La storia, i principi e i contesti d’uso

Il Bilancio di Competenze è nato in Canada nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, parallelamente all’emersione di una forte richiesta sociale di riconoscimento delle competenze della persona al fine del loro trasferimento da contesti informali a professionali e lavorativi. La Francia è il Paese in Europa in cui il Bilancio di Competenze trova maggiore diffusione in un periodo storico ed economico, quello degli anni ‘70, caratterizzato da alti tassi di disoccupazione nel settore siderurgico e dalla richiesta di interventi massivi di reinserimento lavorativo e riconversione occupazionale, al fine di sostenere l’occupabilità di lavoratori e disoccupati privi di un titolo di studio o una qualifica. Fin dall’origine, quindi, il Bilancio di Competenze si inserisce tra i servizi di sostegno inerenti alla formazione e all’orientamento professionale e tra le prestazioni in grado di accompagnare le trasformazioni organizzative e i cambiamenti delle performance individuali all’interno delle aziende (Lemoine, 2002). In breve tempo si diffonde una metodologia di consulenza a supporto dello sviluppo della carriera professionale che consiste, in una prospettiva di lifelong education, in un’analisi delle competenze personali e professionali in vista della scelta e della definizione di un progetto professionale e/o formativo coerente con le richieste e opportunità offerte dal mercato del lavoro. In questo senso, nel contesto francese, il bilancio di competenze si specifica come diritto individuale del lavoratore di perseguire il proprio sviluppo professionale e migliorare la propria condizione lavorativa. La partecipazione all’attività di bilancio è considerata volontaria e può essere realizzata solo ed esclusivamente con il consenso della persona. L’evoluzione del bilancio di competenze in Francia è scandita da tre momenti storici fondamentali. Il primo consiste nel riconoscimento ai lavoratori del diritto individuale alla formazione con la Legge Delors del 1971, che, nell’ambito della formazione continua favorisce la frequenza di corsi di formazione durante l’orario di lavoro. Al contempo, le organizzazioni lavorative sono chiamate a contribuire al finanziamento formativo: le aziende possono ottemperare a quest’obbligo sia gestendo la formazione dei propri dipendenti nell’ambito del piano di formazione interno, sia versando un contributo ad un apposito organismo paritario da impiegare in misure di formazione. Il secondo riguarda la creazione nel 1986 dei Centri Interistituzionali di Bilancio delle Competenze (CIBC), organismi deputati alla ricerca e sperimentazione del modello di Bilancio di Competenze in grado, attraverso un “bilancio” degli apprendimenti e delle acquisizioni dei lavoratori (occupati o disoccupati) nelle varie esperienze lavorative, formative ed extra professionali, di favorire la loro mobilità sociale e professionale. Il terzo coincide con l’attuazione della Legge sulla formazione professionale del 1991, grazie alla quale il percorso di Bilancio assume una rilevante posizione tra gli strumenti considerati adeguati ad incentivare una valutazione accurata delle competenze dei lavoratori; da questo momento lo strumento viene incluso all’interno dei servizi di orientamento riconosciuti dalla legislazione francese. Il Bilancio di Competenze inizia a consolidarsi a partire dagli anni ‘90 anche in Italia, dove acquista una grande valenza sociale e viene considerato strumento indispensabile per promuovere pratiche di orientamento e career counseling rivolte a molteplici target e diverse aree di intervento (Serreri, 2010): l’orientamento e la formazione professionale, il rafforzamento dell’occupabilità (Grimaldi, 2015), l’empowerment in fase di inserimento o reinserimento lavorativo. Nel quadro delle politiche attive inerenti al lavoro, il Bilancio di Competenze trova il suo ruolo nella progettazione integrata e combinata con altre politiche, quali incentivi economici, formazione e strumenti di raccordo tra domanda e offerta di lavoro. In quest’ottica lo strumento riscuote successo per le sue implicazioni sia nei servizi per il lavoro, sia nel sistema di istruzione e formazione professionale/università, sia nelle stesse organizzazioni lavorative e istituzionali, nelle quali viene scelto come oggetto di sperimentazione e diffusione (Bresciani, 2022). In Italia, però, non si può̀ parlare di un modello unico, ma di un riferimento connotato da una forte valenza formativa ed orientativa, da adeguare alle continue ma diverse circostanze di contesto che si manifestano (Serreri, 2010). Per favorire un’armonizzazione tra le molteplici varietà di pratiche diffuse nel territorio nazionale, ISFOL (ora INAPP, Istituto Nazionale delle Politiche Pubbliche) fin dal 2005 ha assunto, con la sperimentazione nazionale del percorso “BI. Dicomp”, un ruolo attivo sia nel processo di ricodifica e ricognizione della letteratura afferente allo strumento di Bilancio di Competenze, sia nella promozione di analisi delle best practices, individuando le dimensioni con maggiori necessità di sostegno nella progettazione del percorso (Grimaldi, Montalbano, Rossi, 2006). Il conseguente Documento tecnico sul Bilancio di Competenze (ISFOL, 2008) si è posto l’obiettivo di armonizzare gli interventi di bilancio nel contesto italiano e di incentivare un approccio rivolto all’orientamento, in stretto raccordo con le politiche formative e professionali: il Bilancio di Competenze promuove infatti la valorizzazione della riflessione, riconoscimento e consapevolezza di sé del beneficiario durante le fasi di analisi delle competenze acquisite nel corso della vita e la definizione di progetti formativi e professionali.

Il percorso, gli approcci e i metodi

Il Bilancio di competenze consiste in una prima fase di esplorazione delle aspettative e di analisi dei bisogni, una seconda incentrata sulla ricostruzione della propria storia formativa, professionale, sull’identificazione delle competenze maturate e di un progetto personale, formativo e professionale praticabile; infine, una fase di sintesi in cui si condivide un documento riepilogativo del percorso ed integrato da un piano di azione condiviso con il consulente. Possiamo classificare gli approcci e i metodi principali mobilizzabili all’interno di un’attività di bilancio in quattro categorie (Levy-Leboyer, 1996). La prima, fortemente ispirata alle teorie di Rogers, è centrata sull’attività di relazione tra consulente e beneficiario quale mezzo per facilitare la conoscenza di sé. Questo approccio parte dal presupposto che le persone sono capaci di risolvere i propri problemi. Il bilancio si struttura in colloqui non direttivi che accompagnano la persona a fare il punto sulle proprie risorse in modo tale da rivisitare e valorizzare l’immagine di sé, rendendola quindi artefice del proprio sviluppo professionale. La ricostruzione autobiografica avviene con l’ausilio del portfolio, composto da rubriche e schede per fare il punto sulle proprie competenze e acquisizioni. La seconda si fonda sulla valutazione oggettiva delle differenze interindividuali e utilizza metodi di valutazione che possiedono qualità metriche verificabili. Questo approccio adotta questionari e test che hanno l’obiettivo di descrivere comportamenti abituali, valori e interessi od osservazioni strutturate e sistematiche dei comportamenti in situazioni complesse, durante la realizzazione di compiti o all’interno di simulazioni di situazioni professionali reali. In tutti i casi, i principi fondanti sono il rigore, l’obiettività, la fedeltà delle misure e la validità. La terza categoria approfondisce, in una prospettiva ergonomica, le caratteristiche dei compiti con cui le persone vengono messe a confronto, sviluppando quella che viene chiamata “l’intelligenza del compito”: si tratta di far emergere la capacità di regolare la propria attività all’interno dell’ambiente di lavoro, strutturandola stabilmente, ma allo stesso tempo mobilizzandola e modificandola in funzione della situazione. Per identificare le competenze sottese, acquisite nell’esperienza e in qualche modo automatizzate, è necessario condurre un’analisi osservativa sul posto di lavoro, accompagnata da metodi che facilitino l’esplicitazione e la verbalizzazione dei ragionamenti, delle prese di informazioni, delle decisioni e delle valutazioni del soggetto. Lo scopo del quarto approccio è, infine, quello di permettere alla persona di giungere ad una modifica dell’immagine di sé, in modo da risultare maggiormente congruente e pertinente con le esperienze e le realizzazioni che hanno costituito la propria autobiografia: questa evoluzione personale favorisce motivazione, engagement, impegno verso il proprio progetto. Vi sono diversi metodi e strumenti che favoriscono questo processo: questionari, griglie, liste di aggettivi, liste di tratti, differenziali semantici. A prescindere classificazioni presentate, la complessità delle finalità del Bilancio di Competenze richiede una riflessione sull’importanza di agire considerando contemporaneamente più prospettive tra quelle illustrate, per evitare il rischio di fornire risposte parziali o disomogenee rispetto alle finalità stesse (Di Fabio, 2005). 


Bibliografia  

Bresciani P.G., Il bilancio di competenze, fortunato malinteso. Un dispositivo prezioso di orientamento e sviluppo di carriera, Rivista dell’istruzione, 4, 2015.
Di Fabio A., Bilancio di competenze e orientamento formativo. Il contributo psicologico. Giunti, Organizzazioni Speciali Editore, 2005.
Grimaldi A. - Montalbano G. - Rossi A., Bi.dicomp: un percorso Isfol di bilancio di competenze. Roma, ISFOL, 2006.
Isfol, Documento tecnico sul Bilancio di Competenze, 2008.
Lemoine C., Risorse per il bilancio di competenze. Percorsi metodologici e operativi (Vol. 1). FrancoAngeli, 2002.
Levy-Leboyer C., Le Bilan de Compétences, Les Editions D’Organisation, 1996.
Ruffini C. – V. Sarchielli, Il bilancio di competenze. Nuovi sviluppi, Milano, Franco Angeli, 2003.
Selvatici A. - M.G. D’angelo, Il Bilancio di competenze, Franco Angeli, 1999.
Serreri P., Perseo, personalizzare e orientare. Il bilancio di competenze per l'occupabilità nel Lazio, Franco Angeli, 2010.


Autore
Chiara Pacquola Psicologa, docente di Psicologia dell’apprendimento presso lo IUSVE di Venezia.


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