorisca l’eccellenza dell’apprendimento e conduca a livelli di acquisizione chiaramente definiti per tutti. 8) Migliorare la condizione, le motivazioni e la professionalità degli insegnanti. 9) Mettere le TIC al servizio della realizzazione degli obiettivi dell’educazione per tutti. 10) Assicurare un monitoraggio sistematico dei progressi compiuti nella realizza- zione degli obiettivi e delle strategie dell’educazione per tutti. 11) Rinforzare i meccanismi esistenti per far avanzare più rapidamente l’educa- zione per tutti. 3. L’EDUCAZIONE PER LA PRIMA INFANZIA Anche in questo caso, dopo aver descritto nelle linee generali la situazione attuale, si passerà a esaminare i singoli aspetti di questo livello del sistema educa- tivo di istruzione e di formazione. 3.1. Il quadro generale La definizione di educazione per la prima infanzia ha subito nel tempo un am- pliamento importante (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Blondel, Delors et alii, 1998; Delors et alii, 1996; Katz e Mohanty, 1985; Mialaret, 1976). La durata si è estesa fino a comprendere la fascia di età da 0 anni fino alle elemen- tari, mentre prima abbracciava solo il gruppo 4-6 anni; i contenuti non sono limitati agli aspetti cognitivi, ma riguardano lo sviluppo globale della personalità, com- prensivo delle componenti biologiche, igieniche, nutrizionali, motorie, affettive e verbali; inoltre, essa ormai costituisce un livello a sé stante del sistema formativo e non va più considerata come una semplice preparazione alla scuola primaria. 56 L’educazione per la prima infanzia non è menzionata nella dichiarazione uni- versale dei diritti dell’uomo né nelle relative convenzioni in quanto è stata sempre considerata un ambito che coinvolge primariamente la famiglia. Al tempo stesso va sottolineato che fin dalla conferenza di Jomtien (1990) l’educazione di base è stata interpretata nel senso di includere l’educazione per la prima infanzia. Questa è rivolta a soddisfare le esigenze basilari di apprendimento dei bambini più piccoli prima che raggiungano l’età richiesta per la frequenza della scuola primaria. La rilevante crescita quantitativa che si è verificata a livello internazionale degli ultimi decenni è stata il frutto di dinamiche sociali più che di un impegno a realizzare il diritto all’educazione. Le iscrizioni sono notevolmente aumentate in molte nazioni: per esempio nei Paesi sviluppati si sono quasi raddoppiate tra il 1970 e il 1997, passando dal 40 al 70% del gruppo di età corrispondente. Tuttavia, i tassi di scolarizzazione rimangono bassi nelle regioni meno sviluppate, particolarmente nell’Africa “Subsahariana”, nell’Asia Meridionale e negli Stati Arabi; inoltre, essi variano notevolmente all’interno delle singole aree. In conclusione, l’educazione per la prima infanzia è ancora poco sviluppata nella maggior parte dei Paesi del mondo e, anche dove quasi tutti i bambini vi sono iscritti, sono possibili ulteriori progressi. Il riconoscimento dell’importanza della prima infanzia per lo sviluppo succes- sivo del bambino non è un fatto recente, ma risale già al rapporto Faure (1972) e il rapporto Delors (1996) ha confermato pienamente tale orientamento che cioè l’edu- cazione per la prima infanzia è il presupposto essenziale di ogni politica educativa e costituisce uno degli obiettivi prioritari per i sistemi formativi all’inizio del secolo XXI. In proposito le ragioni sono molteplici. L’esplosione demografica nella fascia d’età interessata ha dato impulso agli interventi per la cura e la protezione dei bambini. La questione però non è solo quantitativa, ma soprattutto qualitativa: l’in- fanzia è decisiva per lo sviluppo integrale della persona in quanto è la fase della vita in cui la persona è più plasmabile e le differenze tra gli individui sono minori; inoltre, la frequenza dell’educazione per la prima infanzia rende i bambini meglio disposti verso la scuola per cui tra l’altro sono meno esposti al pericolo di abbando- narla prematuramente e aiuta a superare con più facilità gli ostacoli socio-econo- mici e culturali derivanti da un’origine familiare svantaggiata. Né bisogna dimenti- care che la presenza di offerte numerose ed efficaci a questo livello del sistema educativo facilita la partecipazione delle donne alla vita sociale e politica. 3.2. Lo statuto giuridico e il finanziamento Quanto allo statuto giuridico, si riscontra una grande varietà di situazioni. In ogni caso, si possono distinguere quattro categorie di istituzioni. – Nazionali: sono collocate su tutto il territorio nazionale e dipendono da un ministero; – Locali: rientrano nell’amministrazione regionale, provinciale o comunale; 57 – Private: sono istituite da singoli o gruppi e in particolare da organizzazioni e da istituzioni religiose; – Miste: la gestione è privata, ma sono finanziate con denaro pubblico e pertanto sono sottoposte a controllo pubblico (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Delors et alii, 1996; Katz e Mohanty, 1985; Mialaret, 1976). Fra i due estremi del finanziamento totalmente pubblico o totalmente privato, la grande maggioranza delle situazioni si colloca un continuum di formule miste. Di solito l’educazione per la prima infanzia dispone di minore risorse rispetto agli altri livelli del sistema formativo. 3.3. I bambini Alla fine della Sessione speciale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del maggio 2002 gli Stati membri dell’Onu si sono dati un programma dal titolo “Un mondo a misura di bambino” (Unicef, 2007). Nel documento conclusivo sono stati fissati gli obiettivi da raggiungere entro il 2010 negli ambiti fondamentali del benessere e dello sviluppo infantile. Il monitoraggio annuale del cammino compiuto viene assicurato dall’Unicef e nel prosieguo cercherò di richiamare i dati più significativi dell’ultimo rapporto per offrire una panoramica della condizione attuale dei bambini nel mondo.5 La finalità di promuovere una vita sana segna nel 2006 il raggiungimento di una meta molto rilevante: per la prima volta la quota dei bambini che muoiono prima dei cinque anni si è portata al di sotto della cifra di dieci milioni. Il rapporto considera questo risultato una pietra miliare e senz’altro possiamo concordare con tale giudizio, anche se la soglia di 9,7 milioni di bambini che non superano i cinque anni di vita appare ancora molto elevata, uno scandalo quasi. Progressi sono stati osservati anche in vari interventi chiave per la sopravvivenza infantile e ciò po- trebbe comportare nei prossimi anni un miglioramento nei tassi di mortalità. Al contrario, la mortalità materna non registra un analoga diminuzione; comunque, in positivo va segnalato che è cresciuta la copertura dell’assistenza prenatale e di quella qualificata al parto. Un aumento significativo si osserva anche a proposito del numero delle persone che hanno avuto accesso a fonti migliorate di acqua pota- bile che però rimangono limitate a 1,2 miliardi. Quanto all’obiettivo di fornire un’istruzione di qualità, l’ultimo monitoraggio dell’Unicef pone in risalto la realizzazione di miglioramenti rilevanti (2007). Un primo segnale è offerto dalle disparità di genere che tra il 1999 e il 2005 tendono a scomparire. Inoltre, molti Paesi si stanno approssimando al traguardo dell’istru- zione primaria universale; tuttavia, fanno eccezione alcune regioni del mondo tra 5 Benché il programma riguardi anche la fascia di età della scuola primaria, tuttavia esso tratta prevalentemente dei bambini del periodo prescolare. In ogni caso i dati del progetto vanno tenuti in considerazione in tutto il capitolo come lo scenario di fondo che contestualizza i nostri destinatari. 58 cui l’Africa “Subsahriana”, l’Asia meridionale, il Medio Oriente e il Nord Africa. Va anche segnalato che i Paesi ormai prossimi alla realizzazione della universaliz- zazione dell’istruzione primaria trovano generalmente grandi difficoltà nel coinvol- gere l’ultimo 10% dei bambini che ancora non frequentano la scuola. Un’altra criti- cità su cui richiamare l’attenzione è la presenza consistente (1 su 6) nella primaria di ragazzi in età di scuola secondaria perché sono andati a scuola in ritardo o sono ripetenti; il dato costituisce un serio problema nel senso che questi alunni tolgono posti a bambini in età della primaria che pertanto non la possono frequentare; inoltre, esso pone chiaramente in evidenza le carenze dei sistemi educativi che pro- vocano una così alta percentuale di percorsi irregolari. Un altro progresso da segnalare in questo ambito si riferisce al calo tra il 2002 e il 2006 del numero dei bambini in età scolare che non frequentano la scuola: si è infatti scesi da 115 a 93 milioni (Unicef, 2007). Comunque, il dato è solo relativa- mente positivo in quanto la cifra di 93 milioni continua a rimanere troppo elevata. Se poi si passa a considerare le singole regioni del mondo si scopre che l’Africa “Subsahariana” si distingue per il triste primato di ben 41 milioni di bambini nella situazione denunciata e che l’Asia meridionale è seconda con la cifra di 31,5 mi- lioni. Ad aggravare il panorama si aggiunge l’andamento secondo il quale la proba- bilità di frequentare la scuola primaria risulta più bassa tra i bambini provenienti dalle famiglie più povere (65% contro l’88% dei figli di famiglie appartenenti al 20% più ricco del Paese). Accenno soltanto agli ultimi due obiettivi del programma “Un mondo a misura di bambino” non perché non siano importanti, ma perché appaiono meno centrali al discorso che sto portando avanti in questo capitolo che è focalizzato prevalente- mente sulla dimensione educativa (Unicef, 2007). Nella lotta contro l’HIV (virus dell’immunodeficienza umana) e l’AIDS, si registrano progressi quanto alla corretta informazione del mondo dei minori, benché non in misura soddisfacente; lo stesso andamento si riscontra riguardo ai livelli di diffusione dei servizi di prevenzione della trasmissione da madre a figlio e dell’assistenza pediatrica. La finalità di pro- teggere da abusi, sfruttamento e violenza vede ancora 51 milioni di bambini nati nel 2006 che non sono stati registrati alla nascita, anche se miglioramenti significativi sono stati realizzati in vari Paesi come la Cambogia, il Gambia e il Vietnam. Inoltre, ben 158 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni sono oggetto di sfruttamento nel lavoro minorile. Fortunatamente la pratica sia della mutilazione genitale femminile sia dei matrimoni precoci registra un calo costante benché ancora piuttosto lento. Dopo aver richiamato i progressi compiuti nella condizione dei bambini, pro- gressi che sono relativi, in quanto le criticità rimangono elevate anche dove si è registrato un miglioramento, e che risultano spesso lenti e insoddisfacenti, concen- trerò l’attenzione, sempre in maniera sintetica, sulle sfide dell’emarginazione e dello sfruttamento giovanile nel mondo (Chávez Villanueva, 2002). La lista è lunga: si può cominciare dai ragazzi di strada che cioè hanno scelto la strada come dimora abituale, tanto era disastrata la loro condizione familiare e che, condannati 59 alla povertà materiale, affettiva e sociale in una situazione senza presente né futuro, sono destinati ad alimentare il crimine, la tossicodipendenza e il narcotraffico; il loro numero è veramente enorme, quasi 100 milioni nel mondo. In secondo luogo vanno ricordati i circa 300 mila ragazzi soldato che vengono utilizzati senza alcun addestramento militare in attività di guerra particolarmente pericolose come ad esempio fare da cavie per bonificare i campi minati. I ragazzi violati sono quelli oggetto di sfruttamento sessuale e ogni anno circa un milione è inserito in questo turpe mercato. Va anche richiamato il problema dei ragazzi lavoratori, impiegati come operai in condizioni inumane, talora di vera e propria schiavitù, e i ragazzi “nessuno” che, non essendo registrati in nessuna anagrafe, sono senza nome, geni- tori, casa, patria. I ragazzi carcerati che solo negli Stati Uniti raggiungono la cifra di 100 mila, sia che si risiedano in riformatori per minorenni, sia che si trovano in un carcere comune, quasi mai escono migliori dalla situazione di detenzione. E la lista continua con 4 milioni tra donne e ragazzi coinvolti nel traffico di or- gani e di 6 milioni di bambini mutilati per ragioni varie. La cifra dei bambini che vivono al di sotto della soglia della povertà è enorme in quanto tocca i 600 milioni a cui si aggiungono i 160 di denutriti e i 6 che ogni anno muoiono di fame. I ra- gazzi che, per sfuggire alla polizia o a bande più forti di giovani, vivono nelle fogne sarebbero ben 12 milioni nel mondo. Prima si è parlato della lotta contro l’HIV e l’Aids e qui si può dire che il numero dei ragazzi colpiti da queste malattie ammonterebbe nel mondo a 11 milioni; inoltre, con essi vanno contati tutti gli altri ragazzi che sono stati raggiunti da malattie pericolose. A loro volta i bambini pro- fughi e/o rifugiati ammontano a 50 milioni e anche il numero degli orfani è altis- simo, se si pensa che quelli causati dall’Aids sono solo in Africa 13 milioni. Passando a trattare di problemi più strettamente scolastici, gli studi recenti sullo sviluppo del bambino hanno consentito una migliore conoscenza dei suoi processi di apprendimento e richiedono di conseguenza un rinnovamento profondo dell’educa- zione della prima infanzia e di base per integrare all’interno i risultati principali del- l’investigazione pedagogica (Malizia, 1989; Mialaret, 1976; Katz e Mohanty, 1985; Delors et alii, 1996; Blondel, Delors et alii, 1998; Rapporto mondiale sull’educa- zione 2000, 2000). In proposito va ricordato che fino a tutti gli anni ’60 il mondo della ricerca educativa e della psicologia evolutiva era diviso tra la corrente tradizio- nalista e quella progressista: la prima esaltava il ruolo centrale dell’insegnante nei processi di apprendimento degli alunni, mentre la seconda sottolineava l’attività dell’alunno e la concepiva come un processo naturale e universale che seguiva un ordine stabilito che l’educazione poteva solo riconoscere, ma non modificare. A partire dagli anni ’70 alla contrapposizione si è sostituita una serie di con- vergenze. L’affermarsi dell’approccio interazionista ha creato un consenso sull’as- sunto secondo il quale i modi con cui il bambino interagisce con il contesto sociale incidono non solo sul suo sviluppo psico-affettivo, ma anche su quello cognitivo: di conseguenza quest’ultimo viene concepito principalmente come un processo di comunicazione. Inoltre, in seguito alla diffusione delle posizioni neo-behavioriste e 60 meta-cognitiviste si ritiene comunemente che lo sviluppo delle proprie competenze dipenda non solo dall’allargamento delle conoscenze e da una loro strutturazione più valida, ma anche dall’apprendimento di strategie meta-cognitive e dalla capa- cità di utilizzarle in modo efficace. In sostanza, gli approcci più recenti, oltre a con- sentire il superamento delle divergenze del passato, hanno evidenziato la rilevanza dei processi di interazione e di comunicazione e, quindi, la fecondità di uno studio più approfondito dei fattori psico-emotivi e sociali specifici dell’ambiente classe e dalle varie forme di collaborazione tra la scuola e la famiglia. In altre parole l’ap- prendimento va considerato soprattutto come il risultato delle interazioni sociali e relazionali che si verificano nella classe e non solo dello stile di insegnamento del docente o dell’attività dell’allievo. Nel quadro dei nuovi orientamenti della ricerca educativa vanno tenuti partico- larmente presenti i risultati degli studi circa l’influsso dello sviluppo psico-affettivo sui processi cognitivi. Così, la consapevolezza della propria incapacità esercite- rebbe un impatto negativo sulla motivazione. In secondo luogo, la percezione di sé come soggetto poco dotato tenderebbe ad abbassare il livello delle proprie presta- zioni e più in generale diminuirebbe le possibilità di successo. Inoltre, il senso di essere poco efficace può sviluppare atteggiamenti di difesa che possono arrivare fino a scatenare reazioni fobiche. In aggiunta, la tendenza generale della persona a trovare un legame di causalità tra l’insuccesso e il senso di incapacità e di impo- tenza potrebbe ingenerare sentimenti di angoscia. La ricerca ha riscontrato una dipendenza molto forte dei processi cognitivi del bambino dal contesto in cui vive. Questi impara solo gradualmente a trascendere la propria situazione ed esperienza per accogliere le posizioni degli altri o per inte- grare nuove informazioni nel suo quadro concettuale. Pertanto, una delle funzioni principali dell’educazione di base e degli insegnanti consiste nell’aiutare il bam- bino ad elevarsi a forme di pensiero indipendente, fornendo le necessarie condi- zioni quali forme di tutorato e il lavoro di gruppo. La riuscita scolastica sarebbe condizionata non solo dall’acquisizione dei ne- cessari contenuti (saperi e abilità), ma anche dal possesso di strategie (attitudini o stili di apprendimento) e dalla capacità di impiegarle rapidamente e di aggiornarle. Gli stili di apprendimento comprenderebbero i meccanismi di anticipazione e di pianificazione e la capacità di autovalutarsi, di utilizzare le informazioni e di ser- virsi delle verifiche fornite dall’ambiente. Essi vengono acquisiti per trasmissione da parte dei mediatori culturali quali i genitori, gli insegnanti e gli amici. Se la fa- miglia non è in grado di svolgere tale mediazione, il bambino è destinato a incon- trare a scuola problemi di apprendimento, perché manca degli strumenti per deco- dificare le regole di comportamento tipiche dell’ambiente scuola. Mentre nel passato si riteneva che l’apprendimento dei bambini dipendesse so- prattutto dall’azione del contesto esterno, ora si pensa che il fattore più importante consista nel desiderio personale di imparare. Lo sviluppo della capacità di affron- tare i conflitti cognitivi originati dall’ambiente naturale e sociale e di elaborare 61 nuove soluzioni è condizionato dalla partecipazione ad esperienze positive nelle re- lazioni con le persone significative del proprio contesto. In particolare sembra deci- sivo un atteggiamento esigente a cui si aggiunge la fiducia nella possibilità del bambino di riuscire. 3.4. Finalità dell’educazione per la prima infanzia Si possono articolare in 3 aree principali (Mialaret, 1976; Katz e Mohanty, 1985; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Blondel, Delors et alii, 1998; Delors et alii, 1996). Incomincio con l’area socio-educativa che comprende sostanzialmente le seguenti finalità: 1) la custodia dei bambini. Si tratta di quelli che non possono essere seguiti dai ge- nitori e che lasciati da soli sarebbero esposti a pericoli gravi sia fisici sia morali. È la finalità che storicamente ha determinato l’istituzione delle prime scuole materne e che ancora adesso in certi Paesi rappresenta la finalità principale; 2) lo sviluppo della socialità. La famiglia non è in grado da sola di assicurare un ambiente adeguato allo sviluppo del bambino almeno dopo il compimento del terzo anno di età e lo sviluppo del bambino richiede l’incontro con l’adulto al di fuori del gruppo familiare e la conoscenza dei coetanei. L’educazione per la prima infanzia dovrebbe creare l’ambiente favorevole per l’allargamento del- l’orizzonte sociale del bambino; 3) lo sviluppo del linguaggio. Questo costituisce uno strumento essenziale per la riuscita scolastica e sociale dell’individuo. Come si sa, la diversità di origine sociale porta a una differente padronanza del linguaggio scolastico; per evitare che le diseguaglianze nella condizione familiare si traducano in una disparità di opportunità formative, l’educazione per la prima infanzia dovrebbe aiutare i bambini dei gruppi svantaggiati a colmare lo scarto che li separa sul piano lin- guistico dai coetanei di origine sociale più elevata e ciò avrebbe maggiori pro- babilità di successo perché l’intervento educativo avverrebbe quando il divario è minore; 4) la formazione sociale alle tappe successive della scolarità. Il successo nel pro- sieguo degli studi dipende anche dalla abitudini sociali dell’alunno, cioè dalla sua capacità di adattarsi rapidamente alle caratteristiche dei diversi livelli sco- lastici; 5) la preparazione ad affrontare il mondo artificiale della tecnica. Questo come anche l’ambiente esterno sempre più virtuale nel quale viviamo richiedono lo sviluppo dei meccanismi necessari per superare i possibili rischi. A sua volta l’area psico-educativa abbraccia grosso modo le seguenti mete: 1) lo sviluppo di tutti i canali di comunicazione del bambino con il mondo esterno. Quando si viene al mondo, ognuno è dotato di un ampio ventaglio di grandi potenzialità che vanno aiutate a maturare gradualmente; 62 2) più in particolare, lo sviluppo dei canali di recezione dei messaggi dal mondo esterno. Bisogna potenziare tutti gli organi sensoriali in modo da aiutare il bambino con opportuni esercizi (non certamente con lezioni) a cogliere tutti i significati (non solo cognitivi, ma anche emotivi) dei messaggi che riceve dall’ambiente; 3) lo sviluppo dei canali di espressione di se stesso verso il mondo esterno in modo che il bambino possa manifestarsi in maniera comprensibile agli altri. In particolare si deve: - offrire al bambino la possibilità di comunicare mediante il corpo in modo tuttavia da conciliare due esigenze: assicurare la rispondenza tra i gesti e i contenuti ed evitare lo spontaneismo assoluto. Questo orientamento si basa sul principio pedagogico che l’azione è la condizione indispensabile, anche se non sufficiente, dello sviluppo del pensiero; - esercitare il bambino nell’espressione grafica in quanto questo contribuisce in maniera rilevante alla sua crescita sul piano emotivo, cognitivo e della motricità; - formare nel bambino le capacità di espressione sonora. Non si tratta sempli- cemente di insegnare qualche canto, ma di iniziare l’allievo a servirsi di tutta la gamma dei messaggi sonori; - favorire l’acquisizione da parte del bambino di capacità di utilizzare il linguaggio con facilità e correttezza; - far emergere nel bambino lo spirito di iniziativa, di ricerca e di scoperta. La scuola non è più in grado di fornire in antecedenza tutte le risposte ai pro- blemi della vita adulta, dati i ritmi rapidi di cambiamento che caratterizzano la nostra società. Di conseguenza, la persona va avviata presto sulla via del- l’autonomia. La terza area riguarda la rieducazione, la compensazione e la correzione e l’educazione per la prima infanzia ha una importanza fondamentale per la realizza- zione di tali obiettivi. Infatti, più presto viene individuato un difetto nello sviluppo della persona e più facile e rapida può essere la correzione. Inoltre, la scuola del- l’infanzia è caratterizzata dalla prevalenza di attività spontanee e libere e quindi costituisce un luogo privilegiato per l’osservazione del bambino e per la scoperta di eventuali handicap. Pertanto, nei suoi confronti sono più facili e più rapide l’os- servazione e la correzione. Se si vuole provvedere a tutti gli aspetti dello sviluppo del bambino elencati sopra, sarà necessario che i relativi obiettivi siano seriamente perseguiti da tutti gli operatori dell’educazione della prima infanzia che pertanto dovranno ricevere una formazione adeguata in tale ambito. Ciò richiede tra l’altro che tutti gli adulti che si occupano dei bambini lavorino in équipe. In particolare, l’educatrice non è in grado da sola di risolvere tutti i problemi della loro crescita, ma ha bisogno della collaborazione degli specialisti e soprattutto dei genitori che devono trasformarsi, 63 anche con l’aiuto dell’istituzione prescolastica, da educatori spontanei e non sempre coerenti in operatori preparati e aperti alla cooperazione. Naturalmente, l’educatrice conserva il ruolo di coordinamento dell’équipe che segue l’educazione dei bambini. 3.5. Metodi e sussidi Per quanto riguarda i metodi, si riscontrano notevoli diversità fra i Paesi. In ogni caso, di solito non esiste un metodo ufficiale (Mialaret, 1976; Katz e Mohanty, 1985; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Blondel, Delors et alii, 1998; Delors et alii, 1996). Sono frequenti invece il riferimento a qualche grande educatore e il ricorso a una plurimetodologia. Tutto ciò ha il vantaggio di consen- tire lo sviluppo di una certa creatività senza cadere nell’anarchia; al tempo stesso esiste il pericolo che i vari metodi vengano giustapposti senza cercare una sintesi. Altri principi comuni possono essere ricercati nei seguenti orientamenti: 1) conoscere ciascun bambino in maniera obiettiva in modo da adattare la propria azione educativa ad ogni situazione particolare. L’educatrice deve liberarsi della sua mentalità di persona adulta e cercare invece di conoscere la realtà biologica e psicologica del bambino, l’ambiente in cui vive e le tappe della sua evoluzione. Ne segue che il suo compito consiste nell’osservare attentamente lo sviluppo del bambino e nell’agire con flessibilità; 2) rispettare i suoi processi psicologici. L’attività di pensiero dei bambini non è deduttiva né induttiva, ma in un certo senso anarchica e disordinata per cui non si possono imporre loro modi di pensiero e di azione propri dell’età adulta. Inoltre, per sviluppare il proprio pensiero, essi ricorrono ad oggetti concreti che danno solidità al ragionamento: devono cioè toccare, vedere, avvicinare, dividere, paragonare... Pertanto, bisogna aiutare il bambino a scoprire il mondo che lo circonda, incominciando dagli oggetti a lui più familiari. Certamente non si devono impartire lezioni, ma bisogna sfruttare ogni opportunità per far esercitare al bambino il ragionamento, il linguaggio, la percezione, l’osserva- zione, il senso estetico. Assolutamente è necessario evitare la competitività e dovrà essere rispettato il ritmo di sviluppo di ogni bambino; 3) utilizzare metodi attivi che stimolino la partecipazione diretta dei bambini alla propria educazione. L’educatrice è chiamata a creare le opportunità di appren- dimento e ad aiutare i bambini ad avvalersene senza pretendere di sostituirsi all’educando; 4) preparare alla vita. Lo scopo non è di trasmettere un complesso di conoscenze sistematiche e organizzate, ma di accostare il bambino al mondo circostante in modo da poter svolgere l’attività di scoperta e di apprendimento; 5) accrescere l’autonomia affinché il bambino possa ricercare da sé la soluzione ai problemi della vita quotidiana; 6) sviluppare la socialità in modo che i bambini diventino capaci di integrarsi in gruppi sociali sempre più ampi. 64 Per quanto riguarda i materiali didattici, più che la quantità importa la qualità e la corrispondenza all’età e alle attività dei bambini. La funzione è duplice: favo- rire lo svolgimento del gioco e offrire un sostegno all’educazione in quanto ser- vono al bambino per affinare le sue percezioni e accrescere la conoscenza del mondo. Il materiale dovrebbe presentare tra l’altro le seguenti caratteristiche: – solidità: se è troppo fragile, può divenire pericoloso ed è certamente costoso perché va sostituito frequentemente; – buon gusto: infatti, non va trascurata la formazione estetica dei bambini; – polivalenza, nel senso che si deve prestare a numerose utilizzazioni; – proporzione, cioè in linea con lo sviluppo fisico del bambino; – rispondenza ai bisogni, di movimento, di creazione, di ricerca, di costruzione, di espressione, di distruzione...; – utilità, in vista dell’esercizio di alcune funzioni psicologiche fondamentali. Una tipologia di materiali distingue tra: quello fabbricato da imprese apposite e acquistato sul mercato che però non necessariamente risponde ai bisogni dei bam- bini e alle attività degli educatori; quello naturale, raccolto dai campi e approntato dagli allievi, dalle educatrice e dai genitori che spesso possiede un notevole valore educativo perché appartiene al mondo abituale del bambino; quello preparato dagli educatori, dai genitori e dai bambini che presenta un potenziale affettivo impor- tante per la partecipazione dei diretti interessati al suo approntamento. 3.6. Modelli di orientamenti curricolari Tra i tipi più importanti ricordo anzitutto quello accademico o scolastico (Katz e Mohanty, 1985; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Blondel, Delors et alii, 1998; Delors et alii, 1996). È focalizzato sull’apprendimento di abilità ca- paci di assicurare il successo nella scuola; e pertanto è destinato soprattutto al recu- pero degli svantaggiati. Il curricolo cosiddetto cognitivo è incentrato sull’insegna- mento delle tecniche della scoperta, sull’esperienza diretta di diversi materiali du- rante il gioco e sulla creazione di un ambiente ricco di stimoli provenienti soprat- tutto dall’interazione verbale. Esiste anche un modello parentale che è rivolto a raf- forzare l’efficacia degli interventi dei genitori e consiste nel prepararli a interagire con la scuola e a stimolare i figli. Il curricolo tradizionale è focalizzato sulla pro- mozione dello sviluppo sociale, della creatività, dell’espressione affettiva, delle abilità cognitive e fisiche di base. Da ultimo il progetto “Head Start” che, lanciato nel 1965, ha raggiunto negli USA 8.000.000 di bambini dei ceti bassi. Le sue carat- teristiche si possono identificare nei seguenti tratti: applicazione su tutto il terri- torio nazionale; finalizzazione allo sviluppo globale dei bambini; uso di una impo- stazione tradizionale nei metodi e nella concezione del bambino. La valutazione del progetto ha oscillato tra alti e bassi: nel primo triennio il giudizio è stato positivo; nel quinquennio successivo sono state avanzate molte perplessità sulla sua effi- cacia; alla fine degli anni ’70 sono stati riscontrati effetti positivi. 65 Quanto all’efficacia dei modelli curricolari, bisogna distinguere. Se si tratta di efficacia immediata, nessun modello pare migliore dell’altro; al tempo stesso va sottolineato che tutti sono positivi rispetto alla “non frequenza” di nessun tipo di curricolo. Inoltre, i bambini che hanno frequentato un curricolo di tipo scolastico ottengono punteggi migliori nei test. Se si tratta di efficacia di lungo termine, gli effetti positivi prodotti dal modello scolastico nel breve termine tendono a scomparire nel lungo perché le competenze che si conseguono precocemente sono state ottenute sacrificando l’obiettivo di for- mare nei bambini le opportune disposizioni di base (interesse, costanza, curiosità...) e con il passare degli anni la mancanza di questi atteggiamenti fondamentali può far venire meno la molla necessaria per l’innesco, lo sviluppo e l’utilizzazione delle competenze acquisite. Al contrario, sul lungo termine il modello cognitivo mani- festa un’efficacia maggiore di quello scolastico o tradizionale. Di conseguenza, si suggerisce di elaborare degli orientamenti curricolari che siano finalizzati contem- poraneamente a fornire le competenze e a formare gli atteggiamenti per cui biso- gnerebbe inserire nei curricoli di tipo scolastico attività dirette a sviluppare l’auto- nomia personale e l’interazione sociale. In conclusione si può dire che quando si tratta di programmi ben studiati e adeguatamente realizzati, l’impatto è positivo. Inoltre, per i bambini svantaggiati la frequenza dell’educazione per la prima infanzia (rispetto all’ipotesi di non parte- cipare a nessuna attività di questo tipo) è sempre positiva qualunque sia il pro- gramma e la realizzazione. 3.7. Continuità con la scuola dell’obbligo Lo sviluppo del bambino è caratterizzato da stasi, arretramenti, ritmi diversi di progresso secondo le componenti della personalità e tale discontinuità può ingene- rare grossi ostacoli all’apprendimento (Mialaret, 1976; Katz e Mohanty, 1985; Rap- porto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Blondel, Delors et alii, 1998; Delors et alii, 1996). La situazione è destinata a peggiorare se anche la formazione presenta aspetti di disomogeneità. Le principali formule adottate per rispondere a tali esi- genze possono essere sintetizzate in tre strategie. La prima consiste nell’estendere all’educazione primaria i metodi più validi dell’educazione per la prima infanzia; la seconda prevede l’integrazione istituzionale tra i due livelli, ma non tutti gli studiosi sono d’accordo sull’opportunità di un percorso unitario che, partendo dall’educa- zione per l’infanzia, si estenda a tutta l’istruzione dell’obbligo; la terza strategia consiste nella formazione comune degli insegnanti dell’educazione primaria e della prima infanzia in modo da evitare divari troppo forti nella didattica. 3.8. Relazioni con i genitori I rapporti tra la famiglia e la scuola devono essere guidati dal principio della collaborazione e della corresponsabilità (Mialaret, 1976; Katz e Mohanty, 1985; 66 Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Blondel, Delors et alii, 1998; Delors et alii, 1996). Infatti, non va dimenticato che l’educazione del bambino è dovere primario dei genitori; inoltre, il coinvolgimento delle famiglie nella scuola contribuisce alla riuscita degli allievi come provano parecchie ricerche; in terzo luogo, la cooperazione serve ad evitare la separazione tra scuola e vita e la burocra- tizzazione del sistema formativo. Tuttavia, quando si passa al concreto della vita della scuola, la realtà non sembra corrispondere adeguatamente alle affermazioni di principio. Infatti, spesso tutto si limita a incontri, consultazioni, aggiornamenti in comune con gli insegnanti senza un vero coinvolgimento dei genitori nella gestione delle scuole. BIBLIOGRAFIA ABADZI H., Education for all or just the smartest poor?, in “Prospects”, 34 (2004) 3, 271-289. BLANC E., La enseñanza primaria, in “Cuaderno de información OIE”, (1985) 1, 1-13. BLONDEL D. - J. DELORS et alii, Education for the twenty-first century: issues and prospects, Paris, UNESCO, 1998. 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Pertanto non si pensava a una universalizzazione dell’educazione secondaria, mentre esisteva un accordo generale che tale universalizzazione venisse realizzata nella scuola elementare. Al contrario secondo la concezione attuale, l’educazione elementare (o di base) è la prima fase di un processo che si estende a tutta la vita per cui l’esigenza di democratizzare l’accesso va oltre l’educazione elementare. In ogni caso, la prima menzione dell’educazione secondaria in un trattato internazionale si trova nella Convenzione contro la Discriminazione nell’educazione (1960) che dichiara l’impegno degli Stati firmatari a renderla disponibile e accessibile a tutti. Tradizionalmente il suo ambito viene definito da un certo numero di aspetti di- stintivi di cui il primo e più evidente è che l’educazione secondaria fa seguito all’e- ducazione primaria (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Blanc, 1986). Inoltre, generalmente essa ha inizio a 11/12 anni e dura dai 6 e agli 8 anni ed è arti- colata in due cicli: il primo comprende 3/4 anni, è a tempo pieno e spesso fa parte dell’istruzione obbligatoria, mentre il secondo si estende per 2/4 anni e si presenta sotto varie formule: – istruzione generale lunga a tempo pieno, con le sue articolazioni tradizionali di tipo pre-universitario (letteraria, scientifica, economica e artistica); – istruzione generale breve a tempo pieno, di natura pre-professionale, finaliz- zata alla preparazione ai corsi di grado terziario non universitario (sociali, commerciali, tecnici e artistici, per paramedici); – istruzione/formazione professionale a tempo pieno, che consente l’inserimento diretto nel mondo del lavoro; – istruzione/formazione professionale nella forma dell’apprendistato, che com- prende la frequenza di una scuola/centro di formazione professionale da 1 a 3 giorni alla settimana mentre negli altri giorni gli allievi svolgono un lavoro pratico presso un datore di lavoro nel mestiere scelto. 68 La strutturazione interna del capitolo distingue il momento evolutivo da quello prospettico della scuola secondaria, considerata nel suo complesso, comprensiva cioè di tutte le articolazioni appena illustrate. Inoltre, si è ritenuto opportuno di ap- profondire nella terza sezione il discorso sull’Istruzione e la Formazione Tecnico- Professionale (IFTP). 1. L’EVOLUZIONE NELLA SECONDA METÀ DEL XX SECOLO: UNO SGUARDO D’INSIEME Come nel capitolo precedente, cercherò di offrire un panorama sintetico degli elementi che caratterizzano l’evoluzione della scuola secondaria dalla seconda guerra mondiale alla conclusione del secondo millennio (Malizia e Nanni, 2002; MacLean, 2001; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Blondel, Delors, 1998 et alii; Delors et alii, 1996; Blanc, 1986). 1.1. L’evoluzione quantitativa: un’espansione enorme ma diseguale Il totale delle iscrizioni si è raddoppiato per ogni decennio successivo agli anni ’50. Inoltre, la crescita è avvenuta secondo tipologie diverse: – la formula della secondaria comprensiva (un’unica scuola articolata in indirizzi che sostituisce tipi differenti e separati di secondaria) in Nord-America, in Asia, negli Stati Arabi, nell’Africa “Subsahariana” e nell’URSS; – il modello della secondaria differenziata (una pluralità di tipi diversi di secon- daria) in Europa e in America Latina. Per effetto dell’espansione ricordata sopra, l’universalizzazione dell’educa- zione secondaria si può dire sostanzialmente realizzata nei paesi industrializzati e in quelli europei della transizione (ex-comunisti). Più in particolare: – nelle nazioni citate la scuola secondaria è frequentata dalla grande maggioranza dei giovani (fino a 17/18 anni) ed è stata realizzata anche la gratuità per tutti; – tra gli 11 e i 12 anni tutti gli alunni della primaria passano nel 1° ciclo della secondaria e vi permangono almeno fino ai 15/16. Successivamente una gran parte prosegue gli studi nelle varie articolazioni del 2° ciclo; – si riscontra disponibilità di locali e di attrezzature in quantità e qualità suffi- cienti; – il numero di docenti è adeguato e talora anche superiore alle necessità, la loro formazione iniziale appare di livello accettabile e l’offerta di formazione in servizio risulta soddisfacente anche se questa spesso non costituisce un sistema organico; – i problemi principali riguardano invece i seguenti aspetti: nel 1° ciclo si tratta di assicurare primariamente l’insegnamento di una metodologia per imparare ad apprendere e la formazione alla mentalità dell’alternanza studio-lavoro; nel 69 2° ciclo la difficoltà più grave consiste in quel 20% circa di giovani che non ottengono il titolo dell’istruzione dell’obbligo né frequentano la formazione pro- fessionale. L’universalizzazione della secondaria è in corso di svolgimento nelle altre regioni, mentre nell’Africa “Subsahariana” il numero dei giovani esclusi dalla secondaria è in crescita. Se si passa ai dettagli: – nel Paesi in via di sviluppo il dilemma fondamentale sul piano quantitativo è se generalizzare l’educazione secondaria o potenziare la qualità dell’offerta, inve- stendo sulla qualità le poche risorse disponibili, o cercare un compromesso tra le due strategie; – in relativamente pochi casi il 1° ciclo è frequentato dalla coorte 11/12-15/16 anni al completo; – il 2° ciclo è riservato spesso a una minoranza privilegiata; – si osserva una grave insufficienza di edifici e di attrezzature; – il numero dei docenti è inadeguato, il rapporto tra insegnanti e studenti è eccessivamente alto e la formazione iniziale degli insegnanti è troppo breve; – i tassi di dispersione (ripetenze, abbandoni...) sono elevati; – la formazione dei diplomati che si iscrivono all’istruzione superiore o entrano nel mondo del lavoro risulta carente. 1.2. L’evoluzione qualitativa: i trend degli anni ’90 Le finalità si possono distinguere in generali e specifiche. Le prime consistono nello sviluppo ulteriore della personalità dei giovani in modo che possano contri- buire alla crescita propria e della società a un livello intermedio in qualità di membri di una famiglia, di cittadini e di produttori. In altre parole si tratta di appro- fondire la formazione ricevuta nell’educazione primaria ai fini della continuazione degli studi o della transizione al lavoro e della partecipazione alle attività sociali. A loro volta, le finalità specifiche principali vengono identificate nelle seguenti: – sviluppare capacità e atteggiamenti quali: - lo spirito critico e la capacità di giudizio; - le abilità di comunicazione orale e scritta; - l’attitudine al ragionamento logico e alla sintesi; - la creatività; - la perseveranza; - la volontà di giungere a risultati validi e concreti; - la tolleranza e il rispetto degli altri e della loro cultura; - la responsabilità verso la famiglia e le altre comunità di appartenenza; – padroneggiare i ritmi accelerati dell’innovazione sociale, in particolare del progresso scientifico e tecnologico; – ridurre gradualmente tutte le diseguaglianze soprattutto quelle relative al sesso. 70 In tutti i Paesi si riscontra un divario più o meno grande tra i fini dichiarati ufficialmente e la situazione reale dell’educazione secondaria. Passando al piano delle strutture, è opportuno distinguere tra situazioni e pro- blematiche differenti. Anzitutto, per realizzare l’eguaglianza delle opportunità tra studenti di gruppi sociali diversi, i Paesi ricorrono a tre tipi di strategie: in alcuni prevale il modello comprensivo per cui il 1° ciclo della secondaria è completamente unitario e il 2° prevede solo un minimo di differenze, ma questa soluzione non sembra troppo attenta alla molteplicità dei bisogni formativi dei nostri giovani; in altri predomina il modello differenziato per cui la diversificazione nei vari tipi di scuole inizia già nel 1° ciclo della secondaria in una età, quindi, che a molti sembra troppo precoce per una decisione di tale importanza; in altre nazioni si è adottato un modello di com- promesso per cui il 1° ciclo della secondaria è sostanzialmente unitario (con qualche diversità solo all’interno delle classi), mentre il 2° è differenziato in indirizzi e/o tipi di scuole e questa soluzione sembra la più adeguata ad assicurare un corretto equili- brio fra tutte le istanze in gioco. Venendo alla seconda problematica strutturale quella cioè che riguarda le mo- dalità del raccordo della secondaria con la primaria, si può prevedere un primo anno della secondaria senza differenziazioni o uno diversificato che distribuisce in via provvisoria gli alunni della primaria in sezioni (filiere) diverse secondo i risul- tati degli studi elementari. In proposito va evidenziato che la prima soluzione è sen- z’altro più diffusa, proprio per evitare opzioni premature. In terzo luogo, se sul piano strutturale si vuole raccordare la secondaria con l’istruzione superiore e il lavoro, si deve anzitutto tenere presente i tipi di sbocchi a cui prepara il 2° ciclo della secondaria. Essi sono: l’università mediante l’istruzione generale lunga; i cicli brevi dell’istruzione superiore per mezzo dell’istruzione ge- nerale breve; il lavoro mediante l’istruzione professionale a tempo pieno o l’ap- prendistato. Per questa area tematica la struttura principale di raccordo è costituita senz’altro dall’orientamento. L’ultimo problema di natura strutturale riguarda le modalità mediante le quali assicurare nella secondaria una seconda opportunità (rientro, recupero, alternanza). In proposito, gli orientamenti principali risultano essere i seguenti: la seconda op- portunità è prevista per i soggetti che o non hanno completato la secondaria, o man- cano di formazione professionale, o hanno abbandonato gli studi, e desiderano ritor- nare nella formazione; i corsi possono essere serali, diurni, a distanza; le modalità comprendono la corrispondenza, la radio, la TV, il computer...; gli scopi consistono nel rafforzare le conoscenze di base e/o nel fornire una formazione professionale adeguata. Anche per quanto riguarda il curricolo e i programmi, la situazione negli anni ’90 si presenta diversificata. Nel 1° ciclo, la formula prevalente è rappresentata da un tronco comune di materie obbligatorie a cui si aggiungono discipline opzionali e facoltative. Le obbligatorie comprendono: 71 – generalmente in tutti o quasi i Paesi: (fin dall’inizio) la lingua materna (o di comunicazione), matematica, storia, educazione civica, geografia, scienze na- turali; (in momenti successivi) fisica e chimica, educazione artistica, educa- zione fisica, lavori pratici; – in alcune nazioni: l’educazione ai mass media, l’educazione ambientale, l’edu- cazione sessuale, l’informazione professionale, l’utilizzazione del computer. A loro volta le opzionali abbracciano di solito: una seconda o una terza lingua; la scelta tra due livelli della matematica e delle scienze; la tecnologia; l’informatica. Inoltre, nei non molti Paesi in cui è prevista un’articolazione in tipi o sezioni diverse, le materie, pur essendo le stesse per tutte le filiere, presentano uno svi- luppo contenutistico differenziato a secondo di ciascun tipo di secondaria. Nel 2° ciclo della secondaria, la norma è la diversificazione. Nelle scuole secondarie di istruzione generale lunga sono insegnate le stesse discipline del 1° ciclo a un livello approfondito a cui si aggiungono materie attinenti l’indirizzo scelto. In proposito va sottolineato che nell’impostazione della secondaria lunga si riscontrano due orientamenti contrapposti: – uno consiste nella concentrazione degli studi su un numero limitato di disci- pline coerenti con l’ammissione a una facoltà universitaria (il modello inglese); – il secondo prevede lo studio di una decina di discipline da parte di tutti gli stu- denti, anche se si possono scegliere livelli diversi di approfondimento, per cui i diplomati possono accedere a una gamma vasta di facoltà universitarie (mo- dello seguito nell’Europa continentale). Nelle secondarie di istruzione generale breve viene offerta una formazione meno teorica e più pre-professionale. L’istruzione/formazione professionale si caratterizza per la riduzione dei con- tenuti di cultura generale e per il potenziamento della preparazione professionale specifica. I problemi possono essere sintetizzati come segue: – nel 1° ciclo si riscontrano sia un sovraccarico di contenuti sia una minore at- tenzione alla lettura e alla composizione; – nel 2° ciclo bisogna distinguere tra i vari tipi/indirizzi di secondaria: - l’istruzione generale lunga è esposta al pericolo del sovraccarico di conte- nuti o della specializzazione precoce; - i limiti dell’istruzione generale breve riguardano la carenza di applicazioni pratiche; - nell’istruzione/formazione professionale a tempo pieno il problema princi- pale consiste in una preparazione tecnologica arretrata; - nell’apprendistato si notano un’attenzione insufficiente alla preparazione teorica e uno spazio inadeguato attribuito alla formazione a scuola o nei centri. 72 Esiste pure un limite comune ai due cicli. Esso può essere identificato nella modernizzazione dei contenuti tradizionali che è avvenuta troppo rapidamente e che pertanto ha implicato: perdita di sicurezza e di identità tra gli insegnanti; rendi- mento insoddisfacente degli allievi; perplessità tra i genitori. Anche le strategie per affrontare i problemi indicati sopra vanno diversificate secondo le varie articolazioni della secondaria: – nel 1° ciclo si tratterà di: concentrare i programmi sull’essenziale; integrare i nuovi contenuti con quelli tradizionali; allargare lo spazio dell’interdiscipli- narità; – nel 2° ciclo si richiedono interventi differenziati secondo l’indirizzo/tipo di secondaria: - nell’istruzione generale lunga bisognerà evitare sia l’enciclopedismo, preve- dendo nelle discipline un livello normale e uno di approfondimento, sia la specializzazione precoce, allargando la formazione degli allievi oltre le disci- pline su cui verte l’esame di ammissione all’università; - nell’istruzione generale breve si dovranno potenziare le applicazioni con- crete; - nell’istruzione/formazione professionale, bisognerà estenderne la durata per rafforzare la formazione generale e lo studio della tecnologia moderna e si dovrà realizzare la polivalenza, fornire cioè una formazione professionale di base ampia che durante la vita lavorativa permetta di passare facilmente da un mestiere all’altro. Un’altra dimensione importante dell’evoluzione qualitativa della secondaria riguarda le tendenze sul piano didattico. Nell’insieme il progresso circa i metodi di insegnamento è stato piuttosto modesto per varie ragioni: il numero elevato di allievi per classe riscontrabile in molti Paesi; la preparazione inadeguata degli in- segnanti a gestire le innovazioni; l’organizzazione rigida degli orari; il carattere no- tevolmente tradizionale degli esami. Tuttavia, in alcune nazioni non sono mancate innovazioni significative quali: – la priorità attribuita all’apprendimento dell’allievo rispetto ai programmi; – la formazione a uno studio autonomo; – l’introduzione delle attività di laboratorio per facilitare lo studio delle scienze; – l’inclusione dello studio della tecnologia nella istruzione generale lunga; – la promozione dell’interdisciplinarità nel 1° ciclo, mentre permangono note- voli difficoltà nel 2° in cui la specializzazione dei docenti è più spinta ed è tra- dizionale l’abitudine a insegnare a comportamenti stagni; – l’utilizzazione del computer; – la tendenza ad usare un tipo di valutazione continua e formativa. L’organizzazione dell’orientamento scolastico e professionale tende a struttu- rarsi in tre livelli: nazionale, regionale e locale. In genere vengono offerti altrettanti 73 tipi di servizi: orientamento scolastico (nel 1° ciclo); universitario (nel 2° ciclo di istruzione generale); professionale (alla fine del 1° ciclo e del 2°). Gli orientatori sono più spesso gli stessi insegnanti che vengono preparati a tale compito e che lo svolgono a tempo parziale; talora, soprattutto quando si tratta di situazioni patolo- giche, sono utilizzati dei professionisti (gli psicologi) a tempo pieno che hanno seguito corsi appropriati all’università. Un’ultima considerazione riguarda le attrezzature e i sussidi. Nei Paesi svilup- pati vengono costruiti nuovi edifici con attrezzature più moderne e si riscontra anche un miglioramento dei manuali sul piano didattico, contenutistico e grafico. Al contrario, questo è un ambito in cui le nazioni in via di sviluppo si trovano in difficoltà gravi. 2. LE PROSPETTIVE: I PROBLEMI E LE PROPOSTE Per ragioni di maggiore chiarezza ho ritenuto opportuno anche in questo caso articolare la trattazione che segue in varie sottosezioni (Malizia e Nanni, 2002; MacLean, 2001; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Secondary educa- tion and Youth at the Crossrads, 1999; Blondel, Delors et alii, 1998; Delors et alii, 1996). 2.1. L’educazione secondaria: il segmento più debole del sistema o il crocevia della vita? “Molte delle speranze e delle critiche suscitate dai sistemi formali sembrano accentrarsi sull’educazione secondaria. [...] essa viene accusata di essere non egua- litaria e non sufficientemente aperta al mondo esterno e, in linea generale, di non riuscire a preparare gli adolescenti non solo per l’educazione superiore, ma neanche per il mondo del lavoro. Si sostiene, inoltre, che le materie insegnate sono non pertinenti e che non si presta sufficiente attenzione all’acquisizione di attitudini e valori” (Delors et alii, 1996, p. 117). Inoltre, attualmente i Paesi sono impegnati soprattutto da una parte nell’universalizzazione dell’educazione primaria e dal- l’altra nell’espansione dell’istruzione superiore e nel miglioramento della sua qua- lità per cui lo spazio di attenzione riservato all’educazione secondaria appare molto ridotto. In questo senso la secondaria sembra essere il segmento più debole del si- stema educativo. Al tempo stesso, tale livello scolastico viene ritenuto il crocevia della vita. L’educazione secondaria “viene spesso considerata come la via di accesso al progresso sociale ed economico. [...] Oggi viene comunemente ammesso che per una crescita economica è necessario che un’alta percentuale della popolazione abbia ricevuto l’educazione secondaria” (Delors et alii, 1996, p. 117). Pertanto, è necessario e urgente riconsiderare “sia i contenuti che l’organizzazione dell’educa- zione secondaria” (Ibidem). 74 2.2. Educazione di base o educazione secondaria? Dopo Jomtien e Dakar, molti considerano l’educazione secondaria come parte dell’educazione di base. Questa posizione è accettabile se vuol dire un rafforza- mento della continuità fra i due livelli e un’ulteriore sollecitazione verso l’univer- salizzazione dell’educazione secondaria; invece, non è condivisibile se significa scomparsa dell’educazione secondaria assorbita dalla primaria. Se un inserimento adeguato nella vita richiede di imparare a vivere insieme, a conoscere, a fare e ad essere, l’apprendimento di queste competenze esige una for- mazione più lunga e di qualità più elevata della primaria. Più in particolare, l’uni- versalizzazione della primaria non è sufficiente per assicurare una migliore qualità della vita, un apprendimento coestensivo a tutta l’esistenza in un mondo sempre più complesso, un lavoro soddisfacente, la conservazione del posto anche nei periodi di crisi, la partecipazione ai benefici della globalizzazione. Va inoltre sot- tolineato che nella situazione attuale i Paesi sono chiamati a perseguire contempo- raneamente l’universalizzazione dell’educazione primaria e di quella secondaria e l’accessibilità per tutti a un’istruzione superiore di qualità sulla base del merito. 2.3. Allargamento dell’accesso e realizzazione dell’eguaglianza di opportunità educative Man mano che i Paesi conseguono la meta dell’universalizzazione della pri- maria, cresce la pressione sulla secondaria affinché ne venga potenziato l’accesso. Infatti, attualmente l’educazione secondaria è il livello del sistema formale che si espande più rapidamente, anche se l’incremento è distribuito in misura molto diseguale e sono soprattutto i paesi dell’Africa “Subsahariana” ad essere particolar- mente svantaggiati. Va richiamata qui anche l’accusa, menzionata sopra nella sezione 2.1, di «essere non egualitaria e non sufficientemente aperta al mondo esterno» (Delors et alii, 1996, p. 117). Proprio per questo cresce nei Paesi la preoccupazione di garan- tire a tutti gli strati della popolazione l’accesso a un’educazione secondaria di qua- lità, indipendentemente dal sesso, dal retroterra socio-economico, dalla razza, dal- l’etnia, dalle caratteristiche culturali e dalla posizione geografica. Per risolvere il problema, le strategie principali, oltre a quella delle crescita e della distribuzione in modo egualitario degli investimenti nelle risorse umane e fi- nanziarie e nelle attrezzature, possono essere identificate nelle proposte del rapporto Delors, già sintetizzate nel cap. 1: le ripresento qui per ribadirne la validità. Esse in- dicano principalmente un rimedio, la più ampia diversificazione dei percorsi forma- tivi. La ragione di tale strategia va ricercata soprattutto nel fatto che essa consente di valorizzare tutti i talenti e, quindi, di ridurre il fenomeno dell’esclusione dai sistemi scolastici di molti adolescenti. A livello secondario dovranno essere previsti non solo gli indirizzi tradizionali che privilegiano l’astrazione e la concettualizzazione, ma anche quelli che intrecciano attraverso formule di alternanza la formazione con 75 l’attività professionale. Inoltre, si raccomanda di creare delle passerelle tra i vari percorsi in modo che sia possibile modificare in itinere le scelte compiute. La possi- bilità offerta a tutti di riprendere gli studi nel corso della vita in attuazione dei prin- cipi dell’educazione permanente può togliere ogni definitività alle scelte prese nel- l’adolescenza sotto l’eventuale influsso di condizionamenti sociali negativi, permet- tendo di correggerle. 2.4. Riduzione della dispersione (abbandoni e ripetenze) In molti Paesi si riscontra accanto alla espansione dell’accesso alla secondaria il doloroso fenomeno dell’aumento degli abbandoni e delle ripetenze. Un caso em- blematico è quello dell’America Latina dove il tasso delle ripetenze ammonta quasi a un terzo degli iscritti. Le strategie che vengono proposte riguardano: la riforma della preparazione degli insegnanti; l’assistenza finanziaria agli studenti; esperimenti innovativi nel lavoro di gruppo; l’insegnamento in team; il ricorso alle TIC. 2.5. Promozione della qualità Tutti sono d’accordo che l’allargamento dell’accesso non deve avvenire a spese della qualità dell’offerta. Infatti, ci si rende sempre più conto che accesso e qualità sono strettamente connessi poiché se l’accesso viene allargato senza garan- tire la qualità, si rischia il mantenimento o la crescita della dispersione che, a sua volta, mette in pericolo l’espansione quantitativa, riducendo i tassi di scolarizza- zione e sottraendo risorse. La promozione della qualità richiede in particolare di: – introdurre un sistema efficace di monitoraggio e di valutazione degli apprendi- menti allo scopo di misurare il successo dei processi di insegnamento-appren- dimento e di fornire informazioni per una loro migliore messa a punto; – assicurare la qualità delle prestazioni degli insegnanti, introducendo anche un adeguato sistema di incentivi. 2.6. Sviluppo della professionalità degli insegnanti Si tratta anzitutto di delineare un nuovo profilo professionale. Il punto di riferi- mento è il passaggio da una scuola secondaria centrata sull’insegnamento, in partico- lare di nozioni, ad una centrata sull’apprendimento, in specie delle abilità di pensare autonomamente. Pertanto, il nuovo profilo professionale degli insegnanti dovrebbe comprende la padronanza delle seguenti abilità, competenze, capacità, atteggiamenti: – i docenti devono sviluppare flessibilità e adattabilità; – si richiede che possiedano capacità di pensare creativamente, autonomamente e costruttivamente, una formazione scientifica e tecnologica di base e compe- tenze comunicative di livello elevato; 76 – dagli insegnanti si esige anche la capacità di stabilire relazioni umane positive, di stringere rapporti interpersonali, di lavorare in maniera armonica con gli altri dentro e fuori le istituzioni; – essi dovranno padroneggiare le competenze necessarie per formare gli alunni alle virtù morali e civiche e in particolare alla tolleranza, al rispetto reciproco, alla convivenza e alla solidarietà (Secondary education and Youth at the Cros- sroads, 1999). In molti Paesi una difficoltà seria consiste nel riuscire a convincere giovani dotati a intraprendere la carriera dell’insegnamento nella scuola secondaria dato che per le loro competenze queste persone sono anche molto richiesti dalle indu- strie di punta che possono offrire stipendi e prospettive più soddisfacenti. Pertanto, i sistemi di istruzione e di formazione devono impegnarsi maggiormente a offrire incentivi adeguati per attrarre i giovani più capaci alla professione docente a livello secondario. 2.7. Potenziamento della rilevanza e della efficacia del curricolo Sul piano generale, il curricolo va arricchito in modo da tener conto delle esi- genze della globalizzazione, del pluralismo culturale, delle conquiste della scienza. Inoltre, deve essere ripensato non solo in vista di assicurare l’accesso all’istruzione superiore, ma anche e soprattutto in vista di garantire una transizione soddisfacente al mondo del lavoro. Scendendo più nel particolare, il curricolo va riconsiderato in modo da con- sentire l’acquisizione di una serie dei abilità, competenze, capacità, atteggiamenti che sono richieste per l’inserimento nella società della conoscenza. Per quanto riguarda l’area dell’imparare a conoscere, si tratta di formare i gio- vani: – all’apprendimento autonomo, dotandoli di strumenti adeguati come abilità di pensiero, conoscenze scientifiche di base, competenze per l’accesso alle TIC; – alla consapevolezza del loro potenziale, alla scoperta e all’apprezzamento delle sfide, ma anche delle soddisfazioni insite nell’apprendimento, alla concentra- zione e alla riflessione; – al radicamento nella eredità culturale e nella sapienza proprie del loro contesto e all’acquisizione della coscienza dei valori comuni. A sua volta l’area dell’imparare a fare richiede di preparare gli studenti: – alle abilità intellettuali e di apprendimento di carattere generale; – all’impegno ad apprendere per tutta la vita; – alle abitudini positive di lavoro, allo spirito di iniziativa, alla disponibilità ad assumersi le proprie responsabilità e al senso del servizio; – alla scelta informata della professione; – alle abilità tecniche, manageriali e imprenditoriali; 77 – alla capacità di lavorare con gli altri. Quanto all’area dell’imparare a vivere insieme, i giovani andranno educati a: – scoprire e a comprendere gli altri; – lavorare con gli altri, condividendo con loro progetti e traguardi; – usare mezzi pacifici per risolvere i conflitti; – esercitare i diritti e i doveri civici nelle forme democratiche; – proteggere se stessi e gli altri contro la violenza e lo sfruttamento; – divenire membri responsabili della società globale (Secondary education and Youth at the Crossrads, 1999). L’ultimo ambito dell’imparare a essere richiede «la completa realizzazione dell’uomo in tutta la ricchezza della sua personalità, nelle complessità delle sue forme di espressione e nei suoi vari impegni: come individuo, membro di una fami- glia e di una comunità, cittadino e produttore, inventore di tecniche e sognatore creativo» (Delors et alii, 1996, 88). A tale riguardo, l’educazione non deve trascu- rare alcun aspetto del potenziale di una persona: spirito e corpo, intelligenza, sensi- bilità, senso estetico, responsabilità personale e valori spirituali. 2.8. Ricorso alle metodologie didattiche più efficaci Esiste un accordo generale sull’opportunità di utilizzare una gamma ampia di modalità per insegnare nell’educazione secondaria. In particolare, per raggiungere quei gruppi che ne beneficiano solo marginal- mente (strati sociali subalterni, ragazzi di strada, quanti vivono in zone rurali re- mote...) si pensa di poter ricorrere a tipi di offerta non-formale (attività educative organizzate al di fuori del sistema formale di istruzione e di formazione). Tuttavia, mentre questo tipo di offerta è sufficientemente sviluppato in vari Paesi nell’educa- zione di base o nell’istruzione superiore, è ancora agli inizi nell’educazione secon- daria. A tale livello esso consiste nel fornire una ulteriore opportunità a quanti sono rimasti totalmente o parzialmente fuori dell’educazione secondaria formale. Possi- bili forme di organizzazione non-formale che si potrebbero utilizzare con successo in questo ambito consistono: nell’insegnamento a distanza; nello studio personale; nell’istruzione individualizzata; nell’apprendimento di gruppo; nell’offerta di for- mazione nelle imprese. Un’altra modalità le cui potenzialità vengono accuratamente esplorate all’interno del sistema sia formale sia non-formale consiste nel ricorso alle Tic. L’obiettivo è quello di allargare l’accesso e di potenziare la qualità della formazione offerta. 2.9. Il potenziamento delle risorse finanziarie L’allargamento dell’accesso all’educazione secondaria e il suo potenziamento sul piano dell’efficienza richiedono di poter contare su risorse finanziarie adeguate 78 che dovrebbero essere più consistenti di quelle utilizzate per l’educazione di base, soprattutto nel caso dell’istruzione tecnica e della formazione professionale. Le strategie che vengono utilizzate per ampliare la disponibilità delle risorse consistono: nel ricorso agli interventi dei privati; nella promozione della collabo- razione con le imprese; nel potenziamento dell’efficienza interna dell’educazione secondaria. 3. L’ISTRUZIONE TECNICA E LA FORMAZIONE PROFESSIONALE (IFTP) L’IFTP, considerata come parte integrante del sistema di educazione perma- nente, è chiamata a svolgere un ruolo fondamentale nell’affrontare le sfide del XXI secolo perché può offrire un contributo prezioso alla realizzazione di un nuovo mo- dello di sviluppo centrato sulla persona umana (L’enseignement et la formation techniques et professionneles: une vision pour le XXIe siècle, 1999; Second Inter- national Congress on Technical and Vocational Education, 1999; Delors et alii, 1996; Blondel, Delors et alii, 1998; Power, 1999; Malizia, 2000 e 2005; Wilson, 2001; Malizia e Nanni, 2002). 3.1. Le tendenze a livello macrostrutturale Una prima strategia macrostrutturale consiste nell’apprendimento per tutto l’arco della vita che dovrebbe permettere alla persona di acquisire costantemente durante l’intera esistenza conoscenze, valori, atteggiamenti, competenze e qualifi- cazioni. Per poterne divenire parte integrante, il sistema dell’IFTP deve assumere le seguenti caratteristiche. – L’IFTP va intesa come un’offerta sistematica di esperienze di sviluppo perso- nale comprensive di aspetti culturali e sociali e non solo economici. – I sistemi di IFTP devono essere centrati sull’educando e, pertanto, si devono caratterizzare per l’apertura e la flessibilità e per la capacità di fornire non solo conoscenze e competenze corrispondenti a lavori specifici, ma anche di prepa- rare all’inserimento nella vita e nell’ambiente di lavoro. – L’IFTP va fondata su una cultura dell’apprendimento, condivisa tra le persone, le imprese, i diversi settori dell’economia e lo Stato e capace di rendere gli indi- vidui autonomi, attrezzati cioè a prendere progressivamente in mano la gestione della propria formazione, mentre le strutture pubbliche e private dovrebbero organizzare tutte quelle iniziative che consentono l’accesso all’educazione per- manente. – Nel quadro dell’apprendimento per tutto l’arco della vita, l’IFTP deve dotarsi di interfacce con tutti gli altri livelli dell’istruzione e della formazione al fine di assicurare la mobilità orizzontale e verticale senza problemi. In particolare, le si richiede di fornire un’educazione iniziale solida per apprendere ad ap- prendere. 79 – L’IFTP deve formare nei giovani un atteggiamento positivo verso l’innova- zione e dare le conoscenze e le competenze necessarie per assumere un ruolo attivo nel cambiamento. – Un compito importante è anche quello di assicurare una transizione senza pro- blemi tra il sistema educativo e quello produttivo, contribuendo in particolare alla realizzazione di forme efficaci di collaborazione tra le scuole e le imprese in quanto fondate su una comunità di valori, di programmi, di risorse e di risultati. – Un altro ruolo rilevante dell’IFTP è quello di recuperare il settore informale dell’economia per l’apprendimento lungo tutta la vita da cui rimane invece normalmente escluso. L’alternanza costituisce senz’altro un’altra strategia macrostrutturale di natura fondamentale per l’IFTP. Come si è visto nel cap. 1, essa consiste nella possibilità di spezzare la sequenza dell’educazione in diversi tempi – in modo da rinviare parte o parti della formazione a un momento successivo al periodo della giovinezza – e di alternare momenti di studio e di lavoro. Si contrappone alla strategia della continuità iniziale che ha caratterizzato lo sviluppo dei sistemi di istruzione fino agli anni ’60: in questo caso la formazione veniva intesa come un processo unico, graduale, continuativo che si realizzava senza interruzione una sola volta nella esi- stenza, sulla base del presupposto che l’istruzione necessaria e sufficiente per la vita potesse essere acquisita una volta per tutte nella giovinezza. Indubbiamente l’alternanza segna un notevole progresso rispetto alla conti- nuità iniziale. Richiamo in sintesi le ragioni di questa affermazione. Anzitutto, essa riduce la separazione tra il momento formativo e produttivo, favorendo lo sviluppo integrale della persona umana che non può fondarsi su un’articolazione di studio e lavoro in compartimenti stagni. Inoltre, aumenta la mobilità sociale in quanto assi- cura la possibilità di rientro nel sistema educativo. In terzo luogo allenta la rigidità del rapporto formazione-occupazione perché favorisce una maggiore adattabilità della forza lavoro ai cambiamenti del mercato e può anche contribuire a ridurre la disoccupazione poiché a turno una parte considerevole dei lavoratori si troverebbe impegnata nella formazione al di fuori del mondo del lavoro. In terzo luogo va ricordato il sistema formativo integrato. Anche qui riprendo in sintesi alcuni principi esposti più ampiamente nel cap. 1. A seguito di una lenta evoluzione che, iniziata nei primi anni del ’900, si era conclusa intorno alla metà del secolo, la scuola aveva raggiunto nel secondo dopoguerra una posizione di mo- nopolio sull’educazione, mentre le altre istituzioni educative venivano ad occupare una condizione subalterna. Ma lo “scuolacentrismo” degli anni ’50 e ’60 è stato sostituito a partire dalla decade ’70 dal “policentrismo”: l’educazione di ogni per- sona, di tutta la persona, per l’intero arco della vita – la finalità ultima dell’educa- zione permanente – è un compito talmente ampio che la società non lo può affidare ad una sola agenzia educativa – la scuola – o ad una sola istituzione – lo Stato. Lo sviluppo integrale dell’uomo richiede il coinvolgimento lungo l’intero arco della 80 vita, oltre che della scuola, di tutte le agenzie educative (famiglia, mass media, imprese, associazioni, chiese...) in una posizione di pari dignità formativa, anche se ciascuna di esse interverrà in tempi e forme diverse secondo la propria natura, la propria metodologia e i propri mezzi. Inoltre, accanto allo Stato, tutti i gruppi, le associazioni, i sindacati, le comunità locali e i corpi intermedi devono assumere e realizzare la responsabilità educativa che compete a ciascuno di loro. Alle ragioni enunciate sopra va aggiunto che la società odierna si caratterizza per la complessità sempre più spinta di strutture, procedure, contenuti. Tale com- plessità comporta il venire meno di ogni pretesa monopolistica di qualsiasi istitu- zione. In altre parole, non è possibile soddisfare l’attuale molteplicità di bisogni con risposte uniformi o strutture unitarie, ma l’offerta va diversificata il più possi- bile attraverso un intervento a rete. Società complessa e policentrismo formativo non significano però l’introdu- zione selvaggia del libero mercato in educazione. La proposta di un self-service educativo non pare praticabile a livello di scuola: come infatti gli alunni potranno orientarsi nel labirinto di scelte molteplici e successive che è richiesto dalla plura- lità dei bisogni? Oppure avverrà che solo i giovani che provengono da famiglie ap- partenenti a un certo ambiente culturale saranno capaci di avvalersi delle opportu- nità formative? La società complessa è una società a-centrica: in altre parole si qua- lifica per la mancanza di un unico centro e per la sua sostituzione con una pluralità di centri. Il fenomeno si riflette sul piano micro in quanto la persona stenta a tro- vare un quadro di riferimento unitario, organico, coerente e ordinato nel quale si- tuare la propria vita. Siccome il fornire tale quadro di riferimento è compito pri- mario dell’educazione, bisognerà che il policentrismo formativo sia accompagnato dalla realizzazione di un sistema formativo integrato. Ovviamente si dovrà però trattare di una corretta integrazione. Questa vuol dire anzitutto divisione chiara di ruoli senza alcuna invasione dell’ambito di com- petenza altrui. In secondo luogo l’integrazione comporta collaborazioni per lo svol- gimento di funzioni di natura superiore. La cooperazione dovrà avvenire su un piano di pari dignità e nel rispetto della reciproca autonomia, senza confinare al- cuna agenzia formativa in una condizione ancillare, subordinata, accidentale, con- dizionata. Naturalmente, la collaborazione non può significare semplice convi- venza, ma deve portare alla progettazione e attuazione di percorsi formativi comuni mediante forme di reale cooperazione su un piede di parità. Altre regole fondamentali del sistema formativo integrato vanno ricercate nei principi che già il rapporto Faure proponeva della differenziazione, della mobilità e della deformalizzazione (Faure et alii, 1972; cfr. sopra cap. 1). Anzitutto, si do- vranno moltiplicare le istituzioni e i mezzi educativi, assicurare l’accesso più largo alle risorse formative e differenziare le offerte educative nel modo più esteso possi- bile. Inoltre, bisognerà facilitare il passaggio degli allievi sia orizzontalmente sia verticalmente, da un livello all’altro del medesimo istituto o centro, da un istituto o centro all’altro, da un tipo di educazione all’altro, o dalla vita attiva allo studio e 81 viceversa. Infine, si dovrà riconoscere l’eguaglianza di tutti i percorsi formativi a parità di risultati. Realizzare un sistema formativo integrato implica anche il riconoscimento e la valorizzazione del ruolo formativo delle imprese. Si tratta di superare diffidenze e sospetti che si sono accumulati negli anni ’70/80, quando certi gruppi di pedago- gisti e di insegnanti accusavano gli industriali di voler asservire la scuola agli inte- ressi del capitale e una porzione consistente di imprenditori e di dirigenti di aziende rifiutava l’output del sistema formativo e riconosceva alla scuola il solo merito di tenere lontane dal mercato di lavoro masse di giovani, anche se in parcheggio. Da qualche anno si è registrato un graduale avvicinamento tra i sistemi di istruzione e di formazione e il mondo imprenditoriale: nei primi è sempre più sentita l’esigenza di offrire una preparazione che faciliti l’inserimento occupazionale, mentre nel se- condo cresce la convinzione della centralità dell’istruzione e della formazione per lo sviluppo delle imprese. In particolare la formazione viene considerata come un investimento strategico, mirato a rendere competitive le risorse umane di fronte alle sfide che emergono dall’introduzione delle nuove tecnologie della comunicazione e dalla globalizzazione. Da questo punto di vista, il problema principale consiste nel trasformare le aziende in vere agenzie di formazione: infatti, non una qualsiasi esperienza di lavoro nell’impresa possiede valenza educativa. Inoltre, è indubbio che attualmente nessuno pensa più a un rapporto positivo, diretto e automatico fra istruzione e crescita economica o tra formazione e reperi- mento di un lavoro prestigioso. Tuttavia si ritiene comunemente che il sistema edu- cativo di istruzione e di formazione rimane una struttura necessaria per la prepara- zione della persona, in quanto ne fornisce la base minima, e in questa funzione non può essere sostituita da altre agenzie con le quali, però, deve cercare collaborazione e integrazione. In conclusione quali allora le finalità dell’IFTP? In proposito, bisogna distin- guere le società dove domina il lavoro stipendiato da quelle in cui è prevalente quello indipendente o informale. Nelle prime (quelle sviluppate) la sostituzione della mac- china al lavoro umano ha reso quest’ultimo più immateriale ed ha accentuato la na- tura cognitiva dei compiti dei lavoratori. Inoltre, recentemente la parcellizzazione delle funzioni sta cedendo il posto sul piano organizzativo ai gruppi di progetto, al- l’intercambiabilità delle mansioni e alla loro personalizzazione; a sua volta, lo svi- luppo dei servizi porta in primo piano le relazioni interpersonali. Sono trend che non soltanto determinano una elevazione delle esigenze in materia di IFTP, ma che anche portano in primo piano la nozione di competenza che combina contemporaneamente la qualificazione lavorativa con il comportamento sociale, l’attitudine al lavoro in gruppo, la facoltà di iniziativa e il gusto del rischio. Pertanto, l’IFTP dovrà fornire sempre di più competenze di qualità come quelle di comunicare, di stabilire relazioni stabili ed efficaci tra le persone, di gestire e di risolvere i conflitti. Passando ai Paesi in cui la grande maggioranza partecipa a un’economia di sussistenza, è chiaro che le competenze da insegnare sono più sovente di tipo tradi- 82 zionale. Tuttavia, in questi casi non va dimenticato l’obiettivo di preparare per la partecipazione allo sviluppo; sono inoltre egualmente importanti la capacità im- prenditoriale e l’acquisizione di una cultura scientifica senza la quale tali nazioni non potranno accedere alla tecnologia moderna. 3.2. Le tendenze a livello microstrutturale I tipi di ETP possono essere distribuiti in tre grandi categorie: le scuole, i centri di formazione professionale e la formazione sul lavoro. Va subito precisato che nessuna delle tre si può considerare superiore dell’altra per cui tutte vanno uti- lizzate, realizzando tra di loro sinergie in condizione di parità e nel rispetto degli ambiti di competenza di ognuna. Quanto alle scuole, va osservato che nei Paesi in via di sviluppo dove l’istru- zione primaria può essere terminale per molti alunni, si riscontra spesso nelle ele- mentari una notevole varietà di tematiche pratiche e di attività manuali. A livello di istruzione secondaria si osservano tre formule: nella scuola secondaria di cultura generale si può trovare un ventaglio di corsi professionali tra i quali scegliere; le scuole comprensive tendono ad offrire indirizzi ampi pre-professionali; è diffusa anche la tradizione di tipi di scuole tecniche e professionali separate da quelle di cultura generale. I centri di formazione professionale si situano dopo il 1° ciclo. In questo caso la distinzione principale riguarda i programmi che possono essere regolari o spe- ciali: i primi hanno un carattere stabile, mentre i secondi sono offerte congiunturali, soprattutto in vista del sostegno alla transizione al mondo del lavoro. Tale classifi- cazione ha un significato diverso nei Paesi in via di sviluppo, dove i programmi re- golari, che sono molto pochi, risultano prevalentemente orientati al settore formale dell’economia; al contrario quelli speciali consistono in iniziative limitate, svolte spesso da organizzazioni non governative e mirate ad aiutare i giovani a inserirsi nei mercati informali del lavoro o in piccole imprese. La formazione sul lavoro ha ripreso importanza durante gli anni ’80 per il concorso di vari fattori: il riconoscimento del ruolo centrale degli imprenditori e delle aziende in sistemi di formazione professionale come quello tedesco o giap- ponese che vengono considerati esemplari; il dinamismo delle agenzie nazionali della formazione professionale nell’America Latina; la tendenza a valorizzare le forze del mercato anche nei servizi sociali; il rafforzamento del ruolo del settore privato nel Terzo Mondo sotto l’influsso della Banca Mondiale. L’effetto non è stato solo quello di riportare l’interesse su questo tipo di strategia, ma ha stimolato anche la ricerca di formule per raccordare più strettamente l’IFTP con gli impren- ditori privati. La ricerca in questo settore ha messo in risalto che il successo della formazione sul lavoro non dipende tanto dal contatto diretto con il mondo produt- tivo quanto dalle abilità pedagogiche dei tutor, dalla combinazione con la fre- quenza a tempo parziale di strutture formative distinte dall’impresa, dall’impegno degli imprenditori e delle loro organizzazioni nello sviluppo di tali formule. 83 Per quanto riguarda i destinatari, va anzitutto precisato che storicamente l’IFTP è associata alla formazione dei giovani sia delle classi socio-economiche svantag- giate sia delle nazioni colonizzate. Indubbiamente agli inizi degli anni 2000 la situa- zione è cambiata, anche se rimangono sempre le stigma delle origini. Attualmente l’IFTP viene riconosciuta in linea di principio come una delle strategie principali per consentire a tutti i membri della comunità di affrontare le sfide della società della globalizzazione e delle TIC e di trovare in essa una collocazione adeguata come membri produttivi della società. Proprio per superare quelle che ho appena chiamato le stigma delle origini, una delle strategie fondamentali consiste nell’accrescere di fatto lo statuto e il prestigio dell’IFTP. In proposito si raccomandano le seguenti misure: – migliorare la condizione degli insegnanti/formatori, elevando le loro cono- scenze, competenze e qualificazioni e dotandoli delle risorse necessarie; – persuadere tutte le parti interessati delle potenzialità dell’IFTP con interventi convincenti; – diffondere le buone pratiche dell’IFTP; – garantire all’istruzione e formazione professionale una considerazione equiva- lente a quella dell’insegnamento della cultura generale. I sistemi formativi che non presentano una rigida differenziazione tra indirizzi generali, tecnici e professionali tendono a offrire una formazione professionale a tutti gli allievi in quanto tale preparazione di base sarebbe parte dell’educazione generale. Nei Paesi in via di sviluppo si insiste anche sul fatto che servirebbe a for- mare i giovani all’autoimprenditorialità. Altri Paesi prevedono indirizzi o tipi di scuole separati. In questo caso si po- trebbe pensare a una gerarchia degli allievi secondo le abilità per cui i più capaci sono accolti nelle istituzioni di cultura generale e poi via via nelle tecniche e nelle professionali e gli allievi delle ultime si trovano spesso nell’impossibilità di acce- dere direttamente alle offerte di livello terziario. Di fatto non c’è nessuna ragione evidente per tale esclusione come risulta dalla tradizione per esempio dei Paesi la- tino-americani ed europei dove non mancano scuole tecniche e professionali e centri che sono considerati veri luoghi di eccellenza. Inoltre, le trasformazioni in atto nel mondo della produzione stanno mettendo in crisi la gerarchia tra lavoro specializzato e semispecializzato e la domanda del mercato va verso una figura di lavoratore flessibile, dotato di competenze tecniche, scientifiche e dell’informa- zione. Ne segue un avvicinamento tra i diversi tipi di IFTP e le scuole di cultura ge- nerale. A questo proposito è necessario creare delle relazioni più efficaci tra i vari settori dell’educazione secondaria per offrire agli allievi dei percorsi più continui; inoltre, la gestione dei corsi dovrà essere più flessibile per facilitare i passaggi all’interno del sistema di istruzione di formazione e tra questo e quello produttivo. Nella formazione professionale continuano ad essere previsti programmi per gli svantaggiati. Va precisato che le relative scuole/centri non si limitano a tali of- 84 ferte; inoltre, è bene sottolineare che questi corsi consentono a giovani meno moti- vati o meno capaci linguisticamente di acquisire una base culturale minima attra- verso la frequenza di discipline o attività pratiche. Il modello in esame è soprattutto diffuso in America Latina ed è gestito da agenzie nazionali di formazione o dalle organizzazioni non governative. In proposito è opportuno anche precisare che la formazione professionale non viene più concepita nella gran parte dei Paesi, particolarmente in quelli europei, come un addestramento finalizzato esclusivamente all’insegnamento di destrezze manuali, né la distinzione con l’istruzione è vista nel fatto che questa si focalizza nell’acquisizione di saperi in qualche misura astratti rispetto al contesto, mentre quella si occupa della loro realizzazione nel mercato del lavoro, o nel fatto che l’oggetto è differente, essendo la cultura del lavoro quello proprio della formazione professionale, perché anche la scuola si interessa di cultura del lavoro. La forma- zione professionale non è qualcosa di marginale o di terminale, ma rappresenta un principio pedagogico capace di rispondere alle esigenze del pieno sviluppo della persona secondo un approccio specifico fondato sull’esperienza reale e sulla rifles- sione in ordine alla prassi che permette di intervenire nel processo di costruzione dell’identità personale. Questo tuttavia non significa che sia la stessa cosa dell’i- struzione: conoscere con l’obiettivo principale di agire, costruire e produrre non può essere confuso con il conoscere e agire con l’intento prioritario di conoscere (Malizia, 2005; Malizia e Nanni, 2002; Malizia et alii, 1999). Venendo poi alle problematiche del curricolo, delle metodologie e delle valuta- zione, va anzitutto evidenziato che le caratteristiche della società della conoscenza richiedono che gli allievi dell’IFTP siano preparati ad affrontare un mercato del la- voro radicalmente nuovo in cui l’obsolescenza delle conoscenze e delle competenze è molto rapida e il lavoro dipendente tende ad essere ridimensionato. Ciò richiede un riorientamento dei programmi e una mobilizzazione adeguata delle TIC. In proposito, la tendenza principale riguarda l’introduzione di una formazione basata sulle competenze. Questo approccio comprende, oltre naturalmente alla fo- calizzazione sulle competenze piuttosto che sui semplici contenuti, la modularizza- zione dei programmi, l’autoformazione, i crediti e i debiti formativi, la previsione di opportunità per un accesso e un’uscita flessibili dai vari programmi, la forma- zione a distanza. Un altro trend consiste nel raggruppamento delle specializzazioni della formazione professionale per evitare una preparazione angustamente termi- nale. Inoltre nei Paesi in via di sviluppo sono cresciuti i programmi che formano all’autoimprenditorialità, tenuto conto della mancanza di posti nel lavoro dipen- dente. Nei processi di insegnamento-apprendimento dell’IFTP dovrebbe essere possi- bile utilizzare sia le tecnologie semplici sia quelle moderne sia le Tic, senza rinun- ciare alle relazioni dirette tra insegnante e allievo tipiche della didattica tradizionale. Tra l’altro il ricorso alle TIC dovrebbe aumentare le opportunità di accesso all’IFTP e contribuire allo sviluppo di una cultura dell’apprendimento per tutta la vita. 85 L’ampliamento delle possibilità di inserirsi nella IFTP non dovrebbe avvenire a scapito della qualità. Da questo punto di vista si impone una revisione delle norme di qualificazione, dei processi di certificazione e dei metodi di valutazione. In questo ambito è necessario richiamare quando detto nel capitolo 1 in gene- rale sull’orientamento professionale. In un contesto sociale e lavorativo in continuo cambiamento l’orientamento assume un ruolo cruciale e deve costituire una parte integrante di ogni offerta di IFTP. Esso dovrà rispondere al tempo stesso ai bisogni delle imprese, degli individui e delle famiglie e tener conto delle esigenze di cia- scun allievo così come della sua situazione e del luogo dove si trova. La scelta di un programma di IFTP andrà fondata su una valutazione seria delle attese, capacità, attitudini, atteggiamenti e personalità dell’allievo nel quadro di un processo educa- tivo continuo e dovrà preparare alla possibilità di cambiamenti frequenti di carriera durante la vita lavorativa. Inoltre, sarà una funzione propria di ogni scuola/centro come anche di altre strutture accessibili all’insieme della popolazione. Scendendo sul piano amministrativo, recentemente è emerso l’orientamento alla privatizzazione e allo sviluppo del ricorso al mercato, ma finora non vi sono prove sufficienti per dire che questo trend porti a una formazione più efficace. Va, invece, ricordato l’esempio del sistema duale tedesco che fa entrare in gioco gli Stati fede- rati, gli imprenditori e i sindacati, in altre parole pubblico, privato e privato sociale e, indubbiamente, tale modello è generalmente considerato molto valido. In questo quadro di una dinamica sociale a tre dimensioni (cfr. cap. 1) il ruolo dello Stato consiste nel guidare e dirigere l’evoluzione dell’IFTP, nel facilitare, co- ordinare e assicurare la realizzazione di un’offerta di qualità e nel garantire l’ac- cesso a tutti. L’elaborazione e la realizzazione delle politiche per l’IFTP va affidata a un partenariato tra lo Stato, i datori di lavoro, i sindacati, le professioni, gli allievi e le famiglie, la società civile. È opportuno anche prevedere una sana competizione tra le varie offerte di IFTP all’interno di standard di qualità validi su tutto il terri- torio nazionale. In questo quadro si raccomanda di riconoscere e incoraggiare il contributo delle organizzazioni non governative. L’autorità pubblica dovrà assicurare uno scambio di esperienze fra tutte le parti interessate tra l’altro meditante la creazione di banche dati. Adeguato spazio dovrà essere assicurato alla cooperazione internazionale, in particolare tra il Nord e il Sud del mondo. Quanto poi alle risorse finanziarie, lo Stato e il settore privato devono ricono- scere che l’IFTP non è un peso, ma un investimento che procura dei benefici impor- tanti come il benessere dei lavoratori, l’accrescimento della produttività e della com- petitività internazionale. In quanto possibile, il finanziamento dell’IFTP dovrà essere distribuito tra lo Stato, le imprese, le comunità, la famiglie e l’allievo. Il problema dei costi elevati di molti programmi dell’IFTP va risolto facendo ricorso all’appren- dimento sul luogo di lavoro. La formazione permanente nel campo dell’IFTP potrà essere opportunamente assicurata attraverso la diversificazione dei finanziamenti, degli Enti che offrono l’IFTP e dei meccanismi di prestazione dei servizi. 86 BIBLIOGRAFIA DE AZVEDO M.J., Continuities and Discontinuities in Secondary Education in Western Europe, in “Prospects”, 31 (2001) 1, 87-102. BINDÉ J., What education for the twenty-first century?, in “Prospects”, 32 (2002) 4, 391-404. BLANC E., L’enseignement secondaire dans le monde, in “Dossier d’information BIE”, (1986) 7, 1-29. BLONDEL D. - J. DELORS et alii, Education for the twenty-first century: issues and prospects, Paris, UNESCO, 1998. BRASLAVSKY C., Basic Education in the Twenty-First Century and the Challenges for Secondary Education, in “Prospects”, 31 (2001) 1, 3-6. DELORS J. et alii, L’éducation. 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L’EVOLUZIONE NELLA SECONDA METÀ DEL XX SECOLO: UNO SGUARDO D’INSIEME Anche in questo capitolo ho preferito seguire una impostazione schematica sperando che possa favorire la comprensione di quanto verrà presentato nel pro- sieguo (Conférence mondiale sur l’enseignement supérieur..., 1998; Delors et alii, 1996; Blondel, Delors et alii, 1998; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Malizia e Nanni, 2004). 1.1. Le caratteristiche principali del periodo Possono essere sintetizzate nelle seguenti tendenze: – la transizione dall’università per l’élite all’università per la massa; – l’enorme espansione in tutto il mondo, anche se in maniera diseguale; – il passaggio dalla finalizzazione primaria allo studio e alla ricerca disinteres- sata, alla finalizzazione prioritaria alla soluzione dei problemi più gravi della società; – l’introduzione di innovazioni qualitative particolarmente rilevanti; – la riduzione significativa delle risorse pubbliche destinate all’istruzione supe- riore che ha comportato rilevanti adattamenti sul piano organizzativo e struttu- rale; – la costante messa in discussione della sua efficacia e efficienza. 1.2. Il modello UNESCO: Rapporti Faure e Delors Posto il principio della centralità dello studente e tenuto conto della differen- ziazione ampia e crescente dei bisogni formativi delle persone, dei gruppi e della 88 società, una delle principali strategie che viene raccomandata consiste proprio nella diversificazione più larga di strutture e di contenuti: introduzione di cicli di studio brevi; creazione di istituzioni di piccole dimensioni per finalità ed esigenze locali; fondazione di istituzioni per la formazione di tecnici di livello intermedi (Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996). Pertanto, l’accesso va aperto non solo agli studenti tradizionali delle università (giovani particolarmente dotati) ma anche a una clien- tela più vasta come diplomati maturi, quadri e lavoratori desiderosi di perfezionarsi o di aggiornarsi. L’ammissione dovrebbe dipendere dalle capacità e motivazioni dei singoli più che dai titoli ufficiali. In questo senso, coloro che hanno ottenuto un diploma di scuola secondaria riconosciuto non possono essere esclusi dal passaggio al livello superiore; invece, si dovrà affrontare il problema dal lato della scuola secondaria attraverso una differenziazione dei canali che consenta di ridurre l’afflusso verso l’Università. Il ruolo dell’Università va identificato nella coltivazione della scienza e della ricerca teorica e applicata, nella formazione degli insegnanti, nella preparazione a un livello elevato di professionalità attraverso un mix di saperi e di competenze, nella formazione permanente, nella cooperazione internazionale. 1.3. «Egualmente accessibile a tutti sulla base del merito» È l’espressione che si trova nell’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: “l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito”. 1.3.1. Accessibile a tutti sulla base del merito L’esplosione della domanda di istruzione superiore nei cinquanta anni tra- scorsi, per effetto tra l’altro della universalizzazione dell’educazione elementare e dell’espansione enorme dell’educazione secondaria, si è scontrata con la diffi- coltà di tutti i Paesi ad ampliare in maniera corrispondente l’offerta, anche perché all’aumento dei laureati non sempre ha corrisposto un’analoga crescita dei posti di lavoro per cui si verifica il doloroso fenomeno della disoccupazione intellet- tuale. In molti Paesi (soprattutto socialisti) la soluzione del problema è stata ricercata nell’adozione del “numerus clausus”. Tale strategia consiste anzitutto nel determi- nare sulla base della pianificazione economica (domanda del mercato di lavoro) il numero dei posti disponibili nell’istruzione superiore secondo le varie specializza- zioni. Inoltre, per l’iscrizione si richiede, oltre al titolo della secondaria superiore, anche il superamento di un esame di entrata alla facoltà scelta. E alla fine vengono ammessi solo coloro che per il punteggio complessivo (dell’esame finale della secondaria superiore, dell’esame di entrata e di altre valutazioni) rientrano nel numero di posti fissato per quella facoltà. 89 Le ragioni che vengono addotte a favore possono essere sintetizzate come segue. – Il numerus clausus permette una pianificazione soddisfacente dei posti di lavoro e del numero degli allievi. Alcuni, però, dubitano che tale numero possa essere fissato in maniera così rigida dato il ritmo accelerato del cambiamento proprio dell’economia post-industriale. – Evita la disoccupazione e la carenza di forza lavoro qualificata. Anche rispetto a questa ragione vi sono perplessità date le difficoltà di seguire in tempi reali le trasformazioni del mercato del lavoro. – La selezione consente la scelta dei più meritevoli. Alcuni obiettano che è vero fino a un certo punto perché la selezione identifica una parte dei meritevoli, ma non tutti, in particolare quei giovani che, pur dotati, non hanno ottenuto il successo scolastico che meritavano solo a causa dell’origine socio-culturale ed economica svantaggiata. – La selezione che avviene durante il percorso universitario comporta costi sociali maggiori che se è effettuata nel momento iniziale. – Riduce il pericolo della contestazione: questo è vero riguardo agli ammessi che normalmente ottengono il titolo per il quale si sono iscritti, ma non per gli esclusi e i loro genitori che cercano di far sentire le loro ragioni, anche attra- verso la mobilitazione politica. Un numero più ridotto di Paesi ha optato per la liberalizzazione dell’accesso. In questo caso per l’iscrizione all’educazione superiore è sufficiente il possesso di un titolo di fine degli studi secondari superiori. I motivi che vengono presentati a sostegno di questa strategia possono essere identificati nelle seguenti giustificazioni. – La liberalizzazione dell’accesso riduce le disuguaglianze. Alcuni fanno osser- vare che questo è vero per le disuguaglianze nell’accesso in quanto tutti ven- gono ammessi, ma non è vero per le disuguaglianze in uscita a meno che non si prevedano adeguate misure di sostegno per gli studenti in difficoltà durante il percorso dell’educazione superiore. – I più meritevoli (quelli che passano la selezione) sono i più favoriti dalla sorte, nel senso che il loro successo dipende dall’origine socio-culturale ed econo- mica più avvantaggiata; in altre parole non hanno nessun merito per la riuscita negli studi. Questo può essere vero, ma ciò non toglie nulla alla loro compe- tenza e la società si aspetta che coloro che escono dall’istruzione superiore siano professionalmente ben preparati. – La selezione professionale è compito del mondo del lavoro e non dell’educa- zione superiore. Negli ultimi anni molti Paesi si stanno orientando verso soluzioni intermedie. In linea generale l’accesso è libero (cioè basato solo sul titolo di fine degli studi 90 secondari superiori), ma è prevista una selezione o per l’iscrizione ad alcune istitu- zioni particolarmente prestigiose come nella Francia, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, o ad alcune facoltà superaffollate come per esempio medicina in Italia. 1.3.2. Egualmente accessibile a tutti sulla base del merito Introducendo il concetto di merito, il principio fornisce una protezione contro la discriminazione nell’accesso per motivi di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o di altro genere, origine nazionale o sociale, beni, nascita, o status diversi. In questa maniera ha favorito l’iscrizione di studenti appartenenti a gruppi sociali sino ad allora sottorappresentati o esclusi. Fino a 50 anni fa la frequenza dell’istruzione superiore veniva considerata come un privilegio a cui i giovani delle famiglie ordinarie non potevano aspirare. La Dichiarazione Universale lo ha riconosciuto come un diritto, anche se solo ai meritevoli, per cui a questi può essere negato unicamente a causa della carenza di risorse nei rispettivi Paesi. In tale senso, il principio dell’art. 26 ha costituito una spinta decisiva alla democratizzazione dell’istruzione superiore. Durante il cinquantennio trascorso la difficoltà maggiore ad applicare il prin- cipio dell’eguaglianza è venuta dal fatto che l’ammissione all’istruzione superiore non riguarda un momento singolo, ma un percorso di più anni. Pertanto, non basta intervenire nelle procedure di ammissione, ma è necessario prevedere provvedi- menti adeguati per tutto l’iter formativo. Negli anni ’60 si pensava all’introduzione della gratuità anche nell’istruzione superiore. Successivamente questa opinione è stata abbandonata a motivo della grande espansione delle iscrizioni e attualmente si punta, invece, ai prestiti e al rimborso delle spese. 1.4. Lo sviluppo quantitativo La crescita è stata ovunque spettacolare, ma al tempo stesso si è allargato an- cora di più lo scarto tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo (in particolare quelli meno avanzati). – Al tempo della Dichiarazione Universale un quarto dei Paesi mancava di istitu- zioni di istruzione superiore, una metà avevano solo un migliaio di studenti universitari e solo nove Paesi potevano contare su più di 100.000 iscritti. Al termine degli anni ’90 non c’è Stato senza almeno un’istituzione di istruzione superiore, 68 possono vantare oltre 100.000 studenti universitari e in 21 gli iscritti hanno superato 1.000.000. – Tra il 1960 e il 1995 gli studenti dell’istruzione superiore si sono sestuplicati a livello mondiale, passando da 13 a 82 milioni, anche se la distribuzione resta molto diseguale all’interno dello stesso Paese, tra Paesi e tra regioni. – Tra il 1980 e il 1995 il tasso di scolarizzazione è cresciuto nei Paesi sviluppati dal 37.2% al 59.6%. Nei Paesi in via di sviluppo l’aumento non è certamente mancato, ma l’incremento è notevolmente minore e i tassi rimangono molto 91 distanti da quelli del Nord del mondo: in particolare, nelle regioni meno svi- luppate si è riscontrata una crescita dal 5.1% all’8.8%, negli Stati Arabi dal 9.2% al 12.5% e nell’America Latina e nei Caraibi dal 13.8% al 17.3%; inoltre, molte delle zone in via di sviluppo registrano un tasso inferiore al 10% come per esempio l’Africa “Subsahariana” e le nazioni meno sviluppate del- l’Asia Orientale e dell’Oceania e dell’Asia Meridionale. La crescita imponente che si è verificata nei Paesi industrializzati ha portato non solo effetti positivi, ma anche un problema serio tra gli esclusi dall’espansione. Dato che ormai in tali nazioni oltre la metà del gruppo di età corrispondente è iscritto a tempo pieno a qualche forma di istruzione superiore, si è formato, all’in- terno del gruppo di coloro che non partecipano al sistema di istruzione formale, una specie di sottoproletariato di giovani in lavori precari, e privi delle competenze necessarie per godere dei benefici dell’economia post-industriale. In genere, l’espansione degli studenti dell’istruzione superiore è avvenuta principalmente nelle università. Al tempo stesso va osservato che attualmente in al- cuni Paesi industrializzati e in vari dell’Africa “Subsahariana” la metà degli iscritti all’istruzione superiore frequenta corsi di istruzione superiore non universitari. Un’altra tendenza a livello mondiale consiste nel dato per cui, indipendente- mente dalla maggiore o minore varietà di offerte, due terzi degli studenti dell’istru- zione superiore frequentano gli studi umanistici (pedagogia, lettere, scienze sociali e giurisprudenza) e un terzo quelli scientifici (scienze naturali, ingegneria, medi- cina e agraria). Quindi, non si può affermare che nelle regioni meno sviluppate pre- valgano i corsi umanistici perché meno costosi e che quelli scientifici non siano adeguatamente sviluppati per mancanza di investimenti. Il problema non è di distri- buzione interna tra tipi di offerta, ma di carenza globale dell’offerta che nel suo complesso è inadeguata. Le ragioni della ripartizione tra due terzi e un terzo non sono molto evidenti, ma probabilmente essa dipende dalla convergenza della do- manda del mercato del lavoro – per effetto della globalizzazione – su una tale dis- tribuzione delle competenze necessarie per lo sviluppo produttivo. 1.5. L’istruzione superiore corta o breve Sul piano strutturale costituisce una delle innovazioni più importanti introdotte nell’istruzione superiore durante la seconda metà del XX secolo. In concreto, essa può essere definita anzitutto dal fatto che non è parte dell’università o ne è parte limitatamente al primo ciclo; inoltre, è più professionalizzante dell’università; ha una durata più breve (generalmente due anni) e conferisce diplomi di minor pre- stigio (in particolare non rilascia il dottorato); da ultimo, lo spazio della ricerca è molto limitato. Tutto ciò corrisponde alle sue finalità principali che consistono nel liberare l’università dalla pressione di studenti non interessati all’alta cultura e nell’assicurare una preparazione professionale medio-alta a un numero crescente di giovani. 92 I tipi più significativi mi sembrano gli “Junior colleges” negli USA e gli “Instituts Universitaires de Tecnologie” in Francia o le “Fachochschulen” in Ger- mania. I primi hanno un collegamento diretto con le università di cui costituiscono grosso modo il primo biennio; essendo nati in risposta ai bisogni locali, si caratteriz- zano per la loro grande flessibilità e per la gamma varia di corsi, in particolare pro- fessionalizzanti; consentono inoltre un orientamento ulteriore. A loro volta, i secondi rientrano nella tradizione europea di organizzare in appositi istituti una formazione tecnica più avanzata di quella fornita nella secondaria. A mio parere, la stessa logica si riscontra anche nell’innovazione introdotta dal Processo di Bologna di articolare gli studi secondo due cicli fondamentali che però sono interni all’università: ma su questo ritornerò più ampiamente nella terza sezione di questo capitolo. Se si vuole tentare un bilancio dell’istruzione superiore corta o breve, si può dire in primo luogo che per la natura professionalizzante il suo successo dipende ancor più che non nel caso dell’università dalla capacità di assicurare prospettive favorevoli di lavoro sulla base in particolare del credito che riesce a guadagnare presso gli imprenditori, e tale garanzia non deve riguardare solo il primo impiego, ma anche la carriera successiva. Nei rapporti con le università spesso queste istitu- zioni soffrono di un certo complesso di inferiorità a causa del prestigio minore. In ogni caso al fine di stabilire una relazione feconda con l’università, da una parte esse non devono cercare di copiarla perché verrebbe meno la loro ragion d’essere, e dall’altra devono evitare di diventare un ghetto (cioè va assicurata agli studenti, che ne hanno la capacità o lo desiderano, di accedere all’università). 1.6. L’orientamento Tra i problemi principali a cui l’orientamento è stato chiamato a far fronte nel- l’istruzione superiore va ricordato lo squilibrio tra i vari indirizzi in relazione alla do- manda del mercato del lavoro, per cui troppi studenti si iscrivono a facoltà dei cui lau- reati lo sviluppo economico del Paese non ha bisogno. Un’altra difficoltà seria con- siste nell’aumento degli insuccessi, in particolare degli abbandoni, dovuti a scelte sba- gliate delle facoltà o alla mancanza di adeguato supporto orientativo durante gli studi. In aggiunta, va ricordata la disoccupazione intellettuale nella misura in cui dipende da mancanza di informazioni sul mercato del lavoro al momento delle iscrizioni. Per avviare a soluzione tali problematiche, anzitutto va assicurato che le mo- dalità del suo svolgimento non siano le stesse della secondaria, ma che si dovrà- lasciare più iniziativa agli studenti, data la loro maggiore maturità. Inoltre, l’orien- tamento nell’istruzione superiore dovrebbe fornire informazioni ampie e precise sulle carriere lavorative e sulle prospettive del mercato di lavoro e garantire contatti frequenti con il mondo produttivo anche attraverso stages. Più in generale nell’or- ganizzazione dei curricoli vanno evitate le specializzazioni premature. A questo scopo le strategie più comuni consistono: – nell’introduzione dell’istruzione post-secondaria tra la scuola secondaria e l’i- struzione superiore ai fini di assicurare la specializzazione a livelli professio- 93 nali intermedi perché questa non viene più garantita dalla secondaria che si li- mita alla professionalità di base: – nell’inserimento di un primo ciclo nell’istruzione superiore durante il quale sono possibili riaggiustamenti delle scelte; – nell’adozione del principio dell’interdisciplinarità che permette di evitare una specializzazione eccessiva almeno nei primi anni. 1.7. Curricoli e metodologie Il potenziamento dei programmi si è mosso prevalentemente secondo tre linee principali di tendenza. Sono stati notevolmente accentuati gli aspetti professionali e la formazione di competenze pratiche; si sono introdotti nuovi programmi e istitu- zioni soprattutto per gli adulti per cui l’università si presenta come un’isola circon- data da un arcipelago di strutture le più diverse; si è proceduto al miglioramento della qualità. Il deterioramento di quest’ultima è lamentato quasi ovunque e le ra- gioni andrebbero ricercate soprattutto: nell’iscrizione di studenti privi del tradizio- nale background socio-culturale tipico delle famiglie di classe sociale medio-alta; nell’immissione nell’insegnamento di docenti preparati troppo in fretta; nel manteni- mento di corsi e metodi elaborati per un’elite. Non sembra però che la soluzione dello scadimento della qualità possa essere ricercata principalmente nel rafforza- mento della selezione perché questa non migliora di per sé la qualità, inoltre, ignora le disparità socio-culturali ed economiche di opportunità tra studenti appartenenti a classi sociali diverse e soprattutto che l’università di massa ha fatto esplodere carenze preesistenti nei programmi e nei metodi. Al contrario le strategie per la riso- luzione di questo nodo dovrebbero essere trovate in altre direzioni quali: la previ- sione di standards differenziati secondo le specializzazioni; l’allargamento nella diversificazione dell’offerta; il miglioramento della formazione iniziale e continua dei docenti; il potenziamento della ricerca sui processi di apprendimento degli adulti. Per quanto riguarda le metodologie, prima del maggio francese del ’68 i contatti tra docenti e studenti mancavano del tutto o quasi: successivamente si è affermato ovunque l’orientamento verso il lavoro di gruppo e la valutazione continua. In pro- posito, però, sono emersi anche dei problemi: infatti, risulta difficile l’applicazione dei nuovi orientamenti agli studenti a tempo parziale; riguardo, poi, agli studenti a tempo pieno non bisogna eccedere nel volerli guidare e controllare. 1.8. Amministrazione e organizzazione Incomincio dai rapporti tra istruzione superiore e amministrazione pubblica dove si riscontra un aumento dei poteri dell’autorità pubblica e la tendenza alla centralizzazione del controllo perché il finanziamento dell’istruzione superiore è quasi del tutto pubblico. Una prima conseguenza di questa nuova situazione si può trovare nella do- manda da parte dei governi di una pianificazione globale dell’istruzione superiore 94 per un’esigenza di razionalizzazione dell’offerta. Questa richiesta si scontra però con due difficoltà: la settorializzazione del mondo universitario che rende molto proble- matica una pianificazione; la necessità di tutelare l’autonomia universitaria che potrebbe subire una restrizione indebita da una programmazione troppo dettagliata. Si colloca nella medesima logica la domanda di una maggiore responsabilizza- zione dell’istruzione superiore. Per responsabilizzazione si intende il rendere ragione delle proprie attività e la richiesta nasce dalla crescita esponenziale delle spese. Il problema maggiore va identificato nel pericolo di un conflitto con la prerogativa tra- dizionale dell’autonomia universitaria. La soluzione potrebbe probabilmente essere trovata in un’interpretazione più equilibrata del concetto di autonomia da parte delle università (non significa fare quello che si vuole) e nella ricerca da parte dell’ammi- nistrazione pubblica di un consenso ampio prima di prendere una decisione. Circa la gestione interna dell’istruzione superiore si notano due orientamenti principali. Anzitutto va ricordata la tendenza alla democratizzazione che ha portato al coinvolgimento più ampio di persone e interessi. Riguardo in particolare alla partecipazione degli studenti, essa è stata un’istanza fondamentale della contesta- zione del ’68 che ha condotto alla previsione di una rappresentanza studentesca negli organi di governo dell’istruzione superiore di tutti i Paesi. Tale introduzione ha costituito una tappa importante della democratizzazione dell’università, anche se la partecipazione degli studenti alle elezioni è di solito modesta; essa ha anche per- messo un recupero degli studenti al sistema sociale. In negativo va osservato che ha contribuito alla complessificazione dell’istruzione superiore. Un’altra tendenza consiste nella situazione di limitata governabilità delle uni- versità. Le ragioni di questo andamento vanno ricercate: nel carattere relativamente poco determinato dei fini dell’università; nella forte autonomia delle unità ammini- strative interne; nel fatto che le autorità amministrative maggiori (rettori, decani, direttori di istituto) sono frequentemente degli amministratori a tempo parziale; nello scarso controllo da parte del mercato. Le strategie per affrontare il problema sono state principalmente di due tipi. Si è tentato di razionalizzare l’esistente, ma con scarso risultato data la situazione di “anarchia organizzata” che caratterizza l’università. Inoltre, si è cercato di adottare un approccio pragmatico, consistente nell’evitare gli errori troppo gravi e irrepara- bili e nell’estendere i margini dell’area degli interventi possibili. 2. LE PROSPETTIVE: PROBLEMI E PROPOSTE Incomincio con il richiamare la nuova situazione che si è creata nei nostri Paesi a cavallo dei due millenni, quella cioè dell’avvento della società della cono- scenza (Conférence mondiale sur l’enseignement supérieur..., 1998; Delors et alii, 1996; Blondel, Delors et alii, 1998; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Malizia e Nanni, 2004). 95 2.1. Il nuovo contesto: difficoltà e potenzialità 2.1.1. La mondializzazione Al di là delle differenze, anche profonde e crescenti, di situazioni all’interno di ciascuna nazione, tra Paesi e tra gruppi regionali, si riscontra contemporaneamente nel mondo una comunanza di problemi a livello internazionale in continuo au- mento. La mondializzazione non dipende solo dalla globalizzazione dell’economia, ma è dovuta pure all’internazionalizzazione degli scambi culturali e alla circola- zione sempre più rapida e ampia delle idee. Ciò pone agli Stati un complesso di questioni che non possono essere affrontate solo a livello nazionale. La stessa con- clusione vale anche per l’istruzione superiore che non può essere più pensata unica- mente a partire dalle situazioni di ciascun Paese. 2.1.2. La democratizzazione La democratizzazione della società, in particolare il riconoscimento di una eguaglianza completa tra i cittadini, e il potenziamento dello Stato di diritto sono esigenze fortemente sentite e largamente condivise, che trovano tutti i Paesi impe- gnati nella loro realizzazione, anche se con slancio e forme diverse. Sono istanze che si pongono egualmente anche all’istruzione superiore che, d’altra parte, come tutto il sistema educativo di istruzione e di formazione, è al tempo stesso chiamata a preservare e a far progredire la democrazia. 2.1.3. Lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie È una sfida per l’istruzione superiore dato il ruolo primario che questa svolge in tale crescita attraverso l’offerta di una formazione di livello elevato e l’apporto che fornisce alla promozione della ricerca soprattutto di base. Un contributo pre- zioso può venire dall’istruzione superiore anche riguardo ai problemi di ordine etico che pongono le ricerche scientifiche e le loro applicazioni. Di fronte al peri- colo che la diffusione delle TIC possa accrescere le disparità fra i Paesi industria- lizzati e quelli in via di sviluppo, il mondo accademico internazionale dovrebbe moltiplicare gli sforzi per contrastare l’aumento delle disuguaglianze. 2.1.4. La degradazione dell’ambiente L’istruzione superiore non può certamente ignorare i problemi che l’inquina- mento pone al futuro ecologico della terra. Pertanto, si dovrebbe impegnare a risol- verli con particolare riferimento alle difficoltà create dalla crescita demografica e dall’urbanizzazione. 2.1.5. L’esclusione sociale L’avvento dell’economia post-industriale, se ha accresciuto enormemente la ricchezza del pianeta, è stato anche accompagnato dall’esclusione sociale di strati sempre più numerosi della popolazione, compresi i laureati che si trovano confron- 96 tati non infrequentemente con il problema della disoccupazione. Per risolvere il problema dell’emarginazione è senza dubbio necessario preparare più adeguata- mente i giovani all’inserimento nel mondo del lavoro, ma non basta: si dovrà dif- fondere una mentalità di condivisione. Questo significa: “un impegno deciso a pro- muovere e rispettare i diritti umani fondamentali; la volontà politica di puntare sullo sviluppo umano; un senso profondo di solidarietà; la mobilitazione di tutti i partner istituzionali e finanziari, pubblici e privati” (Conférence mondiale sur l’enseignement supérieur..., 1998, 15). L’istruzione superiore può dare un contributo decisivo, sviluppando nuove competenze di adattamento all’evoluzione economica e di esercizio attivo alla cittadinanza democratica. 2.1.6. La fuga dei cervelli Per molti Paesi in via di sviluppo rappresenta un problema grave perché rischia di privarli delle poche risorse umane di livello superiore di cui possono disporre. Questo non significa che essi debbano rinunciare alla mobilità dei loro studenti e docenti che è un arricchimento intellettuale. Al tempo stesso, le nazioni interessate dovranno prendere adeguate misure per facilitare il ritorno delle risorse umane e il loro coinvolgimento nello sviluppo nazionale. 2.1.7. I conflitti armati Questi spesso costituiscono il segnale della difficoltà dei giovani a orientarsi in una società in cui i punti di riferimento tradizionali sono in crisi. L’istruzione su- periore può svolgere una funzione importante nella costruzione di una cultura della pace, fondato sul rispetto dei diritti umani. 2.2. Le proposte Preciso subito che seguirò le indicazioni contenute nell’ultima conferenza mondiale sull’insegnamento superiore, organizzata dall’UNESCO al termine dello scorso millennio, perché mi sembrano le più convincenti e anche quelle applicabili al ventaglio più ampio di Paesi (Conférence mondiale sur l’enseignement supé- rieur..., 1998). 2.2.1. La missione dell’istruzione superiore La conferenza citata ha confermato la missione tradizionale dell’istruzione su- periore, arricchendola di nuovi elementi in risposta alle sfide degli inizi del XXI secolo. Essa si può sintetizzare nelle seguenti finalità: – «educare diplomati altamente qualificati e cittadini responsabili capaci di inte- grarsi in tutti i settori dell’attività umana, offrendo delle qualificazioni appro- priate, comprensive di una formazione professionale, che associno conoscenze e competenze di alto livello [...]; 97 – offrire uno spazio aperto per la formazione superiore e l’apprendimento per tutta la vita, fornendo agli educandi una gamma ottimale di scelte e un dispositivo flessibile di punti di accesso e di uscita dal sistema così come pos- sibilità di sviluppo individuale e di mobilità sociale, al fine di educare citta- dini che partecipano attivamente alla società, aperti sul mondo, nella pro- spettiva del rafforzamento delle capacità endogene, della promozione dei diritti dell’uomo, dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace nella giustizia; – promuovere, creare e diffondere le conoscenze per la ricerca [...]; – aiutare a comprendere, interpretare, preservare, rinforzare, promuovere e diffondere le culture nazionali e regionali, internazionali e storiche in un contesto di pluralismo culturale e di diversità culturale; – aiutare a preservare e promuovere i valori sociali [...]; – contribuire allo sviluppo e al miglioramento dell’educazione a tutti i livelli, soprattutto alla formazione degli insegnanti (Ibidem, 23-24). Le novità possono essere viste nell’inserimento dell’istruzione superiore nel- l’educazione permanente, nel suo coinvolgimento nell’educazione alla cittadinanza democratica e ai valori sociali e nel servizio alle culture locali, nazionali e interna- zionali. 2.2.2. Il ruolo etico, l’autonomia e la responsabilità Le indicazioni che vengono date nel testo citato sopra riguardano le istituzioni di istruzione superiore, il loro personale e gli studenti e consistono negli orienta- menti che anche questa volta citiamo quasi alla lettera: – rispetto pieno dei principi della morale e delle esigenze del rigore scientifico e intellettuale in tutta le attività; – possibilità di intervenire nelle problematiche etiche, culturali e sociali in piena indipendenza e con spirito di responsabilità; – riconoscimento all’istruzione superiore della funzione di previsione, di antici- pazione e di prevenzione e suo potenziamento; – difesa e diffusione attiva dei valori universalmente accettati; – godimento senza limitazioni delle libertà accademiche e dell’autonomia; – contributo alla definizione delle questioni che mettono a rischio il benessere delle nazioni e impegno per la loro soluzione. 2.2.3. Accesso nell’equità L’iscrizione deve dipendere solo dal merito di chi fa domanda. Inoltre, potrà essere avanzata a ogni età e si dovrà tenere conto delle competenze acquisite anche al di fuori del sistema formale di educazione. In questo quadro si richiede un potenziamento e, se necessario, un riorienta- mento dei collegamenti con gli altri ordini e gradi di scuola, in particolare con quella secondaria. Da questo punto di vista il principio fondamentale è che l’istru- 98 zione superiore è parte integrante di un sistema continuo che comincia con l’edu- cazione della prima infanzia e la scuola primaria e che prosegue per tutta la vita. Pertanto essa dovrà lavorare in rete con i genitori, le scuole, gli allievi, il mondo produttivo e le comunità locali. Una strategia fondamentale per realizzare l’eguaglianza delle opportunità con- siste nella diversificazione dei modi e dei criteri per l’iscrizione, dei tipi di strutture e dell’offerta di educazione e di formazione. In ogni caso dovrà essere facilitato l’accesso dei membri dei gruppi marginali come le popolazioni autoctone, le mino- ranze culturali e linguistiche, i gruppi svantaggiati, i popoli che subiscono un’occu- pazione e gli handicappati. Nonostante i passi avanti consistenti compiuti negli ultimi anni, l’accesso pieno delle donne all’istruzione superiore continua a incontrare notevoli ostacoli a livello socio-economico, culturale e politico. Per combattere i pregiudizi legati al sesso la Conferenza Mondiale dell’UNESCO più volte citata suggerisce misure come: esaminare i problemi relativi a questa disparità in tutte le materie; potenziare il coinvolgimento delle donne nei livelli e nelle discipline, nelle quali non sono rap- presentate, in maniera soddisfacente; rafforzare la loro partecipazione alla presa di decisioni; intervenire sugli impedimenti di natura politica e sociale da cui dipende la condizione di diseguaglianza in cui si trovano le donne nell’istruzione superiore. 2.2.4. Potenziamento della ricerca e della formazione alla ricerca Una prima raccomandazione consiste nella proposta di promuovere l’innova- zione, l’interdisciplinarità e la transdisciplinarità dei programmi. Inoltre, dovrà essere ricercato un equilibrio corretto tra indagini di natura fondamentale e quelle di carattere applicato; in ogni caso la ricerca va incoraggiata in tutte le discipline. È anche essenziale che a tutte le persone che operano in questo ambito venga garantiva un’adeguata formazione. Ciò tuttavia non basta se al medesimo tempo non sono assicurati i mezzi finanziari, il personale e il sostegno necessari. 2.2.5. La pertinenza Questa consiste nella corrispondenza tra le aspettative della società e l’offerta dell’istruzione superiore. Ciò richiede anzitutto di fornire una formazione vasta di carattere generale e una mirata su una carriera, ma anche questa di natura ampia e interdisciplinare. Inoltre, l’istruzione superiore dovrà potenziare il suo ruolo di servizio alla società, rinforzando gli interventi rivolti a eliminare la povertà, l’intolleranza, la violenza, l’analfabetismo, la fame, la degradazione dell’ambiente e la malattia. In terzo luogo, ci si aspetta che essa fornisca un apporto efficace alla promozione del si- stema educativo di istruzione e di formazione nel suo complesso. Da ultimo, dovrà contribuire efficacemente all’avvento di una nuova società, formata da persone che possiedono un livello elevato di istruzione, che si dimostrano integrate nella loro personalità, che operano spinte dall’amore per l’umanità e guidate dalla sapienza. 99 2.2.6. Potenziamento della cooperazione con il mondo del lavoro È esigito dal modello di produzione che caratterizza l’economia post-indu- striale, un modello che si fonda sulla conoscenza, sulla sua applicazione e sul trat- tamento dell’informazione. Il potenziamento significa anzitutto coinvolgimento dei rappresentanti del mondo del lavoro negli organismi decisionali delle istituzioni di istruzione supe- riore, utilizzazione delle opportunità di apprendimento/insegnamento offerte dal si- stema produttivo, scambio di personale tra imprese e istruzione superiore e adegua- mento dei programmi alle esigenze del mondo del lavoro. In quanto sede permanente di formazione, perfezionamento e aggiornamento professionali, l’istruzione superiore dovrà analizzare in modo sistematico lo svi- luppo dei comparti scientifici, tecnologici, economici e del lavoro ed inoltre proce- derà a predisporre e valutare insieme al mondo produttivo le iniziative di apprendi- mento/insegnamento che realizzano l’alternanza formazione e lavoro. Una particolare attenzione dovrà essere dedicata dall’istruzione superiore a formare i propri studenti all’auto-imprenditorialità e allo spirito di iniziativa. 2.2.7. Un approccio innovativo al curricolo: il pensiero critico e la creatività Il nuovo modello dovrà essere centrato sullo studente. La finalità è quella di preparare cittadini informati e motivati, provvisti di spirito critico e resi capaci di esaminare i problemi, di trovare delle soluzioni alle questioni sociali, di applicarle nel concreto e di assumersi la responsabilità sociale corrispondente. Tutto ciò richiede una revisione dei programmi e dei metodi di insegnamento. In particolare si dovrà andare oltre la semplice conoscenza delle materie e facilitare l’acquisizione di abilità, competenze e attitudini per la comunicazione, l’analisi creativa e critica, la riflessione indipendente e il lavoro di gruppo. Ovviamente i curricoli e le singole discipline dovranno tenere conto delle diversità tra i sessi e dell’ambiente specifico di ogni Paese. La formazione ai diritti umani va presa in adeguata considerazione nei programmi di tutte le discipline, come una dimensione trasversale a cui contribuire. Le prove d’esame non potranno basarsi solo sulla memoria, ma dovranno valu- tare le attitudini alla comprensione, al lavoro pratico e alla creatività. 2.2.8. Personale e studenti come attori primi dell’istruzione superiore Una prima priorità in tale ambito consiste nell’adozione di strategie adeguate per la preparazione del personale. Questo dovrà essere messo in grado di insegnare agli studenti come apprendere e come assumere iniziative e non limitarsi semplice- mente ad essere delle fonti di conoscenza, ma divenire guida valida alle informa- zioni. Bisognerà adottare con urgenza misure per il potenziamento delle loro com- petenze pedagogiche e didattiche e di ricerca e si dovrà accordare maggiore impor- tanza all’esperienza internazionale. La condizione professionale e finanziaria dovrà essere tale da assicurare l’eccellenza della ricerca e della docenza. 100 Le autorità nazionali e istituzionali dovranno porre gli studenti al centro del loro impegno. Pertanto li riconosceranno come collaboratori essenziali e agenti re- sponsabili della riforma dell’istruzione superiore, facendoli partecipare alla risolu- zione dei problemi, alla valutazione, al rinnovamento delle strategie educative e di- dattiche ed educative e dei curricoli, all’elaborazione delle politiche e alla condu- zione delle istituzioni; ciò significa anche garantire loro il diritto di organizzarsi e un’adeguata rappresentanza. Inoltre, sarà necessario un potenziamento dei servizi di orientamento in collaborazione con le organizzazione degli studenti allo scopo di favorire la transizione dalla secondaria all’istruzione superiore a qualsiasi età, di venire incontro ai bisogni dei gruppi più diversi di studenti e di prendere in ade- guata considerazione le esigenze di quanti abbandonano l’istruzione superiore e vi ritornano successivamente. 2.2.9. Valutazione della qualità Il concetto di qualità nell’istruzione superiore si caratterizza per la sua natura multidimensionale in quanto riguarda tutte le sue attività. Tra l’altro esso abbraccia la prospettiva internazionale e di conseguenza la mobilità del personale e degli stu- denti sia all’interno del Paese che all’esterno. Un altro aspetto importante consiste nelle conoscenze e nelle competenze del personale docente per cui si dovrà assicu- rarne il perfezionamento nei vari compiti. Come modalità di tale verifica, si suggerisce di ricorrere sia all’autovaluta- zione sia a un esame esterno di esperti indipendenti. I relativi criteri dovranno te- nere conto della specificità dei contesti istituzionali, nazionali e regionali. 2.2.10. Problemi e potenziale delle TIC L’istruzione superiore dovrà essere la prima ad avvalersi dei benefici delle TIC in uno spirito di apertura, di equità e di cooperazione internazionale. Per stabilire i necessari collegamenti si suggerisce anzitutto di costituire delle reti, procedere a tra- sferimenti di tecnologia, preparare sussidi, mettere in comune esperienze. Un’altra misura da prendere consiste nel creare nuovi ambienti di apprendimento (dal ricorso alla formazione a distanza fino alla costituzione di istituzioni virtuali). In aggiunta, bisognerà impegnarsi a rimediare alle gravi disparità che esistono nell’accesso alle TIC tra Paesi e all’interno dei Paesi e si dovrà cercare di adattare le TIC ai bisogni locali e nazionali. Un’ultima proposta riguarda la raccomandazione di garantire che siano le istituzioni di istruzione superiore a servirsi delle TIC e non viceversa. 2.2.11. La gestione e il finanziamento Il principio fondamentale è quello della condivisione delle responsabilità con tutte le istanze interessate, sia all’interno che all’esterno degli istituti. All’interno le responsabilità ricadono sull’insieme delle componenti, formatori e ricercatori, studenti, personale amministrativo e più in generale su tutti coloro che svolgono funzioni di gestione e di consulenza. 101 All’esterno si impone la molteplicità dei partner, comunità territoriali entro un sistema decentralizzato di autonomie, istituti di ricerca scientifica indipendenti dal- l’università e imprese. Dopo anni in cui istruzione superiore e mondo produttivo si sono ignorati, recentemente le loro relazioni hanno ricevuto un notevole impulso: è importante tuttavia che l’università non assuma un atteggiamento economicistico, di funzionalizzazione prioritaria alle esigenze del mercato del lavoro. Un altro caposaldo della gestione è costituito dall’autonomia delle istituzioni di istruzione superiore. Ciò significa che l’esercizio delle libertà accademiche deve essere garantito e che andranno assicurati flessibilità e decentramento: da parte delle autorità bisogna che sia realizzata una politica che incoraggi e sostenga e non una politica che limiti. Al tempo stesso, l’autonomia andrà accompagnata dall’ob- bligo di rendere conto delle proprie attività in modo chiaro e trasparente al go- verno, al parlamento, agli studenti, ai genitori e alla società civile. Un’istruzione superiore di qualità richiede un governo delle istituzioni che metta insieme la visione del futuro con la padronanza di buone competenze per la gestione. Pertanto la direzione costituisce un ruolo di importanza centrale e il suo esercizio può essere migliorato dal dialogo con tutte le parti interessate, in partico- lare con i docenti e gli studenti. Il finanziamento non può basarsi solo sulle risorse pubbliche, ma richiede il ri- corso egualmente a quelle private e del privato sociale. Indubbiamente il ruolo dello Stato rimane essenziale, ma non è la sola fonte e talora neppure la principale: in ogni caso dovrà impegnarsi per assicurare che l’istruzione superiore sia adegua- tamente finanziata. Al tempo stesso, si dovrà puntare alla diversificazione più ampia delle fonti di finanziamento, includendo anche i privati. Da questo punto di vista bisognerà stimolare lo spirito di imprenditorialità delle istituzioni di istru- zione superiore, cercando comunque di garantire a tutti gli studenti una accesso equo a tutte le strutture. 2.2.12. La cooperazione internazionale Esiste un consenso generale sull’attribuzione all’università – tra i suoi compiti primari – quello della cooperazione internazionale. Un problema fondamentale è di assicurare alle istituzioni di istruzione superiore dei Paesi in via di sviluppo ade- guata mobilità accademica senza che ciò si traduca in una fuga di cervelli. Un ruolo centrale in questo ambito spetta all’UNESCO, alle altre organizzazioni intergover- native e alle organizzazioni non governative di carattere internazionale. 3. LA RIFORMA UNIVERSITARIA IN EUROPA La forza di cambiamento che ha maggiormente influito sulla riforma in corso va identificata molto probabilmente nella domanda individuale e sociale (Associa- zione TreeLLLe, 2003; Malizia e Nanni, 2004). Lo sviluppo dei sistemi di istru- 102 zione e di formazione dei Paesi europei, come quelli degli altri continenti, è sempre più determinato dalle esigenze dei molti portatori di interesse, mentre cala l’inci- denza del modello di crescita guidato dall’offerta che nel passato aveva dominato le dinamiche delle istituzioni educative. Se nel XXI secolo sarà la conoscenza a condizionare il successo degli individui, delle organizzazioni e delle nazioni, gio- vani e adulti cercheranno di accedere a un’istruzione sempre più elevata che risponda ai loro bisogni personali e professionali e la società richiederà cittadini e lavoratori dotati di un livello alto di competenze; in altre parole il centro dell’atten- zione deve diventare lo studente, non però da solo, ma entro un contesto con le sue esigenze a cui bisogna rispondere anche per il bene del primo. Ne consegue pure che l’offerta di formazione universitaria dovrà caratterizzarsi per una differenzia- zione e per una flessibilità particolarmente spinte, se si intende accogliere al tempo stesso le domande molto diversificate del corpo studentesco e le istanze altrettanto variegate del sistema sociale e di quello produttivo. In questo quadro assume una collocazione prioritaria l’obiettivo di assicurare a tutti l’eguaglianza di opportunità nell’accesso alle università. Nonostante gli sforzi compiuti, sia nel passato sia recentemente, i giovani delle categorie socio-econo- miche più basse dispongono solo di possibilità ridotte nel passaggio dalla scuola all’università. Comunque, in tutti gli Stati dell’Europa si riscontra l’impegno a faci- litare l’accesso all’istruzione superiore dei giovani capaci provenienti da famiglie che storicamente ne sono state escluse. Tradizionalmente le missioni fondamentali dell’università sono stata identifi- cate nella ricerca e nell’insegnamento. Recentemente si sta affermando un’altra e consiste nella funzione che tale istituzione può svolgere a servizio del territorio come risorsa per la comunità. Inoltre, l’università dovrà prevedere percorsi per l’apprendimento lungo l’arco della vita capaci di rispondere alle esigenze di giovani e adulti. L’introduzione della nuove tecnologie dell’informazione e della comunica- zione e in particolare la diffusione enorme della rete costituiscono un processo epo- cale che interessa profondamente anche l’università: mutano le forme e i modi anche organizzativi della elaborazione e della trasmissione delle conoscenze, emer- gono nuove opportunità per la ricerca e la didattica e si moltiplicano i luoghi di produzione dei saperi al di fuori delle università. Inoltre, riceve un ulteriore forte impulso il processo di internazionalizzazione dell’istruzione superiore e della ri- cerca con effetti contrastanti nel senso che favorisce da una parte la cooperazione tra le università, ma nello stesso tempo accresce la competitività. L’avvento dell’università di massa ha posto con particolare forza e urgenza il problema della qualità e della adeguatezza dei curricoli universitari. Un indicatore che mette in evidenza la delicatezza della questione è offerto dai tassi di abban- dono che rimangono elevati in tutti i Paesi. Anche per offrire un contributo alla soluzione di questi problemi sono stati introdotti in molte nazioni del continente sistemi di valutazione esterna e di autovalutazione di ateneo. Questi rispondono 103 anche all’esigenza di un governo del sistema e delle singole istituzioni più mirato ed efficace e ad una forte domanda di maggiore trasparenza. Da tale punto di vista, se è vero che alle università vanno riconosciuti spazi di significativa autonomia, è anche vero che non ci può essere autonomia senza responsabilità, né responsabilità senza valutazione. Tradizionalmente l’università si è evoluta in Europa entro i confini di ciascuno Stato nazionale e le conseguenze sono state soprattutto due: una differenziazione particolarmente spinta che ha rappresentato il maggior ostacolo alla leggibilità, alla trasparenza e alla mobilità; una cooperazione ridotta ai rapporti personali e a un numero limitato di accordi bilaterali. A partire dalla metà degli anni ’80 l’Unione Europea ha lanciato vari programmi di successo mirati a potenziare la collabo- razione internazionale e, tra l’altro, si è potuta realizzare una mobilità di oltre 100.000 studenti all’anno. Si è anche di fatto affermato un vero e proprio mercato del lavoro europeo che richiede dai sistemi di istruzione e formazione, in partico- lare superiore, e una preparazione adeguata di giovani e adulti. I fattori socio-culturali ed economici che abbiamo elencato sopra, essendo comuni a tutti i Paesi dell’Europa, hanno imposto ai governi l’esigenza di proce- dere a riforme convergenti dell’università. In questo senso la Dichiarazione di Bologna del 1999 recepisce domande e tendenze fondamentali con cui le nazioni del continente sono chiamate a confrontarsi congiuntamente nel loro stesso inte- resse (The Bologna Declaration..., 2000). La meta finale è di creare uno spazio eu- ropeo dell’istruzione superiore allo scopo di rafforzare l’incidenza formativa dei si- stemi nazionali e di accrescere le opportunità di lavoro e la mobilità dei cittadini. Inoltre, il processo di convergenza si caratterizza per i seguenti obiettivi specifici: 1) adozione di un sistema di diplomi facilmente leggibili e comparabili; 2) adozione di un sistema essenzialmente basato su due cicli; 3) introduzione di un sistema di unità capitalizzabili (crediti); 4) promozione della mobilità; 5) promozione della cooperazione europea in materia di valutazione della qualità; 6) promozione di una dimensione europea dell’istruzione superiore. La data entro la quale tale programma di azione (e non mera dichiarazione politica) andrà realizzato è stata fissata nel 2010. Nel prosieguo dell’attuazione della dichiarazione di Bologna, il Comunicato di Praga ha aggiunto tre aree di azione: 1) acquisizione del sapere lungo tutta la vita; 2) istituti di istruzione superiore e studenti; 3) promozione dell’attrattività dello Spazio europeo dell’istruzione superiore (Towards the European higher education area, 2001). Il comunicato di Berlino ha aggiunto un decimo ambito di interventi: 4) studi di dottorato e sinergia entro lo Spazio europeo dell’istruzione superiore e lo Spazio europeo della ricerca. 104 Infine, la dimensione sociale dell’istruzione superiore deve essere concepita come una linea direttiva globale e trasversale (Realising the European higher edu- cation area, 2003; Comité Directeur de l’Enseignement supérieur et la Recherche, 2004). Il “processo di Bologna” costituisce l’evento principale di questi ultimi anni per l’università in Europa e rappresenta un evento irreversibile per cui si richiede un impegno forte a favore dell’autonomia in modo da evitare che le dinamiche della convergenza comportino il rischio di una omogeneizzazione culturale. Certa- mente non possono non essere apprezzati vari dei principi che sottendono la dichia- razione come la centralità del soggetto che apprende, l’enfasi sulla qualità, la co- operazione tra i Paesi, la promozione della mobilità di docenti e studenti e della trasparenza e la comparabilità dei titoli. Al tempo stesso qualche preoccupazione va espressa per la eccessiva funziona- lità al sistema produttivo e al mercato del lavoro: la preparazione offerta nell’istru- zione superiore deve riguardare l’inserimento in tutti mondi vitali della società, deve contribuire allo sviluppo pieno della personalità del soggetto, e quindi non si può dimenticare la formazione morale, spirituale e religiosa della persona. Per- tanto, va vista con favore la scelta della Conferenza di Berlino del 2003 di correg- gere l’equilibrio tra le dimensioni competitiva e sociale a favore di quest’ultima: infatti, si aveva l’impressione che i bisogni del mercato fossero troppo enfatizzati a svantaggio della soluzione dei problemi sociali come l’instaurazione di una mag- giore eguaglianza (Zgaga, 2003). Accrescere la competitività e la capacità di attrazione delle università europee sono obiettivi importanti se però non vengono visti con una mentalità chiusa ai soli interessi dell’Europa. Nel ricevere studenti che appartengono ad altri continenti le nostre università dovranno prepararli per il rientro nei loro Paesi di origine e non per trattenerli egoisticamente qui in Europa in vista dello sviluppo dei nostri -sistemi produttivi; inoltre, esse devono rimanere aperte a tutte le culture ed evitare forme di colonizzazione culturale. La competitività ha senso se si mette al servizio di una maggiore efficienza e ultimamente della solidarietà, ma non come fine in se stesso. La Dichiarazione di Bologna prevede come primo passo verso l’armonizza- zione dei diversi sistemi universitari l’articolazione degli studi secondo due cicli fondamentali di cui il primo di almeno tre anni e con una particolare attenzione al- l’occupabilità e l’altro che dovrebbe valere tra i 90 e 120 crediti ECTS ed essere di tipo accademico o professionale o una combinazione dei due. Una delle ragioni che ha portato a questa innovazione si riferisce all’eccessiva mortalità studentesca per cui solo una minoranza giunge a conseguire un titolo universitario a causa di un percorso di studi troppo impegnativo. In proposito va però segnalato il pericolo di una esaltazione un po’ ingenua della pratica professionale in quanto potrebbe impli- care il venire meno di un legame preciso alle sue basi teorico-scientifiche e alle istanze critico-ermeneutiche. Le difficoltà che si incontrano nella configurazione soprattutto del percorso di laurea, in quanto si cerca un equilibrio non facile tra ap- 105 porti provenienti da ambiti disciplinari di natura ermeneutica, scientifica e tecnico- pratica, forse potrebbero essere superate se si riuscisse a realizzare nei corsi un vero dialogo interiore di natura interdisciplinare orientato all’azione. Un punto debole del processo è costituito dalla mancanza di una regia più de- cisa che stabilisca poche regole chiare, anche se non normative particolareggiate. Qui entra la natura intergovernativa del progetto per cui i Paesi che non prendono provvedimenti o li prendono negativi per il processo nel suo complesso non pos- sono essere richiamati facilmente al rispetto delle regole convenute. Su questa stessa linea la partecipazione di un numero sempre maggiore di attori potrebbe im- plicare come conseguenza che si perdono di vista gli obiettivi fondamentali del processo. 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ZGAGA P., Bologna process: Berlin communiqué; Report to the ministers of education on the signatory countries, Strasbourg, Steering Committee for Higher Education and Research/Council of Europe, 2003. 107 Capitolo 5 L’educazione degli adulti: un livello essenziale del sistema Dopo il cambiamento nell’articolazione dei temi che ho introdotto nell’istru- zione superiore, riprendo la struttura che ho seguito prevalentemente in questa seconda parte del volume. Pertanto, i contenuti del capitolo saranno distribuiti in due sezioni: la prima cercherà di illustrare le fasi principali dello sviluppo dell’edu- cazione degli adulti nel cinquantennio appena trascorso, mentre la seconda si con- centrerà sulle sfide e le prospettive attuali. 1. L’EVOLUZIONE NELLA SECONDA METÀ DEL XX SECOLO: UNO SGUARDO D’INSIEME Anzitutto, mi sembra opportuno richiamare in sintesi le conferenze del- l’UNESCO che dopo la seconda guerra mondiale hanno contribuito in maniera decisiva alla maturazione dell’educazione degli adulti, consentendole di acquisire la fisionomia attuale (Thomas, 1977; Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996). Incomincio con la conferenza di Elsinore del 1949. La partecipazione è limi- tata a solo 25 Stati che erano in maggioranza dell’Occidente, mentre solo 10 rien- travano tra i Paesi in via di sviluppo e mancava totalmente la rappresentanza del mondo comunista perché ancora guardava con sospetto alle attività dell’UNESCO. Il tema principale è stato l’elaborazione di una cultura popolare che permettesse alla più gran parte dei cittadini di partecipare in qualche modo ai benefici del grande patrimonio di acquisizioni del passato e che contribuisse a mettere fine alla contrapposizione tradizionale fra la cultura di massa e quella di élite, creando un nucleo di valori comuni. Al contrario si è trattato solo marginalmente delle proble- matiche dell’analfabetismo e della formazione professionale perché non rappresen- tavano questioni particolarmente rilevanti per le nazione ricche, mentre lo erano per quelle in via di sviluppo. Nella conferenza viene sottolineata l’importanza degli organismi non governativi, in particolare delle associazioni volontarie, anche se non è ignorato del tutto l’apporto dello Stato e degli Enti locali. Nella conferenza di Montreal del 1960, il numero degli Stati partecipanti sale a 51. L’incontro è focalizzata sulla tematica dell’educazione degli adulti in un mondo in trasformazione di cui vengono sottolineati gli aspetti più cospicui: il con- seguimento dell’indipendenza politica da parte di numerosi Paesi del terzo mondo, i progressi enormi della scienza e della tecnologia, la diffusione della televisione. Molto importanti sono le novità contenute nelle conclusioni della conferenza: 108 – l’educazione degli adulti non costituisce un elemento contingente del sistema educativo che può esserci, ma che può anche mancare e che può essere più o meno sviluppato, ma ne rappresenta un livello essenziale; – viene privilegiata l’azione degli organismi pubblici sui privati data la comples- sità dei problemi da affrontare; – la priorità delle priorità è data all’eliminazione dell’analfabetismo; – è auspicata una partecipazione più attiva della scuola e dell’università all’edu- cazione degli adulti mediante una più ampia messa a disposizione degli inse- gnanti, dei locali e delle attrezzature; – si sottolinea la necessità di elaborare uno statuto per gli educatori dell’educa- zione degli adulti; – si raccomanda il potenziamento dell’assistenza ai Paesi in via di sviluppo. La conferenza di Tokio del 1972 a cui partecipano tutti gli Stati dell’UNESCO (87) consolida definitivamente il profilo dell’educazione degli adulti quale emerge dall’evoluzione accennata e quale era stata abbozzato per la prima volta a Mon- treal. 1.1. Le caratteristiche specifiche dell’educazione degli adulti Rispetto ad altri livelli del sistema educativo l’identità dell’educazione degli adulti può essere sostanzialmente riassunta da quattro tratti distintivi (Thomas, 1977; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996; Bhola, 1997; Blondel, Delors et alii, 1998; Adult learning..., 1999). a. La fascia di età, che fa da referente, è pressoché illimitata. Il termine ultimo coincide con la fine della vita. L’inizio dell’educazione degli adulti nei Paesi sviluppati viene identificato con la conclusione della scolarità obbligatoria; nelle nazioni in via di sviluppo la questione diventa più complessa perché un adolescente o un bambino non scolarizzato si trova nella medesima condi- zione di un adulto analfabeta. Convenzionalmente il problema è stato risolto attribuendo lo status di adulto a ogni analfabeta che abbia compiuto 15 anni. b. Un’altra caratteristica è la mancanza di obbligatorietà dell’educazione degli adulti, mentre viene attribuito un ruolo centrale alla libera scelta della persona. L’attuale società della conoscenza è in grado di offrire le più diverse opportu- nità ad ogni adulto che desideri istruirsi. c. In terzo luogo, l’educazione degli adulti presenta una estrema varietà di forme strutturate: le campagne di alfabetizzazione, il riciclaggio nell’indu- stria, i corsi serali o per corrispondenza, la formazione a distanza, le univer- sità senza mura... In proposito, va tuttavia osservato che l’autoapprendimento degli adulti richiede una forte volontà di perseveranza per cui si rende oppor- tuna l’organizzazione di strutture di sostegno che, però, potranno essere le più diverse. 109 d. Nel tempo si è assistito a una graduale trasformazione in un servizio pubblico, tenuto conto che l’impegno delle organizzazioni private non era più sufficiente in relazione al numero notevole di utenti. In ogni caso, si tratta di un servizio pubblico del tutto speciale perché ampio spazio viene riconosciuto all’inizia- tiva dei privati. 1.2. Le finalità dell’educazione degli adulti Nei Paesi in via di sviluppo essa ha funzionato per una buona parte degli adulti da sostituto dell’educazione primaria (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996; Bhola, 1997). In questo ambito è opportuno aprire il discorso sull’analfabetismo e sulle ini- ziative che sono state messe in atto per sradicarlo (Rapporto mondiale sull’educa- zione 2000, 2000). Negli anni ’50-’60 la lotta contro l’analfabetismo diviene una priorità internazionale e nazionale. Infatti, per effetto della Dichiarazione Univer- sale dei Diritti dell’Uomo è assunta dall’Onu e dall’UNESCO come un impegno primario; inoltre, i Paesi che conquistano l’indipendenza la considerano come una meta urgente e di particolare rilevanza per le politiche formative nazionali. Per effetto dell’interessamento delle organizzazioni internazionali negli anni ’50 viene avviato in modo scientifico lo studio dell’analfabetismo nel mondo sul piano quantitativo. Le prime statistiche sono state pubblicate nel 1957 ad iniziativa dell’UNESCO. – Nella metà dei paesi del mondo il 50% o più della popolazione era analfabeta. – La grande maggioranza di questi paesi si trovava in Africa e in Asia. – Dalla raccolta delle informazioni emergeva un dato molto preoccupante che cioè il tasso di analfabetismo diminuiva, ma la popolazione analfabeta cre- sceva. Questo stava a significare che la crescita anche imponente dell’offerta educativa aumentava con un ritmo inferiore a quello della popolazione, mentre per sradicare il triste fenomeno avrebbe dovuto crescere con uno superiore. Le previsioni mettevano in risalto che solo negli anni ’80 il numero degli analfa- beti avrebbe raggiunto il suo punto più alto. Dai dati sono state tratte due conclusioni sulle politiche da adottare. Da una parte si raccomanda di intensificare gli sforzi nazionali per bloccare l’aumento degli adulti analfabeti, mentre dall’altra si suggerisce di sviluppare l’educazione elementare. Riguardo alla prima delle proposte citate sopra, cioè rispetto alle strategie per la lotta diretta all’analfabetismo, esistevano due posizioni. La strategia più antica consisteva nel metodo della campagna nazionale. Questo era basato sull’esperienza dell’Urss anteriore alla seconda guerra mondiale, dove aveva portato a buoni risul- tati sul piano quantitativo: in pratica tutto il Paese si fermava per realizzare a tap- peto interventi massicci che rendessero alfabeti gli analfabeti. Tuttavia sembrava difficilmente trasferibile in tutte nazioni per le forti differenze tra i contesti sociali e 110 anche per le diversità ideologiche. Inoltre, a parere degli esperti consentiva solo un’acquisizione superficiale delle abilità di leggere e scrivere L’altra strategia consisteva nell’adozione del metodo dell’alfabetizzazione funzionale. Questo si fonda sul presupposto che le persone imparano a leggere e a scrivere quando il saper leggere e scrivere corrisponde alle loro esigenze di apprendimento. Pertanto si devono concentrare gli sforzi nei settori della società (associazioni, gruppi, movimenti, realtà produttive, amministrazioni...) dove la motivazione per imparare a leggere e a scrivere è più forte e dove esistono le pos- sibilità di utilizzare concretamente il livello di alfabetizzazione conseguito per ele- vare la propria condizione di vita e per accelerare lo sviluppo della propria strut- tura di riferimento e della società. Inoltre, i programmi di alfabetizzazione dove- vano essere integrati con quelli per lo sviluppo socio-economico e dovevano es- sere accompagnati dall’offerta di una formazione professionale adatta al compito da svolgere. Sulla base di queste considerazioni, negli anni ’60 viene lanciato dalle organiz- zazioni internazionali (ONU e UNESCO) il programma mondiale sperimentale per l’alfabetizzazione (Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000). Le caratteri- stiche principali sono due: è centrato sul metodo dell’alfabetizzazione funzionale, specialmente della funzionalità a finalità lavorative; è sperimentale, cioè mirato a verificare l’efficacia dell’alfabetizzazione funzionale stessa. Si sperava che il pro- gramma potesse fornire utili indicazioni sulla relazione tra alfabetizzazione e svi- luppo sociale ed economico. Nel complesso il programma ha messo in evidenza risultati validi, ma anche carenze. Tra gli aspetti positivi va annoverata la partecipazione di un quarto di mi- lione di adulti e il coinvolgimento diretto di 11 Paesi, a cui si devono aggiungere altri che hanno adottato metodi simili. Inoltre è stato prodotto un gran numero di materiali educativi originali e si è riusciti ad ampliare le capacità di un gran numero di popolazioni povere. Sul lato negativo, va osservato che non si sono realizzate le speranze di arrivare a un modello da applicare su scala mondiale, né si sono potuti dimostrare i vantaggi sociali ed economici del progetto. Nonostante ciò, il con- senso sul concetto di alfabetizzazione funzionale rimane ampio purché tale stra- tegia non venga intesa in senso restrittivo, cioè limitata al lavoro Gli sviluppi successivi evidenziano il carattere determinante dell’apporto di Freire secondo il quale l’alfabetizzazione va accompagnata dalla coscientizzazione, cioè dalla presa di coscienza della situazione sociale e della possibilità di cam- biarla: pertanto, essa ha sempre una dimensione politica e ha un ambito di applica- zione più ampio del lavoro. Di conseguenza, l’alfabetizzazione funzionale viene gradualmente a significare un concetto più globale, cioè quello di esigenze basilari di apprendimento, e l’alfabetizzazione può trovare giustificazione sia in se stessa sia come condizione necessarie per soddisfare molte altre esigenze di apprendi- mento. A metà degli anni ’80 viene riconosciuto il diritto ad imparare degli adulti analfabeti e di quanti privi di educazione formale. 111 I dati recenti sull’analfabetismo mettono in risalto una serie di progressi im- portanti. – Negli anni ’70-’90 si è registrata una riduzione continua dei tassi di analfabe- tismo in particolare nei Paesi meno sviluppati. – Solo in una ventina Paesi tali percentuali rimangono oltre il 50% della popola- zione adulta, mentre nel 1950 era la metà delle nazioni che si trovava in questa situazione. – Negli ultimi trenta anni l’aumento del numero di adulti alfabetizzati risulta maggiore di quello degli analfabeti. – Nella maggioranza dei Paesi del mondo i tassi sono inferiori al 10%. – Un numero crescente di adulti ha potuto frequentare un qualche tipo di educa- zione formale ed è riuscito ad apprendere semplici abilità a leggere e a scrivere. Al tempo stesso non possono essere dimenticati i problemi che permangono gravi e numerosi. – L’analfabetismo costituisce la condizione di moltissimi adulti nelle regioni meno sviluppate e il loro numero sta aumentando anche se con ritmi più lenti che nel passato. – L’analfabetismo tende a concentrarsi tra le donne, nell’Asia Meridionale e nel- l’Africa “Subsahariana”. – Nel mondo si va diffondendo l’analfabetismo funzionale e in questo caso il fenomeno si riscontra nei Paesi sviluppati: infatti, negli Stati dell’OCSE, l’or- ganizzazione che raccoglie le nazioni più industrializzate del mondo, il tasso di analfabetismo funzionale si situa al 20%. In questa situazione si vengono a trovare quegli adulti alfabetizzati che a scuola hanno acquisito solo abilità rudimentali a leggere e a scrivere o che hanno frequentato un’educazione ele- mentare di scarsa qualità o che hanno abbandonato la scuola prima di comple- tare le elementari. Soprattutto dall’ultimo dato sull’alfabetismo funzionale consegue che l’attua- zione del diritto all’educazione per gli adulti non è tanto questione di alfabetizza- zione, quanto di accesso alle opportunità di soddisfare le loro esigenze basilari di apprendimento. Un’altra finalità dell’educazione degli adulti consiste nel completamento del- l’istruzione primaria e della formazione professionale per quanti hanno ricevuto una formazione molto limitata in gioventù (Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996). Il numero degli alunni che abbandonano la scuola ogni anno senza termi- nare il corso normale degli studi è molto alto nella quasi totalità dei Paesi in via di sviluppo. Si tratta di solito di alunni di origine contadina che, sebbene non siano più analfabeti, tuttavia non possiedono alcuna competenza spendibile sul mercato del lavoro e, quindi, sono a rischio di emarginazione. Per loro l’educazione degli adulti costituisce l’unica possibilità di ripresa della formazione. 112 Un altro compito che viene svolto dalla educazione degli adulti consiste nel prolungamento di un’educazione sufficientemente adeguata (Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996). Tale supplemento di istruzione dovrebbe fornire le compe- tenze per affrontare i problemi nuovi posti dall’ambiente. Si tratta della funzione iniziale dell’educazione degli adulti e risponde a tre esigenze: allargamento della propria cultura, promozione professionale e riconversione professionale. Tale fina- lità presenta particolare rilevanza nei Paesi altamente industrializzati, mentre as- solve a ruoli marginali nelle nazioni in via di sviluppo. Un’ulteriore meta si può identificare nel perfezionamento di una formazione elevata: in questo caso l’educazione degli adulti corrisponde al bisogno di aggior- namento e di riqualificazione delle conoscenze e delle competenze (Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996). Si tratta di una funzione che è richiesta dal ritmo acce- lerato di sviluppo della tecnologia e della scienza e risponde ad esigenze più sentite nei Paesi sviluppati. Infine va sottolineato che l’educazione degli adulti assolve anche e soprattutto a una funzione di sviluppo globale (Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996). In altre parole, essa non può essere ridotta semplicemente a formazione professionale continua, ma mira alla maturazione piena della persona, considerata nella totalità dei suoi interessi: lavoro, tempo libero, famiglia, vita culturale, sociale e politica. 1.3. Organizzazione e amministrazione Un’esigenza molto sentita è quella dell’integrazione, cioè di un coordinamento tra iniziative pubbliche e private, che tuttavia non porti a una centralizzazione del- l’amministrazione e non soffochi il dinamismo delle organizzazioni non governa- tive (Thomas, 1977; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996; Bhola, 1997; Blondel, Delors et alii, 1998). Da una parte, la libertà di educazione, la diversità e il pluralismo non possono essere difesi fino al punto da giustificare lo spreco, la contraddittorietà delle of- ferte, l’impotenza a fare per effetto dei veti incrociati. È necessario pertanto un co- ordinamento che può essere affidato a un ministero (nei Paesi che seguono l’impo- stazione centralistica) o a un consiglio nazionale (negli Stati che per tradizione ri- conoscono ampio spazio alle autonomie locali). In ogni caso la definizione degli indirizzi generali della politica formativa spetterà sempre allo Stato; al tempo stesso bisognerà che quest’ultimo provveda a delegare alle amministrazioni locali una larga parte delle sue competenze. Dall’altra parte, si dovrà garantire il rispetto del ruolo dell’iniziativa privata. In particolare non bisogna dimenticare che nell’educazione degli adulti le organiz- zazioni del volontariato vantano una lunga esperienza. Un’altra esigenza egualmente sentita riguarda l’integrazione su un piede di pa- rità dell’educazione degli adulti nel sistema nazionale di educazione. In altre parole deve cessare la condizione di marginalità in cui in molti Paesi si trova l’educazione degli adulti rispetto alla scuola e all’università. 113 L’integrazione, però, non può significare una scolasticizzazione: l’educazione degli adulti non vuole perdere la sua identità, non vuole rinunciare a quella peda- gogia più diversificata ed attiva che la caratterizza dalle origini. Pertanto, l’integra- zione non si può realizzare a livello di sistema scolastico. Al tempo stesso non si può pensare a una estensione incondizionata delle modalità dell’educazione degli adulti alla scuola che non tenga conto delle differenze tra il mondo degli adulti e dei giovani. L’integrazione va realizzata a livello di educazione permanente, cioè all’interno di un progetto globale di riorganizzazione del sistema educativo che si basi su un processo continuo e policentrico in cui la scuola costituisce la prima tappa e l’educazione degli adulti la continuazione e il perfezionamento. A questo punto è bene fare cenno ai rapporti tra educazione degli adulti ed educazione permanente. L’interesse internazionale per quest’ultima emerge negli anni ’60 proprio dal dibattito sull’educazione degli adulti. Sulla linea di quanto an- ticipato sopra, tale discussione aveva messo in evidenza due problemi: la mancanza di un concetto unificatore dei vari approcci e delle diverse forme di educazione degli adulti che potesse fornire agli educatori che lavoravano in circostanze e tradi- zioni nazionali differenti dei punti di riferimento comuni; l’assenza di principi che regolassero i rapporti con il sistema scolastico. In relazioni a tali questioni, la Conferenza Generale dell’UNESCO del 1962 compì un vero e proprio balzo in avanti, affermando che l’educazione degli adulti è parte integrante del sistema di istruzione e che a tutti va riconosciuta l’opportunità di proseguire l’educazione per l’intera esistenza. Sul piano internazionale questa affermazione ha costituito il nucleo originario su cui si è sviluppata l’idea dell’edu- cazione permanente. Il culmine di questa evoluzione si tocca con i lavori della Commissione inter- nazionale per lo sviluppo dell’educazione, promossa dall’UNESCO (1971) che portarono alla pubblicazione del rapporto Faure (Faure et alii, 1972). Ricordiamo i principi di tale documento che riguardano da vicino il nostro tema. – Nella società dell’apprendimento nella quale viviamo, ognuno deve essere posto in grado di continuare ad formarsi per tutta la vita. – Ne consegue uno spostamento di accento dall’insegnamento all’apprendi- mento. – L’educazione permanente non si identifica con la scuola, ma costituisce il prin- cipio organizzatore del sistema educativo di istruzione e di formazione. – In conclusione educazione e apprendimento permanente sono concetti comple- mentari di cui il primo è il pre-requisito per la realizzazione del secondo. Nell’evoluzione successiva tra il ’70 e il ’90 viene affermata a livello interna- zionale la necessità di riconoscere un diritto all’apprendimento per tutta la vita come diritto fondamentale, distinto dal diritto all’educazione. Nonostante ciò, gli Stati non si sentono obbligati ad assicurarne la gratuità per cui il diritto all’educa- zione permanente pare limitarsi all’opportunità per ogni cittadino di partecipare a 114 sue spese all’offerta di formazione permanente, mentre il supporto dei fondi pub- blici dipende dalla situazione economica propria di ciascun Paese. 1.4. Metodi e tecniche Si tratta di un ambito dell’educazione degli adulti che non è molto sviluppato, ma in cui urge promuovere la ricerca e lo scambio di informazioni (Thomas, 1977; Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996; Bhola, 1997; Blondel, Delors et alii, 1998). Il principio fondamentale del rapporto tra educatore ed educando consiste nella partecipazione attiva del secondo fino ad arrivare a una vera educazione reciproca. Ciò non significa la scomparsa o la marginalizzazione del ruolo dell’educatore: questi, invece, conserva la sua importanza, anche se trasformato. Infatti, l’educa- tore diviene un organizzatore, un animatore, un intermediario, un progettista di for- mazione. In altre parole, la formazione deve essere fondamentalmente “autodi- retta”; ovviamente, tale principio non esclude la creazione di centri di studio e la presenza dell’educatore-animatore. Quanto all’uso delle TIC, esso presenta problemi non facili da risolvere, ma anche prospettive notevolmente feconde. Per esempio sono state rilevate carenze nell’organizzazione di alcuni programmi televisivi di educazione degli adulti: inve- stimenti troppo onerosi, scarso adattamento dei programmi importati alla realtà lo- cale, aggressività dei mezzi pubblicitari. Viene anche denunciata una mistica delle TIC in vari Paesi, una credenza quasi magica nelle loro potenzialità. La preferenza sembra andare per un approccio “multimedia”. TV e radio non possono essere ado- perate da sole perché tendono a generare passività e a trasmettere i loro messaggi in forma autoritaria e direttiva. Pertanto, bisogna unire alle trasmissioni radio e televi- sive corsi per corrispondenza, contatti personali con l’educatore e periodi residen- ziali in modo da mantenere vive le motivazioni degli educandi e stimolare la loro partecipazione attiva. 1.5. Il personale Anzitutto, è opportuno distinguere gli educatori degli adulti in senso stretto, quelli cioè il cui compito principale è l’educazione degli adulti, dai collaboratori occasionali, come medici, bibliotecari, musici.... (Thomas, 1977; Rapporto mon- diale sull’educazione 2000, 2000; Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996; Bhola, 1997; Blondel, Delors et alii, 1998). Un orientamento condiviso è quello di assicurare al personale stabile dell’edu- cazione degli adulti un trattamento (statuto giuridico, reclutamento, formazione, stipendi, prospettive di carriera) almeno pari al personale della scuola secondaria. In questo caso il problema nasce dalla difficoltà di conciliare due esigenze egual- mente importanti: da una parte, quella di attirare operatori dedicati e competenti, garantendo retribuzioni adeguate e sicurezza sul lavoro; dall’altra quella di conser- 115 vare all’educazione degli adulti flessibilità, creatività, adattabilità, capacità di rin- novamento, tutte caratteristiche il cui sviluppo può essere ostacolato dalla presenza di un corpo professionale tendente inevitabilmente alla sclerotizzazione. Bisognerà pertanto assicurare stipendi soddisfacenti e condizioni di lavoro adeguate senza trasformare gli educatori dell’educazione degli adulti in funzionari. Da ultimo si suggerisce di prevedere due categorie fondamentali di operatori: gli animatori con la funzione di dirigere i gruppi e gli istruttori con compiti di tra- smettere conoscenze e competenze specifiche. 2. LE PROSPETTIVE: PROBLEMI E PROPOSTE Anche in questo caso procederò schematicamente, per punti, tenendo conto dei documenti delle organizzazioni internazionali e degli apporti che vengono dagli stu- diosi dell’educazione degli adulti (Adult learning..., 1999; Education des adultes..., 1997: Rapporto mondiale sull’educazione 2000, 2000; Bindé, 2002; Delors et alii, 1996; Bhola, 1997; Blondel, Delors et alii, 1998; Singh, 1999). 2.1. Educazione degli adulti e democrazia Anzitutto, vanno ricordate le principali sfide che il XXI secolo pone alla demo- crazia: ridurre la povertà, rafforzare i processi democratici, promuovere i diritti umani, sviluppare una cultura della pace, diffondere la cittadinanza attiva, poten- ziare il ruolo della società civile, assicurare l’eguaglianza in particolare tra i sessi, facilitare l’emancipazione delle donne, riconoscere la diversità culturale, incorag- giare una nuova collaborazione tra lo Stato e la società civile. Il contributo dell’educazione degli adulti ad affrontare i problemi elencati con- siste nell’attivazione di strategie quali: – sviluppare la partecipazione comunitaria; – sensibilizzare ai pregiudizi e alla discriminazione presenti nella società civile; – favorire il riconoscimento delle organizzazioni non governative, e anche la loro partecipazione e responsabilizzazione; – promuovere la cultura della pace, il dialogo interculturale e i diritti dell’uomo. 2.2. Migliorare le condizioni e la qualità dell’educazione degli adulti Negli ultimi anni si riscontra un incremento della domanda di educazione degli adulti che, però è accompagnato dalla crescita delle disparità. Pertanto, si deve in- tervenire urgentemente per rimediare a tale situazione. In questo caso le innovazioni da apportare all’educazione degli adulti riguar- dano aspetti come: – capacitare gli adulti a esprimere le loro esigenze di apprendimento e a porre le condizioni perché vengano concretamente soddisfatte, facilitando l’espressione 116 dei propri bisogni nella cultura e nella lingua di ciascuno e organizzando ser- vizi di informazione e di orientamento; – garantire l’accesso all’educazione: - adottando una legislazione adeguata per riconoscere il diritto di tutti gli adulti ad apprendere, - eliminando le barriere tra educazione formale e non-formale, - curando che i giovani adulti possano continuare la loro formazione oltre la scolarità iniziale, - facilitando la partecipazione degli adulti all’educazione formale, sul luogo di lavoro e nella comunità, - e, comunque, elaborando tutte le strategie necessarie per estendere l’educa- zione degli adulti a quanti ne sono privi, con particolare riferimento alle zone rurali e isolate; – elevare la qualità dell’educazione degli adulti, assicurando la sua pertinenza mediante la partecipazione degli utenti alla elaborazione dei programmi ed ela- borando metodi nuovi di insegnamento/apprendimento attraverso il ricorso a tecnologie interattive e a procedimenti interattivi; – aprire agli adulti gli istituti di istruzione primaria, secondaria e superiore, adat- tando i programmi e le condizioni di apprendimento per rispondere ai loro bisogni e prevedendo forme di riconoscimento delle esperienze già effettuate; – migliorare le condizioni di lavoro e le prospettive di carriera del personale; – promuovere ricerche e studi che siano collegati alle politiche pubbliche e orientati all’azione; – riconoscere il ruolo nuovo dello Stato in collaborazione con tutte le istanze della società civile.6 Infatti, il nuovo Stato si presenta come garante della sod- disfazione per tutti i cittadini dei bisogni fondamentali, benché non più prima- riamente gestore anche se lo rimane in via sussidiaria: in altre parole, la sua funzione va pensata come garante promotore. Per quanto riguardo l’educa- zione degli adulti, si deve aggiungere che quest’ultima non è competenza esclusiva del ministero dell’educazione, ma tutti i ministeri si devono impe- gnare nella sua promozione e la cooperazione interministeriale diventa indi- spensabile. Una novità più importante consiste nell’emergenza del partena- riato più ampio a favore dell’educazione degli adulti all’interno della società civile. 2.3. Garantire il diritto universale all’alfabetizzazione e all’educazione di base Il problema è molto serio e riguarda quel miliardo quasi di persone che non hanno ricevuto un’educazione elementare e anche quei milioni di adulti che nei Paesi sviluppati l’hanno ricevuta, ma non padroneggiano più le relative compe- tenze. 6 Cfr. capp. 1 e 7. 117 Le strategie per affrontare con qualche speranza di successo una situazione così grave comprendono una serie di misure che vengono sinteticamente illustrate qui di seguito: – assicurare la rispondenza dell’offerta di alfabetizzazione alle esigenze di pro- mozione sociale, culturale ed economica degli adulti, mettendo in evidenza lo stretto legame con i diritti della persona umana, con l’esercizio di una cittadi- nanza partecipativa, con l’eguaglianza e l’identità culturale, sostituendo alla concezione ristretta di alfabetizzazione quella di una educazione che intende venire incontro ai bisogni sociali, economici e politici degli adulti e che per- metta l’espressione di una nuova forma di cittadinanza, integrando l’alfabetiz- zazione e altre forme di educazione in tutti i progetti di sviluppo; – elevare la qualità dei programmi di alfabetizzazione: - stabilendo dei legami stretti con la ricerca scientifica e con le culture tradi- zionali e minoritarie, - migliorando il processo di apprendimento mediante il ricorso a strategie fo- calizzate sull’adulto (sensibilità alla diversità di linguaggi e di culture, parte- cipazione degli utenti alla elaborazione del materiale didattico, scambio in- tergenerazionale di conoscenze, utilizzazione delle lingue locali, dei saperi autoctoni e delle tecnologie appropriate), - rafforzando l’efficacia dei programmi mediante il potenziamento delle con- nessioni con altri ambiti come la sanità, la giustizia e l’ambiente, mediante il potenziamento della ricerca fondamentale e applicata e della valutazione, at- traverso il ricorso a tecnologie appropriate, per mezzo della raccolta e della diffusione delle migliori pratiche, - migliorando la formazione del personale attraverso un’attenzione accresciuta al successo personale, alle condizioni di lavoro e alla situazione professio- nale degli educatori, mediante il sostegno continuo al perfezionamento indi- viduale, attraverso il potenziamento della comunicazione all’interno della comunità degli educatori e mediante una intensificazione dell’attenzione alla formazione delle donne che costituiscono la maggioranza delle educatrici, - predisponendo un programma internazionale in vista della elaborazione di strumenti adeguati di seguito e di valutazione, - assicurando che le tecnologie tradizionali e moderne siano messe al servizio dell’alfabetizzazione nei Paesi in via di sviluppo e sviluppati, - impiegando – anche in seguito a una più efficace sensibilizzazione dell’opi- nione pubblica al problema dell’alfabetizzazione – risorse umane e finanziarie sufficienti grazie a un forte impegno delle organizzazioni intergovernative, degli organismi di aiuto bilaterali, delle autorità pubbliche e delle forze sociali. 2.4. L’educazione degli adulti e la parità uomo donna La questione è grave e riguarda le donne che, per la mancanza o la insuffi- cienza di educazione, non hanno accesso alla conoscenza e alla informazione e 118 rimangono escluse da ogni presa di decisione nella famiglia, nella comunità e nella società e sono solo parzialmente padrone del loro corpo e del loro destino. L’egua- glianza di opportunità educative è pertanto indispensabile per consentire alle donne di partecipare pienamente alla vita sociale e dare il loro contributo prezioso alla risoluzione dei problemi che affliggono l’umanità L’educazione degli adulti è chiamata a promuovere l’autonomia delle donne e l’eguaglianza tra i sessi, facendo ricorso a interventi come: – eliminare le disparità nell’accesso – di cui soffrono le donne – a una educa- zione di qualità; – assicurare che tutte le persone, uomini e donne, conseguano la formazione di cui hanno bisogno per soddisfare le loro esigenze fondamentali ed esercitare i loro diritti; – sensibilizzare ragazzi e ragazze, uomini e donne al problema della disparità tra i sessi e convincerli della necessità di cambiare questa situazione; – garantire che le politiche e le pratiche educative rispettino il principio di una rappresentanza paritaria tra i sessi; – eliminare gli ostacoli che impediscono alle adolescenti incinte e alle giovani madri di accedere all’educazione formale e non formale; – promuovere una pedagogia partecipativa che tenga conto delle specificità secondo il sesso e che valorizzi l’esperienza quotidiana e l’apporto sul piano affettivo; – educare le donne e gli uomini in modo da facilitare la condivisione delle loro molteplici responsabilità e compiti. 2.5. L’educazione degli adulti a confronto con le trasformazioni del mondo del lavoro Molteplici aspetti delle trasformazioni del mondo del lavoro presentano un grande impatto sull’educazione degli adulti. Ne ricordiamo i principali: la mondia- lizzazione delle Tic, la precarietà del lavoro e la crescita della disoccupazione, la garanzia nei Paesi in via di sviluppo della sicurezza dei mezzi di sussistenza per tutti, il potenziamento della produzione e della distribuzione nell’industria, nel- l’agricoltura e nei servizi. Le strategie di risposta possono essere identificate in un complesso di modalità di intervento di cui si offre una esemplificazione sintetica: – promuovere il diritto all’educazione degli adulti in ambito professionale, assi- curando che la formazione professionale degli adulti: - fornisca competenze e attitudini specifiche che consentano l’inserimento e la mobilità professionale, - rafforzi la capacità della persona di adattarsi a tipi differenti di lavoro, - assicuri il riconoscimento nei percorsi formali delle conoscenze e delle atti- tudini acquisite informalmente, 119 - educhi a saper analizzare e valutare in modo critico-costruttivo il sistema produttivo e il suo funzionamento; – garantire a gruppi con esigenze diversificate l’accesso alla formazione profes- sionale degli adulti: - incoraggiando i datori di lavoro a sostenere e a organizzare corsi di alfabetiz- zazione sul luogo del lavoro, - venendo incontro alle esigenze dei lavori indipendenti e dei lavoratori del settore informale dell’economia, - favorendo l’accesso delle donne e degli emigranti alla preparazione a lavori e in settori non tradizionali, - assicurando che i programmi di formazione professionale degli adulti ten- gano conto della parità uomo donna, dell’età e delle differenze culturali, - facendo in modo che tali programmi trattino della sicurezza sul lavoro, della tutela della salute dei lavoratori, della protezione contro le ingiustizie, della difesa dell’ambiente, - arricchendo l’ambiente di apprendimento sul luogo di lavoro; – diversificare il contenuto della formazione professionale degli adulti: - inserendovi la trattazione di problematiche riguardanti l’agricoltura, la gestione delle risorse naturali e la sicurezza alimentare, - affrontando le questioni relative ai diritti dei cittadini, alla creazione di orga- nizzazioni e alla salute procreativa, - incoraggiando lo spirito di impresa. 2.6. L’educazione degli adulti e le questioni ambientali, sanitarie e demogra- fiche Si tratta di problematiche che rientrano tutte all’interno del principio dello sviluppo sostenibile. Tutelare l’ambiente dall’inquinamento, prevenendo l’erosione del suolo e gestendo con prudenza le risorse naturali, significa influire direttamente sulla salute, l’alimentazione e il benessere di una popolazione, tutti fattori che inci- dono a loro volta sulla crescita demografica e sulla disponibilità di cibo. L’educazione degli adulti si impegna a contribuire alla risoluzione dei pro- blemi elencati, ponendo in essere interventi quali: – promozione sia della capacità della società civile a rispondere ai problemi dell’ambiente e dello sviluppo sia della partecipazione alla loro risoluzione, fornendo le abilità per dialogare con le autorità, integrando nei programmi di educazione degli adulti le conoscenze tradizionali sui rapporti con la natura, rispettando l’autorità e le competenze delle minoranze, includendo le tema- tiche dell’ambiente e dello sviluppo in ogni iniziativa di educazione degli adulti; – incoraggiamento all’educazione degli adulti in materia di popolazione; – garanzia dell’offerta di programmi che tengano conto delle particolarità cultu- rali e delle specificità dei sessi. 120 2.7. L’educazione degli adulti, la cultura, i media e le Tic Il problema consiste in questo caso nel garantire che tutti i gruppi sociali pos- sano accedere il più largamente possibile ai mezzi di comunicazione in modo da mettere in comune le loro culture, evitando di svolgere un ruolo solo passivo di chi riceve unicamente messaggi altrui. L’apporto dell’educazione degli adulti può consistere anzitutto nello stabilire una sinergia più efficace con le TIC e nel contribuire a potenziare la funzione edu- cativa dei media, utilizzando i media per portare l’educazione degli adulti ai gruppi esclusi, assicurando l’eguaglianza di accesso ai sistemi di apprendimento fondati sulle Tic, estendendo l’offerta di educazione ai media. Altre due strategie possono essere identificate sia nella promozione di un uso equilibrato della proprietà intel- lettuale, favorendo la diffusione dei sussidi per l’apprendimento e al tempo stesso proteggendo i diritti degli autori, sia nel potenziare le biblioteche e le istituzioni culturali. 2.8. L’educazione degli adulti per tutti: i diritti e le aspirazione dei vari gruppi Nonostante lo sviluppo dell’educazione degli adulti soprattutto in anni recenti, vari gruppi continuano ad esserne esclusi in diversi Paesi: in particolare, si tratta degli anziani, degli immigrati, degli zingari, dei nomadi, dei rifugiati, delle persone handicappate e dei detenuti. Per cercare di includere anche questi settori della popolazione si mirerà sia a creare un ambiente educativo favorevole a tutte le forme di apprendimento per le persone anziane, sia a garantire agli immigrati, alle popolazione spostate dal pro- prio habitat tradizionale, ai rifugiati e agli handicappati l’esercizio del diritto al- l’educazione degli adulti. Tutto ciò richiede di fornire agli immigrati e ai rifugiati ampie opportunità di formazione che favoriscano la loro integrazione e preparino le popolazioni che li accolgono a un atteggiamento di rispetto e di solidarietà, di assi- curare agli zingari e ai nomadi la possibilità di riprendere gli studi, di curare che gli handicappati abbiano accesso liberamente ai programmi di educazione degli adulti secondo il principio dell’integrazione, di riconoscere il diritto di apprendere di tutti i detenuti. 2.9. I risvolti economici dell’educazione degli adulti Gli aspetti economici da prendere in considerazione riguardano: una storia di finanziamenti insufficienti, il riconoscimento crescente dei vantaggi di lungo ter- mine dell’investimento nell’educazione degli adulti, la diversificazione dei modi di finanziamento, il numero dei finanziatori, il ruolo delle organizzazioni multilate- rali, l’incidenza dei programmi di adattamento strutturale e l’inserimento dell’edu- cazione degli adulti nei circuiti commerciali. Per quanto riguarda i costi, essi do- vranno essere valutati in rapporto ai benefici che sono molti, importanti e diversifi- cati: contributi all’autosufficienza e all’autonomia degli adulti, all’esercizio dei di- 121 ritti fondamentali, alla crescita della produttività e della efficacia del lavoro; rica- dute positive sulle nuove generazioni che possono essere meglio formate e conse- guire una maggiore prosperità. Il miglioramento del finanziamento dell’educazione degli adulti richiede che gli Stati si impegnino a investire almeno il 6% del prodotto nazionale lordo all’edu- cazione, come proposto dal rapporto Delors, e a destinarne una parte adeguata al- l’educazione degli adulti. Un’altra strategia consiste nel prevedere che ciascun set- tore dell’amministrazione statale o locale, oltre l’istruzione, contempli nel proprio bilancio interventi per l’educazione degli adulti, che ogni programma di sviluppo nei settori dell’agricoltura, della sanità e dell’ambiente comprenda azioni a favore dell’educazione degli adulti, che ciascuna impresa consideri le spese per l’educa- zione degli adulti un investimento e si impegni ad attivare iniziative in questo am- bito e che tutta la società civile si preoccupi di favorire in ogni modo e con creati- vità la promozione della educazione degli adulti. In aggiunta, una parte equa delle risorse va destinata all’educazione delle donne, si deve valorizzare la possibilità di trasformare il debito estero in programmi di sviluppo umano e bisognerà tentare di realizzare il diritto all’apprendimento permanente proposto dal rapporto Delors.7 BIBLIOGRAFIA Adult Learning and the Challenges of the 21st Century. Fifth International Conference on Adult Education. Hambourg, UNESCO-UIE, 1999. BHOLA H.S., Adult Education: Policy Projections in the Delors Report, in “Prospects”, 27 (1997) 2, 207-221. BINDÉ J., What education for the twenty-first century?, in “Prospects”, 32 (2002) 4, 391-404. BLONDEL D. - J. DELORS et alii, Education for the twenty-first century: issues and prospects, Paris, UNESCO, 1998. CALLINI D., Società post-industriale e sistemi educativi, Milano, Angeli, 2006. CRESSON E. - P. FLYNN, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1995. DELORS J. et alii, L’éducation. Un trésor est caché dedans, Paris, Editions UNESCO/Editions Odile Jacob, 1996. Education des adultes. La declaration de Hambourg. L’Agenda des adultes. Paris, UNESCO, 1997. FAURE E. et alii, Learning to be. Paris/London, UNESCO/Harrap, 1972. Rapporto mondiale sulla educazione 2000. Il diritto all’educazione. La formazione per tutti lungo il corso della vita, Parigi/Roma, Editions UNESCO/Armando, 2000. SINGH M. (Ed.), Adult Learning and the Future of Work, Paris, UNESCO-UIE, 1999. THOMAS J., I grandi problemi dell’educazione nel mondo, Roma, Armando, 1977. 7 Cfr. cap. 1 sezione 3.5.2. Parte III QUESTIONI TRASVERSALI 125 Capitolo 6 Ruolo e formazione degli insegnanti: problemi e prospettive Ho già accennato sopra8 al cambiamento più importante che si è prodotto ri- guardo al compito fondamentale dell’insegnante che da fonte delle conoscenze si è trasformato prioritariamente in guida alle fonti. In questo capitolo tale passaggio verrà approfondito all’interno delle due articolazioni solite, la prima dedicata a illu- strare gli sviluppi che si sono verificati nei cinquanta anni appena trascorsi e la se- conda mirata a presentare le sfide dell’attualità e i relativi tentativi di risposta. 1. L’EVOLUZIONE NELLA SECONDA METÀ DEL XX SECOLO: UNO SGUARDO D’INSIEME Per la distribuzione interna degli argomenti riprendo le due tematiche che ho indi- cato nel titolo: il ruolo e la formazione. 1.1. Il ruolo degli insegnanti L’innovazione principale che si registra in proposito nel corso degli ultimi de- cenni del secolo appena trascorso è rappresentata dall’evoluzione dal monopolio alla mediazione (Goble e Porter, 1977; Faure et alii, 1972; Avalos, 1991; Cresson e Flynn, 1995; Delors et alii, 1996; Rapporto mondiale sull’educazione, 2000; 2000). Secondo la concezione tradizionale l’insegnante detiene il monopolio delle conoscenze, le trasmette a chi non le ha e cessa dalla sua funzione quando l’al- lievo ha appreso tutto ciò che sa l’insegnante. Ciò presuppone a monte che le co- noscenze abbiano una natura fissa, finita e quantitativamente misurabile, cioè che l’apprendimento consiste nel deposito e nell’accumulazione di saperi, e che tra docente e allievo si riscontra un dislivello di conoscenze che viene colmato dal travaso di nozioni dal primo al secondo; una volta compiuto tale trasferimento, l’educando o si inserisce nella vita pratica o passa ad un altro insegnante che ne sa più del primo. Inoltre, la condizione dell’insegnante si basa sul fatto di possedere maggiori cognizioni di altri, in specie dei propri allievi. Questo significa che ogni docente esige uno status superiore a quello del collega del livello precedente e che il suo status aumenta con l’elevarsi dell’età dello studente. Da ultimo, il titolo di studio 8 Cfr. sopra cap. 1. 126 viene inteso come una misura della lunghezza della formazione e della capacità di riprodurre dei modelli piuttosto che come indice delle conoscenze e delle compe- tenze acquisite. Alla fine degli anni ’60 il modello del monopolio è entrato in crisi soprattutto per l’effetto di due fattori. In primo luogo, va ricordata l’espansione enorme delle conoscenze, per cui nessuno può vantare il monopolio dei saperi in un determinato settore di studio. Il secondo fattore consiste nell’esplosione delle aspettative di eguaglianza che rende sempre meno accettabile l’esistenza di una gerarchia rigida di status tra le diverse categorie di insegnanti. La prima risposta alla crisi è consistita in un tentativo di modernizzare il mo- dello del monopolio attraverso delle correzioni che però non ne hanno cambiato la sostanza. In altre parole, per gli insegnanti si sono aggiunti ulteriori compiti (per esempio la trasmissione di nuove conoscenze) invece di attribuire loro un nuovo ruolo e sono stati introdotti altri pacchetti di conoscenze da trasmettere, soprattutto utili a consentire agli allievi di affrontare con successo le esigenze del mercato del lavoro, che però sono state concepite nei vecchi termini di immutabilità e di fini- tezza. Chiaramente tale risposta è del tutto insufficiente a superare i problemi posti dall’emergenza dei fattori citati sopra. La soluzione è venuta dal riconoscimento agli insegnanti di un nuovo ruolo, quello della mediazione. In altre parole, l’insegnante si interpone tra l’educando e la massa delle informazioni frammentarie, prive di ordine e tra loro spesso contra- stanti che tendono a sommergerlo, per aiutarlo a integrarle in un quadro coerente di conoscenze. Il compito di trasmettere le conoscenze perde la priorità, anche se non cessa di conservare la sua rilevanza; al contrario, diviene essenziale il compito di formare nell’educando la capacità di individuare, verificare e assimilare le cono- scenze e le competenze che gli consentiranno di formulare e realizzare gli obiettivi delle sue azioni sulla base di una valutazione realistica della situazione in cui vive e nel rispetto degli interessi collettivi e dei diritti altrui. Ne consegue che il docente non è più tanto o principalmente la fonte delle informazioni, ma il suo ruolo con- siste anzitutto nel guidare alle fonti delle conoscenze e nel predisporre le occasioni di apprendimento. Il cambiamento sostanziale nel ruolo del docente appena descritto ha compor- tato necessariamente una nuova definizione delle sue competenze pedagogiche. Anzitutto vanno citate quelle diagnostiche, cioè le abilità di valutare le esi- genze formative dell’educando. Più in particolare si tratta di individuare le capacità dell’educando, di paragonarle con i traguardi da raggiungere, di prevedere le rea- zioni dello studente e di definire gli ostacoli che egli può incontrare. In secondo luogo viene la competenza nel dare risposte corrispondenti ai bi- sogni. Ciò implica anzitutto la scelta dei mezzi più adeguati di comunicazione delle conoscenze e delle competenze. Tutto questo richiede a monte la conoscenza delle discipline, la padronanza delle metodologie in vista dell’apprendimento e la consa- pevolezza della situazione psicologica e sociale dell’educando. Al tempo stesso 127 non va sottovalutata la risposta ai bisogni di ordine e di disciplina degli allievi per evitare che una eccessiva condiscendenza dell’insegnante porti al rifiuto del do- cente da parte dell’alunno. Importanza centrale hanno anche le competenze di valutazione. In sintonia con il ruolo pubblico affidato alla scuola, la valutazione deve certificare il progresso dell’educando e del cambiamento che si è prodotto in lui. Si tratterà inoltre di por- tare l’educando all’autovalutazione che è la sola che può incidere sostanzialmente sui comportamenti degli educandi. Si richiede inoltre la padronanza di alcune tec- niche docimologiche specializzate. Altrettanto significative sono le capacità di relazioni interpersonali. In partico- lare, si tratta di saper usare sensibilità e tatto con gli allievi non solo nelle comuni- cazioni verbali, ma soprattutto in quelle non verbali. Inoltre, bisogna mostrare com- prensione, rispetto e collaborazione con i genitori, gli altri insegnanti e il personale non docente. Al docente si richiede in aggiunta di possedere le competenze necessarie per sviluppare il curricolo. Egli deve essere in grado di organizzarlo in una sequenza logica di unità contenutistiche, in funzione dei meccanismi psicologici di apprendi- mento dell’educando e in modo da comprendere anche l’esperienza extrascolastica. All’insegnante si domanda anche di dimostrare responsabilità sociale. Questa a sua volta comprende vari aspetti: la capacità di identificare gli effetti negativi del- l’ambiente e di rimediare agli influssi sfavorevoli; la capacità di predisporre con- testi favorevoli allo sviluppo dell’educando; una presa di posizione attiva sui pro- blemi filosofici, politici e morali, evitando ogni forma di neutralità, senza però im- porre le proprie convinzioni. 1.2. La formazione degli insegnanti In questo ambito è opportuno distinguere tra formazione iniziale e formazione in servizio. 1.2.1. La formazione iniziale Le modalità principali possono essere sintetizzate in tre strategie. La prima consiste nel non prevedere nessuna formazione specifica per cui nei Paesi in via di sviluppo si va a insegnare dopo la scuola secondaria o la primaria e in quelli sviluppati (ma è più storia che realtà) dopo il 1° ciclo dell’istruzione supe- riore. Certamente, non è una modalità appropriata di formazione e può essere ac- cettata solo come un ripiego in situazioni di mancanza di docenti a fronte di una domanda molto consistente di istruzione per evitare che tanti giovani rimangano senza l’educazione a cui aspirano legittimamente. La seconda strategia è data dalla frequenza della preparazione specifica all’in- segnamento dopo la formazione culturale generale e/o in un determinato settore scientifico (formazione consecutiva). Si situa dopo la scuola secondaria o dopo il 1° ciclo dell’istruzione superiore e consiste in almeno un anno che comprende inse- 128 gnamenti come la teoria generale dell’educazione, la didattica, le scienze sociali (psicologia e sociologia dell’educazione...). La terza modalità è costituita dalla frequenza contemporanea e intrecciata della preparazione specifica all’insegnamento e della formazione culturale generale e/o in un determinato settore scientifico (formazione parallela). Tale tipo di offerta si situa di solito a livello post-scolastico. A questo punto va precisato che la formazione consecutiva e la parallela sono ambedue strategie valide. Esaminiamo ora i programmi di formazione specifica sia che assumano la mo- dalità parallela, sia che si presentano in quella consecutiva. Si tratta di tre possibili strategie. La formazione orientata consiste in un programma coerente finalizzato fin dal- l’inizio esclusivamente alla formazione pedagogica. I vantaggi sono diversi: facilita una progettazione coerente dell’offerta formativa, consente la predisposizione di un curricolo armonico e permette la costituzione di vere comunità educative. Non mancano, tuttavia, i problemi: essa offre possibilità più ridotte di scelta agli stu- denti, può mancare di stimoli e di varietà e dipende dalla domanda di insegnanti che si riscontra in ogni Paese. Al contrario la formazione aperta prevede per chi la frequenta una molteplicità di sbocchi professionali. In questo caso gli elementi positivi possono essere identifi- cati nei seguenti aspetti: tale modalità di organizzare i programmi di formazione spe- cifica permette agli studenti una maggiore flessibilità nelle scelte, consente una deci- sione più matura perché questa è ritardata rispetto al momento dell’inizio e assicura risorse migliori e maggiori opportunità di ricerca, essendo inserita in un contesto uni- versitario e svolgendosi in un primo momento insieme a discipline di maggiore pre- stigio. I limiti possono essere visti nella mancanza di specificità dei programmi e nella difficoltà a conferire al curricolo una fisionomia professionale unitaria. Una terza strategia consiste nella formazione basata sulla scuola che è acqui- sita principalmente durante l’insegnamento. Le ragioni di questa modalità vanno ricercate nel bisogno urgente che i Paesi in via di sviluppo hanno di docenti. Dal punto di vista organizzativo si prevede che dopo la scuola secondaria superiore (o meno) il futuro insegnante svolga un breve periodo di formazione universitaria. Successivamente viene assegnato a una scuola dove lo studente continua la forma- zione personale e la preparazione professionale. Tra i vantaggi si può ricordare che: viene valorizzata l’esperienza di insegna- mento; lo studente si trova già nella situazione per la quale viene formato; questo tipo di programma stimola l’interesse e si caratterizza per un più grande realismo; inoltre, favorisce l’allargamento dell’accesso all’istruzione, soprattutto di base. Il problema più grave consiste nel pericolo di un insuccesso del docente che viene immesso all’insegnamento senza la dovuta preparazione, per cui si rischia di dan- neggiare gravemente gli allievi. In ogni caso, questa modalità è ammissibile solo come transitoria. 129 In conclusione, riguardo all’organizzazione dei programmi di formazione specifica non esiste una strategia totalmente buona o cattiva, ma la validità dipende dal contesto in cui ci si trova ad operare. Nelle sue realizzazioni più adeguate la formazione iniziale si articola solita- mente in cicli. Il primo offre una formazione generale ed una eventuale prepara- zione di base nelle scienze dell’educazione. Di solito si situa a livello di istruzione superiore, ha un minimo di durata che è un anno e di norma conduce a un primo di diploma. Il secondo ciclo può essere organizzato in forma parallela o consecutiva e generalmente si articola in due parti. La prima è dedicata allo studio centrato sulle competenze professionali, si svolge a livello di istruzione superiore nella forma del dipartimento e richiede una esperienza di insegnamento (diretta o simulata). La seconda parte consiste nell’iniziazione pratica guidata e viene realizzata in una scuola sotto la guida di un consigliere pedagogico (per cui cfr. n. 1.2.2). C’è anche bisogno di un aiuto esterno alla scuola (circoli pedagogici di cui nel n. 1.2.2; istitu- zione di istruzione superiore presso la quale si sono studiate le scienze dell’educa- zione). La durata è di almeno 1 anno. La valutazione per l’assunzione definitiva dovrebbe essere affidata a un collegio di esaminatori formato da un ispettore, dal direttore della scuola, dal consigliere pedagogico, da un professore universitario e da un insegnante della scuola. 1.2.2. La formazione in servizio Richiamo anzitutto le tendenze generali più significative. In primo luogo va segnalato l’orientamento a utilizzare prevalentemente le strutture e l’organizza- zione delle istituzioni incaricate della formazione iniziale. Ciò consente tra l’altro di valutare i programmi della formazione iniziale e di renderli più concreti dato il feedback che può venire da quelli che sono coinvolti direttamente nella pratica della docenza. Nei Paesi sviluppati la finalità principale consiste nell’aggiornare e modernizzare un personale invecchiato e conservatore. Al contrario nelle nazioni in via di sviluppo si mira in via prioritaria a completare la formazione iniziale dei docenti. A livello nazionale, l’autorità responsabile delle politiche educative dovrà garantire la rispondenza a mete generali nel quadro dello sviluppo del sistema nazionale di educazione: questo permette di agganciare la formazione in servizio alle priorità del governo. Quanto al finanziamento, la responsabilità ultima spetta ai ministeri competenti, ma al tempo stesso va realizzato un adeguato decentra- mento regionale della gestione. In alcuni Paesi (soprattutto la Francia e quelli dell’area francofona) funzionano centri pedagogici nazionali con compiti di: ricerca, formazione, innovazione, aiuto e documentazione. La formula è valida se non si trasformano in strutture isolate, dedicate solo alla investigazione teorica; al contrario esse sono chiamate a svolgere un ruolo importante di collegamento tra le istituzioni per la formazione iniziale dei docenti, le scuole e la ricerca di 130 base; un’altra funzione significativa è quella di diffondere prassi educative avan- zate. Il livello regionale è quello dove dovrebbero concentrarsi gli sforzi. In questo caso il perno consiste nell’istituzione incaricata della formazione iniziale dei docenti. A tale livello si raccomanda l’introduzione di circoli pedagogici locali (“teachers’ centres”) sia con compiti di promuovere l’innovazione pedagogica attraverso la partecipazione dei docenti migliori in veste di formatori, sia anche con funzioni sociali di aggregazione tra i docenti. Segue il livello della singola scuola che non solo non va trascurato, ma anzi deve assumere un’importanza primaria. Infatti, la formazione in servizio ha senso se i suoi effetti si fanno sentire positivamente in ciascun istituto, nelle singole classi e su ogni insegnante e allievo; altrimenti, è solo spreco e bisogna riconoscere che una parte della formazione in servizio si trova in tale situazione. Pertanto gli obiet- tivi a questo livello vanno identificati nella rinnovamento della scuola dall’interno e nel miglioramento della pratica pedagogica. Determinante per il successo della formazione in servizio nella singola scuola è la creazione di un ambiente che sti- moli e sostenga le iniziative di aggiornamento; da questo punto di vista svolge un ruolo centrale la figura del consigliere pedagogico, docente esperto che ha il com- pito soprattutto di motivare gli insegnanti all’innovazione mediante la formazione e a organizzare la progettazione concreta di attività di aggiornamento. Attenzione adeguata va riservata al livello individuale del singolo insegnante. La formazione in servizio deve rispondere anche ai bisogni dei singoli docenti e non solo alle esigenze del sistema educativo di istruzione e di formazione e a quelle della scuola. Ciò implica la necessità di una partecipazione effettiva dei docenti alle decisioni relative alla formazione in servizio. 2. LE PROSPETTIVE: PROBLEMI E PROPOSTE Riguardo al nuovo ruolo di mediazione e di guida dell’insegnante il consenso è generale, sul piano però della formulazione delle politiche educative non su quello della loro attuazione (Torres, 1996; Delors et alii, 1996; Blondel, Delors et alii, 1998; Rapporto mondiale sull’educazione. 2000, 2000; Bindé, 2002; Halperin e Ratteree, 2003; Silvestre Oramas, 2003). Di esso richiamo gli elementi essenziali quali emergono dalla più recente ri- flessione sull’argomento. Il docente deve adeguarsi alle esigenze di apprendimento dell’allievo (e non viceversa), passando dal ruolo di “solista” a quello di “accompa- gnatore”, spostando il centro del suo insegnamento dalla trasmissione di informa- zioni al supporto prestato all’educando per la ricerca, l’organizzazione e la gestione del sapere, mirando non tanto a plasmarlo quanto a guidarlo. Per realizzare tale ruolo, le attuali politiche educative affidano agli insegnanti i compiti di: 131 – adattare e rielaborare il curricolo oltre a interpretarlo e ad applicarlo; – tenersi aggiornati riguardo alle discipline di base; – scegliere le strategie metodologiche e curricolari più adeguate ai diversi con- testi in cui sono chiamati ad operare; – contribuire a predisporre un progetto educativo di istituto; – definire le esigenze di apprendimento degli allievi e organizzare la classe in risposta a tali bisogni; – incoraggiare il lavoro di gruppo degli allievi e partecipare a gruppi di lavoro con altri insegnanti; – seguire con attenzione i messaggi dei mass media e preparare gli studenti a selezionarli criticamente e a usare le informazioni pubbliche; – riflettere criticamente e collettivamente sul ruolo insegnante e la prassi do- cente; – collaborare con le famiglie e le comunità; – divenire una risorsa polivalente, disponibile ad operare come promotore della salute, agente culturale, animatore di comunità, collaboratore in tutte le cam- pagne pubbliche. Ciò che l’insegnante è, sa ed è capace di fare è un fattore decisivo per l’effi- cacia e l’efficienza dei processi educativi di istruzione e di formazione. Questo è vero specialmente nei Paesi in via di sviluppo e per gli strati sociali poveri per i quali la scuola e il docente costituiscono l’unico contatto con il mondo culturale e scientifico ed offrono possibilità strutturate di interagire con altri bambini. Tenuto conto dell’insieme del nuovo ruolo dei docenti e delle attese che la so- cietà nutre nei loro confronti, è opportuno tentare di definire le esigenze basilari degli insegnanti riguardo alla loro formazione. – La prima è di coinvolgerli direttamente nella ricerca di una risposta a tutte le problematiche che li riguardano comprese quelle della riforma dei sistemi edu- cativi di istruzione di formazione. – Un bisogno molto sentito è quello di una consonanza piena tra il curricolo della scuola e quello della formazione degli insegnanti. – È necessario evitare ogni dicotomia, ma al contrario si deve trovare una inte- grazione equilibrata tra la preparazione in una o più discipline, la competenza pedagogica e l’educazione culturale generale di base all’interno della forma- zione degli insegnanti. – La loro formazione dovrebbe comprendere non solo gli aspetti cognitivi, ma anche quelli emotivi e valoriali. – Le esigenze di apprendimento dei docenti sono diversificate e, pertanto, vanno trovate delle risposte altrettanto differenziate sul piano dell’offerta formativa. – Un’attenzione prioritaria dovrebbe essere prestata alle carenze nella prepara- zione di base degli insegnanti che vanno colmate con urgenza nel corso della loro formazione. 132 – La stessa considerazione va data ad alcune aree del processo di insegnamento- apprendimento che si sono dimostrate particolarmente critiche come per esempio: l’insegnamento della lettura e della scrittura; le ripetenze e gli abban- doni con le loro cause e i loro effetti; la programmazione didattica; le difficoltà di apprendimento. – Si deve assolutamente evitare di presupporre negli insegnanti conoscenze e competenze che essi mai hanno ricevuto nella formazione iniziale o in ser- vizio, come per esempio: la capacità di innovazione; la partecipazione a gruppi di lavoro; le gestione dei compiti a casa; l’adattamento del curricolo; i criteri di valutazione; la promozione del coinvolgimento delle famiglie e della comunità nella scuola; la progettazione e l’attuazione delle attività extrasco- lastiche. Il problema nasce dal fatto che mentre a livello di formulazione le politiche educative delineano una figura di insegnante e un modello di formazione dei docenti che si muovono nell’ambito del quadro delineato sopra, al momento della loro realizzazione non vengono prese misure adeguate per rendere concreti gli ideali che sono stati proclamati. Più in particolare: – la formazione dei docenti continua ad occupare una collocazione marginale nelle politiche educative; – agli insegnanti si chiede di assicurare buone prestazioni da parte degli allievi, ma non vengono posti nelle condizioni di garantire processi validi di insegna- mento-apprendimento; – l’innovazione in campo scolastico continua ad essere concepita come un’ope- razione di breve termine da realizzarsi rapidamente; – le condizioni di lavoro dei docenti (statuto, stipendi, orari, assicurazioni) non sono mai prese in seria considerazione per arrivare a delle soluzioni soddisfa- centi dei relativi problemi. In conclusione, cerco di sintetizzare le argomentazioni fin qui presentate, in- dicando delle linee generali per un ripensamento della formazione degli inse- gnanti. 1) Essa non può essere ristretta ad un addestramento, ma deve offrire tutte le co- noscenze e competenze richieste dalla complessità della vita sociale per cui non ci si può limitare a sviluppare le abilità necessarie per svolgere specifici compiti, ma bisogna ripensare le relazioni tra teoria e pratica, tra dimensione gestionale e pedagogica, tra scuola e comunità. 2) Va superato l’approccio tradizionale alle riforme che consiste nell’adeguare gli insegnanti e la loro formazione al piano di riforma già deciso. Al contrario le conoscenze, le esperienze e la partecipazione attiva degli insegnanti sono es- senziali per la elaborazione di proposte valide di innovazione e per il successo della loro attuazione. 133 3) Il compito di gestire e di riformare in modo efficace la formazione degli inse- gnanti si presenta molto complesso e, pertanto, non può essere assolto solo dallo Stato che, comunque, deve continuare a svolgere un ruolo maggiore. In aggiunta, vanno coinvolte le associazioni degli insegnanti, le organizzazioni non governative che si occupano di questo ambito, i centri e le istituzioni acca- demiche e di ricerca, il privato sociale e il mercato. 4) L’elevazione della qualità di tutto il sistema educativo attraverso la riforma è una misura più efficace e meno costosa che non quella di dover prevedere nella formazione degli insegnanti un settore consistente dedicato al recupero delle carenze nella formazione culturale generale di quanti usciti dalla scuola si iscrivono ai percorsi per la preparazione dei docenti. 5) La riflessione critica e la sistemazione delle proprie prassi rappresentano lo strumento più efficace di cui dispongono gli insegnanti per l’elevazione del livello della loro professionalità. La formazione dei docenti deve preparare all’analisi della pratica dell’insegnamento e deve farne un pilastro del suo programma. 6) La formazione degli insegnanti va considerata come una strategia in se stessa e non semplicemente come parte di un disegno più grande di innovazione e ad esso funzionale. Infatti, essa costituisce un processo continuo, realizzato in varie modalità e passando attraverso diverse fasi. 7) Il punto di partenza deve essere identificato nelle esigenze degli insegnanti. Tuttavia, non ci si può fermare a queste perché molto spesso sono domande di breve respiro che curano i sintomi, ma non le cause di fondo. Esse vanno in- tegrate nel complesso della domanda sociale per cui la formazione degli inse- gnanti deve tra l’altro abilitare i docenti a riorientare i loro bisogni di apprendi- mento verso un ruolo più professionale. 8) La formazione degli insegnanti rientra nell’ambito della educazione degli adulti e deve cercare di utilizzare le conoscenze e le esperienze più valide che tale livello del sistema educativo ha realizzato. 9) Per l’efficacia della formazione degli insegnanti è essenziale che le persone in formazione possano vedere le innovazioni in atto. A ciò potrebbero contribuire reti di scuole in grado di offrire buone pratiche. 10) Pur essendosi sviluppata come una professione da realizzare individualmente, negli ultimi anni è emerso prepotentemente tra gli insegnanti il bisogno di lavorare in gruppo. Per divenire realtà ciò richiede una formazione adeguata da parte dei docenti e la previsione di spazi negli edifici e, soprattutto, di tempi nel calendario scolastico. 11) La preparazione all’autoformazione e allo studio personale costituisce una carenza riconosciuta dei sistemi educativi, mentre rappresenta una precondizione essen- ziale per quell’apprendere per tutta la vita che nella società del cambio è richie- sto a tutti per rimanere padroni della propria esistenza. Anche questo è un ambito da curare particolarmente nel ripensamento della formazione degli insegnanti. 134 BIBLIOGRAFIA AUDUC J.L. (Ed.), Training Teachers to Work in Schools Considered Difficult, Paris, UNESCO-IIEP, 1998. AVALOS B., Approaches to Teacher Education: Initial Teacher Training, London, Commonwealth Secretariat, 1991. BINDÉ J., What education for the twenty-first century?, in “Prospects”, 32 (2002) 4, 391-404. BLONDEL D. - J. DELORS et alii, Education for the twenty-first century: issues and prospects, Paris, UNESCO, 1998. CRESSON E. - P. FLYNN, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1995. DELORS J. et alii, L’éducation. Un trésor est caché dedans, Paris, Editions UNESCO/Editions Odile Jacob, 1996. FAURE E. et alii, Learning to be. Paris/London, UNESCO/Harrap, 1972. GOBLE N.M. - J. F. PORTER, The Changing Role of the Teacher: International Perspectives, Paris, UNESCO-IBE, 1977. HALPERIN R. - B. RATTEREE, Where have all the teachers gone? The silent crisis, in “Prospects”, 33 (2003) 2, 133-138. Rapporto mondiale sulla educazione 2000. Il diritto all’educazione. La formazione per tutti lungo il corso della vita, Parigi/Roma, Editions UNESCO/Armando, 2000. SILVESTRE ORAMAS M., Teaching diagnosis, school curriculum and the quality of education, in “Prospects”, 33 (2003) 1, 19-28. TORRES R.M., Without Reform of Teacher Education there will be no Reform of Education, in “Prospects”, 26 (1996) 3, 447-467. 135 Capitolo 7 La scuola tra autonomia e libertà Anche in questo capitolo l’articolazione degli argomenti si allontana dallo schema solito. Infatti, la distribuzione è tripartita: si incomincia con la giustifica- zione della libertà di educazione, per proseguire con l’indicazione delle formule che ne possono assicurare una realizzazione corretta, per terminare con un riferi- mento sintetico all’evoluzione che è avvenuta nella riflessione ecclesiale. 1. RAGIONI E CONTENUTI Si possono raccogliere intorno a 5 dimensioni: antropologica, pedagogica, politica, organizzativa e giuridica (Garancini, 1985 e 2000; CSSC-Centro Studi per la Scuola Cattolica, 2002; Oidel, 2002; Zajda, 2004; Glenn e De Groof, 2005; Malizia, 1988, 2002, 2008). 1.1. La dimensione antropologica: una libertà fondamentale della persona Nel dibattito sulla libertà di educazione si ha talora l’impressione che per molti questa riguardi solo le scuole cattoliche, o i genitori che mandano i figli a frequen- tarle, cioè una minoranza all’interno dei sistemi educativi di istruzione e di forma- zione, o che si tratti di una benevola concessione da ancien régime fatta alla Chiesa Cattolica in quanto in quel determinato Paese il cattolicesimo è la religione della maggioranza del popolo o sua religione storica. Al contrario, la libertà di educa- zione non è una prerogativa né di una minoranza, né di una maggioranza – e già in questo senso sarebbe un diritto rispettabile perché le minoranze vanno tutelate e la democrazia si fonda sul principio maggioritario – ma è una libertà fondamentale della persona. La libertà di educazione, come libertà di scelta della scuola da frequentare, si basa sul diritto di ogni persona ad educarsi e ad essere educata secondo le proprie convinzioni e sul correlativo diritto dei genitori di decidere dell’educazione e del genere d’istruzione da dare ai loro figli minori. A sua volta tale libertà implica il di- ritto dei privati di istituire e di gestire una scuola e comporta una serie di obblighi per lo Stato: consentire la compresenza di scuole statali e non statali; conferire il ri- conoscimento legale alle scuole non statali se garantiscono il conseguimento di obiettivi didattici equivalenti; assicurare loro una reale parità finanziaria alle stesse condizioni delle scuole statali. 136 1.2. La dimensione pedagogica: il modello dell’apprendimento per tutta la vita La libertà di educazione è connessa strettamente con due principi pedagogici oggi particolarmente sottolineati e cioè che l’educando occupa il centro del sistema formativo e che l’autoformazione è la strategia principe del suo apprendimento. Nelle parole del Rapporto Faure del 1972, tutto questo viene espresso dicendo che “la scuola dell’avvenire deve fare dell’oggetto dell’educazione il soggetto della sua propria educazione” e che “l’etica nuova dell’educazione deve fare dell’individuo il padrone e l’autore del suo progresso culturale” (Faure et alii, 1972, 161 e 209). Dai due principi discende logicamente che a ogni persona va assicurato il di- ritto ad educarsi scegliendo liberamente il proprio percorso tra una molteplicità di vie, strutture, contenuti, metodi e tempi, cioè che a ogni persona deve essere assi- curata la libertà effettiva di educazione. Più in particolare, sul piano dei contenuti bisognerà formare ad un atteggiamento di continua ricerca, stimolare la creatività, educare alla democrazia e alla partecipazione, offrire una formazione personaliz- zata. Passando poi alla traduzione organizzativa o metodologica, va sottolineato che l’educando, particolarmente quando è adulto, deve essere libero di scegliere l’i- stituto che desidera frequentare e il tipo di istruzione che vuole acquisire. Fin dai primi anni va messo nella condizione e spronato a partecipare all’organizzazione della vita scolastica e alla elaborazione dei metodi e dei contenuti. L’autoforma- zione, e in particolare l’autoformazione assistita, assurge a regola aurea dei pro- cessi didattici. Questa focalizzazione sull’educando e sul suo ruolo attivo, propria della pedagogia moderna, richiede il riconoscimento di una libertà effettiva di scelta tra scuole statali e non statali su un piano di parità purché ambedue offrano garanzie di formatività e di democraticità. Del modello dell’educazione permanente o dell’apprendimento per tutta la vita vale la pena ricordare qui due strategie principali perché aprono nuove ed impor- tanti prospettive per la libertà di educazione (Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996).9 Anzitutto, lo sviluppo integrale dell’uomo richiede il coinvolgimento lungo l’intero arco dell’esistenza, oltre che della scuola, di tutte le agenzie educative in una posizione di pari dignità formativa, anche se ciascuna di esse interverrà in tempi e forme diverse secondo la propria natura, la propria metodologia e i propri mezzi (policentricità formativa). In secondo luogo, l’educazione è una responsabi- lità della società intera, comunità e singoli, che sono chiamati a gestire democrati- camente le iniziative formative (“cité educative”, “learning society”, o società educante). L’educazione di ogni persona, di tutta la persona, per tutta la vita – la finalità ultima dell’educazione permanente – è un compito talmente ampio e complesso che la società non lo può affidare ad una sola agenzia educativa – la scuola – o ad una sola istituzione – lo Stato. Accanto allo Stato, tutti i gruppi, le associazioni, i sindacati, le comunità locali e i corpi intermedi devono assumere e realizzare la re- 9 Cfr. anche sopra al cap. 1. 137 sponsabilità educativa che compete a ciascuno di loro. Attuare la società educante significa che il diritto all’educazione permanente viene assicurato non solo dalle istituzioni formative statali, ma anche da una pluralità di strutture pubbliche e pri- vate. Queste ultime, in quanto operano senza scopo di lucro, hanno diritto di rice- vere adeguate sovvenzioni statali. 1.3. La dimensione politica: l’emergere della scuola della società civile Nell’ultimo scorcio del XX secolo si è realizzato, particolarmente nel nostro continente, il passaggio dallo Stato-gestore allo Stato-garante promotore. Il primo modello viene sostituito dal pluralismo istituzionale, dall’ideale di una società aperta, multietnica e multiculturale, dalla logica dell’economia del mercato. In tale contesto muta anche la definizione di pubblico, che cessa di coincidere con il con- cetto di statale e viene invece inteso in un senso sempre più allargato di esercizio di funzioni rispetto a finalità comuni, sollecitando in ogni campo il pluralismo dei ser- vizi ed il decentramento dei poteri. In particolare, quest’ultimo viene concepito anche come vera autonomia decisionale delle istituzioni periferiche. L’idea di Stato-gestore è entrata in crisi all’inizio degli anni ’80 insieme con il modello assistenziale di welfare state. La dilatazione eccessiva dei compiti dello Stato sul piano socio-assistenziale, che non è più sostenuta dalla copertura contri- butiva dei cittadini, ha causato gravi problemi finanziari, mentre dal punto di vista organizzativo si sono moltiplicati i casi di spreco, inefficienza, burocratizzazione e clientelismo. Ma la statalizzazione della società ha prodotto i suoi effetti più nega- tivi alla radice stessa del vivere associato: soffocamento della creatività dei mondi vitali, deresponsabilizzazione delle persone nella soddisfazione dei loro bisogni es- senziali e crescita di un “privatismo” che consiste nel ricercare la propria realizza- zione nel consumo delle merci. Il nuovo Stato si presenta come garante della soddisfazione per tutti i cittadini dei bisogni fondamentali, benché non più primariamente gestore anche se lo rimane in via sussidiaria: in altre parole, la sua funzione va pensata come garante promo- tore. Pertanto, la realizzazione del benessere non dovrà essere affidata tanto a pac- chetti di beni o servizi erogati direttamente da parte dello Stato o delle sue strut- ture, quanto alla garanzia della possibilità di produrli attraverso forme di auto-orga- nizzazione e autogestione degli stessi cittadini, singoli o comunità, con il sostegno dello Stato. Dietro questa impostazione si situa un dato che va tenuto particolarmente pre- sente: negli anni ’80 – e il trend è continuato nei decenni successivi – è emersa dal basso un’esigenza di solidarietà come domanda sociale caratterizzata da contenuti positivi che si esprime in processi come il volontariato, l’impegno associativo, la ri- cerca di esperienze nuove di lavoro e di rapporti interpersonali o comunitari. Nel concetto di solidarietà rimane l’aspirazione alla giustizia sociale e al superamento delle diseguaglianze tradizionali. Però la nuova solidarietà dovrà coniugare contem- poraneamente i bisogni della soggettività, dare soddisfazione alle esigenze indivi- 138 duali, valorizzare il diritto di ciascuno alla differenza. È centrale il concetto di corre- sponsabilità: la solidarietà non va confusa con l’assistenzialismo, ma richiede che ogni persona, anche l’emarginato, diventi attore dell’avvenire proprio e collettivo. L’affermarsi della solidarietà rinvia a una impostazione della dinamica sociale a tre dimensioni, che abbandoni la dicotomia Stato/mercato, pubblico/privato e che riconosca e potenzi il terzo settore o privato sociale.10 Ricordo poi che il terzo set- tore o privato sociale si definisce come il complesso delle attività di produzione di beni e servizi, create dall’iniziativa dei privati e condotte senza scopo di lucro, ma con finalità di servizio sociale. Nei suoi confronti il potere statale non può limitarsi solo ad ammetterne il contributo nell’ambito dei servizi sociali, ma dovrà perse- guire una politica di promozione effettiva. In questo ambito assume una particolare rilevanza il principio di sussidiarietà. Ricordo che esso ha una duplice valenza: in senso verticale, nei rapporti fra enti territoriali di governo; in senso orizzontale, nei rapporti fra gruppi sociali e in quelli fra pubblico e privato. A livello di sistema di istruzione, tale impostazione si- gnifica “il passaggio da una scuola sostanzialmente dello Stato ad una scuola della società civile, certo con un perdurante ed irrinunciabile ruolo dello Stato, ma nella linea della sussidiarietà” (Ruini, 2000, 61); comunque, su questo argomento ritor- nerò più ampiamente nella parte finale del capitolo. 1.4. La dimensione organizzativa: autonomia e parità Il nuovo ruolo dello Stato offre un fondamento solido sul piano del governo della cosa pubblica all’estensione dell’autonomia anche ai sistemi formativi. In ogni caso, tale introduzione possiede una sua intrinseca legittimità anche a livello pedagogico (Romei, 1995; Pajno, Chiosso e Bertagna, 1997; Ribolzi, 1997; Fiorin e Cristanini, 1999; Zajda, 2004; Educational governance at local government, 2007). Infatti, l’autonomia consente alla singola scuola di gestire la sua vita sulla base della libertà dei soggetti educativi (docenti, genitori e studenti) e in partico- lare di venire incontro efficacemente alle esigenze dei giovani. In aggiunta, è in grado di aprire le strutture formative alle esigenze locali, rendendole più sensibili e attente ai bisogni del territorio e al tempo stesso più capaci di fornire risposte ade- guate in tempi reali. Il potenziamento della qualità dell’istruzione, che attualmente rappresenta un nodo fondamentale in tutti i sistemi formativi, può ricevere un im- pulso importante da un’autonomia che stimoli la creatività dal basso. La scelta dell’autonomia corrisponde anche a un orientamento comune ai Paesi dell’Unione Europea. Dopo la delusione provata nei confronti delle riforme globali venute dall’alto, degli anni ’60 e ’70, il fulcro dei processi di rinnovamento si è spostato sulla singola realtà scolastica, sul progetto educativo d’istituto, sull’inno- vazione dal basso. In un contesto di continuo mutamento la possibilità di soddisfare le esigenze che insorgono incessantemente dipende in primo luogo dalla rapidità 10 Cfr. sopra cap. 1. 139 degli interventi. Inoltre, le probabilità di successo di un’innovazione sono maggiori quando l’insegnante ne è partecipe, la sente propria, ha contribuito personalmente ad elaborarla, approvarla, attuarla. Il cuore dell’autonomia è costituito dal riconoscimento della competenza pro- gettuale: ogni scuola dovrà essere messa in grado di elaborare un proprio progetto educativo in cui si rispecchi la sua identità e la sua fisionomia. A questo proposito vanno attribuiti ad ogni unità scolastica poteri adeguati di autonomia didattica, for- mativa, organizzativa e finanziaria. L’autonomia consente di procedere a una radi- cale trasformazione delle logiche che presiedono all’organizzazione della scuola. Infatti, essa valorizza la specificità dei diversi disegni educativi e al tempo stesso persegue le finalità generali e gli obiettivi comuni che la società attribuisce al si- stema formativo nazionale. In questa linea va messa in risalto la consonanza profonda tra autonomia e pa- rità: infatti, le ragioni dell’autonomia sono le stesse che fondano la parità. Alla base di ambedue le strategie si riscontra la medesima idea del primato della società civile sullo Stato. Inoltre, autonomia e parità si costruiscono sulla libertà dei sog- getti educativi (docenti, studenti e genitori). In terzo luogo le scuole paritarie si presentano come istituti capaci di dare un contributo valido per affrontare in modo vincente la questione centrale nell’attuale dibattito sull’istruzione in Europa e nel mondo che è quella della qualità. 1.5. La dimensione giuridica: un diritto umano A livello internazionale è opportuno richiamare qui anzitutto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (Sinistrero, 1970; Malizia, 1988 e 2008). Questa all’art. 26, n. 1, sancisce il diritto all’istruzione di ogni individuo, che nel succes- sivo n. 2 viene specificato come diritto al pieno sviluppo della personalità umana, cioè come vero e proprio diritto all’educazione. Il seguente n. 3, poi, afferma che i genitori hanno il diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli: tale scelta non significa solo la decisione sul tipo di carriera scolastica da seguire, come, per esempio, l’opzione tra una formazione liceale o tecnica o professionale. Infine il n. 1 dell’art. 26 sancisce la gratuità almeno dell’istruzione elementare e fondamentale e l’obbligatorietà dell’istruzione elementare. Pertanto, lo Stato dovrà garantire con adeguati finanziamenti la libertà di scelta nei livelli di insegnamento che sono obbligatori e gratuiti: altrimenti, o si vanifica tale libertà costringendo a frequentare scuole in contrasto con le proprie convinzioni, pur di poter usufruire della gratuità, o si discriminano le famiglie che mandano i figli alle istituzioni private in quanto non possono godere del beneficio della gratuità. Molto più esplicita è la risoluzione del Parlamento Europeo del 14.3.1984: “Il diritto alla libertà di insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e all’adempimento dei loro obblighi in condizioni eguali a quelle di cui 140 beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti, senza discriminazione nei confronti degli organizzatori, dei genitori, degli alunni e del personale; a ciò non osta però che da parte degli istituti d’insegnamento fondati per libera iniziativa si esiga un certo contributo proprio, quale espressione della responsabilità propria a sostegno della loro indipendenza” (art. 1,9) (Scuola e Comunità Europea, 1984, 62-63). 2. LE FORMULE DELLA PARITÀ È “da tenere presente che tutti Paesi europei hanno ormai da tempo affrontato e risolto, [...] sempre attraverso una legislazione paritaria, la questione del rapporto tra scuola privata e servizio scolastico pubblico, offrendo riconoscimenti e sovven- zioni a fronte dell’assunzione di obblighi e responsabilità” (Schema di docu- mento..., 1997, p. 2; cfr. anche Reguzzoni, 1999 e Rescalli, 1999). Le formule prin- cipali della parità sono: 1) ordinamenti in cui pubblico e privato hanno identico riconoscimento e tratta- mento sia giuridico che economico (sistema formativo integrato); 2) ordinamenti in cui al sistema non statale è riconosciuto, a condizioni prefis- sate, un trattamento analogo a quello delle scuole pubbliche statali per quanto riguarda la spesa per il personale ed (eventualmente) il contributo totale o par- ziale per la gestione e/o per le spese relative ad edifici e attrezzature (regime delle convenzioni); 3) il buono scuola (Sorcioni, 1999; Istruzione e sistema scolastico, 1999; Glenn e De Groof; 2005; Scoppa, 2002; Malizia, 1988, 2002, 2008). Passiamo a qualche cenno di commento per ognuna delle formule indicate. Il sistema formativo integrato è caratterizzato dall’integrazione e dal coordinamento nell’unico servizio pubblico delle scuole predisposte dai pubblici poteri e di quelle istituite e/o gestite da soggetti diversi purché rivolte a fini di educazione. Dall’inse- rimento diretto nel sistema pubblico discende la parità finanziaria delle istituzioni private, mentre il riconoscimento della libertà di scelta educativa garantisce loro un adeguato spazio di autonomia. La formula assicura in modo pieno l’eguaglianza nel rispetto della diversità e favorisce l’unitarietà del sistema formativo senza trasfor- marlo in un monolito. Se un pericolo c’è riguardo a questa soluzione, è quello di un possibile appiattimento sulla scuola dello Stato. Il regime dei contratti o delle convenzioni consiste in un’associazione dell’ini- ziativa privata al servizio pubblico a metà strada fra l’indipendenza e l’integra- zione. Possono essere previste diverse forme di contratto che contemplano sussidi e vincoli in rapporto diretto – maggiori sussidi, vincoli più stretti e minore spazio di libertà. Per funzionare bene, il regime deve operare mediante convenzioni quadro piuttosto che con tante convenzioni particolari e la conclusione dei contratti andrà ancorata a parametri oggettivi in modo da evitare ogni discrezionalità da parte dei 141 pubblici poteri. In questo caso i rischi riguardano l’arbitrarietà dell’autorità poli- tica, la parzialità dei finanziamenti, la minore attenzione ai diritti della famiglia. Il buono scuola consiste nell’attribuzione all’educando e ai genitori durante la minore età di un credito nei confronti dello Stato che può essere speso in qualsiasi scuola riconosciuta. Quando è subordinato a condizioni che garantiscano la qualità del servizio e l’eguaglianza delle opportunità, può essere senz’altro considerato come una delle formule valide per realizzare la libertà di educazione e la parità. In- fatti, in questo caso esso assicura a tutti gli educandi e ai genitori – non solo quindi a chi può permettersi il lusso di pagare le rette degli istituti privati – la possibilità di scegliere la scuola di loro preferenza, può favorire l’assunzione da parte delle fami- glie di una maggiore responsabilità nell’educazione dei figli e consente di stimolare il mondo della scuola all’innovazione e alla diversità. In confronto alle altre due formule, pare tuttavia più subordinato alla logica del mercato e potrebbe compor- tare rischi di abusi. 3. IL CAMMINO DELLA CHIESA Parallelamente, anche se con ritmi diversi, la Chiesa ha compiuto un cammino che l’ha portata su posizioni coincidenti sostanzialmente con l’evoluzione dei mo- delli di sviluppo dell’educazione a livello internazionale, europeo e nazionale (Gra- vissimum Educationis, 1965; Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica, 1977; Conferenza Episcopale Italiana, 1983; CSSC-Centro Studi per la Scuola Cat- tolica, 2000; Giovanni Paolo II, 2000; CSSC-Centro Studi per la Scuola Cattolica, 2008). 3.1. L’evoluzione Il punto di partenza è la dichiarazione conciliare “Gravissimum Educationis” del 1965. La parità è fondata sul diritto dei genitori a una reale libertà di scelta della scuola a cui corrisponde il dovere dei pubblici poteri di renderne l’esercizio effettivo mediante sovvenzioni. Tale obbligo è visto nel quadro dell’osservanza della giustizia distributiva e del rispetto del principio di sussidiarietà che esclude ogni forma di monopolio scolastico. Alla società civile vengono attribuite precise responsabilità educative: in germe è già presente l’idea della “cité éducative” del Rapporto Faure. La dichiarazione richiama tutti gli interessati all’impegno per realizzare una collaborazione feconda tra le scuole cattoliche e le altre scuole. Inoltre il testo af- ferma in modo generale la natura comunitaria della scuola e la necessità della par- tecipazione; viene anche definito l’ambiente comunitario della scuola cattolica. Nel documento della Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica del 1977 dal titolo “La Scuola cattolica” l’ottica principale con cui si guarda alla li- bertà di educazione è costituita dal pluralismo culturale, anche se vengono ribadite 142 le motivazioni presenti nella “Gravissimum Educationis”. Il pluralismo culturale pone alle comunità ecclesiali, tra l’altro, le seguenti esigenze: garantire la presenza dell’ispirazione cristiana nel mondo culturale contemporaneo; formare comunità vere che siano in grado di offrire un contributo proprio alla edificazione della so- cietà civile in dialogo con le altre formazioni sociali. In risposta la Chiesa afferma il pluralismo scolastico, “la coesistenza cioè e, se possibile, la cooperazione delle diverse istituzioni scolastiche” (n. 13) che permettano ai giovani di formarsi una propria visione del mondo e di prepararsi a contribuire attivamente alla costruzione della società. In questo quadro la scuola cattolica ha diritto a un suo posto nell’or- ganizzazione scolastica dei vari Paesi su un piede di eguaglianza con quella statale. Quanto al regime della parità, il testo presenta una novità importante: infatti, viene espressa implicitamente una valutazione favorevole circa formule che realiz- zino un inserimento della scuola cattolica nel sistema scolastico nazionale in modo più o meno completo. In altre parole stanno gradualmente maturando le idee della integrazione e del coordinamento tra scuola statale e non statale con fine di educa- zione. Nella linea della “Gravissimum Educationis” la scuola cattolica viene descritta come comunità educativa cristiana. Inoltre è sottolineata e precisata l’istanza della partecipazione: si richiede la collaborazione responsabile di tutti i membri della co- munità – insegnanti, genitori, alunni, personale amministrativo – all’attuazione del progetto educativo secondo i ruoli propri di ciascuna componente. Altra novità par- ticolarmente significativa è proprio l’ampia trattazione del progetto educativo. Ne viene affermata la necessità in quanto giustifica l’esistenza stessa della scuola cat- tolica come una istituzione formativa che possiede una sua identità nel quadro del pluralismo scolastico. Inoltre, sono offerte le linee generali del progetto educativo della scuola cattolica che dovranno essere specificate secondo le Chiese nazionali, le congregazioni religiose, i luoghi e i tempi. Tra i documenti degli episcopati che sono stati emanati in relazione alla racco- mandazione appena citata, richiamo quello della Conferenza Episcopale Italiana su “La Scuola Cattolica oggi in Italia” perché più facilmente accessibile (1983). La prospettiva centrale è di rendere un servizio allo sviluppo dell’intero sistema scola- stico italiano, benché le precedenti motivazioni non vengano dimenticate. L’ottica di fondo rafforza il taglio positivo e propositivo del discorso dei vescovi ed esprime una nuova impostazione della parità che non è più rivendicazione della scuola non statale, ma strategia della società in vista della mobilitazione di tutte le energie del Paese per fini educativi. La proposta più originale in tema di parità è quella di organizzare la scuola ita- liana come un “sistema integrato di servizio scolastico in cui le strutture predi- sposte dai pubblici poteri e quelle istituite e/o gestite da soggetti diversi si inte- grano e si condizionano nell’unico fine comune di garantire alle nuove generazioni il necessario grado di istruzione e alle famiglie il supporto per la loro missione edu- cativa, in spirito di servizio e senza alcuna finalità di lucro” (n. 78). La scuola catto- 143 lica ne è parte integrante in quanto è “scuola autenticamente pubblica” (n. 81). In- fatti, essa offre senza scopo di lucro a tutti i cittadini la possibilità di essere educati nella istituzione di propria scelta fino ai più alti livelli del sistema scolastico. Inoltre, è scuola delle famiglie e della comunità, unita con legami vitali in un rap- porto fecondo di scambio al tessuto culturale locale. Essa è caratterizzata anche da una specifica identità che si esprime nel progetto educativo ed è animata da un centro propulsore e responsabile costituito dalla comunità educante. Pertanto la scuola cattolica chiede di essere trattata in modo realmente pari- tario, senza privilegi, ma anche senza discriminazioni. Di conseguenza vengono re- spinti quei tipi di regolamentazioni della sua presenza nel sistema formativo che non corrispondono a criteri di eguaglianza sostanziale quali: qualsiasi forma di mo- nopolio dello Stato sulla scuola, come il divieto di istituzione di scuole da parte di privati o una libertà di educazione solo formale; una concezione puramente supple- tiva della funzione della scuola cattolica, nel senso che i sussidi sono previsti solo là dove non esistono scuole dello Stato; la «logica dei sussidi discrezionali», la sub- ordinazione cioè all’arbitrio del potere politico; «una certa visione totalizzante e as- sistenzialistica delle attività scolastiche», per cui vengono finanziate solo le scuole cattoliche che si occupano dei poveri (n. 89). Altre formule, invece, sono accettabili purché garantiscano piena eguaglianza e libertà. 3.2. Le prospettive: la scuola della società civile Il punto di partenza è l’affermazione, già citata sopra, del card. Ruini all’As- semblea Nazionale sulla Scuola Cattolica che si è tenuta in Italia nel 1999. “Un tale rinnovamento [del nostro sistema formativo] può essere infatti sinteticamente rap- presentato come il passaggio da una scuola sostanzialmente dello Stato a una scuola della società civile, certo con un perdurante ed irrinunciabile ruolo dello Stato, ma nella linea della sussidiarietà” (2000, 61). Cercherò ora di commentare questa affer- mazione (Malizia, De Giorgi, Monni e Stenco, 2002; Versari 2002; Malizia, 2008). Nel quadro della società complessa e della globalizzazione il processo di ri- forma del sistema formativo è cruciale e postula la valorizzazione di tutte le risorse della nostra cultura, nella prospettiva di una piena libertà della scelta educativa dei cittadini e delle famiglie e di una sana e costruttiva emulazione tra le istituzioni. In- fatti lo Stato non è in grado di affrontare da solo i problemi educativi e sociali se non attraverso una sua rinnovata funzione di garanzia, di promozione, di coordina- mento tra le diverse componenti sociali. Come si è osservato sopra, il riconoscimento reale e pieno della libertà di edu- cazione si basa sul diritto di ogni persona ad educarsi e a essere educata secondo le proprie convinzioni, e sul correlativo diritto-dovere dei genitori di decidere del- l’educazione e del tipo di orientamento valoriale da offrire ai propri figli minori. L’assunzione di questo principio e la rimozione degli ostacoli che ne limitano o che addirittura ne rendono impraticabile l’esercizio, possono dar luogo ad un profondo rinnovamento dell’attuale assetto dei nostri sistemi di istruzione e di formazione. 144 Nell’ottica dell’autonomia non solo delle istituzioni formative, ma anche delle persone che le scelgono e rispetto alle quali esse stesse sono sussidiarie, lo Stato si configura sempre più come garante dell’eguaglianza delle opportunità e della qua- lità del servizio e come promotore del bene comune. Solo così al principio della sussidiarietà si potrà correlare quello della responsabilità e della solidarietà nel- l’ambito del rispetto delle norme comuni. Il soggetto educante naturale di una scuola e quindi il soggetto promotore della stessa, è sempre la persona nel suo diritto naturale e nel suo vario e diversificato associarsi: questo soggetto vuole diventare anche responsabile e perciò “gestore” della scuola nel suo complesso. Oggi le attese della gente comune in fatto di educazione stanno rompendo il cerchio Stato-Mercato perché il desiderio di relazioni più appaganti fondate sulle libere scelte di una persona, responsabile di sé e degli altri, aperta al gusto del vivere attraverso una molteplicità di interessi gratuiti ma capace anche di emettere giudizi sulla società stessa, non è soddisfatto né dalle Stato né dal Mercato. Cosa si intende allora per “scuola della società”? Il punto nodale è costituito dalla necessità di dare vita a una scuola effettivamente adeguata alle esigenze del- l’attuale società pluralistica, capace di dare risposta al bisogno educativo, forma- tivo e istruttivo delle persone mediante una sua riorganizzazione complessiva da at- tuarsi nell’ottica di un nuovo modello di sviluppo democratico, sociale ed econo- mico. Ma, perché la scuola possa fare tutto questo, deve in primo luogo essere dotata del fondamentale valore educativo che propone alle persone; deve, cioè, essa stessa essere “libera”. Paradossalmente non si tratta di garantire come primo valore una scuola che funzioni: anzitutto ci vuole una scuola che sia libera, perché essa sarà funzionante dal punto di vista educativo solo se sarà libera. Occorre che la scuola vada a scuola di libertà: che impari dalla libertà: è necessario che diventi una co- munità di apprendimento, partendo dalla libertà creativa dei suoi soggetti; bisogna che sappia ridistribuire responsabilità e creare competenze in un “nuovo” patto educativo tra soggetti. Il binomio parità-libertà introduce elementi di innovazione non episodici o parziali, ma sostanziali e generali, da adottarsi come criteri di riforma e di rifonda- zione complessiva del sistema stesso in quanto inquadrano l’educazione e l’istru- zione nel contesto dei rapporti tra Stato e società civile. Qui si possono richiamare due significativi risvolti: – dal punto di vista del pieno riconoscimento dei diritti della persona in ordine alla libertà di insegnamento, di apprendimento e di educazione; – dal punto di vista istituzionale, cioè come diritto di Enti e privati di istituire scuole (Garancini, 2000). Ci si è già soffermati sul primo aspetto. Passando ora a considerare la que- stione dal punto di vista istituzionale, come più volte si è ribadito, va ipotizzato un 145 sistema basato su una convergente dinamica sociale a tre dimensioni: l’iniziativa costituzionalmente obbligatoria dello Stato di istituire scuole statali; l’azione com- plementare non sostitutiva, ma raccordata ai diritti di scelta educativa della società civile, del “privato-sociale”; le opportunità offerte dal libero mercato che può dis- porre di grandi risorse da mettere a servizio della società. In particolare, per quanto riguarda la natura sociale della scuola cattolica, l’identità va configurato come espressione del “privato-sociale” come iniziativa, cioè, che, promossa da Enti ecclesiastici e/o di ispirazione cristiana, è finalizzata a scopi di pubblico interesse e allo sviluppo, mediante la diretta partecipazione dei cittadini, della libertà e della responsabilità civile in campo educativo e formativo. Il principio della scuola come espressione della società civile non è una posi- zione di parte, ma è in linea con le tendenze internazionali più accreditate della po- litica dell’educazione. È sufficiente menzionare la “cité éducative” o la “learning society” del Rapporto Faure (cioè che l’educazione è una responsabilità della so- cietà intera, comunità e singoli, che sono chiamati a gestire democraticamente le iniziative formative) o la tesi del rapporto Delors in cui l’educazione è presentata come un qualcosa che riguarda tutti i cittadini, resi ormai attori da consumatori passivi che erano prima (Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996). In altre parole: la proposta educativa della scuola cattolica non rimane solo momento formativo dei propri soggetti, ma diviene elemento attivo nel processo di costruzione della società civile. Pertanto, alla base della scuola della società civile si trova un’impostazione neo-umanistica e solidaristica di questo tipo. – A livello pedagogico, questa mantiene la priorità della funzione educativa sul- l’istruttiva: in altre parole, l’educazione viene intesa come sviluppo globale della personalità, tanto sul piano cognitivo, che su quello emotivo e valoriale, tanto degli aspetti individuali che della dimensione sociale. Inoltre, le finalità educative vengono individuate nei valori emergenti della solidarietà, dello svi- luppo, della protezione dell’ambiente, della tutela dei diritti umani, della mon- dialità. – A livello strutturale, i punti di riferimento sono la politica dell’alternanza e il sistema integrato. L’innovazione viene perseguita mediante procedure demo- cratiche e partecipative: in particolare la singola comunità educativa diviene lo strumento per eccellenza di gestione del sistema formativo e di costruzione del tessuto educativo locale. – A livello di strategie, tale impostazione implica la scelta della progettualità, della flessibilità, della collaborazione, della promozione del terzo settore, per ovviare alle inadeguatezze del gigantismo degli apparati amministrativi della scuola.11 11 Cfr. sopra cap. 1. 146 In più questa ipotesi della scuola della società civile rinvia anche ad alcune strategie macrostrutturali che qui richiamo sulla base dei rapporti Faure e Delors. – Anzitutto, si può ricordare il principio della differenziazione delle strutture formative. La politica dell’educazione deve essere orientata a moltiplicare le istituzioni e i mezzi educativi, ad assicurare l’accesso più largo alle risorse for- mative, a diversificare le offerte nel modo più esteso possibile, e nessuno può negare che la scuola non statale contribuisca al raggiungimento di tale meta. – Altra finalità da realizzare è la “deformalizzazione” delle istituzioni. A parità di risultati dovrebbe essere riconosciuta in linea generale l’eguaglianza di tutti i percorsi formativi, sia formali che informali, sia istituzionalizzati che non: quindi anche di quelli offerti dalle istituzioni non statali purché vengano garan- titi gli standard minimi prescritti per tutto il sistema. – Una terza strategia è la mobilità degli utenti. A livello sia strutturale che di cur- ricolo si dovrà favorire il passaggio degli educandi tanto orizzontalmente che verticalmente, da un livello all’altro del medesimo istituto, da un istituto al- l’altro, da un tipo di educazione all’altro, o dalla vita attiva allo studio e vice- versa: tutto questo deve avvenire a parità di condizione anche verso e da le scuole non statali. – Il sistema formativo, oltre a garantire l’accesso a tutti, deve anche assicurare al termine del processo educativo l’eguaglianza di risultati tra gruppi sociali di- versi. Inoltre, l’eguaglianza delle opportunità nell’istruzione non significa egua- glianza di trattamento, ma eguale possibilità di essere trattati in maniera diversa per poter realizzare le proprie capacità (Faure et alii, 1972; Delors et alii, 1996).12 BIBLIOGRAFIA AZZONE G. F., Scuola pubblica, scuola privata e il feudalesimo di ritorno, in “il Mulino”, 48 (1999) 3, 500-510. 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Gli studenti non possono essere considerati come oggetti, utenti o destinatari dell’azione formativa, ma vi svolgono un ruolo attivo come soggetti e protagonisti, anche se in base alle moda- lità che le varie fasi del loro sviluppo consentono. Sul piano pedagogico-didattico tutto questo significa l’adozione di un tipo di intervento che tenga conto delle esigenze concrete dei singoli e dei diversi gruppi di alunni, soprattutto dei più deboli. Scendendo nel particolare e muovendoci per grandi linee, si può dire che nei confronti della maggioranza degli iscritti che ap- paiono meglio dotati dei valori e delle strategie utili per affrontare con successo i problemi dell’inserimento nella vita, è pensabile una formazione che li renda sempre di più attori in prima persona della loro vita personale, familiare e sociale. Quanto al gruppo degli svantaggiati, l’azione educativa dovrà mirare principal- mente: a restituire la parola a soggetti in situazione di mutismo o quasi; a sostenerli nel rafforzamento della propria interiorità, aiutandoli ad uscire da un modo di fare esperienza che li estranea da sé o che si riduce a puro consumismo; ad ampliare le capacità di visione e di giudizio critico, facendo emergere problemi e domande di senso; a stimolarli a trovare opportunità realistiche di azione e di luoghi dove poter attuare i significati ideali intravisti. Infine, tutti dovranno essere sostenuti e animati sia a non subire le conse- guenze negative delle preoccupazioni degli adulti, della intolleranza verso il di- verso, o del disagio sociale nei confronti del nuovo, del globale, di uno sviluppo equo e sostenibile, sia, in positivo, ad essere accoglienti verso tutti e ciascuno, a 150 saper tradurre il senso del limite in coscienza della propria misura, a mettere a dis- posizione degli altri generosamente le proprie competenze, a trasformare la paura per il mondo globalizzato in ricchezza personale e comunitaria. È anche impor- tante aiutare ogni studente a superare l’ottica di una socialità ristretta e ancora di più a evitare un approccio alla vita esclusivamente individualistico ed egoistico, con una formazione mirata alla partecipazione, alla corresponsabilità e alla solida- rietà attiva. 2. LA COMUNITÀ EDUCANTE COME FULCRO PROMOTORE PRIMO E SOGGETTO REFE- RENTE ULTIMO L’attenzione alla persona comporta di conseguenza una valorizzazione della dimensione comunitaria del processo educativo (Nanni, 2007; Malizia, Cicatelli, Fedeli e Pieroni, 2007). La crescita personale come l’apprendimento di saperi strumentali non sono un fatto privato e circoscritto ma il risultato di una serie di interazioni che chia- mano in gioco tutte le componenti della comunità scolastica, che proprio perciò diviene comunità educante, in cui acquista speciale centralità la relazione educa- tiva, cioè il rapporto privilegiato e funzionale che si stabilisce tra tutte le compo- nenti e che si nutre proprio del loro essere persone in relazione col fine dell’edu- cazione. Concretamente, essa permette ad ogni scuola di edificarsi sulle esigenze for- mative dei suoi membri: in sostanza è possibile predisporre una programmazione corrispondente alle varie situazioni e la responsabilità individuale e collettiva viene riconosciuta in tutta la sua potenzialità attraverso l’attribuzione di ambiti rilevanti di azione. Inoltre, essa assicura la convergenza sostanziale sugli orienta- menti e le scelte dell’istituzione, nonostante le differenziazioni che può ingenerare il pluralismo culturale e formativo, in quanto attraverso l’instaurazione di rapporti ispirati alla collaborazione promuove la partecipazione effettiva di tutti alla costruzione della comunità stessa, alla definizione dei ruoli e al raggiungimento dei fini. Sul piano pedagogico l’ambiente è educativo sia di per se stesso sia come con- dizione per l’educazione diretta. Soprattutto, una comunità educante che realizzi stili procedurali e relazioni improntati a familiarità e ragionevolezza e che assicuri la circolazione di idee e di valori che ispirino e regolino i comportamenti indi- viduali, di gruppo e collettivi, può assurgere a centro propulsore responsabile del- l’attuazione della proposta formativa della scuola in relazione alle esigenze di edu- cazione integrale degli studenti. Inoltre, una comunità aperta e sensibile nelle sue articolazioni può realizzare una buona interazione con il territorio, anche in vista dell’acquisizione di una consapevolezza dei cambiamenti strutturali, sociali e cultu- rali in atto nel contesto di riferimento. 151 3. L’ORIENTAMENTO E LA FUNZIONE TUTORIALE NELLA COSTRUZIONE DELLA IDEN- TITÀ PERSONALE In questi ultimi anni si è passati progressivamente dalla considerazione del- l’orientamento come insieme di servizi, spesso esterni alle istituzioni formative o au- tonomi da esse, volti a facilitare la scelta professionale dell’individuo, a una conce- zione in cui l’orientamento è inteso come processo in cui il soggetto si costituisce come attivo protagonista delle sue scelte (Nanni, 2007; Malizia, Cicatelli, Fedeli e Pieroni, 2007). Si può quindi affermare che l’orientamento è un processo educativo continuo, finalizzato a far acquisire e a far utilizzare alla persona le conoscenze, le abilità e gli atteggiamenti necessari per rispondere adeguatamente alle scelte che con- tinuamente è chiamata ad operare, soprattutto in relazione all’attività professionale. Sicuramente il centro del problema è costituito dall’acquisizione delle capacità di scelta necessarie, cioè dall’effettiva disponibilità delle risorse interne ed esterne, implicate nella presa di decisioni prudenti e responsabili da parte del singolo. E questo è indubbiamente un problema di natura squisitamente educativa, in quanto centrato sulla formazione alla libertà. Anche se si tratta di compiti che riguardano tutti i docenti, è pur vero che per ottimizzare, armonizzare, sincronizzare le attività formative e didattiche con va- lenza orientante avviate dai diversi operatori e dalla scuola nel suo complesso sem- brerebbe necessario individuare una persona che, pur continuando a far parte del corpo docente, in modo particolare si faccia carico della realizzazione coordinata e finalizzata di questo insieme di attività. Una risposta a questa imprescindibile esi- genza educativa è quindi il potenziamento della funzione tutoriale volta al rinforzo, al sostegno, alla tenuta delle buone relazioni nella classe, nei rapporti con i geni- tori, all’interno dell’intera comunità educante, in riferimento al contesto territoriale e nel quadro di una personalizzazione crescente del processo di insegnamento- apprendimento. Il rapporto educativo dovrà così cercare di realizzare un equilibrio dinamico tra, da una parte, dare fiducia, calore, supporto e, dall’altra, proporre valori e regole di convivenza e stabilire insieme progetti di vita. Inoltre, l’educatore dovrà aiutare a superare l’illusione che tutto possa essere indolore, non può pensare di sostituirsi al giovane nella fatica di crescere e non potrà evitare di rischiare i risultati della sua azione e del suo successo con i suoi studenti, rinunciando a ogni sicurezza che possa venire dal ruolo occupato. 4. UNA FORMAZIONE CULTURALE E PROFESSIONALE INTEGRALMENTE UMANA Nel contesto della società della conoscenza, del cambiamento accelerato, della complessità, della multicultura e delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, risulta urgente elaborare una nuova proposta curricolare che tenga 152 conto del modo attuale di concepire il sapere, la cultura, la scienza e la tecnologia (Nanni, 2007; Malizia, Cicatelli, Fedeli e Pieroni, 2007). A questo proposito biso- gnerà coniugare scienze della natura e scienze umane e sociali, specializzazione e globalità, analisi e sintesi, definizione e interpretazione, scienza e saggezza; sulla base di un dialogo interculturale rispettoso della verità e delle persone sarà neces- sario delineare i contorni di un nuovo umanesimo capace di corrispondere alle esi- genze della globalizzazione della produzione e della cultura. Se ci si pone dal punto di vista dello studente, la preoccupazione fondamentale consisterà nell’aiutarlo ad acquisire la capacità sia di apprendere significativamente che di apprendere ad apprendere, allargando gli orizzonti individuali di conoscenza, senso, azione e vita, e animandolo ad utilizzare molteplici approcci cognitivi allo scopo di acquisire apprendimenti sempre più flessibilmente organizzati e significa- tivi sul piano umano. Da questo punto di vista diviene essenziale accendere nei gio- vani il desiderio di apprendere e di continuare ad apprendere da sé oltre lo scolastica- mente dovuto. La scuola è da considerarsi efficace sul piano formativo non per la va- lidità della cultura preconfezionata che trasmette quanto per la sete di conoscere che suscita, per le attitudini che promuove, per i metodi che insegna e per la capacità di fare cultura che sa sviluppare negli educandi in modo che diventi un loro stile di vita. Centrale in questa nuova “paidèia” è la ricerca di una sinergia tra le compe- tenze scientifiche e tecnologiche e una solida formazione umanistica, e questo do- vrebbe servire per assicurare la piena maturazione della persona umana, una paci- fica e responsabile convivenza civile e lo sviluppo equo e sostenibile dei popoli. Inoltre, la scuola dovrà rimanere aperta al trascendente coltivando la formazione morale e spirituale. Questa nuova “paidèia” richiede la transizione sul piano didattico da un inse- gnamento inerte ad uno vitale che abbandoni l’idea della pura e semplice trasmis- sione dei contenuti, per passare alla pratica di una loro costruzione attiva che renda gli studenti attori del loro apprendimento. Ciò implica a livello concreto di: – scegliere dall’enorme patrimonio del sapere quelle conoscenze ed abilità che sono da considerarsi essenziali per lo sviluppo integrale della persona; – approfondire la questione del passaggio dall’insegnamento all’apprendimento che non può più fondarsi soltanto su automatismi psicologici o sulle potenzia- lità evocative della parola; – fare ricorso a tutte le modalità dell’apprendimento senza trascurare le valenze operative ed affettive del sapere; – utilizzare una didattica basata su compiti reali, realizzata in laboratori e ponendo in essere percorsi non necessariamente lineari, ma fondati su nuclei di saperi collegati con i processi presenti nella realtà; – rendere partecipi gli studenti e gli allievi delle pratiche di valutazione, esplici- tando i criteri di giudizio in modo da creare una reale comunità di apprendi- mento; – trovare nel contesto esterno prove dell’utilità di quello che si apprende a scuola. 153 5. EDUCARE ALLA CITTADINANZA ATTIVA E DEMOCRATICA PER UNO SVILUPPO SOSTENIBILE Nella presente stagione della condizione giovanile, caratterizzata, come si è visto, da manifestazioni di grave disaffezione verso la politica, l’educazione alla cittadinanza democratica si presenta come istanza particolarmente urgente (Nanni, 2007; Malizia, Cicatelli, Fedeli e Pieroni, 2007). Venendo più allo specifico, un primo obiettivo potrà consistere nell’educare alla capacità di individuare, interpretare e valutare gli effettivi problemi sociopoli- tici di fondo, in una società in cui l’informazione è in vario modo e da più istanze manipolata. Bisognerà far acquistare quei saperi che permettono di penetrare e co- noscere in profondità la realtà sociale: in particolare, va sottolineata l’importanza di una seria formazione scientifica che, trasfondendo nei giovani il senso del rigore intellettuale e della verifica nell’esperienza, li immunizzi dal semplicismo, dal dog- matismo e dall’avventurismo di tante iniziative politiche e sociali. Dovranno poi essere assunti i parametri di valutazione che si possono sintetizzare nel valore- uomo, nella libertà, nella giustizia, nell’eguaglianza, nella pace, nell’amore del prossimo, nei valori della fede. La seconda grande area di obiettivi si può definire come la formazione della volontà di partecipare alla realizzazione del bene comune. Bisognerà in proposito attivare una serie di motivazioni per l’impegno sociopolitico. In particolare si richiede la formazione di un habitus etico-sociale che spinga l’individuo a dare il proprio contributo agli eventi e alle vicende umane, fino alla testimonianza e, se necessario, al sacrifico in prima persona. Il servizio degli altri e del popolo deve essere l’obiettivo da perseguire in vista di un bene comune che assicuri a tutti le condizioni necessarie per realizzare la propria personalità. Un’altra dimensione dell’educazione alla cittadinanza democratica è quella creativa e in questo caso si parla di creatività ideale e di capacità utopica. Con tali espressioni non si intende naturalmente la follia del sogno, né il comodo pretesto o alibi per sfuggire a responsabilità immediate, ma ci si riferisce a una immagina- zione prospettica, capace di individuare nel presente potenzialità trascurate e di elaborare un progetto lungimirante di trasformazione della società. Dal punto di vista operativo le capacità da formare sono varie. Si possono ricordare anzitutto quella di ideazione, cioè di prefigurazione del “nuovo”, e quella di programma- zione, cioè di traduzione nell’oggi delle linee direttrici del progetto. Rientrano in questo ambito anche le capacità, più squisitamente politiche e tecniche, di creare il consenso su un programma e sulla scelta dei propri leader o rappresentanti, di utilizzare le strutture politiche per conseguire il potere e realizzare il bene comune, di saper pervenire a un compromesso con forze contrapposte senza irrigidimenti preconcetti e senza cedere su ciò che non è ultimamente negoziabile. Vanno richia- mati anche il dominio del linguaggio, l’animazione dei gruppi, le capacità decisio- nali e quelle promozionali. 154 BIBLIOGRAFIA CRESSON E. - P. FLYNN, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Bruxelles, Commissione Europea, 1995. DELORS J. et alii, L’éducation. Un trésor est caché dedans, Paris, Editions UNESCO/Editions Odile Jacob, 1996. MALIZIA G. - C. NANNI, Istruzione e formazione: gli scenari europei, in CIOFS/FP - CNOS-FAP (Edd.), Dall’obbligo scolastico al diritto di tutti alla formazione: i nuovi traguardi della Formazione Professionale, Roma, 2002, 15-42. MALIZIA G. - S. CICATELLI - C. FEDELI - V. PIERONI, Conclusioni generali, in CSSC-CENTRO STUDI PER LA SCUOLA CATTOLICA, In ascolto degli studenti. Scuola Cattolica in Italia. Nono rapporto, Brescia, La Scuola, 2007, 341-377. NANNI C., L’educazione alle soglie del XXI secolo, in “Salesianum”, 62 (2000), 667-682. NANNI C., Quale proposta educativa della scuola cattolica per i giovani d’oggi, in CSSC-CENTRO STUDI PER LA SCUOLA CATTOLICA, In ascolto degli studenti. Scuola Cattolica in Italia. Nono rapporto, Brescia, La Scuola, 2007, 222-245. 155 INDICE SOMMARIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 Parte I: IL QUADRO DI RIFERIMENTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Capitolo 1 L’EDUCAZIONE PER IL XXI SECOLO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1. Crescita economica e sviluppo umano: quale modello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.1. I fattori strutturali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12 1.2. Le dinamiche culturali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 1.2.1. Nuove forme culturali tra modernità e post-modernità, tra secolarizzazione- e ritorno del sacro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18 1.2.2. La multiculturalità e le dinamiche interculturali (il meticciamento etnico- culturale) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 1.3. Quale sviluppo umano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 2. Luci e ombre del sistema formativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 3. L’educazione per il XXI secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 3.1. Progetti globali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28 3.2. L’apprendimento per tutta la vita: il modello strategico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 3.3. I pilastri dell’educazione permanente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32 3.4. Le strategie macrostrutturali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32 3.5. La strategie microstrutturali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 3.5.1. Trasversali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 3.5.2. Per livelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38 Parte II: I SINGOLI LIVELLI DEL SISTEMA EDUCATIVO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 Capitolo 2 EDUCAZIONE DI BASE, ELEMENTARE E PER LA PRIMA INFANZIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 1. L’educazione elementare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 1.1. Le sfide dell’inizio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 1.2. L’allargamento dell’accesso e il potenziamento della qualità (anni ’50-’70) . . . . 46 1.3. La dimensione non formale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 1.4. Verso le esigenze basilari di apprendimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 1.5. L’evoluzione recente dell’educazione elementare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 156 2. L’educazione di base: Jomtien e Dakar . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50 2.1. La Conferenza mondiale sull’educazione per tutti (Jomtien, 1990) . . . . . . . . . . . 50 2.2. Il Forum Mondiale sull’Educazione (Dakar, 2000) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52 3. L’educazione per la prima infanzia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55 3.1. Il quadro generale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55 3.2. Lo statuto giuridico e il finanziamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 3.3. I bambini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 3.4. Finalità dell’educazione per la prima infanzia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61 3.5. Metodi e sussidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63 3.6. Modelli di orientamenti curricolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64 3.7. Continuità con la scuola dell’obbligo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65 3.8. Relazioni con i genitori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65 Capitolo 3 L’EDUCAZIONE SECONDARIA E LA FORMAZIONE PROFESSIONALE: UN CROCEVIA DELLA VITA 67 1. L’evoluzione nella seconda metà del XX secolo: uno sguardo d’insieme . . . . . . . . 68 1.1. L’evoluzione quantitativa: un’espansione enorme ma diseguale . . . . . . . . . . . . . 68 1.2. L’evoluzione qualitativa: i trend degli anni ’90 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69 2. Le prospettive: i problemi e le proposte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73 2.1. L’educazione secondaria: il segmento più debole del sistema o il crocevia della vita? 73 2.2. Educazione di base o educazione secondaria? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74 2.3. Allargamento dell’accesso e realizzazione dell’eguaglianza di opportunità educative 74 2.4. Riduzione della dispersione (abbandoni e ripetenze) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 2.5. Promozione della qualità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 2.6. Sviluppo della professionalità degli insegnanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 2.7. Potenziamento della rilevanza e della efficacia del curricolo . . . . . . . . . . . . . . . 76 2.8. Ricorso alle metodologie didattiche più efficaci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 2.9. Il potenziamento delle risorse finanziarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 3. L’istruzione tecnica e la formazione professionale (IFTP) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78 3.1. Le tendenze a livello macrostrutturale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78 3.2. Le tendenze a livello microstrutturale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 82 Capitolo 4 VERSO UN’ISTRUZIONE SUPERIORE DI MASSA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87 1. L’evoluzione nella seconda metà del XX secolo: uno sguardo d’insieme . . . . . . . . 87 1.1. Le caratteristiche principali del periodo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87 1.2. Il modello UNESCO: Rapporti Faure e Delors . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87 1.3. «Egualmente accessibile a tutti sulla base del merito» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 88 1.3.1. Accessibile a tutti sulla base del merito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 88 1.3.2. Egualmente accessibile a tutti sulla base del merito . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90 1.4. Lo sviluppo quantitativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90 1.5. L’istruzione superiore corta o breve . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91 1.6. L’orientamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 92 1.7. Curricoli e metodologie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 1.8. Amministrazione e organizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 2. Le prospettive: problemi e proposte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94 157 2.1. Il nuovo contesto: difficoltà e potenzialità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 2.1.1. La mondializzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 2.1.2. La democratizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 2.1.3. Lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 2.1.4. La degradazione dell’ambiente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 2.1.5. L’esclusione sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 2.1.6. La fuga dei cervelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96 2.1.7. I conflitti armati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96 2.2. Le proposte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96 2.2.1. La missione dell’istruzione superiore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96 2.2.2. Il ruolo etico, l’autonomia e la responsabilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 97 2.2.3. Accesso nell’equità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 97 2.2.4. Potenziamento della ricerca e della formazione alla ricerca . . . . . . . . . . . . 98 2.2.5. La pertinenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98 2.2.6. Potenziamento della cooperazione con il mondo del lavoro . . . . . . . . . . . . 99 2.2.7. Un approccio innovativo al curricolo: il pensiero critico e la creatività . . . 99 2.2.8. Personale e studenti come attori primi dell’istruzione superiore . . . . . . . . . 99 2.2.9. Valutazione della qualità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 2.2.10. Problemi e potenziale delle TIC . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 2.2.11. La gestione e il finanziamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 2.2.12. La cooperazione internazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101 3. La riforma universitaria in Europa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101 Capitolo 5 L’EDUCAZIONE DEGLI ADULTI: UN LIVELLO ESSENZIALE DEL SISTEMA . . . . . . . . . . . . . . . 107 1. L’evoluzione nella seconda metà del XX secolo: uno sguardo d’insieme . . . . . . . . 107 1.1. Le caratteristiche specifiche dell’educazione degli adulti . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108 1.2. Le finalità dell’educazione degli adulti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109 1.3. Organizzazione e amministrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112 1.4. Metodi e tecniche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114 1.5. Il personale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114 2. Le prospettive: problemi e proposte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 2.1. Educazione degli adulti e democrazia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 2.2. Migliorare le condizioni e la qualità dell’educazione degli adulti . . . . . . . . . . . . 115 2.3. Garantire il diritto universale all’alfabetizzazione e all’educazione di base . . . . 116 2.4. L’educazione degli adulti e la parità uomo donna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 2.5. L’educazione degli adulti a confronto con le trasformazioni del mondo del lavoro 118 2.6. L’educazione degli adulti e le questioni ambientali, sanitarie e demografiche . . . 119 2.7. L’educazione degli adulti, la cultura, i media e le Tic . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120 2.8. L’educazione degli adulti per tutti: i diritti e le aspirazione dei vari gruppi . . . . 120 2.9. I risvolti economici dell’educazione degli adulti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 120 Parte III: QUESTIONI TRASVERSALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123 Capitolo 6 RUOLO E FORMAZIONE DEGLI INSEGNANTI: PROBLEMI E PROSPETTIVE . . . . . . . . . . . . . . . 125 158 1. L’evoluzione nella seconda metà del XX secolo: uno sguardo d’insieme . . . . . . . . 125 1.1. Il ruolo degli insegnanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 1.2. La formazione degli insegnanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127 1.2.1. La formazione iniziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127 1.2.2. La formazione in servizio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129 2. Le prospettive: problemi e proposte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130 Capitolo 7 LA SCUOLA TRA AUTONOMIA E LIBERTÀ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 1. Ragioni e contenuti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 1.1. La dimensione antropologica: una libertà fondamentale della persona . . . . . . . . 135 1.2. La dimensione pedagogica: il modello dell’apprendimento per tutta la vita . . . . 136 1.3. La dimensione politica: l’emergere della scuola della società civile . . . . . . . . . . 137 1.4. La dimensione organizzativa: autonomia e parità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 138 1.5. La dimensione giuridica: un diritto umano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139 2. Le formule della parità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 140 3. Il cammino della Chiesa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 3.1. L’evoluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141 3.2. Le prospettive: la scuola della società civile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143 CONCLUSIONI GENERALI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149 1. Prima la persona . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149 2. La comunità educante come fulcro promotore primo e soggetto referente ultimo 150 3. L’orientamento e la funzione tutoriale nella costruzione della identità personale 151 4. Una formazione culturale e professionale integralmente umana . . . . . . . . . . . . . . 151 5. Educare alla cittadinanza attiva e democratica per uno sviluppo sostenibile . . . . 153 INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 159 Pubblicazioni 2002-2008 nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” ISSN 1972-3032 1. Nella sezione “studi” 1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. La formazione professionale per lo sviluppo del territorio. Castel Brando (Treviso), 9 - 11 settembre 2002, 2003 2) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XV seminario di formazione europea. Il sistema dell’istruzione e for- mazione professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi, 2004 3) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVI seminario di formazione europea. La formazione professionale fino alla formazione superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, 2005 4) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVIII seminario di formazione europea. Standard formativi nel- l’istruzione e nella formazione professionale. Roma,7-9 settembre 2006, 2007 5) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Cata- nia, Noto, Modica, 2004 6) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orien- tativi, 2003 7) CNOS-FAP (a cura di), Gli editoriali di “Rassegna CNOS” 1996-2004. Il servizio di don Stefano Colombo in un periodo di riforme, 2004 8) COLASANTO M. (a cura di), Il punto sulla formazione professionale in Italia in rapporto agli obiet- tivi di Lisbona, 2008 9) COLASANTO M. - R. LODIGIANI (a cura di), Il ruolo della formazione in un sistema di welfare attivo, 2007 10) D’AGOSTINO S. - G. MASCIO - D. NICOLI, Monitoraggio delle politiche regionali in tema di istruzio- ne e formazione professionale, 2005 11) DONATI C. - L. BELLESI, Giovani e percorsi professionalizzanti: un gap da colmare? Rapporto fina- le, 2007 12) DONATI C. - L. BELLESI, Ma davvero la formazione professionale non serve più? Indagine conosci- tiva sul mondo imprenditoriale, 2008 13) MALIZIA G., Politiche educative di istruzione e di formazione. La dimensione internazionale, in stampa 14) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, 2002 15) MALIZIA G. - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto sul follow - up, 2003 16) MALIZIA G. - V. PIERONI, Follow-up della transizione al lavoro degli allievi/e dei percorsi triennali sperimentali di IeFP, 2008 17) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Rapporto di ricerca, 2007 18) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Rapporto di ricerca, 2007 19) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale, 2004 160 20) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale. II edizione, 2006 21) MALIZIA G. et alii, Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Problemi e prospettive, 2007 22) MALIZIA G. et alii, Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere, 2007 23) NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale nell’anno formativo 2004-2005, 2006 24) NICOLI D. - R. FRANCHINI, Costruzione dell’identità personale e sociale negli adolescenti e nei giovani. La proposta dell’Istruzione e formazione professionale, 2007 25) NICOLI D., La rete formativa nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP, 2007 26) PELLEREY M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona. Dare senso e prospettiva al proprio impegno nell’apprendere lungo tutto l’arco della vita, 2007 27) PELLEREY M., Studio sull’intera filiera formativa professionalizzante alla luce delle strategie di Lisbona a partire dalla formazione superiore non accademica. Rapporto finale, in stampa 28) PIERONI V. - G. MALIZIA (a cura di), Percorsi/progetti formativi “destrutturati”. Linee guida per l’inclusione socio-lavorativa di giovani svantaggiati, 2005 29) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, 2004 30) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, Ristampa 2007 2. Nella sezione “progetti” 31) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 32) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodo- logico e proposte di strumenti, 2003 33) BALDI C. - M. LOCAPUTO, L’esperienza di formazioni formatori nel progetto integrazione 2003. La riflessività dell’operatore come via per la prevenzione e la cura educativa degli allievi della FPI, 2008 34) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006 35) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003 36) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale alimentazione, 2004 37) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004 38) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004 39) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale estetica, 2004 40) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004 41) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale tessile e moda, 2004 42) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003 43) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffu- sione di una buona pratica, 2004 44) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004 45) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 161 46) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 47) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004 48) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale grafica e multimediale, 2004 49) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale legno e arredamento, 2005 50) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale meccanica, 2004 51) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004 52) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, 2003 53) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006 54) CNOS-FAP (a cura di), Guida per la fruizione delle risorse formative CNOS-FAP, in stampa 55) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Percorsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005 56) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa. Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d. 57) D’AGOSTINO S., Apprendistato nei percorsi di diritto-dovere, 2007 58) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003 59) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003 60) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo. Una proposta di percorsi per la creazione di impresa. II edizione, 2007 61) MALIZIA G. - V. PIERONI - A. SANTOS FERMINO, Individuazione e raccolta di buone prassi mirate all’accoglienza, formazione e integrazione degli immigrati, 2008 62) MARSILII E., Dalla ricerca al rapporto di lavoro. Opportunità, regole e strategie, 2007 63) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003 64) NICOLI D. - G. TACCONI, Valutazione e certificazione degli apprendimenti. Ricognizione dello stato dell’arte e ricerca nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP. I volume, 2007 65) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il percorso quadriennale, 2005 66) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istru- zione e della formazione professionale, 2004 67) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 68) NICOLI D., Linee guida per i percorsi di istruzione e formazione professionale, in stampa 69) NICOLI D., Valutazione e certificazione degli apprendimenti. Ricognizione dello stato dell’arte e ricerca nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP. II volume, 2008 70) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005 71) RUTA G. (a cura di), Vivere in… 1. L’identità. Percorso di cultura etica e religiosa, 2007 72) RUTA G. (a cura di), Vivere con… 2. La relazione. Percorso di cultura etica e religiosa, 2008 73) RUTA G. (a cura di), Vivere per… 3. Il progetto. Percorso di cultura etica e religiosa, 2008 74) RUTA G. (a cura di), Vivere… Linee guida per i formatori di cultura etica e religiosa nei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale, 2007 75) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003 76) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui per- corsi formativi, 2003 77) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005 162 3. Nella sezione “esperienze” 78) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro polifunzionale diurno di Roma, 2006 79) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti, 2003 80) CNOS-FAP (a cura di), Educazione della persona nei CFP. Una bussola per orientarsi tra buone pratiche e modelli di vita, (in stampa) 81) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003 82) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in itinere, 2003 83) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento fina- le, 2003 84) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage, 2003 85) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i percorsi di istruzione e formazione professionale, 2006 86) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006. Rapporto finale, 2006 87) NICOLI D. - COMOGLIO M., Una formazione efficace. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimen- tali di Istruzione e Formazione professionale in Piemonte 2002-2006, 2007 88) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordinatore delle attività educative del CFP, 2005 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net Dicembre 2008

Ma davvero la formazione professionale non serve più? Indagine conoscitiva sul mondo imprenditoriale

Autore: 
Luigi Bellesi - Claudia Donati
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2008
Numero pagine: 
88
Claudia DONATI - Luigi BELLESI Ma davvero la formazione professionale non serve più? Indagine conoscitiva sul mondo imprenditoriale Anno 2008 La ricerca è stata affidata dal CNOS-FAP e dal CIOFS/FP al CENSIS. L’indagine è stata realizzata da un gruppo di lavoro coordinato da Claudia Donati e composto da: Luigi Bellesi, Sergio Vistarini e Vittoria Coletta. L’équipe ha operato sotto la responsabilità di Claudia Donati (CENSIS) d’intesa con i Presidenti del CNOS-FAP e del CIOFS/FP. 3 INTRODUZIONE A seguito della stagione delle grandi riforme (non sempre compiute) che hanno interessato organizzazione e governance dell’istruzione e della formazione profes- sionale iniziale, ridisegnando più volte l’architettura del complessivo sistema di offerta – da una parte, la riforma Berlinguer del 2000 abrogata dalla successiva riforma Moratti del 2003, a cui ha fatto seguito l’elevamento dell’obbligo di istru- zione a 16 anni introdotto dalla legge finanziaria 2007 e dall’altra, la riforma del titolo V del Costituzione con l’ampliamento delle competenze regionali nel campo della istruzione e formazione professionale, gli enti di formazione salesiani CNOS- FAP e CIOFS/FP hanno inteso in collaborazione con il CENSIS promuovere delle azioni di ricerca che: – rimettessero al centro del dibattito l’evoluzione della domanda, in termini di aspettative e fabbisogni; – permettessero di indagare e analizzare l’eventuale gap tra le esigenze della domanda e gli orientamenti ed i contenuti delle politiche di offerta, essendo quest’ultime non delle variabili indipendenti, bensì legate alla domanda stessa da un rapporto di dipendenza funzionale. Pertanto, dopo aver svolto un’indagine sulla domanda individuale, in relazione alla classe d’età 14-19 anni, allo scopo di conoscere comportamenti, motivazioni, aspettative nei confronti delle scelte pregresse e future di studio e di lavoro di studenti iscritti a percorsi scolastici o di istruzione e formazione professionale, si è ritenuto opportuno prendere in considerazione anche il punto di vista del mondo imprenditoriale, così da comprendere quali siano le reali aspettative degli impren- ditori rispetto a: – sistema della formazione professionale iniziale; – tipologie di competenze richieste – di base, tecnico professionali e trasversali; – aree di intervento e percorsi prioritari. In particolare, si è cercato di verificare l’esistenza o meno di eventuali asim- metrie tra fabbisogni formativi delle imprese e capacità di risposta dei sistemi regionali di formazione professionale; di verificare la rispondenza di alcune scelte di politica formativa operate dalle amministrazioni regionali all’effettiva struttura- zione e alle esigenze del mercato del lavoro locale; di comprendere le reali aspetta- tive degli imprenditori rispetto al sistema della formazione iniziale in termini di competenze richieste – di base, tecnico professionali e trasversali – e percorsi formativi. 4 Tale indagine assume un significato strategico alla luce del recente cambio di Governo, in quanto apporta un contributo conoscitivo funzionale ad una approfon- dita valutazione delle politiche finora messe in atto per rispondere alle esigenze di scolarizzazione, di innalzamento delle competenze e di formazione di professio- nalità utili alla crescita sociale ed economica del paese ed alla individuazione di eventuali correttivi e strategie di miglioramento del sistema d’offerta di istruzione e formazione professionale. Le aspettative ed i fabbisogni del mondo imprenditoriale sono stati analizzati ed interpretati attraverso una rilevazione di tipo qualitativo, che ha coinvolto testi- moni privilegiati in grado di rappresentare e dare contenuto da più angolazioni alle istanze della domanda proveniente dalle imprese: associazioni datoriali, associa- zioni sindacali, imprese consapevoli (dei propri fabbisogni professionali), fondi interprofessionali, responsabili regionali della programmazione delle politiche del- l’istruzione e della formazione professionale, esperti del settore. In considerazione delle peculiarità e diversificazioni dei sistemi d’offerta regionali, l’indagine è stata realizzata selezionando alcune Regioni nelle quali più debole o nullo appare oggi essere l’investimento – politico e finanziario – nella formazione professionale iniziale. Nello specifico si tratta di quattro regioni meri- dionali, Abruzzo, Campania, Puglia e Sardegna, tutte caratterizzate da un’offerta formativa post scuola media incentrata in gran parte, anche in relazione ai percorsi professionalizzanti, sul sistema scolastico, sia pure con graduazioni e modalità differenziate. Tale scelta è stata determinata anche dalla considerazione che la visione scuola- centrica appare ampiamente diffusa proprio in aree dove più grave è la dispersione scolastica e/o dove la struttura del tessuto imprenditoriale e il livello di sviluppo socioeconomico suggerirebbero di investire maggiormente sui percorsi di istruzione e formazione professionale. A parte il caso della Regione Abruzzo, dove si registrano tassi di partecipa- zione al sistema scolastico superiori alla media italiana (tab. 1) e, viceversa, tassi di abbandono dei percorsi formativi inferiori al dato nazionale (graf. 1), in tutte le altre tre regioni analizzate i valori corrispondenti risultano essere particolarmente allarmanti. Nello specifico, i dati disponibili e riferiti all’a.s. 2004-2005 mostrano che il tasso di partecipazione al sistema scolastico dei 15-18enni campani si attesta sull’80,1% contro l’83,6% dell’Italia; anche Puglia e Sardegna si collocano sotto il dato medio ed intorno all’82%. Il risultato di tale fenomeno, nonostante un tasso di iscrizione alle scuole supe- riori che in virtù del diritto-dovere prima e dell’obbligo di istruzione poi arriva ormai a sfiorare il 95%, è che nella classe d’età compresa tra i 18 ed i 24 anni, più del 20% della popolazione delle tre regioni con alti tassi di abbandono è in pos- sesso della sola licenza media ed ha ormai abbandonato qualunque attività forma- tiva. Anche in questo caso, l’Abruzzo si differenzia per un valore inferiore alla media italiana (15,0% contro 19,7%) ed in linea con il dato europeo pari nel 2006 5 al 15,3%. Occorre però anche considerare l’andamento del fenomeno che vede, in un contesto nazionale di progressivo miglioramento dell’indicatore, la Campania distinguersi in una repentina inversione di tendenza verificatasi tra il 2006 ed il 2007, passando dal 27,1% al 29% di early school leavers; anche in Abruzzo, nel- l’ultimo anno considerato, emerge un lieve peggioramento di tale indicatore che sale dal 14,1% al 15%. Le altre due regioni considerate, invece, si distinguono per un evidente miglioramento delle performance. Tab. 1 - Tasso di partecipazione al sistema scolastico - A.s. 2004-2005 Fonte: MPI - La dispersione scolastica Graf. 1 - Percentuale di 18-24 anni con la sola licenza media e non più in formazione (early school leavers) - Anni 2004-2007 Fonte: ISTAT - Rilevazione continua sulle forze di lavoro 6 Ciò induce ad una prima riflessione relativa alla determinante influenza dei contesti culturali e delle strategie educative a livello regionale, che possono con- durre a risultati diversi anche in presenza di analoghe innovazioni, e sulla necessità di individuare cornici istituzionali flessibili ed adattabili alle realtà locali. Un altro elemento strutturale proprio delle regioni considerate consiste nella elevata richiesta, da parte del mondo del lavoro, di figure professionali di base (tab. 2). Come evidenziato dall’indagine Excelsior, nel 2007, la richiesta di figure qualificate è particolarmente ampia nelle aree considerate. Infatti, se la richiesta esplicita del possesso di una qualifica regionale risulta essere anche inferiore al dato medio nazionale (tranne che in Sardegna dove si registra un peso pari al 7,4% delle assunzioni previste rispetto al 6,8% dell’Italia), se si considera il “livello for- mativo equivalente” lo scenario cambia radicalmente. Mentre in media nel nostro paese la quota di assunzioni previste per persone con una formazione equivalente a quella di un qualificato si attesta al 23,7% del totale, nelle 4 regioni considerate tale valore risulta essere significativamente più elevato, oscillando dal 27,3% della Sardegna al 35,1% della Puglia. Ciò significa che, in aree dove la disoccupazione è fenomeno particolarmente rilevante, circa un quarto o un terzo dei potenziali posti di lavoro disponibili potrebbero essere appannaggio di qualificati nel circuito del- l’istruzione e formazione professionale. Quali sono dunque le motivazioni sottostanti alle politiche e alle strategie messe in atto nelle quattro regioni meridionali? E come ha risposto il mondo del lavoro? In primo luogo, dall’indagine emerge chiaramente che in molte realtà l’op- zione scuola centrica è apparsa come l’unica praticabile, vuoi per ragioni finan- ziarie (l’esaurimento dei fondi disponibili per l’attivazione di percorsi triennali di istruzione e formazione professionale) ma soprattutto per una considerazione di scarsa qualità ed inefficacia del sistema di formazione professionale di base, sot- tolineata sia sul versante istituzionale sia dalle parti sociali e dalle singole imprese. Tab. 2 - Previsioni di assunzione per titolo di studio richiesto, livello formativo equivalente e gruppo professionale (val. %) - Anno 2007 Fonte: elaborazione CENSIS su dati Unioncamere- Ministero del lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2007 7 Le procedure di accreditamento praticate nel passato non hanno certo contri- buito a far emergere le eccellenze, attuando di fatto un allargamento indiscriminato dei soggetti d’offerta. Inoltre, gli enti storici e di riconosciuta tradizione hanno scontato anche le incertezze e i ritardi della programmazione regionale. Un altro aspetto problematico delle diverse azioni regionali è individuabile nel- l’accentuazione e nel protrarsi della “pars destruens”, parallelamente ai ritardi nella definizione di assetti e strumenti a livello nazionale. Forse anche in ragione dei già citati problemi finanziari, nelle regioni analizzate sembra essere stato del tutto trala- sciato o non adeguatamente affrontato il nodo dell’offerta formativa post obbligo di istruzione, quasi confidando nel fatto che l’introduzione di tale obbligo portasse “automaticamente” gli studenti a completare il percorso scolastico intrapreso. Anche laddove il biennio di istruzione è integrato con la formazione professio- nale ma è possibile conseguire solo una qualifica professionale biennale, da più parti anche a livello istituzionale si riconosce l’inadeguatezza del titolo e la neces- sità di offrire almeno un altro anno di corso. Del tutto irrisolto è invece il problema, che potrebbe presentarsi nel prossimo futuro, di coloro i quali vorranno abbando- nare la scuola al compimento del sedicesimo anno d’età senza aver conseguito una qualifica e magari senza aver avuto l’opportunità di frequentare percorsi integrati con la formazione professionale. Vigente la norma del diritto/dovere alla istruzione e alla formazione, sembra sussistere il rischio di un “vuoto” d’offerta. Infatti i percorsi scolastici integrati con progetti che coinvolgono la FP, spesso limitati al 20% del monte ore del biennio, sono comunque finalizzati a recuperare i ragazzi “ a rischio” nel passaggio dalla scuola media alle superiori. Limitata o del tutto inesistente appare essere invece l’offerta formativa rivolta a coloro che, anche magari non avendo avuto particolari difficoltà di apprendimento, decideranno di abbandonare la scuola una volta adem- piuto all’obbligo di istruzione. In questi casi, non supplisce nemmeno il contratto di apprendistato, strumento del tutto marginale in tre delle quattro regioni analizzate. A questo proposito, è opportuno segnalare che molti dei testimoni intervistati, a prescindere dalla loro opinione nei riguardi dell’obbligo d’istruzione, ritengono che, in considerazione delle lunghe derive della scolarizzazione, almeno in prospet- tiva ed ad eccezione degli interventi di inclusione sociale e formativa degli “ulti- missimi”, la formazione professionale iniziale troverà la sua ottimale collocazione nel segmento successivo, ovvero proprio rispetto alla fascia d’età 16-18 anni. In linea di massima, le Parti Sociali pur confermando l’esistenza di posti di lavoro occupabili da figure professionali medio-basse ritengono che lo sviluppo economico locale di più lungo periodo non possa non fare leva sulle medio-alte qualificazioni, da un lato, e sulla formazione continua di chi è già oggi inserito nel mondo del lavoro. Esistono dunque delle priorità ineludibili che, in un contesto di ristrettezze finanziarie, hanno portato in secondo piano, relegandola ad un mero problema sociale piuttosto che economico, la formazione di figure qualificate di base. 8 È inoltre molto diffusa la consapevolezza che le prospettive di sviluppo del paese, nel contesto internazionale, non possono non basarsi su un innalzamento della scolarità complessiva, offrendo tramite l’obbligo scolastico la possibilità di poter aspirare ad un diploma anche a giovani che altrimenti non frequenterebbero le aule scolastiche per ragioni di contesto sociale, culturale e familiare. Sul versante imprenditoriale si sottolinea, altresì, l’esigenza di poter contare su personale in possesso di solide competenze di base e di cultura generale, su cui poter innestare una formazione aziendale mirata. L’abbassamento generalizzato delle competenze in uscita dai vari livelli di istruzione ha fatto si, negli anni, che le aziende si orientassero sempre più verso il diploma, come titolo minimo richiesto, anche per posizioni di livello operaio. Nel complesso, ad eccezione di alcuni testimoni, l’impressione che si ricava dalle dichiarazioni rilasciate è quella di una sostanziale indifferenza ai temi della formazione di base, quando non emerge anche una retorica falsamente egualitaria che vede nella scuola “uguale per tutti” una misura compensativa del divario sociale che impedisce alle giovani generazioni posizioni di partenza paritetiche. È anche vero che gran parte degli intervistati, a prescindere dalla posizione espressa, riconosce che quanto finora proposto dalle amministrazioni regionali, non ha risolto nell’immediato il problema di ricoinvolgere i soggetti a rischio in un circuito formativo virtuoso, ma ha piuttosto solo contribuito a risolvere criticità strutturali, che vanno dall’impiego del personale scolastico in eccesso al conteni- mento dei tassi di abbandono “nominali” in regioni dove il fenomeno era partico- larmente incidente. Da questo punto di vista, è ampiamente diffusa l’opinione che le scuole non siano attrezzate per tali obiettivi e che il ruolo del sistema della for- mazione professionale, se considerato nelle sue realtà più valide e consolidate, avrebbe dovuto e potuto essere più ampio e sostanziale. Nel caso delle imprese, mentre quelle medio-grandi appaiono sempre più orientate verso una soluzione “interna” rispetto ad eventuali lacune di competenze anche del nuovo personale, nel segmento delle piccole e piccolissime imprese, anche artigianali, si rintraccia un atteggiamento “adattivo” che prende atto delle criticità del complessivo sistema d’offerta (scuola, FP, apprendistato), ma non ha forza, capacità, possibilità di immaginare proposte alternative. Infatti, da un lato, vi è un forte richiamo alla necessità di rilanciare la formazione al “mestiere”, in un contesto di rivalutazione della cultura del lavoro e del “saper fare”; dall’altro, si esprime interesse verso eventuali corsi specifici e mirati in funzioni del settore, dell’inquadramento e del ruolo, sottolineando anche l’esistenza di spazi di lavoro autonomo per determinate figure artigianali soprattutto nel campo della meccanica e dell’elettricità/elettronica/elettrotecnica. D’altro canto, la suddivisione netta tra scuola e formazione professionale non appare sicuramente propria del mondo del lavoro, che spesso non distingue e non conosce le differenze tra i due segmenti ma si limita a constatarne la minore o mag- giore efficacia rispetto alle proprie esigenze. A questo proposito, nel complesso, si 9 registra una diffusa “stanchezza” e disillusione nei confronti del nostro sistema educativo, considerato complessivamente troppo autoreferenziale ed incapace di dialogare con gli attori economici. La dichiarata adesione agli assetti “scuola cen- trici” prospettati nelle diverse regioni considerate, da parte del mondo imprendito- riale trova la sua origine proprio in questo atteggiamento: – avendo rinunciato a cercare “qualità” le imprese si affidano alla quantità, ov- vero chiedono al potenziale bacino di nuovi lavoratori la frequenza di un nu- mero maggiore di anni di istruzione/formazione; – individuano comunque non tanto nella “Scuola” quanto nelle scuole del terri- torio un interlocutore più stabile, con maggiori garanzie di continuità e mag- giormente identificabile degli Enti di formazione professionale; – in gran parte riconoscono la validità dell’offerta salesiana, e ne sottolineano il potenziale formativo, ma la ritengono talvolta troppo ancorata al recupero dei soggetti difficili e non adeguamente supportata a livello istituzionale. Rebus sic stantibus, appare fondamentale che i diversi soggetti finora impe- gnati nella formazione iniziale avviino un percorso di ripensamento della propria organizzazione, adottino rigorosi strumenti di autovalutazione e selezione delle attività e delle risorse umane, richiedano e pretendano oggettivi e stringenti mec- canismi di selezione degli enti e delle strutture formative, anche preparandosi ad affrontare un periodo di ridimensionamento delle attività formative di base. Nel contempo, non si può sottacere la richiesta, sia delle istituzioni sia delle parti sociali, di avviarsi verso una maggiore differenziazione della propria offerta formativa, allargandola ai percorsi postdiploma: infatti, a prescindere dall’architet- tura che assumerà alla fine del processo di riforma il segmento d’offerta correlato ai diversi obblighi e diritti/doveri, è opinione largamente diffusa che proficuo e fondamentale possa essere il contributo degli enti storici e dei salesiani in parti- colare anche sui segmenti superiori. 11 1. ABRUZZO 1.1. Gli indicatori di sistema La partecipazione dei giovani ad attività educative I dati del Ministero della Pubblica istruzione relativi all’anno scolastico 2004/05 indicano che il tasso di partecipazione ai percorsi di istruzione dei giovani residenti in Abruzzo di età compresa tra 15 e 18 anni risulta essere superiore ai corrispondenti valori registrati in Italia e nelle regioni meridionali considerate nel complesso. Infatti, se in Abruzzo la percentuale di non frequentanti la scuola è pari al 10,8% del totale dei giovani in età corrispondente, la stessa percentuale sale al 16,4% a livello nazionale e al 17,1% nel Sud (isole escluse) del Paese (tab. 3). Tab. 3 - Tasso di partecipazione al sistema scolastico - A.s. 2004-2005 Fonte: MPI - La dispersione scolastica La popolazione studentesca – anno scolastico 2005/06 all’interno del segmento di istruzione secondaria di II grado (tab. 4) risulta distribuita per il 51,6% in percorsi di istruzione tecnica (37,5%) e professionale (14,1%), a loro volta, supe- riore ed inferiore ai corrispondenti valori nazionali (35,1% e 20,6%). Il rimanente 49,4% degli studenti frequenta i percorsi liceali (ex istituti magistrali e istituti d’arte compresi). Tra i licei sono soprattutto gli scientifici quelli a più alta fre- quenza, attraendo il 22,5% degli studenti, seguiti a distanza dai classici (9,7%). Ta b. 4 - A lu nn i p er p ro vi nc ia e ti po lo gi a di sc uo la - Sc uo la se co nd ar ia d i I I g ra do - A .s. 2 00 5- 20 06 (v .a . e v al . % ) F on te : el ab or az io ne C en si s su d at i M PI -D G S tu di e P ro gr am m az io ne 12 13 Con riferimento ai singoli contesti provinciali si rilevano, invece, le seguenti specificità: – la provincia dell’Aquila si caratterizza rispetto agli altri territori provinciali per una distribuzione della popolazione studentesca piuttosto congruente con la distribuzione regionale; – la provincia di Teramo ospita quote di iscritti ai licei scientifico (22,4%) e clas- sico (17,1%) e agli istituti professionali (19%) più alte di quelle regionali, men- tre la componente di iscritti agli istituti tecnici è inferiore di 2 punti percentuali; – la provincia di Pescara si differenzia dai valori regionali per la presenza di percentuali di iscritti ai licei scientifici (24%), agli ex istituti magistrali (14,8%) ed ai licei artistici/istituti d’arte (6,5%) sensibilmente superiori; – Chieti, infine, è la provincia in cui la quota di iscritti all’istruzione tecnica (44,2%) più si discosta dal corrispondente valore regionale, registrando un differenziale di oltre 7 punti percentuali. I dati sugli abbandoni scolastici nella scuola secondaria di II grado eviden- ziano percentuali di studenti che hanno abbandonato gli studi tendenzialmente in linea o al di sotto dei corrispondenti valori nazionali (tab. 5). A fronte di una percentuale nazionale di abbandoni pari all’1,6% solo l’1,1% di studenti abruzzesi risulta aver lasciato gli studi. Unica eccezione in eccesso rispetto al dato italiano, è quella degli studenti iscritti al V anno (Abruzzo 1,1%, Italia 0,7%). Restando al solo contesto regionale sono il I (1,3%) ed il IV anno (1,4%) di corso ad essere maggiormente interessati da fenomeni di abbandono. Tra le province, Pescara è l’unica ad avere una percentuale complessiva di abbandoni superiore a quella italiana (1,7%), che raggiunge un valore pari a 2,2% al I ed al IV anno di corso. Tab. 5 - Studenti che hanno abbandonato gli studi per anno di corso, per 100 iscritti – A.s. 2006-2007 Fonte: MIUR, 2008 Restando al solo contesto regionale sono il I (1,3%) ed il IV anno (1,4%) di corso ad essere maggiormente interessati da fenomeni di abbandono. Tra le 14 Ta b. 6 - A lli ev i i sc rit ti ad a lc un i c or si d i f or m az io ne p ro fe ss io na le re gi on al e pe r t ip ol og ia - A .f. 2 00 5- 20 06 (v .a . e v al . % ) F on te : el ab or az io ne C E N SI S su d at i I SF O L e IS TA T 15 province, Pescara è l’unica ad avere una percentuale complessiva di abbandoni superiore a quella italiana (1,7%), che raggiunge un valore pari a 2,2% al I ed al IV anno di corso. Passando dall’istruzione scolastica alla formazione professionale iniziale (tab. 6), si può osservare che quasi il 50% degli allievi di questo segmento di offerta è iscritto ai percorsi triennali per l’espletamento dell’obbligo d’istruzione/diritto- dovere (48,8%), mentre la rimanente parte di utenza frequenta corsi di formazione professionale di II livello o afferenti all’istruzione formazione tecnica superiore (IFTS) e, quindi, rivolti ad individui in possesso di qualifica, diploma o laurea ed appartenenti a classi di età più elevate (33,6%), oppure attività formative in seno all’apprendistato (15,7%). Dalla comparazione della distribuzione regionale con quella nazionale si evince, altresì, che mentre in Abruzzo le concentrazioni di allievi nelle prime due tipologie di corsi sono sensibilmente superiori a quelle riscontrabili a livello di Paese (obbligo formativo 40,3%, II livello/IFTS 28,6%), la quota di apprendisti abruzzesi coinvolti in attività formative è inferiore di oltre 13 punti percentuali, sebbene comunque superiore di quasi due punti al totale delle regioni meridionali (15,7%). Il tasso regionale di partecipazione alle attività formative (4,7%), calcolato sul totale dei giovani di età compresa tra 14 e 24 anni è in linea con quello nazionale (4,7%) e superiore a quello del totale delle regioni meridionali (1,4%). L’orientamento delle scelte dei 55.833 iscritti ad una facoltà universitaria e re- sidenti in Abruzzo evidenzia una concentrazione su quattro facoltà che nel com- plesso hanno raccolto nell’anno accademico 2005/06 il 49,1% della sottopopola- zione presa in considerazione. Al primo posto si trova Economia con una quota di iscritti pari al 16,3%, superiore di oltre 3 punti percentuali al corrispondente valore nazionale, seguita da Ingegneria (12,4%), Giurisprudenza (10,5%) e Lettere e Filo- sofia (10%), (tab. 7). Passando dai “contenuti” ai “luoghi” della formazione superiore si osserva che il sistema universitario regionale è tendenzialmente auotocontenuto, in quanto oltre il 70% degli universitari abruzzesi è iscritto a facoltà che insistono sul territorio della regione (tab. 8). Il rimanente 30% ha optato in prevalenza per atenei di regioni contermini, quali il Lazio (10,2%) e le Marche (5,5%) o appartenenti alla dorsale adriatica come l’Emilia Romagna (7%). Della complessiva popolazione universi- taria presente in Italia le facoltà abruzzesi ospitano il 3,5% del totale. Infine, i dati sui livelli di scolarizzazione della popolazione con 15 anni ed oltre di età restituiscono un quadro del capitale umano regionale nell’insieme posi- tivo (tab. 9). Il 29,8% ed il 10,5% della popolazione residente detiene rispettiva- mente un diploma di scuola secondaria superiore o almeno un diploma di laurea, diversamente da quanto riscontrabile nelle regioni meridionali e a livello di Paese. Nel primo caso i diplomati sono il 26,5% della popolazione ed i laureati l’8,7%, nel secondo caso il 27,2% ed il 10,5%. 16 Ta b. 7 - Is cr itt i a ll’ un iv er si tà re si de nt i i n A br uz zo p er fa co ltà fr eq ue nt at a - A nn o ac ca de m ic o 20 05 -2 00 6 (v .a . e v al . % ) F on te : el ab or az io ne C en si s su d at i M U R , I nd ag in e su ll’ is tr uz io ne u ni ve rs ita ri a 17 Tab. 8 - Iscritti all’università per regione della sede del corso universitario - Anno accademico 2005-2006 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione Censis su dati MUR, Indagine sull’istruzione universitaria Tab. 9 - Popolazione di 15 anni e oltre per titolo di studio - Anno 2007 (v.a. e val.%) Fonte: elaborazione CENSIS su dati ISTAT 18 Mercato del lavoro e domanda delle imprese Il tasso di disoccupazione giovanile - calcolato sui giovani di età compresa tra i 14 ed i 24 anni in cerca di occupazione in Abruzzo (17,2%) è inferiore a quello nazionale (20,3%). A livello di singole province è soprattutto nell’aquilano e nel chietino che si riscontrano i più alti livelli di disoccupazione giovanile (23,6% e 17,9%), mentre nel pescarese e nel teramano le quote di giovani disoccupati sono inferiori sia a quella regionale sia a quella nazionale (13,5% e 14,5% tab. 10). Tab. 10 - Indicatori del mercato del lavoro giovanile per sesso - Anno 2007 - Persone tra i 15 e i 24 anni Fonte: elaborazione CENSIS su dati ISTAT La previsione di nuove assunzioni da parte delle imprese abruzzesi, secondo i dati Excelsior 2007, risulta essere schiacciata su addetti con bassi livelli di scolariz- zazione più di quanto non lo siano le previsioni a livello nazionale (tab. 11). Se la domanda nazionale di nuove risorse da inserire nei diversi contesti aziendali richie- de per il 38,6% addetti senza alcun titolo (ovvero che abbiano completato la scuola dell’obbligo), il corrispondente valore regionale risulta essere superiore di ben 10 punti percentuali (48,5%). La rimanente parte riguarda per il 30,4% diplomati (Italia 34,9%), in particolare negli indirizzi amministrativo commerciale (8,6%) e mecca- nico (4%) e per il 5.5% (Italia 9%) laureati, senza che si possa rilevare, in quest’ul- timo caso, un significativo orientamento verso alcune aree disciplinari. Livelli di qualificazione intermedi, quali possono essere le qualifiche professio- nali regionali o quelle dell’istruzione professionale, aggregano quote di domanda pari rispettivamente al 6,4% ed al 9,4% e in linea con quanto riscontrabile a livello nazionale (qualifica professionale regionale 6,8%, qualifica istruzione professionale 10,8%). 19 Tab. 11 - Previsioni di assunzione per titolo di studio richiesto - Anno 2007 (v.a. e val.%) Fonte: elaborazione CENSIS su dati Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema informativo Excelsior, 2007 20 Se al titolo di studio indicato dalle imprese viene associata l’esperienza speci- fica, ovvero se si prendono in considerazione i livelli formativi equivalenti1 (tab.12), eventualmente richiesti ai candidati al momento dell’assunzione, è possibile osser- vare come il fattore “competenza acquisita” determini una diversa modulazione e, per certi versi, una maggiore qualificazione della domanda di nuovi addetti da parte delle imprese. Infatti, la domanda di nuovi addetti privi di alcun titolo scende al 23,6% a van- taggio di coloro con un livello formativo equivalente ad una qualifica della forma- zione professionale regionale, che rappresentano circa il 30% delle nuove risorse (Italia 23,7%), o ad un titolo post diploma (17%), o, infine, di quelli aventi una pre- parazione di livello universitario (6,3%). La classificazione delle nuove assunzioni, secondo le professioni Istat, risulta essere coerente con i livelli formativi più richiesti, poiché incentrata su profili di tipo intermedio. Basti considerare al riguardo che le professioni qualificate nelle attività commerciali e servizi (22,9%), da un lato, e gli operai specializzati (27,4%), dall’altro, coprono oltre il 50% delle nuove assunzioni (Italia 23,7% e 19,6%). Tab. 12 - Previsioni di assunzione delle aziende per livello formativo equivalente e regione e professione ISTAT - Anno 2007 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema informativo Excelsior, 2007 1 Il livello formativo equivalente può essere considerato un fattore ordinatore della domanda, che si ottiene dall’incrocio tra titolo di studio e esperienza lavorativa. 21 1.2. I risultati dell’indagine di campo Il contesto La maggioranza dei testimoni intervistati ha concordato sul fatto che la scelta compiuta dalla Regione Abruzzo di ridurre l’offerta di percorsi sperimentali trien- nali è stata in primo luogo dettata da esigenze di bilancio. Tra il 2003 ed il 2005, infatti, questa offerta ha avuto un “boom drogato” che ha prosciugato la disponibilità di fondi sostanzialmente allocati sulla misura A2 del FSE, senza che l’Amministrazione Regionale avesse di fronte a sé la prospettiva per gli anni seguenti di disporre di congrue risorse nazionali o di utilizzare ulteriori risorse messe a disposizione dal FSE per la nuova programmazione 2007-2013. È, pertanto, opinione condivisa che un’offerta alternativa o integrata a quella scolastica per i giovani in obbligo di istruzione sia possibile solo se sostenuta da adeguate risorse nazionali. La decisione di modificare la struttura dell’offerta formativa rivolta ai giovani di età compresa tra 14 e 16 anni, centrandola sulla scuola non scaturisce, però secondo gli intervistati, solo da valutazioni meramente contabili, ma anche da una presa d’atto: – del fallimento a livello regionale dei percorsi sperimentali triennali, attivati a seguito della Riforma Moratti; – delle deluse aspettative circa una maggiore aderenza dell’offerta formativa alle esigenze delle imprese a seguito dell’avvio degli stessi percorsi; – dell’inesistenza di un sistema di offerta strutturato ed alternativo alla scuola. Al riguardo, è totale l’accordo circa l’inadeguatezza dei requisiti d’accredita- mento delle sedi formative, a loro tempo utilizzati, a garantire la qualità della forma- zione e la necessità di innalzare gli standard di qualità, al fine di innescare spinte al miglioramento, endogene al sistema dell’offerta di formazione. Il panel, pertanto, non critica tanto il merito della decisione adottata quanto il metodo, poiché si è trattato di un atto unilaterale, preso dall’alto e calato sul conte- sto regionale senza una reale condivisione di tutti gli stakeholder interessati. Quasi all’unanimità si ritiene che l’elevamento di 2 anni di istruzione non sia di per sé negativo, anzi possa essere funzionale ad un migliore espletamento del- l’attività lavorativa, avendo i più giovani la possibilità di rafforzare le proprie com- petenze di base. Da parte dei più, non si attribuisce all’estensione del ciclo di istru- zione obbligatoria alcun effetto discriminatorio, come da alcuni affermato, nei con- fronti di quelle famiglie meno abbienti per le quali i percorsi brevi e professionaliz- zanti possono costituire una valida alternativa all’istruzione secondaria superiore dopo la terza media. Questa uniformità di vedute si frammenta di fronte al pragma- tismo delle imprese quando sono chiamate a dismettere le adesioni di principio e a declinare fabbisogni e conseguenti comportamenti. Ad un tempo, però, una certa perplessità emerge circa la possibilità di recupe- rare il ritardo “macroscopico”, in materia di tassi di scolarizzazione e di acquisi- 22 zione di competenze di base, che separa il nostro paese dal resto d’Europa, solo attraverso l’istruzione scolastica, sottintendendo la necessità di mantenere, co- munque, percorsi integrati tra scuola e formazione professionale, in grado di garan- tire inclusione e progressione negli studi. Ampio, infine, è l’accordo sull’opportunità di valorizzare le eccellenze regionali esistenti nel sistema di formazione professionale e nella scuola, al fine di agevolare l’inserimento sul mercato del lavoro dei giovani in uscita dai percorsi di istruzione e formazione, poiché le aziende scelgono non solo in funzione del tipo di percorso ma soprattutto tenendo conto dell’Ente o Istituto di provenienza, la cui fama è garanzia di qualità. La scuola Alla luce dei cambiamenti introdotti dal nuovo obbligo di istruzione, secondo la totalità dei testimoni intervistati, la scuola pubblica deve riorganizzare la propria offerta di istruzione in funzione della complessiva utenza ora necessariamente più variegata e con maggiori specificità. Nel fare ciò deve puntare sia al rafforzamento delle competenze di base o generaliste, come pure a quelle tecnico-professionaliz- zanti, nei casi dell’istruzione tecnica e professionale. È, infatti, abbastanza condivisa l’opinione che l’istruzione in generale si sia livel- lata verso il basso e che, ad esempio, il requisito del diploma assicuri al momento solo quelle di competenze di base minime per un inserimento positivo in azienda, mentre unanime è il giudizio sul progressivo scollamento tra competenze richieste in impresa e formazione tecnico-professionalizzante impartita dagli istituti scolastici. Tutti i testimoni concordano sull’inesistenza, a livello regionale, di un sistema di relazioni organico e strutturato tra scuole (in particolare istituti professionali) e associazioni datoriali. I contatti tra le parti si attivano su base spontanea esclusiva- mente in occasione dell’organizzazione degli stage in azienda. Se, da un lato, la scelta di prolungare la presenza nei percorsi di istruzione viene valutata positivamente dai più, dall’altro risulta essere condivisa in egual misura l’opinione di non rendere coercitiva tale permanenza, dovendo garantire comunque un’alternativa formativa a coloro che fuoriescono dai percorsi scolastici prima del conseguimento di un diploma. Il rafforzamento dei servizi di orientamento all’interno delle scuole viene valu- tato come un passaggio quanto mai necessario non solo per prevenire dispersione e disaffezione verso lo studio, ma anche per permettere alle istituzioni scolastiche di raccogliere positivamente la sfida conseguente ai cambiamenti introdotti dal nuovo obbligo di istruzione. La formazione professionale Le recriminazioni circa il ridotto ruolo della formazione professionale di base, determinato dalle decisioni politiche adottate negli ultimi anni dall’Amministra- 23 zione Regionale, attengono più al ruolo sociale da essa svolto che non al valore della sua proposta formativa. Mettendo in ordine i diversi item di riflessione si osserva, da un lato, che il panel concorda interamente nel riconoscere che l’azzeramento della formazione professionale di base ha avuto un impatto sociale negativo, in quanto quest’ultima espletava anche un’importante funzione di recupero ed inserimento lavorativo dei giovani provenienti da contesti familiari meno abbienti o a rischio. Dall’altro, però, gran parte dello stesso panel ritiene che la formazione professionale iniziale non possa essere considerata una valida alternativa alla scuola, caratterizzandosi il panorama regionale come lacunoso e di scarsa qualità, con poche strutture conso- lidate e non sempre in linea con gli effettivi fabbisogni del territorio. Infatti, con riferimento ai profili tipici della formazione professionale di I livello, quali ad esempio tornitore, saldatore, fresatore, elettricista, il panel intervistato reputa che di essi il tessuto imprenditoriale regionale abbia ancora bisogno, a patto però che si provveda ad un aggiornamento delle relative conoscenze e competenze, che devono essere al passo con i sempre più tecnologizzati e complessi processi produttivi. La formazione professionale di base non viene comunque valutata autosuf- ficiente a garantire l’effettivo inserimento lavorativo, piuttosto viene percepita alla stregua di un percorso formativo propedeutico, che deve necessariamente essere completato da un programma di addestramento in azienda. In un contesto in cui si guarda con favore all’elevamento delle competenze di base e si considera l’elevamento dell’obbligo di istruzione una misura di policy congruente con tale aspettativa, si giudica l’esperienza dei percorsi triennali come un’occasione che se non fosse fallita, avrebbe potuto essere funzionale ai fabbi- sogni professionali delle imprese artigiane, dove i tempi di professionalizzazione dei nuovi addetti sono più lunghi che nelle industrie ed è necessario apprendere tutte le mansioni sottese ad un processo produttivo. Ma anche da questo punto di vista, c’è chi precisa che, comunque, il cosiddetto “mestiere” si impara vera- mente solo in azienda; la funzione della formazione, ad esempio nell’apprendistato, è quella di rendere il (futuro) lavoratore più consapevole del contesto lavorativo ed in grado di comprenderne la sempre più elevata complessità. Diversamente, all’interno di contesti aziendali di tipo industriale l’attrattività degli stessi percorsi è minore in virtù di una maggiore segmentazione dell’organiz- zazione produttiva e di una maggiore attenzione alle competenze di base. Rebus sic stantibus, i testimoni intervistati pur confermando la loro stima per enti di formazione consolidati come quelli di emanazione salesiana, ritengono che questi stessi enti possano avere ancora un futuro a patto che riposizionino il loro target di utenza su classi di età più elevate dei 14-16enni e che tendano ad una maggiore integrazione con il sistema dell’istruzione. Occorre infine sottolineare che, a prescindere dalle posizioni espresse in merito al ruolo ed al futuro della Formazione professionale iniziale, l’orizzonte di riferimento delle Parti Sociali è costituito piuttosto dalla formazione continua degli 24 occupati, che costituisce per tutti il nodo strategico dell’attuale contesto formativo. Concorre sicuramente alla formulazione di tale giudizio la partecipazione diretta delle Parti sociali alla programmazione e gestione delle attività formative nell’am- bito dei Fondi Interprofessionali. Le relazioni tra scuola e formazione professionale Le relazioni tra i sistemi della scuola e della formazione professionale vengono valutati in un’ottica di integrazione e complementarità, o più precisamente viene auspicato dalla gran parte del panel un incremento delle possibili sinergie. In primo luogo, risulta essere condivisa l’opinione secondo la quale nei passati percorsi triennali sperimentali l’integrazione tra i due sistemi era di forma e non di sostanza. Al riguardo, la conclusione dell’accordo territoriale tra Regione Abruzzo e Ufficio Scolastico Regionale del 7 luglio 2007 sui percorsi sperimentali attuati di intesa tra Istituti professionali di Stato e Organismi formativi accreditati presso la Regione viene salutato come una misura che segna un passaggio di fase, in favore di una maggiore integrazione tra scuola e formazione professionale. Il principale asset che la formazione professionale potrebbe mettere a disposi- zione all’interno di un contesto favorevole all’integrazione dei sistemi è costituito dall’attività laboratoriale, metodologia didattica più sperimentata al suo interno che nella scuola. Infatti, la formazione professionale, fornendo una preparazione più correlata alle esigenze delle imprese, in quanto più “operativa” potrebbe favorire un inseri- mento più immediato di neoqualificati o neodiplomati in uscita dalle scuole. I testimoni intervistati, da parte loro, non si limitano ad auspicare una mag- giore e generalizzata integrazione tra i due sistemi, ma si spingono oltre indicando anche a quale livello del ciclo secondario di studi ciò debba avvenire. Infatti, alla luce dell’innalzamento dell’obbligo di istruzione, sembrano essere più favorevoli ad una spinta integrativa nei percorsi di studio dei giovani che abbiano superato il 16esimo anno di età, al fine di avviare al lavoro coloro che non vogliono prose- guire oltre il 18esimo anno. Prima di tale soglia una maggiore integrazione viene vista come controproducente per le prospettive di crescita degli stessi giovani, che, secondo il panel, probabilmente devono avere il tempo necessario per consolidare le loro competenze di base. Tutto ciò premesso, il panel conclude ribadendo che senza adeguate risorse nazionali, in aggiunta a quelle disponibili per il sistema d’istruzione, nel breve periodo, siano possibili solo esperienze sperimentali di raccordo tra formazione professionale e scuola e non “attività di sistema”. Le imprese Passando dalla prospettiva dell’offerta a quella della domanda, ovvero an- dando ad analizzare quelle che sono le attese in termini di fabbisogni e profili pro- 25 fessionali richiesti dalle imprese, non è dato di cogliere un punto di vista univoco. Volendo fare sintesi delle opinioni raccolte e socializzate tra i diversi componenti del panel potremmo affermare che sussistono due scuole di pensiero: – da un lato, coloro che sostengono la necessità di inserire in azienda risorse con più elevati livelli di scolarizzazione, poiché solo grazie ad un capitale umano di qualità il sistema produttivo regionale potrà competere con i processi di modernizzazione derivanti dalla globalizzazione dei mercati; – dall’altro, coloro che con approccio più pragmatico e confidando nelle capacità formative insite in azienda, ritengono che i nuovi addetti non debbano necessa- riamente essere diplomati e che i giovani qualificati in uscita dai percorsi della formazione iniziale di I livello abbiano ancora una loro collocazione nel mer- cato del lavoro regionale. Pertanto, secondo i fautori del primo punto di vista, soffrendo l’Abruzzo di una grave crisi di competitività, legata all’incapacità delle aziende di introitare innovazione, è opportuno che per superare tale gap si compia un salto di qualità nei livelli di professionalità non solo di chi dirige, ma anche di chi è impiegato in azienda, ovvero dei livelli intermedi, per i quali esiste una domanda di lavoro. A livello regionale, permane infatti un bisogno di profili professionali in- termedi tipici dell’industria manifatturiera, quali ad esempio saldatori, tornitori, operatori per macchine a controllo numerico, disegnatori CAD/CAM, oramai diffi- cilmente reperibili. I cosiddetti operatori, sempre secondo questo gruppo di testimoni, sono però i primi a fare qualità in azienda e a fronte di processi industriali sempre più complessi e dinamici anche gli “operai” devono avere livelli di istruzione più elevati. Coerentemente, con tale approccio non riscuote unanime consenso l’argomen- tazione secondo la quale la supposta dualità del sistema produttivo abruzzese, caratterizzato dalla compresenza sia di imprese altamente tecnologizzate ed interna- zionalizzate, sia di piccole e piccolissime imprese artigiane potrebbe alimentare una domanda di profili medio bassi, tipici della formazione professionale di I livello, presso quest’ultime. Al riguardo è stato osservato che ciò potrebbe verificarsi solo nel breve perio- do, poiché nel medio termine anche il comparto artigiano dovrà innalzare i requisiti per il reclutamento, se vorrà essere parte attiva dei processi di modernizzazione del sistema produttivo regionale. La posizione di consenso verso la necessità di implementare il grado di istru- zione medio dei giovani si sostanzia, per alcuni intervistati anche con la considera- zione che le imprese, in particolare quelle artigiane, cercano soprattutto “ragazzi seri”, intendendo con tale termine persone con una maggiore maturità, una più spic- cata cultura del lavoro e la voglia di investire nel proprio sviluppo professionale, a prescindere dal percorso formativo seguito. 26 Diversamente, i sostenitori del secondo punto di vista convengono che: – le imprese hanno ancora bisogno di personale non diplomato e che conseguen- temente, dopo la terza media sia opportuno offrire corsi di formazione profes- sionalizzanti per i giovani orientati al lavoro e non al proseguimento degli studi; – per le figure di produzione non è necessario il requisito del diploma, può essere importante anche l’esperienza o le qualità personali in luogo di quelle professionali, qualora di difficile reperimento; – i profili dei qualificati di I livello della formazione professionale sono più rispondenti alle esigenze delle aziende artigiane. Nell’alveo di questa seconda posizione, alcuni evidenziano il problema del- l’orientamento scolastico e professionale, da un lato, e quello della qualità della formazione, dall’altro, che agendo soprattutto sulla cultura professionale degli indi- vidui si pongono come fattori dirimenti per il successo di qualunque tipo di inizia- tiva formativa. A prescindere da quale delle due posizioni sia stata assunta, i componenti il panel concordano in misura pressoché unanime circa la necessita di una maggiore integrazione tra i sistemi di offerta ed il sistema imprenditoriale. Viene, infatti, giudicato opportuno che “l’impresa entri nella scuola”. Al ri- guardo si suggerisce, già a partire dal biennio delle scuole tecniche e professionali, l’individuazione di comparti produttivi di base rispetto ai quali scuole e imprese potrebbero interagire, in modo da curvare i contenuti disciplinari sulle vocazioni del territorio. Si valutano insufficienti i canali di comunicazione tra imprese e formazione professionale, attivati sulla base di rapporti personali, senza la possibilità di un’ef- fettiva valutazione dell’efficacia degli interventi formativi erogati. Proprio il livello insoddisfacente dei rapporti scuola-formazione-impresa, uni- tamente alla già citata implementazione dei Fondi interprofessionali, fa emergere in più casi una tentazione (se non una netta presa di posizione) di completa “presa in carico” soprattutto da parte delle medio-grandi imprese e delle Parti sociali, della formazione ed aggiornamento professionale dei lavoratori, relegando sia scuola sia FP al compito “basico” di fornire “materiale umano” il più possibile semilavorato. Da questo punto di vista vengono segnalate alcune esperienze interessanti che, nel- l’ambito del lavoro interinale, vedono l’utilizzo del Fondo Formatemp ed il coin- volgimento di alcuni enti di formazione professionale in attività di breve durata finalizzate alle specifiche esigenze di singole aziende. 27 2. CAMPANIA 2.1. Gli indicatori di sistema La partecipazione dei giovani ad attività educative Il tasso di partecipazione ai percorsi di istruzione da parte dei residenti in Campania di età compresa tra 15 e 18 anni, secondo quanto rilevato dal Ministero della Pubblica istruzione per l’anno scolastico 2004/05, è inferiore di 3,5 punti per- centuali rispetto al valore nazionale e di quasi 3 punti (2,9%) rispetto alle regioni meridionali nel loro complesso. Infatti, se in Italia la percentuale di non frequen- tanti la scuola è pari al 16,4% del totale dei giovani in età corrispondente e nel Sud al 17,1%, la stessa percentuale sale a livello campano al 19,9% (tab. 13). Tab. 13 - Tasso di partecipazione al sistema scolastico - A.s. 2004-2005 Fonte: MPI - La dispersione scolastica Gli studenti iscritti alla scuola secondaria di II grado nell’anno scolastico 2005/06 (tab. 14) si distribuiscono per il 53,9% in percorsi di istruzione tecnica (32,5%) e professionale (21,4%), a loro volta, inferiore e superiore ai corrispon- denti valori nazionali (35,1% e 20,6%). Il rimanente 46,4% degli studenti frequenta i percorsi liceali (ex istituti magistrali e istituti d’arte compresi). Tra i licei quelli più frequentati sono soprattutto gli scientifici con il 22,6% degli studenti, seguiti a distanza dai classici che sfiorano quota 10% (9,9%). 28 Ta b. 1 4 -A lu nn i p er p ro vi nc ia e ti po lo gi a di s cu ol a - S cu ol a se co nd ar ia d i I I g ra do - A .s . 2 00 5- 20 06 (v .a . e v al .% ) F on te : el ab or az io ne C E N SI S su d at i M PI -D G S tu di e P ro gr am m az io ne 29 La lettura dei dati a livello provinciale evidenzia le seguenti peculiarità territo- riali: – la provincia di Napoli sede del capoluogo di regione, si caratterizza per una distribuzione degli iscritti sostanzialmente in linea con i valori regionali con l’eccezione dell’istruzione professionale, che ospita il 22,8% dell’utenza provinciale, quota di circa un punto e mezzo superiore a quella regionale; – la provincia di Benevento si differenzia dal complessivo contesto regionale soprattutto per la suddivisione degli iscritti all’interno dell’istruzione liceale, in quanto ad una quota di studenti iscritti ai licei scientifici inferiore di due punti percentuali netti corrisponde un incremento di oltre 2,7 punti di frequentanti l’istruzione liceale classica, pari a al 12,6 del totale provinciale; – nella provincia di Caserta la percentuale di iscritti all’istruzione tecnica è pari al 36,7% dell’utenza provinciale, superiore cioè di oltre quattro punti percen- tuali al totale regionale di studenti iscritti agli istituti tecnici, con conseguente svantaggio per licei classici ed istituti professionali (6% e 18,7%); – Avellino si caratterizza, da un lato, per essere il territorio in cui l’istruzione tecnica raccoglie una parte di popolazione studentesca (28,2%) inferiore non solo al valore regionale di riferimento, ma anche a quelli delle altre province campane, dall’altro, per una maggiore capacità di attrazione di licei classici ed ex istituti magistrali (26,7% in totale); – la distribuzione degli studenti salernitani evidenzia, infine, un sensibile sco- stamento positivo per i licei scientifici (24,7% contro una quota regionale di 22,6%) ed uno di segno opposto per gli istituti professionali (19,7% contro una quota regionale di 21,4%). I dati sugli abbandoni degli studenti delle scuola secondaria di II grado evidenzia- no una maggiore intensità del fenomeno a livello regionale rispetto a quanto riscontra- bile nel Paese (tab.15). Nel complesso la Campania ha un tasso di abbandono (2,1%) sensibilmente superiore a quello nazionale (1,6%), che supera il 4% al primo anno di corso, ovvero subito dopo la conclusione del ciclo primario degli studi scolastici. Tab. 15 - Studenti che hanno abbandonato gli studi per anno di corso, per 100 iscritti – A.s. 2006-2007 Fonte: MIUR, 2008 Ta b. 1 6 -A lli ev i i sc rit ti ad a lc un i c or si d i f or m az io ne p ro fe ss io na le re gi on al e pe r t ip ol og ia - A .f. 2 00 5- 20 06 (v .a . e v al . % ) F on te : el ab or az io ne C E N SI S su d at i I SF O L 30 31 Sono Napoli e Caserta le province con le quote più alte di drop-out (2,6% e 2,4% rispettivamente), che al primo anno di corso raggiungono la soglia del 5% nel napoletano e la sfiorano (4,7%) nel casertano. Le iscrizioni ai percorsi di formazione professionale iniziale (tab. 16), indicano che il 66% degli allievi di questo segmento di offerta è iscritto ai percorsi triennali per l’espletamento dell’obbligo d’istruzione/diritto-dovere. Il complemento a 100 del totale degli iscritti nell’anno formativo 2005-06 è dato esclusivamente dagli al- lievi dei corsi di formazione professionale di II livello o dell’istruzione formazione tecnica superiore (IFTS), non risultando per lo stesso anno apprendisti inseriti in attività formative. Il confronto dei dati regionali con gli omologhi nazionali evidenzia una con- centrazione di allievi nei percorsi per l’obbligo d’istruzione/diritto-dovere di gran lunga superiore a quanto rilevabile nell’insieme delle regioni meridionali (51,4%) e del Paese (40,3%); riguardo invece, agli iscritti ai corsi di II livello (IFTS in- clusi), pur essendo la quota regionale superiore a quelle degli altri livelli territoriali di riferimento, lo scostamento è sensibilmente inferiore (Sud e Isole 32,9%, Italia 28,6%). Il tasso regionale di partecipazione alle attività formative (calcolato sul totale dei giovani di età compresa tra 14 e 24 anni) non raggiunge il punto percen- tuale e come tale è molto al di sotto di quello nazionale (4,7%) ed inferiore a quello del totale delle regioni meridionali (1,4%). L’orientamento delle scelte dei 227.199 studenti universitari residenti in Cam- pania evidenzia un orientamento in linea con le scelte nazionali. Le quattro facoltà universitarie che sommano il 56,6% dei giovani campani sono le stesse che anche a livello nazionale hanno una maggiore capacità attrattiva, seppure con quote percen- tuali diverse. Nell’ordine, al primo posto della graduatoria, per l’anno accademico 2005/06, si ritrova Giurisprudenza (Campania 17,7% Italia 12,9%), seguita da Eco- nomia (Campania 15,6% Italia 13%), Lettere e Filosofia (Campania 12,3% Italia 12,9%) ed Ingegneria (Campania 11,5% Italia 12,4% tab. 17). Il tasso di autocontenimento del sistema universitario regionale è superiore all’80%, poiché l’86,6% degli universitari campani frequenta facoltà di atenei regionali (tab. 18). Il rimanente 13,4% di studenti fuori sede si orienta verso le altre regioni senza dare vita a flussi particolarmente consistenti. Unica regione tra tutte che riesce ad attrarre una quota maggiore di studenti è il Lazio che, con ogni pro- babilità per la posizione geografica ed il forte potenziale attrattivo degli atenei romani, raggiunge quota 5,6%. Del totale della popolazione universitaria presente in Italia le facoltà campane ospitano l’11,5% del totale. In ultimo, i dati sui livelli di scolarizzazione della popolazione con 15 anni ed oltre di età pongono la Campania in linea con le regioni meridionali comples- sivamente considerate, disponendo di quote di diplomati e di laureati pari a 25,9% e 8,5% (Sud e Isole 26,5% e 8,7%), ma inferiori, soprattutto con riferimento ai residenti laureati, a quanto riscontrabile a livello nazionale (27,2% e 10,2%). 32 Ta b. 1 7 -I sc rit ti al l’u ni ve rs ità re si de nt i i n C am pa ni a pe r f ac ol tà fr eq ue nt at a - A nn o ac ca de m ic o 20 05 -2 00 6 (v .a . e v al . % ) F on te : el ab or az io ne C E N SI S su d at i M U R , I nd ag in e su ll’ is tr uz io ne u ni ve rs ita ri a 33 Tab. 18 - Iscritti all’università per regione della sede del corso universitario Anno accademico 2005-2006 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati MUR, Indagine sull’istruzione universitaria I residenti in possesso di qualifica professionale sono circa la metà della quota nazionale (5,2%). Da ciò ne consegue che più alte sono le sottopopolazioni regionali con livelli di scolarizzazione bassi: licenza elementare 27,7%, licenza media 35,3% a fronte di valori nazionali pari a 25,9% e 31,5% (tab. 19). Tab. 19 - Popolazione di 15 anni e oltre per titolo di studio - Anno 2007 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati ISTAT 34 Mercato del lavoro e domanda delle imprese Il tasso di disoccupazione giovanile in Campania - calcolato sui giovani di età compresa tra i 14 ed i 24 anni in cerca di occupazione è sintomatico di una situazio- ne di grave crisi del mercato del lavoro regionale. La quota di giovani campani dis- occupati è pari al 32,5% del totale della popolazione in età corrispondente, ovvero superiore di oltre 12 punti percentuali al corrispondente valore nazionale (20,3%). Lo stesso dato disaggregato per genere evidenzia quanto la disoccupazione giovani- le sia più frequente per le femmine (35,4%) che per i maschi (30,7%). A livello di singole province è Napoli a presentare il più alto tasso di disoccupazione giovanile (35,4%), mentre Avellino è l’unica delle province campane ad avere una percentuale di giovani disoccupati (22,9%) dello stesso ordine di quella nazionale (tab.20). Tab. 20 - Indicatori del mercato del lavoro giovanile per sesso - Anno 2007 - Persone tra i 15 e i 24 anni Fonte: elaborazione CENSIS su dati ISTAT Come già osservato per la regione Abruzzo anche per la Campania, la previ- sione di nuove assunzioni da parte delle imprese regionali, secondo i dati Excelsior 2007, risulta essere schiacciata su addetti con bassi livelli di scolarizzazione più di quanto non lo siano le previsioni a livello nazionale (tab. 21). Se la domanda nazionale di nuove risorse da inserire nei diversi contesti azien- dali richiede per il 38,6% addetti senza alcun titolo (ovvero che abbiano completato la scuola dell’obbligo), il corrispondente valore regionale è pari al 42,4%. La rima- nente parte riguarda per il 35,4% diplomati (Italia 34,9%), in particolare negli indi- rizzi amministrativo commerciale (11,1,%) e turistico-alberghiero (4,2%) e per il 6,3% laureati (Italia 9%), senza che si possa rilevare, in quest’ultimo caso, un signi- 35 Tab. 21 - Previsioni di assunzione per titolo di studio richiesto - Anno 2007 (v.a. e val.%) Fonte: elaborazione CENSIS su dati Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema informativo Excelsior, 2007 36 ficativo orientamento verso alcune aree disciplinari, ad eccezione dell’indirizzo eco- nomico statistico, che genera una domanda di laureati intorno alle 1.000 unità (1,8% del totale). Le qualifiche professionali regionali o quelle dell’istruzione professionale determinano una richiesta aziendale pari rispettivamente al 6,5% ed al 9,1% e in linea con quanto riscontrabile a livello nazionale (qualifica professionale regionale 6,8%, qualifica istruzione professionale 10,8%). Se si esamina la domanda di nuovi addetti in funzione del livello formativo equivalente,2 la quota di quelli privi di alcun titolo scende di oltre il 50%, risultando di poco inferiore al 15% (14,9%), sale quella di addetti con un livello formativo equivalente ad una qualifica della formazione professionale regionale (30,4% contro 23,7% in Italia), o ad un titolo post diploma (23,2% contro 20,1% in Italia), come pure quella rivolta a soggetti aventi una preparazione di livello universitario (8,2,%) (tab. 22). Infine sono gli operai specializzati (25,4%) e le professioni specializzate nelle attività commerciali e nei servizi i profili professionali (21,4%) i profili professio- nali verso cui si indirizzano le nuove assunzioni da parte delle imprese coerente- mente con quanto avviene a livello nazionale e quanto richiesto in termini di livelli formativi equivalenti. Tab. 22 - Previsioni di assunzione delle aziende per livello formativo equivalente e regione e professione ISTAT - Anno 2007 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema informativo Excelsior, 2007 2 Cfr. nota 1. 37 2.2. I risultati dell’indagine di campo Il contesto Il contesto campano si caratterizza per la presenza di gravi fenomeni di disagio sociale e deprivazione culturale, ospitando le più alte percentuali di famiglie povere, di minori poveri, di popolazione compresa tra i 14 ed i 16 anni, elevati tassi di dispersione tra i ragazzi di questa stessa età o di età inferiore, ecc. A fronte di tali criticità non vi è stata però una risposta pubblica articolata e dunque correlata alle diverse esigenze ed ai diversi target bensì si è scelto di scom- mettere su un’unica strada, consistente nell’indirizzare le scelte delle famiglie verso una scuola uguale per tutti, standardizzata in termini di organizzazione e of- ferta. Questo è ciò che ritengono pressoché unanimemente i componenti del panel regionale intervistati, nonostante la prevista attivazione di “percorsi alternativi spe- rimentali” e la continuazione, su scala ridotta, dell’esperienza degli Ofi (percorsi integrati di istruzione e formazione). Le politiche regionali in materia di istruzione/formazione iniziale vengono di conseguenza valutate non in linea con gli orientamenti di policy a livello interna- zionale, in favore di una crescente individualizzazione dell’offerta, più aderente agli stili cognitivi e alle esigenze personali degli studenti. Da questa considerazione di partenza ne seguono altre da cui in sintesi emer- gono alcune riserve nei confronti non tanto delle finalità sottese all’innalzamento dell’obbligo di istruzione, quanto delle modalità di attuazione o di parziale attua- zione della riforma. Infatti, l’innalzamento dell’obbligo di istruzione viene dalla maggior parte degli intervistati apprezzato come un intervento necessario a promuovere la parte- cipazione ai percorsi formativi dei giovani appartenenti alle fasce di popolazione meno protette o abbienti, e da una minoranza viene, invece, stimato come un’ope- razione discriminatoria a danno delle famiglie più disagiate, che possono intra- vedere nei percorsi brevi e professionalizzanti una valida alternativa all’istruzione secondaria superiore. Ciò che è mancato, per trasformare le ideali intenzionalità in azioni autoconsi- stenti, è stata l’implementazione di contestuali politiche di welfare tese all’integra- zione e alla discriminazione positiva e a favorire una riorganizzazione complessiva del sistema di offerta, con l’intento ultimo di prevenire dispersione ed abbandono. La parzialità dell’implementazione, secondo il panel, è imputabile ad un in- treccio di concause aventi diversa origine istituzionale. Per quanto attiene al livello nazionale, una parte degli intervistati riconosce che la riforma del nuovo obbligo di istruzione è al momento incompleta, mancando ancora l’attuazione dei percorsi e progetti contro la dispersione scolastica e l’indi- viduazione delle agenzie formative competenti ad intervenire in questo ambito. In mancanza di una completa attuazione del disegno di riforma, le risposte date al problema dalle Regioni (tra cui la Campania) non sempre sono state congruenti 38 con le specificità e le esigenze dei rispettivi territori. Inoltre, il taglio previsto di circa 3mila unità, di cui il 90% docenti, all’interno del sistema scolastico regionale è, per i più, in contraddizione con le criticità del contesto campano, a conferma del- l’incapacità da parte del sistema di governance di fornire risposte adeguate alle specificità territoriali. Per quanto attiene al livello regionale vengono indicati come fattori ostativi alla declinazione di un’offerta formativa più aderente ai fabbisogni di territorio e popolazione: – la frammentazione delle competenze in materia di istruzione, formazione e lavoro tra Regione ed Enti locali che comporta uno scarso o nullo coordina- mento degli interventi, con una sovrapposizione e duplicazione di attività (cui si aggiungono quelle del Ministero della Pubblica istruzione); – l’andamento oscillante della stessa Regione tra tensione a delegare alle Pro- vince ed a riaccentrare su di sé compiti e ruoli in fase attuativa, impedendo il consolidamento di strutture organizzative, sia nella stessa Amministrazione regionale che nelle Amministrazioni provinciali, in grado di gestire nel tempo le misure di policy intraprese; – come conseguenza del primo, il mancato avvio del processo di deleghe in materia di formazione professionale dalla Regione, che detiene sia il potere di indirizzo che quello attuativo, alle Province; – la ricorrente incapacità da parte dell’Amministrazione regionale di passare da iniziative sperimentali ad azioni di sistema, che nel corso degli anni ha prodotto situazioni di ritardo e gravi deficienze nel sistema di offerta. Al riguardo, la messa a regime dell’Anagrafe Scolastica Regionale, viene ritenuta dalla gran parte del panel come uno strumento che potrebbe segnare il passaggio verso una fase di maggiore rispondenza dell’offerta ai fabbisogni della domanda. Il patrimonio informativo, che attraverso la stessa può essere raccolto, permetterà, infatti, di analizzare i fenomeni dispersivi sulla base di dati empirici certi; di impostare conseguenti azioni di governo del sistema e, quindi, di “georefe- renziare” l’offerta scolastica, finanziando, sulla base dei risultati pregressi, quegli interventi più funzionali al territorio e all’utenza in esso residente. La lotta alla dispersione scolastica, concentrata nei primi due anni delle supe- riori, deve costituire, secondo la totalità degli intervistati, una priorità dell’azione pubblica in materia di istruzione e formazione professionale. Che le azioni di con- trasto alla dispersione abbiano il loro baricentro nelle istituzioni scolastiche costi- tuisce, del resto, un principio guida sufficientemente condiviso dagli intervistati. La scuola deve sviluppare una propria autonoma capacità di contrasto attivo alla dispersione, diversamente dal passato in cui tale missione è stata delegata alla for- mazione professionale, che ha coinvolto la scuola in modo strumentale. Al riguardo, mentre alcuni intervistati sottolineano la necessità che la Scuola trovi al suo interno la capacità e le risorse per innovare la propria offerta, renden- 39 dola maggiormente attraente nei riguardi dell’utenza a rischio, da altri viene comunque richiamata l’opportunità di affiancare a questo percorso di emancipa- zione delle scuole campane “un’integrazione vera e sana con la formazione e con altri sistemi legati al recupero dei giovani”, al fine di ampliare strategicamente la capacità di inclusione del complessivo sistema di offerta. Nella definizione del quadro di contesto non potevano mancare alcune consi- derazioni in merito al Fondo Sociale Europeo (FSE) che, attraverso il Piano Opera- tivo Regionale, svolge un ruolo fondamentale e per certi versi condizionante nella programmazione delle politiche formative regionali. Quest’ultima, infatti, essendo legata ai tempi del FSE, rischia di essere statica o non in linea con i tempi formativi delle imprese che abbisognano di un aggiorna- mento dinamico dell’analisi dei loro fabbisogni. In secondo luogo, la totale sostituzione con il FSE delle risorse da destinare alla formazione delle risorse umane e la conseguente impossibilità di finanziare corsi di formazione per profili cosiddetti “classici” è causa di incongruità nelle modalità di accesso all’offerta formativa. In questo modo, infatti, viene alimentato il mercato dei corsi autorizzati a pagamento, a detrimento di quei giovani che vogliano avviarsi precocemente al lavoro possedendo una qualifica professionale. La scuola Il contesto campano, a differenza di quanto avvenuto in altre regioni italiane, non è stato in grado di elaborare un modello di sviluppo regionale atto a fronteg- giare la crisi conseguente ai processi di deindustrializzazione che lo hanno interes- sato. L’assenza di risposte strategiche ai cambiamenti del territorio ha, secondo la totalità degli intervistati, impedito una correlata rimodulazione dell’offerta del- l’istruzione professionalizzante, che tuttora forma profili senza sbocco sul mercato del lavoro locale, alimentando, in un circolo vizioso, i già gravi fenomeni di abban- dono o di ripetenza nei primi anni di scuola secondaria di II grado. Non è un caso che quest’ultimi sono maggiori in quegli indirizzi di studio meno consentanei ai fabbisogni del territorio (per esempio istituti professionali per l’industria e l’artigianato) e in misura minore in altri (per esempio gli istituti pro- fessionali alberghieri), che formano profili destinati a settori economici trainanti per l’economia regionale (turismo). Le criticità della scuola campana non attengono soltanto alla sua capacità di offerta, per alcuni connotata da caratteristiche di autoreferenzialità (mutuate, per altri, anche dal sistema della formazione professionale), ma anche alle gravi carenze strutturali che la accomunano soprattutto ai sistemi di istruzione delle regioni del Mezzogiorno. Pertanto, secondo alcuni, i previsti tagli all’organico scolastico avranno effetti negativi sulle performance educative regionali (a seguito ad esempio dell’incremento del numero di alunni per classe in zone a rischio), allontanandole dagli standard qualitativi europei. 40 Dalle testimonianze raccolte emerge una richiesta alquanto sentita di atten- zione alla “qualità” prima che alla “durata” della scuola di base, pur nella convin- zione che ci sia comunque bisogno di “più scuola per tutti”, eventualmente con un maggior livello di individualizzazione dei percorsi di studio, in grado di fornire non solo maggiori competenze ma anche competenze funzionali al futuro inserimento lavorativo dei giovani. Da qualcuno viene, infatti, sottolineato come un “troppo precoce indirizzo verso il settore di impiego del lavoratore” possa portare con sé il duplice rischio di “avere buoni lavoratori ma mediocri cittadini”e di indirizzare le scelte in base alla “classe sociale di appartenenza del giovane futuro lavoratore”. Il rafforzamento dei servizi di orientamento erogati dalle scuole rappresenta un’azione di sistema necessaria per accrescere l’aderenza dell’offerta alla domanda sociale di istruzione proveniente dal territorio. L’orientamento deve, infatti, servire sia a prevenire gli elevati fenomeni di abbandono che si verificano nei primi anni dell’istruzione di II grado da parte degli studenti in uscita dalla scuola media di I grado, sia a favorire l’incontro tra offerta di lavoro e domanda delle imprese. La formazione professionale Circa la qualità e la struttura del sistema regionale di formazione professionale gli intervistati sono accomunati da una sostanziale omogeneità di giudizi netta- mente negativi. Infatti, secondo i componenti il panel, la Campania non ha mai avuto un sistema della formazione professionale reale e funzionante, ma, semmai, privo di storia e tradizione, ad eccezione di qualche encomiabile realtà. Gli enti di formazione campani vengono nel complesso giudicati come centri di costo per il pubblico erario con bassi livelli di efficienza ed efficacia. A seguito di una valutazione così perentoria e, per certi versi, senza appello ne consegue che, per i più, la possibilità di realizzare anche in Campania un’offerta seriamente alternativa alla scuola (o veramente integrata con essa) passa necessa- riamente attraverso una selezione accurata (sistemi regionali di accreditamento, piuttosto che short list del Ministero per la realizzazione di programmi e progetti) di un nucleo ristretto di enti formativi in grado, per capacità e tradizione, di garan- tirne livelli adeguati di qualità. Al riguardo qualcuno propone di non fondare il sistema di selezione/incenti- vazione degli enti di formazione sulla sola severità dei criteri di accreditamento, ma di “valutarli per quello che producono”. In altri termini, bisogna sostenere quei soggetti di offerta che nella valutazione ex post dimostrano in termini assoluti e per- centuali rispetto al numero dei corsisti di aver realizzato il maggior numero di inse- rimenti lavorativi, poiché “i corsi vanno fatti svolgere da chi fa reale placement”. Gli intervistati convengono, inoltre, che attualmente il mercato del lavoro richiede ancora quei profili tipici della formazione professionale di I livello quali: tornitore, saldatore, fresatore, elettricista. Ne è riprova, la presenza di una consi- stente offerta regionale di corsi a pagamento autorizzati dalla Regione per la forma- 41 zione di figure professionali di base (parrucchieri, elettricisti, ecc.), che pur avendo un loro spazio occupazionale, magari autonomo, non trovano collocazione al- l’interno del sistema integrato di istruzione e formazione professionale, rischiando di restare al margine di quei processi di miglioramento necessari ad attualizzare le competenze alle sollecitazioni della modernità. Poiché se è vero che i suddetti profili hanno un loro mercato, è altrettanto vero che i relativi contenuti formativi vanno in- novati di pari passo con i processi produttivi sempre più tecnologizzati e complessi. Occorre poi considerare che tali spazi di mercato non sono continuativi ed ampi come nelle aree del paese a più elevata occupazione e quindi, soprattutto sul ver- sante imprenditoriale, si osserva che comunque l’attivazione di corsi di formazione per tali figure dovrebbe essere subordinata ad una verifica di un’effettiva esigenza. L’alleanza tra impresa e formazione professionale, solitamente invocata per rafforzare l’efficacia soprattutto occupazionale degli interventi formativi, viene ritenuta un passaggio dirimente anche con riferimento alla dimensione sociale del- l’azione formativa, in quanto suscettibile di produrre un significativo impatto contro i fenomeni di dispersione ed abbandono da parte dei giovani. Infine, sollecitati a esprimersi sul futuro degli enti di formazione storici, come ad esempio quelli salesiani, coerentemente con quanto affermato in precedenza circa la centralità della scuola nella formazione di base dei più giovani, i testimoni intervi- stati ritengono che tali enti possano avere ancora un futuro, a patto che riposizionino il loro target di utenza su classi di età più elevate dei 14-16enni e che tendano ad una maggiore integrazione con il sistema dell’istruzione. Le relazioni tra scuola e formazione professionale Vige un sostanziale accordo tra i componenti il panel circa la natura dei rap- porti al momento in essere tra scuola e formazione professionale: essi non sono ispirati all’integrazione, bensì alla competizione. All’unanimità viene dunque auspicata, a livello istituzionale, non solo un’a- zione guida per favorire l’integrazione tra le diverse componenti del sistema, ma anche una forte azione di coordinamento tra i diversi livelli istituzionali di com- petenza per un uso ottimale delle risorse e per il superamento di sovrapposizioni e duplicazioni di progetti ed interventi. Le ragioni che hanno determinato una deficitaria integrazione tra i due sub-siste- mi, impedendo altresì efficaci innovazioni nell’offerta, vengono individuate nella mancanza di un sistema regionale di formazione professionale “certo ed organizzato”. Un esempio concreto degli effetti deterrenti prodotti nell’ambito dell’innova- zione dell’offerta formativa, dalla presenza di un sistema dell’istruzione-forma- zione professionale parziale è, secondo i testimoni, individuabile nella struttura degli stessi percorsi integrati triennali (avviati dalla Regione per il diritto-dovere alla formazione prima e per il nuovo obbligo di istruzione dopo e di seguito trattati nello specifico). L’80% del monte ore in capo alla scuola ha, infatti, determinato una scarsa differenziazione degli stessi percorsi giudicati ancora troppo simili ai 42 percorsi scolastici e conseguentemente poco attraenti per quell’utenza che dalla scuola era scappata. Per questa ragione, nonostante i gap sistemici sopra evidenziati, si auspicano da parte della Regione interventi più coraggiosi sotto il profilo dell’integrazione, a cominciare da un riequilibro del rapporto tra scuola e enti di formazione stabilito all’interno della ripartizione del monte ore sia per gli OFI che per i PAS (sempre basato sulla proporzione 80% scuola e 20% formazione professionale). Le imprese “L’impresa rappresenta un fattore di raccordo fondamentale”, nella proget- tazione e nello sviluppo della formazione al lavoro. Questo è ciò che pensa il panel pressoché all’unanimità. Ovvero un qualsiasi percorso di formazione al lavoro (anche di primo livello) se non supportato da un progetto condiviso anche dal- l’impresa, secondo gli intervistati, non porta a niente. Purtroppo, le imprese come le parti sociali, secondo alcuni degli intervistati, hanno difficoltà a relazionarsi con il sistema scuola per le rigidità strutturali pre- senti al suo interno. Secondo qualcuno le origini di tale criticità sono però più ampie e composite. Non sono imputabili solo alla difficoltà ad interloquire con le istituzioni scolastiche, ma anche alla “poca efficacia nell’attività della rappresen- tanza datoriale e dei lavoratori, quando non addirittura alla loro quiescenza/inte- resse a mandare avanti sempre lo stesso schema, [...] la pressione, per niente neutra, della politica scoraggia i comportamenti virtuosi”. Stando così le cose, è giocoforza che sussista uno scollamento tra domanda delle imprese ed offerta formativa e che quindi, nell’opinione degli intervistati né i PAS né l’istruzione professionale e tecnica siano in grado di dare risposta alla richiesta, da parte datoriale, di nuovi addetti con solide competenze di base in ingresso. D’altro canto, il sistema della formazione professionale appare ancor meno considerato, vuoi per la scarsa visibilità vuoi per il già citato giudizio di scarsa qualità e ancor meno aderenza ai reali fabbisogni delle imprese. Gli intervistati concordano quindi sul fatto che le grandi come le piccole imprese sono solite formarsi al loro interno quei profili professionali tipici della formazione professionale iniziale (tramite veri o propri corsi o per affiancamento). Sulla base di tale constatazione ritengono che a livello regionale ci si debba dare come obiettivo politico quello di spingere i giovani a conseguire il diploma di scuola secondaria superiore. Ciò per due ordini di motivi: – giovani con livelli di istruzione più elevata possono inserirsi in azienda più agevolmente, dal momento che è in azienda che “imparano il mestiere”; – in molti settori, l’innovazione tecnologica rende non più attuabile la pratica dell’affiancamento delle nuove leve, in quanto diventa prioritaria la forma- zione e l’aggiornamento del personale già occupato. I nuovi assunti, se con una solida cultura di base, possono comprendere più agevolmente la maggiore complessità di macchinari e processi produttivi. 43 Tale assunto sembra però essere il corollario della presa d’atto dell’incapacità del sistema educativo regionale, complessivamente considerato, di fornire un’of- ferta formativa funzionale ai fabbisogni delle imprese, piuttosto che il riflesso di una reale richiesta di diplomati da parte del mondo imprenditoriale. Apparentemente in contraddizione con quanto sopra descritto trova, infatti, un consenso relativamente ampio all’interno del panel anche l’asserzione secondo la quale le imprese hanno ancora bisogno di personale non diplomato e che dopo la terza media è opportuno offrire corsi di formazione professionalizzanti per i giovani orientati al lavoro e non al proseguimento degli studi. Tale posizione si comprende meglio allorquando emerge che, sostanzialmente, il mondo imprendi- toriale e le Parti sociali richiedono una cultura di base più solida di quanto oggi viene garantita all’uscita della scuola secondaria di primo grado e quindi, gioco- forza, tendono ad indirizzarsi verso un livello di scolarità superiore. I percorsi integrati Nel corso delle interviste avute con i testimoni privilegiati la nuova offerta integrata rappresentata dai PAS (Percorsi alternativi sperimentali)3 è stata oggetto di riflessione ricorrente, dando così vita ad una specifica area di analisi, in cui, con differenziati livelli di consenso, sono state raccolte osservazioni su un certo numero di aspetti e problematiche differenziate. Scendendo nel dettaglio del dibattito sui PAS, ampiamente condivisa è stata la scelta di incentrare l’offerta di tali percorsi soprattutto sulla scuola, in quanto il sistema regionale di formazione professionale iniziale strutturalmente non è repu- tato capace di garantire adeguati standard di qualità. Parimenti viene riconosciuta ai PAS la natura di dispositivi integrati alternativi ai percorsi tradizionalmente offerti, in quanto riuniscono in partenariato Scuola Formazione Professionale ed impresa, risultando come tali più innovativi ed attraenti per i giovani drop-out cui intendono rivolgersi. Gli stessi percorsi, secondo i più, sono suscettibili dunque di sortire un effetto trainante nei confronti dei corsisti che, una volta conseguita la qualifica biennale di I livello possono decidere di continuare negli studi. Costituiscono, inoltre una tipo- logia di intervento dal punto di vista sociale avente una funzione compensativa rispetto alla totale assenza di un’offerta professionale di primo livello pubblica e gratuita, sollevando così le famiglie dall’onere dell’autofinanziamento. 3 A partire dall’a.s. 2007/2008, la regione ha attivato i percorsi alternativi sperimentali (PAS); si tratta di percorsi di durata biennale, in una prospettiva quinquennale di sistema regionale di quali- fiche certificate e sono rivolti ai giovani individuati dall’Anagrafe regionale,in possesso del titolo di licenza media, che, al momento dell’iscrizione, hanno meno di 18 anni e si trovano fuori dal sistema scolastico/formativo. La conclusione positiva del biennio consente ai giovani coinvolti il soddisfa- cimento dell’obbligo, il conseguimento di una qualifica regionale e la possibilità di proseguire, con la formula del 2+1, nel terzo anno di un percorso integrato di istruzione e formazione (OFI), o di rientrare in un percorso ordinamentale. 44 Nonostante una generale condivisione relativamente all’articolazione e alla finalità dei PAS, tuttavia persistono una serie di riserve più o meno marcate rispetto al modello e al conseguimento delle finalità educative e sociali che si intendono conseguire attraverso di esso, ovvero: che la co-progettazione dei percorsi tra scuola formazione professionale e impresa abbia luogo su basi paritetiche; che tenuto conto dell’elevato numero di utenti dispersi, il 20% del monte ore riservato alla forma- zione professionale sia in grado di produrre una massa critica di finanziamento con- sistente in favore degli Enti di formazione professionale; che i PAS, nonostante tutto, risentono ancora dell’impostazione dei precedenti percorsi triennali talvolta troppo legati all’offerta ordinamentale della scuola e come tali inadeguati alle speci- ficità di un’utenza a rischio e con una debole valenza antidispersiva. Affinché ci sia una reale innovazione di metodi e contenuti il panel ritiene fon- damentale che: da un lato, le scuole dismettano eventuali atteggiamenti strumentali nel momento in cui decidono di aderire ai percorsi integrati (OFI o PAS), vedendo in essi solo un’opportunità per recuperare parte di un’utenza altrimenti perduta in via definitiva; dall’altro, venga valorizzato e migliorato il ruolo della formazione professionale all’interno degli stessi percorsi, in quanto suscettibile di svolgere un’importante funzione di raccordo tra scuole e mercato del lavoro, accrescendo il potenziale di inclusione di giovani a rischio di abbandono di tali dispositivi. I PAS infine, in quanto interventi rivolti ai drop-out in cui la dimensione del- l’inclusione sociale ha una peso preponderante, rischiano di produrre effetti distor- centi nel campo delle pari opportunità, in danno di quei ragazzi, non necessaria- mente a rischio, non interessati all’istruzione scolastica, bensì a percorsi professio- nalizzanti e più direttamente collegati al mercato del lavoro e per i quali non sus- siste un’offerta formativa adeguata. 45 3. PUGLIA 3.1. Gli indicatori di sistema La partecipazione dei giovani ad attività educative Il 17,7% dei giovani pugliesi di età compresa tra 15 e 18 anni non è inserito all’interno di percorsi di istruzione scolastica, secondo i dati del Ministero della Pubblica istruzione relativi all’anno scolastico 2004/05. La regione Puglia registra, pertanto, un tasso di partecipazione dei giovani al sistema di istruzione inferiore a quello nazionale di 1,3 punti percentuali (Puglia 82,3% Italia 83,6%), mentre rispetto ale regioni meridionali lo scostamento è solo dello 0,6% (Sud 82,9% tab. 23). Tab. 23 - Tasso di partecipazione al sistema scolastico - A.s. 2004-2005 Fonte: MPI - La dispersione scolastica La popolazione studentesca - Anno scolastico 2005/06 del secondo ciclo di istruzione (tab. 24) si distribuisce per il 58,9% in percorsi di istruzione tecnica (36,4%) e professionale (22,5%) in misura superiore al corrispondente valore nazionale (55,7%). Il rimanente 41,1% degli studenti frequenta percorsi di istru- zione generalisti quali licei ed ex istituti magistrali (istituti d’arte compresi). In linea con quanto rilevabile nel Paese sono i licei scientifici quelli con più iscritti (19,1%), seguiti con oltre 7 punti percentuali di distanza dai classici (11,8%). 46 Ta b. 2 4 -A lu nn i p er p ro vi nc ia e ti po lo gi a di s cu ol a - S cu ol a se co nd ar ia d i I I g ra do - A .s . 2 00 5- 20 06 (v .a . e v al .% ) F on te : el ab or az io ne C E N SI S su d at i M PI -D G S tu di e P ro gr am m az io ne 47 Volgendo lo sguardo alle peculiarità provinciali si può osservare che: – nella provincia di Foggia, all’interno degli indirizzi di istruzione generalista, i licei classici (15,1%) e gli ex istituti magistrali (10,6%) hanno quote di scritti superiori ai valori regionali (11,8% e 6,9%), mentre il liceo scientifico si pone al di sotto (16,3% contro Puglia 19,1%); – la distribuzione nel capoluogo regionale ha un andamento simile a quello regionale con la sola eccezione delle percentuali di iscritti ai licei scientifici e agli ex istituti magistrali, rispettivamente superiore ed inferiore di 3,3 e 2 punti percentuali ai corrispondenti valori regionali (19,1% e 6,9%); – nella provincia di Taranto risulta essere significativamente superiore, rispetto a quanto rilevabile a livello regionale e negli altri contesti provinciali, la quota di iscritti al liceo classico (18,9% contro Puglia 11,8%) a detrimento del numero di iscritti al liceo scientifico e agli ex istituti magistrali che, in termini percen- tuali, sono i più bassi di tutta la regione (12,8% e 2,9%); – il territorio brindisino sul fronte dell’istruzione liceale è speculare a quello tarantino avendo la più bassa percentuale di iscritti al liceo classico (7,2%) e più alte percentuali di iscritti al liceo scientifico (18,9%). Rispetto agli altri ordini di istruzione si osservano le più alte concentrazioni di iscritti agli istituti tecnici e professionali (38,5% e 25,4%); – Lecce, infine, ha un andamento abbastanza in linea con quello caratterizzante la distribuzione regionale degli studenti secondari, ad eccezione degli ex isti- tuti magistrali e degli istituti tecnici rispettivamente superiori ed inferiori di 2,8 e di 3,7 punti percentuali. I dati sugli abbandoni degli studenti della scuola secondaria di II grado indi- cano una maggiore intensità del fenomeno a livello regionale rispetto a quanto riscontrabile a livello nazionale (tab. 25). La Puglia in totale ospita una quota di drop-out pari al 2,0% (Italia 1,6%) che supera la soglia del 3% al primo anno di scuola secondaria (3,3%). Tab. 25 - Studenti che hanno abbandonato gli studi per anno di corso, per 100 iscritti – A.s. 2006-2007 Fonte: MIUR, 2008 48 Mentre le province di Bari e Foggia si mantengono su livelli in linea con quello nazionale (1,7%), le restanti lo superano, attestandosi oltre il 2% (Taranto 2,9%, Brindisi 2,2% e Lecce 2,1%). Per quanto riguarda le percentuali di abbandono al I anno di corso, con la sola eccezione di Foggia (2,6%), le altre province riportano valori superiori al 3% e nel caso specifico di Taranto al 4% (Bari 3%, Brindisi 3,5%, Lecce 3,1%, Taranto 4,7%). Passando dall’istruzione scolastica alla formazione professionale iniziale (tab. 26), si può osservare che quasi il 50% degli allievi di questo segmento di offerta è rappresentato da apprendisti inseriti nei percorsi formativi connessi alla natura del loro contratto di lavoro (49,9%). Questo dato caratterizza significati- vamente a livello regionale questo segmento formativo, che ospita una percentuale di allievi-apprendisti di gran lunga superiore alle regioni meridionali (15,7%) e al Paese (31%) complessivamente considerati. Diversamente, risultano essere in- feriori sia la quota di allievi dell’offerta corsuale per l’obbligo d’istruzione/diritto- dovere (43,3% contro Sud 51,4% e Italia 40,3%) ed, in particolare, dell’offerta corsuale di II livello (IFTS inclusi), che coinvolge solo il 6,8% dell’utenza di rife- rimento (Sud 32,9% e Italia 28,6%). Il tasso regionale di partecipazione alle attività formative (1,3%), calcolato sul totale dei giovani di età compresa tra 14 e 24 anni, è inferiore di oltre 3 punti per- centuali a quello nazionale (4,7%), ma sostanzialmente in linea con quello delle regioni del Mezzogiorno (1,4%). Tab. 26 - Allievi iscritti ad alcuni corsi di formazione professionale regionale per tipologia - A.f. 2005-2006 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati ISFOL e Istat 49 La sottopopolazione universitaria della regione Puglia - anno accademico 2005/06 è costituita in termini assoluti da 151.769 studenti residenti ed iscritti per oltre il 52% a quattro facoltà universitarie, tra le quali Giurisprudenza da sola acco- glie il 16% degli iscritti (Italia 12,9%), seguita da Economia (13,6%), Ingegneria (12,2%) e Scienze della Formazione (10,2%) (tab. 27). Tab. 27 - Iscritti all’università residenti in Puglia per facoltà frequentata - Anno accademico 2005-2006 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati MUR, Indagine sull’istruzione universitaria Il 69,3% di suddetta sottopopolazione frequenta facoltà di atenei regionali, mentre oltre il 50% della restante parte è iscritta presso le università dell’Emilia- Romagna (6,4%), del Lazio (5,9%) e dell’Abruzzo (4,5%), che si caratterizzano come i principali poli di attrazione dei flussi di studenti in uscita dai confini regio- nali (tab. 28). 50 Tab. 28 - Iscritti all’università per regione della sede del corso universitario - Anno accademico 2005-2006 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione Censis su dati Mur, Indagine sull’istruzione universitaria Con riferimento ai livelli di scolarizzazione della popolazione con 15 anni ed oltre di età, si osserva che l’8,3% ed il 25,6% della popolazione pugliese è in pos- sesso di un diploma di laurea o di scuola secondaria superiore. La regione Puglia, pertanto. si differenzia per avere un minore capitale umano con livelli di scolarizza- zione medio-alti rispetto al Paese (laureati 10,2% diplomati 27,2%) e al Mezzo- giorno d’Italia ed una quota più ampia di residenti con alcun titolo di studio (63,3% contro Sud 62,5 e Italia 57,4%) (tab. 29). Tab. 29 - Popolazione di 15 anni e oltre per titolo di studio - Anno 2007 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati ISTAT 51 Mercato del lavoro e domanda delle imprese Il 31,8% di giovani pugliesi di età compresa tra i 14 ed i 24 anni è in cerca di occupazione (tab. 30), determinando un tasso di disoccupazione giovanile superiore di oltre 10 punti percentuali a quello nazionale (20,3%). Disaggregando i dati per genere, si constata, altresì, che la collocazione sul mercato del lavoro è un pro- blema più ricorrente tra le femmine (34,6%) che tra i maschi (30,2%). Brindisi (39,4% e Lecce (38,9%) sono i territori provinciali dove il fenomeno è più pre- sente, mentre nel barese e nel foggiano si riscontra una situazione relativamente meno critica, con un tasso di disoccupazione giovanile pari al 26,6% e al 27,9%, quindi, al di sotto della soglia del 30%, comune alle altre province pugliesi. Tab. 30 - Indicatori del mercato del lavoro giovanile per sesso - Anno 2007 - Persone tra i 15 e i 24 anni Fonte: elaborazione CENSIS su dati ISTAT Secondo i dati Excelsior 2007, la previsione di nuove assunzioni da parte delle imprese pugliesi, è per oltre il 50% rivolta ad addetti senza alcun titolo di studio, più di quanto non avvenga in ambito nazionale dove la richiesta di questa tipologia di addetti, per quanto prevalente, è pari al 38,6% (tab. 31). La rimanente parte riguarda per il 28,2% diplomati (Italia 34,9%), in partico- lare negli indirizzi amministrativo commerciale (8,7%) e turistico-alberghiero (3,3%) e per il 4,8% (Italia 9%) laureati. I livelli di qualificazione intermedi come le qualifiche professionali regionali o quelle dell’istruzione professionale concentrano quote di domanda rispettivamente pari al 6,1% ed al 10,6% e in linea con quanto riscontrabile a livello nazionale (qualifica professionale regionale 6,8%, qualifica istruzione professionale 10,8%). 52 Tab. 31 - Previsioni di assunzione per titolo di studio richiesto - Anno 2007 (v.a. e val.%) Fonte: elaborazione CENSIS su dati Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema informativo Excelsior, 2007 53 Assumendo come fattore ordinatore il livello formativo equivalente4 (tab. 32), si osserva un incremento qualitativo della domanda espressa dalle imprese pugliesi. Cresce, infatti, il fabbisogno per addetti aventi una formazione equivalente almeno ad una qualifica professionale regionale (35,1% contro Italia 23,7%) o ad un titolo post diploma (17%) o, infine, ad una preparazione di livello universitario (5,7%). La classificazione delle nuove assunzioni, secondo le professioni Istat, coeren- temente con i livelli formativi più richiesti, si focalizza su profili di tipo intermedio che, come negli altri, si sostanzia nel 47,7% dei casi in addetti da impiegare nelle professioni qualificate nelle attività commerciali e servizi (20,1%) o aventi il pro- filo di operai specializzati (27,6%). Tab. 32 - Previsioni di assunzione delle aziende per livello formativo equivalente e regione e professione ISTAT - Anno 2007 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema informativo Excelsior, 2007 4 Cfr nota 1. 54 3.2. I risultati dell’indagine di campo Il contesto L’elevamento dell’obbligo di istruzione, inteso come passaggio necessario per dare ai giovani le necessarie competenze per proseguire lungo qualsiasi percorso successivo (di istruzione, formazione, lavoro), secondo la maggior parte dei testi- moni intervistati, non è stato ancora elaborato come principio fondante del nuovo assetto della formazione/istruzione di base. In particolare, tale principio deve ancora essere fatto proprio dalla scuola che deve farsi carico dei fenomeni di abbandono. Se questo è lo scenario di fondo, le opinioni in merito all’attuale situazione ed alle prospettive di sviluppo di un’offerta adeguata per la fascia d’età compresa tra i 14 ed i 18 anni appaiono in Puglia maggiormente ondivaghe e divergenti, rispetto a quanto rilevato nella altre regioni coinvolte nell’indagine. In primo luogo, da un lato, si registra una concentrazione di giudizi negativi rispetto all’attuale tendenza del tessuto sociale pugliese a considerare il consegui- mento di un diploma ed anche di una laurea come un valore in sé, a prescindere dalle reali dinamiche del mercato del lavoro locale; a questo proposito si auspica un potenziamento delle azioni di orientamento, anche tramite una efficace cam- pagna di comunicazione alle famiglie, al fine di riequilibrare la domanda sociale di istruzione e formazione, dall’altro si riconosce che una preparazione più versatile, con più solide competenze di base, rappresenta una garanzia per le nuove genera- zioni, il cui futuro lavorativo si caratterizza per l’elevata flessibilità. Da questo punto di vista, l’elevamento dell’obbligo di istruzione non è considerato, dai più, un fatto negativo, anzi si ritiene possa essere funzionale ad un migliore espleta- mento dell’attività lavorativa, proprio per la possibilità di agire sul rafforzamento delle competenze di base. Non mancano però critiche alle modalità di concreta attuazione del principio dell’obbligo di istruzione, soprattutto in relazione alla capacità della nuova offerta di fornire ai giovani che dopo l’espletamento dell’obbligo vorranno orientarsi al lavoro, una formazione realmente utile al loro inserimento lavorativo. Giudizi orientati ad un cauto apprezzamento sono stati rilevati nei confronti del protocollo siglato ad Aprile 2007 tra Regione e Ufficio Scolastico Regionale. In particolare, gran parte del panel di testimoni ritiene che tale protocollo possa, in parte, contribuire a mettere ordine tra le competenze e le specificità dei due sistemi (istruzione scolastica e formazione professionale), valorizzandone i rispettivi punti di forza. Posizioni contrastanti si rilevano invece in merito all’efficacia del Proto- collo in relazione alla implementazione di un’offerta sperimentale di istruzione e formazione che potenzi la capacità di prevenire i fenomeni di dispersione scola- stica, da parte della Scuola, favorendo il recupero dei giovani a rischio e/o il loro successivo rientro nel circuito scolastico tradizionale. È comunque presente la consapevolezza che ancora sussistono altri aspetti di criticità, ancora affrontati solo sul versante normativo e regolamentativo. Ad esem- 55 pio, la maggioranza dei testimoni argomenta che il ricompattamento dell’offerta di base sulla Scuola pubblica sia stata l’operazione più semplice ed adeguata al contesto pugliese, a fronte della assenza nella Regione di un sistema strutturato di formazione professionale. Il punto di forza del sistema scolastico è consistito, infatti, soprattutto nel fatto di essere dotato di mezzi, anche finanziari, organizzazione e tempi certi. Una significativa convergenza di opinioni emerge, invece, sulle modalità e sulla qualità del rapporto con il tessuto imprenditoriale, che risulta non avere parte attiva nella delineazione delle politiche e strategie educative regionali. La tradizio- nale assenza di comunicazione tra impresa e sistema d’offerta regionale si è ripro- posta, secondo la maggioranza dei testimoni, anche in occasione della elaborazione del modello formativo introdotto con il protocollo del 2007. Si ritiene, inoltre, che la complessiva offerta formativa regionale sia poco rispondente, sia sotto il profilo della qualità sia in merito ai contenuti, ai fabbisogni delle Piccole e medie imprese, che invece costituiscono l’ossatura del sistema produttivo regionale. Alcuni si spin- gono a dichiarare che, a livello regionale sussisterebbe, da parte delle PMI, una do- manda di profili professionali tipici della formazione professionale di base (ad es. tornitore, elettricista, grafico, ecc.), che però, non raggiungendo una massa critica, non riesce ad incidere sulle politiche d’offerta.5 Si tratta però di un deficit di comu- nicazione non riconducibile alle più recenti politiche, ma attribuito alla storica au- toreferenzialità del sistema d’offerta, che non ha mai effettuato una efficace analisi dei fabbisogni reali al fine di orientare la propria programmazione. La scuola È opinione diffusa che il diploma di scuola secondaria superiore costituisca oggi per le imprese un requisito imprescindibile per l’assunzione, sebbene sia un titolo che non garantisce alcunché sotto il profilo delle competenze effettivamente possedute e necessarie all’inserimento in azienda. D’altro canto, il mondo del la- voro non può più accettare giovani che non abbiano un’ampia preparazione di base, che non conoscano le lingue, le tecnologie dell’informazione, ecc. Da questo punto di vista, il sistema scolastico rimane un punto di riferimento imprescindibile, in quanto anche “scuola di vita” ed il diploma di scuola secondaria superiore diventa la soglia minima di ingresso su cui innestare una formazione specifica. Nel merito dell’offerta scolastica invece si ribadisce l’accentuazione autore- ferenziale della programmazione, basata soprattutto su obiettivi di utilizzo delle ri- sorse e delle competenze disponibili “in house”, nonostante che proprio l’attiva- zione di percorsi sperimentali per l’obbligo formativo prima e di istruzione poi avrebbe potuto costituire un ottimo terreno di incontro con le aziende. In partico- lare, si sottolinea che negli ultimi anni si è verificato uno squilibrio nell’offerta di 5 In effetti, una recente indagine del Centro per l’impiego di Lecce evidenzia un fabbisogno di figure operaie specializzate attualmente non soddisfatta. 56 corsi di istruzione e formazione professionale di base a favore del settore terziario, Ciò ha reso parziale l’offerta di profili professionali in uscita dai percorsi triennali, penalizzando le esigenze dei comparti manifatturiero ed artigiano. La formazione professionale Anche per il sistema di formazione professionale, emerge un’accusa diffusa di autoconsistenza: la gran parte dei testimoni ritiene infatti che, soprattutto nel passato, gli organismi che erogavano formazione professionale di base, abbiano rappresentato una sorta di universo autoreferenziale avulso dal sistema produttivo. In alcuni casi si arriva a sostenere che la formazione professionale è diventata essa stessa un’attività imprenditoriale autoconsistente. Estremamente differenziate sono invece le posizioni espresse in merito al ruolo ed al contributo che il sistema di FP potrebbe comunque svolgere in funzione delle esigenze di sviluppo sociale ed economico della Regione. E possibile individuare, da un lato, la posizione di chi ritiene che la formazione professionale di base, per giovani fino a 18 anni d’età, pur svolgendo un ruolo sociale, non rappresenta più un ambito rilevante per le imprese, che sono più inte- ressate ai segmenti formativi di livello più avanzato. Ne consegue che l’asfissia che rischiano gli enti storici, anche quelli più consolidati, strutturati e dislocati strategi- camente sul territorio, non dipende tanto dall’avvio dei nuovi percorsi integrati, quanto dall’evoluzione della stessa realtà socioeconomica che esprime una diversa domanda formativa. Gli Enti che hanno più operato nella formazione di base dovranno dunque necessariamente ampliare la loro offerta formativa. Vi è chi, non necessariamente in contrasto con alcuni punti della posizione precedente, ritiene invece che la formazione di base debba essere potenziata, sempre nell’alveo del processo di integrazione in atto. In particolare si afferma che, l’attuale offerta di percorsi integrati è insufficiente in termini di numero di corsi attivati e di profili professionali in uscita. Infatti, molti profili professionali non sono affatto contemplati, a causa di vincoli intrinseci alla stessa struttura dell’offerta: le scuole non formano più deter- minati profili, mentre gli Enti, che potrebbero, non possono presentare proposte progettuali autonome. Un altro possibile bacino di riferimento per il futuro assetto del sistema è indi- viduato nella formazione ad hoc per le imprese, anche attraverso l’utilizzo di fondi diversi da quelli regionali. Finora gli enti accreditati non si sono adeguatamente interessati a questo mercato, che vede invece le aziende grandi e piccole sempre più impegnate nella formazione dei propri addetti, lasciando spazi ad altri soggetti, anche esterni al territorio pugliese. Unanimemente riconosciuto è, invece, il ruolo che la formazione professio- nale, in integrazione con la scuola, svolge sul versante del recupero dei soggetti più deboli. Sotto quest’ottica si intravedono spazi di ampliamento e diversificazione dell’offerta formativa, nella prospettiva dello sviluppo di processi di apprendi- 57 mento permanente della popolazione, che riducano le ancora consistenti sacche di analfabetismo funzionale. Le relazioni tra scuola e formazione professionale Da quanto finora esposto, non stupisce che l’orientamento prevalente del panel di testimoni è quello inerente la necessità di superare la contrapposizione tra i due sottosistemi educativi, con una Formazione Professionale che assuma un carattere, non alternativo, bensì complementare alla Scuola. Nel complesso, il meccanismo avviato con la sigla del già citato protocollo è considerato abbastanza positivo, ma il successo dell’iniziativa appare fortemente correlato alla creazione di una reale inte- grazione tra soggetti ed istituzioni dei due universi educativi. Da questo punto di vista, le opinioni riguardo allo stato dell’arte sono molto differenziate, oscillando tra chi ritiene che, sia pure non in maniera uniforme, la Scuola stia sostanzialmente su- perando le iniziali riserve verso la Formazione professionale, e chi invece non crede probabile, almeno nel breve termine, lo sviluppo ulteriore di relazioni efficaci. A prescindere dal grado di ottimismo manifestato, la gran parte degli intervi- stati sottolinea che, allo stato attuale, a fronte di percorsi integrati che presuppon- gono coprogettazione da parte di scuola e formazione professionale, ciascuna delle due parti sembra sia rimasta entro i propri ambiti di competenza a discapito dell’in- novazione metodologica. I percorsi integrati Proprio sui percorsi integrati si concentrano i principali punti di divergenza tra le opinioni espresse dagli intervistati. Se infatti molti ritengono che il nuovo obbligo di istruzione sia stato un’occasione, sia pure non del tutto colta, per fare il punto sull’esperienza dei percorsi triennali, con l’obiettivo di garantire un mag- giore coordinamento delle fonti di finanziamento e maggiore organicità all’offerta corsuale, altri tendono ad evidenziare che però ci si è poco focalizzati sul duplice obiettivo che dovrebbe essere proprio di tali percorsi, ovvero non solo la prosecu- zione nei percorsi formativi o il rientro nella scuola, ma anche l’acquisizione di una qualifica immediatamente spendibile nel mondo del lavoro. Non tutti concordano poi con il giudizio di efficacia dei percorsi triennali quale contrasto alla dispersione scolastica, mentre si registra una spaccatura netta tra chi ritiene che il peso della formazione professionale nel monte ore complessivo di tali percorsi sia inadeguato e chi invece lo ritiene sufficiente. Gli altri aspetti su cui non è possibile individuare alcuna “Area di condensa- zione” dei giudizi, sulla base della quale poter contribuire a delineare un sistema condiviso riguardano: – l’eventuale caratterizzazione dei percorsi triennali come punti di aggregazione e concentrazione di utenza a rischio, che rende di fatto impossibile lo svolgi- mento delle attività didattiche; 58 – la possibilità che il processo di integrazione favorisca l’affermazione di una pari dignità tra i due sistemi; – l’adeguatezza o meno del modello di insegnamento proposto nell’ambito dei percorsi triennali; – l’ineluttabilità dell’integrazione, quale imperativo che va al di là delle esigenze locali e congiunturali ma deriva dalle dinamiche europee e dal processo di svi- luppo complessivo del paese. Le imprese Come già accennato nella descrizione del contesto pugliese, lo scenario che fa da sfondo e spiega la realtà pugliese così come emerge dalle interviste effettuate, è quello di un tessuto imprenditoriale sostanzialmente estraneo alle dinamiche formative pubbliche e, semmai, orientato a considerare soprattutto il “prodotto” del sistema scolastico. Approfondendo il tema, sia direttamente con singole imprese o loro organismi di rappresentanza, sia rilevando le opinioni in merito degli altri testimoni, è stato possibile individuare le principali direttrici lungo cui si muove la richiesta di risorse umane e di formazione, nonché alcuni aspetti peculiari dell’atteggiamento con cui il sistema d’impresa pugliese si pone nei riguardi della proposta formativa del territorio. Per quanto riguarda il primo punto, viene innanzitutto ribadito dai più la ten- denza all’innalzamento della soglia minima di scolarizzazione verso cui le imprese si indirizzano per il reperimento di nuovo personale. Tale processo deriva dalle mo- difiche e dalle innovazioni che hanno interessato i modelli organizzativi e produt- tivi: “Oggi più che mai le imprese si attendono che anche l”operaio” faccia qualità all’interno del processo produttivo”. In particolare si afferma che anche il lavoro operaio sempre più comporta la progressiva acquisizione di una serie di competenze, che presuppongono l’esi- stenza di una predisposizione culturale di base su cui innestarsi; anche le mansioni più elementari richiedono comunque capacità elaborative, che di solito non si acquisiscono né a scuola né in formazione professionale. Ciò è valido anche per le piccole imprese che sopperiscono ai fabbisogni di competenze tecniche specifiche attraverso meccanismi interni di trasmissione dei saperi, quali l’affiancamento. Anche in Puglia,come nelle altre Regioni oggetto di indagine,affiora sul versante imprenditoriale la sostanziale indifferenza verso le architetture istituzionali. Non è importante chi forma chi ma il risultato. La predilezione nei riguardi del diplomato, anche per posizioni tradizionalmente di pertinenza di profili professionali più bassi, si configura come un’opzione obbligata, stante le esigenze di competenze non solo tecnico professionali ma anche e soprattutto trasversali e funzionali ad un continuo apprendimento. 59 In relazione al secondo punto, occorre innanzitutto sottolineare che la proposta formativa complessiva insistente sul territorio regionale viene reputata, dalla mag- gior parte degli interlocutori, obsoleta e non congruente. Almeno per il sistema della medio grande impresa, per ogni iniziativa che preveda l’integrazione tra istituzione educativa e impresa, l’interlocutore di rife- rimento è la Scuola, in quanto la formazione professionale non sempre si è rivelata un interlocutore valido. Per molti testimoni, in teoria il dialogo tra imprese e for- mazione professionale potrebbe essere più agevole di quello con la scuola, ma non vi è la capacità, anche istituzionale, di progettare percorsi formativi congruenti. Non si registra, comunque, una totale chiusura verso l’offerta di formazione professionale. Semmai si rimarca che dovrebbe essere più funzionale alle esigenze imprenditoriali, maggiormente legata alle specializzazioni di filiera, con un’offerta articolata su vari livelli. Anche la dimensione tecnico-pratica della formazione professionalizzante potrebbe essere recuperata, attraverso un suo potenziamento sia nella scuola sia nella FP, con un maggior dialogo con il tessuto imprenditoriale e la valorizzazione dell’apprendistato, dei percorsi in alternanza, della “bottega scuola”. 61 4. SARDEGNA 4.1. Gli indicatori di sistema La partecipazione dei giovani ad attività educative L’82% dei giovani sardi di età compresa tra 15 e 18 anni è inserito in un per- corso di istruzione scolastica, secondo quanto rilevato dal Ministero della Pubblica istruzione per l’anno scolastico 2004/05. Una quota di poco superiore a quella delle regioni insulari (Sardegna+Sicilia 81,2%), ma inferiore di oltre 1 punto e mezzo percentuale rispetto al valore nazionale (81,2%). Osservando il fenomeno al nega- tivo si può, dunque, affermare che i non frequentanti in Sardegna sono il 18% dei giovani in età corrispondente, una quota superiore a quella nazionale (16,4%) e a quella delle regioni meridionali continentali (17,1%), ma, comunque, inferiore a quella insulare complessivamente considerata (18,8%% tab. 33). Tab. 33 - Tasso di partecipazione al sistema scolastico - A.s. 2004-2005 Fonte: MPI - La dispersione scolastica La distribuzione degli studenti del secondo ciclo di istruzione nell’anno scola- stico 2005/06 (tab. 34) evidenzia una significativa loro concentrazione nei percorsi dell’istruzione tecnica, pari al 38,8% del totale e superiore di oltre 3 punti percen- tuali rispetto alla corrispondente quota nazionale. A questo scostamento positivo ne corrisponde uno quasi equivalente, ma di segno negativo, per l’istruzione professionale che con il 17,5% degli studenti regionali si pone al di sotto del valore 62 nazionale (20,6%). Rispetto agli altri ordini di studio non si rilevano sostanziali differenze rispetto alla distribuzione nazionale degli iscritti. Tab. 34 - Alunni per provincia e tipologia di scuola - Scuola secondaria di II grado - a.s. 2005-2006 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione Censis su dati Mpi-DG Studi e Programmazione L’analisi dei dati a livello provinciale evidenzia le seguenti peculiarità territo- riali: – la provincia di Cagliari sede del capoluogo di regione, si caratterizza per una distribuzione degli iscritti sostanzialmente in linea con i valori regionali ad ec- cezione del liceo classico, che con l’8,6% di iscritti si pone al di sotto di oltre due punti percentuali del valore regionale di riferimento; – nella provincia di Sassari, diversamente dalle precedenti, la percentuale di iscritti all’istruzione liceale classica ha un valore sensibilmente superiore (15,8%) con ripercussioni sull’indirizzo scientifico (18,6%), mentre sul fronte dei percorsi professionalizzanti l’istruzione tecnica (36,8%) e l’istruzione pro- fessionale (19,4%) hanno un peso rispettivamente minore e maggiore di quanto non accada a livello regionale (38,8% e 17,5%); – anche nel nuorese la suddivisione degli studenti secondari è in linea di mas- sima conforme a quella regionale con le sole eccezioni dei licei scientifici (27,4%) e degli istituti professionali (14%), che attraggono percentuali di iscritti che si discostano significativamente da quelle regionali in quanto rispettivamente maggiore e minore; 63 – la peculiarità, infine, della popolazione studentesca della provincia di Oristano risiede, invece, nella sua preponderante concentrazione all’interno dei percorsi dell’istruzione tecnica, che da sola assorbe il 44,6% dell’intera utenza di riferi- mento. I dati sugli abbandoni degli studenti della scuola secondaria di II grado indi- cano per tutti gli anni di corso una presenza del fenomeno nettamente superiore nel contesto sardo in confronto al territorio nazionale considerato nel complesso (tab. 35). Ad eccezione del V anno di corso (1,8% di abbandoni) per tutti gli altri anni la quota percentuale di abbandoni è superiore al 4% raggiungendo un valore pari a 6,3% al primo anno di corso, ovvero triplo al corrispondente valore nazionale (2,4%). Tab. 35 - Studenti che hanno abbandonato gli studi per anno di corso, per 100 iscritti - A.s. 2006-2007 Fonte: MIUR, 2008 Le iscrizioni ai percorsi di formazione professionale iniziale (tab. 36), eviden- ziano come questo segmento di offerta si rivolga prioritariamente ai giovani che in- tendono espletare l’obbligo d’istruzione/diritto-dovere nei percorsi triennali, che includono l’81,9% dell’utenza, cioè una porzione di utenza più che doppia di quella nazionale (40,3%), seguiti dagli apprendisti che partecipano alle attività formative connesse al loro contratto di lavoro (15,6%); pressoché marginale è la percentuale di allievi dei corsi di formazione professionale di II livello (IFTS inclusi) pari al 2,6% del totale. Quest’ultimo dato si discosta in misura abnorme dai valori di rife- rimento ripartizionali e nazionali, aventi un ordine di grandezza intorno al 30% (Sud e Isole 32,9%, Italia 28,6%). Nonostante le peculiarità proprie della distribuzione regionale degli allievi dei percorsi di formazione iniziale sopra evidenziate, il tasso di partecipazione alle atti- vità formative (calcolato sul totale dei giovani di età compresa tra 14 e 24 anni) pari a 2,7% seppure inferiore a quello nazionale (4,7%) è, comunque, superiore a quello delle regioni meridionali (1,4%) nel complesso. 64 Tab. 36 - Allievi iscritti ad alcuni corsi di formazione professionale regionale per tipologia - a.f. 2005/06 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati ISFOL e ISTAT L’orientamento delle scelte dei 60.406 studenti universitari residenti in Sar- degna, come per le altre regioni considerate, è in linea con le scelte nazionali. Le quattro facoltà universitarie che comprendono il 49,3,% dei giovani sardi sono le stesse che hanno un maggiore potenziale di attrazione anche a livello nazionale, seppure in misura diversa. Al primo posto della graduatoria, per l’anno accademico 2005/06, si colloca Ingegneria (Sardegna 13% Italia 12,4%), seguita da Lettere e Filosofia (Sardegna e Italia 12,9%), Giurisprudenza (Sardegna 12,5% Italia 12,9%) ed Economia (Sardegna 10,9% Italia 13% tab. 37). Il sistema universitario regionale ha un tasso di autocontenimento superiore all’80%. L’82,2% degli universitari sardi frequenta, infatti, facoltà di atenei regionali (tab. 38), mentre il rimanente 27,8% di studenti fuori sede si orienta principalmente verso tre regioni del Centro-Nord, che sono, nell’ordine: Emilia-Romagna.(4,6%), Toscana (3,7%) e Lazio (3,1%). Del totale della popolazione universitaria presente in Italia le facoltà sarde ospitano solo il 2,7% del totale. Infine, i dati sui livelli di scolarizzazione della popolazione con 15 anni ed oltre di età (tab. 39) pongono la Sardegna in linea con le regioni meridionali com- plessivamente considerate per quanto riguarda i laureati (Sardegna 8,4% Sud e Isole 8,7%), ed i diplomati, sebbene in quest’ultimo caso la relativa quota sia più bassa di quasi due punti percentuali (Sardegna 25,1% Sud e Isole 26,5%). Da ciò consegue che la stessa regione si discosta negativamente anche dagli omologhi valori nazionali (diplomati 27,2% laureati 10,2%). Significativamente più elevata è, infine, la componente di popolazione in possesso della sola licenza media pari al 37,2% del totale (Sud e Isole 33,8% Italia 31,5%). 65 Ta b. 3 7 -I sc rit ti al l’u ni ve rs ità re si de nt i i n Sa rd eg na p er fa co ltà fr eq ue nt at a - A nn o ac ca de m ic o 20 05 -2 00 6 (v .a . e v al . % ) F on te : el ab or az io ne C E N SI S su d at i M U R , I nd ag in e su ll’ is tr uz io ne u ni ve rs ita ri a 66 Tab. 38 - Iscritti all’università per regione della sede del corso universitario - Anno accademico 2005-2006 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati MUR, Indagine sull’istruzione universitaria Tab. 39 - Popolazione di 15 anni e oltre per titolo di studio - Anno 2007 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati ISTAT Mercato del lavoro e domanda delle imprese Il tasso di disoccupazione giovanile in Sardegna - calcolato sui giovani di età compresa tra i 14 ed i 24 anni in cerca di occupazione è pari al 32,5% del totale, su- periore dunque di oltre 10 punti percentuali a quello nazionale (20,3%). Come nel resto del Paese, e soprattutto nelle regioni meridionali, la disoccupazione giovanile 67 è un problema maggiore per le femmine (43,3%) piuttosto che per i maschi (25,6%). A livello di singole province è Cagliari a registrare il più alto tasso di dis- occupazione giovanile con una percentuale di giovani disoccupati pari al 37,5% (e che riguarda quasi il 47,3% delle giovani donne), mentre Sassari (29,6%) ed Oristano (24,5%) sono le uniche province sarde a porsi al di sotto della soglia del 30%, seppure anch’esse interessate da una disoccupazione femminile (pari a 47,2% e 29,8%) nettamente superiore a quella maschile (17,4% e 19,9% tab. 40). Tab. 40 - Indicatori del mercato del lavoro giovanile per sesso - Anno 2007 - Persone tra i 15 e i 24 anni Fonte: elaborazione CENSIS su dati ISTAT La previsione di nuove assunzioni da parte delle imprese sarde, secondo i dati Excelsior 2007, risulta essere abbastanza in linea con gli orientamenti nazionali (tab. 41), in quanto prevalentemente composta da addetti privi di titolo di studio (Sardegna 44,2% Italia 38,6%) seguiti da: diplomati (Sardegna 33% Italia 35%) in particolare negli indirizzi amministrativo commerciale (8,2%) e turistico-alber- ghiero (3,9%), soggetti muniti di qualifica professionale regionale (Sardegna 7,4% Italia 6,8%) o dell’istruzione professionale (Sardegna 10,9% Italia 10,8%). Unico, rimarchevole scostamento tra domanda regionale e domanda nazionale di nuovi addetti lo si rileva rispetto ai laureati, richiesti dalle imprese sarde in mi- sura pressoché dimezzata: 4,3% contro una richiesta nazionale pari al 9%. Se si esamina la domanda di nuovi addetti in funzione del livello formativo equivalente6 (tab. 42), anche per le imprese isolane la quota di quelli privi di alcun 6 Cfr nota 1. 68 Tab. 41 - Previsioni di assunzione per titolo di studio richiesto - Anno 2007 (v.a. e val.%) Fonte: elaborazione CENSIS su dati Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema informativo Excelsior, 2007 69 titolo scende al 21,7%, mentre quella di addetti con un livello formativo equiva- lente ad una qualifica della formazione professionale regionale sale al 27,3% (Italia 23,7%) insieme al post diploma 20%. Sale inoltre, seppure in misura incrementale, anche quella rivolta a soggetti aventi una preparazione di livello universitario 5,2%. Infine, sono soprattutto le professioni specializzate nelle attività commerciali e nei servizi (31,6%) – in misura maggiore che in Italia (23,7%), insieme agli operai specializzati (21,3%), i profili professionali verso cui si indirizza il 52,9% delle nuove assunzioni, in linea con le tendenze nazionali e coerentemente con quanto emerso dall’analisi della domanda per livelli formativi equivalenti. Tab. 42 - Previsioni di assunzione delle aziende per livello formativo equivalente e regione e professione ISTAT - Anno 2007 (v.a. e val. %) Fonte: elaborazione CENSIS su dati Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema informativo Excelsior, 2007 70 4.2. I risultati dell’indagine di campo Il contesto Le scelte compiute dall’Amministrazione regionale, che hanno determinato una drastica riorganizzazione del sistema di offerta di formazione professionale, con pesanti conseguenze sul segmento della formazione iniziale di I livello, risultano essere condivise dalla gran parte dei testimoni intervistati, in quanto necessarie a bloccare i fenomeni degenerativi originatisi a seguito del combinato disposto di accreditamento “a maglie larghe” degli enti di formazione, da un lato, e, dall’altro, di un consistente finanziamento pubblico dell’offerta di formazione professionale per l’obbligo formativo, prima, ed il diritto-dovere all’istruzione formazione profes- sionale, dopo. Secondo alcuni, tale assetto ha provocato degli squilibri, gonfiando la formazione professionale a svantaggio delle aule scolastiche senza realmente otte- nere risultati in termini di recupero della dispersione o di incremento occupazionale. Nonostante una sostanziale diffusa adesione di principio all’azione riformatrice intrapresa dalla Regione Autonoma della Sardegna, tuttavia alcune riserve e/o cri- tiche sia di metodo sia di merito sono comunque sollevate dai componenti il panel. In primo luogo, si attribuisce all’attuale Giunta l’errore di non aver adottato misure condivise, senza curarsi, cioè, di attivare un percorso di riforma orientato a costruire un modello regionale, alternativo all’attuale sistema di formazione, co- struito su logiche di sistema e non di appartenenza. Al contrario, l’aver perseguito logiche decisionali unilaterali ha determinato un arroccamento dei diversi attori in difesa delle rispettive posizioni. Inoltre, secondo la gran parte del panel di testimoni intervistati, l’attuale proposta regionale di riforma del sistema dell’istruzione formazione è troppo scuolacentrica. A seguito degli interventi di razionalizzazione e riorganizzazione del sistema regionale della formazione professionale, serve quanto prima una legge quadro che preveda spa- zi di reale integrazione tra scuola e formazione professionale e che garantisca anche la possibilità di conseguire una qualifica regionale triennale per i giovani di età inferiore ai 18 anni. Coerentemente con tale giudizio, la scelta della Regione Sardegna di affi- dare al solo sistema scolastico la formazione di base dei ragazzi di 14-16 anni non viene valutata, tranne qualche eccezione, come un necessario corollario delle politiche nazionali e europee che, in un’ottica di apprendimento lungo tutto l’arco della vita, mirano all’innalzamento dei livelli di competenze nelle nuove generazioni. Infatti, all’interno del panel si rileva un consistente nucleo di consenso, attorno alla posizione che valuta l’eliminazione di una rete d’offerta di formazione profes- sionale iniziale lesiva del principio delle pari opportunità, in quanto: – così facendo, si costringono alla permanenza nella scuola quei ragazzi che a scuola non vogliono stare, poiché preferiscono una formazione più orientata al lavoro, con il rischio, particolarmente elevato nel biennio superiore, di un abbandono scolastico definivo da parte loro; 71 – secondariamente, la presenza di un’offerta di formazione professionale com- plementare alla scuola avrebbe potuto essere utilizzata per garantire una mag- giore copertura territoriale dei punti di erogazione, in un contesto, quale quello sardo, caratterizzato da elevata dispersione e da diffuso pendolarismo scola- stico, reso ancora più gravoso dalla razionalizzazione della rete scolastica avvenuta in questi ultimi anni. Infine, nel completare la loro analisi di contesto, i testimoni sentiti evidenziano come il rallentamento del processo di delega delle competenze in materia di forma- zione e servizi per l’impiego alle Province (determinato anche dal riassetto delle autonomie locali, con l’istituzione di nuove province) abbia finora impedito una valida programmazione della stessa offerta formativa. Al riguardo, si suggerisce, all’unanimità, di spingere maggiormente verso l’attuazione di Piani territoriali formativi. Quest’ultimi sono visti come dispositivi in grado di colmare il divario che attualmente separa domanda ed offerta di formazione, agganciando i contenuti della formazione ai fabbisogni locali. Al fine di rendere più efficace la programmazione a livello locale e di rendere la stessa offerta più aderente alle diverse esigenze e peculiarità dei giovani in età di obbligo scolastico e formativo, non si esclude la creazione di poli formativi anche per il segmento di I livello, al pari di quanto si sta facendo nell’ambito degli IFTS. La scuola L’analisi delle opinioni espresse dai componenti il panel restituisce in merito alla scuola una visione nel complesso critica, in cui si evidenziano limiti e rigidità intrinseci che ne condizionano efficacia didattica e capacità di elaborare profili pro- fessionali ad elevata occupabilità. È, pertanto, all’interno di questo quadro valoriale che devono essere collocati i giudizi formulati sull’offerta di istruzione e sui conse- guenti aggiustamenti, necessari ad avvicinarla ad esigenze e aspettative di imprese e mercato del lavoro. In primo luogo, la scuola potrà svolgere efficacemente il ruolo centrale che le è stato affidato nell’ambito della formazione iniziale dei giovani di età compresa tra 14 e 16 anni, solo rinnovando la propria didattica e rafforzando i propri servizi di orientamento. Allo stato attuale, infatti, il 20% di attività affidate alla formazione professio- nale all’interno del monte ore scolastico non è ritenuto un elemento sufficiente ad accrescere l’attrattività dei percorsi scolastici per quei giovani che sono a rischio di abbandono; né la scuola, per le risorse finanziarie e materiali di cui dispone, è in grado di ampliare la dimensione professionalizzante dell’istruzione, dando più spazio ad esperienze pratiche e laboratoriali. Da qui, l’esigenza od opportunità, a seconda del punto di vista, di procedere con approccio sistemico considerando, appunto, la scuola un’organizzazione aperta 72 e non autoreferenziale, disposta a elaborare ed ottimizzare le possibili contamina- zioni provenienti dall’esterno. È, quindi, opinione diffusa che debba essere “la scuola ad andare in azienda” e non il contrario, intendendo con tale espressione il bisogno di avviare percorsi di co-progetttazione tra soggetti di offerta e aziende. La relazionalità tra le parti non deve sussistere solo a valle dei processi forma- tivi (cioè al momento del collocamento in azienda degli studenti per lo stage), senza condivisione di un pregresso progetto formativo, ma deve essere longitudi- nale ai stessi percorsi scolastici (tecnici e professionali), che, nell’opinione del panel, non riescono a fornire neanche una buona formazione teorica, a partire dalla quale le stesse aziende potrebbero avviare percorsi di formazione sul lavoro. L’offerta scolastica, infine, non viene valutata come limitata solo in termini di efficacia, ma anche in termini di completezza dei profili resi disponibili per il mer- cato del lavoro regionale, che ancora necessita di figure professionali standard da impiegare nel settore manifatturiero, ma indisponibili o perché non contemplate dall’istruzione scolastica o perché oramai non più formate dalla formazione profes- sionale di I livello. Da tale constatazione, ne consegue che il rafforzamento della scuola passa necessariamente anche attraverso una riqualificazione della formazione professio- nale iniziale, che deve continuare ad operare come componente di un sistema inte- grato regionale di istruzione-formazione. La formazione professionale La personalizzazione dell’apprendimento e la cura per gli aspetti relazionali rappresentano le principali peculiarità che contraddistinguono la formazione pro- fessionale di base dall’istruzione scolastica. Infatti, trovano ampi spazi di consenso entrambe le posizioni che enfatizzano tali caratteristiche, secondo le quali: – “una formazione professionale di base, seria e qualificata, ha una sua specifi- cità per quei ragazzi che a scuola non vogliono stare: approccio laboratoriale, attenzione alla persona e alle capacità relazionali, aspetti che la scuola non può garantire”; – “all’interno dei percorsi di formazione professionale iniziale esistevano spazi per la personalizzazione degli apprendimenti e la valorizzazione della dimen- sione relazionale che non hanno una corrispondenza nei percorsi di istruzione più rigidamente strutturati”. L’attenzione ai fabbisogni particolari dei singoli non equivale però a classifi- care l’offerta di formazione professionale post scuola media, integrata o meno, come un’alternativa valida solo per i potenziali drop-out. La proposta di conside- rare la formazione professionale di I livello come un offerta formativa di “seconda chance” per chi non riesce a conseguire il diploma, raccoglie un elevato grado di dissenso. 73 La buona formazione del resto può essere differenziata da quella che non è di qualità, secondo i più, introducendo al suo interno procedure e strumenti di verifica dei processi e dei prodotti, compresi gli apprendimenti, analoghi e confrontabili con il modello di valutazione che si sta delineando per il sistema scolastico. Ciò che viene ritenuto importante per la gran parte dei componenti il panel è che la formazione professionale in quanto erogatrice del “saper fare” non replichi la scuola, ma mantenga i suoi tratti distintivi. Pertanto, è opportuno che i corsi siano modulati tenendo conto di “chi” è in formazione e di quelli che devono essere gli “obiettivi” del saper fare, come valore aggiunto per le aziende. La formazione deve essere necessariamente finalizzata agli obiettivi dell’impresa. “Se l’impresa non vede un innalzamento dei propri risultati grazie alla formazione, non ha inte- resse per essa”. Rispetto al contesto regionale, i profili tipici della formazione professionale di I livello hanno ancora un loro mercato, soprattutto nel caso in cui a livello ministe- riale si decida di abolire le qualifiche triennali dell’istruzione professionale. La maggioranza degli intervistati ritiene inoltre che l’offerta di profili professio- nali di base, tipici della formazione professionale, potrebbe avere uno sbocco nelle aree interne del territori, dove figure quali, ad esempio, il manutentore, l’idraulico o l’elettricista scarseggiano. Ad un tempo però vi è comunque la consapevolezza circa la necessità di asse- condare le specificità del territorio, per garantire nel tempo l’aderenza tra offerta e domanda e di colmare quindi una deficienza del sistema di offerta, che negli anni ha privilegiato rapporto con la committenza ed esigenze organizzativo strutturali interne, trascurando la lettura e l’analisi del territorio. La formazione professionale di base, se riuscisse a compiere questo passaggio di fase, potrebbe favorire una maggiore curvatura dell’offerta formativa sui fabbi- sogni locali e/o delle aziende in quanto strutturalmente più flessibile della scuola, questa ultima impossibilitata a fornire una gamma molto differenziata di profili professionali. Al contempo, vi è la consapevolezza che la “stabilizzazione” di un’offerta di base, anche integrata tra scuola e FP, su alcuni profili “classici”, attivati costante- mente ogni anno, se da un lato contribuirebbe ad aumentare la “visibilità” di tali percorsi ed a conferire loro carattere di “sistema”, al pari dell’offerta scolastica, dall’altro, potrebbe comportare il rischio di una eccessiva e precoce “ saturazione” dei posti di lavoro e delle occasioni di lavoro autonomo. Già nel passato, infatti, si è verificato che la programmazione regionale, in combinato disposto con le vocazioni degli Enti formativi, abbiano per così dire “seguito le mode”, dilatando a dismisura l’erogazioni di determinati tipi di percorsi, al di là delle effettive capacità di assorbimento da parte del mondo del lavoro. Se gli enti di formazione professionale in Sardegna dispongono o meno di professionalità adeguate ed aggiornate per la formazione delle figure professionali necessarie all’economia regionale, rappresenta un punto di contrapposizione tra 74 i rispondenti, con ogni probabilità dovuto alla presenza all’interno del panel di giudizi dubbiosi sulla qualità degli operatori della formazione professionale sarda. Un sistema, quello della formazione professionale regionale, destinato co- munque ad evolversi. È infatti opinione comune che gli stessi enti che hanno conso- lidato la propria offerta sulla formazione professionale iniziale dovranno necessaria- mente diversificare la propria proposta corsuale, se vorranno restare sul mercato. Le relazioni tra scuola e formazione professionale L’approccio sistemico, già suggerito nella sezione dedicata alla scuola, ritorna come elemento regolatore dei rapporti tra scuola e formazione professionale e non solo. La scuola da sola, senza il contributo della formazione professionale, secondo la gran parte dei rispondenti non è in grado di colmare la distanza esistente tra for- mazione al lavoro ed inserimento lavorativo; né le scuole accreditate come agenzie formative per l’obbligo d’istruzione/diritto-dovere possono validamente sostituire gli enti di formazione professionale iniziale. L’integrazione non deve limitarsi ai rapporti tra scuola e formazione ma deve anche estendersi al mondo imprenditoriale. Occorre, infatti, una maggiore contami- nazione tra scuola, formazione ed impresa. I docenti dovrebbero avere, pertanto, una maggiore conoscenza dei processi produttivi, al fine di agevolare, con conte- nuti aggiornati ed una didattica adeguata, l’inserimento in azienda dei nuovi ad- detti. Molti intervistati appaiono convinti che, stante le esperienze conflittuali del passato, si tratta di rapporti e relazioni tutti da ricostruire ex novo. Solo ristabilendo un corretto equilibrio ed un rapporto di reciproca stima e fiducia tra le due gambe del sistema educazione regionale sarà possibile lavorare sugli aspetti qualitativi e scardinare, per entrambe (a parte lodevoli eccezioni), quell’immagine di inefficacia e scarso valore diffusa sul versante imprenditoriale. Le imprese L’attenzione e l’interesse verso i contenuti della formazione iniziale esperita dai giovani neo assunti o da reclutare vengono valutati come piuttosto scarsi. Tale atteggiamento viene imputato ad un mix di fattori che vanno dalle sempre più ridotte prospettive di sviluppo del territorio sardo al disincanto verso l’efficacia dell’azione formativa. È, infatti, apprezzamento comune che l’attuale situazione di stallo del sistema industriale sardo determini una scarsa propensione delle aziende nei confronti della formazione in generale, iniziale o continua, che effettivo sia il divario tra il sapere ed il saper fare, tra mondo della formazione in senso lato e mondo del lavoro. In altre parole, ad oggi gli imprenditori sardi non hanno tratto grossi vantaggi né da scuola né da formazione professionale. 75 Date siffatte variabili di contesto, rispetto alle quali le imprese declinano i loro comportamenti ed atteggiamenti formativi, la raccomandazione che ne consegue è quella di prevedere forme di integrazione tra aziende e soggetti di offerta. Le aziende devono esser coinvolte sin dall’avvio dei corsi per accogliere periodica- mente gli allievi al loro interno. Ciò faciliterebbe il loro collocamento lavorativo e la loro motivazione a concludere il percorso, ovvero determinerebbe una maggiore finalizzazione all’inserimento lavorativo dei percorsi di formazione iniziale. Per quanto riguarda la tipologia di profili cui possono essere interessate ad assumere non sembra sia ancora possibile rilevare atteggiamenti univoci, oscil- lando le imprese intervistate: tra la propensione a reclutare nuove risorse con livelli di scolarizzazione medio alti (minimo il diploma di scuola secondaria superiore), essendo imprescindibili le competenze di base su cui eventualmente costruire in azienda percorsi di formazione tecnico-professionale; e l’interesse per figure ope- raie senza elevati livelli di specializzazione. La distanza che separa le due posizioni sembra essere sufficientemente ampia per comprendere un’offerta differenziata in termini sia di percorsi sia di soggetti. Entrambe, però, sembrano muoversi dall’assunto che sempre più imprese sono alla ricerca, a prescindere dal livello di istruzione e qualificazione necessario, di gio- vani con una cultura di base – che include anche la cultura del lavoro – più solida di quanto si possa riscontrare nella media: “ci servono ragazzi che sappiano prima di tutto l’italiano e sappiano comportarsi e siano in condizione di essere ulterior- mente formati”. 77 ALLEGATO: Metodologia e strumenti di indagine Le aspettative ed i fabbisogni che il mondo imprenditoriale avanza nei confronti del sistema di offerta sono stati analizzati ed interpretati attraverso una rilevazione di tipo qualitativo, che ha coinvolto testimoni privilegiati in grado di rappresentare e dare contenuto da più angolazioni alle istanze della domanda proveniente dalle imprese da punti di vista differenziati. In particolare, il panel di testimoni privilegiati è stato individuato, per ciascun territorio regionale, nell’ambito delle seguenti categorie: – Associazioni datoriali; – Associazioni sindacali; – Imprese consapevoli (dei propri fabbisogni professionali); – Fondi interprofessionali; – Responsabili regionali della programmazione delle politiche dell’istruzione e della formazione professionale; – Esperti del settore. Le Regioni in cui effettuare le indagini sono state preselezionate tra quelle in cui più debole o nullo appare oggi essere l’investimento – politico e finanziario – nella formazione professionale iniziale. Le regioni in questione sono: Abruzzo, Campania, Puglia e Sardegna, ovvero quattro regioni meridionali, tutte caratteriz- zate da un’offerta formativa post scuola media incentrata in gran parte, anche in relazione ai percorsi professionalizzanti, sul sistema scolastico, sia pure con gra- duazioni e modalità differenziate. L’indagine di campo è stata nello specifico realizzata attraverso interviste approfondite a 12 (dodici) testimoni privilegiati (due per ciascuna delle categorie sopra indicate) per regione (per un totale di 48 interviste) sulla base della griglia di seguito proposta, contenente sia domande comuni, sia domande specifiche, con- gruenti con le peculiarità inerenti al ruolo e/o alla posizione rivestiti. La rilevazione è stata inoltre strutturata in due fasi: – nella prima fase hanno avuto luogo le singole interviste ai testimoni individuati a cui ha fatto seguito la redazione dei singoli report; successivamente gli stessi report sono stati scomposti in item esplorativi, integrati ed ordinati per aree di analisi omogenee, dando origine ad un questionario semi-strutturato; – nella seconda fase il questionario semistrutturato è stato inoltrato ai singoli testimoni, con il fine duplice di chiedere loro la compilazione, esprimendo il proprio grado di consenso sui singoli item, e di socializzarne i contenuti all’interno degli stessi panel regionali. 78 Attraverso l’analisi delle risposte fornite è stato, dunque, possibile ricostruire una mappa della distribuzione del consenso/dissenso rispetto alle aree di analisi emerse. - Qualità dell’offerta di istruzione secondaria superiore con particolare riferimento agli indirizzi tecnici e professionali - Qualità dell’offerta di formazione iniziale erogata dal sistema regionale - Grado di aderenza del sistema regionale di formazione professionale ai fabbisogni professionali delle imprese - Integrazione tra sistema scolastico, sistema della formazione profes- sionale e sistema lavoro - Disponibilità di profili tecnico professionali intermedi - Come il sistema impresa reagisce/sopperisce alle carenze del com- plessivo sistema formativo - Ruolo delle parti sociali nella formulazione delle politiche formative regionali - Valutazione delle politiche di programmazione della Regione rispetto ai fabbisogni del territorio - Qualità dell’offerta di istruzione secondaria superiore con particolare riferimento agli indirizzi tecnici e professionali - Qualità dell’offerta di formazione iniziale erogata dal sistema regionale - Grado di aderenza del sistema regionale di formazione professionale ai fabbisogni professionali delle imprese - Integrazione tra sistema scolastico, sistema della formazione profes- sionale e sistema lavoro - Disponibilità di profili tecnico professionali intermedi - Caratteristiche e qualità della domanda di profili professionali da parte delle imprese - Ruolo delle parti sociali nella formulazione delle politiche formative regionali - Come il sistema impresa reagisce/sopperisce alle carenze del com- plessivo sistema formativo - Valutazione delle politiche di programmazione della Regione rispetto ai fabbisogni del territorio - Qualità dell’offerta di istruzione secondaria superiore con particolare riferimento agli indirizzi tecnici e professionali - Qualità dell’offerta di formazione iniziale erogata dal sistema regionale - Grado di aderenza del sistema regionale di formazione professionale ai fabbisogni professionali delle imprese - Integrazione tra sistema scolastico, sistema della formazione profes- sionale e sistema lavoro - Disponibilità di profili tecnico professionali intermedi - Ruolo delle parti sociali nella formulazione delle politiche formative regionali - Attività di supporto delle associazioni datoriali nella determinazione dei fabbisogni professionali aziendali - Meccanismi e processi per il trasferimento dei fabbisogni delle imprese al sistema di offerta (ruolo degli enti di programmazione, delle asso- ciazioni di categoria, ecc) - Come il sistema impresa reagisce/sopperisce alle carenze del com- plessivo sistema formativo - Cosa chiedere a scuola e formazione per rafforzare le competenze di base: ruoli, approcci, alleanze, ecc. - Rapporti con il sistema della scuola e con quello della formazione pro- fessionale iniziale - Valutazione delle politiche di programmazione della Regione rispetto ai fabbisogni del territorio - Punti di forza - Punti di debolezza - Opportunità - Rischi - Punti di forza - Punti di debolezza - Opportunità - Rischi - Punti di forza - Punti di debolezza - Opportunità - Rischi VALUTAZIONE DI SINTESI DEL SISTEMA REGIONALE in termini di: ITEM DELLA GRIGLIA DI INTERVISTA CATEGORIE TESTIMONI A ss oc ia zi on i d at or ia li A ss oc ia zi on i S in da ca li Im pr es e co ns ap ev ol i 79 F on di in te rp ro fe ss io na li R es po ns ab ili r eg io na li de lla p ro gr am m az io ne d el le p ol iti ch e de ll’ is tr uz io ne e d el la fo rm az io ne E sp er ti de l s et to re - Cosa chiedere a scuola e formazione per rafforzare le competenze di base: ruoli, approcci, alleanze, ecc. - A fronte dei fabbisogni formativi delle imprese, quali competenze raf- forzare dei profili professionali in ingresso - Grado di aderenza del sistema regionale di formazione professionale ai fabbisogni professionali delle imprese - Valutazione delle politiche di programmazione della Regione rispetto ai fabbisogni del territorio - Disponibilità di profili tecnico professionali intermedi - Come il sistema impresa reagisce/sopperisce alle carenze del com- plessivo sistema formativo - Atteggiamento delle imprese verso la formazione, in generale, e quel- la iniziale, in particolare e relative istanze - Modalità di azione per l’analisi dei fabbisogni del territorio, con par- ticolare riferimento alla formazione iniziale - Esistenza di tavoli di concertazione con parti sociali, soggettività or- ganizzate del territorio, altri enti territoriali - Stato dell’arte su integrazione dei sistemi istruzione, formazione pro- fessionale e sistema lavoro - Incontro domanda e offerta - Politiche regionali per l’orientamento - Valutazione esiti formazione iniziale - Azioni di sistema per migliorare governance ed efficacia del sistema di offerta - Selezione degli item afferenti alle precedenti categorie di testimoni co- erente con il profilo dell’interlocutore - Punti di forza - Punti di debolezza - Opportunità - Rischi - Punti di forza - Punti di debolezza - Opportunità - Rischi - Punti di forza - Punti di debolezza - Opportunità - Rischi VALUTAZIONE DI SINTESI DEL SISTEMA REGIONALE in termini di: ITEM DELLA GRIGLIA DI INTERVISTA CATEGORIE TESTIMONI 81 ELENCO DEI TESTIMONI INTERVISTATI ABRUZZO Nome Cognome Ruolo Antonio Cappelli Confindustria L’Aquila - Direttore Francesco De Bartolomeis Confindustria L’Aquila - Responsabile Organizzazione Sviluppo e Comuni- cazione Massimiliano Marifiamma Apindustria L’Aquila - Direttore Graziano Di Costanzo CNA Abruzzo - Segretario Regionale Michele Lombardo UIL Abruzzo Gianni Di Cesare CGIL Abruzzo - Segretario generale Gianni Crognale Cometa Srl - Responsabile personale Natalino Memmo Honda Italia - Formazione e sviluppo Oscar Brasile Honda Italia - Responsabile Formazione e sviluppo Antonio Di Paolo Assessorato istruzione Formazione e Lavoro Regione Abruzzo - Direttore Politiche attive del Lavoro della Formazione e dell’Istruzione Valeria Rastelli Assessorato istruzione Formazione e Lavoro Regione Abruzzo - Ufficio Sviluppo servizi per l’impiego Ondina Tenterelli Abruzzo Lavoro - Referente Politiche formative e di genere CAMPANIA Nome Cognome Ruolo Fulvio Bartolo UIL Campania - Segretario Organizzativo, servizi Comunicazione, Forma- zione, artigianato Angela Cortese Assessore Politiche Scolastiche e formative - Provincia di Napoli Luisa Danzi Assessorato istruzione Formazione Lavoro Regione Campania – Responsa- bile Diritto allo studio ed Edilizia scolastica Gennaro Gallo Assessorato Politiche Scolastiche e formative - Provincia di Napoli - Re- sponsabile offerta formativa integrata Pasquale Iorio Cgil Campania, Vicepresidente Fondimpresa Guido Liguori Liguori Editore - Amministratore Delegato Enzo Mauriello Assessorato Politiche Scolastiche e formative - Provincia di Napoli Respon- sabile Osservatorio permanente per la programmazione scolastica Paolo Monaco Assessorato istruzione Formazione Lavoro Regione Campania – Responsa- bile Scuola Marco Rossi Doria Ex maestro di strada, esperto formatore di docenti sulle didattiche laborato- riali e le metodologie di contrasto della dispersione scolastica, del disagio e dell’esclusione precoce è stato comandato, presso la segreteria tecnica del Vice-Ministro della Pubblica Istruzione Mariangela Bastico Felice Russillo Api Napoli – Confapi Campania - Consigliere Davide Sarnataro UIL Campania - Segretario Regionale, Pubblico Impiego, Finanza Locale, Credito, Scuola, Università, Ricerca, Innovazione, Trasporti Dario Scalella K4a - Imprenditore 82 PUGLIA Nome Cognome Ruolo Antonella Gernone CNA Puglia - Responsabile Impresa Donna e Creazione di impresa Alessandro Laterza Confindustria Bari - Presidente e Amministratore delegato Laterza Editore Teresa Loiacono FLFC CGIL Puglia Dario Longo Confartigianato Puglia - Segretario Regionale Antonio Mancanella Sanit Impianti Snc - Imprenditore, membro del direttivo di Confartigianato Lecce e Presidente regionale Impiantisti Nicolo Mastrandrea Ifoc – Azienda speciale della CCIAA di Bari per la formazione e lo svi- luppo umano – Direttore Giovanni Merchich CNA Puglia - Responsabile Unione dei mestieri Paolo Peluso FLFC CGIL Puglia - Segretario Regionale Antonio Porcelluzzi Fotolito38 - Imprenditore presidente di CNA Bari Pasquale Ribezzo CNA Puglia - Segretario regionale Rosa Anna Squicciarini Assessorato Lavoro, Cooperazione e Formazione professionale Regione Pu- glia - Responsabile Ufficio rapporti con l’Unione Europea e lo Stato (segue i progetti integrati triennali) Giancarlo Turi UIL Scuola Puglia - Segretario regionale SARDEGNA Nome Cognome Ruolo Roberto Chironi Confindustria Sassari - Responsabile ufficio economico, referente per Fon- dimpresa Cristiano Erriu Centro Servizi promozionali per le Imprese Azienda Speciale della CCIAA di Cagliari - Direttore Maurizio Ferraguti Lavanderia Nivea - Direttore Generale Lino Florinu CNOS-FAP Selargius - Responsabile ricerca e sviluppo Nicola Martino Confcommercio Sassari - Segretario generale Pierluigi Peis Remosa Spa - Direttore Amministrativo Luciano Salaris Uil scuola Mario Sassu Performa Scarl Confcommercio Sassari - Direttore Giuseppe Simula Filcams CGIL - Segretario generale e Presidente Ente bilaterale Silvano Tagliagambe Università di Sassari - Ordinario di epistemologia del progetto/esperto di processi formativi Marco Usai Assessorato Lavoro e Formazione della Regione Sardegna - Responsabile settore programmazione ed accreditamento del servizio FP 83 INDICE INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 1. ABRUZZO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.1. Gli indicatori di sistema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.2. I risultati dell’indagine di campo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 2. CAMPANIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 2.1. Gli indicatori di sistema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 2.2. I risultati dell’indagine di campo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 3. PUGLIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 3.1. Gli indicatori di sistema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 3.2. I risultati dell’indagine di campo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54 4. SARDEGNA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61 4.1. Gli indicatori di sistema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61 4.2. I risultati dell’indagine di campo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70 ALLEGATO: Metodologia e strumenti di indagine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 ELENCO DEI TESTIMONI INTERVISTATI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83 85 Pubblicazioni 2002-2007 nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” ISSN 1972-3032 1. Nella sezione “studi” 1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. La formazione professionale per lo sviluppo del territorio. Castel Brando (Treviso), 9 - 11 settembre 2002, 2003 2) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XV seminario di formazione europea. Il sistema dell’istruzione e formazione professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi, 2004 3) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVI seminario di formazione europea. La formazione professionale fino alla formazione superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, 2005 4) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVIII seminario di formazione europea. Standard formativi nel- l’istruzione e nella formazione professionale. Roma,7-9 settembre 2006, 2007 5) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Cata- nia, Noto, Modica, 2004 6) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orien- tativi, 2003 7) CNOS-FAP (a cura di), Gli editoriali di “Rassegna CNOS” 1996-2004. Il servizio di don Stefano Colombo in un periodo di riforme, 2004 8) COLASANTO M. - R. LODIGIANI (a cura di), Il ruolo della formazione in un sistema di welfare attivo, 2007 9) D’AGOSTINO S. - G. MASCIO - D. NICOLI, Monitoraggio delle politiche regionali in tema di istru- zione e formazione professionale, 2005 10) DONATI C. - L. BELLESI, Giovani e percorsi professionalizzanti: un gap da colmare? Rapporto finale, 2007 11) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, 2002 12) MALIZIA G. - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto sul follow - up, 2003 13) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Rapporto di ricerca, 2007 14) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Rapporto di ricerca, 2007 15) MALIZIA G. - V. PIERONI, Follow-up della transizione al lavoro degli allievi/e dei percorsi triennali sperimentali di IeFP, 2008 16) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale, 2004 17) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale. II edizione, 2006 18) MALIZIA G. et alii, Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Problemi e prospettive,2007 19) MALIZIA G. et alii, Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere, 2007 20) NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale nell’anno formativo 2004-2005, 2006 21) NICOLI D. - R. FRANCHINI, Costruzione dell’identità personale e sociale negli adolescenti e nei gio- vani. La proposta dell’Istruzione e formazione professionale, 2007 22) NICOLI D., La rete formativa nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP, 2007 23) PELLEREY M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona. Dare senso e prospettiva al proprio impegno nell’apprendere lungo tutto l’arco della vita, 2007 24) PIERONI V. - G. MALIZIA (a cura di), Percorsi/progetti formativi “destrutturati”. Linee guida per l’inclusione socio-lavorativa di giovani svantaggiati, 20052) 86 25) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, 2004 26) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, Ristampa 2007 2. Nella sezione “progetti” 27) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 28) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodo- logico e proposte di strumenti, 2003 29) BALDI C. - M. LOCAPUTO, L’esperienza di formazioni formatori nel progetto integrazione 2003. La riflessività dell’operatore come via per la prevenzione e la cura educativa degli allievi della FPI, 2008 30) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006 31) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003 32) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale alimentazione, 2004 33) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004 34) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004 35) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale estetica, 2004 36) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004 37) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale tessile e moda, 2004 38) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003 39) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffu- sione di una buona pratica, 2004 40) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004 41) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 42) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 43) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004 44) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale grafica e multimediale, 2004 45) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale legno e arredamento, 2005 46) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale meccanica, 2004 47) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004 48) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, 2003 49) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006 50) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Percorsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005 51) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa. Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d. 52) D’AGOSTINO S., Apprendistato nei percorsi di diritto-dovere, 2007 87 53) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003 54) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003 55) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo. Una proposta di percorsi per la creazione di impresa. II edizione, 2007 56) MARSILII E., Dalla ricerca al rapporto di lavoro. Opportunità, regole e strategie, 2007 57) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003 58) NICOLI D. - G. TACCONI, Valutazione e certificazione degli apprendimenti. Ricognizione dello stato dell’arte e ricerca nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP. I volume, 2007 59) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il percorso quadriennale, 2005 60) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istru- zione e della formazione professionale, 2004 61) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 62) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005 63) RUTA G. (a cura di), Vivere in… 1. L’identità. Percorso di cultura etica e religiosa, 2007 64) RUTA G. (a cura di), Vivere… Linee guida per i formatori di cultura etica e religiosa nei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale, 2007 65) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003 66) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui percorsi formativi, 2003 67) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005 3. Nella sezione “esperienze” 68) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro polifunzionale diurno di Roma, 2006 69) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti, 2003 70) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003 71) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in itinere, 2003 72) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento finale, 2003 73) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage, 2003 74) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i percorsi di istruzione e formazione professionale, 2006 75) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006. Rapporto finale, 2006 76) NICOLI D. - COMOGLIO M., Una formazione efficace. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimen- tali di Istruzione e Formazione professionale in Piemonte 2002-2006, 2007 77) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordinatore delle attività educative del CFP, 2005 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net Dicembre 2008

Il punto sulla formazione professionale in Italia in rapporto agli obiettivi di Lisbona

Autore: 
Michele Colasanto (a cura di)
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2008
Numero pagine: 
125
A cura di Michele COLASANTO 2008 Il punto sulla Formazione professionale in Italia in rapporto agli obiettivi di Lisbona SOMMARIO Capitolo I Lontano e vicino da Lisbona (Michele COLASANTO) ................................................ 5 Capitolo II L’esperienza dei percorsi sperimentali di istruzione e formazione professionale (Anna D’ARCANGELO) ......................................................................... 19 Capitolo III Modello di qualità dell’Istruzione e formazione professionale di ispirazione cristiana nel quadro della riforma del sistema educativo (Dario NICOLI) ............................................................................................................ 27 Capitolo IV Ripensare la formazione nella prospettiva del Learnfare (Michele COLASANTO) ................................................................................................ 51 Capitolo V In formazione continua (Massimiliano COLOMBI e Francesco VARAGONA) .................................................... 73 Capitolo VI Apprendistato: stato dell’arte della riforma (Sandra D’AGOSTINO) ......................... 85 Appendice ....................................................................................................................... 95 Orientamenti e suggerimenti da Lisbona: sintesi dei principali documenti comunitari inerenti la SEO (Licia ALLEGRETTA) ................................................................................................... 95 3 Capitolo I Lontano e vicino da Lisbona Michele COLASANTO Negli anni più recenti non c’è stata discussione o proposta di miglioramento dei sistemi di istruzione e formazione, che non abbia preso a riferimento gli obiet- tivi che il vertice europeo di Lisbona aveva proposto come meta da conseguire entro il 2010, per fare dell’Europa l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale. In particolare entro la data indicata gli stati membri avrebbero dovuto almeno dimezzare il tasso degli abbandoni scolastici precoci rispetto al tasso registrato nel 2000, al fine di arrivare a una media UE pari o inferiore al 10%; avrebbero dovuto almeno dimezzare il livello della disparità fra i sessi tra i laureati in matematica, scienze e tecnologia, garantendo allo stesso tempo un sensibile incremento com- plessivo del numero totale di laureati rispetto al 2000; avrebbero garantito che la percentuale media UE della popolazione di età compresa fra i 25 e i 64 anni, che ha assolto almeno l’istruzione secondaria superiore, avesse raggiunto o superato l’80%, la percentuale di quindicenni con livelli bassi di capacità di lettura e di no- zioni matematiche e scientifiche avrebbe dovuto essere almeno dimezzata in tutti gli Stati membri; infine, il livello medio di partecipazione all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita avrebbe dovuto raggiungere almeno il 15% della popolazione attiva (fascia d’età compresa tra i 25 e 64 anni) e in nessun paese al di sotto del 10%. È noto in realtà come il dibattito più recente e gli stessi orientamenti ufficiali della Commissione Europea abbiano ormai dato, per acquisita l’impossibilità di conseguire questi obiettivi nell’arco di tempo previsto. Le azioni poste in campo at- traverso le riforme ritenute necessarie hanno trovato un po’ dovunque difficoltà e resistenze inizialmente sottovalutate. Ma soprattutto i contesti economico-sociali e quelli politico istituzionali sono mutati sensibilmente sotto i colpi di una globalizzazione che ha preso strade non sempre previste. I mercati si sono internazionalizzati e il PIL dell’economia-mondo è cresciuto, ma con un decrescente protagonismo europeo, il cui modello di compromesso tra capitalismo e democrazia ha dovuto registrare un forte indebolimento. Ne hanno sofferto le politiche di welfare, il fulcro di questo compromesso, in cui si sono ri- 5 dati i margini di investimento nei fattori di coesione e mutualità sociale; l’istru- zione, specie in un paese come il nostro, si è trovata costretta tra due emergenze: quella educativa e quella occupazionale. La scuola ha perso capacità e legittimazione come agenzia di socializzazione primaria; le difficoltà del mondo del lavoro si sono tradotte in una minore coerenza tra aspettative legate agli investimenti educativi e prospettive occupazionali. Li- sbona appare dunque lontana in questo contesto, specialmente là dove i ritardi (è il caso del nostro Paese) sono più significativi. Al tempo stesso però non vengono meno le ragioni che hanno promosso la stra- tegia che porta il suo nome. Infatti, l’emergere di una globalizzazione multipolare (non solo Stati Uniti ed Europa ma anche India, Cina, e altri Paesi asiatici) ha ri- messo in discussione il presupposto per un protagonismo europeo in campo econo- mico – sociale e a maggior ragione, smentito l’ipotesi lineare di una occidentalizza- zione del pianeta, occorre tornare sulle nostre chance di trovare un posizionamento originale nel contesto internazionale, in modi e gradi diversi dalle previsioni, ma in continuità certamente con il valore determinante della conoscenza, della sua produ- zione – condivisione e quindi anche dell’istruzione e della formazione. Per questo occorre tornare a Lisbona e renderla nuovamente più vicina nelle proposte programmatiche del nostro Paese. 1. La formazione iniziale: verso un modello duale Ci sono pochi dubbi nel fatto che il primo e determinante fattore della lonta- nanza da Lisbona, soprattutto in rapporto ai bench-mark ormai ben noti e prima ri- cordati, sia costituito dai temi della dispersione scolastica e formativa. Abbiamo innalzato l’obbligo di istruzione, abbiamo “incorporato” in via istitu- zionale l’altro obbligo, quello formativo fino a 18 anni ma restiamo ancora in- dietro, troppo, rispetto all’obiettivo di un 80% di popolazione tra i 25 e 64 anni in possesso di un diploma e di una qualifica. A fronte delle medie europee di studenti nel corso del ciclo secondario supe- riore, la partecipazione scolastica che pure è alta (92% è il tasso di passaggio ai licei e gli istituti tecnici e professionali) crolla già al secondo anno. Di fronte a questi dati, ancora più problematici se ricollegati al livello di apprendimento dei nostri studenti, secondo OCSE-PISA, l’esperienza italiana si attarda in una visione scuola-centrica, che riconduce le speranze di efficacia ed ef- ficienza dei sistemi educativi in un ordinamento di tipo rigidamente scolastico. Non è certo il caso qui di ripercorrere le vicende di un processo di riforme che con la legge Berlinguer prima, quella Moratti poi e ancora con le norme delle fi- nanziarie volute dal Ministro Fioroni ha tenuto ai margini delle scelte educative la formazione iniziale più direttamente legata al lavoro (la formazione professionale e l’apprendistato) che invece non a caso è il principale strumento di differenziazione- 6 compensazione dell’offerta formativa presente in pressoché tutti i Paesi Europei, seppure in mix diversi. Il ministro Berlinguer ha per così dire sospeso l’effetto dell’obbligo formativo con l’obbligo di frequenza di un monoennio o dopo la terza media: il ministro Mo- ratti ha di fatto ridotto il sistema di istruzione e formazione professionale al solo canale della formazione, quindi lo ha consegnato alle fragili risorse finanziarie delle Regioni; il ministro Fioroni ha ripreso certamente la possibilità di una spendi- bilità della formazione professionale ai fini dell’obbligo di istruzione a sedici anni, ma in un contesto che ha lasciato a metà e comunque di nuovo all’eterogeneità delle esperienze regionali, il processo che avrebbe dovuto dare attrazione ai per- corsi delle qualifiche triennali. Eppure, come emerge dal contributo contenuto in questo rapporto, i trienni sperimentali realizzati attraverso protocolli di intesa tra Regioni e Ministero della Pubblica Istruzione, hanno avuto un effetto mobilitante nella domanda delle fami- glie degli allievi in quanto conferiscono un livello di qualificazione (dati Excelsior alla mano) particolarmente richiesto dalle imprese; riscuotono successo per un alto tasso di conseguimento della qualifica (ancora più interessante è la spinta al rientro a scuola per il conseguimento di un diploma di quote significative di allievi) e au- mentano la produttività di questo settore formativo. La ristretta quota di partecipazione all’offerta formativa ( al più il 3% dell’uten- za su base nazionale, anche se con vistose disparità territoriali) è peraltro di per sé un fattore di scoraggiamento per politiche nazionali e regionali più adeguate, ma probabilmente per arrivare ad individuare le ragioni di questo apparente paradosso (una formazione richiesta ma non concessa) occorre considerare l’altro istituto di rapporto diretto tra formazione e mercato del lavoro: l’apprendistato, ed in partico- lare quello di diritto/dovere e quello professionalizzante; qui lo scompenso appare ancora più clamoroso perché non riguarda l’offerta, che di per sé sta non nelle istitu- zioni ma nelle mani delle parti sociali, attraverso la contrattazione collettiva. Ed in- fatti, sono quasi 600.000 gli apprendisti e 50.000 i giovani in età tra i 14 e 18 anni. La difformità riguarda, in questo caso, non tanto la diffusione, (la quantità di soggetti) quanto la qualità, e cioè l’assenza stessa di formazione che, in un con- tratto a causa mista, è o sarebbe essenziale quanto la retribuzione. Il secondo dei contributi presente in questo rapporto, tiene conto delle ragioni specifiche che nel nostro Paese hanno fatto dell’apprendistato un istituto monco, con non più del 15% di adempimenti formativi tra i 50.000 giovani in diritto-do- vere e il 20% di quelli in fascia d’età superiore. In termini più generali c’è da os- servare più di una connessione tra debolezza della formazione professionale ini- ziale e debolezza dell’apprendistato, che soprattutto nel caso italiano, potrebbero essere invece coordinati in un ideale modello di apprendimento duale per recupe- rare i ritardi del sistema educativo. Infatti l’apprendistato non può essere isolato dalle politiche più generali di istruzione e formazione. È stato questo un errore commesso in passato e che ha contribuito a una sorta di isolamento istituzionale 7 che non lo ha avvantaggiato, anche sul piano delle risorse, mentre così non è avve- nuto in altri Paesi. Appare paradossale che un istituto a causa mista, a scavalco tra istruzione e lavoro (il decreto 276 lo ha opportunamente articolato per fasce d’età e soprattutto di funzione), nonostante la riforma firmata dal Ministro Moratti, e l’en- fasi sull’alternanza scuola-lavoro, non sia stato granché valorizzato come percorso formativo pur essendo stato riconosciuto come componente del sistema istruzione e formazione professionale. Ed è vero che il decreto 276 lo ha opportunamente arti- colato per fasce d’età e soprattutto per funzione. Ma un Paese che ha un’alta dis- persione scolastica; che di conseguenza patisce un sovraccarico di occupazione non qualificata anche tra i più giovani, in particolare tra i 18 e 24 anni, destinato a pesare non poco negli anni a venire, non può permettersi di non utilizzare tutte le opportunità formative di cui dispone, nella consapevolezza che il successo forma- tivo è correlato, come suggeriscono tutte le agenzie internazionali, con la differen- ziazione dell’offerta formativa. Tutto questo a condizione che esso rappresenti finalmente uno strumento con- veniente per tutti. Per le stesse istituzioni, preposte alla policy si pone oggi un pro- blema che riguarda ancora le politiche formative ma che fa da ponte con quelle del lavoro e dell’occupazione. Il recente riordino della scuola secondaria superiore, che ripristina gli istituti tecnici e “riporta” quelli professionali allo Stato, rendendoli quinquennali, lascia se possibile ancora più scoperta l’area delle qualifiche iniziali intermedie, di cui in ogni caso un sistema produttivo come il nostro avverte la ne- cessità. Intervenire in quest’area è ormai questione urgente che riguarda in primo luogo i governi regionali e le già scarse risorse destinate alla formazione professio- nale a fronte di una competenza – il rilascio delle qualifiche – che diventa ora effet- tivamente di esclusiva competenza. Di qui la possibile, anzi necessaria, valorizza- zione dell’apprendistato che però chiama in causa il sistema produttivo che c’è in un dato territorio (e quello che non c’è); la necessità di incrementare la spesa per aumentare l’offerta formativa; soprattutto un più deciso impegno a rendere interes- sante il rapporto costi-benefici per l’imprese. La querelle tra obbligatorietà o meno della formazione esterna è una parte di questo rapporto, che per altro verso chiama in causa i livelli retributivi degli apprendisti e quelli degli incentivi alle aziende. Ma c’è anche un problema organizzativo che incide in particolare sulle imprese più piccole, dove gli organici limitati, di cui gli apprendisti sono parte comunque signi- ficativa rendono ancora più complesso il nodo dei tempi e dei modi del fare forma- zione. Probabilmente una normativa rigida ed eccessivamente uniforme renderebbe nuovamente inefficace una politica di promozione dell’apprendistato, così come va ripensata con realismo la questione della capacità formativa dell’impresa, in un in- telligente mediazione tra tutela dell’apprendista e incentivazione all’assunzione di responsabilità dirette da parte delle imprese. Lo stato attuale delle esperienze, le soluzioni adottate dalle diverse regioni, e quelle proprie della contrattazione collettiva, presentano un quadro disomogeneo e contraddittorio ben noto. 8 Pur dentro linee-guida di ordine generale, pertanto, potrebbe essere utile adot- tare piani sperimentali differenziati che possano consentire tra l’altro di partire dalle scelte già adottate dalle singole regioni e dai diversi contratti per arrivare a modalità differenziate di gestione dell’apprendistato, sotto il profilo organizzativo, ma con risultati equivalenti sotto quello formativo. Con altre parole, si dovrebbero immaginare, ulteriormente sperimentare e alla fine vagliare percorsi che in una realtà così disomogenea e frastagliata come la nostra, puntino soprattutto sulla fles- sibilità dei dispositivi, quelli normativi e quelli formativi e organizzativi. Va da sé che questa prospettiva, proprio perché orientata alla flessibilità, im- plica una regia complessiva molto forte, voluta da governo e regioni e condivisa dalle parti sociali. Un’intesa tra Stato e Regioni rappresenterebbe a questo propo- sito una condizione necessaria, ma sarebbe anche necessario pensare ad una gover- nance effettiva e concreta, con azioni di monitoraggio, di generalizzazione e alli- neamento delle anagrafi regionali e dei repertori delle professioni, di certificazione delle competenze a valenza nazionale agganciata al sistema delle politiche europee, di verifica degli apprendimenti. Qualcosa di più di una cabina di regia, una task force sostenuta da una agenzia nazionale come l’ISFOL, in grado tra l’altro di inte- grare fonti normative, sostenere azioni di valutazione, collegare l’apprendistato agli sforzi in atto per valorizzare la cultura tecnico – professionale, promuovere inter- venti dimostrativi del valore dell’apprendistato e delle opportunità che offre, e sottrarlo così alla sottovalutazione che lo caratterizza sul piano della considera- zione sociale, un ostacolo questo non sempre attentamente considerato rispetto allo sforzo di mobilitazione che occorre mettere in campo per il reperimento di tutte le risorse necessarie, economiche e non, al fine di dare anche all’apprendistato una pari “dignità” rispetto ad altri percorsi formativi. 2. Cambiare cultura Le ragioni finanziarie, istituzionali, ma anche organizzative e ideologiche che hanno determinano il sotto-utilizzo della formazione professionale e dell’apprendi- stato e che hanno frenato i tentativi di introdurre l’alternanza scuola-lavoro così come previsto dalla legge Moratti, sono in parte quelle appena esposte. Ma proprio la necessità di confrontarsi con Lisbona e la sua strategia, solleci- tando il confronto con le altre esperienze europee, mette in evidenza l’anomalia ancora più profonda del caso italiano: un’anomalia che ha radici culturali, perché riguarda la sottovalutazione del valore della tecnica e del lavoro quello manuale in primo luogo; e che rimbalza poi nei processi di carattere strutturale (l’offerta di istruzione) in un circolo assai poco virtuoso. Emblematica a questo proposito è la vicenda di un comparto formativo contiguo alla formazione professionale, quello dell’istruzione tecnica e professionale. È noto che, per più aspetti, l’istruzione e la formazione professionale risultano 9 essere una “fabbrica di lavoro”. In particolare l’indagine ISTAT pubblicata nel set- tembre 2006 sottolinea, ad esempio, che a tre anni dal diploma, l’88% dei giovani degli istituti professionali e più del 75% di quelli che hanno studiato all’istituto tec- nico hanno un lavoro, che per la stragrande parte ( quasi il 90%) è svolto in modo continuativo (più al Nord che al Sud, come al solito, e più per i ragazzi che per le ragazze) mentre la retribuzione mensile è superiore a quella che ricevono media- mente i loro coetanei. Un bel risultato che è ancora migliore soprattutto per i diplomati degli istituti tecnici, e questo in un paese ove la discussione sul lavoro giovanile appare concen- trata sulla questione della precarietà e della pervasività dei rapporti di lavoro atipici. Ci potranno essere situazioni di sotto-impiego, come più ampiamente avviene, forse, per molti laureati; ma di certo non sembra incombere il rischio di restare intrappolati in attività di scarsa qualità, dove è difficile capitalizzare esperienza professionale, così come avviene in questi settori dell’occupazione dove il preca- riato è più diffuso. In ogni caso, le imprese sottolineano in modo ricorrente il loro interesse alla salvaguardia ed anzi alla valorizzazione dell’istruzione tecnica e professionale. Come ribadisce un documento di Confindustria dell’ottobre 2006, nel nostro paese “gli istituti tecnici hanno una tradizione nobile, legata allo sviluppo dell’industria e continuano a produrre ottime professionalità per le imprese italiane, le quali chie- dono che siano perseverate le caratteristiche professionalizzanti degli istituti tecnici, che sia dato maggior peso alle attività di laboratorio e all’apprendimento espe- rienziale, rafforzando le specificità del patrimonio tecnico e tecnologico di questo indirizzo di studi. D’altro canto, lo sviluppo locale, nella forma dei distretti industriali, così diffusi nel nostro paese, deve molto agli istituti tecnici e professionali che hanno rappresentato spesso uno dei perni di questo sviluppo, preparando quadri ma anche tanti piccoli imprenditori facendoci custodi del patrimonio cognitivo e organizza- tivo del territorio e consentendo la trasmissione dei saperi professionali, rendendo formali e suscettibili di trasmissione i saperi nati in modo contestuale e informale all’interno dei processi produttivi. Ma di fronte a questo ampio consenso sul valore attribuito ai diplomati, paradossalmente sono proprio questi diplomati, quelli degli istituti tecnici in parti- colare, a diminuire: gli iscritti a questi istituti rappresentano, nel 2006/2007, il 33% degli iscritti alla secondaria (erano il 35,1% l’anno precedente), con una stabilizza- zione per gli istituti professionali (22%) invariati da un anno all’altro; e una crescita per i licei al 41% contro il 39%. Certamente ha contato l’effetto annuncio degli orientamenti assunti dalla rifor- ma Moratti, che ne ha depotenziato l’identità e il ruolo, trasferendoli all’area dei licei e lasciando al tempo stesso in un limbo, tra stato e regioni, quelli professionali. Bisogna però ammettere che il loro declino in termini di numeri, ma anche di riorientamento verso caratteri più generalisti, di natura per l’appunto liceizzante, 10 non appartiene solo agli anni più recenti. C’è per così dire, una deriva che ha bloc- cato nel corso degli ultimi quindici anni istituti professionali cresciuti poco (dal 19% al 22,1% come si è detto) e ha nello stesso tempo fatto registrare un forte calo per gli istituti tecnici, che nel 1990/91 erano ancora a ben il 45% del totale degli iscritti alla secondaria. È un fenomeno questo che può in parte essere imputato alla ricerca di mag- giore mobilità sociale, in una società che è cresciuta molto sul piano economico è in qualche modo ovvia la spinta verso quei percorsi formativi che, nella nostra tra- dizione scolastica, hanno rappresentato (per definizione) i canali di formazione della classe dirigente (i licei). Per altro verso, anche i tentativi di riforma che si sono succeduti hanno per qualche aspetto imboccato la via della liceizzazione e comunque non sembrano aver valorizzato la differenziazione dei percorsi, una più marcata professionalizza- zione, un miglioramento dei curricoli in tal senso e così hanno contribuito a rendere meno precisa, l’identità degli istituti tecnici e reso più difficile anche agli istituti professionali di corrispondere maggiormente ai diversi stili cognitivi della popola- zione studentesca: non è un caso che proprio i professionali, dove questo problema degli stili cognitivi si coniuga più intensamente con la presenza di svantaggi sociali e familiari, registrino tassi di dispersione molto alti. Il suggerimento che viene dalle agenzie internazionali è un’inversione di rotta verso una maggiore differenziazione dell’offerta formativa e un suo riequilibrio attraverso attività formative più profes- sionalizzanti. Già prima della riforma Berlinguer l’OCSE individuava nella debo- lezza della formazione ma soprattutto dell’istruzione tecnica, le aree più critiche del nostro sistema scolastico. Più recentemente, in sede europea con riguardo al processo di Copenaghen, è stata richiamata l’importanza di uno spazio europeo per la crescita di un sistema di istruzione e formazione professionale che possa essere utile per la qualificazione e la mobilità dei lavoratori e corregga anche l’impostazione che, per la riforma delle università, era stata data dagli accordi di Bologna, che forse proprio a questi aspetti erano stati meno attenti. Ma su questa via, però, il nostro Paese ha di fronte a sé in particolare tre nodi cruciali da sciogliere: il recupero di una forte cultura scientifica e tecnologica e una più forte valorizzazione del lavoro in chiave di capitale umano e sociale. La leva che può essere utilizzata per cambiare la preparazione dei giovani e delle loro famiglie verso l’istruzione tecnica e professionale è certamente una più accurata informazione e un orientamento più accurato, specie in ordine ai vantaggi di tipo occupazionale. Ma questa propensione sarà sempre condizionata dalla cultura complessiva di una società come la nostra che si mostra debole verso il progresso scientifico tecnologico. Quanto meno va preso atto che esistono ancora fraintendimenti e non piena consapevolezza della rilevanza di questo progresso, percepito quasi come altro ri- spetto a quello umano e sociale. 11 Eppure è una evidenza empirica che la correlazione positiva che ha segnato il rapporto tra istruzione e sviluppo si è fortemente alimentata della capacità della prima – l’istruzione – di essere veicolo di diffusione e moltiplicazione della cono- scenza, quella “scientifica” non meno che quella umanistica. D’altra parte c’è ormai una convergenza sul piano metodologico ed epistemo- logico, tra le diverse discipline tradizionali: la conoscenza è sempre più un fatto in- terdisciplinare dove conta in particolare la capacità di “combinazione” dei diversi saperi. Se è vero anzi che la cultura scientifica e tecnologica diventa pervasiva, segna i processi produttivi in ciò che hanno di più avanzato, ma anche la nostra stessa quotidianità e i servizi che più da vicino toccano le persone e la possibilità di vi- vere una “vita buona”; se tutto questo è vero, anche gli assi culturali che rendono distintivi percorsi di carattere tecnico e professionale devono lasciarsi contaminare dalla capacità di affrontare problemi piuttosto che apprendere nozioni. Non si tratta di despecializzare la formazione. Lo specifico di un’istruzione tecnica e professionale sta nel far apprendere le conoscenze e le competenze legate ad aree professionali ampie ma sufficientemente definite, o se si vuole, a questioni tematiche non strettamente specialistiche, ma caratterizzate da un confine. La scommessa però è quella di saper declinare in contesti di respiro dove trova spazio l’esercito della riflessività (e la conoscenza diventa cultura). È questa peraltro una prospettiva ampiamente nota e condivisa, che però la scuola deve poter affrontare con più motivazione, più strumenti, maggiore prepara- zione e innovazione didattica. Ma è anche una prospettiva – e questo è forse oggi meno evidente – che implica, proprio per i caratteri di pervasività che scienza e tec- nologia hanno sulla nostra vita – una più forte assunzione di responsabilità rispetto al proprio agire individuale e collettivo. Il nuovo umanesimo che la scuola può e deve proporre parte qui, se vuole evi- tare il rischio di appelli generici e alla fine retorici e acquisire al contrario la capacità di far percepire il significato reale delle differenze e delle interdipendenze che ci legano, nonché l’utilità soggettiva e sociale del sapere. Il posto del lavoro rispetto all’istruzione è un secondo nodo cruciale da scio- gliere. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un dibattito consolidato caratterizzato da termini fortemente evocativi: dispersione professionale, flessibi- lità (e precarietà) terziarizzazione, avvento di lavori nuovi e metamorfosi di quelli “vecchi”. La scuola, l’istruzione tecnica e professionale hanno declinato questi cambia- menti in modo contradditorio; liceizzando la scuola secondaria, come si è detto, per cercare di far fronte alla crescita di contenuti cognitivi e relazionale che questi cambiamenti hanno indotto, almeno in alcuni segmenti intermedi del mercato del lavoro, compresi quelli “operai” ma qualificati; al tempo stesso però anche “inse- guendo” il mercato del lavoro stesso moltiplicando diplomi e qualifiche. In realtà non sono poche le esperienze di singole scuole a carattere sperimen- 12 tale che hanno cercato altre strade, attraverso processi di ricomposizione discipli- nare e innovazione didattica e che hanno utilizzato una autonoma capacità di ana- lisi dei fabbisogni. Si tratta, per inciso, di un patrimonio che andrebbe rivisitato e valorizzato, ai fini di un riassetto anche curriculare dell’istruzione tecnica e profes- sionale. La valorizzazione del lavoro è, come la cultura scientifica e tecnologica, un vei- colo di maggiore reputazione dell’istruzione tecnica e professionale; ma vale anche l’inverso: l’istruzione tecnica e professionale, per quanto è in grado di assumere il lavoro come costitutivo di un proprio orizzonte di significati, diventa veicolo di una formazione dal lavoro come espressione delle persone e fonte di relazioni di senso. Il richiamo al dettato costituzionale non è ancora, al di là di ogni retorica, né banale, né inattuale: il lavoro è anche parte costitutiva dei processi formativi: ci si educa al lavoro ( ma non solo), anche attraverso di esso, all’interno di relazioni più forti e si- stematiche con il mondo delle imprese e dei lavori; d’altra parte è ormai ammessa, a condizioni date, la capacità formativa dell’impresa sia in via formale che informale; per altro verso ancora la conoscenza procede con modalità interdisciplinari: anche il lavoro oggi è sempre più la risultante di un insieme di competenze trasversali e spe- cifiche, dove sono determinanti quelle definite chiave che, acquisite in soglia minima nell’attuale obbligo di istruzione, vanno comunque approfondite, conosciute e sviluppate progressivamente perché veicolo anche per questo verso di capacità di assumere responsabilità. Vale poi la considerazione che, ancora in termini di competenze e conoscenze specifiche, l’accento ritorna sulle dimensioni relazionali del lavoro, nel suo essere quest’ultimo spesso creazione di significati all’interno di costruzioni cognitive quali sono definite oggi le imprese e nella valenza etica che i rapporti di lavoro co- munque presuppongono, a maggior ragione se all’interno di contesti produttivi che esplicitamente fanno riferimento alla responsabilità sociale. 3. La formazione continua e permanente: la centralità del learnefare Una riflessione a tutto campo su Lisbona non può prescindere dal tema della formazione continua nella prospettiva dell’apprendimento lungo tutto il corso della vita. È questa un’affermazione comune, rituale, che si accompagna allo scosta- mento noto tra il bench-mark del 12,5% di lavoratori in formazione ogni anno e il dato italiano, che a malapena raggiunge il 7%. Ma se è giusto riflettere anche in questo caso sui ritardi e i problemi che questo “imperativo” formativo sollecita, è il senso complessivo che va colto in una prospet- tiva di insieme dei sistemi educativi dentro il sistema socio-politico ed economico in cui viviamo. C’è anche in questo caso un ritardo nell’esperienza italiana, che è analitico 13 prima ancora che politico, coinvolge cioè lo stesso grado di consapevolezza che ab- biamo attorno a questo tema. La crisi dello Stato Sociale sta determinando una destrutturazione delle tradi- zionali politiche di sostegno e assistenza alle persone che, se da un lato cercano di recuperare il principio di sussidiarietà, dall’altro dispongono di coordinate politico- culturali sufficientemente definite. Gli interventi sul lavoro oscillano ad esempio tra lo scambio disoccupazione- redditi di cittadinanza, e l’assunzione dell’occupazione come criterio di accesso per il nuovo welfare; un’occupazione dunque da promuovere e sostenere come obiet- tivo prioritario, qualunque possa essere la sua qualità. Eppure gli indicatori riportati dalle indagini dell’OCSE, dimostrano che l’inve- stimento formativo protegge dalla disoccupazione, garantisce redditi migliori e car- riere meno discontinue, difende dai rischi di intrappolamento nelle fasce più basse della struttura occupazionale e dall’esclusione lavorativa e sociale anche se di per sé non può garantire l’occupazione e tanto meno una occupazione coerente con il titolo di studio posseduto. La SEO (Strategia Europea per l’Occupazione) a sua volta, sposa pienamente questa impostazione sostenendo, con risorse finanziarie ingenti, che la formazione lungo l’arco della vita è strumento di occupabilità e di inclusione sociale, capace di promuovere una cittadinanza attiva. È vero che se il livello di istruzione e di formazione è capace di condizionare l’ingresso, la permanenza e l’esclusione dal mercato del lavoro, allora l’accesso o meno alla formazione (e la sua qualità) si configura come diritto di cittadinanza. Ma tale barriera si propone anche come una nuova frontiera della disuguaglianza che disegna nuove categorie di inclusi ed esclusi. Così che, paradossalmente, mentre essa si configura come ambito strategico prioritario per l’efficacia delle Ac- tivation Policies e come importante antidoto contro nuove stratificazioni che questo stesso tipo di politiche può generare, rischia di produrne di nuove. Tuttavia la formazione resta la via più efficace per quanti cercano di sfuggire alla propria condizione di svantaggio. Occorre infatti ricordare che i problemi occupazionali sono di tipo dinamico, transitorio; la disoccupazione per esempio è legata al ciclo di vita dei soggetti oltre che dei fattori di ordine strutturale, è una transizione non uno stato. Di fronte a questo dinamismo, sostiene uno studioso come Espin Andersen, è possibile che un sistema di welfare risulti ottimale anche se non può escludere che ciascuno di noi sperimenti un periodo di difficoltà. È importante però che si preveda anche una “garanzia di mobilità”. In questa prospettiva la formazione è uno strumento fondamentale per liberare le persone dal rischio di intrappolamento, per raggiungere migliori prospettive di vita, mentre anche la società ci guadagna, assicurandosi una forza lavoro più produttiva. Di fronte alle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro, e nel quadro delle Activation Policies, è questo dunque il ruolo assegnato alla formazione. La mobi- lità, il cambiamento professionale, la riconversione lavorativa, la ricerca di impiego richiedono un sostegno formativo specifico perché sia mantenuta l’occupabilità dei 14 soggetti sul mercato del lavoro e la flessibilità non si trasformi in precarietà, esclu- sione lavorativa, marginalità sociale. Occorre peraltro precisare che non è tanto il richiamo all’importanza della for- mazione il cuore di un nuovo sistema di welfare. È, infatti un welfare particolare quello che è chiamato a fare i conti con la crescente frammentazione ed erosione dei sistemi di protezione, dentro una società nella quale il governo dei rischi è sempre meno una impresa collettiva e sempre più una strategia individuale. L’ambito del lavoro è ancora una volta emblematico: alla crescente individua- lizzazione delle carriere lavorative si accompagna anche l’individualizzazione delle tutele. Mentre il diritto del lavoro e la protezione sociale sono stati in passato per definizione, sistemi di regolazione collettiva costruiti in funzione dell’appartenenza a una collettività di lavoro, una appartenenza in funzione della quale a sua volta l’individuo è protetto, oggi non è più così: di fronte alla destandartizzazione del la- voro le stesse appartenenze si frantumano e le forme di protezione non vengono più a dipendere da esse, piuttosto dal riconoscimento di una situazione individuale e specifica di bisogno, nonché dalla volontà del soggetto di emanciparsi da essa. Con due implicazioni, occorre qui aggiungere: la stigmatizzazione dei soggetti che ac- cedono alle forme di protezione; l’esclusione dalle stesse di quanti non sono in grado di attivarsi. Così, mentre le politiche di attivazione – con il welfare to work e la formazione in testa – hanno senza dubbio il pregio di mantenere in primo piano l’importanza della cura continua e dell’accrescimento dell’occupabilità dei soggetti, l’attenzione posta sul singolo tende sempre più ad amplificare le differenze individuali. Se guar- diamo alla formazione e alla centralità a essa assegnata in questo nuovo sistema di welfare “attivo”, da questo empasse, sostengono alcuni autori, si può uscire non tanto considerando la formazione stessa come un diritto per tutti, ma rendendola effettivamente un diritto dell’individuo. In questa direzione vanno per esempio le proposte di trasferire i diritti di “statuto dell’impiego” alla persona del lavoratore, così che lo stato professionale delle persone non sia definito dall’esercizio di uno specifico impiego, ma dalle diverse forme di lavoro che esse sono in grado di svol- gere durante la propria esistenza. In questo modo la protezione del lavoratore sarebbe garantita anche in tutte le “fasi di transizione” che lo accompagnano nella carriera lavorativa, al punto che tali fasi non segnerebbero una interruzione della carriera ma una sua parte integrante. Ma ciò implica di approfondire la riflessione e aprire il dibattito sulle condizioni necessarie per un sistema realizzabile di diritti alla formazione, un sistema capace di costruire ciò che alcuni studiosi hanno deno- minato il regime di learnfare, alternativo a quello del workfare. Un regime che fa della formazione un “diritto transizionale”, che accompagna il soggetto nelle fasi di transizione appena ricordate, come dovrebbe avvenire con il diritto al congedo for- mativo da tempo presente in molti Paesi europei, e dal 2000 riconosciuto con più chiarezza anche in Italia. Perché ciò si traduca realmente in una garanzia universa- listica di formazione occorre, al di là della retorica, definire le condizioni affinché 15 tale diritto sia esigibile da tutti (non solo dai lavoratori già occupati o più qualifi- cati), onde evitare ciò che Gazier, prendendo a testimonianza l’esempio francese, definisce l’“effetto-Matteo della formazione”, utilizzando le parole dell’evangelista Matteo: “ perché a chiunque ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Mt 25,29). Perché, per dirla in latri termini, la for- mazione – la ricchezza – tende a “cadere verso l’alto”, ossia si accumula e si accresce di più proprio laddove già c’è. Non per caso è più difficile coinvolgere nelle azioni di formazione continua proprio i soggetti con i più bassi livelli di istruzione così come è più facile che a sfruttare i vaucher individuali siano i più istruiti che ne sanno meglio riconoscere il valore di opportunità. Per evitare tale effetto occorre agire sul sistema educativo allargato, sin dalla formazione iniziale, così che quanti si trovano penalizzati in essa da percorsi diffi- coltosi o peggio da insuccessi non accumulino nel tempo ulteriori fallimenti forma- tivi. Soprattutto occorre che il diritto individuale alla formazione sia davvero in grado di proteggere e sostenere la capacità di accesso di ogni cittadino, lavoratore e non, alle opportunità formative esistenti. Il cerchio si chiude: formazione iniziale e formazione continua e permanente si congiungono in un cerchio che rappresenta il miglior strumento di sostegno e pro- mozione delle persone, dentro e fuori il lavoro. Al contrario, le esperienze più avanzate in ambito internazionale suggeriscono di privilegiare la leva formativa. 4. Una nuova cornice istituzionale: i territori che apprendono Rispetto a questo cerchio lungo cui si sviluppa il learnfare, la segmentazione dell’offerta formativa così come si configura nell’esperienza italiana, appare ana- cronistica. Più che mai invece si rivela attuale la necessità di una regia, di una capacità di guida di tutti i percorsi formativi in previsione di una domanda sociale che è fatta di fabbisogni professionali delle imprese e insieme di famiglie, giovani, lavoratori adulti. L’impianto normativo che regge la scuola è ancora centralistico; dove l’autonomia scolastica è ridotta a formula di rito nei vari provvedimenti legis- lativi ( fatta salva l’autonomia delle scuole…). D’altra parte le competenze delle Regioni, in materia di formazione professionale sono interpretate così esclusiva- mente da rendere problematico ogni tentativo di comunicare ogni assetto tra Regione e Regione e tra le Regioni nel loro insieme e il Governo. Sarebbe davvero il momento di prendere una posizione definitiva sul Titolo V e scegliere tra un ritorno all’ ”unità nazionale” di tutto il sistema educativo, o ad un effettivo decentramento che porti le Regioni a giocare fino in fondo le responsabi- lità pur previste dalla Carta Costituzionale in materia di programmazione e gestione di tutta l’offerta formativa. Allo stato attuale, per quanto riguarda questa endiade 16 siamo di fronte, da un lato, ad un’incognita e dall’altro ad una concorrenzialità resa più rischiosa dalla limitatezza delle risorse. L’incognita è quella del peso effettivo che avrà nella costruzione dell’offerta formativa, la competenza esclusiva delle regioni in materia di rilascio delle quali- fiche professionali rispetto al riordino dell’istruzione tecnica e professionale e alla costruzione di un sistema di formazione continua e permanente integrato tra attività primarie a livello centrale, quelle regionali e quelle realizzate dai Fondi interprofes- sionali. Il rischio di concorrenzialità sta nelle cose, come dimostrano i tentativi di riordino dell’istruzione tecnica e professionale. Il problema che si pone con più evidenza è infatti quello della specificità dell’istruzione tecnica verso quella profes- sionale (e viceversa), ma è anche quello del rapporto con le altre vie formative a carattere professionalizzante, di uscite dirette sul mercato del lavoro, così come si configurano nel sistema di istruzione e formazione professionale di competenza re- gionale. Se la terminalità verso il lavoro, con gradi diversi, non può non contraddistin- guere anche l’istruzione tecnica o quella professionale “statale”, si prospetta una possibile “concorrenzialità” a questo proposito dei sistemi formativi regionali che si articolano oggi fondamentalmente in corsi di formazione triennale e anche qua- driennale così come realizzati nella Provincia di Trento o sperimentati in Regione Lombardia; corsi abilitanti soprattutto per determinare categorie artigiane; corsi brevi di recupero di qualifica per giovani fuori dall’obbligo formativo a 18 anni; apprendistato. L’aspetto concorrenziale riguarda soprattutto i corsi regionali triennali già ricordati attualmente in sperimentazione e i quarti anni; e per la scuola statale soprattutto le uscite triennali degli attuali IPS e IPSIA, a maggior ragione se la necessità di conferire a questi ultimi una valenza più direttamente professionaliz- zante portasse a ipotizzare uscite anche al quarto anno. D’altra parte una delle distinzioni possibili tra istruzione tecnica e istruzione professionale, tenuto conto tra l’altro delle necessità di contrastare l’alta disper- sione presente in quest’ultima, non potrebbe non porsi rispetto alla durata e alla rilevanza dell’esperienza di lavoro. Con altre parole, mentre gli istituti tecnici pur nella loro terminalità, non possono tenere conto dei possibili sbocchi verso l’uni- versità (con le attuali o altre modalità di transizione) gli IPS e più ancora IPSIA hanno già il problema di una professionalizzazione a breve termine, con il rilascio di qualifiche che però sono comunque di competenza regionale come si è detto. È auspicabile che questa possibile concorrenzialità si traduca non in contrap- posizione, ma in una alleanza tra stato e regioni in vista di una comune strategia che abbia per oggetto la crescita della qualità del lavoro, così necessaria per la competitività dei sistemi produttivi e l’autonomia e lo sviluppo professionale delle persone. In questa alleanza, la sola via d’uscita dalle contraddizioni normative e orga- nizzative del sistema educativo nel nostro Paese, andrebbe assunto come variabile 17 18 ormai più che rilevante il rapporto tra sviluppo locale e processi di istruzione e for- mazione. I territori, per crescere, non possono più costruirsi su funzioni commerciali o produttive e di consumo intese nei loro termini classici, così come ce li hanno con- segnati la modernità e l’industrialismo. Gli universi simbolici di riferimento sono anche, sempre di più, organici e creativi. Le relazioni tra variabili esogene ed endogene si fanno più complesse e d’altra parte i fattori di spinta si orientano sempre più verso le capacità creative piuttosto che di adattamento-tecnologico. Talento ma anche cultura nel suo senso più lato, che ricomprende arte e ambiente, sono gli ingredienti del successo delle nuove aree emergenti, mentre la loro assenza diventa predittiva di un declino. Il nome che diamo a queste determinanti della crescita è innovazione, ma nelle società della conoscenza l’innovazione è il portato di un processo creativo collet- tivo, che mette in campo soggetti istituzionali (governi, università, scuole...) ma anche sociali e collettivi che investono direttamente le persone. Ecco perché istruire e formare è importante, mostrano una correlazione posi- tiva con lo sviluppo, ma più importante ancora diventa l’apprendere formale, non formale e informale. È la capacità di apprendimento che diventa la competenza decisiva per il viaggio che ci aspetta verso le nuove terre scientifiche, culturali, produttive della post-modernità e del post-industriale. Da qui l’accento che da qualche tempo viene posto sul territorio come learning city, learning regim e più diffusamente learning community. I governi locali, le Regioni, hanno sotto questo aspetto responsabilità ancora più grandi da giocare rispetto a quella, pur rilevante, del garantire a imprese e per- sone una qualificazione più elevata del lavoro. In realtà la qualità di quest’ultimo è funzione di un più vasto insieme di variabili che fanno capo all’esperienza, sempre più densa di significati, di apprendimento. Il compito di un sistema educativo centralizzato è quello di sostenere e pro- muovere le considerazioni che lo facilitano. Ma quello di garantirlo effettivamente, rispetto ai vincoli esistenti e dare concretezza alle opportunità da creare non può che appartenere alle istituzioni locali. N° corsi N° allievi N° corsi N° allievi N° corsi N° allievi N° corsi N° allievi 1.460 25.347 4.032 72.034 5.510 96.580 5.941 107.483 2003 – 2004 2004 – 2005 2005 – 2006 2006 – 2007 Fonte: Elaborazione ISFOL su dati delle Amministrazioni regionali. 19 Capitolo II L’esperienza dei percorsi sperimentali di istruzione e formazione professionale Anna D’ARCANGELO La necessità di sostenere un “welfare attivo” che ponga l’accento sull’ap- prendimento a garanzia di protezione ed inclusione, ha visto attivare i percorsi di formazione professionale iniziale come strumento di accesso al mondo del lavoro, ma anche come leva di promozione dei giovani sul piano civile e sociale. Su questa linea più marcatamente educativa, la formazione professionale ha con- tribuito nel tempo alla costruzione di un orizzonte di senso nel quale far posto agli apprendimenti. Per studiare questa realtà formativa, e la sua evoluzione negli anni più recenti, l’ISFOL ha realizzato alcuni monitoraggi e indagini su mandato del Tavolo di par- tenariato istituzionale previsto dall’Accordo Stato-Regioni del giugno 2003. In quest’ambito le Regioni si sono impegnate a fornire all’ISFOL, all’interno del loro modello di offerta formativa, informazioni e dati su quelle tipologie che, dall’a.f.s. 2003/4, ritenevano essere materia specifica di sperimentazione dei percorsi trien- nali. La tabella seguente mostra l’evoluzione quantitativa in termini di offerta e di partecipazione. L’allestimento dell’offerta sperimentale sembra aver incontrato la domanda dei giovani: infatti osservando i dati rilevati dal monitoraggio, si nota un notevole incremento dei corsi e degli iscritti che passano dai 1460, programmati nel primo anno sperimentale, ai quasi 6.000 dell’esercizio appena concluso, con un totale di iscritti più che quadruplicato rispetto all’inizio della sperimentazione. (Tab. 1). Tab. 1 - Percorsi sperimentali e iscritti per annualità formativa 1 L’esperienza dei quarti anni sperimentali si è estesa con ottimi risultati ad alcune Regioni e Province autonome come la Lombardia (dal 2005/6), la Sicilia1 (dal 2005/6), la Provincia di Bolzano2 e la Provincia di Trento (dal 2003/4). Per quest’ultima, il 4 dicembre scorso, a Rovereto, è stato tracciato un bilancio lusinghiero delle attività di formazione: Il 92% dei i ragazzi ha trovato oc- cupazione in meno di un mese con il quarto anno, in linea con quanto era avvenuto dopo il triennio con la semplice qualifica; tuttavia i diplomati del 4° anno hanno avuto una percentuale di occupazione coerente maggiore di più di 5 punti percentuali rispetto ai qualificati (75,9% contro 70,6%). 2 OECD/CERI “Schooling for Tomorrow“, 2004. National College for School Leaders, Possible Futures: four scenarios for schooling 2030, 2003. 3 Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo dell’8 settembre 2006 “Efficienza ed equità dei sistemi europei di istruzione e formazione” 4 Vedi nota precedente. 20 Dai rapporti pervenuti emerge un panorama quanto mai vario, ma sostanzial- mente convergente verso un modello nazionale pluralistico, aperto e continuo1; un modello ancora da affinare, sviluppare e sostenere con azioni di sistema, ma valido, soprattutto perché difende tre principi essenziali e strategici: la pari dignità, la sussidiarietà ed il pluralismo educativo. Questi tre principi aiutano a superare il burocratic model già stigmatizzato dalle ricerche europee2 sull’evoluzione dei sistemi educativi, promuovendo quella personalizzazione dei percorsi che è neces- saria a garantire il successo formativo di tutti. Diversamente, e non solo in Italia, il modello della scuola unica presenta reali criticità proprio sul tema dell’equità sociale (access to equal componibil3) e dell’eguaglianza delle opportunità (compo- nibil to develop that they have set up in their lives4). Una scuola che riproduce la struttura sociale del Paese e che favorisce il successo negli studi solo ai giovani che provengono da famiglie in possesso di un forte “capitale culturale”: i figli dei geni- tori con basso livello di istruzione e bassa condizione sociale hanno infatti il 18% di possibilità di essere promossi fino ai 14 anni e solo il 2,7% consegue la laurea a conferma di un tasso di mobilità sociale in Italia pari al 6%. 1. Le modalità ricorrenti Nel considerare la ricca offerta formativa delle Regioni, l’ISFOL ha indivi- duato 18 diverse modalità ricorrenti di attuazione di percorsi, sperimentali e non, che raccolgono esperienze varie per durata e finalità. Un’offerta che interessa una fetta non indifferente di popolazione giovanile (5 ragazzi su 100 tra i 14 e i 17 anni). Da queste tipologie è possibile partire per individuare le macro-tipologie delle sperimentazioni triennali, distinte da caratteri peculiari. 1) Percorsi di Formazione professionale (Formazione integrale) 2) Percorsi di Formazione professionale integrata, in interazione con la scuola per l’insegnamento delle competenze di base (FP con prevalenza docenti di FP) 21 3) Percorsi di Istruzione integrati con prevalenza docenti di scuola (con FP entro il 20%) 4) Percorsi di Istruzione integrati con prevalenza docenti di scuola (con FP tra 20% e 50%) 5) Percorsi di Istruzione e Formazione professionale (non integrati). Tali percorsi sono stati considerati dalle Regioni, in alcuni casi, come segmenti componibili di una triennalità, in cui il modello territoriale emerge dall’apporto di più tipologie. Pertanto, modularità e componibilità dei percorsi triennali sono ele- menti basilari di cui tener conto nell’analisi delle esperienze. Al di là della molteplicità delle soluzioni sperimentali adottate possiamo dire che si siano confrontate essenzialmente due tipologie diverse: quella della forma- zione professionale integrale e quella della formazione professionale integrata. La prima, con un percorso tendenzialmente strutturato all’interno della FP; la seconda, volta a potenziare la scuola con un apporto limitato della formazione professionale. Le prime impressioni sui modelli delle sperimentazioni avevano fatto pensare all’esistenza di una netta corrispondenza tra assetto del modello organizzativo e didattico delle sperimentazioni e politiche formative complessive del sistema regio- nale: quasi si trattasse di un ritorno al principio del “cuius regio eius religio”. Da una lettura critica del monitoraggio emerge, invece, il confronto di più mo- delli di sistema di istruzione e formazione professionale, le cui regole sono in fondo dettate dalle risorse o difficoltà del territorio e dalle prassi preesistenti nelle diverse situazioni locali. Si tratta, dunque, di una scelta che riflette una reale dimensione locale. Alcuni mo- delli sono stati più efficaci, altri meno, ma nella tradizione centralistica della scuola italiana l’attuazione delle sperimentazioni triennali ha rappresentato in molte realtà un significativo momento di riappropriazione da parte del territorio. C ri te ri Fo rm az io ne pr o fe ss io na le in te gr al e Fo rm az io ne pr o fe ss io na le in te gr at a (co n p re va le nz a FP ) In te gr az io ne (co n F P en tr o il 2 0% ) In te gr az io ne (co n F P tr a 20 % e 5 0% ) Pe rc o rs i d i I FP (o sc u o la o F P) Ti to la rit à A ge nz ie fo rm at iv e ac cr ed ita te In p re va le nz a ag en zi e fo rm at iv e ac cr ed ita te Sc uo la Sc uo la A ge nz ie fo rm at iv e ac cr ed ita te o sc uo la D oc en ti co m pe te nz e di b as e In p re va le nz a fo rm at or i de lla F P In p re va le nz a do ce nt i de lla sc uo la D oc en ti de lla sc uo la D oc en ti de lla sc uo la D oc en ti de lla sc uo la o do ce nt i d el la F P At te sta zio ni e /o pr o se cu zi on e (cf r. A cc or do 2 8. 10 .0 4 e D M .8 6/ 04 ) A tte sta to d i q ua lif ic a e cr ed iti p er il ri en tro a sc u o la A tte sta to d i q ua lif ic a e cr ed iti p er il ri en tro a sc u o la Pr os ec uz io ne a ut om at ic a de l p er co rs o sc ol as tic o e at te st at o di q ua lif ic a. A tte sta to d i q ua lif ic a e cr ed iti p er il ri en tro a sc u o la A tte sta to d i q ua lif ic a e cr ed iti p er il ri en tro a sc u o la Az io ni in te gr at e A zi on i d i s ist em a A zi on i d i s ist em a Pr og et ta zi on e D oc en za A zi on i d i s ist em a M od ul i d i F P D oc en za /c od oc en za A zi on i d i s ist em a St es si im pi an to pr og et tu al e, m et od ol og ia e fig ur e pr of es sio na li A zi on i d i s ist em a St es si im pi an to pr og et tu al e, m et od ol og ia e fig ur e pr of es sio na li Ta b. 2 - Pr in ci pa li ca ra tte ris tic he d el le m ac ro -ti po lo gi e 22 Fonte: Elaborazione su Rapporto ISFOL CORSI ALLIEVI CORSI ALLIEVI Piemonte 643 11.870 652 9.546 - 19,6 Valle d’Aosta 11 143 16 186 30,1 Lombardia 1.249 23.402 1.524 30.123 28,7 Provincia Autonoma di Bolzano5 151 3.327 n.d. n.d. Provincia Autonoma di Trento 189 3.584 203 3.813 6,4 Veneto 837 14.332 905 15.844 10,5 Friuli Venezia Giulia 140 2.187 224 3.356 53,5 Liguria 107 1.860 124 2.289 23,1 Emilia Romagna 258 5.355 332 7.304 36,4 Toscana 327 6.049 579 11.797 95,0 Umbria 24 279 31 402 44,1 Marche 22 417 18 333 -20,1 Lazio 263 4.733 291 5.037 6,4 Abruzzo 86 1.433 34 594 -58,8 Molise6 1 12 3 45 Campania 295 4.315 231 4.425 2,5 Puglia 172 3.218 196 3.508 9,0 Basilicata 27 332 31 438 31,9 Calabria7 15 270 25 375 Sicilia 335 4.940 380 6.295 27,4 Sardegna 358 4.512 142 1.773 -60,7 Nord 3.585 66.060 3.980 72.461 9,7 Centro 636 11.478 919 17.569 53,1 SUD E ISOLE 1.289 19.042 1.042 17.453 -8,3 TOTALE ITALIA 5.510 96.580 5.941 107.483 11,3 Regioni 2005 - 2006 2006 - 2007 Var. %Allievi 5 I dati relativi al 2006-2007 non sono disponibili. 6 La variazione percentuale non è stata indicata perché non significativa. 7 I dati sono incompleti pertanto non è stata calcolata la variazione percentuale. 23 2. Percorsi e giovani coinvolti Come rilevato nel recente Rapporto ISFOL 2007, è in evidenza la crescita per- centuale del numero di allievi nei percorsi ex Accordo 19.06.2003 rispetto all’anno scolastico precedente (Tab. 3). L’incremento dell’ 11,3% si riferisce ai 107.483 allievi che si sono formati nei 5.941 percorsi presenti in tutte le Regioni e nella Provincia Autonoma di Trento. A fronte di un 53,1% di incremento nel numero degli studenti al Centro e di un 9,7% al Nord, si riscontra un calo nel Sud e nelle Isole (-8,3%), dovuto soprattutto alle realtà della Sardegna e dell’Abruzzo. Per altro verso bisogna considerare che, talvolta, è stata la scarsità di risorse economiche ad impedire ad alcune Regioni di soddisfare una domanda ancora più alta di questo tipo di offerta formativa. Tab. 3 - Partecipazione ai percorsi ex Accordo 19.6.2003 per regione (a.s.f. 2006-2007). 8 La domanda, probabilmente, aumenterebbe se si realizzasse un serio servizio di orientamento. L’indagine ISFOL-IARD rileva che i ragazzi di 3a media e le loro madri sembrano avere una cono- scenza scarsa e superficiale della FP, imputata “essenzialmente alla mancanza di azioni di informa- zione/orientamento”. Si sottolinea che la maggioranza degli intervistati dichiara che nessuno a scuola ha fornito informazioni in proposito. 24 Un altro elemento da considerare è la crescita di questi percorsi. Il numero degli iscritti è, infatti, rapidamente aumentato nel corso degli anni, rispondendo ad un’effettiva domanda sociale delle famiglie e dei giovani: domanda che è cresciuta mano a mano che l’offerta (e la sua conoscenza8) si sono diffuse ed allargate. Ad una prima analisi, il complessivo incremento nel numero dei percorsi potrebbe essere ricondotto: 1) in primo luogo ad una decisione istituzionale che cerca di interpretare l’orien- tamento della crescente domanda nel territorio sia da parte delle aziende che dei ragazzi; 2) in secondo luogo, alle difficoltà che attraversa la scuola e, nella fattispecie, gli Istituti Professionali di Stato (peraltro assai meglio posizionati dei CFP per condizione socio-economica dei genitori), dove alto è il numero di stu- denti ripetenti e con debiti formativi, mentre basso appare il livello degli apprendimenti secondo i test internazionali di abilità. 3. Successo formativo Dalle differenti indagini e monitoraggi dell’ISFOL sul territorio, e in sintonia con altre fonti qualificate in materia, appare un quadro abbastanza condiviso dell’ido- neità formativa della formazione professionale, a cominciare dal successo formativo. Nelle comparazioni dell’ISFOL sembrerebbe risultare, in generale, una mag- giore tenuta di sistema (e di percorso) nelle tipologie che prevedono un numero più consistente di ore di formazione professionale all’interno dei propri percorsi ri- spetto a quelle integrate con la scuola. Il miglior successo formativo potrebbe farci riflettere su un complesso di fattori: 1) lo sviluppo delle competenze realizzato in un’unità educativo-formativa, dove l’unitarietà del corpo dei formatori, senza il rischio di dualismo peda- gogico, garantisce allo stesso tempo la continuità del modello pedagogico- educativo e della metodologia di trasmissione delle competenze: la stessa per le cosiddette competenze di base e per quelle tecnico-professionali, per la cultura generale e per quella professionale, per lo studio e per il lavoro; 2) il progetto formativo fondatamente etico/educativo: valori, cultura e rap- presentazioni del lavoro sono trasmessi a partire da un modello antropolo- gico generalmente unitario, dando un marcato orizzonte di senso all’attuale apprendimento e ai futuri comportamenti professionali degli allievi; 9 Il 34,5% dei maschi affermano che passano il tempo con gli amici per fare qualche bravata e il 13,4% per fumarsi uno spinello. CNOS-FAP e CIOFS/FP, Stili di vita di allievi/e dei percorsi forma- tivi del diritto-dovere, 2007, p. 57-58. 10 Dati riferiti all’indagine campionaria sugli esiti degli scrutini e degli esami di licenza riferiti all’anno scolastico 2005/06. 11 Il punteggio della formazione professionale mostra negli apprendimenti di lettura uno scarto di appena 6 punti (per l’esattezza 385, contro i 391 dell’istruzione professionale) quando i licei sono col- locati a 525 punti e gli istituti tecnici a 463. Ultime sono le scuole medie con un risultato negli ap- prendimenti di 336 punti. Nelle competenze di numeracy lo scarto tra FP e IP è addirittura di 3 punti (da 397 a 400) mentre per le competenze scientifiche il gap si attesta ad appena 9 punti (da 405 a 414). 25 3) la flessibilità organizzativa e didattica dei percorsi di IFP, ossia la capacità di costruire a posteriori i percorsi più adatti al ragazzo, tenendo conto delle sue caratteristiche; 4) la personalizzazione dei percorsi che, nell’istruzione e formazione profes- sionale, si adatta con meno vincoli rispetto a quelli vigenti nelle scuole statali, alle esigenze dell’allievo; 5) l’interdisciplinarietà, rispetto alla struttura rigida dei curricoli scolastici; 6) la varietà didattica dell’istruzione e formazione professionale che tradizio- nalmente si è sempre esplicitata in una pluralità di contesti di apprendi- mento (aula, laboratorio, azienda ecc.) e di metodologie (giochi di ruolo, esercitazioni pratiche, simulazioni, cooperative learning ecc.); una didattica che si presenta all’allievo per “centri di interesse” più che per quadri siste- matici di nozioni teoriche; 7) l’approccio per compiti reali che realizza prodotti concreti (apprendere at- traverso il fare), richiamando in tutto il percorso i saperi con un approccio più pratico e dotato di senso. 4. L’efficacia educativa Le valutazioni “oggettive” dell’ultima indagine OCSE-PISA 2006, in relazione alla qualità degli apprendimenti acquisiti dagli allievi nei percorsi triennali, vanno, comunque, ponderate attentamente dal momento che la condizione di partenza di questi ragazzi è, per molti versi, svantaggiata rispetto ai loro coetanei. Tale condizio- ne rivela da un lato una “sofferenza formativa” fatta di percorsi accidentati, insucces- si scolastici, scarso rendimento e malessere psicologico, dove colpisce la percentuale di giovani che mostrano comportamenti tipici del disagio giovanile9. Per altro verso si rileva una condizione più precaria di questi studenti sotto il profilo socio-economi- co e culturale della famiglia. È inoltre da considerare che oltre la metà (63%) dei licenziati alla scuola media consegue il diploma con giudizi medio-bassi10, cioè con quelle carenze che sono la principale causa degli insuccessi negli studi successivi. Nonostante le condizioni di svantaggio del bacino di utenza della formazione professionale, anche nell’indagine OCSE-PISA 2006 si può rilevare una sostanziale uniformità di risultati tra istruzione e formazione professionale11. 12 ISFOL-IARD, La formazione professionale iniziale vista dai giovani, settembre 2007. 13 “There is substantial evidence that non-cognitive skills are important determinants of schooling and labour market outcomes - both directly and indirectly (through their effect on educa- tional attainment)”. Pedro Carneiro, Claire Crawford, Alissa Goodman, Centre for the Economics of Education, London School of Economics The Impact of Early Cognitive and Non-Cognitive Skills on Later Outcomes, October 2007. 14 CNOS-FAP, Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale nell’anno formativo 2004-05, Studi e Progetti CNOS-FAP, dicembre 2006, p. 13. Sull’efficacia educativa possiamo dare altri riferimenti basati sulla percezione del percorso formativo. Una valutazione che, generalmente, incontra la soddisfazio- ne degli allievi, secondo la recente indagine ISFOL-IARD12 per la quale l’81,6% dei ragazzi ritiene che i docenti di formazione professionale siano “capaci di insegnare” e “insegnino tante cose”. Inoltre, più di 8 allievi su 10 ritengono che le relazioni con i formatori siano soddisfacenti; e tali sono anche i rapporti degli allievi intervistati con gli altri ragazzi del Centro. Nell’82% dei casi il corso frequentato ha insegnato competenze professionali e ha offerto indicazioni preziose su come ci si dovrà com- portare una volta assunti13. Il 76% ritiene di aver rafforzato le proprie abilità organiz- zative e relazionali. Il 75% ritiene di aver appreso ad usare meglio il PC. Un giudizio lusinghiero, anche se i ragazzi si mostrano meno contenti dell’apprendimento delle conoscenze di base (61%) e della lingua straniera (45%), secondo l’ISFOL-IARD, e della disponibilità di risorse per la personalizzazione secondo il CNOS-FAP14. 5. Il futuro della FP Sul futuro della formazione si è a conoscenza del fatto che i percorsi triennali continueranno ad operare almeno fino alla messa a regime dell’intero processo di riforma degli ordinamenti prevista per il 2009/10 e potranno poi realizzarsi ancora come “percorsi e progetti”, come stabilito dalla Finanziaria 2007. A regime, nell’a.s. 2009/10, un decreto del Ministero della Pubblica Istruzione dovrebbe istituire un albo che comprenda gli Enti che potranno attuare tali percorsi e progetti. La concreta preoccupazione sulla continuità dell’esperienza dei percorsi trien- nali di istruzione e formazione professionale è data dal fatto che non si possano, di fatto, definire percorsi di istruzione e formazione iniziale programmati e realizzati dalle Regioni sulla base di standard nazionali, senza prevedere adeguate risorse eco- nomiche. Il quadro plausibile sarebbe di un’offerta a macchia di leopardo, dove solo alcune Regioni darebbero il loro sostegno alla formazione professionale perché svolga la sua funzione nell’ambito del sistema educativo nazionale. Queste ultime continueranno a promuovere la formazione ritenendo che ogni percorso vada considerato, senza stig- matizzazioni di valore, come risorsa del territorio utile a combattere assieme alle altre filiere l’“ereditarietà” cumulativa degli svantaggi in capitale umano. 26 Capitolo III Modello di qualità della istruzione e formazione professionale di ispirazione cristiana nel quadro della riforma del sistema educativo Dario NICOLI 1. Premesse al modello Il “Modello di qualità della istruzione e formazione professionale di ispira- zione cristiana nel quadro della riforma del sistema educativo”, realizzato in accordo tra il Centro Studi Scuola Cattolica (CSSC) della CEI e FORMA, associa- zione nazionale degli Enti di formazione professionale, mira alla creazione di un’intesa forte in tema di sistema di gestione della qualità che caratterizza le Istitu- zioni formative che si riconoscono nei 6 criteri cardinali elaborati nell’ambito del CSSC come fattori che identificano una realtà educativa di ispirazione cristiana, e precisamente: 1) servizio educativo e formativo; 2) ambiente comunitario basato sulla promozione della partecipazione; 3) luogo di educazione integrale (affettiva, fisica, cognitiva, volitiva e proget- tuale, operativa, ludica, estetica, spirituale e religiosa) della persona consi- derata nella sua singolarità; 4) luogo di educazione nella “cultura” e nella promozione della sintesi tra fede, cultura e vita; 5) valorizzazione della vocazione peculiare di ogni persona in direzione del suo pieno compimento – in rapporto alle opportunità presenti nel contesto territoriale; 6) luogo di testimonianza dei docenti, dei formatori e delle figure educative. Questo progetto sancisce il compimento di una fase di notevole trasformazione che ha coinvolto il sistema della formazione professionale dal 2000 ad oggi e che ha portato, attraverso il progetto pilota del 2002 e le sperimentazioni iniziate a par- tire dal 2003, ad una rivisitazione dell’offerta formativa specie per ciò che concerne il diritto-dovere di istruzione e formazione. Tale cambiamento ha mirato a delineare un’offerta formativa dal carattere ad un tempo educativo, culturale e professionale, in grado quindi di consentire la crescita integrale della persona umana, nel quadro della prospettiva europea che sostiene la necessità di formare una nuova figura di cittadino in grado di affrontare le sfide pre- senti nella società cognitiva. 27 28 Ciò ha voluto significare il superamento, ma nel contempo l’inclusione, del- l’impostazione tradizionale - iscritta nella legge 845 del 1978 - che attribuiva alla formazione professionale una mera valenza di “strumento della politica attiva del lavoro” dal carattere di “interfaccia” tra scuola e mondo del lavoro. Tale nuova im- postazione risulta perfettamente coerente con il nuovo Titolo V della Costituzione introdotto con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 che ha attribuito alle Regioni e Province autonome materia esclusiva in tema di istruzione e formazione professionale, con rilevanza etico-sociale e non solo economica. Si tratta di un cambiamento ben evidenziato dal “Progetto pilota per il secondo canale del sistema di istruzione e formazione” elaborato dal Gruppo Scuola-Lavoro della Conferenza Episcopale Italiana nel febbraio del 2002, là dove si affermava che “nella gran parte dei Paesi europei ed extraeuropei che vengono spesso indicati come riferimento per il confronto sui sistemi formativi, la formazione professionale ha acquisito nel tempo uno statuto connotato da una natura complessa ed articolata. Non si tratta più – in forma ingenua – di una prassi addestrativa che mira unica- mente all’acquisizione di abilità manuali, ma diviene una prospettiva dotata di valenze culturali, pedagogiche, sociali e professionali. Ciò sulla base di un proprio approccio peculiare, centrato sull’attivazione del soggetto in riferimento ad un ruolo lavorativo e sulla contestuale acquisizione - mediante una metodologia basata su centri di interesse - di saperi intesi come strumenti di riflessione intorno alla prassi, approccio che consente a pieno titolo di intervenire nel processo di costru- zione dell’identità personale, della sua dimensione sociale oltre che lavorativa e professionale”. 2. Valore delle sperimentazioni Questa impostazione è stata poi confermata ed approfondita nelle varie speri- mentazioni che sono state attuate e che, in prevalenza, si sono fondate sull’opzione per un sistema di istruzione e formazione con carattere di organicità e continuità, che prevede quindi percorsi triennali di qualifica e successivamente ulteriori per- corsi, collocati in un organico processo di sviluppo nella formazione professionale superiore. Le sperimentazioni che sono state effettuate hanno registrato esiti largamente positivi, così come indicato nei vari rapporti di monitoraggio effettuati. Nell’ultimo comparso in ordine di tempo si afferma che emerge una notevole convergenza in ordine ad un nucleo di opzioni metodologiche e di strumenti di intervento, tale da poter dar vita ad un modello formativo consistente, non in- fluenzabile da opzioni ideologiche, preferenze metodologiche ed organizzative, interessi in definitiva non compatibili con la formazione. Al centro di questo nucleo centrale si riscon- trano quattro elementi: la personalizzazione dei percorsi formativi, la pedagogia dei com- piti reali e del successo formativo, la pluralità delle opzioni, l’apertura al contesto sociale nella prospettiva di una comunità formativa territoriale. 15 NICOLI D., MALIZIA G., PIERONI V., Esiti del monitoraggio dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale (sperimentazioni), Rassegna CNOS, 1, 2006, 66. 29 Si tratta di fattori che valorizzano le migliori tradizioni di intervento formativo in questi ambiti e che segnalano la necessità di superare un approccio tradizionale basato sull’episte- mologia delle discipline e sulla prevalenza della formula liceale per sostenere e diffondere una proposta formativa sistematica e consistente basata sulla cultura del lavoro e della professionalità intese come realtà entro cui si possono cogliere in modo diretto e vitale le dimensioni di una nuova cultura della cittadinanza propria della società cognitiva15. Va ricordato che l’impegno sperimentale, che ha visto un notevole protago- nismo degli Enti di formazione professionale di ispirazione cristiana, ha costituito in effetti il più grande sforzo di innovazione pedagogica degli ultimi anni nel nostro Paese, ed ha consentito il passaggio ad una nuova stagione del sistema di FP tale da costituire un nuovo inizio del proprio servizio educativo. 3. Modello di riferimento Il modello che qui si presenta costituisce il completamento di questo impegno e propone agli Enti formativi di ispirazione cristiana una metodologia di gestione della qualità che si basa sui seguenti criteri: 1) offerta formativa avente valenza educativa, culturale e professionale; 2) modello gestionale caratterizzato dai principi di autonomia, relazionalità e flessibilità al servizio di soluzioni formative multiple, di cui il “corso” non è l’unica espressione, ma una delle tante accanto ai percorsi, alle attività destrutturate, alle iniziative di alternanza…; 3) modello progettuale teso alla costruzione di piani formativi personalizzati miranti al successo e non solo alla certificazione; 4) modello pedagogico-didattico che enfatizza la centralità del compito reale, dell’interdiscipinarità, della valutazione autentica; 5) modello organizzativo di rete nella logica dei poli formativi e dei Campus. L’impianto generale del progetto presenta tre passaggi: 1) esso si riferisce, dal punto di vista normativo, ai livelli essenziali delle pre- stazioni così come definiti dallo schema di decreto sul secondo ciclo approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri il 27 maggio 2005, che originerà una revisione generalizzata dei dispositivi regionali di accre- ditamento; 2) ma una politica della qualità non rappresenta una mera trascrizione delle mete e dei vincoli normativi; da qui la necessità di delineare il modello di riferimento ovvero l’aspetto formale ed organizzativo che identifica l’ap- proccio alla qualità adottato; 16 ISFOL, Guida all’Autovalutazione per le strutture scolastiche e formative, Roma, 2005. 30 3) infine, tale modello trova sostanza nei criteri della politica della qualità, ovvero gli aspetti contenutistici e sostanziali che qualificano la presente proposta come modello di qualità dell’istruzione e formazione professio- nale di ispirazione cristiana. Il modello adottato è conforme ai livelli essenziali delle prestazioni (LEP) che identificano le stesse Istituzioni formative a seguito della revisione del sistema di accreditamento, sulla base dei seguenti fattori: natura del servizio, che acquisisce in modo pieno una valenza educativa, culturale e professionale; modello gestionale, caratterizzato dai principi di autonomia, relazionalità e flessibilità al servizio di so- luzioni formative multiple, di cui il “corso” non è l’unica espressione, ma una delle tante accanto ai percorsi, alle attività destrutturate, alle iniziative di alternanza…; modello progettuale, teso alla costruzione di piani formativi personalizzati miranti al successo e non solo alla certificazione; modello pedagogico-didattico, che enfa- tizza la centralità del compito reale, dell’interdisciplinarità, della valutazione auten- tica; modello organizzativo di rete, nella logica dei Campus e dei poli formativi. Il modello formativo, elaborato a partire dalla tradizione della formazione pro- fessionale, adeguatamente rinnovato alla luce delle opzioni culturali e metodologiche indicate per un sistema di istruzione e formazione professionale di pari dignità, coerente con la Guida ISFOL sull’autovalutazione16, risulta pertanto una notevole risorsa per il superamento delle criticità storiche del nostro sistema educativo, e per avvicinare il nostro Paese all’Europa anche in questo ambito critico. Per questo motivo il modello qui descritto costituisce una risorsa preziosa che presentiamo a Regioni e Province Autonome al fine di superare definitivamente la stagione della precarietà e della aleatorietà, attraverso una proposta di qualità, plura- listica, garante degli standard comuni, di pari dignità, entro un sistema stabile e orga- nico che garantisca il soddisfacimento dei diritti educativi e formativi dei cittadini. 4. Una proposta a carattere “espansivo” La proposta che qui avanziamo non è di natura preclusiva, ma presenta un ca- rattere espansivo che si apre in diverse direzioni. Innanzitutto verso gli utenti dei percorsi di istruzione e formazione, delle loro famiglie se minori, inoltre dei soggetti che concorrono all’orientamento e all’in- contro tra offerta e domanda di istruzione e formazione, al fine di consentire loro di effettuare scelte consapevoli sapendo trarre da quanto proposto dagli enti di ispira- zione cristiana criteri di buona qualità della formazione. L’apertura all’utenza si qualifica anche in riferimento alla figura dell’adulto con le differenti necessità di educazione e formazione continua e permanente, oltre che di orientamento ed accompagnamento, poiché la presente proposta intende 17 Il riferimento è al testo, in cui ci riconosciamo, a cura di CAMPIONE V., FERRATINI P., RIBALZI L., Tutta un’altra scuola. Proposte di buon senso per cambiare i sistemi formativi, Il Mulino, Bolo- gna, 2005. 31 l’educazione come l’ambito adeguato nel quale si collocano tutte le domande for- mative delle persone in forza di una visione antropologica che mira essenzialmente alla valorizzazione delle capacità buone di ciascuno tramite i differenti strumenti che ne favoriscono la trasformazione in competenze reali, agibili nei vari contesti in cui si esprime la cittadinanza. Ciò significa che il modello di qualità che qui si propone non si riferisce esclusivamente alle attività in diritto-dovere, ma si espande in direzione di ogni macro-area del sistema educativo di istruzione e formazione, in forza della valenza modulare delle sue componenti con particolare riferimento al- l’accesso degli adulti ai percorsi che conducono ai titoli di studio professionaliz- zanti, alla formazione continua e permanente, all’orientamento. Inoltre, l’apertura della proposta si rivolge alle istituzioni responsabili del go- verno del sistema di istruzione e di formazione. L’opera di rinnovamento e di ri- forma di tale sistema pare a noi segnata da notevoli sforzi, ma anche da contrasti ed incertezze che creano disorientamento e rischiano di inficiare quanto di positivo viene via via elaborato, se ciò accade in assenza di un’intesa di fondo tra gli attori, connotata dal “buon senso”17 e dalla valorizzazione di tutte le risorse disponibili per contrastare le sfide del sistema che in Italia presentano un carattere particolarmente critico. In questa direzione vogliamo rappresentare verso le istituzioni una solleci- tazione per rivedere le procedure di accreditamento in una prospettiva di qualità autentica di natura educativa e formativa, in coerenza con i “Livelli essenziali delle prestazioni” presenti nell’ordinamento nazionale, così da rendere effettivo il si- stema educativo a vantaggio dei destinatari e dell’intero Paese. Inoltre, la nostra proposta si apre verso l’esterno poiché la tematica della quali- tà necessita di un costante impegno volto al benchmarking ovvero al confronto con altre esperienze al fine di cogliere modelli e pratiche differenti e migliorare in modo continuativo la nostra proposta. È mirante a tale scopo, ad esempio, la coerenza che è stata cercata con la già citata Guida ISFOL all’Autovalutazione, ovvero la versio- ne italiana del testo preparato dal Technical Working Group on Quality con il sup- porto del CEDEFOP; questa apertura ha anche lo scopo di cogliere la tendenza, già in atto in diversi Enti aderenti, all’ampliamento degli ambiti geografici di riferimen- to della propria azione, così da sviluppare un cammino di respiro mondiale. 5. Decalogo del sistema educativo di istruzione e formazione Si propongono di seguito, in termini sintetici, gli elementi irrinunciabili di un sistema di Istruzione e formazione professionale di qualità, in grado di garantire il successo formativo a tutti i destinatari, nessuno escluso, nella prospettiva della for- mazione lungo tutto il corso della vita. 1) Cultura del lavoro e polivalenza formativa: una delle cause che motivano la particolare situazione critica del nostro sistema, ed in particolare il grave fenomeno della dispersione scolastica, è da rintracciare nella carenza di una chiara identità dei percorsi formativi professionalizzanti, che hanno subito negli anni un processo di strisciante liceizzazione che ha circoscritto la cultura tecnica e professionale ad un ruolo sempre più secondario. Oc- corre mirare ad una valorizzazione di tale cultura in una prospettiva piena- mente educativa, culturale e professionale sulla base di poche grandi aree formative ed un numero essenziale di figure professionali tali da consentire di disegnare percorsi a forte carattere polivalente, pienamente rispettosi degli standard fissati, che rendano possibili scelte progressive e facilitino i necessari passaggi tra i percorsi. 2) Metodologia: l’elemento peculiare di tale proposta sta nella metodologia della personalizzazione e nella pedagogia del compito reale. Per persona- lizzazione si intende lo sforzo mirante ad adattare i percorsi formativi alle caratteristiche ed alle necessità di ogni singola persona, nessuna esclusa, attraverso la combinazione di attività formative di gruppo classe, di gruppo di livello ed elettive. Il compito reale rappresenta il centro della metodologia che si propone attraverso progetti concreti (in particolare il “capolavoro” professionale) di suscitare l’interesse dei giovani e di mobi- litare le sue risorse in vista della soluzione dei problemi posti; in tal modo essi “imparano facendo” giungendo ad un autentico sapere personale riguardante tutte le aree formative coinvolte. 3) Visione educativa e missione: per attuare una siffatta metodologia, è neces- sario che le istituzioni scolastiche e formative presentino una missione chiaramente educativa e che di conseguenza le attività di istruzione e forma- zione siano fondate su un chiaro ethos educativo che persegua il bene dei de- stinatari come criterio centrale di ogni azione. Ciò pone in gioco la dinamica culturale e valoriale della comunità educativa, ovvero un ambiente ricco di relazioni, risorse, competenze, connotato da una coesione valoriale e cultu- rale in grado di favorire la piena realizzazione dei destinatari e del contesto di riferimento. Per comunità educativa si intende un ambiente accogliente, dove ognuno può esprimersi personalmente, trovare la propria strada e dare il meglio di sé in un clima sereno e cordiale. 4) Pluralismo formativo e sussidiarietà: la situazione del sistema formativo ita- liano, per molti aspetti più critica rispetto a quella degli altri paesi europei, necessita, per essere fronteggiata, della mobilitazione di tutte le risorse dispo- nibili, senza preclusioni ideologiche, al fine di creare un sistema ad un tempo unitario e pluralistico, coerente con il principio di sussidiarietà. I centri di formazione professionale, attraverso le sperimentazioni degli ultimi quattro anni, hanno saputo elaborare una proposta innovativa, dal carattere piena- mente educativo, culturale e professionale, in grado di contrastare i processi 32 di dispersione e di consentire un più elevato livello culturale dei giovani. È bene che tale patrimonio venga riconosciuto e pienamente valorizzato nello sforzo di qualificazione generale del sistema nella logica del diritto-dovere di tutti e di ciascuno, nessuno escluso. 5) Pari dignità: ad ogni istituzione scolastica e formativa con un’offerta for- mativa coerente con i Livelli essenziali delle prestazioni sanciti dagli ordi- namenti, deve essere garantito il principio costituzionale dell’autonomia ed inoltre la pari dignità che comporta la piena titolarità dei percorsi formativi tri-quadriennali e di formazione superiore che hanno raccolto un numero congruo di adesioni da parte degli allievi. Sta all’autonomia di ogni istitu- zione decidere quali soluzioni organizzative adottare – variando tra le dif- ferenti possibilità, compresa quella dei percorsi integrati – in modo da cor- rispondere nel modo migliore possibile alle esigenze dei destinatari e del contesto. Comportamenti di natura diversa da parte delle istituzioni che governano il sistema non solo contrasterebbero tali principi, ma sarebbero anche lesivi dei diritti-doveri educativi e formativi dei cittadini che si vedrebbero in tal modo depauperati di opportunità in grado di realizzare il proprio progetto personale. 6) Risorse professionali: per avviare percorsi di istruzione e formazione pro- fessionale di qualità è necessario personale preparato dal punto di vista tecnico-professionale, ma anche fortemente motivato in senso educativo e disposto al lavoro collegiale. Ciò garantisce un ethos educativo e consente di delineare progetti formativi unitari, ancorché personalizzati, in cui le diverse aree formative e funzioni concorrano al successo formativo dei de- stinatari. Serve la figura del coordinatore-tutor, l’articolazione della figura del docente, la qualificazione ed anche l’abilitazione del personale con in- terventi formativi mirati, infine la creazione di comunità professionali dei formatori che si arricchiscano tramite lo scambio e la riflessione sulle buone prassi. 7) Ambiente e risorse tecniche: anche l’ambiente logistico deve presentare una chiara finalizzazione educativa, attraverso spazi e opportunità tali da favorire l’apprendimento: non solo aule, ma anche laboratori, spazi di incontro, centri risorse, strutture per la convivenza ed il tempo libero for- mativo. Allo stesso modo, le dotazioni tecniche debbono essere idonee ad un impegno educativo che richiede strutture aggiornate, accessibili, in grado di sostenere processi di apprendimento mirati a figure professionali aventi caratteristiche tali da consentire un inserimento lavorativo coerente. 8) Strategie di apprendimento: la qualità dei percorsi formativi richiede la presenza dei processi decisionali, programmatori ed organizzativi, ma ri- chiede soprattutto l’attivazione di strategie di apprendimento adeguate, che prevedano attività di orientamento ed accoglienza, progetti formativi perso- nalizzati centrati su unità di apprendimento interdisciplinari ed a carattere 33 laboratoriale, processi di accompagnamento e di tutoraggio che consentano l’ascolto del destinatario e l’individuazione di eventuali fattori di criticità. Inoltre sono richieste pratiche di coinvolgimento della famiglia e di valo- rizzazione della rete territoriale. 9) Sistema di valutazione: un modello formativo di qualità richiede un sistema di valutazione articolato in grado di verificare a) gli apprendimenti degli allievi secondo una prospettiva formativa centrata sul portfolio e sulle evi- denze dei loro progressi (in grado non solo di verificare ciò che sanno, ma ciò che sanno fare con ciò che sanno); b) il successo delle loro successive attività formative e lavorative; c) le competenze degli operatori e della stessa struttura formativa. Ciò entro un piano di gestione della qualità uni- tario e completo da parte dell’istituzione formativa ed aperto a monitoraggi e verifiche esterne. 10) Partenariato e reti formative: l‘offerta formativa professionalizzante deve privilegiare patti di partenariato fra tutti i soggetti interessati (istituzionali, economici, culturali, della ricerca), in riferimento alle aree ed agli ambiti maggiormente sensibili per lo sviluppo del territorio. Ciò significa aderire ad una prospettiva di governo dello sviluppo che enfatizza il ruolo della cultura e delle risorse umane creando reti in cui i soggetti dell’istruzione e della formazione, dell’economia e del lavoro, della ricerca, cooperino per la qualificazione dell’offerta formativa garantendo le miglior risorse specie verso i livelli alti del sistema. 6. Tre macro-azioni per un sistema educativo organico La delineazione di un sistema educativo organico è possibile tramite un cam- mino basato su tre macro-azioni: 1) nuovo accreditamento; 2) poli formativi; 3) ri- sorse umane. 6.1. Nuovo accreditamento La proposta per il sistema di accreditamento – coerente in linea di massima con i criteri dell’obbligo di istruzione, salvo verifica rispetto al regolamento finale – è riassunta nella tabella seguente che riporta i criteri di riferimento specifici per ogni requisito individuato. 34 LEP (D.Lgs 226/2005) UNI EN ISO 9000:2000 SCUOLA DI ISPIRAZIONE CRISTIANA Missione (finalità esclusiva) e valori (ispirazione cristiana) Applicazione contratto di settore - Ispirazione cristiana Proposta educativa/formativa Art. 16 (famiglia) Politica per la qualità - Proposta educativa - Responsabilità della famiglia Offerta formativa Art. 16, 17 § 7.2 - Ambiti preferenziali ed esclusivi - Rete territoriale (Campus/Polo) Struttura organizzativa e ruoli Art. 21 § 5 - Comunità educante Risorse professionali Art. 19 Art. 21 § 6.1 - Ispirazione cristiana - Vocazione personale Risorse strutturali e tecnologiche Art. 21 § 6.2, 6.3 - Essere all’avanguardia del progresso Strategie dell’apprendimento Art. 18 Art. 20 - Comunità educativa - Opzioni metodologiche - Persona in formazione - Guide di settore - Aziende/Scuole Processi Pianificazione e controllo (strategico, economico, di sq) Progettazione e sviluppo Erogazione Valutazione miglioramento Artt. 18, 19, 20, 21 § 7 § 8 - / Risultati Apprendimenti Impatto sociale Sviluppo delle competenze interne (*) Livello di servizio al territorio Risultati economici Art. 21 FONTI DI RIFERIMENTO PER VALUTARE I REQUISITI REQUISITI DEL MODELLO 35 Lo statuto, o altri documenti costitutivi istituzionali, contengono tra le finalità dell’Ente riferimenti alla forma- zione professionale ed ai principi di ispirazione cristiana? Esiste una carta dei valori (o documento interno analogo) che specifica in modo esaustivo i valori che denotano l’ispirazione cristiana dell’Ente ? Nei documenti promozionali (Brochure di presentazione, Cataloghi dei corsi, Sito web di presentazione) si fa esplicito riferimento alla mission ed ai valori dell’Ente? Le politiche di gestione del personale fanno riferimento chiaro ed esplicito a mission e valori dell’Ente? Gli esiti dell’ascolto interno ed esterno denotano visibilità della mission dell’Ente in più del 55% dei casi? Regolamenti interni, direttive e disposizioni organizzati- ve/disciplinari fanno riferimento esplicito alla missione ed ai valori di cui al §1.1? Contratto formativo, e documenti relativi all’iscrizione ai corsi fanno riferimento esplicito alla missione ed ai valori di cui al §1.1 ? Esiste una proposta educativa che esplicita in modo esau- stivo la coerenza con la mission e coerente con i principi delineati al § 1.1 ? Gli esiti degli ascolti interni ed esterni forniscono evidenze di recepimento della mission nella proposta educativa in più del ≥ 55% dei casi ? Esistono documenti che definiscono in modo chiaro le modalità (metodi e strumenti) seguite per agevolare e conseguire la corresponsabilizzazione e cooperazione con le famiglie (e loro Associazioni) nel progetto educativo ? Gli esiti degli ascolti interni - esterni forniscono evidenze della integrazione con il ruolo educativo della famiglia in più del 55% dei casi ? REQUISITO SPECIFICO 1. Mission e valori ITEM DI VALUTAZIONE 1.1 1.2 1.3 2.1 2.2 L’Ente ha definito e formalizzato la propria mission ed i propri valori in documenti istituzionali? La mission viene comunicata, condi- visa e diffusa nei momenti istituzionali dell’Ente? I principi ed i valori declinati nella mission trovano effettivo riscontro nelle direttive regolamentari dell’Ente? L’Ente ha definito una proposta educa- tiva coerente con la propria mission? La proposta educativa delinea esplici- tamente e realizza la corresponsabilità e la cooperazione con le famiglie ed eventuali loro Associazioni nel pro- getto educativo? 2. Proposta educativa Si propongono ora gli item di valutazione sottoforma di domande da porsi di- rettamente in fase di autovalutazione. 36 % Ore corso art. 17 (D.Lgs. 226/2005) sul totale ore corso erogate Esiste evidenza di un riesame sistematico e documentato dell’offerta formativa in funzione di specifiche analisi dei bisogni formativi territoriali (quantificate) e/o di stimoli provenienti dai portatori di interesse ? Qual è la % di portatori di interesse che rilevano almeno adeguata la rispondenza dell’offerta formativa alle esigenze del territorio ? % Ore corso art. 17 con variazioni/innovazioni metodolo- giche. % Ore corsi art. 17 svolti in partnership % di corsi in cui si hanno accompagnamenti settimanali in azienda, documentati da verbali. La struttura organizzativa è descritta compiutamente da uno o più documenti collegati indicanti univocamente responsabilità e autorità sui processi e relative competenze? Gli esiti dell’ascolto interno (personale dipendente e collaboratori esterni) denotano conoscenza finalità e responsabilità di ruolo ? Indicare la % risultante dagli ascolti interni. Esiste evidenza di modalità strutturate per la comunicazione all’esterno dei riferimenti organizzativi. Gli esiti dell’ascolto esterno indicano la disponibilità di informazioni chiare ed esplicite circa le responsabilità nell’Ente/Sede Operativa. Indicare la % risultante dagli ascolti esterno Esistono documenti che descrivono le competenze (espresse in termini di crediti formativi) attese di ruolo e responsabilità dei vari ruoli. Gap medio pro-capite (in % sui crediti formativi previsti in ore), come desunto dai Piani di Formazione interna REQUISITO SPECIFICO 3. Offerta formativa ITEM DI VALUTAZIONE 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5 4.1 4.2 4.3 L’offerta formativa risulta coerente con la proposta educativa? L’offerta formativa viene riesaminata periodicamente ed adeguata alle esigenze sociali e culturali del territorio? L’offerta formativa, negli ambiti valoriali sopra definiti, contiene metodologie didattiche innovative? L’offerta formativa prevede integrazione e networking con altri attori della formazione presenti sul territorio? L’Ente, a partire dal secondo anno, realizza sistematicamente gli accompagnamenti (almeno una visita ogni settimana) per gli allievi che svolgono attività di stage e alternanza nelle imprese presenti nel contesto? L’Ente ha definito in modo formale la propria struttura organizzativa in termini di responsabilità ed autorità sui processi, competenze e relazioni? L’Ente ha diffuso e illustrato esplicita- mente al personale ed all’esterno la struttura organizzativa e di responsabi- lità dell’Ente? Il personale di staff dell’Ente possiede le competenze previste dai documenti organizzativi? 4. Struttura organizzativa e ruoli 37 % docenti ed esperti con curriculum conforme. Gli ascolti interni ed esterni rilevano un’adeguata condivisione ed attivazione della proposta educativa da parte del personale docente? Indicare la % di casi in cui si rileva una adeguata condivisione. Le risorse strutturali facenti capo alla Sede Operativa sono conformi agli standard regionali? Le risorse tecnologiche ed infrastrutturali facenti capo alla Sede Operativa risultano conformi agli standard regionali. Qual è la % di portatori di interesse e collaboratori interni che rilevano adeguato l’aggiornamento tecnologico della Sede Operativa? Esiste una procedura documentata ed effettivamente attuata, con responsabilità assegnate univocamente. % di corsi coerenti con la Proposta Educativa. Esiste ed è conosciuto dagli operatori un documento che definisce l’architettura processuale coerentemente alle disposizioni riportate al § 8.3.2. I processi individuati coprono tutte le aree previste dalla Guida ?(§ 8.3.2.1) Gli esiti dei processi di erogazione e di miglioramento soddisfano le soglie definite (vedi Tabella Esiti Processi § 8.3.2.1). REQUISITO SPECIFICO 5. Risorse professionali ITEM DI VALUTAZIONE 5.1 5.2 6.1 6.2 6.3 7.1 Il personale direttamente coinvolto nell’attività formativa ed educativa condivide l’impostazione della pro- posta educativa e mostra attivamente di tradurla nella pratica giornaliera? Le risorse strutturali sono adeguate alla tipologia ed al “volume” delle atti- vità delle Sedi Operative. Le risorse tecnologiche ed infrastrutturali sono adeguate alla tipologia ed al “volume” delle attività delle Sedi Operative? Le tecnologie sono aggiornate rispetto allo stato dell’arte? 6.4 Le strutture ed infrastrutture vengono mantenute in buono stato coerente- mente con il loro utilizzo previsto (sicurezza e funzionalità)? Le strategie dell’apprendimento delineate nei progetti formativi riflettono compiutamente le dimensioni educative delineate nella proposta formativa? 8.1 L’Ente ha pianificato i processi princi- pali in coerenza con mission e proposta educativa? 8.2 I processi individuati garantiscono la copertura delle aree fondamentali per l’efficace ed efficiente governo di un Ente? 6. Risorse strutturali e tecnologiche 7. Strategie dell’apprendimento 8. Gestione processi Il personale docente è in possesso dei requisiti professionali definiti dalla Conferenza Stato Regioni ? 38 Conformità agli Standard Regionali Indice di Successo Formativo Qual è il livello di soddisfazione medio dei portatori di interesse ? Indice di occupazione maggiore o uguale agli Standard Regionali ? Qual è la % di collaboratori interni soddisfatti del proprio sviluppo professionale e del proprio contributo ? Indicare la % media sugli ultimi 2 esercizi. Ore annue medie pro-capite di formazione sviluppo. REQUISITO SPECIFICO 9. Risultati ITEM DI VALUTAZIONE 9.1 Gli apprendimenti risultanti dall’attività della Sede Operativa sono qualitativamente accettabili? 9.2 L’attività della Sede Operativa ha prodotto impatti positivi sul contesto socio-economico di riferimento? 9.3 Le risorse umane e professionali che hanno operato sono soddisfatte del loro contributo e sviluppo? 6.2. Poli formativi Il lavoro di ricerca e di riflessione si è concluso con una proposta di tipologie di reti formative significative per il sistema di istruzione e formazione professio- nale, così delineate: 1) Integrazione di sistema a livello territoriale È una realtà aggregativa rivolta a tutti gli organismi formativi, si propone di dare vita a reti territoriali composte da istituzioni erogative (scuole, centri di forma- zione, centri di orientamento…), anche d’intesa con Provincia e Comuni, sulla base della condivisione di un disegno di rinnovamento pedagogico attento al bene dei destinatari, nessuno escluso, con particolare riferimento a: a) orientamento e bilancio, b) didattica della personalizzazione e LARSA, c) valutazione tramite rubriche riferite a competenze chiave o essenziali, d) gestione dei crediti formativi, e) formazione del personale e comunità di pratiche, f) progetti destrutturati per combattere la dispersione e il disagio giovanile. Questa tipologia di rete prevede in sostanza una rete di istituzioni a livello territoriale che presenti un’offerta di servizi e di azioni di sistema che vanno dall’o- rientamento alla gestione dei passaggi e dei LARSA. Queste reti che si stanno sviluppando fortemente in vari territori, rappresen- tano il livello necessario di partenariato che ogni organismo formativo dovrebbe garantire. Ciò per uscire dal rischio della autoreferenzialità e per venire incontro alle necessità degli adolescenti e dei giovani, oltre che degli adulti, che sollecitano 39 il passaggio dal riferimento al corso (unità omogenea di persone che perseguono un’identica meta entro un gruppo classe totalmente stabile) a quello del percorso personale, collocato necessariamente entro gruppi di soggetti in formazione, ma con una dinamica più attenta alle necessità di ciascuno. Infatti, il successo forma- tivo si persegue superando la logica della selezione del gruppo omogeneo (condi- zione per certi versi impossibile nell’attuale realtà sociale e culturale) e scegliendo la logica della risposta a tutte le esigenze formative coerenti con le competenze della struttura erogatrice. 2) Offerta formativa organica (Campus) Si tratta di una tipologia che si riferisce ad una rete che prevede un’offerta formativa organica, tramite un’intesa tra organismi omogenei che presentano un’of- ferta formativa completa comprendente in particolare sia percorsi liceali, sia percor- si di istruzione e formazione professionale. Tale partenariato riguarda quindi l’offerta formativa in senso proprio; le condizioni perché ciò si possa realizzare sono: a) condivisione da parte di tutti gli organismi partecipanti (scuole, centri di formazione professionale) di una visione educativa sostanziale; b) rispetto delle prerogative di ciascuno: ciò significa che l’offerta di istruzione e formazione professionale viene affidata all’Ente storico là dove questo esiste e comunque in ogni ambito in cui è possibile attivarne la pre- senza; c) definizione di un “governo di rete” del Campus che preveda una buona capacità di cooperazione. Il Campus è quindi un luogo fisico nel quale sono compresenti percorsi liceali e percorsi di istruzione e formazione professionale, avendo garantita a ciascuno di essi la propria identità ordinamentale e curricolare, anche tramite convenzioni che non paiono limitate ad un mero fenomeno aggregativo, ma prevedono il coinvolgi- mento, oltre alle istituzioni scolastiche e formative, delle associazioni imprendito- riali del settore economico e tecnologico di riferimento e degli enti locali. 3) Polo formativo Gli organismi formativi che condividono lo stesso settore o area professionale e che mirano all’eccellenza in tale ambito, possono dare vita ad un’intesa comune, anche a livello sovra-territoriale (provinciale-regionale, nazionale ed europeo), coinvolgendo anche associazioni imprenditoriali e professionali, università e centri di ricerca e sviluppo, con l’intento di attivare iniziative stabili di formazione supe- riore, alta formazione, formazione continua e permanente, progetti di innovazione metodologica e tecnologica, ricerche ed elaborazioni, strutture di supporto alla for- mazione (es.: certificazioni specifiche, prove e collaudi…), qualificazione della alternanza formativa anche con esperienze stabili all’estero. Si tratta di un vero e proprio polo per l’eccellenza formativa; esso si riferisce non già ad una concezione in senso lato di eccellenza intesa come tensione costante 40 a fare bene le cose e a migliorarsi continuativamente (in tal senso ogni organismo formativo deve mirare all’eccellenza), bensì ad un’accezione specifica che indica una rete sovra-territoriale tra organismi vari coinvolti nell’innovazione professio- nale, tecnologica e formativa entro uno specifico settore. È il caso, ad esempio, dell’ambito grafico, che richiede la creazione di una rete nazionale e sovranazionale di Centri e Istituti che condividono un progetto di inno- vazione professionale, culturale, metodologico, tecnologico e organizzativo, assieme ad enti e organismi interessati all’innovazione del settore, così da massi- mizzare gli sforzi, diffondere le buone prassi, rendere stabili i livelli di qualità rag- giunti, realizzare centri pilota, dare evidenza alla propria proposta e alla propria offerta. L’intero settore industriale, a causa dei processi di innovazione in atto che non possono essere presi in carico da una singola struttura, esige una strategia di centri pilota di tal genere, ma ciò vale anche per l’ambito del turismo, dei servizi alla per- sona e alla comunità, dell’agricoltura e così via. 4) Associazione di enti per la qualità dell’offerta formativa Si tratta di intese che si vengono a costituire entro organismi omogenei dal punto di vista della natura culturale e giuridica, volti a costituire una sorta di “so- vraorganizzazione” in grado di affrontare nel miglior modo possibile un processo straordinario di innovazione strategica, metodologica e organizzativa del proprio settore. È il caso dell’Associazione degli enti di formazione professionale della Lom- bardia che hanno costituito una rete di progettazione e coordinamento per la speri- mentazione dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale. Si tratta di quella tipologia di rete che Manuel Castell definiva “consorzi di standard” che associano il maggior numero possibile di imprese presenti in un determinato settore, allo scopo di vincolarle ad uno standard tecnico definito solita- mente dal leader del settore. In questo senso, la qualità dell’offerta formativa viene perseguita in due modi: a) elaborazione e realizzazione di progetti di grande valore innovativo volti a quali- ficare l’insieme dell’offerta formativa di un ambito formativo solitamente tramite lo strumento sperimentale; b) creazione di modelli di qualità che impegnano i membri a garantire certi requisiti ed a perseguire in forma ordinaria ciò che è stato sperimentato nella prima fase. In particolare, per garantire dinamicità e radicamento alle azioni, si propone di identificare le aree formative aventi carattere di rilevanza per il territorio di riferi- mento, così da costituire poli formativi di eccellenza. Questi rappresentano dei veri e propri patti sottoscritti fra tutti i soggetti che concorrono alla qualità dell’offerta formativa nel rispettivo ambito di riferimento, e precisamente: Regione ed enti lo- cali, Associazioni imprenditoriali, di categoria e sindacali, Istituzioni scolastiche e 41 istituzioni formative, Università, Centri di ricerca. Tali poli, dotati di una struttura gestionale che consenta loro di svolgere al meglio le proprie funzioni, hanno i se- guenti compiti: a) individuare le figure professionali necessarie allo sviluppo equilibrato del- l’ambito/settore e le caratteristiche peculiari di queste sotto forma di com- petenze essenziali; b) identificare i fattori di qualità e di innovazione dell’offerta formativa con particolare riferimento alle tecnologie ed alle esperienze di stage/tirocini ed alternanza formativa, oltre che dei servizi connessi all’offerta stessa (es.: convittualità); c) delineare piani di informazione e di orientamento sia degli operatori sia dei giovani e delle loro famiglie; d) definire le modalità del coinvolgimento dei vari attori del polo formativo al fine di concorrere alla qualificazione dell’istruzione e formazione profes- sionale; e) elaborare indicazioni circa l’offerta territoriale in rapporto ai fabbisogni ed alle dotazioni strutturali e di servizio delle istituzioni scolastiche e forma- tive coinvolte; f) supervisionare le attività di monitoraggio al fine di validare i processi at- tuati ed elaborare indicazioni migliorative. 6.3. Risorse umane Si propone un piano di qualificazione delle risorse umane, centrato su quattro punti. 1) Elaborazione degli standard professionali Si intende elaborare gli standard professionali dei formatori dell’Istruzione e formazione professionale sotto forma di referenziali, sulla base di un elenco di competenze, con relative per la valutazione, distinguendo le se- guenti aree: aspetti comuni della famiglia professionale dei docenti; aspetti relativi agli assi culturali; aspetti relativi alle aree formative di indirizzo solo per le figure tecniche. Gli standard verranno definiti in base a ruoli a valenza educativa, con pre- ferenza per una concezione ad ampio spettro della professionalità docente, coerentemente con la mission del diritto-dovere, sulla base di criteri di responsabilità, autorità e competenze. 2) Compilazione del portfolio del formatore Tale portfolio sarà strutturato in cinque parti: 1) parte anagrafica con curri- colo scolastico e formativo; 2) curricolo professionale con certificazioni ed evidenze professionali e formative; 3) bilancio delle competenze (in rap- porto agli standard sopra indicati); 4) documentazione circa la partecipa- 42 zione con successo al percorso formativo di riallineamento; 5) certifica- zione delle competenze acquisite. 3) Bilancio delle competenze e delle risorse e piano formativo di riallinea- mento con i requisiti dell’abilitazione Il bilancio verrà realizzato secondo un approccio essenziale e promozio- nale, in base a una successione di fasi così definita: autocompilazione, ela- borazione della parte anagrafica e del curricolo, con corredo di evidenze e certificazioni professionali (progetti, programmi, strumenti didattici…); con tutor, a) confronto con l’elenco di competenze previste dal referenziale e valutazione della propria situazione personale per evidenziare l’area di padronanza e quindi l’area formativa da riallieneare; b) elaborazione del certificato di competenze (provvisorio) e del piano di formazione tenuto conto delle opportunità indicate (vedi punto successivo). 4) Certificazione di competenza rilasciata dalla Regione con le Università Si propone l’elaborazione di un piano formativo per formatori svolto da una Università, articolato in attività in presenza, attività a distanza e project work. L’attività in presenza prevede due moduli formativi seminariali: il nuovo sistema educativo e la sfida dell’eccellenza; figura del docente, collegialità e metodologia. L’attività a distanza prevede un insieme di corsi in autoformazione secondo il catalogo disponibile. L’attività di project work è concordata con il tutor e costituisce il punto di riferimento prioritario della valutazione che verificherà – in riferimento al- l’esperienza concreta del candidato – anche gli aspetti relativi alla forma- zione diretta ed autonoma. Al termine del percorso, la persona ottiene una certificazione di compe- tenza. I documenti attestanti il percorso formativo ed il project work, oltre alla certifi- cazione, verranno inclusi nel portfolio del formatore, che costituirà d’ora in poi il documento continuamente aggiornato tramite cui il titolare documenterà la propria crescita professionale nei vari modi in cui questa verrà stimolata: corsi di forma- zione, progetti, metodologie e strumenti, articoli e dossier. In tale ottica, verranno adeguatamente documentate e quindi valorizzate nel- l’ambito del processo di abilitazione del personale docente tutte le attività forma- tive che vengono realizzate a loro favore, al fine della qualificazione della loro pro- fessionalità con particolare riferimento alle sperimentazioni di nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale ed alle attività innovative via via attuate (es.: centro risorse, poli formativi, innovazioni metodologiche…). 43 6.4. Manifesto della qualità FORMA Si propone inoltre il “Manifesto della qualità FORMA” che riassume gran parte dei criteri che sono stati sin qui esposti, e che costituisce la base del patto che gli organismi formativi di ispirazione cristiana propongono ai propri destinatari e alle loro famiglie, alle istituzioni e ai vari interlocutori del sistema educativo, e su cui si impegnano rigorosamente nello svolgimento del proprio servizio. 44 45 Il nostro impegno educativo per il maggior bene dei giovani e di tutti i destinatari dei servizi. Manifesto della qualità di Forma. (Associazione Nazionale Enti di Formazione professionale di ispirazione cristiana) Criteri e ispirazione Le nostre opere educative si ispirano alla Dottrina Sociale della Chiesa e quindi al significato pienamente educativo e sociale delle nostre iniziative al fine della piena valorizzazione della persona umana intesa in senso integrale e progettuale. Tali opere, in forza di ciò, rappresentano un servizio educativo e formativo; un ambiente comuni- tario basato sulla promozione della partecipazione; un luogo di educazione integrale (affettiva, fisica, cognitiva, volitiva e progettuale, operativa, ludica, estetica, spirituale e religiosa) della persona considerata in senso cristiano, ovvero come creatura di Dio che la rende unica ed irripetibile; un luogo di educazione nella “cultura” e nella pro- mozione della sintesi tra fede, cultura e vita; esse mirano alla valorizzazione della vo- cazione peculiare di ogni persona in direzione del suo pieno compimento – in rapporto alle opportunità presenti nel contesto territoriale; infine esse costituiscono un luogo di testimonianza dei docenti, dei formatori e delle figure educative. Le nostre opere si ispirano inoltre ad un concetto ampio di qualità che com- prende e supera il mero significato tecnico, per acquisire il valore di una proposta forte, culturalmente caratterizzata, e che indica attraverso un marchio di qualità FORMA un movimento educativo a carattere innovativo che si pone come obiettivo la costruzione di un sistema di istruzione e formazione professionale unitario, di pari di- gnità rispetto a quello dei licei, progressivo e continuativo. La nostra proposta è intesa come un servizio in riferimento al progetto educativo della famiglia che assume la responsabilità della scelta educativa in ordine ai propri figli; in tal senso, l’organismo formativo diventa un soggetto fiduciario che continua l’opera educativa della famiglia secondo un profilo di corresponsabilità nell’azione formativa; si tratta quindi di un vero e proprio patto formativo che si realizza tra Centro e famiglia e che prevede momenti rilevanti di cooperazione in tema di orienta- mento ed accompagnamento, definizione delle mete del piano formativo personaliz- zato, partecipazione a momenti importanti del percorso, verifica dei suoi esiti. La proposta educativa degli Enti sottoscrittori presenta un carattere comprensivo delle differenti ricchezze dell’esperienza umana orientata al bene, essa risulta pertanto aperta a tutti coloro che si riconoscono nella centralità dell’educazione e nel valore pienamente sociale delle iniziative di istruzione e formazione professionale. 46 Destinatari I destinatari della nostra proposta sono tutti i cittadini che presentano una domanda orientativa e formativa, in primo luogo gli adolescenti ed i giovani che costi- tuiscono il bene più prezioso ed il futuro della nostra comunità civile. La nostra pro- posta si riferisce ad ogni persona, e si rivolge ad essa per le varie necessità educative e formative connesse al suo progetto di vita e di lavoro, nella prospettiva europea della formazione lungo tutto il corso della vita. Metodologia I percorsi formativi che proponiamo mirano a sollecitare e valorizzare la voca- zione peculiare di ogni persona in direzione del suo pieno compimento – in rapporto alle opportunità presenti nel contesto territoriale – riconoscendone le capacità e dotan- dola di risorse (saperi, abilità) che le permettano di divenire competente così da inse- rirsi positivamente nella vita sociale. Il centro della metodologia risiede nella valorizzazione dell’approccio peculiare della istruzione e formazione professionale, che presuppone il superamento della di- dattica per trasmissione di saperi e abilità, optando decisamente per una concezione formativa centrata sulla cura della situazione di apprendimento. Il team dei formatori è chiamato a “creare” esperienze nelle quali l’allievo, confrontandosi con problemi di cui coglie il senso, si pone in modo attivo alla ricerca di una soluzione in grado di soddisfare i requisiti del problema stesso, sormontando gli ostacoli che via via incontra, mobilitando in tal modo un processo di apprendimento autonomo, personale, autentico. Questa metodologia richiede il pieno rispetto delle caratteristiche specifiche delle situazioni di apprendimento attivate, l’assunzione delle rappresentazioni che gli allievi si danno delle attività proposte, la considerazione dei processi cognitivi, delle opera- zioni mentali, delle riflessioni di ordine generale che tali esperienze suscitano negli allievi, la costruzione di un cammino e delle differenti fasi in cui esso si compone, che consente di giungere alla piena riuscita delle attività intraprese. Ciò pone l’allievo nella condizione di formulare, prevedere e padroneggiare i propri obiettivi e le proprie strategie di apprendimento al fine di “dare forma” alla propria visione, al proprio sapere, alle proprie competenze. In questo senso, ogni si- tuazione di apprendimento pone l’allievo nella situazione del progettare, di proiettare se stesso nel futuro. È un metodo che presuppone una pedagogia del progetto interdisciplinare in grado di valorizzare le competenze professionali dei formatori; in tal modo ogni componente del team condivide la metodologia del progetto e pone le sue competenze al servizio del successo formativo dell’allievo, di modo che l’interdisciplinarietà di- venta tutt’uno con la prospettiva progettuale. 47 L’approccio peculiare dell’ istruzione e formazione professionale è attivo, interdi- sciplinare, fortemente personalizzato, amichevole e promozionale, basato su “centri di interesse” (personale, sociale, lavorativo-professionale), mirato a creare connessioni e legami significativi tra aree di interesse e saperi abilità e competenze, valorizzante le esperienze dei destinatari. Le imprese sono partner dell’azione educativa. Esse concorrono all’individua- zione degli aspetti professionali, tecnologici e degli snodi del progetto così da ren- derlo spendibile nel mondo del lavoro. Prestano un servizio formativo sotto forma di testimonianza, dimostrazione, disponibilità a visite guidate ed a stage formativi nella logica dell’alternanza. Infine partecipano alla valutazione-validazione degli esiti. L’offerta formativa, in coerenza con la proposta educativa, viene riesaminata periodi- camente ed adeguata alle esigenze sociali e culturali del territorio. Essa, negli ambiti valoriali sopra definiti, contiene servizi formativi innovativi. Inoltre, tale offerta pre- vede integrazione e networking con altri attori della formazione presenti sul territorio con cui l’Ente dispone di una rete di relazioni stabili. Ogni Ente cura i processi principali in coerenza con mission e proposta educa- tiva, in riferimento a pianificazione e controllo strategico, programmazione e con- trollo economico, progettazione e sviluppo, erogazione, valutazione e miglioramento. Strategie di apprendimento Le strategie dell’apprendimento delineate nei progetti formativi riflettono com- piutamente le dimensioni educative delineate nella proposta formativa. Il riferimento dell’educazione è la realizzazione della persona concreta, che viene colta nelle sue peculiari capacità: - quelle potenziali che si collegano al problema di far sì che ciascuno realizzi al meglio possibile se stesso, ovvero che sviluppi e metta in atto il suo essere potenziale, rimovendo gli ostacoli che le limitino e le deformino; - quelle “buone” che la persona possiede in quanto essere umano, e impegnano l’educatore a dichiarare quali sono appunto le capacità che meritano di essere promosse al meglio. Ciò significa mirare a che queste vengano trasformate in competenze tramite l’insieme delle attività e delle istituzioni educative esi- stenti nella società. I Centri di formazione realizzano ciò in modo program- matico ed intenzionale, utilizzando a tale scopo le conoscenze organizzate, ma altre forme di apprendimento agiscono su altri codici e con altre modalità di apprendimento anche occasionale, ma non per questo meno rilevanti. La strategia di fondo dei processi di apprendimento è costituita dalla personaliz- zazione che prevede l’adozione del requisito della flessibilità nell’aggregazione di gruppi di allievi: gruppi classe, gruppi di livello, gruppi d’interesse o elettivi. Il gruppo classe è inteso soprattutto come ambito che sostiene il processo di socializza- zione, mentre si favoriscono i gruppi di “scopo” per meglio sostenere gli apprendi- menti degli allievi. 48 Le azioni di personalizzazione previste consistono in laboratori di approfondi- mento e di recupero, attività connesse ai passaggi tra ambiti e sistemi formativi, labora- tori di livello ed elettivi, attività di alternanza, esperienze di autoformazione, laboratori di sviluppo di capacità personali. Valutazione La valutazione degli apprendimenti mira alla promozione di tutti offrendo oppor- tunità al fine di compiere prestazioni di qualità; essa è finalizzata a rilevare in modo sistematico e continuo il patrimonio di capacità, conoscenze, abilità e competenze dei destinatari. Ciò privilegiando le metodologie che permettono di rilevare la capacità di costruzione della conoscenza e la capacità di applicazione reale della conoscenza pos- seduta. Il fuoco della valutazione è costituito da ciò che l’allievo “sa fare con ciò che sa” fondato su una prestazione reale e adeguata dell’apprendimento che risulta così signi- ficativo, poiché riflette le esperienze reali ed è legato ad una motivazione personale. La valutazione, coinvolgendo gli allievi, le famiglie ed i partner formativi, mira alla dimostrazione delle conoscenze tramite prestazioni concrete, stimolando l’allievo ad operare in contesti reali con prodotti capaci di soddisfare precisi obiettivi. Particolar- mente rilevante è il “capolavoro” che l’allievo esegue al termine del percorso forma- tivo e che documenta, nelle forme e nel linguaggio proprio della comunità professio- nale, la sua preparazione, giustificando il rilascio della relativa qualifica professionale. Gli Enti si impegnano a documentare e certificare gli apprendimenti degli allievi attraverso strumenti in grado di illustrarne il valore in termini di competenze, cono- scenze ed abilità così da renderli riconoscibili nei confronti dei diversi interlocutori. La valutazione delle azioni orientative e formative mira ad accertare che gli ap- prendimenti risultanti dalle attività siano qualitativamente accettabili, che le attività stesse abbiano prodotto impatti positivi sul contesto socio-economico di riferimento, che le risorse umane e professionali che hanno operato siano soddisfatte del loro con- tributo e sviluppo, che infine i risultati economico-finanziari prodotti siano soddisfa- centi e in linea con i criteri di una buona amministrazione. Risorse La risorsa principale delle nostre opere è costituita dal personale – dirigenti, docenti, amministrativi… – composto da persone che condividono i valori dell’ispira- zione cristiana ed il cammino di fede della comunità educante. Esse vivono l’educa- zione come vocazione personale, presentano una sensibilità educativa in riferimento a destinatari, sono competenti in tema di orientamento, tutoring, analisi dei fabbisogni, progettazione, gestione didattica, valutazione, funzioni di supporto. Condividono lo 18 Don Lorenzo MILANI, Esperienze pastorali, LEF, Firenze, 1990, p. 239. 49 stile della comunità educante, come ci ricorda don Milani: «Spesso gli amici mi chie- dono come faccio a far scuola e come faccio a averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola».18 Il personale condivide l’impostazione della proposta educativa e si impegna atti- vamente nel tradurla nella pratica giornaliera. Gli Enti si impegnano a formare e valo- rizzare le competenze dei docenti così da renderle coerenti con i requisiti richiesti dalla normativa ed in grado di far fronte ad una proposta educativa e formativa impe- gnativa e rigorosa. Le nostre strutture prevedono una definizione formale di responsa- bilità ed autorità circa i processi, le competenze e le relazioni. Le risorse strutturali e quelle tecnologiche sono definite in modo da corrispondere alla natura educativa e formativa delle opere. In particolare, le strutture ed infrastrutture vengono mante- nute in buono stato coerentemente con il loro utilizzo previsto mentre le tecnologie sono aggiornate rispetto allo stato dell’arte. 19 Questo scritto riprende e rielabora argomentazioni esposte in altre sedi. Cfr. in particolare Lo- digiani (2005; 2006; 2007a; 2007b). 20 Nell’uno o nell’altro caso è in atto un processo di convergenza verso alcuni principi di fondo relativamente a finalità e ruolo delle politiche sociali e del welfare state. Allo strumento del “metodo aperto di coordinamento” (MAC), introdotto nel 1997 con il lancio della Strategia europea per l’occu- pazione, spetta il compito di vigilare su tale processo di convergenza, che deve avvenire nel rispetto dell’autonomia e della discrezionalità degli stati membri, secondo il principio di sussidiarietà. Il MAC è composto da una serie di procedure formalizzate di monitoraggio e valutazione “reciproca” dell’o- perato di ciascun paese alla luce delle linee guida, degli indicatori e dei parametri di riferimento defi- niti e concordati in sede comunitaria. L’obiettivo è quello di condurre i paesi a condividere esperienze e prassi attraverso un processo di apprendimento reciproco, incentrato sullo scambio di best practices (Hemerijck 2002). Capitolo IV Ripensare la formazione nella prospettiva del Learnfare19 Michele COLASANTO 1. Premessa: la formazione al servizio del “modello sociale europeo” A partire in modo esplicito dai primi anni novanta, l’istruzione, la formazione e l’apprendimento permanente sono stati indicati come fattori essenziali per la rea- lizzazione di un modello di sviluppo comunitario – o meglio, di un modello sociale europeo –, qualificato dall’obiettivo di coniugare crescita economica, sostenibilità e coesione sociale, incentrato su solidi diritti di protezione e di inclusione universa- listica. Entrato da tempo nel linguaggio scientifico internazionale, tale modello sociale si basa su alcune idee-guida, sintetizzabili nel nesso appena richiamato tra sostenibilità e coesione, e nell’integrazione tra politiche economiche, del lavoro e sociali, laddove le ultime, in particolare, rivestono un ruolo cardine nel garantire il dispiegarsi della solidarietà sociale pur in un contesto di competitività economica (Bifulco 2005). Al di là della convergenza sui principi che lo ispirano, a detta degli studiosi non è ben chiaro nemmeno nel discorso istituzionale europeo se esso rap- presenti un “tipo ideale” preciso, a cui ciascun paese si richiama ed è tenuto a uni- formarsi (un tipo ideale però in qualche misura rinvenibile nella realtà), o se più che altro costituisca un “progetto politico” ancora da realizzare attraverso un pro- cesso di armonizzazione da perseguire nel quadro delle specificità nazionali (Jepsen, Serrano Pascual 2005)20. Ciò che conta, tuttavia, è che esso definisce uno spazio normativo che giusti- fica la regolazione politica dell’economia contro le derive neoliberiste (Hemerijck 2002). Soprattutto, esso riconosce e assegna al welfare state un ruolo centrale nel 51 garantire le condizioni alle quali perseguire il benessere individuale e collettivo dei cittadini, muovendo in opposizione al fronte critico sviluppatosi oltre oceano, ma diffuso anche nel vecchio continente, che è arrivato perfino a sostenere l’esigenza di un suo smantellamento. Del resto l’avvento della liberalizzazione dell’economia nell’epoca della globalizzazione e del modello dell’accumulazione flessibile post- fordista sembrava comprovare che un certo tipo di capitalismo potesse prosperare senza una rete di protezione sociale pubblica (Bauman 2004). A spingere in questa direzione è stata la crisi che il welfare state ha conosciuto su più piani, a partire dalla metà degli anni settanta: economico, in termini di sosteni- bilità finanziaria; istituzionale e sociale, in termini di legittimazione politica e cultu- rale. Una legittimazione sfidata su più fronti: quello della fiducia da parte dei citta- dini disillusi dinnanzi a una spesa sociale giudicata eccessiva, sempre più a valere sulle tasse versate, per un sistema di protezione e di servizi giudicati invece inade- guati, inefficienti, di scarsa qualità, al punto da indurre a ricorrere al mercato privato. Quello dell’esigenza degli stessi cittadini di avere maggiori spazi di libertà e autode- terminazione anche nella risposta ai propri bisogni. Quello della fenomenologia dei rischi sociali nella società contemporanea, nella quale alcuni processi culturali, so- ciali, demografici ed economici hanno innescato cambiamenti di vasta portata, anche di natura strutturale, che mutano le condizioni nelle quali le persone progettano e di fatto costruiscono la loro vita, come vedremo tra breve. Tali fronti hanno palesato l’i- nadeguatezza del sistema di protezione moderno (di stampo fordista) costruito at- torno a uno specifico modello di famiglia nucleare: la cosiddetta male breadwinner family, nella quale l’uomo – impiegato a tempo pieno e indeterminato – era l’unico percettore di reddito (male breadwinner) e fungeva da tramite per l’accesso alle provvidenze del welfare dell’intero nucleo familiare; mentre la donna, moglie e madre, era dedita alle funzioni di cura, restando generalmente al di fuori del mercato del lavoro retribuito. Tipico al riguardo il caso italiano. Esso vede nella famiglia e nella rete parentale allargata (al femminile) uno dei principali pilastri del welfare e ha un sistema di protezione tendenzialmente duale, che conduce all’ipergarantismo di alcune categorie di lavoratori stabilmente inseriti nel mercato del lavoro e nei set- tori centrali dell’economia, a discapito di quelli impegnati nei settori periferici, mar- ginali, precari, o di coloro che restano del tutto esclusi (Ranci 2004; Ferrera 1998). L’Europa, per contro, pur riconoscendo l’esigenza di un suo profondo ripensa- mento, rivendica l’irrinunciabilità dello stato sociale in vista dell’obiettivo dichia- rato alla fine del vertice di Lisbona del 2000, a tutti noto: rendere quella europea l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura, accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale. In ciò affer- mando un modello di sviluppo che non subordini l’obiettivo della competitività sul mercato globale al benessere dei cittadini, quest’ultimo declinato in termini oltre che di retribuzione percepita, anche di qualità del lavoro e della vita, di protezione e inclusione sociale. Nella convinzione che esista un nesso diretto tra progresso, 52 occupazione, partecipazione attiva (non solo sul piano lavorativo), solidarietà, in- clusione e coesione; e che su tale nesso possa influire positivamente l’investimento in capitale umano (De La Fuente, Ciccone 2002). È però certamente uno stato sociale che esige di essere ridisegnato sin dalle fondamenta quello che viene sostenuto, ma che non abdica al suo ruolo scrittivi di fronte alle logiche del mercato e della competizione economica. È uno stato sociale che cerca di superare il tradizionale impianto assistenziale, assicurativo e passivo, centralizzato e top down, incentrato sulla protezione del capofamiglia, teso a tute- lare i soggetti nei momenti di difficoltà in una prospettiva riparatoria per il danno subito (la perdita del lavoro, la malattia, l’invalidità, la fuoriuscita dal mercato del lavoro per limiti età), per farsi “attivo” (si parla infatti di active welfare state) e calarsi in un approccio promozionale, “abilitante” nei confronti delle persone. Secondo questo nuovo paradigma, esso è teso a sostenere lo sviluppo di capacità di auto-protezione rispetto ai rischi sociali, implementando misure selettive e mirate, al limite della personalizzazione; misure che siano soprattutto attivanti le risorse in- dividuali in chiave di empowerment, tra le quali la formazione riveste un ruolo di primo piano (scrittivi, Beccalli 2000; Paci 2005; Vandenbroucke 1999). È evidente il capovolgimento del paradigma di riferimento. Il primo è fondato su una visione passiva del soggetto, che esige di essere tutelato e protetto a fronte di rischi subiti, concepiti come strutturali e indipendenti dalla sua volontà. Il se- condo investe il soggetto di una responsabilità individuale dinnanzi a tali rischi. Le politiche passive, assicurative cedono dunque il passo e vanno a integrare le politiche attive, anzi “di attivazione” (activations policies), finalizzate a sostenere il soggetto in una sorta di “battaglia personale”, cosicché il rapporto tra responsabi- lità collettive e individuali viene riscritto a favore di queste ultime. Sulla responsabilità individuale nell’uscita della condizione di bisogno, nella ricerca di una occupazione, nella contribuzione a una solidarietà allargata che passa attraverso la propria attivazione anzitutto sul mercato del lavoro si fonda l’active welfare state. Non senza effetti paradossali o controproducenti emergenti proprio dall’individualizzazione (personalizzazione) dei programmi di attivazione: mentre si enfatizza e si valorizza la responsabilità del soggetto, e si legittima il desiderio di autorealizzazione, si amplificano le differenze tra quanti sono in grado o meno di essere attivati. Per dirla con Sennett (2004), si configura così un “welfare corto”: uno stato sociale che riduce le proprie responsabilità limitando le garanzie fisse o permanenti per sostituirle con aiuti temporanei, demandando di fatto al singolo la gestione del proprio destino. Quasi una condanna più che un’opportunità! Uno stato che finisce col produrre disuguaglianze tra coloro che hanno bisogno di con- sigli per sapere quali risorse esistono e come le possono utilizzare e coloro ai quali servono (e chiedono) solo le risorse, non hanno bisogno di altro perché sanno già come sfruttarle al meglio. Sin da questa breve premessa appare evidente che il modello sociale europeo, la visione di stato sociale che esso promuove, le politiche sociali che in esso si in- 53 scrivono, non solo possiedono al pari di tutte le istituzioni una dimensione norma- tiva, ma sono essi stessi espressione di opzioni normative e valoriali di fondo. Come afferma De Leonardis (2002), il welfare è un territorio ad “alta densità norma- tiva”, costituito com’è di regole, precetti, valori, norme; di classificazioni, certifica- zioni, e valutazioni; di istituzioni, di scelte e azioni in materia di giustizia sociale; ciò emerge a partire dai principi fissati in leggi, fino alle più minute pratiche quoti- diane nei servizi. A una opzione normativa e valoriale è certamente debitrice anche la priorità accordata alla formazione nel quadro delle politiche comunitarie. Per comprendere il senso di quanto affermato basti ricordare la presa di posi- zione invocata da Jacques Delors nell’ormai lontano 1993 nel celebre Libro bianco curato per la Commissione delle Comunità Europee: Crescita, Competitività e Oc- cupazione, quando sosteneva che l’Europa – a fronte della concorrenza sempre più forte dei paesi emergenti – doveva operarsi per la ricerca di una “via alta” alla com- petizione internazionale e optare con decisione per un’economia basata sulla cono- scenza, la specializzazione, la qualità dei prodotti e del lavoro, elevati standard di retribuzione e protezione dei lavoratori, la loro formazione. Era certo un’opzione valoriale quella di considerare il “capitale umano” come la vera ricchezza di un paese. È certo un’opzione valoriale la scelta di continuare a muoversi in questo solco, come testimoniano i tanti documenti che negli ultimi due decenni hanno ri- badito questo approccio (cfr. tra altri: Commissione delle Comunità Europee 1995; 2000; 2006; De La Fuente e Ciccone 2002). Essi sono indicativi della centralità as- segnata alla formazione – nelle sue diverse declinazioni e accezioni – nel quadro delle politiche rivolte a sostenere l’occupazione e l’inclusione sociale, nonché tese a contemperare le esigenze della crescita economica con quelle della coesione so- ciale e della sostenibilità: in una parola nel porsi al servizio del mantenimento del modello sociale europeo, definito nei termini sopra detti. Di quale formazione si stia parlando, e di come essa si inserisca nel quadro delle politiche comunitarie; di quale modello di stato sociale faccia della forma- zione uno dei cardini del sistema di protezione discuteremo nei prossimi paragrafi. 2. L’attivazione del welfare tra individualizzazione, vulnerabilità sociale e nuovi bisogni Come anticipato, la rilevanza assegnata alla formazione nel quadro delle poli- tiche comunitarie si colloca dentro un più ampio ridisegno del welfare state, in dif- ficoltà evidente a trovare nuove risposte per tutelare i cittadini da situazioni di rischio sociale, disagio e vulnerabilità diffusi; situazioni sempre più trasversali a tutta la popolazione e sempre più imprevedibili (disoccupazione, invecchiamento, povertà, malattia, problematiche familiari, ecc.) dentro percorsi di vita che si fanno meno lineari di un tempo. Le trasformazioni nel lavoro, nella famiglia, nelle istitu- zioni di regolazione sociale e ancor prima nella sfera culturale fanno infatti emer- 54 21 E necessitano anche di una più equa ripartizione tra uomini e donne, come per esempio sanci- to nel nostro paese con l’introduzione dei congedi parentali. gere ampi processi di “disarticolazione sociale” che mutano le linee di stratifica- zione della popolazione ed evidenziano nuove disuguaglianze, nuovi bisogni (Ranci 2002). Basti pensare alle trasformazioni in atto in più campi. Nel mondo lavoro, attraversato da processi di flessibilizzazione, precarizza- zione e femminilizzazione, i quali incrinano il mito della piena occupazione, vera e propria “promessa” del welfare moderno, e scompaginano gli equilibri di welfare consolidati. In primo luogo, l’ingresso in quella che è stata da tempo definita la “società dei lavori” (Accornero 1997) delinea uno scenario di pluralizzazione del lavoro sotto il profilo professionale e settoriale, della prestazione, della tutela: ciò che indebolisce la correlazione tipica dell’epoca fordista tra impiego stabile, inseri- mento relazionale solido, integrazione sociale e cittadinanza (Castel 1995). Sulla protezione del lavoro a tempo pieno e indeterminato, garantito e stabile, definito nelle mansioni, nelle competenze e nella formazione necessarie per compierlo si reggeva infatti il cosiddetto “compromesso fordista”, nel quale l’impiego “tipico” funzionava come “istituzione regolatrice” in grado di stabilire la posizione sociale dell’individuo, condizionarne il livello di sicurezza e protezione sociale, l’accesso ai servizi, la capacità di consumo, perfino il godimento dei diritti di cittadinanza per sé e i famigliari a carico (Accornero 1997; 2000). In secondo luogo, lo stesso compromesso fordista implicitamente assegnava agli uomini i compiti produttivi e alle donne i compiti di riproduzione. Compiti questi ultimi penalizzanti sotto il pro- filo della partecipazione al lavoro per il mercato e di fatto vincolanti alla posizione occupazionale del capofamiglia e alle caratteristiche della famiglia di appartenenza per l’accesso a una buona parte dei dispositivi di protezione. Il sistema di welfare trovava così nelle funzioni di cura svolte dalle donne tra le mura domestiche un so- stegno tanto importante quanto poco valorizzato, riconosciuto e aiutato (Ranci 2004). Funzioni che di fronte alla crescente partecipazione al lavoro delle donne esigono invece specifici servizi di appoggio e conciliazione21. Nell’economia che, superando l’assetto industriale fordista costruito sulla cen- tralità della grande industria, si trasforma in una economia dei servizi, fondata sul sapere e sulle tecnologie dell’informazione (service and knowledge economy), sulla flessibilità del lavoro, della produzione, dei modelli organizzativi. Essa fa della co- noscenza il motore dello sviluppo, la principale forza produttiva e competitiva. Ma nel contempo produce nuove forme di esclusione per quanti alla conoscenza non hanno eguale accesso. Le chance di vita e di partecipazione attiva al lavoro e alla società dipendono infatti sempre più dalle abilità di apprendimento e dall’accumu- lazione di capitale umano, cosicché i più penalizzati sono proprio quelli che restano ai margini delle opportunità di formazione iniziale e lungo il corso della vita (Esping-Andersen 2002; Dahrendorf 2003). Emblematicamente, se da un lato si sviluppa una domanda di lavoro qualificato in servizi competitivi e avanzati, 55 aprendo spazi nuovi per la realizzazione di sé nel lavoro e di valorizzazione dell’in- vestimento effettuato nel proprio capitale umano, dall’altro lato cresce la domanda di manodopera non qualificata che va a concentrarsi nei servizi a basso valore ag- giunto e ad alta intensità di lavoro. Nella composizione demografica della popolazione dove si registra un progres- sivo invecchiamento, a cui si associano problematiche connesse all’invecchiamento attivo per tutti quei lavoratori che sono ancora in grado di lavorare ma rischiano l’espulsione dal mondo del lavoro, nonché al crescente bisogno di servizi di accom- pagnamento e cura delle persone più anziane. È noto quanto tale fenomeno, che appare come strutturale e difficile da contenere a fronte dei bassi tassi di natalità registrati un po’ in tutti i paesi occidentali (specialmente in Italia), incida sulla spesa pensionistica e sulla sostenibilità del sistema previdenziale e assistenziale. Nelle strategie e nei modelli familiari che vanno incontro a fenomeni di diver- sificazione e fragilizzazione, configurando un nuovo modello di breadwinner al femminile, spesso difficile da sostenere per i soggetti coinvolti, dove si definiscono percorsi di marginalizzazione, esclusione e povertà correlati alla debolezza delle reti relazionali; dove si delinea quel deficit di natalità appena ricordato che mette a rischio la riproduzione stessa della società (Ranci 2002; Naldini 2006; scrit-An- dersen 2005). È certamente anche in risposta all’erosione crescente della famiglia come unità economica e alla pluralizzazione delle sue forme che l’active welfare state cerca di definire misure e benefici che siano organizzati in funzione degli indi- vidui indipendentemente dalla loro posizione nella struttura familiare (Borghi 2006). Nel rapporto tra individuo e società, all’insegna di un processo di “individua- lizzazione” sempre più marcato, correlato sia alle esigenze che sempre più i sog- getti avvertono ed esprimono in termini di autorealizzazione, autoespressione, autodeterminazione nel lavoro, nella formazione, nella sfera affettiva e in genere in quella personale; sia a sentimenti di vulnerabilità e incertezza. Mentre si ampliano enormemente le libertà di azione e di scelta individuali si rendono più fragili i quadri istituzionali dentro cui si agisce e si progetta la propria vita, come emble- maticamente dimostrato dalla destandardizzazione del lavoro dal punto di vista delle forme di regolazione dell’impiego nonché dalla diversità di significato ad esso assegnato in termini esistenziali (Beck 2000). Non è solo il lavoro a registrare queste tendenze ambivalenti. A ben vedere tutte le trasformazioni qui richiamate producono effetti simili, per un verso lasciando il soggetto più libero da condizionamenti sociali e istituzio- nali nel compiere le proprie scelte, per altro verso lasciandolo più solo di fronte all’imperativo di auto realizzarsi. Da questo insieme di trasformazioni discendono certo nuove opportunità di au- tonomia e realizzazione ma anche nuovi rischi sociali: difficoltà di conciliare vita professionale e vita familiare; fragilità del capitale sociale; difficoltà di ottenere un lavoro stabile, protetto e remunerato; obsolescenza delle competenze e delle condi- zioni di occupabilità; marginalizzazione dalle opportunità di formazione e dai pro- 56 cessi di apprendimento continuo. E discendono nuovi bisogni di servizi specifici: servizi di accompagnamento sul mercato del lavoro, di formazione, di concilia- zione famiglia-lavoro, di cura, in specie per bimbi piccoli, malati, anziani, persone non autosufficienti. La risposta a questi nuovi bisogni viene ricercata attraverso l’active welfare state, promuovendo l’idea di una cittadinanza attiva. L’obiettivo è quello di rendere il soggetto in grado di “fare la sua parte” partecipando attivamente alla vita economica, sociale e politica del suo paese; di sostenerlo nell’acquisizione di capacità atte a fronteggiare le situazioni, agire con consapevolezza ed efficacia, realizzare il proprio desiderio di autonomia e di autodeterminazione. In una parola sviluppando il suo empowerment, a diversi livelli. Significativamente, secondo alcuni autori, in linea con il cambiamento culturale portato dall’individualizza- zione, lo stato sociale attivo sembra voler prendere sul serio la volontà dei soggetti di affrancarsi da vincoli istituzionali, da risposte precodificate perfino nel campo del welfare, per valorizzare il desiderio di muoversi in autonomia e in modo proat- tivo nel progettare la propria vita (Paci 2005). In questa prospettiva l’obiettivo della partecipazione si può realizzare in ambiti diversi e secondo modalità speci- fiche: occupazione, definizione del percorso di uscita dalla condizione di bisogno; scelta dei servizi a cui appoggiarsi e negoziazione con essi; programmazione dei servizi stessi, magari tramite l’auto-organizzazione della società civile (come dimo- stra lo sviluppo del no profit in molti ambiti). Sulla base di questa premessa, l’azione dell’active welfare state si presenta come abilitante, potenziante. L’empowerment dei soggetti, da realizzare anche attraverso un opportuno investimento nel suo capitale umano, è presentato come il primo passo di un processo che dovrebbe portarlo ad acquisire una “libertà sostan- ziale” (la definizione è dell’economista premio Nobel Amartiya Sen), ovvero una libertà che implica la capacità (capability) di trasformare i beni, le risorse a dispo- sizione in libertà di perseguire i propri obiettivi, di promuovere i propri scopi, di mettere in atto stili di vita alternativi, di progettare la propria vita secondo quanto ha valore per sé (Sen 2000). Il problema è che i rischi sociali emergenti portano alla luce un lato del pro- cesso di individualizzazione ben lontano dalle aspettative di autorealizzazione di sé nella vita e nel lavoro, rispetto al quale il soggetto non può certo essere lasciato solo in balia di sistemi di protezione che rischiano di funzionare bene solo con chi ha già le risorse necessarie ed è in grado di mobilitarle, di fatto scambiando ciò che deve essere considerato l’obiettivo (l’attivazione del soggetto) per la precondi- zione (Borghi 2006). Promuovere la responsabilità delle persone è possibile solo mettendo a disposizione mezzi adeguati e opportunità valide, ossia attuando delle responsabilità collettive (istituzionali) nello sviluppo delle condizioni alle quali i soggetti possano esercitare tale responsabilità, essere attivati, esercitare la propria libertà sostanziale. Il problema è la distanza che si rileva tra le dichiarazioni di principio e la loro attuazione. 57 Si tratta di una distanza evidente quando si vanno ad analizzare le ricadute dei principi dell’active welfare state sul piano delle politiche sociali, del lavoro e for- mative, laddove il lavoro è considerato come ambito privilegiato di integrazione sociale, inclusione, cittadinanza (principio dal quale non vogliamo certo dissentire), ma sostanzialmente anche come l’unico; laddove la partecipazione attiva si traduce solo in termini di occupazione per il mercato. Si tratta di un approccio rintraccia- bile sia nella Job Strategy dell’OCSE, sia nella Employment Strategy dell’Unione europea, non privo di conseguenze contrastanti anche sulla formazione; ciò che in questa sede ci interessa più da vicino. 3. Il lavoro fulcro del patto di cittadinanza Sul piano delle politiche, i principi dell’active welfare state si traducono anzi- tutto nel sostegno al (re)ingresso nel mercato del lavoro dei soggetti esclusi. Il lavoro è cioè considerato come il luogo principe dell’attivazione, proponendo di quest’ul- tima una lettura sostanzialmente monodimensionale ed economicista. Significativa- mente, l’obiettivo della piena occupazione torna a essere riproposto come prioritario, seppur con aspettative diversificate in relazione alle diverse categorie che compon- gono la forza lavoro (come indicato a Lisbona con la definizione dei noti bench- mark). Esso è declinato infatti con riferimento specifico agli uomini, la cui piena occupazione è minacciata dalla precarizzazione e dall’espulsione precoce dovuta all’obsolescenza delle competenze; alle donne, caratterizzate ancora da tassi elevati di inattività o di discontinuità lavorativa; ai giovani, che scontano un percorso di pre- cariato per l’avvicinamento al lavoro “vero”; agli anziani, ai quali sono dedicate le politiche di invecchiamento attivo e la riforma dei sistemi pensionistici; infine ai soggetti svantaggiati per i quali sono predisposti interventi mirati inscritti nella logica delle pari opportunità. In altri termini la Strategia di Lisbona rafforza la centralità del lavoro per la tenuta del modello sociale europeo e il conseguimento congiunto degli obiettivi di crescita economica e coesione sociale, riposizionando il lavoro al centro del patto di cittadinanza, radicalizzando il nesso tra lavoro e welfare proprio nel momento in cui il primo si fa incerto e il secondo residuale. Se da un lato alla crescente individualizzazione delle carriere lavorative si ac- compagnano l’individualizzazione delle tutele, la frammentazione e l’erosione dei sistemi di protezione, dall’altro lato la risposta all’indebolimento di tali sistemi di protezione continua a essere cercata nel lavoro. Ne discende un tentativo di “rialli- neamento tra lavoro e welfare”, di ridefinizione del rapporto tra occupazione e protezione sociale (Hemerijck 2002). Il modello di intervento assunto a riferimento è quello del cosiddetto welfare to work, finalizzato a favorirne il passaggio dalla percezione passiva di un sussidio (welfare) al lavoro nel settore pubblico o in ambito privato (work), e a reinserire nel 58 22 Tale impostazione, tra l’altro, si riverbera a cascata sulle politiche e sui dispositivi di interven- to, sul ruolo dei centri pubblici per l’impiego incidendo sul rapporto tra operatori e beneficiari. Verifi- care l’efficacia dei servizi offerti su indicatori di tipo quantitativo imposti dall’alto (per esempio: la percentuale di soggetti ricollocati sul totale di quelli presi in carico) può portare a misconoscere le ef- fettive esigenze e ragioni di coloro che fruiscono del servizio, forzandoli all’accettazione di una pro- posta formativa o di lavoro senza tenere in debito conto le circostanze personali, o peggio può condur- re a escludere dagli interventi coloro che risultano meno attivabili restringendo i criteri di selezione secondo la propria discrezionalità (Bonvin, Farvaque 2005). mercato tutti i soggetti in grado di lavorare. L’ambizione è di spostare l’accento da un approccio correttivo, basato sugli ammortizzatori sociali, a uno attivo, basato sul- l’investimento e mirato a massimizzare il potenziale degli individui perché possano diventare membri autosufficienti e autonomi della società (OCDE 2005). Esso mira a sostenere il soggetto in situazione di disagio attraverso l’integrazione delle poli- tiche monetarie e fiscali (per esempio: benefici economici e crediti di imposta) con le politiche attive (a sostegno di mobilità e flessibilità del lavoro, mediante servizi di accompagnamento, orientamento, inserimento, formazione,…) e con le politiche occupazionali (per esempio: incentivi all’assunzione di determinati target di lavora- tori). A dispetto dell’enfasi posta sulla rilevanza dei servizi di attivazione (tra i quali la formazione gioca un ruolo prioritario), il punto di forza della nuova rete di prote- zione è rappresentato dalle politiche monetarie e fiscali che, attraverso incentivi di vario tipo, mirano a rendere attrattivo il lavorare rispetto alla percezione di un sus- sidio (to make work pay) o all’inattività, come nel caso delle donne per le quali la scelta di lavorare per il mercato è spesso subordinata al calcolo costi-benefici. Il fine è quello di realizzare una protezione sociale attivante. Per questo la lo- gica di fondo è ispirata al vincolo della “condizionalità”. In altri termini, il diritto a fruire di benefici e dispositivi decade se il soggetto non rispetta le condizioni poste dal servizio che li eroga. Su questo principio di condizionalità, di fatto l’ac- tive welfare state tende a proporre uno scambio tra welfare e lavoro. Generalmente infatti i percorsi personalizzati di reinserimento nel mercato del lavoro, comunque siano strutturati, prevedono la stipula di un “patto” tra il servizio e il suo benefi- ciario. Le indennità sono garantite solo a fronte di un impegno “certificato” nella ricerca attiva di un impiego, alla partecipazione ad azioni di orientamento e soprat- tutto di formazione, all’accettazione di una occupazione adeguata (congrua) alle caratteristiche della persona che la cerca, o di un lavoro magari meno qualificato e poco remunerato, ma temporaneo e funzionale al reingresso stabile nel mondo del lavoro, o infine di un impiego sussidiato (come ad esempio i lavori di pubblica uti- lità). Significativamente, sollecitati dalle direttive europee alla riforma del welfare in senso attivo e al raggiungimento dei benchmark in materia di occupazione, i paesi membri si sono indirizzati non tanto a ridurre la generosità dei sussidi e i tassi di copertura, bensì a incoraggiare i percettori di indennità a trovare lavoro veloce- mente, nonché a incrementare i vincoli riguardanti i criteri di eleggibilità (Sameck Ludovici, Semenza, Torchio 2007)22. 59 Occorre dunque avviare una riflessione sullo stesso concetto di attivazione propugnato in sede europea, per comprendere se la lettura economicista rappresenti l’unica possibile, o se vi siano margini per una impostazione diversa. A livello di principio, infatti, negli stessi orientamenti comunitari vi sono gli elementi per so- stenere il carattere multidimensionale della cittadinanza attiva, riconoscendo che essa non si esaurisce nel solo lavoro per il mercato. Sotto il concetto di attivazione possono coesistere fenomeni diversi: “la parte- cipazione al lavoro, anche obbligata; la responsabilizzazione individuale rispetto al proprio benessere e a quello dei membri della propria famiglia, che si trovino in condizioni di dipendenza; la libertà di scelta in quanto consumatori dei servizi di welfare; la partecipazione alle scelte pubbliche e l’autorganizzazione delle comu- nità locali” (Bifulco 2005, 20). A partire da questa consapevolezza si può portare alla luce anche un altro lato dell’attivazione, rimasto più nascosto, a dispetto delle dichiarazioni di principio, ma decisamente promettente. Tale lato si dispiega nella possibilità di valorizzare il nesso originario tra attivazione ed empowerment, lad- dove il lavoro sia da considerarsi come uno dei possibili ambiti di realizzazione della cittadinanza attiva, ma non l’unico. Quest’ultima, in momenti diversi della vita, si può esplicitare in contesti diversificati, compreso il lavoro di cura, la for- mazione, il volontariato, senza per questo determinare il venir meno del dovere di concorrere in modo “produttivo” alla costruzione di una società del benessere per tutti, inclusiva, coesa, capace anche di esprimere forme di solidarietà allargata. In questa visione l’attivazione va di pari passo con lo sviluppo di quella libertà sostan- ziale di cui abbiamo prima parlato. Del resto l’inclusione lavorativa da sola non basta a suscitare sentimenti di fi- ducia, appartenenza, stima di sé e riconoscimento reciproco necessari per produrre l’inclusione sociale tanto quanto un reddito. La stessa occupazione non è certo una categoria omogenea. Il discorso istituzionale europeo nella sua lettura economicista tende a considerare ogni lavoro remunerato come avente, oltre al risvolto econo- mico, valenze immateriali legate alle funzioni che assolve nell’accesso alle reti sociali, nello sviluppo di un’identità personale, nell’acquisizione di uno status, ecc., ma la pluralità delle forme di impiego rende evidente come ciò non sia sempre vero (Van Berkel 2002). In altri termini, così come la mancanza di lavoro non è necessa- riamente un fattore di esclusione, basti pensare alla funzione di ammortizzatore sociale in molti casi esercitata dalla famiglia di appartenenza, anche il lavoro che c’è non è di per sé garanzia di inclusione sociale: lo dimostrano la vicenda di tanti immigrati impiegati nel sistema produttivo del nostro paese che restano però ai margini del sistema sociale, o dei lavoratori che passano da un’occupazione sussi- diata a un’altra senza trovare una reale possibilità di emancipazione, o ancora dei tanti lavoratori atipici bloccati in circuiti di precarizzazione. Per di più non tutto il lavoro è occupazione. Basti pensare ad altre attività, sopra citate, di cui si sottovaluta il potenziale inclusivo. La nozione di lavoro salariato si è infatti costruita in epoca moderna occultando tutte le forme non di mercato, non 60 23 Ciò che il principio di condizionalità di molti programmi di attivazione tende a limitare, se non a cancellare. mercificate di lavoro, che vanno a ricomporre il quadro di una più ampia “condi- zione lavorativa” che include il lavoro nella sfera familiare, il lavoro di formazione, il lavoro volontario, il lavoro indipendente, il lavoro di pubblica utilità, ecc. (Supiot 2003: 66-67; ancora Van Berkel 2002; cfr. anche Paci 2005; Beck 2000). In questa prospettiva, l’attivazione potrebbe mirare a promuovere non tanto l’occupabilità o l’occupazione quanto la “capacità di lavoro” (capability for work), intendendo quest’ultima non solo in termini di employability e di impiego remune- rato, ma di sviluppo di una “condizione occupazionale” nel senso ampio sopra detto, laddove tale capacità sia funzione della possibilità di scelta di una forma di lavoro (anche non per il mercato) che abbia valore per il soggetto – o anche di ri- fiuto delle opzioni che per lui non hanno interesse23 – (Bonvin, Farvaque 2003). Ne consegue per il soggetto la possibilità di partecipare alla scelta della “forma” di la- voro in cui impegnarsi in un dato momento della sua vita e di definirne il conte- nuto. Quella che abbiamo chiamato “capacità di lavoro” in senso lato va così di pari passo con un’altra capacità, quella di “espressione” (capability for voice), che è funzione di una cittadinanza attiva, nella misura in cui il soggetto è in grado di esprimere e far valere la propria opinione in una arena pubblica: un’impresa, una realtà politica, un servizio (ibidem). Applicata ai programmi di attivazione quest’ul- tima rappresenta la capacità di concorrere alla definizione del proprio percorso di uscita dalla situazione di disoccupazione (ad esempio attraverso un processo di ne- goziazione con il servizio per l’impiego), alla ricerca di soluzioni di valore per sé; applicata alle politiche sociali attive rimanda alla capacità di portare alla luce i propri bisogni attraverso le rappresentanze della società civile; e a un livello ancora più elevato, alla capacità di cooperare nella definizione di risposte a tali bisogni. L’azione pubblica in materia di attivazione viene così riscritta alla luce di nuovi obiettivi: garantire ai soggetti le risorse necessarie per soddisfare i propri bisogni, ma anche promuovere l’acquisizione delle capacità effettive di sfruttare tali risorse così che essi possano “convertire” (il termine è di Sen) le proprie risorse in capa- cità reali di scelta e di azione. In conclusione, le letture del cambiamento in atto possono essere molteplici. Si può valutare con ottimismo l’applicazione delle istanze dell’individualizzazione al welfare state, all’insegna di un approccio liberale che ritagli per quest’ultimo un ruolo del tutto residuale. Oppure condannare con pessimismo il rischio di uno stato sociale che esasperi il suo lato corporativo e categoriale (riuscendo a proteggere solo i soggetti che hanno una posizione sicura e stabile nel mercato del lavoro), lasciando sostanzialmente a se stessi quanti si barcamenano nel passaggio tra lavori diversi, periodi di disoccupazione, rientri temporanei, fasi di inattività. Oppure cogliere i segnali positivi che esistono nel tentativo di rifondare un sistema di wel- 61 fare all’insegna del recupero e della valorizzazione dell’empowerment del cittadino (Paci 2005). Senza nascondersi le difficoltà e le storture presenti e possibili, però anche cercando di indagare le condizioni alle quali l’empowerment individuale possa essere sviluppato e tradursi in reale capacità di azione e scelta, nel nostro caso interrogandoci specificamente sul ruolo che in tal senso possono giocare le politiche formative. 4. Formazione e apprendimento permanente come fattori di “conversione” L’importanza della formazione nelle politiche comunitarie emersa a partire dai primi anni novanta è rimasta una costante negli anni successivi, ma è andata in- contro a trasformazioni rilevanti in merito al ruolo e alle finalità a essa assegnate. Le due principali tappe di questa evoluzione possono essere identificate con la Strategia europea per l’occupazione (SEO), varata nel 1997 al vertice di Lussem- burgo, e con la Strategia per la crescita e l’occupazione definita a Lisbona nel 2000 e rilanciata nel 2005. Al centro della SEO si ponevano, come noto, i cosiddetti “4 pilastri” chiamati a sostenere i piani nazionali di azione per l’occupazione (NAP). Nel dettaglio: a) migliorare l’occupabilità tramite il ricorso a misure attive; b) sviluppare l’impren- ditorialità; c) incoraggiare l’adattabilità di imprese e lavoratori attraverso l’innova- zione delle forme di organizzazione del lavoro e promuovendo gli investimenti delle imprese in capitale umano; d) rafforzare le politiche per le pari opportunità. Essi sancivano la necessità di sviluppare le politiche attive del lavoro in luogo delle politiche passive e l’esigenza di puntare sulla formazione, considerata in grado di agire sia sull’occupabilità dei soggetti sia sull’adattabilità reciproca di imprese e la- voratori in vista della produttività delle une e degli altri. Il riferimento era segnata- mente alla formazione continua, intesa come strumento di accompagnamento del lavoratore nell’arco della sua vita attiva, ma anche come strumento di competitività aziendale; finalizzata a riqualificare i lavoratori espulsi dal mercato del lavoro, a prevenire i fenomeni di obsolescenza delle conoscenze professionali degli occupati, a promuovere l’incontro tra domanda e offerta specie a sostegno di carriere lavora- tive incerte e discontinue, a migliorare la qualità e la produttività del lavoro. Di fronte allo scenario di crescente flessibilità verso cui spinge il modello di accumulazione post-fordista, di fronte alla disoccupazione e alla mancanza di nuovi impieghi, di fronte alle strategie delle imprese di delocalizzazione della pro- duzione, di ristrutturazione, di drastici ridimensionamenti del personale, di fronte a un mercato del lavoro più flessibile ma anche più insicuro e segmentato, di fronte alla crisi dello stato sociale e alla sua incapacità di continuare a sostenere i costi di una copertura ad ampio raggio, la formazione veniva presentata come una nuova forma di tutela occupazionale, in quanto garanzia – se non di un impiego – almeno dell’opportunità di conseguire le migliori chance di trovarne o mantenere uno. 62 24 Del resto, in termini rigorosi, essa non va considerata come politica dell’occupazione in quan- to non è in grado di creare nuovi posti di lavoro (né questa è la sua finalità): la sua efficacia si misura semmai nell’avvicinare domanda e offerta di lavoro; il suo terreno di valutazione è la capacità di fa- vorire l’attivazione lavorativa dei lavoratori e mantenere/sviluppare la loro occupabilità in un mercato altamente competitivo, flessibile e incerto. Veniva così sancito il legame tra occupabilità (employability) e formazione con- tinua, e introdotto il principio dell’attivazione (lavorativa) come linea guida per la riforma del welfare. In altre parole, la formazione veniva presentata come una sorta di salvagente per restare a galla di fronte alle incertezze della condizione lavorativa, agendo sulle caratteristiche di occupabilità del soggetto, promuoven- done l’inserimento in un mercato del lavoro “transizionale” (Gazier 2003), ovvero caratterizzato da passaggi tra impieghi diversi. Rispetto a questo scenario, la stra- tegia di Lisbona introduce qualche elemento di novità. Se al cuore della SEO si ritrovava il concetto di employability, il fulcro della Strategia di Lisbona è, come abbiamo visto, la piena occupazione per tutti. Tale cambiamento di prospettiva modifica anche le priorità delle politiche attive del lavoro prima focalizzate soprattutto su formazione e orientamento, ora incentrate sulle funzioni di incontro domanda/offerta, riduzione della disoccupazione e attiva- zione, incentivi all’impiego. In tale quadro la formazione vede ampliarsi il suo significato. Essa è chiamata a sostenere la partecipazione attiva dei cittadini (promuovendone l’esercizio dei propri diritti) in tutte le sfere della vita associata, anche al di fuori di quella lavora- tiva. La sottolineatura non è di poco conto. Da un lato si assume come obiettivo centrale delle politiche l’occupazione. Dall’altro si riconosce che agire su questo fronte non è la missione specifica della formazione24, bensì di altre politiche occu- pazionali e del lavoro. Si restituisce così la formazione alla sua funzione di crescita della persona e di empowerment in senso lato, almeno a livello di principio. La nozione di formazione continua centrale nella SEO viene così ricompresa in quella di apprendimento permanente (lifelong learning), estendendone ruolo e fi- nalità anche al di là delle ricadute in termini professionali. Quest’ultimo è chiamato a realizzarsi in esperienze formative attivate in qualsiasi momento della vita (life long) e in qualsiasi contesto (life wide), secondo modalità molteplici: formali, non formali e informali (formal, non-formal, informal), volte a migliorare le cono- scenze e le competenze del soggetto in una prospettiva personale, civica, sociale e occupazionale (Bocca 2002). In questo senso, si sostiene, il lifelong learning deve configurarsi come il principio ispiratore dell’offerta e della domanda formativa, una sorta di metodo da attuare a tutti i livelli di un sistema formativo concepito in termini allargati sino a ricomprendere le opportunità di apprendimento informali. Più specificamente il lifelong learning rappresenta per il soggetto la possibilità di verificare, aggiornare e sviluppare continuamente il proprio sistema di competenze ai fini sia dell’occupabilità e concorrenzialità sul mercato del lavoro sia di una par- 63 tecipazione attiva alla società della conoscenza quale è, e ambisce a essere sempre di più, quella europea. Il Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente della Commis- sione Europea, redatto a conclusione del summit di Lisbona nel 2000, coniuga tali diversi obiettivi in modo esplicito. Esso afferma chiaramente che il lifelong lear- ning è chiamato a perseguire due finalità distinte e al tempo stesso interdipendenti: - la promozione dell’occupabilità e dell’adattabilità dei lavoratori: una sorta di manutenzione delle condizioni che li rendono concorrenziali sul mercato del lavoro e adattabili alle esigenze delle imprese (l’accento è posto sulle poli- tiche di formazione continua e di capitale umano); - la promozione di una cittadinanza attiva, al fine di rendere i cittadini in grado di cooperare sempre più attivamente ai vari livelli territoriali e istituzionali (da quello locale a quello comunitario) in tutte le sfere della vita pubblica, in particolare nel campo sociale e politico (si valorizza qui ogni opportunità di apprendimento). Così ridisegnata la formazione o, meglio, l’apprendimento continuo si colloca pienamente al centro dell’active welfare state, secondo una lettura dell’attivazione ampia, coniugata in chiave non solo occupazionale. Nei termini utilizzati sopra pos- siamo dire che l’apprendimento continuo, se assunto in questa prospettiva, può con- correre a sviluppare sia la capacità di lavoro (capability for work) sia la capacità di espressione (capability for voice) aiutando il soggetto ad acquisire le conoscenze, le competenze e anche la consapevolezza e il “potere” necessari per convertire le risorse a disposizione in strategie di comportamento, per operare delle scelte di valore per sé, per far valere il proprio punto di vista. Per dirlo nuovamente con la terminologia di Sen, l’apprendimento continuo si configura come un fattore di “conversione” cruciale per le persone, a tutela della loro capacità di mettere in campo scelte che abbiano significato per la realizzazione di sé e dei propri obiettivi. Tuttavia, a dispetto di questa definizione ampia delle finalità dell’apprendi- mento permanente, lo spostamento di accento dall’occupabilità all’occupazione operato a Lisbona sul piano delle politiche ha finito con il contaminare anche la formazione, contrastando il dispiegarsi di tutte le sue potenzialità, finendo con il favorire lo sviluppo di azioni formative soprattutto in chiave professionalizzante, in stretto rapporto con le esigenze del mercato del lavoro. Laddove connessa ai pro- grammi di attivazione la formazione viene assunta in chiave per lo più economi- cista. I riscontri empirici danno conto di una convergenza in questo senso, anche se ciò sembra avvenire con intensità diversa a seconda dei paesi, nei quali evidente- mente pesano anche altri fattori legati alle caratteristiche socio-economiche, istitu- zionali e politiche del contesto nazionale e più in generale al modello di welfare state in essi prevalente (Esping-Andersen 2000). Semplificando un po’ il quadro si possono individuare al riguardo almeno due modelli di riferimento: l’uno che rimanda ai sistemi di welfare di matrice liberale (anglosassone), l’altro ai sistemi di welfare di matrice socialdemocratica (scandinava). 64 25 Come nota Barbier (2005) il termine workfare (che letteralmente significa work for welfare) è spesso utilizzato per riferire di programmi e schemi assai diversificati. In questa sede lo utilizzeremo nell’accezione più diffusa, ovvero quella che interpreta il welfare to work in termini minimalisti ed economicisti, accentuandone il carattere condizionato e “punitivo”: l’assistenza sociale è garantita so- lo a fronte dell’impegno retribuito nel mercato del lavoro, anche in impieghi sussidiati, con effetti spesso stigmatizzanti e non emancipativi. Il workfare enfatizza cioè il ricorso a misure miste che ero- gano sussidi “in cambio” di lavoro e obbliga le persone che richiedono i benefici del welfare ad ac- quisire “requisiti occupazionali”, accettando di partecipare a programmi di formazione e reinserimen- to lavorativo (cfr. per es. Hvinden 2000). Il primo assegna allo stato sociale un ruolo di protezione minimale per i biso- gnosi, e di autonomizzazione dei soggetti “abili” attraverso il lavoro retribuito, e vi associa una forma efficientista di welfare to work (Barbier 2005; Busilacchi 2006). L’idealtipo qui può essere rappresentato da quello che viene definito workfare25 (come nel caso inglese), nel quale la cittadinanza è connessa all’attivazione econo- mica. Secondo questo modello il godimento dei diritti sociali deve essere subordi- nato alla attivazione dei cittadini sul mercato del lavoro e al rapido inserimento lavorativo (in un impiego “purché sia”: working first ne è il motto). La formazione in questo scenario viene considerata in termini strumentali e come politica dell’oc- cupazione e spesso resta vittima di una prospettiva di breve periodo. Emblematico in proposito quanto accade nel campo della formazione continua, il cui sviluppo è fortemente delegato alle imprese e alle loro strategie di investimento delle risorse umane, cosicché questo finisce con l’essere un settore caratterizzato da un ampio “volontarismo”. Il secondo modello considera lo stato sociale attivo come una forma di investi- mento sociale al cui centro spiccano proprio le politiche orientate al “capitale umano” (Barbier 2005; Giddens 1999; 2007). In tale quadro l’inserimento nel mer- cato del lavoro è una condizione fondamentale ma non necessaria né peraltro suffi- ciente a garantire una cittadinanza attiva: il lavoro retribuito è cioè solo uno degli ambiti possibili per realizzare uno sviluppo umano (Bosi 2003; Busilacchi 2006). Presuppone un riconoscimento elevato e la valorizzazione ampia della formazione (a tutti i livelli e nelle sue diverse tipologie: formale, non formale, informale) come veicolo di empowerment e attivazione delle capacità dei soggetti (la loro libertà di scelta sostanziale, la responsabilità, le possibilità di autorealizzazione). L’idealtipo di riferimento può essere considerato il caso danese, nel quale la cittadinanza è per principio universalistica. Tale modello è da alcuni definito learnfare26. Lo contrad- distinguono la presenza di un sistema formativo “aperto” a uscite e rientri in mo- menti diversi, l’eterogeneità dei percorsi, l’accesso garantito a tutti all’istruzione e alla formazione iniziale e continua finanziata dallo stato, anche a quella erogata e/o gestita dai servizi per l’impiego pubblici. Volendo coniare anche in questo caso un motto si potrebbe dire learning first: gli obiettivi di reinserimento occupazionale passano attraverso il potenziamento delle competenze e della capacità del lavora- tore. Il lifelong learning è promosso e tutelato come diritto per tutti grazie alla pre- 65 26 Il termine learnfare è mutuato dai programmi (diffusi soprattutto nei contesti anglosassoni) di reinserimento scolastico dei giovani adolescenti che abbandonano la scuola perché precocemente di- venuti genitori, e che si ritrovano a dipendere dal welfare, impossibilitati a completare gli studi supe- riori o intrappolati in percorsi di disoccupazione, sottooccupazione e segregazione in lavori dequalifi- cati. Esso rimanda a una visione della formazione come diritto di cittadinanza e strumento di parteci- pazione attiva. senza di una serie di dispositivi normativi (a partire dai congedi formativi), nonché all’azione esercitata in tale senso dalle relazioni industriali che inducono a investire in formazione anche le imprese. Peraltro, non può essere sottaciuto che la centralità assegnata alla formazione nelle politiche di attivazione ha subito negli ultimi anni un indebolimento e che, anche in questo paese, si rintracciano i segnali di una svolta in senso workfarista (Colasanto, Lodigiani 2007). È quest’ultimo un segnale importante perché evidenzia come la lettura dell’at- tivazione in senso economicista sembri prendere piede, e come ne risulti investita anche la formazione. Laddove prevale un’interpretazione monodimensionale la leva formativa finisce con l’essere considerata moneta di scambio con il welfare, quando il lavoro manca. Laddove i programmi di reinserimento attivo non possono contare su una proposta di lavoro (anche sussidiato), in genere mettono in campo una proposta di (ri)qualificazione condizionando alla sua accettazione da parte del soggetto in cerca di impiego l’accesso alle indennità e ai vari benefit. Al welfare to work si affianca dunque un welfare to training. In questi casi la partecipazione a iniziative formative e di apprendimento è considerata segno dell’attivazione al pari del lavoro e della ricerca attiva di esso, e di conseguenza rappresenta criterio per l’accesso alle forme di protezione attivante, quasi ne fosse un “equivalente funzio- nale”. Ma tale equivalenza è sostenibile solo a certe condizioni, ovvero che il con- cetto di lavoro sia inteso nel senso ampio sopra auspicato, che esistano gli adeguati sostegni economici, che siano garantiti i diritti di protezione, e che la formazione sia realmente considerata come “una forma di lavoro”, pensata in un’ottica di lungo periodo come occasione reale di empowerment e non – come spesso accade – solo come certificazione formale della disponibilità al reinserimento lavorativo, co- struita su percorsi brevi che si configurano più come parcheggi temporanei di quanti sono in cerca di impiego; solo come qualcosa che deve riportare al lavoro le persone nel più breve tempo possibile. Allora forse si potrebbe pensare a una sorta di welfare to learning. Quand’anche tali condizioni siano rispettate, occorre fare i conti con i processi che, invece di configurare la formazione e l’apprendimento permanente come fonte di compensazione delle scrittivinze, come reali fattori di “conversione”, di potenziamento delle capacità produttive e di partecipazione at- tiva in senso lato, al contrario li rendono fattori di stratificazione sociale e perfino di discriminazione. 66 27 Inda.Co. 2005 Lavoratori - Atteggiamenti e comportamenti dei lavoratori verso la formazione continua; cit. in ISFOL (2006). 5. Per eque opportunità di apprendimento Le verifiche di implementazione della strategia di Lisbona, realizzate dalla Commissione Europea stessa, indicano che la partecipazione degli adulti alle varie tipologie di apprendimento permanente appare ampiamente correlata in tutta Europa all’età, al genere, al titolo di studio già posseduto, alla posizione occupazio- nale. La correlazione più elevata è quella tra il livello di istruzione e la propensione formativa lungo l’arco della vita, così come accade in merito alla posizione occu- pazionale, che vede quanti impegnati in una attività retribuita stabile accedere con molta più facilità alle iniziative formative di qualunque tipo. Basti un dato. Il benchmark per la partecipazione alle iniziative di lifelong learning della popola- zione tra i 25 e i 64 anni è fissato al 12,5% per il 2010. La media europea si è attestata al 10,8% nel 2005, ma solo al 3,4% se si considerano i soggetti con al massimo un titolo di studio superiore (in Italia il valore relativo scende addirittura all’1%) (ISFOL 2006). Le stesse dinamiche si rilevano in corrispondenza del coin- volgimento nella formazione continua. Secondo un’indagine ISFOL27, quasi un lavoratore su tre (32,7%) in Italia ha fruito, nel corso del 2004, di iniziative di for- mazione collegate al proprio lavoro, al fine di aggiornare, migliorare o acquisire nuove competenze. Ma l’incidenza è molto più significativa tra i dipendenti con i più alti livelli di inquadramento, professionalità e istruzione (in particolare, l’ac- cesso alle attività di formazione continua è direttamente proporzionale al titolo di studio posseduto: la media dei formati varia tra il 12,5% dei lavoratori con licenza elementare, il 39,2% dei diplomati e il 60,6% dei laureati). Le tendenze sono come noto le stesse se si guarda ai dati relativi all’utilizzo dei voucher individuali. La loro introduzione a sostegno della domanda formativa individuale sembra capace di intercettare solo una fascia dell’utenza “bisognosa” di sostegno, ovvero i soggetti più istruiti, magari già orientati a investire in formazione ma esclusi dai canali aziendali perché ancora in cerca del primo inserimento nel mercato del lavoro o impiegati con contratti di lavoro non standard che li lasciano ai margini del mercato interno e delle politiche per le risorse umane delle aziende: lavoratori atipici, giovani inoccupati, donne (specie al rientro dopo la maternità), dipendenti di piccole imprese, aspiranti imprenditori, tutti ad alta domanda potenziale di for- mazione. Mentre resta molto più difficile che intercetti la componente più debole della forza lavoro, la meno istruita, che fa poca formazione e altrettanto poca ne domanda dentro e fuori l’impresa (Pizzuti 2007; MLPS 2005). Puntare alla piena occupazione dunque non basta, se questa è sempre più con- dizionata dalle capacità professionali e dall’accesso alla conoscenza. Occorre garantire l’equità nelle opportunità di partenza e soprattutto lungo l’arco della vita 67 attiva, cercando di restituire in modo permanente i mezzi per rimettersi in carreg- giata (Esping-Andersen 2005). In ambito formativo il lifelong learning punta pro- prio a questo, ma la sua azione è inficiata da disuguaglianze che si tramandano e cumulano in chiave intergenerazionale. La formazione tende a cadere verso l’alto ovvero a concentrarsi là dove già c’è: la formazione genera nuova formazione (learning begets learning) e dunque gli investimenti più efficaci sono quelli che si realizzano nei primi anni di sviluppo della persona (Heckman 2003). Se le opportu- nità di formazione in età adulta sono condizionate dal capitale umano pregresso, allora il potenziale di recupero degli svantaggi, di miglioramento dell’occupabilità di sostegno all’attivazione, di crescita dell’empowerment insito nelle iniziative di li- felong learning, secondo quanto auspicato dentro il sistema di welfare attivo, risulta frenato. In altri termini, al momento, il lifelong learning difficilmente riesce a porre rimedio alle disuguaglianze che si determinano già nel corso dell’istruzione e della formazione iniziali, anzi rischiano di rinforzarle. Percorsi difficoltosi, uscite precoci dal sistema educativo istituzionale producono effetti cumulativi nel tempo, dando luogo a carriere lavorative più esposte ai rischi di precarizzazione, marginalizzazione negli impieghi meno qualificati, difficoltà di fruizione di ulteriori opportunità forma- tive. La possibilità che esso sia in grado di offrire occasione permanente di recupero e sviluppo di nuove competenze, abilità e conoscenze si regge sulla costru- zione di un sistema educativo che a tutti i livelli e in tutti i percorsi garantisca di svi- luppare quelle abilità di apprendimento continuo che saranno necessarie per contra- stare nel tempo le dinamiche di esclusione che si producono nella knowledge society. Non basta però affermare un diritto perché esso si realizzi nella pratica, oc- corre vigilare sulle condizioni alle quali esso si traduce in capacità di azione, tanto più se la possibilità di esigere il rispetto di tale diritto viene a dipendere dall’attiva- zione (e dalle scelte) del soggetto interessato. È questa l’unica base sulla quale può essere costruito un sistema di learnfare che sia insieme efficace ed equo, che non discrimini tra quanti hanno accesso alla formazione e quanti ne restano ai margini, magari semplicemente perché incapaci di coglierne le occasioni in quanto non so- stenuti dalla famiglia o dal datore di lavoro. Dunque occorre operare sulle condi- zioni universalistiche dell’accesso alla formazione, al fine di scongiurare il rischio che essa si configuri come un fattore di disuguaglianza sociale che, in un contesto di scolarizzazione crescente, penalizza proprio i soggetti meno istruiti. Non è solo un problema di opportunità. Esistono almeno tre livelli sui quali possono innescarsi i processi di disuguaglianza: dei diritti, dell’accesso a tali di- ritti, della capacità di tradurli in risorse per l’azione. È su questo terzo livello che occorre concentrarsi se si vuole garantire l’esercizio di una libertà sostanziale, che – tornando al linguaggio di Sen – si regga sulle capabilities di tradurre i diritti in opportunità reali per l’autorealizzazione e l’autodeterminazione. In altri termini la garanzia formale dei diritti non implica da sé sola eguali opportunità di fruirne, di esigerli e utilizzarli a proprio vantaggio. La difficoltà sta dunque nel non fermarsi alla definizione di un quadro normativo che sancisca la formazione come un diritto 68 per tutti, perché questo non è sufficiente. Occorre anche agire sulle condizioni so- ciali e istituzionali alle quali essa sia effettivamente un diritto esigibile in tutte le sue potenzialità al di là delle differenze e delle disuguaglianze che esistono tra i soggetti. Altrimenti il lifelong learning continuerà ad intercettare solo la domanda di formazione di chi è già ad alto potenziale formativo. È dunque un problema di eque opportunità quello che si pone, non solo con riferimento generale al welfare (Busilacchi 2006), ma con riferimento specifico all’ambito dell’apprendimento continuo. Sfuggire alle trappole dello svantaggio sociale, e ai rischi di ereditarietà connessi, ha una implicazione sul piano degli obiettivi di intervento di uno stato sociale attivo: concentrare gli sforzi sulle poli- tiche di formazione e di accrescimento del capitale umano (Ferrera 2004). Con rife- rimento alla formazione, affinché essa possa realmente rappresentare un fattore di empowerment e non un fattore ulteriore di stratificazione sociale e disuguaglianza occorre però riflettere su cosa significhi il mirare a garantire eque opportunità sin dai primi livelli del sistema formativo. Passa di qui la sostenibilità del learnfare e della centralità dell’investimento in capitale umano in un regime di welfare attivo, laddove quest’ultimo voglia essere orientato a sviluppare l’assetto di capacità necessarie per il benessere della persona, comprese quelle educative, formative, di apprendimento. 6. Per concludere: dal Workfare al Learnfare? L’ipotesi del learnfare – inteso come modello di welfare attivo e abilitante, in- tegrativo (non sostitutivo) a quello di welfare to work e soprattutto integrativo al workfare – si regge sulla convinzione che la formazione (o meglio, l’apprendi- mento continuo, il lifelong learning) rappresenti un diritto sociale, un diritto di cit- tadinanza. Ma occorre definire le condizioni affinché tale diritto sia esigibile da tutti (non solo dai lavoratori già occupati o più qualificati, come di fatto oggi accade); in altri termini occorre che il diritto individuale alla formazione sia dav- vero in grado di proteggere e sostenere la capacità di accesso di ogni cittadino, lavoratore e non, alle opportunità formative esistenti. Ciò è possibile a patto che la fruizione di tale diritto sia garantita a tutti indipendentemente dalla posizione occu- pazionale dei soggetti; che esistano eguali opportunità di portare a compimento in modo positivo il percorso intrapreso; che si sviluppi a tutti i livelli e in tutti i percorsi del sistema formativo la capacità di apprendere ad apprendere, così da imparare a riconoscere il valore di un investimento in capitale umano a tutte le fasi e situazioni del corso di vita. Per rappresentare realmente un fattore di empowerment dei soggetti e sfuggire al rischio di costituirsi invece come fattore di stratificazione sociale, la formazione dovrebbe allora accompagnarsi allo sviluppo di un’altra capacità (oltre a quella di lavoro e di espressione prima definite): la capacità educativa, di apprendimento 69 (capability for education, o capabilitiy for learning), ovvero la capacità di cogliere il valore di opportunità rappresentato dalla formazione, ma anche di scegliere tra diverse opzioni formative quella di valore per sé. Per svilupparla occorre interve- nire a livello di sistema formativo allargato, sin dall’istruzione e dalla formazione professionale iniziali, e prima ancora dalla scuola primaria e dell’infanzia, se è vero che la stessa efficacia della formazione continua e permanente affonda le sue radici nelle abilità cognitive e di apprendimento acquisite prima dell’ingresso nel mondo del lavoro, nei percorsi formativi istituzionali e non. Non è dunque una questione solo di disponibilità di opportunità formative, ma anche di valore attribuito ad esse, di condizioni alle quali la scelta tra di esse viene compiuta. In questo scenario l’eterogeneità dei percorsi diventa un valore, se inscritta in un quadro di pari dignità e riconoscimento sociale. Un valore poco pra- ticato nel nostro paese dove invece l’eterogeneità spesso si associa a forme di dis- uguaglianza; alcuni percorsi sono socialmente svalutati; le possibilità di scelta e i tassi di successo sono ancora influenzati da appartenenze ascritte; e spesso manca un adeguato sostegno nelle scelte da compiere e lungo i percorsi intrapresi. Gli assunti del learnfare, infatti, rimandano alla convinzione che l’inclusione sociale e l’attivazione passino anche attraverso una partecipazione elevata al sistema forma- tivo, e che quest’ultimo debba garantire a tutti eguali opportunità (fossero anche di “seconda chance”) di raggiungere i livelli più elevati, ma anche di scegliere i per- corsi che più si confanno alle proprie capacità e aspettative. In un simile contesto, la capability for education può essere sviluppata a patto che, oltre alla garanzia del diritto soggettivo alla formazione, siano tutelati anche i diritti di accesso, successo e libertà sostanziale attraverso dispositivi che consen- tano di annullare e superare le disuguaglianze di partenza lungo il percorso: borse di studio per evitare un sottoinvestimento in istruzione da parte di chi non possiede un adeguato capitale economico; misure di orientamento per sostenere scelte auto- nome da condizionamenti di tipo scrittivi; servizi di accompagnamento nel corso degli studi per combattere i fenomeni di drop out; politiche capaci di valorizzare la specificità di ciascun percorso formativo e di non rendere “scelta obbligata” l’inse- guimento del titolo di studio più elevato nel rispetto della pari dignità e specificità dei percorsi necessarie all’esercizio di una libertà sostanziale di scelta; imprese che sappiano valorizzare il capitale umano di cui dispongono; un sistema di formazione continua e permanente che sappia intercettare tutti i beneficiari potenziali, e non solo quelli già ad alto potenziale formativo. È su questo terreno che si gioca la partita del learnfare e la possibilità di rivisitarlo alla luce di un approccio al welfare attivo che metta al centro la capacità in luogo dell’occupabilità, anche in ambito formativo. 70 BIBLIOGRAFIA ACCORNERO A. (1997), Era il secolo del lavoro, Il Mulino, Bologna. ACCORNERO A. (2000), La “società dei lavori”, “Sociologia del lavoro”, 80. AMBROSINI M., BECCALLI B.M. (2000), Introduzione, in Lavoro e nuova cittadinanza, “Sociologia del Lavoro”, n. 80, pp. 7-28. BARBIER J. C. (2005), Attivazione, in “La rivista delle politiche sociali”, n. 1. BAUMAN Z. (2004b), Lavoro, consumo, nuove povertà, Città Aperta Edizioni, Troina (EN). BECK U. (2000b), Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Einaudi, Torino. BIFULCO L. (2005), a cura di, Le politiche sociali. Temi e prospettive emergenti, Carocci, Roma BOCCA G. (2002), Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente, in “Professiona- lità”, n. 67. BONVIN J.M., FARVAQUE N. 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Una lunga storia in Formazione Continua Porsi di fronte alla Formazione Continua (FC) per tentare la ricostruzione di una mappa utile a fini operativi ci obbliga ad assumere con decisione la variabile tempo come variabile strategica al fine di comprendere il tragitto già percorso, ma soprattutto per condividere la strada che ci aspetta e rispetto alla quale non è più consentito un atteggiamento di pigrizia o di attesa. Ci troviamo infatti di fronte ad una lunga storia “in formazione continua”, di cui è utile recuperare alcuni passaggi in relazione sia alla dimensione europea, sia a quella nazionale. Uno “sguardo europeo” ci consegna una doppia consapevolezza: da un lato la grande attenzione che la formazione è riuscita a coagulare, dall’altro la necessità di tempi adeguati per passare dalle dichiarazioni alle traduzioni operative: - sono passati 45 anni dal lontano 1963, quando il Consiglio europeo (Deci- sione n. 266, 23 aprile 1963) afferma il diritto di ogni persona alla forma- zione professionale, al suo adattamento e qualora sia necessario ad una riqualificazione lungo tutta la vita lavorativa; - sono trascorsi 12 anni dal 1996, anno europeo della formazione continua e anno di pubblicazione del Libro Bianco sulla formazione; - compiono 8 anni le conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona (23-24 marzo 2000) in cui gli Stati membri condividono l’obiettivo di creare, entro il 2010, la più competitiva e dinamica economia del mondo, basata sulla conoscenza; - abbiamo già investito 5 anni a partire dal 2003 quando viene stabilito che entro il 2010, il livello medio di partecipazione a forme di apprendimento lungo tutto l’arco della vita nell’Unione europea sia pari ad almeno il 12.5% della popolazione adulta in età lavorativa (Consiglio europeo, 22 luglio 2003). La scommessa di coniugare sviluppo economico ed equità sociale pone all’intera Comunità europea una sfida bi-fronte: da un lato la distanza dagli obiet- tivi concordati nel 2000 e rivisti nel 2005 è tale da consigliare una conferma degli investimenti ben oltre la naturale scadenza concordata a Lisbona; dall’altro resta la necessità di procedere secondo obiettivi prefissati, tempi nei quali realizzarli e indici di misurabilità. 73 Uno “sguardo interno”, invece, può essere utile per riconoscere come lo sviluppo della FC nel nostro Paese abbia tratto vantaggio, oltre che dall’impulso proveniente dal contesto comunitario, anche da una relazione virtuosa tra azione legislativa e contrattuale. Ripercorrendo il cammino di una “storia nazionale” della FC è importante rile- vare come gli Anni Novanta registrino un progressivo intensificarsi degli sforzi per un irrobustimento del sistema formativo: - il Protocollo del 31 luglio 1992, tra Governo e Parti sociali, si presenta come un impegno da parte del Governo “a porre mano alla riforma del sistema di formazione professionale, in modo che esso sia effettivamente posto in grado di realizzare un servizio di formazione permanente […] capace di sintoniz- zarsi con le innovazioni organizzative e tecnologiche”; - con l’Accordo Interconfederale del 20 gennaio 1993 le Organizzazioni Sin- dacali e Confindustria pongono la necessità della “messa a punto di un sistema di formazione continua, finanziato dal Fondo nazionale per la forma- zione continua e fondato su una legislazione di sostegno”. Nello stesso tempo le parti danno vita ad un sistema di organismi paritetici bilaterali a livello regionale, coordinati da un organismo di livello nazionale; - il Protocollo Ciampi, del 23 luglio 1993, prevede l’attivazione di un canale di finanziamento della FC; - l’Accordo per il lavoro del 24 settembre 1996 e il Patto di Natale del 22 di- cembre 1998 costituiscono due passaggi importanti. Gli Anni Novanta di fatto si concludono con la costituzione di un Fondo interprofessionale per “la realizzazione di interventi di formazione continua previsti da piani formativi aziendali e territoriali concordati tra le parti sociali”. Il XXI secolo per la FC si presenta come il periodo della stabilizzazione e della progressiva integrazione del sistema: - il Patto per l’Italia del 5 luglio 2002 colloca la FC quale parte integrante di un sistema efficiente di ammortizzatori sociali, assumendo un’ottica di wel- fare to work; - attraverso l’Accordo Interconfederale per lo sviluppo, l’occupazione e la competitività, del 19 giugno 2003, le parti sociali si impegnano a favorire il pieno decollo del sistema dei fondi anche attraverso l’utilizzo degli orga- nismi bilaterali regionali in funzione di assistenza alle imprese e ai lavoratori, nonché tramite politiche contrattuali che valorizzino i congedi formativi. Il tentativo di recuperare le tappe più rilevanti della lunga storia in Formazione Continua ci consente di poter apprezzare come “una delle più interessanti novità del panorama delle relazioni industriali degli anni novanta e del nuovo secolo è proprio l’assunzione della formazione professionale, e in particolare di quella continua, tra le materie oggetto di un interesse convergente delle parti sociali” (Corti 2007, p. 169). 74 Segnaliamo, al fine di ricostruire un quadro complessivo della FC anche attra- verso una comparazione tra diversi casi nazionali, i preziosi contributi di Matteo Corti (2007) e di Silvia Mazzucotelli Salice, Dentro e fuori il labirinto europeo della formazione continua, all’interno del volume curato da Silvia Cortellazzi (2007). 2. Il sistema italiano di FC: una prima mappa di riferimento Lasciando ad altre tipologie di contributi una trattazione puntuale di ciascuno degli strumenti di sostegno finanziario a disposizione dei percorsi di FC, ci po- niamo l’obiettivo di fornire una prima “mappa di riferimento”, utile ad orientarsi nella “galassia formazione”. All’interno del sistema italiano di FC possiamo individuare i seguenti stru- menti di sostegno finanziario: le iniziative regionali; gli interventi del Fondo So- ciale Europeo; i finanziamenti del Fondo ex art. 9, comma 5, legge n. 236/1993; i fondi paritetici interprofessionali. 2.1. Le iniziative regionali In seguito all’evoluzione legislativa “all’inizio del nuovo secolo le Regioni appaiono dunque attore fondamentale della formazione continua. Il nuovo quadro costituzionale affianca alla competenza regionale esclusiva sulla formazione pro- fessionale anche quella concorrente in materia di servizi per l’impiego e politiche attive del lavoro: ne risulta la possibilità per ogni Regione di condurre la propria strategia in materia di formazione continua non soltanto attraverso la predisposi- zione di appositi corsi o il sostegno finanziario alla loro organizzazione, ma anche mediante l’utilizzo di più complessi schemi che incentivino le imprese e/o i lavora- tori a percorrere la via dell’apprendimento permanente” (Corti 2007). Sul ruolo delle Regioni pesa in maniera rilevante il grado di dipendenza dai finanziamenti dal FSE. Si registra infatti un andamento ancora di più preoccupante rispetto ad un 2004 quando l’84% del finanziamento era di natura comunitaria. 2.2. Gli interventi del Fondo Sociale Europeo Il Fondo Sociale Europeo ha rappresentato una grande opportunità per sostenere investimenti in FC, all’interno della sua missione di “promozione e miglioramento della formazione professionale […] nell’ambito di una politica di apprendimento nell’intero arco della vita” in modo da favorire la “promozione di una forza lavoro competente, qualificata e adattabile”. L’avvio della nuova programmazione 2007-2013 rilancia una particolare atten- zione alla risorsa umana “tramite l’elaborazione di sistemi e strategie di formazione permanente che garantiscano un più agevole accesso alla formazione per i lavora- 75 tori meno qualificati e più anziani” (art. 3 Regolamento FSE 2007-2013). Con l’avvio dei Fondi Interprofessionali il canale di finanziamento europeo sembra diventare progressivamente meno interessante, per cui è possibile stimare che le ri- sorse programmate non verranno completamente impiegate, soprattutto tenendo conto che già nel 2005 solo il 45.8% delle risorse programmate veniva speso. 2.3. I finanziamenti del Fondo ex art. 9, comma 5, legge n. 236/1993 Il Fondo, dopo le modifiche intervenute nel 2005, è oggi finanziato da 1/3 del contributo 0.30 dei datori di lavoro che non aderiscono ai fondi e da altre risorse re- lative all’art. 66, comma 2, legge 17 maggio 1999, n. 144. In questo contesto il Ministero del lavoro, le Regioni e le Province autonome possono contribuire al finanziamento di interventi formativi rivolti a lavoratori iscritti alle liste di mobilità, formulati congiuntamente dalle imprese e dalle orga- nizzazioni sindacali, anche di livello aziendale, o dalle associazioni sindacali e datoriali, anche mediante i propri organismi paritetici per la formazione. Sono altresì possibili interventi rivolti a lavoratori occupati in aziende beneficiarie dell’intervento straordinario della cassa integrazione guadagni; interventi di riquali- ficazione e aggiornamento professionale per dipendenti da aziende che contribui- scono in misura non inferiore al 20% del costo delle attività; azioni a favore degli operatori della formazione professionale finanziate però attraverso le disponibilità relative alla legge 12 novembre 1988, n. 492. Il decennio che va dal 1996 al 2006 ha rappresentato un tempo di progressiva evoluzione sia sul fronte dei destinatari, sia su quello dell’architettura e del funzio- namento del sistema. In particolare l’introduzione di un piano formativo concordato tra le parti sociali diventa condizione necessaria per l’accesso al finanziamento e alle Regioni viene consentito di riservare una quota di finanziamento del Fondo per la formazione professionale ad azioni di formazione promosse individualmente da lavoratori occupati. Ad oggi è possibile avanzare una valutazione positiva del Fondo in quanto “la sua entrata a regime ha comportato un raddoppio netto della capacità del paese di fare formazione continua”, ha generato “un effetto moltiplicatore delle attività delle imprese” e ha consentito “meccanismi stabili di finanziamento anche dei pro- getti formativi presentati dai lavoratori su base individuale” (Corti 2007, p. 202). L’esperienza ci consegna contemporaneamente delle sfide per il futuro: 1) accrescere la capacità di utilizzo dell’intero ammontare delle risorse dispo- nibili; 2) sviluppare un protagonismo reale delle Organizzazioni sindacali all’interno dei processi di costruzione dei Piani formativi; 3) potenziare il ruolo di coordinamento delle Regioni al fine di contenere i ri- schi di sovrapposizione con gli obiettivi dei Fondi paritetici, ma anche per favorire livelli significativi di sinergie. 76 2.4. I fondi paritetici interprofessionali I fondi paritetici interprofessionali rappresentano un ulteriore strumento di sostegno finanziario alla FC. Tale tipologia “risponde a principi di sussidiarietà orizzontale: la pubblica amministrazione si ritrae e valorizza il ruolo del cosiddetto “bilateralismo sindacale”, cioè delle istituzioni promosse e gestite congiuntamente dalle Parti sociali” (Varesi 2007, p. 8). Nel contesto della FC l’assunzione di responsabilità delle Organizzazioni dato- riali e di quelle sindacali, soggetti prossimi alle reali dinamiche dei processi pro- duttivi, può garantire una lettura dei fabbisogni maggiormente aderente ai diversi contesti e una gestione del sistema meno farraginosa e rigida. I Fondi interprofessionali, costituiti mediante accordi interconfederali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale, sono finanziati attraverso le risorse provenienti dal contributo dello 0.30% delle retribuzioni, versato all’INPS dalle imprese (art. 25, c. 4, Legge 21 dicembre 1978, n. 845, Legge quadro in materia di formazione professionale). Il lavoro di Marta Pepe (in Cortellazzi 2007, p. 142), “I fondi paritetici inter- professionali: una visione d’insieme”, è di sicuro aiuto per quanti hanno interesse a costruirsi un quadro di sintesi. A tale lavoro rimandiamo per una trattazione anali- tica del tema. Da parte nostra, invece, nel paragrafo 3 proveremo a proporre alcune traiettorie, affrontando i dati messi a disposizione dal Rapporto ISFOL 2007. La mappa della FC costruita attraverso la categoria “strumenti di finanzia- mento” può essere riarticolata assumendo la lettura di Pier Antonio Varesi che rilegge l’esperienza italiana della FC in funzione di tre filoni che caratterizzano la legislazione in materia: 1) il finanziamento diretto da parte della pubblica ammini- strazione di attività di formazione continua; 2) l’assegnazione di risorse a fondi gestiti congiuntamente dalle Parti sociali (i Fondi paritetici interprofessionali nazionali) per il sostegno di attività di formazione continua; 3) il riconoscimento ai lavoratori dipendenti da datori di lavoro pubblici e privati, del diritto di congedi per la formazione. Altre mappe sono possibili assumendo ad esempio i destinatari dei processi produttivi, piuttosto che gli erogatori della formazione. Quello che ci pare impor- tante segnalare è comunque la necessità di costruire “mappe condivise” al fine di aumentare il grado di visibilità del sistema in relazione sia ai soggetti fruitori della formazione, sia ai soggetti che concorrono alla gestione del sistema. Ad oggi non- ostante un grande sforzo sul piano dell’informazione e della formazione è possibile rilevare una persistente opacità del sistema che di sicuro non favorisce un’imma- gine di trasparenza e di efficacia. 77 3. Una storia ricca di ambivalenze Il Rapporto ISFOL 2007 offre un interessante quadro in relazione all’anda- mento della FC nel nostro Paese, in cui segnali di fatica convivono con quelli di speranza e in cui ambivalenza e complessità risultano dati distintivi dell’attuale si- stema formativo. I dati ricavati dal sistema informativo Excelsior sui fabbisogni professionali e formativi delle imprese italiane ci consegnano un quadro preoccupante: nel periodo 1996-2006 il ruolo della formazione nelle imprese italiane non sembra cresciuto molto e “sembrerebbe rimarcare un’insufficiente attenzione delle imprese italiane per le esigenze di crescita del proprio personale e di sviluppo delle capacità di com- petere basandosi sul valore del fattore umano” (Rapporto ISFOL 2007, p. 106). Accanto alle difficoltà degli investimenti privati viene segnalata una scarsa in- cidenza del finanziamento pubblico (6.1 nel 2005) cui si aggiungono le difficoltà di integrazione fra i diversi sub-sistemi centrali, decentrati e settoriali in cui soggetti diversi come il Ministero del Lavoro e della previdenza sociale, il Coordinamento delle Regioni, le singole Regioni e Province e i Fondi Interprofessionali, faticano non solo a trovare adeguati livelli di coordinamento, ma anche ad individuare mo- dalità di intervento in grado di evitare duplicazioni e sovrapposizioni. Le dimensioni aziendali e la collocazione geografica restano fattori determi- nanti per spiegare una differente propensione alla formazione da parte delle aziende: essere una grande azienda, residente nel Nord-Est del Paese e operante nei servizi rappresenta oggi una condizione di maggiore vantaggio. A partire dal 2000 si evidenzia un aumento del divario tra micro e grande im- presa, fino a giungere nel 2006 in cui tra le “imprese formatrici” si registra il 16% di micro-imprese e il 73% di grandi. Un divario importante persiste anche sul fronte della partecipazione dei dipendenti alle attività di formazione: l’8.8% è di provenienza dalle micro-imprese e il 41% delle grandi. Un dato che giustifica un certo grado di fiducia nei confronti dell’ipotesi che il sistema della FC, seppur lentamente, stia avviandosi verso un trend di sviluppo po- sitivo è quello che arriva dalla quota di lavoratori dipendenti formati all’interno di percorsi strutturati: se nel 2005 essi rappresentavano il 18.5%, nel 2006 gli stessi hanno raggiunto il 21.2%. Sul lato della domanda di FC, l’indagine ISFOL INDACO-Lavoratori (Atteggia- menti e comportamenti verso la formazione continua) ci consegna alcune evidenze: 1) la FC dei lavoratori, finalizzata all’aggiornamento professionale o all’ac- quisizione di nuove competenze, coinvolge oggi una quota ampia ma an- cora largamente insufficiente di lavoratori: sono in media un terzo gli occu- pati che nell’arco di un anno hanno l’opportunità di partecipare ad almeno un’attività di formazione collegata al proprio lavoro; 2) la partecipazione non è diffusa in modo omogeneo all’interno della popo- lazione degli occupati: sono infatti presenti differenze molto accentuate nei livelli di partecipazione fra dipendenti pubblici, privati e autonomi; 78 3) tali differenziazioni si ripropongono all’interno di ciascuno dei tre rag- gruppamenti professionali, creando uno “spartiacque” nelle modalità di accesso alle opportunità formative, sulla base delle caratteristiche indivi- duali, culturali e socio-economiche del lavoratore. Ancora una volta tra i fattori discriminanti per il diritto di accesso alla forma- zione assumono particolare rilevanza l’ appartenenza al gruppo professionale, le ca- ratteristiche individuali del lavoratore e il livello d’istruzione. Come in altri casi si registra una maggiore fatica alla partecipazione da parte dei lavoratori in possesso del diploma di scuola dell’obbligo rispetto a coloro che hanno conseguito la laurea, così come “livelli più bassi di partecipazione si riscontrano anche fra gli over 55 e le donne, tranne che fra i dipendenti pubblici, fra i quali l’andamento si presenta in forma rovesciata, a favore delle donne. (Rapporto ISFOL 2007, 136-137). Sul fronte degli interventi finanziari a sostegno della FC occorre essere consa- pevoli che siamo di fronte ad una massa di risorse economiche a disposizione dei processi formativi mai registrata prima nel nostro Paese. Attraverso i Fondi Inter- professionali sono state stanziati circa 459 milioni di euro, somma che non com- prende quanto erogato attraverso il “conto aziendale” e gli investimenti messi in campo per le attività propedeutiche alla realizzazione dei Piani formativi. A ciò si aggiungono le risorse della Legge 236/1993 e quelle della Legge 53/2000 che hanno rappresentato il canale tradizionale di finanziamento dei Piani formativi concertati a livello territoriale. Ci troviamo dunque di fronte ad un quadro fortemente mutato: 1) con l’arrivo delle risorse relative ai Fondi paritetici il “finanziatore istituzionale” non è più in una condizione di monopolio rispetto alla titolarità delle risorse; 2) il “finanziatore istituzionale” non più monopolista ha titolarità su una quota minoritaria dell’intero ammontare delle risorse per la FC; 3) in assenza di un quadro di riferimento comune in grado di sostenere virtuosi processi di integrazione si corre il rischio di sovrapposizioni, di divergenze e di mancato presidio di aree particolarmente com- plicate. In questo contesto “risulta ovvio che la praticabilità delle strategie di integra- zione dipende sia dal ruolo che le Parti sociali (promotrici dei fondi paritetitici) svolgeranno nella concertazione di livello locale (che solitamente precede e prepara i provvedimenti attuativi regionali), sia dalla qualità e dalla profondità della con- certazione stessa” (Rapporto ISFOL 2006, 152). Tale esigenza di integrazione è assunta e rilanciata anche dal Ministero del la- voro che da parte sua nel provvedimento di riparto delle risorse della Legge 236/1993 (D.D. 40/2007) impone “alle amministrazioni, in accordo con le Parti sociali, di individuare gli ambiti prioritari di intervento (tipologie di lavoratori e imprese, specifici settori, territori, filiere produttive, aree distrettuali) e di formu- lare, attraverso la concertazione, una programmazione quantitativamente definita (quindi verificabile nei suoi risultati), tenendo conto delle prioritarie esigenze di integrazione tra i diversi strumenti di sostegno” (Rapporto ISFOL 2006, p. 152). 79 Le esigenze di integrazione già rilanciate dalla stessa Corte costituzionale orientano anche l’Accordo tripartito tra Ministero del Lavoro, Regioni e Parti sociali (aprile 2007). Tale Accordo si pone l’obiettivo di definire nuove modalità di coordinamento tra la programmazione regionale e quella della bilateralità, in grado di dare vita ad un “sistema nazionale di formazione continua progressivamente ordinato, non concorrenziale ma integrato”. Le parti individuano l’Osservatorio nazionale per la FC quale strumento per l’integrazione: all’Osservatorio istituito presso il Ministero del Lavoro partecipano le Parti Sociali promotrici dei Fondi, le Regioni e l’ISFOL con funzione di assi- stenza tecnica; l’obiettivo è quello di produrre linee guida generali sulla FC, soprat- tutto in relazione all’avvio della fase a regime dei Fondi Interprofessionali. La cornice creata dall’Accordo di aprile 2007 sta favorendo l’avvio di processi regionali che assumono l’integrazione come obiettivo. Di particolare interesse appare l’esperienza del Veneto e dell’Emilia Romagna dove vengono progettati “tavoli permanenti finalizzati all’elaborazione strategica e programmatica, al coor- dinamento dei sistemi di monitoraggio, alle intese in materia di certificazione dei percorsi formativi e di accreditamento delle strutture erogatrici” (Rapporto ISFOL 2006, p. 158). Il Ministero del Lavoro assume un ruolo decisivo sia sul fronte del monito- raggio integrato fra i Fondi e i sistemi regionali che viene affidato ad una task-force ISFOL-Italia Lavoro, sia per l’avvio della valutazione dei Fondi. 4. Una storia in Formazione Continua: verso nuovi traguardi Il percorso della FC nonostante un andamento non sempre lineare, a volte ad- dirittura carsico e segnato da rallentamenti e da soste molto prolungate ci consegna oggi una “piattaforma” largamente condivisa che sembra segnalare il buon grado di consapevolezza raggiunto dagli attori politici e sociali circa il rapporto tra la forma- zione e lo sviluppo socio-economico. È necessario “oggi puntare a nuovi traguardi, a partire dal superamento di alcune criticità […] In primo luogo vanno dedicate molte cure al rafforzamento strutturale del sistema: - è ancora troppo tenue il collegamento tra formazione e sviluppo di carriera. L’attività formativa rischia di essere percepita dai lavoratori come obbligo e non come opportunità…; - l’accordo tra Stato, Regioni e Parti sociali è in larga parte un elenco di azioni che devono essere implementate nel prossimo futuro e che richiedono im- portanti scelte organizzative da parte dei Fondi…; - la gracilità dei Fondi in alcune aree (in specie nell’area delle piccole e picco- lissime imprese e nel Mezzogiorno) impedisce al momento di considerare il sistema dei Fondi interprofessionali come un autentico sistema nazionale…; - se vogliamo che le attività formative rispondano sempre di più alle effettive esigenze aziendali (…) occorre investire anche nella preparazione di un ade- 80 guato numero di formatori specializzati nella lettura dei fabbisogni aziendali di formazione continua […]. La principale sfida per il futuro può però essere individuata nella trasforma- zione delle attività di formazione continua in una forma di esercizio generalizzato del diritto alla mobilità professionale” (Varesi 2007, p. 15). Accanto alle attenzioni allo sviluppo strutturale è necessario mantenere alta la consapevolezza circa la pre- senza di alcune direttrici che possono orientare lo sviluppo della FC in Italia: 1) una prima direttrice è la ricerca di una sintesi fra le esigenze di natura aziendale e la domanda di formazione espressa dalla singola persona con obiettivi di sviluppo professionale, in coerenza con il proprio progetto di vita. Nello stesso art. 5 della Legge 53/2000 secondo la lettura proposta da Pier Antonio Varesi può essere rinvenuto il “principio per cui l’interesse del lavoratore a migliorare la propria cultura e professionalità, anche non in relazione alle scelte aziendali, merita una particolare attenzione dell’ordi- namento, in quanto il suo soddisfacimento corrisponde a un interesse della collettività, di rilievo costituzionale” (Varesi 2007, p. 10) ; 2) una seconda direttrice fa riferimento all’idea di “sistema” e soprattutto al- l’idea di integrazione fra i diversi sotto-sistemi. Tra le letture possibili Silvia Cortellazzi ci offre una visione per cui “è il sistema di formazione professionale regionale a costituire il punto di riferimento fondamentale della formazione continua: da una formazione di base orientata alla profes- sione e alla qualifica fino alla “manutenzione” della stessa, attraverso per- corsi individualizzati e mirati, la formazione continua si propone come punto di arrivo di un percorso ideale di costruzione e conservazione della professionalità” (Cortellazzi 2007, p. 17); 3) una terza direttrice è quella che pone grande attenzione al tema della governance della FC. Se attraverso i Fondi paritetici si è imposto come strumento di governo l’associazione guidata dal principio della concerta- zione organizzativa, occorre altresì avere ben presenti i rischi connessi a tale opzione. Tra essi emerge “il rischio dell’egoismo di gruppo”, ovvero la tentazione di concentrarsi sulla domanda tradizionalmente rappresentata a scapito di quella emergente e spesso non ancora in grado di essere organiz- zata stabilmente. In questo senso per Ivana Pais “le Parti sociali devono saper rappresentare e gestire la varietà degli interessi organizzati…” e pone la necessità di “passare da relazioni industriali basate sullo scambio (tra formazione e altro) o sulla spartizione (tra formazione e formazione) a forme di vera e propria integrazione”, attraverso le quali “soddisfare gli in- teressi e raggiungere gli obiettivi di tutti gli attori coinvolti: l’occupabilità dei lavoratori, la competitività delle imprese e il benessere sociale ed eco- nomico” (Pais, in Cortellazzi 2007); 4) una quarta direttrice riguarda l’idea di formazione. Da un lato è evidente la presenza di un filone per cui l’offerta formativa è progettata attraverso le lenti della “stratificazione” e dell’ “accrescimento”. L’obiettivo di tale for- 81 mazione è di fornire delle conoscenze, delle abilità e delle competenze ulteriori, quasi ad immaginare un “conto formazione personale” da accre- scere con successivi investimenti formativi. Dall’altro lato è possibile immaginare una formazione attraverso le lenti della ri-attivazione e della ricorsività. Tale prospettiva immagina che in sistemi sociali complessi sia necessario investire anche nella relazione fra la persona e l’organizzazione, offrendo alle persone uno spazio per rimettere in gioco la relazione fra la propria identità personale e quella professionale. Senza questa seconda direzione di marcia sarà difficile immaginare processi di costruzione par- tecipata di piani formativi individuali o aziendali e, seppure abilmente mimetizzati, prevarranno processi adattivi da parte del singolo rispetto a “cataloghi aziendali” e da parte dell’azienda a prodotti pre-confezionati da parte di qualche agenzia formativa; 5) una quinta direttrice coinvolge il rapporto tra FC e sviluppo locale. In questo senso occorre chiedersi in che misura la FC partecipa alla costru- zione di una “formazione per lo sviluppo, riferendosi a quelle iniziative di apprendimento orientate a far maturare il potenziale di sviluppo endogeno di una data società, verso una concretezza progettuale e gestionale che vede le istituzioni locali tra i promotori della stessa, ma anche tra i suoi primi destinatari. Viene così evidenziato il carattere dinamico del conte- nuto della formazione, si tratta di una sorta di “apprendimento ad appren- dere”, a trasferire competenze quali: interpretare i bisogni del territorio, ne- goziare gli obiettivi, tradurli in progetti e individuare risorse per attuarli” (Barabaschi 2006). In particolare si evidenzia la necessità di approfondire la relazione tra FC e sviluppo, soprattutto in relazione a quelle aree locali che presentano particolari elementi di debolezza quanto a sviluppo sociale ed economico (Zucchetti 2000). Di particolare interesse sarà la valutazione di quanto le “culture locali” sono in grado di promuovere o di ostacolare una visione positiva della formazione continua. Il percorso che abbiamo tentato di proporre, oltre ad avere come centro l’evo- luzione della FC in Italia, ha anche scelto come categoria interpretativa l’essere “in formazione continua” da parte di tutto il sistema. Tale ipotesi trova un deciso so- stegno anche dalla pratica professionale in cui, oltre ai soggetti fruitori della FC, si incontrano rappresentanti delle Parti sociali, delle Istituzioni, professionisti della formazione, politici con responsabilità di governo e studiosi del tema alle prese con le ambivalenze del sistema e dei propri percorsi professionali. Inoltre per i legami tra FC e sviluppo si avverte che operare in tale sistema significhi anche investire nello sviluppo di un Paese alle prese con percorsi di svi- luppo e di coesione sociale “in formazione continua”. Infine il presente contributo si colloca all’interno del dibattito sulla FC con l’umiltà di chi riconosce di essere “in formazione continua” e con la sola speranza di contribuire alla costruzione di mappe condivise e utili ad orientarsi. 82 BIBLIOGRAFIA BARABASCHI B., (2006), Qualità della pubblica amministrazione e sviluppo delle società locali, Franco Angeli, Milano. CONTI M., L’edificazione del sistema italiano di formazione continua dei lavoratori, in “Rivista giuri- dica del lavoro e della previdenza sociale, Anno LVIII, 2007, n. 1. CORTELLAZZI S., (a cura di) (2007), La formazione continua, Franco Angeli, Milano. ISFOL (2006), Rapporto 2006 sulla formazione continua, www.isfol.it. ISFOL (2007), Rapporto 2007, Rubettino, Catanzaro. PAIS I., (2007), Il gioco delle parti: la regolazione associativa della formazione continua, in CORTEL- LAZZI S. (2007) (a cura di) La formazione continua, Franco Angeli, Milano. VARESI P.A. (2007), L’incessante evoluzione normativa, i risultati raggiunti e i problemi aperti, in CORTELLAZZI S. (2007) (a cura di) La formazione continua, Franco Angeli, Milano. ZUCCHETTI E. (2000) (a cura di), La formazione continua a sostegno dello sviluppo locale, Vita e Pen- siero, Milano. 83 Capitolo VI Apprendistato: stato dell’arte della riforma Sandra D’AGOSTINO In un contesto di mercato del lavoro che nell’anno 2006 ha fatto segnare un significativo miglioramento sul fronte dell’occupazione (+1,9% del numero di occupati rispetto all’anno precedente) torna a crescere anche l’occupazione in apprendistato dopo un periodo di stasi registrato nel 2005: nel 2006 gli apprendisti occupati arrivano a sfiorare la cifra di 600.000 unità (tab. 1), facendo segnare un +4,4% rispetto al precedente anno 2005. Pertanto, sembra essersi riavviato quel processo virtuoso che vede crescere l’utenza dell’apprendistato ormai quasi ininter- rottamente da circa un decennio, ma non si è ancora in presenza di quella crescita eclatante che ci si poteva aspettare dopo l’ampliamento a 29 anni dell’età per l’as- sunzione e l’estensione a sei anni della durata massima del contratto. Probabilmente, continua a costituire un freno alla crescita dello strumento il mancato completamento della riforma promossa dal d.lgs. 276/03: infatti, il quadro dell’implementazione si presenta ancora a “macchia di leopardo” per quanto ri- guarda l’apprendistato professionalizzante; l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere rimane un istituto di fatto inesistente e quello per il conseguimento di un diploma è oggetto di sperimentazioni di portata assai limitata. Del resto, i primi dati tendenziali sul 2007, ancora insufficienti a dare indicazioni sull’andamento dell’occupazione, segnalano che tuttora il 52% dei contratti di apprendistato pre- senti in Italia fa riferimento al quadro normativo tracciato dalla legge n. 196/97 e non a quello del d.lgs. n. 276/03 (cfr. tab. 2). Tale percentuale, inoltre, evidenzia scarsa variabilità fra le Regioni. La consapevolezza della ancora ampia indisponibilità dei tre strumenti e delle criticità che si sono determinate nella sovrapposizione fra normative di ordine na- zionale e regionale e discipline contrattuali è alla base della richiesta di revisione dell’apprendistato avanzata dalle organizzazioni datoriali e sindacali. Pertanto, nel quadro “Protocollo su previdenza, lavoro e competitività” sottoscritto nel luglio 2007 da Governo e parti sociali si è concordato di procedere ad una revisione della disciplina degli apprendistati d’intesa anche con le Regioni. Il collegato sul welfare alla legge finanziaria per il 2008 ha tradotto tale impegno affidando al Governo, d’intesa con le Regioni e le Parti sociali, la delega ad emanare un apposito decreto legislativo entro 12 mesi. 85 (*) dati provvisori Fonte: elaborazioni Isfol su dati INPS Fonte: elaborazioni Isfol su dati INPS Tavola 2 – Tipologie di contratti di apprendistato applicate – comp. % anno 2007* Regioni 2005 2006 2006/2005 Piemonte 45.038 44.394 -1,4 Valle d’Aosta 2.002 1.984 -0,9 Lombardia 99.753 108.597 8,9 Trentino Alto Adige 12.956 12.768 -1,5 Provincia Bolzano 4.842 4.734 -2,2 Provincia Trento 8.114 8.033 -1,0 Veneto 67.646 70.069 3,6 Friuli Venezia Giulia 12.518 12.730 1,7 Liguria 18.104 17.893 -1,2 Emilia Romagna 54.290 57.392 5,7 Toscana 50.835 47.954 -5,7 Umbria 14.146 14.857 5,0 Marche 19.860 26.130 31,6 Lazio 41.926 48.256 15,1 Abruzzo 14.129 13.744 -2,7 Molise 2.034 1.944 -4,4 Campania 20.463 21.650 5,8 Puglia 36.411 36.164 -0,7 Basilicata 3.057 3.244 6,1 Calabria 6.732 7.126 5,9 Sicilia 29.256 28.415 -2,9 Sardegna 13.376 14.129 5,6 Nord Ovest 164.898 172.868 4,8 Nord Est 147.410 152.958 3,8 Centro 126.767 137.196 8,2 Sud e Isole 125.457 126.415 0,8 ITALIA 564.532 589.437 4,4 Tipologia di apprendistato Comp. % Apprendistato ex l. 196/97 52,0 Apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere 8,7 Apprendistato professionalizzante 38,8 Apprendistato per il conseguimento di un diploma 0,5 Totale 100,0 Tavola 1 - Occupazione in apprendistato per Regioni e aree geografiche. Dati in valori assoluti anni 2005 e 2006 e incremento percentuale 86 Per comprendere le ragioni che hanno portato alla riapertura del confronto sull’apprendistato ancora prima che la riforma venisse messa a regime occorre esa- minare in maniera approfondita il quadro dell’attuazione delle tre tipologie definite dal d.lgs. 276/03. 1. Apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e forma- zione Per quanto riguarda l’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere, introdotto dall’art. 48 del d.lgs. n. 276/03, il quadro è sostanzialmente immutato rispetto allo scorso anno. Alcune Regioni hanno emanato leggi ampie di riforma del mercato del lavoro, nel cui ambito hanno fatto riferimento a tutte e tre le tipologie di apprendistato previste dal d.lgs. 276/03; generalmente tali norme individuano alcuni principi generali e rimandano poi a successivi atti di regolamentazione da adottarsi con provvedimenti di Giunta. Qualche amministrazione ha invece definito provvedi- menti legislativi dedicati esclusivamente all’apprendistato, nel cui ambito pure hanno trovato definizione alcuni ulteriori elementi di regolamentazione dell’ap- prendistato per il diritto-dovere. Tuttavia, in entrambi i casi citati mancano ancora quelle intese con i Ministeri del Lavoro e dell’Istruzione necessarie a rendere operativa tale tipologia di appren- distato secondo quanto previsto dall’art. 48 del d.lgs. 276/03. Infatti, la norma cita- ta rinvia ad una regolamentazione attuativa che deve essere emanata dalle Regioni e Province Autonome di concerto con i Ministeri del lavoro e dell’istruzione, senti- te le organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative. Ciò non significa che i minori non possano essere assunti come apprendisti in mancanza della regolamentazione di tale forma di apprendistato: le assunzioni con- tinuano ad avvenire utilizzando il contratto di apprendistato ex l. 196/97, grazie alla deroga inserita nell’art. 47, comma 3, del d.lgs. 276/03 che fa salva la disciplina precedente fino ad avvenuta regolamentazione delle nuove tipologie. Purtroppo, sembra esserci scarsa consapevolezza nel Paese di tali passaggi giuridici, tanto che i dati INPS provvisori riferiti al 2007 - primo anno in cui è possibile distinguere la tipologia di contratto di apprendistato applicato grazie ad una modifica del modello di comunicazione DM10 - segnalano una quota pari all’8,7% di apprendisti assunti con contratto per l’espletamento del diritto-dovere. Evidentemente si tratta di mi- nori, assunti in apprendistato sulla base delle norme della legge n. 196/97. In valore assoluto la quota di minori in apprendistato sembra pressoché costante da alcuni anni e si aggira intorno alle 50.000 unità. Oggi, a seguito dell’elevamento a 16 anni dell’età di ingresso al lavoro, la disciplina dell’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere come definita dall’art. 48 del d.lgs. 276/03, seppure non ancora applicata, appare da rivedere: non 87 solo per elevare l’età di ingresso, ridefinire la durata in relazione all’obbligo forma- tivo, evitando di creare una eccessiva concorrenza da parte dell’apprendistato professionalizzante, ma anche e soprattutto per la necessità di identificare una modalità più efficace per dare risposta al diritto alla formazione di questi adolescenti. Infatti, nonostante sia già istituito l’obbligo di formazione per gli apprendisti minori anche se assunti nel quadro della legge 196/97, la partecipazione alle atti- vità formative resta residuale: nel 2005 ha preso parte agli interventi il 15,8% dei minori in apprendistato. Si aggiunga che talora la partecipazione dei minori av- viene solo per una parte della formazione obbligatoria, mentre è del tutto residuale l’offerta di moduli aggiuntivi che consentano di recuperare quelle competenze di base e di cittadinanza che invece maggiormente dovrebbero caratterizzare l’esple- tamento del diritto-dovere all’istruzione e formazione. Nel corso dell’anno 2006-07 il CNOS-FAP ha promosso una ricerca specifica su tale segmento, volta ad approfondire le possibilità, i modelli e gli strumenti in uso nella formazione degli apprendisti minori. La ricerca ha confermato un quadro di scarsa presenza o quanto meno di episodicità dell’offerta formativa per i minori anche in quelle realtà regionali dove l’occupazione in apprendistato è più ampia. Pochi sono i casi censiti nei quali risulta evidente uno sforzo dell’amministrazione regionale, supportato da una pari risposta da parte delle strutture formative, per av- viare e consolidare un sistema di offerta per gli apprendisti minori. In questi casi l’esperienza ha messo in luce una serie di criticità, di cui si riepi- logano le principali: - il numero di minori assunti con contratto di apprendistato è diminuito in maniera esponenziale nell’ultimo decennio, anche se ha raggiunto una dimensione stabile da qualche anno. Vista dal lato dell’organizzazione del- l’offerta formativa ciò implica una difficoltà a costituire gruppi omogenei di numerosità minima e quindi a definire percorsi formativi tarati sulle esigenze di professionalizzazione; - i ragazzi adolescenti, alle prese con una fase difficile di costruzione del sé, evidenziano generalmente i tassi più elevati di volatilità del contratto di ap- prendistato. Ovvero, quando questi adolescenti riescono a trovare un lavoro, molto facilmente lo lasciano, perché insoddisfatti dell’esperienza, all’inse- guimento di un lavoro migliore; ciò significa che anche i percorsi formativi diventano meno sequenziali, spesso interrotti conseguentemente all’interru- zione del contratto; - l’età media degli apprendisti minori è molto alta, generalmente supera i di- ciassette anni; ciò significa che, quand’anche si riesca ad “intercettarli” per la formazione prima del compimento dei 18 anni, al più si riesce a coinvolgere tali adolescenti in una annualità di percorso visto che spesso, nel momento in cui i ragazzi compiono la maggiore età e quindi assolvono il diritto-dovere all’istruzione e formazione, le imprese preferiscono ritirarli dall’attività for- mativa per ridurre l’onere di formazione esterna. 88 È evidente quindi che l’obiettivo posto dall’art. 48 del d.lgs. 276/03, ovvero di definire una tipologia di apprendistato finalizzata al conseguimento di una qualifica professionale riconosciuta a livello nazionale perché rispondente a standard minimi omogenei, non appare compatibile con la realtà attuale dell’apprendistato per i mi- nori fatta di percorsi formativi generalmente brevi, quand’anche presenti. È infatti parimenti evidente che neppure si può immaginare di regolamentare il nuovo stru- mento aumentando il volume annuo di formazione esterna all’azienda in misura adeguata a compensare la durata breve dei percorsi. Già oggi le imprese assumono gli adolescenti sempre meno che nel passato, preferendo selezionare apprendisti più adulti, soggetti a meno vincoli rispetto all’attività svolta sul lavoro, agli orari, alle visite mediche, e “gravati” da un onere formativo minore. Le osservazioni avanzate rimandano più che ad una regolamentazione dell’art. 48, ad una revisione complessiva dell’impianto normativo di tale tipologia, per quanto appena abbozzato. Alcuni gap strutturali dell’Italia nel confronto con gli altri Paesi europei – un più alto tasso di abbandono dei percorsi formativi della po- polazione giovanile (15-24) senza aver conseguito alcun titolo, unito ad un più basso tasso di occupazione nella stessa fascia d’età – suggeriscono la necessità di ripensare lo strumento, mantenendo la finalizzazione ad un recupero almeno di un titolo di qualifica per quanti ne sono privi, ma aumentando la platea degli interes- sati almeno fino a coprire l’intera utenza giovanile. Tali modifiche potrebbero consolidarsi attraverso quel confronto sociale che dovrebbe aprirsi sull’apprendistato per dare attuazione alle previsioni del Proto- collo sul welfare; purtroppo, l’attenzione degli attori sembra invece rivolta in via esclusiva all’apprendistato professionalizzante e se pure nella delega al governo ci sono spazi per la revisione di parti dell’art. 48, certo non si rinvia ad un ridisegno complessivo di questo contratto formativo per i minori. 2. Apprendistato per il conseguimento di un diploma o di un titolo di alta for- mazione La sperimentazione promossa dal Ministero del Lavoro nell’anno 2004 per fa- vorire l’introduzione dell’apprendistato per il conseguimento di un diploma o di un titolo di alta formazione è ancora in corso, anche se in forte ritardo rispetto ai tempi previsti di attuazione che ne prevedono in ogni caso la conclusione entro giugno del 2008. L’offerta formativa erogata prevede, al momento, il finanziamento di 76 corsi specifici per gruppi di apprendisti, accanto ad un certo numero di inserimenti in percorsi già presenti nell’offerta delle strutture formative, realizzati nell’ambito di nove Regioni appartenenti all’area dell’obiettivo 3, programmazione 2000-06. La maggior parte degli interventi riguarda percorsi finalizzati al conseguimento di ma- ster universitari di I e II livello (65); si tratta dell’offerta che ha riscosso il maggior 89 interesse da parte delle imprese visto che consente di selezionare i migliori laureati, che vengono inseriti in ulteriori percorsi di alta formazione progettati in risposta a esigenze specifiche delle imprese stesse. Oltre ai master, qualche Regione ha speri- mentato percorsi per l’acquisizione di certificazioni IFTS (7) o di alta formazione post-diploma (2), e la Provincia di Bolzano ha avviato due corsi per il consegui- mento della laurea di primo livello. Il numero complessivo di apprendisti finora coinvolti nella sperimentazione sembra aver raggiunto quella soglia dei mille apprendisti prevista come obiettivo finale dal Ministero del lavoro. Una prima analisi dei partecipanti alla sperimentazione effettuata su 687 sog- getti ha messo in luce le principali caratteristiche degli utenti e delle imprese: - gli apprendisti assunti nell’ambito dei diversi progetti sperimentali sono pre- valentemente maschi (67,1%), con un’età media di 25,8 anni. Sono in gran parte laureati (visto che la maggior parte dei percorsi sono master), con una forte presenza di lauree del gruppo di ingegneria (61,8%), seguite da quelle economiche (14,5%); - si tratta di un’utenza ascrivibile all’eccellenza formativa, visto che gli ap- prendisti hanno conseguito la laurea con un punteggio medio di 101,7; oltre il 40% ha avuto un punteggio di almeno 105/110; il tempo medio di attesa per l’ingresso nella sperimentazione dopo il conseguimento della laurea è di poco superiore all’anno (1,3); - le imprese che hanno assunto tali giovani sono soprattutto di dimensioni medio-grandi (56,4%), appartenenti ai settori della meccanica (28%) e dei servizi alle imprese (28%), con una presenza significativa anche nei trasporti – telecomunicazioni (15,7%). Dopo una fase di avvio estremamente lunga, per la difficoltà di far emergere e di conciliare le esigenze delle imprese di costruire alcune professionalità specifiche in stretto raccordo con le università, con le possibilità organizzative e realizzative delle università stesse, sembra che gli attori chiave dei sistemi territoriali concor- dino nel ritenere che tale strumento può effettivamente avviare e consolidare un quadro di relazioni fra sistema produttivo e università, funzionale all’innovazione e allo sviluppo dei sistemi economici. Come dimostra l’ampia quota di partecipanti in possesso di lauree del gruppo ingegneria, tale collaborazione ha preso avvio dai segmenti di maggiore contiguità fra i due sistemi, con una vocazione significativa allo sviluppo e al trasferimento del know how di tipo scientifico. Pertanto, mentre è in chiusura l’attuale fase di sperimentazione, se ne prean- nuncia una seconda su scala più ampia, da realizzarsi nel quadro della prossima programmazione, che dovrebbe coinvolgere nuovi territori (anche le Regioni meridionali) e nuovi segmenti del sistema formativo: ad esempio, percorsi per l’acquisizione del diploma secondario o in collegamento con l’istruzione tecnico- professionale superiore. 90 Attuazione legislativa completa Piemonte, Provincia di Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Lazio, Puglia, Sardegna Attuazione legislativa ma in attesa degli atti di regolamentazione secondaria Lombardia, Provincia di Trento, Umbria, Basilicata Attuazione per via sperimentale Valle d’Aosta, Provincia di Trento, Veneto, Liguria,Abruzzo, Campania Sperimentazioni limitate a settori specifici Lombardia, Umbria, Sicilia Tuttavia l’ampia varietà delle iniziative messe in campo - per contesto territo- riale, per storia di relazione fra imprese e università, per dimensione delle imprese coinvolte, per tipologia di percorso attivato – non ha ancora consentito di indivi- duare alcuni punti fermi che potrebbero arricchire la scarna regolamentazione dello strumento contenuta nell’art. 50 del d.lgs. 276/03. Anzi, in molti casi è apparso come un valore aggiunto l’aver lasciato ampia autonomia di autoregolamentazione ai territori. Rimane però il problema della sostenibilità a regime di tali interventi, nel mo- mento in cui dovessero venir meno le risorse messe attualmente a disposizione dal PON nazionale e dai POR regionali. In particolare, sarebbero da rivedere le condi- zioni di economicità del contratto in termini di salari e agevolazioni contributive, anche per evitare una concorrenza impropria da parte dell’apprendistato professio- nalizzante, al fine di conseguire l’obiettivo di stimolare una maggiore collabora- zione fra sistema produttivo e mondo dell’education. 3. Apprendistato professionalizzante Le maggiori criticità relative all’attuazione della riforma dell’apprendistato di- segnata dal d.lgs. 276/03 si concentrano sull’apprendistato professionalizzante, ossia la tipologia che è stata oggetto di un maggior numero di regolamentazioni da parte delle Regioni e di disciplina in pressoché tutti i contratti collettivi nazionali di lavoro rinnovati negli ultimi anni. Infatti, tale tipologia di apprendistato, per diven- tare operativa, rimandava ad una regolamentazione ad opera in parte delle Regioni e Province Autonome, d’intesa con le parti sociali, in parte delle sole parti sociali nel- l’ambito della contrattazione collettiva. La successiva figura n. 1 riporta il quadro dell’attuazione per quanto riguarda il fronte istituzionale; per quanto riguarda la contrattazione occorre segnalare che per quanto in tutti i rinnovi intervenuti negli ultimi tre anni si sia dato spazio ad una disciplina dell’apprendistato professionaliz- zante, rimangono ancora esclusi ampi settori dell’artigianato, comparto che rimane il primo fruitore dello strumento (40% di apprendisti occupati, anno 2005). Figura 1 – La regolamentazione dell’apprendistato professionalizzante sul territorio 91 L’ultimo monitoraggio sull’apprendistato realizzato dall’ISFOL ha messo a confronto le discipline regionali su aspetti specifici, quali: 1) procedure di assunzione e definizione del piano formativo individuale; 2) definizione dei profili formativi; 3) determinazione degli elementi minimi per la formazione formale: durata, responsabilità della formazione, articolazione della formazione formale e modalità di svolgimento della formazione esterna; 4) requisiti per la realizzazione della formazione formale in impresa; 5) definizione e ruolo della formazione non formale; 6) caratteristiche e formazione del tutor aziendale; 7) modalità di certificazione. In relazione agli stessi elementi è stata realizzata una analisi comparativa delle discipline dell’apprendistato professionalizzante contenute nei circa 80 contratti collettivi rinnovati a livello nazionale dopo il 2003. Il confronto ha messo in evidenza che le regolamentazioni regionali e le disci- pline contrattuali, pur muovendosi tutte nel quadro del d.lgs. 276/03, seguono diret- trici spesso non coincidenti e in qualche caso evidentemente divergenti. Pertanto, si rileva una diffusa incertezza applicativa da parte delle imprese. La differenza più significativa fra le regolamentazioni regionali riguarda un aspetto strategico, ossia la responsabilità delle imprese e delle istituzioni nell’e- rogare e finanziare la formazione formale per gli apprendisti. In alcune regolamen- tazioni tale responsabilità è attribuita al soggetto pubblico che predispone l’offerta formativa e, se questa è insufficiente, l’impresa è esentata dall’erogare la forma- zione formale (modello legge 196/97); in altri casi la responsabilità è sempre e comunque dell’impresa che, in mancanza di un’offerta formativa pubblica, deve attivarsi per erogare o far erogare la formazione. La stessa definizione di «formazione formale» trova declinazioni differenti nelle varie regioni e nei contratti: ad esempio, tutti i contratti collettivi contem- plano l’affiancamento on the job come modalità di realizzazione della formazione formale, mentre le Regioni sembrano compatte nell’escluderlo. In generale, numerose sono le sovrapposizioni tra le due fonti, quella regionale e quella contrattuale, anche come conseguenza della scarsa chiarezza della norma na- zionale. Il caso tipico riguarda le modalità di articolazione della formazione formale fra esterna ed interna: la ripartizione è stata regolata da alcuni contratti collettivi, anche se in maniera generalmente piuttosto generica, come pure molte Regioni han- no dettato norme arrivando ad indicare come obbligatoriamente esterna una parte, talora prevalente, della formazione formale. Le stesse sovrapposizioni si riscontrano in relazione alla definizione della “capacità formativa” dell’impresa, ossia l’indivi- duazione dei requisiti che consentono all’impresa di realizzare la formazione formale all’interno: tali requisiti sono stati indifferentemente elaborati da molti contratti collettivi e dalle regolamentazioni regionali, generalmente seguendo linee discordi. 92 È impensabile che convivano sul territorio modelli così diversi a partire da un’unica norma nazionale ed è sentita una esigenza di chiarificazione ed omoge- neizzazione che chiama in causa un’azione più forte di regia a livello centrale, senza negare la possibilità di individuare modelli organizzativi della formazione anche diversi sul territorio. Questa esigenza di flessibilità rispetto ai diversi contesti territoriali deve però armonizzarsi con la richiesta di prevedere modelli nazionali di formazione per quelle aziende con sedi dislocate su tutto il territorio, che devono poter contare su una gestione unitaria della formazione per i propri apprendisti. Le esigenze esaminate, che implicano una revisione della norma nazionale e delle regolamentazioni regionali, si sommano alla necessità di individuare mecca- nismi e strumenti per superare quelle criticità dei sistemi di formazione per l’ap- prendistato che potrebbero essere definite “di più lungo periodo”. Infatti, dopo un decennio dall’approvazione della legge n. 196/97, che ha dato il via alla costruzione di sistemi territoriali di formazione esterna per gli appren- disti, ancora oggi solo una quota di giovani riceve effettivamente la formazione esterna, programmata e finanziata con risorse pubbliche: i dati più aggiornati rife- riti al 2005 parlano del 20,4%, ossia un apprendista su cinque è coinvolto in attività di formazione esterna. L’esperienza degli ultimi anni nella costruzione dei sistemi territoriali di for- mazione per l’apprendistato ha evidenziato la presenza di alcune criticità di ordine organizzativo e qualitativo, prima ancora che finanziario, tanto che solo poche Re- gioni hanno effettivamente costruito con continuità dei sistemi dell’offerta in grado di coinvolgere quote significative di apprendisti, utilizzando almeno tutte le risorse ripartite dal Ministero del Lavoro. Rimangono grandi aree del Paese dove invece la programmazione dell’offerta è del tutto episodica, tanto che mediamente al Centro solo il 10% degli apprendisti riceve formazione e al Mezzogiorno tale quota preci- pita al 4,1%. Pertanto, occorre individuare strumenti di stimolo e di supporto alle ammini- strazioni regionali nella programmazione e gestione delle risorse, ma anche defi- nire interventi per elevare la qualità della formazione erogata; infatti, la formazione erogata all’esterno è spesso considerata di scarsa qualità, perché manca un riferi- mento consolidato, quale potrebbe essere un sistema nazionale di standard che spe- cifichi gli output da raggiungere e le relative modalità di verifica. A partire dal 2006, con l’avvio dell’apprendistato professionalizzante e della possibilità di realizzare parte della formazione formale all’interno, la quota di ap- prendisti che riceve effettivamente una formazione dovrebbe aumentare, anche se i primi dati sembrano indicare una scarsa propensione delle imprese e dichiarare il possesso dei requisiti di capacità formativa e a realizzare all’interno la formazione. Certamente su questo influisce una ancora scarsa consapevolezza di tale possibilità, insieme alla bassa chiarezza delle norme che non dà sufficienti garanzie per l’as- sunzione del rischio in capo alle imprese vista la sanzione prevista dall’art. 53 del d.lgs. 276/03. Inoltre, la struttura stessa del sistema produttivo italiano, caratteriz- 93 zato da imprese di dimensione “micro” per le quali sarebbe impossibile affrontare i costi di un percorso formativo individuale per il proprio apprendista, afferma la necessità della presenza di un’offerta pubblica di formazione. Ma soprattutto, il sistema di formazione per l’apprendistato soffre della man- canza di risorse, per cui anche nel Settentrione solo il 20% degli apprendisti accede alla formazione, creando anche una forte disparità fra le imprese. La possibilità di realizzare parte della formazione all’interno dell’impresa (presumibilmente per le imprese di dimensioni maggiori) riduce la domanda di formazione e quindi il costo di un sistema pubblico dell’offerta, ma allo stesso tempo il nuovo apprendistato professionalizzante per funzionare ha bisogno che siano attivati una serie di sup- porti all’impresa che consentano di rendere efficaci gli strumenti per la formazione: servizi per la definizione dei piani formativi o per la verifica di congruità rispetto ai profili formativi, per il monitoraggio e il controllo della formazione in azienda, per il rilascio dei libretti formativi. Pertanto, il sistema di apprendistato ha bisogno di poter disporre di una dota- zione finanziaria molto più ampia di quella attuale, e stabile. Infatti, fino ad oggi il sistema è stato finanziato con interventi annuali operati in sede di legge finanziaria, mentre un processo di crescita e consolidamento del sistema, che consenta di coin- volgere in percorsi formativi di qualità tutti gli apprendisti assunti, può svilupparsi solo a partire dalla definizione di un meccanismo stabile di finanziamento. Su tutti i temi elencati – revisione normativa dello strumento, definizione di modelli e strumenti per elevare la qualità della formazione, dotazione finanziaria per la formazione – si attendono risposte dal confronto che dovrebbe aprirsi a breve per individuare quelle modalità operative volte a dare attuazione alla riforma del- l’apprendistato prefigurata dal Protocollo sul welfare del luglio 2007. Ci si augura che dal confronto con le Regioni e le Parti sociali scaturisca un punto di media- zione “alto”, ossia di piena difesa del ruolo formativo dell’apprendistato. 94 95 Appendice Orientamenti e suggerimenti da Lisbona: sintesi dei principali documenti comunitari inerenti la strategia europea per l’occupazione Licia ALLEGRETTA 1. Comunicazione della Commissione, del 20 luglio 2005, “Azioni comuni per la crescita e l’occupazione: il programma comunitario di Lisbona” Attualmente, l’Europa deve trasformare le sfide cui deve far fronte (invecchia- mento della popolazione, maggior concorrenza mondiale, cambiamenti tecnologici, pressioni sull’ambiente) in nuove prospettive. È necessario modernizzare l’eco- nomia europea, proponendo nel contempo soluzioni sostenibili basate su politiche macroeconomiche sane, che consentano di garantire il modello sociale europeo. Il Consiglio europeo ha invitato la Commissione a presentare, a fronte dei pro- grammi nazionali di Lisbona, un “programma comunitario di Lisbona” (v. docu- mento successivo) comprendente tutte le azioni a livello della Comunità. Le misure politiche proposte da tale programma fanno capo a tre grandi obiettivi: 1) sostenere la conoscenza e l’innovazione; 2) attirare maggiori investimenti e facilitare il la- voro; 3) creare più posti di lavoro e di migliore qualità. La Commissione propone che tali obiettivi figurino nei programmi dei Fondi strutturali e del Fondo di coesione. Il nuovo Fondo di sviluppo rurale ne costituisce un buon esempio, in quanto ne sostiene segnatamente gli investimenti nelle persone, nell’innovazione, nel know-how, nell’adozione delle tecnologie dell’informazione nelle zone rurali nel quadro della diversificazione rurale. La Banca europea per gli investimenti (BEI) e il Fondo europeo di investimento contribuiscono del pari al fi- nanziamento di iniziative nel quadro del programma comunitario di Lisbona. 1) Sostenere la conoscenza e l’innovazione Un investimento più importante (l’obiettivo è quello del 3% del prodotto in- terno lordo) e più efficace (mettendo le risorse nazionali in comune) è essenziale, se si vuole stimolare una ricerca europea competitiva. Tale responsabilità è soprat- tutto dei vari Stati membri. La Commissione fornisce il suo sostegno alla cono- scenza e all’innovazione in Europa attraverso strumenti di finanziamento e tramite una regolamentazione efficace. Per il periodo 2007-2013, due grandi strumenti di finanziamento esistono a livello comunitario, e in particolare: - il 7° programma-quadro per attività di ricerca, di sviluppo tecnologico e di dimostrazione, sostiene iniziative innovatrici per l’economia europea. Il pro- gramma propone in particolare di realizzare partnership pubblico/privato strategiche nei settori di maggiore interesse per la competitività. Tale pro- gramma si prefigge del pari di sostenere le piccole e medie imprese (PMI) aiutandole a beneficiare della ricerca; - il programma quadro per l’innovazione e la competitività incoraggerà in particolare l’utilizzazione da parte delle imprese delle tecnologie dell’infor- mazione e delle ecotecnologie. Esistono altri strumenti finanziari: - le linee di bilancio delle reti transeuropee sostengono l’applicazione pratica delle conoscenze acquisite nella ricerca. Tali conoscenze possono essere applicate in progetti industriali volti a ridurre gli ostacoli nei trasporti; - il piano d’azione dell’Unione europea a favore delle ecotecnologie si prefigge di promuovere il loro sviluppo e la loro applicazione. Queste tecnologie hanno un notevole potenziale economico e ambientale. I Fondi strutturali e la BEI sostengono il piano d’azione. L’accordo sul brevetto comunitario rimane un elemento vitale per promuovere un’economia innovativa basata sulla conoscenza. La Comunità sosterrà gli sforzi volti a conservare una forte capacità industriale, nei casi in cui gli Stati membri da soli non possano superare le sfide connesse alla ricerca, alla regolamentazione e al finanziamento europeo. La Commissione propone una semplificazione del quadro amministrativo degli aiuti di Stato e un riorientamento degli aiuti di Stato a so- stegno della conoscenza e dell’innovazione, della formazione, della mobilità e dei trasferimenti. Il nuovo quadro normativo faciliterà la concessione degli aiuti alle PMI, alle imprese giovani e innovatrici, non soltanto tramite aiuti diretti ma anche tramite il finanziamento del capitale di rischio. La regolamentazione garantirà che gli aiuti vengano concessi unicamente se garantiscono risultati utili significativi per la società che dovrà evitare distorsioni nella concorrenza. 2) Attirare più investimenti e facilitare il lavoro Per facilitare l’accesso al mercato, è importante migliorare il quadro normativo, nonché completare il mercato interno. Il miglioramento della legislazione può creare motivazioni giuste per le imprese, riducendo i costi e gli ostacoli agli adattamenti e all’innovazione. Tenuto conto delle preoccupazioni delle PMI, la Commissione con- tinuerà i suoi lavori: sulla valutazione d’impatto di tutte le nuove iniziative politiche; sulla semplificazione della legislazione esistente tramite piani di azione settoriali. Il mercato interno dei servizi deve essere reso operativo tutelando nel con- tempo il modello sociale europeo. Considerata l’importanza attuale del settore dei servizi per la creazione di posti di lavoro e per il valore aggiunto nell’Unione, l’ap- provazione della direttiva modificata sui servizi potrebbe determinare un aumento dei tassi di occupazione e del prodotto interno lordo dell’Unione. 96 3) Creare più posti di lavoro e di migliore qualità La Commissione sostiene le azioni degli Stati membri nei settori del capitale umano, dell’istruzione e della formazione professionale, in particolare tramite: - il Patto europeo per la gioventù; - il Programma istruzione e formazione 2010; - il Programma di apprendimento durante l’intero arco della vita; - la costituzione dell’Istituto europeo per la tecnologia - la messa a punto delle strategie necessarie per garantire un invecchiamento attivo, in collaborazione con gli Stati membri. Per giungere ad un vero mercato paneuropeo della manodopera, è necessario eliminare gli ostacoli alla mobilità. La Commissione proporrà un quadro di quali- fiche europee creando condizioni di trasparenza e di fiducia reciproca. La Commissione opererà in favore di un quadro comune per la gestione delle migrazioni economiche, comprendente procedure rapide di ammissione per i sog- giorni di lunga durata di ricercatori di paesi terzi e agevolando la concessione di visti per i soggiorni di breve durata. Le ristrutturazioni sono conseguenze inevitabili del progresso economico e dell’integrazione del mercato. Peraltro, esse possono avere conseguenze destabiliz- zanti per i cittadini interessati. La Commissione intende istituire un nuovo fondo per aiutare le persone e le regioni più duramente colpite dalle ristrutturazioni a con- trollare i cambiamenti. Essa controllerà del pari gli sviluppi della sua comunica- zione sulle ristrutturazioni e sull’occupazione. 2. Comunicazione della Commissione al Consiglio Europeo di primavera. COM(2005) 24 definitivo. Lavorare insieme per la crescita e l’occupazione. Il rilancio della strategia di Lisbona La Commissione propone il rilancio della strategia di Lisbona incentrando la nostra azione su due compiti principali: realizzare una crescita più stabile e dura- tura e creare nuovi e migliori posti di lavoro. Affrontare la sfida della crescita e dell’occupazione in Europa rappresenta la chiave per liberare le risorse necessarie a realizzare le più vaste ambizioni dell’Unione in campo economico, sociale e am- bientale; a sua volta, conseguire tali più ampi obiettivi garantirà l’esito positivo del programma di riforme. 2.1. Garantire un’attuazione efficace La questione essenziale al cuore della strategia di Lisbona, tanto a livello co- munitario che nazionale, è la sua efficace attuazione. L’attuazione del programma di riforme richiede un nuovo partenariato per la crescita e l’occupazione. A livello comunitario, alla Commissione spetterà il ruolo centrale di promuo- vere l’avvio della politica e di garantirne l’attuazione. Parallelamente, gli Stati 97 membri saranno tenuti a recuperare il ritardo accumulato sull’attuazione delle ri- forme previste dalla strategia di Lisbona. I programmi nazionali per il consegui- mento degli obiettivi di Lisbona costituiranno un sostegno in tal senso, in quanto definiranno i metodi per pervenire a questo fine. 2.2. Un nuovo programma d’azione di Lisbona Benché la relazione non si proponga di riscrivere la strategia di Lisbona, indi- vidua nuove iniziative a livello comunitario e nazionale che contribuiranno alla realizzazione della visione sottesa alla strategia stessa. 1) Rendere l’Europa più capace di attrarre investimenti e lavoro: a) Ampliare e rafforzare il mercato interno b) Migliorare la normativa comunitaria e nazionale c) Garantire mercati aperti e competitivi all’interno e all’esterno dell’U- nione europea d) Ampliare e migliorare le infrastrutture europee Occorre ampliare e rafforzare il mercato interno: se si vuole che le imprese e i consumatori ne avvertano tutti i vantaggi, è necessario che gli Stati membri provvedano a una migliore applicazione della legislazione comunitaria in vigore. In alcuni Stati membri mercati essenziali quali quelli delle telecomunicazioni, del- l’energia e dei trasporti sono aperti solo sulla carta, e questo molto dopo la scadenza dei termini che quegli stessi Stati membri si erano impegnati a rispettare. Per com- pletare il mercato unico si richiede una serie di riforme fondamentali cui riservare una particolare attenzione: i mercati dei servizi finanziari e, in generale, tutti i ser- vizi; la proposta di regolamento REACH; una base imponibile consolidata comune per le società e il brevetto comunitario. È necessario migliorare il contesto normativo. In marzo la Commissione lan- cerà una nuova iniziativa di riforma normativa, avvalendosi di consulenti esterni per avere un parere sulla qualità e la metodologia impiegata nel realizzare le nostre valutazioni d’impatto. Occorre applicare in maniera proattiva le norme in materia di concorrenza, il che contribuirà ad aumentare la fiducia dei consumatori. Verranno realizzate valu- tazioni settoriali degli ostacoli alla concorrenza in settori quali quelli dell’energia, delle telecomunicazioni e dei servizi finanziari. Le imprese europee necessitano inoltre di mercati globali aperti. L’Unione si adopererà fortemente per giungere alla fase conclusiva e all’attuazione del ciclo di negoziati di Doha sullo sviluppo, come pure per realizzare progressi riguardo ad altre relazioni economiche di tipo bilaterale e regionale. 2) Porre la conoscenza e l’innovazione al servizio della crescita: a) Aumentare e migliorare gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo b) Promuovere l’innovazione, l’adozione delle nuove tecnologie dell’infor- mazione e della comunicazione e l’uso sostenibile delle risorse c) Contribuire alla creazione di una solida base industriale europea 98 Le autorità pubbliche degli Stati membri a tutti i livelli devono lavorare a so- stegno dell’innovazione, trasformando in realtà la nostra visione di una società della conoscenza. Nel far questo un valido aiuto dovrebbe venir loro dalla costante attenzione riservata dall’Unione a settori quali la società dell’informazione, la bio- tecnologia e l’ecoinnovazione. Si richiedono maggiori investimenti in ricerca e sviluppo da parte del settore sia pubblico che privato. A livello comunitario, è necessario che il Parlamento eu- ropeo e il Consiglio adottino in tempi brevi il prossimo programma quadro per la ricerca e un nuovo programma per la competitività e l’occupazione, che saranno presentati entrambi in aprile. Nel contesto di un’importante riforma della politica in materia di aiuti di Stato che prenderà il via nei prossimi mesi, gli Stati membri, gli enti regionali e altri sog- getti pubblici disporranno di un margine di manovra più ampio per il sostegno alla ricerca e all’innovazione, con particolare riguardo alle iniziative in questo campo realizzate dalle piccole e medie imprese dell’UE. La diffusione della conoscenza grazie a un sistema d’istruzione di elevata qua- lità è il modo migliore per garantire la competitività a lungo termine dell’Unione. L’UE deve, in particolare, adoperarsi affinché le università europee possano com- petere con le migliori del mondo grazie alla completa realizzazione dello Spazio europeo dell’istruzione superiore. La Commissione proporrà la creazione di un “Istituto europeo di tecnologia”. La Commissione sosterrà e promuoverà lo sviluppo di poli di innovazione con- cepiti per aiutare gli enti regionali a coniugare le risorse adeguate con i migliori ta- lenti scientifici e imprenditoriali allo scopo di tradurre le idee emerse nei laboratori in iniziative pratiche. La Commissione e gli Stati membri devono imprimere un’accelerazione alla loro attività di promozione dell’ecoinnovazione – la quale può migliorare in misura considerevole la qualità di vita dell’Unione e incrementare la crescita e l’occupa- zione – ad esempio in settori quali l’uso sostenibile delle risorse, il cambiamento climatico e l’efficienza energetica. La promozione di partenariati con l’industria verrà inoltre attuata mediante ini- ziative tecnologiche europee, che si avvarranno dell’esperienza del sistema di navi- gazione satellitare “Galileo”. La prima di tali iniziative dovrebbe prendere forma nel 2007, non appena il prossimo programma quadro per la ricerca sarà entrato nella fase operativa. 3) Creare nuovi e migliori posti di lavoro: a) Attrarre un maggior numero di persone nel mondo del lavoro e moder- nizzare i sistemi di protezione sociale; b) Accrescere la capacità di adeguamento dei lavoratori e delle imprese e la flessibilità dei mercati del lavoro; c) Aumentare gli investimenti in capitale umano migliorando l’istruzione e le qualifiche; 99 Le parti sociali sono invitate a elaborare un programma d’azione comune di Lisbona in vista del Consiglio europeo della primavera del 2005, con l’indicazione del loro contributo al conseguimento degli obiettivi della strategia di Lisbona. Gli Stati membri e le parti sociali devono moltiplicare gli sforzi per aumentare il tasso di occupazione: occorre, in particolare, perseguire politiche occupazionali attive che offrano sostegno ai lavoratori e li incentivino a continuare a lavorare, elaborare politiche attive in materia di invecchiamento della popolazione che dis- suadano dal ritirarsi troppo presto dalla vita lavorativa, e infine modernizzare i si- stemi di protezione sociale in modo tale che continuino a garantire la sicurezza in- dispensabile per indurre le persone ad accettare il cambiamento. L’avvenire dell’Europa e il futuro della strategia di Lisbona sono intimamente legati ai giovani. L’Unione e gli Stati membri devono fare in modo che le riforme proposte servano ad offrire ai giovani la loro prima opportunità nella vita e a dotarli del bagaglio di competenze che sarà loro utile per sempre. È inoltre necessario che l’Unione elabori e definisca i suoi obiettivi prioritari per trovare una soluzione alla sfida demografica alla quale è confrontata. Gli Stati membri e le parti sociali devono migliorare la capacità di adegua- mento dei lavoratori e delle imprese e la flessibilità dei mercati del lavoro per con- tribuire al processo di adattamento dell’Europa alla ristrutturazione e alle trasfor- mazioni del mercato. Di fronte al fenomeno di una manodopera sempre più ridotta, l’Europa ha bi- sogno di un approccio ben calibrato all’immigrazione legale. La Commissione presenterà un programma prima della fine del 2005 elaborato sulla base della con- sultazione pubblica attualmente in corso. L’Europa necessita di ulteriori investimenti, e di migliore qualità, nell’istru- zione e nella formazione. Mettere l’accento, sia a livello comunitario che nazionale, sulle qualifiche e l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita attiva faciliterà la ri- cerca di un nuovo posto di lavoro. Tali iniziative dovrebbero essere appoggiate dal- l’adozione, nel corso di quest’anno, del Programma comunitario di apprendimento lungo tutto l’arco della vita attiva e, nel 2006, dalla presentazione da parte degli Stati membri delle strategie nazionali in materia. All’Europa occorre inoltre una manodopera più mobile. La mobilità all’interno dell’Unione sarà incoraggiata anche dall’adozione in tempi rapidi, entro l’estate, del quadro di riferimento per le qualifiche professionali, tuttora in attesa di essere adottato. La Commissione presenterà poi una serie di proposte nel corso del 2006 volte a semplificare il reciproco riconoscimento delle qualifiche. Gli Stati membri dovrebbero accelerare l’abolizione di tutte le restrizioni alla mobilità dei lavoratori provenienti dai paesi di recente adesione all’UE . Le autorità regionali e locali dovrebbero elaborare progetti in grado di farci fare passi in avanti verso la realizzazione delle ambizioni della strategia di Lisbona. Si sta provvedendo a ridefinire la prossima generazione di fondi strutturali (inclusi quelli destinati allo sviluppo rurale) tenendo presente tale esigenza, cioè orientan- 100 doli sulle possibilità di contribuire al conseguimento degli obiettivi di crescita e oc- cupazione a livello locale. 2.3. Una migliore (governance) gestione della strategia di Lisbona La gestione della strategia di Lisbona richiede miglioramenti radicali per ren- derla più efficiente e di più facile comprensione. È mancata una chiara ripartizione delle responsabilità tra l’Unione e gli Stati membri: le procedure previste per rife- rire in merito al lavoro svolto sono troppe, burocratiche e costituiscono talvolta un inutile duplicato l’una dell’altra, mentre appare insufficiente l’assunzione di re- sponsabilità a livello politico. Per definire con esattezza le azioni necessarie e le responsabilità, la Commis- sione presenterà un Programma d’azione di Lisbona. Inoltre, la Commissione propone anche un approccio integrato volto a sempli- ficare e razionalizzare gli attuali indirizzi di massima per le politiche economiche e per l’occupazione, nel quadro di un nuovo ciclo consacrato alle questioni econo- miche e all’occupazione. In futuro si ricorrerà a una serie integrata di orientamenti, cui si accompagnerà il Programma d’azione di Lisbona, per registrare passi in avanti nella realizzazione dell’agenda delle riforme: tali orientamenti riguarderanno le politiche macroeconomiche, l’occupazione e le riforme strutturali. A loro volta, gli Stati membri dovranno agire, dopo un ampio dibattito di dimensioni nazionali, provvedendo all’adozione di programmi d’azione nazionali per la crescita e l’occu- pazione, rafforzati dalla definizione di impegni e obiettivi. La Commissione propone un coordinamento semplificato con una riduzione del numero e della presentazione di relazioni. Viene del pari proposto che i programmi nazionali riguardanti la strategia di Lisbona vengano presentati in un formato che riunisca i tre processi di coordinamento: 1) politiche del mercato del lavoro (processo di Lussemburgo); 2) riforme microeconomiche e strutturali (processo di Cardiff); 3) misure macroeconomiche e di bilancio (processo di Colonia). Ciò consentirà al Consiglio europeo di fornire orientamenti pratici nella prima- vera di ogni anno, ed alla Commissione di verificare più agevolmente i progressi compiuti. Gli Stati membri dovrebbero nominare un “responsabile per la strategia di Lisbona” a livello governativo con l’incarico di coordinare tutte queste iniziative. 3. Relazione generale dell’Unione Europea 2007. Sezione Ricerca In un libro verde del 4 aprile intitolato «Nuove prospettive per lo Spazio eu- ropeo della ricerca» la Commissione ha sollevato un certo numero di questioni in ordine a come approfondire ed allargare lo Spazio europeo della ricerca in modo da contribuire appieno alla strategia di Lisbona rinnovata. Lo Spazio europeo della ri- cerca di cui la comunità scientifica, il settore industriale e i cittadini hanno bisogno 101 dovrebbe avere le caratteristiche seguenti: un flusso adeguato di ricercatori compe- tenti; infrastrutture di ricerca di livello mondiale; organismi di ricerca di eccellente livello; una vera condivisione delle conoscenze; programmi e priorità di ricerca adeguatamente coordinati; un’apertura dello Spazio europeo della ricerca al mondo. 3.1. Attuazione dello Spazio europeo della ricerca Il settimo programma quadro CE e il settimo programma quadro Euratom (insieme 7° PQ), con una dotazione di 53,2 miliardi di euro, sono gli strumenti principali dell’Unione europea in materia di finanziamento della ricerca a livello europeo. Il 7° PQ CE è entrato in vigore il 1 gennaio 2007 e si concluderà il 31 dicembre 2013. Si articola attorno a quattro programmi specifici corrispondenti ai quattro principali obiettivi della politica europea di ricerca: 1) cooperazione: promuovere la collaborazione tra le imprese e le università per raggiungere una maggiore leadership nei settori chiave della tecnologia; 2) idee: sostenere la ricerca di base alle frontiere della scienza, programma at- tuato dal Consiglio europeo della ricerca (CER); 3) persone: promuovere la mobilità e lo sviluppo della carriera dei ricercatori in Europa e nel resto del mondo; 4) capacità: contribuire allo sviluppo delle capacità di cui ha bisogno l’Eu- ropa per diventare un’economia prospera fondata sulla conoscenza. Un programma specifico è inoltre dedicato alle azioni non nucleari del Centro comune di ricerca. Il 7° PQ Euratom è entrato in vigore il 1 gennaio 2007 e si concluderà il 31 dicembre 2011. Riguarda attività di ricerca sull’energia di fusione e sulla fissione nucleare e la radioprotezione specificate in un programma ad hoc. Nel 2007 Estonia, Cipro e Malta sono diventati membri dell’Accordo europeo per lo sviluppo della fusione (EFDA) e sono invitati attualmente a creare unità transnazionali di ricerca con altre associazioni Euratom. L’Estonia ha già creato un’unità di ricerca con l’associazione finlandese Euratom. Un altro programma specifico è inoltre dedi- cato alle azioni nucleari del Centro comune di ricerca. Durante il primo anno del 7° PQ, la Commissione ha adottato i programmi di lavoro per l’attuazione di questi programmi specifici dotati di un budget di circa 7 miliardi di euro per il 2007. Essa ha altresì adottato regole per la presentazione di proposte e le procedure di valutazione, di selezione e di assegnazione per le azioni indirette per i due programmi quadro. Il programma specifico «cooperazione» prevede per la prima volta la crea- zione di partenariati pubblico-privato attraverso iniziative tecnologiche comuni (ITC) per dinamizzare la ricerca in sei settori. In questo quadro nel 2007 la Com- missione ha adottato cinque proposte di regolamenti destinate alla creazione di imprese comuni in settori specifici, che sono di importanza fondamentale per la 102 competitività nei settori dell’industria automobilistica, aerospaziale, multimediale, delle telecomunicazioni, dei sistemi medici, dei trasporti, dell’ambiente e della trasformazione industriale, in particolare nel settore delle tecnologie dell’informa- zione e della comunicazione (TIC). È inoltre prevista una sesta ITC sul sistema di monitoraggio globale per l’am- biente e la sicurezza. Il programma specifico «idee» prevede la creazione di un’agenzia in Europa, il Consiglio europeo della ricerca, destinata ad offrire un meccanismo di finanzia- mento concorrenziale su scala europea per la ricerca esplorativa realizzata da sin- goli gruppi di ricercatori. Il CER rappresenta una delle innovazioni fondamentali del 7° PQ. In questo contesto la Commissione ha adottato una decisione che definisce gli elementi componenti il CER: il Consiglio scientifico, il suo segretario generale e la struttura esecutiva specifica. Tale struttura dovrebbe essere trasferita dalla Com- missione verso un’agenzia esecutiva. Parallelamente al lancio del 7° PQ, la Commissione ha adottato una proposta di decisione destinata a rivedere gli orientamenti tecnici pluriennali per il programma di ricerca del fondo di ricerca carbone e acciaio. All’insegna della continuità con le regole iniziali, i nuovi orientamenti consistono in un adattamento delle regole esistenti tenuto conto dell’esperienza acquisita durante i primi anni di attuazione di questo programma di ricerca lanciato nel 2003. La Commissione ha adottato una comunicazione intitolata «Regioni europee competitive grazie alla ricerca e all’innovazione. Un contributo al rafforzamento della crescita e al miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione». Essa presenta le sinergie esistenti nella concezione delle politiche europee di ricerca, innovazione e coesione, fa il punto della situazione ed invita gli Stati membri e le regioni ad utilizzare più efficacemente le politiche e gli strumenti del- l’Unione in materia di ricerca, innovazione e coesione. La Commissione sottolinea in particolare che potrebbero essere fatti maggiori sforzi a livello nazionale e regio- nale per migliorare l’informazione sugli strumenti disponibili ed il loro utilizzo. La Commissione ha altresì adottato una comunicazione intitolata «Nano- scienze e nanotecnologie: un piano di azione per l’Europa 2005-2009. Prima rela- zione sull’attuazione, 2005-2007» e il 13 settembre la relazione annuale sulle atti- vità di ricerca e sviluppo tecnologico dell’Unione europea nel 2006. L’11 settembre è stato creato il forum europeo della ricerca e dell’innovazione in materia di sicurezza con l’obiettivo di elaborare un piano strategico di ricerca e d’innovazione in materia di sicurezza che coinvolga gli operatori europei e che esponga necessità e priorità della ricerca europea in materia di sicurezza. In una comunicazione pubblicata lo stesso giorno, la Commissione si è impegnata ad instaurare la fiducia reciproca e ad aprire la strada ad una maggiore integrazione delle iniziative comunitarie in materia di sicurezza tra il settore pubblico e privato e gli istituti di ricerca. 103 Nell’attuazione del settimo programma quadro e per quanto riguarda la parteci- pazione della Comunità a programmi di ricerca e di sviluppo avviati da più Stati membri, la Commissione ha adottato una proposta per il miglioramento della qualità della vita degli anziani attraverso l’uso delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (vedi oltre, rubrica «Promozione delle tecnologie dell’informa- zione e della comunicazione») e una proposta a sostegno delle PMI che effettuano attività di ricerca e sviluppo. Il Comitato economico e sociale europeo ha sostenuto, in un parere, che oc- corre rafforzare l’impegno economico dell’Unione europea per migliorare i risultati e gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo, che devono altresì tenere conto dei nuovi obiettivi che l’Unione si è fissata in materia di emissioni di biossido di car- bonio. 3.2. ITER Il 2007 è stato un anno importante per il progetto ITER (reattore termonu- cleare sperimentale internazionale). Dopo essere stato messo in applicazione tem- poraneamente alla fine del 2006, l’accordo ITER è entrato in vigore il 24 ottobre e il primo Consiglio ITER si è svolto in novembre. Il 27 marzo il Consiglio ha adottato una decisione che istituisce l’Impresa comune europea per ITER e lo sviluppo dell’energia da fusione. L’impresa comune gestirà il contributo della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) all’or- ganizzazione internazionale ITER per l’energia da fusione. 3.3. Centro comune di ricerca (CCR) Quando il 7° programma quadro per la ricerca e lo sviluppo, compresi i pro- grammi specifici del Centro comune di ricerca, è stato lanciato nel 2007, il Centro comune di ricerca ha festeggiato i suoi 50 anni. Nel quadro del suo ruolo di supporto tecnico e scientifico alle politiche comu- nitarie, il CCR ha contribuito alla creazione di tre nuovi laboratori di riferimento comunitari, allo scopo di sostenere le autorità nazionali nei loro sforzi per evitare la contaminazione dei prodotti alimentari (destinati al consumo umano ed animale) con sostanze pericolose. 4. Relazione generale dell’Unione Europea 2007. Sezione Ambiente economico e sociale. La strategia di Lisbona: il partenariato per la crescita e l’occupa- zione Nel 2005 si è proceduto ad una ridefinizione delle priorità della strategia di Li- sbona a favore dell’occupazione e della crescita, mobilitando in modo più efficace tutte le risorse nazionali e comunitarie nelle tre dimensioni — economica, sociale e 104 ambientale — della strategia, per sfruttare meglio le sinergie in un contesto gene- rale di mondializzazione e di sviluppo sostenibile. Gli Stati membri hanno comunicato i loro programmi nazionali di riforma alla Commissione, che ha intrapreso nel 2006 una valutazione dettagliata di questi ul- timi per promuovere scambi di idee proficui, proponendo nel contempo azioni per rimediare alle lacune messe in evidenza. La Commissione ha inoltre intrapreso un’analisi dei progressi realizzati nell’applicazione della strategia, a livello sia co- munitario che nazionale, e ha formulato proposte concrete per il proseguimento della strategia. Il 14 febbraio, in una risoluzione sul contributo al Consiglio europeo della pri- mavera 2007 per quanto riguarda la strategia di Lisbona, il Parlamento europeo ha espresso soddisfazione per gli sforzi compiuti dalla Commissione e dagli Stati membri per realizzare con successo la strategia di Lisbona e rileva che questa è la risposta dell’Europa 4.1. L’obiettivo della prosperità Si sottolinea tuttavia che la realizzazione della strategia di Lisbona esige la messa a disposizione di risorse finanziarie adeguate e mirate a tal fine nel bilancio comunitario, che al momento sono assenti. Dopo la presentazione da parte degli Stati membri delle loro prime relazioni di attività sull’attuazione dei loro programmi nazionali di riforma, il Consiglio ha adottato il 27 febbraio un documento che espone le questioni chiave riguardanti la strategia. Esso sollecita a sfruttare appieno le condizioni di crescita, che sono ormai migliori di quanto non sia accaduto da numerosi anni a questa parte, per proseguire le riforme strutturali in conformità con i grandi orientamenti di politica economica, comprese le raccomandazioni specifiche per ogni paese. Il Consiglio europeo dell’8 e 9 marzo ha constatato che la strategia di Lisbona iniziava a dare i propri frutti e che occorreva trarre vantaggio dal rilancio dell’eco- nomia europea per rafforzare lo slancio riformatore. Esso ha invitato la Commis- sione a presentare una relazione provvisoria nell’autunno 2007 nella prospettiva della sua proposta sugli orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione 2008- 2011. Il Consiglio europeo ha messo peraltro in evidenza le conclusioni del vertice sociale tripartito dell’8 marzo per quanto riguarda il ruolo essenziale svolto dalle parti sociali, che devono continuare a contribuire attivamente al conseguimento degli obiettivi di Lisbona. I nuovi programmi della politica di coesione 2007-2013 adottati nel 2007 contribuiranno altresì all’attuazione degli obiettivi di crescita e di occupa- zione da parte di tutti i soggetti partecipanti ai partenariati nelle città e nelle regioni. Il 3 ottobre la Commissione ha adottato una comunicazione intitolata «L’inte- resse europeo: riuscire nell’epoca della globalizzazione. Contributo della Commis- sione alla riunione di ottobre dei capi di Stato o di governo». Questa relazione stra- tegica valuta l’attuazione della strategia di Lisbona rinnovata e formula proposte per il prossimo ciclo triennale, in particolare una nuova serie di orientamenti inte- 105 grati, raccomandazioni per paese ed un nuovo programma comunitario di Lisbona. Al Consiglio europeo informale del 18 e 19 ottobre e sulla base di questa comuni- cazione è emerso un ampio consenso a favore dell’approccio della Commissione nei confronti del prossimo ciclo della strategia di Lisbona che sarà adottato nella primavera del 2008. Il Consiglio europeo ha accolto favorevolmente la relazione strategica della Commissione nella sua riunione del 14 dicembre. Esso ha adottato altresì una dichiarazione dell’Unione sulla globalizzazione, che sottolinea in parti- colare che l’Unione mira a forgiare la globalizzazione nell’interesse di tutti i suoi cittadini, sulla base dei suoi valori e principi comuni. Il 13 novembre il Consiglio ha adottato conclusioni intitolate «Il nuovo ciclo triennale della strategia di Lisbona» e nella sua riunione del 5 e 6 dicembre ha adottato conclusioni sulle prospettive della strategia europea per l’occupazione nel quadro del nuovo ciclo della strategia di Lisbona. 4.2. Ambiente economico e sociale A dicembre 2007 la Commissione ha adottato una comunicazione intitolata «Relazione strategica sulla strategia di Lisbona rinnovata per la crescita e l’occu- pazione — Il nuovo ciclo (2008-2010)». Tale comunicazione presenta un riesame intermedio della strategia di Lisbona rinnovata e prepara le basi per il Consiglio eu- ropeo di primavera 2008 per quanto concerne il lancio del nuovo ciclo. Lo stesso giorno la Commissione ha adottato una comunicazione intitolata «Proposta di programma comunitario di Lisbona 2008-2010» (v. documenti suc- cessivi), nella quale presenta una serie di obiettivi ambiziosi ma realistici da realiz- zare a livello comunitario entro il 2010. Questa proposta di nuovo programma comunitario di Lisbona si basa sugli orientamenti integrati e sui quattro settori d’azione prioritari definiti dal Consiglio europeo di primavera 2006. 5. Comunicazione della Commissione al Consigli Europeo “L’interesse eu- ropeo: riuscire nell’epoca della globalizzazione” - COM(2007) 581 Secondo la Commissione, il rilancio nel 2005 della strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione è stato un successo. Nel suo complesso, tale rilancio ha contribuito ad accelerare l’andamento delle riforme, aiutando gli Stati membri a in- trodurre modifiche difficili ma necessarie e, secondo le valutazioni della Commis- sione, ha favorito il recente miglioramento dei risultati economici nell’UE. 5.1. Maggiore crescita e più posti di lavoro mediante un migliore coordina- mento La nuova governance definita dalla strategia di Lisbona per la crescita e l’oc- cupazione, che attribuisce grande importanza al partenariato tra il livello europeo e il livello degli Stati membri, si è rivelata valida. Gli orientamenti integrati stanno 106 svolgendo la loro funzione e non richiedono modifiche di rilievo. Tuttavia, i pro- gressi nell’attuazione sono ineguali. Ovviamente, gli Stati membri hanno punti di partenza molto diversi ma, anche tenuto conto di queste differenze, alcuni Stati membri si sono mostrati più inclini di altri ad assumere la sfida di “passare alla marcia superiore”. Non si può ignorare il “divario nell’attuazione”. Le economie degli Stati membri stanno diventando molto interdipendenti. Tra di esse si esercitano considerevoli effetti di trascinamento: la prosperità in uno Stato membro crea prosperità negli altri e il ristagno in uno Stato membro agisce da freno sugli altri. In un simile contesto, sono d’importanza capitale politiche finan- ziarie valide e una sana gestione delle finanze pubbliche, poiché in tal modo si spiana la strada per una crescita maggiore e sostenibile, non soltanto liberando risorse per investimenti essenziali, ma anche migliorando la stabilità generale del- l’economia e della società europea. È indispensabile far progredire le riforme. Un gran passo avanti è l’adozione, quest’anno, di raccomandazioni specifiche per i singoli Stati membri. Con deci- sione collettiva, gli Stati membri hanno indicato in che senso ognuno di essi deve operare per riformare la propria economia. È questo un primo passo verso quel tipo di più stretto coordinamento della politica economica che è necessario per ottenere tutti i benefici possibili. In un simile stretto coordinamento politico si devono rispettare integralmente il ruolo e il mandato degli Stati membri e delle istituzioni. Particolarmente utile può essere servirsi dell’impostazione di Lisbona nell’area dell’euro, dove gli effetti di trascinamento sono più forti e dove è massima l’esigenza di un’agenda comune. Avere una moneta comune e una politica monetaria comune conferisce al coordina- mento una dimensione supplementare, atta a rafforzare il ruolo dell’area dell’euro nell’incrementare la crescita e l’occupazione nell’intera UE. Per il decimo anniver- sario dell’UEM, la Commissione presenterà un ampio esame del suo funziona- mento, proponendo idee su come le politiche, il coordinamento e la governance possano coadiuvare l’area dell’euro per conseguire i migliori risultati. 5.2. Gli orientamenti politici I quattro settori prioritari approvati dal Consiglio europeo della primavera 2006 costituiscono il contesto appropriato per la strategia al livello UE e a livello nazionale: 1) R&S e innovazione, 2) ambiente imprenditoriale adeguato, 3) investi- menti nelle risorse umane, 4) energia e mutamenti climatici. Tuttavia, per avvalersi appieno del potenziale effettivo per la crescita e l’occupazione, occorre approfon- dire l’agenda delle riforme in questi settori. 1) Maggiore R&S e innovazione La globalizzazione ha accelerato il ritmo dei cambiamenti, per la tecnologia, per le idee e per il modo in cui lavoriamo e viviamo. Se l’Europa riuscirà ad attuare 107 il suo potenziale d’innovazione e di creatività, potrà indirizzare il cambiamento se- condo i peculiari valori europei e la diversità culturale, che tanta rilevanza ha nella società europea. In questo settore si è cercato soprattutto d’incrementare le spese in R&S e gli Stati membri stanno progredendo verso l’obiettivo del 3% del PIL. Tutti gli Stati membri hanno fissato traguardi nazionali: raggiungerli è la sfida che de- vono assumere il settore pubblico e soprattutto il settore privato. Tuttavia, gli investimenti da soli non garantiranno migliori risultati della R&S. Abbiamo bisogno di un mercato che riduca il lasso di tempo necessario per trasformare l’innovazione in nuovi prodotti e servizi. In Europa si devono creare le condizioni appropriate per far prosperare la ricerca e l’innovazione: per esempio, carriere attraenti per i ricercatori, un sistema moderno di DPI e norme interoperabili. Un’economia basata sulla conoscenza richiede la libera circola- zione delle idee e dei ricercatori, aggiungendo una “quinta libertà” alle quattro libertà del mercato interno e creando un autentico spazio europeo della ricerca. Si devono proseguire i lavori per porre rimedio alla frammentazione delle ri- sorse e all’insufficiente ampiezza delle attività e per sviluppare il “triangolo della conoscenza”, costituito da ricerca, istruzione e innovazione. Occorre quindi aiutare gli Stati membri a porre in comune le loro risorse nei settori strategici della ricerca, a rendere più moderna l’istruzione superiore ed a creare nuove infrastrutture inno- vatrici a complemento dell’Istituto europeo di tecnologia. In tal modo si attireranno i migliori ricercatori e si promuoveranno tecnologie di punta. 2) Un ambiente imprenditoriale più dinamico Le PMI e l’imprenditorialità hanno grande rilievo nell’agenda delle riforme. È ora necessario realizzare integralmente il potenziale di crescita e di creazione di posti di lavoro delle PMI e avvalersi appieno delle loro capacità d’innovazione. La Commissione solleciterà il parere delle PMI e dei loro rappresentanti per aiutarla ad elaborare la “legge europea per le piccole imprese”, nell’intento di presentare entro la fine del 2008 un’ampia gamma di proposte a favore delle PMI. La “cultura” di miglioramento della regolamentazione ha cominciato a radi- carsi in tutta l’UE, e le istituzioni devono assumere il ruolo di guida. La Commis- sione ha apportato considerevoli cambiamenti al suo modo di elaborare nuove pro- poste e controlla l’attuazione dell’acquis esistente. Anche il Parlamento europeo ha cominciato a servirsi delle valutazioni dell’impatto come strumento di lavoro, ma il Consiglio non ancora. Tuttavia, i vantaggi di una migliore regolamentazione devono essere percepiti a tutti i livelli. Tutti gli Stati membri hanno acconsentito a fissare obiettivi per diminuire del 25% gli oneri amministrativi entro il 2012. Oltre a ridurre gli oneri attuali, si deve esaminare in particolare se sia necessario applicare integralmente alle PMI tutte le disposizioni di carattere amministrativo del diritto UE. La fase successiva sarà l’ammodernamento delle pubbliche amministrazioni, in modo che esse possano of- frire un servizio trasparente e prevedibile e mezzi effettivi di ricorso. 108 109 3) Promozione delle qualifiche occupazionali e maggiori investimenti nel capitale umano La globalizzazione e le innovazioni tecnologiche rischiano entrambe di aggra- vare le disparità, ampliando il divario tra individui qualificati e non qualificati. La soluzione migliore consiste nell’aiutare ognuno ad adeguarsi, migliorando la qua- lità e disponibilità dell’istruzione e della formazione per tutte le fasce d’età. Come hanno mostrato recenti studi, non si tratta soltanto d’incrementare gli investimenti: la chiave per migliorare le prestazioni lavorative sta nell’aggiornare le politiche d’istruzione e di formazione. Un giovane su sei lascia la scuola senza aver ottenuto nessuna qualifica: in mancanza di un sostegno mirato, questi giovani possono essere esclusi dall’economia basata sulla conoscenza ed essere vulnerabili ai cam- biamenti risultanti dalla globalizzazione. Vi è un crescente interesse nella flexicurity (“flessi-sicurezza”), che può aiutare i lavoratori a gestire con maggiore efficacia le transizioni nella loro vita professio- nale, in tempi di rapidi mutamenti nel mondo economico. Potenziare le qualifiche e tutelare le persone piuttosto che i singoli posti di lavoro sono i mezzi per aiutare i lavoratori ad accettare nuovi posti di lavoro meglio retribuiti e più gratificanti o anche a dar vita a una loro impresa. La Commissione ha proposto principi comuni, che saranno esaminati dal Con- siglio europeo di dicembre e offriranno agli Stati membri una base per cooperare con le parti sociali nazionali per adattare la flessi-sicurezza alle circostanze nazio- nali e per introdurre quest’impostazione nei loro programmi nazionali di riforme. Maggiore attenzione sarà riservata anche all’inclusione attiva e alle pari oppor- tunità. Si deve promuovere un’adeguata tutela sociale e si deve rafforzare la lotta contro la povertà. 6. Comunicazione della Commissione al Consigli Europeo, “Proposta di Pro- gramma Comunitario di Lisbona 2008-2010” - COM(2007) 804 La proposta di un nuovo PCL integra le azioni da intraprendere a livello comu- nitario per il prossimo ciclo, come proposto nella relazione strategica della Commis- sione per l’adozione al Consiglio europeo di primavera 2008, definendo una serie di azioni ambiziose ma realistiche, da attuare a livello comunitario entro il 2010. 6.1. Rafforzare e rinnovare il PCL Il primo programma comunitario di Lisbona per il periodo 2005-2008 ha pro- dotto risultati importanti. Ad esempio, sono stati registrati progressi nel migliora- mento del quadro giuridico del mercato unico, grazie all’adozione della direttiva sui servizi e all’attuazione del piano d’azione per i servizi finanziari. La Commis- sione è inoltre riuscita a fare progredire il proprio programma per una migliore regolamentazione, mirante ad eliminare i costi inutili e a rimuovere gli ostacoli 110 all’innovazione. Sono stati sensibilmente incentivati i finanziamenti comunitari de- dicati alla crescita ed all’occupazione. Grazie al nuovo quadro normativo della po- litica europea di coesione tra il 2007 ed il 2013 si renderanno disponibili circa 210 miliardi di euro per investimenti nel settore della crescita e dell’occupazione, con un aumento di oltre il 25% rispetto al periodo 2000-2006. Globalmente, oltre 87 azioni sulle 102 preannunciate nel PCL del 2005 erano già state realizzate entro la metà del 2007. Pur avendo registrato un certo numero di successi, il PCL per il periodo 2005- 2008 non sempre ha rappresentato un quadro sufficientemente solido per assicurare la priorità necessaria alle azioni previste e accelerarne l’adozione e l’attuazione. Il PCL è stato infatti spesso percepito come il programma di riforma della sola Com- missione europea, mentre la sua realizzazione richiede un pieno impegno da parte di tutte le istituzioni comunitarie e di tutti gli Stati membri. Il nuovo PCL per il periodo 2008-2010 mira a colmare queste lacune. È per questo che la Commissione propone un programma maggiormente incentrato su alcune priorità, limitato a 10 obiettivi chiave realizzabili nel corso del periodo 2008-2010. 6.2. I dieci obiettivi chiave del nuovo PCL nei quattro settori prioritari La Commissione propone che il PCL 2008-2010 comporti dieci obiettivi chiave e azioni corrispondenti basate sugli orientamenti integrati e poggianti inte- gralmente sui quattro settori prioritari. 1 Entro la metà del 2008 la Commissione proporrà un’agenda sociale rinnovata e contribuirà a colmarele lacune in termini di competenze. 2 Nel 2008 la Commissione presenterà delle proposte per una politica comune dell’immigrazione. 3 La Comunità adotterà una normativa sulle piccole imprese per sbloccare il potenziale di crescitadelle PMI nel corso del loro ciclo di vita. 4 La Comunità si avvicinerà all’obiettivo di ridurre gli oneri amministrativi comunitari del 25% entroil 2012 ed applicherà un ambizioso programma di semplificazione. 5 La Comunità rafforzerà il mercato unico, aumenterà la concorrenza nei servizi ed adotterà nuove mi- sure per integrare il mercato dei servizi finanziari. 6 La Comunità renderà effettiva la “quinta libertà” (la libera circolazione delle conoscenze) e creerà un vero spazio europeo della ricerca. 7 La Comunità migliorerà le condizioni generali dell’innovazione. 8 La Comunità completerà il mercato interno dell’energia ed adotterà il pacchetto di misure relative al cambiamento climatico. 9 La Comunità promuoverà una politica industriale mirata a un modello di produzione e di consumopiù sostenibile. 10 La Comunità negozierà bilateralmente con i propri principali partner commerciali per aprire nuove prospettive per il commercio e gli investimenti internazionali e creare uno spazio comune in materia di normative e standard. Dieci obiettivi chiave da raggiungere entro il 2010 111 1) Investire in risorse umane e modernizzare i mercati del lavoro Obiettivo 1: Entro la metà del 2008 la Commissione proporrà un’agenda sociale rinno- vata, in particolare per quanto riguarda i temi dell’istruzione, dell’emigrazione e delle evoluzioni demografiche, e contribuirà a colmare le lacune in termini di com- petenze migliorando il monitoraggio e la previsione dei requisiti futuri in materia. Investire maggiormente nell’istruzione e nelle competenze è una condizione preliminare per garantire l’autodeterminazione delle persone. Si tratta di un fattore critico per il successo dell’Europa nell’era della globalizzazione e di uno dei modi più efficaci per garantire le pari opportunità e per lottare fermamente contro le dis- uguaglianze e la povertà. Le tendenze demografiche in atto rafforzeranno ulterior- mente la pressione sull’offerta di manodopera, sulla penuria di competenze e sul disavanzo di bilancio del welfare pubblico. In questa situazione è fondamentale migliorare l’istruzione e le competenze, sia per l’occupabilità che per la coesione sociale. È necessario elaborare un’agenda sociale rinnovata che ponga l’accento sull’istruzione, sull’emigrazione e sulle evoluzioni demografiche, per fare sì che tali questioni vengano affrontate su scala comunitaria. Sulla base dell’iniziativa “Nuove competenze per nuovi lavori”, la Comunità può inoltre contribuire a migliorare l’incontro di domanda/offerta del mercato del lavoro e rimediare alla penuria di competenze attraverso un ottimale coordina- mento degli strumenti di previsione, in modo da anticipare meglio le evoluzioni del mercato del lavoro al livello dell’UE. La Comunità ha già lanciato molti progetti miranti ad anticipare le tendenze del mercato del lavoro ed i fabbisogni in compe- tenze, e oggi si tratta di migliorare il coordinamento di queste diverse azioni per ottimizzarne i risultati. Inoltre lo sviluppo delle competenze sarà sostenuto da un quadro strategico riguardante le politiche di formazione e da misure specifiche ten- denti a garantire la qualità della formazione professionale. Per garantire un incontro più efficiente di domanda/offerta del mercato del lavoro e affrontare il problema della penuria di competenze, la Comunità deve eli- minare gli importanti ostacoli regolamentari che si oppongono attualmente al mer- cato unico del lavoro. I problemi riguardano soprattutto l’insufficiente comparabi- lità/riconoscimento delle qualifiche e le restrizioni alla mobilità delle pensioni e delle prestazioni sociali. L’eliminando di questi ostacoli completerà gli sforzi profusi dagli Stati membri per facilitare un migliore utilizzo delle competenze ed eliminare l’insufficienza delle competenze. Azioni: - Proporre un’agenda sociale rinnovata entro la metà del 2008; - Aumentare la trasparenza, il riconoscimento e la comparabilità delle quali- fiche e migliorare la mobilità delle pensioni e degli altri diritti sociali all’in- terno dell’UE; 112 - Migliorare la capacità di prevedere le evoluzioni del mercato del lavoro ed i fabbisogni di competenze a livello dell’UE. Obiettivo 2: Nel 2008 la Commissione presenterà delle proposte per una politica comune dell’immigrazione La Comunità ha bisogno di elaborare una politica comune dell’immigrazione per meglio soddisfare le attuali e future necessità del mercato del lavoro. Benché l’emigrazione netta nell’UE raggiunga oltre 1,5 milioni di persone all’anno, di norma la maggioranza dei migranti rientra nei segmenti di manodopera poco qualifi- cati. Per fare fronte alla crescente richiesta di lavoratori più qualificati e scongiurare al contempo l’attuazione di un patchwork di regimi nazionali inefficaci e concorrenti, occorre mettere a punto una politica comune in materia di emigrazione economica. Il miglioramento della gamma di competenze dei migranti permetterà loro di soddi- sfare meglio le necessità del mercato del lavoro comunitario e contribuirà a ridurre la penuria di competenze. La Commissione ha già formulato delle proposte iniziali, tra cui l’attuazione di un sistema di “blue card” per i migranti altamente qualificati. Nel corso del 2008 la Commissione presenterà ulteriori ed esaurienti proposte per una politica comune dell’immigrazione. Azione: - Progredire verso l’adozione di una politica comune dell’immigrazione che soddisfi le necessità del mercato del lavoro dell’UE, in particolare attraverso un sistema di “blue card” volto ad attirare lavoratori altamente qualificati. 2) Sfruttare il potenziale delle imprese, in particolare delle PMI Obiettivo 3: La Comunità adotterà una normativa sulle piccole imprese per sbloccare il potenziale di crescita delle PMI nel corso del loro ciclo di vita. Entro il 2010, la Comunità dovrebbe sbloccare il potenziale di crescita e di oc- cupazione delle PMI, che costituiscono oltre il 99% delle imprese ed occupano il 67% della manodopera dell’UE. Mente una serie di azioni del PCL favorirà co- munque anche le PMI, è necessario affrontare la relativa carenza di accesso al mer- cato interno ed ai mercati dell’esportazione di cui soffrono le PMI e ridurre gli oneri amministrativi. La Comunità metterà a punto ed attuerà una “Normativa sulle piccole imprese“ che definirà i principi e le misure concrete miranti a sostenere le PMI lungo tutto il loro ciclo di vita ed in particolare: uno statuto specifico della so- cietà privata adeguato alle esigenze delle PMI, l’esenzione da carichi giuridici troppo gravosi (quali la raccolta di statistiche e documenti o i requisiti in materia di IVA e di contabilità), un accesso più agevole ai capitali di rischio, la tutela delle loro idee, aiuti all’assunzione ed alla riqualificazione del personale, la facilitazione del loro accesso agli appalti pubblici ed ai programmi di R&S, legami più stretti 113 con le università ed i centri di ricerca, la facilitazione dei trasferimenti di imprese e l’offerta di nuove opportunità agli imprenditori in caso di fallimento. Azioni: - Adottare una “Normativa europea sulle piccole imprese” che definisca i principi e le misure concrete per sostenere le PMI nel corso del loro ciclo di vita. - Realizzare un’analisi specifica dell’acquis comunitario sotto il punto di vista delle PMI ed esentarle – laddove sia possibile – dai requisiti amministrativi della legislazione UE. Obiettivo 4: La Comunità si avvicinerà all’obiettivo di ridurre del 25% gli oneri ammini- strativi comunitari entro il 2012 ed applicherà un ambizioso programma di sempli- ficazione. La Comunità completerà il proprio riesame dell’acquis comunitario al fine di semplificare o eliminare i requisiti inutili e troppi gravosi per le imprese, preser- vando al contempo gli obiettivi originali della legislazione. Questo lavoro completerà gli sforzi degli Stati membri per rispettare il loro impegno di ridurre gli oneri ammi- nistrativi del 25% entro il 2012. La riduzione degli oneri amministrativi permetterà alle imprese, ed in particolare alle PMI, di incentivare i fondi interni destinati agli investimenti, e migliorerà gli incentivi per l’adattabilità e l’innovazione. Nell’attuare le politiche in materia di semplificazione, la Comunità rispetterà pienamente il prin- cipio di sussidiarietà ed il principio “Pensare prima in piccolo”. Obiettivo 5: La Comunità rafforzerà il mercato unico, aumenterà la concorrenza nei servizi ed adotterà nuove misure per integrare il mercato dei servizi. Una completa e tempestiva attuazione della direttiva sui servizi da parte degli Stati membri, con l’aiuto della Commissione, è fondamentale. Essa agevolerà infatti considerevolmente lo stabilimento degli operatori e la libera prestazione dei servizi, riducendo gli oneri amministrativi ed eliminando gli ostacoli esistenti. La tempestivi- tà nell’introduzione di standard e l’interoperabilità rappresentano un aspetto impor- tante del mercato unico, in particolare per quanto riguarda i beni ed i servizi TIC. In questo contesto la politica di concorrenza può svolgere un ruolo complementare. Le analisi effettuate dalla Commissione dimostrano che alcune industrie di rete e determinati servizi chiave (servizi postali, elettricità, gas, ferrovie, servizi finan- ziari, comunicazioni elettroniche, commercio all’ingrosso e al dettaglio) richiedono un’attenzione particolare. È dunque necessario che la Comunità rafforzi la politica del mercato interno e l’attuazione della politica di concorrenza al fine di aumen- tare la produttività e ridurre i prezzi per i consumatori, pur garantendo la presta- zione dei servizi d’interesse generale. A tal fine la Comunità deve aumentare la propria vigilanza di mercato nei settori chiave. 114 Azioni: - Rafforzare il mercato unico e la concorrenza, aumentare la vigilanza del mercato a livello settoriale e se necessario migliorare la regolamentazione, con particolare accento sui servizi essenziali e sulle industrie di rete; - Garantire l’entrata in vigore, completa e nei termini previsti, della direttiva sui servizi; - Garantire il completamento di un’area di pagamento unica in euro (SEPA) ed eliminare gli ostacoli, aumentare la concorrenza nei servizi finanziari al det- taglio e consolidare il quadro unico per i mercati all’ingrosso e le operazioni d’investimento transfrontaliere; - Rafforzare le disposizioni in vigore in materia di sorveglianza e progredire nell’elaborazione di strumenti adeguati per la gestione delle crisi transfronta- liere da parte delle istituzioni finanziarie dell’UE. 3) Investire nella conoscenza e nell’innovazione La Comunità attuerà una “quinta libertà” – la libera circolazione delle cono- scenze – che si aggiungerà alle quattro libertà già in vigore, ovvero la libera circo- lazione delle merci, dei servizi, delle persone e dei capitali. La realizzazione di questa “quinta libertà” – grazie all’istituzione di uno spazio europeo della ricerca e dell’insegnamento superiore e al miglioramento delle condizioni generali dell’inno- vazione - è necessaria per superare la frammentazione delle politiche nazionali in materia di ricerca e innovazione. Solo così l’UE potrà raggiungere prestazioni di primo piano a livello mondiale in materia di ricerca e diventare più attraente per gli investimenti privati. Obiettivo 6: La Comunità renderà effettiva la “quinta libertà” (la libera circolazione delle conoscenze) e creerà un vero spazio europeo della ricerca Per rendere effettiva la “quinta libertà”, cioè la libera circolazione delle cono- scenze, e creare un vero spazio europeo della ricerca, in collaborazione con gli Stati membri, bisogna rafforzare i tre elementi del triangolo della conoscenza: la ri- cerca, l’innovazione e l’istruzione. Una maggiore messa in comune delle risorse in materia di ricerca con e tra gli Stati membri, in base a una geometria variabile, verrà facilitata da una programmazione congiunta e dall’elaborazione di un quadro giuridico per la creazione ed il funzionamento di infrastrutture di ricerca pan-eu- ropee. Lo sviluppo di una strategia e di un quadro comunitari per la cooperazione scientifica e tecnologica internazionale rafforzerà inoltre la cooperazione tra l’UE e gli Stati membri nonché l’effetto sinergico internazionale. È necessario dare vita a un vero mercato unico del lavoro per i ricercatori, ba- sato sull’idea di un “passaporto europeo”; esso permetterebbe di migliorare le pro- spettive di carriera nonché l’assunzione e la mobilità transfrontaliera dei ricerca- tori. Tale iniziativa completerà gli sforzi attuati dagli Stati membri per rafforzare e 115 riformare l’insegnamento superiore, faciliterà la costituzione di reti ed aumenterà la concorrenza tra le università, gli istituti di ricerca e le imprese. Anche l’istituto europeo per l’innovazione e la tecnologia è un elemento car- dine di questa strategia mirante ad integrare l’insegnamento, la ricerca e l’innova- zione. In tal modo esso diventerà un modello per la promozione dell’innovazione aperta e della condivisione delle conoscenze tra gli enti di ricerca pubblici e l’indu- stria. In termini generali, la realizzazione di uno spazio europeo della ricerca creerà economie di scala e di gamma, contribuirà ad una più efficace assegnazione delle risorse e produrrà importanti riversamenti transfrontalieri di conoscenze, a van- taggio di tutti gli Stati membri. Azioni: - Mettere in comune le risorse di R&S affinché siano utilizzate in modo più efficace: raggiungendo accordi entro la fine del 2008 su quali settori deb- bano essere oggetto di programmi comuni e lanciando inviti comuni a pre- sentare progetti entro la fine del 2010; - Migliorare la mobilità transfrontaliera e le prospettive di carriera dei ricerca- tori grazie ad un “passaporto” europeo; - Rendere pienamente operativo l’Istituto europeo di innovazione e tecno- logia; - Lanciare una nuova generazione di impianti di ricerca di livello mondiale fissando, entro la fine 2009, i piani per l’avviamento dei progetti concordati. Per i progetti su scala mondiale, lanciare nel corso dell’anno 2008 il dialogo con i partner internazionali interessati. Obiettivo 7: La Comunità migliorerà le condizioni generali dell’innovazione, in particolare per quanto riguarda i capitali di rischio ed i diritti di proprietà intellettuale. La Comunità deve migliorare le condizioni generali chiave dell’innovazione attuando la propria ampia strategia in materia. Questa comprende ad esempio lo sviluppo di mercati pilota per le nuove tecnologie, il rafforzamento del quadro giu- ridico che disciplina i diritti di proprietà intellettuale e l’accelerazione dell’attua- zione di norme caratterizzate dall’interoperabilità. La Comunità deve in particolare creare condizioni più favorevoli per il finan- ziamento dell’innovazione al fine di facilitare la nascita diffusa di PMI altamente innovative e lo sviluppo di mercati pilota per le nuove tecnologie, in particolare le tecnologie a bassa emissione di carbonio. Lo sviluppo di un regime comunitario per il capitale di rischio rappresenta un’esigenza essenziale. La Comunità deve la- vorare strettamente con gli Stati membri per eliminare gli ostacoli regolamentari e fiscali che si frappongono agli investimenti transfrontalieri dei fondi di capitale di rischio. Essa deve inoltre contribuire a ovviare alle lacune di capitale attraverso il finanziamento dell’avviamento di imprese tramite capitali di rischio. Il programma di garanzia delle PMI del Fondo europeo per gli investimenti dovrebbe essere so- 116 stanzialmente ampliato al fine di sfruttare il microcredito ed il finanziamento mez- zanino. Si stima che aumentando l’utilizzo medio di capitale di rischio nell’UE fino a raggiungere il livello dei paesi di punta renderebbe disponibili 20 miliardi di euro in più all’anno per investimenti in capitali di rischio. La Comunità deve inoltre cercare di migliorare l’utilizzo e la protezione degli attivi immateriali, in particolare dei diritti di proprietà intellettuale, i quali permet- tono anche di mobilitare gli investimenti. Il sistema dei brevetti dell’UE soffre ancora di una frammentazione eccessiva e costosa, che nuoce al trasferimento ed alla divulgazione della conoscenza e dell’innovazione all’interno dell’UE8. Aumentarne l’efficacia e l’applicazione permetterà di fare fruttare gli investimenti in R&S, incentivando le attività in questo settore, gli investimenti finanziari e la commercializzazione delle innovazioni. Un migliore sistema comunitario dei bre- vetti, che preveda la creazione di un brevetto comunitario ed il miglioramento del sistema di composizione delle controversie in materia di brevetti non solo sorti- rebbe una sensibile riduzione dei costi dei brevetti, ma garantirebbe anche una maggiore certezza giuridica. Azioni: - Promuovere un mercato comunitario dei capitali di rischio. - Migliorare la disponibilità delle PMI all’investimento e il loro accesso ai fi- nanziamenti. - Creare un brevetto comunitario e migliorare il sistema di composizione delle controversie, riducendo così sensibilmente i costi di registrazione dei bre- vetti e rafforzando la certezza giuridica. 4) Energia e cambiamento climatico Obiettivo 8: La Comunità completerà il mercato interno dell’energia ed adotterà il pac- chetto di misure relative al cambiamento climatico, al fine di attuare il quadro giu- ridico necessario per ridurre di almeno il 20% le emissioni di gas a effetto serra e raggiungere una quota di energie rinnovabili del 20% entro il 2020. Azioni: - Adottare entro il maggio 2009 il pacchetto di misure legislative necessarie per completare il mercato interno dell’elettricità e del gas, dando vita a un mercato interno dell’energia aperto alla concorrenza ed agli investimenti, rafforzando l’indipendenza e la cooperazione tra i regolatori dell’energia ed eliminando gli ostacoli tecnici all’integrazione dei mercati; - Adottare entro il maggio 2009 il pacchetto di misure legislative necessarie per raggiungere gli obiettivi dell’UE in materia di gas a effetto serra e di energie rinnovabili. 117 Obiettivo 9: La Comunità promuoverà una politica industriale mirata a un modello di produzione e di consumo più sostenibile, incentrato su energie rinnovabili e sui prodotti, sui servizi e sulle tecnologie a basso tasso di carbonio e più efficienti in termini di risorse. Azioni: - Creare un mercato interno delle tecnologie ambientali e promuovere lo svi- luppo di mercati pilota europei per le tecnologie più efficienti in termini di energia/risorse; - Riesaminare la direttiva sulla tassazione dei prodotti energetici per collegarla più strettamente agli obiettivi dell’UE in materia di energia e d’ambiente; - Studiare misure volte ad aumentare gli appalti pubblici di prodotti, tecno- logie e servizi ad alto rendimento rispettosi dell’ambiente, anche per quanto riguarda gli edifici. 5) Politica estera Obiettivo 10: Pur contribuendo alla conclusione dei negoziati commerciali multilaterali di Doha, la Comunità negozierà bilateralmente con i propri principali partner com- merciali per aprire nuove prospettive per il commercio e gli investimenti interna- zionali, migliorare l‘accesso ai mercati con particolare attenzione ai paesi e settori dove persistono forti barriere, e creare uno spazio comune in materia di disposi- zioni e di norme. INDICE Capitolo I - Lontano e vicino da Lisbona (M. Colansanto) ................................. 5 1. La formazione iniziale: verso un modello duale ............................................ 6 2. Cambiare cultura ............................................................................................. 9 3. La formazione continua e permanente: la centralità del learnefare ............. 13 4. Una nuova cornice istituzionale: i territori che apprendono .......................... 16 Capitolo II - L’esperienza dei percorsi sperimentali di istruzione e formazione professionale (A. D’Arcangelo) ....................................................... 19 1. Le modalità ricorrenti ...................................................................................... 20 2. Percorsi e giovani coinvolti ............................................................................. 23 3. Successo formativo .......................................................................................... 24 4. L’efficacia educativa ........................................................................................ 25 5. Il futuro della FP .............................................................................................. 26 Capitolo III - Modello di qualità della istruzione e formazione professionale di ispirazione cristiana nel quadro della riforma del sistema educativo (D. Nicoli)............................................................................ 27 1. Premesse al modello ........................................................................................ 27 2. Valore delle sperimentazioni............................................................................ 28 3. Modello di riferimento..................................................................................... 29 4. Una proposta a carattere “espansivo” ............................................................. 30 5. Decalogo del sistema educativo di istruzione e formazione .......................... 31 6. Tre macro-azioni per un sistema educativo organico ..................................... 34 6.1. Nuovo accreditamento .............................................................................. 34 6.2. Poli formativi ............................................................................................ 39 6.3. Risorse umane........................................................................................... 42 6.4. Manifesto della qualità FORMA.............................................................. 44 Capitolo IV - Ripensare la formazione nella prospettiva del Learnfare (M. Colasanto) ........................................................................................................... 51 1. Premessa: la formazione al servizio del “modello sociale europeo” ............. 51 2. L’attivazione del welfare tra individualizzazione, vulnerabilità sociale e nuovi bisogni ................................................................................................. 54 3. Il lavoro fulcro del patto di cittadinanza ......................................................... 58 4. Formazione e apprendimento permanente come fattori di “conversione” .... 62 5. Per eque opportunità di apprendimento .......................................................... 67 6. Per concludere: dal Workfare al Learnfare? ................................................... 69 119 Capitolo V - In Formazione Continua (M. Colombi - F. Varagona) .................... 73 1. Una lunga storia in Formazione Continua ...................................................... 73 2. Il sistema italiano di FC: una prima mappa di riferimento ............................ 75 2.1. Le iniziative regionali ................................................................................ 75 2.2. Gli interventi del Fondo Sociale Europeo ................................................ 75 2.3. I finanziamenti del Fondo ex art. 9, comma 5, legge n. 236/1993.......... 76 2.4. I fondi paritetici interprofessionali ........................................................... 77 3. Una storia ricca di ambivalenze ...................................................................... 78 4. Una storia in Formazione Continua: verso nuovi traguardi ........................... 80 Capitolo VI - Apprendistato: stato dell’arte della riforma (S. D’Agostino) ..... 85 1. Apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione................................................................................ 87 2. Apprendistato per il conseguimento di un diploma o di un titolo di alta formazione ........................................................................................................ 89 3. Apprendistato professionalizzante ................................................................... 91 Appendice .................................................................................................................. 95 Orientamenti e suggerimenti da Lisbona: sintesi dei principali documenti comunitari inerenti la strategia europea per l’occupazione (L. Allegretta) ..... 95 1. Comunicazione della Commissione, del 20 luglio 2005, “Azioni comuni per la crescita e l’occupazione: il programma comunitario di Lisbona” .................................................................................. 95 2. Comunicazione della Commissione al Consiglio Europeo di primavera. COM(2005) 24 definitivo. Lavorare insieme per la crescita e l’occupazione. Il rilancio della strategia di Lisbona.................................................................. 97 2.1. Garantire un’attuazione efficace .............................................................. 97 2.2. Un nuovo programma d’azione di Lisbona .............................................. 98 2.3. Una migliore (governance) gestione della strategia di Lisbona ............. 101 3. Relazione generale dell’Unione Europea 2007. Sezione Ricerca................... 101 3.1. Attuazione dello Spazio europeo della ricerca ......................................... 102 3.2. ITER ........................................................................................................... 104 3.3. Centro comune di ricerca (CCR) .............................................................. 104 4. Relazione generale dell’Unione Europea 2007. Sezione Ambiente economico e sociale. La strategia di Lisbona: il partenariato per la crescita e l’occupazione ......................................................................... 104 4.1. L’obiettivo della prosperità ....................................................................... 105 4.2. Ambiente economico e sociale .................................................................. 106 5. Comunicazione della Commissione al Consigli Europeo “L’interesse europeo: riuscire nell’epoca della globalizzazione” - COM(2007) 581............................................................................................. 106 5.1. Maggiore crescita e più posti di lavoro mediante un migliore coordinamento ........................................................................................... 106 5.2. Gli orientamenti politici ............................................................................ 107 120 6. Comunicazione della Commissione al Consigli Europeo, “Proposta di Programma Comunitario di Lisbona 2008-2010” - COM(2007) 804 ............ 109 6.1. Rafforzare e rinnovare il PCL................................................................... 109 6.2. I dieci obiettivi chiave del nuovo PCL nei quattro settori prioritari....... 110 INDICE ......................................................................................................................... 119 121 123 Pubblicazioni nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” ISSN 1972-3032 1. Nella sezione “studi” 1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. La formazione professionale per lo sviluppo del territorio. Castel Brando (Treviso), 9 - 11 settembre 2002, 2003 2) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XV seminario di formazione europea. Il sistema dell’istruzione e for- mazione professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi, 2004 3) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVI seminario di formazione europea. La formazione professionale fino alla formazione superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, 2005 4) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVIII seminario di formazione europea. Standard formativi nell’i- struzione e nella formazione professionale. Roma,7-9 settembre 2006, 2007 5) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Cata- nia, Noto, Modica, 2004 6) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orien- tativi, 2003 7) CNOS-FAP (a cura di), Gli editoriali di “Rassegna CNOS” 1996-2004. Il servizio di don Stefano Colombo in un periodo di riforme, 2004 8) COLASANTO M. - R. LODIGIANI (a cura di), Il ruolo della formazione in un sistema di welfare attivo, 2007 9) D’AGOSTINO S. - G. MASCIO - D. NICOLI, Monitoraggio delle politiche regionali in tema di istruzio- ne e formazione professionale, 2005 10) DONATI C. - L. BELLESI, Giovani e percorsi professionalizzanti: un gap da colmare? Rapporto fina- le, 2007 11) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, 2002 12) MALIZIA G. - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto sul follow - up, 2003 13) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Rapporto di ricerca, 2007 14) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Rapporto di ricerca, 2007 15) MALIZIA G. - V. PIERONI, Follow-up della transizione al lavoro degli allievi/e dei percorsi triennali sperimentali di IeFP, 2008 16) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale, 2004 17) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale. II edizione, 2006 18) MALIZIA G. et alii, Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Problemi e prospettive,2007 19) MALIZIA G. et alii, Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere, 2007 20) NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale nell’anno formativo 2004-2005, 2006 21) NICOLI D. - R. FRANCHINI, Costruzione dell’identità personale e sociale negli adolescenti e nei gio- vani. La proposta dell’Istruzione e formazione professionale, 2007 22) NICOLI D., La rete formativa nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP, 2007 23) PELLEREY M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona. Dare senso e pro- spettiva al proprio impegno nell’apprendere lungo tutto l’arco della vita, 2007 24) PIERONI V. - G. MALIZIA (a cura di), Percorsi/progetti formativi “destrutturati”. Linee guida per l’inclusione socio-lavorativa di giovani svantaggiati, 2005 124 25) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, 2004 26) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, Ristampa 2007 2. Nella sezione “progetti” 27) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 28) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodo- logico e proposte di strumenti, 2003 29) BALDI C. - M. LOCAPUTO, L’esperienza di formazioni formatori nel progetto integrazione 2003. La riflessività dell’operatore come via per la prevenzione e la cura educativa degli allievi della FPI, 2008 30) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006 31) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003 32) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale alimentazione, 2004 33) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004 34) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004 35) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale estetica, 2004 36) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004 37) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale tessile e moda, 2004 38) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003 39) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffu- sione di una buona pratica, 2004 40) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004 41) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 42) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e propo- ste di strumenti, 2003 43) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004 44) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale grafica e multimediale, 2004 45) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale legno e arredamento, 2005 46) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale meccanica, 2004 47) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004 48) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, 2003 49) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006 50) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Per- corsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005 51) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa. Pro- totipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d. 125 52) D’AGOSTINO S., Apprendistato nei percorsi di diritto-dovere, 2007 53) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003 54) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003 55) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo. Una proposta di percorsi per la creazione di impresa. II edizione, 2007 56) MARSILII E., Dalla ricerca al rapporto di lavoro. Opportunità, regole e strategie, 2007 57) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003 58) NICOLI D. - G. TACCONI, Valutazione e certificazione degli apprendimenti. Ricognizione dello stato dell’arte e ricerca nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP. I volume, 2007 59) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il per- corso quadriennale, 2005 60) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istru- zione e della formazione professionale, 2004 61) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 62) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005 63) RUTA G. (a cura di), Vivere in… 1. L’identità. Percorso di cultura etica e religiosa, 2007 64) RUTA G. (a cura di), Vivere… Linee guida per i formatori di cultura etica e religiosa nei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale, 2007 65) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003 66) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui per- corsi formativi, 2003 67) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005 3. Nella sezione “esperienze” 68) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro polifunzionale diurno di Roma, 2006 69) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti, 2003 70) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003 71) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in itinere, 2003 72) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento fina- le, 2003 73) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage, 2003 74) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i percorsi di istruzione e formazione professionale, 2006 75) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006. Rapporto finale, 2006 76) NICOLI D. - COMOGLIO M., Una formazione efficace. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimen- tali di Istruzione e Formazione professionale in Piemonte 2002-2006, 2007 77) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordinatore delle attività educative del CFP, 2005 126 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net Ottobre 2008

Follow up della transizione degli allievi/e dei percorsi triennali sperimentali di IeFP

Autore: 
Guglielmo Malizia - Vittorio Pieroni
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2008
Numero pagine: 
149
Guglielmo MALIZIA - Vittorio PIERONI Follow-up della transizione al lavoro degli allievi/e dei percorsi triennali sperimentali di IeFP CIOFS/FP Anno 2008 La ricerca è stata affidata dal CNOS-FAP e dal CIOFS/FP al CENSIS. L’indagine è stata realizzata da un gruppo di lavoro coordinato da Claudia Donati e composto da: Luigi Bellesi, Sergio Vistarini e Vittoria Coletta. L’équipe ha operato sotto la responsabilità di Claudia Donati (CENSIS) d’intesa con i Presidenti del CNOS-FAP e del CIOFS/FP. 3 INTRODUZIONE La presente ricerca-azione si colloca nel contesto della sperimentazione di nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale in coerenza con la legge 53/03 e con l’Accordo Stato-Regioni su istruzione e formazione del 2003. Tra gli aspetti più significativi sottesi al modello CNOS-FAP e CIOFS/FP, un passaggio cruciale, ai fini della verifica del successo dell’intervento, consisteva indubbia- mente nel monitoraggio della transizione degli utenti dai percorsi del diritto-dovere al sistema produttivo. Tale “inserimento”, mentre per un verso gioca da elemento di controllo del processo formativo connesso alla formazione iniziale e all’orienta- mento, intesi come fattori mirati a valorizzare la vocazione peculiare di ogni sin- golo allievo, dall’altro permette di realizzare una interazione feconda tra forma- zione professionale e mondo del lavoro in tema di formazione iniziale. In questo quadro le Sedi Nazionali dei due Enti di FP, CNOS-FAP e CIOFS- FP, hanno realizzato la presente indagine, mirando al conseguimento dei seguenti obiettivi: a) monitorare, alla distanza di circa un anno dalla conclusione, la condizione degli allievi usciti nell’anno 2005-06 dai percorsi triennali sperimentali del diritto- dovere, per verificare se hanno proseguito gli studi all’interno del sistema edu- cativo di istruzione o di formazione professionale, oppure se hanno reperito un lavoro, o se si trovano ancora in una situazione in cui né studiano né lavorano; b) individuare eventuali ulteriori bisogni formativi ai fini di un completamento, di un perfezionamento o di una diversificazione delle loro competenze profes- sionali; c) verificare l’efficacia del percorso formativo in rapporto alle differenti scelte effettuate nel periodo successivo al conseguimento della qualifica e in paragone anche con i risultati di una indagine simile condotta nel 2003 (Malizia-Pieroni, 2003); d) avanzare proposte per migliorare e potenziare i percorsi triennali del diritto- dovere. Di fatto, la presente ricerca ripropone sostanzialmente gli scopi di una prece- dente investigazione che si era tenuta nel 2003 (Malizia-Pieroni, 2003). In ogni caso, dal punto di vista temporale essa è stata realizzata nell’anno formativo 2006-07. Il presente rapporto si articola in quattro capitoli. Il primo pone le premesse teoriche della ricerca, analizza i dati sulla transizione dei giovani dal sistema educativo al mondo del lavoro in Italia e descrive sia i cambiamenti che la riforma Moratti ha introdotto con particolare riferimento al tema centrale del rapporto sia le innovazioni che sono state volute dal Ministro Fioroni. Il secondo presenta il 4 progetto dell’investigazione nel quadro delle ricerche effettuate dal CNOS-FAP e dal CIOFS/FP riguardo alla sperimentazione del diritto-dovere e illustra lo svolgi- mento della indagine. Il terzo analizza i risultati dell’indagine sugli ex-allievi/e che al termine dei percorsi triennali hanno ottenuto una qualifica o almeno un attestato di frequenza. Il quarto capitolo tenta di offrire un visione complessiva dei risultati della investigazione in una prospettiva di futuro; segue una bibliografia sintetica delle opere principali utilizzate nella ricerca e un’appendice costituita dagli stru- menti di indagine. In sintesi i principali risultati dell’indagine possono essere riassunti nei seguenti tre punti. 1) La condizione degli ex-allievi/e al momento del rilevamento Dai 2.514 ex-allievi/e che nell’anno formativo 2005-06 hanno portato a ter- mine il percorso triennale del diritto-dovere conseguendo quasi tutti una qualifica o ottenendo, quei pochi che non sono riusciti a ottenerla, un attestato di frequenza, sono stati scelti con metodo casuale 638 soggetti. Questi, che hanno composto il campione a cui è stata somministrata l’intervista, si presentavano così distribuiti tra i diversi possibili sbocchi: – la metà (329 = 51.6%) all’uscita dal percorso aveva scelto di lavorare e alla di- stanza di un anno aveva reperito un lavoro; – mentre l’altra metà si divideva in quote abbastanza vicine tra chi aveva optato di continuare a studiare (172 = 27%) e chi al momento non stava né studiando né lavorando (153 = 24%). Di conseguenza si può affermare che l’offerta formativa dei due Enti, CNOS- FAP e CIOFS/FP, relativa al diritto-dovere ha raggiunto nei confronti di almeno tre su quattro degli ex-allievi/e gli obiettivi che si prefiggevano i percorsi in questione, ossia di portare gli iscritti o ad inserirsi direttamente e da protagonisti nel mercato del lavoro o a poter continuare con successo i propri studi verso altri traguardi for- mativi. A conseguire l’una o l’altra meta non è invece riuscito circa uno su quattro, ma anche in questo caso occorre effettuare una distinzione: tra questi ultimi solo un gruppetto molto ridotto ha mancato totalmente l’obiettivo prefisso, mentre c’è stato chi in realtà il lavoro l’aveva trovato ma poi l’ha perso per varie ragioni (personali e strutturali), ragioni che si tiene a precisare non hanno niente a che vedere con una eventuale ipotesi di debolezza sul mercato del lavoro e delle professioni della for- mazione fornita dai percorsi del diritto-dovere. 2) Valutazione positiva dei percorsi del diritto-dovere Ai lavoratori è stato chiesto di valutare il percorso mettendolo in rapporto al contributo che esso ha dato loro per esercitare l’attuale occupazione. In questo modo è stato possibile verificare, grazie agli alti indici di gradimento espressi, 5 che le competenze acquisite sono risultate indispensabili per svolgere quei compiti che attualmente sono stati loro affidati; inoltre il percorso ha contribuito a ridurre il tempo per trovare lavoro ed infine ha permesso anche di ottenere un buon contratto. A completamento di tali valutazioni favorevoli è venuta da parte di tutti, senza alcuna distinzione tra le variabili di status, la segnalazione secondo cui la qualifica conseguita è stata trovata pienamente corrispondente a quella delle mansioni attualmente svolte. Anche gli studenti fanno registrare una lunga serie di valutazioni elevate nei confronti del percorso del diritto-dovere. Anzitutto per quanto riguarda la sua corrispondenza alle loro attese: in questo caso l’intera gamma dei loro giudizi sugli aspetti presi in considerazione supera quella stessa data dai lavoratori, sebbene entrambi si siano espressi su alti valori. Una ulteriore conferma in questa direzione è venuta poi dal confronto tra la formazione ricevuta nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP e l’attuale corso di studi; in tal modo è stato possibile costatare che gli intervistati non avvertono il bisogno di maggiori competenze in quanto le hanno già acquisite nei percorsi del diritto-dovere. Infine, a rafforzare ulteriormente il giudizio sul “buono stato di salute” della preparazione acquisita contribuiscono anche gli apprezzamenti veramente elevati che gli intervistati di questo sottocampione hanno dato nei confronti della educazione della personalità. L’analisi delle risposte degli ex-allievi inoccupati/disoccupati circa la corri- spondenza del corso alle proprie attese mette in evidenza che i giudizi, se non sono proprio così elevati come quelli degli studenti, tuttavia risultano assimilabili a quelli dei lavoratori. Anche chi è stato meno fortunato dichiara che l’offerta forma- tiva ha abbondantemente soddisfatto le proprie attese, esprimendo in proposito valutazioni medie che si attestano tra il “molto” e l’“abbastanza” e che eliminano il dubbio che i percorsi abbiano potuto formare soggetti destinati a rimanere inoc- cupati/disoccupati. A questo punto è possibile precisare i punti forti dei percorsi del diritto-dovere: – tutti gli intervistati riconoscono la piena corrispondenza della formazione ricevuta alle proprie attese in rapporto all’intera gamma degli aspetti consi- derati; – nel valutare complessivamente il percorso viene attribuito il primo posto alla formazione globale della personalità, anche se non è da meno la valutazione nei confronti della preparazione professionale; – la tenuta di tale preparazione, presa in tutti i suoi aspetti differenti ma comple- mentari, è stata poi confrontata e quindi convalidata in rapporto sia ai diversi ambienti produttivi che una parte degli ex-allievi/e ha potuto frequentare, che a quelli formativi di livello superiore. Dopo aver richiamato gli alti esiti e le elevate valutazioni che l’indagine ha espresso sui percorsi del diritto-dovere, si può aggiungere che al contrario le criti- cità sono veramente poche e di scarsa entità. In pratica esse riguardano principal- mente il gruppo dei disoccupati/inoccupati. 6 3) Conferme e provocazioni In sintesi, la presente ricerca-azione ha confermato la validità della proposta sperimentale dei percorsi del diritto-dovere del CNOS-FAP e del CIOFS-FP anche nel momento della transizione degli allievi al mercato del lavoro o ad un altro tipo di istruzione o di formazione. I dati della indagine hanno dimostrato il superamento sostanziale delle carenze che erano state indicate dalla precedente indagine del 2003: infatti, gli esiti della investigazione mettono in risalto il potenziamento delle strategie della pedagogia del successo formativo, della programmazione dei corsi che risulta più rispondente alla domanda del territorio e dell’offerta di orienta- mento/accompagnamento. Rimane quindi veramente inspiegabile la situazione di precarietà in cui la po- litica nazionale e, soprattutto, regionale tende a mantenere i percorsi sperimentali del diritto-dovere. Parte I IL QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO 9 Capitolo 1 La transizione dalla formazione al lavoro. Lo scenario Guglielmo MALIZIA Il capitolo è articolato in quattro sezioni principali. La prima tenta di delineare in sintesi lo scenario di fondo, sociale, culturale ed economico, in cui si colloca l’evoluzione attuale dei sistemi educativi, mentre la seconda richiama le teorie più significative che cercano di spiegare i rapporti tra istruzione, formazione ed eco- nomia e la terza analizza i dati sulla transizione dei giovani dal sistema educativo al mondo del lavoro in Italia. Siccome uno dei poli di questa transizione, l’istruzione e la formazione, è nel nostro paese in fase di profonda trasformazione per effetto della legge Moratti, n. 53/03 e delle successive innovazioni introdotte dal Ministro Fioroni, la quarta sezione descrive e analizza tali cambiamenti, mettendo in evi- denza i punti forti e quelli deboli. 1. SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA E SISTEMI EDUCATIVI: QUALI ORIENTAMENTI Le tecnologie dell’informazione, informatiche e telematiche, hanno provocato nell’ultimo decennio uno scenario di radicale transizione sociale verso nuove forme di vita e di organizzazione che ha fatto parlare di “società della conoscenza” (Cresson-Flynn, 1995; Malizia-Nanni, 2002b; Malizia-Nanni, 2004). I micro-pro- cessori stanno inducendo sotto i nostri occhi una «rivoluzione globale» dagli esiti non ancora chiari e scontati, che si estendono non solo alla produzione e alla comu- nicazione sociale, ma anche ai modi di vita e dell’esistenza individuale, familiare, sociale, mondiale. Si sono accresciute enormemente le opportunità di accedere al- l’informazione e al sapere, ma d’altra parte si richiedono adattamenti e competenze nuove che, se mancano, possono provocare emarginazione ed esclusione sociale. Sul lato strutturale, si può dire che si è compiuto il passaggio da un modello industriale di economia ad uno post-industriale (Minardi, 1999; Malizia-Nanni, 2002b). Il primo pone l’accento su una concezione quantitativa della crescita (“trarre più dal più”), sul volume della produzione, su una impostazione lineare, atomistica, gerarchica, dualistica e manipolativa del lavoro e della sua organizza- zione; il secondo sottolinea la qualità e l’intensità dello sviluppo (“ottenere più dal meno”), il valore della produzione, la natura simbolica, interattiva, contestuale, 10 partecipativa, autonoma e intellettuale dell’attività occupazionale e della sua strut- turazione. Il mondo delle aziende è dominato da imprese piccole, flessibili, dinami- cizzate dalla risorsa “conoscenza”, capaci di produrre una vasta gamma di beni e servizi che sono molto spesso immateriali. Sul lato negativo, le grandi imprese riducono le loro attività: le funzioni produttive di base sono conservate, mentre i servizi di supporto vengono affidati a ditte o a persone esterne; per questa via, la grande industria è riuscita a ridurre la forza lavoro in maniera anche molto drastica. Il passaggio al post-industriale si accompagna anche ad un aumento dei fenomeni di precarizzazione e di de-regola- zione del lavoro che mettono in crisi il sistema tradizionale di relazioni sociali. Nel contempo la globalizzazione e la informatizzazione contribuiscono ad aumentare la disoccupazione o sotto-occupazione che, a differenza della prima e della seconda rivoluzione industriale, non riesce più ad essere interamente assorbita dai settori emergenti (il quaternario). Di conseguenza i nostri sistemi sociali non riescono ad assicurare a tutti un accesso equo alla prosperità, a modalità decisionali democra- tiche e allo sviluppo socio-culturale personale. La sostituzione del lavoro con capitale – da cui i vari casi di disoccupazione tecnologica – è un fenomeno antico che si manifesta a partire almeno dalla rivolu- zione industriale. Ma oggi esso assume connotazioni diverse per due ragioni. Primo, tale processo investe anche le attività immateriali (cioè terziarie) dove lavo- rano i “colletti bianchi”, quelli cioè occupati negli uffici. Secondo, il capitale che sostituisce il lavoro non è rappresentato da macchine qualsiasi ma dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Il passaggio alla società della conoscenza trasforma il senso e il modo di lavo- rare, nascono nuove professioni, vecchi mestieri cambiano configurazione, altri scompaiono definitivamente. Si diversificano i mestieri, e prima ancora le tipologie e le forme giuridiche dei rapporti occupazionali. C’è un’indubbia “intellettualizza- zione” del lavoro. È richiesta la flessibilità e la mobilità occupazionale e la poliva- lenza della cultura professionale. Passando sul lato del sistema formativo, tra i punti di debolezza di quest’ul- timo va, in particolare, segnalata la discrepanza, in termini non solo di conoscenze e di competenze, ma spesso anche di attitudine e di approccio, che continua a permanere (ed anzi tende ad aggravarsi) tra le richieste del mercato del lavoro e l’insieme delle capacità offerte in uscita dal sistema formativo. Il problema è che in Italia questo divario e questa mancanza di convergenza sono frutto della sepa- razione culturale e di esperienza fra i due mondi e generano, di conseguenza, non solo crescenti difficoltà di inserimento dei giovani nel mondo produttivo ma anche una sempre minore possibilità, da parte del sapere tecnico e scientifico, di entrare nei processi produttivi e di incidere su di essi. Per rispondere al meglio alle nuove esigenze si dovrà pensare a una nuova figura di lavoratore che non solo possieda i necessari requisiti tecnici, ma anche nuovi saperi di base (informatica-informazione, inglese, economia, organizza- 11 zione), capacità personali (comunicazione e relazione, lavoro cooperativo, appren- dimento continuo) e anche vere e proprie virtù del lavoro (affrontare l’incertezza, risolvere problemi, sviluppare soluzioni creative). In un contesto di piena globalizzazione, prevalgono un nuovo individualismo e un conseguente utilitarismo. Le coordinate del senso da dare alla vita personale e collettiva vengono identificate prevalentemente in fattori materiali, tecnici, proce- durali. Si diffonde il convincimento che i problemi propri della convivenza vanno affrontati e risolti facendo leva sulle istanze assolutizzate del mercato e sul potere della maggioranza. Una grande porzione di giovani e di adulti cresce con una per- sonalità dissociata e con una coscienza frammentata nella percezione di sé e del mondo esperienziale in cui vive e si rapporta. La secolarizzazione religiosa (cioè una vita sociale senza religione), più che come “logica conseguenza” del trionfo della scienza e dello sviluppo tecnologico, si è attuata a livello pratico (in quanto le menti e i cuori della gente si sono rivolti più che altro al consumismo, al benessere e al divertimento), ma è stata contro- bilanciata da un ritorno di fiamma del sacro, della magia, dei riti, di nuove forme di religiosità e da quella diffusa tendenza ad una religiosità soggettivistica e cosmica, che ha avuto la sua classica espressione nei movimenti della New Age, della Next Age, nel ricorso a “guru”, a forme di pratiche tra il religioso e la cura di sé. Si è parlato di neopaganesimo e di politeismo post-cristiano, ma anche di mercato del sacro, di fiera dei misteri, di percorsi di religiosità e di mistica. Questi movimenti dei processi storici dell’Occidente vengono a combinarsi e a scontrarsi con gli spostamenti delle popolazioni per i motivi più svariati, da quelli di tipo economico a quelli di natura politica, culturale, turistica, dando luogo al fenomeno della multicultura. Essa viene a caratterizzare sempre più la vita interna delle nazioni e il quadro internazionale (seppure non senza forme di difesa naziona- listica o localistica o confessionale). A livello di cultura ciò viene ad esaltare il fenomeno del pluralismo a tutti i livelli. E inoltre può mettere in crisi i tradizionali modelli di uomo, di cultura e di sviluppo. 2. ISTRUZIONE ED ECONOMIA È convinzione diffusa che l’istruzione e la formazione rappresentano risorse fondamentali per lo sviluppo personale e sociale, a livello nazionale e a quello internazionale. Quando però si cerca di approfondire il tema sul piano scientifico, ci si accorge che la relazione non è così evidente e che non mancano perplessità e dubbi, anche fondati, sulla entità e sulla natura positiva di tale rapporto. 2.1. L’affermarsi della teoria del capitale umano negli anni ’60 Il punto di partenza è costituito dalla teoria del capitale umano che è nata tra la fine degli anni ’50 e l’inizio del ’60 nel quadro sia della interpretazione funzio- 12 nalistica, secondo la quale lo sviluppo dell’istruzione e della formazione dipendeva dalla modernizzazione economica e dalla diversificazione istituzionale e sociale che ne deriva, sia della tesi della scuola economica neoclassica che affermava la centralità antropologica del problema del lavoro per cui l’uomo sarebbe il suo lavoro. Inoltre, essa ha costituito una risposta agli interrogativi emersi da più parti circa l’efficienza delle massicce spese effettuate in quel periodo per finanziare l’espansione enorme del sistema scolastico (Lodigiani, 1999; Bertagna, 2002 e 2006; Fischer, 1998; Halsey et alii, 1998). La tesi fondamentale che viene sostenuta è che l’istruzione non rappresenta soltanto un bene di consumo, ma va considerata anche come un investimento produttivo sia per il singolo in quanto estende le sue opportunità professionali, sia per la società poiché prepara la forza lavoro necessaria per lo sviluppo economico. L’istruzione e la formazione professionale sono considerate una modalità differente di accumulazione del capitale, il “capitale umano” cioè, il più importante per la crescita economica e sociale, e pertanto costituiscono risorse strumentali di natura fondamentale al servizio del sistema economico e della sua espansione. Pertanto, l’analisi della domanda di lavoro espressa dal mercato di lavoro costituisce la base della pianificazione di una offerta formativa che corrisponda alle istanze manife- state dalla imprese. Per questa sua impostazione la teoria del capitale umano è stata definita un modello “domandista” dei rapporti tra istruzione e formazione professio- nale da una parte e sviluppo socio-economico dall’altra (Bertagna, 2002 e 2006). Va aggiunto che tale interpretazione è stata largamente utilizzata nei paesi sviluppati per giustificare la democratizzazione dei sistemi educativi. Infatti, l’al- largamento dell’accesso all’istruzione e alla formazione, elevando il livello delle competenze dei lavoratori, doveva contribuire allo sviluppo del sistema produttivo e la riduzione della selezione poteva far argine a due sprechi: dei talenti, in quanto molti giovani di origine sociale modesta, brillanti, ma privi del retroterra culturale tipico di una famiglia dei ceti medi, rimanevano bloccati da esami prematuri e severi ed erano impediti di dare alla crescita del paese il loro apporto qualificato; delle risorse, poiché le ripetenze facevano spendere il doppio per percorrere un anno di scuola e con gli abbandoni l’investimento era totalmente perso. Durante tutti gli anni ’60 l’applicazione è stata ampia anche nei paesi in via di sviluppo. Particolare successo ha registrato la spiegazione del sottosviluppo: la rapida ripresa dei paesi sviluppati dopo la seconda guerra mondiale, nonostante le gravi perdite di capitali fisici, sarebbe dovuta alla presenza di una forte riserva di capitale umano; di conseguenza, il sottosviluppo sarebbe da attribuirsi al fatto che le popolazioni del terzo mondo, pur disponendo di abbondanti materie prime, mancherebbero delle competenze necessarie per utilizzare tecniche di produzione più avanzate. Alla fine degli anni ’60 la crisi economica ha messo in discussione la relazione positiva che la teoria del capitale umano ipotizzava tra istruzione ed economia: il sistema educativo era cresciuto in maniera imponente, ma nel mondo produttivo si registravano segni sempre più preoccupanti di disoccupazione intellettuale, di 13 stagnazione e di dequalificazione. Infatti, l’intensificazione nelle imprese dell’or- ganizzazione scientifica del lavoro aveva consentito un uso più razionale alla forza lavoro già assunta, riducendo in maniera consistente il bisogno di assumere altra manodopera qualificata. Se era aumentato il terziario avanzato che richiedeva com- petenze molto elevate, era contemporaneamente cresciuto un terziario dequalificato che rendeva controproducente una istruzione e una formazione professionale di livello alto. Inoltre, l’affermarsi dell’organizzazione fordista e della grande fabbrica centralizzata e gerarchica aveva comportato la separazione tra concezione ed ese- cuzione e una parcellazione e dequalificazione del lavoro che consisteva sempre più nella ripetizione di azioni elementari. Nella società industriale, e a maggior ragione in quella post-industriale, la domanda di istruzione e di formazione risultava tutt’altro che chiara e distinta; al contrario essa si presentava complessa in quanto legata alla condizione di classe, alla situazione familiare, alle reti di relazioni sociali, alle tradizioni locali, ai tratti di personalità, al background educativo di ogni soggetto. Un discorso analogo va ripetuto per la domanda socio-economica di lavoro. I due fattori mettevano in discussione la validità di ogni politica formativa di piano che andasse oltre il breve termine e l’indicazione di linee generali di sviluppo (Bertagna, 2002 e 2006). Nello stesso senso la rapidità dell’evoluzione socio-economica comportava il rischio che le terminalità scolastiche (titoli di studio) o professionali (qualifiche) risultassero già superate nel momento stesso in cui veniva introdotto il curricolo che preparava al loro conseguimento. Pertanto, le competenze finali dei percorsi di istruzione e di formazione risultavano sempre meno connesse agli aspetti tecnico-specialistici, mentre tendevano a relazionarsi maggiormente con le dimensioni educative e cultu- rali generali dei giovani. A tutto ciò si aggiungeva la contestazione del ’68 che rifiutava ogni asservi- mento della scuola alle esigenze del capitalismo, sia nel senso della subordinazione alla struttura professionale sia nel senso della riproduzione della struttura sociale esistente. Da questo punto di vista una critica convincente si appunta sul fatto che la teoria del capitale umano trascura le ragioni strutturali della povertà siano esse la situazione di classe o lo scambio diseguale, cioè l’attuale ingiusto ordine eco- nomico nazionale e internazionale. Nonostante ciò, non si può certamente negare che esista un vantaggio indi- viduale e sociale a investire nell’istruzione e che il capitale umano costituisca la risorsa più importante per la crescita economica. Al tempo stesso non è possibile affermare che siano sufficienti le dinamiche del mondo produttivo per assicurare lo sviluppo qualitativo e quantitativo del sistema educativo dell’istruzione e della formazione. 2.2. Le posizioni critiche degli anni ’70 In seguito sono state elaborate altre teorie, ma nessuna ha ottenuto un consenso generale (Lodigiani, 1999; Bertagna, 2002 e 2006; Fischer, 1998; Halsey et alii, 14 1998). Per esempio le interpretazioni conflittualiste sostengono che la scelta dei percorsi di istruzione e di formazione non è condizionata principalmente dalle esi- genze della società industriale, ma dagli interessi delle élite, e il sistema educativo si limita puramente a conformarsi ai bisogni dell’economia capitalista, esercitando un ruolo di controllo delle masse e fornendo abiti comportamentali invece che abi- lità cognitive. In particolare, secondo Bowles e Gintis la scuola sarebbe apprezzata dal mondo produttivo capitalista non tanto per le conoscenze e le competenze che fornisce, quanto perché forma i tratti della personalità che consentono un inseri- mento docile nelle gerarchie industriali e nelle burocrazie. Infatti, le qualità del carattere che assicurano il successo nell’istruzione sarebbero le stesse che identifi- cano il buon lavoratore; ovviamente tale corrispondenza si differenzia a secondo della posizione nel sistema scolastico e in quello produttivo per cui ai livelli bassi del primo, equivalenti alla condizione operaia nel secondo, la formazione è volta alla sottomissione, nei livelli intermedi si sviluppa la serietà del carattere in vista dello svolgimento dei ruoli di quadro intermedio e in quelli superiori per la prepa- razione della classe dirigente si stimolano la creatività e l’autonomia. Tali ipotesi, però, hanno trovato nella ricerca empirica solo modesti riscontri (Bowles-Gintis 1978; Fischer, 1998). Alla teoria dei tratti della personalità, va avvicinata quella dell’istruzione come cultura di ceto di Collins secondo la quale il ruolo dell’istruzione e la forma- zione non consisterebbe nell’insegnare conoscenze e abilità tecniche, ma piuttosto nel trasmettere il linguaggio, le buone maniere, gli stili di vita e i valori di un determinato gruppo (1980; Fischer, 1998). Inoltre, viene negata o ridimensionata la valenza del sistema educativo in funzione della preparazione professionale che invece si realizzerebbe esclusivamente o principalmente nel luogo stesso del lavoro. Il mondo produttivo non avrebbe bisogno di molte occupazioni altamente qualificate, come si afferma comunemente, e un qualche riscontro in questo senso verrebbe dagli Stati Uniti dove durante la prima metà del secolo XX soltanto il 15% dell’innalzamento del livello di istruzione della forza lavoro si potrebbe far risalire a cambiamenti nella struttura professionale. La preparazione richiesta per i differenti lavori non dipenderebbe dalle esigenze del sistema produttivo, ma dai rapporti di forza tra i ceti in un determinato momento storico. Pertanto, il titolo di istruzione posseduto non vale come attestazione delle abilità tecniche acquisite quanto dei valori interiorizzati. Infatti, la dirigenza di una organizzazione sceglie- rebbe i dirigenti dal proprio ceto e i dipendenti dai ceti subordinati che, però, hanno interiorizzato una cultura di rispetto nei confronti del ceto dominante. Anche in questo caso si tratta di affermazioni che mancano di un sostegno univoco e convincente sul piano empirico; inoltre, lo stesso Collins ammette che la scola- rizzazione elementare di massa sarebbe un prerequisito necessario per il decollo industriale di un paese; in aggiunta, l’esperienza di lavoro non pare sufficiente per far apprendere saperi e competenze a quel livello di sofisticazione che questi hanno ormai toccato. 15 Altri studiosi hanno elaborato la teoria credenzialista (o dell’inflazione dei ti- toli di studio) secondo la quale tra istruzione/formazione ed economia non sussiste- rebbe alcun rapporto e i titoli di studio costituirebbero unicamente delle credenziali per presentarsi sul mercato del lavoro (Passeron, 1982; Fischer, 1998). L’aumento del livello dei titoli richiesti per l’assunzione ai vari posti di lavoro non potrebbe essere attribuito al ritmo incalzante del progresso scientifico e tecnologico, ma dipenderebbe da un eccesso di manodopera istruita per cui lo stesso titolo di studio non assicurerebbe più l’accesso alla medesima occupazione del passato ma a una di livello più basso, avendo perso di valore, essendosi cioè inflazionato; in altre parole, l’elevazione delle qualificazioni per l’inserimento occupazionale servirebbe come un meccanismo di filtro per regolare in maniera ordinata l’accesso al mondo del lavoro di una manodopera troppo istruita/formata. In contrario sembra accertato che l’istruzione di base di massa precede lo sviluppo industriale; inoltre, se la teoria credenzialista fosse esatta, non si capirebbe come mai gli imprenditori continuino a corrispondere stipendi più alti ai lavoratori più istruiti/formati e non si sia cercato di predisporre meccanismi di filtro meno costosi del sistema educativo. La tesi del parcheggio si situa all’estremo opposto rispetto alla teoria del capi- tale umano e parla di un rapporto negativo (Barbagli et alii, 1973). Nei periodi di disoccupazione si registrerebbe una crescita degli iscritti al sistema formativo: per evitare gli effetti negativi della mancanza di lavoro si entrerebbe nella scuola come in un parcheggio in attesa di uscirne al momento propizio. Al contrario nelle fasi di piena occupazione gli effettivi del sistema educativo rimarrebbero stabili o dimi- nuirebbero. Di fatto però il rapporto negativo non è sempre vero: negli Stati Uniti l’espansione dell’istruzione superiore dopo la seconda guerra mondiale è avvenuta in un periodo di piena occupazione. A loro volta, gli economisti istituzionalisti hanno sostenuto che il mercato del lavoro è segmentato (Doeringer-Piore, 1971; Fischer, 1998). Esso si articolerebbe in uno primario e in uno secondario: il primo sarebbe contraddistinto da alti sti- pendi, stabilità del lavoro, buone condizioni occupazionali e opportunità di promo- zione; invece, il mercato di lavoro secondario presenterebbe tratti opposti quali remunerazioni modeste, precarietà, difficile situazione di lavoro e poche possibilità di carriera. Il mercato di lavoro primario sarebbe formato dai mercati interni delle grandi aziende e delle burocrazie pubbliche che tendono a privilegiare la promo- zione di propri dipendenti rispetto al ricorso al mercato di lavoro esterno quando si tratta di ricoprire posizioni che si sono rese libere. Pertanto, i lavoratori dei mercati interni non sono esposti alla competizione dal di fuori e i soggetti più istruiti/formati continuano ad essere pagati meglio, a prescindere dalla loro produttività. Nel complesso, in base alle teorie critiche delle posizioni del capitale umano il sistema educativo finisce con il perdere qualsiasi finalità esplicita di formazione professionale. Certamente esso assume con maggiore chiarezza il ruolo di servizio sociale nel senso che è chiamato a garantire a tutti i cittadini un bene, impegnan- dosi a combattere ogni disparità e ad assicurare l’eguaglianza delle opportunità 16 indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione e dalle condi- zioni personali e sociali. Al tempo stesso viene però teorizzata la deprofessionaliz- zazione dell’istruzione e della formazione, mentre si preferisce affidare alle im- prese o ad agenzie extrascolastiche la funzione di qualificazione iniziale e continua della forza lavoro. Indubbiamente anche negli anni ’70 si ritiene che il sistema edu- cativo possa offrire un contributo significativo alla lotta alla disoccupazione, ma non perché faciliti un uso efficace della forza lavoro, ma in quanto riduce la pres- sione dell’offerta potenziale di lavoro sul mercato, svolgendo, come si è ricordato sopra, una funzione di parcheggio. Inoltre, l’espansione dell’istruzione e della formazione separata dalle necessità dell’economia porta a due gravi conseguenze: la dequalificazione della scuola secondaria superiore e l’aumento della disoccupa- zione intellettuale. Al termine di questa disamina delle due prime fasi della riflessione sui rapporti tra sistema educativo e produttivo, mi pare possibile avanzare la seguente conclu- sione sintetica in riferimento alle teorie finora analizzate. La tesi del capitale umano sottolinea l’importanza dell’istruzione e della formazione, ma trascura le carenze storiche del processo di accumulazione capitalista. A loro volta le teorie radicali sono molto consapevoli di tali limiti, ma non danno adeguato conto della funzione economica del sistema educativo. 2.3. A partire dagli anni ’80: la nuova centralità dell’istruzione e della forma- zione Negli anni ’80 e soprattutto ’90 ritorna la fiducia nell’istruzione e nella forma- zione su base, però, nuova nel senso che trova giustificazione in un contesto diffe- rente e in altri paradigmi interpretativi (Lodigiani, 1999; Bertagna, 2002 e 2006; Fischer, 1998; Halsey et alii, 1998). Diversamente da quanto si affermava nella decade ’70, la elevazione del livello educativo della popolazione viene ritenuta uno strumento per combattere la disoccupazione. Si registrano anche il ripristino del profilo professionalizzante dell’istruzione e della formazione e la crescente valoriz- zazione della seconda perché si pensa possano contribuire in maniera significativa all’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Su questo mutamento di prospettiva hanno influito anzitutto i cambiamenti che si sono verificati a livello economico, produttivo e occupazionale. In proposito si può ricordare il mutamento che è intervenuto nella composizione della forza lavoro: il comparto industriale si è ridimensionato, mentre si è assistito a una espansione consistente di quello terziario. Tale andamento si spiega principalmente come conseguenza dell’introduzione e della diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione: ciò ha comportato tra l’altro una nuova centralità del sapere e un ampliamento dei contenuti professionali del lavoro che si sono riflettuti sui livelli di qualificazione per l’entrata nel mondo del lavoro, determinando un loro innalzamento. Al tempo stesso si affermano nuovi modelli organizzativi detti “post- fordisti” che si contraddistinguono per le caratteristiche della flessibilità e della 17 qualità e questi paradigmi produttivi tendono a mettere al centro le risorse umane. Se tutti sono d’accordo che tali trasformazioni a livello economico, produttivo e occupazionale esigono un lavoro più qualificato, l’unanimità viene meno quando si tratta di precisare se tale processo investa tutte le categorie di lavoratori: non manca infatti chi sostiene la tesi della polarizzazione secondo la quale la nuova domanda di lavoro discriminerebbe in maniera netta tra quanti possono contare sulle necessarie competenze e quanti invece non le possiedono, determinando un aumento delle disuguaglianze e della forbice delle professionalità tra una ristretta élite di “ingegneri della conoscenza” e una massa di persone destinate a lavori dequalificati. Nonostante questa differenza di pareri, l’accordo ritorna nel sottoli- neare che l’istruzione e la formazione sono necessarie per acquisire le conoscenze, le abilità e le competenze richieste per lavorare nei processi trasformati dalle nuove tecnologie, pena l’esclusione dal mercato del lavoro o la collocazione nei livelli più bassi. Tra i fattori del mutamento nell’approccio all’istruzione e alla formazione che si pongono sul lato del contesto piuttosto che della riflessione, vanno ricordate le dinamiche connesse con l’affermarsi della globalizzazione. L’espansione che ha caratterizzato l’economia tra la fine della seconda guerra mondiale sino alla crisi petrolifera del 1973 ha ricevuto un contributo importante dalla chiusura nazionali- stica dei paesi nel senso che gran parte dell’attività produttiva si realizzava entro i confini dello Stato in uno spazio protetto da controlli sul movimento dei capitali, dei beni e dei servizi (Halsey et alii, 1998). Con l’avvento della globalizzazione il panorama cambia, la concorrenza si sposta sui mercati internazionali e l’affermarsi dei paesi di nuova industrializzazione, come per esempio la Corea del Sud, Sin- gapore, la Tailandia. Taiwan e ultimamente la Cina dà vita a una competizione che pone seri problemi alle nazioni a economia avanzata perché i primi possono contare su una produzione di massa a basso costo. Pertanto, i secondi vengono a trovarsi di fronte a una alternativa non facile: una strategia consiste nel cercare di vincere il confronto, collocandosi allo stesso livello, cioè procedendo a trasferire le attività economiche in paesi dove il costo del lavoro sia basso; l’altra ipotesi tende a concentrare le attività economiche nei comparti caratterizzati da livelli elevati di conoscenza, ricerca e innovazione in cui la competizione dei paesi in via di sviluppo non è temibile. Siccome i costi sociali della prima strategia sono troppo elevati, le nazioni ad economia avanzata adottano la seconda, puntando sulla fabbricazione di un ventaglio di beni e servizi la cui competitività si basi meno sul prezzo e più sulla qualità. Questa opzione richiede a monte la presenza nella forza lavoro di una professionalità sempre più elevata che rende di nuovo centrale l’investimento in istruzione e formazione. Sul ritorno della fiducia nell’istruzione e nella formazione ha anche influito il progresso che si è realizzato a livello teorico. Infatti, sono stati abbandonati i mo- delli che si fondavano su una visione unitaria, omogenea e atomistica del mercato, su una concezione lineare e irreversibile delle sue direzioni di sviluppo e sulla 18 natura dominante e strutturante della domanda. Emerge invece un paradigma espli- cativo pluricausale che cerca di collegare i cambiamenti che si sono verificati nella domanda di lavoro per effetto dell’avvento delle nuove tecnologie dell’informa- zione, della ristrutturazione dei processi produttivi e dell’organizzazione indu- striale, con i mutamenti che sono intervenuti nella offerta di lavoro che si presenta sempre più scolarizzata e femminilizzata. In altre parole al modello “domandista” del capitale umano si sostituisce quello “interattivo” (Bertagna, 2002 e 2006). La relazione tra istruzione e forma- zione da una parte e crescita economica dall’altra non si può basare solo sulla domanda di lavoro, ma bisogna parimenti prendere in considerazione attenta la qualità dell’offerta. L’impianto e la qualità delle attività imprenditoriali non pos- sono prescindere dalla presenza in loco delle necessarie competenze per svolgerle. Assicurare più e migliore istruzione e formazione a tutti e soprattutto a quanti sono disoccupati o sottoccupati, benché possa comportare nel breve termine spese consi- stenti, tuttavia è segno di una visione strategica che nel lungo periodo offre dei ritorni ben superiori agli svantaggi del momento. L’analisi della domanda di lavoro possiede una rilevanza centrale per la definizione delle politiche educative; però, sarebbe errato da parte delle imprese perseguire una politica autoreferenziale, ma devono anch’esse mettersi al servizio della istruzione e della formazione delle per- sone e tener conto dei valori che queste esprimono. Si richiede pertanto un monito- raggio costante delle istanze della domanda e dell’offerta per giungere ad elaborare strategie concertate, mentre ogni politica a senso unico da parte del sistema econo- mico sarebbe necessariamente perdente. Gli interventi del governo sul lavoro non possono consistere in una semplice presa d’atto dei dati economici, ma devono prendere in considerazione attenta le correlazioni tra le dinamiche dello sviluppo e i bisogni dei singoli e dei gruppi. In questo contesto il modello “interazionista” non rifiuta il meglio di quello “domandista”, ma provvede a integrarlo. L’intervento pubblico non è più focalizzato come nel passato sul sostegno alla domanda aggregata da parte dello Stato secondo la tradizionale impostazione keynesiana, ma mira a favorire in una prospettiva di natura promozionale l’incontro tra domanda e offerta e ad aiutare le persone che nel mercato del lavoro si trovano in una condizione di debolezza come giovani, donne, cassintegrati, disoccupati di lungo periodo, extracomunitari (Lodigiani, 1999). Tenuto conto anche della natura eterogenea, discontinua e segmentata del mercato del lavoro, viene predisposto un ampio ventaglio di misure di politica attiva rivolte a rispondere in maniera flessi- bile alla complessità della domanda e dell’offerta: tra esse assume una posizione centrale la formazione professionale. Infatti, la garanzia del lavoro non coincide più con il posto fisso assicurato a vita, ma consiste in una gamma di dispostivi mirati ad elevare il livello di istruzione e di formazione del soggetto e l’efficienza del mercato del lavoro affinché il lavoratore possa beneficiare del massimo di pos- sibilità nei percorsi di mobilità tra una impresa e l’altra e nell’alternanza tra forma- zione e lavoro. 19 Le indicazioni che vengono dalla letteratura più recente circa l’incidenza del- l’istruzione e della formazione sullo sviluppo economico attestano un superamento delle posizioni più negative del passato e il raggiungimento di una prima sintesi (Lodigiani, 1999; Saha-Fägerlind, 1994). Tuttavia, la relazione è tutt’altro che sem- plice e diretta: in altre parole non esistono automatismi per cui si possa affermare che qualsiasi investimento nel sistema educativo conduca necessariamente ai risul- tati voluti e, pertanto, non sono da escludere casi di eccessiva fiducia nelle strategie dell’istruzione e della formazione o di una scelta di modalità sbagliate di inter- vento. Al tempo stesso va affermato che non è pensabile per un paese realizzare una politica per lo sviluppo senza il sostegno di una popolazione adeguatamente formata, in particolare se si tiene conto dell’attuale fase di esplosione delle cono- scenze e di espansione della tecnologia. Pertanto, si può dire che l’educazione è il fattore principale dello sviluppo a condizione che la sua traduzione in un progetto concreto corrisponda alle esigenze proprie di ciascun Paese. L’attuale recupero della centralità del capitale umano e della relazione tra istru- zione e formazione da una parte e istruzione dall’altra non è più interpretabile in senso meccanicistico e automatico. Infatti, si è ormai pienamente consapevoli degli stretti rapporti che intercorrono tra sistemi educativo, produttivo ed occupazionale. L’interpenetrazione che si registra tra sfera sociale e sfera economica, il radica- mento dell’economia nella società portano a una prospettiva multidimensionale dello sviluppo che fonda la presenza di molteplici e differenziati itinerari di crescita il cui successo è condizionato dalle interazioni specifiche che si creano in un deter- minato contesto tra variabili di diversa natura. In questo quadro l’investimento in istruzione e formazione non viene più visto solo come una scelta individuale effet- tuata in nome di una razionalità esclusivamente strumentale, ma è interpretato in un’ottica più complessa che prende in considerazioni vari altri fattori quali i mer- cati di lavoro particolari come quelli “interni”, la contrattazione tra organizzazioni datoriali e sindacali, la disparità nella distribuzione delle ricchezze, il quadro isti- tuzionale in cui le scelte si collocano. La valenza dell’investimento in istruzione e in formazione non viene più calcolata sulla base soltanto dell’aumento del reddito, ma anche in termini di crescita di occupabilità del lavoratore e di adeguamento alle esigenze delle imprese e alle innovazioni tecnologiche e organizzative. Questo non significa che non rimangano dei problemi importanti da affrontare. Anche oggi un livello alto di istruzione e di formazione facilita il reperimento di una occupazione, ma non offre alcuna sicurezza che la si trovi veramente e soprat- tutto che corrisponda al titolo posseduto. Quest’ultimo è raggiunto da fenomeni di svalutazione e di inflazione che comportano una crescita continua verso l’alto del grado di istruzione formale necessario per inserirsi nel mercato del lavoro, mentre tendono a marginalizzare chi vi entra con credenziali educative deboli. A loro volta queste sono sempre più un segno formale del livello di qualifica raggiunto, mentre sempre di meno riescono a svolgere una funzione di filtro delle persone più capaci o a indicare le conoscenze e le competenze realmente possedute. È anche entrato in 20 crisi il monopolio del sistema di istruzione come unico canale di trasmissione dei saperi e di formazione. Tuttavia il limite maggiore del modello “interattivo” risiede altrove (Bertagna, 2002 e 2006). Pur presentando un insieme di vantaggi rispetto a quello “doman- dista” di cui supera l’autoreferenzialità del sistema economico, e valorizza invece le connessioni di quest’ultimo con il sistema educativo, il ruolo dell’istruzione e della formazione professionale iniziale e ricorrente, l’attenzione alle attitudini dei singoli, la sensibilità sociale, l’imparare ad apprendere, la concertazione e la nego- ziazione, tuttavia non incide se non marginalmente sull’assunto principale del mo- dello “domandista” secondo il quale il significato e il bene di ciascuno vengono a coincidere con l’utile e il produttivo. L’occupabilità del soggetto assurge a valore fondamentale e nessuno può discostarsi sostanzialmente dal modello di uomo o di donna che lo sviluppo economico di un certo periodo storico richiede. Diversa è la portata e l’incidenza di un modello “personalista” che ponga al centro la persona e non il sistema economico o le imprese o l’occupabilità. In questo caso è la persona che diviene il fine a cui vengono subordinati la crescita e i processi di istruzione/formazione. Pertanto, lo sviluppo non ha senso se dovesse ledere anche un solo soggetto. L’istruzione e la formazione non hanno valore in se stesse, ma in quanto sono considerate da ciascuno uno strumento significativo per perfezionarsi e divenire migliore. Inoltre esse non si giustificano in quanto esigenze oggettive del tempo, ma perché le persone vi riconoscono un’esperienza che le fa crescere. Livelli anche molto elevati di crescita economica e una estrema diffusione dell’istruzione e della formazione non sono sufficienti se al tempo stesso non ren- dono più persona ogni persona. Non è accettabile che la realizzazione dell’uomo si riduca al suo lavoro: il percorso da realizzare è invece quello opposto di rendere il lavoro, l’occupabilità e l’economia strumenti per sviluppare al pieno ogni persona e tutta la persona. 3. LA TRANSIZIONE DAL SISTEMA EDUCATIVO AL LAVORO IN ITALIA Per una migliore comprensione dei dati relativi all’inserimento professionale dei giovani, si è ritenuto opportuno richiamare l’andamento dei principali aggregati del mercato del lavoro. In altre parole verranno descritte sinteticamente le tendenze in atto circa la forza lavoro, l’occupazione e la disoccupazione. 3.1. Le dinamiche del mercato del lavoro in Italia L’evoluzione del mercato del lavoro durante questa prima decade del ventune- simo secolo evidenzia una consistente vitalità del sistema dal punto di vista della creazione di nuovi posti di lavoro e della riduzione della disoccupazione che, però, è accompagnata recentemente da una sostanziale staticità nelle strategie di inter- vento (CENSIS, 2006). Dal 1998 che è l’anno che ha segnato una svolta positiva 21 determinante per il nostro mondo del lavoro in quanto finalmente l’occupazione ha ripreso ad aumentare, il numero degli occupati è cresciuto da 20.435.000 a 22.563.000 del 2005 con un incremento del 10.4% e il relativo tasso del 2.6% dal 61.2% al 63.8%; a sua volta il tasso di disoccupazione si è ridotto del 3.9% dall’11.3% al 7.7% (CENSIS, 2003, 165; CENSIS, 2006, 247; ISFOL, 2006, 160 e 162; Annuario statistico italiano, 2006). Questi indubbi segnali di ripresa non devono far dimenticare i problemi consi- derevoli che continuano ad essere presenti nel nostro sistema con particolare riferi- mento sia all’ingresso nel mondo del lavoro delle donne e dei giovani, pur muniti di titoli di istruzione elevati, sia alla distribuzione diseguale dei progressi che favo- riscono l’Italia del Nord e del Centro, mentre nel Sud si riproduce una condizione di sostanziale arretratezza, nonostante alcuni miglioramenti nella lotta alla disoc- cupazione. Inoltre, come si è accennato sopra, “la flessibilità”, introdotta dalla riforma Biagi, “non è più [...] una leva di gestione straordinaria dell’impresa, ma è entrata in una fase di normalizzazione in cui si autoriproduce, senza essere una leva di sviluppo e di innovazione né per le aziende, né per i lavoratori: produce, come ha prodotto, effetti sul piano quantitativo, ma non su quelli della produttività e della qualità del lavoro che sono ottenute attraverso altri strumenti” (Censis, 2006, 184). Da ultimo, il nocciolo duro della struttura occupazionale continua ad essere composto da professioni a basso livello di qualificazione oltre che, come è stato appena ricordato da un tipo di lavoro che si presenta standard, cioè dipendente. Passando ora ai particolari, le forze lavoro crescono da 23.781.000 del 2001 a 24.451.000 del 2005 con una variazione percentuale del 2.8%; anche la porzione rispetto alla popolazione presente passa dal 41.5% al 42.1% (CENSIS, 2006, 227; CENSIS, 2002, 224; Annuario statistico italiano 2006, 235). In corrispondenza con questo calo si registra una diminuzione delle persone in cerca di occupazione da 2.267.000 a 1.889.000, pari al 16.7% (CENSIS, 2006, 226 e 243; CENSIS, 2002, 224). A sua volta, il tasso di attività, cioè il rapporto tra le persone appartenenti alla forza lavoro e la popolazione di età superiore ai 15 anni, benché nel periodo 2001- 05 risulti stabile intorno al 49% su tutto il territorio nazionale, tuttavia mostra anda- menti diversi per circoscrizione geografica in quanto aumenta al Nord e al Centro, causando una espansione del mercato del lavoro, ma registra al tempo stesso una diminuzione consistente al Sud (CENSIS, 2006, 229). Nel 2005 l’occupazione ha continuato ad aumentare, consolidando anche gli andamenti positivi che si erano osservati negli ultimi anni. Infatti, tra il 2001 e il 2005 si registra una crescita degli occupati da 21.514.000 a 22.563.000, pari cioè a 1.049.000 o al 4.9% (CENSIS, 2006, 226; CENSIS, 2002, 225). A sua volta il tasso di occupazione è salito nello stesso periodo al 45.3% con un guadagno dello 0.8% (cfr. Tav. 1). Nonostante il risultato positivo appena richiamato, tuttavia, l’espansione della occupazione appare ripartita tra le varie circoscrizioni geografiche in maniera dis- eguale. Infatti, sono il Nord e soprattutto il Centro a guadagnare sui tassi di occu- 22 pazione: 0.5% nel Nord-Est, 1.2% nel Nord-Ovest e soprattutto 2.1% al Centro (cfr. Tav. 1). Al contrario il Sud registra una diminuzione dello 0.3%: in altre parole, nel Meridione permane una condizione di sostanziale crisi del mercato del lavoro che si manifesta in una riduzione degli occupati, anche se per una valuta- zione equilibrata si dovrebbe tenere adeguatamente conto della parallela diminu- zione dei disoccupati. Tav. 1 - Tassi di occupazione della popolazione per sesso e circoscrizione geografica (2001-05; in %) Se si fa riferimento alla distribuzione per sesso, sono le donne a beneficiare maggiormente dell’andamento positivo infatti, il loro tasso di occupazione aumenta nel quinquennio dell’1% rispetto allo 0.4% degli uomini, e questo andamento si verifica, oltre che in tutto il territorio nazionale, in ogni circoscrizione geografica tranne che nel Sud dove si assiste a una diminuzione tra il 2001 e il 2005 dal 23.7% al 23.5% (CENSIS, 2006, 248; cfr. Tav. 1). Inoltre rimane vero che la componente femminile continua ad essere minoritaria rispetto a quella maschile. Quanto all’età, non è possibile un confronto tra il 2001 e il 2005, perché le relative classi risultano cambiate nel tempo e non sono più comparabili. Se si para- gonano il 2004 e il 2005, si nota che tra i più adulti (35-64 anni) il tasso di occupa- zione cresce dello 0.6%, passando dal 60.8% al 61.4%, mentre tra i più giovani (25-34) si registra un calo dello 0.5% dal 69.8% al 69.3% (cfr. Tav. 3). Lo stesso andamento è osservabile a proposito del tasso di attività. Anche per i titoli di studio il confronto è limitato al 2004 e al 2005 per le stesse ragioni appena indicate. In proposito emerge che i tassi di occupazione crescono nel passaggio dai più bassi ai più elevati (cfr. Tav. 3). Questo andamento si riscontra sia nel 2004 che nel 2005, sia per la classe di età 25-34 che per quella 35-64. Nel confronto tra il 2004 e il 2005, i tassi di occupazione tendono a dimi- nuire per tutti i titoli di studio e in riferimento tanto alla coorte 15-64 che a quelle 25-34 e 35-64; le uniche eccezioni si riscontrano riguardo alla licenza media supe- riore e in relazione al totale 15-64 e alla classe 35-64. Lo stesso andamento si riscontra anche quanto al tasso di attività. CATEGORIE 2001 2005 Sesso: M 56.8 57.2 F 33.1 34.1 Circoscrizioni geografiche: Nord-Ovest 49.0 50.2 Nord-Est 51.0 51.5 Centro 45.1 47.2 Sud 37.3 37.0 Totale 44.5 45.3 Fonte: CENSIS 2006 23 Tav. 2 - Tassi di disoccupazione della popolazione per sesso e circoscrizione geografica (2001-05; in %) Passando poi ai dati sulla disoccupazione, l’andamento tra il 2001 e il 2005 risulta senz’altro positivo (CENSIS, 2006 - Cfr. Tav. 2). Infatti, il relativo tasso registra una riduzione di quasi un punto e mezzo percentuale (1.4%), scendendo dal 9.1% al 7.7%. L’esame dei dati per circoscrizione geografica evidenza un calo rilevante so- prattutto al Sud in quanto si colloca sul 3%: l’andamento lascia aperta la speranza sulla possibilità di ridurre lo scarto con il Settentrione dove la riduzione è molto in- feriore nel settore occidentale (solo lo 0.4%), mentre nella zona orientale si regista un aumento, benché modesto (dello 0.1% nel quinquennio dal 3.9% al 4%); al tempo stesso rimane il grave handicap di un tasso di disoccupazione che nel Meri- dione si colloca ancora al 14.3% e che costituisce un chiaro segno di una condi- zione particolarmente seria di disagio e di arretratezza (cfr. Tav. 2). Va anche sotto- lineato che dopo il Sud la circoscrizione che guadagna maggiormente è l’Italia Centrale dove la diminuzione nel periodo 2001-05 raggiunge quasi un punto per- centuale (0.9%). La disoccupazione è diminuita sia tra gli uomini che fra le donne (cfr. Tav. 2). Se sono le seconde a beneficiare maggiormente del calo, in quanto il loro tasso di- minuisce del 2.1% rispetto all’1.5% dei primi, è anche vero che esse si confermano come la componente più a rischio, perché la loro percentuale rimane ancora supe- riore al 10% (10.2%), mentre quella dei maschi è scesa al 6.2% assumendo caratte- ristiche fisiologiche. Dal punto di vista territoriale sono le donne del Meridione che si sono avvantaggiate maggiormente con la riduzione più alta nel quinquennio, pas- sando dal 19.6% al 17.3; nonostante questo andamento positivo, va notato che il dato risulta molto più elevato di quello delle altre circoscrizioni (4.8% nel Nord- Ovest, 3.9% nel Nord-Est e 7.3% nel Centro) (CENSIS, 2006, 248). Quanto all’età non è stato possibile un paragone tra i tassi di disoccupazione del 2001 e del 2005, come d’altra parte era avvenuto per i tassi di occupazione e per le stesse ragioni, ma solo tra il 2004 e il 2005. In questo caso si registra una di- minuzione generale: infatti, il dato passa dall’8.1% al 7.8% per il totale, cioè per la CATEGORIE 2001 2005 Sesso: M 7.7 6.2 F 12.2 10.1 Circoscrizioni geografiche: Nord-Ovest 4.8 4.4 Nord-Est 3.9 4.0 Centro 7.3 6.4 Sud 17.3 14.3 Totale 9.1 7.7 Fonte: CENSIS 2006 24 classe di età 15-64, dal 10.4% al 10.3% per quella tra 25 e 34 e dal 4.9% al 4.7% per quella tra 35 e 64 (cfr. Tav. 3). La diminuzione maggiore si riscontra per la coorte 15-64 e consiste nello 0.3%. Anche per i titoli di studio il paragone è ristretto al 2004 e al 2005 per gli stessi motivi appena segnalati. In questo caso i tassi di disoccupazione diminuiscono passando dalle qualifiche più basse a quelle più elevate e tra i due anni considerati (cfr. Tav. 3). Inoltre, tale andamento si riscontra per tutte le età considerate: 15-64, 25-34 e 35-64. Dopo aver fornito il quadro generale delle dinamiche del mercato del lavoro, conviene approfondire alcuni punti nevralgici per il nostro tema: incomincerò dalle interrelazioni tra titoli di studio ed età e fra tassi di attività, di occupazione e di disoccupazione. L’analisi delle informazioni contenute nella Tav. 3 fa capire che l’ingresso nel mondo del lavoro della coorte 15-64 anni è connesso strettamente con il livello di istruzione. Tale andamento emerge chiaramente dalla constatazione che i tassi di attività e di occupazione crescono in rapporto all’elevarsi dei titoli di studio: infatti, essi aumentano da rispettivamente il 35% e il 31.6% tra quanti sono muniti al massimo di licenza elementare, al 57.4% e al 52.1% tra coloro che possono contare su una licenza media inferiore, al 71.7% e al 66.7% di quanti possiedono una licenza media superiore, fino all’83.6% e al 78.5% di quanti hanno ottenuto un dottorato, una laurea o una laurea breve. Una conferma in questo senso viene dai tassi di disoccupazione che presentano l’orientamento opposto: dal 9.7%, al 9.2%, al 6.9%, al 6.1% in corrispondenza dei diversi livelli di istruzione appena citati. Sul lato meno positivo, va notato che tra il 2004 e il 2005 i tassi di attività e di occupazione di quanti sono muniti di dottorato, laurea o laurea breve diminuiscono (rispettivamente dall’84.9% all’83.6% e dall’80.1% al 78.5%), mentre parallela- mente aumentano quelli di disoccupazione (dal 5.6% al 6.1%) (cfr. Tav. 3). Il rap- porto CENSIS del 2006 ne deduce che il possesso di un alto livello di istruzione non fornisce in tutti i casi una assicurazione di ottenere facilmente successo nel mercato del lavoro. In aggiunta, il titolo di studio elevato non pare offrire alcuna garanzia sulla possibilità di entrare senza problemi nel mercato del lavoro. A questa conclusione arriva il rapporto CENSIS del 2006, mettendo in risalto che la corte 25-34 anni si distingue rispetto alla classe 35-64 per un tasso di disoccupazione molto più elevato (10.7% contro 4.7%) e che certamente non può essere conside- rato fisiologico. Inoltre, questo andamento risulta ancora più marcato se si pren- dono in considerazione i dati delle persone munite di dottorato, laurea o laurea breve per le quali il confronto è tra il 13.8% e l’1.8%. Riallacciandomi alla prima delle inferenze di CENSIS 2006, aggiungo un ulte- riore approfondimento. L’espansione del lavoro che si è verificata nel nostro Paese a partire dal 1998 in un contesto di rallentamento dello sviluppo economico ha con- tribuito in maniera decisiva al rafforzamento del nocciolo duro dell’occupazione che è costituita da professioni a basso livello di qualificazione: tale tendenza è cer- tamente in contrasto con le ambizioni di grande potenza dell’Italia che richiedereb- 25 bero un innalzamento continuo delle competenze e dei livelli formativi di base della sua forza lavoro. Tav. 3 - Tasso di attività, occupazione e disoccupazione (15-64 anni) per classe di età e il titolo di studio (2004-05; in %) Passando più specificamente ai dati si può osservare come nel periodo 2001- 06 si sia assistito a un ulteriore abbassamento della domanda di lavoro da parte delle aziende (CENSIS, 2006, 196-202). Infatti, negli anni considerati su 100 assunzioni che le imprese intendono effettuare la porzione dei dirigenti scende dallo 0.6% allo 0.2%, quella delle professioni intellettuali e scientifiche dal 5.8% al 4.1%, quella delle professioni tecniche dal 15.1% all’11.5%, mentre parallelamente aumentano gli addetti alle vendite e ai servizi familiari e le professioni esecutive e amministrative, passando rispettivamente dal 16.3% al 24.7% e dal 5.8% al 9.4%. Al tempo stesso si riscontra una sostanziale stabilità del titolo di studio a cui pun- tano le imprese: infatti, la laurea è prevista appena nel 7.2% dei casi nel 2001 e nell’8.5% nel 2006, mentre il possesso di una licenza media o elementare o di nessun titolo era richiesto ben nel 39.9% e nel 38.4% rispettivamente, quello di una qualifica professionale nel 20.9% e nel 19.2% e quello del diploma di media supe- riore nel 32% e nel 33.9%. E questa incapacità del sistema produttivo di accogliere TITOLO DI STUDIO 2004 2005 2004 2005 2004 2005 Licenza elementare/nessun titolo*: Tasso di attività 57.6 55.1 34.5 33.7 36.0 35.0 Tasso di occupazione 44.4 45.1 31.5 30.9 32.2 31.6 Tasso di disoccupazione 23.0 18.1 8.7 8.4 10.6 9.7 Licenza media inferiore: Tasso di attività 76.4 75.7 64.9 64.5 58.5 57.4 Tasso di occupazione 67.7 67.2 60.9 60.7 52.9 52.1 Tasso di disoccupazione 11.4 11.2 6.1 5.9 9.5 9.2 Licenza media superiore**: Tasso di attività 79.5 78.7 76.8 77.0 71.7 71.7 Tasso di occupazione 72.9 72.3 73.9 74.2 66.4 66.7 Tasso di disoccupazione 8.4 8.1 3.8 3.6 7.3 6.9 Dottorato, laurea, laurea breve: Tasso di attività 81.5 80.4 87.9 87.8 84.9 83.6 Tasso di occupazione 71.3 69.4 86.4 86.2 80.1 78.5 Tasso di disoccupazione 12.6 13.8 1.8 1.8 5.6 6.1 Totale Tasso di attività 77.9 77.2 63.9 64.4 62.5 62.4 Tasso di occupazione 69.8 69.3 60.8 61.4 57.4 57.5 Tasso di disoccupazione 10.4 10.3 4.9 4.7 8.1 7.8 Legenda: * = Compresi gli analfabeti ** = Compresi i diplomi che non danno accesso all’università Fonte: CENSIS 2006 25-34 anni 35-64 anni 15-64 anni 26 una offerta di lavoro che appare sempre più competente si ripercuote soprattutto sui laureati in quanto nel 2005 oltre un terzo quasi (31.9%) delle persone munite di un livello di istruzione universitario era assunto per una occupazione che non preve- deva una laurea, ma un titolo inferiore; tale andamento colpiva soprattutto le donne (36.2% in paragone al 27.8% degli uomini) e in particolare le giovanissime (51.6% rispetto al 44.9%) Un’altra conclusione a cui può condurre la lettura della Tav. 3, sulla base del- l’interpretazione di CENSIS 2006, è che i giovani (classe 25-34 anni) sembrano qualificarsi rispetto agli adulti (35-64) per una più grande disponibilità al lavoro. Infatti, sia nel 2004 che nel 2005 i tassi di attività e di occupazione dei primi risul- tano più elevati di quelli dei secondi. Nonostante la disponibilità segnalata, i gio- vani sono raggiunti dal fenomeno della disoccupazione in percentuali più alte in paragone agli adulti (10.3% contro 4.7% nel 2005). Ai fini di questa ricerca è opportuno anche soffermarsi sulla composizione del- l’occupazione per tipologia contrattuale. Una decade di graduale cambiamento della cultura del lavoro nel nostro Paese non è stata capace di incidere in maniera rilevante su una struttura occupazionale che è ancora incentrata sul lavoro standard (dipendente), perché non ha realizzato un salto di qualità verso una concezione più avanzata del rapporto di lavoro e verso un modello di mobilità che l’avrebbe resa socialmente più accettabile, anche se non si può negare che vi sia stata una crescita notevole dell’utilizzo di contratti flessibili. Infatti, nel periodo 2001-05 la percen- tuale di occupati con lavoro a termine (contratti a tempo determinato, apprendistato e interinale) non ha subito in pratica cambiamenti, essendo passata dal 9.1% al 9%, mentre quella dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato è cresciuta dal 62.3% al 64.3%, influendo tra l’altro negativamente sulla porzione dei lavoratori autonomi che si è ristretta dal 28.6% al 26.7% (CENSIS, 2006, 189-202). In breve non si è assistito a quell’espansione del lavoro flessibile che ci si at- tendeva al termine della decade ’90. Anzi le opportunità di mobilità verso modalità occupazionali più stabili di quelle a termine rimangono molto ridotte: di fatto solo il 12.3% dei giovani che usufruiscono di contratti a tempo determinato o a progetto ha potuto godere durante il 2005 del passaggio al tempo indeterminato. Pertanto, la flessibilità che il mercato crea non pare capace di trasformarsi in mobilità per cui “è come se l’attuale sistema di lavoro alimenti una flessibilità che resta immobile, che si replica negli anni uguale a se stessa, nelle modalità e nei modelli, in cui le nuove formule non riescono ad attecchire, e le vecchie a trasformarsi, finendo per imbrigliare in un destino di immobilità quanti sono costretti a farci i conti” (Ibidem, 194). Le ultime considerazioni generali sull’Italia riguardano la situazione del lavoro in nero (Ibidem, p. 183). Tra il 2002 e il 2005 si assiste a un calo delle aziende irre- golari, in particolare quelle completamente sommerse; questo andamento positivo contrasta con un aumento della percentuale del lavoro irregolare che però risulta inferiore alla tendenza relativa alle imprese. 27 Nel confronto con gli altri Paesi dell’Europa, l’Italia presenta una bassissima propensione al lavoro che la svantaggia nella competizione economica con gli altri Stati: infatti, nel 2005 il tasso di attività della coorte 15-64 anni raggiunge appena il 62.5% rispetto a una media dell’UE del 70.2% e colloca l’Italia al terzultimo posto; inoltre, il tasso di occupazione (15-64) si situa sul 57.6% in paragone a un dato del- l’Unione del 63.8% per cui veniamo a trovarci nelle ultime posizioni. Al tempo stesso, va notato che il tasso di disoccupazione per la classe 15-74 anni è inferiore alla media europea (7.8% in paragone all’8.8%) e anche a quello di nazioni econo- micamente più avanzate, come la Germania, la Francia e la Spagna. 3.2. L’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro Incomincio con il richiamare due conclusioni che sono emerse dalla disamina precedente in tema di tassi di attività e di occupazione e in riferimento all’ingresso nel mercato del lavoro. Anzitutto, l’analisi dei due tassi citati (cfr. Tav. 3) evidenzia che i giovani, anche se si tratta della coorte 25-34 anni, sembrano caratterizzarsi rispetto agli adulti (35-64) per una maggiore propensione al lavoro. Inoltre, il pos- sesso di un alto livello di istruzione non pare fornire alcuna garanzia sulla possibi- lità di entrare senza problemi nel mercato del lavoro. In ogni caso, il panorama generale dei dati del quinquennio 2001-05 si presenta più positivo e dinamico che non quello del periodo precedente, 1996-00 (Annuario statistico italiano, 2006). Infatti, il tasso di disoccupazione del gruppo di età 15-24, che nel periodo 1996-00 aveva oscillato fra il 34.1% e il 31.1% (CENSIS, 1999, 226; CENSIS, 2002, 244), si situa negli anni 2001-05 tra il 28.2% e il 22.9% con ulteriore consistente riduzione che nel decennio supera il 10% (11.2%) (CENSIS 2002, 2004; CENSIS, 2006, 249; Cfr. Tav. 4). Come si è visto sopra, la percentuale si dimezza nel passaggio dalla coorte 15-24 a quella 25-34 (dal 22.9% al 10.3%); inoltre, fra il 2004 e il 2005 la seconda classe di età registra una diminuzione anche se leggera (0.1%) (cfr. CENSIS, 2006, 249 e Tavv. 3 e 4). Nonostante questo anda- mento positivo, i tassi di disoccupazione del gruppo 15-34 si presentano ancora troppo alti e attestano della carenze della domanda di lavoro in relazione ai bisogni delle fasce della popolazione più giovani. Tav. 4 - Tassi di disoccupazione giovanile (15-24), per sesso e circoscrizione geografica (anni 2001-05; in %) CIRCOSCRIZIONI GEOGRAFICHE 2001 *2005* 2001 *2005* 2001 *2005* Nord-Ovest 11.1 10.7 14.3 15.0 12.6 12.6 Nord-Est 7.2 7.5 11.9 13.0 9.3 10.0 Centro 21.3 17.1 27.6 23.2 24.2 19.6 Sud e Isole 44.2 35.1 60.0 43.4 50.8 38.2 Italia 25.0 20.9 32.2 25.7 28.2 22.9 Legenda: * = Primo trimestre Fonte: CENSIS 2002 e 2006 MASHI FEMMINE TOTALE 28 Il calo nella coorte 15-24 anni durante il quinquennio considerato riguarda sia i maschi, passando dal 25% al 20.9% con un guadagno del 4.1%, sia le femmine per le quali le percentuali sono rispettivamente, 32.2%, 25.7% e 6.5% (cfr. CENSIS, 2002, 244; CENSIS, 2006, 249; Tav. 4). Come emerge chiaramente dalla Tav. 4, la riduzione è superiore tra le donne che non tra gli uomini, sebbene i tassi delle prime risultino di molto più elevati di quelli dei secondi. In linea con quanto verrà sottolineato subito dopo, il calo si concentra nel Sud e nelle Isole, dove per le fem- mine raggiunge il 16.6%, mentre le cifre crescono, anche se leggermente, o riman- gono stabili nel Nord-Ovest e nel Nord-Est. I tassi di disoccupazione della classe 15-24 anni mostrano un livello non mar- ginale di variazioni in base alla circoscrizione geografica (cfr. CENSIS, 2002, 244; CENSIS, 2006, 249; Tav. 4). La percentuale nel Meridione e nelle Isole (38.2%) costituisce oltre il triplo di quella del Nord-Ovest (12.6%), il quadruplo quasi di quella del Nord-Est (10%) e circa il doppio di quella dell’Italia Centrale 19.6%): inoltre, l’ultimo tasso citato, quello cioè del Centro, risulta il doppio quasi di quelli del Settentrione sia occidentale che orientale. L’andamento del Sud/Isole e del Centro risulta più positivo se si guarda al confronto tra il 2001 e il 2005: infatti, la prima circoscrizione citata migliora le sue posizioni del 12.6%, scendendo dal 50.8% al 38.2%, e la seconda del 4.6%, dal 24.2% al 19.6%; al contrario, i tassi rimangono stabili nel Nord-Ovest (12.6%) e crescono leggermente nel caso del Nord-Est (dello 0.7%, dal 9.3% al 10%). Una conferma delle tendenze positive messe in risalto sopra in tema di ridu- zione della disoccupazione viene dai dati sulle persone in cerca di occupazione (cfr. Tav. 5). Infatti, tra il 2004 e il 2005 la classe di età 15-64 registra una dimi- nuzione di 69.964 o del 3.6%, passando da 1.954.266 a 1.884.302. Comunque, la coorte che si avvantaggia di più di questo andamento è quella dei più giovani (15- 24) in quanto il calo raggiunge quasi il 5% in due anni (-4.7%); la diminuzione è più ridotta per il gruppo 25-34 (-3.5%) e per i più adulti (35-64) per i quali si attesta a -3.6%. Se si tiene conto del livello di istruzione, allora si nota che la dimi- nuzione si riscontra maggiormente tra le persona senza titolo o con solo la licenza elementare (-15.7% che sale a -28.7% nella classe 25-34, rimane più alto in quella 15-24, mentre scende al di sotto del dato generale nella coorte 35-64). Al contrario, si colloca sul lato negativo l’aumento non marginale delle persone in cerca di occu- pazione tra quanti possiedono un dottorato, una laurea o una laurea breve (16%), che tra i giovani tra i 15 e i 24 anni supera un terzo (34.1%). Come si è già osservato sopra al n. 3.1, il lavoro a tempo indeterminato è cre- sciuto nel periodo 2001-05 e la Tav. 6 conferma il trend in riferimento al 2004-05, evidenziando un incremento dello 0.9% dal 63.4% al 64.3%; inoltre, tale anda- mento ha riguardato tutte le componenti del mondo del lavoro (CENSIS, 2006, 159). La tendenza appena richiamata ha coinvolto in percentuale maggiore le donne, piuttosto che i maschi (2.4% in paragone all’1.9%), le circoscrizioni geogra- fiche del Settentrione e del Centro (2.8% e 2.5%) rispetto al Meridione (0.5%). 29 Ta v. 5 - Pe rs on al e in c er ca d i o cc up az io ne 1 5- 64 a nn i p er c la ss e di e tà e p er ti to lo d i s tu di o (a nn i 2 00 4- 05 ; i n VA e % ) L eg en da : VA = Va lo ri a ss ol ut i F on te : C E N SI S 20 06 Ta v. 6 - O cc up at i p er ti po lo gi a di c on tra tto in b as e al l’e tà (a nn i 2 00 4- 05 ; i n % ) F on te : C E N SI S 20 06 30 Inoltre sono le classi di età più anziane con 55 anni e oltre e quella intermedia, 35-54 anni ad avvantaggiarsi di più (9.3% e 3.4%), mentre la coorte più giovane, 15-24, ha subito un grosso calo di 8 punti percentuali. Il lavoro a termine mostra andamenti diversi: l’incremento si concentra sui maschi con un balzo del 9% quasi, e se riguarda tutte le circoscrizioni geografiche, esso appare particolarmente consi- stente nel Nord-Est; inoltre, esso coinvolge soprattutto i più giovani, quelli cioè della classe di età 15-24 di cui circa un terzo (32.1%) sono dipendenti che usufrui- scono di una forma di occupazione a tempo definito. 3.3. Le tendenze principali sul piano qualitativo In questi ultimi anni il mercato del lavoro è stato investito da profonde trasfor- mazioni che hanno reso sempre più sfumata la separazione tra lavoro dipendente e autonomo (CENSIS, 2002, 212-216; Garelli-Polmonari-Sciolla, 2006.). Tale feno- meno sembra avere radici soprattutto nei processi di progressiva flessibilizzazione delle modalità di erogazione delle prestazioni e, contestualmente, nell’introduzione di logiche organizzative in grado di sostenere le sfide di competitività indotte dal fenomeno della globalizzazione. All’interno di queste dinamiche ha preso consistenza la tendenza a premiare il bagaglio di competenze di cui ciascuno è portatore al posto di una crescita pro- fessionale riconducibile a rigidi schemi di inquadramento formale (per anzianità, per livelli...). In un contesto così altamente competitivo, rivestono quindi un ruolo determinante oggi più che mai i sistemi di aggiornamento, riqualificazione, forma- zione permanente. Ciò è tanto più vero a fronte di una rapida evoluzione di com- plesse e diversificate domande di svolgimento di ruoli e compiti professionali che richiedono al lavoratore una crescente capacità di “savoir faire” e di imparare cose sempre nuove per lo svolgimento di incarichi complessi e non standardizzabili. Un esempio di queste innovazioni che caratterizzano il mercato del lavoro del terzo millennio viene dall’introduzione del “team work”, una logica che implica l’adozione di nuove modalità organizzative che fanno perno sull’autoresponsabiliz- zazione del lavoratore e sul suo coinvolgimento partecipato nel lavoro e che, a livello individuale, si traducono in una crescente autonomia nella strutturazione dei tempi, spazi, luoghi e contenuti del lavoro. È all’interno di questo contesto evolutivo che l’organizzazione del lavoro su- bisce una radicale revisione: non è più la presenza costante e in loco (fabbrica, azienda, ufficio...) che garantisce efficacia al sistema produttivo; il tempo di lavoro sempre più difficilmente può essere imbrigliato in rigide formule contrattuali mentre, contestualmente, emerge la “modularizzazione” degli orari in base alle esigenze aziendali (stagionalità, tempi di consegna...). Con l’introduzione del tele- lavoro si fa largo la concezione di un lavoro che può essere svolto anche senza avere un luogo fisso, preciso. La rivoluzione post-industriale non può non interessare anche la trasforma- zione stessa dei sistemi retributivi attraverso il passaggio dalla contrattazione col- 31 lettiva a quella individuale e a tutte le formule di integrazione retributiva come la partecipazione agli utili dell’azienda. Tra le nuove generazioni, valori come l’autonomia e l’autoresponsabilità nel lavoro vengono ormai assunti come obiettivo primario, facendo registrare una pro- gressiva crescita della domanda di lavoro indipendente, della richiesta di valoriz- zare la dimensione individuale, della tendenza a non attribuire al lavoro una dimen- sione totalizzante della propria esistenza (“il lavoro non è tutto”), ma a considerare piuttosto che alla propria realizzazione contribuisce in pari misura e forse ancora più la gestione di tempi-spazi personalizzati (il tempo libero, hobbies...). Inoltre è sempre più diffuso, tra le giovani generazioni, la ricerca nell’attività lavorativa di formule di flessibilità: contratti a termine, di formazione-lavoro, di apprendistato, interinale, di collaborazione coordinata e continuativa, borse di studio... Tutte modalità che hanno portato a far risaltare un nuovo modo di con- cepire e di guardare al lavoro, visto appunto come spazio in cui potersi realizzare in autonomia e indipendenza, senza dover sottostare a regole e/o dover subire con- trolli e imposizioni. Nel corso di questo processo di cambiamento le aziende, da sempre fortemente improntate sul modello fordista, vanno alla ricerca di nuovi percorsi organizzativi, di nuove espressioni, di nuovi ruoli e strumenti di rappresentanza, nell’intento di meglio cogliere/interpretare i trend del mercato. 4. ISTRUZIONE E FORMAZIONE: LA RIFORMA MORATTI E LE MODIFICHE DEL MINISTRO FIORONI Nel quadro teorico della ricerca non poteva mancare una sezione dedicata a richiamare gli orientamenti di politica educativa in atto nel nostro Paese. Incomin- cerò dalla riforma Moratti (legge n. 53/2003) che rappresenta il testo di base, anche se ormai più in teoria che non in pratica. Nella seconda parte analizzerò le modi- fiche introdotte dal Ministro Fioroni, limitandomi ovviamente a quelle che presen- tano una incidenza diretta per il secondo ciclo. 4.1. La riforma Moratti e il modello “personalistico” Mi sembra che nella riforma Moratti si possa riscontrare l’adozione senza re- more del modello “personalistico” dei rapporti tra istruzione e formazione profes- sionale da una parte e sviluppo socio-economico dall’altra (Bertagna, 2002 e 2006; Malizia e Nanni, 2002a e c e 2003; Malizia, 2005b; Moratti, 2002): i motivi sono vari e cercherò di focalizzarli sinteticamente nel prosieguo. In aggiunta saranno richiamati in sintesi i compiti orientativi e di accompagnamento all’inserimento lavorativo dei sistemi educativi. Anzitutto, la legge parte da una definizione alta delle mete della riforma che si fonda sulla centralità della persona che apprende e sul rispetto dei ritmi dell’età 32 evolutiva e delle differenze e dell’identità di ciascuno. Tutto ciò avviene nel quadro della promozione dell’apprendimento in tutto l’arco della vita, nel senso che, come è sottolineato dal rapporto Delors, al centro non c’è più il processo di insegnamento e il docente, ma l’alunno e l’esigenza di renderlo capace di autoformazione. E l’intervento riguarda tanto le dimensioni diacronica (l’intera esistenza) e sincronica (il formale, il non formale e l’informale), quanto la promozione di tutta la persona, perché dovrà favorire non solo la formazione culturale, professionale ed emozio- nale, ma anche quella spirituale e morale e lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale ed alla civiltà europea. Una seconda ragione si può vedere nella normativa che assicura a tutti i citta- dini il diritto all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età. In altre parole, la legge si muove nella linea della tendenza che è emersa recentemente in Europa al superamento del concetto stesso di obbligo scolastico. Dal punto di vista storico questa strategia ha esercitato una funzione essenziale nel passaggio da una scuola per pochi a una per tutti, ma al presente sembra costituire piuttosto un impedimento alla piena realizzazione dei diritti di cittadinanza. In una società complessa come l’attuale la focalizzazione scolasticistica perde di senso perché ciò che conta è il risultato e la sua qualità e non i percorsi con cui si ottengono che possono essere i più vari. Inoltre, l’istruzione e la formazione, prima che dei doveri, sono dei diritti della persona e vanno assicurate a tutti in modo pieno. Per- tanto, le varie istituzioni che le garantiscono devono operare in rete, in una pro- spettiva di solidarietà cooperativa e di parità piuttosto che come alternative tra loro escludentisi. Anche l’iniziativa di introdurre un percorso graduale e continuo di formazione professionale parallelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che porti all’acquisizione di qualifiche e titoli è in piena linea con il modello “persona- listico” (Bertagna, 2003a, 2003c, 2005, 2006; Nicoli, 2003, 2006). Infatti, la forma- zione professionale non può più essere concepita come un addestramento finaliz- zato esclusivamente all’insegnamento di destrezze manuali, né la distinzione con l’istruzione va vista nel fatto che questa si focalizza nell’acquisizione di saperi in qualche misura astratti rispetto al contesto, mentre quella si occupa della loro realizzazione nel mercato del lavoro o nel fatto che l’oggetto è differente, essendo la cultura del lavoro quello proprio della formazione professionale, perché anche la scuola si interessa di cultura del lavoro (Nicoli, 2004). La formazione professionale non è qualcosa di marginale o di terminale, ma rappresenta un principio pedago- gico capace di rispondere alle esigenze del pieno sviluppo della persona secondo un approccio specifico fondato sull’esperienza reale e sulla riflessione in ordine alla prassi che permette di intervenire nel processo di costruzione dell’identità per- sonale. Questo tuttavia non significa che sia la stessa cosa dell’istruzione: cono- scere con l’obiettivo principale di agire, costruire e produrre non può essere con- fuso con il conoscere e agire con l’intento prioritario di conoscere. 33 Nel quadro del modello “personalistico”, l’istruzione e la formazione non costituiscono due itinerari separati e gerarchizzati, il primo di serie A e il secondo di serie B. La concezione secondo la quale prima viene l’istruzione e per una durata la più lunga possibile in quanto realizzante e liberante, e successivamente la formazione, purché il più avanti nella carriera dell’allievo perché a rischio di unila- teralismo e di perpetuazione della marginalità sociale, risulta priva di fondamento. I due percorsi sono modalità alla pari dell’educazione, forme diverse di apprendi- mento e di sviluppo della personalità, occasioni di realizzazioni di autentiche voca- zioni specifiche. L’opzione tra istruzione e formazione si presenta pertanto come l’attuazione pienamente legittima di stili diversi di apprendimento e di progetti personali di vita. Tra l’altro molte sono le ragioni che militano a favore della scelta a 14 anni tra scuola e formazione professionale (Malizia, 2005b). Anzitutto, la psicologia evolutiva ha messo in risalto come lo stadio 10-14 anni costituisca una fase della vita con una sua identità specifica, nella quale matura progressivamente la capacità di scelta consapevole. Inoltre, non va dimenticato che allo stato attuale i drop-out della terza media sono oltre 35.000 ogni anno e certamente non si potrebbe pensare di obbligarli per altri due anni ad un percorso scolastico. L’indagine effettuata dall’ISTAT in occasione degli Stati Generali mette in evidenza come la gran parte dei genitori e dei docenti e oltre il 40% degli studenti sono d’accordo con la scelta dei due percorsi a 14 anni (Buratta-Sabbadini, 2001, 205-206). Da ultimo, le ricerche sull’attuazione del nuovo obbligo di istruzione stanno ponendo in risalto che la legge n. 9/99 ha gravemente danneggiato gli adolescenti, soprattutto i più svantaggiati e in difficoltà, obbligandoli ad iscriversi ad una scuola che li costringe a un parcheggio di un anno o li tiene lontano dalla formazione professionale, sebbene l’obiettivo della legge 30/00 fosse quello di introdurre un canale paritario di formazione professionale per togliere l’Italia dalla posizione di fanalino di coda in cui si trova a questo proposito (Malizia-Nicoli-Pieroni, 2002b; Malizia, 2005b). Anche l’analisi comparativa non offre argomenti ai critici del provvedimento. Riporto alla lettera le conclusioni che M. Reguzzoni ha condotto sul tema: “Non si può dire che l’Italia dando la possibilità di formazione professionale prima dei 15 anni, sarebbe fuori degli ordinamenti europei, perché appare che in Europa esistono tutte le combinazioni possibili di formazione per i giovani di quella età” (2002, 645). Un’altra ragione si può trovare nel nuovo scenario normativo che si è creato con la legge costituzionale n. 3/01 e che è stato recepito dalla riforma Moratti: si tratta del passaggio da un modello basato sui poteri esclusivi dello Stato ad uno che mette in relazione in maniera integrata tre diverse competenze: quella dello Stato, quella delle Regioni e degli Enti territoriali e quella delle istituzioni scola- 34 stiche autonome. In base a questa impostazione, come si sa, lo Stato ha competenza esclusiva per quanto riguarda le norme generali sull’istruzione e i livelli essenziali delle prestazioni; lo Stato e le Regioni hanno competenza concorrente sull’istru- zione, fatta salva l’autonomia delle scuole; a loro volta le Regioni hanno compe- tenza esclusiva sull’istruzione e sulla formazione professionale (Bertagna, 2003b; Masi 2005). Il motivo della riforma va ricercato nella volontà del Costituente che Stato e Regioni, da una parte, e Regioni ed Enti territoriali con le istituzioni scola- stiche, dall’altra, cooperino insieme e, pur nel rispetto dei poteri propri di ciascuno, predispongano una politica formativa al servizio dei giovani e delle famiglie che risponda alle esigenze del territorio e al tempo stesso non perda unitarietà e coordi- namento. “Sarebbe paradossale che il costituente avesse disposto questa innovazione per spostare dal servizio alla persona e alla sua educazione al servizio al lavoro e al- l’occupazione la vecchia istruzione professionale statale e quella parte di istruzione tecnica statale con caratteri immediatamente professionali. E ancora di più, con il richiamo alla legislazione concorrente, che avesse voluto procedere a una dislo- cazione analoga perfino con l’istruzione liceale, togliendole il suo tradizionale spessore umanistico per convertirla ai valori mercantili della tecnocrazia economica. È più rispettoso immaginare che il costituente sia stato invece animato dall’in- tendimento opposto: valorizzare il carattere educativo della formazione professio- nale e, con essa, dell’istruzione professionale, tecnica e liceale, creando le condi- zioni istituzionali, oltre che culturali e pedagogiche, per una loro osmosi e radican- dole tutte, maggiormente, come è peraltro ragionevole, nel territorio, a servizio della crescita della persona” (Bertagna, 2002, 14). L’obiettivo di potenziare i sistemi educativi sul piano dell’orientamento com- porta la riformulazione e l’adozione di alcune “linee-guida fondanti”, in base alle quali: a) Il percorso educativo dovrà essere finalizzato al conseguimento di una “matu- rità orientativa” globale della personalità, tale da consentire a ogni soggetto di imparare a decidere, scegliere, inserirsi, socializzare, lottare per il cambia- mento. b) L’azione formativa dovrà caratterizzarsi, per essere personalizzata e collettiva al tempo stesso: – personalizzata, poiché è la persona che sta al centro dell’intervento, quale principale attore; – collettiva, perché deve coinvolgere il complesso dei differenti gruppi sociali con i quali interagisce il “soggetto-attore” al centro dell’intervento. c) Dal canto suo il processo educativo-formativo si qualificherà per un’osmosi delle dimensioni: – integrale, cioè in grado di interessare tutta la persona nella sua complessità; – interattiva, in quanto si pone nei confronti del destinatario dell’intervento come tra i diversi protagonisti dello stesso; 35 – trasversale, nel senso che richiede l’apporto di tutte le parti in causa; – permanente, cioè in grado di portare la persona a maturare scelte per tutto il resto della vita; – creativa, ossia non massificante e autoreferenziale; – funzionale non solo a un momento critico o difficile, ma alla definizione di un progetto di vita (Malizia-Nicoli-Pieroni, 2002a; Malizia, 2005b). In questa prospettiva i progetti formativi finalizzati all’orientamento e all’ac- compagnamento al lavoro diventano un elemento centrale di mediazione, costitui- scono un “anello” di interconnessione tra il singolo utente (qualunque sia la cate- goria di appartenenza), il sistema delle istituzioni educative e le istanze del mondo economico e produttivo. Rappresentano in ultima analisi una “leva del cambio” del sistema sociale. Per i soggetti in età evolutiva, in particolare, ciò significa uno specifico impegno formativo alle scelte, quale parte integrante del processo educativo in generale, in vista del raggiungimento di una certa maturità professionale e dello sviluppo di attitudini, interessi e valori necessari per far fronte al cambiamento che avviene nel mondo dell’occupazione. Inoltre, per la collettività presa nel suo insieme si richiede l’acquisizione di una mentalità attenta alla “trasversalità”, ossia a un “lavoro di rete” collaborativo, in un’ottica di superamento di cementati confini di appartenenza. Tutto questo suppone al tempo stesso un’azione coordinata che permetta l’integrazione, in forma articolata, tra destinatari del servizio, sistema educativo, mondo del lavoro, presenza delle amministrazioni locali e investimento nelle risorse del territorio. All’interno di queste strategie anche le attività di orientamento e accompagna- mento al lavoro si presentano come un processo ampio e complesso che coinvolge il singolo e la collettività. È la risultante dello sforzo incrociato di molteplici istitu- zioni educative ed agenzie sociali (formazione professionale, scuola, università, fa- miglia, gruppi, associazioni, aziende...), di svariate figure professionali e di diverse parti sociali, politiche ed economiche in gioco. Ciò suppone un’azione coordinata che permetta l’interazione, in un sistema triadico articolato, tra mercato del lavoro, formazione/istruzione e soggetti destinatari del servizio. 4.2. Le modifiche introdotte dal Ministro Fioroni Il punto di partenza è costituito dall’audizione dell’attuale Ministro della PI presso la Commissione Cultura. Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati in occasione dell’avvio della nuova legislatura. Nel suo discorso programmatico egli ha dichiarato. in discontinuità con i suoi recenti predecessori, gli On. Berlinguer e Moratti: “Perciò non ho in animo di elaborare l’ennesima riforma complessiva del sistema a cui legare il mio nome. Il mio proposito è diverso. Il mio metodo è un altro” (Fioroni, 2006, 2; CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007; Colasanto, 2006a; Ribolzi, 2006, Tonini, 2006b; AGESC, 2007). Il rifiuto di una logica abrogativa o 36 di restaurazione del passato o comunque della pretesa di cambiare tutto e subito e l’adozione di una impostazione graduale e concertata basata sull’idea del “caccia- vite” che smonta ciò che impedisce e monta ciò che consente una maggiore effi- cienza è stata una decisione senz’altro saggia perché gli insegnanti, i genitori, gli studenti, l’opinione pubblica sono veramente disorientati dai cambiamenti continui nella normativa e non riescono a capire come mai ad ogni mutamento di governo bisogna azzerare quanto realizzato precedentemente e ricominciare tutto da capo; in questa maniera si disincentiva a realizzare qualsiasi riforma perché si sa che dopo non molto arriverà un contrordine. In altre parole, si tratta di una strategia che fa perno sull’autonomia e l’intera- zione nei contesti locali tra le diverse autonomie e su processi di trasformazione condivisi in quanto non è più accettabile, né si rivela efficiente che le riforme siano decise dai ministeri senza una vera consultazione dei diversi attori e senza una va- lutazione dei risultati. All’autorità politica centrale incombe il compito di definire chiaramente le proposte, di suscitare il dibattito e, dopo una vasta concertazione, prendere le opportune decisioni; al tempo stesso, l’autonomia deve invece assicu- rare l’esercizio della responsabilità educativa da parte dell’istanza regionale, locale e, soprattutto, del singolo istituto in un quadro unitario garantito dal centro, perché bisogna evitare ogni pericolo di segmentazione territoriale che comporti disparità inaccettabili tra i giovani e le famiglie in tema di eguaglianza delle opportunità formative. La linea di azione scelta è rimasta più sul piano di principio, mentre si è realiz- zata molto di meno a livello pratico. Infatti, essa avrebbe comportato che venissero sperimentate tutte le proposte valide della riforma Moratti. Invece, ci si è preoc- cupati maggiormente di smontare quest’ultima e di rimontarla secondo logiche diverse che hanno reso la relazione alla legge n. 53/03 sempre più labile e tenue, mentre nel concreto si assiste a una eccessiva frammentazione della produzione legislativa che richiede una costante ricostruzione del quadro normativo di riferi- mento, come denunciano le Regioni (Documento della Conferenza delle Regioni..., 2007; Colasanto, 2007a). Questo ha significato che, se il quadro generale di riferimento è rimasto la riforma Moratti, tuttavia l’esecutivo ha inteso apportare il massimo di innovazioni consentite dal fatto di procedere mediante i decreti attuativi di una legge delega. In particolare per il secondo ciclo, è stata bloccata la sperimentazione del disegno delineato dalla legge. n. 53/03 e sono stati prorogati di 18 mesi i decreti legislativi non scaduti della riforma Moratti; inoltre, si è provveduto a cambiare parzialmente o sostanzialmente il D.Lgs n. 76/05 su “Il diritto-dovere all’istruzione e alla forma- zione”, il D.Lgs. n. 227/05 su “La formazione degli insegnanti ai fini dell’accesso all’insegnamento”, il D.Lgs. n. 286/04 su “L’istituzione del Servizio nazionale di valutazione”, il D.Lgs. n. 77/05 su “La normativa relativa al secondo ciclo: al- ternanza scuola-lavoro”, e il D.Lgs. n. 226/05 sul “Le norme generali e i livelli essenziali delle prestazioni del secondo ciclo”. Con un accordo contrattuale è stata 37 disapplicata l’attuazione del tutor e il portfolio, là ove si prevede di adottarlo, lo si realizzerà solo per i suoi aspetti formativi, didattici e di supporto ai processi di apprendimento degli allievi. Nel suo interevento programmatico il Ministro ha insistito che il sistema edu- cativo di istruzione e di formazione dovrebbe assicurare al tempo stesso equità ed eccellenza, eguaglianza di opportunità sia in entrata sia in uscita, accesso per tutti e possibilità di successo pure per tutti. La meta si presenta ardua da raggiungere se è vero, come afferma il testo dell’audizione, che solo l’8% degli studenti delle classi popolari riesce a conseguire un titolo di laurea. In questo impegno non facile si dovrà garantire che ciascun allievo possa sviluppare in maniera completa tutte le sue capacità secondo le proprie propensioni e attitudini; in altre parole, si può dire che l’eguaglianza delle opportunità nell’istruzione non significa eguaglianza di trattamento, ma eguale possibilità di essere trattati in maniera diversa per poter realizzare le proprie potenzialità, un orientamento che avrebbe dovuto spingere il Ministro a potenziare il ruolo della formazione professionale. Un altro principio che è stato sottolineato nell’intervento programmatico più volte citato consiste nell’affermazione decisa della caratterizzazione pubblica del- l’istruzione e questo dovrebbe valere a prescindere dalla natura del soggetto che fa l’offerta formativa. Nonostante tale apprezzabile intenzione, pubblico continua in troppi casi a coincidere con statale, mentre non riceve pari attenzione il cosiddetto “terzo settore”, cioè le iniziative che, pur promosse da privati, sono finalizzate a scopi pubblici e che, pertanto, dovrebbero essere sostenute dal denaro di tutti. Inoltre, sarebbe conveniente fare ricorso al mercato libero per utilizzare anche le sue grandi risorse, certamente a condizione che siano garantite la qualità del servizio e l’eguaglianza delle opportunità. L’integrazione scolastica dei diversamente abili è certamente un settore del sistema educativo di istruzione e di formazione in cui a parere del Ministro il nostro Paese eccelle in ambito europeo. Questo non esclude che non vi siano anche delle criticità: in particolare sarà necessario potenziare le condizioni e gli strumenti, ripensando l’organico dei docenti di sostegno, la cui professionalità va pienamente valorizzata e sottratta al pericolo di essere dispersa, migliorando i criteri della loro ripartizione e rafforzando la preparazione. Un altro principio che il Ministro sottolinea è quello dell’educazione intercul- turale e lo fa con particolare riferimento ai figli dell’immigrazione che già nel 2003-04 costituiscono il 5% quasi degli iscritti alla primaria statale e che si presen- tano in continua crescita (Fioroni, 2006, 6; Sugamiele, 2006). Nel complesso l’ac- coglienza si colloca su livelli positivi, mentre ciò che preoccupa sono i ritardi e gli insuccessi di cui risentono i tassi di passaggio ai livelli scolastici e formativi suc- cessivi alla scuola di base. Una considerazione importante per l’argomento che stiamo qui trattando viene dalla valutazione favorevole che è data dei percorsi pro- fessionali, dei corsi per lavoratori studenti della secondaria superiore e dell’offerta formativa dei Centri Territoriali per l’educazione degli adulti. In ogni caso la racco- 38 mandazione principale consiste nella richiesta di potenziamento delle condizioni dell’integrazione, incominciando dall’apprendimento della lingua italiana come seconda lingua per i figli degli immigrati e per i loro genitori. Tuttavia, la madre di tutte le battaglie consiste nella lotta contro la disper- sione. Il nostro tasso di diplomati è di otto punti percentuali inferiore a quello della media europea (il 72% contro l’80%); ogni anno, il 2.5% degli iscritti abbandona la scuola media senza avere ottenuto la relativa licenza; la metà circa di quanti riescono a conseguire questo titolo, riceve appena un giudizio di sufficiente (Fio- roni, 2006, 9-10). Non è invece un problema la percentuale della transizione dalla media alle superiori che si attesta al 97% e si presenta anche in aumento per cui non appare necessario come negli anni ’70 superare con l’obbligatorietà l’oppo- sizione di porzioni significative delle famiglie a investire su una educazione più lunga dei giovani; tale argomento sembra ritorcersi contro la priorità che il Ministro ha poi attribuito alla elevazione dell’obbligo di istruzione in un contesto di riconoscimento sul piano legislativo del diritto-dovere all’istruzione e alla for- mazione per almeno 12 anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età. La vera difficoltà è invece rappresentata dal 25% circa del gruppo di età 14-18 che si è iscritto alle superiori ma che successivamente le ha lasciate senza aver conseguito il titolo. In questo caso la via maestra è quella di una politica di prevenzione e di recupero della dispersione che rifiuta la unifor- mità di trattamento – perché una scuola eguale per bambini diseguali è una scuola diseguale, come diceva Don Milani (1988) – per scegliere strategie attente alle potenzialità e ai bisogni di ognuno, e che fa suo il modello dell’apprendimento per tutta la vita per cui i risultati rimangono sempre reversibili e l’orientamento per- mette di rivedere continuamente le proprie scelte educative. Un contributo impor- tante per risolvere il problema della dispersione può venire dai percorsi sperimen- tali triennali della formazione professionale triennale in quanto sono capaci di rive- lare logiche e metodi interessanti e di segnalare strumenti innovativi di orienta- mento, di certificazione dei crediti, di definizione degli standard, di formazione congiunta degli insegnanti e dei formatori; tuttavia, nonostante questo riconosci- mento insperato delle loro potenzialità per tutto il sistema viene subito affermato in evidente contraddizione che non sono generalizzabili a tutto il territorio nazionale (Chiosso, 2007). Quanto al secondo ciclo, il Ministro anzitutto richiede un periodo più lungo di tempo per realizzare la revisione di cui ci sarebbe bisogno, tenuto conto della maggiore complessità delle questioni da affrontare e della necessità di ascoltare un numero maggiore e più articolato di soggetti interessati (insegnanti, dirigenti, genitori e studenti). In ogni caso le linee di azione sono già decise a livello gene- rale: si tratta di innalzare l’obbligo di istruzione di due anni al fine di consolidare ed elevare le conoscenze e le competenza di base di tutti e di consentire agli alunni di scegliere il loro futuro percorso con maggiore cognizione di causa; bisognerà delineare il nuovo biennio che è chiamato a rispondere a istanze diversificate quali 39 il potenziamento dei fondamenti dei saperi e delle competenze degli studenti, la verifica e la maturazione dell’orientamento di ognuno, la riduzione significativa dell’insuccesso formativo, della demotivazione degli abbandoni mediante il ricorso a strategie educative e didattiche rispondenti alle esigenze di ognuno; un altro orientamento è costituito dalla valorizzazione dell’istruzione tecnica e professio- nale che deve evitare il pericolo della licealizzazione, ha bisogno urgente di moder- nizzazione e di innovazioni, deve essere ricondotta a una visione unitaria che escluda ogni spacchettamento tra istituti tecnici e professionali, va accompagnata dallo sviluppo dei percorsi di formazione e di istruzione tecnica superiore, post- secondari senza alcuna invasione di campo degli ambiti delle Regioni, anzi cer- cando il loro contributo; gli esami di stato come anche tutto il dispositivo dei “debiti” e “crediti” vanno ripensati per assicurare il valore formativo delle prove, la rilevanza dell’impegno nello studio e il valore del merito individuale. Passando dalla enunciazione all’attuazione delle linee di politica scolastica e formativa del Ministro Fioroni, incomincio con l’analisi del regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione, cioè del decreto 22 agosto 2007, n. 139 (CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007; Nicoli, 2007; Cola- santo, 2006b; Sugamiele, 2007a; Tonini, 2006a; Moscato 2007b; Il «nuovo bien- nio» 2, 2007). Dal punto di vista giuridico, va subito precisato che tale obbligo non costituisce un ordinamento in quanto rappresenta sì un passaggio necessario nella carriera formativa di un ragazzo, ma non possiede una natura terminale perché rientra nell’ambito del diritto-dovere di istruzione e di formazione e pertanto non è una fase di un percorso che si conclude con il conseguimento di un titolo di studio. Inoltre, esso non deve essere confuso con l’obbligo scolastico perché può essere adempiuto anche frequentando istituzioni formative e percorsi di istruzione e for- mazione professionale. È un biennio, ma fortunatamente non è unico e quindi non uniforme e scolastico perché “i saperi e le competenze di cui al comma 1 assicu- rano l’equivalenza formativa di tutti i percorsi, nel rispetto dell’identità dell’offerta formativa e degli obiettivi che caratterizzano i curricoli dei diversi ordini, tipi e indirizzi di studio” (art. 2, comma 2, DM n. 139/07). Più semplicemente esso si può definire come “un’articolazione didattica del diritto-dovere di istruzione e forma- zione che giunge fino ai 18 anni o comunque fino al conseguimento di una quali- fica professionale” (CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007, 8). Il dispositivo italiano dell’obbligo di istruzione è stato elaborato avendo sullo sfondo le competenze chiavi per l’apprendimento permanente predisposte in seno all’UE (Commissione delle Comunità Europee, 2005; CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007; Moscato, 2007a). Il confronto degli assi culturali acclusi al DM n. 139/07 con il documento citato mette in risalto come questa scelta di collocarci nel quadro degli orientamenti europei, pur molto apprezzabile, trova poi dei limiti non mar- ginali nella realizzazione pratica. Un primo dato viene dal confronto delle relative articolazioni: le competenze chiave per l’apprendimento permanente dell’UE com- prendono la comunicazione nella madrelingua, la comunicazione nelle lingue stra- 40 niere, la competenza matematica e le competenze di base in scienza e tecnologia, la competenza digitale, imparare a imparare, le competenze interpersonali, inter- culturali e sociali e la competenza civica, imprenditorialità, espressione culturale; le competenze che rientrano nel nostro obbligo di istruzione sono ripartite in due gruppi, le competenze di base degli assi culturali (dei linguaggi, matematico, scien- tifico-tecnologico, storico-sociale) e le competenze chiave di cittadinanza (impa- rare ad imparare, progettare, comunicare, collaborare e partecipare, agire in modo autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collegamenti e relazioni, acquisire e interpretare l’informazione). Inoltre e più seriamente l’impostazione ita- liana tende ad attribuire eccessiva rilevanza alla dimensione disciplinare, introduce una pericolosa dicotomia tra conoscenze e competenze e stabilisce una gerarchia tra base e cittadinanza mentre il documento dell’UE correttamente non prevede nessuna classificazione. Si è già visto sopra che l’obbligo dell’istruzione non è un ordinamento; se si vuole meglio precisare la sua natura in positivo, si può dire che la sua caratteriz- zazione va ricercata nella dimensione educativo-didattica e più in particolare nel- l’elenco dei saperi e delle competenze, distribuiti in conoscenze ed abilità, e fun- zionali a garantire l’equivalenza formativa tra tutti i percorsi del biennio (CNOS- FAP Sede Nazionale, 2007). Questa finalizzazione e il principio che la sottende sono senz’altro lodevoli e innovativi perché permettono di stabilire orientamenti comuni tra i curricoli dei diversi ordini, tipi e indirizzi di studio, anche se ignorano volutamente e in modo ingiustificato quanto già disciplinato dalla legge di Riforma Moratti in tema di secondo ciclo, del profilo educativo, culturale e professionale, delle indicazioni nazionali, dei livelli essenziali delle prestazioni dei percorsi di istruzione e formazione professionale. Pertanto, si spiegano le ragioni per cui nel dispositivo in questione il riferimento a un quadro di mete generali di natura educa- tiva e sociale sia alquanto carente (Pellerey, 2007). Una conseguenza positiva della caratterizzazione educativo-didattica dell’obbligo di istruzione riguarda le istitu- zioni formative previste dalla legge n. 53/03 che non sono toccate da modifiche tranne l’esigenza di ripensare le finalità del biennio in modo da comprendere anche le indicazioni elencate sopra. Sul lato negativo va osservato che il regolamento si presenta poco vincolante per le scuole soprattutto per quanto riguarda la certifi- cazione. Sul piano contenutistico e didattico, va anzitutto osservato che le quattro aree di competenze di cittadinanza da acquisire non sono sufficienti perché andrebbe aggiunta un’area spirituale e morale dato che a norma dell’art. 2, 1,b) della riforma Moratti la formazione spirituale e morale costituisce una dimensione essenziale del curricolo; inoltre, le conoscenze e competenze che sono elencate nell’asse storico- sociale risultano quasi esclusivamente di natura economica e giuridica e vengono trascurate non solo quelle di carattere spirituale e morale, ma anche quelle attinenti la competenza civica (CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007). Inoltre, non si possono non segnalare altri limiti quali: la mancanza di un criterio interpretativo generale 41 che riaffermi l’esigenza di facilitare l’inclusione di tutti i ragazzi di età inferiore ai sedici anni nei processi formativi delle istituzioni scolastiche e formative; la scarsa precisione delle finalità del biennio dei percorsi di istruzione e formazione profes- sionale in paragone a quelle del triennio; le problematiche sul piano pratico-opera- tivo che i docenti possono incontrare nella interpretazione dei documenti; il livello troppo elevato di alcune finalità; una carenza di formalismo nelle competenze matematiche e la assenza di collegamenti tra l’asse matematico e gli altri; l’esi- genza di laboratori scientifico-tecnologico che è problematico trovare nelle scuole (Pellerey, 2007). L’impostazione del dispositivo si diversifica in modo notevole rispetto a quella delle indicazioni nazionali del primo ciclo per cui si vengono a determinare problemi di discontinuità tra i due cicli. Pertanto, è molto apprezzabile che il modello proposto non sia stato messo subito a regime, ma sia stato previsto un periodo sperimentale a partire dal 2007-08. L’ultimo punto della disamina delle innovazioni introdotte dal Ministro Fio- roni che riguardano più direttamente l’argomento del nostro rapporto è costituito dalla revisione del secondo ciclo (CNOS-FAP, 2007; legge n. 40/07; Colasanto, 2007b; Sugamiele, 2007b; Tonini, 2007; Bordignon, 2007). Anzitutto, è sparito dall’articolazione interna il riferimento al sistema dei licei e, pertanto, il secondo ciclo è composto dal sistema dell’istruzione secondaria superiore e dal sistema del- l’istruzione e formazione professionale. Più in particolare nel sistema dell’istru- zione secondaria superiore sono stati ricollocati gli istituti tecnici e professionali, mentre si è proceduto all’abrogazione della normativa che aveva introdotto il liceo tecnologico ed economico: dato il carattere professionalizzante dei primi, questo comporta necessariamente un’ulteriore emarginazione della formazione profes- sionale. È vero che il titolo che potranno conferire di norma è il diploma di istru- zione secondaria superiore; però, in via sussidiaria e su domanda delle Regioni essi potranno rilasciare anche qualifiche professionali. In positivo è stato stabilito che sono attribuiti alla competenza delle Regioni le qualifiche e i diplomi profes- sionali, inclusi in uno specifico repertorio nazionale. Certamente, risulta anche apprezzabile la normativa che consente di creare sul piano provinciale o sub-pro- vinciale poli tecnico-professionali che possono includere istituti tecnici e profes- sionali, istituti formativi accreditati e strutture della formazione tecnica superiore: infatti, tale dispositivo implica una razionalizzazione di una offerta frammentata e le realizza rispettando la pari dignità delle strutture coinvolte. Quanto alla revi- sione degli esami di stato, se sono positive le misure per premiare gli studenti, per sostenere l’orientamento alla scelta, per assicurare una maggiore serietà, non appare equo che i commissari esterni siano solo docenti statali e che l’onere per i commissari interni delle scuole paritarie non sia a carico dello Stato (Ronchi, 2007; Scagliotti, 2007). Quanto al post secondo ciclo, appare lodevole la ristrutturazione dell’istru- zione e della formazione tecnica superiore (IFTS) in quanto si è ovviato alla situa- zione di precarietà in cui si trovava riconoscendole una collocazione stabile nell’or- 42 dinamento nazionale dell’istruzione. Inoltre, “Nella costituzione dei poli sono pre- viste strutture consortili costituite da diverse componenti: istituti tecnici e profes- sionali, strutture della formazione professionale accreditate, università, istituzioni tecnico superiori, fondazioni ed altri soggetti, quali gli enti locali, che intendono concorrere a un’offerta formativa tecnico-professionale ad alta specializzazione, collegata e a sostegno dello sviluppo economico e produttivo di un territorio” (CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007, 4). Nell’ambito del 2° ciclo e del post 2° ciclo, le Regioni non hanno mancato di fare sentire la propria voce. A loro parere le relazioni tra istruzione tecnica e pro- fessionale dovrebbero essere precisate in maniera più chiara; bisognerebbe inoltre evitare ogni sovrapposizione tra IFTS e ITS; le competenze dei vari Ministeri in materia non appaiono ben determinate per cui sarebbe necessario provvedere a una migliore definizione. Parte II L’INDAGINE SUL CAMPO 45 Capitolo 2 Il disegno di analisi della indagine nel quadro delle ricerche sul CNOS-FAP e il CIOFS/FP Guglielmo MALIZIA - Vittorio PIERONI Prima di delineare e argomentare il disegno di analisi della presente investiga- zione, abbiamo ritenuto opportuno richiamare i risultati più significativi di due pre- cedenti ricerche condotte sui percorsi del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP. Infatti, esse permettono di completare il quadro di riferimento in cui si colloca questa indagine, aggiungendo la descrizione della situazione degli allievi dei due Enti di formazione all’analisi delle premesse teoriche sul rapporto tra istru- zione, formazione ed economia, all’esame dell’andamento della transizione dei giovani dal sistema educativo al mondo del lavoro in Italia e allo studio della ri- forma in corso relativamente a questi ambiti, tre argomenti che sono stati affrontati nel capitolo precedente. A sua volta la seconda parte di questa sezione del rapporto introduce al progetto, alla metodologia e al piano di campionatura della indagine. 1. GLI ALLIEVI DEI PERCORSI DEL DIRITTO-DOVERE DEI CFP DEL CNOS-FAP E DEL CIOFS/FP Tra le molte ricerche che l’istituto di sociologia dell’università salesiana ha condotto sui percorsi del diritto-dovere (Malizia e Pieroni, 2006a e b) ne abbiamo scelte due perché sono sembrate le più direttamente rilevanti per il tema della inve- stigazione in esame. Il richiamo della prima era scontato in quanto essa si propone sostanzialmente gli stessi obiettivi dell’indagine che stiamo presentando in questo rapporto; a sua volta, la seconda consente di delineare l’identikit e gli stili di vita dei giovani che frequentano la FP salesiana. 1.1. Il rapporto sul follow-up alla formazione professionale iniziale Attraverso questa indagine le Sedi Nazionali dei due Enti di FP, CNOS-FAP e CIOFS/FP, si proponevano di raggiungere i seguenti obiettivi: a) verificare l’esito finale degli allievi della sperimentazione della FPI nella transizione al mondo del lavoro o ad altro tipo di istruzione/formazione sulla base dei seguenti parametri: 46 – “quanti” hanno portato a termine i due anni di corso e “quanti” invece non vi sono riusciti e per quali ragioni; – “quanti” alla conclusione della FPI hanno trovato un’occupazione e “quanti” invece sono inoccupati o disoccupati e per quali motivi; – “quanti” alla fine della sperimentazione hanno proseguito la loro istru- zione/formazione e secondo quale “percorso”; – il “tempo” trascorso tra l’uscita dal CFP ed il reperimento del lavoro; – “come” è stato trovato il lavoro e la “corrispondenza” o meno tra la quali- fica ottenuta e la professione svolta; – il livello di “soddisfazione” per il corso frequentato e proposte di migliora- menti da apportare; b) tenendo conto dei risultati della verifica, individuare eventuali ulteriori bisogni formativi dei giovani intervistati al fine di un perfezionamento della loro pro- fessionalità; c) contribuire a valutare il successo della FPI erogata sulla base dell’analisi degli esiti degli allievi; d) avanzare proposte per potenziare il programma sperimentale di FPI dal punto di vista dell’inserimento e dell’accompagnamento al mercato del lavoro (Malizia e Pieroni, 2003). Il progetto d’indagine prevedeva di coinvolgere, a campione, tutti coloro che, avendo frequentato la prima sperimentazione della FPI (2000-01/2001-02), erano andati incontro a differenti esiti. E proprio per rappresentare le diverse categorie di ex-allievi, il piano di campionatura era stato elaborato in modo da raggiungerne due distinti gruppi: – il campione “A”, in rappresentanza di tutti quelli che avevano portato a termine il biennio nel 2002, indipendentemente dall’aver ottenuto o meno la qualifica o di essersi aggiunti a corso avviato; – il campione “B”, in rappresentanza di coloro che si erano ritirati durante il biennio, per qualsiasi ragione. L’intenzione di procedere a una valutazione complessiva della sperimentazione e di trarre al tempo stesso utili indicazioni dai risultati ha portato a ricomporre il quadro d’insieme dei dati attorno essenzialmente ai tre piloni portanti dell’in- chiesta: la condizione dei soggetti al momento del rilevamento, la qualità della for- mazione erogata e l’inserimento nel sistema produttivo. 1.1.1. La situazione dei soggetti intervistati al momento del rilevamento Dei 492 ex-allievi del campione “A” che avevano portato a termine i due anni della sperimentazione: – avevano ottenuto la qualifica in 437, pari all’88.8% del totale, mentre ammon- tavano a 55 (11.2%) quelli che non avevano ottenuto tale titolo o non hanno risposto. Quest’ultimo dato non è del tutto soddisfacente e richiede un impegno 47 ulteriore per potenziare le strategie della pedagogia del successo formativo nella FPI; tuttavia, esso è senz’altro migliore di quello riscontrato nel 2001-02 relativamente al secondo anno degli istituti professionali con il 20% di non am- messi agli scrutini o degli istituti tecnici con il 13.1% (Sugamiele, 2003, 238); – inoltre, sempre di questo gruppo 159 (32.3%) al momento dell’inchiesta erano già inseriti nel sistema produttivo e tra essi il numero dei lavoratori in pos- sesso della qualifica riguardava 131, cioè la più gran parte (82.4%); 193 (il 39.2%) avevano ripreso a studiare; e altri 140 (il 28.5%) erano rimasti disoc- cupati o erano ancora inoccupati. A loro volta tra i 110 ex-allievi del campione “B” che si erano ritirati: – 52 (il 47.3% di questo gruppo) avevano trovato lavoro; – 15 (il 13.6%) avevano ripreso a studiare; – 43 (il 39.1%) erano rimasti disoccupati o erano ancora inoccupati. 1.1.2. Valutazione favorevole della sperimentazione della FPI Il lato veramente positivo emerso dalle fila di coloro che hanno portato a termine la sperimentazione viene dai dati relativi alla valutazione del corso, da cui sono usciti rimanendo quasi all’unanimità soddisfatti, indipendentemente dal fatto poi di aver trovato o meno un’occupazione o di aver continuato la loro formazione. Tra coloro che si sono ritirati, solo 38 pari al 34.5% motivano l’abbandono perché insoddisfatti del corso e per contrasti con il CFP. Tale dato porta di conse- guenza a ritenere che nella maggior parte dei casi la gestione della sperimentazione non può essere messa in discussione per l’insuccesso di quanti hanno abbandonato. Questo tuttavia non esime dall’accogliere critiche e proposte di miglioramento. In particolare sono stati suggeriti alcuni “piccoli ritocchi” nell’organizzazione della sperimentazione, riferiti particolarmente all’introduzione dell’informatica e dell’in- glese a livello elevato e alla progettazione di un terzo anno, finalizzato al consegui- mento di una specializzazione. Riguardo poi all’orientamento sono emersi dati con- trastanti: sul lato positivo si può citare la coerenza almeno parziale tra la qualifica ottenuta e l’occupazione che viene indicata dal 70% degli ex-allievi che hanno trovato un lavoro dopo aver terminato il biennio della sperimentazione; sul lato negativo vanno ricordate le scarse segnalazioni favorevoli che esplicitamente l’orientamento riceve dagli intervistati, chiamati a specificare gli aspetti validi della sperimentazione in vista del lavoro. Forse è possibile concludere su questo aspetto, raccomandando una più accurata messa a punto dell’orientamento in quanto tra l’altro potrebbe avere una ricaduta positiva su quella quota non indifferente di popolazione giovanile cosiddetta “a futuro cieco” che, indipendentemente dallo stato occupazionale o meno, manca di progettualità nel realizzare il bisogno di (ri)qualificare la propria professionalità. È anche positivo che il 40% circa di chi ha concluso la sperimentazione abbia deciso di proseguire gli studi per ottenere un titolo superiore, una specializzazione e/o un approfondimento delle proprie competenze. In questo caso la sperimenta- 48 zione è servita in ogni modo ad innescare il desiderio di traguardi più ambiziosi sia in termini formativi che professionali. E comunque il bisogno di ulteriore formazione è scaturito anche dalle fila di un certo numero di lavoratori, grazie proprio all’esperienza in atto, e perfino da un terzo degli inoccupati/disoccupati i quali però, diversamente dagli altri, si caratte- rizzano per la presenza di alcune condizioni di svantaggio (in particolare la man- canza di altre opportunità formative nelle Regioni del sud) nonostante la dichiarata volontà di riprendere gli studi. La concentrazione delle condizioni problematiche soprattutto nel Mezzo- giorno, oltre a denunciare le responsabilità politiche, sociali ed economiche a livello di governo, di Enti locali e di imprese, induce a riflettere su una più attenta selezione dei corsi durante la fase di programmazione, da attivare al seguito di un più accurato studio del mercato del lavoro locale e/o in piena sintonia con lo stesso. Il mancato aggancio tra i due sistemi è consistito infatti, nel formarsi di una catena intrecciata di variabili riferite a segmenti deboli del sistema, in merito soprattutto allo stato di inoccupazione/disoccupazione (femmine+terziario+età avanzata). In proposito bisogna tenere presente anche la mancata corrispondenza tra la forma- zione/qualifica conseguita ed il lavoro svolto che riguarda nella sua forma estrema di assoluta incoerenza il 30% circa di coloro che hanno terminato la sperimenta- zione e lavorano, con particolare riferimento al terziario. 1.1.3. Luci ed ombre della transizione al mondo del lavoro Se si attribuisce alle modalità di assunzione/contrattazione un fattore di “rico- noscimento” da parte del sistema produttivo del valore della sperimentazione e/o della qualifica conseguita (e, quindi, del “prodotto” scaturito dal sistema forma- tivo), in realtà i dati del monitoraggio spingono a parlare di un certo “atteggia- mento predatorio” delle imprese piuttosto che di “rispetto” verso la risorsa-uomo messa a disposizione del mercato del lavoro attraverso l’intervento sperimentale. Tale valutazione deriva dal constatare che un terzo circa dei lavoratori non è stato regolarmente assunto. Sul lato positivo va sottolineato che la soddisfazione per il lavoro da parte degli occupati che hanno terminato il corso di FPI si situa tra molto e abbastanza. Inoltre, più del 70% degli ex-allievi di questo gruppo sono entrati nel sistema pro- duttivo entro tre mesi dal termine della sperimentazione. Da ultimo, dai due terzi degli occupati che hanno terminato il corso di FPI viene sottolineata la funzionalità delle competenze professionali apprese nella FPI per l’esercizio della varie man- sioni e da un terzo quella dello stage. In conclusione, a nostro giudizio, – la presente ricerca-azione ha confermato la sostanziale validità della proposta sperimentale di FPI del CNOS-FAP e del CIOFS/FP anche nel momento della transizione degli allievi al mercato del lavoro o a un altro tipo di istruzione o di formazione; 49 – al tempo stesso ha indicato tre aree in cui si dovrebbe realizzare un potenzia- mento di tale progetto: 1) le strategie della pedagogia del successo formativo; 2) la programmazione dei corsi più rispondente alla domanda del territorio; 3) una maggiore offerta di orientamento/accompagnamento. 1.2. Gli stili di vita degli allievi dei percorsi formativi del diritto-dovere L’obiettivo di questa seconda indagine riguardava l’esigenza di documentare su scala nazionale la ricaduta sulla maturazione degli allievi dei percorsi speri- mentali triennali del diritto-dovere offerti dai Centri di Formazione Professionale che fanno capo agli Enti di ispirazione cristiana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP (Malizia, Becciu, Colasanti, Mion e Pieroni, 2007). Più in particolare, si è inteso verificare, rispetto alla tipologia di utenti, sia la scolarità precedente e l’attuale con- dizione nella FP iniziale, sia le prospettive di prosecuzione nel sistema educativo di istruzione e di formazione o di inserimento nel mondo produttivo. A tale proposito, particolare attenzione è stata data alla capacità di questi corsi di rimotivare coloro che presentavano, nell’esperienza pregressa degli studi, incidenti di percorso e/o particolari situazioni di “debolezza”. Un ulteriore obiettivo è stato quello di analiz- zare il sistema valoriale di questi giovani, al fine di verificarne la maturazione in termini di sviluppo pieno della personalità e di formazione ad una cittadinanza attiva e responsabile, come è negli Statuti dei due Enti di ispirazione cristiana. 1.2.1. Caratteristiche dei giovani dell’inchiesta Prima di riportare sinteticamente i risultati emersi dall’indagine occorre tut- tavia precisare chi sono i 1.130 allievi dei percorsi del diritto-dovere che fanno parte del campione scelto tra gli oltre 3.000 che hanno partecipato all’indagine rispondendo al questionario. La distribuzione dell’utenza per Enti di appartenenza presenta un rapporto di 70 a 30 tra CNOS-FAP e CIOFS/FP (rispettivamente 69.2% e 30.8%). Dai dati disaggregati emergono inoltre alcune caratteristiche peculiari a ciascun gruppo: a) l’utenza del CNOS-FAP è costituita da oltre i due terzi degli allievi coinvolti nell’indagine (782 = 69.2%); al loro interno i maschi risultano ovviamente una netta maggioranza (669, pari all’87% del totale maschi e all’85.5% dell’utenza CNOS-FAP); analizzando l’età degli intervistati, circa la metà (386= 49.4%) si trova nella fascia intermedia (16-17), 273 (34.9%) in quella inferiore (13-15 anni), mentre i rimanenti 123 (15.7%) hanno raggiunto la maggiore età; infine se suddivisi per fasce geografiche, i due terzi si collocano nelle Regioni del nord (498 = 63.7%); b) dal canto loro, gli allievi del CIOFS/FP costituiscono meno di un terzo del to- tale (348 = 30.8%) e al loro interno il rapporto femmine-maschi è di 71 a 29%, rispettivamente; anche in questo caso circa la metà si colloca nella fascia inter- media (16-17 anni, 166 = 47.7%) e all’incirca nella medesima percentuale si caratterizza per la provenienza dalle Regioni meridionali (147 = 48%). 50 c) Se presi nell’insieme, l’età media degli inchiestati si colloca attorno ai 16-17 anni (48.8%), con l’aggiunta di due gruppi minoritari che si situano uno al di sopra (18.1%) e l’altro al di sotto (33%). Il dato significa che il campione è composto per lo più da soggetti prossimi all’entrata nella maggiore età, e di conseguenza che si dovrebbero caratterizzare per lo stile di vita adottato, e per le scelte impegnative con cui stanno ormai per confrontarsi (di studio, di lavoro, di relazioni affettive...). d) L’andamento d’insieme dei dati sembra attestare la provenienza da famiglie certamente di livello medio-basso o basso almeno sul piano culturale e questo fa pensare che anche la professionalità, la condizione economica e la classe sociale di appartenenza degli allievi della FP non possano essere poste sullo stesso piano di quelle dei coetanei che frequentano i licei e gli istituti tecnico- professionali. In riferimento a questi ultimi, infatti, le indagini riportano per- centuali più numerose di genitori che hanno conseguito il diploma, o comun- que un titolo di studio superiore all’obbligo, e la laurea. e) In conformità al classico stereotipo dell’allievo/a della FP, la pregressa espe- rienza scolastica risulta caratterizzata, in almeno metà dei casi, da insuccessi e/o da una condizione di “debolezza”. Una tale situazione, in parte, può essere attribuita sia ad un’estrazione familiare già di per sé di livello culturale basso, con genitori che hanno appena raggiunto (e non sempre) il livello dell’obbligo, sia, come sovente accade, a scelte sbagliate/inadeguate, figlie, il più delle volte, di attività di “disorientamento” piuttosto che di orientamento agli studi superiori. f) Al tempo stesso l’andamento dei dati attesta, in riferimento alla superiorità quantitativa del I anno rispetto agli altri e alla differenza in positivo di quasi 10 punti percentuali tra gli allievi del II e del III, di un sempre crescente consenso che la FP iniziale triennale sta conquistando tra le famiglie e tra gli stessi gio- vani e l’andamento offre motivi validi per credere in un consolidamento della nuova offerta, a meno che ragioni ideologiche non prevalgano su quelle peda- gogiche e spingano il Governo nazionale e le Amministrazioni locali a inter- romperne lo sviluppo. 1.2.2. La personalità sullo sfondo dello scenario esistenziale e valoriale Agli allievi è stato chiesto di descrivere i tratti della loro personalità, sce- gliendo tra una serie di 17 caratteristiche tra loro contrapposte. I risultati della do- manda possono essere sintetizzati nei punti seguenti: a) vengono segnalate maggiormente le caratteristiche che fanno capo al sistema di autoefficacia, ossia circa l’80% degli intervistati si considera una persona attiva (79.6%), responsabile (78.7%) e motivata (76.7%); b) seguono, attorno al 70%, altri tratti di personalità che invece fanno riferimento al sistema di autostima: persona che ha stima di sé (75.3%), realizzata (73.8%), con molti ideali (71.3%) e capace di accettare chi è diverso da sé (71.2%); 51 c) a completamento di queste due dimensioni vengono, segnalati nel 50-70% dei casi, attributi di persona gioiosa (75.7%), altruista (67.4%), ottimista (66.8%), sicura (65.2%), autonoma (64.5%), non violenta (61.2%). In aggiunta, ai giovani è stata rivolta la richiesta di posizionarsi in rapporto al proprio vissuto religioso. Circa tre giovani su quattro dichiarano di essere “credenti” ma non tutti sono in eguale misura “praticanti”: questi ultimi assom- mano a un quarto del campione (25%), mentre la quota maggioritaria, composta da quasi la metà degli intervistati, pur dichiarandosi credente, afferma di non praticare la religione (48%). Il rimanente 27% riguarda minoranze che affermano di essere o indifferenti verso la religione (9.6%) o niente affatto credenti (8%), oppure in fase di ricerca di una fede religiosa (6.3%). Scendendo tra i dati disaggregati, si riscontra che a distinguersi per una pratica coerente con le proprie credenze sono soprattutto le femmine, la fascia dei più giovani ed i residenti nelle Regioni del sud. Inoltre a dichiararsi non credenti o in- differenti verso la religione sono soprattutto i maschi, il gruppo di età più avanzata, chi presenta un percorso scolastico-formativo problematico e chi frequenta altri corsi rispetto ai triennali tutti nella FP. Fa seguito una domanda mirata a verificare la presenza di sensazioni negative o di “momenti neri” che questi giovani potrebbero aver sperimentato. Trattandosi di un campione con un’età nel pieno della “turbolenza” della crescita evolutiva e appartenente per di più a strati sociali per diversi aspetti svantaggiati (dal punto di vista professionale, culturale, economico, socio-relazionale...), si poteva ipotizzare che l’insieme di tutti questi elementi avrebbe potuto esercitare un peso negativo non indifferente sul loro sistema di significato esistenziale. La media generale dei dati attesta che le varie percezioni elencate nella domanda sono state avvertite al massimo tra “qualche volta” e “mai”, a seconda dei casi: – la “voglia di farla finita” è la sensazione che una netta maggioranza ha ammesso di non aver avuto mai (61.6%; M = 2.50); così pure sensazioni poco o per niente avvertite sono quelle di “sentirsi un fallito” (M = 2.45), di “non essere amati” (M = 2.42) o di sentirsi soli, “senza nessuno vicino” (M = 2.33); – ciò che invece la metà circa degli allievi ha effettivamente provato “qualche volta” è la percezione di non avere di fronte a sé un futuro roseo/promettente (M = 2.21), di dubitare delle proprie capacità (M = 2.22), di non avere fiducia in nessuno (M = 2.29) e di essere incapaci a prendere una decisione (M = 2.31). Vengono a manifestarsi in questo modo fattori predittivi di disagio/rischio che, per effetto cumulativo e talora moltiplicativo, vanno a colpire quella parte del cam- pione già provata da altri svantaggi, quali l’estrazione da famiglie meno abbienti, le difficoltà incontrate lungo il percorso scolastico e quelle che continuano a sperimentare, anche adesso, l’assenza di quel sostegno che può venire da una fede religiosa. E comunque si tratta pur sempre di minoranze. Scendendo ancor più nei particolari si nota che la componente femminile appare leggermente più esposta dei 52 maschi a queste percezioni, probabilmente a motivo della maggiore sensibilità di cui è dotata; a ciò si unisce anche il fatto di essere nel pieno della crescita evolutiva (16-17 anni), quando l’esposizione alle “intemperie” ed ai problemi si fa sempre più frequente e forte, soprattutto a motivo della necessità di affrontare scelte deci- sive o comunque impegnative. Con un’ultima serie di domande si è cercato di penetrare nel mondo segreto della condizione giovanile per verificare se e fino a che punto si cede alla ten- tazione della trasgressività, una prova del fuoco a cui tutti vanno soggetti, seppure in diversa misura, in questo stadio del processo evolutivo. Passando ad analizzare nei particolari l’andamento dei punteggi della media, si riscontra che: a) le trasgressioni che circa uno su cinque degli allievi ha riconosciuto di aver commesso limitatamente a “qualche occasione” risultano essenzialmente di tre tipi: – aver fumato uno spinello (M = 1.60); – aver avuto rapporti sessuali non protetti (M = 1.50); – aver messo in pericolo la propria vita (M = 1.51); – pochissimi invece hanno riconosciuto di aver messo in pericolo anche la vita degli altri (M = 1.21), di aver guidato sotto l’effetto dell’alcol (M = 1.30) o di altri stupefacenti (M = 1.23); b) dopo lo spinello e il sesso, un numero ancor più ridotto del campione (tra il 10 e il 15%) ha segnalato di: – aver commesso azioni violente, facendo a botte con i compagni di scuola (M = 1.43) o partecipando a risse con bande di ultras (M = 1.34); – essere andato in giro armato di coltello (M = 1.32); – aver compiuto atti di vandalismo, danneggiando proprietà pubbliche o pri- vate (M = 1.41); – mentre risultano ancor meno coloro che hanno rubato nei negozi (M = 1.27); c) infine quasi tutti negano di aver: – subito (M = 1.10) o compiuto violenze sessuali (M = 1.14); – preso droghe pesanti (M = 1.20) o spacciato droga (M = 1.19); – sofferto di problemi di anoressia o di bulimia (M = 1.11). In merito a questa serie di dati occorre compiere alcune distinzioni. Tra coloro che in qualche misura hanno segnalato delle trasgressività si mettono in evidenza i maschi, le fasce più alte d’età, chi ha un patrimonio valoriale carente, a partire dalla dimensione religiosa, e soprattutto chi si presenta in una condizione di “debo- lezza” nell’intero percorso formativo, attuale e pregresso; va aggiunto che il feno- meno riguarda proporzionalmente di più gli allievi che frequentano altri tipi di corsi rispetto a quelli triennali tutti nella FP. Nei confronti di questo gruppo, che potremmo definire dello “svantaggio”, le tra- sgressività costituiscono indubbiamente un sintomo di disagio interno, “comunicato” 53 poi esternando azioni riprovevoli; azioni che a loro volta diventano veicoli “predit- tivi” di un possibile scivolamento in una condizione di rischio. Tuttavia si tratta pur sempre di una ristretta minoranza, mentre in realtà la maggior parte dei soggetti dimostra di possedere un adeguato bagaglio di fattori “protettivi”. Quest’ultimo gruppo è composto dalle ragazze, dagli intervistati più giovani, dai credenti e pra- ticanti, da chi non accusa particolari difficoltà nel percorso che sta frequentando. 1.2.3. Bisogni, disagi e strategie di fronteggiamento L’ultima parte del questionario si componeva di una serie di domande aperte costituite da una frase interrotta che doveva essere completata da ciascun inter- vistato, aggiungendo spontaneamente o di primo impulso, ciò da cui si era sentito stimolato attraverso l’input iniziale: – “Io mi sento molto a disagio quando...” (le fonti di disagio); – “Io sento fortemente il bisogno di...” (i bisogni); – “Quando ogni cosa sembra essere contro di me, io...” (le strategie di fronteg- giamento dell’ostacolo/problema); – “Io mi sentirò pienamente realizzato quando...” (la progettualità, gli obiettivi da realizzare nella vita). 1.2.3.1. Le fonti di disagio Dai dati raccolti, ciò che è causa di difficoltà in questi giovani va considerato essenzialmente in rapporto a tre categorie. Tra queste il disagio personale e inte- riore appare decisamente assai più avvertito (78.2%); seguono, in misura piuttosto ridotta quello di natura relazionale (10.9%) ed esistenziale (4.3%). Queste tre categorie di massima tuttavia rispecchiano solo un quadro sintetico entro cui sono state racchiuse le fonti di disagio, mentre in realtà quelle espresse in prima persona dagli intervistati rientrano in uno scenario assai più vasto: a) il disagio personale/interiore scaturisce da una variegata gamma di situazioni che, data l’età, fanno capo ad una imperfetta o incompleta crescita del sé, del livello di autostima e di autoefficacia; in tutti questi casi si fa riferimento al senso di inferiorità per non sentirsi all’altezza della situazione, al senso di timi- dezza o all’imbarazzo derivante dall’aver sbagliato, dall’aver fatto brutta figura, dall’essere fissato negli occhi, dal ricevere complimenti, dal parlare in pubblico, oppure dal fatto di non essere presi in considerazione, sentirsi esclusi, non capiti, non stimati per quello che si è; b) il disagio relazionale ha origine invece dai contatti con l’ambiente circostante, sia per il presentarsi di situazioni-problema (come il sentirsi presi in giro, sgridati, incolpati, giudicati...), sia per trovarsi a contatto diretto con persone e/o con ambienti sconosciuti (avere a che fare con stranieri, dover affrontare situazioni nuove...); c) infine il disagio è stato definito di ordine esistenziale quando non si sta bene con se stessi o quando si sta psicologicamente male dal non sapere a chi chiedere 54 aiuto, motivo per cui ci si sente soli, senza affetti; tale disagio viene provato anche quando non si sa cosa si vuole dalla vita, né quali progetti realizzare; d) una quota non indifferente del campione tuttavia ha dichiarato di non aver mai provato alcuna forma di disagio (15.1%). Dai dati disaggregati si evince una netta spaccatura degli intervistati tra chi avverte maggiormente disagi di ordine personale e interiore rispetto a chi perce- pisce soprattutto quelli relazionali ed esistenziali: nel primo caso si distinguono gli allievi più giovani, i maschi, gli iscritti al CNOS-FAP, chi incontra difficoltà nel percorso formativo ed è disposto a cambiare. Le dimensioni opposte emergono invece in rapporto alle altre due fonti di disagio, provate in forma percentualmente superiore dalla componente femminile e dall’utenza del CIOFS/FP; queste ultime due variabili, unitamente all’età più elevata, distinguono inoltre chi non ha mai provato particolari forme di disagio. 1.2.3.2. I bisogni Lo scenario su cui si stagliano i bisogni che gli intervistati hanno dichiarato di avere è occupato quasi tutto dagli affetti (77.5%). Seguono, a completamento della rimanente quota, le esigenze di ordine psicologico/esistenziale (10.6%) ed infine quelle di ordine prettamente materialistico-evasivo (3.1%). A loro volta le tre categorie di bisogni sono così suddivise: a) quelli di ordine affettivo vanno soprattutto in due direzioni: verso la famiglia, nel senso di avere e specialmente di sentire vicino a sé i genitori e di allacciare con loro un diverso rapporto; e ovviamente anche verso quella che essi consi- derano la nuova famiglia, ossia il mondo delle amicizie (poter avere amici veri...) al cui interno, contestualmente, incontrare l’amore con la “A” maiu- scola (trovare un ragazzo/a, innamorarsi, riprendere una relazione con un ex, avere una persona che ama, che vuole bene...); b) i bisogni di ordine psicologico/esistenziale sono assai più numerosi ma al tempo stesso anche più frammentati: essi vanno dall’esigenza di cambiare il proprio comportamento, a quella di autorealizzazione (realizzare i propri sogni, diventare ricchi, famosi, studiare, avere un lavoro sentirsi professional- mente realizzati, andare a vivere da soli, farsi una propria famiglia...), a quella valoriale (sentirsi utili agli altri, credere in se stessi, essere stimati, rispettati, avere una fede religiosa...); c) infine i bisogni di ordine materialistico-evasivo, seppure espressi da una netta minoranza, prendono in considerazione fattori fisiologici (mangiare, dormire, riposare...), consumistici (avere un nuovo cellulare, il motorino...) ed evasivi (divertirsi, giocare, andare in vacanza, viaggiare...). I dati disaggregati presentano ancora gruppi caratterizzati da certi bisogni piut- tosto che da altri: può sembrare strano, ma le esigenze di ordine affettivo sono state espresse, oltre che dalla fascia dei più giovani, da una maggioranza di maschi e del CNOS-FAP, e soltanto da poco più della metà delle femmine; queste ultime, as- 55 sieme all’età più alta, si distinguono invece per manifestare maggiormente bisogni di carattere psicologico/esistenziale. 1.2.3.3. Atteggiamenti da assumere di fronte ad un ostacolo/problema A questo riguardo si osserva che, nel prendere in considerazione l’input costi- tuito dalla frase iniziale, il dato di maggior spicco sta nel constatare che oltre la metà del campione non ha saputo o non ha voluto rispondere (52.2%). In questo si evidenziano i maschi e quindi gli allievi del CNOS-FAP, chi ha un’età più elevata e chi è andato incontro ad insuccessi scolastici. La quota residua si divide tra chi sostiene di adottare un atteggiamento di fuga di fronte all’ostacolo/problema (lasciar perdere, scappare, fregarsene, scoraggiarsi, chiudersi in se stessi, dare la colpa agli altri... -26.9%), chi di aggressività (ribel- larsi, esplodere, vendicarsi... -13.2%) e chi invece assumerebbe una posizione più responsabile e costruttiva (tener duro, farsi valere, voler capire, parlarne con qual- cuno, chiedere aiuto... -7.8%). La difficoltà ad affrontare il problema e quindi la tendenza a fuggire al mo- mento in cui essa si presenta viene manifestata dagli stessi che hanno cercato di “sfuggire” di fronte all’input, ossia i maschi, con la differenza che in questo caso una tale posizione viene segnalata quasi esclusivamente dai più giovani. Viceversa la componente femminile si presenta decisamente più “agguerrita” di fronte al- l’ostacolo, in quanto si dimostra intenzionata ad assumere atteggiamenti sia di difesa come di attacco; in ciò sembra dare un peculiare contributo anche l’estrazione del- l’utenza dalle Regioni centro-meridionali, e quindi anche la cultura di appartenenza. Tutto questo richiama quanto già emerso in una precedente domanda, in par- ticolare là dove è apparso che, posti di fronte ad un problema, i più sostengono di saper trovare il modo migliore per arrivare ad una soluzione e/o per ottenere ciò che si vuole, proprio grazie alle risorse di cui si dispone, oltre che a far leva su strategie di efficacia e di autostima. Queste strategie, sempre a detta degli intervi- stati, permetterebbero poi di sentirsi sicuri e in grado di gestire qualsiasi situazione- problema. 1.2.3.4. Il “castello” degli ideali e dei progetti di vita Con un ultimo input si è inteso penetrare nel “castello incantato” dei sogni, dei progetti e delle aspirazioni che grazie all’età pullulano e si avvicendano nelle menti di questi giovani. Al tempo stesso si osserva che in pratica l’insieme delle proget- tualità che fanno sentire realizzati vengono convogliate quasi esclusivamente su un unico “pianeta”, quello degli affetti (72.2%). Per molti di loro è giunto ormai il mo- mento di incontrare “l’unico e vero amore” della propria vita, per cui la progettua- lità viene impostata lungo una traiettoria che, partendo da questo grande amore idealizzato, si traduce poi in concreti obiettivi di matrimonio, e quindi di poter avere una propria famiglia e dei figli. Tutte le altre progettualità in questo momento sembrano restare in second’or- dine. Gli stessi obiettivi finalizzati alla carriera professionale (diventare qualcuno, 56 aprire un’attività propria...) in questa parte dell’indagine sono stati scarsamente se- gnalati (11.9%), nonostante che ci si trovi di fronte a soggetti che hanno compiuto una scelta formativa mirata per lo più ad un ingresso diretto nel sistema produttivo. Ancor meno sono stati indicati quelli che si riferiscono alla crescita personale e alla realizzazione di sé (ottenere ciò che si vuole dalla vita, scoprire chi sono io, avere degli obiettivi/ideali per vivere... -5.9%). È interessante osservare, attraverso i dati disaggregati, come sia ancora la variabile di genere a fare la differenza. Tra gli obiettivi riferiti alla vita affettiva un peso determinante è stato esercitato dai maschi (87.8%, contro il 38.9% delle femmine) e dal 99% degli utenti del CNOS-FAP; viceversa la componente femmi- nile e con essa il CIOFS/FP si mette in evidenza per attribuire importanza anche a progetti di realizzazione professionale (29%, contro il 4% dei maschi) e personale (14.1%, contro il 2.2%). 1.2.4. La ricaduta dei corsi sul sistema di istruzione e formazione L’insieme dei risultati conseguiti attraverso questa indagine può essere rap- portato a due principali direttrici: quella del “successo” ottenuto nei percorsi del diritto-dovere da parte degli allievi, e in particolare delle categorie svantaggiate, e quella della formazione integrale della loro personalità. 1.2.4.1. Il successo formativo dei percorsi del diritto-dovere tutti nella FP Da più di dieci anni è in corso nel nostro Paese una crescita molto consistente della scolarizzazione secondaria e della frequenza universitaria, sostenuta dal note- vole aumento della domanda delle famiglie e dall’evoluzione della legislazione. Quanto a quest’ultima è bene ricordare la normativa più recente rappresentata dalla “Riforma Moratti” che ha realizzato un salto di qualità assicurando a ognuno il di- ritto all’istruzione e alla formazione, per almeno 12 anni o, comunque, sino al con- seguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età. Al tempo stesso va sottolineato che i dati che si posseggono mettono chiara- mente in evidenza una situazione della mobilità sociale e della dispersione scola- stica che, a dir poco, appare molto insoddisfacente (Sugamiele, 2006; Audizione del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, 2006). Infatti, resta alto il numero degli abbandoni nelle scuole superiori e continua a registrarsi una complessa soffe- renza formativa: percorsi accidentati, insuccessi scolastici, malessere psicologico, comportamenti antisociali (episodi di bullismo, atti di discriminazione razziale...), diffuso e scarso apprendimento e rendimento, pur in presenza di una costante fre- quenza. I momenti che maggiormente connotano l’esperienza formativa come stressante sono rappresentati dal passaggio fra i cicli di studio con particolare riferi- mento alla transizione dalla scuola secondaria di 1° grado a quella di 2° grado e al sottosistema di istruzione e di formazione professionale. Tale transizione si presenta particolarmente delicata in quanto comporta dal punto di vista psicologico una temporanea disorganizzazione e una conseguente ristrutturazione di ruolo e in un’ottica psicosociale rappresenta un’occasione per 57 verificare le proprie capacità e trovare una conferma positiva alla propria autostima nel confronto con i pari e con i propri insegnanti. Non accidentalmente molti abbandoni si registrano proprio in questo periodo. Nel caso poi degli iscritti alla FP e in particolare del presente campione tale condizione risulta anche più complessa, in primo luogo, per la posizione di svan- taggio che caratterizza almeno la metà degli allievi a motivo delle condizioni di insuccesso scolastico e della provenienza da famiglie deprivate dal punto di vista culturale (ma non solo). Spesso la situazione di “debolezza” che caratterizza gran parte di questi giovani è anche frutto di scelte sbagliate/inadeguate, figlie il più delle volte di attività di “disorientamento”. Va comunque sottolineato che un quinto degli allievi del campione era stato consigliato di iscriversi ai licei e agli istituti tecnici e il dato potrebbe costituire un primo segnale del cambiamento nelle fami- glie e nei giovani della percezione della FP, sempre che lo sforzo di assicurare la parità sostanziale con gli altri percorsi del 2° ciclo venga continuato e non bloccato per motivi politici. Nonostante la situazione di partenza per molti versi svantaggiata del nostro campione, i percorsi del diritto-dovere e in particolare la FP iniziale triennale tutta nella FP sono riusciti a far compiere alla grande maggioranza un vero salto di qualità. A testimonianza di ciò vengono in primo luogo le motivazioni sottese alla scelta e/o all’inscrizione nella FP: una tra le più segnalate riguarda infatti la funzio- nalità dei corsi per un inserimento rapido e con successo nel mercato del lavoro, senza tuttavia mancare di evidenziarne anche le potenzialità di un generale recu- pero formativo. Quest’ultimo aspetto è stato sottolineato tra le esigenze educative da tenere maggiormente in considerazione nel percorso: il dato sta a dimostrare che la frequenza dei CFP salesiani ha fatto maturare in questi giovani l’apprezza- mento per la formazione globale della loro personalità. Il riconoscimento del valore della FP iniziale risulta anche evidente dall’aumento nel tempo degli iscritti con un crescendo di quasi il 10% all’anno. Un ulteriore apprezzamento verso questi percorsi viene attestato dalle alte valutazioni che sono state date circa i contenuti, le metodologie e l’organizzazione e la loro corrispondenza alle proprie attese. Anche nei confronti degli stessi formatori i giudizi sono apparsi alquanto posi- tivi. A siglare il successo di questi percorsi viene poi il dato secondo cui la grande maggioranza non ha mai pensato di abbandonare il corso. Un 15% ha avuto questa idea, ma restando sempre nella FP. Solo un altro 15% ha pensato a un trasferimento ad istituti scolastici, ma su questo andamento ha sicuramente inciso il recupero for- mativo operato dalla FP iniziale. Tuttavia, seppure la maggioranza ammetta di non incontrare adesso particolari difficoltà nel proprio percorso formativo rispetto a pregresse esperienze, gli intervistati suggeriscono di potenziare l’orientamento, le attività laboratoriali, l’utilizzo di tecnologie informative e l’alternanza. Inoltre, più del 30% propone di introdurre il IV anno, dimostrando un bisogno diffuso di 58 completamento dei percorsi formativi del diritto-dovere che andrebbe senz’altro soddisfatto dal Governo nazionale e dalle Amministrazioni locali. Il valore aggiunto di questi percorsi va riscontrato nelle prospettive di futuro che sono riusciti a far maturare negli allievi soprattutto se confrontate con la situa- zione svantaggiata di partenza. A questo punto è opportuno richiamare quanto è stato riportato precedentemente, ossia gli allievi intervistati prevedono di godere di possibilità almeno elevate: di trascorrere una vita familiare serena, di avere dei buoni amici su cui contare, di godere di buona salute, di trovare un lavoro sod- disfacente, di essere rispettati all’interno della propria comunità e di avere una casa propria. Inoltre, il 60% circa prende in seria considerazione la probabilità di conseguire un diploma di scuola superiore e un altro 25% di andare all’università o di fare un corso di specializzazione post-diploma. Va aggiunto anche il dato di oltre 30% che vorrebbe completare il percorso del diritto-dovere con la frequenza di un IV anno che consentisse di acquisire un diploma professionale. Sul lato meno positivo va ricordato un 30% che sperimenta motivi più o meno grandi di disagio. Inoltre nell’esercizio di autovalutazione compiuto dagli allievi, neppure il 10% menziona il giudizio di “ottimo”, anche se appena il 5% parla di “insufficiente”. Sono dati che, se non mettono in discussione i risultati positivi elencati sopra, tuttavia invitano i CFP salesiani a un maggiore impegno in vista del ricorso a strategie anche più incisive. 1.2.4.2. La personalità degli utenti sullo sfondo dei fattori predittivi e protettivi dal rischio Gli adolescenti dell’inchiesta sono stati colti nel pieno del loro sviluppo evolu- tivo, durante il quale si domanda di affrontare alcuni compiti di sviluppo caratteri- stici di questo periodo dell’esistenza, derivati dall’interazione tra la maturazione fi- siologica, le nuove capacità cognitive e relazionali, le proprie aspirazioni da un lato e dall’altro le influenze e le richieste provenienti dall’ambiente circostante. Nel rispondere a tali richieste l’adolescente può andare incontro a situazioni di malessere e di stress e, in alcuni casi, addentrarsi in comportamenti a rischio. Ciò si verifica quando egli percepisce una forte dissonanza cognitiva tra le richieste insite nel suo percorso di emancipazione individuale e le sue concrete possibilità di farvi fronte. Viceversa nella misura in cui l’adolescente riesce ad affrontare positiva- mente i diversi compiti, sperimenterà un sentimento di benessere psicologico e di adeguatezza di sé. L’enfasi si pone, quindi, non tanto sui cambiamenti e sulle ri- chieste con cui l’adolescente è chiamato a confrontarsi, ma sui processi che pos- sono portare ad un adattamento positivo e ad un cambiamento evolutivo soddisfa- cente. Diventano pertanto cruciali la specificità del momento in cui il compito si col- loca lungo il percorso di crescita; l’interpretazione che l’adolescente attribuisce alla qualità del compito e il significato ad esso socialmente attribuito; il bagaglio di ri- sorse personali disponibili; la rete di supporto sociale cui l’adolescente può far rife- rimento. Tutto questo consente pertanto di comprendere come le diverse traiettorie 59 di sviluppo in adolescenza, le eventuali incursioni e – in taluni casi – permanenze nel rischio non siano da ricondursi all’adolescenza in sé, quanto all’intersecarsi di esigenze evolutive, risorse personali e opportunità offerte dal contesto di vita. A questo riguardo le ricerche più recenti tendono a delineare il seguente pro- filo di “adolescente dotato di fattori protettivi”. È un soggetto che: a) può contare su figure di adulti autorevoli che gli pongono delle ragionevoli, ma responsabilizzanti richieste; b) è impegnato in un progetto di costruzione e di realizzazione di sé; c) vive sfide personalmente e socialmente rilevanti; d) è accettato e valorizzato dal mondo adulto; e) vive positivamente l’esperienza scolastica e può sviluppare le proprie abilità cognitive e sociali sulle quali ritiene di poter contare; f) non è spinto a comportarsi in modo esteriore e consumistico da adulto. A questo punto i dati conseguiti attraverso le varie domande presenti nel que- stionario possono essere “bilanciati”, in base ad una maggiore/minore consistenza, in rapporto ai fattori protettivi da condizioni di rischio o, viceversa, predittivi di condizioni di rischio. Nel procedere in questo senso va tenuto conto del loro rag- grupparsi nel presente caso particolarmente attorno ai seguenti indicatori: 1) auto- efficacia; 2) autostima; 3) sistema dei valori, ideali, progetti di vita; 4) repertorio delle strategie relazionali/comunicative; 5) controllo degli impulsi e/o la gestione delle emozioni e del comportamento; 6) strategie di fronteggiamento. 1) Autoefficacia Un livello alto di autoefficacia è stato individuato nel: – considerarsi persone attive, responsabili, motivate, autonome, altruiste; – saper realizzare nella vita quello che si vuole, sapersela cavare da soli nelle difficoltà; – voler realizzare a tutti i costi i propri sogni (diventare ricchi, famosi, studiare, avere un lavoro, sentirsi professionalmente realizzati, andare a vivere da soli, farsi una propria famiglia...). Una bassa autoefficacia è stata caratterizzata dal: – dubitare delle proprie capacità; – sentirsi incapaci di prendere una decisione; – attivare meccanismi di omologazione o delocalizzazione delle responsabilità; – assumere un atteggiamento di passività di fronte ad un problema facendo finta che non esiste. 2) Autostima Un alto livello di autostima va individuato nell’aver acquisito, lungo il pro- cesso di costruzione dell’identità, un “locus of control” interno, centrato sul con- cetto di sé come persona che: 60 – ha stima di sé; – si sente sicura; – è realizzata; – sa accettare chi è diverso; – è estroversa. Una bassa autostima è stata caratterizzata dal: – sentirsi un fallito, senza speranza per il futuro; – non percepirsi all’altezza della situazione e quindi dal disagio causato dal senso di inferiorità; – senso di timidezza o dall’imbarazzo derivante dall’aver sbagliato, dall’aver fatto brutta figura; – non essere presi in considerazione, sentirsi esclusi, non capiti, non stimati per quello che si è. 3) Sistema dei valori, ideali, progetti di vita La presenza di ideali/progetti/valori è individuabile nel considerarsi una per- sona che: – ha molti obiettivi per cui vale la pena vivere; – è intenzionata ad ottenere tutto ciò che è possibile dalla vita; – vuole scoprire chi è; – fa ricorso a valori religiosi e/o ha bisogno di scoprire una propria dimensione religiosa; – ha bisogno di sentirsi utile agli altri, di credere in se stessa, di essere stimata, rispettata; – vuole diventare “qualcuno”, aprire una propria attività professionale. La mancanza di progetti/ideali di vita è stata caratterizzata dal: – non sapere cosa si vuole dalla vita né quali progetti realizzare; – incertezza/preoccupazione sul “che fare” in futuro; – indifferenza verso la religione. 4) Repertorio delle strategie relazionali/comunicative Strategie relazionali/comunicative applicate a problemi di disagio/bisogno sono state individuate soprattutto nel: – ricorrere al sostegno di amici; – confrontarsi con chi ha lo stesso problema; – migliorare la relazione con gli altri. La mancanza e/o la scarsità di comunicazione/relazionalità è stata riscontrata nel: – sentire di non aver fiducia in nessuno; – non percepirsi amati, avvertirsi soli, senza affetti e/o senza nessuno vicino, senza sapere a chi chiedere; – domandare aiuto in caso di bisogno; 61 – mancare di amici veri; – sentirsi presi in giro, sgridati, incolpati, giudicati; – trovarsi a contatto diretto con persone e/o con ambienti sconosciuti (avere a che fare con stranieri, dover affrontare situazioni nuove...). 5) Controllo degli impulsi e/o la gestione delle emozioni e del comportamento Il controllo degli impulsi, delle emozioni e del comportamento è stato indivi- duato nel: – considerarsi una persona gioiosa, ottimista; – saper difendere i propri diritti; – voler dire quello che uno pensa, senza paura; – capacità di guardare al lato positivo delle cose; – avere speranza, fiducia che le cose cambieranno. La mancanza di controllo degli impulsi, delle emozioni e del comportamento è stato riscontrato nell’atteggiamento incline a: – ribellarsi, esplodere, vendicarsi; – stordirsi in caso di problema, avere bisogno di far uso di stupefacenti; – aggredire se stessi dandosi addosso, attribuendo a sé tutta la colpa; – compiere azioni trasgressive (uso normale di stupefacenti, partecipazione a bande, atti di violenza/vandalismo...); – avere rapporti sessuali non protetti; – mettere in pericolo la propria vita guidando sotto l’effetto di stupefacenti; – fare ricorso, nel processo di costruzione dell’identità, ad un “locus of control” esterno, in dipendenza dal gruppo dei pari, così da delocalizzare le responsabi- lità delle proprie azioni; – lasciar perdere di fronte ad un problema/disagio, scappare, fregarsene, scorag- giarsi, chiudersi in se stessi, attribuire la colpa agli altri. 6) Strategie di fronteggiamento Tra quelle maggiormente segnalate, troviamo: – la capacità di resistere alle richieste illecite degli amici; – voler impegnarsi a fondo per lavorare alla soluzione del problema; – in caso di problema/disagio tener duro, farsi valere, voler capire, parlarne con qualcuno, chiedere aiuto, parlarne con persone qualificate; – attivare l’“antivirus” contro la droga attraverso relazioni sincere a loro volta combinate con un alto livello di autostima e di autoefficacia; – la capacità di problem solving, evidenziata dall’aver ammesso, di fronte ad un problema, di saper trovare il modo migliore per conseguire una soluzione e/o per ottenere ciò che si vuole, grazie alle risorse di cui si dispone e facendo leva su strategie di efficacia e di autostima, ciò che permette poi di sentirsi sicuri e in grado di gestire qualsiasi situazione-problema possa capitare nella quotidia- nità degli eventi. 62 Sull’intera gamma dei dati riportati sopra giocano ovviamente sia la consi- stenza delle segnalazioni sia le differenti categorie di attori che se ne sono fatti interpreti. Passando in rassegna la distribuzione dei fattori predittivi/protettivi alla luce delle principali variabili utilizzate negli incroci è possibile quindi arrivare a ricostruire la presenza, all’interno del totale degli intervistati, di due sottocampioni caratterizzati dalla concatenazione di una serie di variabili che lungo l’analisi si sono strettamente intrecciate/correlate tra loro, in considerazione del costante ripre- sentarsi in rapporto alle varie tematiche dell’indagine. Il primo si contraddistingue per un cluster di caratteristiche quali: l’estrazione da condizioni di precarietà in base alla situazione socio-economica e culturale della famiglia, uno stato di “debolezza” lungo l’intero percorso scolastico-formativo per essere andati incontro a uno o più insuccessi scolastici o comunque l’aver avuto a che fare con pregresse difficoltà incontrate lungo il percorso, l’attuale demoti- vazione a continuare gli studi e, di conseguenza, anche l’inclinazione a cambiare il presente percorso e il mancato sostegno in questo gruppo di una fede religiosa. All’interno di questo sottocampione si osserva che degli aspetti menzionati si fanno interpreti in modo particolare i maschi, e quindi gli utenti del CNOS-FAP, l’età di mezzo (16-17 anni), i residenti nelle Regioni del nord. Nei confronti di questo gruppo, a più riprese definito dello “svantaggio”, che però è risultato alquanto con- tenuto, le trasgressività costituiscono indubbiamente un sintomo di disagio interno, “comunicato” poi esternando azioni poco approvabili; azioni che a loro volta nel tempo potrebbero diventare veicoli “predittivi” di un possibile scivolamento verso una condizione di “vulnerabilità” e/o di rischio. Tuttavia i dati attestano che i portatori di queste “vulnerabilità” rappresentano una ristretta minoranza se rapportati all’insieme degli intervistati, mentre la grande maggioranza è composta dalla quota di allievi che si contraddistinguono per il pos- sesso delle variabili opposte a quelle riportate sopra. In pratica si caratterizza per la totale assenza di “debolezze” formative e di comportamenti difficili e/o a rischio e, viceversa, per il possesso di un sostenuto patrimonio valoriale e di maturazione globale della personalità, manifestando così di possedere un bagaglio di fattori “protettivi”. Tutto questo può essere ritenuto frutto in particolare della maturazione conseguita frequentando i percorsi triennali, tutti nella FP, dei CFP salesiani. In questo secondo gruppo si sono distinti in particolare le femmine, e con esse il CIOFS/FP, gli utenti delle Regioni centro-meridionali, i più giovani, i credenti e praticanti e chi non accusa particolari difficoltà nel corso che sta frequentando. Al tempo stesso va anche osservato che gli allievi del CNOS-FAP al momento del- l’iscrizione ai percorsi del diritto-dovere si presentavano più svantaggiati quanto all’origine familiare e più problematici riguardo alla loro esperienza scolastica. In ogni caso, l’andamento d’insieme dei risultati conseguiti attesta che la gran parte di questi giovani nell’andare incontro alle inevitabili difficoltà della tran- sizione alla vita attiva appare già sufficientemente attrezzata di quelle “armi” e/o delle strategie necessarie per fronteggiare i problemi e dare loro adeguata soluzione. 63 Ben pochi fuggono e/o evitano di scontrarsi e di confrontarsi con il problema, semmai può succedere che non sempre si scelga la soluzione migliore, ma in questi casi saranno le esperienze della vita nel ri-orientare a trovare quella più adatta. La ricaduta delle sperimentazioni sui percorsi del diritto-dovere induce quindi a sostenere che il maggiore pluralismo dell’offerta favorisce indubbiamente il suc- cesso formativo di una larga fascia di giovani e che gli approcci che fanno riferi- mento a tale prospettiva risultano, rispetto alle tradizionali proposte formative, maggiormente in grado di favorire l’elevazione culturale, professionale, morale, spirituale e religiosa dei giovani e in particolare delle componenti in difficoltà e/o in condizioni di svantaggio. 2. L’INDAGINE 2007: IL PROGETTO DI ANALISI, LA METODOLOGIA, IL PIANO DI CAMPIONATURA A tre anni circa dalla indagine sugli esiti finali degli allievi della sperimen- tazione della FPI riguardo alla transizione al mondo del lavoro o ad altro tipo di istruzione/formazione (Malizia e Pieroni, 2003), il CNOS-FAP e il CIOFS/FP hanno avviato una indagine sostanzialmente analoga sui percorsi del diritto- dovere. Anche in questo caso si è cercato di verificare la validità della formazione impartita al di fuori delle mura dei Centri nel concreto del sistema produttivo o in altri livelli del sistema educativo. 2.1. Obiettivi del progetto Il presente rilevamento intendeva verificare l’efficacia dei percorsi sul diritto- dovere dei CFP appartenenti agli Enti CNOS-FAP e CIOFS/FP in rapporto alle scelte conclusive effettuate dagli allievi, in particolare riguardo all’inserimento nel mondo del lavoro e al passaggio a studi superiori. Più precisamente il progetto di ricerca era mirato ai seguenti obiettivi: a) monitorare, alla distanza di circa un anno dalla conclusione, la condizione degli allievi usciti nell’anno 2005-06 dai percorsi triennali sperimentali del diritto- dovere, per verificare se hanno proseguito gli studi all’interno del sistema edu- cativo di istruzione o di formazione professionale, oppure se hanno reperito un lavoro, o se si trovano ancora in una situazione in cui né studiano né lavorano; b) individuare eventuali ulteriori bisogni formativi ai fini di un completamento, di un perfezionamento o di una diversificazione delle loro competenze profes- sionali; c) verificare l’efficacia del percorso formativo in rapporto alle differenti scelte effettuate nel periodo successivo al conseguimento della qualifica; d) avanzare proposte per migliorare e potenziare i percorsi triennali del diritto- dovere. 64 2.2. Metodologia e cronogramma dell’indagine Per realizzare questi obiettivi la ricerca è stata strutturata nelle seguenti fasi/ azioni: a) in primo luogo ciascuno dei CFP dei due Enti che hanno sperimentato i percorsi triennali del diritto-dovere ha inviato ai responsabili della indagine e su loro richiesta l’elenco di tutti gli allievi che li hanno portati a termine nel 2005-06, conseguendo la qualifica o l’attestato di frequenza; in questo modo si è potuto ricostruire l’universo della popolazione oggetto della investigazione (febbraio-marzo 2007); b) successivamente si è proceduto ad elaborare un piano di campionatura che ha permesso di estrarre con metodo sistematico e, quindi, in modo rappresenta- tivo, gli allievi da inchiestare (aprile); c) contemporaneamente è stata preparata una griglia di domande da sottoporre a ciascuno dei soggetti da intervistare che prevedeva i differenti possibili esiti alla conclusione dei percorsi triennali: la continuazione degli studi, l’inseri- mento occupazionale o una eventuale condizione di inoccupazione/disoccupa- zione (aprile); d) si è proceduto quindi ad effettuare le interviste contattando telefonicamente i soggetti campionati, fino ad esaurimento delle liste (maggio-luglio); e) le schede compilate sono state quindi inviate al centro di calcolo dell’Univer- sità Salesiana di Roma che ha proceduto al caricamento dei dati su supporto informatico e quindi alla elaborazione statistica per totali ed incroci (settem- bre); f) successivamente si è passati ad analizzare e ad interpretare i dati statistici e quindi ad elaborare il presente rapporto di ricerca (ottobre-dicembre 2007). Prima di passare ad analizzare la composizione del campione è opportuno prendere visione dello strumento utilizzato per il rilevamento, distribuito nelle diverse schede che lo compongono e, al loro interno, delle domande che sono state poste agli ex-allievi/e1. La scheda introduttiva conteneva in testata un breve paragrafo avente lo scopo di aiutare il rilevatore a presentare l’iniziativa; seguiva quindi la richiesta di informazioni in merito ad alcuni dati personali (dom. 1 = sesso; dom. 2 = età) e del corso frequentato (dom. 5 = tipologia del corso; dom. 8 = settore di qualifica; dom. 6 = conseguimento della qualifica o dell’attestato e con quale valutazione), per finire, secondo quanto anticipato, con l’indicare l’attuale status in qualità di studente, di lavoratore o di inoccupato/disoccupato (dom. 9). A seconda di quest’ul- tima informazione il rilevatore passava quindi a selezionare la scheda corrispon- dente e a porre le domande pertinenti alla situazione attuale dell’ex-allievo/a. 1 Cfr. lo strumento di rilevamento nell’Appendice. 65 Attraverso la scheda cosiddetta per gli studenti (riferita unicamente a coloro che hanno continuato a studiare) si è cercato anzitutto di conoscere la loro carriera scolastica (se provengono dal I o dal II grado della secondaria – dom. 3 – e se sono stati bocciati – dom. 4), l’attuale posizione negli studi (dom. 1) e motivazioni al seguito (dom. 2), la valutazione circa le competenze acquisite con il percorso del diritto-dovere (dom. 5 e 6), la corrispondenza alle attese e l’apporto dato al prose- guimento degli studi (dom. 7), per terminare con uno sguardo prospettico circa le aspettative nei confronti del futuro lavoro (dom. 8). Attraverso la scheda indirizzata ai lavoratori (ossia a coloro che al momento del rilevamento risultavano inseriti nel mercato del lavoro) si è cercato anzitutto di individuare da quale percorso scolastico-formativo provenissero (dom. 10) e con quale successo (dom. 14), per poi analizzare l’esperienza lavorativa in base alle modalità con cui hanno trovato lavoro ed entro quanto tempo (dom. 3 e 2), alla tipologia contrattuale (dom. 1ss.), alla coerenza tra la qualifica e le mansioni svolte (dom. 5 e 6), al grado di soddisfazione nei confronti del lavoro che si sta svolgendo attualmente (dom. 15) e ad eventuali altre esperienze lavorative intercorse tra l’uscita dal corso e l’attuale lavoro (dom. 9). Lo strumento passa successivamente a verificare se e quanto il corso ha agevolato l’inserimento lavorativo (dom. 4), quanto ha corrisposto alle proprie attese (dom. 16), come lo si valuta complessiva- mente (dom. 7), quali miglioramenti potrebbero essere apportati (dom. 17), se si avverte il bisogno di una ulteriore riqualificazione e di che tipo (dom. 18ss.) e se al termine del percorso del diritto-dovere si sono iscritti ad altri corsi di formazione (dom. 8ss). La scheda terminava chiedendo agli intervistati se prevedevano in futuro di cambiare lavoro e per quale motivo (dom. 19ss). A sua volta, da coloro che al momento della rilevazione non stavano né stu- diando né lavorando, oppure avevano lavorato ma attualmente risultavano disoc- cupati, si è voluto invece sapere da quale percorso scolastico-formativo proveni- vano e con quale riuscita (dom. 2 e 3), le eventuali esperienze posteriori in merito agli studi o al lavoro (dom. 1) e le motivazioni per cui non sono ancora riusciti a trovare lavoro (dom. 8). Successivamente si è chiesto di valutare il corso e la cor- rispondenza alle proprie attese (dom. 5, 4, 6) e da ultimo se avvertivano l’esigenza di ulteriore formazione (dom. 7ss.) e di che cosa in definitiva avrebbero avuto bisogno per trovare lavoro (dom. 9 e 10). Passando alla fase prettamente operativa, la procedura seguita è stata molto semplice. Una volta ottenuti i nominativi e le altre informazioni sugli ex-allievi da intervistare (telefono/cellulare, CFP di provenienza...), il rilevatore passava ad applicare a ciascuno dei soggetti campionati lo strumento mediante contatto telefo- nico durante il quale compilava lui stesso la scheda. In realtà non tutte e 4 le griglie dovevano essere somministrate ma soltanto due: quella introduttiva di base, uguale per tutti, e una tra le rimanenti, a seconda che l’intervistato nell’ultima domanda della scheda introduttiva avesse dichiarato che aveva scelto di continuare a studiare, oppure stava lavorando, oppure al momento non stava né studiando né lavorando. 66 2.3. Il piano di campionatura Come da progetto, l’indagine prevedeva di coinvolgere, a campione, coloro che al termine del 2005-06 avevano concluso, in tutti i CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP, il percorso triennale del diritto-dovere, conseguendo una qualifica o ottenendo un attestato di frequenza. Per procedere in tale direzione occorreva quindi fare un primo rilevamento mirato a ricostruire l’entità dell’universo dei qualificati dell’anno formativo preso in esame; di conseguenza a ciascuno dei CFP che all’interno dei due Enti avevano effettuato i corsi del diritto-dovere è stato chiesto di fornire il dato del totale degli ex-allievi e la lista di quelli interessati con i nominativi e un numero telefonico per poterli poi contattare ed eventualmente intervistare, qualora il soggetto campionato avesse dato la propria disponibilità. I settori di qualifica sono stati poi riportati nella scheda introduttiva (dom. 8) e opportunamente separati in base alla diversa appartenenza ai due Enti. Una volta ricostruito l’universo si è proceduto alla estrazione del campione. Questo è stato fissato al 25% dell’universo, una percentuale diretta ad assicurare la presenza delle diverse Regioni e Centri in cui operano i due Enti di formazione. In base a questa percentuale è stata stabilita la quota campionaria di ciascun CFP in modo da mantenere inalterato il peso di ogni Centro e di ogni Regione. Dopo aver ricostruito l’entità del campione occorreva passare ad estrarre uno ad uno i soggetti da intervistare, fino ad esaurimento delle quote campionate. Questo lavoro è stato eseguito a tavolino dai rilevatori di ciascun Ente con “metodo sistematico”, attenendosi ai seguenti criteri: – si è iniziato dividendo il totale degli allievi/e presenti nella lista inviata da cia- scun Centro (che attestava i qualificati nel 2005-06) per il numero dei soggetti che il piano di campionatura aveva stabilito per ciascun CFP, ottenendo così il “numero d’intervallo” (praticamente, 1 ogni 4); – quindi si è partiti a caso o meglio da un punto qualsiasi (a volte dall’inizio, altre volte dalla metà, altre volte dal fondo) della lista e sono stati contati tanti soggetti quanti erano previsti dal “numero d’intervallo” e si è scelto il primo; quindi si è proseguito contandone altrettanti, e si è scelto il secondo; e così avanti, fino a completamento della quota campionaria prevista per ciascun CFP. Va notato poi che a tale quota è stato aggiunto, sempre con lo stesso pro- cedimento, anche un congruo numero di “riserve”, ossia di soggetti a cui poter far ricorso in caso di mancata adesione all’intervista di uno o più ex-allievi/e di prima scelta. La Tav. 1 offre una visione sinottica dei risultati di questa operazione. Infatti, essa presenta la distribuzione dei dati dell’universo e quelli del campione per totali e per Enti. A questo punto al rilevatore non rimaneva altro che mettersi al telefono e rea- lizzare la somministrazione. Una volta presentata l’iniziativa al soggetto contattato 67 e ottenuta la disponibilità a rilasciare l’intervista, passava a formulare le domande partendo dalla scheda introduttiva per poi selezionare una delle tre successive a seconda che l’intervistato avesse dichiarato di aver continuato a studiare oppure che stava lavorando oppure che al momento non stava né studiando né lavorando. Tav. 1 - Confronto tra universo e campione su base regionale e per circoscrizioni geografiche Ovviamente tutto questo comportava che il rilevatore compilasse lui stesso di volta in volta la scheda di ciascun intervistato. In tal modo si è arrivati a completare la fase del sondaggio. Nella Tav. 2 viene ricostruito in una visione sinottica l’im- pianto campionario mettendo a confronto i dati attesi con quelli osservati, a loro volta suddivisi per totali e per Enti all’interno delle tre principali circoscrizioni geografiche. Tav. 2 - Distribuzione degli intervistati in base al rapporto tra i dati dell’universo e del campione considerati in totale, per Enti e circoscrizioni geografiche Dai dati della Tav. 2 si evince che il totale dei qualificati dei due Enti (o di chi ha conseguito un attestato di frequenza) nel 2005-06 assomma complessivamente a 68 2.510, suddiviso tra 1.408 (56.1%) ex-allievi/e iscritti nei CFP del CNOS-FAP e 1.102 (43.9%) del CIOFS/FP. Sulla base della metodologia campionaria riportata sopra, a rappresentare i 2.510 sono stati selezionati 638 ex-allievi/e, suddivisi tra 391 (61.3%) del CNOS-FAP e 247 (38.7%) del CIOFS/FP. Questi dati, passati al vaglio del “CHI2” non hanno fatto rilevare differenze significative fra il totale dell’universo e quello dei soggetti campionati; inoltre la quota dei 638 risulta ab- bondantemente rappresentativa dell’universo, se rapportata a un margine di errore (= E) del 2.0 e ad un livello di confidenza del 95%.2 Una ulteriore distribuzione riguardava i dati delle circoscrizioni regionali, a loro volta assommati in rapporto alle tre circoscrizioni geografiche. Anche questa ripartizione risulta rappresentativa e dalla Tav. 2 si evince che: – nelle regioni del nord l’universo era composto da 1.269 ex-allievi/e (pari al 50.6%); di essi ne sono stati scelti 326 (51.1%), di cui 201 (51.4%) del CNOS- FAP e 125 (50.6%) del CIOFS/FP (P = n.s., cioè la differenza tra il totale del- l’universo e quello dei soggetti campionati non è significativa); – nel centro i qualificati erano 607 (il 24.2% dell’universo); ne sono stati sele- zionati 144 (22.6%), di cui 76 (19.4%) del CNOS-FAP e 68 (27.5%) del CIOFS/FP (P <.02, e la differenza è significativa); – nel sud i qualificati erano 634 (25.2% dell’universo); sono stati scelti 168 (26.3%), di cui 114 (29.2%) del CNOS-FAP e 54 (21.9%) del CIOFS/FP (P = n.s., cioè la differenza non è significativa). In ultima istanza anche questi dati, passati al vaglio del “CHI2” attestano che, se si prescinde da quote non proprio perfettamente riproporzionate all’interno delle regioni centrali tra l’universo e il campione (ma non sempre e/o non da tutti è pos- sibile ottenere la collaborazione che ci si aspetterebbe, per motivi che variano da situazione e situazione), al nord e al sud i soggetti campionati risultano pienamente rappresentativi dell’universo. Pertanto, in definitiva si può ritenere che i 638 pos- sano effettivamente attestare lo scenario di ciò che si verifica al termine dei percor- si del diritto-dovere in rapporto alle differenti scelte e/o traiettorie di vita intraprese dagli ex-allievi/e dei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP. 2 Cfr. U. SANTARELLI, Un campione di quanti casi? Guida pratica al progetto ottimale di ricerche e controlli campionari, Milano, Angeli, 1991, p. 128. 69 Capitolo 3 I risultati del rilevamento Vittorio PIERONI Il presente capitolo riporta e interpreta i dati del rilevamento, suddivisi tra quelli che, riguardano i 638 ex-allievi/e che compongono il campione nel suo insieme e quelli che si riferiscono alle distinte categorie in cui si articola il totale. Questi comprendono gli studenti, i lavoratori e gli inoccupati o disoccupati (cioè quanti al momento del sondaggio non stavano né studiando né lavorando, gruppo che nelle tabelle verrà indicato con l’espressione abbreviata di “in/disoc- cupati”). Prima di iniziare il commento ai dati è necessario tuttavia avanzare un’osser- vazione che vale per questo capitolo, per il seguente e per le conclusioni in esso incluse. Secondo quanto già effettuato nelle precedenti indagini sui CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP, anche in questa circostanza vengono paragonati gli esiti degli intervistati in base all’appartenenza all’uno o all’altro Ente. A questo riguardo va subito precisato che tale confronto non mira a disegnare una classifica di merito e non riguarda l’efficienza/efficacia dei risultati conseguiti dagli ex- allievi/e, ma risponde solo all’obiettivo di ricollegare i dati alla diversa utenza, a sua volta rapportabile ad altrettante differenze di genere, alla provenienza geogra- fica e ai settori delle comunità professionali di qualifica. Inoltre, riguardo ad alcuni significativi passaggi dell’inchiesta (tra cui ad esempio l’attuale stato di inoccupazione/disoccupazione di una quota di intervi- stati), i presenti dati evidenziano come la componente femminile sia più penalizzata rispetto al mercato del lavoro. Una lettura attenta di questi condizionamenti consi- glia quindi di non attenersi superficialmente al risultato in sé che emerge al mo- mento del confronto, ma di tener conto di una visuale a 360 gradi delle caratteri- stiche ed anche delle problematiche sottese a ciascuno dei gruppi in osservazione. Tra questi, nel presente caso le femmine e, di riflesso, l’Ente CIOFS/FP (con una maggioranza di utenza femminile), rappresentano una componente particolarmente colpita da una serie di svantaggi, parte dei quali riguardano pregresse esperienze negative (come l’età più avanzata quasi sempre combinata con il tasso di boccia- ture precedenti l’ingresso nella FP), mentre altre (come l’inserimento nel mercato del lavoro e delle professioni) vengono sulla scia di una cultura in bilico tra tradi- zionalismo e maschilismo che a tutt’oggi stenta ad evolversi su un piano di pari opportunità. 70 1. IDENTIKIT GENERALE DEGLI EX-ALLIEVI/E COINVOLTI NELL’INDAGINE La tavola 1 mostra come i 638 ex-allievi/e intervistati si distribuiscono in base alle principali variabili di status che li caratterizzano. Di seguito commenterò i dati più rilevanti. 1) La ripartizione in base agli Enti di appartenenza presenta una articolazione del tutto simile all’indagine del 2003 (Malizia e Pieroni, 2003, p. 50), con un rap- porto di circa due terzi (61.3% – il CNOS-FAP) a poco più di un terzo (38.7% – il CIOFS/FP): infatti, nel 2003 le proporzioni erano il 62 e il 38%, rispettiva- mente (cfr. Tav. 1). Passando poi ad analizzare i dati disaggregati, va ricordata anzitutto la scontata presenza maggioritaria di maschi nel CNOS-FAP e di femmine nel CIOFS/FP (in entrambi superiore all’80%); inoltre, emergono, nel CNOS-FAP, quote di ex-allievi che già lavorano (72.6%), seguiti da quanti hanno continuato a studiare (62.2%) mentre gli inoccupati/disoccupati sono appena il 15.6%; a sua volta tra le fila del CIOFS/FP la percentuale maggiori- taria riguarda coloro che al momento del rilevamento non studiavano né lavo- ravano (60.1%), a cui si aggiunge a distanza la porzione degli ex-allievi/e che hanno continuato a studiare (37.8%) o che hanno un’occupazione (37.8%). 2) Ovviamente, la variabile di genere risulta distribuita in modo del tutto simile a quella per Enti: 67.7% e 32.3%, rispettivamente (cfr. Tav. 1); nell’indagine del 2003 tale rapporto era del 61.2% e 37.6%. Tuttavia, come già si è notato sopra, tra i dati attuali si osserva una particolarità: mentre nel CNOS-FAP le femmine non arrivano al 10% (9.7%), nel CIOFS/FP i maschi sono circa un terzo (32%). 3) Nella distribuzione per zone geografiche, come in tutte le precedenti indagini, è scontata la provenienza maggioritaria degli iscritti dai CFP delle regioni del nord (51.1%); seguono il centro e il sud in proporzioni non molto diverse (22.6% e 26.3%, rispettivamente) (cfr. Tav. 1). 4) Nell’80% circa dei casi l’età degli intervistati si colloca al di sotto dei 20 anni: tale quota in pratica va divisa tra un 45.5% di 18enni (e rappresentano la mag- gioranza degli iscritti al CNOS-FAP) e un 32% di 19enni (cfr. Tav. 1). Chi ha 20 anni e oltre è poco più di un quinto (22.4%) e risultano sovrarappresentati tra le fila del CIOFS/FP (26.7%). Passando ad analizzare il percorso scolastico-formativo precedente all’ingresso nel CFP si rileva che i provenienti da bocciature (Tav. 2) sono più della metà degli ex-allievi/e intervistati (352 = 55,3%) (cfr. Tav. 2). Tra essi quote percentualmente più rilevanti si evidenziano tra coloro che si sono iscritti al CIOFS/FP (65.6%), le femmine (59%), le regioni centrali (66.9%), chi attualmente non studia né lavora (62.7%). Inoltre nel gruppo dei bocciati prima dell’accesso alla FP oltre il 75% ha 19 anni e più. Ciò nonostante, quasi tutti costoro al termine del percorso del diritto-dovere hanno conseguito una qualifica (91.2%), superando anche il dato già lusinghiero 71 del 2003, l’88.8% (Malizia e Pieroni, 2003, p. 51). Al contrario, è solo una mino- ranza chi ha ottenuto semplicemente l’attestato di frequenza (7.7% = 49, di cui la porzione più consistente si riscontra nel CIOFS/FP). I 638 ex-allievi/e vanno suddivisi per settori professionali, i quali a loro volta si prestano ulteriormente ad essere analizzati in base ai distinti ambiti di attività che fanno capo ai due Enti: – nel CNOS-FAP la maggioranza ha conseguito una qualifica nei comparti elettro-elettronico (36.8%) e meccanico (35.3%); minoranze hanno riguardato il grafico-multimediale (10.5%), il turistico-alberghiero (5.9%) e l’informatico (1.5%); di tutti costoro il 60-70% (a seconda dei settori) attualmente lavora, il 20-30% continua a studiare e il 10-15% non studia né lavora; – nel CIOFS/FP il comparto trainante è quello aziendale-amministrativo (43.3%), a cui fanno da contorno quello commerciale e delle vendite (8.9%), l’estetico (6.5%), il tessile-moda (3.2%), il sociale-sanitario (1.2%), più vari altri settori (31.2%) di cui però non è stata riportata l’entità specifica di ognuno. Infine, attraverso l’ultima domanda presente nella scheda introduttiva si è arrivati a conoscere anche l’attuale condizione degli intervistati rispetto al mondo del lavoro e al sistema di istruzione e di formazione. Al momento in cui sono stati raggiunti attraverso l’intervista, in pratica ad un anno dal conseguimento della qualifica (o dell’attestato di frequenza), i 638 ex-allievi/e si presentano così di- stribuiti: – oltre la metà lavora (51.6%) e si distinguono gli ex-allievi del CNOS-FAP (61.6%), i maschi (60%) e il gruppo di età che va dai 19 anni in su (oltre il 50%); – il 27% ha continuato a studiare ed essi sono presenti in particolare tra i 18enni (57.6%), i maschi (66.9%) e gli appartenenti alle regioni del nord (64%); – il 24% al momento dell’inchiesta non stava né studiando né lavorando e si distinguono gli iscritti al CIOFS/FP (37.2%), le femmine (38.3%) ed i residenti nelle regioni del centro-sud (circa il 30%) (cfr. Tav. 1). A questo punto è apparso interessante individuare il percorso scolastico-forma- tivo pregresso del totale degli intervistati e di queste tre categorie che presentano scelte differenziate all’uscita dal sistema formativo. Tali dati infatti ci permettono di capire da dove provengono i 638 ex-allievi/e, se dal I o dal II grado del sistema d’istruzione, oppure dall’interno della FP o da altri contesti ancora, quali caratteri- stiche presentano in base alle principali variabili di status e al tasso di insuccesso o meno, in quale proporzione si sono inseriti nei percorsi del diritto-dovere attivati dai CFP dei due Enti e quali scelte hanno effettuati alla loro conclusione. Pertanto, dall’incrocio tra i dati che caratterizzano l’attuale status di studente, lavoratore o inoccupato/disoccupato con quelli della provenienza da distinti percorsi scolastico- formativi, è stato possibile ricostruire l’identikit delle tre categorie da due ottiche 72 Ta v. 1 - D is tri bu zi on e de l t ot al e- al lie vi /e in b as e al le p rin ci pa li va ria bi li di s ta tu s (b as e= 63 8) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e ** * Il t ot al e di c ol on na s up er a il 1 00 % p er ch é un ’e si gu a m in or an za s tu di av a e la vo ra va a l te m po s te ss o Ta v. 2 - D is tri bu zi on e de i 6 38 e x- al lie vi /e in b as e al ta ss o di b oc ci at ur e (b as e= 63 8) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e 73 Ta v. 3 - In cr oc io tr a la v ar ia bi le d i s ta tu s st ud en ti/ la vo ra to ri/ in -d is oc cu pa ti e la p ro ve ni en za d a pr eg re ss i p er co rs i s co la st ic o- fo rm at iv i ( ba se = 63 8) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e 74 Ta v. 4 - In cr oc io tr a i p re gr es si p er co rs i s co la st ic o- fo rm at iv i e l’ at tu al e st at us d i s tu de nt i/l av or at or i / in -d is oc cu pa ti (b as e = 63 8) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e 75 diverse, a seconda che le si confronti direttamente con la diversa provenienza scola- stico-formativa (cfr. Tav.3), oppure le si consideri dall’angolo visuale inverso, ossia guardando l’attuale scelta dal punto di vista della diversa provenienza (Tav. 4). Dalla Tav. 3 emerge che tanto gli studenti che i lavoratori sono per lo più maschi (66.9% e 78.7%, rispettivamente), hanno 18 anni (57.6% e 40.7%), proven- gono entrambi in forte maggioranza dalle fila del CNOS-FAP (62.2% e 72.6%), dai CFP del nord (64% e 52.6%), ma sia gli uni che gli altri si dividono in misura pres- sappoco uguale tra chi è stato bocciato e chi può vantare un percorso regolare (48.3% e 48.3% tra gli studenti e 52.6% e 44.4% tra i lavoratori). Al contrario quanti attualmente risultano inoccupati o disoccupati, si distribuiscono in propor- zioni simili tra maschi e femmine (48.4% e 51.6%, rispettivamente), provengono in maggioranza dai CFP del CIOFS/FP (60.1%) e presentano una percentuale più rilevante di bocciature (54.2%). Se i tre sottocampioni sono considerati invece in rapporto al pregresso per- corso scolastico-formativo, si riscontra il seguente andamento: – coloro che hanno frequentato il percorso del diritto-dovere proveniendo di- rettamente dalla secondaria di I grado assommano al 46.6% del totale (302): di essi oltre i due terzi (67.6%) hanno fatto un percorso regolare, esente da boc- ciature, sono in maggioranza maschi (71.5%), 18enni (61.9%), delle regioni del nord (50%) e per lo più frequentano i CFP del CNOS-FAP (70.5%); – coloro che invece si sono iscritti alla FP dalla secondaria di II grado, risultano un numero leggermente più alto (314 = 48.5%), ma si caratterizzano per essere stati bocciati nel 78% dei casi, per essere due su tre maschi (64%), uno su due del nord (51.3%) e si sono inseriti in parti pressappoco uguali tanto nei CFP del CNOS-FAP (51.3%) che in quelli del CIOFS/FP (48.7%); – nella quota residua si trova una netta minoranza di ex-allievi/e che provengono direttamente dalla FP (10 = 1.5%) e risultano quasi tutti bocciati (7); a sua volta un altro 3.4% (22) si è iscritto alla FP da altri percorsi e si distingue per la quasi totale assenza di bocciature. Riassumendo, sulla base delle variabili di status che caratterizzano il campione nel suo insieme si può concludere che esso è composto da una maggioranza di ex- allievi, al cui interno figurano i maschi (67.7%), i qualificati nei CFP del CNOS- FAP (61.3%), i 18-19enni (77.5%), i residenti nelle regioni del nord (51.1%), i lavoratori (51.6%), e da una minoranza che include in particolare le femmine (32.3%), i qualificati nei CFP del CIOFS/FP (38.7%), i residenti nelle regioni centrali (22.6%) e meridionali (26.3%), chi sta ancora studiando (27%) e da chi al momento del sondaggio è disoccupato/inoccupato (24%). In aggiunta, il campione si connota per l’alto tasso di bocciature (55.3%), a significare altrettante esperienze negative lungo il percorso previo, in particolare quello scolastico (con riferimento soprattutto alla secondaria di II grado). In posi- tivo il dato mette in risalto sia il prezioso apporto offerto dalla FPI sperimentale non solo ai fini del recupero delle fasce deboli del sistema d’istruzione, conside- 76 rando che quasi tutti gli iscritti alla FPI hanno ottenuto una qualifica, sia la capacità formativa della FPI, che l’indagine ha potuto rilevare attraverso le quote di ex- allievi che si sono inseriti nel mercato del lavoro o hanno potuto proseguire gli studi nei livelli superiori. 2. LA POSIZIONE DEGLI EX-ALLIEVI/E CHE HANNO CONTINUATO A STUDIARE Come anticipato, i giovani di questo gruppo rappresentano poco più di un quinto del campione (27%). Nei loro confronti si è cercato di conoscere il back- ground culturale (se provengono dalla secondaria di I o di II grado – dom. 3 – e se sono stati bocciati – dom. 4), l’attuale posizione negli studi (dom. 1) e le relative motivazioni (dom. 2), la valutazione circa le competenze acquisite nel percorso del diritto-dovere (dom. 5 e 6), la sua corrispondenza alle attese e l’apporto dato al proseguimento degli studi (dom. 7), per terminare con uno sguardo prospettico sul futuro lavoro (dom. 8). 2.1. Identikit degli studenti in base al pregresso percorso scolastico-formativo I 172 ex allievi/e che hanno deciso di continuare a studiare provengono, secondo quanto già visto nelle Tavv. 3 e 4 della sezione precedente, in numeri e percentuali simili dalla secondaria di I (78 = 45.3%) e di II grado (82 = 47.7%). A sua volta, una ristretta minoranza si è iscritta dalla FP (4= 2.3%), mentre non si è a conoscenza del percorso di altri 8 (4.7%). Diversamente che nel caso dei dati globali considerati sopra, si tratta adesso di analizzare specificatamente la regolarità o meno del loro percorso. Scendendo attraverso la Tav. 5 nei particolari dei dati disaggregati, si evince che: – una maggioranza relativa, rapportabile a circa la metà di questo gruppo, ha frequentato il percorso del diritto-dovere provenendo dalla scuola secondaria di II grado (47.7%); al suo interno le percentuali più elevate riguardano il CIOFS/FP (63.1%), gli appartenenti alle regioni centrali (60.7%), l’età dai 19 anni in su (attorno al 70%), chi è andato incontro ad insuccesso lungo il pre- gresso percorso scolastico (72.3%); – soltanto il 45.3% ha seguito un percorso regolare, provenendo dalla secondaria di I grado: in questo si distinguono particolarmente i 18enni (60.6%) e ovvia- mente chi non è stato mai bocciato (69.9%); – appena il 2.3% viene dalla FP: sono tutti maschi (3.5%), del CNOS-FAP (3.7%), alcuni dei quali con esperienze fallimentari (3.6%); – infine è interessante osservare che la domanda chiedeva anche di verificare la eventuale provenienza da pregresse esperienze lavorative o da una condizione di disoccupazione, ma sono alternative che nessuno degli studenti ha segna- lato. 77 Ta v. 5 - D is tri bu zi on e de gl i s tu de nt i i n ba se a l p er co rs o sc ol as tic o- fo rm at iv o pr ec ed en te a l p er co rs o de l d iri tto -d ov er e (b as e= 17 2) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e Ta v. 6 - D is tri bu zi on e in b as e al ta ss o di b oc ci at ur e de gl i a lli ev i/e c he h an no c on tin ua to a s tu di ar e (b as e = 17 2; d om . 4 ) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e 78 La necessità di passare dai dati del campione nel suo insieme a quelli peculiari a ciascun gruppo comportava anche di coniugare la provenienza con il tasso di boc- ciature. Di conseguenza i dati complessivi della Tav. 2 della sezione precedente sono stati ulteriormente disaggregati, per rapportarli separatamente al sottocam- pione di coloro che hanno scelto di proseguire il loro percorso formativo (fin qui). In base alla Tav. 6 è possibile osservare all’interno di questo gruppo una per- fetta parità nel rapporto tra bocciati e non (entrambi 83 = 48.3%) e, nei confronti dei primi, in coerenza con i dati della tavola precedente, la provenienza di circa tre su quattro (73.2%) dalla secondaria di II grado e la sovrarappresentazione degli ex- allievi con l’età più elevata (19enni = 81.4% e 20enni = 66.7%). Un tale andamento verifica quindi l’ipotesi di una situazione di insuccesso per gran parte di questo sottogruppo, convalidando di rimando la funzione non solo di recupero da parte dei percorsi del diritto-dovere e delle strutture formative che li gestiscono, ma anche la capacità di rilanciare verso nuove mete educative almeno una parte di coloro che in precedenza erano rimasti svantaggiati. 2.2. L’attuale posizione negli studi e motivazioni sottese Una volta ricostruita la carriera scolastico-formativa di provenienza, il pas- saggio successivo consisteva logicamente nell’arrivare a conoscere quali ulteriori indirizzi di studio hanno imboccato i 172 ex allievi/e che, dopo il percorso del diritto-dovere, hanno deciso di proseguire la loro formazione nel sistema educativo. Dalla Tav. 7 emerge il seguente andamento: – una netta maggioranza composta da oltre i due terzi (116 = 67.4%) si sono in- seriti o (a seconda dei precedenti insuccessi) reinseriti nella scuola secondaria di II grado; – più in particolare, il primo caso, cioè l’iscrizione per la prima volta in questo livello di studi, ha riguardato circa tre su quattro di chi non è stato mai boc- ciato (72.3%) e, in aggiunta, la grande maggioranza proviene direttamente dal I grado (82.1%) e presenta una età più giovane, 18 anni (68.7%); – al contrario, il reinserimento nella scuola secondaria di II grado interessa oltre il 50% di coloro che hanno già frequentato tale livello ancora prima di iscri- versi al percorso del diritto-dovere (44 = 53.7%); ovviamente tale quota si ca- ratterizza per le medesime variabili che distinguono coloro che provengono da pregresse esperienze di insuccessi, ossia l’elevato tasso di bocciature (60.2%) e l’età più avanzata (oltre due su tre di chi ha 19 anni e più). In ultima istanza, mettendo a confronto quel 47.7% (82) che ha dichiarato di provenire dal II grado con quel 67.4% (116) di coloro che attualmente studiano nel II grado, si può affermare con una certa sicurezza che una quota di questi ultimi è rientrato nel sistema di istruzione dopo aver frequentato i percorsi della FPI (cfr. Tavv. 5 e 6). Inoltre, va aggiunto che a favorire maggiori opportunità verso questo sbocco gioca anche la variabile della residenza di gran parte di questi studenti nelle 79 Ta v. 7 - In di riz zo d eg li st ud i f re qu en ta to a ttu al m en te (b as e= 17 2; d om . 1 ) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e Ta v. 8 - Va lu ta zi on e de lla c or ris po nd en za d el c or so a lle p ro pr ie a tte se (b as e= 17 2; d om . 7 - in M ** *; in g ra du at or ia ) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e ** *M = m ed ia p on de ra ta e i v al or i so no : 1 = m ol to ; 2 = ab ba st an za ; 3 = po co ; 4 = pe r nu ll a 80 regioni del centro (70%) e del nord (75%). In ogni caso qui interessa sottolineare che la frequenza dei percorsi del diritto-dovere ha consentito a una parte notevole di quanti erano incappati in un insuccesso scolastico e avevano abbandonato gli studi di riprendere il loro percorso precedente. Tra le scelte di un indirizzo di studi dopo il conseguimento della qualifica o di un attestato di frequenza non va trascurato il dato che uno su cinque (34 = 19.8%) di questo sottocampione sta seguendo il IV anno della formazione professionale (34 = 19.8%). Anche in questo caso la maggior parte proviene dal II grado (22 = 26.8%), ha avuto a che fare con bocciature o altre esperienze negative (19= 22.9%) ed ha frequentato i corsi del CIOFS/FP (20 = 30.8%). Quote minoritarie si sono inserite in altre modalità del sistema educativo (apprendistato, IFTS..., 8.7%, o in corsi di formazione continua, 1.2%). In genere questi ex-allievi/e presentano le stesse caratteristiche che contraddistinguono chi è rimasto all’interno del sistema di FP. Pertanto, in ultima analisi si può dire che il gruppo degli studenti è diviso a metà tra chi proviene dalla scuola media ed ha un percorso regolare (78 = 45.3%) e chi invece viene dalle superiori con un bagaglio di esperienze fallimentari (82 = 47.7%). In questi casi il percorso del diritto-dovere sembrerebbe aver costituito nei confronti di entrambi una “piattaforma formativa” in grado non solo di approfondire le conoscenze/competenze di base, trasversali, tecnico-professionali e specialistiche ma di contribuire poi a (ri)motivarli a continuare sulla base di un progetto persona- lizzato che li ha indotti a mettere a frutto le ulteriori possibilità che si offrivano loro. Una conferma in tal senso la ritroviamo nella successiva domanda mirata a verificare le ragioni della scelta di proseguire negli studi. A fronte di una variegata serie di alternative, gli ex-allievi/e di questo sottocampione hanno optato sostan- zialmente per due: – quella più segnalata (da 82 = 47.7%) fa riferimento alla possibilità di ottenere maggiori e migliori opportunità di scelta nella futura professione, e quindi la- scia intuire che si è in presenza di soggetti dotati di un livello elevato di moti- vazioni dato che si prospettano una carriera lavorativa in grado di farli sentire realizzati; a confermare questa determinazione si aggiungono poi le percen- tuali dei bocciati, di chi proviene dalle superiori, di chi ha frequentato i CFP del CIOFS/FP, delle ragazze, di chi ha un’età più elevata e dei residenti nelle regioni centro-meridionali, cioè tutte quelle caratteristiche che hanno il sapore del riscatto rispetto al passato e che si distinguono per una carica di progettua- lità riguardo al futuro, nei cui confronti un contributo determinante è venuto sicuramente anche dall’aver partecipato al percorso; – l’altra ragione, seppure meno segnalata (50 = 29.1%), è tuttavia del tutto simile in quanto condivide con la precedente l’aspirazione di fare carriera sul piano professionale, aspirazione la cui realizzazione però – si avverte – potrebbe tro- vare un limite nella qualifica ottenuta con il corso; al tempo stesso si tiene a precisare che la scelta di continuare gli studi non intende svalutare il titolo 81 appena conseguito o denunciare l’inadeguatezza delle competenze apprese nel percorso (motivazioni che sono state segnalate appena dal 2.9% e dallo 0.6%, rispettivamente). In proposito va da ultimo sottolineato che nel segnalare il bisogno di una qualifica superiore si caratterizzano soprattutto i 18enni e i provenienti dal I grado. E comunque, indipendentemente dalle variabili di status che fanno capo al- l’una o all’altra motivazione si può a tutti gli effetti sostenere che chi ha continuato a studiare ha scelto tale opzione in vista di un progetto strettamente connesso alla realizzazione di sé. Pertanto, gli ex-allievi/e di questo gruppo hanno deciso di pun- tare su una carriera professionale il più possibile rispondente alle proprie aspetta- tive, rispetto alla quale un titolo ancora superiore a quello conseguito con il per- corso poteva rappresentare sicuramente un passaggio indispensabile. 2.3. Valutazione del corso e prospettive di futuro A conferma che la scelta di proseguire gli studi non significa scontento a motivo della limitatezza del titolo offerto dal percorso del diritto-dovere, ma anzi quest’ul- timo è stato considerato un’opportunità per un rilancio delle proprie aspirazioni, viene la serie delle domande mirate a valutare le competenze acquisite con il corso, la corrispondenza alle proprie attese e l’apporto che esso ha dato al proseguimento degli studi. In primo luogo si osservano apprezzamenti assai elevati su tutte le alternative presenti nell’apposita domanda in merito alla congruenza dell’offerta formativa con le proprie aspettative (cfr. Tav. 8). Le valutazioni che si avvicinano maggior- mente al livello del “molto” riguardano: – il rapporto docente-allievo (M = 1.25)1, particolarmente apprezzato tra le fila del CIOFS/FP (M = 1.11), delle ragazze (M = 1.16), dei residenti nelle regioni centro-meridionali (M = 1.04 e 1.18, rispettivamente) e di chi presenta un per- corso esente da bocciature (M = 1.20); – le metodologie adottate (M = 1.36), nei cui confronti concordano pressoché tutti, ma sono state ritenute ancor più rispondenti dalle ragazze (M = 1.23); – l’organizzazione delle attività (M = 1.38), che trova particolarmente soddisfatte ancora le ragazze (M = 1.28), gli ex-allievi/e del CIOFS/FP (M = 1.31), chi ha più di 20 anni (M = 1.26) e chi proviene dalle superiori (M = 1.34); – le attrezzature (M = 1.39), di cui si fanno interpreti soprattutto i maschi (M = 1.32), gli ex-allievi/e del CNOS-FAP (M = 1.25) e delle regioni del nord (M = 1.29); – e, nella stessa misura, la formazione dei docenti (M = 1.39), la cui validità si può dire unanimemente attestata. 1 Come si evince nella legenda apposta in calce alle tavole che riportano la media ponderata dei giudizi, si fa presente una volta per tutte che più tale media è bassa (ossia più si avvicina al valore di 1.00) e più sta ad indicare alte valutazioni. 82 In misura leggermente inferiore, ma restando pur sempre sul livello della “molta corrispondenza”, sono stati apprezzati: – la partecipazione alla vita del CFP (M = 1.41), ancora una volta particolar- mente segnalata e vissuta tra le fila delle ragazze (M = 1.19), del CIOFS/FP (M = 1.13) e del sud/isole (M = 1.29); – il rapporto con le aziende (M = 1.43), di cui si sono fatti interpreti pressoché tutti, senza particolari distinzioni; – l’adeguatezza dei programmi (M = 1.45), nei cui confronti gli apprezzamenti partono ancora una volta soprattutto dalle fila delle ragazze (M = 1.33) e del CIOFS/FP (M = 1.37); – e le attività di orientamento, pur sempre assai valutate (M = 1.63), anche se trovano un po’ meno soddisfatti quanti hanno frequentato i CFP del sud/isole (M = 1.85). Se si passa quindi dal giudizio sulla corrispondenza del percorso alle proprie aspettative a quello sul contributo che esso offre agli studi che si stanno effet- tuando attualmente, si riscontra che i più non avvertono il bisogno di avere mag- giori competenze. Rovesciando i termini, un tale andamento sta a significare che l’offerta formativa del diritto-dovere ha fornito loro le basi per poter continuare ai livelli superiori. Passando ad analizzare più dettagliatamente i dati, emerge che: – ciò di cui si avverte meno bisogno in questo momento sono le competenze tra- sversali (capacità di comunicazione, problem solving... - M = 2.80), cui fanno seguito, pressappoco nella stessa misura, quelle specialistiche (M = 2.68) e tec- nico-professionali (M = 2.62), mentre si ammette di avere un po’ più bisogno di quelle di base (M = 2.35); – tuttavia, scendendo tra i dati disaggregati si osserva una certa spaccatura al- l’interno del gruppo tra chi percepisce in misura maggiore o minore l’esigenza di padroneggiare delle competenze; e il divario a sua volta è distribuito in rap- porto alle due principali caratterizzazioni che si riscontrano nel sottocampione, ossia da una parte i maschi, e con essi il CNOS-FAP ed i residenti nelle regioni del nord, i quali riportano pressoché in tutte le alternative considerate delle medie che attestano del poco/scarso bisogno di potenziare le loro competenze e, dall’altra, le femmine e con esse il CIOFS/FP, le regioni del centro-sud e l’età più elevata, cui fa da contorno anche la provenienza dalle scuole supe- riori, le quali segnalano l’esigenza in questione (cfr. Tav. 9). L’ultimo esito va interpretato in relazione ad un oggettivo bisogno che avverte soprattutto la componente femminile di affermarsi sul mercato del lavoro. E tut- tavia se ci si ricollega alle valutazioni decisamente più elevate da parte della com- ponente femminile, riscontrate in precedenza nella Tav. 8, in merito alla corrispon- denza alle proprie attese della formazione ricevuta, l’esigenza di maggiori compe- tenze non sembra mettere in gioco le responsabilità del CIOFS/FP di non averle 83 Ta v. 9 - C os a ti se rv e di p iù n ei tu oi a ttu al i s tu di , r is pe tto a q ua nt o ha i a pp re so n el d iri tto -d ov er e (b as e= 17 2; d om . 5 - in M ** *) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e ** *M = m ed ia p on de ra ta e i v al or i so no : 1 = m ol to ; 2 = ab ba st an za ; 3 = po co ; 4 = pe r nu ll a Ta v. 1 0 -V al ut az io ne c om pl es si va d el c or so tr ie nn al e de l d iri tto -d ov er e (b as e= 17 2; d om . 6 - in M ** *) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e ** *M = m ed ia p on de ra ta e i v al or i so no : 1 = m ol to ; 2 = ab ba st an za ; 3 = po co ; 4 = pe r nu ll a 84 preparate quanto piuttosto fanno riferimento alle minori opportunità formative e occupazionali che hanno le donne, in particolare nelle regioni centro-meridionali dove l’Ente opera. E, a conferma di quest’ultima interpretazione, si possono citare i dati relativi alla richiesta di valutare complessivamente il percorso in merito al contributo che esso ha dato sia per il proseguimento degli studi che per la formazione globale della personalità. In questo caso il gruppo ritrova tutta la sua compattezza nel ritenere “molto” utile l’apporto offerto. In particolare, nelle valutazioni più elevate sia della formazione globale della personalità (M = 1.40) che del proseguimento degli studi (M = 1.45 - cfr. Tav. 10) si distinguono ancora una volta in particolare le ragazze (M = 1.26 e 1.33, rispettivamente) e chi ha frequentato i CFP del CIOFS/FP (M= 1.29 e 1.31), cui si uniscono anche i residenti nelle regioni centrali (M= 1.25 e 1.36). La scheda terminava con una domanda sul futuro lavoro, se si accettava solo quello che fosse in conformità con la formazione ricevuta oppure se ci si sarebbe accontentati anche di una qualsiasi occupazione che a suo tempo si sarebbe trovata sul mercato. Ovviamente e in stretta coerenza con le ambizioni emerse nel moti- vare il proseguimento degli studi, una netta maggioranza ha optato per una profes- sione coerente con la preparazione ricevuta (80.2%), mentre appena uno su cinque sembrerebbe disponibile a ripiegare su una qualsiasi opportunità (18.6%); in que- st’ultimo gruppo prevalgono – a sostegno di quanto evidenziato precedentemente – quelle categorie che si presentano particolarmente svantaggiate e/o godono di mi- nori opportunità in rapporto al mercato del lavoro, ossia i residenti nelle regioni centro-meridionali, l’età più avanzata e chi ha avuto esperienze fallimentari lungo il percorso scolastico-formativo. 3. GLI EX-ALLIEVI/E CHE ATTUALMENTE LAVORANO Il gruppo di coloro che, al termine del corso triennale del diritto-dovere e dopo aver ottenuto quasi tutti la qualifica, hanno trovato lavoro è rappresentato da 329 ex- allievi/e, i quali costituiscono il 51.6% del campione. Anche in questo caso si è cer- cato anzitutto di individuare da quale percorso scolastico-formativo provengono (dom. 10) e con quale successo (dom. 14), per poi analizzare l’esperienza professio- nale in base alle modalità con cui hanno reperito una occupazione ed entro quanto tempo (dom. 3 e 2), alla tipologia contrattuale (dom. 1ss.), alla coerenza tra il titolo e le mansioni svolte (dom. 5 e 6), al grado di soddisfazione nei confronti dell’attuale lavoro (dom. 15) e ad eventuali esperienze precedenti all’attuale lavoro (dom. 9). In seguito si è passati a verificare se e quanto il percorso ha agevolato l’inserimento nel sistema produttivo (dom. 4), quanto ha corrisposto alle proprie attese (dom. 16), come lo valutano complessivamente (dom. 7) e quali miglioramenti potrebbero essere apportati (dom. 17), se avvertono il bisogno di una ulteriore riqualificazione e di che tipo (dom. 18ss.) e se al termine del percorso del diritto-dovere si sono iscritti 85 ad altri corsi di formazione (dom. 8ss). La scheda terminava chiedendo agli inter- vistati se pensavano di cambiare lavoro in futuro e per quale ragione (dom. 19ss). 3.1. Identikit dei lavoratori in base al percorso scolastico-formativo di prove- nienza Come per gli studenti, anche nei confronti dei lavoratori si è partiti con l’in- tento di conoscere anzitutto la provenienza da un pregresso percorso scolastico- formativo. In proposito, si è voluto anche approfondire il tipo di esperienze, posi- tive o negative, a cui si è andati incontro. I 329 ex-allievi/e che al termine del percorso del diritto-dovere sono entrati nel mercato del lavoro provengono anche in questo caso in misura pressappoco uguale tanto dalla secondaria di I che di II grado (46.8% e 45.3%, rispettivamente). Così come per gli studenti, anche in questo caso si evidenzia un differenza tra i due livelli: infatti, mentre il 69.9% di chi è approdato alla FPI direttamente dalla media risulta esente da bocciature, ben il 66.5% di chi si è iscritto dalla secondaria superiore ha riportato insuccessi. Inoltre, tra coloro che provengono dal I grado, si riscontra una presenza maggioritaria di maschi (51%), di 18enni (64.2%), del CNOS-FAP (53.1%); mentre tra quelli del II grado si rileva una quota percentualmente superiore di femmine (58.6%), del CIOFS/FP (64.4%), di ultra 20enni (70.6%). Solo una ristretta minoranza si è iscritto dalla FP (1.8%), a cui si aggiunge un altro 4.2% di cui non si ha una precisa segnalazione (cfr. Tav. 11). Tale provenienza è stata segnalata da 20 soggetti in tutto (6 = 1.8%), esclusivamente del CNOS-FAP. Per approfondire ulteriormente la regolarità o meno del percorso scolastico- formativo di questi lavoratori si richiedeva anche in questo caso di scomporre i risultati generali riportati nella Tav. 12 della sezione iniziale in base all’esperienza o meno di bocciature durante la propria carriera. Come si può osservare, il rapporto tra i lavoratori che presentano un curricolo scolastico-formativo carico di insuccessi e quelli che invece ne sono esenti è di 52.6% (=173) a 44.4% (146), rispettivamente.Oltre tre su quattro del primo gruppo (115 su 173, pari al 77.2%) provengono dalla secondaria di II grado in genere per essere stati bocciati, viceversa tra coloro che sono passati direttamente dal I grado al percorso del diritto-dovere due su tre risultano esenti da irregolarità (66.2%). Scendendo ulteriormente tra i dati disaggregati si rileva che mentre tra le fila del CNOS-FAP il rapporto tra bocciati e non appare abbastanza in pareggio (45.6% e 50.2%), nel CIOFS/FP è del 71.1% contro il 28.9%; tale dato. a sua volta, trova conferma nella presenza di una situazione di insuccesso in circa tre su quattro dei 19-20enni (oltre il 70%). 3.2. Valutazione dell’attuale esperienza lavorativa Nel prendere in considerazione il periodo successivo alla conclusione del per- corso si rileva che il 45.6% di questo gruppo ha trovato lavoro quasi subito (entro 1 86 Ta v. 1 1 -D is tri bu zi on e de i l av or at or i i n ba se a lla c ar rie ra s co la st ic o- fo rm at iv a pr ec ed en te a l p er co rs o de l d iri tto -d ov er e (b as e= 32 9) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e Ta v. 1 2 -D is tri bu zi on e de gl i a lli ev i c he h an no tr ov at o la vo ro in b as e al ta ss o di b oc ci at ur e (b as e= 32 9) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e 87 mese) e un altro terzo (34.7%) entro 6 mesi: in pratica nel giro di un semestre l’80% è riuscito a collocarsi nel sistema produttivo. Soltanto uno su cinque (19.7%) è rimasto inoccupato per circa 1 anno, ma poi anche questi ultimi hanno potuto inserirsi nel mercato (cfr. Tav. 13). Le diversità nei tempi appaiono correlate ad altrettante differenze interne che caratterizzano il gruppo dei lavoratori: – quei fortunati che hanno trovato quasi subito lavoro si presentano percentual- mente più presenti tra le fila dei maschi (48.3%), del CNOS-FAP (49.8%), dei 18enni (51.5%) e dei residenti al nord (49.1%); – viceversa le femmine (44.3%), gli iscritti del CIOFS/FP (50%) e chi è stato bocciato (42.2%) in genere hanno impiegato circa o almeno 6 mesi di tempo prima di riuscire ad affermarsi nel mondo del lavoro, ma alla fine anche costoro sono riusciti nell’intento; – chi invece è stato un po’ meno fortunato è quel 20% circa che ha impiegato pressappoco un anno; in questo caso a pesare sul fenomeno non sono tanto le bocciature o la condizione femminile (che si presenta percentualmente pari a quella maschile) quanto l’appartenenza alle regioni del sud/isole (34.6%); dato che torna ancora una volta a confermare le minori opportunità presenti in queste regioni. L’inserimento occupazionale è avvenuto essenzialmente grazie a tre strategie: – quella principale, segnalata da quasi la metà degli intervistati (43.5%), riguar- da esplicitamente il percorso clientelare che fa capo all’appoggio di parenti e amici; venendo ai dati disaggregati, essa risulta adottata in particolare nelle regioni del centro-sud (46.7% e 58%, rispettivamente), dai maschi (47.1%) e dai 18-19enni (43.3% e 48.2%); e comunque una tale opportunità non si è presentata proprio subito ma si è materializzata per lo più nel giro di 6 mesi o un anno (42.1% e 51.6%); – le altre due vie all’inserimento occupazionale sono state segnalate in entrambi i casi da circa un quinto, ma sono diametralmente opposte in quanto riguar- dano, l’una, il darsi da fare andando in giro presentandosi da soli (19.8%), mentre l’altra risulta meno problematica in quanto il datore di lavoro ha già potuto conoscere il lavoratore quando era ancora agli studi, attraverso lo stage (19.5%); anche la scelta di queste due diverse strategie si presta a distinguere il gruppo dei lavoratori: – nella quota di chi ha avuto maggiore determinazione nel presentarsi da solo le segnalazioni più rilevanti partono dalle fila delle ragazze (34.3%) e da chi ha frequentato i corsi del CIOFS/FP (41.1%); al tempo stesso una tale strategia sembrerebbe trovare un certo sostegno tra quanti risiedono nelle regioni del nord (25.4%) e quindi fa pensare che si accompagni a una situazione in cui si riscontrano maggiori opportunità di offerta; 88 – viceversa chi è stato assunto grazie allo stage è percentualmente più presente tra gli intervistati che hanno frequentato i CFP del CNOS-FAP (20.9%) e la più gran parte di costoro si caratterizza per aver trovato lavoro entro un mese (28.7%). Al momento dell’inchiesta 308 intervistati su 329 erano occupati in qualità di dipendenti (93.6%), mentre appena il 6.4% ha dichiarato che stava svolgendo un lavoro autonomo. Gli ex-allievi/e del secondo gruppo sono quasi tutti maschi (19 su 21), divisi in parti uguali tra chi ha un lavoro in proprio e chi è inserito in un’attività a gestione familiare; ovviamente per tutti costoro l’inserimento è stato immediato. Tornando invece ai lavoratori dipendenti, circa due su tre sono stati assunti come apprendisti (61%) e in quanto tali hanno trovato una sistemazione subito o al massimo entro 6 mesi e il dato sembrerebbe coniugarsi più facilmente con coloro che si sono inseriti grazie allo stage. La quota residua si divide tra operai comuni (18.8% – al cui interno prevalgono le ragazze e l’età più alta) e operai qualificati/specializzati (10%): in entrambi i casi per la loro assunzione sono stati necessari almeno 6 mesi o un anno. Più di un terzo (33.7%) è stato assunto con contratti di formazione-lavoro o di apprendistato. Negli alti casi la tipologia si presenta alquanto variegata: uno su cinque ha dichiarato di essere stato assunto regolarmente a tempo pieno (20.7%); un altro 10.6% si trova nella stessa condizione, ma a tempo parziale; in aggiunta, il 10.3% ha dichiarato di avere un contratto stagionale e il 2.4% uno a progetto. Al contrario, il 12.8% non è stato ancora assunto regolarmente e al loro interno si fanno notare i residenti nelle regioni del sud/isole e chi ha intenzione di cambiare lavoro. Nel confronto tra la qualifica e le competenze acquisite nel percorso del diritto- dovere con il lavoro attuale le valutazioni si collocano ancora una volta sui più alti livelli, cioè tra “abbastanza” e “molto”. Tale apprezzamento riguarda sia la stima dei compagni di lavoro (M = 1.65) che le abilità richieste per svolgere le mansioni assegnate (M = 1.79) (cfr. Tav. 14). In entrambi i casi non si rilevano particolari differenze tra le variabili prese in osservazione. A suggellare quanto è stato espresso sopra viene poi la richiesta di indicare se la qualifica conseguita è stata trovata di livello superiore, uguale o inferiore rispetto alle mansioni svolte attualmente. La media delle risposte attesta di un rapporto di parità tra la qualifica (e quindi tra le competenze acquisite nel corso) e i compiti che attualmente viene loro domandato di svolgere; nel dare questa ulteriore valutazione gli intervistati si ritrovano ancora tutti d’accordo per cui non si rilevano particolari differenze all’interno del gruppo dei lavoratori. Richiesti infine di manifestare il loro grado di soddisfazione nei confronti del- l’attuale lavoro, la media delle valutazioni è risultata assai elevata in rapporto a pressoché tutti i parametri presenti nella domanda. E tuttavia anche in questo caso è possibile fare la distinzione tra gli apprezzamenti che si collocano vicini al 89 Ta v. 1 3 -T em po im pi eg at o pe r t ro va re la vo ro d al te rm in e de l c or so (b as e= 32 9; d om . 2 ) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e Ta v. 1 4 -R ap po rto tr a la q ua lif ic a/ co m pe te nz e ac qu is ite n el c or so e l’ am bi en te d i l av or o (b as e= 32 9; d om . 6 - in M ** *) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e ** *M = m ed ia p on de ra ta e i v al or i so no : 1 = m ol to ; 2 = ab ba st an za ; 3 = po co ; 4 = pe r nu ll a 90 livello del “molto” e quelli che propendono maggiormente verso l’“abbastanza” (cfr. Tav. 15). Nel primo caso di valutazioni che si approssimano al massimo troviamo che ciò che più gratifica nello svolgere le proprie mansioni, è: – il rapporto con i compagni di lavoro (M = 1.36); – l’ambiente stesso di lavoro (M = 1.47); – il rapporto con i capi (M = 1.48); – la sicurezza sul lavoro (M = 1.50). A fronte di questo primi apprezzamenti vengono altri che, sebbene legger- mente meno segnalati, attestano comunque di una soddisfazione “abbastanza” ele- vata per i compiti che stanno svolgendo, ossia: – l’orario di lavoro (M = 1.66); – la sicurezza del posto (M = 1.69); – le competenze richieste per esercitare le proprie mansioni (M = 1.70); – l’autonomia nello svolgimento della propria occupazione (M = 1.73); – il riconoscimento per un lavoro ben eseguito (M = 1.77); – la responsabilità affidata (M = 1.80); – la possibilità di impiegare bene le proprie competenze (M = 1.89). Leggermente meno gratificanti, ma rimanendo pur sempre sul livello dell’“ab- bastanza”, si collocano: – il salario (M = 1.93); – la possibilità di fare carriera (M = 2.09). In rapporto all’intera serie di valutazioni si osserva poi che un contributo più rilevante e decisivo, a significare un’altrettanta soddisfazione nei confronti dell’at- tività lavorativa, in genere parte dalle fila dei 18enni, dei non bocciati, dei residenti nel nord e di chi è stato assunto subito al termine del corso. Al contrario, chi ha un’età più alta, i bocciati e chi ha trovato lavoro dopo circa un anno hanno espresso in genere apprezzamenti inferiori, pur rimanendo su livelli elevati; resta comunque un dato di fatto che nessuno è sceso al di sotto dell’“abbastanza” nei confronti del- l’esperienza professionale in atto. Prima di chiudere le domande sull’occupazione che gli intervistati stanno svol- gendo, si è ritenuto opportuno prendere anche in considerazione se tra la fine del percorso e l’attuale impiego sono intercorse altre attività lavorative. Ha risposto affermativamente al riguardo un terzo circa del gruppo e la maggior parte ha am- messo di aver avuto una sola esperienza (24.6%), ma c’è stato anche chi nel frat- tempo ha partecipato a più di una (7.6%): in entrambi i casi si tratta essenzialmente di maschi, di chi ha un’età più avanzata e di chi è andato incontro ad insuccessi scolastici e, in aggiunta, una metà pensa già da ora che in seguito cambierà anche l’attuale lavoro. 91 Ta v. 1 5 -G ra do d i s od di sf az io ne n ei c on fr on ti de ll’ at tu al e la vo ro (b as e= 32 9; d om . 1 5 - i n M ** *) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e ** *M = m ed ia p on de ra ta e i v al or i so no : 1 = m ol to ; 2 = ab ba st an za ; 3 = po co ; 4 = pe r nu ll a 92 3.3. Valutazione del percorso e prospettive di futuro Così come agli studenti, anche ai lavoratori è stato chiesto di valutare il percorso del diritto-dovere. In questo caso però si è chiesto di giudicarlo sulla base del contributo che esso ha offerto per svolgere l’attuale occupazione. Un apporto positivo è stato verificato anzitutto in merito ai seguenti aspetti del lavoro che si sta svolgendo: – anzitutto nel fornire le competenze che sono risultate indispensabili per com- piere le mansioni che sono state loro affidate (M = 1.77); – inoltre nell’aver abbreviato il tempo per trovare lavoro (M = 1.91); – ed infine nell’aver favorito la conclusione di un buon contratto (M = 2.17) (cfr. Tav. 16). Come si può osservare nella Tav. 16, tali benefici sono stati evidenziati ancora una volta dalle stesse categorie di ex-allievi/e che si sono precedentemente distinte per un maggiore tasso di soddisfazione nei confronti del lavoro svolto attualmente. Più specificamente si tratta dei maschi (M = 1.86), dei 18enni (M = 1.87), di chi non è mai andato incontro ad insuccessi scolastici (M = 1.88) e in particolare di chi ha trovato subito lavoro al termine del percorso (M = 1.60). Non poteva mancare anche da parte dei lavoratori un giudizio per il modo in cui la FPI ha corrisposto alle proprie attese. Attraverso la Tav. 17 si evince che tale valutazione si colloca, come già per gli studenti, su un livello intermedio tra “molta” e “abbastanza” soddisfazione e presenta la seguente graduatoria: a) ciò che del corso è stato più apprezzato, riguarda: – il rapporto formatori-allievi (M = 1.42); – la partecipazione alla vita del Centro (M = 1.50); – l’organizzazione delle attività (M = 1.57); – le metodologie (M = 1.59); b) su un livello leggermente inferiore e quindi più vicino all’“abbastanza” vengono evidenziati: – il rapporto con le aziende (M = 1.60); – la formazione dei docenti (M = 1.60); – le attrezzature (M = 1.62); – l’adeguatezza dei programmi (M = 1.66); – l’orientamento (M = 1.74). Confrontando l’andamento d’insieme delle valutazioni dei lavoratori con quelle date dagli studenti 2 si osserva anzitutto che, seppure a fronte di un elevato gradiente di gratificazione da parte di entrambi i gruppi nei confronti di pressoché tutti gli aspetti elencati nella domanda, gli studenti appaiono ancor più generosi 2 Cfr. nella sezione precedente, al punto 2.3, la Tav. 8. 93 Ta v. 1 6 -V an ta gg i/a ge vo la zi on i o ff er te d al p er co rs o in m er ito a ll’ at tu al e ra pp or to d i l av or o (b as e= 32 9; d om . 4 - in M ** *) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e ** *M = m ed ia p on de ra ta e i v al or i so no : 1 = m ol to ; 2 = ab ba st an za ; 3 = po co ; 4 = pe r nu ll a Ta v. 1 7 -V al ut az io ne d el la c or ris po nd en za d el c or so a lle p ro pr ie a tte se (b as e= 32 9; d om . 1 6 - i n M ** *) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e ** *M = m ed ia p on de ra ta e i v al or i so no : 1 = m ol to ; 2 = ab ba st an za ; 3 = po co ; 4 = pe r nu ll a 94 nell’esprimere i propri giudizi, a significare di aver tratto dal corso una maggiore soddisfazione. Inoltre nel voler rilevare coincidenze e differenze tra i due gruppi, si nota che entrambi concordano nel porre al primo posto il rapporto tra allievi e do- centi e, all’ultimo, l’orientamento; mentre le diversità più significative si riscon- trano in merito alle metodologie e alle attrezzature, queste ultime per essere state decisamente più apprezzate dagli studenti al contrario dei lavoratori che hanno focalizzato l’attenzione sulla partecipazione alla vita del CFP. A seguito e a completamento dell’analisi precedente veniva la richiesta di dare una valutazione complessiva del percorso alla luce dell’attuale esperienza lavora- tiva e della formazione globale della personalità (cfr. Tav. 18). Tra le due quella maggiormente apprezzata è stata la formazione della personalità (M = 1.53), e in questo si rileva una certa coerenza con quanto hanno dichiarato anche gli studenti 3. Seppure con un leggero scarto viene ugualmente attribuita al percorso una forte va- lenza educativa in relazione all’attuale esperienza lavorativa (M = 1.70). Da ultimo entrambe le valutazioni trovano sostegno in particolare tra le fila dei 18enni, di chi non è stato mai bocciato e di chi ha trovato subito lavoro. Certamente non si poteva mancare di chiedere agli ex-allievi/e se in seguito a questa esperienza lavorativa avvertissero il bisogno di ulteriore formazione per qualificare meglio la propria professione e quali eventuali miglioramenti andassero apportati al corso. Nel primo caso, appena uno su quattro ha ammesso il bisogno di una maggiore preparazione (25.8%); una tale esigenza è stata successivamente spe- cificata in termini di possibilità di frequentare un corso di specializzazione post- qualifica, e in questo si sono distinte particolarmente le ragazze, in coerenza con quanto è stato evidenziato nelle analisi precedenti circa la loro posizione di svan- taggio sul mercato. Quanto poi ai miglioramenti da apportare al percorso il 30% circa e anche meno ha preso in considerazione l’area teorica (31% – le femmine e chi pensa di cambiare lavoro), quella pratica (28%) e lo stage (20.1%); in entrambi i casi i maschi); mentre non è stata segnalata l’area delle capacità personali, a signi- ficare che nel complesso la trovano positiva. A controllo e/o a verifica dei risultati appena richiamati, veniva poi la do- manda circa l’iscrizione ad altri corsi nel periodo successivo a quello del consegui- mento della qualifica o di un attestato di frequenza nel percorso del diritto-dovere. Appena il 10% ha segnalato questa ulteriore opportunità; non si rilevano particolari differenziazioni interne al gruppo e il dato si commenta da solo nel senso che con- ferma la sostanziale validità della preparazione offerta nella FPI. Invece l’ultima domanda della scheda, mirata a rilevare l’intenzione di cam- biare o meno l’attuale lavoro, trova il gruppo decisamente spaccato in due: il 51.4% degli intervistati è contento dell’occupazione che svolge, mentre un altro 45.6% mira ad un’altra sistemazione professionale. Gli intervistati che condividono 3 Cfr. nella sezione precedente, al punto 2.3, la Tav. 10. 95 Ta v. 1 8 -V an ta gg i/a ge vo la zi on i o ff er te d al p er co rs o in m er ito a ll’ at tu al e ra pp or to d i l av or o (b as e= 32 9; d om . 4 - in M ** *) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e ** *M = m ed ia p on de ra ta e i v al or i so no : 1 = m ol to ; 2 = ab ba st an za ; 3 = po co ; 4 = pe r nu ll a 96 la seconda alternativa si distinguono per motivare tale decisione in base alla ricerca di un lavoro più pertinente alle proprie aspirazioni e/o alla qualifica conseguita e possibilmente anche meglio retribuito; il dato vede a capofila le femmine e le va- riabili di solito connesse con tale condizione di genere, ossia chi ha più di 20 anni, chi vive nelle regioni del sud/isole e chi ha impiegato circa un anno per trovare l’attuale lavoro, caratteristiche che già in precedenza hanno connotato coloro che hanno frequentato i percorsi del diritto-dovere con l’obiettivo di una maggiore rea- lizzazione di sé. 4. GLI EX-ALLIEVI/E CHE AL MOMENTO DEL SONDAGGIO NON STAVANO NÉ STU- DIANDO NÉ LAVORANDO Anche da quest’ultimo gruppo che, quando si è proceduto alle interviste, è risultato inoccupato o disoccupato e che in rapporto al totale riguarda circa uno su quattro degli inchiestati (24%), si è voluto sapere, così come per i due sottocam- pioni precedenti, anzitutto da quale percorso scolastico-formativo provengono e con quale riuscita (dom. 2 e 3), le eventuali esperienze di studio e di lavoro succes- sive al percorso (dom. 1) e le motivazioni per cui non sono ancora riusciti a trovare una occupazione (dom. 8); per domandare successivamente di valutare il percorso e la corrispondenza alle proprie attese (dom. 5, 4, 6); infine, in ultima istanza, è stato chiesto loro se avvertono l’esigenza di ulteriore formazione (dom. 7ss.) e di che cosa in definitiva avrebbero bisogno per trovare lavoro (dom. 9 e 10). 4.1. Caratteristiche del sottocampione in base al pregresso percorso scolastico- formativo Partendo dall’esame della carriera precedente alla iscrizione nella FPI, i 153 ex-allievi/e che fanno parte del sottocampione in analisi, si trovano divisi tra una lieve maggioranza che proviene dalla secondaria di II grado (83 = 54.2%) e coloro che sono entrati direttamente nella FP dal I grado (70 = 45.8%) (cfr. Tav. 19). Il se- condo gruppo ovviamente è composto soprattutto dai 18enni (61.2%) e da chi non è stato mai bocciato (78.6%) e al suo interno le femmine appaiono percentualmente più presenti (49.4%); viceversa circa tre su quattro di coloro che provengono dal II grado sono stati bocciati (72.9%), hanno 20 e più anni e tra loro prevale la compo- nente maschile (58.1%). Se si guarda poi ai dati della Tav. 20, il rapporto tra la percentuale di boccia- ture e la iscrizione dalla scuola secondaria superiore riguarda oltre l’80% di chi di- chiara la provenienza appena ricordata (più precisamente l’84.3%). Inoltre sempre dai dati emerge un rapporto preferenziale tra il tasso di insuccessi e l’età più avan- zata (19anni = 81.5%; 20 e più anni = 90.3%), mentre due su tre di coloro che pro- vengono direttamente dal I grado hanno 18 anni (65.7%) e si caratterizzano per un percorso regolare (62.9%). 97 Ta v. 1 9 -D is tri bu zi on e di c ol or o ch e no n st ud ia no n é la vo ra no in b as e al p er co rs o sc ol as tic o pr eg re ss o (b as e= 15 3) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e Ta v. 2 0 -D is tri bu zi on e in b as e al ta ss o di b oc ci at ur e de gl i a lli ev i c he a ttu al m en te n on s tu di an o né la vo ra no L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e 98 4.2. Le esperienze successive al percorso Al termine del percorso il 93.4% di coloro che adesso risultano inoccupati/ disoccupati si sono messi alla ricerca di un lavoro, ma il 57.5% non l’ha trovato (tra essi in particolare le donne) e soltanto un terzo ha potuto effettuare una prima esperienza lavorativa, che tuttavia ha avuto breve durata in quanto al momento del sondaggio si trovavano già disoccupati (35.9%). Tra costoro si evidenziano percen- tuali più elevate tra le fila dei maschi, dei bocciati, dei 19enni ed oltre, dei residenti nelle regioni del centro-sud; da questo stesso gruppo si è cercato anche di capire le ragioni della perdita del lavoro ed è emerso che appena la metà aveva trovato una occupazione coerente con la qualifica conseguita e che comunque la vera ragione dell’attuale situazione di disoccupazione non è stata attribuita all’inadeguatezza delle conoscenze/competenze conseguite nella FPI quanto piuttosto al fallimento dell’impresa o al suo ridimensionamento. Tornando al dato complessivo relativo alle scelte effettuate da questo gruppo al termine del corso va notato che appena il 4.6% ha continuato la formazione nella FP o ha realizzato un’esperienza di tirocinio. Ambedue le attività hanno permesso loro di ottenere un attestato di abilitazione professionale. Ovviamente non poteva mancare una domanda mirata a rilevare le ragioni per cui questi ex-allievi/e al momento del rilevamento non erano ancora riusciti a repe- rire lavoro. L’elenco delle alternative presenti nella scheda era lungo, ma il gruppo ne ha segnalate sostanzialmente tre: – un terzo circa dichiara che non aveva trovato una occupazione adatta alle pro- prie aspirazioni o coerente con la qualifica conseguita (32.7% – la maggiore età, i bocciati, chi proviene dal II grado e chi ha ammesso che vorrebbe lavo- rare in un settore diverso da quello dove ha conseguito la qualifica); – una ulteriore ragione è stata individuata nell’assenza di lavoro in zona (30.7% – la maggiore età ed i residenti nelle regioni centromeridionali); – solo una minoranza composta da una ventina di soggetti in tutto ha evidenziato la mancanza di riconoscimento della qualifica conseguita (15.7% – tra essi si distingue chi è disposto a continuare il percorso formativo); – a completamento vengono poi numerose altre ragioni che, stando alle segnala- zioni, hanno trovato tuttavia scarso riscontro (sfortuna, mancanza di appoggi/ raccomandazioni, l’approssimarsi del servizio militare...). Sempre nel tentativo di verificare la validità della formazione offerta dai due Enti, attraverso una successiva domanda si è cercato di capire di che cosa questi ex-allievi/e avrebbero avuto bisogno per trovare lavoro. Tuttavia, anche in questo caso emerge sostanzialmente l’intreccio delle ragioni segnalate sopra, ossia l’esi- genza di godere di maggiori opportunità (bandi di concorso, raccomandazioni..., 10.4%), di ottenere un lavoro il più possibile coerente con la qualifica conseguita (23.5%), di risolvere certi problemi personali (26.8%), e in particolare di avere più 99 fortuna (32%); chi ha dichiarato che avrebbe avuto bisogno di un livello di forma- zione professionale più elevato è appena il 5.7%. 4.3. Valutazione del corso Così come è stato richiesto ai due gruppi precedenti, anche da coloro che al momento del rilevamento si trovavano inoccupati/disoccupati si è cercato di otte- nere una valutazione del percorso considerato nell’insieme o nei singoli aspetti. Tuttavia prima di passare ad analizzare la sequenza dei giudizi è parso opportuno liberare il campo dal dubbio che le difficoltà incontrate nel trovare lavoro o nella scelta di continuare a studiare fossero imputabili alla qualifica conseguita frequen- tando la FPI; di conseguenza si è incominciato domandando se con una qualifica diversa sarebbe stato più facile trovare lavoro. A questo riguardo ha risposto affer- mativamente appena il 15% (7 soggetti in tutto, da reperire tra i bocciati, tra coloro che provengono dalla secondaria di II grado e tra chi è intenzionato a trovare un la- voro in un settore diverso da quello in cui si è qualificato); per converso, circa il 10% ha ammesso che sarebbe stato più difficile (si distinguono i maschi, i 18enni); mentre il dato fondamentale sta nel costatare che una netta maggioranza, rapporta- bile a tre su quattro del gruppo (74.5%), ha ammesso che una qualifica diversa non avrebbe offerto alcun vantaggio (prevalgono le femmine, i residenti nelle regioni del centro-sud e chi continuerà a cercare lavoro nel settore in cui si è qualificato). Nel valutare la corrispondenza del percorso alle proprie attese è stata adottata la stessa domanda di cui precedentemente ci si era serviti per gli studenti ed i lavo- ratori (Tav. 21). L’andamento dei dati attesta che: a) i maggiori apprezzamenti (tra “molto” e “abbastanza”) per la coerenza sono andati: – al rapporto docenti-allievi (M = 1.34); – alla partecipazione alla vita del Centro (M = 1.49); – all’organizzazione delle attività (M = 1.58); – alla formazione dei docenti (M = 1.59); b) leggermente inferiori ma pur sempre al di sopra del livello che dell’“abba- stanza” sono stati valutati i seguenti aspetti: – le metodologie (M = 1.63); – il rapporto con le aziende (M = 1.77); – le attrezzature (M = 1.78); – l’orientamento (M = 1.82);. – l’adeguatezza dei programmi (M = 1.92). Il confronto con gli altri due gruppi vede il sottocampione degli inoccupati/ disoccupati con medie vicine o del tutto simili a quelle dei lavoratori, non solo, ma anche la graduatoria rispecchia uno stesso andamento quasi dappertutto, eviden- ziando assieme agli aspetti teorico-formativi (programmi, metodologie, rapporto 100 con docenti e loro formazione...) anche quelli prettamente tecnico-pratici (attrezza- ture, organizzazione, relazioni con le aziende...); mentre la differenza con gli stu- denti dipende dal fatto che questi ultimi, essendo interessati alla continuazione degli studi, si sono distinti per aver apprezzato con valutazioni ancora maggiori la corrispondenza con tutto ciò che attiene prettamente all’offerta formativa di base (programmi, metodologie, organizzazione...). Scendendo tra i dati disaggregati si osserva che un maggiore apprezzamento parte decisamente dalle fila delle femmine e dei bocciati per l’esperienza relazionale che hanno avuto durante il corso (il rap- porto tra docenti e allievi, la partecipazione alla vita del CFP, la formazione dei do- centi...), mentre i maschi si sono soffermati a focalizzare soprattutto la dimensione tecnico-organizzativa (le attrezzature, il rapporto con le aziende, l’organizzazione delle attività...). 4.4. L’esigenza di ulteriore formazione per affrontare il futuro Sebbene questo sottocampione, che certamente è stato più svantaggiato ri- spetto ai due precedenti, abbia ammesso a più riprese che il loro attuale stato di inoccupazione/disoccupazione non è imputabile all’esperienza e/o alla qualifica conseguita nel corso del diritto-dovere, occorreva tuttavia verificare la tenuta o meno della formazione conseguita nel percorso del diritto-dovere e in caso nega- tivo bisognava identificare con precisione l’esigenza di ulteriore preparazione in grado di riqualificare/aggiornare la professionalità acquisita. Chi ha risposto affermando il bisogno appena ricordato è poco più di uno su quattro (44 = 28.8% – cfr. Tav. 22); tra essi si distinguono i 18enni (in pratica coloro che si possono permettere di avere ancora un’età per continuare a studiare), chi pre- vede di trovare un lavoro coerente al settore di qualifica ed i residenti nelle regioni del sud/isole. Al contrario una netta maggioranza del sottocampione allo stato at- tuale non avverte il bisogno di rinforzare la propria professionalità (70.6%) e in questo si distinguono particolarmente le femmine e chi ha un’età dai 19 anni in poi. Tornando invece ai 44 che hanno ammesso l’esigenza di riqualificazione, è stato chiesto di specificare il tipo di formazione di cui avrebbero bisogno. A questo punto il gruppo si è diviso in tre parti: quella più consistente ha evitato di rispon- dere (43.1%), circa un terzo ha espresso invece l’intenzione di (ri)entrare nel si- stema dell’istruzione (29.5%) e poco più di un quarto di rimanere nella FP (27.3%). A quest’ultimo gruppo è stato chiesto successivamente di specificare il tipo di for- mazione di cui avrebbero bisogno: a tale riguardo da parte dei più è emersa l’esi- genza di conseguire una specializzazione post-qualifica; minoranze ancor più esigue hanno anche segnalato corsi che afferiscono alla formazione continua o al- l’abilitazione professionale. Richiesti infine di indicare in quale comparto pensano che troveranno prima o poi il lavoro, se in un settore uguale o diverso da quello in cui si sono formati e qualificati, circa tre su quattro fa ancora affidamento sulla formazione ricevuta e sulla qualifica conseguita (73.2%), a conferma della rilevanza che entrambe ancora 101 Ta v. 2 1 -V al ut az io ne d el la c or ris po nd en za d el c or so a lle p ro pr ie a tte se (b as e= 15 3; d om . 5 - in M ** *) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e ** *M = m ed ia p on de ra ta e i v al or i so no : 1 = m ol to ; 2 = ab ba st an za ; 3 = po co ; 4 = pe r nu ll a Ta v. 2 2 -E si ge nz a di u lte rio re fo rm az io ne /ri qu al ifi ca zi on e (b as e= 15 3; d om . 7 ) L eg en da : *N = N or d; C = C en tr o; S = Su d/ is ol e ** M = m as ch i; F = fe m m in e 102 presentano per il sistema esistenziale e della realizzazione di sé di questi giovani; soltanto uno su quattro si accontenterebbe anche di una qualsiasi altra soluzione (26.1%) e tra loro si riscontrano ancora le categorie più svantaggiate rispetto alle opportunità che il mercato del lavoro offre, ossia i bocciati e chi ha un’età più alta. Parte III SINTESI CONCLUSIVA 105 Capitolo 4 Sintesi dei risultati e osservazioni conclusive Guglielmo MALIZIA - Vittorio PIERONI L’indagine non aveva solo lo scopo di rilevare le diverse scelte effettuate dagli ex-allievi/e del CNOS-FAP e del CIOFS/FP, una volta giunti al termine del per- corso triennale del diritto-dovere, ma prevedeva tra i suoi obiettivi anche quello di ponderare l’efficienza e l’efficacia dell’offerta formativa, ipotizzare, se necessario, i miglioramenti da introdurre al fine di rafforzare ulteriormente le potenzialità del progetto e favorirne anche l’estensione ad altri contesti operativi. Tutto ciò ha por- tato a ricomporre i risultati conseguiti nell’inchiesta attorno ai filoni più significa- tivi: la condizione degli ex-allievi/e al momento del rilevamento e la qualità della formazione fornita posta in relazione con tale situazione e con le alternative di studio, lavoro o inoccupazione/disoccupazione che soggiacciono alla stessa. Inoltre all’inizio, come d’ordinario, viene richiamato lo scenario di riferimento entro il quale si situa la presente indagine, i suoi obiettivi e la sua metodologia. 1. IL QUADRO DI RIFERIMENTO Le indicazioni che vengono dalla letteratura più recente circa l’incidenza del- l’istruzione e della formazione sullo sviluppo economico attestano un superamento delle posizioni più negative del passato e il raggiungimento di una sintesi1. Tuttavia, la relazione è tutt’altro che semplice e diretta: in altre parole non esistono automa- tismi per cui si possa affermare che qualsiasi investimento nel sistema educativo conduca necessariamente ai risultati voluti e, pertanto, non sono da escludere casi di eccessiva fiducia nelle strategie dell’istruzione e della formazione o di una scelta di modalità sbagliate di intervento. Al tempo stesso va affermato che non è pensabile per un paese realizzare una politica per lo sviluppo senza il sostegno di una popola- zione adeguatamente formata, in particolare se si tiene conto dell’attuale fase di esplosione delle conoscenze e di espansione della tecnologia. Pertanto, si può dire che l’educazione è il fattore principale dello sviluppo a condizione che la sua tra- duzione in un progetto concreto corrisponda alle esigenze proprie di ciascun paese. 1 Per questa prima sezione cfr. cap. 1 e 2 e autori ivi citati. 106 L’attuale recupero della centralità del capitale umano e della relazione tra istruzione e formazione da una parte e istruzione dall’altra è certamente dovuta all’affermarsi del paradigma interpretativo cosiddetto “interattivo” (determinante non è solo la domanda di lavoro, ma anche la relazione tra questa e la qualità del- l’offerta) rispetto a quello “domandista” della teoria del capitale umano (il fattore decisivo è l’analisi della domanda di lavoro espressa dal mercato). Tuttavia anche il modello interazionista ha i suoi limiti. Esso, pur presentando un insieme di van- taggi rispetto a quello precedente (di cui supera l’autoreferenzialità del sistema economico in quanto valorizza le connessioni di quest’ultimo con il sistema educa- tivo, il ruolo dell’istruzione e della formazione professionale iniziali e ricorrenti, l’attenzione alle attitudini dei singoli, la sensibilità sociale, l’imparare ad appren- dere, la concertazione e la negoziazione), non incide se non marginalmente sull’as- sunto principale del modello “domandista” secondo il quale il significato e il bene di ciascuno vengono a coincidere con l’utile e il produttivo. L’occupabilità del sog- getto assurge a valore fondamentale e nessuno può discostarsi sostanzialmente dal modello di uomo o di donna che lo sviluppo economico di un certo periodo storico richiede. Diversa è la portata e l’incidenza di una impostazione “personalista” che ponga al centro la persona e non il sistema economico o le imprese o l’occupa- bilità. In questo caso è la persona che diviene il fine a cui vengono subordinati la crescita e i processi di istruzione/formazione. Pertanto, lo sviluppo non ha senso se dovesse ledere anche un solo soggetto. L’istruzione e la formazione non hanno valore in se stesse, ma in quanto sono considerate da ciascuno uno strumento signi- ficativo per perfezionarsi e rendersi migliore. Inoltre esse non si giustificano in quanto esigenze oggettive del tempo, ma perché le persone vi riconoscono un esperienza che le fa crescere. Livelli anche molto elevati di crescita economica e una estrema diffusione dell’istruzione e della formazione non sono sufficienti, se al tempo stesso non rendono più persona ogni persona. Non è accettabile che la realizzazione dell’uomo si riduca al suo lavoro: il percorso da realizzare è invece quello opposto di rendere il lavoro, l’occupabilità e l’economia strumenti per svi- luppare al pieno ogni persona e tutta la persona. Venendo allo specifico del nostro Paese, va anzitutto sottolineato che l’evolu- zione del mercato del lavoro durante la prima decade del ventunesimo secolo evi- denzia una consistente vitalità del sistema dal punto di vista della creazione di nuovi posti di lavoro e della riduzione della disoccupazione che, però, è accompa- gnata recentemente da una sostanziale staticità nelle strategie di intervento. Dal 1998, che è l’anno che ha segnato una svolta positiva determinante per il nostro mondo del lavoro in quanto finalmente l’occupazione ha ripreso ad aumentare, il numero degli occupati è cresciuto del 10.4% e il relativo tasso del 2.6% dal 61.2% al 63.8%; a sua volta il tasso di disoccupazione si è ridotto del 3.9% dall’11.3% al 7.7% (CENSIS, 2003, 165; CENSIS, 2006, 247; ISFOL, 2006, 160 e 162; Annuario statistico italiano, 2006). 107 Questi indubbi segnali di ripresa non devono far dimenticare i problemi consi- derevoli che continuano ad essere presenti nel nostro sistema con particolare riferi- mento sia all’ingresso nel mondo del lavoro delle donne e dei giovani, pur muniti di titoli di istruzione elevati, sia alla distribuzione diseguale dei progressi che favo- riscono l’Italia del Nord e del Centro, mentre nel Sud si riproduce una condizione di sostanziale arretratezza, nonostante alcuni miglioramenti nella lotta alla disoccu- pazione. Inoltre, come si è accennato sopra, “la flessibilità”, introdotta dalla ri- forma Biagi, “non è più [...] una leva di gestione straordinaria dell’impresa, ma è entrata in una fase di normalizzazione in cui si autoriproduce, senza essere una leva di sviluppo e di innovazione né per le aziende, né per i lavoratori” (CENSIS, 2006, 184). Da ultimo, il nocciolo duro della struttura occupazionale continua ad essere composto da professioni a basso livello di qualificazione oltre che da un tipo di la- voro che si presenta standard, cioè dipendente. Riguardo alla transizione dei giovani al mondo del lavoro, il panorama gene- rale dei dati del quinquennio 2001-05 si presenta più positivo e dinamico che non quello del periodo precedente, 1996-00 (Annuario statistico italiano, 2006). Infatti, il tasso di disoccupazione del gruppo di età 15-24, che nel periodo 1996-00 aveva oscillato fra il 34.1% e il 31.1% (CENSIS, 1999, 226 e CENSIS, 2002, 244), si situa negli anni 2001-05 tra il 28.2% e il 22.9% con un’ulteriore consistente ridu- zione che nel decennio supera il 10% (11.2%); inoltre, la percentuale si dimezza nel passaggio dalla fascia di età 15-24 a quella 25-34 (dal 22.9% al 10.3%) (CENSIS 2002, 2004 e CENSIS, 2006, 249). Nonostante questo andamento posi- tivo, i tassi di disoccupazione del gruppo 15-34 si presentano ancora troppo alti e attestano delle carenze della domanda di lavoro in relazione ai bisogni delle fasce della popolazione più giovani. Più in particolare, va rilevato che la riduzione dei tassi di disoccupazione è su- periore tra le donne che non tra gli uomini, sebbene le percentuali delle prime risul- tino di molto più elevate di quelle dei secondi (CENSIS, 2002, 244; CENSIS, 2006, 249). Inoltre, i tassi di disoccupazione della classe 15-24 anni mostrano un livello non marginale di variazioni in base alla circoscrizione geografica (Ibidem). La per- centuale nel Meridione e nelle Isole (38.2%) costituisce oltre il triplo di quella del Nord-Ovest (12.6%), il quadruplo quasi di quella del Nord-Est (10%) e circa il doppio di quella dell’Italia Centrale (19.6%): inoltre, l’ultimo tasso citato, quello cioè del Centro, risulta il doppio quasi di quelli del Settentrione sia occidentale che orientale. L’analisi dei dati per quanto riguarda il rapporto tra istruzione/formazione e mercato del lavoro conferma le conclusioni derivanti dalla letteratura recente richiamate sopra, su una relazione favorevole che, però, è tutt’altro che semplice e diretta. Infatti, l’ingresso nel mondo del lavoro della coorte 15-64 anni è connesso strettamente con il livello di istruzione e i tassi di attività e di occupazione crescono in rapporto all’elevarsi dei titoli di studio, per cui si può affermare che i diversi ti- toli di studio vengono a costituire sempre più un fattore decisivo nell’inserimento 108 nel sistema produttivo. Al tempo stesso il rapporto CENSIS del 2006 fa rilevare che il possesso di un alto livello di istruzione non fornisce in tutti i casi una assicu- razione di ottenere facilmente successo nel mercato del lavoro; in aggiunta, il titolo di studio elevato non pare offrire alcuna garanzia sulla possibilità di entrare senza problemi nel mercato del lavoro. Va subito precisato in riferimento all’oggetto della presente ricerca che in ogni caso i dati confermano la valenza occupazionale delle qualifiche della FP. Dal punto di vista più qualitativo, si può dire che in questi ultimi anni il mer- cato del lavoro è stato investito da profonde trasformazioni che hanno avviato pro- cessi di progressiva flessibilizzazione delle modalità di erogazione delle prestazioni e, contestualmente, hanno portato all’introduzione di logiche organizzative in grado di sostenere le sfide di competitività indotte dal fenomeno della globalizzazione. All’interno di queste dinamiche appare sempre più sfumata la separazione tra lavoro dipendente e autonomo; inoltre ha preso consistenza la tendenza a premiare il bagaglio di competenze di cui ciascuno è portatore al posto di una crescita pro- fessionale riconducibile a rigidi schemi di inquadramento formale (per anzianità, per livelli...). In un contesto così altamente competitivo, rivestono quindi un ruolo determinante oggi più che mai i sistemi di aggiornamento, riqualificazione e forma- zione permanente. Nel corso di questo processo di cambiamento le aziende, da sempre fortemente impostate sul modello fordista, vanno alla ricerca di nuovi per- corsi organizzativi, di nuove espressioni, di nuovi ruoli e strumenti di rappresen- tanza, nell’intento di meglio cogliere/interpretare i trend del mercato. Tra le nuove generazioni, valori come l’autonomia e l’autoresponsabilità nel lavoro vengono ormai assunti come obiettivo primario, facendo registrare una pro- gressiva crescita della domanda di lavoro indipendente, della richiesta di valoriz- zare la dimensione individuale, della tendenza a non attribuire al lavoro una dimen- sione totalizzante della propria esistenza (“il lavoro non è tutto”), ma a considerare piuttosto che alla propria realizzazione contribuisce in pari misura e forse ancora più la gestione di tempi-spazi personalizzati (il tempo libero, hobbies...). Inoltre è sempre più diffuso, tra le giovani generazioni, la ricerca nell’attività lavorativa di formule di flessibilità: contratti a termine, di formazione-lavoro, di apprendistato, interinali, di collaborazione coordinata e continuativa, borse di studio... Tutte modalità che hanno portato a far risaltare un nuovo modo di conce- pire e di guardare al lavoro, visto appunto come spazio in cui potersi realizzare in autonomia e indipendenza, senza dover sottostare a regole e/o dover subire controlli e imposizioni. In questo quadro teorico e fattuale si può affermare che la riforma Moratti (legge n. 53/2003) si caratterizza per l’adozione senza remore del modello “perso- nalistico” dei rapporti tra istruzione e formazione da una parte e sviluppo socio- economico dall’altra. In proposito va ricordato che all’interno di una impostazione “personalista”, l’istruzione e la formazione non costituiscono due itinerari separati e gerarchizzati, il primo di serie A e il secondo di serie B. La concezione secondo la 109 quale prima viene l’istruzione e per una durata la più lunga possibile, in quanto realizzante e liberante, e successivamente la formazione, purché il più avanti nella carriera dell’allievo in quanto a rischio di unilateralismo e di perpetuazione della marginalità sociale, risulta priva di fondamento. I due percorsi sono modalità alla pari dell’educazione, forme diverse di apprendimento e di sviluppo della persona- lità, occasioni di realizzazioni di autentiche vocazioni specifiche. Tutto questo sembra presente nella riforma Moratti in particolare nella scelta di introdurre un percorso graduale e continuo di formazione professionale paral- lelo a quello scolastico e universitario dai 14 ai 21 anni, che porti all’acquisizione di qualifiche e titoli. Infatti, la formazione professionale non può più essere con- cepita come un addestramento finalizzato esclusivamente all’insegnamento di destrezze manuali, né la distinzione con l’istruzione va vista nel fatto che questa si focalizza nell’acquisizione di saperi in qualche misura astratti rispetto al contesto, mentre quella si occupa della loro realizzazione nel mercato del lavoro o nel fatto che l’oggetto è differente, essendo la cultura del lavoro quello proprio della for- mazione professionale, perché anche la scuola si interessa di cultura del lavoro. La formazione professionale non è qualcosa di marginale o di terminale, ma rap- presenta un principio pedagogico capace di rispondere alle esigenze del pieno sviluppo della persona secondo un approccio specifico fondato sull’esperienza reale e sulla riflessione in ordine alla prassi che permette di intervenire nel pro- cesso di costruzione dell’identità personale. Questo tuttavia non significa che sia la stessa cosa dell’istruzione: conoscere con l’obiettivo principale di agire, costruire e produrre non può essere confuso con il conoscere e agire con l’intento prioritario di conoscere. Passando ora ai cambiamenti introdotti dal Ministro Fioroni, va anzitutto rico- nosciuto in positivo che il rifiuto di una logica abrogativa o di restaurazione del passato o comunque della pretesa di cambiare tutto e subito e l’adozione di una im- postazione graduale e concertata basata sull’idea del “cacciavite”, che smonta ciò che impedisce e monta ciò che consente una maggiore efficienza, è stata una deci- sione senz’altro saggia perché gli insegnanti, i genitori, gli studenti, l’opinione pub- blica sono veramente disorientati dai cambiamenti continui nella normativa e non riescono a capire come mai ad ogni mutamento di governo bisogna azzerare quanto realizzato precedentemente e ricominciare tutto da capo; in questa maniera si disin- centiva ad attuare qualsiasi riforma perché si sa che dopo non molto arriverà un contrordine. In altre parole, si tratta di una strategia che fa perno sull’autonomia e l’interazione nei contesti locali tra le diverse autonomie e su processi di trasforma- zione condivisi in quanto non è più accettabile, né si rivela efficiente che le riforme siano decise dai ministeri senza una vera consultazione dei diversi attori e senza una valutazione dei risultati. La linea di azione scelta è rimasta più sul piano di principio, mentre si è realiz- zata molto di meno a livello pratico. Infatti, essa avrebbe comportato che venissero sperimentate tutte le proposte valide della riforma Moratti. Invece, ci si è preoccu- 110 pati maggiormente di smontare quest’ultima e di rimontarla secondo logiche diverse che hanno reso la relazione alla legge n. 53/03 sempre più labile e tenue, mentre nel concreto si assiste a una eccessiva frammentazione della produzione legislativa che richiede una costante ricostruzione del quadro normativo di riferi- mento, come denunciano le Regioni (Documento della Conferenza delle Regioni..., 2007; Colasanto, 2007a). Correttamente, secondo il nostro attuale Ministro della PI la madre di tutte le battaglie consiste nella lotta contro la dispersione. In questo caso la via maestra è certamente quella di una politica di prevenzione e di recupero della dispersione che rifiuta l’uniformità di trattamento per scegliere strategie attente alle potenzialità e ai bisogni di ognuno, e che fa suo il modello dell’apprendimento per tutta la vita per cui i risultati rimangono sempre reversibili e l’orientamento permette di rive- dere continuamente le proprie scelte educative. Secondo il Ministro, un contributo importante per risolvere il problema della dispersione può venire dai percorsi speri- mentali triennali della formazione professionale triennale in quanto sono capaci di rivelare logiche e metodi interessanti e di segnalare strumenti innovativi di orienta- mento, di certificazione dei crediti, di definizione degli standard, di formazione congiunta degli insegnanti e dei formatori: tuttavia, nonostante questo riconosci- mento insperato delle loro potenzialità per tutto il sistema viene subito affermato in evidente contraddizione che non sono generalizzabili a tutto il territorio nazionale (Chiosso, 2007). Venendo all’innalzamento di due anni dell’obbligo dell’istruzione, va precisato che questo dispositivo non è un ordinamento, mentre la sua caratterizzazione va ricercata nella dimensione educativo-didattica e più in particolare nell’elenco dei saperi e delle competenze, distribuiti in conoscenze ed abilità, e funzionali a garan- tire l’equivalenza formativa tra tutti i percorsi del biennio (CNOS-FAP Sede Nazio- nale, 2007). Questa finalizzazione e il principio che la sottende sono senz’altro lodevoli e innovativi perché permettono di stabilire orientamenti comuni tra i curri- coli dei diversi ordini, tipi e indirizzi di studio, anche se ignorano volutamente e in modo ingiustificato quanto già disciplinato dalla legge di Riforma Moratti in tema di secondo ciclo, del profilo educativo, culturale e professionale, delle indicazioni nazionali, dei livelli essenziali delle prestazioni dei percorsi di istruzione e forma- zione professionale. Pertanto, si spiegano le ragioni per cui nel dispositivo in que- stione il riferimento a un quadro di mete generali di natura educativa e sociale sia alquanto carente (Pellerey, 2007). Una conseguenza positiva della caratterizzazione educativo-didattica dell’obbligo di istruzione riguarda le istituzioni formative pre- viste dalla legge n. 53/03 che non sono toccate da modifiche tranne l’esigenza di ripensare le finalità del biennio in modo da comprendere anche le indicazioni elen- cate sopra: questa affermazione però vale più sul piano dei principi perché in concreto le istituzioni formative si vengono a trovare nell’obbligo in una situazione in cui non mancano precarietà ed ambiguità, non fosse altro che per il notevole margine di discrezionalità delle Regioni in tale ambito. 111 L’ultimo punto della disamina delle innovazioni introdotte dal Ministro Fioroni che riguardano più direttamente l’argomento del nostro rapporto è costi- tuito dalla revisione del secondo ciclo (CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007; legge n. 40/07; Colasanto, 2007b; Sugamiele, 2007b; Tonini, 2007a e 2007b; Bordignon, 2007). Anzitutto, è sparito dall’articolazione interna il riferimento al sistema dei licei e, pertanto, il secondo ciclo è composto dal sistema dell’istruzione secondaria superiore e dal sistema dell’istruzione e formazione professionale. Più in partico- lare nel sistema dell’istruzione secondaria superore sono stati ricollocati gli istituti tecnici e professionali, mentre si è proceduto all’abrogazione della normativa che aveva introdotto il liceo tecnologico ed economico: dato il carattere professiona- lizzante dei primi, questo comporta necessariamente un’ulteriore emarginazione della formazione professionale. È vero che il titolo che potranno conferire è di norma il diploma di istruzione secondaria superiore; però, in via sussidiaria e su domanda delle Regioni essi potranno rilasciare anche qualifiche professionali. In positivo è stato stabilito che sono attribuiti alla competenza delle Regioni le quali- fiche e i diplomi professionali, inclusi in uno specifico repertorio nazionale. Certa- mente, risulta anche apprezzabile la normativa che consente di creare sul piano provinciale o sub-provinciale poli tecnico-professionali che possono includere istituti tecnici e professionali, istituti formativi accreditati e strutture della forma- zione tecnica superiore: infatti, tale dispositivo implica una razionalizzazione di una offerta frammentata e la realizza rispettando la pari dignità delle strutture coinvolte. In questo quadro le Sedi Nazionali dei due Enti di FP, CNOS-FAP e CIOFS- FP, hanno realizzato la presente indagine, mirando al conseguimento dei seguenti obiettivi: a) monitorare, alla distanza di circa un anno dalla conclusione, la condizione degli allievi usciti nell’anno 2005-06 dai percorsi triennali sperimentali del di- ritto-dovere, per verificare se hanno proseguito gli studi all’interno del sistema educativo di istruzione o di formazione professionale, oppure se hanno reperito un lavoro, o se si trovano ancora in una situazione in cui né studiano né lavo- rano; b) individuare eventuali ulteriori bisogni formativi ai fini di un completamento, di un perfezionamento o di una diversificazione delle loro competenze profes- sionali; c) verificare l’efficacia del percorso formativo in rapporto alle differenti scelte effettuate nel periodo successivo al conseguimento della qualifica e in para- gone anche con i risultati della indagine simile condotta nel 2003 (Malizia e Pieroni, 2003); d) avanzare proposte per migliorare e potenziare i percorsi triennali del diritto- dovere. 112 2. I RISULTATI DELL’INDAGINE Li abbiamo riassunti in due articolazioni principali. La prima analizza la situa- zione degli intervistati rispetto ai tre possibili sbocchi dei percorsi: inserimento nel mondo del lavoro, continuazione degli studi, condizione di inoccupazione/disoccu- pazione. La seconda sottosezione aggiunge al momento principalmente descrittivo della precedente, quello interpretativo-valutativo e quello prospettico. 2.1. La condizione degli ex-allievi/e al momento del rilevamento Dai 2.514 ex-allievi/e che nell’anno formativo 2005-06 hanno portato a ter- mine il percorso triennale del diritto-dovere conseguendo quasi tutti una qualifica o ottenendo, quei pochi che non sono riusciti a ottenerla, un attestato di frequenza, sono stati scelti con metodo casuale 638. Questi sono risultati proporzionalmente rappresentativi non solo della diversa appartenenza al CNOS-FAP e al CIOFS/FP, ma anche delle circoscrizioni geografiche e, al loro interno, delle Regioni dove risiedono i CFP che hanno frequentato. Alla selezione campionaria ha poi fatto seguito l’intervista telefonica sulla base di uno strumento articolato in più schede, in corrispondenza delle opzioni compiute dagli intervistati alla conclusione dei loro percorsi. I 638 ex-allievi/e che hanno composto il campione a cui è stata somministrata l’intervista, si presentavano così distribuiti tra i diversi possibili sbocchi: – la metà (329 = 51.6%) all’uscita dal percorso aveva scelto di lavorare e alla distanza di un anno aveva conseguito un lavoro; – mentre l’altra metà si divideva in quote abbastanza vicine tra chi aveva optato di continuare a studiare (172 = 27%) e chi al momento non stava né studiando né lavorando (153 = 24%). Di conseguenza si può affermare che l’offerta formativa dei due Enti, CNOS- FAP e CIOFS/FP nell’ambito del diritto-dovere è riuscita ad inserire nel mercato del lavoro, immediatamente o comunque nel giro di pochi mesi, almeno una metà dei suoi allievi, e al tempo stesso ha dato la possibilità ad oltre uno su quattro di proseguire gli studi ai livelli superiori. Chi dopo un anno è effettivamente rimasto “al palo” (nel senso che al momento del rilevamento non stava né studiando né lavorando) è una minoranza che non arriva neppure ad un quarto dell’utenza di questi corsi, considerando anche che al suo interno si riscontra una quota che nel frattempo aveva già trovato un lavoro ma attualmente risultava disoccupata anche in ragione dell’incongruenza con le proprie aspirazioni. Dopo aver ricordato il risultato principale ottenuto attraverso i percorsi del diritto-dovere, appare opportuno ricostruire l’identikit di coloro che li hanno fre- quentati. Non tutti gli ex-allievi/e infatti provengono da un “normale” percorso all’interno del sistema educativo, al contrario la maggioranza relativa è composta da coloro che non sono riusciti a proseguire nella secondaria di II grado (314 = 113 48.5%) e dai bocciati (352 = 55.3%). Ripetenze e provenienza dalla secondaria superiore a loro volta risultano in stretto rapporto di causa-effetto (245 = 78%): in altri termini, il 78% di coloro che sono stati bocciati fa parte del gruppo di quanti sono passati nella FP a partire dalle secondarie di II grado. E comunque il dato che una quota del tutto simile proveniente direttamente dal I grado (302 = 47.3%), gran parte della quale esente da bocciature, abbia optato per la FP piuttosto che conti- nuare nella secondaria di II grado, costituisce una testimonianza di come la FP ed, in particolare i percorsi del diritto-dovere, non rappresentino un ripiego, ma una adesione positiva ad una offerta che corrisponde ai propri bisogni formativi. E comunque la funzione educativa della FP non va considerata solo in rapporto al riflusso nella FP di chi proviene dal II grado e/o da esperienze fallimentari, e in relazione al flusso di chi è entrato direttamente dal I grado, ma il suo ruolo va visto anche in rapporto alla sua capacità di formare l’utenza in modo tale da poter essere rilanciata verso nuovi traguardi che, stando al rilevamento, riguardano non solo l’occupazione ma anche la possibilità, di inserirsi nei livelli scolastico-formativi superiori. Oltre alla provenienza dai diversi livelli scolastico-formativi e alle pregresse esperienze fatte di successi o meno, gli ex-allievi/e dei percorsi del diritto-dovere si contraddistinguono anche per altre caratteristiche. Il campione dei 638 è infatti composto da quote prevalenti di maschi (il 67.7% contro il 32.3% delle femmine), di 18enni (il 45.5% a fronte del 32% di 19enni e del 22.4% dei 20enni ed oltre), di residenti nelle Regioni del nord (il 51.1%, a fronte del 26.3% del sud e del 22.6% del centro). Al fine di ottenere un quadro più preciso dei giovani dell’inchiesta occorre poi scomporre i totali in base ai sottocampioni di coloro che al termine del corso hanno operato scelte differenziate. È da questo ulteriore inquadramento che si è arrivati ad ottenere una visione più completa e realistica di chi ha optato per i vari sbocchi, con quali obiettivi e con quale esito (in pratica come/dove si sono inseriti al ter- mine dei percorsi del diritto-dovere), ripercorrendo a ritroso un arco di tempo lungo circa 4 anni, a sua volta collocato all’interno di una fascia evolutiva che per i più si colloca a cavallo con l’acquisizione della maggiore età. Il lavoro di scompo- sizione del campione ha portato a ricostruire un ulteriore identikit dell’utenza in base alle scelte fatte dopo il conseguimento della qualifica. 1) In proposito, abbiamo anzitutto riscontrato che coloro che hanno scelto di andare a lavorare, trovando un’occupazione subito, o nel giro di qualche mese, o al massimo entro un anno, sono la maggioranza (329 = 51.6%) e si contraddistin- guono per le seguenti caratteristiche: – circa quattro su cinque sono maschi (259 = 78.7%), contro appena il 21.3% delle femmine (70); – hanno un’età variabile: il 40.7% (134) 18enni; il 33.4% 19enni (110); il 25.8% 20enni ed oltre (85); 114 – in oltre la metà dei casi risiedono nelle regioni del nord (173 = 52.6%); se- guono il sud (81 = 24.6%) e il centro (75 = 22.8%); – circa tre su quattro appartengono ai CFP del CNOS-FAP (239 = 72.6%) e uno su quattro a quelli del CIOFS/FP (90 = 27.4%) tenendo conto che il rapporto femmine-maschi è del 71% al 29%. Se si prescinde da un 6% che ha seguito altri percorsi, oltre il 90% dei lavora- tori proviene da due livelli del sistema d’istruzione in misura pressappoco uguale: il 46.8% dal I grado (154) e il 45.3% (149) dal II. Tuttavia si caratterizzano per una diversa esperienza: il 66.5% di chi è passato dal II grado è stato bocciato, mentre il 69.9% del I grado non è incappato in ripetenze. All’uscita dal sistema formativo circa la metà di costoro (il 45.6% = 150) ha trovato subito lavoro. In questo esito positivo è risultato favorito soprattutto chi si è segnalato durante il periodo di stage trascorso in azienda e chi ha accettato un con- tratto di apprendistato, fattori che sembrano stare tra loro in stretto rapporto di causa-effetto. Nella quota residua la maggior parte ha conseguito il lavoro privile- giando la via clientelare grazie all’influenza/conoscenza di parenti/amici, ma c’è stato anche chi si è assunta la responsabilità in prima persona andando a bussare direttamente alle porte delle aziende, e in questo la componente femminile è ap- parsa ancora una volta più determinata facendosi forte della formazione personale e professionale ottenuta. In questi casi il lato negativo (ma che non va certo attribuito a chi eroga la FP) si riscontra nella precarietà dei contratti, la cui regolarità (se si prescinde dall’ap- prendistato) è stata dichiarata da appena uno su cinque per il tempo pieno e da uno su dieci per il tempo parziale. È certamente questo uno dei motivi per cui la metà dei lavoratori ha dichiarato di voler cambiare lavoro. 2) Chi ha proseguito gli studi è un gruppo composto da 172 soggetti (il 27% del totale), che si specifica per i seguenti tratti: – due su tre sono maschi (66.9% contro il 33.1% delle femmine); – il 60% (57.6%) sono 18enni contro il 25% dei 19enni ed il 17.4% dei 20enni ed oltre; – risiedono prevalentemente nelle regioni del nord (il 64%, contro il 19.8% del sud ed il 16.3% del centro); – per il 62.2% appartengono ai CFP del CNOS-FAP contro il 37.8% del CIOFS/FP); – si riscontra una sostanziale parità tra chi ha subito esperienze di insuccessi e quanti non vi sono incappati (83 = 48.3%), – infine quasi tutti, a parte un 7% che ha seguito altri percorsi, provengono dalla secondaria di I o di II grado (45.3 e 47.7%, rispettivamente), ma si caratteriz- zano per una diversa condizione: il 72.3% dei secondi è andato incontro ad insuccessi, mentre il 69.9% dei primi ne è rimasto esente. 115 Una netta maggioranza di questo gruppo ha scelto di inserirsi nel sistema di istruzione iscrivendosi alla secondaria di II grado (116 = 67.4%) e la rimanente quota, rapportabile a circa un terzo, di rimanere all’interno della FP frequentando il IV anno (34 = 19.8%) o corsi di apprendistato o di formazione continua (22 = 12.8%). A questo punto tenendo conto dei 116 che si sono inseriti nel II grado e rapportandoli a quegli 82 che invece sono rifluiti nella FP dopo aver frequentato il II grado se ne deduce che, se si esclude una parte di quest’ultimo gruppo che potrebbe aver proseguito nella FP, sicuramente una quota di chi proveniva dal II grado adesso è tornata a frequentare il sistema d’istruzione grazie a questi corsi: chiaramente il dato esprime la capacità di recupero dei percorsi sperimentali del diritto-dovere. Un ulteriore elemento caratterizzante il gruppo degli studenti va poi individuato nel sistema motivazionale sotteso alla scelta il quale, facendo leva sulla possibilità di ottenere maggiori e migliori opportunità occupazionali, lascia intuire che si è in pre- senza di soggetti dotati di elevate aspirazioni per una carriera professionale che in un futuro prossimo li potrebbe far sentire pienamente realizzati. Tutto questo si veri- fica a prescindere dal fatto che chi manifesta tali attese sia in una posizione di svan- taggio rispetto al mercato del lavoro e delle professioni o per appartenere alla condi- zione femminile, in particolare se residente nelle regioni centro-meridionali, o per essere già passato attraverso esperienze scolastiche negative. Pertanto, in definitiva si può a tutti gli effetti sostenere che chi ha continuato a studiare lo ha deciso in vista di un progetto strettamente connesso alla realizzazione di sé, puntando a una carriera professionale il più possibile rispondente alle proprie aspettative. 3) Infine l’indagine ha rilevato che al momento del sondaggio telefonico circa uno su quattro (153 = 24%) non stava né studiando né lavorando. Costoro si distribuiscono in quote abbastanza simili sia all’interno della varia- bile di genere (74 maschi = 48.4% e 79 femmine = 51.6%) che riguardo alla prove- nienza dal I o dal II grado (70 dal I grado = 45% e 83 dal II = 54.2%). Tuttavia, la vera distinzione di questo sottocampione si riscontra nella presenza al suo interno di due terzi di bocciati (96 = 62.7%); quest’ultimo dato a sua volta va ulteriormente ponderato in rapporto tanto al pregresso percorso scolastico, dove si rileva che il tasso di insuccessi ha riguardato oltre l’80% di chi proviene dal II grado (mentre non vi è incappato il 63% di quelli che si sono iscritti alla FP dal I), che all’età, in quanto coinvolge il 90% circa di chi si colloca dai 19 anni in su. E comunque, se si prescinde da un 5% che ha continuato la propria formazione nella FP, oltre il 90% al termine del percorso ha tentato la ricerca di una occupa- zione, ma soltanto poco più di un terzo (35.9%) ha potuto effettuare una prima espe- rienza lavorativa, che però è cessata quasi subito o ha avuto una durata inferiore ad un anno; dai dati disaggregati si evince l’appartenenza di quanti sono stati trovati disoccupati a categorie già in partenza svantaggiate, ossia i bocciati, gli ex-allievi in età avanzata, la residenza nelle regioni centro-meridionali. Per quel 60% circa che 116 invece alla distanza di un anno non è ancora riuscito a trovare lavoro le motivazioni addotte riguardano in misura maggiore la dimensione valoriale (non aver trovato un lavoro adatto alle proprie aspirazioni, l’incoerenza con la qualifica e/o con la forma- zione ricevuta...) e solo in parte afferiscono anche all’aspetto logistico (scarsezza di opportunità per i residenti nelle regioni centro-meridionali, mancanza di appoggi /raccomandazioni, sfortuna...). Tali fattori hanno consigliato a questo gruppo di posi- zionarsi in uno stato di osservazione in attesa di migliori opportunità, piuttosto che “bruciarsi” accettando il primo lavoro che potesse loro capitare. Resta un dato di fatto che nessuno ha attribuito la responsabilità di questo stato di attuale inattività alla qualità della formazione ricevuta, alla qualifica conseguita o al bisogno di acquisire un più elevato livello di formazione per ottenere il lavoro a cui aspirano. Al termine di questa prima parte della presentazione sintetica dei risultati prin- cipali della indagine, si può quindi a tutti gli effetti sostenere che nei confronti di almeno tre su quattro degli ex-allievi/e sono state raggiunte le finalità che si prefig- gevano i percorsi del diritto-dovere, quelle appunto o di portare gli iscritti ad inse- rirsi direttamente e da protagonisti nel mercato del lavoro o di poter continuare con successo i propri studi verso altri traguardi formativi. A conseguire l’una o l’altra meta non è invece riuscito circa uno su quattro, ma anche in questo caso occorre effettuare una distinzione: tra questi ultimi solo un gruppetto molto ridotto ha man- cato totalmente l’obiettivo prefisso, mentre c’è stato chi in realtà il lavoro l’aveva trovato ma poi l’ha perso per varie ragioni (personali e strutturali), ragioni che si tiene a precisare non hanno niente a che vedere con una eventuale ipotesi di debolezza sul mercato del lavoro e delle professioni della formazione fornita dai percorsi del diritto-dovere. 2.2. Valutazione della preparazione degli ex-allievi/e e prospettive di futuro La seconda parte del sondaggio era tutta concentrata nel chiedere agli inter- vistati di esprimere un giudizio sulla formazione ricevuta, di avanzare proposte per migliorare e potenziare i percorsi del diritto-dovere e di individuare il bisogno di eventuale ulteriore preparazione. Anche in questo caso vale la pena analizzare le risposte all’interno dei tre sottocampioni di ex-allievi/e che si distinguono per le scelte effettuate dopo aver conseguito la qualifica o un attestato di frequenza. 1) Ai lavoratori è stato chiesto di valutare il percorso mettendolo anzitutto in rapporto al contributo che esso ha dato loro per esercitare l’attuale occupazione. In questo modo è stato possibile verificare, grazie agli alti indici di gradimento espressi, che le competenze acquisite sono risultate indispensabili per svolgere quei compiti che attualmente sono stati loro affidati; inoltre il percorso ha contribuito a ridurre il tempo per trovare lavoro ed infine ha permesso anche di ottenere un buon contratto. A completamento di tali valutazioni favorevoli è venuta da parte di tutti, senza alcuna distinzione tra le variabili di status, la segnalazione secondo cui la qualifica con- seguita è stata trovata pienamente corrispondente alle mansioni attualmente svolte. 117 Scendendo ulteriormente nei dettagli, la soddisfazione per l’attuale esperienza lavorativa ha riguardato in particolare la dimensione relazionale (con i compagni, con i capi e con l’ambiente in generale), quella professionale (il riconoscimento per un lavoro ben fatto, l’autonomia, la responsabilità sul lavoro...), quella logistica (l’orario, la sicurezza...) e, pur essendo alla prima esperienza, anche quella remune- rativa, seppure leggermente meno evidenziata. Anche del percorso preso a sé stante è stata apprezzata anzitutto la dimensione relazionale (il rapporto docenti-allievi, la partecipazione alla vita del Centro...), a significare l’attenzione data alla formazione globale della personalità, considerata un valore primario nell’inserimento nel mercato della forza-lavoro, per poi passare a quella pedagogico-didattica (programmi, orientamento...) e logistico-organizza- tiva (attrezzature, rapporto con le aziende...). A suggellare quanto evidenziato sopra viene poi il dato secondo cui nel valutare complessivamente il corso è stata data la priorità allo sviluppo della persona prima ancora che alla professionalità, seppure entrambe siano state fatte oggetto di elevati indici di soddisfazione. 2) Quanto al gruppo degli studenti occorreva anzitutto fugare il sospetto che il proseguimento della formazione dipendesse dal fatto di aver trovato la loro quali- fica poco spendibile sul mercato del lavoro. In realtà i dati analizzati nella sezione precedente (n. 1.1) hanno messo in evidenza che tanto le variabili che caratteriz- zano questo sottocampione (18enni, del nord...), come la carica di attese e di pro- gettualità che esprimono li hanno messi nelle condizioni più vantaggiose per intra- prendere l’attuale scelta, rispetto invece a chi non ha effettuato o non ha potuto effettuare alcuna scelta di studio o di lavoro. Ad allontanare ogni perplessità contribuisce soprattutto la lunga serie di valuta- zioni elevate nei confronti del percorso del diritto-dovere. Anzitutto per quanto riguarda la sua corrispondenza alle loro attese: in questo caso l’intera gamma dei giudizi sugli aspetti presi in considerazione supera quella stessa data dai lavoratori, sebbene entrambi si siano espressi su alti valori; parimenti rispetto al precedente sot- tocampione gli apprezzamenti sono andati anzitutto alla dimensione relazionale, quindi a quella pedagogico-metodologica e poi a quella logistica. Una ulteriore con- ferma in questa direzione è venuta poi dal confronto tra la formazione ricevuta nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP e l’attuale corso di studi: in tal modo è stato possibile costatare che gli intervistati non avvertono il bisogno di maggiori compe- tenze in quanto le hanno già acquisite nei percorsi del diritto-dovere. Infine, a raffor- zare ulteriormente il giudizio sul “buono stato di salute” della preparazione acquisita contribuiscono anche gli apprezzamenti veramente elevati che gli intervistati di questo sottocampione hanno dato nei confronti della educazione della personalità. 3) A questo punto non rimane che verificare se anche coloro che al momento del rilevamento non stavano né studiando né lavorando condividono valutazioni così alte o se invece attribuiscono le difficoltà incontrate e/o il loro attuale stato di 118 inattività o di disoccupazione ad una eventuale debolezza del percorso frequentato. Ora, quanti si sono espressi in tal senso sono appena il 5% del sottocampione e, inoltre, sono caratterizzati da uno stato di maggiore difficoltà rispetto al resto del gruppo, poiché si tratta in particolare dei bocciati del II grado e dei più avanzati in età. L’analisi delle risposte circa la corrispondenza del corso alle proprie attese mette in evidenza che i giudizi, se non sono proprio così elevati come quelli degli studenti, tuttavia risultano assimilabili a quelli dei lavoratori e si snodano secondo la logica che prende in considerazione prima la dimensione relazionale, successiva- mente quella metodologico-pedagogica e da ultimo quella logistico-organizzativa. Anche chi è stato meno fortunato dichiara che l’offerta formativa ha abbondante- mente soddisfatto le proprie attese, esprimendo in proposito valutazioni medie che si attestano tra il “molto” e l’“abbastanza” e che eliminano il dubbio che i percorsi abbiano potuto formare soggetti destinati a rimanere inoccupati/disoccupati. Anche a questo campione è stato chiesto di precisare se a distanza di un anno almeno parte della preparazione potesse dirsi ormai inadeguata per cui gli inter- vistati avvertivano l’esigenza di riqualificare le proprie competenze/conoscenze. Un tale bisogno è stato dichiarato da poco più di un quarto del sottocampione in questione che comprende essenzialmente i più giovani (e quindi chi si può permet- tere di poter lasciare ancora spazio agli studi) e chi nutre più attese rispetto alla rea- lizzazione di sé (le ragazze); la preferenza per tale riconversione premia in eguale misura tanto il sistema di istruzione che la FP. Pertanto al termine dell’analisi di questa seconda serie di dati, è possibile pre- cisare i punti forti dei percorsi del diritto-dovere: – tutti gli intervistati, indipendentemente dalle scelte effettuate al termine della formazione professionale iniziale o dall’aver incontrato o meno condizioni favorevoli in vista dell’inserimento nel mondo del lavoro, riconoscono la piena corrispondenza della formazione ricevuta alle proprie attese in rapporto all’in- tera gamma degli aspetti considerati; – i risultati positivi a loro volta si distribuiscono secondo una scala preferenziale che privilegia la dimensione relazionale, senza dimenticare quelle metodolo- gico-pedagogica e logistica-strutturale; – coerentemente e a conferma di quanto espresso sopra, nel valutare complessi- vamente il percorso viene attribuito il primo posto alla formazione globale della personalità, anche se non è da meno la valutazione nei confronti della preparazione professionale; – la tenuta di tale preparazione, presa in tutti i suoi aspetti differenti ma comple- mentari, è stata poi confrontata e quindi convalidata in rapporto sia ai diversi ambienti produttivi che una parte degli ex-allievi/e ha potuto frequentare, che a quelli formativi di livello superiore. In pratica essa ha consentito ai lavoratori di dimostrare il possesso delle competenze necessarie per svolgere le mansioni affidate, facendosi così apprezzare da tutti nel contesto operativo; inoltre, ha 119 permesso a chi ha continuato a studiare, di misurarsi con i nuovi saperi po- tendo contare su una formazione di base in grado di garantire la continuità del percorso; da ultimo, chi al momento della rilevazione non stava né studiando né lavorando ha dimostrato di non avvertire ancora la necessità di riconvertire le proprie conoscenze/competenze, e quindi di sentirsi pronto a fare le proprie scelte a seconda delle opportunità che si presenteranno e/o alla corrispondenza alle proprie aspirazioni. Dopo aver richiamato gli alti esiti e le elevate valutazioni che l’indagine ha espresso sui percorsi del diritto-dovere, si può aggiungere che al contrario le criti- cità sono veramente poche e di scarsa entità. In pratica esse riguardano principal- mente il gruppo dei disoccupati/inoccupati. A questo punto quindi la presentazione dei risultati dell’indagine sarebbe di per sé terminata, dal momento che il rilevamento ha esaurito il proprio compito con il conseguimento degli obiettivi della ricerca. E tuttavia in più punti dell’inchiesta l’accento è andato alla personalità degli ex-allievi/e dei percorsi del diritto-dovere, in considerazione sia della tenacia con cui li hanno portati a termine, nonostante la maggioranza di loro provenisse da pregresse esperienze fallimentari, sia delle finalità ambiziose che tutti indistintamente hanno dichiarato a più riprese di voler realizzare attraverso scelte mirate alla piena realizzazione di sé. Siccome uno studio della personalità degli iscritti alla FPI è stato oggetto di una precedente indagine (Malizia, Becciu, Colasanti, Mion e Pieroni, 2007), ci per- mettiamo di evidenziare alcuni risultati rilevanti per il discorso che stiamo qui por- tando avanti: – dal punto di vista della loro condizione formativa, gli intervistati dell’altra ricerca hanno in comune con gli attuali ex-allievi la provenienza in un numero consistente da pregressi percorsi scolastici della secondaria superiore, che si sono rivelati fallimentari a motivo per lo più di scelte sbagliate e/o di attività “disorientanti”. Sottolineiamo che tutto questo ha fatto sì che nel tempo la FP iniziale triennale acquistasse sempre più credibilità presso i giovani e le loro famiglie non solo per la capacità di recupero dagli insuccessi consumati nel sistema di istruzione, ma soprattutto per la tenuta ed il consolidamento della nuova offerta formativa rispetto sia all’inserimento nel sistema produttivo che al proseguimento degli studi; – passando poi alla dimensione valoriale, i tratti caratteristici della personalità degli allievi della precedente ricerca sono stati individuati nel possesso di un adeguato bagaglio di fattori protettivi che li accomuna pressoché tutti e che si concentrano in rapporto alla carica motivazionale sottesa all’attuale scelta, ad un elevato coefficiente di autostima/autoefficacia, al controllo degli impulsi e delle emozioni, alle strategie di fronteggiamento nella gestione del comporta- mento, ad un bagaglio di ideali/progetti di vita proiettati verso la piena realiz- zazione di sé; 120 – tutto questo ha fatto ritenere che nel transitare alla vita attiva o in percorsi for- mativi di livello superiore questa utenza fosse sufficientemente attrezzata ad affrontare le inevitabili difficoltà a cui sarebbe andata incontro. Se si considera che l’intervallo di tempo tra il precedente e l’attuale rilevamento è di un anno, si può ragionevolmente ritenere che almeno una parte degli attuali ex- allievi/i frequentava allora i percorsi del diritto-dovere. Pertanto, la personalità che hanno dimostrato di possedere stando nei CFP costituisce un’ulteriore conferma del contributo dei CFP del CNOS-FAP e CIOFS/FP alla validità delle attuali scelte di vita degli ex-allievi/e e della determinazione con cui le stanno portando avanti. Inoltre l’attuale rilevamento si presta anche ad essere confrontato con i risultati conseguiti nel 2003 (Malizia-Pieroni, 2003, 104). Infatti, nella parte conclusiva del rapporto veniva messo in evidenza che, nonostante la ricerca avesse “confermato la sostanziale validità della proposta sperimentale di FPI del CNOS-FAP e del CIOFS/FP nel momento della transizione degli allievi al mercato del lavoro o a un altro tipo di istruzione o di formazione”, al tempo stesso occorreva apportare alcuni miglioramenti in merito alle strategie sottese al successo formativo, in considera- zione di quelle frange che non erano riuscite a conseguire la qualifica, ed a una programmazione dei corsi rispondente alla domanda formativa delle imprese del territorio, così da ottenere da parte di queste ultime una sempre maggiore conside- razione verso le qualifiche conseguite dagli allievi che facilitasse tra l’altro il con- seguimento di regolari assunzioni. Il paragone con l’attuale ricerca non solo con- ferma gli andamenti positivi, ma dimostra anche un miglioramento consistente riguardo alle criticità appena richiamate. Infatti, sebbene i dati attestino che già allora venivano raggiunti risultati assai apprezzabili in merito al numero dei qualificati (l’89% di chi aveva portato a ter- mine i corsi) e ad un quasi immediato inserimento nell’occupazione (oltre il 70% nei primi tre mesi), con la presente indagine è stato possibile rilevare che a distanza di un triennio quasi tutti gli ex-allievi escono dai percorsi del diritto-dovere in pos- sesso di una qualifica. In quella parte che è andata a confrontarsi subito con il mondo produttivo appena uno su dieci è stato fatto oggetto di “predazione” da parte delle imprese, dovendo lavorare al nero, mentre nell’indagine del 2003 tale quota riguardava oltre un terzo dei qualificati. Inoltre, dal punto di vista della capa- cità dei percorsi del diritto-dovere di “dare occupabilità”, dal confronto tra le due indagini si rileva che la quota di chi è andato subito a lavorare è passata da un terzo del 2003 (32.3%) a oltre la metà nel 2006 (51.6%) e, viceversa la porzione di coloro che al momento dei due sondaggi non stavano né studiando né lavorando è scesa dal 28.5 al 24%. A sua volta, la percentuale di chi ha proseguito gli studi si presenta più alta nella precedente indagine (39.2 contro l’attuale 27%), ma in questo ha giocato sicuramente la provenienza di una maggioranza dell’utenza del 2003 direttamente dalla scuola dell’obbligo e, con essa, l’età media più giovane e un bagaglio sicuramente meno rilevante di insuccessi scolastici. 121 3. PROPOSTE E PROVOCAZIONI A FRONTE DELLE TRASFORMAZIONI NEL SISTEMA DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE Il tentativo di offrire alcune indicazioni operative a seguito del fenomeno rile- vato suggerisce di richiamare alcuni passaggi-chiave del primo capitolo in merito alle più recenti trasformazioni che si sono verificate, “intrecciandosi”, all’interno dei sistemi produttivi e formativi. Più in particolare focalizzeremo le nostre pro- poste e provocazioni sulle innovazioni introdotte dall’attuale Ministro della PI. 1) Incominciamo con le norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione (decreto 22 agosto 2007, n. 139). Dal punto di vista giuridico, va subito precisato che tale obbligo non costituisce un ordinamento in quanto rappresenta sì un passaggio necessario nella carriera formativa di un ragazzo, ma non possiede una natura terminale perché rientra nell’ambito del diritto-dovere di istruzione e di formazione e pertanto non è una fase di un percorso che si conclude con il conse- guimento di un titolo di studio. Inoltre, esso non deve essere confuso con l’obbligo scolastico perché può essere adempiuto anche frequentando istituzioni formative e percorsi di istruzione e formazione professionale. È un biennio, ma fortunatamente non è unico e quindi non uniforme e scolastico perché “i saperi e le competenze di cui al comma 1 assicurano l’equivalenza formativa di tutti i percorsi, nel rispetto dell’identità dell’offerta formativa e degli obiettivi che caratterizzano i curricoli dei diversi ordini, tipi e indirizzi di studio” (art. 2, comma 2, DM n.139/07). Più sem- plicemente esso si può definire come “un’articolazione didattica del diritto-dovere di istruzione e formazione che giunge fino ai 18 anni o comunque fino al consegui- mento di una qualifica professionale” (CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007, 8). 2) Il dispositivo italiano dell’obbligo di istruzione è stato elaborato avendo sullo sfondo le competenze chiave per l’apprendimento permanente predisposte in seno all’UE (Commissione delle Comunità Europee, 2005; CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007). Il confronto degli assi culturali acclusi al DM n. 139/07 con il documento citato mette in risalto come questa scelta di collocarci nel quadro degli orientamenti europei, pur molto apprezzabile, trova poi dei limiti non marginali nella realizzazione pratica. Un primo dato viene solo dal confronto delle relative articolazioni: le competenze chiave per l’apprendimento permanente dell’UE com- prendono la comunicazione nella madrelingua, la comunicazione nelle lingue stra- niere, la competenza matematica e le competenze di base in scienza e tecnologia, la competenza digitale, imparare a imparare, le competenze interpersonali, intercultu- rali e sociali e la competenza civica, imprenditorialità, espressione culturale; le competenze che rientrano nel nostro obbligo di istruzione sono ripartite in due gruppi, le competenze di base degli assi culturali (dei linguaggi, matematico, scien- tifico-tecnologico, storico-sociale) e le competenze chiave di cittadinanza (impa- rare ad imparare, progettare, comunicare, collaborare e partecipare, agire in modo 122 autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collegamenti e relazioni, acquisire e interpretare l’informazione). Inoltre e più seriamente l’impostazione ita- liana tende ad attribuire eccessiva rilevanza alla dimensione disciplinare, introduce una pericolosa dicotomia tra conoscenze e competenze e stabilisce una gerarchia tra base e cittadinanza mentre il documento dell’UE correttamente non prevede nessuna classificazione. 3) In precedenza si è visto che l’obbligo dell’istruzione non è un ordinamento; se si vuole meglio precisare la sua natura in positivo, si può dire che la sua caratte- rizzazione va ricercata nella dimensione educativo-didattica e più in particolare nell’elenco dei saperi e delle competenze, distribuiti in conoscenze ed abilità, e funzionali a garantire l’equivalenza formativa tra tutti i percorsi del biennio (CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007). Questa finalizzazione e il principio che la sot- tende sono senz’altro lodevoli e innovativi perché permettono di stabilire orienta- menti comuni tra i curricoli dei diversi ordini, tipi e indirizzi di studio, anche se ignorano volutamente e in modo ingiustificato quanto già disciplinato dalla legge di Riforma Moratti in tema di secondo ciclo, del profilo educativo, culturale e pro- fessionale, delle indicazioni nazionali, dei livelli essenziali delle prestazioni dei percorsi di istruzione e formazione professionale. Pertanto, si spiegano le ragioni per cui nel dispositivo in questione il riferimento a un quadro di mete generali di natura educativa e sociale sia alquanto carente (Pellerey, 2007). Una conseguenza positiva della caratterizzazione educativo-didattica dell’obbligo di istruzione riguarda le istituzioni formative previste dalla legge n. 53/03 che non sono toccate da modifiche tranne l’esigenza di ripensare le finalità del biennio in modo da com- prendere anche le indicazioni elencate sopra. Sul lato negativo va osservato che il regolamento si presenta poco vincolante per le scuole soprattutto per quanto riguarda la certificazione. 4) Sul piano contenutistico e didattico, va anzitutto osservato che le quattro aree di competenze di cittadinanza da acquisire non sono sufficienti perché an- drebbe aggiunta un’area spirituale e morale dato che a norma dell’art. 2, comma 1, lettera b) della riforma Moratti la formazione spirituale e morale costituisce una dimensione essenziale del curricolo; inoltre, le conoscenze e competenze che sono elencate nell’asse storico-sociale risultano quasi esclusivamente di natura econo- mica e giuridica e vengono trascurate non solo quelle di carattere spirituale e mo- rale, ma anche quelle attinenti la competenza civica (CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007). In aggiunta, non si possono non segnalare altri limiti quali: la mancanza di un criterio interpretativo generale che riaffermi l’esigenza di facilitare l’inclusione di tutti i ragazzi di età inferiore ai sedici anni nei processi formativi delle istituzioni scolastiche e formative; la scarsa precisione delle finalità del biennio dei percorsi di istruzione e formazione professionale in paragone a quelle del triennio; le proble- matiche sul piano pratico-operativo che i docenti possono incontrare nella interpre- 123 tazione dei documenti; il livello troppo elevato di alcune finalità; una carenza di formalismo nelle competenze matematiche e la assenza di collegamenti tra l’asse matematico e gli altri; l’esigenza di laboratori scientifico-tecnologico che è pro- blematico trovare nelle scuole (Pellerey, 2007). L’impostazione del dispositivo si diversifica in modo notevole rispetto a quella delle indicazioni nazionali del primo ciclo per cui si vengono a determinare problemi di discontinuità tra i due cicli. Pertanto, è molto apprezzabile che il modello proposto non sia stato messo subito a regime, ma sia stato previsto un periodo sperimentale a partire dal 2007-08. 5) Un ulteriore punto della disamina sulle innovazioni introdotte dal Ministro Fioroni che riguardano più direttamente l’argomento del nostro rapporto è costi- tuito dalla revisione del secondo ciclo (CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007; legge n. 40/07). Anzitutto, è sparita dall’articolazione interna il riferimento al sistema dei licei e, pertanto, il secondo ciclo è composto dal sistema dell’istruzione secondaria superiore e dal sistema dell’istruzione e formazione professionale. Più in partico- lare nel sistema dell’istruzione secondaria superiore sono stati ricollocati gli istituti tecnici e professionali, mentre si è proceduto all’abrogazione della normativa che aveva introdotto il liceo tecnologico ed economico: dato il carattere professionaliz- zante dei primi, questo comporta necessariamente un ulteriore emarginazione della formazione professionale. È vero che il titolo che potranno conferire di norma è il diploma di istruzione secondaria superiore, però, in via sussidiaria e su domanda delle Regioni, essi potranno rilasciare anche qualifiche professionali. In positivo è stato stabilito che sono attribuiti alla competenza delle Regioni le qualifiche e i diplomi professionali, inclusi in uno specifico repertorio nazionale. Certamente, risulta anche apprezzabile la normativa che consente di creare sul piano provinciale o sub-provinciale poli tecnico-professionali che possono includere istituti tecnici e professionali, istituti formativi accreditati e strutture della formazione tecnica supe- riore: infatti, tale dispositivo implica una razionalizzazione di una offerta frammen- tata e la realizza rispettando la pari dignità delle strutture coinvolte. Quanto alla revisione degli esami di stato, se sono positive le misure per premiare gli studenti, per sostenere l’orientamento alla scelta, per assicurare una maggiore serietà, non appare equo che i commissari esterni siano solo docenti statali e che l’onere per i commissari interni delle scuole paritarie non sia a carico dello Stato. 6) Quanto al post secondo ciclo, appare lodevole la ristrutturazione dell’istru- zione e della formazione tecnica superiore (IFTS) in quanto si è ovviato alla situa- zione di precarietà in cui si trovava riconoscendole una collocazione stabile nell’or- dinamento nazionale dell’istruzione. Inoltre, nella “costituzione dei poli sono pre- viste strutture consortili costituite da diverse componenti: istituti tecnici e profes- sionali, strutture della formazione professionale accreditate, università, istituzioni tecnico superiori, fondazioni ed altri soggetti, quali gli enti locali, che intendono concorrere a un’offerta formativa tecnico-professionale ad alta specializzazione, 124 collegata e a sostegno dello sviluppo economico e produttivo di un territorio” (CNOS-FAP Sede Nazionale, 2007, 4). Nell’ambito del 2° ciclo e del post 2° ciclo, le Regioni non hanno mancato di fare sentire la propria voce. A loro parere le rela- zioni tra istruzione tecnica e professionale dovrebbero essere precisate in maniera più chiara; bisognerebbe inoltre evitare ogni sovrapposizione tra IFTS e ITS; le competenze dei vari Ministeri in materia non appaiono ben determinate per cui sarebbe necessario provvedere a una migliore definizione. 7) In questo contesto, la presente ricerca-azione ha confermato la validità della proposta sperimentale dei percorsi del diritto-dovere del CNOS-FAP e del CIOFS-FP anche nel momento della transizione degli allievi al mercato del lavoro o a un altro tipo di istruzione o di formazione. I dati della indagine hanno dimo- strato il superamento sostanziale delle carenze che erano state indicate dalla pre- cedente ricerca del 2003: infatti, gli esiti della investigazione mettono in risalto il potenziamento delle strategie della pedagogia del successo formativo, della pro- grammazione dei corsi che risulta più rispondente alla domanda del territorio e del- l’offerta di orientamento/accompagnamento. Rimane quindi veramente inspiegabile la situazione di precarietà in cui la politica nazionale e, soprattutto, regionale tende a mantenere i percorsi sperimentali del diritto-dovere. 125 BIBLIOGRAFIA AGeSC, “Per capirci qualcosa”. Libro bianco sulla nuova riforma della scuola (giugno-dicembre 2006). Roma, 2007. Annuario statistico italiano 2006, Roma, ISTAT, 2006. BARBAGLI M. et alii, Scuola e mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino, 1973. BERTAGNA G., I rapporti tra istruzione/formazione e sviluppo socio-economico. Quale modello?, Paper, sl, 2002. 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Il rapporto tra sapere e fare nel lavoro e nella formazione, Milano, Angeli, 2005. APPENDICE GRIGLIE UTILIZZATE PER IL RILEVAMENTO 133 Scheda INTRODUTTIVA (da compilare prima dell’intervista) Presentazione dell’iniziativa “Il CFP dei Salesiani/Salesiane presso il quale hai frequentato il corso sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione ha interesse a mantenere il contatto con te per conoscere le scelte che hai effettuato al termine del corso. L’obiettivo è quello di mettere a confronto il programma del corso con le scelte che hai fatto successivamente (inserimento lavorativo, proseguimento degli studi...), così da verificare la validità della preparazione offerta. Le tue informazioni quindi ci serviranno per migliorare la formazione impartita dal CFP che hai frequentato”. INDICAZIONI PER CONDURRE L’INTERVISTA: 1. Leggere la domanda (scritta in neretto) e specificare anche le alternative. 2. Cercare di ricondurre le risposte date dell’intervistato alle alternative presenti nella domanda, apponendo una “X” nella casella corrispondente. 3. Là dove la risposta non corrisponde affatto alle alternative della domanda, scriverla in “altro”. 1. Sesso: ‰‰ M ‰‰ F 2. Età (segnare l’anno di nascita): ............................. 3. CFP: ‰‰ CNOS-FAP ‰‰ CIOFS/FP 4. Regione: ........................................................................... 5. Corso frequentato: ..................................................... 6. Al termine del corso, a giugno 2006, hai ottenuto: 1. ‰‰ una qualifica professionale 2. ‰‰ un attestato di frequenza del corso 3. ‰‰ altro 134 7. Con quale valutazione hai ottenuto la qualifica o l’attestato ............................................................ 8. In quale settore hai conseguito la qualifica (riportare il numero del settore) n. ......................... Settori: per il CNOS-FAP : per il CIOFS-FP : 1. AUTORIPARAZIONE 8. ALIMENTARE 2. ELETTRICO-ELETTRONICO 9. AZIENDALE-AMMINISTARTIVO 3. GRAFICO-MULTIMEDIALE 10. COMMERCIALE-VENDITE 4. MECCANICO 11. ESTETICA 5. TERZIARIO-INFORMATICO 12. SOCIALE-SANITARIA 6. TERZIARIO-TURISTICO ALBERGHIERO 13. TESSILE-MODA 7. Altro ................................................................................ 14. Altro ............................................................ 9. Attualmente cosa fai: 1. ‰‰ hai proseguito nel sistema dell’istruzione o in una delle modalità della FP (scheda 1) 2. ‰‰ fai un corso di apprendistato nel Diritto-Dovere (scheda 2) 3. ‰‰ hai trovato un’occupazione (scheda 2) 4. ‰‰ non studi né lavori e sei in cerca di primo lavoro (scheda 3) 5. ‰‰ avevi trovato lavoro ma al momento sei disoccupato (scheda 3) 1. Per chi sta PROSEGUENDO gli STUDI 1. Attualmente stai proseguendo gli studi: 1. ‰‰ nel IV anno di formazione professionale 2. ‰‰ in un corso di formazione continua 3. ‰‰ in altre modalità del sistema di formazione professionale (apprendistato, IFTS...) 4. ‰‰ nel sistema di istruzione secondaria superiore 5. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... 2. Per quale motivo hai continuato a studiare nel sistema della Formazione Professionale o nel sistema di istruzione secondaria superiore 1. ‰‰ la qualifica conseguita non era sufficiente per fare una buona carriera professionale 2. ‰‰ hai trovato difficoltà ad inserirti nel mercato del lavoro 3. ‰‰ lo scarso valore attribuito dal mercato del lavoro alla qualifica conseguita 4. ‰‰ la tua famiglia ha voluto che continuassi 5. ‰‰ alcuni amici/compagni di studi ti hanno invitato a proseguire 6. ‰‰ l’inadeguatezza delle conoscenze/competenze conseguite nel corso 7. ‰‰ per avere migliori opportunità di scelta nella futura professione 8. ‰‰ per andare all’università 9. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... 135 3. Prima di partecipare al corso sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione: (1 sola risposta) 1. ‰‰ hai frequentato la scuola media inferiore 2. ‰‰ hai frequentato la scuola secondaria superiore 3. ‰‰ hai frequentato la formazione professionale 4. ‰‰ lavoravi 5. ‰‰ cercavi lavoro 6. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... 4. Ti è capitato di perdere uno o più anni di scuola o nella Formazione Professionale per bocciature o per altre cause? (una risposta per riga) BOCCIATURE: Mai 1 volta Più volte 1. alle elementari 2. alle medie 3. nella Formazione Professionale 4. alle superiori 5. Rispetto a quanto hai appreso nel corso, cosa ti serve di più nel tuo attuale corso di studi? Molto Abbastanza Poco Per nulla Competenze di base (cultura generale) Competenze tecnico-professionali (capacità operative...) Competenze specialistiche (tecnologie informatiche...) Competenze trasversali (capacità di comunicazione, problem solving...) 6. In base alla tua attuale esperienza di studio, come valuti complessivamente il corso triennale che hai frequentato, per quanto riguarda: Molto Abbastanza Poco Per nulla 1. il proseguimento degli studi 2. la tua formazione personale 7. In che misura il corso ha corrisposto alle tue attese, per quanto riguarda: Molto Abbastanza Poco Per nulla 1. la formazione tecnico-pratica dei docenti 2. il rapporto formatori-allievi 3. l’organizzazione delle attività 4. le metodologie di insegnamento 5. le attività di orientamento 6. le attrezzature 7. la partecipazione alla vita del CFP 8. l’adeguatezza dei programmi per trovare lavoro 9. il rapporto con le aziende 136 8. In prospettiva di futuro, in quale settore vorresti trovare lavoro? 1. ‰‰ nello stesso settore di tua formazione (riportare il numero del settore della dom. 7 della scheda iniziale) n. .................................. 2. ‰‰ in un settore diverso da quello in cui ti sei formato 2. Per chi LAVORA 1. Attualmente svolgi un lavoro: 1. ‰‰ autonomo (alla dom. 1.1) 2. ‰‰ dipendente (alla dom. 1.2-1.3) (se autonomo) 1.1. Lavori come: 1. ‰‰ Lavoratore in proprio (imprenditore, artigiano, commerciante...) 2. ‰‰ Socio di cooperativa 3. ‰‰ Coadiuvante familiare 4. ‰‰ altro (specificare) ..................................................................................................................................... (se lavoratore dipendente) 1.2. Sei stato assunto come: 1. ‰‰ apprendista (in base alla normativa sul diritto-dovere) 2. ‰‰ operaio comune 3. ‰‰ operaio qualificato 4. ‰‰ operaio specializzato 5. ‰‰ altro (specificare) ..................................................................................................................................... 1.3. Con che tipo di contratto sei stato assunto: (sono possibili più risposte) 1. ‰‰ regolarmente assunto a tempo pieno 2. ‰‰ regolarmente assunto a tempo parziale 3. ‰‰ non regolarmente assunto 4. ‰‰ assunto nell’azienda di famiglia 5. ‰‰ con contratto di Formazione-lavoro o di apprendistato 6. ‰‰ con contratto a termine o stagionale 7. ‰‰ con contratto a progetto, atipico 8. ‰‰ altro (specificare) ..................................................................................................................................... 2. Da quando hai terminato il corso sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione entro quanto tempo hai trovato lavoro? 1. ‰‰ entro 1 mese 2. ‰‰ entro 6 mesi 3. ‰‰ tra 6 mesi e 1 anno 4. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... 137 3. Come hai trovato l’attuale lavoro? 1. ‰‰ da solo, presentandoti direttamente 2. ‰‰ attraverso agenzie private 3. ‰‰ attraverso genitori, parenti, amici 4. ‰‰ attraverso l’appoggio di persone influenti 5. ‰‰ per concorso 6. ‰‰ attraverso l’ufficio di collocamento (o agenzia del lavoro o servizi per l’impiego) 7. ‰‰ per segnalazione del CFP 8. ‰‰ attraverso inserto pubblicitario o inviando lettere ad aziende 9. ‰‰ attraverso l’azienda dove hai svolto lo stage 10. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... 4. L’aver partecipato al corso che hai frequentato quanto ti ha agevolato: Molto Abbastanza Poco Per nulla 1. nell’abbreviare i tempi per trovare lavoro 2. nell’ottenere un buon contratto 3. nello svolgere con competenza le mansioni affidate 5. Rispetto alle mansioni che svolgi attualmente ritieni che la qualifica o attestato che hai conseguito sia di livello: 1. ‰‰ superiore 2. ‰‰ uguale 3. ‰‰ inferiore 6. Rispetto alla qualifica e alle competenze acquisite, nell’azienda dove lavori in che misura ti senti: Molto Abbastanza Poco Per nulla 1. competente di fronte ai compiti assegnati 2. stimato dai compagni di lavoro 7. Come valuti complessivamente il corso triennale che hai frequentato, per quanto riguarda: Molto Abbastanza Poco Per nulla 1. l’attuale esperienza di lavoro 2. la tua formazione personale 8. Successivamente al corso diritto-dovere all’istruzione e alla formazione ti sei iscritto ad altri corsi di formazione? 1. ‰‰ SI (alla dom. 8.1) 2. ‰‰ NO 138 (se SI) 8.1. Che tipo di certificato ti è stato rilasciato? 1. ‰‰ abilitazione professionale 2. ‰‰ frequenza 3. ‰‰ patente di mestiere 4. ‰‰ qualifica professionale 5. ‰‰ specializzazione 6. ‰‰ altro (specificare) ..................................................................................................................................... 9. Dopo aver conseguito la qualifica o l’attestato hai svolto altri lavori prima dell’attuale? 1. ‰‰ no 2. ‰‰ sì, uno prima dell’attuale 3. ‰‰ sì, più di uno prima dell’attuale 10. Prima di partecipare al corso per l’obbligo formativo: (1 sola risposta) 1. ‰‰ hai frequentato la scuola media inferiore 2. ‰‰ hai frequentato la scuola secondaria superiore 3. ‰‰ hai frequentato la formazione professionale 4. ‰‰ lavoravi 5. ‰‰ cercavi lavoro 6. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... 11. Ti è capitato di perdere uno o più anni di scuola o nella Formazione Professionale per bocciature o per altre cause? (una risposta per riga) BOCCIATURE: Mai 1 volta Più volte 1. alle elementari 2. alle medie 3. nella Formazione Professionale 4. alle superiori 12. Qual è il tuo grado di soddisfazione nei confronti dell’attuale lavoro, per quanto riguarda: Molto Abbastanza Poco Per nulla 1. l’ambiente di lavoro 2. i rapporti con i compagni di lavoro 3. i rapporti con i capi 4. le competenze richieste per svolgere il lavoro 5. l’autonomia sul lavoro 6. il riconoscimento per un lavoro ben fatto 7. il salario 8. la sicurezza del posto 9. la sicurezza sul lavoro 10. la responsabilità affidata 11. la possibilità di impiegare le proprie competenze 12. la possibilità di fare carriera 13. l’orario di lavoro 139 13. In che misura il corso ha corrisposto alle tue attese, per quanto riguarda: Molto Abbastanza Poco Per nulla 1. la formazione tecnico-pratica dei docenti 2. il rapporto formatori-allievi 3. l’organizzazione delle attività 4. le metodologie di insegnamento 5. le attività di orientamento 6. le attrezzature 7. la partecipazione alla vita del CFP 8. l’adeguatezza dei programmi alla realtà del mondo del lavoro 9. il rapporto con le aziende e in generale con il mondo del lavoro 14. Secondo te, in quale area del corso che hai frequentato potrebbero essere apportati dei miglioramenti? 1. ‰‰ area teorica (competenze di base) 2. ‰‰ area delle capacità personali (competenze trasversali, problem solving...) 3. ‰‰ area pratica (competenze professionali) 4. ‰‰ stage 5. ‰‰ orientamento 6. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... 15. Attualmente avverti il bisogno di una ulteriore formazione/riqualificazione della tua professione? 1. ‰‰ SI (alla dom. 14.1.) 2. ‰‰ NO (se SI) 15.1. Di che tipo di attestato (qualifica, certificazione...) avresti bisogno? 1. ‰‰ Attestato di abilitazione professionale 2. ‰‰ Certificato di frequenza 3. ‰‰ Patente di mestiere 4. ‰‰ Qualifica professionale 5. ‰‰ Specializzazione post-qualifica 6. ‰‰ Specializzazione post-diploma 7. ‰‰ Formazione continua 8. ‰‰ altro (specificare) ..................................................................................................................................... 16. In prospettiva di futuro pensi di cambiare l’attuale lavoro? 1. ‰‰ SI (alla dom. 15.1.) 2. ‰‰ NO 140 (per chi pensa di cambiare lavoro) 16.1. Per quale motivo? 1. ‰‰ per cercare un lavoro meglio retribuito 2. ‰‰ per cercare un lavoro più corrispondente alle mie aspirazioni 3. ‰‰ per cercare un lavoro più corrispondente alla qualifica conseguita 4. ‰‰ per avere più tempo libero 5. ‰‰ per fare un lavoro meno faticoso, monotono 6. ‰‰ per lavorare in un’impresa più qualificata 7. ‰‰ per fare altre esperienze lavorative 8. ‰‰ per fare carriera 9. ‰‰ per fare un lavoro più sicuro 10. ‰‰ altro (specificare) ..................................................................................................................................... 3. Per chi non studia né lavora ed È IN CERCA DI PRIMO LAVORO o DISOCCUPATO 1. Cosa hai fatto dopo aver terminato il corso su diritto-dovere all’istruzione e alla formazione? 1. ‰‰ ti sei iscritto ad un corso di Formazione Professionale (alla dom. 1.1) 2. ‰‰ ti sei messo subito a cercare lavoro, senza riuscire a trovarlo 3. ‰‰ sei rimasto in attesa di migliori opportunità di scelta 4. ‰‰ stai facendo una esperienza di tirocinio 5. ‰‰ hai trovato lavoro ma al momento sei disoccupato (alla dom. 1.2-1.2.1) 6. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... (se si è iscritto ad un corso di FP) 1.1. Che tipo di certificato o attestato ti è stato rilasciato? 1. ‰‰ abilitazione professionale 2. ‰‰ frequenza 3. ‰‰ patente di mestiere 4. ‰‰ qualifica professionale 5. ‰‰ specializzazione 6. ‰‰ altro (specificare) ..................................................................................................................................... 7. ‰‰ non ha conseguito alcun certificato/attestato (per chi aveva trovato lavoro ma adesso è disoccupato) 1.2. Il settore dove avevi trovato lavoro era coerente con quello della qualifica conse- guita? 1. ‰‰ SI (alla dom. 2.2.1.) 2. ‰‰ NO 1.2.1. Tra le cause maggiori della perdita del posto di lavoro, vi era: 1. lo scarso valore attribuito alla qualifica conseguita SI ‰‰ NO ‰‰ 2. l’inadeguatezza delle conoscenze/competenze acquisite nel corso SI ‰‰ NO ‰‰ 3. la chiusura o il ridimensionamento dell’impresa SI ‰‰ NO ‰‰ 141 2. Prima di partecipare al corso sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione: (1 sola risposta) 1. ‰‰ hai frequentato la scuola media inferiore 2. ‰‰ hai frequentato la scuola secondaria superiore 3. ‰‰ hai frequentato la formazione professionale 4. ‰‰ lavoravi 5. ‰‰ cercavi lavoro 6. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... 3. Ti è capitato di perdere uno o più anni di scuola o nella Formazione Professionale per bocciature o per altre cause? (una risposta per riga) BOCCIATURE: Mai 1 volta Più volte 1. alle elementari 2. alle medie 3. nella Formazione Professionale 4. alle superiori 4. Ritieni che se avessi scelto una qualifica diversa sarebbe stato più facile trovare lavoro? 1. ‰‰ più facile 2. ‰‰ lo stesso 3. ‰‰ più difficile 4. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... 5. In che misura il corso ha corrisposto alle tue attese, per quanto riguarda: Molto Abbastanza Poco Per nulla 1. la formazione tecnico-pratica dei docenti 2. il rapporto formatori-allievi 3. l’organizzazione delle attività 4. le metodologie di insegnamento 5. le attività di orientamento 6. le attrezzature 7. la partecipazione alla vita del CFP 8. l’adeguatezza dei programmi per trovare lavoro 9. il rapporto con le aziende 6. In base alla condizione attuale in cui ti trovi come valuti complessivamente il corso triennale che hai frequentato? UTILE PER: Molto Abbastanza Poco Per nulla 1. trovare lavoro 2. proseguire gli studi 3. la tua formazione professionale 142 7. Attualmente avverti il bisogno di una ulteriore formazione/riqualificazione della tua professione? 1. ‰‰ SI (alla dom. 7.1-7.2) 2. ‰‰ NO (se SI) 7.1. Di che tipo di attestato (qualifica, certificazione...) avresti bisogno? 1. ‰‰ Attestato di abilitazione professionale 2. ‰‰ Certificato di frequenza 3. ‰‰ Patente di mestiere 4. ‰‰ Qualifica professionale 5. ‰‰ Specializzazione post-qualifica 6. ‰‰ Specializzazione post-diploma 7. ‰‰ continua 8. ‰‰ altro (specificare) ..................................................................................................................................... 7.2. In concreto, per rispondere a questo bisogno di formazione/riqualificazione pensi di iscriverti in qualche corso nel sistema dell’istruzione o della Formazione Professio- nale? 1. ‰‰ SI, nel sistema dell’Istruzione secondaria superiore 2. ‰‰ SI, nel sistema della Formazione Professionale 3. ‰‰ NON intendi iscriverti a nessun corso 8. Secondo te, perché non sei ancora riuscito a trovare lavoro? (sono possibili più risposte) 1. ‰‰ perché non ho trovato un lavoro adatto alle mie aspirazioni 2. ‰‰ perché non ho trovato un lavoro corrispondente alla qualifica 3. ‰‰ perché non ho trovato un lavoro che mi consenta di fare carriera 4. ‰‰ perché le imprese non mi riconoscono la qualifica ottenuta attraverso il corso 5. ‰‰ perché ho preferito fare un tirocinio per farmi conoscere dall’azienda 6. ‰‰ perché al momento non ho bisogno di lavorare 7. ‰‰ perché in attesa del servizio militare 8. ‰‰ perché in zona non c’è un lavoro rispondente alla qualifica ottenuta attraverso il corso 9. ‰‰ per la mancanza di conoscenze/amici/familiari “che contano” 10. ‰‰ a causa della sfortuna 11. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... 9. Di che cosa avresti bisogno per trovare lavoro? (sono possibili più risposte) 1. ‰‰ della raccomandazione delle persone che contano 2. ‰‰ di un bando di Concorso 3. ‰‰ di risolvere alcuni problemi personali 4. ‰‰ di riprogrammare la mia vita in modo diverso 5. ‰‰ di fortuna 6. ‰‰ di trovare l’occasione più corrispondente al titolo di studio conseguito 7. ‰‰ di una migliore formazione professionale 8. ‰‰ altro (specificare) ........................................................................................................................................... 143 10. In prospettiva di futuro, in quale settore vorresti trovare lavoro? 1. ‰‰ nello stesso settore di tua formazione (riportare il numero del settore della dom. 7 della scheda iniziale) n. .................................. 2. ‰‰ in un settore diverso da quello in cui ti sei formato 145 INDICE INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 Parte I: IL QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Capitolo 1 LA TRANSIZIONE DALLA FORMAZIONE AL LAVORO. LO SCENARIO (G. Malizia) . . . . . . . . 9 1. Società della conoscenza e sistemi educativi: quali orientamenti . . . . . . . . . . . . . 9 2. Istrizione ed economia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 2.1. L’affermarsi della teoria del capitale umano negli anni ’60 . . . . . . . . . . . . . . . 11 2.2. Le posizioni critiche degli anni ’70 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 2.3. A partire dagli anni ’80: la nuova centralità dell’istruzione e della formazione 16 3. La transizione dal sistema educativo al lavoro in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 3.1. Le dinamiche del mercato del lavoro in Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 3.2. L’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 3.3. Le tendenze principali sul piano qualitativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30 4. Istruzione e formazione: la Riforma Moratti e le modifiche del Ministro Fioroni 31 4.1. La riforma Moratti e il modello “personalistico” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 4.2. Le modifiche introdotte dal Ministro Fioroni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 Parte II: L’INDAGINE SUL CAMPO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43 Capitolo 2 IL DISEGNO DI ANALISI DELLA INDAGINE NEL QUADRO DELLE RICERCHE SUL CNOS-FAP E IL CIOFS/FP (G. Malizia - V. Pieroni) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 1. Gli allievi dei percorsi del diritto-dovere dei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP 45 1.1. Il rapporto sul follow-up alla formazione professionale iniziale . . . . . . . . . . . . 45 1.1.1. La situazione dei soggetti intervistati al momento del rilevamento . . . . 46 1.1.2. Valutazione favorevole della sperimentazione della FPI . . . . . . . . . . . . 47 1.1.3. Luci e ombre della transizione al mondo del lavoro . . . . . . . . . . . . . . . 48 1.2. Gli stili di vita degli allievi dei percorsi formativi del diritto-dovere . . . . . . . . 49 1.2.1. Caratteristiche dei giovani dell’inchiesta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 1.2.2. La personalità sullo sfondo dello scenario esistenziale e valoriale . . . . 50 1.2.3. Bisogni, disagi e strategie di fronteggiamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53 1.2.3.1. Le fonti di disagio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53 1.2.3.2. I bisogni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54 1.2.3.3. Atteggiamenti da assumere di fronte ad un ostacolo/problema . . 55 1.2.3.4. Il “castello” degli ideali e dei progetti di vita . . . . . . . . . . . . . . . 55 146 1.2.4. La ricaduta dei corsi sul sistema di istruzione e formazione . . . . . . . . . 56 1.2.4.1. Il successo formativo dei percorsi del diritto-dovere tutti nella FP 56 1.2.4.2. La personalità degli utenti sullo sfondo dei fattori predittivi e pro- tettivi dal rischio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58 2. L’indagine 2007: il progetto di analisi, la metodologia, il piano di campionatura 63 2.1. Obiettivi del progetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63 2.2. Metodologia e cronogramma dell’indagine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64 2.3. Il piano di campionatura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66 Capitolo 3 I RISULTATI DEL RILEVAMENTO (V. Pieroni) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69 1. Identikit generale degli ex-allievi/e coinvolti nell’indagine . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70 2. La posizione degli ex-allievi/e che hanno continuato a studiare . . . . . . . . . . . . . . 76 2.1. Identikit degli studenti in base al pregresso percorso scolastico-formativo . . . 76 2.2. L’attuale posizione negli studi e motivazioni sottese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 78 2.3. Valutazione del corso e prospettive di futuro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 3. Gli ex-allievi/e che attualmente lavorano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84 3.1. Identikit dei lavoratori in base al percorso scolastico-formativo di provenienza 85 3.2. Valutazione dell’attuale esperienza lavorativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85 3.3. Valutazione del percorso e prospettive di futuro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 92 4. Gli ex-allievi/e che al momento del sondaggio non stavano né studiando né lavo- rando . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96 4.1. Caratteristiche del sottocampione in base al pregresso percorso scolastico- formativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96 4.2. Le esperienze successive al percorso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98 4.3. Valutazione del corso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99 4.4. L’esigenza di ulteriore formazione per affrontare il futuro . . . . . . . . . . . . . . . . 100 Parte III: SINTESI CONCLUSIVA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103 Capitolo 4 SINTESI DEI RISULTATI E OSSERVAZIONI CONCLUSIVE (G. Malizia - V. Pieroni) . . . . . . . . 105 1. Il quadro di riferimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105 2. I risultati dell’indagine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112 2.1. La condizione degli ex-allievi/e al momento del rilevamento . . . . . . . . . . . . . . 112 2.2. Valutazione della preparazione degli ex-allievi/e e prospettive di futuro . . . . . 116 3. Proposte e provocazioni a fronte delle trasformazioni nel sistema di istruzione e formazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 APPENDICE - Le griglie utilizzate per il rilevamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131 INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145 147 Pubblicazioni 2002-2007 nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP “STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE” ISSN 1972-3032 1. Nella sezione “studi” 1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. La formazione professionale per lo sviluppo del territorio. Castel Brando (Treviso), 9 - 11 settembre 2002, 2003 2) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XV seminario di formazione europea. Il sistema dell’istruzione e formazione professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi, 2004 3) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVI seminario di formazione europea. La formazione professionale fino alla formazione superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, 2005 4) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orien- tativi, 2003 5) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Catania, Noto, Modica, 2004 6) CNOS-FAP (a cura di), Gli editoriali di “Rassegna CNOS” 1996-2004. Il servizio di don Stefano Colombo in un periodo di riforme, 2004 7) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, 2002 8) MALIZIA G. - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto sul follow - up, 2003 9) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale, 2004 10) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, 2004 11) D’AGOSTINO S. - G. MASCIO - D. NICOLI, Monitoraggio delle politiche regionali in tema di istruzio- ne e formazione professionale, 2005 12) PIERONI V. - G. MALIZIA (a cura di), Percorsi/progetti formativi “destrutturati”. Linee guida per l’inclusione socio-lavorativa di giovani svantaggiati, 2005 13) NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di istruzione e formazione professionale nell’anno formativo 2004-2005, 2006 14) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione professionale. II edizione, 2006 15) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Rapporto di ricerca, 2007 16) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVIII seminario di formazione europea. Standard formativi nel- l’istruzione e nella formazione professionale. Roma,7-9 settembre 2006, 2007 17) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, Ristampa 2007 18) COLASANTO M. - R. LODIGIANI (a cura di), Il ruolo della formazione in un sistema di welfare attivo, 2007 19) MALIZIA G. et alii, Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere, 2007 20) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Rapporto di ricerca, 2007 21) NICOLI D. - R. FRANCHINI, Costruzione dell’identità personale e sociale negli adolescenti e nei giovani. La proposta dell’Istruzione e formazione professionale, 2007 22) NICOLI D., La rete formativa nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP, 2007 23) MALIZIA G. et alii, Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Problemi e prospettive, 2007 24) PELLEREY M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona. Dare senso e prospettiva al proprio impegno nell’apprendere lungo tutto l’arco della vita, 2007 25) BELLESI L. - C. DONATI, Giovani e percorsi professionalizzanti: un gap da colmare? Rapporto finale, 2007 148 2. Nella sezione “progetti” 26) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 27) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio meto- dologico e proposte di strumenti, 2003 28) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003 29) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004 30) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003 31) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e propo- ste di strumenti, 2003 32) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale alimentazione, 2004 33) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004 34) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004 35) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale estetica, 2004 36) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004 37) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale tessile e moda, 2004 38) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003 39) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffu- sione di una buona pratica, 2004 40) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004 41) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale grafica e multimediale, 2004 42) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale legno e arredamento, 2005 43) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale meccanica, 2004 44) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati. Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004 45) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione delle unità didattiche, 2003 46) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa. Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d. 47) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003 48) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003 49) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003 50) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istru- zione e della formazione professionale, 2004 51) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale, 2004 52) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003 53) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui per- corsi formativi, 2003 54) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il per- corso quadriennale, 2005 55) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005 56) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005 149 57) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale. Percorsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005 58) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006 59) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006 60) NICOLI D. - G. TACCONI, Valutazione e certificazione degli apprendimenti. Ricognizione dello stato dell’arte e ricerca nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP. I volume, 2007 61) MARSILII E., Dalla ricerca al rapporto di lavoro. Opportunità, regole e strategie, 2007 62) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo. Una proposta di percorsi per la creazione di impresa. II edizione, 2007 3. Nella sezione “esperienze” 63) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003 64) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in itinere, 2003 65) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento fina- le, 2003 66) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage, 2003 67) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico condiviso e proposte di strumenti, 2003 68) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordinatore delle attività educative del CFP, 2005 69) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i percorsi di istruzione e formazione professionale, 2006 70) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro polifunzionale diurno di Roma, 2006 71) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006. Rapporto finale, 2006 Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net Aprile 2008

Atti del XIX Seminario di Formazione Europea. Competenze del cittadino europeo a confronto. Palermo, 6-8 settembre 2007

Autore: 
Sede Nazionale CIOFS/FP
Categoria pubblicazione: 
Studi
Anno: 
2008
Numero pagine: 
256
Atti del XIX Seminario di Formazione Europea COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO A CONFRONTO a cura della Sede Nazionale CIOFS/FP CIOFS/FP STUDI PROGETTI ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE CIOFS/FP Centro Italiano Opere Femminili Salesiane Formazione Professionale PALERMO, Hotel Village Città del mare 6/8 Settembre 2007 COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO A CONFRONTO Forma Associazione Nazionale Enti di Formazione Professionale Regione Siciliana Città di Palermo Assessorato al Turismo Comune di Catania seminario di formazione europeaseminario di formazione europea seminario di formazione europea seminario di formazioneeuropea europea seminariodi formazione europea semi-nario di formaz seminario di forma-zione europea europea sem i formazione euro-pea seminario ropea seminario diformazione di formazione europea seminario europea seminario di formazioneuropea seminario di formazione europea seminario di formazioneeuropea seminario di formazione di formazione euro-pea seminarioopea seminario diformazionepea seminario di formazioneformazione europea seminarioXIXseminario diformazione europea Il coordinamento scientifico del Seminario è stato condotto da Lauretta Valente, Angela Elicio e Fabrizia Pittalà della Sede Nazionale del CIOFS-FP. Il comitato scientifico del Seminario è stato composto da Anna D’Arcangelo, Angela Elicio, Irene Gatti, Michele Pellerey, Fabrizia Pittalà, Olga Turrini, Lauretta Valente. Autori del volume sono: Mariella Lo Turco, Giuseppina Barbanti, Santi Formica (cap. 1) Lauretta Valente, Anna D’Arcangelo, Giuseppe Roma, Michele Pellerey (cap. 2) Michele Pellerey, Gerald Bogard, Pasqualino Mare, Bruno Losito (cap. 3) PIer Giovani Bresciani, Vera Marincioni, Marina Rozera, Elena Maddalena, Alessandra Russo (cap. 4) Savino Pezzotta, Maria Grazia Nardiello (cap. 5) Rosangela Lodigiani, Claudia Donati, Rosaria Ventura (cap. 6) Mario Tonini, Antonio Montagnino, Giorgio Santini, Emilio Gandini (cap. 7) Stefania Stelzig, Riccardo Mazzarella, Pier Giovanni Bresciani, Domenico Sugamiele, Massimo Peron (cap. 8) Il coordinamento editoriale finale è stato curato da: Irene Gatti, Angela Elicio, Fabrizia Pittalà, Lauretta Valente Si ringrazia Paola Nicoletti dell’ISFOL per il contributo alla realizzazione della bibliografia. Si ringraziano gli Operatori della Formazione Professionale e rappresentanti del: CIOFS-FP Abruzzo, CIOFS-FP Basilicata, CIOFS-FP Calabria, CIOFS-FP Campania, CIOFS-FP Emilia Romagna, CIOFS-FP Friuli Venezia Giulia, CIOFS-FP Lazio, CIOFS-FP Liguria, CIOFS-FP Lombardia, CIOFS-FP Piemonte, CIOFS-FP Puglia, CIOFS-FP Sardegna, CIOFS-FP Sicilia, CIOFS-FP Toscana, CIOFS-FP Veneto. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 3 INDICE Premessa. Lauretta Valente - CIOFS-FP 7 1. Apertura del Seminario 1.1 - Saluti delle Autorità 11 Lauretta Valente - CIOFS-FP 11 Mariella Lo Turco - CIOFS-FP Sicilia 13 Giuseppina Barbanti - Ispettoria FMA Sicilia 15 Santi Formica - Assessorato Lavoro, Previdenza Sociale, Formazione Professionale ed Emigrazione - Regione Siciliana 17 PARTE I 2. Lo stato dell’arte in Italia 2.1 - Quadro di riferimento e contesto del seminario Lauretta Valente - CIOFS-FP 27 2.2 - Le competenze del cittadino europeo nell’ambito dell’apprendimento permanente. Anna D’Arcangelo Area Politiche e offerte per la formazione iniziale e permanente - ISFOL 30 2.3 - I contenuti base per la costruzione delle competenze del cittadino europeo alla luce degli obiettivi di Lisbona. Giuseppe Roma - Censis 39 2.4 - Piste di lavoro transnazionale ed interistituzionale per la pianificazione formativa delle competenze del cittadino europeo. Michele Pellerey - Università Pontificia Salesiana 52 3. Lo stato dell’arte in Europa. Confronto sulle competenze del cittadino europeo 3.1 - Introduzione. Michele Pellerey - UPS 63 Intervengono: 3.2 - Gerald Bogard - AEFP 65 3.3 - Pasqualino Mare - AEFP/Kchandel 79 3.4 - Bruno Losito - Università degli Studi Roma Tre 87 4. Le iniziative e i programmi dell’Unione europea e dell’Italia per la promozione della cittadinanza attiva 4.1 - Introduzione. Pier Giovanni Bresciani - Università di Genova e Università di Bologna 97 Intervengono: 4.2 - Vera Marincioni - Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale 100 4.3 - Marina Rozera - Agenzia Nazionale LLP - ISFOL 106 4.4 - Elena Maddalena - Agenzia Nazionale LLP di Firenze 110 4.5 - Alessandra Russo - Dipartimento Formazione Professionale - Regione Siciliana 114 5. La costruzione della cittadinanza europea 5.1 - La cittadinanza attiva in Europa: quali competenze formare. Savino Pezzotta - Fondazione Sud 125 5.2 - Il quadro nazionale più recente per la formazione di competenze spendibili nell’Ue. Maria Grazia Nardiello - Ministero della Pubblica Istruzione 134 PARTE II 6. Il contesto della formazione professionale in Italia 6.1 - Ridiscutere il nesso tra welfare, lavoro, formazione per una cittadinanza attiva. Rosangela Lodigiani - Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano 143 6.2 - Giovani e percorsi professionalizzanti: un gap da colmare? I primi risultati. Claudia Donati - Settore Scuola - Censis 153 6.3 - Le sperimentazioni del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS-FP della Sicilia. Rosaria Ventura - CIOFS-FP Sicilia 171 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 4 7. Le prospettive di sviluppo per la formazione professionale in Italia 7.1 - Introduzione - Mario Tonini - FORMA 181 Intervengono: 7.2 - Antonio Montagnino - Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale 185 7.3 - Giorgio Santini - CISL 188 7.4 - Emilio Gandini - Scuola Centrale di Formazione 193 PARTE III 8. Contributi dei Gruppi di Lavoro 8.1 - Nuove competenze degli operatori della FP per la costruzione della cittadinanza europea. Stefania Stelzig - ENAIP 201 8.2 - Le opportunità di progettazione per la formazione del cittadino europeo. Riccardo Mazzarella - ISFOL, Pier Giovanni Bresciani - Università di Genova e Università di Bologna 206 8.3 - Gli ambiti su cui costruire le competenze del cittadino: storia, diritto, multietnicità, religioni… Domenico Sugamiele - Esperto in Sistemi Formativi 209 8.4 - Il rapporto tra la costruzione delle competenze del cittadino europeo e le caratteristiche dei sistemi del lavoro, educativi e formativi. Massimo Peron - CIOFS-FP Emilia Romagna 214 PARTE IV 9. Bibliografia/Sitografia 223 10. Allegati - Decisione n. 1904/2006/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 233 - Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 242 - Le scuole per il 21° secolo - 11 luglio 2007 251 5 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 Premessa La XIX edizione del seminario di formazione europea ha consentito la riflessione sul tema della cittadinanza europea nelle indicazioni e nei documenti diffusi dall’Ue. Il documento sulle otto competenze del cittadino europeo ha costituito il punto di riferimento per i lavori. L’applicazione nel contesto della formazione professionale richiede un impegno specifico. A partire dalla riflessione prodotta dal seminario, verrà pianificato un progetto di revisione delle linee guida del metodo formativo e l’aggiornamento, in rapporto alle linee dell’Ue, delle famiglie professionali che hanno costituito la base sperimentale per la pianificazione dei percorsi formativi e delle competenze di qualifica. Attualmente sono studiate 11 famiglie corredate dalle unità di appren- dimento finalizzate a risultati-prodotti. Gli Atti seguono una struttura prevalentemente fedele allo svolgimento dell’even- to con alcuni pochi adattamenti per dare linearità ai contenuti con l’aggiunta dei documenti di riferimento. Un ringraziamento a tutti i relatori il cui contributo è presente nel testo e a tutti gli intervenuti che potranno fare richiesta degli atti. Così come ringraziamo gli Enti di formazione professionale per il sostegno. In particolare ringraziamo le associazioni CONFAP e FORMA. L. V. 7 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 1. APERTURA DEL SEMINARIO 1.1 - Saluti Autorità Lauretta Valente Presidente Nazionale CIOFS-FP A tutti un cordiale benvenuto alla XIX edizione del Seminario di Formazione Europea. Do il benvenuto anche a nome della presidente dell’Ente CIOFS, suor Margherita Dal Lago, che per motivi di cambio di sede non può essere presente, a nome della Associazione FORMA, il cui presidente, il prof. Michele Colasanto, è anche lui assente per motivi di famiglia, ma è qui presente per tutto il tempo dello svolgi- mento dei lavori il presidente del CNOS-FAP don Mario Tonini, che ricopre la cari- ca di vicepresidente di FORMA e ne rappresenta l’Associazione; a nome dell’asso- ciazione CONFAP il cui presidente, l’ing. Attilio Bondone è invece qui tra noi e lo salutiamo. Un saluto particolare alle autorità civili, religiose e politiche del territorio che sono presenti oggi e che ci visiteranno nei prossimi giorni, a Mons. Bruno Stenco, alla dott.ssa Russo che rappresenta l’assessore regionale Santi Formica annunciato nel depliant e che sarà presente domani nella tavola rotonda, all’assessore al turismo della città di Catania. So che ci sono rappresentanti di diverse regioni e province d’Italia, porgo a tutti il nostro saluto e ringraziamento. Non mi cimento a fare altri nomi perché non coprirei certo la totalità delle perso- ne che hanno contribuito alla preparazione dell’evento, che sono presenti oggi e saranno presenti nei prossimi giorni. Questo incarico lo espleteranno i rappresentanti del CIOFS-FP Sicilia, che natu- ralmente ringrazio assieme all’Ispettoria delle FMA della Sicilia, alla ispettrice suor Giuseppina Barbanti, per tutto il lavoro di preparazione e di sostegno profu- so ed al CNOS-FAP per il contributo offerto. Un benvenuto ed un ringraziamento speciale ai formatori e agli educatori presen- ti: grazie per quanto viene fatto a favore dei nostri ragazzi. Una breve dedica ad alcune persone, in particolare: a suor Mariella Lo Turco, gio- vane neopresidente del CIOFS-FP Sicilia; a suor Concetta Cannone, presidente uscente, per il lavoro svolto con tanta dedizione e sacrificio per un considerevole numero di anni, al fine di dotare l’Associazione di una struttura organizzativa ed 11 APERTURA DEL SEMINARIO operativa stabile e sistematica; all’anziana suor Maria Pironti, cui va il riconosci- mento del carisma di fondazione del CIOFS-FP Sicilia ed infine a suor Elda Paradiso, che da alcuni giorni ci ha lasciato, per la sua dedizione ed il suo mes- saggio di impegno umano. L’Associazione nazionale ringrazia e serba un ricordo costante. Prima di passare la parola alle Autorità desidero fare una breve presentazione del- l’evento. Quest’anno la struttura del seminario è organizzata in due tempi: • i primi due giorni sono dedicati ai contenuti del tema: relazioni e tavole roton- de, gruppi di lavoro; • la seconda parte è svolta dall’Associazione Forma ed è prevalentemente di tipo politico. L’intervento delle personalità sarà preceduto dalla sintesi dei lavori di gruppo e dalla presentazione di alcune ricerche curate di recente, i cui dati potranno essere presi in considerazione nei diversi interventi. Auguro a tutti un lavoro proficuo e delle giornate serene! ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 12 Mariella Lo Turco Presidente Regionale CIOFS-FP Sicilia Con gioia in rappresentanza del CIOFS-FP Sicilia porgo, a tutti i partecipanti al XIX Seminario di Formazione Europea, il nostro saluto di accoglienza e di benve- nuto nella calda e infuocata isola Sicula. Il sole che illumina e riscalda possa riflettere su ciascuno di noi quella luce neces- saria per rileggere l’esperienza metodologica acquisita e confrontarla con gli attua- li costrutti teorico-pratici che sollecitano a proseguire il cammino della ricerca, dell’approfondimento e del confronto attivo per promuovere la Cittadinanza Attiva tanto auspicata dalla Comunità Europea. Il fuoco della nostra Etna faccia bruciare la politica d’intervento di passione edu- cativa e di coerenti azioni formative rispondenti alla formazione di “buoni cristia- ni e onesti cittadini” e alla promozione di una politica attiva del lavoro che valo- rizzi le ricchezze delle diversità personali e culturali. Don Bosco e Madre Mazzarello, che hanno scommesso sullo sviluppo delle compe- tenze personali e professionali e hanno implementato un sistema metodologico for- mativo fondato sui processi attivi di apprendimento, ci accompagnino e sostenga- no la nostra determinazione educativa. Loro, nostri maestri e compagni di viaggio, ci aiutino a: • lottare e scommettere sull’umanizzazione della cultura e delle professionalità, • concretizzare proposte metodologiche e percorsi attivi di ridefinizione delle com- petenze professionali da spendere nell’attuale contesto socio-culturale, • trovare audaci vie di dialogo con le istituzioni pubbliche e private per “pensare una formazione professionale” che risponda alle esigenze di sviluppo della nostra isola e alla promozione della persona nella sua totalità. È questo l’augurio che voglio porgere personalmente a ciascuno di voi. I lavori, che stanno per avviarsi, siano fecondi e, per utilizzare un linguaggio evangelico, “por- tino frutti in abbondanza”. Vorrei, ancora, spendere una parola e ricordare sr Elda che - dopo aver lavorato tanto nella Formazione Professionale soprattutto nel territorio messinese - due giorni fa ci ha lasciate per vivere nella dimensione di Dio e guardare dal cielo l’o- pera per cui ha dato la vita fin l’ultimo respiro. Lei donna audace, coraggiosa, intraprendente, attenta ai bisogni degli ultimi, abiti questi nostri giorni e chieda al Buon Dio di benedirci nel lavoro di riflessione-con- fronto-studio, che siamo chiamati ad intraprendere. 13 APERTURA DEL SEMINARIO Riporto il saluto di Fabio Fatuzzo, Assessore al Turismo del Comune di Catania: “desidero far giungere il mio più sincero augurio per il pieno successo del Seminario, unitamente alla mia stima per il lavoro portato avanti dal CIOFS-FP in Sicilia”. Un saluto e un grazie va tutti. Buon lavoro. La Madonna ci accompagni e ci prenda per mano nelle attuali e faticose scalate formative. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 14 Giuseppina Barbanti Ispettrice FMA Sicilia Sono molto contenta di essere qui con voi. In questo momento rappresento tutte le Ispettrici d’Italia, che, con tanta attenzione, stanno seguendo i lavori di questo seminario e considerano la formazione professionale una delle opere più carisma- tiche e valide della nostra congregazione. Sento di dire un grazie sincero per l’impegno, la competenza e la qualità con cui il nostro CIOFS-FP promuove la crescita dei giovani in Italia. Aggiungo la mia soddisfazione per aver scelto la Sicilia come sede per questo semi- nario, una regione bella ma anche complessa e di difficile conduzione, soprattutto per quanto riguarda la formazione professionale. Questo seminario vuole dare anche un contributo al dibattito in corso, nei nostri assessorati regionali, per portare a sistema l’obbligo all’istruzione, di cui la Sicilia ha proprio bisogno. Mi auguro che si possa percorrere veramente questo cammi- no, per il bene dei nostri ragazzi. La formazione professionale ha l’impegno di promuovere la crescita della perso- na, di disporre degli strumenti necessari per costruire, gestire e far evolvere il pro- prio progetto personale. Porgo un saluto alle autorità che sono qui presenti per essere intervenute ed un grazie anche per la collaborazione e l’aiuto per promuovere la qualità nei diversi percorsi formativi. Quest’anno il tema del convegno ci porta a riflettere sulle competenze del cittadi- no europeo, in linea con le richieste del Parlamento Europeo e del Consiglio che ci sollecitano a prendere sempre più coscienza della internazionalizzazione delle eco- nomie, e come ciò porta a rapidissimi cambiamenti e impegna tutti a studiare le priorità, ad aggiornarci nelle competenze, per renderci capaci di gestire in modo costruttivo il cambiamento. Tutto questo, a mio avviso, richiede uno sforzo, un punto di riferimento a livello europeo che offra la possibilità di assumere le competenze chiave, indicate dal Consiglio, come stimoli all’apprendimento permanente, per costruire un quadro d’azione coerente sia a livello comunitario che nazionale nel campo dell’istruzione e della formazione. Le decisioni del Parlamento Europeo sul tema, in particolare quelle del dicembre 2006, in cui è messa in risalto proprio la necessità di rendere i cittadini consapevoli della loro cittadinanza attiva in Europa, dei vantaggi che essa presenta, dei diritti e dei doveri, ci spinge a promuovere un’identità forte a livello europeo che migliori la tolleranza, la comprensione reciproca tra i cittadini 15 APERTURA DEL SEMINARIO e promuova l’integrazione continua nella diversità delle culture. La linea del Parlamento Europeo si pone in sintonia con il carisma di don Bosco e di Madre Mazzarello, figure educative che hanno fatto crescere i ragazzi proprio attraverso la formazione professionale e si sono impegnati a difendere e promuo- vere la vita, a considerare il lavoro come irrinunciabile per la crescita integrale della persona; a creare quel clima di famiglia fatto di cordialità, di attenzione costante e rispettosa dei giovani. Oggi i nostri Centri di Formazione Professionale hanno proprio questa connota- zione, danno molta importanza alla persona attraverso l’accoglienza, l’attività for- mativa, la ricerca costante di risposte adeguate ai bisogni di ognuno. Inoltre la for- mazione professionale è il luogo dove il ragazzo apprende gli elementi essenziali dei diritti e dei doveri e si sperimenta come cittadino partecipe. Credo che queste considerazioni ci aiutino a comprendere sempre più l’importan- za dell’impegno professionale, della qualità di gestione dei progetti per promuo- vere la formazione integrale dei giovani e comprendere le specifiche connotazioni europee che diventano un valore aggiunto a quello che è già il nostro impegno di formazione per una cittadinanza attiva. È importante sviluppare quelle competenze che aiutano a valutare i contesti socia- li, culturali, politici e religiosi dove si opera, ad essere presenti là dove si prendo- no le decisioni per la realtà giovanile e a dedicare tempo e risorse materiali e spi- rituali per il bene dei giovani. Ringrazio ancora per questo seminario, vi auguro che porti veramente una svolta in positivo nella realtà siciliana, affinché, come in altre regioni d’Italia, i giovani possano trovare la giusta collocazione e raggiungere il desiderio di imparare e pro- muovere la professionalità. Buon lavoro e auguri a tutti. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 16 Santi Formica Assessore del Lavoro, della Previdenza Sociale, della Formazione Professionale e dell’Emigrazione - Regione Siciliana Il tema della formazione ha acquistato anche nella nostra Regione una nuova rile- vanza strategica in conseguenza del consolidamento di orientamenti normativi e prassi contrattuali che interconnettono formazione ed occupazione, ed ampliano le risorse finanziarie disponibili. Le imprese sono impegnate in processi di cambiamento sotto la spinta della glo- balizzazione dei mercati e delle innovazioni di processo che determinano bisogni nuovi di qualificazione e formazione delle persone. La rinnovata attenzione alla dimensione locale dello sviluppo, l’introduzione dei patti territoriali e l’impianto del disegno complessivo di riforma del sistema scola- stico e formativo, creano le condizioni per una più forte azione di sostegno non sol- tanto dei processi di innovazione ma anche della lotta contro l’esclusione di larghe fasce della popolazione dalle conoscenze e dai saperi. Sicuramente il sistema formativo siciliano ha la necessità di un supplemento di coerenza soprattutto in riferimento alle sperimentazioni, che negli ultimi anni a livello nazionale sono state portate avanti con risultati importanti sia per quanto attiene alla certificazione delle competenze sia per quanto attiene ad una più gene- rale opera di ridefinizione e, se può passare il termine, standardizzando le fami- glie professionali e le qualifiche a cui i corsi sperimentali per l‘assolvimento del- l’obbligo formativo hanno dato vita. L’esperienza del mondo salesiano e la stessa prassi operativa è stata tra l’altro una preziosa guida nella definizione del nuovo dispositivo amministrativo attuativo dell’accordo tra lo Stato e la Regione Siciliana per la realizzazione di una offerta formativa che consenta una scelta libera e responsabile da parte delle famiglie in merito ai luoghi e alle forme in cui fare assolvere ai propri figli il cosiddetto Obbligo di Istruzione. Le cause del mancato sviluppo della Sicilia sono da ricercare nei seguenti fattori: • eccessiva polverizzazione delle imprese; • modello organizzativo poco orientato al mercato e con scarsa propensione all’in- novazione tecnologica ed organizzativa; • basso tasso nel livello di dotazione infrastrutturale; • bassa capacità di penetrazione nei mercati esteri; • atteggiamento passivo delle istituzioni locali; • mancanza assoluta di politiche di rete. 17 APERTURA DEL SEMINARIO Il livello di scolarizzazione risulta ancora basso rispetto ai valori nazionali. A fron- te di un tasso nazionale di scolarità per gli istituti superiori dell’80%, il dato regio- nale si attesta al 72%, distante di 3,5 punti percentuali dal corrispondente valore del Mezzogiorno. Così pure il tasso di passaggio dalla scuola media alle superiori risulta più basso rispetto ai valori nazionali e del Mezzogiorno. In questo contesto, si registra pure un notevole ritardo dovuto al forte tasso di dispersione scolastica, che in una graduatoria nazionale per provincia vede quelle della Sicilia agli ultimi posti. A tal proposito, è ormai dimostrata una stretta cor- relazione tra alti tassi di dispersione scolastica e fenomeni di criminalità minorile, in particolare nelle aree urbane. Il sistema della formazione professionale appare appesantito da un gran numero di interventi e scarsamente collegato con il sistema scolastico da un lato e con il mondo produttivo dall’altro. Al tempo stesso, l’organizzazione attuale, basata su finanziamenti di enti esterni all’Amministrazione regionale e priva di un sistema di monitoraggio, con una struttura rigida e un numero di formatori molto eleva- to, rende poco flessibile la programmazione degli interventi, mantiene alti i costi di gestione, non produce occupabilità. Gli enti di formazione professionale, però, costituiscono un’opportunità da utiliz- zare nell’ottica di una riforma del sistema. Altro elemento da tenere in considerazione sono le difficoltà strutturali della Pubblica Amministrazione ad interagire positivamente con i processi reali di svi- luppo e il deficit di risorse professionali e di competenze strategiche in grado di supportare le istituzioni e le imprese nei processi innovativi. Insieme alla significativa presenza di sottoccupazione e di lavoro sommerso, assu- me rilievo il problema del precariato giovanile legato alla Pubblica Amministrazione non solo per le risorse finanziarie assorbite, ma soprattutto per gli effetti distorsivi prodotti sul mercato del lavoro e per le gravi conseguenze che ne derivano dal punto di vista culturale e sociale. Nel tentativo di superare alcune inefficienze del settore pubblico e introdurre, nel contempo, innovazioni nel settore dei servizi alla persona, si sono sviluppate negli ultimi anni significative esperienze di imprenditoria sociale nell’ambito di alcuni settori (servizi a domicilio, custodia dei bambini, aiuto ai giovani in difficoltà ai fini del loro reinserimento sociale), producendo positivi effetti a livello occupazio- nale, anche se per piccoli numeri. Più in generale si nota un crescente interesse verso forme di vera e propria “eco- nomia sociale”, di attività cioè non legate né all’intervento pubblico né al libero mercato, che vedono il pieno coinvolgimento del terzo settore. Va segnalata l’inte- ressante progettualità nell’ambito di programmi di iniziativa comunitaria nel campo dell’occupazione e della valorizzazione delle risorse umane. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 18 Il sistema economico siciliano è caratterizzato dalla presenza di un tessuto di PMI che si trovano sempre più ad operare in un mercato globale, nel quale la cono- scenza delle informazioni di varia natura costituisce elemento essenziale per la cre- scita e la redditività, ma vi è una carenza di centri di trasferimento tecnologico alle PMI e manca quel necessario collegamento tra idee imprenditoriali e ricerca; uni- versità, enti e strutture difficilmente operano per produrre e trasferire tecnologie in stretta collaborazione con gli utenti adeguandosi alle loro esigenze. Inoltre, fra i nodi del sistema scientifico e tecnologico sul territorio siciliano, si individua una insufficiente dotazione del sistema infrastrutturale e una carenza di infrastrutture di comunicazione telematica per il trasferimento di tecnologie e di capacità di innovazione delle PMI isolane. Le imprese siciliane, se innovano, tendono a privilegiare innovazioni incrementa- li. Inoltre, l’innovazione si acquisisce molto di più (81,8%) attraverso l’acquisi- zione di beni capitali che mediante la spesa per ricerca e sviluppo (18,2%). È opportuno al contempo segnalare alcuni elementi innovativi che mostrano una possibile inversione di tendenza. In particolare si evidenziano: • la vitalità di una nuova soggettualità sociale capace anche di progettare e gesti- re interventi contro il degrado e l’esclusione sociale; • la crescita della scolarizzazione delle donne; • la diffusione di esperienze significative di educazione alla legalità nelle scuole; • un nuovo protagonismo delle istituzioni locali nel campo delle politiche sociali. A queste si vanno affiancando nuove forme di esclusione, soprattutto nell’area delle nuove generazioni (infanzia e giovani) e nell’ambito delle famiglie. Le carat- teristiche del nuovo disagio sono di natura e di origine sia socioculturale che eco- nomica (disoccupazione e povertà) e investono tutto il territorio nazionale, ma sempre di più il meridione. Ad aumentare disagio ed esclusione contribuiscono anche trasformazioni socioculturali, per cui il proprio territorio (il quartiere, il comune) non è più un punto di riferimento e di socializzazione per le persone. Le relazioni interpersonali, gli spazi fisici d’incontro, il sistema di reti di convivenza comune e collettiva, oltre che familiare, di sostegno reciproco sia di ordine pratico che affettivo, di accoglienza e di solidarietà si sono andate frantumando. Flessibilizzazione e precarietà delle forme di lavoro, espulsione dal mercato del lavoro, insorgenza sempre più massiccia di forme di lavoro sommerso e nero, sostanziali iniquità degli ammortizzatori sociali (in grado di sostenere a macchia di leopardo solo alcune categorie più forti), disgregazione di nuclei familiari e del tessuto di sostegno solidale nei territori, sono tutti elementi che acuiscono anche il problema delle pari opportunità. 19 APERTURA DEL SEMINARIO La cifra e il senso di una nuova policy Una nuova policy deve avere come obiettivo il miglioramento delle strutture, del- l’offerta e dei servizi dei sistemi territoriali della formazione professionale, del lavoro, del terzo settore e sociale tramite la realizzazione di nuovi dispositivi di intervento flessibili, finalizzati, vincolati ai bisogni, integrati con misure di politi- ca attiva dell’occupazione ed orientati ai processi di sviluppo del territorio e delle risorse umane. I risultati attesi possono essere indicati nei seguenti termini: • un catalogo, definito e sperimentato, di dispositivi di intervento e di risorse di formazione, di orientamento e di accompagnamento che possono contribuire a innovare aspetti sostanziali dell’offerta di servizi della formazione professio- nale; • una metodologia di valutazione della qualità della nuova offerta di servizi della formazione professionale basata sulla definizione di standard di qualità delle strutture, dei processi e dei prodotti; • una rete territoriale di servizi formativi intesa come laboratorio permanente di mantenimento e di diffusione dell’innovazione. Vengono così delineate tre complementari linee di lavoro. 1. La concezione, l’organizzazione e la sperimentazione di nuove offerte della formazione professionale (servizi, processi e prodotti) in relazione, in particolare, all’integrazione dell’offerta formativa con le politiche del- l’occupazione e al riorientamento delle azioni formative a filoni proget- tuali strategici. La concezione e la sperimentazione di nuove offerte della formazione proposte nel progetto si riferisce in particolare a due linee di intervento considerate prioritarie: • lo specifico sostegno formativo alle politiche attive dell’occupazione e l’applica- zione di dispositivi formativi come strumenti di politica attiva dell’occupazione; • la formazione come veicolo di generazione di attività e servizi, nonché di orien- tamento ai processi di sviluppo socio-economico e delle risorse umane. In merito all’integrazione con le politiche dell’occupazione si propone lo svilup- po delle misure richieste dalla SEO e dalle nuove linee direttive del P.O.R. Sicilia FSE 2007-2013. Per queste esigenze proprie delle politiche dell’occupazione si dovrà elaborare e sperimentare, anche ispirandosi a criteri di rafforzamento effettivo delle pari opportunità per i soggetti deboli e di valorizzazione della differenza di genere, ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 20 nuovi dispositivi formativi da coniugare con le misure attive di politica dell’oc- cupazione: • percorsi di orientamento e di accompagnamento al lavoro di giovani e disoccu- pati di lunga durata integrati con servizi - definiti d’intesa con le imprese di inse- rimento - di counseling professionale, di sostegno socio-pedagogico, di guidance e di tutorship nelle fasi di inserimento lavorativo; • metodologie di bilancio, valutazione, certificazione e valorizzazione delle com- petenze e di accompagnamento delle carriere professionali dei soggetti esposti a rischio di disoccupazione di lunga durata; • percorsi di orientamento, counseling, formazione e di supporto al self-employ- ment, al lavoro autonomo e alla creazione d’impresa; • sviluppo di servizi, metodologie e strumenti di supporto formativo alle diverse forme di formazione iniziale in azienda (apprendistato, contratti di formazione- lavoro, tirocini formativi, borse lavoro, etc); • sviluppo di modelli di orientamento, alternanza formazione lavoro, riqualifica- zione e aggiornamento professionale nell’ottica della formazione lungo tutto il corso della vita, specificamente orientati a soggetti esposti a rischio di disoccu- pazione di lunga durata. Il riorientamento delle azioni formative dalle qualificazioni a filoni progettuali strategici e lo sviluppo della progettualità formativa si propongono di: identificare e definire filoni progettuali strategici dell’innovazione della società europea e i loro caratteri essenziali distintivi; elaborare modelli progettuali, dispositivi operativi e specifiche caratteristiche di qualità; progettare nuovi servizi di supporto per filoni progettuali dell’innovazione della società europea quali:� sviluppo locale e valorizzazione di risorse territoriali;� creazione di lavoro, generazione di attività e promozione di impresa;� servizi per il lavoro (orientamento, inserimento, accompagnamento);� servizi per i sistemi educativi;� esclusione ed inclusione sociale;� società dell’informazione. Si tratta di processi strategici che: • coinvolgono soggetti diversi in reti territoriali e, quindi, chiedono alla formazio- ne di interagire con saperi, competenze e modalità operative diverse; • hanno bisogno di trovare nella formazione una risorsa di intelligenza strategica che garantisca progettualità complessiva ai processi e non solo qualificazione delle risorse umane coinvolte; 21 APERTURA DEL SEMINARIO • coniugano radicamento territoriale e partecipazione a processi di globalizzazio- ne e, quindi, richiedono competenze innovative nelle organizzazioni e nei sog- getti coinvolti. 2. La determinazione di protocolli sperimentati per le nuove offerte e dei conseguenti riferimenti e standard di qualità delle strutture, dei servizi, dei processi e dei prodotti formativi. L’innovazione dell’offerta della formazione professionale sopra prospettata com- porta un miglioramento qualitativo complessivo del territorio coinvolto e l’acqui- sizione di nuove competenze da parte degli operatori. Si tratta, in sostanza, di combinare l’approccio dell’innovazione con quello della qualità, perché la produzione di nuova offerta sia accompagnata dall’acquisizione di nuove competenze da parte degli operatori. 3. Definizione e realizzazione dei punti chiave della formazione e della consulenza intese come risorsa/intelligenza strategica dei processi di sviluppo in particolare del terzo settore. Per questo, nel lavorare alle politiche dell’occupazione e ai processi di sviluppo locale, il progetto si propone di innovare gli ambiti di intervento a partire dai seguenti punti di riferimento: • centralità all’orientamento al beneficiario, • qualità delle competenze, • governo della qualità del processo di formazione, • molteplicità degli attori della formazione, • erogazione/acquisizione delle competenze come risultato di una coproduzione, • adozione di un approccio di prevenzione, • attivazione di un dispositivo di misurazione. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 22 PARTE I 2. LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA 2.1 - Quadro di riferimento e contesto del seminario Lauretta Valente Presidente Nazionale CIOFS-FP L’iniziativa di dare vita ad un seminario annuale di riflessione e di formazione europea, che coinvolga le persone che operano nella formazione professionale, giunta quest’anno alla XIX edizione, ha come obiettivo l’approfondimento e lo studio dell’Europa dei cittadini nel contesto della formazione. È pur vero che la preoccupazione dell’Ue è significativamente la competizione economica, ma forse è utile, anche dal punto di vista della formazione del citta- dino, lavorare nella direzione di comprendere che la competizione economica passa, per l’Antico Continente, attraverso la propria storia, l’evoluzione della propria identità culturale, della antropologia elaborata, della ricerca scientifica, della storia del lavoro e della stessa interpretazione e valorizzazione dell’intero patrimonio di risorse di cui il continente dispone. La motivazione specifica che ha spinto alla scelta del tema è dovuta all’attualità con cui gli obiettivi di cittadinanza sono tenuti presenti nei programmi dell’Ue 2007 – 2013. Le relazioni, le tavole rotonde e i lavori di gruppo offriranno pos- sibilità di approfondimento. La formazione professionale non poteva trascurare questo impegno, in partico- lare nel contesto di una iniziativa quale quella del seminario di formazione euro- pea. Occorre comprenderne il significato, organizzare i contenuti, studiare opportune metodologie nel contesto specifico della formazione professionale. Le otto competenze, di cui parla il documento dell’Ue, che costituisce il punto di riferimento per i lavori, dovranno essere consegnate ai destinatari finali, costruite, fondate. Riteniamo che la formazione professionale abbia già profuso impegno e prodot- to un buon lavoro di metodo riguardo al tema. La formazione, l’educazione, l’istruzione sono toccate profondamente da questo aspetto del dibattito europeo. In particolare la formazione professionale che è chiamata a costruire un ponte tra il lavoro l’economia, la formazione delle per- sone. Lo indica l’Ue, lo indicano le linee delle Istituzioni dei Paesi membri per l’im- pegno attuativo, lo impone la verifica degli obiettivi di Lisbona. E, non da ulti- mo, è richiesto dalla raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio 27 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA del 18 dicembre 2006 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento per- manente (2006/62/CE). La formazione professionale, quale che sia il livello formativo di impegno non può trascurare in nessun caso la riflessione e la sperimentazione applicativa della raccomandazione. Occorre comprenderne il significato studiare le metodologie adeguate. Anche in questa occasione desidero sottoporre alla considerazione di tutti noi la linea fondativa di scelta metodologica operata dalla formazione professionale nel suo sistema di offerta formativa ed in parte già sperimentata. Per rispondere alla domanda dell’utenza ed agli impegni caldeggiati dalla Ue, la formazione professionale si è impegnata a strutturare un impianto metodologi- co a favore di un sistema di competenze. Questo vuol dire aver trasposto l’accento dall’egemonia delle discipline ad un approccio di riferimento operativo, reale, non soltanto didattico, motivante l’in- teresse di una significativa percentuale della domanda, che non riesce a trovare applicabilità e impegno in una ratio prevalentemente teorica e deduttiva. Non vuol dire non tener conto delle discipline che costituiscono ancora il fondamen- to del sapere. In questa scelta di analisi epistemologica del metodo le discipline hanno due compiti: sorreggere la costruzione delle competenze, contribuire alla costruzione della sistematicità e della organicità dei saperi sia in rapporto alle competenze stesse che in rapporto alla costruzione del patrimonio della persona, che di per sé costituisce competenza. Ciò comporta il buon utilizzo della lingua e delle conoscenze e applicazioni della matematica, ed altri aspetti indispensa- bili dei saperi. Vuol dire però arrivarci attraverso una scelta epistemologca e metodologica diversa. Vuole anche dire che l’assolvimento della domanda formativa ha bisogno della diversificazione dell’offerta, di una ratio più legata alla indagine deduttiva con più ampie possibilità di utilizzo di metodi sperimentali, che aggancia le discipli- ne a compiti applicativi. Una ratio centrata su competenze operative che costruisce la conquista dei saperi attraverso l’applicazione concreta dei saperi stessi e l’esercizio delle competenze reali. Quanto detto richiederebbe, come la sperimentazione nel contesto della formazione professionale sta avviando, un impianto organizzativo rinnovato, con una distribuzione delle discipline siste- mate in nuclei correlati agganciati a risultati-prodotti e con una diversa costru- zione degli orari in contesti laboratoriali funzionanti e finalizzati. Non si tratta di abolire i licei, ma di offrire un’altra possibilità di scelta più congeniale e moti- vante ad una significativa percentuale della domanda. La sfida è quella di ipotizzare un sostrato alla costruzione delle otto competen- ze chiave utilizzando le competenze stesse come base dove competenza è intesa ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 28 come sintesi di sapere e fare, come saper fare con quello che si sa. Occorre un lavoro alacre di ricerca pedagogica. Occorre dunque un appello alle università sensibili e competenti che sappiano lavorare e sperimentare con gli operatori, alle istituzioni. A noi il compito di scalfire la curiosità delle menti ed il problema. 29 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA 2.2 - Le competenze del cittadino europeo nell’ambito dell’apprendimento permanente Anna D’Arcangelo Dirigente Area Politiche ed Offerte per la Formazione Iniziale e Permanente - ISFOL 1. Apprendimento permanente: uno strumento per coniugare equità sociale e sviluppo economico Il presupposto che nell’attuale e futura configurazione della società della cono- scenza le persone possano e debbano usufruire di opportunità formative lungo il corso della loro vita non è una novità in sé. Già da alcuni anni infatti - almeno sul piano del dibattito culturale di livello europeo ed internazionale - si è radi- cata l’idea che il processo di apprendimento accompagni le persone senza solu- zione di continuità nei vari passaggi e momenti della vita. Si è diffusa ormai la consapevolezza del senso di circolarità più che di sequenzialità degli apprendi- menti, sia che essi maturino nelle sedi a ciò prioritariamente dedicate - scuola e formazione professionale, università - sia che questi avvengano nei luoghi di lavoro o nella vita quotidiana. Se la strada dello sviluppo e dell’occupazione passa necessariamente per l’inno- vazione e la ricerca scientifica e tecnologica, se le sfide della competitività si vin- cono puntando sulla qualità dei prodotti, ne consegue che il valore sociale ed economico delle conoscenze e competenze possedute dalla popolazione riveste una importanza determinante. Emerge quindi il concetto di lifelong learning ed assume un posto di rilievo nella strategia europea per lo sviluppo economico e sociale: apprendimento permanente, ricerca e sviluppo devono saldarsi ed inte- grarsi tra loro nell’ambito di un sistema socio-economico che sia competitivo e, al contempo, sia in grado di salvaguardare la peculiarità dei modelli di welfare europei. Oggi è in atto uno sforzo orientato verso tale direzione e la formazione delle per- sone lungo il corso della vita è ormai identificata come un elemento cruciale per creare, a livello europeo, un sistema economico e produttivo avanzato e, al tempo stesso, per favorire l’equità sociale. Il potenziamento delle strategie di apprendimento permanente è inoltre fon- damentale anche in relazione al tema dell’invecchiamento attivo della popola- zione. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 30 Gli attuali trend demografici evidenziano un consistente allungamento della vita media associato ad un forte calo della natalità; ciò porta con sé un fenomeno di complessivo invecchiamento della popolazione che implica un significativo cam- biamento nelle aspettative e nelle esigenze di vita in età avanzata. In stretta connessione con tale fenomeno si pone anche il progressivo invec- chiamento della forza di lavoro, cui si associa una scarsa partecipazione a qual- siasi genere di attività formativa, con un evidente rischio di esclusione dalle dinamiche del mercato del lavoro ed evidenti ripercussioni sulla sostenibilità dei sistemi di welfare. A tale proposito, la Commissione europea ha stimato che, se non si riuscisse ad intervenire in modo efficace per un prolungamento della vita attiva e lavorativa, nel 2050 il rapporto tra pensionati e persone in età da lavoro passerebbe dall’attuale 24% addirittura al 50%. A tale riguardo va con- siderato inoltre che la permanenza nel mercato del lavoro è maggiormente garantita dal possesso di competenze aggiornate, non esclusivamente riferibili all’area tecnico-professionale in senso stretto. L’evidenza empirica richiama attenzione proprio sui livelli di qualificazione degli adulti: nel 2006 solo il 51% della popolazione italiana tra i 25 ed i 64 anni era in possesso di un titolo di scuola secondaria superiore, facendo registrare un forte divario con il dato medio europeo al 70%. Appare dunque con chiarezza il nesso tra competitività, sviluppo e occupazione, come risulta altresì evidente la correlazione tra il conseguimento di questi obiet- tivi, il grado di istruzione e qualificazione della popolazione e la propensione dei singoli e del mondo produttivo ad investire in formazione. Una recente indagine ISFOL conferma come le difficoltà d’accesso ad attività formative riguardino in modo marcato i livelli più bassi di inquadramento e le professionalità medio - basse, in particolare gli operai e gli artigiani, e sia più evidente fra i dipendenti dei settori privati. Ne consegue che la partecipazione alle attività di formazione continua sia direttamente proporzionale al titolo di studio posseduto dal lavora- tore: la media dei formati varia fra il 12,5% dei lavoratori con licenza elemen- tare, il 39,2% dei diplomati e il 60,6% dei laureati. Altri due fattori di divario nell’accesso alle attività di formazione sono rappre- sentati dall’appartenenza di genere e dalla distribuzione per età. Nel primo caso si rileva una evidente discriminazione di genere all’interno delle aziende priva- te e tra i lavoratori autonomi, dove la differenza a sfavore della forza lavoro femminile è in media di oltre cinque punti percentuali. Rispetto alla variabilità nella partecipazione ad attività formative in relazione all’età, si rileva una propensione delle imprese ad investire comunque sui livelli professionali elevati anche quando l’età è già avanzata, mentre non sembra esserci adeguato investimento in formazione per i meno qualificati, che in tal 31 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA modo risultano più esposti a rischi di obsolescenza professionale. Tema collegato ai precedenti e non di minor rilievo è quello dell’apprendimento per- manente come strumento di inclusione sociale finalizzato a rendere i soggetti attivi tanto professionalmente che nell’esercizio dei loro diritti di cittadinanza attiva. Il concetto di apprendimento permanente travalica quello di aggiornamento di competenze finalizzato al lavoro, si amplia e diversifica verso un’accezione più estesa, fino a comprendere rientri in formazione di giovani ed adulti non quali- ficati, azioni formative per il superamento delle carenze in campo tecnologico, miglioramento delle competenze informatiche e linguistiche, ma anche temi quali informazioni sulla salute, sull’ambiente, sulla integrazione sociale e sulla fruizione di beni culturali. Il quadro di riferimento si espande ed “apprendere sempre” diviene una que- stione di partecipazione democratica alla società civile, di benessere sociale e non solo una questione legata a valutazioni strettamente ed immediatamente economiche. Potenzialmente l’apprendimento lungo il corso di vita si rivolge ad un’ampia fascia di utenza rappresentata dalla popolazione adulta in generale; il suo campo di azione si riferisce alla cittadinanza attiva, ovvero al diritto al sape- re in funzione della partecipazione alla vita sociale della collettività, allo svilup- po dei saperi di base e funzionali, da realizzare attraverso modelli e modalità di intervento anche diversi dalla tradizionale offerta corsuale. I target di popolazione da coinvolgere vanno dai giovani che hanno superato l’età dell’obbligo formativo e sono privi di un titolo di studio o di una qualifica, alle donne motivate al rientro in formazione per lo sviluppo di un percorso pro- fessionale, ai cittadini che intendono acquisire abilità informatiche o aggiornare abilità linguistiche, agli immigrati per l’acquisizione di competenze nella lingua del Paese ospitante e l’inserimento sociale e lavorativo, all’aggiornamento di conoscenze e competenze degli over 45 con bassi livelli di istruzione e soggetti a forte rischio di espulsione lavorativa, senza dimenticare gli anziani, che possono fruire, grazie ad una maggiore libertà dai vincoli lavorativi e familiari, di aggior- namenti culturali utili a rafforzare il senso di partecipazione alla vita della col- lettività. Da non sottovalutare, infine, l’influenza positiva che un ampliamento delle conoscenze e competenze può indurre nelle formulazioni di atteggiamenti aperti alla integrazione sociale e culturale e, di conseguenza, come queste pos- sano giocare un ruolo determinante nella lotta contro tutti i tipi di integralismi. In sintesi, riassumendo la definizione contenuta nella Comunicazione della Commissione UE del 2006 “Educazione degli adulti: non è mai troppo tardi per apprendere”, l’apprendimento permanente riguarda tutte le forme di apprendi- mento intraprese dagli adulti dopo aver completato il ciclo iniziale di istruzione e formazione, è trasversale a tutti i momenti della vita e mira a conseguire obiet- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 32 tivi di autorealizzazione, cittadinanza attiva, inclusione sociale, occupabilità e adattabilità professionale e si realizza negli ambiti formale, non formale ed informale e quindi nei sistemi di istruzione e di formazione, del lavoro, dell’as- sociazionismo e delle infrastrutture culturali. 2. Le politiche comunitarie per l’apprendimento permanente Da tempo le politiche comunitarie si muovono nella direzione di supportare con un quadro di riferimento complessivo l’attuazione di strategie adeguate a sostene- re i necessari cambiamenti dei sistemi educativi e formativi. A partire dalle conclusioni del Consiglio di Lisbona, laddove si sosteneva la neces- sità di nuove competenze di base da acquisire nel corso dell’apprendimento per- manente per valorizzare al massimo il ruolo determinante della conoscenza nella società attuale, il concetto è stato reiterato da tutti i Consigli successivi e ripreso dalla rinnovata strategia di Lisbona del 2005. In particolare, i Consigli europei di Stoccolma (2001) e di Barcellona (2002) hanno sottoscritto gli obiettivi concreti da conseguire anche attraverso il Programma di lavoro “Istruzione e Formazione 2010” il cui andamento è costantemente monitorato dalla Commissione Ue. La Comunicazione della Commissione “Realizzare uno spazio europeo dell’ap- prendimento permanente” e la successiva Risoluzione del Consiglio sull’apprendi- mento permanente del 2002 richiamano la necessità di rendere attive misure per favorire il miglioramento delle competenze dei cittadini. I Consigli di Bruxelles del 2003 in materia di occupazione hanno messo in risalto il ruolo dello sviluppo delle competenze in relazione all’occupabilità e all’occupazione. Sempre nel 2003 il Consiglio ha adottato i livelli di riferimento europei o parame- tri con lo scopo di rendere misurabili, attraverso l’individuazione di indicatori, i progressi registrati mediamente in Europa. Essi comprendono la capacità di lettu- ra, la dispersione scolastica, il completamento dell’istruzione secondaria e la par- tecipazione degli adulti all’apprendimento permanente. È del 2004 la Relazione congiunta del Consiglio e della Commissione che indica l’opportunità di indivi- duare riferimenti e principi comuni europei per sostenere la riforma dei sistemi educativi e formativi e dà priorità al quadro comune sulle competenze chiave. Nasce così la Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio dell’Unione euro- pea del 2006 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente che, nel rispetto del principio di sussidiarietà, stabilisce un quadro di riferimento comune che ispiri e supporti le riforme dei sistemi degli Stati membri per svilup- pare competenze chiave per tutti. Secondo la Raccomandazione europea, le competenze chiave sono una combina- zione di conoscenze, abilità e atteggiamenti di cui tutti i cittadini hanno bisogno 33 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA per lo sviluppo personale e sociale e fa esplicito riferimento sia alla formazione ini- ziale, sia a quella rivolta agli adulti, con particolare riguardo ai target che presen- tano maggiori bisogni di adeguamento delle competenze chiave. Il quadro di riferimento individua otto competenze chiave: comunicazione nella madrelingua, competenza nelle lingue straniere, competenze nelle scienze e tecno- logia, competenza digitale, alle quali si aggiungono alcune metacompetenze quali imparare ad imparare, competenze sociali e civiche, spirito d’iniziativa e impren- ditoriali, consapevolezza ed espressione culturale. È proprio basandosi sui principi della Raccomandazione comunitaria che ha lavo- rato la Commissione di esperti relativa alle “Indicazioni sull’innalzamento del- l’obbligo di istruzione”, producendo una riflessione propedeutica alla definizione del Regolamento relativo ai contenuti del biennio secondario superiore, oggetto di sperimentazione dal prossimo anno scolastico. Strettamente connesso con il Quadro di riferimento delle competenze chiave e identificata come priorità per contribuire alla Strategia di Lisbona, la costruzione di un quadro europeo per le qualifiche (EQF) è stata confermata all’inizio del 2005 a Bruxelles come una delle linee di lavoro comune più cogenti e su questa base è stata avviata una consultazione tra gli Stati Membri. Nel settembre 2006 la proposta dell’EQF è stata poi approvata dalla Commissione ed è stato avviato il percorso che ha portato alla Raccomandazione del 2006. In base al quadro comu- ne europeo ogni Paese membro realizzerà il Quadro nazionale delle qualifiche. Nel nostro Paese è attivo un Tavolo di lavoro aperto con le rappresentanze istituzionali e le parti sociali per la definizione degli standard professionali e formativi minimi che rappresenta un passaggio importante verso il riconoscimento delle competen- ze e la loro certificazione a livello nazionale. 3. I problemi aperti per il sistema educativo e formativo italiano D’altro canto, di apprendimento permanente vi è sicuramente bisogno: il tasso di istruzione della popolazione italiana, nonostante i progressi registrati negli ultimi decenni e che riguardano la popolazione più giovane, nel suo insieme rimane defi- citario. La partecipazione alle attività formative incide ancora troppo poco sul- l’innalzamento dei livelli di qualificazione della popolazione adulta. A partire dal 2000, non si sono registrati i progressi attesi né a livello nazionale, né comunitario e, soprattutto, i maggiori tassi di incremento si sono avuti in quei Paesi in cui tradizionalmente la partecipazione era già elevata; inoltre, come noto, la propensione della popolazione 25-64enne a partecipare ad attività formative è direttamente proporzionale al livello di qualificazione posseduto, fatto che acuisce il forte rischio dell’esclusione sociale e lavorativa. I dati sulla partecipazione al ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 34 sistema educativo e formativo nel nostro Paese indicano la necessità di intervento in materia di lifelong learning. Basti pensare che ancora oggi il 4,5% dei quindi- cenni non possiede ancora la licenza media, solo sette giovani su dieci iscritti alla secondaria superiore si diplomano, novecentomila giovani 18-24enni affrontano il mondo del lavoro senza aver conseguito un diploma o una qualifica (se nel 2006 l’Italia fosse stata in linea con i parametri di Lisbona il loro numero non avrebbe dovuto superare le 450.000 unità). Situazione ancora più netta e preoccupante si registra sul fronte degli adulti; i dati relativi alle forze di lavoro indicano, infatti, la presenza di una consistente quota di popolazione attiva – in fasce centrali di età - in possesso al massimo del solo titolo di licenza media. Se all’analisi dei dati appena richiamati si aggiunge che l’accesso alla formazione lungo il corso di vita segue un andamento, consolidatosi nel tempo, direttamente proporzionale al livello di qualificazione posseduto, sia per la partecipazione alla formazione permanente che continua, si evincono orientamenti marcatamente evi- denti cui le politiche formative dovrebbero offrire un riscontro efficace, appron- tando alcune correzioni di fondo non solo alla programmazione degli interventi, ma anche alle politiche di sostegno e di accompagnamento per quelle fasce di utenza soggette a maggior rischio di esclusione sociale e professionale. Alla luce di quanto detto, dunque, potenziare l’entità e la qualità dell’offerta di formazione permanente destinata anche alla popolazione in età avanzata corri- sponderebbe a poter fornire a quest’ultima quegli strumenti culturali e professio- nali necessari ad operare scelte di più lunga ed attiva permanenza nel mercato del lavoro e, comunque, di efficace ed attivo esercizio dei diritti di cittadinanza e di benessere sociale. Nei Paesi in cui è stato maggiormente sviluppato il sistema di formazione perma- nente si registra una sostanziale convergenza, espressa da precise normative, in merito al fatto che l’apprendimento in età adulta sia un diritto della persona e come tale vada sostenuto in tutte le forme in cui le istituzioni e gli attori sociali concordano di agire. È evidente che per essere esercitato il diritto all’apprendimento permanente deve poggiare su una serie di elementi essenziali la cui combinazione organica costitui- sce per così dire il modello di riferimento delle politiche cui si ispirano gli atti ed i dispositivi. Non è difficile immaginare che all’obiettivo di ampliare l’accesso alla formazione deve corrispondere un modello di governance delle politiche pubbliche in cui le Amministrazioni assumano il ruolo di “regolazione” della qualità e della quantità di offerta e dell’incontro tra questa e la domanda, affidando al partena- riato degli attori del sistema un ruolo determinante ai fini della realizzazione delle misure d’innovazione ed implementazione. 35 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA In altri termini e con chiarezza occorre affermare che senza uno sviluppo delle politiche dell’orientamento per l’età adulta, senza effettivi dispositivi di riconosci- mento delle conoscenze e competenze maturate anche in contesti non formali e informali e la loro relativa certificazione, al di fuori di un quadro omogeneo di standard professionali, formativi e di qualità del sistema risulta quasi impossibile parlare di lifelong learning; come pure è impossibile pensare di realizzare politiche di formazione permanente senza il concorso dei partner sociali e di tutti i partner istituzionali coinvolti. Un lavoro di questo tipo rende necessaria la costruzione di un quadro nazionale delle qualifiche, in stretta relazione con l’European Qualification Framework (EQF) in grado di favorire la correlazione e la comuni- cazione tra diverse strutture e sistemi presenti nei Paesi europei per facilitare il riconoscimento e la trasferibilità di titoli e qualifiche rilasciate sia dai sistemi VET che dai sistemi di istruzione secondari e superiori. In coerenza con l’adozione di una logica di lifelong learning nella concezione delle politiche dell’istruzione e della formazione, l’orientamento acquisisce progressiva- mente il ruolo di un supporto attivo alle scelte individuali, non più solo per i gio- vani, ma lungo tutto il corso della vita. A questo proposito possiamo notare come nel nostro Paese, laddove sul versante dell’orientamento per i giovani le iniziative sono numerose e i soggetti che le svol- gono molteplici, l’orientamento per la popolazione adulta risulta, nei fatti, assai meno oggetto d’attenzione da parte sia delle politiche, sia delle agenzie di servizio. La certificazione delle competenze comunque e dovunque acquisite e della tra- sparenza, è strettamente connessa alla possibilità offerta ai soggetti di far valere i propri saperi e di meglio definire i propri percorsi di apprendimento lungo il corso della vita. Le riflessioni attuali pongono grande attenzione ad una logica di ampio respiro rispetto a questo tema, anche grazie ad un quadro di riferimento europeo che sug- gerisce la costruzione di un sistema di apprendimento permanente caratterizzato dalla visibilità dei percorsi, dal riconoscimento dei crediti formativi maturati nei diversi momenti della vita sociale e lavorativa. Questo processo di costruzione che procede molto lentamente nel nostro Paese rispetto agli altri Paesi europei, necessita di un più consistente lavoro congiunto tra le istituzioni e il mondo professionale attraverso un intervento organico di costruzione di un sistema di riferimento condiviso a livello nazionale e regionale, in un’ottica di integrazione dei sistemi formativi e del lavoro, al quale - come già accennato - si sta lavorando. In coerenza con l’adozione di una logica di lifelong learning nella concezione delle politiche dell’istruzione e della formazione, l’orientamento acquisisce progressiva- mente il ruolo di un supporto attivo alle scelte individuali. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 36 Poco battute sono le strade relative all’organizzazione di servizi che favoriscono la conoscenza e l’accesso alle opportunità formative da parte di tutte le fasce della popolazione, implementando le iniziative di orientamento, intese come interventi di supporto ai processi di transizione (dalla formazione al lavoro, dal lavoro alla for- mazione, da un lavoro all’altro, da un periodo di formazione all’altro ecc.), che pos- sono intervenire in momenti differenti della vita degli individui. In una recente inda- gine Isfol sulla domanda di formazione da parte della popolazione adulta, una delle motivazioni indicata come causa della mancata partecipazione ad attività di forma- zione è la “non conoscenza dell’offerta di formazione sul territorio”. In generale meno del 60% degli intervistati non è a conoscenza dei luoghi deputati alla forma- zione per gli adulti: di questi circa la metà dichiara che “non esistono luoghi nel Comune di appartenenza nei quali si organizzano attività di formazione”. In tale ambito, inoltre, risulta ancora trascurato l’importante segmento di domanda potenziale costituito dai lavoratori occupati e dagli adulti più anziani. Ed è proprio in questo senso che l’orientamento ‘permanente’ costituisce una delle chiavi di volta del successo degli interventi nel campo del lifelong learning laddove si pone come strumento di facilitazione dell’accesso alle informazioni relative all’offerta e al sup- porto all’auto-riconoscimento delle conoscenze e abilità pregresse. Va tuttavia ricor- dato, dal punto di vista della tipologia dei servizi da allestire, che ampliare il target degli interventi di orientamento ad un pubblico adulto non significa semplicemente adattare le strategie e le metodologie valide per i giovani ad una nuova fascia d’età, ma allestire una diversa tipologia di servizi. Infatti, sull’adulto e sulla sua capacità di esprimere bisogni di orientamento e di indirizzarsi a servizi e professionisti in grado di supportarlo nelle scelte e nelle transizioni, hanno maggiore influenza l’en- tità e la tipologia di esperienza di vita e di lavoro pregressa. 4. Quali prospettive per attuare l’apprendimento permanente Il sistema italiano di formazione permanente, in modo non molto difforme da altri sistemi europei, è caratterizzato da una partecipazione di numerosi attori istitu- zionali del sistema di istruzione e formazione e non istituzionale, il mondo delle università popolari, dell’età adulta e dell’associazionismo e del partenariato socia- le. Sul nostro territorio, dove si è sviluppata una storica attività legata alla tradi- zione dell’educazione degli adulti e alla lotta contro i vari tipi di analfabetismo, operano strutture con natura e finalità diverse. Le università, la scuola, la formazione professionale, i Centri territoriali perma- nenti, il mondo sindacale, gli enti di formazione, oltre che il mondo dei servizi cul- turali in senso lato, hanno interpretato e raccolto la molteplicità della domanda che spazia da richieste di alfabetizzazione primaria, a quelle di alfabetizzazione 37 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA funzionale, alla richiesta di professionalizzazione per l’occupabilità fino ai bisogni più propriamente collocabili nella sfera degli interessi personali di arricchimento culturale e artistico. Dalle analisi e ricognizioni effettuate per comporre una mappa delle offerte appare ormai chiaro che il sistema Paese già dispone, anche se in maniera non omogenea per distribuzione e per standard qualitativi, di strutture e soggetti che agiscono tradizio- nalmente nell’allestimento di offerte nel campo dell’apprendimento permanente. Non essendo però state create di fatto le condizioni per la definizione di un “siste- ma comunicante” delle offerte messe in campo dalla molteplicità di attori coinvolti e in assenza di una norma - cornice entro cui collocare tale ricchezza di proposte e di iniziative - si deve constatare che va accelerato l’avvio del processo di costru- zione di un sistema di apprendimento permanente ispirato ad un quadro di gover- nance condiviso tra istituzioni centrali e del territorio e rappresentanze dei parte- nariati sociali - e dei soggetti non istituzionali. Un quadro di riferimento che contempli le specificità e gli orientamenti dei diver- si attori e soggetti, ma che allo stesso tempo crei il presupposto per una regia sui territori della programmazione e della integrazione delle proposte, anche al fine di ottimizzare l’utilizzo delle risorse e delle strutture. Una sfida importante per il nostro sistema educativo e formativo, se assumiamo gli orientamenti comunitari come strategie qualificanti e significative per lo svi- luppo economico e l’inclusione sociale. Lo schema di disegno di legge “Norme in materia di apprendimento permanente” rappresenta un segnale positivo verso un adeguamento del sistema italiano ai nuovi quadri di riferimento europei. Citando il testo, articolo1, comma 1 “La pre- sente legge, in coerenza con le strategie dell’Unione europea, promuove l’appren- dimento permanente per la realizzazione della persona, la cittadinanza attiva, la coesione sociale, l’occupabilità e la mobilità professionale, rimuovendo gli ostaco- li che impediscono l’accesso alle attività finalizzate all’innalzamento dei livelli di istruzione e formazione e all’acquisizione di competenze professionali”. Il DdL richiama i principi del riconoscimento delle competenze maturate in ambi- to formale ed informale, del diritto alla certificazione, della collaborazione del mondo del lavoro alla realizzazione dell’aggiornamento delle competenze dei lavo- ratori, la definizione di un sistema di orientamento. L’appuntamento che l’Europa si è dato per autovalutarsi resta fissato per il 2010. Tuttavia, si fa largo la convinzione che la strategia europea debba proseguire ben oltre la sua scadenza, perché le evidenze empiriche mostrano ancora un lungo cammino da fare, sul piano delle Riforme, della qualità, del dialogo tra le istitu- zioni e con gli attori del sistema formativo, in tutta l’Europa. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 38 2.3 - I contenuti base per la costruzione delle competenze del cittadino europeo alla luce degli obiettivi di Lisbona Giuseppe Roma Direttore CENSIS Negli anni ‘90, il rafforzamento dell’Unione tra gli stati europei è sembrato sostan- ziarsi quasi esclusivamente di meccanicismi economico-finanziari con obiettivi quali: la moneta unica e la concorrenza, insieme alla libera circolazione delle per- sone. L’Europa di Delors nel 1993 insisteva soprattutto sulle variabili macroeco- nomiche allo scopo di intraprendere un percorso di crescita sostenuta e di mag- giore intensità occupazionale. La politica economica comunitaria si fondava su tre elementi principali connessi l’uno all’altro: 1. un quadro macroeconomico in grado di sostenere le forze di mercato e non di ostacolarle come è avvenuto in passato; 2. interventi di carattere strutturale volti ad accrescere la competitività verso l’e- sterno del sistema europeo e a permettere di sfruttare tutte le potenzialità del mercato interno; 3. una riforma strutturale del mercato del lavoro per rendere più semplice e meno oneroso il ricorso alla manodopera, aumentando così l’intensità occupazionale della crescita. Il Consiglio di Lisbona del 2000 segna un fondamentale passaggio di fase, in quanto integra, con pari dignità, politiche economiche e politiche sociali, indivi- duando nel capitale umano la risorsa più preziosa per i propri obiettivi di cresci- ta, risorsa da “umanizzare” e “totalizzare”. Non più solo macchina per produrre ma persona totale da porre al centro dello sviluppo. L’obiettivo della piena occupazione, quindi, non viene visto come fine a se stesso, ma nell’ambito di un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei cittadini. La necessaria flessibilità del mercato del lavoro, non può essere disgiunta dall’in- dividuazione di nuove forme di sicurezza (la cosiddetta flexicurity). La manutenzione dei saperi e delle competenze diviene dunque un imperativo det- tato da esigenze economiche e di competitività, ma anche un diritto del cittadino, cui deve essere garantita la continua “occupabilità” e la piena cittadinanza. 39 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA 40 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 Tutti i documenti comunitari relativi a politiche economiche, occupazionali, for- mative e di coesione sociale si sostanziano di un’attenzione particolare verso la persona, lavoratore e cittadino europeo. L’individuazione di “competenze chiave” ribadisce l’inscindibilità dell’individuo nelle sue componenti sociali, economiche, lavorative. D’altro canto, gli stessi documenti comunitari segnalano come si tratti di un per- corso arduo, anche a considerare la sola dimensione quantitativa, da raggiungere al traguardo del 2010: tasso d’occupazione al 70%, occupazione femminile al 60%. Obiettivi difficili da raggiungere per l’Europa nel suo insieme, e per l’Italia in par- ticolare, tanto che nel 2005 si è tentato il cosiddetto “rilancio” della strategia di Lisbona a fronte di una verifica intermedia che ha evidenziato ritardi e difficoltà. Se non si crea ricchezza è difficile investire in conoscenza La posizione relativa dell’Italia in Europa si è indebolita negli ultimi dieci anni. Fatto 100 il Pil pro-capite dell’Unione europea a 25, il nostro Paese è, infatti, passato da un valore 114,5 del 1997 al valore 100,0 del 2006 con una previsione di scendere sotto la media Ue nel 2008 a 97,5. Contestualmente la Spagna passa dall’87,4% del Pil pro-capite europeo al 98,2% del 2006 e al previsto 97,8% del 2008, quando cioè eguaglierà quello italiano. L’unico dei grandi Paesi europei ad aver registrato una crescita in questi anni è il Regno Unito passato da un Pil pro-capite superiore a quello medio europeo del 12,5% nel 1996 ad un volume superiore del 14,6% nel 2006. (Gruppo ad alto livello sulla strategia di Lisbona, novembre 2004) LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA 41 Gli indicatori considerati sono: Pil per occupato in PPS (Parità di Potere di Acquisto); Tasso di occupazione 15-64enni; Tasso di occupazione 55-64enni; Gross Expenditure in R&D GERD sul Pil; % di disoccupati di lunga durata sulle forze di lavoro; % di 20-24 enni che hanno almeno il diploma di scuola secondaria superiore. Si riduce l’investimento per l’istruzione… Anche la spesa pubblica per l’istruzione (calcolata sul Pil) ha subìto una contrazio- ne nell’ultimo decennio in Italia, passando dal 5,4% del 1993 al 4,59% del 2004. Il confronto rispetto alla media europea (a 25 paesi) è possibile dal 1997. Allora l’Italia investiva il 4,46% rispetto al 4,79% Ue, con una differenza di -0,33%; i dati più recenti mostrano un allargamento del divario a -0,53%. Tuttavia spendiamo quanto la Germania e più della Spagna, ma con risultati peg- giori. … ma i risultati sono peggiori di paesi che spendono quanto noi In termini di partecipazione ai processi formativi, in Italia il 55,1% dei giovani fra 15-24 anni è studente, come in Spagna, ma meno della Germania che spende quanto noi ma con un tasso di frequenza del 64,9%. 70,8 70,4 69,8 68,8 68,2 68 67,5 65,2 64,9 64,8 63,7 63,7 61,6 60,2 59,3 58,3 57,9 55,1 55 53,9 52,5 51,6 50,8 50,8 49,2 41,6 40,2 39,7 Fanalino di coda nella formazione permanente L’importanza di cimentarsi, innanzitutto, con il tema valoriale più che con la dimensione economicista è dimostrato anche dall’andamento del lifelong learning. Siamo in ultima posizione rispetto ai grandi paesi europei, ma con un leggero incremento nell’ultimo decennio. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 42 Eu (25 countries Italy Germany Spain France United Kingdom 95 96 97 98 99 00 02 03 04 05 0601 1 5 8 13 17 21 25 29 33 La consapevolezza della necessità di una formazione continua da parte dei lavo- ratori meno “equipaggiati” è scarsa. In sintesi dunque, le competenze chiave hanno in sé le tre dimensioni del modello europeo. 43 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA 44 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 Si tratta in realtà di una domanda potenziale che rimane sospesa sulla soglia del- l’intenzione e non trova la spinta necessaria per mutarsi da intenzione in azione. Nonostante l’accresciuto dibattito sul multilinguismo, l’aumentata mobilità degli italiani fuori dai confini nazionali, la globalizzazione dei mercati e la presenza di cittadini stranieri, pochi sono gli audaci che raccolgono la sfida, avventurandosi su percorsi formativi per lo sviluppo delle proprie competenze linguistiche. Il perché popolazione ed imprese, pur riconoscendo così grande rilevanza alle com- petenze linguistiche non facciano seguire altrettanti impegni formativi può essere Fonte: rilevazione MLPS_Ati Let-It-Fly, 2006 Conoscenza sufficiente 12,6% Nessuna conoscenza 33,8% Conoscenza scarsa 33,2% Buona conoscenza 20,4% Fonte: rilevazione MLPS_Ati Let-It-Fly, 2006 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA 45 spiegato con la difficoltà implicita nello studio delle lingue, che comporta un impiego di tempo e risorse che si protrae nel medio lungo periodo, non sempre facilmente coniugabile con i vincoli di una vita adulta. Ma sembra emergere anche una consa- pevolezza che aumenta con l’avanzare dell’età, per la quale delle lingue straniere si può fare a meno. Non servono alle relazioni sociali e non sembrano servire sul luogo di lavoro. Se l’ambiente circostante non induce o sollecita l’individuo adulto all’ap- prendimento linguistico, è giocoforza che questi preferisca investire in altri ambiti di sapere ritenuti prioritari o dove è più facile perseguire performancemigliori. Infatti la maggiore o minore inclinazione di un popolo al multiliguismo non è determinata solo da fattori soggettivi, ma è in qualche modo eterodiretta dall’ambiente socioeconomi- co in cui un individuo vive, lavora e si relaziona. Ne consegue che risiedere in ambiti territoriali o di lavoro dove le sollecitazioni all’uso sono scarse e l’esposizione alle lin- gue è bassa produce inerzia e disimpegno sul fronte linguistico. Fonte: rilevazione MLPS_Ati Let-It-Fly, 2006 Fonte: rilevazione MLPS_Ati Let-It-Fly, 2006 Dalle risposte fornite emerge che due sono le motivazioni prevalenti, risponden- ti ad approcci tra loro distinti, il primo di tipo funzionale, il secondo di tipo generalista. Il 50,6% degli enti afferma di erogare moduli linguistici solo tenendo conto della figura professionale che deve essere formata o aggiornata, per la quale le compe- tenze linguistiche dovranno essere funzionali alla situazione di lavoro a cui è desti- nata e allo svolgimento di attività e compiti ad essa collegati. Per un ulteriore 34,8%, invece, i moduli linguistici costituiscono un’area di conte- nuto ricorrente e trasversale a prescindere dagli obiettivi formativi o dal profilo professionale riconducibili ai singoli corsi. La prevalenza di un approccio strumentale rischia di avallare un ruolo di basso pro- filo della formazione professionale nel rafforzamento delle competenze linguistiche. Per valorizzare l’offerta formativa di matrice pubblica sono necessari: • la certificazione, secondo standard internazionali condivisi, delle competenze linguistiche in uscita. Ancora alta è la percentuale di corsi, soprattutto nell’of- ferta pubblica che non rilasciano alcun tipo di certificazione, limitandosi ad atte- stare la mera frequenza dei corsi. L’estensione di tale prassi oltre a costituire un beneficio per i soggetti in formazione in termini di competenze acquisite e spen- dibili sul mercato del lavoro, innesca processi di innalzamento della qualità del- l’offerta erogata sul mercato a fronte di performance formative standardizzate; • l’adozione di standard minimi in termini di dotazioni strutturali e requisiti del personale docente da parte delle strutture di offerta che erogano formazione lin- guistica finanziata con fondi pubblici. Un esempio per tutti: dalla rilevazione sulle strutture di offerta risultano essere una minoranza gli enti di formazione professionale che dispongono di laboratori linguistici; ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 46 Fonte: rilevazione MLPS_Ati Let-It-Fly, 2006 • un ricorso sempre più pervasivo al Clil (Content Language Integrated Learning), ovvero a metodologie didattiche basate sull’utilizzo di lingue straniere per l’in- segnamento di altre discipline, in quanto strumenti in grado sia di favorire l’e- sercizio funzionale delle competenze linguistiche acquisite, sia di permeare lin- guisticamente altri ambiti disciplinari, evitando un apprendimento autoreferen- ziale delle lingue straniere; • l’introduzione di forme di partecipazione finanziaria da parte degli utenti della formazione pubblica, al fine di responsabilizzare l’utenza, prevenendo alti tassi di abbandono e dissipazione di risorse. 47 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA Con l’espressione “organizzazione della conoscenza collaborativa” ci si riferisce al passaggio dalle ontologie alle folksonomie, in pratica prima era il responsabile del sito o del data base che organizzava notizie e informazione secondo logiche stan- dard, adesso sono gli utenti che aggiungendo parole chiave (tag) ai documenti che vedono li organizzano a proprio piacimento, in una logica non gerarchica. Il termine, usato per la prima volta da Marshall McLuan nel ’72, ripreso nel ’80 dal futurologo Toffler, è oggi della massima attualità ad indicare un nuovo ruolo per il consumatore che, non più passivo, diviene produttore. Nello scenario digita- le questo slittamento è particolarmente evidente: Blog, Wiki e Social software offrono contenuti e conoscenza interamente prodotti dagli utenti in una logica di condivisione, partecipazione e reciprocità. Nella slide, in senso orario: Cmap un software per la creazione e la condivisione di mappe mentali, youTube piattaforma in cui condividere filmati e creare la propria programmazione televisiva, Flickr sito per condivisione di immagini, LastFM radio in streaming basato sui gusti degli utenti che creano la propria radio personalizzata. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 48 Aumenta la richiesta di lavoratori ad alta qualificazione, ma diminuisce quella dei lavoratori qualificati ”Skilled manual”. Aumentano gli estremi: o lavori ad alta qualificazione, intelletuali, ecc. oppure lavo- ri elementari, per i quali non sono “ufficialmente” richiesti skills particolari. Un quadro preoccupante soprattutto per gli elementi di precarietà e rapida obsole- scenza di una parte sia pur piccola dei lavoratori. 49 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA I giovani italiani sovrastimano, rispetto ai colleghi europei, l’importanza di lingue e Ict ed in misura minore di skills legati all’imprenditorialità, mentre sottostimano le competenze relazionali e di teamwork. Ciò dipende dall’enfasi più o meno forte che si è data ai diversi aspetti, al di là delle effettive richieste del mondo del lavoro. Le tre I (inglese, informatica, impre- sa) di berlusconiana memoria sono ancora un principio valido ma non un auto- matico passpartout. Let it fly ha mostrato come la domanda linguistica degli italiani sia vaga ed oscil- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 50 Italia UE 25 40,1 39,8 22,6 24,9 27,9 26,4 9,5 9,8 Italia UE 25 Italia UE 25 Italia UE 25 Occupati non manuali professionalizzati Occupati non manuali a bassa professionalità Occupati manuali professionalizzati Occupati elementari DE 42,2% - FR 39,1% UK 42,0% - SP 31,1% DE 25,2% - FR 24,7% UK 30,5% - SP 25,1% DE 24,3% - FR 26,2% UK 17,0% - SP 28,7% DE 8,4% - FR 10,0% UK 10,6% - SP 15,1% lante, con cadute di interesse al primo ostacolo ed uno dei motivi è la scarsa possi- bilità di utilizzare le lingue sia nella vita sia nel lavoro. Appare fondamentale dunque il lavoro sulle competenze chiave anche per orientare meglio le giovani generazioni, avendo un riferimento omogeneo per tutta Europa ed una prospettiva insieme culturale e professionale. Quale domanda di competenze? In primo luogo, dobbiamo sottolineare che l’idea di Unione europea comprende, per i giovani europei, l’idea di mobilità. E in quest’ambito lo studio ed il lavoro sono tra le principali spinte alla mobilità. A questo proposito, esemplificativi sono alcuni risultati dell’ultima indagine Young europeans del febbraio 2007. 51 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA 2.4 - Piste di lavoro transnazionale ed interistituzionale per la pianificazione formativa delle competenze del cittadino europeo Michele Pellerey Prof. Università Pontificia Salesiana Per poter presentare qualche indicazione operativa circa la formazione delle com- petenze del cittadino europeo occorre in primo luogo mettere in luce alcune dimensioni fondamentali della cittadinanza in genere e di quella europea in parti- colare. Ciascuna di queste dimensioni deve poi essere esaminata alla luce di un insieme di categorie di lettura individuando le conseguenze che ne derivano per ciascun soggetto in formazione: il senso e la prospettiva esistenziale; i valori fon- damentali di riferimento; la percezione di competenza. 1. Il concetto di cittadinanza evoca quello di patria; per questo inizialmente si può richiamare la prospettiva di Erasmo da Rotterdam, per il quale la patria è in primo luogo il paese dove si è nati, poi la patria d’adozione, infine, e soprattut- to, il mondo cristiano, l’Europa, «la repubblica delle lettere» e l’umanità inte- ra, in attesa della patria celeste». È una concezione di cittadinanza, cioè di appartenenza ad una comunità civile, a cerchi concentrici ripresa poi da vari pedagogisti, tra cui Sergio Hessen. Sembra, tuttavia, che la prospettiva era- smiana di un’appartenenza culturale e fattuale a cerchi concentrici dal proprio villaggio, al proprio paese, al proprio continente, al mondo intero e anche al mondo ultraterreno, vada oggi coniugata con una visione di appartenenze plu- rime. Amartya Sen ha insistito, da questo punto di vista, sull’importanza di prendere in considerazione le nostre affiliazioni plurali anche nella prospettiva di convergenze o di conflittualità. Si tratta di appartenenze, egli afferma, che portano in qualche modo a «molteplici identità, ciascuna delle quali può dar luogo a vincoli morali e istanze che possono completare significativamente, o essere in seria contraddizione con altri vincoli morali e altre istanze emergenti da identità diverse». Nella prospettiva della mondializzazione ciò vuol dire anche aprirsi a mondi culturali diversi da quello tradizionale europeo, entran- do in dialogo profondo con essi. Erasmo segnalava un suo vissuto personale connesso con questa particolare problematica, affermando: «Vorrei essere citta- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 52 dino del mondo, compatriota di tutti o piuttosto straniero rispetto a tutti. Possa io infine diventare cittadino della città celeste». La molteplicità di appartenen- ze che sembra caratterizzare la condizione umana in una società pluralistica sul piano etico-morale e su quello della partecipazione sociale e culturale implica una capacità di governo di sé perché la vita personale possa svolgersi in manie- ra armonica e sufficientemente coerente. Gestire il sistema del sé è un’opera- zione politica analoga a quella più generale della gestione delle diversità etico- sociali e culturali nel vasto contesto comunitario. La questione allora si sposta sul piano della formazione di convinzioni che possano fare da fondamento alle scelte e alle decisioni personali. Si aprono qui le piste di lavoro suggerite dalla pedagogia interculturale, che può essere riletta sia orizzontalmente, sia verti- calmente, nel senso di metodi di promozione di convinzioni e competenze che aiutino a convivere democraticamente nelle città ormai pluri-culturali e che aprano progressivamente a un incontro con la comunità nazionale, europea e mondiale a partire dalla propria piccola patria. In questa prospettiva l’educa- zione alla cittadinanza tende a comprendere in sé la dimensione interculturale per aprirsi a obiettivi di riconoscimento e valorizzazione delle differenze, ma anche di riaffermazione dell’uguaglianza sul piano dei diritti fondamentali e di impegno per il dialogo e la coesione sociale. 2. In tale impresa educativa entrano certamente in gioco conoscenze, abilità e competenze, ma soprattutto il loro fondamento di senso e di valore. Basti un esempio. L’allargamento dell’Unione europea certamente porta con sé nuovi problemi, ma dopo secoli di guerre guerreggiate e di guerre fredde condotte fino alla fine degli anni ottanta dell’altro secolo, ora si può prospettare per l’Europa un’epoca di pace e di solidarietà. Si è forse sottovalutata l’importanza dell’at- tribuzione di senso e prospettiva esistenziale da parte dei soggetti in formazio- ne. Perché impegnarsi ad acquisire le conoscenze, le abilità, le competenze pro- poste? Quale guadagno in termini di sviluppo personale, sociale e professiona- le? Quale qualità della vita, quale benessere soggettivo e comunitario, quale prospettiva di futuro ne deriva? Anche l’acquisizione delle competenze chiave del cittadino e del lavoratore proposte a livello europeo per avere attrattività personale devono poter essere rilette in termini di valori, di motivi, di senso. Perché, infatti, impegnarsi seriamente nello sviluppo della comunicazione nella lingua madre, della comunicazione in lingua straniera, delle competenze mate- matiche e scientifiche di base, delle competenze digitali, della capacità di apprendere ad apprendere, delle competenze interpersonali e civiche, dell’im- prenditorialità, dell’espressione culturale? 53 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA Certo, anche la sola lettura degli ambiti o domini delle competenze chiave eviden- zia immediatamente lo spostamento di accento dalla considerazione di competen- ze base collegate più o meno direttamente ad aree del sapere alla sottolineatura di competenze di natura più personale e legate non solo alla conquista di conoscen- ze e abilità definite in ambiti disciplinari, bensì soprattutto alla capacità di inte- ragire validamente e responsabilmente nel contesto della vita civile e sociale e di progredire nella capacità di affrontare situazioni lavorative in forte dinamica inno- vativa. La valorizzazione dei concetti di responsabilità e partecipazione porta a sviluppare, infatti, competenze nel comprendere e valutare i contesti sociali, cul- turali, politici, religiosi nei quali si è collocati, nel prendere parte ai processi deci- sionali nei quali si è coinvolti ai vari livelli, nell’essere attivi in maniera valida e feconda nel mondo della produzione di beni e servizi, nel dedicare responsabil- mente tempo e risorse spirituali e materiali al bene delle varie comunità alle quali si appartiene. Ma è convincente una interpretazione che muove da un elenco lungo e un po’ asettico di conoscenze e abilità di tipo squisitamente disciplinare? Anche se le definizioni assunte possono essere valide, quanto esse sono valorizzate nella stesura di elenchi di conoscenze e abilità? Rileggiamo a questo proposito le definizioni tratte dal Quadro europeo delle Qualifiche e dei Titoli. Conoscenze: indicano il risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze sono l’insieme di fatti, principi, teorie e pratiche, relative a un settore di studio o di lavoro; le conoscenze sono descritte come teori- che e/o pratiche. Abilità: indicano le capacità di applicare conoscenze e di usare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi; le abilità sono descritte come cognitive (uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (che implicano l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti). Competenze: indicano la comprovata capacità di usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale; le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia. Alcune proposte di assi culturali relativi all’obbligo di istruzione sembrano contrad- dire questa prospettiva, in quanto sembrano favorire impostazioni meno aperte alla inclusione dei soggetti che manifestano maggiore disagio sociale e/o culturale. Il diritto all’educazione, soprattutto nel caso di minorenni, sollecita una particolare attenzione nell’uso di dispositivi che indicano livelli minimi accettabili, in quanto è possibile una loro interpretazione come criterio di esclusione. L’obbligo di frequenza deve simmetricamente accompagnarsi a un obbligo di accoglienza e di formazione. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 54 3. Tuttavia occorre chiarire bene che entrano a far parte delle competenze anche quelle disposizioni interne stabili che fanno riferimento alle convinzioni di fondo, al senso e valore attribuito alle competenze da sviluppare, alla qualità dei tratti personali quali coerenza e perseveranza. Lo sviluppo di tali disposi- zioni è legato in gran parte al clima formativo, clima che è fondato su valori condivisi e vissuti. Su sollecitazione di Václav Havel era stata elaborata a metà degli anni novanta una Carta dell’identità europea nella quale si evidenziava il gioco fondamentale svolto da alcuni valori. Tra questi la carta cita l’ordine democratico, il riconoscimento universale dei diritti dell’uomo e lo Stato di diritto. Ma anche le creazioni culturali e artistiche, nate da un fecondo scambio di esperienze, la scoperta delle leggi naturali e la loro applicazione al progresso dell’umanità, il pensiero critico, manifestatosi nella conoscenza e nell’esercizio della facoltà di giudicare, ci hanno portato ad uno stadio di sviluppo nel quale tutti gli uomini possono vivere e lavorare insieme pacificamente, avendo acqui- sito la capacità di autodeterminarsi e la libertà dal bisogno. D’altra parte il programma “L’Europa per i cittadini” (dicembre 2006) deve contribuire di conseguenza a: “dare maggiore rilievo ai valori, alla storia, alla cultura che accomunano [i cittadini] come elementi chiave della loro apparte- nenza ad una società fondata sui principi di libertà, democrazia e rispetto dei diritti dell’uomo, diversità culturale, tolleranza e solidarietà”. Di qui nascono anche alcune finalità dell’azione formativa evocate dallo stesso programma: a) dare ai cittadini la possibilità di interagire e partecipare alla costruzione di un’Europa sempre più vicina, democratica e proiettata verso il mondo, unita nella sua diversità culturale e da questa arricchita, sviluppando una cittadi- nanza dell’Unione europea; b) sviluppare un sentimento d’identità europea, fondata su valori, storia e cultura comuni; c) promuovere un sentimento di appartenenza all’Unione europea; d) migliorare la tolleranza e la comprensione reciproca dei cittadini europei rispettando e promuovendo la diversità cultura- le e linguistica, contribuendo nel contempo al dialogo interculturale. La prima proposta è dunque quella di sviluppare quanto più possibile una comunità di pratica formativa nella quale si vivano e si interiorizzino i valori propri di una identità europea. 4. Su un piano giuridico-sociale la cittadinanza indica più direttamente il vivere materialmente in una situazione di vita urbana e più globalmente l’essere sog- getto di diritti e di doveri all’interno di una società organizzata a Stato: o per nascita o per acquisizione dello status di cittadino di esso. La cittadinanza, cioè, dice sia la qualità di cittadino che una persona ha, sia l’appartenenza ad uno Stato, da cui derivano speciali diritti e doveri (che non hanno o di cui godono 55 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA solo in parte coloro che cittadini non sono). L’enfasi attuale sul discorso della cittadinanza e sull’educazione ad essa sembra essere connessa in primo luogo all’emergenza dei diritti umani soggettivi, comunitari e ambientali, emersi soprattutto nella seconda metà del secolo XX; ed in secondo luogo può essere collegata con la necessità di stili di vita che siano congruenti con l’ideale e la pratica della democrazia, a cui - da dopo la seconda guerra mondiale - si è volu- to ispirare la vita delle nazioni, le relazioni internazionali e lo sviluppo mon- diale. In questo senso se per un verso l’educazione alla cittadinanza sembra poter essere accostata all’educazione alla legalità, tuttavia per altro verso sem- bra superarla ed anzi porla in un orizzonte più ampio di azione, comprendente oltre essa anche quanto in un recente passato e ancora oggi veniva e viene com- preso intenzionalmente con educazione ai diritti umani, educazione alla demo- crazia, educazione alla pace, educazione allo sviluppo, e sempre più oggi - a motivo dei mutati scenari della convivenza nazionale - di educazione intercul- turale. L’Unione europea (Consiglio europeo di Nizza il 7 dicembre 2000) ha elabora- to e approvato una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. È utile rileggere interamente il suo Preambolo: “I popoli europei nel creare tra loro un’unione sempre più stretta hanno deciso di condividere un futuro di pace fon- dato su valori comuni. Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l’Unione si basa sui principi di democrazia e dello stato di diritto. Essa pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giusti- zia. L’Unione contribuisce al mantenimento e allo sviluppo di questi valori comuni, nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei, dell’identità nazionale degli Stati membri e dell’ordinamento dei loro pubblici poteri a livello nazionale, regionale e locale; essa cerca di promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile e assicura la libera circolazione delle per- sone, dei beni, dei servizi e dei capitali nonché la libertà di stabilimento. A tal fine è necessario, rendendoli più visibili in una Carta, rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici. La presente Carta riafferma, nel rispet- to delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla convenzione europea per la salvaguar- dia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adotta- te dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 56 giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il godimento di questi diritti fa sorgere responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”. 5. Dalla documentazione presentata e dalle considerazioni precedentemente svi- luppate emergono alcuni obiettivi formativi. a) Educare alla convivenza democratica, al rispetto e alla valorizzazione dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo in genere e di ciascun uomo in particolare. b) Promuovere la comprensione e valorizzazione di ciò che rende gli uomini uguali e diversi insieme, in particolare aprendo al pluralismo, alla tolleran- za, alla cooperazione, al rispetto e alla solidarietà nei riguardi delle persone e dei popoli di altre lingue e culture. c) Sviluppare la coscienza di una molteplice e via via più vasta appartenenza, che partendo dal proprio gruppo linguistico e culturale o dalla propria pic- cola patria (Heimat) si allarga al proprio paese, all’Europa, al mondo intero. d) Sensibilizzare alla necessità di prevenire ogni sorta di guerre e di conflitti interetnici e di ricercare soluzioni non violente, partendo dalla costruzione di una comunità locale meno conflittuale e più collaborativa. e) Far prendere coscienza dei problemi posti dalle migrazioni di persone e grup- pi all’interno dell’Europa e di persone che provengono da altri continenti, e della necessità di aprirsi a rapporti di accettazione, accoglienza, comprensio- ne dei diversi culturalmente, socialmente, religiosamente. f) Promuovere consapevolezza critica dell’interdipendenza dei fattori naturali e del necessario equilibrio ecologico, dei fattori economici, commerciali, lavo- rativi e sociali, e delle conseguenze sul piano delle politiche europee in fatto di economia, di formazione professionale, di mobilità lavorativa, di sicurezza sociale, ecc. g) Sensibilizzare al problema della comprensione e dell’accettazione della diver- sità religiosa di chi appartiene alle differenti confessioni cristiane, a religioni non cristiane o si professa ateo. h) Nell’insegnamento religioso promuovere un’informata e solida conoscenza delle radici cristiane dell’Europa e delle forme e delle modalità di vita che permettono di riviverne in modo aggiornato i valori e le speranze più vivi e profondi. 57 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA 6. Alcune iniziative formative possibili. a) Il successo o meno di un qualsiasi programma di costruzione di una coscienza europea nei nostri giovani dipende essenzialmente da quanto questa coscienza sia presente in maniera diffusa nell’ambiente della comunità formativa. La for- mazione dei docenti e dirigenti dovrebbe includere lo sviluppo di conoscenze e di atteggiamenti validi e fecondi, tenendo conto che ci si trova spesso di fronte a pregiudizi, pre-comprensioni, insensibilità o avversioni colorati sia politica- mente, sia ideologicamente. Di conseguenza: favorire la partecipazione a ini- ziative internazionali, come seminari e colloqui dedicati particolarmente a come sviluppare la dimensione europea del proprio insegnamento e della pro- pria attività formativa; aprirsi a forme di scambio con istituzioni formative europee e di stages presso altre nazioni; non sottovalutare il problema lingui- stico: attivare forme di interscambio epistolare, l’elaborazione di progetti di studio e di ricerca comune tra allievi di diverse nazioni. b) L’acquisizione delle lingue straniere è certamente uno dei capitoli più impe- gnativi e seri. Tuttavia occorre aprirsi anche ad altre stimolanti iniziative che fan cogliere la lingua straniera come un potente mezzo di sviluppo professio- nale, di arricchimento personale, di interscambio culturale, di apertura e com- prensione degli altri popoli e della loro eredità spirituale. Possono aiutare: forme di gemellaggio o di accordi sotto l’egida anche di organismi internazio- nali, periodi formativi all’estero, scambi di allievi tra famiglie e scuole dei vari paesi europei. Ciò permetterebbe l’inserimento completo in contesti che aiuta- no a capire differenze e comunità di visione, sensibilità, forme di vita. c) Studio e conoscenza dei problemi della costruzione di un’Europa casa comu- ne e dell’eredità di valori e di speranze che la devono animare. Ciò più che da lezioni sistematiche può essere favorito da iniziative mirate, da ricerche personali o di gruppo, da incontri e visite, da esperienze significative, dalla valorizzazione di video, di cd-rom, di internet, da confronti con gruppi di pari, ecc. d) Rimozione dei pregiudizi, preconcetti, prevenzioni, avversioni inoculati spes- so dai mezzi di comunicazione di massa, dagli ambienti di appartenenza. Il maggior contributo in questa direzione può venire attraverso una revisione critica dei vari insegnamenti. Infatti, nel dialogo formativo è facile che emer- gano elementi di tensione o di dissonanza con gli obiettivi precedentemente ricordati. Occorre vedere anche l’Italia come una comunità articolata in gruppi culturali che cercano nella propria identità le ragioni di un impegno sociale e comunitario e come facente parte di una più vasta comunità, quel- la europea, comunità a sua volta aperta e interagente con i popoli degli altri continenti. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 58 e) Nell’ambito dell’insegnamento religioso, ma per molti versi in generale, è opportuno progettare, condurre e valutare comunitariamente esperienze di incontro ecumenico e interreligioso. Si tratta di individuare alcuni filoni e possibilità, anche legati al territorio in cui si opera, di scambi sul piano infor- mativo, su quello del rapporto personale diretto, su quello di iniziative comu- ni di solidarietà, di visite a luoghi di culto e a opere culturali e caritative pro- pri di altre confessioni cristiane, verificando quanto di comune riferimento religioso si possa in essi percepire e identificando meglio ciò che caratterizza la propria identità. Analogamente si può agire, quando possibile e opportu- no, con realtà religiose non cristiane. Questo tipo di iniziative potrebbe dare luogo anche ad una riscoperta personale delle radici o dei germi fondamen- tali di ogni autentica esperienza e vita religiosa, evitando così il pericolo di una visione troppo formale e sociologica della stessa religiosità di base. Occorre comunque ricordare che siamo in fase di elaborazione di una iden- tità europea. Questa non è data, ma va costruita insieme. 59 LO STATO DELL’ARTE IN ITALIA 3. LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO 3.1 - Introduzione Michele Pellerey Prof. Università Pontificia Salesiana Sono presenti alla tavola rotonda “confronto sulla costruzione delle competenze del cittadino europeo” tre illustri partecipanti: Gerard Bogàrd, vice presidente del- l’associazione europea della formazione professionale (AEFP), che espone le inten- zioni effettive di coloro che hanno lanciato il programma di Lisbona; Pasqualino Mare, responsabile Relazioni Internazionali AEFP/Kchandel, che descrive quello che viene fatto in Olanda da questo punto di vista; infine Bruno Losito, professo- re della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre, che focalizza l’attenzione su cosa già esiste in Italia in merito alla costruzione delle competenze, per valutare come poter lavorare in questo contesto. I punti chiave della discussione possono essere così riassunti. • Riconoscere e valorizzare le competenze di ognuno in modo da creare un ambiente educativo adeguato, incoraggiando l’attuazione di percorsi professio- nali il più possibile adatti alle caratteristiche e alle potenzialità del singolo indi- viduo. Importante, in questo caso, è la figura del formatore che ha il “dovere” di aiutare i giovani a gestire la transizione, spesso problematica, dal mondo sco- lastico a quello lavorativo. Obiettivo finale del processo di insegnamento- apprendimento è quindi quello di posizionare qualcuno in base alle sue cono- scenze e dargli i mezzi per andare più lontano. • Rielaborare l’idea di conoscenza “statica” ed effettuare un lavoro per insegnare ad imparare in modo da poter così sfruttare appieno le conoscenze acquisite nel percorso formativo e ampliarle nella pratica. • Distinguere tra competenza e prestazione. Il concetto di competenza non è lega- to tanto alla singola prestazione, quanto alla familiarità del compito da svolge- re. Se non si mette in gioco un po’ di complessità e novità non si potrà mai mani- festare un buon livello di competenza, ma una riproduzione di qualcosa che è ormai familiare e standardizzato. • La curiosità come “spinta” alla conoscenza e forma fondamentale di motivazio- ne intrinseca. La difficoltà maggiore riguarda il “come” giocare tra motivazioni intrinseche e motivazioni estrinseche, in quanto molte ricerche effettuate hanno dimostrato come forme di motivazioni estrinseche (ad esempio un premio per un 63 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO compito risolto nel modo giusto) determinerebbero un depotenziamento della motivazione interna. Di conseguenza premiare un ragazzo che fa bene qualcosa sembrerebbe negativo. Ulteriori ricerche hanno poi dimostrato che in realtà ciò che depotenzia la motivazione intrinseca non è il premio in sé, ma l’assenza del- l’elemento informativo, cioè il sapere se quello che si è fatto era adeguato o meno. Da qui l’importanza dell’educazione come mezzo per aiutare a sviluppa- re delle motivazioni interne a partire da input esterni. Bisogna sviluppare la capacità culturale di riuscire a dare dei significati, degli orientamenti che arric- chiscano le proprie originarie spinte motivazionali. L’orientamento, infatti, ha un senso solo se aiuta ad allargare le prospettive, la motivazione, le possibilità del singolo individuo. Alla luce degli interventi in merito alle competenze chiave, gli assi culturali, le rile- vazioni delle situazioni nazionali e regionali, è quindi necessario effettuare una rilettura delle diverse esperienze pratiche di formazione, per poter così migliorare i punti di debolezza e valorizzare i punti di forza. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 64 3.2 - Intervento tavola rotonda Gerald Bogard Vice Presidente Association Européen pour la Formation Professionnelle (AEFP) Introduzione La questione delle competenze relative alla cittadinanza è in realtà una questione di coesione sociale, tanto più difficile quanto multidimensionale e sottoposta ad una serie di sollecitazioni in tutti i campi, in particolare in virtù dei mutamenti nel mondo del lavoro. Laddove assistiamo ad una ricomposizione dell’ordine mondiale, dobbiamo esse- re altresì in grado di gestire le nostre «crisi» di società. Ad una società basata sul consumo si sostituisce una società fondata sulla comu- nicazione ed i beni immateriali. Ad un’economia industriale basata sulla padronanza della materia si sostituisce un’economia di servizi basata sulla padronanza dell’intelligenza. Tutte queste evoluzioni modificano la nostra percezione del tempo, mettono a soq- quadro il nostro concetto di lavoro come gestione delle nostre età della vita, desta- bilizzano i nostri modelli di relazioni sociali forgiati nel contesto della predomi- nanza dell’attività industriale. E dunque ci poniamo la questione delle competenze, ovvero i sistemi di produzio- ne delle competenze come sono stati costruiti nei diversi paesi – con le loro speci- ficità nazionali, ma anche profonde similitudini – che si rivelano essere insuffi- cienti, malgrado tutti gli sforzi profusi. Il dibattito che tiene banco in vari paesi europei relativamente al concetto di com- petenza, può dar luogo a molteplici interpretazioni. 1. L’emergenza del concetto di competenza si traduce nelle trasformazioni che hanno coinvolto determinate imprese, finalizzate a dare una nuova considera- zione alle risorse umane: natura qualitativa e quantitativa dei saperi e mobili- tazione del know-how, preoccupazioni più dinamiche? 2. Si tratta di registrare la trasformazione dei processi produttivi perlopiù attra- verso il sistema educativo, nella fattispecie un più alto livello di qualifica otte- nuto attraverso il sistema educativo? 65 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO 3. Si tratta di un nuovo strumento di politiche di reclutamento delle imprese sullo sfondo di una forte disoccupazione, consentendo dei principi di selezione e giu- stificando con attitudini individuali l’esclusione dei non - o meno diplomati? Tutte le precedenti interpretazioni sono ammissibili e verosimilmente una non esclude l’altra. Infine, vale la pena sottolineare che l’utilizzo del concetto «competenze» diventa generale nel contesto in cui si parla di formazione lungo tutto l’arco della vita, occupabilità, flessibilità ed ora di «flessicurezza», che interroga i sistemi di tutela sociale come il contratto di lavoro. Questo contesto mi sembra chiaramente riassunto dal Vertice di Lisbona, ecco per- ché mi sembra importante soffermarsi su di esso. 1. Cosa giustifica l’adozione del programma di Lisbona? Ed in che misura rappresenta una svolta? Adottando questa strategia nel 2000, i capi di stato e di governo avevano stabili- to che sarebbero stati necessari 10 anni per trasformare l’economia europea e ren- derla leader nel settore della tecnologia mondiale. Occorreva consolidare la sua competitività nel settore delle tecnologia della cono- scenza, ammodernare il suo modello sociale e porre fine alla disoccupazione di massa ed alle esclusioni sociali, tutto con il fine ultimo di tutelare l’ambiente e pre- servare la coesione regionale. 1.1 - Integrazione come vettore di crescita Dalla soppressione delle barriere di scambio, all’unione monetaria, alla creazione di un grande mercato finanziario, all’apertura dei mercati di servizi, gli europei si aspettavano perlopiù dei dividendi sotto forma di maggiore efficienza microeco- nomica, all’origine altresì di un aumento della produzione e degli utili. Questa strategia non ha però prodotto effetti all’altezza delle anticipazioni che aveva suscitato. Certo, l’apertura dei mercati di beni e servizi favorisce le economie di scala e l’in- novazione, il mercato finanziario acquista profondità man mano che si allarga, ma con l’approfondimento delle economie si incontrano sempre maggiori difficoltà: per passare dall’integrazione di superficie degli anni 60-80 (soppressione delle barriere tecniche di scambio) all’integrazione profonda degli anni 90 e 2000 (politica della concorrenza, apertura dei mercati di servizi, OPA transfrontaliere), è stato necessario superare ostacoli politici sempre più grandi, con conseguente rallentamento del progresso. Ora, per i governi, la crescita attraverso l’integrazio- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 66 ne è possibile solo se gli sforzi profusi per superare gli ostacoli politici sono retri- buiti a mezzo di dividendi economici visibili. Dal momento che l’integrazione tra i rendimenti viene meno, questa strategia si trova minacciata. È proprio questa constatazione che giustifica l’adozione del programma di Lisbona. L’idea di Lisbona è quella di coniugare due elementi: aggiungere all’integrazione (l’unica posta in essere fino ad allora) un secondo elemento di natura intergover- nativa, incentrato sulle politiche interne che sono più adatte a stimolare la cresci- ta e la creazione di occupazione. Nella sua versione iniziale, così come in quella proposta dalla Commissione nel mese di febbraio 2005, la strategia di Lisbona prevede: • azioni dell’Unione finalizzate all’integrazione dei mercati e all’adozione di poli- tiche comuni (politica commerciale, politica della concorrenza, azioni settoriali); • azioni nazionali, sostenute da interventi complementari dell’Unione (istruzione, mercato del lavoro, politiche fiscali e sociali). 1.2 - Cambio di orientamento rispetto al Lussemburgo Prima del 1997, le politiche per l’impiego poste in essere nell’Ue erano perlopiù politiche nazionali, disgiunte da politiche comunitarie. A partire dal 1997, invece, con l’elaborazione di una reale strategia europea per l’impiego, l’obiettivo si tra- sforma e passa dalla lotta alla disoccupazione strutturale ad un obiettivo strategi- co di una società e di un’economia europea basate sulla conoscenza. Nel 1997, il trattato di Amsterdam crea il quadro giuridico di questa nuova poli- tica, che costituisce l’oggetto del titolo VIII sull’impiego del trattato costitutivo delle Comunità Europee. L’attuazione di tale politica parte nel mese di novembre 1997, con la definizione ed il lancio della strategia europea per l’impiego, in occa- sione del Vertice straordinario sull’occupazione tenutosi nel Lussemburgo. Proclamato ufficialmente dal Consiglio Europeo in data 23 e 24 marzo 2000 a Lisbona, l’obiettivo dell’economia basata sulla conoscenza equivale all’intenzione dell’Unione europea di privilegiare il futuro di attività più legate alla produzione, alla distribuzione ed allo sfruttamento della conoscenza: ricerca e sviluppo, inno- vazione e produzione di brevetti, high-tech, ICT. Si è lontani da un approccio prettamente liberale al mercato del lavoro, che lascerà alle sole leggi del mercato il funzionamento e la regolamentazione del lavoro e del- l’occupazione. Si stabilisce una direzione, si definiscono degli obiettivi, viene posta in essere un’amministrazione, vengono formulate delle raccomandazioni e stan- ziati dei mezzi. Si è altresì lontani da un approccio all’impiego esclusivamente concepito in termini 67 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO 68 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 di dilemma inflazione-disoccupazione, o da approcci secondo i quali l’occupazione non è altro che la conseguenza residua della crescita, potenziale od endogena. Dal punto di vista istituzionale, la politica europea per l’impiego definisce chiara- mente i ruoli tra l’istituzione comunitaria e gli Stati membri: • alla prima spetta lo stimolo, l’orientamento, il sostegno specifico e quanto segue; • ai secondi, la messa in opera concreta. La realizzazione di questo obiettivo fa supporre che si possa mobilitare una mano- dopera adeguata dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Dal punto di vista quantitativo Pertanto, l’obiettivo della politica europea per l’impiego non risiede più soltanto nella lotta alla disoccupazione strutturale. Si tratta altresì di realizzare la piena occupazione, ovvero di attirare e di occupare sul mercato del lavoro quanti più possibile tra gli adulti in età lavorativa. Ne consegue che il Vertice abbia assegnato alla politica per l’impiego il compito di raggiungere una media occupazionale del 70% nel territorio dell’Unione entro il 2010, con una percentuale totale di occupazione (popolazione in età lavorativa / numero di occupati) pari al 63,3% nel 2000. La politica europea per l’impiego è inoltre finalizzata a sviluppare ulteriormente sia la domanda che l’offerta di lavoro. L’azione sulla domanda consta essenzialmente di 3 aspetti: • sostegno alle professioni libere, • alleggerimento degli oneri fiscali e sociali delle imprese, • incoraggiamento ad una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro. L’azione sull’offerta di lavoro punta a raggiungere 2 obiettivi intermedi più con- giunturali: la gestione della scarsità di manodopera e l’equilibrio dei sistemi di previdenza sociale. • Incoraggiare chi non lavora, malgrado sia in età lavorativa, a entrare nel mer- cato del lavoro: A. sviluppare i programmi di attivazione; B. attività femminili. • Favorire l’accesso all’impiego da parte della popolazione attiva già presente sul mercato, ma disoccupata attraverso: A/ l’inserimento ed il reinserimento professionale dei giovani e degli adulti disoccupati; B/ l’inserimento sociale dei gruppi svantaggiati o a rischio di esclusione. Persone con disabilità, minoranze etniche e lavoratori migranti possono soffrire di par- ticolari difficoltà d’integrazione sul mercato del lavoro. Le linee guida prevedo- LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO 69 no che gli Stati identifichino queste specifiche difficoltà e pongano in essere le misure necessarie ad impedire discriminazione ed esclusione. • Aiutare la popolazione attiva a restare sul mercato del lavoro. A. Prolungamento della vita attiva. B. Politica di qualità dell’occupazione. Dal punto di vista qualitativo La manodopera deve disporre delle qualifiche necessarie al successo di una stra- tegia basata sulla conoscenza. L’obiettivo è che la popolazione attiva, ora o in futuro, possa essere in grado di integrarsi in un sistema economico che richiede vari livelli di competenze tecniche, tecnologiche o scientifiche. La valorizzazione qualitativa dell’offerta di lavoro si fonda su 2 concetti principali: 1. nell’ambito di un sistema produttivo caratterizzato da una continua evoluzione tecnologica, coloro che tra la popolazione attiva vedono le proprie qualifiche non evolversi di conseguenza, corrono il rischio di essere esclusi dal sistema. 2. il processo di apprendimento è cumulativo: l’attitudine di un membro della popolazione attiva a conservare le proprie conoscenze e ad organizzare la for- mazione continua è sempre più in funzione di un livello di qualifica già ottenu- to. Un paradosso che illustra ad esempio la differenza di partecipazione alla for- mazione continua che esiste tra i gruppi che presentano livelli di qualifica dif- ferenti: nel 2001, il tasso medio di partecipazione ad iniziative di formazione continua tra la popolazione dell’Unione compresa tra i 25 ed i 64 anni era pari al 15,7% tra i più qualificati, a fronte del solo 2,5% tra i meno qualificati (Eurostat, indagine sulla forza lavoro). Pertanto, la politica di sviluppo delle qualifiche deve indirizzarsi all’intera popo- lazione attiva, potenziale o effettiva, vale a dire ai giovani come agli adulti. Essa deve contenere delle disposizioni che riguardino nello specifico la formazio- ne iniziale (abbandono scolastico prematuro, formazione ai NTIC) nonché la for- mazione lungo tutto l’arco della vita. 2. Il nuovo problema delle competenze 2.1. La questione delle conoscenze nell’impresa e nella società Sarebbe tuttavia sbagliato ritenere che l’evoluzione delle qualifiche passi univoca- mente per la sollecitazione delle conoscenze totalmente nuove. L’innovazione tecnologica non costituisce l’elemento principe di un deficit ‘lordo’ sui salariati. L’analisi delle conoscenze sollecitate «ex novo» suggerisce la tipologia seguente. 4 casi 1. Una parte delle conoscenze esplicitamente richieste oggi derivano da un «ricono- scimento interno»; già espresse dai salariati o da alcuni tra loro, queste conoscen- ze non venivano considerate nelle vecchie organizzazioni, mentre oggi sono espli- citamente richieste. Ad esempio, come calibrare un macchinario, come interveni- re sulle MOCN che i salariati non avevano il diritto di sfruttare e che oggi sono sollecitate. 2. Il «riconoscimento esterno»: dei saperi o del know-how precedentemente non con- siderati nell’esercizio della professione e che oggi sono incorporati nella qualifica richiesta. Ad esempio, capacità di comunicazione e di scrittura, negate ad alcuni salariati nell’esercizio quotidiano della professione, queste capacità avrebbero potuto essere sfruttate anche all’esterno dell’impresa, in ambito familiare o socia- le. Le nuove forme organizzative le sollecitano ben più fortemente rispetto a prima e l’impresa le integra nel suo apprezzamento delle conoscenze richieste, andando casomai verso azioni di formazione specialistica per rafforzarle e svilupparle... 3. Processo di ampliamento dei saperi e del know-how in gamme differenti della famiglia professionale di base: gli operatori non sono solamente multifunzionali, ma sono altresì sollecitati a migliorare i procedimenti adottati; devono far propri dei saperi connessi alla meccanica, all’elettronica ed all’idraulica; in altri casi, si richiede una partecipazione alla diagnostica di eventuali danni, ma anche un con- trollo di qualità diretto e responsabile. Questo ampliamento della gamma dei saperi non è però semplice. Da una parte, certi hanno l’impressione di perdere parte della propria professionalità, diventando dei tuttofare. Dall’altra, poiché l’ampliamento equivale all’emergere di un nuovo sapere individuale e collettivo, costituisce una reale fonte di apprendimento: pertanto, in uno di questi casi, l’ac- cumulo collettivo di una conoscenza approfondita dei vari segmenti del processo di lavoro consente ai salariati di padroneggiare e di partecipare direttamente all’innovazione di prodotto, rendendo più sottile il confine tra concezione e fab- bricazione, verso quella che oggi viene definita ingegneria simultanea. 4. Un ultimo caso fa dell’impresa e dell’esercizio della professione il luogo di pro- duzione di veri saperi nuovi (per i salariati, ma eventualmente ben oltre il pro- cesso produttivo in senso stretto): innovazioni tecnologiche, combinazioni che sfuggono sia al settore accademico che a quello dei mestieri e che corrispondo- no ad un processo di creazione dei saperi totalmente nuovo. L’insieme di questi movimenti si traduce effettivamente, sebbene in misura varia- bile, in una evoluzione delle logiche della costruzione, della sollecitazione e della qualificazione. Nelle organizzazioni che hanno vissuto le trasformazioni più radi- cali, il livello generale di formazione dei salariati tende ad essere più elevato; le ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 70 qualifiche individuali e collettive diventano un principio cardine della costruzione e della flessibilità dell’organizzazione. 2.2. La questione delle transizioni Non esistono più le tre età della vita! La questione delle transizioni professionali indotte dalle ristrutturazioni economi- che e dai licenziamenti va ben oltre quella delle crisi industriali così visibili a livel- lo locale. Ci spinge ad interrogarci sulle mutazioni nell’insieme del tessuto econo- mico dei vari paesi e sulle transizioni che andranno ad impattare sia sulle impre- se che sui territori. I percorsi professionali si evolvono con grande variabilità. Con l’accelerazione del progresso tecnologico, i posti di lavoro diventano più instabili ed il sapere legato ad un determinato posto di lavoro sarà meno durevole. Nella società post-industriale è la capacità di sviluppare il proprio know-how a permetterci di comprendere e di appropriarci dell’ambiente di lavoro, a darci l’au- tonomia necessaria per far sì che la vita professionale non sia vissuta soltanto come una fonte di tensione costante. Le scommesse economiche e finanziarie diventano anch’esse globali ed al tempo stesso si deve far fronte ad una maggiore segmentazione sociale in termini di occu- pazione, organizzazione del lavoro e gestione delle qualifiche e dei salariati. Il rischio imprenditoriale si trasferisce agli individui in tutta la loro diversità: giova- ni o anziani, uomini o donne, più o meno competenti, con anzianità debole o forte. Questi cambiamenti – piuttosto diseguali tra le imprese – necessitano di nuove competenze: una riconvertibilità dei saperi, una capacità di anticipare gli eventi, di collaborare alla gestione delle innovazioni. 3. La risposta offerta dalla formazione lungo tutto l’arco della vita (Lifelong Learning - LL) L’evoluzione dei problemi da risolvere - gestire delle vere mutazioni di mestieri e delle vere riconversioni problematiche da gestire lungo tutto l’arco della vita e non soltanto nei momenti di crisi o licenziamenti di massa - e degli strumenti sempre più personalizzati, porteranno ad una ridistribuzione dei ruoli dei vari attori, pubblici o privati, che operano in ambito imprenditoriale e sul mercato del lavoro. Due soluzioni possibili per la formazione lungo tutto l’arco della vita 3.1. La soluzione scolastica Riferimento all’individuo, alle conoscenze e ad una migliore articolazione degli strumenti disponibili. 71 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO La scuola è invitata a svolgere un ruolo chiave nell’ambito della formazione lungo tutto l’arco della vita. Il mondo che lasciamo, quello della vecchia scuola, è un mondo in cui il percorso scolastico si fossilizza sul percorso professionale, dove il peso del diploma è schiac- ciante e dove tutte le proprietà sono mal distribuite. In base al sistema attuale, gli studenti che ogni anno lasciano la scuola senza qualifiche partono con il piede sba- gliato. È ora di mettere da parte l’immagine palliativa delle pari opportunità: essa non esiste e la scuola stessa non è in grado di offrirle. Quanti figli di operai fre- quentano le scuole di ingegneri? Concordare cosa si intende per ‘saperi’ Quello che dobbiamo offrire agli studenti non è una serie di conoscenze, ma la capacità di assimilarne di nuove. Apprendere non significa soltanto modificare il proprio comportamento, ma anche e soprattutto cambiare il significato che si attribuisce alla propria esperienza. Vedere e vivere la propria esperienza come una situazione di apprendimento cor- risponde ad una presa di coscienza, poiché ci si appropria del processo decisiona- le, delle condotte, delle azioni, delle anticipazioni e delle rappresentazioni relative ad un compito. L’approccio costruttivista all’apprendimento contiene 5 postulati. 1. Apprendere è un atto complesso che mette in gioco un gran numero di fattori che rivelano sia caratteristiche della situazione di apprendimento che della per- sona che apprende. 2. Apprendere impegna l’individuo nelle sue dimensioni affettive e cognitive, nella messa in opera del proprio concetto di sé, nonché del proprio approccio al trat- tamento delle informazioni. 3. Il discente è l’attore principale dell’apprendimento, ricorre a comportamenti e strategie che ha scelto e sfruttato per costruire le proprie conoscenze; gestisce attivamente le informazioni e la qualità di questa gestione è un fattore deter- minante per la qualità delle conoscenze. 4. Esiste una grande variabilità nell’ambito dell’apprendimento e questa variabi- lità costituisce in parte l’espressione delle caratteristiche personali del discente. 5. Le rappresentazioni del discente hanno un ruolo predominante nell’apprendi- mento, in particolare rispetto alle implicazioni, al grado ed al modo di mobili- tare le proprie risorse cognitive. La questione della «base comune» Viviamo in un mondo in cui il capitale delle conoscenze acquisite conta molto meno della capacità di apprendere, di far proprie e di assimilare nuove conoscen- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 72 ze. In tal senso, va intesa la famosa espressione « base comune». L’attuale divisione tra il mondo della formazione iniziale e quello della formazio- ne continua non rappresenta in tale senso un grande ostacolo. Le opportunità della scuola, l’importanza fondamentale della sua missione, si tro- vano nello slancio iniziale che essa può dare ai giovani. Il suo successo si misurerà nella capacità di proiettarsi in un percorso, di uscire dal sistema con un progetto, di non limitarsi solo ad un diploma e ad un capitale di conoscenza. Il mondo in cui un diploma consentiva una rendita a vita non è un mondo giusto: cerchiamo di uscirne. 3.2 - La soluzione dell’esperienza. Costruire un approccio basato sull’esperienza Il punto di ancoraggio diviene quello della competenza esperienziale: trattare i saperi, il know-how ed il saper essere come uno dei suoi aspetti. Si potrebbe proporre una definizione globale e comune dell’esperienza, limitando- la al confronto quotidiano di un individuo con la realtà e la necessità di risolvere problemi di varia natura. Si tratta di una risorsa che può e deve essere sfruttata in certe situazioni. L’esperienza (e la formazione) consentono lo sviluppo di competenze che sono degli insieme stabiliti di saperi e know-how, di condotte tipo, di procedure stan- dard, di tipologie di ragionamento, che si possono sfruttare senza nuovi apprendi- menti e che consolidano e strutturano l’acquis della storia professionale: le com- petenze consentono l’anticipazione dei fenomeni, quello che è implicito nelle istru- zioni, la variabilità dei compiti. L’esperienza corrisponde a conoscenze dichiarati- ve e procedurali che si possono tradurre in saperi, know-how e comportamenti. L’esperienza non è formatrice in sé, né una fonte immediata di trasformazione. • Ci sono persone che possono aver vissuto molte esperienze senza però averne trat- to alcun insegnamento, né aver acquisito delle competenze o adottato degli atteg- giamenti per meglio rispondere ai problemi che sono chiamate ad affrontare. • L’esperienza può altresì causare delle ferite e richiedere un lungo processo tera- peutico per essere utilizzata ai fini della trasformazione. • Al contempo, l’esperienza può causare un blocco. Talune esperienze possono segnare una persona al punto da renderla sospettosa e diffidente nei confronti delle proprie capacità, magari perché si ha un’immagine negativa di sé e degli altri. • Un individuo può perdere la spontaneità ed il desiderio di apprendere. Qualora ciò accadesse, l’esperienza del fallimento può portare non soltanto ad una per- dita di motivazione o di desiderio di apprendere, ma anche a sottovalutarsi, fino a decidere di evitare situazioni di apprendimento e di performance. 73 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO Per essere formatrice, l’esperienza deve favorire un nuovo equilibrio. Essa deve dar luogo ad una presa di coscienza delle percezioni del sentito e del vissuto, una costruzione di elementi informativi che portino ad una presa di coscienza del senso dell’esperienza ed un movimento o un’azione nell’ambito di un’espressione grati- ficante. La difficoltà è di superare la concezione accademica di accumulo delle conoscen- ze ma anche di superare la segmentazione dei saperi per settore di attività: i sape- ri professionali, i saperi sociali dei cittadini, le conoscenze culturali, i saperi rela- zionali, i saperi domestici, i saperi artistici, etc. 4. Una formazione lungo tutto l’arco della vita ancorata ad una com- petenza esperenziale - Percorsi professionali 4.1. Spostare il baricentro dei sistemi Una rivoluzione copernicana! Ieri era la continuità lineare che organizzava il siste- ma sulla base dell’apprendimento. Oggi non si tratta più tanto dell’apprendimen- to che funge da colonna vertebrale della formazione lungo tutto l’arco della vita, piuttosto dell’orientamento e della validazione, che ieri sembravano avere un valo- re marginale. La validazione dell’acquis dell’esperienza (VAE) Scindere la validazione dai suoi presupposti scolastici. Il ricorso alla VAE è una risposta alla domanda di riconoscimento che la meritocrazia scolastica non ha saputo concedere a tutta una serie di cittadini. Limitare la VAE ad un dossier di prove, test e colloqui con una commissione non ci sembra affatto esaustivo. Il baricentro dei sistemi accademici di validazione non si costruisce sulla valuta- zione dell’atto professionale o della professionalità. Ha piuttosto privilegiato la verifica delle conoscenze acquisite e delle attitudini che ne derivano. Nella mag- gior parte dei casi, il diploma non «garantisce» che una potenzialità rispetto alle esigenze dell’impresa. Tuttavia, questa potenziale competenza deve essere integra- ta da un periodo di tirocinio aziendale per essere tradotta in termini di classifica- zione. La socializzazione professionale è in un certo senso esterna al processo di formazione. A questa ottica si oppone una logica di valutazione che privilegia l’operatività in azioni. La VAE realizzata in situazioni di lavoro è il modo migliore per sottolinea- re la nostra ricerca di coerenza e convergenza tra le varie attività e competenze dei titoli concessi e dei criteri di professionalità che dominano un settore professiona- le od un’impresa. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 74 In tal senso, la VAE non è soltanto un riconoscimento dell’esperienza, ma costi- tuisce un fattore del suo sviluppo. Ciò avviene perché per alcuni adulti il rapporto con i saperi si costruisce nell’am- bito dell’operatività e non della teoria/formalizzazione. È nella dimostrazione pra- tica che essi ritrovano il proprio marchio e non nella semplice descrizione dell’e- sercizio della professione. L’interesse del sistema di validazione è di rispondere ai bisogni degli adulti e di colo- ro che svolgono una professione in cui l’esperienza è fondamentale ma scarsamente riconosciuta al di fuori del loro settore. Quello che è penalizzante nella svalutazione delle professioni «non qualificate» non è soltanto la negazione delle competenze in essere, ma anche l’idea (spesso condivisa dai salariati stessi) secondo la quale talu- ne competenze non siano trasferibili nelle attività più valorizzate e che non costitui- scano un patrimonio sufficiente per impegnarsi in attività di formazione. Nell’ambito di numerose professioni, soprattutto quelle che non richiedono quali- fiche, sono le competenze e le abilità acquisite attraverso l’esperienza ad essere spesso determinanti per la definizione di professionalità e che relativizzano lo schema di formazione iniziale qualificante come primo conseguimento del sistema scolastico. Non bisogna contare soltanto sulla costruzione delle competenze in situazioni di lavoro (alternanza), ma anche sul consolidamento delle competenze nel lungo periodo attraverso l’esperienza. Il rendimento in vari settori in cui si offrono servizi alla persone o alle imprese è spesso legato all’esperienza acquisita in contesti diversi: in realtà, per chi lavora nel settore dei servizi, la questione da porre riguarda l’avvenire (quando e come potranno esercitare un’altra professio- ne) ed il riconoscimento delle competenze dal punto di vista della trasferibilità e mobilità, e della formazione complementare che sarebbe opportuno acquisire. 4.2 - Costruire un nuovo rapporto, una nuova articolazione con il sistema produttivo: un ambiente di apprendimento Tutto ciò richiede un sistema che ci consenta di circolare liberamente: un insieme di istituzioni non limitate a se stesse, ma costituenti un continuum che accompa- gnerà ognuno di noi nel percorso di apprendimento, da un’istituzione all’altra, da un sapere all’altro e da un mestiere all’altro. Lontano dalle barriere e dalle rigidità che, in ingresso come in uscita, ostacolano la circolazione e la crescita degli indi- vidui, dobbiamo costruire un sistema che presti attenzione all’interazione tra que- sti due cicli, riconoscendo la diversità delle modalità di accesso al sapere, un siste- ma non più segmentato ma articolato, dove il passaggio da uno spazio all’altro sarà fluido e possibile, dove gli adulti potranno, ad esempio, tornare a scuola. Ci sono molte frontiere da far cadere, molte barriere da superare. 75 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO Rendere formativa una situazione di produttività Il taylorismo ha dedicato molto tempo a scindere l’esperienza dal lavoro per tra- sferirla ai progettisti. La trasposizione del gesto dell’uomo verso la macchina ha richiesto molto tempo, perché dietro un semplice gesto, si nasconde un’attività complessa. Il post-taylorismo punta a restaurare il rapporto tra il pensiero e l’azione. Non esi- ste altra scelta se non quella di mobilitare le équipe, in modo che elaborino l’og- getto stesso del loro lavoro. Questa attività simbolica che coinvolge il dire ed il fare è diventata essenziale per l’efficacia del lavoro. Efficacia organizzativa e competenza individuale sono interdipendenti. L’efficacia dell’organizzazione fornisce un impulso all’apprendimento individuale, contri- buendo a sua volta ad una maggiore efficacia dell’organizzazione. Pur se imperfetto, il concetto di organizzazione che apprende offre un interessan- te terreno di analisi in questa prospettiva, in quanto le organizzazioni qualifican- ti non si caratterizzano soltanto in base alla rispettiva capacità di accrescere la quantità dei saperi, bensì rinforzano l’attitudine ad elaborare strategie cognitive. Eppure, la perpetuazione degli effetti di queste organizzazioni richiede da una parte un’associazione precoce dei salariati finalizzata alla conduzione di un pro- getto e d’altra parte, una validazione delle competenze attraverso il salario, le opportunità di promozione o la stabilizzazione dell’impiego. Lo stesso si applica al concetto di «regione che apprende». 4.3 «Assicurare» i percorsi professionali Per raccogliere la sfida della nuova economia, non sarà sufficiente coordinare le diverse politiche europee. Occorrerà ripensarle, in particolare quelle che riguarda- no l’occupazione e la formazione. La ristrutturazione dei sistemi di previdenza sociale è stata un’altra proposta ‘forte’ avanzata da Lisbona. Come organizzare, ad esempio, la trasferibilità indi- viduale dei diritti sociali (non più legati, quindi a un’impresa o ad un paese)? «Invece di concentrarci su finanziamenti palliativi - ha aggiunto Jos Berghman, professore presso l’università cattolica di Lovanio - privilegiamo piuttosto investi- menti preventivi che consentiranno lo sviluppo del capitale umano». Se la struttura attuale delle nostre economie e delle nostre società si fonda su una maggiore diversificazione dei percorsi individuali, il rischio corso dovrebbe trova- re la sua contropartita in una tutela più globale. La formazione lungo tutto l’arco della vita è qualcosa che certamente lascia l’inizia- tiva all’individuo, ma deve iscriversi in un contesto più globale. In quello attuale, non è la possibilità di accesso in sé, né le modalità che contano, ma la capacità dell’indi- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 76 viduo di conservare le conoscenze acquisite nell’ambito del percorso professionale. La trasferibilità è dunque essenziale, di un’impresa o di un paese all’altro, e garan- tita collettivamente. Questo importante cambio di prospettiva si aggiunge alle evoluzioni della natura delle ristrutturazioni per costringere le imprese a modificare il loro modo di gesti- re l’occupazione; la gestione, sulla base dei mercati interni, delle carriere lunghe, solamente interrotta dagli scossoni dei piani sociali, essi stessi attenuati dall’uti- lizzo dei provvedimenti legati all’età, non può più funzionare nello stato attuale. La mobilità professionale diventa un’esigenza strutturale: come può essere inco- raggiata positivamente nel quadro di una costruzione di percorsi professionali «assicurati» e non più vissuta e subita coma una rottura al momento della ristrut- turazione? Eppure, gli insegnamenti tratti da tali crisi, le soluzioni poste in essere, i fallimen- ti ed i successi meritano di essere ulteriormente esplorati per immaginare in maniera non astratta come possano funzionare nei mercati di transizione, come sia possibile mettere in campo dei dispositivi di garanzia dei percorsi professionali là dove ci sono sempre più fratture, mobilità subita e, a volte, esclusione sociale. Il DIF ha istituito per legge il «diritto alla formazione» per tutti. Questo può esse- re un esempio da sfruttare. Un «conto individuale di tempo formativo» interamente trasferibile. Un diritto spettante ad ognuno di noi al momento dell’ingresso nella vita professionale e non più legato ai rischi della stessa, senza per questo sostituirsi agli obblighi del dato- re di lavoro per quel che attiene alla formazione ed all’occupabilità. «Un conto individuale di tempo formativo» (CITF) gestito da un dispositivo di mutualizzazione che consente la trasferibilità del tempo capitalizzato in caso di mobilità esterna all’impresa; grazie a questo dispositivo, «si avranno i mezzi necessari per la formazione, un bilancio di competenze o una validazione che pre- parino alla mobilità, una riqualificazione per un ritorno all’occupazione». Conclusione Non vi è cittadinanza politica senza cittadinanza sociale ed economica. È dunque fondamentale consentire agli uomini e alle donne di restare nel proces- so, di proiettarsi verso il futuro, di comprendere un mondo in costante evoluzione. Si tratta di offrir loro l’autonomia, la lucidità, la sicurezza di cui hanno bisogno per esercitare la propria libertà. In sintesi, si tratta di garantire loro una vera cittadinanza. A mio avviso, si tratta di un vero e proprio servizio pubblico. Al momento, ci si trova in una situazione di stallo. La questione riguarda la capa- 77 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO cità di trasformare dei meccanismi istituzionali obsoleti e onerosi. Quale che sia il giudizio che ci porta alla strategia di Lisbona, questo contesto si erge in un’Europa che si confronta sull’integrazione nel proprio mercato interno e sulla competitività regionale. Da questo punto di vista, la formazione lungo tutto l’arco della vita rappresenta uno strumento per realizzare il modello sociale europeo che va costruito contro l’e- sclusione e la discriminazione, ed a favore della parità, della cittadinanza attiva e della democrazia. La formazione lungo tutto l’arco della vita può rivelarsi uno strumento efficace a condizione che non si scelga la direzione sbagliata. E per questo motivo, non pos- siamo limitarci a confidare sugli schemi ormai obsoleti ereditati da un’epoca pas- sata, che si oppongono alla conoscenza del lavoro con tutte le conseguenze sociali e politiche a noi tutti ben note. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 78 3.3 - Intervento tavola rotonda Pasqualino Mare Projectmanager VET - Kenniscentrum Handel Netherlands 1. Contesto di sviluppo delle nuove qualifiche di FP nei Paesi Bassi 1.1 Economia e società ‘Informazione in ogni momento e in ogni luogo’, questa è la base dei radicali cam- biamenti nei processi societari ed economici. • Negli anni ’70 nel musical “Cabaret” Lisa Minelli cantava ‘il denaro fa girare il mondo’. Nel 2007 si potrebbe aggiungere: ‘e il denaro gira in tutto il mondo’. • Denaro, servizi e prodotti “girano” tutta l’Europa ed il mondo. • Il mercato del lavoro diventa sempre più internazionale, più incerto, più compe- titivo e più “inquieto”. • La nuova realtà economica offre opportunità agli individui che hanno un baga- glio sufficiente e che si destreggiano con facilità tra le difficoltà. Il nuovo mondo costituisce una minaccia per coloro che non sono in grado di integrarsi o non vogliono farlo. • La nuova realtà economica esercita una pressione sulle relazioni sociali esisten- ti e genera discussioni e riflessioni su questioni esistenziali, come coesione socia- le, sistema di valori, integrazione/segregazione, prosperità e distribuzione di ric- chezza e povertà. 1.2 Conseguenze per i dipendenti ed i soggetti in formazione… • Maggiore expertise riguardo al contenuto e all’adattabilità (sociale ed occupa- zionale). • Maggiore flessibilità e spirito combattivo. • Maggiore responsabilità personale nei confronti dell’istruzione e della formazio- ne, nonché del lavoro e della carriera. 79 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO 1.3 Conseguenze per la Formazione Professionale (FP) • Cambio di atteggiamento da ‘esecuzione’ a ‘progettazione’. Progettare ed eroga- re servizi di istruzione e formazione sulla base di standard di rendimento stabi- li e non come mera esecuzione dei compiti e degli obiettivi assegnati. • Concentrazione sullo sviluppo personale e professionale. • Personalizzazione di programmi, a partire dai talenti degli studenti/soggetti in formazione. 2. Principi per lo sviluppo di qualifiche professionali per il 21° secolo � Le qualifiche devono essere in linea con la visione delle politiche e gli sviluppi di FP.� Agire come un professionista-cittadino è fondamentale ai fini dello sviluppo.� Considerare la pratica della professione come un punto di partenza: funzionalità tecnica/cognitiva (expertise professionale) nonché funzionalità personale/sociale.� Offrire spazio a contributi/interpretazioni personali del programma di forma- zione ed incoraggiare la responsabilità personale nei confronti della formazione e della carriera.� Equilibrare il generale e lo specifico, soppesare ogni dettaglio e lasciar spazio di manovra. 3. Costruzione dei nuovi profili di qualifiche professionali in Olanda: professionale e di cittadinanza, apprendimento e percorso professionale Ogni profilo di qualifica professionale è costituito da 4 aspetti: A: informazioni generali sull’occupazione (spesso con l’ausilio di materiali audio- visivi); B: compiti chiave e processi operativi della pratica occupazionale. Esempio: il profilo “Commesso” presenta 3 compiti chiave, ognuno dei quali è costituito da un numero di processi operativi. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 80 Dal profilo “Commesso”, si passa a “Vendita al dettaglio” CCoommppiittii cchhiiaavvee PPrroocceessssii ooppeerraattiivvii 1. Riceve e smista la merce 1.1 Riceve la merce 1.2 Sistema la merce 1.3 Rifornisce gli scaffali 1.4 Sistema la merce in scaffali provvisori 1.5 Si occupa del negozio e del magazzino 2. Vende ed eroga un servizio 2.1 Riceve e si avvicina ai clienti 2.2 Conversa durante la vendita 2.3 Eroga un servizio personalizzato in base alla gamma di prodotti 2.4 Registra un ordine a nome del cliente 2.5 Accetta reclami 2.6 Prende parte a incontri di lavoro 3. Chiude la transazione di vendita 3.1 Prepara il registratore di cassa per il pagamento 3.2 Informa il cliente in merito alle procedure ed alle condizioni di vendita e pagamento 3.3 Maneggia il registratore di cassa 3.4 Chiude il registratore di cassa Per ogni compito chiave, i processi operativi si incrociano con una serie di compe- tenze (su una lista prestabilita di 25), necessarie all’attuazione dei processi stessi. Il modello di competenze utilizzato si basa sul Contesto Universale di Competenze della SHL e si applica a tutti i settori nell’ambito della FP in Olanda (www.shl.com). 81 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO Esempio: compito chiave 2: vende ed eroga un servizio Matrice di competenza-processi - Vendita al dettaglio CCoommppiittoo cchhiiaavvee 22:: CCoommppeetteennzzee VVeennddee eedd eerrooggaa uunn sseerrvviizziioo PPrroocceessssii ooppeerraattiivvii A B C D E F G H I J K L 2.1 RRiicceevvee ee ssii aavvvviicciinnaa aaii cclliieennttii X 2.2 CCoonnvveerrssaa dduurraannttee llaa vveennddiittaa X X 2.3 EErrooggaa uunn sseerrvviizziioo ppeerrssoonnaalliizzzzaattoo iinn bbaassee aallllaa ggaammmmaa ddii pprrooddoottttii X 2.4 RReeggiissttrraa uunn oorrddiinnee aa nnoommee ddeell cclliieennttee X 2.5 AAcccceettttaa rreeccllaammii X 2.6 PPrreennddee ppaarrttee aa iinnccoonnttrrii ddii llaavvoorroo X ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 82 Utilizzare m ezzi e m ateriali Sfruttare expertise professionale Form ulare e riferire Presentare Persuadere ed influenzare Costruire relazioni e reti Agire in m aniera etica ed onorevole Collaborare e com unicare Offrire attenzione e com prensione Guidare Indirizzare Prendere decisioni e iniziative Modello di competenze (SHL)1 Le competenze utilizzate per descrivere le capacità necessarie ai professionisti sono definite in termini generali. Inoltre, per tutti i settori della FP viene utilizzata una serie prestabilita di 25 competenze elaborate dalla SHL (www.shl.com). L’utilizzo di queste competenze è strettamente limitato allo sviluppo di qualifiche. Per ragio- ni qualitative, chi si occupa dello sviluppo di tali competenze deve aver ricevuto una certificazione da parte di SHL che li abilita a tale ruolo in conformità al modello di competenze. 83 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO CCoommppiittoo cchhiiaavvee 22:: CCoommppeetteennzzee VVeennddee eedd eerrooggaa uunn sseerrvviizziioo PPrroocceessssii ooppeerraattiivvii M N O P Q R S T U V W X Y 2.1 RRiicceevvee ee ssii aavvvviicciinnaa aaii cclliieennttii X 2.2 CCoonnvveerrssaa dduurraannttee llaa vveennddiittaa X X X 2.3 EErrooggaa uunn sseerrvviizziioo ppeerrssoonnaalliizzzzaattoo iinn bbaassee aallllaa ggaammmmaa ddii pprrooddoottttii X X 2.4 RReeggiissttrraa uunn oorrddiinnee aa nnoommee ddeell cclliieennttee X 2.5 AAcccceettttaa rreeccllaammii X X 2.6 PPrreennddee ppaarrttee aa iinnccoonnttrrii ddii llaavvoorroo Im prenditoriale e com m erciale Agire in m aniera efficiente e professionale M ostrare am bizione e passione Riduzioni del volum e d’affari Adattarsi e rispondere al cam biam ento Seguire direttive e procedure Garantire qualità Concentrarsi sulla soddisfazione del cliente Pianificare ed organizzare Apprendere Creare ed innovare Esplorare Analizzare 1 APL = Acknowledgement of Prior Learning (Riconoscimento dell’Apprendimento Pregresso). Il modello utilizza 25 competenze, nell’ambito di 8 macro-competenze: I. Guidare e decidere a. Prendere decisioni ed iniziative b. Indirizzare c. Guidare II. Sostenere e cooperare d. Offrire attenzione e comprensione e. Collaborare e comunicare f. Agire in maniera etica ed onorevole III. Interagire e presentare g. Costruire relazioni e reti h. Persuadere ed influenzare i. Presentare IV. Analizzare e interpretare j. Formulare e riferire k. Sfruttare l’expertise professionale l. Utilizzare mezzi e materiali m. Analizzare V. Creare e concettualizzare n. Esplorare o. Creare ed innovare p. Apprendere VI. Organizzare ed eseguire q. Pianificare ed organizzare r. Concentrarsi sulla soddisfazione del cliente s. Garantire qualità t. Seguire direttive e procedure VII. Adattare ed affrontare u. Adattarsi e rispondere al cambiamento v. Gestire la pressione ed affrontare eventuali ridu- zioni del volume d’affari VIII. Agire ed eseguire w.Mostrare ambizione e passione x. Agire in maniera imprenditoriale e commerciale y. Agire in maniera efficiente e professionale Queste competenze si intrecciano con compiti chiave e processi operativi, che descrivono le attività occupazionali più immediate, nell’ambito di una cosiddetta matrice di competenze. Nella fattispecie, si tratta di una competenza mostrata dal professionista nell’ambito dell’esecuzione di un compito chiave o di un processo operativo. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 84 C: in questa parte del dossier di qualifica, le competenze per ogni processo opera- tivo sono elaborate in: • componenti • indicatori di performance Esempio: Competenza: persuadere ed influenzare Componente(i): - suscitare emozioni - presentare idee ed opinioni e motivarle Indicatori di performance: Vendita al dettaglio Si sfruttano diverse argomentazioni per suscitare emozioni e presentare possibilità al cliente, con il risultato che il cliente si convince di un acquisto. Inoltre, vengono descritte l’expertise professionale (know-how) e le competenze. D: nella sezione D, si illustrano i dilemmi legati allo sviluppo delle qualifiche e si giustificano le scelte operate. 4. Sviluppo delle qualifiche • Uso obbligatorio di una metodologia per tutti i settori di FP: - serie standard di 25 competenze; - rigide istruzioni per la definizione dei compiti chiave, processi operativi, indi- catori di performance. • Sviluppo di qualifiche in fasi, con fornitura obbligatoria di prodotti. • Gestione, sistemazione, orientamento e controllo di qualità da parte di un orga- no certificato. • Cittadinanza, apprendimento e percorso professionale come parte delle qualifi- che professionali; - imparare a formulare i propri obiettivi di apprendimento, - guidare il proprio percorso professionale, - partecipare alla politica (nazionale ed europea), - operare in un contesto lavorativo, - agire come consumatore in grado di esprimere un’opinione critica, - partecipare alle relazioni sociali ed utilizzare con rispetto gli spazi pubblici - preoccuparsi della propria salute. 85 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO 86 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 5. Possibilità di applicazione dei profili � Standard di rendimento per gli studenti/soggetti in formazione di FP (iniziale).� Standard di rendimento per la ‘riqualificazione’ dei dipendenti.� Coniugare le competenze necessarie per la pratica professionale con le compe- tenze individuali.� Determinare la necessità di formazione/istruzione e/o applicare procedure APL sulla falsariga di questo processo di interazione. 6. Attuazione ed osservazioni conclusive • Nel mese di dicembre 2007, le pratiche professionali di tutti i settori dei Paesi Bassi saranno descritte in base ad un totale di 240 qualifiche. • I profili di qualifiche rientrano nel concetto di istruzione e formazione basate sulle competenze. • La standardizzazione del metodo di sviluppo delle qualifiche, lo sviluppo in fasi e la supervisione e l’autorità da parte di un unico organo per approvare o non appro- vare i concetti così elaborati, hanno contribuito all’esito del processo. • L’attuazione di una FP basata sulle competenze sembra essere un compito alquanto difficile per molte scuole, insegnanti, studenti. • Occorre maggiore formazione degli insegnanti, dei tutor e del management: - l’expertise necessaria per affrontare la FP basata sulle competenze andreb- be valorizzata; - la FP basata sulle competenze richiede un maggiore impegno da parte di insegnanti e studenti; - la FP basata sulle competenze richiede programmi personalizzati. Nessuno studente (gruppo) è uguale. Non vale il concetto di ‘uno per tutti’. • Non si è prestata particolare attenzione al necessario passaggio mentale da ‘cosa fai tu per me’ a ‘cosa faccio io per me stesso’ (concetto altresì difficile da affron- tare). I Paesi Bassi sono un paese ricco, cosa che spesso viene data per scontata, senza pertanto prevedere la necessità di sostenere questa prosperità. • La FP basata sulle competenze è difficile, onerosa ed ambiziosa… ma rappre- senta altresì una sfida per gli operatori di FP, che considerano la coniugazione di contenuti e didattica una loro competenza chiave. LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO 87 3.4 - Intervento tavola rotonda Bruno Losito Prof. Università degli Studi Roma Tre - Facoltà di Scienze della Formazione Nell’affrontare il tema dello sviluppo delle competenze di cittadinanza, in una pro- spettiva europea, è necessario in primo luogo cercare di orientarsi all’interno di un campo tutt’altro che ben definito, sia dal punto di vista terminologico, sia dal punto di vista concettuale. Basterebbe fare riferimento ai diversi termini utilizza- ti per riferirsi a questo ambito della formazione per averne un’idea: educazione alla cittadinanza europea, educazione alla cittadinanza attiva, educazione alla cit- tadinanza responsabile, educazione alla cittadinanza democratica. A questa esigenza si unisce quella di cercare di definire che cosa si intende per “competenze”, o quanto meno in quali e quante accezioni questo termine viene utilizzato, sia in generale, sia in riferimento all’educazione per la cittadinanza. Questo intervento intende dare un contributo in questa direzione a partire da alcu- ni progetti realizzati o in via di sviluppo a livello europeo e internazionale. 1. Le competenze 1.1 Le competenze “chiave” o di base Dalla seconda metà degli anni Novanta, il termine “competenze” è diventato sem- pre più di uso comune in ambito educativo, travalicando il campo della formazio- ne professionale, anche in conseguenza di alcuni studi e ricerche internazionali. Da questo punto di vista è particolarmente rilevante il contributo dello studio dell’OCSE sulla definizione e la selezione delle competenze chiave (The Definition and Selection of Key Competencies - De.Se.Co.), sviluppato in connessione con l’i- nizio del progetto PISA (Programme for International Student Assessment). Nell’ambito di questo progetto vengono individuate tre categorie generali di com- petenze di base (o competenze chiave), riferite a: • usare gli strumenti in modo interattivo (compresi il linguaggio e le tecnologie); • interagire in gruppi eterogenei; • agire autonomamente. Si tratta, secondo la terminologia del progetto, di “costellazioni” di competenze intese come insieme di conoscenze, abilità cognitive e pratiche, atteggiamenti, motivazioni e valori. La loro funzione fondamentale è quella di consentire agli individui di orientarsi in contesti complessi e in continuo cambiamento, in modo dinamico e flessibile, in una prospettiva che è contemporaneamente di realizza- zione di una propria progettualità individuale, ma anche di adattamento ai cam- biamenti della società in cui si è inseriti. Esempi di competenze di questo tipo sono la capacità di usare il linguaggio e i simboli; la capacità di usare le conoscenze e le informazioni; la capacità di utilizzare le nuove tecnologie; la capacità di rela- zionarsi correttamente agli altri, di cooperare, di gestire e risolvere i conflitti; la capacità di elaborare progetti di vita individuali e di riconoscere e valutare i pro- pri interessi, i propri bisogni e i propri limiti. Tutte queste competenze si caratterizzano per la loro flessibilità e dinamicità e per essere messe in atto in modo interattivo, nella relazione con gli altri. Il punto di partenza per la definizione delle competenze e per la loro individua- zione è, nell’ambito del progetto De.Se.Co., l’analisi di che cosa sia necessario a ciascun individuo, a ciascun cittadino, per poter agire e vivere in una società - quale quella contemporanea - che si caratterizza da un lato per la sua complessità, dall’altro per la rapidità delle trasformazioni che si verificano al suo interno. Coerentemente con questa analisi, le competenze si presentano come adattabili, interdipendenti tra loro, trasversali ai diversi campi della vita personale, sociale e lavorativa degli individui. Alcune delle competenze chiave o di base individuate dal progetto De.Se.Co. sem- brano essere più direttamente legate alla cittadinanza e all’esercizio attivo dei diritti e dei doveri ad essa collegati. Si tratta, in particolare, delle competenze che si riferiscono alle dimensioni: • della cooperazione, quali la capacità di gestire e di risolvere i conflitti, di indivi- duare e sostenere i propri diritti, unitamente ai propri interessi e bisogni, pur nella consapevolezza dei propri limiti; • della partecipazione attiva a contesti sociali anche diversi tra loro; • della individuazione, definizione e realizzazione di un proprio progetto umano e professionale. 1.2 Il concetto di literacy in PISA Alcune competenze di base, ritenute indispensabili per fronteggiare le sfide che la vita presenta a ciascun individuo, sono oggetto di progetti comparativi internazio- nali dell’OCSE. In modo particolare, il progetto ALL (Adult Literacy and Lifeskills), che intende rilevare e misurare le competenze alfabetiche della popola- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 88 zione adulta, e il progetto PISA, volto a rilevare e misurare le competenze degli studenti quindicenni in lettura, matematica e scienze. Il concetto base di PISA è quello di “literacy”, che si riferisce alla capacità di uti- lizzare le conoscenze e le abilità possedute in ambiti specifici (quali, appunto, la lettura, la matematica e le scienze) per affrontare con successo le situazioni e i pro- blemi che si incontrano in situazioni di vita quotidiana, lavorativa e sociale. In particolare: • la literacy in lettura indica la capacità di comprendere, di usare e di riflettere su testi scritti; • la literacy matematica si riferisce alla capacità di utilizzare le conoscenze mate- matiche e di identificare e comprendere il ruolo che la matematica gioca nel mondo attuale; • la literacy scientifica indica la capacità di usare le conoscenze scientifiche, di identificare questioni di carattere scientifico e di trarre conclusioni fondate su dati e su elementi di prova. L’accento è posto per tutte e tre le competenze sulla loro utilità per vivere in modo attivo, consapevole e responsabile all’interno dei contesti sociali i cui si è inseriti1. Di qui la loro importanza dal punto di vista della educazione alla cittadinanza, in quanto la possibilità di partecipare in modo attivo alla vita sociale è largamente legata al livello di competenza che ciascun individuo effettivamente possiede in queste tre aree. 2. L’educazione alla cittadinanza a livello europeo 2.1 Il Consiglio d’Europa e l’educazione alla “cittadinanza democratica” Il Consiglio d’Europa ha dichiarato il 2005 anno europeo dell’educazione alla cit- tadinanza democratica (European Year of Citizenship through Education). L’iniziativa si colloca all’interno dell’impegno che da oltre un decennio il Consiglio d’Europa ha sviluppato per l’educazione alla cittadinanza democratica, che si fonda sulla affermazione dei principi fondamentali del rispetto dei diritti dell’uo- mo e della democrazia pluralista. 89 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO 1 Per la definizione della literacy nei tre diversi ambiti, si veda la traduzione italiana del framework di PISA 2006, pubblicata a cura dell’Invalsi per l’editore Armando, con il titolo Valutare le competenze in scienze, lettura e matematica. Quadro di riferimento di PISA 2006 (2007). Il testo è pubblicato anche sul sito web dell’Invalsi (www.invalsi.it). Gli obiettivi fondamentali della educazione alla cittadinanza democratica2 sono individuati nel sostegno e nel rafforzamento dei diritti e dei doveri dei cittadini e del loro senso di appartenenza alla propria società; nel contribuire alla lotta con- tro il razzismo e la xenofobia; nel contribuire alla coesione sociale e al rafforza- mento della società civile, attraverso lo sviluppo delle conoscenze e dei livelli di competenza dei cittadini. In quanto rivolta ai cittadini, l’educazione per la citta- dinanza democratica, non si rivolge ai soli studenti o ai soli giovani, ma anche ai cittadini adulti, in un’ottica di lifelong learning e di saldatura dell’educazione for- male con quelle non formale e informale. In questa prospettiva, l’educazione alla cittadinanza democratica è un compito non soltanto della scuola, ma della intera società. Parlare di competenze per la cit- tadinanza democratica significa, nell’ottica del Consiglio d’Europa, anche accet- tare che esse non possano essere date per acquisite una volta e per sempre. È necessario, al contrario, sostenerle e potenziarle, in rapporto ai cambiamenti che caratterizzano la società contemporanea. Nel quadro di questo più ampio progetto, il Consiglio d’Europa ha dedicato par- ticolare attenzione alle politiche per l’educazione alla cittadinanza democratica a livello europeo, contribuendo a mettere in evidenza il rischio di una “retorica” del- l’educazione alla cittadinanza democratica, che si manifesta nello scarto tra dichiarazioni di principio, e impegni internazionali sottoscritti, e adeguate misure per la realizzazione di tali impegni, tra “dichiarato” ed “agito”3. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 90 2 Questi obiettivi sono stati sintetizzati in una dichiarazione adottata di ministri dell’istruzione dei paesi membri del consiglio nel novembre del 2000 (“Dichiarazione di Cracovia”). Cfr. Project on “Education for Democratic Citizenship”: Resolution adopted by the Council of Europe Ministers of Education at their 20th session, Cracow, Poland, 15-17 October 2000, Strasbourg, Council of Europe, 15 November 2000, Doc. DGIV/EDU/CIT (2000) 40. I risultati del lavoro di riflessione e di elaborazione che ha preceduto l’approvazione di questa dichiara- zione sono presentati in C. Bîrzéa, Education for Democratic Citizenship: A Lifelong Learning Perspective, Strasbourg, Council of Europe, 20 June 2000, Doc. DGIV/EDU/CIT (2000) 21. I materiali e i documenti relativi al progetto “Educazione alla cittadinanza democratica” sono pubbli- cati sul sito del Consiglio d’Europa (www.coe.int/t/dg4/education/edc/default_EN.asp?). 3 Su questi aspetti si vedano in particolare C. Harrison, B. Baumgartl, Stocktaking Research on Policies on Education for Democratic Citizenship and Management of Diversity in South-East Europe, Strasbourg, Council of Europe, 8 February 2002, Doc. DGIV/EDU/CIT (2001) 45 Final; Council of Europe (2004), All-European Study on Education for Democratic Citizenship Policies, Strasbourg, Council of Europe. 2.2 Lo studio di Eurydice sull’educazione alla “cittadinanza responsabile” La dizione “cittadinanza attiva” è stata adottata all’interno dell’Unione europea, con l’intento dichiarato di richiamare l’attenzione sulla rilevanza della partecipa- zione dei cittadini alla vita democratica. Alla dimensione della partecipazione viene spesso affiancata, a livello europeo, quella della responsabilità. In uno studio di Eurydice sulla educazione alla cittadinanza nella scuola, la “cit- tadinanza responsabile” viene definita come segue: la nozione di “cittadinanza responsabile” si collega ai problemi della conoscenza e della consapevolezza dei diritti e dei doveri. È anche strettamente collegata ai valori civici quali la demo- crazia e i diritti umani, l’eguaglianza, la partecipazione, la collaborazione, la coe- sione sociale, la solidarietà, la tolleranza della diversità e la giustizia sociale.4 Lo studio individua tre categorie di obiettivi principali che nei sistemi scolastici dei paesi dell’Unione europea vengono attribuiti all’educazione alla cittadinanza: poli- tical literacy intesa come insieme di conoscenze relative alle istituzioni e ai pro- cessi politici; sviluppo del pensiero critico e di atteggiamenti e valori coerenti con i principi fondamentali delle società democratiche; promozione delle competenze necessarie per partecipare alla vita sociale e politica (a partire dalla scuola e dalla vita nella comunità cui si appartiene). 3. La costruzione delle competenze di cittadinanza Lavorare all’interno della scuola per la costruzione di competenze di cittadinanza comporta una serie di conseguenze che investono l’insieme della sua organizzazio- ne. E richiede anche la consapevolezza del fatto che la nostra scuola è, oggi, anco- ra lontana dal caratterizzarsi come un ambiente democratico di apprendimento, all’interno del quale gli studenti possano non soltanto acquisire le conoscenze e le abilità necessarie, ma anche realizzare una concreta esperienza di partecipazione e di confronto democratico, sia a livello di classe, sia a livello di scuola nel suo insieme. Non solo. La nostra scuola è ancora poco capace di aiutare gli studenti a costrui- re le competenze di base indispensabili: i risultati del progetto PISA rappresenta- no un chiaro segnale di allarme in questo senso, nel momento in cui ci presentano un sistema scolastico che non riesce né a coltivare le eccellenze, né a contrastare le 91 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO 4 Cfr. Eurydice, Citizenship Education at School in Europe, Brussels, Eurydice, 2005, p. 13 [traduzione di chi scrive]. differenze socio-culturali che caratterizzano gli studenti in ingresso. Ne emerge, in definitiva, l’immagine di una scuola che non riesce ad assolvere una delle sue fon- damentali funzioni, quella di compensare le differenze sociali, offrendo a tutti le stesse opportunità di apprendimento e la possibilità di raggiungere alcuni tra- guardi indispensabili. Le differenze che PISA ha messo in evidenza tra aree geo- grafiche del nostro Paese e tra indirizzi di studio sono un chiaro sintomo di que- sta incapacità. Le conseguenze, dal punto di vista del ruolo della scuola per lo svi- luppo della equità, della coesione e della mobilità sociali sono evidenti. Questi risultati impongono una riflessione che investe piani diversi dell’organizza- zione scolastica e non soltanto il suo impianto curricolare (contenuti, metodi di insegnamento, obiettivi). La costruzione di competenze di cittadinanza, cui concorrono non soltanto gli apprendimenti disciplinari, ma l’insieme delle esperienze che gli studenti quoti- dianamente realizzano all’interno della scuola, richiede un livello di collaborazio- ne e di integrazione tra diversi insegnamenti (e tra insegnanti), che per molti aspetti è ancora assente nella nostra scuola. Oltre a ciò, l’effettivo esercizio da parte degli studenti delle proprie competenze di partecipazione attiva alla vita e ai processi decisionali della scuola richiede che questo sia effettivamente possibile e realizzabile: non soltanto per quanto riguar- da la partecipazione degli studenti alle forme organizzate di partecipazione all’in- terno della scuola, quali quelle previste dalla attuale normativa (assemblee, con- sigli di classe, consigli di istituto). La scuola nel suo complesso dovrebbe caratte- rizzarsi come un ambiente di apprendimento aperto e democratico. Perchè questo sia possibile è l’insieme delle relazioni interne alla scuola che deve essere modifi- cato, compresi il clima e la cultura della scuola e il clima di classe. L’importanza di queste dimensioni è stata messa in evidenza da varie indagini e in modo parti- colare dalle indagini promosse dall’IEA sull’educazione civica e alla cittadinanza: un clima di classe aperto e democratico risulta essere direttamente correlato con le prestazioni degli studenti, non soltanto in termini di apprendimento ma anche - e soprattutto - in termini di atteggiamenti e di disponibilità a partecipare alla vita della scuola e a ritenere la propria partecipazione uno strumento efficace di pre- senza e di intervento5. Un ulteriore elemento va sottolineato. Se l’educazione alla cittadinanza si riferisce anche agli atteggiamenti e ai valori coerenti con i principi di una società demo- cratica e pluralista, è necessario che la scuola contribuisca a costruire contesti che ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 92 5 Si veda Torney-Purta J., Lehmann R., Oswald H. and Schulz W., Citizenship and Education in Twenty-eight Countries, Amsterdam, IEA, 2001. Per i risultati italiani si veda B. Losito, La secon- da indagine IEA Civic Education, in «Cadmo», vol. IX, n. 27, 2001, pp. 35-49. siano adeguati a favorire l’acquisizione di tali valori da parte degli studenti e che consentano loro effettivamente di esercitare i propri diritti e i propri doveri di cit- tadinanza, non in quanto futuri cittadini, ma in quanto già cittadini soggetti di diritti e di doveri. C’è da chiedersi quanto le nostre scuole siano oggi in grado di realizzare questi obiettivi e quali siano le effettive risorse a cui dirigenti e insegnanti possono rivol- gersi per dare inizio a processi di trasformazione in questa direzione. 93 LO STATO DELL’ARTE IN EUROPA. CONFRONTO SULLE COMPETENZE DEL CITTADINO EUROPEO 4. LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA 4.1 - Introduzione Pier Giovanni Bresciani Prof. Università di Genova e Università di Bologna In questa prima parte di una giornata molto densa di lavori e di impegni, ho il compito di coordinare una tavola rotonda che ha un titolo che richiama, come è stato detto con una grande concretezza, iniziative e programmi dell’Unione europea e dell’Italia per la promozione della cittadinanza attiva. A questa tavola rotonda partecipano interlocutori istituzionalmente e professio- nalmente titolati e qualificati per dare un contributo in questo senso. Sono gli operatori e i dirigenti che si impegnano ad implementare e realizzare queste politiche e queste linee guida sul territorio, e a compiere operazioni con- crete rispetto alle risorse, alle opportunità, ai programmi, ai dispositivi che pos- sono essere utilizzati concretamente e attivati. Chi ha lavorato in questi anni ‘sul terreno’, nelle tante sperimentazioni che sono state realizzate a partire dalla prima elaborazione dell’ISFOL sulle ‘competenze trasversali’ dei primi anni ’90, ritrova nelle competenze per la cittadinanza europea (le cosiddette competenze-chiave, che sono il lascito di questo docu- mento della Commissione europea) qualcosa, appunto, sia delle competenze tra- sversali che delle competenze di base, che sono state sperimentate sia nella for- mazione iniziale che nella formazione superiore, con successi alterni e con molta concretezza da parte degli operatori sul terreno. Questo richiamo ci potrebbe però portare, paradossalmente, a sottovalutare l’importanza di questo framework comune che la Commissione ha messo a punto. È necessario invece riconoscere che questo documento sedimenta una consapevolezza raggiunta concordemente con molto ‘lavoro’ ed impegno di con- fronto a livello europeo. Questo quadro di riferimento supporta per la prima volta, e questo mi pare molto importante, la definizione di progetti e di iniziative con la previsione di programmi di intervento e la messa a disposizione di risorse: un po’ come è avvenuto negli ultimi anni, ad esempio, per il tema della ‘mobilità europea’. Adesso si tratta di cominciare a praticare dei fatti concreti, e siamo qui proprio per capire quali sono gli ambiti ed i margini di intervento dei diversi soggetti e ai diversi livelli (europeo, nazionale, regionale) e nei diversi sistemi (scuola e formazione professionale). 97 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA È forte anche il richiamo alle istituzioni, ai vari livelli, ad una forte integrazio- ne anche a livello istituzionale in modo tale che sia poi più facile, più agevole sul terreno la ‘messa in pratica’, l’implementazione delle politiche e delle linee guida. Le questioni aperte a valle di questo nuovo ‘atto’ di indirizzo e programmazio- ne a livello europeo sulle quali ragionare insieme sarebbero tante: penso ad ele- menti di grande interesse come il rapporto tra governo e sussidiarietà, e quindi tra standard europei e nazionali e progettualità locale; oppure penso al proble- ma che si presenta anche a livello nazionale, e che riguarda il tipo di rapporto che può instaurarsi tra sollecitazione delle energie e della vitalità locale e defi- nizione, pur necessaria, di quadri di riferimento e di standard di riferimento. Altri problemi di grande rilievo possono essere richiamati: quale integrazione tra sistemi (orizzontale e verticale), tra filiere formative, ai fini dello sviluppo delle competenze chiave; qual è il rapporto tra scuola e formazione professionale al riguardo, e qual è il rapporto tra formazione iniziale e formazione superiore, posto che siamo ormai pienamente nella prospettiva del lifelong learning. E ancora: come i sistemi di istruzione e formazione possono attrezzarsi per dare seguito a questo quadro di riferimento: quali infrastrutture, condizioni istituzio- nali, amministrative, organizzative e soprattutto culturali e professionali, esisto- no o possono/debbono essere costruite? Quali fabbisogni formativi e professio- nali fa emergere questo nuovo scenario? Su terreni di questo tipo gli organismi di formazione, gli operatori e le istituzio- ni stesse hanno già maturato, nel tempo, pratiche ed esperienze dalle quali si tratta di imparare, analizzandole con attenzione mettendole in valore. Infine: come fare in modo che le questioni attualmente sul tappeto nella scuola e nella formazione professionale (il nuovo obbligo di istruzione, i LEP-Livelli Essenziali di Prestazione), il tavolo nazionale sugli standard, il libretto formati- vo e la certificazione, possano integrarsi con le nuove competenze chiave? Per una analisi introduttiva di maggiore dettaglio rinvio alle slides che avevo preparato per questo intervento (che ho qui abbreviato per esigenze organizza- tive) e che sono contenute in cartella, e vi presento gli interlocutori di questa tavola rotonda, che sono particolarmente qualificati e il cui contributo sarà par- ticolarmente importante. Innanzitutto Vera Marincioni, direttore generale delle politiche per l’orienta- mento e la formazione del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale; Marina Rozera, dirigente ISFOL e dirigente dell’Agenzia Leonardo (che volgerà lo sguardo anche sui diversi tipi di risorse che l’Unione europea mette a dispo- sizione per implementare il framework di cui stiamo parlando); poi Elena Maddalena dell’Agenzia Nazionale per il Lifelong Learning Programme di ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 98 Firenze, che dovrebbe parlarci soprattutto di un documento di lavoro, che ha un titolo estremamente impegnativo ed interessante, e che è oggetto di una consul- tazione in atto proprio in questo periodo: “Le scuole nel XXI secolo”; infine, per il livello regionale partecipa Alessandra Russo, dirigente del Dipartimento di Formazione Professionale della Regione Siciliana. Li ringrazio tutti per la loro disponibilità e per il contributo che offriranno alle riflessioni di questo seminario. 99 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA 4.2 - Intervento tavola rotonda Vera Marincioni Direttore Generale per le Politiche per l’Orientamento e la Formazione - Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale Il contributo che le politiche italiane ed europee della formazione e dell’orientamen- to professionali possono dare alla costruzione di uno spazio europeo di cittadinanza attiva, a mio avviso, deriva principalmente la sua identità direttamente dalla Costi- tuzione della Repubblica italiana. Dal primo articolo, che afferma essere la Repubblica “fondata sul lavoro”. E poi dove si afferma il diritto al lavoro (art. 4) e le sue declinazioni concrete (art. 35): la tutela del lavoro e la promozione dello svi- luppo e della formazione professionali dei lavoratori. La cittadinanza, stando dunque alla nostra legge fondamentale, si declina intima- mente in relazione al lavoro. Il lavoro è il modo attraverso il quale ciascuno parteci- pa alla vita sociale, assieme all’esercizio dei diritti e dei doveri democratici. La costi- tuzione lega in modo inscindibile la cittadinanza al lavoro. Ne consegue, ritengo, che i diritti che discendono dal diritto al lavoro rappresentano un architrave fondamentale della cittadinanza, nella Repubblica italiana. Di conseguenza, il sistema della formazione professionale - perché è di questo che dobbiamo parlare - è un servizio pubblico legato direttamente all’esercizio di un dirit- to. Credo che se si perde di vista questa considerazione fondamentale, difficilmente si può intendere la funzione del sistema di offerta di servizi di formazione professiona- le e ci si priva di un criterio fondamentale per stabilire se e quanto questo sistema svolge il proprio compito nel favorire la costruzione di una cittadinanza attiva. Se poi allarghiamo il nostro sguardo agli scenari europei, vediamo come il diritto alla formazione professionale, accanto all’altro diritto gemello, quello all’istruzione, vede dilatarsi sensibilmente il proprio ambito d’applicazione. L’Unione europea ha pro- mosso più d’ogni altra istituzione l’approccio alle politiche formative che conoscia- mo con l’espressione inglese Lifelong Learning, apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Il diritto all’istruzione e alla formazione professionale, se ripensati nel quadro delle tumultuose trasformazioni degli ultimi 30 anni, si traduce in un nuovo diritto emergente: quello a godere di opportunità d’apprendimento lungo tutto l’ar- co della vita. Quindi, diritto alla formazione professionale sul e per il lavoro, ma diritto anche all’istruzione in età adulta. Va in questo senso il disegno di legge esa- minato in prima lettura dal consiglio dei Ministri del 3 agosto scorso, presentato dal ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 100 Ministro Fioroni e dal Ministro Damiano e frutto di un proficuo e serrato lavoro con- giunto tra i ministeri. Seguendo le linee d’azione di quel disegno di legge, lo sviluppo e la valorizzazione delle competenze individuali divengono l’architrave della convivenza civile. Ognuno è chiamato a partecipare alla vita pubblica lavorando e contribuendo ai pro- cessi democratici. Per far ciò, deve riuscire ad apprendere in ogni circostanza e in ogni momento della sua vita. Il lavoro e la vita democratica richiedono in modo cre- scente a ciascuno la capacità di elaborare informazioni. Per questo sono necessarie competenze simboliche e professionali che devono essere mantenute e perfezionate continuamente. Va in questa direzione il documento della Commissione del 10 novembre del 2005, in cui, seguendo le indicazioni della strategia di Lisbona, si offre una definizione delle “competenze chiave per l’apprendimento permanente”. L’attore pubblico deve garantire opportunità di apprendimento ogni qualvolta il cit- tadino ne senta la necessità o ne provi il desiderio. Tale garanzia deve essere fruibi- le in forma gratuita e immediata in tutti i casi in cui vi siano criticità o difficoltà: perdita del lavoro, occupazioni insoddisfacenti e poco remunerative, momenti di dif- ficoltà personali ecc.. Oltre a ciò, i documenti comunitari ci ricordano con chiarezza un altro importante principio. Se il diritto alla formazione professionale è una funzione del diritto al lavo- ro, esso deve esplicarsi entro politiche pubbliche che riguardano direttamente il mondo della produzione e quindi deve avere una connessione forte con i temi del- l’innovazione e dello sviluppo economico. A mio avviso le più lucide e importanti testimonianze di questo approccio sono state, nella storia delle politiche europee, il libro Bianco di Delors del 1993 e la strategia di Lisbona. Benché il diritto alla for- mazione sia un diritto individuale, esso si declina entro un insieme di misure atte a favorire la crescita economica e l’incremento di produttività delle imprese. Le linee seguite dal disegno di legge sull’apprendimento permanente sono state in parte anticipate e concretizzate nei dispositivi della programmazione Europea per il periodo 2007/2013. Oltre a ciò, è necessario tener conto di quanto sta avvenendo sul terreno dell’attuazione della Riforma del Titolo V della Costituzione, che come è noto delega alle Regioni la competenza esclusiva sui temi del lavoro, della formazione professionale e dell’istruzione, fatti salvi quelli legati alle tutele del lavoro e quelli relativi all’ordinamento generale dell’istruzione. È evidente come la funzione nazionale, relativamente a queste politiche, si vada pro- gressivamente ridisegnando. Del resto, la formazione professionale è di competenza delle Regioni già dal 1978, secondo il dettato della legge 845. In questi 28 anni il Ministero ha svolto prima una funzione provvisoria legata al pas- saggio di consegne, poi, a mano a mano che il sistema veniva riformato e arricchito di nuovi segmenti (apprendistato, formazione per l’obbligo formativo, formazione 101 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA continua, formazione post-secondaria e terziaria ecc.), ha rappresentato il luogo di guida e indirizzo per la sperimentazione e la messa a regime dei dispositivi via via messi a punto. Dobbiamo essere chiari su un punto: questa funzione di indirizzo e di accompagna- mento alle riforme deve considerarsi, in qualche modo, in via d’esaurimento, salvo che non vengano varate profonde innovazioni costituzionali o che, d’altra parte, le Regioni stesse non chiedano allo Stato di intervenire in nome del principio di sussi- diarietà verticale. Allo Stato resta un’importante funzione, chiara fin dal 1978: di costruzione degli snodi di sistema, di quei dispositivi che permettano ad ogni cittadino di poter gode- re del proprio diritto all’orientamento e alla formazione professionali e di far valere la propria qualifica sull’intero territorio nazionale: uno dei compiti del Ministero, con le sue strutture tecniche, è stato ed è quello di conferire intelligibilità al sistema e uni- tarietà a dispositivi pur così diversi - diversi quanto è necessario per adeguarsi a situazioni regionali tanto profondamente eterogenee per storia, cultura, società, eco- nomia. È quindi chiaro su che cosa dovrà incentrarsi l’attività delle istanze centrali nella nuova programmazione 2007-2013 - e come viene disegnata la loro funzione nel Disegno di legge in discussione nel Consiglio dei Ministri. Dovrà ultimare la costru- zione degli snodi di sistema che permettano ai vari sistemi regionali di formazione professionale di funzionare correttamente e di essere mutuamente permeabili. È questa la scelta che è stata fatta, di concerto con le Regioni e con le Parti sociali, per l’asse “capitale umano” del PON del Ministero del Lavoro (ricordo gli altri: occu- pabilità, adattabilità, pari opportunità e non discriminazione, capacità istituzionale, transnazionalità e assistenza tecnica). Vorrei quindi illustrarvi le iniziative che, di concerto con il Ministero della Pubblica Istruzione e con le Regioni, stiamo portando avanti in questo ambito - rispetto al quale so l’uditorio particolarmente sensibile. Prima di tutto, la definizione di un sistema nazionale delle qualifiche. La nostra dire- zione, da anni a dire il vero, sta compiendo un grande sforzo per condurre ad una logica unitaria i sistemi di qualifiche regionali (sapete che la competenza sui sistemi di qualifiche professionali è in capo alle Regioni). Ora questi sforzi sono rafforzati e corroborati dall’adesione dell’Italia al Quadro Europeo delle Qualifiche (European Qualifications Framework), che chiede appunto agli Stati membri, anche in vista di un miglioramento della mobilità formativa e professionale dei cittadini e dei lavora- tori, di uniformare progressivamente le logiche di costruzione dei sistemi nazionali di qualifiche in vista di una loro reciproca traducibilità. Si tratta di salvaguardare le specificità nazionali (nel nostro caso, regionali) senza però precludersi la possibilità di creare sistemi di corrispondenze tra singole unità dei diversi sistemi, grazie all’a- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 102 dozione di una logica comune. È uno sforzo da perseguire seriamente anche in Italia. Dirò poi del Tavolo unico, che è l’esito operativo di queste iniziative. Strettamente legato a quello delle qualifiche è il problema della definizione degli standard minimi di contenuto tecnico-professionale delle stesse qualifiche, da appli- carsi poi ai requisiti di prodotto delle attività di formazione. In altri termini, si devo- no definire in modo univoco i livelli minimi che gli allievi in uscita dei corsi devono raggiungere: in termini di conoscenze, competenze, abilità, esperienze svolte ecc.. Il Ministero del Lavoro, attraverso la Direzione Generale che rappresento, è partico- larmente sensibile a questo problema. Condividiamo la percezione di un ritardo da colmare (anche qui ci sono state resistenze e difficoltà) e ci impegniamo in tal senso. La definizione degli standard si collega direttamente alla costruzione di un sistema di valutazione del prodotto della formazione professionale. Ovviamente, il prodotto delle attività di formazione è costituito dai posti di lavoro conquistati dagli allievi che escono dai corsi. Oltre a questa valutazione di esito, è necessaria anche una valuta- zione di risultato, basata sulla verifica del conseguimento degli standard minimi, da parte degli allievi, al termini dei corsi di formazione professionale e di formazione per l’apprendistato. Questa valutazione sulla base degli standard minimi, oltre a for- nire evidenze sul funzionamento generale del sistema, offre garanzie per l’imple- mentazione della certificazione e, di conseguenza, per la realizzazione effettiva e non penalizzante dell’integrazione orizzontale (le ben note “passerelle”) e verticale (ren- dendo ad esempio possibile il passaggio immediato dalla formazione professionale iniziale all’Istruzione tecnica Superiore e da qui, eventualmente, all’università). Anche su questo fronte ci impegniamo a rafforzare ulteriormente la nostra azione, rafforzando le sinergie tra ISFOL e INVALSI (peraltro già sperimentate con succes- so in varie linee di lavoro: ad esempio, nel caso della definizione dei livelli minimi dell’apprendistato di primo livello). Questo insieme di iniziative, come ricordavo, trovano una cornice di senso nelle ini- ziative europee per la mobilità fisica e professionale: da Europass all’EQF (European Qualifications Framework) al sistema di crediti europei per l’istruzione e la forma- zione professionali (European Credit for Vocational Education and Training - ECVET). L’armonizzazione dei sistemi di qualifiche, la definizione di standard mini- mi, la messa a punto di dispositivi di valutazione: tutti elementi di un disegno uni- tario che è costituito dal sistema di crediti e certificazioni. Da anni si parla di certi- ficazione: l’Unione ha fornito ormai, attraverso l’ECVET (che però è ancora allo stato di proposta di lavoro), un quadro tecnico unitario, attorno al quale costruire le applicazioni nazionali (e regionali!) del sistema. Ribadisco il nostro impegno in que- sto senso. E ribadisco la richiesta di collaborazione a tutti gli altri soggetti istituzio- nali e sociali interessati: le Regioni e gli altri Dicasteri, in prima istanza, le Parti sociali, gli Enti di formazione. 103 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA Collaborazione che, saprete, è divenuta fattiva e operativa attraverso il già ricorda- to tavolo unico sugli standard e le certificazioni, che raccoglie larga parte dei temi che finora ho trattato: standard professionali, standard di competenze e certificazio- ne. D’intesa con le Regioni e con il Ministero della Pubblica Istruzione, stiamo met- tendo a punto la metodologia per la definizione di quadri concettuali e operativi nazionali. Il lavoro è a buon punto, i Ministeri e le Regioni hanno mostrato impegno e determinazione: è nostro intendimento chiudere i lavori del tavolo con risultati finalmente compiuti. Ancora: il perfezionamento della definizione di standard di servizio. L’accredi- tamento delle sedi formative è ormai un processo compiuto. Restano aperti proble- mi e ulteriori esigenze su cui si sta pensando di porre rimedio. È in corso un inten- so lavoro ed è attivo un Tavolo specifico con le Regioni e le Parti sociali su questa materia. Ovviamente, nuovi parametri andranno definiti in relazione all’attuazione di un sistema stabile e organico di offerta di formazione professionale per l’assolvi- mento del nuovo obbligo d’istruzione. In particolare, mi pare che l’indicazione che se ne deve trarre, per una revisione dei meccanismi di accreditamento anche alla luce del Titolo V riformato della Costituzione, sia quella del riferimento ai soggetti ero- gatori, non più alle sedi operative. Si darebbe così maggiore enfasi ad elementi lega- ti al progetto educativo e formativo e alla capacità pedagogica, didattica e formati- va, togliendo quindi esclusività a considerazioni legate alla logistica - come in talu- ni casi è avvenuto. Vorrei ribadire l’auspicio, peraltro sempre più vicino a concretiz- zarsi, che quanto fatto finora possa essere riutilizzato e tenuto in debita considera- zione nel momento in cui verranno definiti i dispositivi dell’accreditamento dei sog- getti abilitati a svolgere attività per l’assolvimento dell’obbligo d’istruzione. Un elemento chiave di questo processo di ridefinizione (ma del resto essenziale per tutti i segmenti della formazione professionale, dall’apprendistato alla formazione continua, alla formazione tecnica superiore ecc.) è costituito dalla riqualificazione e valorizzazione del personale della formazione professionale. Si tratta, anche qui con la collaborazione delle Regioni, di pensare e attuare il miglioramento dei livelli di offerta attraverso la definizione di standard di competenze dei docenti e degli altri professionisti attivi nella formazione professionale, a partire dalla ricostruzione ana- litica dei processi fino a definire quadri e sistemi di conoscenze/competenze stan- dard. Gli standard dovranno costituire da un lato l’occasione per valutare e valoriz- zare le conoscenze e competenze in vario modo acquisite da docenti e professionisti; dall’altro, la base per rilanciare programmi di formazione dei formatori, sui quali la mia direzione intende impegnarsi. Fra queste, vi sono quelle relative al Sistema Permanente di Formazione On Line e alla sperimentazione di una laurea triennale per operatori della formazione professionale, che vanno nella direzione di un raffor- zamento delle competenze dei professionisti che operano in questo settore. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 104 È su questi terreni che ci siamo impegnati attraverso la nuova programmazione delle politiche di coesione 2007/2013, per portare a termine il disegno del sistema e per- mettere alle Regioni di definire e attuare le proprie politiche nelle migliori condizioni. Il tavolo unico sugli standard e sulle certificazioni, che ho promosso e che sta proce- dendo nei suoi lavori, costituisce un momento di partecipazione indispensabile per realizzare questo obiettivo. Vi partecipano le Regioni, gli altri Ministeri interessati, le Parti sociali. Dopo anni di difficoltà di comunicazione tra Stato e Regioni, in cui peraltro siamo riusciti a definire comunque protocolli comuni su temi specifici (apprendistato, diritto-dovere ecc.), è ora il momento di superare le esitazione e con- durre a termine quella costruzione di un sistema di servizi per il lavoro e la forma- zione che renda concreti i diritti costituzionali. Sono sicura di trovare in voi sostegno e collaborazione in questa impresa. Credo che la costruzione di un sistema nazionale di formazione professionale, atten- to alle specificità locali ma capace di garantire a tutti, ovunque e in ogni momento la possibilità di veder valorizzate le proprie competenze e di potersene formare altre attraverso servizi formativi appositi, soprattutto nel momento del bisogno, sia il con- tributo che le politiche della formazione possono dare alla costruzione di una citta- dinanza europea attiva. 105 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA 4.3 - Intervento tavola rotonda1 Marina Rozera Direttore Agenzia Nazionale LLP - Programma settoriale Leonardo da Vinci - ISFOL Grazie per l’invito. Inizio con una citazione: uno scrittore italiano, Ennio Flaiano, poco conosciuto, nel 1960 affermò “siamo in un’epoca di transizione, come sempre d’altronde”. Da allora abbiamo però fatto molti passi avanti per definire significati- vi tasselli di riferimento. In particolare, grazie alla dott.ssa Vera Marincioni e a quanti altri hanno collabora- to, oggi è disponibile per l’Italia il disegno di legge sull’apprendimento permanente, un tassello importante. Questo risultato costituisce un punto d’arrivo significativo per l’Italia ed è dovuto al lavoro fatto a livello comunitario, dove è possibile dibat- tere le problematiche con meno vincoli di quanti non ne abbiano gli Stati membri. Tutti gli atti che sono stati emanati dalla Commissione europea nel corso degli anni 2005/2006, ed anche negli anni 2003/2004, hanno una caratteristica comune, discussa in tutte le sedi europee nelle quali si è parlato di formazione, di istruzione e di formazione superiore, ossia: le nuove politiche non avrebbero mai potuto pre- scindere dal considerare l’individuo come centrale. Verificando questa affermazione, nei documenti citati, lo spazio maggiore è stato dato prioritariamente ai cittadini perché si è ritenuto che sui sistemi ci fosse stato già un consistente investimento. Sui sistemi, tuttavia, occorre sempre lavorare ed Europass ed EQF (European Qualifications Framework) sono destinati anche ai sistemi. L’interesse è sul cittadi- no, sul singolo, per la necessità di consentire proprio al cittadino di esercitare il suo diritto di cittadinanza attiva in tutte le fasi della vita e in tutte le transizioni, soprat- tutto in quelle sgradevoli. L’approfondimento del concetto e dei diritti di cittadinan- za porta, come già rilevato da Vera Marincioni, all’approfondimento della centralità del lavoro quale strumento per una vita più soddisfacente, prospettiva che porta al superamento dell’enfasi posta sul fatto che si debba studiare fino all’ultimo minuto prima dell’ingresso al lavoro. Il tema della tavola rotonda mi suggerisce di sottolineare alcuni passi importanti rea- lizzati in prospettiva operativa. Per chiunque di voi che si propone di partecipare ai programmi dei prossimi anni, è importante sapere che esiste un documento della ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 106 1 Testo non rivisto dall’autore. Commissione europea che fissa, per gli Stati membri, gli obiettivi in termini di istru- zione e formazione. Il documento dice tra l’altro che l’ambito nel quale occorre mag- giormente progettare, investire e lavorare è l’educazione degli adulti in tutti i suoi aspetti: formazione professionale in senso stretto, educazione generale, recupero delle competenze di base. A questo obiettivo l’Italia deve dedicare maggiore impe- gno. Deve essere dunque questo il polo che guida la vostra progettazione nel prossi- mo futuro; questo è anche l’obiettivo su cui puntano le Istituzioni. I programmi operativi che vedono adesso la loro approvazione e gli altri strumenti normativi tengono in conto questo obiettivo. Vi ricordo la comunicazione sull’apprendimento permanente: rispetto agli indirizzi dati dalla Commissione Europea, a cascata gli Stati membri si sono dati le linee di partecipazione ai nuovi programmi comunitari ed hanno sollecitato nuove modalità di azione. Ad oggi dunque, esiste il programma sull’apprendimento permanente, Lifelong Learning Programme, che è il cardine dell’intera azione e guiderà tutti gli interventi in termini di formazione, istruzione, istruzione superiore, formazione professionale, per i prossimi sei anni. Accanto a questo programma si è mantenuto il programma Gioventù particolarmente interessante per le iniziative e gli scambi giovanili. È oppor- tuno che i giovani ne vengano a conoscenza e vi partecipino. Nel contesto del pro- gramma è compreso tutto il campo del volontariato civile. Si offrono ai giovani occa- sioni importanti per la loro educazione e formazione. A completamento c’è lo stru- mento Europass, che serve proprio per dare evidenza alle competenze che i cittadini europei acquisiscono sia nelle azioni di mobilità sia nelle azioni di formazione. Oltre ai programmi specifici esiste una strumentazione a disposizione dei cittadini che si sostanzia in alcune reti di servizio: ad esempio la rete Euroguidance, che è all’interno del programma di apprendimento permanente e collega tutti i centri di risorsa per l’orientamento, strutture nazionali a disposizione del grande pubblico in particolare insegnanti e giovani, per dare informazioni sulla mobilità. Il panorama degli impegni che devono essere considerati, e che l’Unione europea insieme agli Stati membri pone sul campo, è veramente vasto. In questo momento è richiesto il vostro intervento su due aspetti specifici, uno dei quali è la partecipazio- ne alla nuova modalità di consultazione sull’internazionalizzazione della scuola, della quale vi parlerà la dott.ssa Elena Maddalena; l’altro riguarda il piano d’azione per la formazione degli adulti, su cui pure è stata fatta una consultazione appena conclusa, che avvierà il suo corso e su cui prossimamente verrà prodotta la docu- mentazione necessaria. Quest’ultima informazione mi dà l’opportunità di un richiamo proprio sulla moda- lità delle consultazioni aperte definite dalla Commissione. Il sito dell’Unione europea lancia una serie di iniziative di consultazione aperte a tutti, alla cittadinanza, che 107 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA servono poi da guida per la produzione normativa e che sono particolarmente inte- ressanti perché ognuno può esprimere la propria opinione e verificare le opinioni che sono state espresse dagli altri. Questo significa un ampliamento non solo delle infor- mazioni ma anche la diffusione delle competenze. In sintesi, l’obiettivo generale del programma per l’apprendimento permanente è quello di contribuire allo sviluppo della comunità quale società avanzata basata sulla conoscenza, raccogliendo in un programma unitario i programmi preesistenti, orien- tando verso obiettivi comuni e azioni convergenti, mantenendo però delle specificità che sono relative ai vari segmenti dei percorsi formativi. Sono raccolti all’interno del programma citato Comenius per l’istruzione iniziale; Erasmus per l’istruzione superiore, che contiene la parte di tirocini formativi in impresa precedentemente nel programma Leonardo; lo stesso programma Leonardo da Vinci limitato agli obiettivi sulla formazione professionale, iniziale e di secondo livello; Grundtvig dedicato all’educazione degli adulti. Una parte particolarmente significativa del programma con caratteristiche di tra- sversalità è destinata alla diffusione ed alla valorizzazione dei risultati delle iniziati- ve, alla implementazione delle competenze della cittadinanza attiva, alla sperimen- tazione ed elaborazione metodologica delle tecnologie informatiche, alla formazione linguistica che in termini di cittadinanza attiva è un punto cardine. In rapporto all’apprendimento delle lingue, l’Unione ha fatto molta pressione sugli Stati membri perché l’insegnamento delle lingue straniere fosse diffuso in età molto giovane. Questo consente un apprendimento precoce dato che i piccoli apprendono più facil- mente ed implementano meglio gli apprendimenti successivi. Inoltre, in una società che deve confrontarsi comunque, anche l’apprendimento delle lingue minori deve essere tutelato e incrementato. Solo così si difende anche l’identità culturale di tutti quei cittadini le cui lingue sono meno utilizzate e praticate. Non possiamo dimen- ticare Jean Monet, azione dedicata esclusivamente all’università. In sintesi nel programma sono raccolti molti obiettivi mirati ai vari aspetti del per- corso di sviluppo formativo degli individui. L’unitarietà del programma è sottolineata e sostenuta dall’unitarietà della sua gestio- ne. In tutti i Paesi sono state istituite apposite procedure amministrative. L’Italia lo ha fatto rafforzando i raccordi tra i Ministeri che sono interessati al programma. Esiste pertanto un gruppo stabile di coordinamento del Ministero del Lavoro col Ministero dell’Università e con il Ministero dell’Istruzione; esiste inoltre una Agenzia nazionale unica che accoglie al suo interno due componenti, l’ISFOL e l’Agenzia della scuola ex Indire, che collaborano ed hanno strutturato comuni programmi di lavoro. Per avere le informazioni sul programma dell’apprendimento permanente e sui bandi che stanno partendo, è necessario rivolgersi alle agenzie nei tempi, nei modi, ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 108 nelle forme in cui questo è indicato. Per prepararsi a progettare nel contesto degli obiettivi di ciascuna delle iniziative presentate, oltre ad avere individuato specifici contenuti, occorre avere ben presen- te la pluralità degli strumenti finanziari rispetto ai quali strutturare delle progetta- zioni specifiche. Sia nel delineare gli strumenti che riguardano i fondi strutturali che nello scrivere i programmi operativi, si è tenuto conto della necessità di creare per- corsi virtuosi mirati. È quindi assolutamente necessario strutturare una progettazio- ne coerente sia in rapporto alle tematiche ed agli obiettivi prescelti per la realizza- zione di un progetto, sia in rapporto agli strumenti finanziari previsti. 109 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA 4.4 - Intervento tavola rotonda Elena Maddalena Collaboratore tecnico Ufficio Comunicazione Agenzia Nazionale per il LifeLong Learning Programme di Firenze Desidero innanzitutto ringraziare il CIOFS-FP per l’invito rivolto all’Agenzia scuola e, nello specifico, l’agenzia di Firenze che gestisce il Programma di apprendimento permanente per quanto riguarda Comenius, Grundtvig, Erasmus e una parte del Programma trasversale, per quanto riguarda le visite di studio dei decisori politici in materia di istruzione. Inizio il mio intervento con un proverbio ebraico che dice: “Non limitare ai tuoi figli quello che tu stesso ha imparato, perché loro sono nati in un’altra epoca”. È abba- stanza semplice, ma anche piuttosto profondo, ed è l’idea che sta alla base dell’ulti- mo documento di lavoro che la Commissione europea ha pubblicato, dal titolo “Le scuole per il XXI secolo”, che mette la scuola e quindi, anche l’individuo al centro del dibattito europeo. Un individuo che inizia a sentirsi cittadino attivo al momento del suo ingresso a scuola. La particolarità di questo documento di lavoro, che è stato inviato a tutti i soggetti che si occupano di istruzione negli Stati membri, è quello di essere una consultazio- ne pubblica. L’aver aperto la discussione a tutti i soggetti del mondo scolastico, quin- di insegnanti, studenti, dirigenti scolastici e anche i genitori stessi, con una serie di domande specifiche su che tipo di scuola desiderano, è un elemento nuovo che susci- ta interesse. Rappresenta il passaggio dal monologo al dialogo e si pone in linea con il Libro bianco su una politica europea di comunicazione basata sul dialogo, che la Commissione europea ha pubblicato lo scorso anno. C’è l’esigenza di ricevere feed- back tramite informazioni di prima mano da chi vive tutti i giorni gli ambienti sco- lastici per poter migliorare il mondo della scuola. L’altra caratteristica fondamentale di questo documento è aver messo proprio la scuola al centro del dibattito politico per quanto riguarda tutte le sfide poste dalla strategia di Lisbona, come quella accennata da Marina Rozera, che pone l’Europa come società avanzata basata sulla conoscenza. In che modo la scuola può diventa- re un’interprete di tutte le sfide legate alle esigenze di crescita, di miglioramento delle competenze chiave di ogni individuo, di sostenibilità? Come può la scuola essere un’interprete di questo processo? Sono otto le domande chiave della Commissione, non vincolanti nel senso che non si ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 110 è obbligati a rispondere a tutti i quesiti. È interessante vedere come sono stati strut- turati. Il primo quesito è legato alle competenze cruciali. Come è noto, è stato pubblicato un quadro di riferimento delle competenze chiave. Sono otto competenze chiave e comprendono le competenze di base, quindi saper leggere, saper esprimersi in maniera scritta, conoscere la lingua straniera e la matematica, affiancate da quelle che in gergo vengono chiamate le competenze trasversali, cioè sapersi muovere all’interno della società, avere competenze culturali, essere imprenditori di se stessi, saper risolvere i problemi, fondamentali in una società in continua evoluzione. Ma, al contempo, la presenza delle competenze trasversali pone degli interrogativi all’in- terno della scuola, perché i curricula scolastici, che invece sono strutturati in base allo studio di materie ben precise, devono essere, in qualche modo, ristrutturati e rivisti alla luce di queste nuove esigenze. La domanda è: “Come organizzare le scuo- le in modo che possano fornire agli studenti la serie completa delle competenze di base?” La richiesta è di una maggiore elasticità e agli insegnanti nello specifico è richiesto di aggiornare le proprie conoscenze alla luce delle nuove esigenze che la società pone. Il secondo quesito è legato all’apprendimento permanente. In questo senso la Commissione si è mossa istituendo il nuovo programma per l’apprendimento per- manente partito a gennaio 2007, che Marina Rozera ha già illustrato. Da parte della Commissione, quindi, c’è la disponibilità ad investire con programmi specifici che possano permettere al cittadino di entrare in un percorso di apprendimento che lo accompagna lungo tutto l’arco della vita. Naturalmente l’invito alle scuole è di par- tecipare e di motivare gli alunni e gli studenti a crescere in quest’ottica. Molto legato al tema dell’apprendimento permanente, e quindi della crescita lungo tutto l’arco della vita, è anche il concetto della crescita, con particolare riferimento alla crescita sostenibile. All’interno delle scuole, quindi, cresce l’esigenza di dotare gli insegnanti e gli studenti di strumenti utili per quanto riguarda un contributo ad una crescita economica sostenibile a lungo termine in Europa. Ritengo che questo quesi- to sia tra quelli più ambiziosi della consultazione pubblica. Proseguendo, fra le sfide che la Commissione pone e quindi, le domande aperte che fa, abbiamo un quesito strettamente legato al contesto sociale in cui opera la scuo- la. E quindi la domanda diretta è: “Come possono i sistemi scolastici soddisfare in modo ottimale le necessità di fornire equità, tenendo conto della diversità culturale e di ridurre l’abbandono scolastico?”. Com’è noto, la Commissione fissa dei para- metri e chiede, nell’ambito della strategia di Lisbona, di ridurre il numero di perso- ne che abbandonano prematuramente gli studi e quindi chiede delle indicazioni su come ridurre la percentuale di studenti che abbandonano prematuramente gli studi, proprio per riuscire ad assorbire questo dato il più possibile e mirare al successo e al 111 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA benessere della società, ma anche dell’individuo stesso che, laddove abbandona pre- maturamente gli studi, ha possibilità molto ridotte di trovare un posto di lavoro; questo perché sempre più il livello richiesto e la specificità richiesta dal mercato del lavoro non coincidono con il livello raggiunto da chi abbandona prematuramente gli studi. Ci sono poi altri quesiti che mirano ad avere informazioni su come rendere la scuo- la un luogo per tutti. Le scuole europee si trovano a gestire situazioni, combattere il razzismo e diffondere la tolleranza sono all’ordine del giorno; quindi vanno creati dei percorsi in cui non solo vengono insegnate le materie, ma viene promossa l’inclusio- ne sociale, la tolleranza, la promozione delle pari opportunità. E quindi, creare una scuola che sia veramente per tutti. Molto legato al concetto della scuola per tutti è anche l’aspetto della cittadinan- za attiva. Mi ricollego qui al tema generale del seminario, la creazione di un cit- tadino europeo che si muove all’interno delle istituzioni, e in questo caso della comunità scolastica, come un cittadino responsabile, in armonia con i valori fon- damentali. Gli ultimi due quesiti sono legati strettamente alla condizione di insegnante all’in- terno della scuola e alla comunità scolastica in senso allargato. È molto interessante che la Commissione europea in maniera del tutto pragmatica sia andata a studiare la condizione lavorativa degli insegnanti all’interno dell’ambiente scolastico. Il qua- dro non è molto rassicurante perché sono venuti fuori ben 37 motivi che causano stress agli insegnanti che lavorano a scuola. È molto positivo che se ne siano accor- ti anche a livello europeo, visto quanto sia impegnativo e difficile per un insegnante lavorare a scuola. Quindi, la Commissione chiede allo stesso personale scolastico che tipo di sostegno sia necessario per affrontare i problemi che si presentano all’interno dell’ambiente scolastico e dell’ambiente lavorativo scolastico. Infine, un cenno anche alla comunità scolastica. Affinché una scuola possa essere un luogo di benessere e non soltanto un luogo di studio, è fondamentale che tutte le componenti, i genitori, gli studenti, i dirigenti scolastici, il personale amministrativo e gli insegnanti, possano avere una guida, una motivazione che li aiuti a percorrere una via soddisfacente per loro ma anche per la crescita della società. Quindi, la domanda riguarda in questo caso come fare a creare questa guida, quali indicazioni si possono avere in questo senso, come si possono acquisire quelle facoltà per evol- vere e per poter affrontare i cambiamenti che avvengono anche a livello di esigenze e di domande. Come si evince da questa panoramica, questi quesiti sono molto ambiziosi, ma è sicuramente da sottolineare per una volta il sano pragmatismo da parte della buro- crazia europea, che si è accorta che la scuola non può assolutamente rimanere immo- bile, se deve costruire le basi per l’apprendimento permanente, che fondano l’indi- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 112 viduo europeo. Quindi chiede, quanto più possibile, risposte che possono essere inviate anche sotto forma di risposte on line. Il documento “Le scuole per il XXI secolo” è già pubblicato da circa un mese e mezzo ed è scaricabile dal sito della commissione: http://ec.europa.eu/education/school21/ consultdoc_it.pdf. Sul sito della Commissione è possibile anche verificare il progressi nell’ambito comu- nicativo e i riferimenti al quadro europeo sulle competenze di base. Vi auguro buon lavoro e vi ringrazio per l’attenzione. 113 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 114 4.5 - Intervento tavola rotonda Alessandra Russo Dirigente Generale Dipartimento Formazione Professionale – Regione Siciliana Secondo la testuale dizione del Trattato di Nizza (art. 17 del Trattato che istituisce la Ce): “È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato mem- bro. La cittadinanza dell’Unione costituisce un complemento della cittadinanza nazionale e non sostituisce quest’ultima”. L’introduzione del concetto di cittadinan- za europea, avvenuto in modo esplicito con il Trattato di Maastricht (1992), mira a rafforzare e a promuovere l’identità europea, coinvolgendo sempre più i cittadini nel processo di integrazione comunitaria. Il trattato sull’Unione europea firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ha fissato tra gli obiettivi dell’Unione di “rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadi- ni dei suoi Stati Membri mediante l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione”: è cit- tadino europeo dunque chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. Attraverso la realizzazione del mercato unico, i cittadini godono di una serie di dirit- ti di carattere generale in diversi settori, quali quello della libera circolazione dei beni e dei servizi, della tutela del consumatore e della sanità pubblica, della parità di opportunità e di trattamento, dell’accesso all’occupazione ed alla previdenza sociale. La cittadinanza dell’Unione europea comporta tuttavia una serie di norme e diritti ben definiti, che si possono raggruppare in sei categorie: 1. la libertà di circolazione e di soggiorno su tutto il territorio dell’Unione; 2. il diritto di votare e di essere eletto nelle elezioni comunali e in quelle del Parlamento europeo nello Stato membro di residenza; 3. la tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato mem- bro in un Paese terzo nel quale lo Stato di cui la persona in causa ha la cittadi- nanza non è rappresentato; 4. il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo e ricorsi al Mediatore europeo; 5. il diritto di potersi rivolgere alle istituzioni e organi comunitari in una qualsiasi delle lingue dell’Unione (all’art. 314) e ricevere una risposta nella stessa lingua; 6. il diritto di accedere ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, a determinate condizioni. È opportuno inoltre ricordare: • il principio della non discriminazione in base alla nazionalità fra cittadini dell’Unione e quello della non discriminazione in base al sesso, alla razza, alla reli- 115 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA gione, agli handicap, all’età o alle tendenze sessuali; • il pari accesso alla funzione pubblica comunitaria. Il Trattato ha previsto, inoltre, la possibilità di un’evoluzione di tali diritti nel senso della loro estensione e del loro rafforzamento. L’istituzione della cittadinanza europea rappresenta evidentemente un’importante innovazione: una condizione giuridica che è nata e si è sviluppata parallelamente all’affermazione dello Stato moderno, identificando l’appartenenza ad un territorio, ad una comunità e ad una cultura definite da confini nazionali, viene per la prima volta riferita ad un’entità di tipo sovranazionale. Il concetto di cittadinanza infatti sta subendo una graduale rivisitazione alla luce dell’emergere di arene decisionali e di potere diverse da quelle strettamente nazio- nali e di problemi “globali” che poco si conciliano con il tradizionale sentimento di appartenenza ad una comunità politica giuridicamente e geograficamente circoscrit- ta: il risultato è un indebolimento del vincolo di identità che ha legato lo Stato all’in- dividuo sin dai tempi in cui l’organo statuale era effettivamente il riferimento reale di ogni comune cittadino. La corrispondenza tra cittadinanza e nazionalità quindi è sempre più labile e la cit- tadinanza europea costituisce il seme del superamento di questo connubio: diritti che in passato venivano accordati in base al criterio dell’appartenenza ad uno Stato nazionale, oggi sono invece legati alla residenza. La ragione di questa evoluzione è anche da collegarsi al diverso significato che i due termini “nazionalità” e “cittadinanza” ricoprono, sebbene siano spesso erroneamen- te considerati sinonimi: la prima identifica una posizione passiva rispetto all’ordina- mento statuale, la cui utilità consiste nel distinguere un membro dello stato da uno straniero, la seconda è invece un “fattore di coesione sociale”, che implica una par- tecipazione consapevole alla vita politica e l’adesione ad una comunità d’intenti quale è, nel nostro caso, l’esperienza europea. Così come è stata delineata a Maastricht tuttavia la cittadinanza europea, pur costi- tuendo un’innovazione dal punto di vista giuridico-politico, crea una discriminazio- ne ancora più forte tra europei e cittadini di paesi terzi, i quali, risiedendo anche da molti anni in uno Stato Membro, non solo godono di meno diritti rispetto ad un cit- tadino di quello Stato, ma sono, in quanto stranieri, nettamente svantaggiati anche rispetto ad un qualsiasi altro cittadino dell’Unione che si trovi a risiedere entro quei confini anche da un periodo di tempo nettamente minore. Questa contraddizione è emersa nel corso degli anni successivi al Trattato istitutivo dell’Unione europea, tanto che a Tampere nel 1999 il Consiglio europeo ha inteso “ravvicinare lo status giuridico degli individui originari di paesi terzi a quello degli Stati Membri mediante l’attribuzione di diritti quanto più possibile simili a quelli di cui godono i cittadini dell’UE”. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 116 Tuttavia lo “status di soggiornante di lungo periodo” istituito dalla Direttiva 109/2003 del Consiglio, pur garantendo, tra gli altri, il diritto alla residenza, all’i- struzione, al lavoro autonomo o subordinato e alla non discriminazione rispetto ai cittadini dello Stato ospitante, si concretizza spesso in un titolo di soggiorno perma- nente o di validità illimitata o in un permesso di stabilimento, segnando in ogni caso una netta distinzione con chi possiede la cittadinanza. In particolare il diritto eletto- rale attivo e passivo per le elezioni municipali ed europee è riservato esclusivamen- te ai cittadini dell’Ue. C’è quindi da chiedersi per quale motivo la residenza di lungo periodo in un paese europeo da parte di uno straniero, la sua conoscenza della lingua, la sua integrazione sociale e culturale non debbano costituire un beneficio per la “famiglia europea”, arricchita da contributi tanto diversi e tanto importanti, al punto da concedere la par- tecipazione alle decisioni politiche, vale a dire il nucleo del concetto di cittadinanza. Nel testo della proposta della Direttiva sopracitata (elaborata nel 2001) si legge come la Commissione abbia approvato l’obiettivo di offrire ai cittadini di paesi terzi che soggiornano regolarmente e stabilmente nell’Unione l’opportunità di ottenere la cittadinanza dello Stato membro in cui risiedono e di conseguenza la cittadinanza europea. Questa apertura non è stata accolta nel testo finale della Direttiva mostran- do ancora una volta come non sia ancora comunemente accettata l’idea dell’adozio- ne della residenza quale criterio di attribuzione della cittadinanza allo stesso titolo della nazionalità. Da parte dei cittadini di paesi terzi che diventino cittadini europei l’impegno richie- sto dovrebbe essere l’adesione a dei principi e ad un’identità in costruzione fondata sulla partecipazione attiva alla vita politica, sociale e culturale del continente euro- peo e sulla presa di coscienza di un futuro comune cui tutti possono contribuire. A tutt’oggi i cittadini possono incontrare difficoltà nell’esercitare alcuni diritti lega- ti alla cittadinanza europea, soprattutto a causa di pratiche amministrative nazionali scorrette o particolarmente rigide. In una serie di relazioni periodiche curate dalla Commissione europea si effettua il bilancio dell’applicazione concreta dei diritti con- feriti dalla cittadinanza europea e si passano in rassegna gli strumenti più adatti per trasformare questi diritti in una realtà quotidiana, piena ed effettiva, per il maggior numero di cittadini dell’Ue. In questo quadro l’Unione ha provveduto ad intrapren- dere ed attuare varie azioni legislative e non. Una evoluzione significativa in settori strettamente connessi alla cittadinanza si deve registrare con la proclamazione della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” avvenuta al Consiglio europeo di Nizza nel dicembre 2000. Con il progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, elabo- rato dalla Convenzione europea e ora al vaglio della Conferenza intergovernati- va, si preannuncia un altro importante passo in avanti nell’ambito della pienez- 117 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA za del riconoscimento di una specifica cittadinanza europea. In particolare attra- verso la prevista “costituzionalizzazione” della suddetta Carta di Nizza e l’inse- rimento di un innovativo titolo dedicato alla “Vita democratica dell’Unione”. Alcuni diritti legati alla cittadinanza della Comunità esistevano anche in preceden- za, come il diritto di spostarsi e di stabilirsi liberamente sul territorio degli Stati membri o il diritto di accesso agli impieghi del settore pubblico purché non si trat- tasse di esercitare un’autorità pubblica. Con il titolo “La cittadinanza dell’Unione”, collocato proprio all’inizio del testo, il trattato di Maastricht si spinge ben oltre, riconoscendo il diritto di voto attivo e pas- sivo alle elezioni europee e comunali, e il diritto alla tutela diplomatica e consolare nei paesi terzi, in virtù della quale qualsiasi cittadino dell’Ue può beneficiare della stessa assistenza sia da parte dei rappresentanti di altri Stati membri che dei diplo- matici del proprio paese. Infine, il trattato di Maastricht introduce il diritto di peti- zione e istituisce la figura del Mediatore europeo. Il progetto di Costituzione riprende tutti i suddetti diritti acquisiti e li arricchisce ulteriormente, in particolare inserendo nel Trattato la Carta dei diritti fondamenta- li - tra cui il diritto alla buona amministrazione - e proclamando, sin dall’articolo 1, che l’Unione è “ispirata dalla volontà dei cittadini e degli Stati d’Europa di costrui- re un futuro comune”. Tale principio della doppia legittimità, quella dei cittadini e quella degli Stati, su cui riposa l’Unione, è testimone della sua progressiva trasformazione. La cittadinanza europea è qualcosa che si aggiunge, non toglie. Perché si è cittadini del proprio paese ma si è già cittadini della propria città, del proprio luogo di vita, e si è inseriti perciò in una comunità politica, che si allarga a diverse sfere. La cittadi- nanza europea significa oggi essere parte di un processo di unificazione che non rin- nega le diverse identità, invece le valorizza trovando una sintesi più elevata, una sin- tesi che speriamo sia anche sintesi politica, nel senso nobile della parola. Cittadino europeo è cittadino in quanto ha direttamente dei diritti nell’Unione europea, perciò non è mediato in questo dagli Stati. L’unione infatti non è solamente un’unione di Stati, ma un’unione di popoli e cittadinanza europea è anche un modo di presentar- si in altre situazioni. In un’epoca dove i giovani disertano gli uffici elettorali e la vita pubblica e politica, è urgente porsi la questione dell’educazione alla cittadinanza democratica - un inve- stimento a lungo termine per la promozione dei diritti umani, della tolleranza e del pluralismo culturale. Nel 2002, una raccomandazione del Comitato dei Ministri fissa linee guida, metodi e obiettivi delle riforme e delle politiche che gli stati devono adottare allo scopo di formare dei cittadini capaci di sostenere già da domani il progetto democratico europeo. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 118 La cittadinanza europea non si definisce né come un fatto né come un diritto: essa è e non potrà essere che un risultato in progressivo divenire di una pratica sociale e relazionale tra individui. Si tratta di approfondire e valorizzare il confronto tra reci- proche differenze. Oggi la società europea si trova a dover reinventare se stessa cambiando pagina, col disegnare la propria fisionomia e il proprio ruolo in un mondo strutturalmente plu- rale, che però assiste a molteplici e inconciliabili pretese di egemonia. Conviene tenersi ben saldi sul terreno concreto e contraddittorio dei processi che implicano, giorno per giorno, la dignità della persona, la lotta contro l’esclusione e le discrimi- nazioni di genere o di etnia o di gruppi sociali, l’apertura al mondo plurale, la citta- dinanza ambientale. L’Europa può compiersi e restare competitiva culturalmente ed economicamente a livello mondiale solo attraverso un rinnovato processo di educazione e formazione, e una nuova alleanza tra impresa, scuola e società. La “società dell'informazione” va completata e arricchita, o trasformata in una “società dell’apprendimento”. La necessità di una formazione culturale o di base di tipo nuovo riguarda tutti i cit- tadini, indipendentemente dal rispettivo grado di istruzione o di qualifica professio- nale; essa deve infatti permettere l’integrazione delle nuove conoscenze e dei proce- dimenti tecnologici indotti dalla rivoluzione elettronica, in una “cultura generale” ricca di un legame profondo tra saperi e linguaggi tradizionali e innovativi. Ma quel- la “necessità” implica anche una formazione che riguardi tutte le età della vita - una formazione “continua” quindi - capace di produrre un’ “attitudine all’impiego” ade- guata alla flessibilità e mutevolezza delle forme e dei contenuti del lavoro, che hanno trasformato l’anima e il corpo del lavoratore, la sua disposizione intellettuale e mora- le come la concreta erogazione di energia psicofisica. Una colorita espressione in voga da tre decenni qualifica e bolla come un “parcheg- gio” la permanenza dei giovani nelle strutture scolastiche dovuta unicamente all’as- senza di prospettive occupazionali. L’istruzione non può soggiacere ai meccanismi di formazione e di gestione del merca- to del lavoro, ma nemmeno restare estranea alle loro trasformazioni. I giovani restano a lungo nella scuola proprio a causa delle incertezze relative alla loro futura colloca- zione nel mondo del lavoro. Le imprese, non potendo scegliere tra i giovani quelli che sono preparati alle funzioni che dovranno svolgere, si sono adattate a scegliere sulla base delle “capacità intellettuali” certificate dalla scuola, riservandosi di fornire poi il necessario supplemento di formazione. Accade così che l’unico obiettivo concreto che lo studente può darsi è quello di essere “tra i primi”, poiché è fra di esse che verrà effet- tuata la scelta. La scuola deve riconquistare, in armonia con il mercato, la sua funzio- ne educatrice ma anche di orientamento e preparazione alla vita professionale. 119 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA L’istruzione dovrebbe andare oltre il puro ambito scolastico per riuscire a produrre un “conoscere” insieme più critico e più vicino al “fare” e una cultura propugnatri- ce di occupazione e professionalità. Contro la disoccupazione endemica e dilagante si è proposto da tempo una “terza via” - quella educativo-formativa - capace di superare i limiti di quella puramente economicistica e di quella assistenziale: ne risulta la necessità di affiancare alle strut- ture scolastiche tradizionali e nazionali, un itinerario “immediatamente” europeo dell’ “insegnare e imparare”, più vicino alle esigenze e ai bisogni del mondo del lavo- ro, che corra parallelamente anche se in modo non alternativo rispetto alle istituzio- ni che rilasciano un titolo legale o, comunque, un regolare diploma. La mente corre forse qui immediatamente alla cattiva tradizione delle scuole di avviamento professionale, quale binario secondario dell’istruzione pubblica, defini- tivamente sepolto dalla riforma della scuola media del 1963 prima e dalla riforma Moratti dopo. La formazione lungo tutto il corso della vita appare non come una semplice appen- dice al processo educativo vero e proprio, ma come un obiettivo che, se perseguito in tutta la sua estensione, spinge e costringe a ripensare modalità e contenuti specifici delle istituzioni preposte all’istruzione, da quella primaria a quella superiore e uni- versitaria. I giovani non si sentono propriamente europei: si sentono piuttosto italiani e abitan- ti del global village, francesi e cittadini globali, britannici naturalmente o tedeschi e cittadini globali. Questo pone un problema molto serio: l’Europa è una identità ancora molto labile e umbratile e forse anche poco interessante per i giovani. Questo dipende dalla sottovalutazione nei vari luoghi di formazione, dalla scuola all’univer- sità, della attuale fase del mondo globalizzato: una fase in cui le nostre identità nazionali, anche se rilevanti, andrebbero in secondo piano. Noi ad esempio ci illu- diamo di poter essere italiani e potere, come dire, sfidare il mondo senza passare per l’Europa. Questo è impossibile, è una pia illusione. La possibilità di vivere, studiare e lavorare in altri paesi offerte dall’Ue ai suoi citta- dini è un contributo essenziale alla comprensione delle altre culture, allo sviluppo personale e alla piena realizzazione delle potenzialità economiche dell’Ue. Non si può disconoscere il ruolo centrale che l’istruzione superiore e la formazione professionale svolgono nell’agenda dell’Ue per la crescita e l’occupazione, nonché la loro fondamentale dimensione sociale. L’istruzione e la formazione possono miglio- rare la comprensione dei valori della solidarietà, delle pari opportunità e della par- tecipazione sociale. Istruzione, formazione e apprendimento permanente sono fattori essenziali di un’e- conomia dinamica, basata sulla conoscenza, poiché consentono di accedere ai posti di lavoro di qualità e di partecipare attivamente alla società. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 120 Lisbona 2000 pone come obiettivo: “Diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economi- ca sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Con due sotto-obiettivi: • promozione di una cittadinanza attiva (partecipazione dei cittadini alla vita socia- le ed economica innanzitutto attraverso il lavoro); • occupabilità. Per raggiungerli non si può prescindere dall’istruzione e formazione: elementi fon- damentali per vivere e lavorare nella società dei saperi. Obiettivi concreti futuri dei sistemi di istruzione e formazione sono: 1. migliorare la qualità e l’efficacia dei sistemi di istruzione e formazione sull’Ue; 2. consentire a tutti di accedere all’istruzione e alla formazione durante l’intero arco della vita; 3. aprire i sistemi di istruzione e formazione al mondo. Il primo necessita di:� formazione degli insegnanti;� acquisizione delle competenze di base;� apprendimento delle lingue;� tecnologie;� incremento delle competenze matematiche e scientifiche. Il secondo necessita di:� estendere l’accesso all’istruzione permanente facilitando l’accesso a tutti, anche attraverso percorsi flessibili;� sostenere la cittadinanza attiva, le pari opportunità e la coesione sociale. Il terzo infine necessita: sviluppo dei legami dell’impresa e della ricerca; sviluppo dello spirito d’impresa; apprendimento delle lingue straniere; scambi e cooperazione; rafforzamento della cooperazione europea sull’efficacia e la rapidità delle proce- dure di riconoscimento degli studi per la prosecuzione della formazione e dell’ac- cesso al lavoro con tutta l’Europa. Obiettivi di Barcellona 2002 sono stati: - istruzione di base di qualità per tutti; - rafforzare l’offerta e la domanda di formazione; - riconoscere l’apprendimento formale, ma anche quello informale e non formale; - collaborare tra i diversi livelli dei sistemi di istruzione e formazione. La Dichiarazione di Copenaghen 2002 poneva come obiettivi:� rafforzare la dimensione europea dell’istruzione e formazione professionale, pro- 121 LE INIZIATIVE E I PROGRAMMI DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’ITALIA PER LA PROMOZIONE DELLA CITTADINANZA ATTIVA muovere la mobilità e far sì che l’Europa sia riconosciuta a livello mondiale un punto di riferimento per l’apprendimento;� aumentare la trasparenza nell’istruzione e formazione professionale attraverso il CV europeo, supplementi a certificati e diplomi, etc.;� rafforzare le politiche di informazioni e orientamento;� definire principi comuni per il riconoscimento degli apprendimenti informali e non formali;� mettere a punto un quadro di riferimento unico per la trasparenza, la compara- bilità, la trasferibilità delle competenze e/o delle varie qualifiche tra i vari paesi (ECVET). Con Bruxelles 2006 si precisano ulteriormente gli obiettivi 2010: gli abbandoni scolastici non dovrebbero superare il 10%; • incrementare il numero dei laureati in matematica e materie scientifiche del 15% e ridurre lo squilibrio maschi/femmine; • chi non trova lavoro dopo aver terminato la scuola non deve aspettare più di 4 mesi prima di trovare un posto di lavoro, un tirocinio, un corso di formazione supple- mentare o attività alternative volte ad accrescere le prospettive occupazionali; • l’85% dei 22enni dovrebbe conseguire il titolo di scuola secondaria superiore; • riduzione del 20% della scarsa capacità di lettura dei 15enni; • aumento del 12% della partecipazione degli adulti ad iniziative di lifelong learning (25 e 64 anni). L’apprendimento durante tutto l’arco della vita è essenziale allo sviluppo della Comunità come società avanzata della conoscenza:� agevolare l’accesso a tutti fornendo informazioni, consulenze, orientamento sulle possibilità di tutti gli stati membri;� promuovere una cultura dell’apprendimento rendendolo più attraente;� promuovere percorsi flessibili accessibili a tutti in particolare alle persone più svantaggiate. Nel 2006 vengono fissate le competenze chiave per l’apprendimento permanente: - comunicazione nella madrelingua; - comunicazione nelle lingue straniere; - competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; - competenza digitale; - apprendere ed imparare; - competenze sociali e competenza civica; - senso di iniziativa e di imprenditorialità; - consapevolezza ed espressione culturale. L’istruzione e la formazione devono educare i cittadini ai valori della cittadinanza europea; educare alla cittadinanza europea significa: ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 122 • identità e appartenenza; • educazione al rispetto delle minoranze; • apertura verso la diversità culturale; • educazione ai diritti umani; • rispetto delle differenze a pari opportunità; • educare alle responsabilità sociali. La costruzione di una cittadinanza europea non può andare disgiunto da quella si una “società dell’apprendimento”. Il percorso per fare dell’Europa l’economia basata sulla conoscenza più dinamica e competitiva al mondo entro il 2010 non è uguale per tutti. A ciò si aggiunge l’opportunità di attingere in tal modo - e qui lancio il tema per un prossimo convegno - da ricchi giacimenti di valori e risorse immateriali, come la per- sona, la famiglia, la cultura, il territorio e l’ambiente, la solidarietà e l’abitudine al dialogo interculturale, che costituiscono elementi portanti anche per le economie di quelle Regioni che vanno tenute nel conto e valorizzate con specifici interventi; per essere fruiti ed estesi anche nel resto dell’Europa, piuttosto che essere soffocati den- tro “griglie” estranee ed inapplicabili. Anche il rapporto con la cerchia dei partner mediterranei “vicini ed amici” ne trarrebbe grande beneficio alla vigilia dell’area di libero scambio del 2010, offrendo loro modelli comprensibili e condivisibili, da attuare in comune. 5. LA COSTRUZIONE DELLA CITTADINANZA EUROPEA 5.1 - La cittadinanza attiva in Europa: quali competenze formare Savino Pezzotta Presidente Fondazione Sud Inizio con l’introdurre elementi non proprio pertinenti al tema, ma che attorno ad esso ruotano e che a me stanno molto a cuore. Sinceramente sono molto turbato da quello che sta avvenendo nel nostro Paese riguardo alla sfera educativa. Ritengo che abbiamo il dovere di ragionare sull’e- ducare, perché le famiglie da sole non ce la fanno e perché continuare a dire che tocca alle famiglie riflettere su questo tema è un errore gravissimo. Con alcune associazioni abbiamo messo in atto un progetto sull’educare, che ci porta a con- frontarci con l’emarginazione, i tossicodipendenti, le violenze familiari… L’interrogativo che ci poniamo è “come educhiamo?” Tutta questa marginalità ci fa capire che nella società c’è qualcosa che non funziona e sul quale noi siamo chiamati a ragionare. Ed è questa la vera urgenza. Vorrei porvi alcune brevi riflessioni perché sono convinto che, se non abbiamo chiaro che la vera carenza da cui partire è l’educazione, ogni altra riflessione sul- l’istruzione e la formazione rischia di essere un esercizio improduttivo. Il verbo ‘educare’ viene sempre meno usato e quando lo si usa si tende a indebo- lirlo del suo vero significato; nell’uso comune viene perlopiù utilizzato per indica- re i buoni comportamenti, come se il verbo educare fosse sinonimo di “addome- sticamento” o di galateo. Prima ancora di qualsiasi discorso sulla formazione e l’i- struzione, quindi, abbiamo il dovere di ripristinare il vero significato di questo ter- mine, contrastando il suo indebolimento e la sua relativizzazione. L’educare viene considerato come rispetto dell’ambiente, educazione civica, come buone maniere, ma sempre meno come educazione della persona: come si educa il carattere, come si educa a gestire se stessi, come far sì che la persona abbia coscienza di sé e delle sue capacità. È una necessità perchè il bullismo, la marginalità e le devianze si vincono nel momento in cui si educa la persona, non solo se ci si preoccupa di fornire compe- tenze. Senza educazione dell’individuo non c’è certezza circa il come le competen- ze possano poi essere utilizzate. Ma è oggi possibile recuperare il significato profondo, pieno e orientativo del ter- mine educare? 125 LA COSTRUZIONE DELLA CITTADINANZA EUROPEA Siamo immersi in un processo di trasformazione continuo che incide sulle struttu- re sociali che un tempo avevano come compito naturale quello dell’educare, prima di tutto la famiglia. Essa resta sì il luogo principale dell’educare, terreno di rap- presentazioni e identificazioni, ma nel contempo è diventata un sistema estrema- mente mobile. I processi educativi, che in passato duravano una generazione, non sempre, per il modo con cui le nostre famiglie sono fatte, riescono ad arrivare a conclusione, considerando la precarietà dei rapporti familiari. Si educa poi anche e soprattutto quando si fa cattiva educazione, quando si cen- tra tanta comunicazione su cattivi esempi e comportamenti patologici che incido- no sulle persone e soprattutto sui giovani. Di conseguenza ragionare attorno all’e- ducazione ci obbliga a tenere presente che le persone crescono migliorandosi o peggiorando anche grazie ai contesti comunicativi e ai rapporti, che tali contesti e rapporti inducono profonde e reciproche modificazioni. Bisogna porsi l’interrogativo di quanto i processi imitativi siano alla base di ogni processo educativo? Rispetto al passato gli educatori non propongono più buoni modelli di vita, ma si affidano all’istruzione, convinti che il tema centrale dell’e- ducazione sia nell’acquisizione di saperi, seguendo l’adagio: “studia e costruirai il tuo futuro”. Rilanciare il tema dell’educare, come tema centrale e non sovrapponibile a quello dell’istruire significa dichiarare una chiara attenzione antropologica riguardo a quale tipo di persona vogliamo aiutare a crescere. Ecco perché bisogna costruire un proposta educativa che abbia punti di riferimento etici ed è ormai necessario proporre modelli di una vita basati sul principio della responsabilità. Se non si col- tiva il senso di responsabilità come elemento fondante dell’educazione umana non è possibile coltivare i valori della solidarietà, tutelare i valori della vita, combatte- re l’intolleranza e avere cura della pace. Dobbiamo anteporre all’essere bravi insegnati, bravi allievi, bravi trasmettitori di conoscenza, l’essere “educatori di coscienze”, che è il vero compito che ci appar- tiene in questo tempo e che apre la vita di ciascuno alla libertà e alla scelta. Educare a scegliere non è facile e comporta dei rischi, ma è anche un’avventura che ci libera dalla dimensione del dominio, che ci rende disponibili all’inatteso, al comprendere ciò che genera autonomia e libertà. Educare e far crescere il caratte- re, i temperamenti e i modi d’essere di una persona significa educare alla libertà e la libertà è un rischio. Per questo a volte appare preferibile addomesticare invece che educare. E siamo diventati dei bravi addomesticatori, anche se ogni tanto qualcuno si ribella. Questa è la prima riflessione che vorrei porre perché mi pone un interrogativo inquietante, perché è questa ribellione all’essere addomesticati che porta a crimi- nalizzare i giovani e a far parlare di loro come i soggetti di un acuto disagio socia- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 126 le, come se fossero loro il disagio stesso. In realtà se non abbiamo un progetto edu- cativo, i giovani diventano portatori di un disagio. Ma la responsabilità spetta a noi adulti, che non siamo riusciti a dare loro la possibilità di vivere la pienezza delle cose. L’uomo è sostanzialmente un essere che imita e, di conseguenza, è vero che la fase mimetica può portare a volte alla violenza. Ma se noi riuscissimo ad introdurre nel nostro modo di educare una fase mimetica rivolta ai buoni esempi, credo che avremmo fatto molto di più per i giovani che insegnare loro soltanto ad usare il computer! Altrimenti dovremmo accettare di far crescere una società ano- nima composta da tecnici, di sicuro bravi tecnici ma non da persone. Noi dobbia- mo fare in modo che la dimensione umana torni ad essere predominante rispetto al dominio della tecnica e del sapere. Ma oggi abbiamo messo al centro il dominio delle tecniche rispetto al dominio della saggezza. La seconda riflessione riguarda le osservazioni sul sistema formativo del Mezzogiorno. La Fondazione per il Sud, di cui sono presidente, è organismo del un privato sociale voluto dalle fondazioni bancarie e dal Forum del Terzo Settore per dedicarsi ai problemi del Mezzogiorno, con particolare attenzione a quelle aree caratterizzate dall’auto-organizzazione civile come il no-profit e la cooperazione sociale. L’obiettivo è, quindi, quello di contribuire alla infrastrutturazione sociale, non materiale, del Mezzogiorno stesso. È in campo, perciò, un nuovo soggetto che può essere del privato sociale, perché le risorse economiche, che non provengono dallo stato, vengono investite e i rica- vati usati per finanziare progetti, attraverso l’emanazione di bandi, coniugando le diverse vocazioni del forum terzo settore e delle fondazioni bancarie. Per la prima volta, nella storia del nostro Paese, siamo di fronte a una proposta che prescinde, senza ignorarlo, dall’intervento pubblico e che può contare sia sul- l’esempio delle fondazioni bancarie, le quali in questi anni hanno affermato una forte indipendenza di azione e di presenza basata sulla professionalità degli inter- venti sviluppati in diversi territori, sia sulle risorse del volontariato rappresentato nel forum del terzo settore. A tal proposito è interessante il libro di Roberto Carocci che, riprendendo una vec- chia indagine sul Mezzogiorno, fa emergere che dopo 20 anni la differenza di capi- tale sociale tra nord e sud non è cambiata: tale staticità è dovuta non solo alla que- stione economica e infra-strutturale, ma ad una carenza di capitale sociale stesso. È una differenza che si è mantenuta nel tempo e che è necessario affrontare per recuperarla. A tale proposito recenti ricerche hanno evidenziato proprio come il terzo settore, il no-profit e il privato sociale, possano operare in questa direzione, cioè per far crescere dentro la dimensione del sociale quella capacità auto-orga- nizzativa e auto-promozionale che determina non solo cambiamenti di natura eco- nomica, ma anche cambiamenti sociali, quali la consapevolezza della propria 127 LA COSTRUZIONE DELLA CITTADINANZA EUROPEA capacità di fare, di progettare, di rischiare, di stare in campo: è l’elemento che può rinnovare e cambiare l’infrastrutturazione sociale, e contribuire a superare anche il divario di capitale sociale che esiste tra nord e sud. Da questo punto di vista, perciò, l’intervento di una fondazione come quella che sono stato chiamato a presiedere può essere estremamente importante, anche per- ché forse rompe alcuni schemi. L’intervento pubblico, infatti, è utile e necessario, ma può creare anche una dipendenza. Bisogna trovare delle modalità che svilup- pino le risorse pre-esistenti nel contesto e nel Mezzogiorno, da un punto di vista umano. Tali risorse ci sono, soprattutto in ambito giovanile e in ambito femmini- le. Questa è l’intuizione di fondo della fondazione. È abbastanza noto che nel nostro Paese le principali decisioni sociali avvengono con un ritardo più alto rispetto ad altre parti e questo è sicuramente dovuto alle mancanze del nostro sistema formativo e alla sua incapacità di stabilire una rela- zione virtuosa e sinergica con il mercato del lavoro. Da troppo tempo il sistema economico nazionale fa fatica a creare una sufficiente gamma di opportunità lavorative e professionali che stimolino i giovani a realiz- zarsi e a mettersi in gioco, cosa totalmente diversa dal dare ai giovani un posto di lavoro. Questa è una situazione che penalizza in particolare la realtà del Mezzogiorno, dove trovare un lavoro è ancora una grande impresa e il più delle volte si ricrea quella situazione di migrazione interna per cui i più dotati vanno via, depaupe- rando ulteriormente il Mezzogiorno. A tal proposito è necessario guardare con attenzione al processo di scolarizzazio- ne. Alcuni dati: i fenomeni di abbandono scolastico sono circoscritti alle periferie più degradate delle grandi città meridionali; il tasso di conseguimento del diplo- ma superiore è passato, in meno di 10 anni, dal 65% al 78% raggiungendo così i livelli del centro nord; nell’istruzione terziaria i progressi sono stati rilevanti, anche se non sufficienti a colmare il gap con il resto del Paese. Il problema allora, come sottolineato dal Rapporto Svimez, è di capire perché tali progressi non hanno consentito al Mezzogiorno di spiccare quel salto qualitativo che molte altre aree deboli dell’Europa sono riuscite a compiere. Le cause sono molteplici: • all’incremento della quantità dell’istruzione non ha corrisposto un aumento della qualità formativa; • le competenze scientifiche presentano per i giovani del Sud risultati sistematica- mente inferiori rispetto a quelli del resto del Paese. Tali risultati sono ulterior- mente bassi se consideriamo che le spese supportate dallo stato italiano per stu- denti è superiore della media OCSE. Si può parlare di un uso inefficiente di tali risorse di cui è sintomo, ad esempio, la ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 128 scarsità di risorse tecnologiche all’interno della scuola che penalizza soprattutto le strutture scolastiche del Mezzogiorno. Di conseguenza una efficiente politica for- mativa non può non considerare che nel Mezzogiorno la transizione dalla scuola al lavoro è più lunga e più bassa è la possibilità di trovare un lavoro adeguato all’in- vestimento formativo effettuato. Questa vischiosità nel rapporto scuola-lavoro condiziona fortemente i risultati, sia in termini di sviluppo, sia per quanto riguarda le scelte individuali. Si tratta di dati che ci dovrebbero far riflettere e che impongono, a livello locale, strategie a favore del capitale umano; oltre all’offerta formativa è ora che si pensi anche ad interventi integrati, alla formazione post universitaria e alla fase diffici- le di transizione dalla scuola al mondo del lavoro. La Fondazione per il Sud ha 3 linee di intervento: iniziative esemplari, fondazio- ni di comunità, partnership di sviluppo. Abbiamo deciso di attivare l’attività su tutti e tre questi versanti, decidendo che le iniziative esemplari devono essere incentrate sull’aspetto fondamentale dei rap- porti giovani-istruzione, formazione-famiglia, lavoro-società. La formazione è intesa in senso ampio, vista come strumento di inclusione sociale, contrasto alla marginalità, anche riguardo l’immigrazione e includendo anche il sostegno all’in- fanzia e ai giovani in situazioni di disagio. Puntiamo a sostenere diversi aspetti: recupero della scolarità dei bambini più pic- coli (scuola dell’infanzia e primaria), della scolarità dei bambini più grandi (scuo- la secondaria e di primo grado), contrasto alla dispersione, rinforzo degli appren- dimenti tra scuola secondaria di primo e di secondo grado. In maniera sintetica abbiamo riassunto questi interventi sotto il titolo suggestivo “dalla strada alla scuola”. Sul terreno della formazione si intende promuovere lo sviluppo di progetti a carat- tere professionalizzante, lo sviluppo della cultura scientifica, tecnologica ed eco- nomica, scegliendo di partire dal basso, ovvero dalle fasi in cui si fa orientamen- to, perché se c’è un problema di carenza di laureati in materie scientifiche è per- ché in questo settore l’orientamento è ancora carente. Inoltre abbiamo pensato di creare partnership tra soggetti presenti nel territorio, per una formazione di eccellenza per quanto riguarda il terzo settore e il volonta- riato che non possono vivere di spontaneità, ma di competenza; bisogna formare dei manager che siano in grado di gestire il volontariato, le cooperative, le strut- ture no-profit, perché oltre alla spinta iniziale servono le competenze. Chiediamo la possibilità che vengano messe in piedi delle partnership con l’università a livel- lo locale e regionale per formare queste figure professionali. Intendiamo realizzare inoltre, progetti per la formazione di eccellenza anche nel campo scientifico, tecnico ed economico. 129 LA COSTRUZIONE DELLA CITTADINANZA EUROPEA Poi abbiamo aggiunto anche linee di azione che riguardano le fondazioni di comu- nità, strumento molto utile alla infrastrutturazione sociale. Le fondazioni di comu- nità sono delle piccole fondazioni all’interno del territorio che devono sviluppare una cultura della donazione, ovvero raccogliere donazioni, capitalizzare tali dona- zioni e utilizzare le risorse di questa capitalizzazione per promuovere - dentro la comunità - progetti di intervento nell’ambito sociale, artistico e culturale. Molti ci ricordano che nel Mezzogiorno la nostra non sarà impresa facile, ma io credo sia possibile. Noi siamo nati come fondazione a fine gennaio 2007, abbiamo partecipato ai bandi a luglio, chiamiamo a progetto chi è in grado di presentare progetti di eccel- lenza mettendo insieme più forze, facendo in modo da non coinvolgere solo il sin- golo individuo. Questo per noi vuol dire mettere in relazione e superare la fram- mentazione presente nei soggetti del privato sociale. Vi propongo ora alcune considerazioni su formazione professionale, istruzione e lavoro. Se rimaniamo ancorati solo alle categorie della precarietà non comprendiamo quanto sono profonde le trasformazioni, enormi a tal punto che cambia il signifi- cato del lavoro, la sua forma e la sua organizzazione. Quando si discute di lavoro occorre ragionare non solo in una dimensione nazionale ed europea, ma in termi- ni di mercato del lavoro globale. Questo ci obbliga a pensare che le forme del lavoro a cui eravamo abituati (ad esempio il posto fisso) sono in profondo cambiamento; di conseguenza parlare di formazione diventa fondamentale, non bisognerebbe più parlare solo di sistema di istruzione scolastica da una parte e di sistema formativo dall’altra, ma di un unico sistema di istruzione-formazione come opportunità che si intrecciano e sono a ser- vizio della formazione e della crescita umana. Del resto, la divisione tra formazione e istruzione è messa oggi in discussione pro- prio dalle modalità con cui si organizza il lavoro. Pensiamo ad esempio alla flessi- bilità lavorativa: essa non deve essere considerata solo in chiave negativa, a meno che non arrivi a livello di precarietà, ma anche in chiave positiva, in quanto per- mette di apprendere più cose, espone a più stimoli. Ma questo ci richiede conte- nuti professionali e formativi diversi da quelli che si possedevano prima e implica la necessità di aggiornarsi costantemente per non rimanere fuori dal gioco. Ormai il posto fisso, concepito come in passato, non esiste più in quanto anch’esso richie- derà all’interno della dimensione una certa mobilità. E bisogna fare in modo che la flessibilità venga percepita come una chance in più. Per fare ciò è però necessario che il nostro modello formativo sia adeguato al conte- sto e, poiché la flessibilità del lavoro sta diventando ormai un dato concreto, dob- biamo mettere in grado le persone di mutare, adattarsi e sviluppare le conoscenze ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 130 adeguate per affrontare i cambiamenti che si susseguiranno nel corso della vita. Oggi la capacità di adattamento e di mutevolezza è maggiore rispetto al passato e chi nega questa cosa non aiuta alcuno, perché non è negando la realtà che si risol- vono le situazioni, ma è nell’accettare la realtà così come si presenta nella dimen- sione in cui viviamo che costituisce il presupposto per vincere le difficoltà. Secondo me si dovrebbe recuperare la lezione pedagogica di don Bosco e dei sale- siani che hanno sempre visto il lavoro come un’attività che si proiettava oltre il mero dato economico, come attività essenziale ed efficace per l’educazione inte- grale della persona umana. È da questa visione che dovrebbe nascere un maggiore intreccio tra lavoro e istru- zione! Il lavoro, infatti, deve essere visto come un momento che fa sedimento cul- turale in cui si stratificano in modo articolato le conoscenze delle varie discipline di studio e le competenze che si maturano nel fare e nel vivere consapevolmente il quotidiano. Ritengo che uno dei compiti della scuola, dall’infanzia all’università, dovrebbe essere quello di insegnare a lavorare bene anche in una situazione di flessibilità, ad aver cura del lavoro, a lavorare con passione e soddisfazione, al di là del mero guadagno economico. Un lavoro ben fatto è, infatti, espressione della personalità ed inclinazione autentica al sapere. Il problema che pongo riguarda perciò come, all’interno della dimensione dell’i- struire, la dimensione del lavoro acquisisca senso, valore e importanza. Ed è anche interessante come all’interno della questione dei diritti si debba iniziare ad intro- durre la nozione di dovere: perché ogni diritto, compresi i diritti dei lavoratori, presuppone il dovere umano, morale e civile di responsabilità verso di sé e verso gli altri. Studiare, formarsi, istruirsi, lavorare sono diritti che non riguardano solo il singolo, ma si correlano con il vivere del singolo all’interno della società e per- tanto obbligano nell’insegnare a fare scelte che siano utili non solo all’individua- lità del singolo ma anche alle relazioni di ciascuno con gli altri. Se questo non avviene vuol dire che la scuola non aiuta la crescita della società civile, democra- tica e solidale. Si tratta di riconoscere e far riconoscere che il vivere insieme signi- fica avere un destino comune e che se ognuno accresce le proprie capacità e cono- scenze, di conseguenza, accresce le conoscenze di tutti. È necessario che questa accezione diritto-dovere all’istruzione e alla formazione sia declinato in modo inequivocabile. In questo caso “dovere” non viene interpretato come obbligo a fare qualcosa, ma come necessario strumento per l’espressione della propria personalità, delle pro- prie capacità e conoscenze; e di conseguenza ciò implica che ogni persona sia rispettata in termini di diritti e di libertà di scelta. Per cui è importante affermare la pari dignità educativa e culturale, ed individua- 131 LA COSTRUZIONE DELLA CITTADINANZA EUROPEA re percorsi di reale interconnessione, in cui gli studenti possano incontrare e spe- rimentare conoscenze, saperi e abilità che li facciano crescere e maturare come persone, rendendoli più competenti nell’amare, nel lavorare, nel giudicare, nel pensare, nel vivere. Si tratta in unico termine di agevolare il “saper essere” di cia- scun giovane. A mio parere si dovrebbero quindi aumentare le esperienze di alternanza scuola- lavoro con tirocini, stages, e di apprendistato non solo come preparazione al lavo- ro e costruzione di chance, ma anche come esperienza vitale, di utile e densa di opportunità. È chiaro che il mio modo di essere è stato segnato dal lavoro, perché il lavoro con- tribuisce alla crescita, all’apprendere, all’essere. E credo che sia tanto più necessaria una valorizzazione della dimensione del lavo- ro quando si parla di formazione professionale. Sul tema delle competenze di cittadinanza nella formazione professionale, il docu- mento europeo sul quale discutiamo propone otto competenze chiave per l’ap- prendimento permanente che ogni cittadino dovrebbe possedere e che la scuola dovrebbe assicurare prima di lanciare i giovani nel mercato del lavoro. Il docu- mento europeo definisce tali competenze come l’insieme di conoscenze, abilità e attitudini appropriate alle diverse situazioni. Quello che va rilevato, riguardo que- ste 8 competenze, almeno nell’esperienza italiana, è che la formazione professio- nale ha ben presto assunto il tema e il linguaggio delle competenze, anche se sul piano normativo e sperimentale non c’è ancora una univocità di riferimento e di definizioni, mancando ancora un sistema nazionale di certificazione delle compe- tenze. Questo ha inciso, tra l’altro, sulla definizione degli standard per dare alle qualificazioni un carattere ed un valore anch’esso nazionale e, in seconda battuta europeo. È ancora più interessante notare che la scuola discute di competenze, ma stenta ad accoglierle. A tale proposito il primo atto normativo di rilievo che le introduce è il decreto del ministro Fioroni emesso in occasione dell’introduzione dell’obbligo di istruzione fino ai 16 anni. Il decreto adotta le 8 competenze per definire la parte comune che dovrebbe assicurare equivalenza formativa a tutti i bienni iniziali, dai 14 ai 16 anni, dei vari percorsi formativi. In questo rientra anche la formazione professionale, laddove ancora i governi regionali la valoriz- zano e non la negano in nome della superiorità ideologica della scuola, almeno per quanto riguarda l’intero ciclo dell’obbligo scolastico che comunque a 16 anni già pone problemi ai ragazzi e ai giovani extra comunitari. Il dubbio che ci sovviene è che la scuola abbia timore di queste competenze perché le interpreta come atto invasivo da parte di una cultura di impresa e di svalutazio- ne dell’impegno cognitivo dei ragazzi, ma questo timore è, secondo me, sbagliato. Gli stessi decisori pubblici, a partire dai ministri dell’istruzione, hanno affrontato ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 132 il tema con cautela perché avvertivano una certa contrapposizione tra le compe- tenze e i contenuti scolastici. E in effetti, qualche volta, il dibattito riguardo le competenze sembra essersi ridotto a produrre procedure comportamentali e non a declinare capacità critiche e strumenti di consapevolezza di sé, dei contesti stori- co-sociali ed economico-tecnologici dove si opera. Possedere oggi delle competen- ze, in una dimensione lavorativa come quella attuale caratterizzata da flessibilità e mobilità, certamente non sempre assicura a ciascuno l’essere competente per la vita e per tutta la professione. Proprio a causa di queste modificazioni della dimensione produttiva e lavorativa siamo obbligati ad aggiornare costantemente le nostre competenze e conoscenze che abbiamo acquisito e dobbiamo mettere in campo. D’altra parte è proprio in questa direzione che vanno le analisi che evidenziano le difficoltà che pone, al vivere d’oggi, l’esperienza della liquidità sociale, della frammentazione, della com- plessità che dobbiamo affrontare, della vita come progetto in continua evoluzione. Concludo, perciò, affermando che il tema delle competenze deve rientrare nel- l’ambito dell’educazione, della formazione e dell’istruzione, ma deve avere come punto di riferimento la crescita della persona. 133 LA COSTRUZIONE DELLA CITTADINANZA EUROPEA 5.2 - Il quadro nazionale più recente per la formazione di competenze spendibili nell’Ue Maria Grazia Nardiello Direttore Generale per l’Istruzione post-secondaria - Ministero della Pubblica Istruzione Questo Seminario costituisce un’importante occasione per condividere la consape- volezza che l’innovazione del sistema educativo del nostro Paese può trovare rife- rimenti certi nelle indicazioni dell’Unione europea sulle competenze chiave, che tutte le persone devono acquisire per essere cittadini responsabili, protagonisti del proprio progetto di vita e di lavoro, impegnati nello sviluppo del territorio anche per favorirne la coesione sociale. Ringrazio, quindi, per l’invito e per la possibilità di riflettere con i partecipanti sui contributi di approfondimento presentati in queste giornate, molto utili per un percorso istituzionale che possa svilupparsi secondo il principio della continuità. Il riferimento comune agli indirizzi dell’Unione europea potrebbe evitare, infatti, ripensamenti sui progetti di riforma del sistema educativo di istruzione e forma- zione nel passaggio da una legislatura all’altra. In particolare, in questa giornata, vorrei dare un contributo nel rispondere alla domanda: quali prospettive di sviluppo per la formazione professionale nel breve e medio periodo? Le prospettive di consolidamento e rilancio del ruolo della formazione professio- nale sono strettamente collegate alla strategia europea del VET (Vocational Education and Training), che afferma la centralità dell’educazione e la necessità di una ricomposizione tra istruzione e formazione professionale. In proposito vor- rei richiamare il nuovo obbligo di istruzione che riconfigura l’obbligo scolastico in relazione al dettato costituzionale e alle indicazioni dell’Ue, riconoscendo il ruolo di una pluralità di soggetti nel concorrere al successo formativo di tutti i giovani nel percorso di crescita personale e culturale per l’effettiva acquisizione delle com- petenze chiave di cittadinanza. In molti atti normativi e di programmazione si afferma che lo sviluppo della società europea dipende, in larga misura, dai risultati dell’impegno a sostenere l’e- ducazione di tutte le persone di ogni età e condizione sociale, in un contesto nel quale istruzione e formazione abbiano pari dignità. L’attuazione di questo principio, come tutti i partecipanti a questo Seminario ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 134 sanno bene, richiede un impegno di lunga lena, che si imporrà all’attenzione dei decisori politici con l’urgenza necessaria a governare una comunità nazionale, dove nuove e vecchie tensioni si vanno sommando anche per i rapidi cambiamen- ti della sua struttura sociale, sempre più disomogenea. La diversità può diventare ricchezza. Per conseguire questo obiettivo occorrono strumenti flessibili. In campo educativo, bisogna avere la possibilità di disporre di una pluralità di contesti e di metodologie per insegnare e apprendere, in relazione ai diversi stili cognitivi delle persone. La formazione professionale potrebbe avere notevoli possibilità di svilupparsi, qualitativamente e quantitativamente, nel quadro delle strategie per l’apprendi- mento permanente. Il percorso che ogni persona fa, nella sua esistenza, è sempre più discontinuo, per la necessità di alternare studio e lavoro e di valorizzare qua- lunque competenza possa acquisire al di fuori dei contesti formali. Per affermare questo ruolo, la formazione professionale ha, però, un grande biso- gno che il principio della sussidiarietà orizzontale venga praticato e costituisca il riferimento comune per tutte le istituzioni, nella individuazione di modelli e solu- zioni innovativi, capaci di sostenere uno sviluppo più omogeneo e più rapido del Paese, che sconta forti squilibri territoriali e lentezze insopportabili nell’attuazio- ne del titolo V della Costituzione, sinora considerato solo per l’applicazione del principio della sussidiarietà verticale. La formazione professionale può trovare opportunità per concorrere significativa- mente all’istruzione e alla formazione di tutti i giovani, anche nel nuovo obbligo di istruzione, in quanto esso risponde ad una concezione del “fare scuola” con l’o- biettivo prioritario di educare. Si potranno così superare progressivamente le con- trapposizioni tra scuola e formazione professionale, durate troppi anni e concen- trate sulla configurazione degli ordinamenti scolastici, sull’ingegneria istituziona- le, sull’insegnamento e non sull’apprendimento. Molti sono consapevoli, però, che bisogna fare ancora un lungo percorso insieme ai docenti, ai formatori, ai dirigenti, perché le tensioni cessino. Per questi motivi, il regolamento sul nuovo obbligo di istruzione, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 31 agosto u.s., prevede una prima fase, di durata biennale, per l’attuazione sperimentale delle indicazioni in esso contenute. Senza il coinvol- gimento attivo degli operatori della scuola e della formazione professionale, i gio- vani della relativa fascia di età potranno produrre difficilmente i risultati di apprendimento attesi con riferimento alle competenze chiave di cittadinanza. Si tratta di far acquisire loro, infatti, non solo più elevati livelli di conoscenze e di abilità, ma soprattutto di incidere sui loro comportamenti nella costruzione di se stessi, di corrette e significative relazioni con gli altri e di una positiva interazione con la realtà naturale e sociale. 135 LA COSTRUZIONE DELLA CITTADINANZA EUROPEA Ancora oggi, l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica è riservata soltan- to ai comportamenti dei giovani che esprimono disagio e devianze. La scuola sem- bra troppo spesso passiva rispetto a questa situazione dilagante, impegnata com’è nel far acquisire ai giovani saperi disciplinari nella loro dimensione epistemologi- ca. I docenti incontrano, del resto, molte difficoltà nell’educare i giovani, anche per il difficile rapporto che le famiglie hanno con loro. La rimotivazione dei docenti ad educare richiede la valorizzazione del loro ruolo, risorse e strumenti disponibili nel tempo. Nelle prossime settimane saranno defi- nite le prime linee guida per l’attuazione dell’obbligo di istruzione; i contributi di questo seminario saranno considerati attentamente, anche perchè senza fare un percorso comune con il sistema della formazione professionale non sarà possibile raggiungere tutti i giovani e non lasciarne indietro nessuno. Vorrei richiamare ora il lavoro condotto insieme al Ministero del Lavoro, al Ministero per le riforme e l’innovazione nella P.A. e al Ministero dell’Università per definire una proposta di disegno di legge per l’apprendimento permanente. Questo disegno, adottato in lettura preliminare il 3 agosto 2007 dal Consiglio dei Ministri è, come dire, un primo “picchettamento” dell’area da riservare al lifelong learning. Molti di quelli che hanno avuto l’opportunità di leggerlo si sono dichiarati subito insoddisfatti. Bisogna considerare che il testo è soltanto un primo passo e il percorso per la sua definizione non sarà breve. Il suo obiettivo prioritario è quello di far emergere il capitale sommerso di cui questo Paese è dotato, attraverso il collegamento siste- mico di istruzione, formazione, lavoro, volontariato e privato sociale. La centralità della persona che apprende richiede, infatti, che nei contesti formali possano acquistare valore anche i saperi e le competenze acquisite nei contesti non forma- li e nella vita quotidiana di ognuno. Vorrei sottolineare che alcuni risultati sono stati raggiunti, seppure con difficoltà, nel connettere i sistemi di istruzione, formazione e lavoro, ma fino ad ora non si sono create le condizioni per valorizzare i soggetti e le strutture del volontariato e del privato sociale. Questo ambito multiforme non potrà emergere in tutte le sue straordinarie potenzialità in campo educativo se non avrà una cornice istituziona- le di riferimento. Più in generale, il rafforzamento del ruolo delle strutture formative dipende sia da criteri di accreditamento che siano in grado di presidiarne la qualità, sia da siste- mi di certificazione ispirati ai criteri indicati dall’Ue. Questo, però, non potrebbe bastare. Bisogna, nel contempo, rimotivare le persone all’apprendimento. Se consideriamo solo i titoli formali, ci sono ancora, nel nostro Paese più di 30 milioni di persone che non hanno sufficienti livelli di competenze alfabetiche per il pieno esercizio della cittadinanza. Se consideriamo la capacità ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 136 dei lavoratori e degli imprenditori delle piccole e medie imprese, dobbiamo rileva- re, invece, che essi posseggono elevati livelli di competenze acquisite in modo taci- to e informale. Spesso non sanno neanche di averle. Bisognerebbe, invece, farle emergere, certificarle, manutenerle e accrescerle perché sono una grande ricchez- za sommersa. Vorrei anche richiamare l’impegno a riordinare e valorizzare l’istruzione tecnica e professionale - che sarà un’opportunità in più e non in meno per la formazione professionale - anche perchè gli Istituti professionali non potranno più rilasciare qualifiche se non in regime di sussidiarietà e nessuno potrà abbandonare il pro- prio percorso formativo senza aver conseguito almeno una qualifica professionale. Il sistema della formazione professionale dovrebbe strutturarsi a più livelli, per non essere residuale. Bisogna realizzare percorsi di istruzione e formazione profes- sionale non solo per il conseguimento di qualifiche, ma anche di diplomi profes- sionali. L’istituzione dei Poli tecnico-professionali prevista dall’articolo 13, della legge n. 40/07 potrà, inoltre, rendere organica la collaborazione sul territorio tra i sistemi di istruzione, formazione e lavoro in sedi stabili. La loro collaborazione si potrà sviluppare sia nella dimensione orizzontale sia in quella verticale, con la costitu- zione degli istituti tecnici superiori e la riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione tecnica superiore. L’ipotesi che stiamo condividendo con il sistema delle Regioni e delle Autonomie locali, nel confronto con le Parti sociali, mira a connettere stabilmente risorse pub- bliche e private con la configurazione degli istituti tecnici superiori come fonda- zioni di partecipazione. Oggi abbiamo tante risorse disperse nel Paese che dob- biamo aggregare, a partire dalla disponibilità dei soggetti che operano sul territo- rio, da sostenere perché possano affermare il loro ruolo in una dimensione globa- le. La stabilità e visibilità di queste strutture consentirà alla formazione professio- nale di trovare luoghi dove possa esprimere tutta la sua potenzialità, in quanto le strutture formative accreditate saranno uno dei soggetti costitutivi degli istituti tecnici superiori. Richiamo, infine, l’alternanza scuola lavoro. Le ragazze e i ragazzi che stanno fre- quentando i percorsi in alternanza sono più felici e più motivati di quelli che non li frequentano. Saranno gli stessi giovani che hanno fatto queste esperienze a moti- vare gli studenti che ancora considerano l’attività pratica un modo di sporcarsi le mani e non di crescere come persone responsabili ed affidabili. Un contributo posi- tivo verrà anche dal numero crescente di percorsi in alternanza realizzati dai licei, come un nuovo modo di apprendere. La diffusione delle innovazioni, che ho prima richiamato, richiede comunque risorse aggiuntive. Se non si crea ricchezza, come sottolineato dal Direttore del 137 LA COSTRUZIONE DELLA CITTADINANZA EUROPEA CENSIS, è difficile, però, investire nella conoscenza. Oggi, con le risorse disponi- bili, possiamo comunque cominciare ad innalzare la qualità del nostro sistema educativo, migliorando l’impiego delle risorse assegnate per destinarle ai soggetti e agli interventi di qualità. A questo fine, il decreto previsto dal comma 624 della legge finanziaria 2007 costituisce uno strumento utile per finanziare le strutture formative di qualità. Sono piccoli passi, molto significativi, nell’impervio cammino per affermare e con- dividere la convinzione che molti sono i luoghi dove le persone possono crescere culturalmente e professionalmente per tutta la vita nella loro dimensione umana. Grazie per l’attenzione e buon lavoro. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 138 PARTE II 6. IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA 6.1 - Ridiscutere il nesso tra welfare, lavoro, formazione per una cittadinanza attiva1 Rosangela Lodigiani Prof. Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano 1. Premessa Da qualche tempo in Italia e nella maggior parte dei paesi occidentali ad economia avanzata è in atto un ridisegno del welfare in direzione di una sua modernizzazione. Una modernizzazione che si traduce nel superamento del suo tradizionale impianto burocratico, garantista, passivo e assistenziale in favore di un approccio flessibile, manageriale, promozionale, attivo, individualizzato. Prende così forma quello che a livello europeo è chiamato l’active welfare state, il quale - superando l’ottica di un’as- sistenza di tipo solamente passivo, tesa a tutelare i soggetti nei momenti di difficoltà chiave riparatoria per il danno subito (la perdita del lavoro, la malattia, l’invalidità, la fuoriuscita dal mercato del lavoro per limiti età) - mira a sostenere un orientamento attivante delle prerogative della persona, finalizzato allo sviluppo di capacità di auto- protezione e responsabilizzazione rispetto alla gamma variegata dei rischi sociali. In sintesi esso propone un passaggio dalle azioni di sostegno del reddito a quelle di pro- mozione del ruolo attivo del soggetto nel fronteggiamento delle situazioni di bisogno, anche se l’integrazione con i trasferimenti monetari (le cosiddette politiche passive) è imprescindibile e anzi ne sta a fondamento. In linea con un cambiamento culturale di vasta portata, che è stato collocato sotto il nome di “individualizzazione”, il welfare attivo sembra voler prendere sul serio la volontà dei soggetti di affrancarsi da vinco- li istituzionali, da risposte precodificate, per valorizzare il desiderio di muoversi in autonomia e in modo proattivo nel progettare la propria vita pur tra le difficoltà, in poche parole rendendoli protagonisti, artefici e in ultima istanza unici responsabili del proprio destino (Paci 2005; Vandenbroucke 1999). In realtà il processo di cambia- mento non è privo di ambivalenze. Come sostiene Sennet (2004), investire il sogget- to delle scelte che lo riguardano prevedendo un welfare “corto” (e così può configu- 143 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA 1 Il testo propone una sintesi dei principali risultati emersi dalla ricerca: Colasanto M., Lodigiani R. (a cura di), Il ruolo della formazione in un sistema di welfare attivo, CNOS-FAP, CIOFS-FP, Roma, 2007, e presentati al Seminario Europa il giorno 8.09.2007. Si rimanda naturalmente al testo per una trattazione estensiva dei temi presentati. rarsi anche ilwelfare attivo, almeno in certe sue declinazioni) finisce col produrre disu- guaglianze tra coloro che hanno bisogno di consigli per sapere quali risorse esistono e come le possono utilizzare, e coloro che richiedono solo che le risorse siano date, per- ché sanno già come sfruttarle al meglio. Di fronte a tale diversità, anzi disuguaglian- za, tra le persone, invocare la responsabilità individuale come criterio normativo di ridisegno del welfare nasconde non poche insidie, prima fra tutte che l’assunzione di responsabilità si configuri in qualche caso più come una condanna che come un’op- portunità legittima. Per entrare nel merito dell’argomento, vale la pena di richiamare quali sono i fenomeni che si situano all’origine di questo mutamento di approccio. A determinare questa svolta concorrono diversi ordini di fattori: di natura economica, legati alla sostenibilità finanziaria della spesa sociale; di legittimazione sociale, legati all’incapacità – manifesta agli occhi dei cittadini – dello stato sociale di rispondere ai bisogni emergenti; di natura politica, legati da un lato all’influenza crescente esercita- ta sui singoli paesi – e sulle scelte di governo in materia di politica sociale – dal pro- cesso di unificazione europea; dall’altro lato dall’emergere di nuove soggettività locali nella produzione di welfare. 2. Vulnerabilità sociale e bisogni di protezione nella società della conoscenza Lo scenario di riferimento è contrassegnato dall’emergere di nuovi rischi sociali - sempre più trasversali a tutta la popolazione, esposta a situazioni critiche (perdita del lavoro, invecchiamento, povertà, malattia, problematiche familiari, ecc.) in termini continuativi nel tempo - che determinano una situazione di disagio e vulnerabilità diffusi e producono nuove esigenze di protezione, prevenzione, assistenza. Le tra- sformazioni nel lavoro, nella famiglia, nelle istituzioni di regolazione sociale e ancor prima nella sfera culturale, fanno emergere ampi processi di “disarticolazione socia- le” che mutano le linee di stratificazione sociale ed evidenziano nuove disuguaglian- ze (Ranci, 2002). Basti pensare alle trasformazioni in atto su più fronti: a) nel mondo del lavoro, attraversato da una crescente flessibilizzazione (precarizza- zione) e femminilizzazione. Il mito della piena occupazione, vera e propria “pro- messa” del welfare moderno, incentrato sulla figura del male breadwinner (il lavo- ratore maschio, adulto, unico percettore di reddito del nucleo familiare), è sfidato sia dalla crescente pluralizzazione delle condizioni occupazionali, dal diffondersi di percorsi di carriera discontinui, incerti, che lasciano sempre aperta la porta verso la disoccupazione o la sotto-occupazione, l’insicurezza; sia dalla crescente partecipa- zione al lavoro delle donne, che non solo rende la piena occupazione più difficile da realizzare, ma va a incidere pesantemente sugli equilibri di welfare consolidati; ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 144 b) nell’economia che, superando l’assetto industriale fordista, si trasforma in una economia dei servizi, centrata sul sapere e sulle tecnologie dell’informazione; che fa della conoscenza il motore dello sviluppo, la principale forza produttiva nella misura in cui tutto, o quasi, il valore prodotto è da essa mediata (Rullani 2004); ma che nel contempo produce nuove forme di esclusione, per quanti - alla conoscenza - non hanno eguale accesso (Dahrendorf 2003); c) nella struttura demografica che registra un progressivo invecchiamento della popolazione, e nelle strategie e nei modelli familiari che vanno incontro a feno- meni di diversificazione, pluralizzazione, fragilizzazione, configurando un nuovo modello di breadwinner al femminile, spesso difficile da sostenere per i soggetti coinvolti, dove si definiscono percorsi di marginalizzazione, esclusione, e povertà correlati alla debolezza del capitale sociale (Ranci 2002; Naldini 2006); d) nel rapporto tra individuo e società, all’insegna di un processo di individualiz- zazione sempre più marcato, correlato a esigenze di autorealizzazione ma anche a sentimenti di vulnerabilità e incertezza. Ne discendono nuovi rischi sociali, ma anche nuovi bisogni. 3. L’active welfare state e il welfare to work La risposta a questi nuovi bisogni viene offerta dall’active welfare state promuo- vendo l’idea di una cittadinanza attiva, nella quale la responsabilità individuale gioca un ruolo centrale. L’obiettivo dello stato sociale è infatti anzitutto quello di rendere il soggetto in grado di “fare la sua parte”, partecipando attivamente alla vita economica, socia- le e politica del suo paese. In primo luogo contribuendo – con la produttività del suo lavoro – alla creazione di ricchezza e indirettamente al sostentamento del siste- ma di protezione. In termini di politiche tali principi si traducono nel sostegno al (re)ingresso nel mercato del lavoro dei soggetti esclusi. Il lavoro è cioè considerato come il princi- pale ambito di integrazione sociale, inclusione, cittadinanza. Si tratta di un approccio chiaramente rintracciabile sia nella Job Strategy dell’Ocse sia nella Employment Strategy dell’Unione europea. Le conseguenze di questo mutamento di prospettiva non sono di poco conto sia per quanto concerne l’elaborazione delle politiche e il ridisegno dei sistemi di welfare, sia le persone che ne sono beneficiarie effettive o potenziali, sia – per ciò che in questa sede interessa maggiormente – le politiche formative, che in tale scenario vengono investite di attese molto elevate. La lotta alla disoccupazione e la promo- zione della piena occupazione, pur declinata secondo le diverse categorie che com- pongono la forza lavoro, si realizza anzitutto attraverso la rimotivazione e riqua- 145 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA lificazione delle persone che sono senza un impiego, favorendo il passaggio dal- l’assistenza (welfare) al lavoro (work), ossia il passaggio dalla percezione passiva di un sussidio - che relega i soggetti in una posizione di dipendenza - al lavoro nel settore pubblico o in ambito privato, grazie ad incentivi all’impiego per determi- nati target di lavoratori, ad una indennità garantita solo a fronte di un impegno “certificato” nella ricerca attiva di un impiego, alla partecipazione ad azioni di orientamento (counselling) e soprattutto di formazione (lifelong learning) per migliorare l’occupabilità (employability) dei soggetti in difficoltà, all’accettazione di una occupazione “adeguata” alle caratteristiche della persona che la cerca, o di un lavoro magari meno qualificato e poco remunerato, ma temporaneo e capace di fungere da trampolino di lancio verso il reingresso stabile nel mondo del lavo- ro. Ciò secondo il principio della “condizionalità”, il quale, sulla scorta del “patto” che si viene esplicitamente a siglare tra il lavoratore e lo Stato (per tramite dei cen- tri dell’impiego che erogano i servizi di attivazione), impone al lavoratore stesso il rispetto delle condizioni poste, pena la perdita di accesso ai benefici garantiti. Ne deriva un tentativo di “riallineamento tra lavoro e welfare”, di ridefinizione del rapporto tra occupazione e protezione sociale, laddove l’occupazione retribuita rappresenta l’asse portante del diritto alla protezione e più radicalmente della cit- tadinanza stessa, così come predicato nel modello sociale europeo (Hemerijck 2002): ne sono i pilastri fondativi da un lato i principi dell’occupabilità, della for- mazione permanente, dell’inserimento, del lavoro sussidiato, dall’altro lato quelli dell’attivazione e della responsabilità individuale, che solo in questo modo posso- no continuare ad intessere legami di solidarietà collettiva. Il nesso tra lavoro e welfare è sempre stato al centro del patto di cittadinanza, ma in questo nuovo approccio tale nesso pare radicalizzarsi. Volendo indicarne le coordinate di fondo, si può rilevare che esso mira ad abbinare (condizionare) l’e- sigibilità di determinate prestazioni e il sostegno all’inserimento lavorativo con l’attivazione del soggetto, attraverso strumenti di azione differenti: dallo sviluppo della formazione al potenziamento dei servizi di impiego e incontro domanda- offerta per favorire la (ri)collocazione nel mercato del lavoro; dai crediti di impo- sta agli incentivi alle assunzioni, alle integrazioni di reddito (in work benefit) volti a rendere il lavoro vantaggioso (make work pay) rispetto all’inattività o alla disoc- cupazione e alla dipendenza dal welfare. A ben vedere si configura una nuova rete di protezione, che si regge però su alcuni presupposti, i quali devono essere com- presenti e tra loro interdipendenti, pena l’insostenibilità del modello stesso: la capacità del sistema politico-economico di creare posti di lavoro; di sviluppare un efficiente sistema di incontro/domanda e offerta di lavoro (i servizi per l’impiego) e sviluppare l’offerta di formazione e orientamento; non ultimo, di finanziare eco- nomicamente un corposo pacchetto di incentivi. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 146 4. I modelli emergenti a livello europeo Il modo in cui tale ridisegno è stato interpretato a livello europeo non è univoco e lascia intravedere una diversa declinazione proprio del principio normativo che lo informa, almeno in due direzioni. Al di là della classica tipologia dei wel- fare capitalism regimes - liberale anglosassone, socialdemocratico scandinavo, conservatore-corporativo continentale, conservatore-corporativo-familista me- diterraneo (Esping-Andersen 2000; Ferrera 1998), i modelli che emergono, che semplificando un po’ possono essere considerati l’uno di matrice scandinava, l’altra di matrice anglosassone, trovano a loro volta una loro specifica declina- zione nei diversi paesi europei, anche con riferimento a quelli considerati dalla ricerca qui presentata (Danimarca, Regno Unito, Francia, Italia). I due distinti modelli di active welfare state, entrambi legati all’approccio del welfare to work (wtw) teso a promuovere il passaggio dal welfare al lavoro, in un’ottica di atti- vazione intesa in senso lato, possono essere così sintentizzati: • il primo considera il ruolo dello Stato sociale attivo una forma di investimento sociale basato su strategie e politiche orientate al capitale umano (Ambrosini, Beccalli 2004; Barbier 2004; Giddens 1999), capace di attivare le capacità dei sog- getti (la loro libertà di scelta sostanziale, la responsabilità e le possibilità di auto- realizzazione), rispetto al quale l’inserimento nel mercato del lavoro assume un significato peculiare. È una condizione fondamentale ma non necessaria né peral- tro sufficiente per garantire una cittadinanza attiva; è cioè uno degli strumenti pos- sibili per realizzare uno sviluppo umano (Bosi 2003; Busilacchi 2006) e richiede un elevato investimento in formazione (a tutti i livelli; formale e non formale) come veicolo di empowerment e di cittadinanza attiva; prefigura la possibilità che la par- tecipazione attiva non si identifichi solo nel lavoro per il mercato, ma anche in altre forme di attività socialmente utili, come per esempio il lavoro di impegno civile indicato da Beck (2000) nel quadro di una società pluriattiva (Paci 2005); • il secondo vi identifica una forma efficientista di welfare to work, come nel work- fare (Barbier 2004; Busilacchi 2006), secondo il quale il godimento dei diritti sociali è invece subordinato alla attivazione dei cittadini sul mercato del lavoro e al rapido inserimento lavorativo (in un impiego “purché sia”) e nel quale la formazione viene considerata in termini strumentali e di breve periodo come politica attiva del lavoro e dell’occupazione. La centralità assegnata al lavoro e la convinzione che esso sia, in tutti i casi, preferibile alla condizione di dipen- denza dal welfare porta a creare la figura del “lavoratore sussidiato” (per esem- pio, ma non solo, in lavori di pubblica utilità), laddove il sussidio è offerto in sostituzione o integrazione del reddito da lavoro, in sostanza riconvertendo i sus- sidi alla disoccupazione in sussidi all’occupazione (ciò che si intende con “atti- 147 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA vazione delle politiche passive”) in specie per le categorie svantaggiate, con l’o- biettivo di rompere la dipendenza dal sussidio di disoccupazione, rendendo più redditizio il lavoro, anche se poco qualificato e remunerato. In entrambi i modelli la parola chiave è attivazione, ma il modo di intenderla non è univoco. Nel primo dei due modelli, infatti, tale concetto si applica ad una visione di citta- dinanza attiva più ampia di quella sostenuta nel secondo, che la interpreta in chia- ve essenzialmente economicista ed occupazionale: essa suppone un individuo coin- volto in prima persona nella costruzione di un percorso di (re)inserimento lavora- tivo e sociale, sia nei termini di una maggiore propensione alla ricerca attiva di un impiego, sia in quelli (non meno importanti) di una maggiore possibilità di inci- dere nel rapporto con il soggetto pubblico nella definizione stessa dei programmi di reinserimento attivo. L’ampliamento di significato del concetto di attivazione è ben evidenziato dall’analisi dei singoli casi nazionali presentati nel dettaglio dalla ricerca effettuata e qui discussa nei suoi principali risultati. La discriminante da cui si è partiti per l’analisi della specificità dei modelli nazio- nali è rappresentata dalle politiche formative nel loro intreccio con le politiche sociali e occupazionali: partendo dall’assunto - fatto proprio dall’Unione europea nella definizione del suo modello sociale - che le politiche del capitale umano, inte- se in senso lato, rappresentino, o dovrebbero rappresentare, il cuore di un welfare attivo che voglia essere capability-friendly (Bonvin, Farvaque 2005), ovvero orientato realmente ad investire nell’empowerment delle persone, dunque nella loro autorealizzazione. Le politiche formative vengono così intese come politiche di inclusione e partecipazione attiva, lavorativa e sociale. 5. Il ruolo della formazione per una partecipazione attiva, nel lavoro e non solo Dentro questo quadro vengono a trovarsi in primo piano le capacità del soggetto, intese come la possibilità effettiva che possa trovare e sfruttare le opportunità che il contesto gli offre per assumere un ruolo attivo nel lavoro e nella società, ma anche per autorealizzarsi. Sempre dentro questo quadro, a sua volta la formazio- ne si configura come strumento per aumentare l’occupabilità, per accedere ad impieghi più sicuri, meglio remunerati, di maggior qualità e dunque anche più soddisfacenti, nonché per accrescere il grado di consapevolezza e capacità critica del soggetto, entrambi tasselli di un reale processo di empowerment, di capacita- zione individuale, di miglioramento delle sue chance negoziali e decisionali. Si legge in questa impostazione la convinzione che le chance di vita e di parteci- pazione attiva al lavoro e alla società dipendano sempre più dalle abilità di ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 148 apprendimento e dall’accumulazione di capitale umano (Esping-Andersen, 2002), oltre che dal capitale sociale che si riesce a mobilitare. Dal grado più “basso” a quello più “alto” della partecipazione attiva e dell’empowerment, il coinvolgimen- to dei soggetti passa attraverso la dotazione crescente di conoscenze, competenze e capacità di leggere la situazione in cui si trovano, diagnosticare e affrontare le eventuali difficoltà, assumere responsabilmente un ruolo attivo su più fronti. In questo senso può certamente essere letta l’enfasi europea sul Lifelong Learning considerato quale ambito privilegiato in cui investire sulle persone e porre le basi per lo sviluppo delle capacità necessarie per la loro attivazione nel senso più ampio del termine. Il terreno appare fecondo, ma anche colmo di insidie, e la più evidente è quella di un sovraccarico sulle politiche formative e di capitale umano, politiche chiamate a mantenere il legame di cittadinanza dove un tempo lo manteneva il lavoro, almeno laddove la loro declinazione si gioca più sul piano dell’occupabilità e meno su quello delle capacità. In questo scenario, se l’active welfare state tende a proporre uno scambio tra wel- fare e lavoro, come esplicitamente dichiarato in tutti gli approcci del welfare to work analizzati in questa ricerca e improntati al principio della “condizionalità”, tale scambio si estende alla formazione, laddove essa è presentata come una sorta di equivalente funzionale del lavoro. Ne consegue che la formazione viene propo- sta come dispositivo principe per lo sviluppo dell’occupabilità, ma anche come strumento di accompagnamento e di empowerment del soggetto di fronte alle incertezze di un mercato del lavoro “transizionale”, caratterizzato da frequenti passaggi da un lavoro ad un altro, magari alternati a momenti di disoccupazione. In altri termini, nel quadro del welfare attivo, se è vero che sul lavoro continua a incentrarsi il diritto di cittadinanza, la formazione viene ad essere proposta come forma di protezione, a garanzia dell’occupabilità e del diritto di cittadinanza, dun- que, laddove il primo manca: se oggi il lavoro non c’è, si offre un’opportunità for- mativa che consenta ritrovarne uno domani. Ma non può essere la formazione da sola a garantire la “continuità sociale” dei cittadini-lavoratori (Accornero, 2005) quando la discontinuità delle carriere lavorative la minaccia. Non può, non fosse altro per il fatto che a sua volta non è una risorsa equamente distribuita o equa- mente accessibile. Basti pensare che se le politiche di attivazione hanno il pregio di porre in primo piano l’esigenza della cura dell’occupabilità dei soggetti, l’atten- zione posta sul singolo tende sempre più ad amplificare le differenze individuali, che si rivelano non solo sul mercato del lavoro, ma perfino nella capacità o meno di fruire di iniziative formative, al limite di riconoscerle come opportunità. In altri termini, non è sufficiente che tali opportunità siano presenti, occorre che il sog- getto le sappia individuare, selezionare, cogliere e utilizzare. La difficoltà sta dun- que nell’andare nella definizione di un quadro normativo che garantisca la for- 149 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA mazione come un diritto per tutti, ma che sappia anche renderla effettivamente un diritto esigibile in tutte le sue potenzialità al di là delle differenze e delle disugua- glianze. Diverse ricerche mostrano, e il nostro lavoro ribadisce, che la formazione continua e permanente difficilmente riescono a porre rimedio alle disuguaglianze che si determinano già nel corso dell’istruzione e della formazione iniziali. Percorsi difficoltosi, uscite precoci dal sistema educativo istituzionale producono effetti cumulativi nel tempo, dando accesso a percorsi di lavoro più esposti ai rischi di precarizzazione, marginalizzazione nei lavori meno qualificati, difficoltà di acces- so ad ulteriori opportunità formative. Basti pensare che l’accesso alla formazione continua e permanente è condizionato dalla posizione occupazionale e dal livello di istruzione posseduto: essa cioè si accresce e si accumula di più proprio laddove già c’è. Occorre dunque agire sul sistema educativo allargato, sin dalla formazio- ne iniziale, così che quanti si trovano penalizzati in essa da percorsi difficoltosi o peggio da insuccessi non accumulino nel tempo ulteriori fallimenti formativi. Sono infatti in senso lato i processi formativi di istruzione e formazione professio- nale a tutti i livelli (partendo da quello primario) ad acquisire una rilevanza determinante, quale che sia il modello di welfare adottato. Ciascuno per la sua parte contribuisce a garantire l’acquisizione di capacità e competenze necessarie per leggere le trasformazioni in atto, comprendere il contesto in cui si vive, saper- ne cogliere le opportunità: siano opportunità di (re)inserimento lavorativo, di mobilità, di (ri)qualificazione, di risposta ai propri bisogni, di partecipazione atti- va e responsabile. In tale prospettiva tutti i percorsi di istruzione e formazione professionale vanno adeguatamente valorizzati, proprio per l’eterogeneità delle opportunità che posso- no offrire. La formazione professionale, in specie quella iniziale, si offre in tale sce- nario, come luogo in cui porre le basi di una cittadinanza attiva nel senso più ampio del termine, non solo in chiave strettamente occupazionale: innestandosi per definizione (e potremmo dire per vocazione) sui processi di socializzazione lavorativa, essa consente di sperimentare l’acquisizione di competenze professio- nali come promessa di realizzazione di sé nel mondo del lavoro, una promessa che va oltre la valutazione del ritorno economico che ad esso può collegarsi, per valo- rizzare invece la dimensione della costruzione identitaria attorno ad un progetto per il proprio futuro. Per dirla in altri termini, lavorando sulle competenze, così in voga nell’ambito delle politiche di employability, essa può rappresentare un luogo emblematico in cui le stesse competenze, mentre coltivano un “saper fare”, svi- luppano e rivelano un “saper essere”, se è vero che anche la competenza è indica- tiva dell’identità di una persona, nella misura in cui competenza e “persona” sono “inseparabili” (Sennet 2004). ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 150 6. Per concludere: la capability for education Per concludere, adottare la prospettiva del lifelong learning, mentre porta a valo- rizzare la formazione lungo l’arco della vita come dispositivo di protezione contro la disoccupazione e la precarietà lavorativa, come leva per lo sviluppo della car- riera professionale, come strumento per accrescere l’empowerment individuale in chiave di partecipazione attiva all’economia e alla società, conduce a parlare della formazione iniziale e della formazione professionale in particolare. Le difficoltà del nostro sistema educativo a garantire una adeguata eterogeneità di percorsi nella parità della dignità e del riconoscimento sociale gettano luce sulla questione della effettiva possibilità dei soggetti di tradurre le risorse (formative) a disposizione in risorse per l’azione (possibilità di scelta di un percorso) e in fun- zionamenti effettivi (scelta agita in termini di studio e poi di lavoro). Soprattutto gettano luce sul fatto che, mancando un adeguato contesto istituzionale a sostegno delle scelte da compiere e dei percorsi intrapresi, il soggetto si trova a essere con- siderato unico artefice di un sottoinvestimento in capitale umano, mentre su di esso pesano fattori ascritti e strutturali non meno importanti delle caratteristiche e delle aspirazioni personali. Se il welfare attivo mira realmente a promuovere la partecipazione in senso ampio, e se la formazione in tutte le sue declinazioni e modalità di apprendimento è capa- ce di promuovere tale partecipazione, allora garantire l’accesso ad essa diventa a pieno titolo un diritto di cittadinanza (Colasanto 2000). In tale scenario risulta però determinante sviluppare la capacità del soggetto di cogliere il valore di opportunità rappresentato dalla formazione, ma anche di scegliere tra diverse opzioni formative quella di valore per sé. Potremmo chiamarla capability for edu- cation (Lodigiani 2007). Per svilupparla occorre intervenire a livello di sistema educativo allargato, sin dall’istruzione e dalla formazione professionale iniziali, e prima ancora dalla scuola primaria e dell’infanzia, se è vero che la stessa efficacia della formazione continua e permanente affonda le sue radici nelle abilità cogni- tive e di apprendimento acquisite prima dell’ingresso nel mondo del lavoro, nei percorsi formativi istituzionali e non. Il welfare attivo può allora enfatizzare la centralità della formazione come fattore di protezione e attivazione, a condizione però che miri a sviluppare non solo l’uguaglianza delle opportunità ma anche le condizioni alle quali tali opportunità possono essere colte in relazione al proprio progetto di vita. In un simile contesto, la capability for education può essere svi- luppata a patto che, oltre alla garanzia del diritto soggettivo alla formazione, siano tutelati anche i diritti di accesso, successo e libertà sostanziale attraverso disposi- tivi che consentano di annullare e superare le disuguaglianze di partenza lungo il percorso: borse di studio per evitare un sottoinvestimento in istruzione da parte di 151 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA chi non possiede un adeguato capitale economico; misure di orientamento per sostenere scelte autonome da condizionamenti di tipo ascrittivi; servizi di accom- pagnamento nel corso degli studi per combattere i fenomeni di drop out, politiche capaci di valorizzare la specificità di ciascun percorso formativo e di non rendere “scelta obbligata” l’inseguimento del titolo di studio più elevato; imprese che sap- piano valorizzare il capitale umano di cui dispongono; un sistema di formazione continua e permanente che sappia intercettare tutti i beneficiari potenziali. È su questo terreno che si gioca la partita del learnfare e la possibilità di rivisitarlo alla luce di un approccio al welfare attivo che metta al centro la capacitazione in luogo dell’occupabilità, anche in ambito formativo. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 152 153 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA 6.2 - Giovani e percorsi professionalizzanti: un gap da colmare? I primi risultati Claudia Donati Dirigente Settore Scuola - Censis Oggi si presentano i primi risultati di una rilevazione, realizzata dal Censis per conto del CNOS-FAP e del CIOFS-FP nazionali, su 1.000 giovani studenti in età compresa tra i 14-19 anni, rappresentativi dell’universo per area geografica, sesso e comune di residenza. Attraverso un questionario strutturato, somministrato telefonicamente a giugno 2007, sono state analizzate le seguenti tematiche: • il percorso scolastico e formativo finora intrapreso; • il vissuto scolastico e formativo (opinioni, atteggiamenti e motivazioni); • l’atteggiamento rispetto al lavoro e allo studio, in prospettiva. Parallelamente, è stato sentito, se disponibile, anche un genitore del giovane inter- vistato, al fine di contestualizzare i dati raccolti e di rilevare le opinioni del nucleo familiare in merito alle scelte pregresse e future del figlio. In linea con quanto stimato dall’ISFOL, che attribuisce alla formazione professio- nale circa il 4% dei giovani inseriti in percorsi scolastici o professionali, il 96,5 % del campione è inserito attualmente in un percorso di studi scolastico e per il restante 3,5% (graf. 1) frequenta un corso di formazione professionale. Graf. 1 - Percorso di studi attualmente frequentato dai giovani intervistati (val. %) scuola superiore secondaria centro di formazione professionale 4% 96% ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 154 Per ciò che concerne i percorsi scolastici, prevalgono gli studi liceali (59%) segui- ti, nell’ordine, da quelli tecnici (27%) e da quelli professionali (14%). Guardando alle specialità di indirizzo, prevalgono, nel primo come nel secondo caso, quelle del comparto dei servizi rispetto a quelle del comparto industriale (tab.1). Tab. 1 - Tipo di scuola secondaria superiore frequentata (val. %) % Liceo 59,0 Istituto professionale (compresi istituti d’arte) 14,0 di cui: Industria e artigianato 18,4 Servizi 59,6 Istituto Tecnico 27,0 di cui: Commerciale (ragioneria,perito aziendale,corr.lingue estere) 45,0 Industriale (es. informatica, elettronica, meccanica, ecc.) 29,4 Totale 100,0 Fonte: rilevazione Censis, 2007 Gli allievi della FP (tab. 2) sono concentrati nei percorsi triennali (62,4%) e secondariamente biennali (25%). Nel 53,1% dei casi si tratta di corsi organizzati all’interno del sistema della FP, mentre per il 46,9% in integrazione con quello scolastico. Per oltre il 50% sono corsi finalizzati all’assolvimento dell’obbligo for- mativo/diritto-dovere all’istruzione formazione professionale. Con riferimento alle aree professionali, prevalgono all’interno del comparto indu- striale l’indirizzo meccanico (14,2%) e quello elettrico-elettronico-telecomunica- zioni (11,4%), seguiti da una gamma di indirizzi del comparto servizi (commer- cio, aziendale amministrativo, turismo, ristorazione, ecc.) tra i quali prevalgono i servizi alla persona (11,4%), a testimonianza di un fenomeno di terziarizzazione dell’offerta analogo a quello riscontrato nell’ambito dell’istruzione professionaliz- zante. 155 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA Tab. 2 - Alcune caratteristiche del corso di FP frequentato (val. %) % Durata Annuale (o inferiore all’anno) 6,3 Biennale 25,0 Triennale 62,4 Quarto anno sperimentale dei corsi triennali 6,3 Integrazione Integrato con la scuola 46,9 Tutto nella formazione professionale 53,1 Idoneo per assolvimento obbligo-diritto/dovere Sì 54,6 No 12,1 Non so 33,3 Fonte: rilevazione Censis, 2007 Soddisfatti delle scelte fatte: tra interesse per i contenuti e voglia di andare all’università La gran parte dei giovani intervistati non ha mai avuto intenzione di cambiare il percorso di studi intrapreso (85,7%, graf. 2). Graf. 2 – Intenzione di cambiare il percorso di studi intrapreso (val. %) No, mai Sì, pur rimanendo all’interno della scuola Sì, per passare dalla formazione alla scuola superiore Sì, per passare dalla scuola superiore alla formazione 85,7 14,3 12,1 0,5 1,7 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 156 Come più volte osservato in numerose indagini sulle scelte dei percorsi scolastici e professionali, il principale fattore di scelta è costituito dall’interesse per le disci- pline di studio (indicato come prima risposta dal 63,2% del campione), seguito dall’intenzione di proseguire nel percorso universitario (indicato come prima risposta dal 9,2%, ma come seconda opzione dal 24,8%). L’interesse per i contenuti come prima opzione di scelta è particolarmente elevata tra gli iscritti a percorsi scolastici - e soprattutto agli istituti professionali, ma rap- presenta la motivazione più diffusa anche tra gli allievi dei corsi di formazione professionale (graf. 3). Graf. 3 - Interesse per i contenuti del corso frequentato, secondo il percorso scelto - principale motivazione di scelta (val. %) Essendo la numerosità degli allievi dei corsi di FP scarsa, non è possibile operare disaggregazioni significative del dato. Ciò nonostante appare evidente la più fre- quenza di motivazioni legate a progetti di inserimento nel mondo del lavoro. In particolare, elaborando congiuntamente la prima e la seconda risposta fornite, si evince che, più della metà di tali allievi ha comunque indicato l’interesse generico per i contenuti, ma numerose sono le indicazioni relative alla preparazione al mondo del lavoro e alla volontà di svolgere una specifica professione (graf. 4). Liceo Istituto tecnico Totale 60,270,064,2 41,1 63,2 157 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA Graf. 4 - Motivazioni sottese alla scelta del percorso di studi (val. %) Il percorso di studi pregresso: stabile e lineare? Coerentemente con la scarsa inclinazione al cambiamento manifestata sul piano dell’intenzionalità, i percorsi di studio pregressi si caratterizzano per una sostan- ziale linearità, giacché l’86,5% dei rispondenti ha frequentato la scuola o il centro attuale senza cambiare sede o indirizzo (tab. 3). Quando ciò è avvenuto, l’evento scatenante è stato, in primo luogo, la bocciatura (42,9%) e, in secondo luogo, il disinteresse per le materie studiate (37,1%, tab. 4). La scuola secondaria superio- re si conferma come il percorso maggiormente critico: il 13,6% degli intervistati è stato “bocciato” alle superiori. Tab. 3 - Percorso scolastico e formativo pregresso (val. %) % - Ha frequentato la scuola/il centro abituale senza cambiare né sede né indirizzo di studi 86,5 - Era iscritto ad un altro tipo di scuola (liceo, tecnico, professionale) 2,6 - Ha frequentato un corso scolastico 0,1 - Ha cambiato l’indirizzo di studio, pur continuando il tipo di scuola/nella FP 0,8 - Ha cambiato sede/istituto/centro 9,5 - Ha passato un periodo di tempo senza studiare né lavorare 0,3 - Altro 0,2 Totale 100,0 trov are lav oro più fac ilm ent e cor so che pre par a a lla pro fes sio ne infl uen za di f am ilia ri/g eni tori /am ici mi inte res san o i con ten uti lav ora re i l pr ima pos sib ile pro fes sio ne che vor rei svo lge re è la sce lta me no imp egn ativ a anc ora non so cos a v ogl io f are dop o è v icin o c asa con sig lio di d oce nti/ form ato ri 60,0 50,0 40,0 30,0 20,0 10,0 0,0 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 158 Tab. 4 - Principali motivi di cambiamento del percorso di studi (val. %) % Trasferimento residenza/domicilio 17,1 Più comodo/vicino a casa 5,7 In seguito a bocciatura 42,9 Troppo difficile/eccessivo impegno richiesto 20,0 Andava troppo male/non riusciva a stare in pari con altri 5,7 Corso troppo facile 2,9 Il corso non forniva una preparazione adeguata 14,3 Il corso era troppo teorico 8,6 Problemi con insegnanti 20,0 Problemi con compagni di classe o di scuola/cfp 2,9 Non interessavano materie studiate 37,1 Non indica 8,6 Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte Il vissuto scolastico e formativo: opinioni, atteggiamenti e motivazioni. Le scelte (disorientate) dopo la terza media Sulla base della loro esperienza i giovani intervistati non ritengono adeguate le attività di orientamento espletate dalle scuole medie di I grado, che nel 57,7% ven- gono valutate generali e generiche o del tutto assenti (15,4%) (tab. 5). Tab. 5 - Opinioni sulle attività di orientamento della scuola media inferiore (val. %) - Fornisce un orientamento generale e generico 57,7 - Indica percorso successivo in base a materie in cui riesce o meno 7,5 - Orienta ed informa solo sulla scuola superiore 11,8 - Orienta ed informa anche sulla formazione professionale 3,3 - Aiuta a conoscere se stessi, per elaborare progetto di vita 4,2 - Non svolge alcun orientamento 15,4 - Altro 0,1 Totale 100,0 La visione che i giovani hanno del ciclo di studi secondario riflette la struttura- zione scuolacentrica da loro conosciuta e vissuta. Secondo il 31,5% dei rispon- denti, tutti gli studenti dovrebbero andare a scuola fino a 18 anni, mentre per il 21,9% degli stessi dovrebbe proseguire in un biennio scolastico unico. Tuttavia, non è da sottacere che un significativo 31,3% di giovani auspicano un regime di libertà di scelta tra percorsi scolastici e formazione professionale (tab. 6). 159 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA Tab. 6 - I percorsi di studio dopo la terza media (val. %) % - Dovrebbero andare tutti ad un biennio scolastico unico 21.9 - Chi vuole, dovrebbe poter andare subito a lavorare 15.3 - Dovrebbero andare tutti a scuola fino ai 18 anni 31.5 - Libertà di scelta tra scuola e istruzione/formazione professionale 31.3 Totale 100.0 Scuola e formazione palestre di vita L’ambiente formativo sia esso scolastico o afferente alla formazione professionale sembra essere percepito dai giovani, in primo luogo, come un occasione per svi- luppare un proprio saper essere che va al di là di conoscenze e competenze tecni- che. Colpisce, infatti, che il 26,3% dichiari di imparare ogni giorno a comportar- si onestamente (26,3% “sempre” e 36,7% “spesso”) e che il 52,9% ritenga di imparare spesso cose utili per la vita di tutti i giorni. Tab. 7 - Situazioni e stili di comportamenti in ambito scolastico e formativo (val. %) Sì No mai Totale Sempre Spesso A volte Imparare cose utili per la vita di tutti i giorni 11,9 52,9 29,6 5,6 100,0 Chiedersi che senso ha per stare a scuola/nel Cfp 10,2 25,4 44,3 20,1 100,0 Intervenire e fare domande durante la lezione 16,1 43,9 34,5 5,5 100,0 Chiedere aiuto nelle materie in cui si incontrano problemi 10,3 35,6 43,1 11,0 100,0 Rendersi conto che alcune materie sono ostiche 10,8 28,3 48,7 12,2 100,0 Sentirsi apprezzati dai docenti 14,0 37,1 40,3 8,6 100,0 Imparare cose utili per inserirsi nel mondo del lavoro 13,0 39,1 33,7 14,2 100,0 Imparare a comportarsi onestamente 26,3 36,7 24,7 12,3 100,0 Tali opinioni sono del resto coerenti con l’accordo espresso circa alcune opinioni su ruolo e funzione della scuola (tab. 8). È importante andare a scuola per con- frontarsi con coetanei (7,4%), la scuola aiuta a crescere come persona, a realiz- zarsi (7,1%), meno a trovare lavoro (5,5%). ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 160 Tab. 8 - Grado di accordo su alcune opinioni sulla scuola espresse da coetanei (punteggio 0 = nessun accordo; 10 = massimo accordo) Media - È importante andare a scuola per confrontarsi con coetanei 7,4 - La scuola aiuta a crescere come persona, a realizzarsi 7,1 - Con le nuove leggi si è obbligati ad iscriversi a scuola 6,3 - La scuola è spesso noiosa, poco stimolante 6,2 - La scuola richiede troppo sacrificio, è troppo pesante 5,7 - Si va a scuola per avere meno difficoltà a trovare lavoro 5,5 - Si va a scuola perché non ci sono valide alternative 5,2 Profitto e soddisfazione per lo studio In base all’autovalutazione dei giovani prevale un andamento scolastico positivo che nel 32,7% dei casi è molto al di sopra della sufficienza e nel 37,5% più che sufficiente. Solo il 4,5% dei rispondenti dichiara performance al di sotto della suf- ficienza. I più critici nei confronti dei risultati raggiunti sono gli allievi della for- mazione professionale, che ritengono di essere collocati al di sotto della sufficien- za nel 14,3% dei casi (tab. 9). Tab. 9 - Andamento scolastico/formativo nel corso dell’ultimo anno, per tipologia di percorso frequentato (val. %) Liceo Istituto Istituto FP Totale professionale tecnico - Sotto la sufficienza 3,5 3,7 5,7 14,3 4,5 - Sufficiente 19,4 34,1 32,4 31,4 25,2 - Più che sufficiente 33,7 41,5 45,1 28,6 37,6 - Molto al di sopra della sufficienza (buono/ottimo) 43,4 20,7 16,8 25,7 32,7 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Cultura generale (24,9%), convivenza civile (23,2%) e lingue straniere (22%) costituiscono gli ambiti disciplinari per i quali, più che per altri, i giovani intervi- stati dichiarano di essere molto soddisfatti. La soddisfazione in relazione alla pre- parazione per il mondo del lavoro è ampiamente diffusa solo tra gli allievi della formazione professionale (tab. 10). 161 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA Tab. 10 - % di molto + abbastanza soddisfatti di alcuni aspetti del percorso di stu- dio, per tipologia di percorso (val. %) Liceo Istituto Istituto FP Totale professionale tecnico - Bagaglio cultura generale 90,0 84,6 79,4 82,8 86,3 - Preparazione su strumenti informatici (programmi, internet) 45,6 60,3 69,8 68,5 54,7 - Preparazione su lingue straniere 72,4 62,5 65,2 57,1 68,6 - Preparazione per l’ingresso nel mondo del lavoro 40,7 68,2 59,4 80,1 50,7 - Preparazione per formazione professionale, post diploma 50,3 71,2 59,2 71,4 56,3 - Preparazione per andare all’università 69,1 45,8 46,5 28,6 58,6 - Formazione alla convivenza civile e alla democrazia 74,0 71,6 56,5 60,0 68,7 Lavoro, studio e futuro. Il lavoro un’esperienza rara Il 77,1% dei giovani non ha avuto precedenti esperienze di lavoro. Con riferimen- to al presente, la quota di coloro che non stanno sperimentando situazioni di lavo- ro cresce arrivando all’87,8%. La presenza di studenti con esperienza di lavoro - attuale o pregressa - è significativa nella formazione professionale e, più in gene- rale, in tutti i percorsi tecnico-professionali (tab. 11). Tab. 11 - Giovani e esperienze di lavoro, per tipologia di percorso frequentato (val. %) Liceo Istituto Istituto FP Totale professionale tecnico Precedenti esperienze di lavoro Sì 17,7 27,2 30,7 34,3 22,9 No 82,3 72,8 69,3 65,7 77,1 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Esperienze di lavoro attuali Sì 8,6 9,6 19,4 31,0 12,2 No 91,4 90,4 80,6 69,0 87,8 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 1000,0 ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 162 Nella maggioranza dei casi il lavoro svolto è di tipo irregolare, ovvero saltuario e non regolato da un contratto (64,2% per le precedenti esperienze lavorative e 55,1% per le esperienze attuali). Nel complesso, l’esperienza lavorativa non sem- bra abbia influito sulle scelte di studio effettuate dagli intervistati (tab. 12), tran- ne nel caso degli allievi della formazione professionale. Tab. 12 - Influenza del lavoro sulla scelta del percorso di studi, per tipologia di percorso (val. %) Liceo Istituto Istituto FP Totale professionale tecnico Sì, mi ha fatto capire meglio cosa vorrei fare in futuro 14,9 20,5 30,6 50,0 23,0 No, perché è successiva al momento della scelta 8,8 12,8 3,5 28,6 8,7 No, non ha influito 76,3 66,7 65,9 21,4 68,3 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Dopo lo studio ancora lo studio, possibilmente universitario Il 97,5% del campione manifesta l’intenzione di concludere il corso di studi attual- mente frequentato. La scelta futura prevalente, successiva alla conclusione del- l’attuale percorso formativo, è quella della progressione negli studi. Tale scelta è condivisa dal 64,7% dei rispondenti, contro il 18,5% di coloro che andranno a lavorare e il 16,8% di coloro che non hanno ancora deciso che fare (tab. 13). La maggiore propensione al lavoro si riscontra tra gli allievi dei corsi di formazione professionale (66,7%) seguiti dagli iscritti agli istituti professionali (41,0%). A parte i liceali, fermamente proiettati verso la prosecuzione degli studi, la quota di indecisi è abbastanza significativa in tutti gli altri percorsi, ed in particolare tra i futuri periti, equamente tripartiti tra futuri studenti, futuri lavoratori ed indecisi. Tab. 13 - Scelte al termine della scuola superiore o del corso di FP (val. %) Liceo Istituto Istituto FP Totale professionale tecnico Continuerà a studiare 88,9 37,0 32,7 9,1 64,7 Andrà a lavorare 2,9 41,0 35,4 66,7 18,5 Non sa, non ha ancora deciso 8,2 22,0 31,9 24,2 16,8 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 163 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA La principale motivazione alla base della decisione di andare a lavorare risiede nel desiderio di guadagnare per essere indipendente ed emanciparsi, espresso dal 70% del campione. La scelta del percorso di studi da intraprendere sembra di per sé automatica, con- siderato che quasi la totalità di coloro che proseguiranno manifesta l’intenzione di iscriversi ad un corso di laurea (93,6%), senza prendere in considerazione le alter- native esistenti di formazione superiore. Voglio un lavoro vicino ai miei interessi Sebbene, come già visto, l’esperienza lavorativa sia un bene raro tra i giovani, tut- tavia, più della metà degli intervistati dichiara di voler lavorare in modo saltuario occasionale durante gli studi (54,4%), soprattutto se donne (57% contro 51,6% di maschi) e se residenti nel Nord Est (64,8% tab. 14). Tab. 14 - Disponibilità a svolgere attività lavorativa durante gli studi, per sesso e area geografica (val. %) Sesso Area geografica Maschio Femmina Nord Ovest Nord Est Centro Sud Totale e Isole - Sì, intende lavorare in modo saltuario, occasionale 51,6 57,0 53,4 64,8 57,4 51,1 54,4 - Sì, intende lavorare in modo continuativo e studiare 13,9 15,9 18,3 14,1 13,1 14,5 15,0 - No, pensa di concentrarsi solo sugli studi 32,7 26,8 27,5 21,1 28,7 33,0 29,6 - Sta già lavorando e studiando ed intende continuare 1,8 0,3 0,8 0,8 1,4 1,0 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 La componente motivazionale nel lavoro risulta essere dirimente. Infatti, secondo gli intervistati, il lavoro deve essere, in primo luogo, vicino ai propri interessi (47,1%), assicurare personale autorealizzazione (10,3%), essere coerente con gli studi fatti (9,8%). L’eventualità che il lavoro garantisca anche elevato guadagno è contemplata solo dal 10,2% dei casi (tab. 15). ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 164 Tab. 15 - Le caratteristiche più importanti del lavoro futuro, per sesso (val. %) Sesso Totale Maschio Femmina Un lavoro vicino ai propri interessi 45,0 49,2 47,1 Un lavoro che assicuri la propria autorealizzazione 9,0 11,8 10,3 Un lavoro con elevato guadagno 13,3 7,0 10,2 Un lavoro coerente con gli studi fatti 8,5 11,2 9,8 Un lavoro che garantisca il posto fisso / sicuro 7,7 8,5 8,1 Un lavoro di successo 7,3 5,4 6,4 Un lavoro che consenta di imparare una professione 5,0 2,1 3,6 Un lavoro con elevata utilità sociale 1,9 2,9 2,4 Un lavoro con orario flessibile 2,3 1,9 2,1 Totale 100,0 100,0 100,0 Formazione, Università e Lavoro L’analisi delle opinioni espresse in merito al valore dell’investimento in formazio- ne permette di osservare che (tab.16): - la laurea è considerata un titolo necessario per trovare un buon lavoro (36,2% molto d’accordo, valore che sale al 78,2% se si considerano anche gli “abba- stanza d’accordo”) e che la qualifica professionale è per i giovani un titolo più che sufficiente per trovare lavoro, quasi al pari del diploma superiore (40,7% e 43,5% abbastanza d’accordo); - la valenza professionalizzante dei corsi di formazione professionale è fatto risa- puto, poiché è a questi che bisogna iscriversi per imparare un mestiere (44,2% abbastanza d’accordo) ed è attraverso questi che si studiano le cose concreta- mente e con maggiore soddisfazione (40,7% abbastanza d’accordo); - esistono ancora pregiudizi nei confronti dei corsi di formazione professionale, essendo ritenuti dei percorsi formativi rivolti a chi ha poca voglia di studiare (20,1% molto d’accordo e 47,3% “abbastanza d’accordo”); - talvolta l’università è una scelta obbligata per i giovani che non hanno valide alternative (40,1% abbastanza d’accordo e 15,2% “molto d’accordo”) per impa- rare una professione; - è presente la consapevolezza di dover progredire nel percorso di studi, richie- dendo il mercato figure sempre più specializzate (55,1% molto d’accordo e 37,1% abbastanza d’accordo). 165 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA Tab. 16 - Opinioni e atteggiamenti degli studenti rispetto alla formazione e all’università (val. %) Molto Abbastanza Poco Per nulla Totale - I corsi di formazione richiedono una frequenza costante, ma poco individuale 11,9 57,7 24,0 6,4 100,0 - per avere un buon lavoro è necessario arrivare alla laurea 36,2 42,0 16,0 5,8 100,0 - La formazione offre corsi più semplici per chi ha poca voglia di studiare 20,1 47,3 24,5 8,1 100,0 - Per imparare un mestiere bisogna iscriversi a corsi di FP 15,4 46,2 30,9 7,5 100,0 - Il mercato del lavoro chiede figure sempre più specializzate 55,1 37,1 6,8 1,0 100,0 - Il diploma superiore è titolo più che sufficiente a trovare lavoro 12,5 43,5 33,0 11,0 100,0 - Nei corsi di formazione si studiano le cose concretamente, quindi con maggiore soddisfazione 16,9 51,5 25,9 5,7 100,0 - La qualifica professionale è titolo più che sufficiente per trovare lavoro 10,7 40,7 36,7 11,9 100,0 - Non serve avere un titolo di studio per trovare lavoro 4,2 21,3 33,3 41,2 100,0 - I giovani si iscrivono all’università, perché non ci sono valide alternative per imparare una professione 15,2 40,1 28,1 16,6 100,0 Famiglia di origine e percorsi di studio. Il nucleo familiare Il 90% dei giovani intervistati vive in una famiglia tradizionale con entrambi i genitori. Le condizioni professionali di quest’ultimi rispecchiano la stratificazione sociale del paese, caratterizzata dalla prevalenza di ceti medi e da una significati- va percentuale di mogli/madri casalinghe. Infatti, il 54% dei padri è occupato come impiegato o operaio, mentre il 40,1% delle madri svolge il lavoro di impie- gata o insegnante ed il 29,4% delle stesse è impegnata nella gestione della casa (tab. 17). ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 166 Tab. 17 - Condizione professionale dei genitori: le situazioni prevalenti (val. %) Val. % Padre Dirigente/Quadro/Funzionario 12,7 Impiegato / Insegnante 33,5 Operaio / altra figura simile (commesso, ecc.) 20,5 Imprenditore/Libero professionista 17,0 Madre Impiegata / Insegnante 40,1 Operaia / altra figura simile (commessa, ecc.) 12,4 Si occupa della gestione della casa 29,4 Il diploma di scuola media superiore è il titolo di istruzione prevalente (46,2% dei padri e 48,2% delle madri). Prevalgono i padri laureati sulle madri (24,3% e 17,4%). Il 57,4% dei genitori intervistati ritiene di aver avuto un ruolo importante nelle scelte di studio dei propri figli dopo la scuola media di I grado, il 14,1% decisivo, il 28,5% insignificante (tab. 18). Tab. 18 - Ruolo svolto dai genitori nelle scelte di studio dei figli dopo la scuola media, per area geografica (val. %) Area geografica Nord Ovest Nord Est Centro Sud Totale e Isole Decisivo 25,7 12,0 11,2 10,5 14,1 Importante 54,5 58,4 62,1 56,4 57,4 Insignificante 19,8 29,6 26,7 33,1 28,5 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 La formazione professionale come alternativa alla scuola I genitori indotti a riflettere su possibili percorsi formativi entro i quali inserire i giovani alla conclusione del ciclo primario, sebbene concordino prevalentemente sull’ipotesi di scenari educativi centrati sulla scuola, esprimono, comunque, un elevato grado di accordo anche per quelle proposte che prevedono dei momenti di snodo dalla scuola alla formazione professionale, affidando a quest’ultima un ruolo paritetico e alternativo a quello dell’istruzione scolastica. 167 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA Infatti al 58,5% di genitori favorevoli ad iscrivere i propri figli a percorsi scolasti- ci lunghi, orientati al conseguimento del diploma di “maturità” e al 35% degli stessi favorevole all’iscrizione a percorsi scolastici biennali, con prosecuzione degli studi sia nella scuola, sia nella formazione professionale (tab. 19), si contrappone un complessivo 35,6% che concorda sull’eventualità di corsi professionalizzanti o finalizzati all’inserimento nel mondo del lavoro (21%) o aperti alla prosecuzione degli studi (14,6%). Tab. 19 - Possibili percorsi di studio dei figli dopo la scuola media, per area geografica (val. %) Area geografica Nord Ovest Nord Est Centro Sud Totale e Isole - Iscrizione a percorsi scolastici lunghi finalizzati al diploma di maturità 56,3 51,1 55,6 63,1 58,5 - Iscrizione a percorsi scolastici biennali che permettono la prosecuzione degli studi, sia nella scuola, sia nella FP 44,9 29,8 33,9 31,7 35,0 - Iscrizione a corsi brevi di formazione professionalizzante finalizzati all’inserimento nel mondo del lavoro 16,2 20,2 21,0 23,9 21,0 - Iscrizione a percorsi professionalizzanti anche brevi, ma aperti alla prosecuzione negli studi, fino a livelli universitari e/o analoghi a quelli universitari 16,2 19,1 13,7 12,6 14,6 Secondo il 51,4% degli intervistati sono insufficienti le informazioni disponibili sulla possibilità di frequentare corsi nell’istruzione-formazione rispetto ai percor- si della scuola secondaria superiore. Il gap informativo è percepito più al Sud (60,8%) che nelle altre ripartizioni geografiche (tab. 20). Questo dato è indice del fatto che per scegliere bisogna prima conoscere. Pertanto, accrescendo le informazioni sui percorsi formativi alternativi a quelli scolastici, è presumibile che si verifichi anche un incremento della propensione alla scelta. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 168 Tab. 20 - Giudizio sulla disponibilità di informazioni sull’offerta di corsi di istruzione e formazione professionale rispetto a quelle disponibili sulla scuola secondaria superiore, per area geografica (val. %) Area geografica Nord Ovest Nord Est Centro Sud Totale e Isole Insufficienti 50,3 34,2 44,0 60,8 51,4 Adeguate 49,7 65,8 56,0 39,2 48,6 Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Dopo la terza media è importante proseguire negli studi Al di là dei possibili percorsi formativi, sembra oramai condivisa dai genitori la necessità di indurre i giovani al proseguimento degli studi, facendo acquisire loro titoli, qualifiche, competenze per un proficuo inserimento nel mondo del lavoro e per innalzare il generale livello di cultura della popolazione. Non è un caso, infat- ti, che il 64,4% dei rispondenti si sia dichiarato contrario all’abolizione di ogni obbligo di formazione dopo la terza media. Per questa ragione le ipotesi di percorso presentate: obbligo di istruzione fino a 16 anni esclusivamente nella scuola (70,3%); obbligo di istruzione e fino a 16 anni, da svolgersi sia nella scuola sia nella formazione professionale (65,3%) e, infine, diritto/dovere di frequentare un percorso scolastico o di formazione professionale fino a 18 anni o fino al conseguimento di una qualifica/diploma (63,3%) hanno riportato percentuali di assenso dello stesso ordine di grandezza (tab. 21). A prescindere dalla natura e dall’articolazione dei percorsi, il valore condiviso sembra essere quello della progressione formativa. È in questa prospettiva, quin- di, che deve essere letto il favore manifestato circa la possibilità di espletare il diritto/dovere all’istruzione formazione professionale tramite lo strumento del- l’apprendistato (67,1%). 169 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA Tab. 21 - Accordo su possibili scenari di istruzione e FP per i giovani (val. %) Val. % Obbligo istruzione fino a 16 anni, da svolgere nella scuola Sì 70,3 No 29,7 Totale 100,0 Obbligo istruzione fino a 16 anni da svolgersi a scuola, sia nella formazione, sia nella formazione professionale Sì 65,3 No 34,7 Totale 100,0 Diritto/dovere frequentare percorso di studio fino a 18 anni o fino al conseguimento di una qualifica/diploma Sì 63,3 No 36,7 Totale 100,0 Possibilità di espletare diritto/dovere tramite lo strumento dell’apprendistato Sì 67,1 No 32,9 Totale 100,0 Non ci dovrebbero essere obblighi. Dopo la terza media un giovane dovrebbe poter scegliere di andare a lavorare Sì 35,6 No 64,4 Totale 100,0 Lingue e formazione alla convivenza civile e alla democrazia Secondo i genitori intervistati i loro figli prima ancora di accrescere conoscenze di base e competenze tecniche hanno la necessità di rafforzare le proprie abilità lin- guistiche e di formarsi alla convivenza civile e alla democrazia (rispettivamente 53% e 51,2% molto d’accordo). Questi dati possono essere interpretati come due aspetti di uno stesso fenomeno, ovvero l’importanza di sapersi relazionare in contesti sempre più globalizzati e complessi, dove la comunicazione per essere efficace non può prescindere dal rispetto dei valori del proprio interlocutore (tab. 22). ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 170 Tab. 22 - Opinioni dei genitori su conoscenze e/o competenze da rafforzare dopo la terza media (val. %) grado di accordo Totale molto abbastanza poco per nulla Una maggiore cultura generale 47,9 47,3 4,2 0,6 100,0 Competenze tecnico e professionali 37,6 51,7 9,8 0,9 100,0 Più preparazione su strumenti informatici (programmi, internet) 47,3 40,7 10,3 1,7 100,0 Più preparazione su lingue straniere 53,0 39,4 7,3 0,3 100,0 Più preparazione per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro 48,9 38,8 10,0 2,3 100,0 Preparazione per andare all’università 45,7 37,7 13,6 3,0 100,0 Formazione alla convivenza civile e alla democrazia 51,2 36,1 10,0 2,7 100,0 Fonte: rilevazione Censis 2007 6.3 - Le sperimentazioni del diritto-dovere nei CFP del CNOS-FAP e del CIOFS-FP della Sicilia Rosaria Ventura Direttore Ricerca e Sviluppo – CIOFS-FP Sicilia Sono qui oggi a presentare la ricerca sulla sperimentazione del diritto-dovere che è stata condotta per l’anno formativo 2005-2006 presso i centri salesiani del CIOFS-FP e del CNOS-FAP della Sicilia. I dati numerici riguardano solo e speci- ficamente quest’anno formativo. Essa si pone in continuità con la pubblicazione del 2003, opera molto più vasta, in quanto aveva coinvolto tutte le regioni e parec- chi enti di ispirazione cattolica. Nella prima parte della recente pubblicazione è collocata una sintesi del monitoraggio che i due enti hanno continuato a fare dal 2000 al 2005 in Sicilia, proprio per mettere in rilievo che la sperimentazione è stata sempre oggetto di analisi, confronto e controllo per raggiungere obiettivi di continuo miglioramento. La pubblicazione della ricerca dell’aprile 2007, come quella del 2003, è stata curata dal prof. Guglielmo Malizia e dal prof. Vittorio Pieroni, entrambi dell’Università Pontificia Salesiana di Roma; per entrambe le pubblicazioni sono stati forniti sostanzialmente gli stessi strumenti di indagine, gli ultimi natural- mente perfezionati sulla base delle criticità emerse nella prima applicazione. Per alcune schede di rilevamento il CIOFS-FP ha preferito utilizzare le proprie in quanto molto simili a quelle del kit fornito dalla ricerca, ma con alcune sfumatu- re che l’ente ha stimato determinanti. Il lavoro della ricerca è orientato alla diffusione dei risultati, ma soprattutto: • ad una valutazione dei nuovi percorsi triennali progettati e gestiti sulla base del- l’accordo Stato - Regioni del 19 giugno 2003; • alla riflessione interna: si è voluto offrire agli operatori dei due Enti di FP con- creti spunti di riflessione, per proseguire il cammino di progettazione - eroga- zione del servizio formativo con più efficacia e, possibilmente, anche con più efficienza, valorizzando di anno in anno gli elementi di eccellenza emersi e ridu- cendo le eventuali criticità; • alla valutazione di possibili interventi risolutivi da attivare in itinere per il miglioramento continuo, attraverso la strategia del monitoraggio e della valuta- zione delle componenti di criticità ed eccellenza emerse. 171 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA Gli obiettivi sono stati raggiunti in più versanti, primo fra tutti il calo sistematico della dispersione. L’indagine ha interessato 12 CFP del CIOFS-FP e 6 CFP del CNOS-FAP. I settori ope- rativi in cui i due Enti lavorano sono, principalmente, il terziario per il CIOFS-FP e il secondario per il CNOS-FAP. Gli utenti interessati sono i minori in obbligo di istruzione e formazione (macroti- pologia A) che costituiscono il 50% circa della popolazione delle attività formati- ve del CIOFS-FP e il 90% circa delle attività formative del CNOS-FAP. Il numero delle ore di formazione sotto osservazione della ricerca sono circa 43.000 per il CIOFS-FP e circa 80.000 per il CNOS-FAP. Gli strumenti di rilevamento hanno avuto come destinatari compilatori: • i dirigenti - responsabili, chiamati a dare informazioni circa le strutture logisti- che, le metodologie organizzative e formative, la struttura didattica dei percorsi formativi, il personale docente e non, le risorse, gli obiettivi, le strategie di moni- toraggio, le relazioni interne ed esterne, ecc; • i formatori, cui è stato chiesto di esprimersi in relazione agli obiettivi e contenu- ti del corso, le attese proprie e degli allievi, il clima di relazione tra colleghi e con le risorse del centro, ecc; • gli allievi di tutte le classi, che hanno dato informazioni sul servizio ricevuto, sulle metodologie di apprendimento, sulle strategie organizzative, sul clima di relazioni ecc; • le famiglie degli allievi, cui sono state rivolte quasi le stesse domande poste ai loro figli. Le sintesi riportate nel testo sono state organizzate in due diverse modalità: • per le schede applicate con lo stesso format da entrambi gli enti le medie stati- stiche riguardano tutta la regione Sicilia ed entrambi gli Enti, • per le schede diverse utilizzate dal CIOFS-FP i risultati sono stati assemblati per ente, mettendo così in rilievo lo specifico di ciascuno. Presentazione dei contenuti delle schede di rilevamento Le schede 1, 3, 4, 7 sono le schede di interesse e indagine generali, mentre le sche- de 5, 6 e 8 sono le schede di rilevamento che abbiamo applicato agli allievi, ai nostri formatori e alle famiglie degli utenti, per sentire direttamente le persone che sono coinvolte nella formazione. La scheda numero 1 è una indagine generale che riguarda le ore di formazione della sede, il numero degli allievi, il personale, le funzioni, le strutture, gli stru- menti di progettazione educativa etc. È un monitoraggio omnicomprensivo: dalla progettazione fino alla valutazione dei progetti, dall’immagine dell’ente ai suoi ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 172 rapporti con il territorio. La scheda numero 3 riguarda la gestione dei destinatari: le caratteristiche degli allievi, la provenienza delle iscrizioni, il numero degli allievi ritirati o trasferiti, i motivi, il numero degli allievi che lungo il percorso si sono aggiunti e la situazio- ne a fine corso. La scheda numero 4 è una check list per la valutazione dell’attuazione delle azio- ni formative. L’intervista riguarda la partecipazione degli utenti: il monitoraggio sulla presenza, la frequenza, i ritiri, le motivazioni; l’orientamento che è stato fatto, sia iniziale che l’affiancamento in itinere, il loro posizionamento; gli stru- menti di auto-formazione e di auto-valutazione e gli strumenti per la gestione del progetto stesso; gli interventi di modifica lungo il percorso grazie anche alle rile- vazioni di gradimento realizzate in itinere, a cui bisogna prestare molta attenzio- ne, sia come direzione che si interessa dell’andamento di tutto, sia come collegio di formatori; i recuperi, gli approfondimenti, gli esiti della valutazione. Inoltre la check list riguarda altri aspetti come: la qualità della docenza, ovvero i requisiti del personale, il coordinamento, la rispondenza delle metodologie alla progettazione e alle esigenze degli utenti, il clima d’aula e il clima fuori aula. Da questi elementi si evidenzia l’importanza che diamo all’approccio personale e del centro verso l’allievo. Abbiamo analizzato anche l’adeguatezza dell’organizzazione, quindi tutte le fun- zioni attivate, gli ambienti, i sistemi di sicurezza, le modalità del trattamento dati rispetto alle norme vigenti, l’impatto della funzione direttiva in ordine al successo formativo, il supporto all’utenza e ai formatori. Riguardo a questi ultimi ci teniamo a sottolineare che per noi è una tradizione accompagnare i formatori nella formazione e aggiornamento continuo, sia per l’a- spetto professionalizzante che per l’aspetto educativo, metodologico e pedagogico. Cerchiamo di trasmettere il nostro sistema preventivo, caratteristico della pedago- gia salesiana, fondata sul clima relazionale che chiamiamo “di famiglia”, sulle strategie di coinvolgimento attivo, sulla amorevolezza del tratto, che non è sem- plice cortesia, ma amore pedagogico che vuole scommettersi per la crescita dei gio- vani. La scheda numero 5 riguarda il gradimento allievi per il servizio ricevuto: è con- segnata direttamente agli allievi, che la compilano in forma anonima. La raccolta e il commento ai risultati è graficamente separata per i due enti CNOS-FAP e CIOFS-FP perché il format usato è lievemente diverso e anche il numero delle rile- vazioni fatte. Il CIOFS-FP fa di solito tre rilevazioni l’anno, dunque il numero delle schede sono triplicate rispetto al numero degli allievi. La motivazione ha la sua radice nella necessità di rilevare lungo tutto il periodo di formazione gli “umori” degli allievi, 173 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA per poter intervenire in corso d’opera e utilizzare i risultati dei rilevamenti come base di incontro, coinvolgimento e riflessione con i ragazzi stessi. Questa strategia ha permesso di fare attenzione sollecitamente ai punti di criticità, in modo che non abbiano a degenerare, causando altri problemi, e ai punti di eccellenza per poten- ziare gli aspetti positivi che si vanno riscontrando. L’intervista agli allievi, per l’uno e per l’altro Ente, riguarda sia i contenuti del corso, che l’utilità, l’importanza, l’interesse percepito, sia i formatori, la loro pre- parazione e l’efficacia di comunicazione, il riferimento ad esperienze di vita, l’im- patto relazionale, i metodi. Esprimono anche il loro parere sull’organizzazione, sul loro apprendimento, sui tempi di distribuzione delle attività, sulla loro soddisfa- zione in generale. La scheda numero 6 riguarda il gradimento dei formatori. Oltre alcune informa- zioni generali professionali sul formatore interessato, si fa un sondaggio sulle aspettative dei loro allievi, sulla professionalità dei loro colleghi e altro personale, sul progetto, sull’organizzazione, sulla soddisfazione per l’esperienza fatta con gli allievi e presso il centro. La scheda numero 7 dà una valutazione complessiva del corso e riguarda gli snodi fondamentali, il coinvolgimento di scuole, di altre strutture, di famiglie, di impre- se. Riguarda anche la modalità di accoglienza, di orientamento, di bilancio e di posizionamento professionale, la gestione dei crediti, la gestione delle passerelle, cioè sui transiti dalla formazione all’istruzione e viceversa, il recupero e gli apprendimenti. Per le metodologie si pone l’attenzione sulla modularità, le metodologie attive e coinvolgenti, le verifiche, le valutazioni, gli strumenti utilizzati sia per le verifiche che per la valutazione. Anche le famiglie sono state interpellate con la scheda n. 8 su alcune questioni per noi basilari, quali la crescita dei loro figli dal punto di vista culturale, morale, rela- zionale, sul gradimento delle relazioni istaurate, sull’incisività della formazione per il futuro inserimento lavorativo dei loro figli. Alcuni risultati emersi: allievi Mi soffermo solo su alcuni risultati che ritengo molto significativi: gli allievi inter- vistati sono 1.797, di cui il 69% viene direttamente dalla scuola media. Questo risultato è indice di una informazione che finalmente è passata nelle scuole medie, ora molti sanno di poter scegliere dopo la licenza media e non dopo aver subito un insuccesso scolastico, come è capitato purtroppo al 17,7% degli intervistati, che provengono dalla scuola superiore; il 5,2% viene perché orientato da sportelli informativi e il 2,5% perché orientato dalle famiglie. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 174 Lungo l’anno in tutta la regione hanno transitato, dalla formazione ad altri corsi, all’istruzione e pochi al lavoro, 278 allievi (il 15,4%); in compenso 153 allievi (8,5%) si sono aggiunti a percorso professionale incominciato, quasi tutti prove- nienti dall’istruzione. I portatori di speciali disagi sono il 7,8% e il 2,2% i porta- tori di disabilità, gli extracomunitari solo l’1,75% e spesso sono quelli che abban- donano il percorso, perché trasferiti dalle Case di Accoglienza dove sono ospiti, o dal giudice dei minori. Per quanto riguarda la valutazione degli apprendimenti a fine anno, consideran- do che la scala di valori è da 1 (insufficiente) a un massimo di 5, se a fine anno i ragazzi, sia nell’auto-valutazione che nella valutazione dei loro formatori, rag- giungono un valore complessivo maggiore di 3, vuol dire che si sono collocati al di sopra della sufficienza, quasi sul buono, e, alcune volte, anche sull’ottimo. Gli allievi esaminati a fine anno sono stati 433 per il CIOFS-FP e 1.186 per il CNOS-FAP per un totale di 1619. Le valutazioni positive (oltre la sufficienza) sono il 62,85% e le valutazioni eccel- lenti complessivamente il 10,5%. I risultati si commentano da soli, ma per i for- matori sono un elemento di gratificazione per l’immane lavoro che ci sta dietro. Per quanto riguarda il gradimento per il servizio ricevuto gli allievi, in misura dell’80%, dichiarano che il proprio gradimento va oltre l’“abbastanza” e vicino al “molto”, ovvero in un livello che è tra i 3 e il 4 (1=minimo, 4=massimo), mentre l’83,42% pone sul livello 3,5 l’apprezzamento dei contenuti del corso e il 33,9% dice di stimare moltissimo le competenze dei formatori, mentre il 3,7 dice di non stimarli per nulla, gli altri si distribuiscono su livelli intermedi. Altri risultati emersi: formatori I formatori intervistati sono circa 177 per il CIOFS-FP e circa 267 per il CNOS-FAP per un totale quindi di 444 unità. Le attività sulle quali sono stati intervistati riguardano l’analisi della domanda del territorio e delle aziende, la progettazione di dettaglio, la gestione dell’attività, il monitoraggio, le relazioni interne ed ester- ne, le valutazioni, le relazioni con gli allievi e le famiglie, le loro aspettative. Anche i formatori collocano i ragazzi, per quanto riguarda l’apprendimento, la partecipazione, le loro aspettative, le problematiche sollevate, quali segni di coin- volgimento e di partecipazione, oltre il livello 3, quindi molto sopra la sufficienza. In realtà il 73,5% si dichiara soddisfatto dei risultati conseguiti. In questa valuta- zione pesa molto la situazione di partenza degli allievi: molto bassa per quanto riguarda la preparazione di base, scarsa per quanto riguarda le motivazioni; si tiene conto però dei progressi da loro dimostrati lungo il percorso formativo. È da tutti segnalato che i primi due mesi di attività con gli allievi servono per dare moti- 175 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA vazioni, inculcare valori, ripristinare l’autostima, insegnare metodologie di apprendimento; dopo questo lavoro è possibile “costruire” contenuti, capacità, competenze sia di base che trasversali e professionali. Il 96% dichiara di riscon- trare nei colleghi una preparazione professionale specifica quasi ottima, mentre il numero più basso di formatori, l’85,5% (!), valuta con livello 3,5 la capacità di utilizzare metodologie coinvolgenti, tutti gli altri valori sono distribuiti tra questo minimo e massimo. Il progetto sul piano professionale viene valutato complessivamente con il livello 3,25, mentre sul piano contenutistico con 3,17, in rapporto alle possibilità di apprendimento degli allievi 2,98. Quest’ultimo dato ha fatto nascere un confron- to tra i progettisti e i formatori, che hanno registrato il sovradimensionamento del progetto in relazione alle forti carenze dimostrate dagli allievi in fase iniziale. Un ulteriore confronto con i risultati finali (valutazione degli apprendimenti) convin- ce tutti che vale la pena mirare in alto, perché l’unico dato al di sotto del 3 (2,69) è stato registrato alla voce “Il corso ha aiutato ad utilizzare quanto appreso nel proseguimento degli studi”, mentre per quanto riguarda le conoscenze generali, le conoscenze tecnico professionali, le capacità operative, l’utilizzo degli apprendi- menti nella vita professionale e l’acquisizione di un metodo di lavoro, i livelli sono tutti al di sopra del 3. Altri risultati emersi: il gradimento delle famiglie Mi soffermo un attimo sulle schede di gradimento delle famiglie, le quali vengono consultate due volte nell’anno: a metà percorso e a fine anno. Le famiglie in media, sempre considerando la scala tassonometrica da 1 a 4, collocano la loro valuta- zione oltre il livello 3 su tutti i quesiti posti. Il valore più basso, ma sempre molto positivo, (3,11) riguarda l’utilità degli incontri con il CFP. Nella loro espressione di gradimento le famiglie danno la massima importanza (3,49) agli argomenti che i ragazzi hanno affrontato nel percorso formativo in preparazione al lavoro futu- ro, alla maturazione di capacità relazionali e di collaborazione (3,31) e all’effica- cia della presenza del tutor e del coordinatore (3,44). Il risultato più gratificante di questa indagine la offrono i genitori, quando alla domanda “se l’allievo partecipa volentieri alle attività del CFP” rispondono con un livello netto del 3,3. Con questo consideriamo superata definitivamente la fase del rigetto della scuola, in quanto finalmente le famiglie vedono il CFP come ambien- te di impegno, di fatica, ma anche di soddisfazione, di preparazione al futuro, come luogo quindi di maturazione e di crescita della persona, del cittadino, del lavoratore. Altro indicatore positivo emerso dall’indagine è la segnalazione della maturazione dei loro figli nella dimensione relazionale e collaborativa. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 176 Infine, ci fa molto piacere vedere che, nelle osservazioni, i genitori utilizzano la parola “scuola” a posto di CFP, col significato netto che per loro il percorso trien- nale nella FP è perfettamente equivalente a quello scolastico, non si sentono più cittadini di serie B per la scelta fatta. Nella pubblicazione si troverà naturalmente un’analisi precisa e completa dei dati riassunti parzialmente in questa presentazione e offrirà spunti di ulteriori appro- fondimenti e riflessioni, che potranno tradursi in strategie educative più adeguate al target, più efficaci per ottenere risultati sempre più aderenti alle esigenze e alle problematiche giovanili. 177 IL CONTESTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA 7. LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO PER LA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA 181 LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO PER LA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA 7.1 - Introduzione Mario Tonini Vice Presidente FORMA Un quadro critico ed in contrasto con gli indirizzi europei L’attuale “stato dell’arte” della formazione professionale in Italia è decisamente critico, non solo perché hanno preso vigore negli ultimi tempi nel nostro Paese forze che puntano alla riproposizione di una prospettiva basata sulla centralità della scuola e degli apparati ministeriali centrali sulla “periferia” e sulla domi- nanza dell’enciclopedismo disciplinare, ma anche perché viene continuamente riproposta una scissione deleteria tra cultura e lavoro, quasi che fosse possibile un sapere che non sia implicato nell’azione ed un’attività umana che non abbia anche una dimensione culturale. La condizione critica della istruzione e formazione professionale - specie in alcu- ne regioni - rivela non soltanto una problematica relativa alle risorse (questione che pure presenta una sua rilevanza, ma che dipende comunque dai criteri che orientano le scelte e definiscono il quadro delle priorità), ma soprattutto una que- stione culturale che non sembra tener conto del cambiamento sociale complessivo, delle tematiche della competitività, delle esigenze reali dei giovani e delle loro famiglie, dei vincoli dell’economia, dei mercati del lavoro e delle professioni. Ciò accade in netto contrasto con il dibattito europeo ed in particolare con la con- cezione della cittadinanza che emerge dai paesi partner dell’Unione europea e dalle elaborazioni relative ai percorsi formativi professionalizzanti (VET). In modo particolare, tre sono le questioni su cui si sollecita il confronto fra i com- ponenti della tavola rotonda. 1. Il fabbisogno di professionalità in Italia Il deficit di professionalità ai vari livelli (qualificati, tecnici, tecnici superiori e quadri), così come emerge dai mercati del lavoro e delle professioni del nostro Paese, risulta sempre più ampio tanto da costituire esso stesso una delle cause più importanti della mancata attualizzazione delle potenzialità di sviluppo economico e sociale. In particolare, i settori più dinamici ed attivi anche nel mercato globale, quelli a maggiore valenza cognitiva e di innovazione, lamentano una cronica ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 182 carenza di risorse umane qualificate ed esprimono una caduta di attese nei con- fronti del sistema educativo così come configurato. Ciò viene confermato da ogni ambito economico, culturale e territoriale, segno che si tratta di una condizione generale. Tale deficit è stato stimato da Confindustria nel 2005, secondo un approccio meramente numerico nell’ordine del 20,3% rispetto alla situazione ideale e del 23,8% rispetto alla media OCSE. Ciò senza analizzare gli aspetti qua- litativi che risultano decisivi e che manifestano il proseguimento del processo di liceizzazione dell’istruzione tecnica e professionale già in atto da almeno due decenni. La continua riduzione di contenuti professionalizzanti di questi percorsi e la rinuncia al diploma di qualifica per gli IP (al fine di evitare il passaggio alle Regioni), infine la riduzione dei percorsi di IFP regionali sono tutti fattori che aprono una criticità ancora più rilevante in un sistema economico italiano che è già in coda all’intero contesto OCSE in termini di tassi di sviluppo. • Com’è possibile invertire tale tendenza e consentire un dialogo-cooperazione più stretto tra sistema sociale e sistema educativo, così da interrompere ed invertire la tendenza alla liceizzazione (e nel contempo alla banalizzazione) dei saperi impartiti nella scuola? 2. Il successo formativo e la motivazione all’apprendimento La persistenza nel nostro Paese di un grave tasso di insuccesso e di dispersione sco- lastica viene attribuita da molti esperti non esclusivamente ad una questione di metodologie didattiche o di processi organizzativi, quanto prioritariamente alla povertà di opzioni possibili su cui i giovani si troverebbero a scegliere, ed in par- ticolare all’assenza di un sistema di offerta chiaramente caratterizzato in senso professionalizzante (VET), in grado ad un tempo di formare il cittadino secondo le prerogative indicate (competenze chiave) e di combattere l’esclusione sociale. La mera ricostruzione di condizioni di gestibilità dei processi scolastici riconduci- bili non solo a fenomeni di bullismo e di ribellione diffusa degli studenti, ma anche da concezioni dimissionarie del ruolo docente, se non accompagnata ad una revi- sione dell’offerta formativa nel senso del suo ampliamento e della valorizzazione delle risorse educative presenti nella società in un quadro di sano pluralismo, rap- presenta una strategia vana che illude i docenti circa la possibilità di riportare nella scuola la serietà che le era propria negli anni ’60, ma non intacca il fenome- no dell’insuccesso e della dispersione. 183 LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO PER LA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA • Solo un effettivo riconoscimento del diritto dei giovani di scegliere tra opzioni alternative a carattere equivalente in relazione alle competenze della cittadi- nanza, sembra costituire il passo indispensabile per fondare un nuovo patto educativo tra istituzioni e giovani generazioni così da rilanciare la motivazione all’apprendimento e creare un clima adeguato all’educazione. 3. Il modello formativo meridionale Le criticità sopra indicate presentano un punto di ricaduta particolarmente rile- vante nel Meridione del nostro Paese dove lo scarto tra domanda di professiona- lità ed offerta formativa è ancora più ampio che negli altri territori e dove le dina- miche della dispersione (ma anche di un fenomeno poco studiato, ma decisivo, consistente nella riduzione progressiva del tempo effettivo di studio1) sono anch’esse più accentuate. Si sta consolidando un intreccio vizioso tra carattere generalistico degli studi per- seguiti dalla maggioranza dei giovani e criticità dei processi di sviluppo; tutto ciò in presenza di una diffusa emergenza in ordine alla cultura della legalità. Eppure sappiamo che il lavoro e la professione costituiscono fattori di forte inclu- sione sociale e di diffusione di cultura della responsabilità e della legalità proprio perché propongono un’etica basata sul valore del contributo apportato alla società e sul merito di coloro che sono in grado di assicurare beni e servizi di qualità. Nonostante ciò, il tema del lavoro non viene considerato rilevante nei processi edu- cativi ed inoltre si diffondono concezioni erronee circa lo sviluppo delle risorse umane centrato esclusivamente sull’offerta di percorsi universitari. È il caso, ad esempio, della Regione Sardegna che ha smantellato tutti i percorsi di IFP per spo- stare le risorse su percorsi di laurea e master universitari; ma una recente indagi- ne Svimez ha dimostrato con assoluta evidenza che la presenza di laureati non basta a sostenere lo sviluppo economico poiché questi, in assenza di settori di assorbimento effettivo, preferiscono di gran lunga emigrare al nord (un fenomeno che interessa ben 4 laureati su 10). Ma un settore professionale attivo richiede una varietà di figure secondo una scala che prevede appunto qualificati, tecnici, tecnici superiori e quadri, secondo un’in- tensità che può essere quantificata - su una scala di 10 - in 3 qualificati, 3 tecni- ci e 3 tecnici superiori e quadri, oltre ad una figura parzialmente qualificata. È in questa direzione che deve dirigersi l’investimento in offerta formativa. 1 Sembra che i giovani del Meridione presentino un tasso di assenza superiore al 30% delle ore annua- li, contro il 15-20% delle altre realtà. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 184 • Appare necessario mettere mano ad una revisione delle logiche che sottostanno alle politiche formative nel Sud Italia, sapendo elaborare una nuova offerta for- mativa che rispetti la peculiarità del contesto territoriale e culturale, dando vita ad un nuovo progetto di istituzione formativa che veda una cooperazione tra autorità locali, mondo economico e forze attive della società civile, entro progetti di rete basati sulla cooperazione educativa e sulla creazione reale di lavoro e di impresa. 185 LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO PER LA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA 7.2 - Intervento tavola rotonda Antonio Montagnino Sottosegretario al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale Partirò con una considerazione: nel mio impegno quotidiano ho come riferimento sia il ruolo che il Ministero del Lavoro ha in materia di formazione professionale, che i compiti primari attribuiti alle Regioni dal Titolo V della Costituzione. La for- mazione professionale non è un surrogato dell’istruzione: ha un ruolo importante di garanzia dei diritti delle persone, in termini di crescita, di costruzione della cit- tadinanza e di possibilità occupazionali. Abbiamo l’ambizione di costruire, nell’ambito della formazione professionale, un “Sistema-Paese” che abbia la capacità di garantire, attraverso la definizione di azioni efficaci, un impatto reale con i problemi della nostra società e di stabilire un legame profondo ed una coerenza con il sistema europeo. L’ambizione è quella di assicurare un sistema efficace per poter avere una forma- zione professionale di qualità, che contribuisca a rafforzare la competitività e a ridurre gli elementi di difficoltà del mondo del lavoro. Purtroppo, esiste ancora un deficit: in Italia si investe, per l’istruzione e la forma- zione professionale, soltanto il 4,6% del PIL, mentre in Europa si raggiunge il 6%. Non è vero che investiamo molto e non è vero che gli investimenti sono sempre indirizzati verso la qualità, che è garanzia assoluta per assicurare diritti alle per- sone, primo fra tutti il diritto di cittadinanza. Stiamo compiendo un lavoro che necessita di un impegno corale. Il Ministero del Lavoro può operare soltanto in virtù di una convergenza di impegni da parte del sindacato, delle altre parti sociali e soprattutto delle regioni. Attribuisco molta importanza anche al contributo che possono apportare gli enti di formazione. Con il dialogo si possono trovare soluzioni efficaci anche quando queste risultano difficili. È necessario che ogni regione attui le proprie prerogative, stabilite dalla Costituzione, rispettando però il quadro di riferimento costituzionale che impone il necessario coordinamento con il “Sistema- Paese”. Ritengo, infatti, che uno dei problemi più grandi, in tema di formazione, sia la disomogeneità tra le diverse regioni: ogni regione è caratterizzata sia da peculia- rità locali che da fattori di sviluppo che appartengono all’intero paese. Entrambi gli elementi devono essere salvaguardati, altrimenti le istituzioni non sono in grado di svolgere compiutamente il loro mandato, che si esplica principalmente nel tro- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 186 vare soluzioni rispetto alle attese di occupazione della popolazione. Attribuiamo grande importanza alla costruzione di un sistema nazionale di stan- dard professionali, di standard di riconoscimento e di certificazione delle compe- tenze e di standard formativi per l’attuazione di politiche di lifelong learning. Tale costruzione si svilupperà a partire dalle scelte operate dal Tavolo comune coordinato dal Ministero del Lavoro, al quale partecipano le Regioni e le Province autonome, le Parti economico-sociali ed i Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Università e Ricerca. Tale Tavolo opera nella direzione di ricondurre ad un quadro comune le riflessioni ed il lavoro avviato nei diversi segmenti del sistema per la definizione delle figure professionali e dei relativi standard. Dobbiamo puntare sul lifelong learning, perché è sull’apprendimento permanen- te, oltre che sulla formazione continua e sulla formazione iniziale, che si gioca la partita del progresso. Il 3 agosto 2007 è stato approvato il disegno di legge che porta alla convergenza d’impegni tra Ministero del Lavoro e Ministero dell’Istruzione. Con riferimento, invece, all’importante tema della formazione continua e, in par- ticolare, all’attività dei fondi interprofessionali ed alla necessità di assicurare il coordinamento con le attività formative delle regioni, è stato firmato lo scorso aprile l’accordo tra il Ministero del Lavoro, le Regioni, le Province autonome e le Parti sociali sulle valutazioni comuni ai fini della costituzione di un sistema nazio- nale integrato di formazione continua. Dobbiamo pervenire alla massima occupazione e dobbiamo fare in modo che ci sia una occupazione qualitativamente valida, che sia anche una risposta al problema del precariato, perché se abbiamo grande qualità sicuramente aiuteremo le stabi- lizzazioni; e otterremo una politica dell’impiego a tutto tondo, che possa realmen- te garantire uno sviluppo del nostro Paese e un’espansione dell’occupazione. Intendiamo, inoltre, riformare l’apprendistato, per cui è istituito un apposito Tavolo presso il Ministero, da me coordinato, e valorizzare l’apprendistato per il diritto-dovere in seguito all’elevamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni, razio- nalizzare i meccanismi di incentivazione, riportare la formazione al centro dell’i- stituto dell’apprendistato: esso è uno strumento fondamentale per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Il lavoro che ci aspetta è tanto e spero di poterlo fare insieme, in un clima di dia- logo tra le istituzioni, per realizzare quella collaborazione e quel serrato confron- to di cui il mondo del lavoro e l’intero Paese hanno urgente bisogno per poter crea- re realmente un “Sistema-Paese” della formazione professionale, assicurando le azioni necessarie in termini di sviluppo, di capacità di indirizzo, di monitoraggio, di valutazione e di impatto dei processi complessivi, di creazione di standard comuni, di legami con i processi europei. 187 LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO PER LA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA Abbiamo il dovere di garantire ai giovani opportunità di lavoro, valorizzare i talenti di cui anche la nostra isola è ricca; assicurare una formazione che risulti utile ed effi- cace e che sia strumento di crescita, di costante aggiornamento e di tutela. Le riforme che stiamo attuando sono finalizzate a promuovere strumenti di politica attiva che favoriscano non solo l’occupazione, ma soprattutto l’“occupabilità”, ossia la progettazione di opportunità e convenienze che consentano una maggiore perma- nenza nel mercato oppure un minor disagio nel periodo di attesa di un lavoro. Altra fondamentale sinergia è quella tra il Ministero del Lavoro e Ministero dell’Istruzione che hanno un dovere comune: mettere insieme gli sforzi, le energie, le risorse e i programmi per arrivare ad un progetto condiviso. Non esiste una stra- tegia per cui un Ministero tenta di sottrarre competenze all’altro, perché in questo modo facciamo del male al Paese e non avremmo né istruzione né formazione di qualità. E, in mancanza di una formazione valida e potenziata, non riusciamo a superare il gap forte che abbiamo rispetto alla dispersione scolastica soprattutto in alcune aree del Paese. È materia, altrettanto rilevante, la gestione del contratto nazionale degli operato- ri della formazione professionale, soprattutto per quanto concerne gli ammortiz- zatori sociali, perché bisogna dare certezze, evitare il rischio di semplice assisten- zialismo, assicurare alla formazione professionale le risorse finanziarie adeguate e valorizzare ogni possibilità di investimento. Non si può vivere di precarietà. Non si può vivere aspettando ogni anno che ci sia una finanziaria che risolva i problemi. È stata dimostrata la necessità di estendere gli ammortizzatori sociali in relazione a problematiche occupazionali significative. Pensiamo ad una riforma degli ammortizzatori sociali nel suo complesso, con solu- zioni che possano promuovere politiche attive e non soltanto strumenti sussidiari alla mancanza di occupazione. Abbiamo quindi pensato di accogliere la richiesta del sin- dacato, ma servono le risorse finanziarie. Ci impegniamo ad inserire le risorse ade- guate per garantire gli ammortizzatori sociali. Se questo non fosse possibile, per il 2008, potranno essere utilizzati gli ammortizzatori in deroga. Vogliamo quindi fare il nostro dovere, consapevoli delle difficoltà da affrontare. Abbiamo assunto la responsabilità di essere al governo e abbiamo dunque il dove- re di portare avanti i progetti e fornire risposte concrete. In noi c’è l’ottimismo della volontà di fare e questo ottimismo dovrebbe pervade- re ognuno di noi sapendo che si fa il proprio dovere nell’interesse generale, certi del fatto che ogni tassello che inseriremo in questo progetto sarà elemento di costruzione di una cittadinanza attiva che offrirà alle persone la possibilità di avere maggiori opportunità. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 188 7.3 - Intervento tavola rotonda Giorgio Santini Segretario Confederale CISL Il dibattito sul ruolo e le prospettive del sistema della FP nel nostro Paese sembra non finire mai. Perché questa, in fondo, tra i processi di riforma che hanno inte- ressato il sistema educativo nazionale ma anche il mercato del lavoro e le sue rego- le, resta una delle più grandi incompiute. Ancora oggi, in un contesto profondamente mutato dalle sfide e dalle opportunità dell’economia e della società della conoscenza, in un panorama fortemente condi- zionato dalla dimensione politico istituzionale comunitaria, per non dire interna- zionale, la FP fatica a trovare un proprio equilibrio e una solida collocazione tra gli strumenti delle politiche cd. di attivazione della cittadinanza (formative, del lavoro, di protezione sociale..). Nonostante in sede europea abbiamo concorso a costruire una agenda di obiettivi e di relativi impegni, finalizzati alla costruzione di un modello di sviluppo e cre- scita fondato sull’esercizio di una opportunità ormai codificata in chiave di dirit- to, l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, a livello nazionale siamo ancora divisi “sui fondamentali”, su temi e questioni basilari che altrove, in Europa, sono già state risolte e superate: l’articolazione e la diversificazione dei percorsi forma- tivi in relazione ad una domanda che cambia e si fa più esigente; il pluralismo dei soggetti dell’offerta e il policentrismo della rete di governance; la standardizzazio- ne e la certificazione degli esiti formativi. Il dibattito realizzato su questi temi, innescati con maggiore evidenza dalla rifor- ma della 2003, è stato, e per certi versi è ancora, deludente e improduttivo. Non solo la politica, ma anche certe aree del mondo della cultura, dell’associazionismo, del sindacato, hanno profuso maggiore impegno nel tentativo di cancellare il pas- sato piuttosto che a preparare il futuro, perché ostaggi – tutti - di pregiudizi anti- chi, ugualmente rigidi e riduttivi, che hanno finito per marginalizzare le grandi domande di progresso, libertà, inclusione dei cittadini, dei giovani, dei lavoratori, ignorando così quella Europa sempre più invocata che compresa. Una Europa in cui continuiamo a figurare in coda alle classifiche per livelli di competenze fondamentali, per il numero di adulti e lavoratori in formazione, per numero di giovani diplomati e qualificati. 189 LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO PER LA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA Da tempo andiamo ripetendo che non si può più minimizzare il problema - tutto nostro - di accesso alla scuola e al pieno successo formativo, come compimento del percorso intrapreso. Non si può ignorare che i dati e le statistiche internazionali, rappresentano in modo impietoso un forte disagio, quello di una domanda educa- tiva che, per ragioni soggettive, di motivazioni individuali, specificità dei talenti e degli stili cognitivi, dei percorsi di vita, o ancora per la diversità delle provenien- ze famigliari, economiche, geografiche, non trova risposte adeguate, soddisfacen- ti, significative per sé, negli attuali standard di offerta. Quel disagio parallelamente rivela tutta la debolezza, che vediamo reiterata, in un approccio alle riforme del sistema educativo che guarda solo all’offerta. La dimen- sione organizzativa e funzionale, il bilanciamento dei poteri istituzionali, articola- ti dal Titolo V, sono certamente fattori importanti per il corretto ed efficace presi- dio della qualità e della coerenza del sistema educativo anche rispetto ai suoi fini costituzionali di uguaglianza, promozione, crescita, equità. Ma non possono esse- re gli unici, perché quando si pretende di misurare qualità, efficacia dei percorsi e degli esiti, il loro stesso “presupposto” di democraticità, con il metro dei luoghi e dei soggetti istituzionali del sapere, il risultato è la frammentazione del sistema, la gerarchizzazione delle forme e dei modi del sapere e dell’apprendere, la rivincita dei campanilismi, la negazione dei principi di uguaglianza e parità di opportunità. Se assumiamo come obiettivi l’innalzamento dei livelli e della qualità del bagaglio di conoscenze e competenze dei giovani, dei cittadini e dei lavoratori per l’eserci- zio della cittadinanza, l’ampliamento - per tutti e per ciascuno - delle opportunità di apprendimento, di consolidamento e crescita professionale, in una prospettiva ormai coincidente con l’intero arco della vita, è evidente, allora, che il percorso da compiere è un altro. Un percorso cioè che, a parità di attese e di trattamento, arri- va a misurare l’efficacia dei percorsi formativi rispetto all’equivalenza delle com- petenze acquisite e alla congruenza degli sbocchi. Non andremo molto lontano se non si costruisce una visione realmente unitaria di sistema, in cui istruzione e istruzione e formazione professionale concorrono, nella propria specifica identità e dignità, all’obiettivo dell’innalzamento dei saperi e delle competenze certificabili e misurabili; se non si ricostruisce la trama delle regole per quanti “si candidano” ad erogare un servizio pubblico; se non si recu- pera un dialogo costruttivo ma paritario tra il sistema educativo e la sua comunità di riferimento. Su questo terreno non mancano argomenti ai detrattori: la storia della FP è attra- versata, già prima della riforma costituzionale, da pratiche di federalismo fram- mentate, ancora oggi produttrici di danni, sprechi. Siamo i primi a rilevarli. Ma alla critica, fondatissima, deve corrispondere la proposta leale e costruttiva. Il problema del nostro sistema non è più il tasso di scolarizzazione o la generaliz- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 190 zazione della frequenza della scuola secondaria. 40 anni fa - e non è un arco tempo troppo lungo nella vita della nostra democrazia - il 47% dei giovani di 16 anni era privo di licenza media. Su 20 ragazzi: 11 completavano il percorso dell’obbligo, 5 giungevano al diploma, 1 alla laurea. Oggi invece, all’imminente riapertura delle scuole, più del 95% dei ragazzi nella fascia 14-19 anni confermerà la propria scel- ta di proseguire gli studi nell’istruzione secondaria superiore. Però tra due anni, se prendiamo a riferimento la serie storica dei dati sulla dispersione, il 25% di que- sti ragazzi avrà abbandonato quel percorso, scegliendo alcuni opportunità forma- tive alternative, altri scorciatoie illegali e pericolose per l’avviamento al lavoro oppure la strada. A questa perdurante situazione bisogna opporre, come evidente, una gamma di interventi più ampi della sola opzione di elevamento dell’obbligo di istruzione, specialmente se questo fosse inteso come mero prolungamento della frequenza sco- lastica. I più recenti atti e le iniziative ministeriali per l’attuazione del nuovo bien- nio sembrano, a quanto si apprende, voler seguire un percorso diverso che, innan- zitutto, riafferma il principio già acquisito in Europa secondo il quale la condizio- ne minima indispensabile del successo formativo è il conseguimento di almeno una qualifica professionale. Ma anche questa affermazione, pure importante, da sola non basta. L’elenco delle priorità da rimettere all’ordine del giorno è nota ed ogni voce è saldamente e coe- rentemente collegata: standard nazionali condivisi per la definizione delle figure professionali, per il riconoscimento e la certificazione dei titoli, delle qualifiche, dei crediti in uscita; standard di accreditamento delle agenzie formative, standard di rilevazione e analisi dei fabbisogni. Sono le fondamenta da cui va ricostruito l’in- tero sistema. Il biennio unitario può essere l’occasione buona per ricominciare, ria- prendo un dialogo serio e produttivo fra istituzioni centrali e regionali e fra que- ste e le parti sociali. Su questi temi aspettiamo la rapida convocazione di un tavolo formale di con- fronto perché, nonostante gli avanzamenti nel dibattito e nella riflessione politica, deve essere definitivamente chiarito che un titolo professionale deve seguire per- corsi coerenti, con una precisa identità. Che non è e non può essere inteso come un limite, un espediente, un’uscita precoce ma come il punto d’arrivo di un indirizzo che ha pari dignità culturale rispetto ad altri, prospettive di sviluppo e progres- sione coerente e autonoma, e come tale realizza anch’esso un diritto di cittadinan- za fondamentale. Valuteremo nel merito la proposta di regolamento del Ministero sul nuovo obbli- go. Ci confronteremo con gli esperti sulla coerenza e appropriatezza degli assi cul- turali e dei relativi obiettivi indicati come meta di conoscenza e competenza alla fine del biennio. Ci aspettiamo comunque che il bagaglio d’istruzione accertabile 191 LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO PER LA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA in uscita abbia un grado di omogeneità tale da permettere a tutti il riconoscimen- to e l’esigibilità dei propri crediti, da capitalizzare dentro il sistema e poi nel mer- cato del lavoro. Come evidenziato anche dal Ministro, in questo percorso abbiamo una traccia importante nelle otto “competenze chiave” indicate dall’Europa come il nocciolo duro della formazione che abilita alla maturità civica e ai benefici con- seguenti. Ed in questa ottica vanno valutate, rilette e recuperate le migliori espe- rienze degli attuali percorsi triennali, irrobustiti nel loro orientamento verso qua- lifiche certificate e nelle basi culturali, incorporando il biennio dell’obbligo. Non sarebbe una soluzione al ribasso, come molti paventano, a patto che la rasse- gna e la correzione delle lacune e delle insufficienze della sperimentazione in corso siano rigorose e trasparenti. Per questo vogliamo parlare di accreditamento. L’unico strumento che, in coeren- za con il Titolo V, consente allo Stato di esercitare la sua funzione di indirizzo e controllo dettando standard esigenti e alle Regioni di selezionare, nell’ambito della programmazione locale, i soggetti cui affidare un pubblico servizio. Questo garan- tisce, realmente, l’unitarietà del diritto civile e sociale all’istruzione, comunque sovra-ordinato ai modelli, contingenti, del sistema che lo realizza e alle relative titolarità. Riteniamo però rischioso affrontare questa discussione in sedi e con tempi disarti- colati. Mentre infatti non è stato avviata alcuna interlocuzione formale con il Ministero della PI sui contenuti del decreto inerente i criteri di accreditamento degli Enti e delle strutture formative che possono progettare e realizzare percorsi di qualifica nel contesto dell’obbligo di istruzione, sul tema generale dell’accredi- tamento e le relative proposte di modifica, presso il Ministero del Lavoro sta per aprirsi un confronto con parti sociali e regioni. Come rischia il fallimento anche lo stesso obiettivo di rafforzare l’area/filiera degli studi tecnico-professionali quale luogo educativo anche funzionale all’accesso qualificato al lavoro se si ritenesse di prescindere, nella riflessione, dal segmento delle qualifiche iniziali (quelle triennali, che l’Europa ci dice essere il primo gra- dino, non negoziabile, nella scala del cd. “successo formativo”), dalla loro intrin- seca qualità formativa, coerenza e spendibilità. Si rischia di sancire e legittimare l’esistenza - in questa stessa area - di 2 canali, di cui uno, di competenza regiona- le, di fatto residuale e minoritario, con buona pace della sempre invocata pari dignità tra sistemi e percorsi. Lo sviluppo, il futuro stesso della FP, intesa come sistema dotato di una propria identità, internamente articolato con vocazioni plurime, che spaziano dalla for- mazione iniziale e di base a quella ricorrente e continua - che si sta rafforzando anche grazie all’esperienza dei Fondi Paritetici Interprofessionali - è legato proprio alle risposte che sapremo dare alle questioni ancora sospese della organicità e inte- ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 192 grazione, della percorribilità orizzontale e della progressione dei percorsi orienta- ti all’acquisizione di una qualifica o diploma professionale o di un titolo con con- notati professionalizzanti, di cui si renda chiara l’identità, comparabile/equiva- lente la qualità, validi e spendibili i risultati. A questo fine può giocare un ruolo importante anche una positiva conclusione delle trattative per il rinnovo del CCNL. Un rinnovo che si colloca, specialmente per la formazione iniziale, in una fase di incertezza, di transizione lenta ma comunque densa di nuove opportunità che sta alle parti, alla loro responsabilità, saper selezionare ed accogliere per promuovere e valorizzare la vocazione pedago- gica ed educativa di cui gli enti storici sono portatori, e questo anche grazie al con- tributo di competenza e professionalità dei lavoratori. Lavoratori sottoposti alle alterne e non sempre fortunate vicende della storia e della cronaca della FP, per i quali è davvero giunto il tempo non solo di ottenere un più esplicito riconosci- mento professionale quanto di godere di prospettive più solide di tutela occupa- zionale e di stabilità. Per questo, anche sulla scorta dei risultati conseguiti dai tavoli di concertazione governo-sindacati, le associazioni degli enti e le OO.SS. hanno richiesto ed ottenuto dal Ministero del Lavoro l’apertura di un confronto specifico per approfondire e valutare la questione dell’estensione del ricorso agli ammortizzatori sociali per poter dotare il comparto e questi lavoratori di più ade- guati strumenti di tutela e promozione, ovviamente garantiti da adeguate risorse economiche. Ci sembra un importante avanzamento, anche questo, sulla via del consolidamen- to e dello sviluppo del sistema di FP che, nel tempo, ha prodotto risorse preziose e talenti che hanno accompagnato la crescita economica e sociale del Paese. E ancora oggi la sostengono. 193 LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO PER LA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA 7.4 - Intervento tavola rotonda Emilio Gandini Presidente Scuola Centrale di Formazione Ritengo che il tema di questa tavola rotonda sia molto impegnativo: sostanzial- mente ci chiediamo quali siano in questi ultimi anni le aspettative di sviluppo per la formazione professionale iniziale dopo l’introduzione dell’obbligo d’istruzione, quali prospettive per la formazione superiore e quali per la formazione continua, in sintesi come consolidare un sistema di formazione professionale. Devo dire che fino all’anno scorso vedevo il bicchiere mezzo vuoto a causa di una finanziaria che si stava componendo; c’erano molte incertezze sul futuro del nostro sistema. In seguito, c’è stato il riconoscimento del diritto-dovere e dell’obbligo for- mativo fino ai 18 anni, che ha rappresentato per noi un momento di forte respiro dopo la legge 9/99, che non consentiva agli allievi della terza media di accedere alla formazione, se non dopo il quindicesimo anno di età. Quest’anno il bicchiere lo vedo mezzo pieno, nel senso che c’è stata una presa di posizione dell’attuale governo e del ministro Fioroni, che ha scritto anche una lettera personale a FORMA e a CENFOP, dove precisa i termini sostanzialmente positivi che sono già stati discussi, credo, nei giorni precedenti. Chi non va alla scuola secondaria superiore deve percorrere obbligatoriamente i cosiddetti percorsi sperimentali triennali per ottenere un diploma o una qualifica. Quello che conforta è che ciò sia ben precisato. È vero che si parla dei periodi 2007/2008 e 2008/2009, ma è anche vero, come diceva Don Bruno Stenco, che è sparito il termine ‘provvisoriamente’ ed è stata data una priorità. Quindi nel 2007 c’è stato un segnale positivo e, oltretutto, prima dell’approvazione della legge finanziaria e dell’inizio dell’anno formativo. Il mondo della scuola ha cercato di mutuare alcuni concetti e alcune terminologie che noi portiamo avanti da tempo quali, per esempio, standard e competenze. Questo significa che quello che hanno seminato CIOFS-FP e CNOS-FAP in questi ultimi anni attraverso tutta una letteratura sui percorsi triennali, sulle competen- ze, sulle linee guida, forse ha lasciato il segno. Il problema è che noi dobbiamo pre- sidiare assolutamente il livello nazionale, per questi segnali che ci sono, cercando di irrobustire il dialogo sia col Ministero dell’Istruzione, sia col Ministero del Lavoro, soprattutto con il Direttore Generale e il Sottosegretario qui presenti, ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 194 senza stancarci di fare proposte. Il problema vero, però, è che quello che si dice a livello nazionale non sempre è recepito a livello regionale. Noi abbiamo anche ascoltato molto volentieri l’audizione alla Camera della Commissione presieduta dall’On. Folena, che è andato a verificare di persona come lavorano i centri di formazione professionale ed ha potuto vedere che in molte regioni il linguaggio è comune. Quindi, se si vuole, se c’è volontà politica, si riesce a valorizzare bene il sistema educativo, che è composto dall’istruzione e dalla formazione professionale. Il problema vero, come dimostrato anche dalle ricerche presentate nella prima parte della mattinata, è che laddove vi è un tasso di dispersione scolastica più accentuato, come la Sardegna, che ha un tasso di dispersione vicino al 30%, o la Campania e la Puglia (per certi versi), che hanno azzerato la formazione profes- sionale iniziale, il tasso di devianza giovanile e di microcriminalità è più accen- tuato, e non c’è un ventaglio di opportunità formative per andare incontro alle esi- genze e alle attitudini anche di questi ragazzi. Il nostro sforzo più grande deve essere fatto nelle singole regioni, perché, anche in regioni come il Friuli, che è sempre stato fiore all’occhiello dei percorsi triennali da quando sono nate le regioni, la nuova legge si avvicina più alla Puglia che non al vicino Veneto. La stessa Emilia-Romagna sta tentando di riprendere gradual- mente il carattere sperimentale dei percorsi triennali. L’Abruzzo, poi, è un disa- stro, l’Umbria ha fatto passi indietro e quindi, come diceva Mario Tonini, solo nel Lazio e in Sicilia si parla ancora di sistema di formazione professionale iniziale nel Centro-Sud. Il paradosso dei paradossi è la regione Puglia, che azzera i percorsi triennali e dà la possibilità di fare un percorso biennale, uno solo per provincia per ogni Ente. Questo significa avere 100 ragazzi in attesa di formazione professionale e dare risposta solo a 20 perché esiste un corso per ogni provincia. Il problema vero, quindi, sono le regioni nelle loro diverse accezioni di interpretazione delle norma- tive vigenti. Abbiamo bisogno di alleati forti ed in particolare delle parti sociali qui rappresen- tate da Giorgio Santini. Non vogliamo privilegi ma il riconoscimento di un servi- zio educativo che facciamo alle famiglie e ai ragazzi che liberamente scelgono, non chiediamo niente di più. Un’ultima considerazione. È necessario che nelle singole regioni gli Enti si acco- munino perché siamo ancora divisi. All’On. Montagnino diciamo che purtroppo ci siamo sentiti orfani del Ministero del Lavoro in anni precedenti. Ora noi enti di formazione professionale abbiamo come supporto il Ministero del Lavoro, più che il Ministero dell’Istruzione, visto che è il Ministero del Lavoro che mette le risorse economiche. Ritengo che attualmente le risorse messe a disposizione dal Ministero, 195 LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO PER LA FORMAZIONE PROFESSIONALE IN ITALIA 204 milioni di euro, vengano erogate con criteri di ripartizione che non reggono, in quanto esistono regioni che fanno percorsi sperimentali triennali che prendono molto meno rispetto a regioni che non fanno nulla prendendo molto di più. Il Ministero del Lavoro deve riuscire a fare la regia, una regia fortissima con le regioni. È vero che è difficile, ma serve qualcuno che tenga tutte le regioni insie- me, e questo può farlo solo il Ministero del Lavoro. PARTE III 8. CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO 201 8.1 - Nuove competenze degli operatori della Formazione Professionale per la costruzione della cittadinanza europea Stefania Stelzig Responsabile Area Formazione e Consulenza del Servizio di Assistenza all’Apprendimento (SAA) - progetto SPF on line Premessa Il concetto di cittadinanza europea può essere letto con diversi significati: nelle sue accezioni giuridiche risulta piuttosto semplice da esprimere, ma se da questo piano si passa ad analizzarlo nelle sue implicazioni sociali e valoriali, la declinazione di cosa sia la cittadinanza europea si fa maggiormente complessa. Il tema della cit- tadinanza è, infatti, il tema dell’agire in una comunità sociale che si esprime, a sua volta, in numerose attività complesse come il conoscere, l’appartenere, il lavorare, il relazionarsi. La declinazione del concetto di cittadinanza europea nelle sue “conseguenze” edu- cative, presenta aspetti di elevata complessità: si tratta di considerare l’espressione del sé, il senso di appartenenza, la capacità di utilizzare codici comunicativi diversi- ficati, di saper negoziare, di saper progettare. Ognuna di queste “abilità” si costrui- sce a partire da risorse individuali di carattere cognitivo, affettivo e pragmatico, che si sviluppano anche attraverso le esperienze educative e di apprendimento. La riflessione sugli obiettivi educativi e formativi inerenti allo sviluppo di queste abilità hanno costituito il focus dell’analisi e del confronto del XIX Seminario di Formazione Europea; essi rappresentano una nuova impegnativa prova per il sistema della formazione professionale, che va raccolta esplorando soluzioni ade- guate e di veloce attuazione. La sfida è non tanto ripensare e integrare, nei contenuti, i piani formativi rivolti ai giovani, ma soprattutto valutare approcci e metodi didattici che riescano a favo- rire lo sviluppo delle competenze chiave di cittadinanza nell’ambito dei curricula attuali. Numerosi contributi forniti nel corso del seminario hanno posto in evi- denza proprio questo approccio: la risposta alla nuova esigenza educativa non è riconducibile, se non in minima parte, alla progettazione ed erogazione di nuovi contenuti formativi; occorre riflettere, piuttosto, su come interpretare le nuove finalità educative nell’ambito delle discipline e dei programmi esistenti, persegui- re l’innovazione da un punto di vista metodologico, utilizzare diversificati media, CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 202 capaci di veicolare ad ampi e diversificati target i messaggi educativi. Compito irrinunciabile per gli educatori e i formatori è divenire promotori di un diverso atteggiamento culturale nei giovani rispetto ai temi della vita sociale e politica. Questa prospettiva impone, in modo urgente, di allargare l’ambito di riflessione, dal giovane, destinatario degli interventi formativi ed educativi, agli operatori coinvolti nella progettazione e nell’erogazione delle attività educative e formative. Occorre una verifica relativamente alla congruità delle competenze espresse dalle organizzazioni formative ed educative. Per il sistema della formazione professio- nale, quindi, prioritariamente all’adozione di qualsiasi pianificazione e attività operativa con i giovani, occorre chiedersi se esistano, e quali siano, dei gap di com- petenza e con quali strumenti colmarli efficacemente e in tempi rapidi. Ritengo opportuno un approccio a questa tematica che non consideri unicamente gli operatori impegnati in attività diretta come i formatori, i docenti e i tutor. Occorre considerare il sistema complessivo delle risorse umane dei centri di for- mazione professionale: prepararsi adeguatamente a formare ed educare alla citta- dinanza europea non significa lavorare tenendo in considerazione unicamente il versante didattico, ma elaborare interventi di formazione continua per più profili che lavorano nei centri. Sono, infatti, proprio i centri che debbono esprimere, nella loro interezza, la capacità di lavorare attivamente in uno scenario e in un merca- to europeo. Si tratta, in concreto, per meglio rispondere alle esigenze che l’appar- tenenza alla Comunità Europea pone, di saper dialogare con diversi attori e costruire, assieme a loro, proposte e soluzioni educative, intessendo, nel contem- po, una rete di relazioni stabili. In questa prospettiva occorre lavorare per un supe- ramento della logica a senso unico della “formazione formatori”, per concentrare gli sforzi su percorsi di formazione continua per tutti gli operatori del sistema. Gli operatori interessati dal processo di adeguamento delle competenze, perciò, non devono essere unicamente i formatori, i docenti e i tutor, ma anche altre figu- re che intervengono in modo decisivo nella strutturazione e nell’erogazione delle attività educative, ad esempio orientatori, progettisti, coordinatori, direttori. Attività del gruppo di lavoro Il seminario è stato un’occasione di confronto proprio sulla questione delle com- petenze degli operatori, sia nell’ambito di interventi delle sessioni plenarie, sia attraverso il lavoro di un gruppo specifico. Partendo dalle considerazioni illustra- te in premessa e sintetizzando alcuni contributi offerti dai relatori, il gruppo ha avviato la propria sessione di lavoro finalizzata a far emergere varie implicazioni che il tema “cittadinanza europea” ha in relazione alle competenze professionali dei centri di formazione. 203 CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO La sessione è stata organizzata in tre fasi: • presentazione degli elementi di contesto e degli obiettivi specifici delle attività di gruppo; • lavoro in sottogruppo finalizzato a rilevare, in base all’esperienza professionale individuale, i gap di competenza relativi a profili professionali operanti nei centri; • presentazione di proposte formative, correlate ai fabbisogni emersi, accessibili tramite la piattaforma nazionale del Ministero del Lavoro xformare.it (Sistema Permanente di Formazione SPF on line). Nella prima fase è stato enfatizzato l’obiettivo della sessione, ovvero poter indivi- duare concrete soluzioni formative, disponibili e facilmente accessibili, risponden- ti ai fabbisogni delle risorse umane dei centri di formazione professionale. Il gruppo è stato, poi, suddiviso in due sottogruppi, aggregati rispetto all’affinità del ruolo organizzativo: un sottogruppo formato essenzialmente da direttori di centro e coordinatori e uno di docenti e tutor. Ogni sottogruppo ha avuto come obiettivo quello di individuare quali gap di competenze rilevasse nell’ambito della propria attività professionale e che si mostrano di ostacolo al raggiungimento degli obiettivi legati all’educazione alla cittadinanza. I partecipanti hanno discusso in merito alle carenze che avvertono in relazione all’espletamento di alcune funzioni organizzative e hanno individuato delle aree di competenza da migliorare. Nell’ultima fase dei lavori di gruppo sono stati condivisi e portati a sintesi i risul- tati raggiunti dalla discussione dei sottogruppi, successivamente sono state propo- ste alcune soluzioni formative ai fabbisogni emersi. Risultati e indicazioni emersi dal gruppo di lavoro Gli elementi dibattuti nell’ambito del gruppo hanno confermato l’esigenza di lavo- rare sul miglioramento delle competenze professionali di varie funzioni organizza- tive e superare il concetto della “formazione formatori”. Ciò che è emerso dal con- fronto è proprio l’esigenza di considerare un target ampio, che agisca su vari livel- li organizzativi. Sono emersi fabbisogni formativi specificamente correlabili in modo stretto a funzioni specifiche, assieme ad altri condivisi da più funzioni orga- nizzative. Per le funzioni di direzione e coordinamento è emerso un interesse forte al miglio- ramento delle competenze legate alle seguenti aree: • marketing; • comunicazione organizzativa; • networking e partnership. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 204 Sul versante delle competenze di tipo metodologico e didattico, riferito a funzioni di analisi, progettazione, erogazione e valutazione, sono invece emersi fabbisogni di competenza relativi a: • modelli, prassi e strumenti pedagogici e didattici consolidati della formazione professionale e/o relativi al know how distintivo delle strutture erogatrici; • apprendimento collaborativo; • modelli e strumenti di valutazione. Nell’ambito dei gap di competenza individuati come attinenti a più profili e fun- zioni organizzative sono emersi fabbisogni sia nell’ambito delle competenze tecni- co-specialistiche, sia nell’ambito delle competenze trasversali. Nel primo il fabbi- sogno si è aggregato su temi quali:� analisi del territorio e dei relativi fabbisogni formativi;� progettazione di interventi sul territorio e interventi complessi. Nel secondo ambito, invece, l’esigenza di miglioramento delle competenze si è con- centrata su: - comunicazione, - teamworking, - ICT (Information e Communication Technology). Da questi risultati si è snodata la terza fase dei lavori che ha riguardato la verifi- ca della disponibilità di contenuti formativi e soluzioni didattiche coerenti con quanto emerso. È stato presentato, quindi, il progetto SPF on line, che, attraver- so la piattaforma xformare, mette a disposizione un catalogo di proposte formati- ve ampie e diversificate rispetto ai profili professionali che possono accedervi. Sono emersi interessanti matching fra i fabbisogni formativi rilevati dal confron- to con gli operatori del sistema e l’offerta formativa di xformare che, pur non rispondendo in modo esaustivo a tutte le necessità rilevate, può essere di grande supporto nel processo di adeguamento delle competenze del settore, sia come pro- posta autoconsistente o come soluzione formativa in modalità blended, ovvero inserita in percorsi di formazione continua organizzati dagli stessi centri di for- mazione. È doveroso inoltre segnalare che l’ISFOL ha recentemente pubblicato un bando per la realizzazione di ulteriori courseware da erogare tramite la piattaforma xfor- mare, parte dei quali rispondono in modo puntuale proprio all’esigenza di forma- zione specialistica sui temi della cittadinanza europea. Conclusioni Considero importante segnalare, in conclusione, una considerazione che il gruppo di lavoro ha condiviso e che è stata riportata anche nell’intervento in plenaria della 205 giornata conclusiva del seminario. Questa considerazione esula dal piano tecnico dei lavori affrontati dal gruppo per cogliere implicazioni più ampie, legate al rico- noscimento formale delle competenze dei suoi operatori. La sperimentazione del progetto FaDol1, precursore del progetto SPF on line, aveva già mostrato le potenzialità di un sistema nazionale di formazione a distan- za nel poter costruire, su tutto il territorio italiano, conoscenze condivise da tutti gli operatori del settore della formazione professionale, magari, quindi, espressio- ne di specifici standard, ma aveva anche evidenziato la “debolezza” di una pro- posta formativa non correlata ad alcun sistema di riconoscimento e certificazione. Occorre, a giudizio di chi scrive, lavorare proprio nella direzione di un dialogo con le istituzioni regionali, associazioni e sindacati per poter valorizzare al meglio le diverse potenzialità, non soltanto di tipo formativo, che sistemi come SPF on line possono avere. Ciò appare più urgente anche a fronte dell’attuale stato di evoluzione del dibatti- to europeo relativo al tema della certificazione e del riconoscimento delle compe- tenze. CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO 1 Il progetto FaDol (Formazione a Distanza on line), promosso dal Ministero del Lavoro, realizzato dal 1999 al 2004, ha utilizzato la formazione a distanza per sperimentare attività formative di autoi- struzione assistita e apprendimento collaborativo dedicata al settore della formazione professionale. Il target di utenza potenziale era di 17.000 operatori. ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 206 8.2 - Le opportunità di progettazione per la formazione del cittadino europeo Riccardo Mazzarella Ricercatore Area Sistemi e metodologie per l’apprendimento - ISFOL Pier Giovanni Bresciani Prof. Università di Genova e Università di Bologna I lavori di gruppo, svoltisi nell’ambito del Seminario di Formazione Europea di quest’anno (Terrasini, Palermo 6 – 8 settembre 2007), sono stati preceduti da una tesi introduttiva che ha approfondito quale mandato oggi, e quale significato, ha la formazione nell’ambito del contesto europeo. La formazione in questo ambito è vista come una delle leve che compongono lo spazio europeo dell’apprendimento, che a sua volta costituisce uno degli assett fondamentali per il mantenimento della competitività e della coesione sociale nell’ambito dell’Ue. In questo spazio, l’apprendimento ha caratteristiche precise: avviene in contesti diversificati (formali ma anche informali e non formali), è finalizzato allo svilup- po personale e professionale dei cittadini europei (diritti di cittadinanza, occupa- bilità,..), copre l’intero arco della vita degli individui (lifelong learning). La prassi sociale dell’apprendimento permanente (lifelong learning) appare però complicata, a parere delle istituzioni europee, dalla mancanza di cooperazione e comunicazione tra le varie autorità competenti in materia, e tra i vari paesi euro- pei, che rende difficile ai singoli cittadini di combinare le proprie qualificazioni in funzione della mobilità geografica e professionale e della piena partecipazione alla società della conoscenza. È dalla necessità di rimuovere queste difficoltà che nel- l’ambito dell’Unione sono state avviate le politiche, le strategie e gli strumenti più innovativi: le competenze chiave, il portfolio Europass, il Quadro comune europeo delle qualificazioni, i crediti per il sistema VET (Vocational and Educational Training). Andando per ordine è necessario ricordare che il processo per la costruzione di uno spazio europeo dell’apprendimento nasce operativamente con il Consiglio europeo di Lisbona del 2000, che individuava proprio nell’apprendimento permanente, e nella maggiore trasparenza delle qualificazioni, le modalità e gli strumenti per rafforzare le politiche finalizzate allo sviluppo della società della conoscenza e garantire ai cittadini posti di lavoro più numerosi e di maggiore qualità. A partire da Lisbona dunque, grande rilevanza è stata assegnata allo sviluppo di 207 una cultura dell’apprendimento testimoniata dalle iniziative di diversa natura di diffusione e informazione nonché, più operativamente, dall’istituzione di un pro- gramma d’azione nel campo dell’apprendimento permanente (Decisione n. 1720/2006/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio). Oltre che sul piano della cultura, grande sostegno viene posto alle istituzioni dell’apprendimento ove è in atto, nell’ambito delle politiche di mutual trust, una azione di integrazione con la costituzione di un quadro europeo comune delle qualificazioni (Proposta di Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 settembre 2006 per la costituzione dell’European Qualification Framework - EQF). Alle azioni in atto sul piano culturale e istituzionale si uniscono le prassi, che tro- vano nel nascente sistema dei crediti (ECVET - European Credit system for Vocational Education and Training, promosso dalla Commissione Europea) il ter- reno fertile per la sperimentazione, nei prossimi anni, di strumenti utili al soste- gno dei processi di apprendimento dei cittadini lungo tutto il corso della vita. A partire dunque dalla condivisione del quadro generale, nell’ambito dei lavori di gruppo, si è passati ad esaminare quali sono allo stato attuale sul piano degli stru- menti, le innovazioni tecniche più rilevanti, cioè quelle che più di altre presente- ranno un impatto significativo sulle prassi di progettazione formativa. Nei due documenti europei precedentemente ricordati, relativi alla proposta EQF e quello relativo alla proposta ECVET, si ipotizza di dotare i sistemi di una infra- struttura nuova che, opportunamente messa in relazione con le modalità tradizio- nali di rappresentazione e progettazione dei percorsi formativi, consenta di rende- re possibili le prassi di riconoscimento dei crediti. Tale infrastruttura è composta da un quadro delle qualificazioni rappresentate secondo la logica dei risultati di apprendimento. I risultati di apprendimento indi- cano ciò che un cittadino conosce, capisce e può fare al termine di un processo d’apprendimento. Tali risultati sono espressi in termini di conoscenze, abilità e competenze. I risultati di apprendimento a loro volta sono raccolti in Unità che devono indica- re: il titolo generale; le conoscenze, le abilità e competenze; i criteri di valutazione dei risultati di apprendimento. Una Unità può appartenere ad una sola qualifica- zione o essere comune a più qualificazioni. Ai fini del riconoscimento del credito formativo, alle Unità può essere attribuito, come fonte di informazione aggiuntiva, un valore quantitativo definito in punti di credito. I punti di credito sono attribuiti all’intera qualificazione e successivamen- te alle Unità in funzione del valore relativo di ognuna rispetto alla stessa intera qualificazione. In funzione di tali attributi l’Unità non può essere confusa, o semplicemente sovrapposta, ad un modulo formativo o singole parti di un percorso formativo, CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 208 essa è piuttosto la parte elementare di una qualificazione e costituisce l’oggetto di valutazione, validazione e certificazione da cui stabilire il valore in termini di cre- dito. Il risultato di apprendimento, e la tecnologia dell’Unità con cui esso è rappresen- tato, costituisce dunque lo strumento di maggior impatto rispetto al tema della progettazione formativa. Il confronto nell’ambito dei lavori di gruppo ha permesso di individuare alcuni punti di criticità presenti in questa prospettiva. Per prima cosa si è posto l’accen- to sulla “certezza” del valore delle certificazioni del credito, in un paese come l’Italia dove in molte realtà la stessa intera qualifica non trova sempre pieno rico- noscimento. Secondariamente la necessità di semplificare le procedure di assegna- zione del credito, e più in generale sostenere con maggiore efficacia lo sviluppo dell’integrazione tra i diversi sistemi, che consenta una effettiva praticabilità delle innovazioni proposte. Ridurre, per quanto possibile, l’eterogeneità del sistema di formazione regionale anche al fine di migliorare, e rendere possibile, lo scambio intersistema e con il mondo della scuola e dell’università. Infine, il tema delle com- petenze, presenti nelle proposte innovative europee, viste come un concetto “emancipato” dal riduttivo “saper fare” e opportunamente integrato con gli aspet- ti educativi e più direttamente connessi con la persona. 209 8.3 - Gli ambiti su cui costruire le competenze del cittadino: storia, diritto, multietnicità, religioni… Domenico Sugamiele Esperto in sistemi formativi Premessa L’obiettivo di questa scheda non è quello di riprendere le analisi fatte nelle varie relazioni o essere essa stessa un’altra relazione. Si vuole soltanto presentare i pro- blemi cruciali su cui occorre confrontarsi affinché la discussione sulle competenze chiave non si risolva in posizioni di “bandiera” o in ulteriori “formule” burocrati- che, ma consenta una riflessione sulle implicazioni metodologiche didattiche che esse comportano. Il tema delle competenze è diventato uno dei punti di maggiore riflessione sugli indirizzi dei sistemi educativi sia a livello internazionale, mondiale ed europeo, che nazionale. Esso si manifesta su due aspetti che interessano la riforma dei sistemi di istruzione. In primo luogo esso propone un piano internazionale di ricerca ten- dente a fare evolvere i sistemi nazionali verso obiettivi e indirizzi comuni e unifor- mi. Il progetto DeSeCo (Definizione e Selezione delle Competenze Chiave) del- l’OCSE e la Raccomandazione sulle competenze chiave dell’Ue appaiono, infatti, come un programma politico che individua nelle competenze chiave l’elemento determinante per vivere in modo responsabile e consapevole nella società contem- poranea, condizionata dai processi di globalizzazione. In secondo luogo il paradigma delle competenze si collega alla crisi dei sistemi sco- lastici e in particolare ai programmi d’insegnamento e all’organizzazione discipli- nare dei curricoli. L’azione di messa in discussione e di superamento dell’impian- to disciplinare dei programmi è proseguita in tutti gli anni ’90 anche con l’avvio delle indagini campionarie sui risultati scolastici. L’impostazione dei test PISA ha fatto emergere, infatti, come le conoscenze che si apprendono a scuola debbono essere utili a risolvere problemi che si incontrano nella vita pratica (Problem sol- ving): il concetto di competenza rappresenta il legame che tende a colmare la distanza tra le conoscenze apprese a scuola e i saperi che si mobilitano nell’azione quotidiana. CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 210 Due aspetti che segnalano le difficoltà di risposta dei sistemi di istruzione nazio- nali e che pongono, in particolare, l’urgenza di interrogarsi sugli obiettivi e sulle funzioni della scuola statale e del sistema di insegnamento. Quali ambiti su cui costruire le competenze del cittadino europeo Lo sviluppo a livello europeo di un sistema di competenze chiave del cittadino appare perseguire la logica dell’unità politica e culturale attraverso un insieme di conoscenze comuni. I documenti comunitari sulle competenze chiave delineano atteggiamenti ideali del cittadino europeo che appaiono riferirsi più al futuro, la costruzione della cittadinanza, che al presente. Il tentativo, cioè, di dare unità pedagogica ai sistemi scolastici nazionali e, per dirla con Giovanni Reale (Radici culturali e spirituali dell’Europa, per una rinascita dell’“uomo europeo”, Cortina, 2003), di «far rinascere un nuovo “uomo europeo”». Nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si afferma che l’Unione «pone la per- sona al centro della sua azione» in una tavola di valori condivisi posti alla base della convivenza quali quello di democrazia, di tolleranza, di libertà, di egua- glianza e di solidarietà, di pluralismo, di autonomia del soggetto, del principio di sussidiarietà. Si tratta del nucleo di valori che delineano la “cittadinanza attiva”. La scuola come ambiente educativo Le competenze per la “cittadinanza attiva” si fondano su una visione della scuola come ambiente educativo (non solo didattico) interagente con il sistema sociale. Il Documento della Commissione sulle competenze chiave insiste su come lo svilup- po delle competenze non dipenda esclusivamente dalla scuola, come esso si esten- da oltre l’età scolastica in senso stretto e come tragga origine dall’ambiente di vita (famiglia, lavoro, comunità locali, organizzazioni sociali e religiose, ..). Tuttavia, la scuola e gli ambiti formativi formali sono individuati come gli ambienti privile- giati dove operare in forma generalizzata. Il Quadro europeo delle competenze chiave per l’apprendimento permanente indi- vidua otto aree di competenze chiave: 1) comunicazione nella madrelingua; 2) comunicazione nelle lingue straniere; 3) competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; 4) competenza digitale; 5) imparare a imparare; 6) competenze sociali e civiche; 7) spirito di iniziativa e imprenditorialità; 8) consapevolezza ed espressione culturale. 211 Le prime quattro aree di competenza sono più facilmente riconducibili all’ambito scolastico e integrabili con conoscenze e abilità specifiche e di indirizzo. Il secon- do gruppo di quattro competenze appare mettere in primo piano qualità comples- se difficilmente integrabili con le tradizionali conoscenze e abilità rilevabili in ambito scolastico. Mentre per il primo gruppo di competenze appare immediata l’individuazione di specifiche aree disciplinari (italiano, matematica, lingue comu- nitarie, scienze, informatica) per il secondo gruppo il riferimento è meno evidente e conduce a riflessioni sui valori di riferimento per la “cittadinanza attiva”. Una base di partenza su cui sviluppare e ricercare gli ambiti disciplinari e valoriali è sicuramente il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del secondo ciclo sia nell’individuazione delle finalità che nelle stesse articolazioni del Profilo in identità, strumenti culturali e convivenza civile. In particolare le competenze sociali e civiche e la consapevolezza ed espressione culturale pongono l’esigenza di una riflessione sulla costruzione dell’identità euro- pea e sulle differenze dei sistemi di valori etnici e religiosi. Le prime «includono competenze personali, interpersonali e interculturali e riguardano tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di parte- cipare in modo efficace e costruttivo alla vita sociale e lavorativa, in particolare alla vita in società sempre più diversificate, come anche a risolvere i conflitti ove ciò sia necessario. La competenza civica dota le persone degli strumenti per par- tecipare appieno alla vita civile … e all’impegno a una partecipazione attiva e democratica». Essa «si basa sulla conoscenza dei concetti di democrazia, giustizia, uguaglianza, cittadinanza e diritti civili, anche nella forma in cui essi sono formu- lati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e nelle dichiarazioni internazionali..» e comporta che «Il pieno rispetto dei diritti umani, tra cui anche quello dell’uguaglianza quale base per la democrazia, la consapevolezza e la com- prensione delle differenze tra sistemi di valori di diversi gruppi religiosi o etnici pongono le basi per un atteggiamento positivo. Ciò significa manifestare sia un senso di appartenenza al luogo in cui si vive, al proprio paese, all’UE e all’Europa in generale e al mondo, sia la disponibilità a partecipare al processo decisionale democratico a tutti i livelli». La seconda, oltre ad esprimere una sensibilità estetico-creativa, presuppone una consapevolezza del patrimonio culturale europeo per «cogliere la diversità culturale e linguistica in Europa» e per avere «una solida comprensione della propria cultura e un senso di identità» che possano «costituire la base per un atteggiamento aperto verso la diversità dell’espressione culturale e del rispetto della stessa». CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 212 Le radici culturali europee È evidente che si va alle radici dell’identità e della tradizione europea. Ed è altrettanto evidente che solo se si forma l’“uomo europeo” potrà nascere e prendere vigore la “casa europea”. Un primo punto di riflessione è dato dall’identità nella molteplicità. Morin (Pensare l’Europa, Feltrinelli, 1988) afferma che «l’Europa è una nozione geo- grafica senza frontiere con l’Asia e una nozione storica dalle frontiere mutevoli». Essa ha unità «se non nella sua molteplicità» ed è dotata di una identità che biso- gna riscoprire. L’Europa è stata una “realtà spirituale” ed è nata da radici culturali e spirituali ben precise. Radici che vanno riprese per la costruzione della “cittadinanza atti- va” dell’“uomo europeo”. Reale (cit.) individua tre radici:«in primo luogo, la cultura greca ; in secondo luogo il messaggio cristiano; in terzo luogo, la grande rivoluzione scientifica, ini- ziata del Seicento». Il pensiero greco-romano ha dato consistenza e forma alle strutture sociali e poli- tiche europee sia nelle forme organizzative della democrazia che del diritto e della giustizia. La concezione dell’uomo come persona è stata una prima intuizione della civiltà greco-latina che con il pensiero cristiano è diventata patrimonio della riflessione moderna. La “rivoluzione scientifico-tecnica” connota in modo incontrovertibile l’Europa moderna. Un modello culturale che, con meriti e limiti anche gravi, si è espanso a livello mondiale. Una “rivoluzione” dalla quale nascono i problemi più complessi dei giovani di oggi. Reale (cit.) nel riconoscere alla scienza un innegabile ruolo di crescita umana mette in guardia dagli effetti collaterali del paradigma dell’uni- versalità della scienza perché risulta sempre più evidente come la produzione scientifica «benché importante e per certi versi grandioso, non sia sufficiente, dal momento che la scienza non affronta e non risolve quei problemi di fondo che riguardano l’uomo in quanto tale». Ed auspica che la filosofia riacquisti identità per ridare linfa agli antichi valori che la scienza non ha saputo mantenere. Spunti finali per il lavoro di gruppo In premessa si è anticipato che il paradigma delle competenze si colloca come ele- mento di risoluzione della crisi dei curricoli disciplinari verticali. Il crollo dell’epi- stemologia disciplinare è rinvenibile nel fallimento della pedagogia progressista impegnata sui temi dell’uguaglianza delle opportunità e nella lotta alla dispersio- ne scolastica. Negli ultimi decenni il divario scolastico tra classi sociali è rimasto 213 immutato nonostante le retoriche riformatrici e le innovazioni pedagogiche. La ricerca scientifica del Novecento, in particolare, ha dimostrato che la conoscenza è soggettiva ed è determinante il soggetto in apprendimento e la sua competenza a conoscere. Non si tratta di una rivisitazione della programmazione disciplinare ma di un vero e proprio superamento dei curricoli scolastici sequenziali nei quali le conoscenze sono presentate e studiate in ordine gerarchico e organizzate in campi di conoscenze tra loro subordinate. Un esempio di questo paradigma è l’i- dea che la formazione professionale venga dopo la formazione generale. Si tratta, invece secondo Bernstein, di sviluppare un sistema in cui le conoscenze si integrano in maniera relazionale in modo che sia il concetto a porsi al di sopra dei contenuti. Un’impostazione che ribalta completamente le tradizionali teorie di insegnamento e che mette in crisi gli insegnanti. In definitiva le competenze chiave per la “cittadinanza attiva” rappresentano il tentativo di superare la teoria dei curricoli, strutturati sulla sequenzialità e sulle discipline, per approdare ad un sistema che, dovendosi coniugare con una pro- grammazione per competenze, dovrà fare i conti proprio con la complessità dei rapporti scuola-extrascuola, disciplinare-interdisciplinare, aula-laboratorio, for- male- informale, invertendo la logica del curricolo secondo cui prima si formano le conoscenze e poi si applicano. È su queste basi che si dovranno ricercare i campi o gli ambiti su cui costruire le competenze del cittadino. CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 214 8.4 - Il rapporto tra la costruzione delle competenze del cittadino europeo e le caratteristiche dei sistemi del lavoro, educativi e formativi Massimo Peron Coordinatore Generale e Responsabile della progettazione del CIOFS-FP Emilia Romagna La prima parte del lavoro di gruppo è stata dedicata ad approfondire il contesto attuale e le dinamiche che attraversano i sistemi formativi, educativi e del lavoro e che costituiscono lo sfondo all’interno del quale contestualizzare il tema delle competenze del cittadino europeo. La riflessione è partita dall’analisi del ruolo dell’Europa nel contesto mondiale a livello sociale, economico e politico alla luce dei processi di globalizzazione e di come i cittadini europei possano assumere un ruolo attivo se in possesso di alcune “competenze chiave di cittadinanza”. In sintesi, i principali elementi emersi e condivisi sono stati i seguenti: • Europa come società della conoscenza, così come evidenziato dal processo di Lisbona, anche se gli obiettivi in esso prospettati difficilmente potranno essere raggiunti nei tempi stabiliti; • competitività delle nostre imprese basata sulla qualità delle produzioni e sull’al- to grado di valore aggiunto nei termini di conoscenza tecnica e non solo; • necessità per il cittadino di oggi, prima che del lavoratore, di “apprendere ad apprendere”, oggi ormai ritenuta la competenza fondamentale per affrontare attivamente la complessità del quotidiano; • enormi cambiamenti nell’identità e nel ruolo del lavoratore europeo (soprattut- to se giovane), sempre più impegnato in maniera flessibile, prevalentemente nel settore dei servizi e con la necessità di adattarsi in tempi rapidi ai cambiamenti visti non solo come vincolo, ma anche come opportunità; • enorme sviluppo della tecnologia a tutti i livelli; • rischi di esclusione ed emarginazione per le cosiddette fasce deboli che nel tempo ricomprendono fasce sempre più ampie di popolazione; • prevalenza di sistemi di welfare attivo che fanno perno sul lavoro e sulla forma- zione quali strumenti di supporto e di accompagnamento nelle transizioni; • centralità nei sistemi di sostegno della persona allo sviluppo dell’autonomia e dell’autostima, in una logica di non dipendenza dallo Stato. 215 In questo quadro, del quale il gruppo ha tratteggiato alcuni elementi, è apparso a tutti evidente che diventa centrale per il cittadino europeo “possedere”, “svilup- pare” le cosiddette competenze chiave che consentono alla persona di muoversi con autonomia nella società complessa e di utilizzare al meglio gli strumenti e le opportunità che i moderni sistemi di welfare offrono al cittadino. È ormai fondamentale per il cittadino europeo dotarsi di un patrimonio di com- petenze, di una “solidità personale” indispensabile per affrontare oggi la com- plessità. La Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alle com- petenze chiave per l’apprendimento permanente ben descrive per i partecipanti al gruppo, questo patrimonio personale e indica ai diversi Paesi Membri una inte- ressante prospettiva di sviluppo per i sistemi nazionali dell’istruzione e della for- mazione. La seconda parte della discussione si è centrata su come i sistemi dell’istruzione, della formazione e del lavoro contribuiscono in maniera diversa e si spera inte- grata allo sviluppo di queste competenze chiave. Riportiamo di seguito alcuni punti chiave rilevati per ciascuno dei tre sistemi: • sistema della formazione: lavora ormai in maniera piuttosto generalizzata per competenze, ha sviluppato un’ottima competenza in ordine alla metodologia più idonea per poter sviluppare in maniera personalizzata e attenta ai diversi stili cognitivi le competenze tecnico professionali e di base; manca di sistematicità nello sviluppare conoscenze importanti per la persona; rischia a volte di costrui- re ottimi progetti formativi ineccepibili dal punto di vista formale, ma che rischiano a volte di non trovare concreta applicazione; • sistema istruzione: è molto centrato su un apprendimento formale delle discipli- ne spesso poco vicine alla realtà sociale e del mondo del lavoro e quindi insigni- ficanti per gli studenti; è ancora molto centrato sull’insegnamento di conoscen- ze e contenuti; ha scarsa dimestichezza con la progettazione e programmazione didattica per competenze; ha sviluppato poche competenze in ordine alle meto- dologie didattiche più vicine all’esperienza dello studente e rispettose dei diver- si stili di apprendimento; sviluppa percorsi ben strutturati e sistematici nella articolazione; • sistema lavoro: contribuisce in maniera determinante allo sviluppo di compe- tenze professionali, ma anche chiave attraverso il cosiddetto apprendimento non formale; richiede ai giovani buone competenze di base in ingresso sulle quali poter innestare quelle più di carattere professionalizzante; è molto attento, anche se spesso in maniera inconsapevole alla competenza per eccellenza dell’“appren- dere ad apprendere”; agisce poco, malvolentieri e con scarsa consapevolezza il proprio ruolo di soggetto formativo importante per le nuove generazioni. CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 216 In un contesto così articolato e complesso, nel quale la persona interagisce in maniera molto diversificata con i tre sistemi per l’acquisizione delle competenze chiave, occorre fare molta attenzione a non promuovere percorsi e processi di esclusione sociale nei confronti di chi parte svantaggiato per motivi sociali, fami- liari ed economici. Occorre entrare in una prospettiva per la quale sia ben chiaro che le competenze del cittadino europeo devono tendenzialmente essere per tutti. Se le consideriamo come irrinunciabili per il cittadino europeo di oggi e di domani, occorre creare per- corsi agevoli tra i sistemi che consentano alla persona (giovane, adulto, anziano) di acquisire attraverso metodi e opportunità diverse una base di competenze di cit- tadinanza indispensabili. È un principio di democraticità che può essere persegui- to solo attraverso una valorizzazione di tutti e tre i sistemi deputati a sviluppare le competenze chiave, ciascuno per la sua specificità e ruolo. È quello che di fatto stanno facendo diversi paesi europei da alcuni anni (vedi le Riforme dei sistemi educativi in Francia, Germania e Spagna) e che in prospetti- va anche l’Italia potrà realizzare attraverso l’introduzione di un Obbligo di Istruzione che sappia valorizzare le differenze tra percorsi scolastici e formativi a fronte di obiettivi comuni e percorsi equivalenti. La terza parte del lavoro di gruppo invece ha consentito di approfondire alcuni aspetti specifici della discussione più generale. Riportiamo di seguito i principali punti trattati: • si è evidenziato un pieno accordo sulla necessità di sviluppare per tutti le com- petenze chiave fondamentali nel contesto sociale, politico ed economico europeo; • il sistema della formazione professionale, pur nelle diverse articolazioni regiona- li, è in grado di contribuire al raggiungimento delle competenze chiave indivi- duate dal documento europeo, attraverso un approccio epistemologico e meto- dologico specifico differente da quello più prettamente scolastico centrato sulle discipline e non sulle competenze; • importante in questo quadro di integrazione tra i sistemi per sviluppare compe- tenze chiave, il rapporto tra sistema della FP e sistema scolastico, che può pre- vedere diversi modelli operativi (così come evidenziato dai rappresentanti delle diverse regioni), ma che comunque sia deve passare da un rapporto di subordi- nazione a relazioni e collaborazioni basate sul mutuo riconoscimento; • per poter realmente e democraticamente permettere a tutti di raggiungere le competenze chiave europee, è necessario promuovere il pluralismo dell’offerta formativa, offrire cioè al cittadino, in particolare se minore, diverse opportunità, diverse strade e approcci che portano comunque ad uno “zoccolo duro” di com- petenze considerate irrinunciabili per ogni cittadino italiano ed europeo; 217 • al centro della riflessione deve stare la persona e non i sistemi. È la persona pro- tagonista centrale, i sistemi devono essere a servizio del cittadino e contribuire in maniera semplice e chiara a trovare a ciascuno la strada giusta per esprime- re le proprie potenziali, attitudini e desideri; • centrale diventa quindi il tema della prevenzione della dispersione (soprattutto nelle regioni del Sud) scolastica e formativa che, a detta dei partecipanti del gruppo, può trovare concreta applicazione nella pluralità dell’offerta formativa finalizzata al raggiungimento di competenze chiave minime comuni per tutti i cittadini; • una riflessione approfondita è stata dedicata al sistema lavoro e alle modalità attraverso le quali oggi contribuisce allo sviluppo di competenze chiave di citta- dinanza europea. Le esperienze portate dai diversi partecipanti evidenziano una certa difficoltà da parte delle imprese di agire in maniera consapevole il proprio ruolo formativo inteso in senso ampio e non solo finalizzato alle proprie esigen- ze. Sia a livello di apprendistato che nel caso della formazione continua e per- manente, l’impresa non è disponibile a dedicare tempo e risorse alla formazione del proprio personale, soprattutto nelle dimensioni non legate allo specifico pro- cesso lavorativo. Molta strada occorre percorrere perché il sistema delle imprese si possa riappropriare di un fondamentale ruolo formativo nella nostra società e possa contribuire attivamente alla crescita umana e professionale delle persone. Anche in tal senso la formazione professionale può fare molto sul piano cultura- le, affiancando l’impresa nel processo di responsabilizzazione e di acquisizione di un ruolo attivo di sistema nello sviluppo delle competenze chiave per la citta- dinanza europea. Poter contare in prospettiva come sistema su cittadini europei formati e attenti alla propria crescita personale e professionale è in fondo un vantaggio anche per l’impresa che così può acquisire nel tempo quel capitale umano indispensabile per poter competere sui mercati internazionali con paesi più attenti del nostro a valorizzare in senso ampio le proprie risorse umane. CONTRIBUTI DEI GRUPPI DI LAVORO PARTE IV 9. BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA 223 BIBLIOGRAFIA FONDAZIONE CENSIS, Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2007, Roma, FrancoAngeli, 2007. MALIZIA G., PIERONI V., Le sperimentazioni del diritto-dovere nei CFP del CNOS- FAP e del CIOFS-FP della Sicilia. Rapporto di ricerca (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP, CIOFS-FP, 2007 COLASANTO M., LODIGIANI R., Il ruolo della formazione in un sistema di welfare attivo (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP, CIOFS-FP, 2007. 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Parlamento europeo e Consiglio, Raccomandazione del 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, in G.U. dell’Unione europea L 394 del 30 dicembre 2006. 227 SITOGRAFIA Competenze del Cittadino Europeo a Confronto EUROPA - Il Portale dell’Unione Europea Dal sito ufficiale dell’Unione Europea un portale per i giovani, utile a far com- prendere e a promuovere i nuovi concetti di cittadinanza attiva e di competenze europee del cittadino. Indirizzo Internet: http://europa.eu/youth/index.cfm?l_id=IT. EUROPEAN COMMISSION - Education and Training Sito della Direzione Generale Istruzione e formazione della Commissione Europea. Indirizzo Internet: http://ec.europa.eu/education/index_en.html. CONSIGLIO D’EUROPA Sito del Consiglio d’Europa dove è possibile leggere e consultare materiali e docu- menti in lingua inglese e francese relativi al progetto “Educazione alla cittadinan- za democratica”. Indirizzo Internet: http://www.coe.int/T/dg4/education/edc/default_EN.asp?. EACEA - Education, Audiovisual & Culture Executive Agency Il sito dell’EACEA propone una guida dettagliata al programma “Europa dei cit- tadini 2007-2013” in formato Acrobat per promuovere la Cittadinanza Attiva e per analizzare le competenze del cittadino da cui parte la discussione del Seminario Europa. Indirizzo Internet: http://eacea.ec.europa.eu/citizenship/guide/documents/ programme_guide_it.pdf. CITTADINANZA EUROPEA Il sito “Cittadinanza europea” promuove l'identità europea, con una particolare attenzione al mondo della scuola. A partire dal Trattato sull’Unione europea. Indirizzo Internet: www.cittadinanzaeuropea.net/. QSN 2007-2013 - Quadro Strategico Nazionale 2007-2013 Sito del MEF, che informa circa il Quadro Strategico Nazionale che l'Italia ha pre- sentato all’Unione Europea con l’obiettivo di indirizzare le risorse che la politica di coesione destinerà al nostro Paese, sia nelle aree del Mezzogiorno sia in quelle del Centro-Nord. Indirizzo Internet: http://www.dps.mef.gov.it/qsn/qsn.asp. BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 228 MINISTERO DEL LAVORO Il portale EuropaLavoro, all’interno del sito del Ministero del Lavoro, propone un articolo che spiega le funzioni e l’utilizzo del Libretto Formativo del Cittadino, strumento per raccogliere, sintetizzare e documentare le diverse esperienze di apprendimento dei cittadini lavoratori, nonché le competenze da essi acquisite in ogni ambito della vita sociale. Indirizzo Internet: http://www.lavoro.gov.it/Lavoro/Europalavoro/SezioneCittadini/Formarsi/ FormazionePermanente/Libretform.htm. INVALSI - Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e Formazione L’INVALSI pubblica sul suo sito, nell’ambito del progetto OCSE “PISA 2006 - Programme for International Student Assessment”, il documento a cura dell’OCSE “Valutare le competenze in scienze, lettura e matematica”, che analiz- za le competenze di base necessarie allo sviluppo di una cittadinanza attiva pro- ponendo vari esempi di valutazione. Indirizzo Internet: http://www.invalsi.it/ric-int/Pisa2006/sito/docs/Quadro_ riferimento_PISA2006.pdf. INDIRE - Istituto Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica Il sito dell’INDIRE pubblica un interessante articolo riguardante le competenze chiave europee relative all’apprendimento permanente utili ad uno sviluppo della cittadinanza attiva dal quale è possibile scaricare il documento in formato pdf relativo alle raccomandazioni del parlamento e del consiglio europeo in merito a queste competenze. Indirizzo Internet: http://www.indire.it/content/index.php?action=read&id=1507. EUROMED CARREFOUR SICILIA Carrefour Europeo Sicilia è una delle 48 Antenne italiane della nuova Rete d’informazione EUROPE DIRECT che rappresenta una rete di informazione tra l’Unione Europea e i cittadini a livello locale. Indirizzo Internet: http://www.carrefoursicilia.it. FORMAZIONE80 Il sito Formazione80 riporta il documento “Agire per l’Istruzione e la Formazione Permanente: Sei Messaggi Chiave” in formato Acrobat, che riassume gli obiettivi necessari allo sviluppo della formazione permanente proponendo vari spunti di 229 riflessione sui possibili interventi in funzione dello sviluppo di una cittadinanza attiva. Indirizzo Internet: http://www.formazione80.it/dwd/memorandum.pdf. CITTADINANZATTIVA Cittadinanzattiva è un movimento di partecipazione civica che promuove la citta- dinanza attiva in Italia come presa di coscienza di ciò che accade nella realtà che ci circonda. Indirizzo Internet: http://www.cittadinanzattiva.it/content/view/12/36/. CAMINA - Per Città Amiche dell’Infanzia e dell’Adolescenza Il sito dell’associazione Camina propone il documento “CITTADINANZA ATTI- VA: significato, obiettivo e criteri di valutazione del Programma Comunitario”, che si riferisce alle iniziative del Programma “Europa dei cittadini 2007-2013”. Il documento analizza nel dettaglio il significato e gli obiettivi del programma e ne valuta le prospettive. Indirizzo Internet: http://www.camina.it/archivio/cittadinanza_attiva.pdf. BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA 10. ALLEGATI 233 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 234 235 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 236 237 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 238 239 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 240 241 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 242 243 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 244 245 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 246 247 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 248 249 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 250 251 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 252 253 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 254 255 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 256 257 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 258 259 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 260 261 ALLEGATI ATTI DEL SEMINARIO DI FORMAZIONE EUROPEA 2007 262 263 ALLEGATI STUDI PROGETTI ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE Collana a cura del CIOFS-FP e CNOS-FAP La collana si propone di contribuire al dibattito suscitato in Italia dalla riforma in atto, con particolare attenzione all’attivazione del percorso di Istruzione e di Formazione Professionale. Propone studi, progetti ed esperienze individuandole tra le realizzazio- ni più significative delle diverse organizzazioni impegnate nel settore formativo. 2007, PELLEREY M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona (Studi progetti esperienze per una nuova formazione professionale), Roma, CNOS-FAP. 2007, MALIZIA G. (Ed.), Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe for- mativa. Problemi e prospettive (Studi progetti esperienze per una nuova formazione pro- fessionale), Roma, CNOS-FAP, CIOFS-FP. 2007, NICOLI D., FRANCHINI R., L’educazione degli adolescenti e dei giovani. 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