RAPPORTO UNIONCAMERE 2007
TEMI CHIAVE E SINTESI DEI PRINCIPALI RISULTATI
a cura del Centro Studi Unioncamere
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PREMESSA
L’economia italiana sta attraversando un lungo periodo di trasformazione. I principali indicatori
economici del 2006 hanno fornito segnali di crescita incoraggianti e le stime previsionali per il
2007 sono altrettanto buone (soprattutto grazie alla componente export e agli investimenti). La
domanda principale ora riguarda la capacità del Sistema Paese di consolidare la ripresa nel
medio periodo, sciogliendo quei nodi strutturali che frenano la competitività delle imprese.
Il Centro Studi Unioncamere ha cercato di analizzare a fondo - anche a livello territoriale e
settoriale - la portata di queste trasformazioni, utilizzando la mole di dati che ogni giorno
affluisce al sistema delle Camere di commercio dal mondo delle aziende e ascoltando
direttamente la voce dei nostri imprenditori attraverso periodiche e approfondite indagini, in
ciascuna provincia e nei distretti produttivi; nella convinzione che sia proprio dal “racconto” delle
imprese che occorre partire per comprendere quanto sta avvenendo oggi.
Gli imprenditori, nel complesso, hanno la consapevolezza di potercela fare e sono tornati ad
investire. Anche negli anni più difficili di questo inizio decennio, per la verità, non avevano
smesso di puntare sul “capitale umano”, sacrificando in molti casi anche i margini di profitto: lo
dimostrano in modo eloquente i dati sulla crescita occupazionale conseguita anche in presenza
di risultati di gestione in flessione (soprattutto nel settore manifatturiero). Ora però una quota
significativa di imprese - che è riuscita ad innovare prodotti e strategie di mercato (soprattutto
medie imprese e filiere a loro collegate, alcuni distretti industriali e, recentemente, anche grandi
imprese), puntando in primo luogo sulla qualità e sulla “ibridazione” tra cultura industriale e
cultura dei servizi (strategie di marchio, rete distributiva, logistica, design, personalizzazione dei
prodotti e assistenza al cliente, ecc.) - è impegnata soprattutto a migliorare l’efficienza
produttiva e ha bisogno di contare su un sistema Paese competitivo. Non tutti ce la fanno,
evidentemente, e la selezione in diversi settori è molto dura, specie per le piccole imprese,
tanto da scoraggiare facili ottimismi: lo dimostrano sia i dati di natimortalità (che vedono un
rallentamento della crescita dell’artigianato, con un tasso pari nel 2006 al +0,7%), sia i dati di
fatturato (-0,8% nel IV trimestre 2006 per le aziende manifatturiere fino a 9 dipendenti, l’unica
variazione di segno negativo in tutto il nostro sistema industriale).
Le analisi proposte dal Rapporto Unioncamere 2007 si concentrano essenzialmente su dieci
questioni principali:
1. Evoluzione e trasformazione del sistema produttivo: le dimensioni della ripresa.
2. Competitività: il riposizionamento delle produzioni italiane sui mercati mondiali.
3. Il “nodo” del Mezzogiorno.
4. La leadership delle medie imprese italiane e la riorganizzazione dei distretti.
5. Turismo e Cultura: le potenzialità da sfruttare.
6. I consumi e le tendenze evidenziate dalle imprese del commercio.
7. La presenza straniera in Italia e il ruolo degli immigrati nello sviluppo economico.
8. Produttività e politiche salariali.
9. Gli azionisti dell’Azienda Italia.
10. Efficienza e costi della pubblica amministrazione per le imprese.
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1. Evoluzione e trasformazione del sistema produttivo: le dimensioni
della ripresa.
Il 2006 è stato per l’Italia l’anno della ripresa. Dopo una fase di lunga stagnazione, durata
cinque anni, il PIL è aumentato nel corso del 2006 dell’1,9%. Si tratta di uno sviluppo non
eccezionale ma che senz’altro configura una discontinuità rispetto alle tendenze stagnanti degli
ultimi anni.
Su scala territoriale, tutte le ripartizioni territoriali sembrano aver partecipato a questa ripresa,
con l’Italia settentrionale che realizza un incremento del PIL superiore a quello medio nazionale
(+2,1% il Nord-Ovest e +2% il Nord-Est), mentre il Centro (+1,8%) e il Mezzogiorno (+1,6%) si
posizionano lievemente al di sotto.
Nel 2006 la crescita del PIL in Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Val d’Aosta e Veneto, dovrebbe
essersi attestata su valori superiori alla media. Ben posizionate appaiono inoltre Sicilia, Emilia-
Romagna, Toscana, Lazio, Piemonte e Trentino Alto Adige, con tassi di crescita pari o di poco
inferiori a quello nazionale. Basilicata, Calabria, Molise presentano variazioni intorno all’1%. La
Calabria riesce a risalire leggermente la china dopo la forte flessione rilevata l’anno precedente;
anche per Piemonte e Campania l’incremento del PIL 2006 dovrebbe esser riuscito a
equilibrare – o, in alcuni casi, a sopravanzare – la perdita subita nel corso del 2005.
Variazioni percentuali del PIL nelle regioni italiane
Tassi di var. % su valori concatenati (anno di riferimento 2000) – Anni 2005 e 2006
-1,5
-0,6
0,8
0,6
-0,7
1,6
0,1
0,8
-0,2
1,2
0,1
-0,3
1,4
-0,1
-1,6
-0,3
0,5
-2,0
1,7
2,4
0,1
0,3
-0,1
0,0
0,1
1,8
2,1
2,3
1,8
2,1
2,2
1,5
1,9 1,9
1,6
1,4
1,8
1,4
1,1
1,6
1,4
1,0
1,1
2,0
1,6
2,1
2,0
1,8
1,6
1,9
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-2,0
-1,5
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2005 2006
Fonte: Unioncamere-Prometeia, Scenari di sviluppo delle economie locali italiane (maggio 2007)
La crescita del prodotto è risultata in linea con quella europea, pur se manteniamo un gap
sfavorevole nei confronti nei partner dell’UE. La dinamica di sviluppo del nostro PIL risulta infatti
più contenuta rispetto ai nostri diretti competitors, non solo nel Vecchio Continente.
Considerando i livelli del 1989, l’Italia ha visto crescere il proprio prodotto di circa 25 punti
percentuali, meno di quanto rilevato nel caso della Francia (37,6 punti in più), della Germania
4
(31,5 punti) e del Regno Unito (47,7) ma, soprattutto, molto distante da quanto ha potuto
mettere a segno la Spagna (67,3 punti). Su ben altri trend di crescita viaggiano, come è noto, le
economie della Cina (con un PIL che si è triplicato dalla fine degli anni Ottanta) e dell’India, ma
non va trascurato anche l’incremento continuo – e su ritmi ancora abbastanza sostenuti,
nonostante alcune recenti difficoltà – degli Stati Uniti (con un PIL cresciuto di 63,4 punti
percentuali tra il 1989 e il 2006).
Confronto internazionale della dinamica del PIL
Dati a prezzi costanti (US$ 1990) e a parità di potere d’acquisto – n.i. 1989=100
Francia Germania Italia Spagna
Regno
Unito Stati Uniti Cina India Giappone
1989 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0
1990 102,6 103,4 102,2 104,4 100,4 101,7 103,2 105,2 105,1
1991 103,9 106,0 103,7 107,1 99,0 101,6 110,0 106,6 108,6
1992 105,8 108,4 104,5 108,1 99,3 104,9 120,7 112,0 109,7
1993 104,6 107,5 103,6 107,0 101,7 107,8 132,9 118,6 109,9
1994 106,7 110,4 105,8 109,5 106,2 112,1 146,0 127,2 111,1
1995 109,1 112,4 108,8 112,6 109,2 115,0 167,8 136,6 113,2
1996 110,3 113,6 109,6 115,3 112,2 119,3 170,6 147,3 116,2
1997 112,7 115,6 111,7 119,7 115,7 124,7 179,0 154,3 117,8
1998 116,6 118,0 113,3 125,1 119,5 129,9 179,3 164,4 115,7
1999 120,4 120,3 115,5 131,0 123,1 135,6 190,3 174,3 115,5
2000 125,2 124,2 119,6 137,6 128,1 140,6 206,8 181,9 118,8
2001 127,5 125,7 121,7 142,7 130,9 141,7 228,0 192,4 119,3
2002 128,9 125,7 122,2 146,5 133,6 143,9 255,7 199,7 119,5
2003 130,3 125,5 122,2 151,0 136,9 147,5 293,6 216,5 121,6
2004 133,3 127,1 123,5 155,9 141,4 153,3 323,2 232,8 124,4
2005 134,9 128,2 123,5 161,4 144,0 158,2 355,6 252,5 127,6
2006 137,6 131,5 125,7 167,3 147,7 163,4 392,9 273,5 131,2
Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Groningen Growth and Development Centre
La ripresa tende a riflettere, comunque, elementi più fortemente legati alle condizioni di
contesto internazionale che elementi autonomi di rafforzamento.
La portata del recupero in corso infatti ha come principale stimolo la dinamica dell’export. La
svolta delle esportazioni, aumentate (a prezzi costanti 2000) del 4% nel 2006, si è verificata
all’interno di un quadro di rafforzamento della domanda internazionale. Dal lato della domanda
interna gli investimenti, dopo la riduzione del 2005, tornano a crescere ad un tasso pari al 2,3%
nel 2006. La spesa per consumi delle famiglie, con un incremento dell’1,6%, appare in netta
accelerazione rispetto all’anno precedente.
È interessante notare come la ripresa sia stata favorita soprattutto dal settore industriale, il cui
valore aggiunto evidenzia un’espansione (+2,5%) dopo un quinquennio in cui ha continuato a
contrarsi. Anche le previsioni per il 2007 danno un tasso di crescita per questo settore in linea
con l’anno appena trascorso.
Natimortalità delle imprese e tendenze di medio periodo
Nel 2006, la base imprenditoriale italiana si è accresciuta di 73.333 unità, portando lo stock
delle imprese iscritte al Registro delle Imprese gestito dalle Camere di commercio al valore di
6.125.514 unità. Il saldo positivo del 2006 è dato dalla differenza fra le 423.571 nuove iscrizioni
e le 350.238 cancellazioni verificatesi tra gennaio e dicembre. Ne è risultato un tasso di crescita
pari all’1,21%, inferiore a quello dell’anno precedente (1,61%).
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La crescita delle cessazioni (aumentate del 14,9% tra il 2003 e il 2006) e quella meno
accentuata delle nuove iscrizioni richiamano il processo profondo di ristrutturazione che
interessa i grandi settori tradizionali. Si assiste, infatti, alla riduzione costante e netta del
numero delle imprese agricole; si riducono, ma in maniera contenuta, anche le imprese
manifatturiere; resta stabile il settore del commercio, mentre crescono servizi alle imprese e
servizi alle persone, insieme al settore delle costruzioni.
Si vanno pertanto modificando, sia pure molto lentamente, i “pesi” del sistema delle imprese sul
territorio nazionale. Dal raffronto tra la situazione alla fine del 2000 e quella alla fine dello
scorso anno emerge un graduale processo di ispessimento relativo del sistema delle imprese al
Sud e al Centro, contro una sostanziale stabilità dell’incidenza relativa al Nord-Ovest e una più
chiara diminuzione di quella riferita al Nord-Est.
Distribuzione territoriale delle imprese registrate
Confronto anni 2000-2006
2000 2006
Valori assoluti Valori % Valori assoluti Valori % Var. % dello stock
Nord-Ovest 1.495.310 26,4% 1.615.612 26,4% 8,0%
Nord-Est 1.165.888 20,6% 1.219.676 19,9% 4,6%
Centro 1.141.091 20,2% 1.257.189 20,5% 10,2%
Sud e Isole 1.854.712 32,8% 2.033.037 33,2% 9,6%
ITALIA 5.657.001 100,0% 6.125.514 100,0% 8,3%
Fonte: Unioncamere-InfoCamere, Movimprese
L’analisi delle dinamiche demografiche per forma giuridica nell’arco temporale 2000-2006
consente di evidenziare anche l’accresciuta incidenza delle società di capitale sul totale delle
imprese, pari a 4,3 punti percentuali (+38,7% in termini di nuove imprese), segnando così
l’affermarsi di una organizzazione di impresa più complessa e “attrezzata” per competere.
Perdono invece di peso in percentuale (pur in presenza di un incremento positivo in valori
assoluti), sia le società di persone (-0,5%), sia le ditte individuali (3,8 punti percentuali in meno
sul totale).
Le tendenze fin qui illustrate con riferimento al 2006 sono proseguite, per certi versi in maniera
anche più accentuata, nel corso del primo trimestre del 2007. Il numero delle imprese di nuova
costituzione ha messo a segno un vero e proprio record (142.416, il valore più alto in assoluto
rilevato nel ultimi dieci anni con riferimento al periodo gennaio-marzo) ma, ciononostante, è
stato sopravanzato da quello delle cessazioni (156.624 unità). Questo ha generato un saldo
negativo di 14.208 imprese, pari a un tasso di crescita del -0,23%. A spingere verso il basso
tale variazione sono state essenzialmente le società di persone (-0,27%) e le ditte individuali
(-0,74), a fronte di una dinamica di sviluppo ancora positiva delle società di capitale (+1,2%).
Il fatturato delle imprese italiane nel 2006
I risultati dell’ultima rilevazione del Centro Studi Unioncamere su un campione rappresentativo
di 100.000 imprese italiane con almeno un dipendente consentono di ricostruire un’immagine
del nostro sistema produttivo in pieno movimento e consapevole delle proprie potenzialità di
crescita. Le aziende che, anche a costo di importanti sacrifici, sono riuscite a superare la fase di
forte selezione degli anni precedenti guardano ora con maggiore fiducia allo sviluppo del
proprio mercato.
6
Nel complesso, il 30,4% delle aziende italiane con almeno un dipendente ha registrato nel 2006
incrementi di fatturato (5 punti percentuali in più rispetto a quanto rilevato per il 2005), mentre il
19,2% ha segnalato una flessione delle vendite (quasi 3 punti in meno in confronto all’anno
precedente). Il saldo fra incrementi e diminuzioni è dunque pari a +11,2 punti percentuali per il
totale dell’economia italiana, a fronte del +2,5 del 2005. Per mantenere o migliorare i risultati
raggiunti, gli imprenditori intendono focalizzare le loro strategie sull’investimento in qualità (47%
del totale), sull’integrazione tra produzione e servizi (“ibridazione” fra industria e terziario, 9%) e
sul miglioramento dell’efficienza (circa il 9% riduce i costi e migliora i margini).
Il manifatturiero, nel suo complesso, ha manifestato chiari segnali di ripresa e inizia a
raccogliere i frutti delle strategie di ristrutturazione organizzativa e commerciale avviate negli
ultimi anni. È infatti pari a ben 18 punti percentuali il saldo tra le imprese che hanno chiuso il
2006 con un incremento del fatturato e quelle che invece hanno subito una flessione: una vera
e propria inversione di tendenza, se si tien conto di un saldo pari appena a 1,8 punti nel 2005.
In ripresa, ma seguendo dinamiche dal ritmo meno sostenuto, appaiono anche i servizi (+9
punti il saldo fra aumenti e diminuzioni del giro di affari).
Andamento del fatturato nelle imprese italiane nel 2005 e nel 2006
Saldo fra % di dichiarazioni di aumento e di diminuzione espresse dalle imprese
-10
0
10
20
30
40
50
TOTALE
ECONOMIA
INDUSTRIA di cui:
industria in
senso stretto
di cui:
costruzioni
SERVIZI 1-9
dipendenti
10-49
dipendenti
50-249
dipendenti
250-499
dipendenti
500
dipendenti e
oltre
2005 2006
Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior, aprile 2007
I fenomeni di selezione non sembrano, tuttavia, essersi del tutto esauriti all’interno del nostro
tessuto di piccole e piccolissime imprese, per le quali, indipendentemente dal settore di attività,
il saldo tra aumenti e diminuzioni del fatturato risulterebbe pari ad appena 6,4 punti percentuali.
Un risultato senz’altro positivo rispetto al 2005 ma che è sintesi di andamenti migliori per le
attività artigianali e per alcune tipologie di servizi, a fronte di una ripresa che stenta ancora ad
arrivare per quelle micro-imprese industriali che non sono state ancora in grado di inserirsi
appieno nelle filiere e nelle reti, superando in tal modo i limiti legati alla dimensione. In piena
ripresa appaiono le medie imprese (intese come quelle tra i 50 e i 249 dipendenti) e quelle di
più grandi dimensioni (con almeno 500 dipendenti nell’industria e nei servizi) che, riuscendo a
rifocalizzarsi sul core business, hanno ripreso slancio e dimostrano di poter giocare la partita
dei player globali.
7
Si tratta di tendenze che proseguono anche nel primo trimestre di quest’anno: la dinamica del
fatturato delle piccole imprese manifatturiere (fino a 49 dipendenti) si mantiene, infatti, ancora
bassa (+0,6% nel primo trimestre 2007, contro il +3,6% di quelle tra i 50 e i 500 dipendenti).
Solo quelle che stanno in gruppo/filiera/rete riescono a rafforzarsi, e una certa quota prova
anche a fare il salto dimensionale.
Le prospettive di sviluppo 2007-2010
Le indicazioni formulate dai nostri imprenditori lasciano intravedere per questo 2007 un
rafforzamento della crescita già sperimentata nel 2006: l’anno in corso dovrebbe infatti essere
caratterizzato da un aumento del PIL pari al +2,0%, conseguenza di un effetto di trascinamento
dei buoni risultati del quarto trimestre del 2006 e di una crescita ancora in buona parte dettata
dalla domanda estera.
Sempre nel 2007, per la spesa per consumi delle famiglie, supportata da un buon andamento
del reddito disponibile, si prevede un’espansione a un ritmo (1,7%) lievemente superiore a
quello del 2006. Sostenuti dal processo di ristrutturazione e riqualificazione del sistema
produttivo, anche gli investimenti fissi lordi dovrebbero far registrare un’accelerazione (+3,2%),
quando tutti gli altri Paesi dell’UE (tranne il Regno Unito) dovrebbero invece subire un
rallentamento. Dal lato della domanda estera, le esportazioni, penalizzate da una decelerazione
del commercio mondiale, dovrebbero subire un leggero rallentamento nell’anno in corso e nel
prossimo, mostrando un tasso di crescita pari rispettivamente al 3,9% e al 3,6%.
Scenario di previsione al 2010 per l’Italia
Tassi di var. % su valori concatenati (anno di riferimento 2000)
2007 2008 2009 2010
Prodotto interno lordo 2,0 1,7 1,6 1,7
Domanda interna (al netto della var. delle scorte) 1,9 1,6 1,7 1,7
Consumi finali interni 1,6 1,3 1,3 1,3
- di cui: spesa per consumi delle famiglie 1,7 1,5 1,4 1,4
Investimenti fissi lordi 3,2 2,7 3,0 3,1
Importazioni di beni dall'estero 3,6 2,8 3,8 4,1
Esportazioni di beni verso l'estero 3,9 3,6 3,9 4,1
Valore aggiunto ai prezzi base
agricoltura 0,4 1,2 0,1 0,7
industria 2,5 1,3 1,6 1,9
costruzioni 2,8 1,4 0,9 1,1
servizi 2,0 2,0 1,7 1,9
totale 2,1 1,8 1,6 1,8
Tasso di disoccupazione 6,4 6,1 5,8 5,7
Reddito disponibile a prezzi correnti (var. %) 3,5 3,0 3,4 3,4
Fonte: Unioncamere-Prometeia, Scenari di sviluppo delle economie locali italiane (maggio 2007)
8
L’ulteriore lieve diminuzione del tasso di disoccupazione nel 2007 si distribuisce in maniera
abbastanza uniforme sul territorio; pertanto, l’anno in corso appare caratterizzato da un livello
dell’indicatore pari al 3,4% nel Nord-Ovest, al 3,3% nel Nord-Est, al 5,8% nel Centro e all’11,9%
nel Mezzogiorno.
Nel periodo 2008-2010 si prevede poi un’espansione dell’economia italiana in linea con la
crescita potenziale e compresa tra l’1,6% e l’1,7% all’anno. L’incremento relativamente
sostenuto dei consumi delle famiglie, avviato nel 2006, dovrebbe proseguire anche nei prossimi
anni, nei quali l’indicatore appare caratterizzato da un tasso di variazione attorno all’1,4-1,5%.
Sostenuti dal reddito disponibile, i consumi delle famiglie dovrebbero espandersi, pertanto, a un
ritmo decisamente superiore a quello che ha interessato il periodo 2001-2005.
Le esportazioni, dopo il rallentamento del biennio 2007-2008, evidenziano una progressiva
accelerazione e arrivano a crescere del 4,1% nel 2010. Tale andamento deriverebbe non solo
da una domanda vivace sui mercati internazionali, ma soprattutto da un recupero di
competitività delle imprese.
Scenario di previsione al 2010 per le esportazioni di beni verso l'estero a livello territoriale
Tassi di var. % su valori concatenati (anno di riferimento 2000)
3,8
4,0
4,2
3,8
3,9
4,3
3,0
3,8
2,5
3,6
4,5
3,4
4,1
3,0
3,9
4,6
3,6
4,3
3,3
4,1
2,0
2,5
3,0
3,5
4,0
4,5
5,0
Nord-Ovest Nord-Est Centro Mezzogiorno Italia
2007 2008 2009 2010
Fonte: Unioncamere-Prometeia, Scenari di sviluppo delle economie locali italiane (maggio 2007)
La riqualificazione del sistema industriale e la riorganizzazione dei processi produttivi
necessarie per ottenere guadagni di competitività dovrebbero creare le condizioni favorevoli alla
prosecuzione della fase espansiva degli investimenti, per i quali si prevede tra il 2009 e il 2010
una crescita di circa il 3% all’anno.
Il 2008-2010 appare complessivamente caratterizzato da una crescita distribuita in maniera
piuttosto uniforme sul territorio nazionale, sebbene permanga una dinamica lievemente più
rallentata nel Mezzogiorno. Nel triennio in esame, la crescita del PIL appare più sostenuta in
Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, mentre le performance più deludenti interessano
Molise, Basilicata, Puglia e Piemonte. Il prossimo triennio evidenzia inoltre una progressiva
9
discesa del tasso di disoccupazione per tutte le ripartizioni e anche per le regioni. La
diminuzione che interessa il Mezzogiorno, tuttavia, non sembra di entità superiore a quella che
coinvolge il resto del Paese e ciò impedisce alla ripartizione di ottenere miglioramenti
significativi in relazione alle performance delle altre macro-aree. Pertanto, nel 2010 il tasso di
disoccupazione continua ad evidenziare ampi divari sul territorio nazionale, spaziando da valori
prossimi al 2% di Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna al 12,3% di Puglia e Sicilia e al 12,6%
della Calabria.
Efficienza del mercato del lavoro e del sistema formativo
La significativa crescita dell’occupazione dal 2000 a oggi (+8,4%, pari a quasi 1 milione e
800mila occupati in più) proseguirà nel 2007, confermando la solidità della ripresa economica
prevista per quest’anno. L’incremento previsto (circa +1,0%) della domanda di lavoro espressa
dalle imprese private italiane con almeno un dipendente dimostra ancora una volta la volontà
strategica di ampie fasce del nostro tessuto produttivo di investire prioritariamente sullo sviluppo
delle risorse umane di cui dispongono.
Nel 2007, i flussi occupazionali in entrata sul mercato del lavoro fanno riferimento, nel
complesso, a oltre il 26% delle imprese italiane, una quota di quasi 3 punti percentuali più alta
rispetto al 2006. Le lavorazioni manifatturiere e le costruzioni presentano un più diffuso
orientamento all’incremento della forza lavoro a disposizione rispetto al terziario (circa il 30%
per il totale dell’industria, contro il 24% dei servizi), dimostrando quindi un elevato turnover al
proprio interno, soprattutto per le società di più grandi dimensioni.
Imprese che hanno programmato assunzioni di personale dipendente, per settore di attività, ripartizione
territoriale e classe dimensionale
In % sul totale - Anni 2006 e 2007
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100
TOTALE
Industria in senso stretto
Costruzioni
Servizi
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud e Isole
1-9 dipendenti
10-49 dipendenti
50-249 dipendenti
250-499 dipendenti
500 dipendenti e oltre
2007 2006
Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2007
10
Spostando l’attenzione a livello di ripartizione geografica, vale evidenziare una più marcata
tendenza ad ampliare o (forse anche più di frequente) a rinnovare la forza lavoro disponibile tra
le imprese del Nord-Est, da un lato, e del Mezzogiorno, dall’altro lato (con un’incidenza delle
assumenti pari al 28% del totale). Rispetto allo scorso anno, le imprese del Nord-Ovest
dichiarano con minor frequenza di voler intraprendere programmi di espansione occupazionale,
con una probabile influenza negativa anche sul tasso di variazione complessivo dei lavoratori
dipendenti.
Così come per gli andamenti di mercato, l’adozione di strategie aggressive (sul versante dei
prodotti o dei mercati) implica, nel complesso, un impatto positivo in termini di domanda di
lavoro, pur indipendentemente dall’entità e dalla tipologia della domanda stessa. La quota di
imprese assumenti nel 2007 sale infatti fino al 36% per quelle che hanno sviluppato nuovi
prodotti o servizi e al 38% per le export oriented (che, come visto, crescono di numero nel 2006
fino a sfiorare il 14% del totale). Pur con le limitazioni legate alla mancanza di informazioni
sull’entità effettiva dei flussi di assunzioni nel periodo considerato, è comunque possibile
evidenziare anche in questo caso alcune differenze negli orientamenti occupazionali delle
imprese innovatrici ed esportatrici su scala settoriale.
Gran parte delle aziende del manifatturiero “tradizionale” (alimentari, arredamento, ceramica,
vetro, metalli, beni per la casa, ecc.) ma anche aziende a medio e alto contenuto tecnologico
(chimico-farmaceutico, gomma, elettronica) legano di frequente i programmi di assunzione
(soprattutto se riferiti a profili di livello più elevato) allo sviluppo del mercato estero, dove sono
sempre di più collocate in fasce di livello medio-alto e alto. Un comportamento leggermente
diverso hanno le aziende metalmeccaniche, che, quasi da “apripista” del Made in Italy, sono
impegnate per lo più nel mantenimento delle quote di mercato estere conquistate in passato,
attraverso un continuo rinnovamento del mix di offerta per soddisfare i desiderata dei diversi
target di clientela serviti: in questo, il capitale umano diventa la leva strategica da attivare sia
per sviluppare nuovi prodotti, sia per consolidare efficienza produttiva e competitività di
mercato.
Nel terziario vengono confermati i (possibili) fenomeni di integrazione o inter-relazione con le
attività manifatturiere. Non a caso, l’orientamento a investire nel capitale umano avviene più di
frequente fra le imprese che, per rispondere alle esigenze degli altri segmenti delle filiere in cui
sono inserite (si pensi ai casi del commercio all’ingrosso e dei trasporti), sono sempre più
impegnate nell’ammodernamento dell’organizzazione e dei servizi offerti.
Le strategie di riposizionamento delle imprese sono individuabili anche attraverso l’esame delle
principali tendenze in atto nei programmi occupazionali per livelli di istruzione richiesti, con
particolare riferimento alla capacità di assorbimento di figure in possesso di titoli di livello
secondario e universitario . In quest’ultimo segmento della domanda di lavoro, vale evidenziare
per il 2007 un incremento delle assunzioni (+20.000 entrate circa) dopo la battuta d’arresto che
aveva caratterizzato il 2006. Mostra una ancor più decisa dinamica di crescita la richiesta di
diplomati (oltre 50.000 in più da un anno all’altro, contro un incremento di 18.000 unità tra il
2005 e il 2006), mentre il più contenuto aumento dei fabbisogni di personale con un titolo pari al
livello dell’istruzione e formazione professionale (+15.000 entrate tra il 2006 e il 2007) dovrebbe
tradursi in una riduzione in termini relativi. I due segmenti della formazione professionale,
“schiacciati” come sono tra la richiesta di diplomati e quella di figure senza alcun titolo oltre
l’obbligo, non riescono pertanto ancora a farsi largo nelle preferenze degli imprenditori. Tale
tendenza potrebbe essere letta come conseguenza di una domanda ora più orientata al livello
secondario superiore (cui non si è accompagnato però un analogo “travaso” di richieste a
partire dal livello formativo più basso, ossia quello della scuola dell’obbligo), ma, soprattutto,
delle incertezze legate ai ritardi di gran parte delle Regioni italiane nella creazione di un sistema
unico dell'istruzione e della formazione professionale.
11
Una conferma di ciò verrebbe dalle tendenze rilevate nella domanda di “formazione integrata”,
che considera sia il sapere scolastico, sia quello di tipo esperienziale (che con la riforma
universitaria e scolastica è diventato parte integrante del percorso formativo individuale). In
questo caso, la domanda di laureati - anche se, ed è bene ricordarlo, non è necessariamente
rivolta a giovani in uscita dal sistema formativo – aumenterebbe di oltre 23.000 unità tra il 2006
e il 2007. A fronte di una variazione pressoché nulla nella domanda di diplomati, la qualifica
professionale vedrebbe invece in questo caso una crescita di oltre 50.000 entrate, dimostrando
quindi alcuni suoi limiti circa il contenuto formativo effettivamente percepito dagli imprenditori.
Le informazioni rese disponibili attraverso il Sistema Informativo Excelsior consentono di anche
ricavare alcune indicazioni circa le modalità di impiego privilegiate dalle imprese. I dati riferiti
alle assunzioni programmate per il 2006 evidenziano che la tendenza delle aziende nell’utilizzo
delle diverse fattispecie contrattuali sembra muoversi sempre più nella direzione delle
assunzioni a termine, a discapito di quelle a tempo indeterminato. Rispetto ai programmi di
assunzione formulati con riferimento al 2005, le entrate di personale a tempo indeterminato
sono diminuite ulteriormente nel 2006, passando dal 50,0% al 46,3%. Al contempo, le
assunzioni di dipendenti a tempo determinato aumentano dal 29,2% del 2004 al 37,8% del
2005 e fino al 41,1% del 2006.
Il calo dell’impiego a tempo indeterminato è risultato nel 2006 più evidente tra le attività terziarie
(dove passano in tre anni dal 57,7% al 48,9% e fino al 43,7%) e più contenuto nell’industria (in
cui scende dal 59,4% del 2004 al 51,6% del 2005 e al 50,3% del 2006). Su scala territoriale, la
tenuta delle assunzioni previste a tempo indeterminato è stata maggiore nelle imprese del
Mezzogiorno (50,5%) e, sia pur in misura inferiore, in quelle del Nord-Ovest (48,5%), mentre è
stata più limitata al Nord-Est e al Centro (42,4% in entrambi i casi).
I dati provvisori relativi al 2007 vedono una prosecuzione di tali tendenze, anche se a ritmi
meno marcati: le assunzioni a tempo determinato dovrebbero crescere ancora e attestarsi
intorno al 43% del totale, erodendo ancora qualche decimale ai contratti a tempo indeterminato
(45,1%).
Un esercizio di simulazione del possibile fabbisogno netto (se positivo) o di eccedenza (se
negativa) di occupati totali per le imprese private fino al 2010 - considerando per semplicità la
sola componente connessa alle uscite per pensionamento – consente infine di evidenziare i
gruppi professionali sui quali il nostro sistema produttivo investirà in futuro per accrescere la
sua capacità competitiva.
Il fabbisogno complessivo medio annuo rapportato allo stock medio del periodo può essere
stimato pari ad un valore positivo complessivamente pari al 2,7%, determinato per circa il 70%
dalle possibili uscite per pensionamento e per circa il 30% dal saldo positivo atteso nel periodo.
L’analisi per gruppo professionale mette in evidenza tendenze assai diversificate. In qualche
caso le stime conducono a valori negativi, che possono essere interpretati quali segnali di
un’eccedenza, ovvero casi per i quali neppure l’uscita di quote di occupati per raggiunti limiti di
età sarebbe sufficiente a compensare la tendenza negativa di quel gruppo professionale. E’ il
caso, in particolare, di alcuni gruppi professionali specializzati in lavorazioni di carattere
prevalentemente artigianale (comprese nel grande gruppo 7), per i quali deriverebbe
l’eventualità di una riconversione verso altro gruppo professionale.
Le professioni più qualificate presentano tassi complessivi mediamente superiori: è il caso di
tutti i gruppi professionali classificati tra gli specialisti (grande gruppo ISCO 2) e, se pure in
misura minore, tra i tecnici (grande gruppo 3). Queste professioni si collocano tra 2 e 4 punti
percentuali sopra il valore medio (posto uguale a 0).
12
Stima del fabbisogno o dell’eccedenza media annua di occupati totali privati per gruppo professionale ISCO
– Anni 2006-2010
Valori assoluti espressi in migliaia
saldi medi
annui
attesi
uscite
medie
annue
pens.
fabbisogno/
eccedenza
media annua
fabb./ecced.
medio annuo
su stock
(val. %)
12 - Dirigenti d'azienda e imprenditori 17,4 27,6 45,1 6,0
21 - Specialisti scienze fisiche, matematiche e ingegneristiche 15,7 5,7 21,4 6,1
22 - Specialisti delle scienze della vita e della salute 7,6 8,4 16,0 5,4
23 - Specialisti dell'insegnamento (compreso 33) 1,8 8,2 9,9 5,0
24 - Specialisti aziendali, legali, delle scienze sociali e altri 32,1 16,6 48,7 6,8
31 - Tecnici delle scienze fisiche e di ingegneria 34,3 18,5 52,8 4,6
32 - Tecnici delle scienze della vita e paramedici 11,3 6,3 17,7 4,9
34 - Tecnici finanziari, commerciali, amministrativi e altri 35,9 40,1 76,0 3,3
41 - Impiegati di ufficio 6,4 27,3 33,6 2,0
42 - Addetti al servizio clienti 1,2 5,4 6,6 2,3
51 - Addetti ai servizi personali e di sicurezza 33,8 22,5 56,3 3,9
52 - Addetti alle vendite 4,9 10,3 15,2 1,6
71 - Addetti all'estrazione ed alla costruzione 0,8 19,1 19,9 1,8
72 - Addetti alla lavorazione dei metalli, meccanici e affini -20,7 25,1 4,4 0,3
73 - Addetti lavorazioni precisione, artigianali, attin. alla stampa -7,4 3,3 -4,1 -2,3
74 - Altri artigiani, esperti di un mestiere e affini -34,0 15,7 -18,3 -2,8
81 - Addetti ad impianti fissi e affini 12,7 6,7 19,4 4,1
82 - Addetti alle macchine e assemblatori -6,2 11,7 5,5 0,7
83 - Conducenti, manovratori ed addetti ad impianti mobili -4,9 13,6 8,7 1,4
91 - Occupazioni elementari nelle vendite e nei servizi 9,9 28,9 38,8 3,3
93 - Manovali settore minerario, costruzioni, industriale, trasporti -11,3 6,3 -5,0 -1,4
Totale 141,4 327,3 468,6 2,7
Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior
Le stime svolte sui fabbisogni occupazionali medi annui per il prossimo quinquennio
consentono inoltre di effettuare alcuni confronti con analoghi esercizi previsivi condotti in altri
Paesi, per poter analizzare le dinamiche emerse anche in relazione a ciò che viene prospettato
altrove. Il paragone con due realtà particolarmente importanti dello scenario internazionale,
quella francese e quella statunitense, consente in prima battuta di affermare che le dinamiche
complessive previste per l’apparato economico nazionale (sempre limitatamente alle tendenze
professionali) nell’ambito del presente lavoro non si discostano in maniera significativa dalle
dinamiche previste all’estero e rintracciabili in letteratura.
L’ordine di grandezza dei risultati cui si perviene permette di collocare l’Italia su valori
complessivi paragonabili a quelli di analoghe previsioni per Stati Uniti e Francia: il fabbisogno
medio annuo si attesta in tutte e tre le realtà su valori prossimi o di poco superiori al 3%.
Le informazioni in possesso consentono solo in parte un confronto fino al dettaglio dei principali
gruppi professionali, dal momento che le diverse classificazioni sottostanti pongono, per il
momento, problemi di non immediata soluzione. I tentativi fatti in questa direzione consentono,
comunque, di affermare che i fabbisogni previsti per i diversi gruppi professionali in ambito
13
italiano appaiono caratterizzati da saldi temporali assai più variabili rispetto ai corrispondenti
dati francesi e statunitensi. Questi ultimi presentano una minore variabilità nell’andamento dei
singoli gruppi professionali rispetto agli andamenti medi previsti in complesso: una “vivacità”
che potrebbe dipendere dal fatto che il nostro Paese è ancora impegnato, come sopra
documentato, in processi di ristrutturazione del tessuto economico (soprattutto industriale) più
intensi e più diffusi rispetto a quanto accade nei Paesi qui presi a raffronto.
Confronto tra gli scenari previsivi per gruppi professionali: Italia, Francia e USA
Totale occupati
0,8
1,9
2,7
0,7
2,5
3,1
1,2
2,3
3,4
% saldo medio
annuo
% pensioni annue tasso fabb/ecced.
(media annua su
stock medi)
saldo % medio
annuo
% uscite annue
previste dal
mercato del
lavoro
tasso fabb/ecced.
(media annua su
stock medi)
saldo % medio
annuo
% uscite annue
previste dal
mercato del
lavoro
tasso fabb/ecced.
(media annua su
stock medi)
ITALIA (2005-2010) FRANCIA (2005-2015) USA (2004-2014)
Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior
2. Competitività: il riposizionamento delle produzioni italiane sui
mercati mondiali
Il quadro positivo finora delineato relativamente al settore manifatturiero nel 2006 viene
avvalorato dai segnali di netta ripresa delle vendite sui mercati internazionali. Secondo le
indagini congiunturali di Unioncamere sulle piccole e medie imprese manifatturiere, le
esportazioni - che nel 2005 avevano mostrato vitalità, in particolare nell’ultimo trimestre - si
sono, infatti, nel 2006 ulteriormente rafforzate, visto che in ogni trimestre si rilevano per l’export
oltre 2 punti percentuali in più rispetto allo stesso periodo del 2005.
In tutte le ripartizioni si registrano saldi positivi, con il Nord-Est che guida decisamente la ripresa
(+3,2% nel quarto trimestre), seguito dall’area nord-occidentale del Paese (+1,9%). La
dinamicità esportativa è, tuttavia, appannaggio delle imprese più grandi, visto che le
microimprese continuano ancora ad evidenziare una decisa flessione anche nel corso degli
ultimi trimestri. Nel complesso sembra quindi delinearsi un nuovo slancio delle nostre piccole e
medie imprese manifatturiere che, forti di una lento ma costante recupero di competitività,
mostrano di aver invertito la tendenza negativa che ha caratterizzato il recente passato.
14
Nel 2006 il valore delle esportazioni italiane ha registrato (a prezzi correnti) un aumento del 9%
rispetto allo stesso periodo del 2005 (+7,1% verso i paesi europei e +11,9% verso l’area extra
UE). Una crescita di tutto rilievo, frutto sia di una maggiore competitività di mercato da parte
delle imprese già tradizionalmente operanti all’estero, sia di un progressivo aumento delle
imprese esportatrici. Il Centro studi Unioncamere ha infatti rilevato che la quota di imprese
export oriented ha raggiunto nel 2006 il 31,2% con riferimento alle imprese manifatturiere con
almeno 1 dipendente (pari a circa 98.500 aziende, oltre 5.000 in più rispetto al 2005) e il 13,8%
per il totale dell’economia italiana.
Imprese manifatturiere italiane con almeno un dipendente che operano con l’estero
In percentuale sul totale delle imprese, per settore – Anni 2004-2006
2004 2005 2006
Estrazione di minerali 22,1 23,3 24,0
Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco 19,0 19,2 23,9
Industrie tessili, dell'abbigliamento e calzature 31,0 31,9 34,0
Industrie del legno e del mobile 23,7 24,3 26,0
Industrie della carta, della stampa ed editoria 23,1 26,4 27,8
Industrie chimiche e petrolifere 47,4 45,8 45,5
Industrie della gomma e delle materie plastiche 38,3 40,2 39,1
Industrie dei minerali non metalliferi 29,9 29,2 32,4
Industrie dei metalli 23,7 23,8 25,6
Industrie meccaniche e dei mezzi di trasporto 45,3 45,3 46,4
Industrie elettriche, elettroniche, ottiche e medicali 29,5 30,9 32,9
Ind. beni per la casa, tempo libero e altre manifatturiere 42,0 42,2 38,3
Produzione e distribuzione di energia, gas e acqua 18,4 21,2 29,0
TOTALE 28,8 29,2 31,2
Fonte: Centro Studi Unioncamere
Il valore medio di quello che esportiamo è molto cresciuto: +25% dal 2000 al 2006, a conferma
del riposizionamento delle nostre produzioni sulle fasce più pregiate del mercato, anche se
sempre all’interno delle nostre tradizionali specializzazioni. Si rilevano infatti punte del 41%
nelle calzature, del 37% nei prodotti in metalli, del 33% nel tessile-abbigliamento, del 26% nella
meccanica, ma anche del 28% nell’elettronica.
Le performance sui mercati esteri rappresentano, d’altra parte, l’indicatore più consolidato e
oggettivamente confrontabile a livello internazionale per valutare l’effettiva capacità competitiva
di un sistema economico-produttivo. A tal riguardo, è stata approfondita la capacità che l’Italia
ha avuto di vendere beni e servizi al di fuori dei suoi confini, pur se con modalità e risultati
differenti a seconda della taglia dimensionale delle aziende operanti all’estero.
L’analisi condotta ha consentito di circostanziare e valutare meglio il calo della nostra quota di
commercio mondiale, legata non solo all’ingresso di nuovi player (imponenti per dimensione e
sempre meglio strutturati) sullo scenario internazionale, ma anche a problemi di competitività.
Ma la novità consiste nel documentare come tale perdita di competitività non sia stata
generalizzata.
Un primo sguardo d’insieme consente di evidenziare che nel 2006 l’Italia era l’ottavo Paese
esportatore al mondo, con una quota del 3,4% delle esportazioni mondiali. Rispetto al 1997 si
registra una perdita di un punto percentuale della quota di mercato e di due posizioni nella
15
graduatoria dei Paesi export-leader. Ma consideriamo che cosa è accaduto negli altri Paesi: gli
USA perdono 4 punti in termini di quote di mercato; la Francia –1,2; Giappone –2,3; Regno
Unito –1,5; solo la Germania ha tenuto le sue quote (ha perso solo 0,2 punti).
L’Italia nel 2006 ha esportato verso i 14 Paesi che, per primi, hanno costituito l’Unione Europea
beni per quasi 170 miliardi di euro, quasi il 52% delle esportazioni complessive. Dieci anni
prima la quota era del 55%, una leggera riduzione determinata dalla competizione aperta
(anche in Europa) alle economie asiatiche emergenti e, nel contempo, dalle opportunità offerte
dall’espansione di nuovi mercati nell’Europa centro-orientale e fuori dall’UE; complessivamente,
nel decennio considerato le esportazioni verso l’Unione europea sono aumentate del 52%,
contro una crescita del 76% del mercato extraeuropeo.
Variazione e incidenza delle esportazioni italiane per area di destinazione.
Variazione 1996-2006 Incidenza del mercato UE ed Extra UE
52%
76% 63%
IntraUE ExtraUE Totale
51,7%
55,5%
48,3%
44,5%
2006
1996
Intra UE Extra UE
Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Istat
Nel 1996, l’Italia era il sesto partner commerciale dell’Unione Europea, e quasi il 7% delle
importazioni della UE provenivano dall’Italia. Nel 2006 l’Italia è scesa all’ottavo posto, superata
dal Belgio (considerato unitamente al Lussemburgo) e dalla Cina. La quota di mercato è calata
al 5,2%, una riduzione di 1,8 punti percentuali; si noti, però, che Stati Uniti e Francia hanno
registrato contrazioni anche più marcate. Russia e, soprattutto, Cina sono i Paesi che
acquisiscono nuove quote di mercato; nel 1996 quasi due terzi delle importazioni dell’Unione
europea provenivano da Paesi membri, nel 2006 la percentuale è scesa al 58%.
I primi 5 Paesi esportatori nel mercato dell’Unione Europea per differenza in punti percentuali delle quote di
mercato
Anni 1996 e 2006 a confronto
Paesi che guadagnano quote di mercato Paesi che perdono quote di mercato
Paese differenza quota Paese differenza quota
Cina 3,46 Stati Uniti -1,97
Russia 1,67 Francia -1,89
Repubblica Ceca 0,71 Italia -1,80
Polonia 0,69 Regno Unito -1,69
Norvegia 0,58 Giappone -1,26
Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Eurostat
L’affacciarsi di nuovi competitors sul mercato europeo ha avuto un differente impatto sui Paesi
ma anche sulle singole merci. In Italia nell’ultimo decennio la metà delle oltre tremila tipologie di
prodotti esportati (secondo la classificazione internazionale SITC) ha subito una flessione delle
quote di mercato, l’11% dei beni commercializzati nella UE ha perso oltre due terzi della quota
detenuta nel 1996. D’altro canto, ciò significa che per oltre mille prodotti la quota di mercato è
16
aumentata e per più di 500 di essi la crescita è stata superiore ai due terzi della frazione
iniziale1.
Può essere interessante confrontare il dato dell’Italia con quello di due Paesi leader nel
commercio estero, Germania e Francia, nonché con la Spagna - in quanto economia europea in
forte crescita nel periodo considerato - e con la Cina. La Germania evidenzia una maggior
stabilità, con variazioni di quote, sia negative che positive, di modesta entità. La Francia
presenta una netta prevalenza di merci che perdono quote di mercato, in alcuni casi anche in
misura considerevole. La Spagna, viceversa, mostra quasi il 60% delle proprie produzioni in
crescita: occorre sottolineare che, partendo da livelli iniziali modesti, incrementare la propria
presenza sul mercato è sicuramente più agevole. Tuttavia, complessivamente, la Spagna non
aumenta la propria quota di mercato totale, indice di una crescita delle produzioni meno rilevanti
per l’economia spagnola, a fronte di una riduzione o di una stazionarietà di quelle
maggiormente incidenti.
Variazione della quota di mercato dei prodotti, per Paese
Flessione Crescita
Forte Media Debole Stazionarietà Debole Media Forte
Italia 10,6% 19,8% 19,6% 6,3% 13,3% 8,6% 21,7%
Germania 5,4% 17,7% 27,8% 9,2% 16,5% 8,8% 14,7%
Francia 13,9% 24,6% 20,2% 5,8% 11,3% 6,9% 17,3%
Spagna 10,1% 13,1% 13,0% 5,3% 11,6% 9,9% 36,9%
Cina 2,8% 2,3% 2,4% 3,0% 5,0% 5,0% 79,5%
Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Eurostat
Quasi il 90% delle merci cinesi rafforza la propria posizione sul mercato e una quota pari
all’80% cresce in misura sostenuta. In pochi anni, per molte produzioni la Cina è diventato il
principale partner europeo, “obbligando” l’Italia e le altre economie avanzate a ripensare
profondamente le proprie strategie produttive e commerciali.
Parte di queste trasformazioni possono essere lette anche attraverso i dati del commercio
estero, mettendo a confronto il valore delle esportazioni con le relative quantità. Se, in termini di
valore, la quota di mercato si riduce per la metà delle produzioni, in termini di quantità la
contrazione coinvolge il 60% dei beni.
1 In questa elaborazione, per forte flessione si intende una diminuzione della quota di mercato superiore al -66%;
per media flessione una variazione compresa tra -66% e -33%; debole flessione tra -33 per cento e -5%;
stazionarietà tra -5% e +5%; debole crescita tra 5% e 33%; media crescita tra 33% e 66%; forte crescita oltre il 66%.
17
Distribuzione dei prodotti italiani per variazione della quota di mercato in valore e in quantità
Valore Quantità
11%
20% 20%
6%
13%
9%
22%
<-66% da -66%
a -33%
da -33%
a -5%
da -5%
a 5%
da 5% a
33%
da 33%
a 66%
oltre
66%
21% 21%
17%
5%
9%
6%
21%
<-66% da -66%
a -33%
da -33%
a -5%
da -5%
a 5%
da 5% a
33%
da 33%
a 66%
oltre
66%
Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Eurostat
Il dato deve essere letto ed esaminato con le dovute cautele, ma sembra indicare che la
concorrenzialità delle merci italiane si gioca sempre più sulla qualità e meno sulla quantità,
come dimostrerebbe anche l’incremento del 25% del valore medio unitario delle nostre
esportazioni tra il 2000 e il 2006. È, con ogni evidenza, un’affermazione di carattere generale
che ha valenza per il commercio estero nel suo complesso, ma che, per alcune tipologie
produttive, può presentare dinamiche differenti. Per una maggior comprensione occorre
focalizzare l’analisi sulle singole produzioni; la loro suddivisione per contenuto tecnologico può
costituire una valida chiave interpretativa.
Iniziando l’analisi con i prodotti caratterizzati da un contenuto di tecnologia basso o assente,
emerge come per questo raggruppamento merceologico l’Italia rappresenti nel 2006 il quinto
partner commerciale dell’UE, mentre dieci anni prima occupava la seconda posizione. Una
perdita di quote di mercato di 2,6 punti percentuali, che riflette una minor dinamica delle
esportazioni italiane rispetto a produzioni a maggior contenuto tecnologico. Complessivamente,
le esportazioni italiane di prodotti low tech verso i partner europei sono aumentate del 47,8%;
tra i 20 principali Paesi esportatori solo la Svizzera presenta un saggio di incremento inferiore.
L’incremento modesto sul mercato europeo è stato solo parzialmente compensato dalla crescita
del mercato extra-Ue, verso il quale le esportazioni, nei dieci anni di riferimento, sono
aumentate del 76%.
Nella commercializzazione di produzioni a bassa tecnologia vi è una sostanziale perdita di
quote di mercato - oltre che dell’Italia - della Germania, della Francia, del Regno Unito e degli
Stati Uniti; tengono il Belgio, la Spagna e l’Irlanda, crescono in misura considerevole Cina e
Russia. È interessante osservare come nel 1996 quasi due terzi delle esportazioni cinesi verso
l’Unione europea fosse costituito da prodotti resource based o low tech, nel 2006 tale
percentuale si è ridotta di oltre 20 punti, ad indicare una forte presenza della concorrenza
cinese in produzioni a maggior tecnologia.
Il rapporto tra valore delle esportazioni e quantità fornisce il valore dell’export per ogni 100 kg di
prodotto. Si tratta, evidentemente, di un indicatore grezzo che accomuna beni estremamente
differenti, però fornisce alcuni spunti di riflessione che meritano di essere sottolineati. Il valore
unitario dei beni esportati dall’Italia risulta essere mediamente più elevato rispetto a quello dei
principali competitors, anche se il tasso di crescita nel decennio preso in esame è stato uno dei
più bassi se si esclude la Cina.
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Il principale gruppo merceologico low tech per l’Italia è costituito da “manufatti in metalli
comuni”, al cui interno si trovano i prodotti in metallo e ferro, fibbie, fermagli, catene, produzioni
per le quali Germania ed Italia sono leader, anche se la concorrenza cinese e dei Paesi dell’est
europeo comincia ad essere pressante; in particolare, la Germania ha perso oltre 10 punti
percentuali, guadagnati da Cina, Paesi Bassi, Polonia e Repubblica Ceca.
L’Italia, relativamente al gruppo costituito da “mobili, articoli da letto, materassi, cuscini e articoli
similari imbottiti” negli ultimi dieci anni ha visto ridursi la propria quota di mercato europeo di
oltre sette punti percentuali; nello stesso periodo le importazioni di questo gruppo merceologico
dalla Cina sono aumentate del12%, diventando così il principale partner dell’Unione europea.
Una dinamica analoga si riscontra nel settore delle “calzature”: nel 1996 l’Italia deteneva il 26%
del mercato, la Cina l’8%. Nel 2006 la quota italiana è scesa al 14%, quella cinese è salita al
21%. È tuttavia interessante rilevare che, in termini non di valore ma quantitativi, le calzature
cinesi rappresentano quasi la metà dell’intero mercato (per l’esattezza, il 46%), mentre quelle
italiane solamente il 6%. Una differenza del genere indica chiaramente un notevole gap
qualitativo tra le produzioni provenienti dai due Paesi. L’analisi sui singoli prodotti conferma che
su produzioni di qualità l’Italia ha mantenuto o addirittura aumentato le proprie quote di mercato
- come nelle “scarpe tecniche resistenti all’acqua” (dal 15% del 1996 al 18% del 2006) - mentre
in produzioni connotate da un minor livello qualitativo, la flessione è stata superiore ai venti
punti percentuali. Da rilevare il dato sugli “scarponi da sci”: nel 1996 l’Italia deteneva il 53% del
mercato, quota scesa al 27% nel 2006; gli oltre 20 punti percentuali persi dall’Italia sono stati
assorbiti dalla Romania, ad indicare come i processi di delocalizzazione devono essere
attentamente letti e valutati nell’analisi dei flussi commerciali.
Se le produzioni italiane a basso contenuto tecnologico sembrano, complessivamente, risentire
fortemente della concorrenza estera e, soprattutto, cinese, vi sono produzioni che nel decennio
di riferimento hanno guadagnato significative quote di mercato. In particolare, si segnala la
crescita per alcuni comparti del sistema moda e dell’agro-alimentare.
Quasi il 90% delle esportazioni cinesi ha guadagnato quote di mercato, mentre la metà di quelle
italiane ne ha perse, così come quasi il 60% di quelle francesi. Tuttavia, va evidenziato che
quasi un quarto delle tipologie produttive italiane incrementa sensibilmente la propria quota di
mercato, ad indicare che anche nei beni low tech si può essere competitivi.
Utilizzando il massimo dettaglio di classificazione, è poi possibile individuare le nicchie di
mercato, cioè quelle produzioni per le quali l’Italia è leader, detenendo una quota di mercato
superiore al 50%. Le nicchie sono rappresentate principalmente da particolari lavorazioni della
pelle e del cotone; quasi tre quarti del mercato della pasta è controllato dall’Italia. Questo
sembrerebbe quindi confermare le prospettive positive nel riposizionamento operato da molte
imprese (spesso identificabili con quelle di medio-piccola e piccola dimensione) su segmenti a
più alto valore aggiunto e a più elevata specializzazione a monte delle catene produttive di
alcuni beni di consumo, tanto da poterle oggi identificare come il cuore – a elevata qualità –
delle filiere produttive internazionali.
Il secondo raggruppamento merceologico esaminato, quello delle produzioni con un livello
medio di contenuto tecnologico, costituisce il 43,8% delle esportazioni nazionali dirette nel
mercato europeo, incidenza in crescita rispetto a dieci anni prima. Rispetto a quanto visto per le
produzioni low tech, quelle medium tech risentono ancora in misura minore della concorrenza
delle economie asiatiche e dell’Est Europa, anche se si sta registrando una progressiva perdita
di quote di mercato a favore delle nuove economie. Nel 2006, il 7,4% delle importazioni
dell’Unione Europea di prodotti medium tech proveniva dall’Italia, rispetto all’8,4% del 1996. Un
19
calo di oltre un punto percentuale che caratterizza anche gli altri Paesi leader nelle esportazioni
di questa tipologia di produzioni, ossia Germania e Francia.
Pur con i limiti dettati dall’estrema eterogeneità dei beni che la compongono, anche per questa
categoria merceologia sembra essere in atto un riposizionamento dei nostri operatori verso le
fasce più alte del mercato, anche se non evidente come nel caso dei prodotti low tech. La
dinamica ragguardevole del decennio in esame porta comunque ad evidenziare un
avvicinamento – o addirittura un superamento – rispetto ad alcuni Paesi nostri diretti
competitors come la Francia, la Svezia e la Corea. La Germania e gli Stati Uniti appaiono
ancora fortemente ancorati in posizione di leadership, il Regno Unito e la Spagna vanno
riposizionandosi, il Giappone perde posizioni.
Il settore automobilistico e il comparto che produce componenti per autovetture costituiscono la
filiera caratterizzante l’industria italiana medium tech. Il 4,25% dell’export nazionale è ascrivibile
alla commercializzazione di “parti, pezzi staccati ed accessori degli autoveicoli”, in crescita sia
nell’incidenza delle esportazioni italiane, sia come quota di mercato detenuta all’interno
dell’Unione Europea. In termini di quote di mercato, l’Italia è preceduta da Germania e Francia
ma è importante sottolineare che queste, alla pari delle altre nazioni dell’Europa occidentale e
contrariamente all’Italia, stanno perdendo quote di mercato a favore dei Paesi dell’est Europa,
in particolare Repubblica Ceca, Polonia ed Ungheria. Il dato potrebbe significare un processo
delocalizzativo attuato da alcune economie europee avanzate verso i Paesi dell’Est, un
fenomeno che in Italia, per quanto attiene il settore automobilistico, si manifesta invece in
misura molto più contenuta.
Nel gruppo delle “vetture da turismo ed altre automobili per il trasporto di persone”, l’Italia risulta
essere l’ottava esportatrice verso l’Unione europea, preceduta da Germania, Francia, Belgio,
Spagna, Giappone, Regno Unito e Corea. Tra questi Paesi solo Germania e Corea
guadagnano quote di mercato, le altre presentano flessioni nell’ordine di uno-due punti
percentuali.
Risulta, invece, in forte flessione il comparto “delle macchine ed apparecchi elettrici e non ad
uso domestico”, oltre sette punti percentuali in meno nel decennio preso in esame. Nel 1996
l’Italia era il principale Paese esportatore con una quota di mercato che sfiorava il 23%, nel
2006 è scesa al terzo posto, preceduto dalla Cina, che ha guadagnato oltre 13 punti
percentuali, e dalla Germania.
In forte crescita “gli additivi preparati per oli minerali e similari”, “le caldaie a vapore”, “le
macchine ed apparecchi per la lavorazione dei metalli”, “le macchine per la fabbricazione della
carta”.
Il comparto che ha registrato la flessione più significativa è quello delle “apparecchiature di
illuminazione”, con una perdita di quota solo di poco inferiore agli 8 punti percentuali. Ancora
una volta la flessione dell’export italiano è da attribuire all’entrata sul mercato delle produzioni
cinesi che, con un aumento della quota superiore ai 20 punti percentuali, controllano oltre un
terzo dell’intero mercato di apparecchiature di illuminazione.
In calo anche il settore dei “motocicli”, una flessione di quasi sei punti percentuali; nonostante la
riduzione l’Italia si conferma il secondo esportatore di motocicli in Europa con una quota del
14%, al primo posto si colloca il Giappone (con una quota del 19,5%), che ha registrato una
flessione di quasi 9 punti percentuali. In crescita, tra i principali esportatori, Germania, Belgio e
Cina.
20
L’Italia è seconda anche per commercializzazione di “trattori”, preceduta dalla Germania. Ma,
mentre l’export tedesco risulta essere in crescita, quello italiano registra una sensibile
contrazione.
Il 47% dei beni medium tech italiani ha registrato una perdita di quote di mercato in termini di
valore nel decennio in esame, percentuale che sale al 61% se si considerano le quantità. Il
divario tra valore e quantità risulta essere più ampio di quanto visto per i beni a bassa
tecnologia, a sottolineare come l’Italia sia riuscita ad estendere ad una larga parte delle
produzioni con contenuto tecnologico medio il processo di trasformazione volto al
miglioramento qualitativo. Un percorso di crescita che sembra aver interessato l’Italia in misura
superiore alla Francia, ma anche alla Germania.
Analogamente a quanto visto per le produzioni a basso contenuto tecnologico, è interessante
scendere ad una classificazione più dettagliata per individuare le nicchie di mercato. La filiera
del “sistema moda” – in particolare alcune produzioni che per la loro lavorazione richiedono un
apporto tecnologico e i macchinari necessari per la lavorazione - caratterizzano le nicchie di
mercato di produzioni medium tech. Il dato può essere visto come una fotografia della
specializzazione distrettuale italiana, che ha portato le imprese ad essere leader non solo nella
produzione dei beni finali del distretto – pelli, piuttosto che alcune tipologie di filati o prodotti in
metallo – ma anche nei macchinari necessari per la loro lavorazione. Dunque, per larga parte
delle produzioni che caratterizzano il Made in Italy, il valore aggiunto dei beni deriva da una
crescita dell’intera filiera di cui fanno parte e ciò sembra assicurare una maggior competitività
sui mercati internazionali.
Solamente l’11% delle esportazioni nazionali riguarda il terzo raggruppamento merceologico in
esame, ossia quello delle produzioni ad alto contenuto tecnologico. Si tratta della percentuale
più bassa tra i venti principali Paesi esportatori: la Spagna, penultima, presenta una percentuale
del 13,8%. Anche in termini dinamici, la crescita rispetto al 1996 è stata inferiore a larga parte
degli altri Paesi. L’Italia incide sulle esportazioni high tech dirette nell’Unione europea per una
quota inferiore al 3%, undicesimo Paese nella graduatoria che vede in testa la Germania con il
13,5%.
Ancora una volta è da evidenziare il dato della Cina. Con un incremento di quasi nove punti
percentuali, il Paese asiatico è diventato il secondo partner commerciale europeo per prodotti
ad alta tecnologia; il 37% delle esportazioni complessive della Cina verso l’Unione europea è
costituito da beni high tech, contro il 16% del 1996.
Dunque, la concorrenza cinese - contrariamente a quanto spesso si afferma - è sempre meno
circoscritta a merci di fascia bassa ed a scarso contenuto tecnologico, ma si sta estendendo a
tutte le produzioni, anche quelle high tech. Va tuttavia specificato che parte di questo fenomeno
può essere riconducibile anche a fenomeni di delocalizzazione di imprese provenienti da Paesi
di più antica industrializzazione, che tuttavia stanno generando in Cina un indotto locale che, in
prospettiva, potrà anche proporsi autonomamente e direttamente sui mercati mondiali.
Nel caso dei prodotti high tech, il rapporto fra valore delle esportazioni e le relative quantità
appare non particolarmente significativo, data l’ancora maggiore differenziazione dei beni che
compongono tale raggruppamento. L’Italia mostra comunque un valore per 100 kg di prodotti
più contenuto rispetto ai principali competitors e anche la dinamica di crescita, pur sostenuta, è
inferiore rispetto a gran parte dei Paesi maggiori esportatori verso l’UE.
Tra le produzioni high tech che maggiormente incidono sull’export nazionale, il primo posto è
occupato dal gruppo “medicamenti per la medicina umana e veterinaria”. Nonostante una
crescita delle esportazioni del 337%, la quota italiana sul mercato europeo è diminuita di oltre
21
un punto percentuale. Il comparto farmaceutico sta registrando un passaggio di quote tra i
Paesi leader nel 1996, Regno Unito, Svizzera e Francia a quelli del 2006, Germania, Belgio ed
Irlanda. L’Italia, sesta nel 1996, scende all’ottavo posto. In leggera contrazione anche la quota
relativa alle “attrezzature per le telecomunicazioni”, dovuta alla forte crescita dell’export cinese,
che ha guadagnato quasi sedici punti percentuali. Stessa dinamica per le “macchine ed
apparecchi elettrici”.
Nonostante la forte ascesa delle esportazioni cinesi, l’Italia è riuscita a guadagnare quote di
mercato per alcune produzioni. Nello specifico crescono i gruppi di “motori e macchine motrici”,
delle “turbine a vapore” e, nonostante una variazione negativa delle esportazioni, gli
“apparecchi ed equipaggiamenti fotografici”.
Tra i prodotti in flessione vi è una netta contrazione degli “apparecchi ricevitori di televisione”,
sia per la forte concorrenza di produzioni a basso costo provenienti dall’Asia e dall’Est Europa,
sia per prodotti qualitativamente superiori realizzati in altri Paesi dell’Europa occidentale. La
crescita di oltre otto punti percentuali dei Paesi Bassi indica che dove si è puntato
sull’innovazione e sulla qualità i risultati non sono mancati, nonostante la concorrenza asiatica.
La distribuzione dei prodotti high tech in funzione della variazione della quota di mercato
presenta un quadro leggermente più negativo di quanto visto per i beni medium tech: poco più
della metà dei beni hanno registrato una perdita di quote, il divario tra valore e quantità risulta
essere meno ampio. La scarsa propensione dell’Italia verso produzioni ad alta tecnologia –
ovviamente con alcune eccezioni – sembra poter essere letta anche attraverso i dati degli
scambi commerciali. A ulteriore conferma di ciò, l’Italia non detiene nessuna nicchia di mercato
– cioè almeno il 50% della quota – per produzioni ad alta tecnologia. Solo per alcune produzioni
farmaceutiche arriva a detenere circa un quarto dell’intero mercato dell’Unione Europea.
I dati fin qui esposti presentano numerose chiavi di lettura possibili, ma confermano comunque
che l’analisi dei mutamenti nella struttura del commercio internazionale si sta mostrando un
potente strumento per identificare le reazioni di aree e paesi ai processi sempre più intensi di
globalizzazione e, dunque, per valutare il loro livello di competitività. Il posizionamento sui
mercati esteri - misurato a livello di singolo prodotto ancor più che a livello settoriale - può in
altri termini essere usato come chiave di lettura dell’evoluzione dei modelli di specializzazione
del sistema produttivo italiano e dei processi di ristrutturazione della nostra industria.
A tal riguardo, sono soprattutto due gli elementi che pare opportuno evidenziare. Il primo
riguarda la conferma ulteriore del graduale innalzamento qualitativo delle nostre merci vendute
all’estero. Si tratta, d’altronde, di un passaggio ineludibile per essere competitivi sui mercati
internazionali. Ed è un processo che non riguarda solamente i beni a maggior contenuto
tecnologico ma è trasversale a tutti i settori e a tutte le categorie di merci. Come dimostrano i
dati, vi sono eccellenze in produzioni con un contenuto tecnologico medio, così come in quelle
low tech (dove, più che le tecnologie, sono il design e i contenuti “immateriali” dei beni e dei
servizi i fattori che determinano l’affermazione sui mercati mondiali).
Il secondo aspetto riguarda proprio le eccellenze. In alcuni casi, la leadership commerciale
sembra ascrivibile alla abilità di poche imprese di intercettare prima delle altre le dinamiche del
settore. In altri casi – che rappresentano tuttavia ancora la grande maggioranza - gli ottimi
risultati conseguiti derivano invece da un’evoluzione dell’intera filiera di appartenenza.
Un’evoluzione che quasi sempre nasce dalla capacità di alcune imprese driver (generalmente di
media dimensione) di trainare l’intera filiera (composta prevalentemente da imprese artigiane e
di piccola dimensione), proponendosi come trait d’union tra dimensione locale – il distretto – e
la dimensione globale.
22
Il consolidamento di quote di mercato in alcuni settori fortemente esposti alla concorrenza dei
Paesi emergenti deriva proprio da un patrimonio di conoscenze sviluppato all’interno del
territorio: un capitale sociale fatto di conoscenza tacita e non codificata, quindi non esportabile e
difficilmente imitabile.
Il potenziale competitivo dell’industria italiana potrà tuttavia esprimersi appieno solo se si
riuscirà a dare maggior slancio alla crescita della produttività dei fattori, che, nonostante alcuni
chiari segnali di inversione di tendenza nel 2006, mostra una dinamica più contenuta rispetto ai
nostri partner dell’UE. Un fenomeno riconducibile, come è stato da più parti evidenziato, alle
diseconomie esterne che ancora penalizzano le nostre imprese (dalla dotazione infrastrutturale
al credito, dall’efficienza della Pubblica Amministrazione all’offerta di servizi, in primo luogo
quelli energetici) e alla ancora limitata capacità di adottare innovazioni ad ampio spettro – e,
dunque, non solo di tipo tecnologico - pure nei settori low e medium tech.
3. Il “nodo” del Mezzogiorno
Non accennano a chiudersi i divari tra Centro-Nord e Sud del Paese, anche in termini di
performance di mercato delle imprese. I saldi fra andamenti positivi e negativi del giro d’affari si
attestano infatti su valori elevati (14 punti percentuali) al Centro-Nord, mentre stentano a
riprendere quota le aziende del Mezzogiorno: con un saldo pari appena a 4 punti (sintesi di un
26% di aziende con incrementi del giro d’affari e un 22% che ha invece subito una flessione),
non sembrano aver ancora beneficiato della congiuntura favorevole dei mercati. E i segnali che
emergono dagli andamenti del primo trimestre del 2007 non indicano un cambiamento di tali
tendenze: con riferimento alle sole piccole e medie imprese manifatturiere meridionali, il
fatturato e la produzione dovrebbero subire un’ulteriore riduzione in termini tendenziali, pari
rispettivamente a -1,9% e a -2,1%. Il gap rispetto al Centro-Nord appare evidente se si tiene
conto che, nello stesso trimestre, il giro d’affari è cresciuto del +1,9% per le imprese del Centro,
del +2,1% al Nord-Ovest e addirittura del +3,4% nel Nord-Est.
Gli andamenti delle imprese si riflettono anche sul versante degli indicatori macroeconomici.
L’aumento del PIL pari al +2,0% a livello nazionale presenta chiare differenze su scala
territoriale: dovrebbe essere il Centro a ottenere i risultati migliori, con uno sviluppo del PIL nel
2007 pari al 2,2% rispetto al 2,0% dell’Italia, mentre al di sotto della media nazionale si trova
solo l’1,7% del Mezzogiorno. Tra le regioni, gli incrementi più significativi coinvolgono
Lombardia, Umbria, Lazio, Emilia Romagna, Toscana e Marche, quelli più contenuti Calabria,
Molise, Abruzzo e Piemonte.
Per il 2007, così come per il 2006, l’Italia meridionale sembra dunque seguire una dinamica
insufficiente a garantire uno sviluppo in linea con il resto del Paese. Il PIL per abitante nel
Mezzogiorno dovrebbe mantenersi anche per il prossimo triennio su una quota pari al 67,7%
del totale nazionale, evidenziando quindi ancora una situazione di diffuso disagio per le
popolazioni di queste aree e l’esistenza di un divario di sviluppo ancora molto forte, che rischia
di tradursi in una profonda lacerazione nella crescita economica e sociale del nostro Paese.
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Scenario di previsione al 2010 per il PIL delle regioni italiane
Tassi di var. % su valori concatenati (anno di riferimento 2000)
2007 2008 2009 2010
Piemonte 1,6 1,3 1,3 1,5
Val d'Aosta 1,8 1,5 1,5 1,7
Lombardia 2,3 1,8 1,8 1,9
Trentino Alto Adige 2,0 1,5 1,5 1,8
Veneto 2,0 1,9 1,8 1,7
Friuli Venezia Giulia 2,0 1,6 1,7 1,7
Liguria 1,8 1,6 1,3 1,5
Emilia Romagna 2,1 2,0 1,7 1,7
Toscana 2,1 1,6 1,6 1,7
Umbria 2,3 1,8 1,7 1,7
Marche 2,1 1,5 1,5 1,6
Lazio 2,2 1,8 1,7 1,6
Abruzzo 1,6 1,6 1,5 1,6
Molise 1,6 1,2 1,0 1,5
Campania 1,8 1,7 1,6 1,7
Puglia 1,7 1,3 1,1 1,6
Basilicata 1,7 1,3 1,2 1,3
Calabria 0,9 1,5 1,3 1,6
Sicilia 1,9 1,8 1,5 1,7
Sardegna 1,8 1,7 1,7 1,8
Nord Ovest 2,1 1,6 1,6 1,8
Nord Est 2,0 1,9 1,7 1,7
Centro 2,2 1,7 1,6 1,7
Mezzogiorno 1,7 1,6 1,4 1,7
Italia 2,0 1,7 1,6 1,7
Fonte: Unioncamere-Prometeia, Scenari di sviluppo delle economie locali italiane (maggio 2007)
Il gap rispetto al resto del Paese è peraltro evidente non soltanto in termini di capacità di creare
ricchezza (misurata attraverso il PIL) ma anche di benessere della popolazione. I dati al 2005
del patrimonio familiare e del reddito disponibile evidenziano infatti significative discrepanze tra
il Centro-Nord e il Mezzogiorno. Oltre a un divario del patrimonio per famiglia del 41% tra il
Mezzogiono e il Centro-Nord (232.561 euro contro 393.013) va detto che in quest’ultimo caso le
quote di pertinenza delle attività reali (abitazioni e terreni rappresentano il 58% del totale) e
delle attività finanziarie (pari al 42%) divergono tra loro soltanto di 16 punti percentuali, mentre
al Sud ad una consistente aliquota di attività reali (70,6%) fa riscontro una più contenuta
incidenza di quelle finanziarie (29,4%). In termini di reddito lordo disponibile per abitante, le
regioni meridionali (con soli 11.591 euro pro-capite) si distanziano da quelle centro-
settentrionali (18.561) in una misura particolarmente accentuata (38 punti percentuali in meno).
Intervenire per ridurre le diseconomie esterne alle imprese meridionali e agire per favorire il loro
riposizionamento di mercato rappresentano due chiari obiettivi per le politiche a sostegno di
queste aree. E ricucire lo “strappo” rispetto al resto del Paese è necessario affinché l’attuale
fase di ripresa economica si traduca in sviluppo effettivo e durevole per tutto il nostro territorio.
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4. La leadership delle medie imprese italiane e la riorganizzazione
dei distretti
L’ultimo “censimento” effettuato da Unioncamere e Mediobanca sull’universo delle 3.887 medie
imprese industriali (intese come quelle con fatturato compreso tra i 13 e i 290 milioni di euro,
con un numero di dipendenti compreso tra 50 e 499 e con un assetto proprietario autonomo)
operanti in Italia nel 2003 rivela come quell’anno abbia segnato un punto di particolare criticità
nelle performance di mercato, posto che in quasi un caso su quattro il bilancio è stato chiuso in
perdita (la media degli anni precedenti era di un quinto), pur con una somma dei passivi (1,3
miliardi) largamente superata da quella degli attivi (2,7 miliardi). Nonostante ciò, gli indicatori di
redditività mostrano risultati pur sempre migliori rispetto a quelli messi a segno dalle altre
tipologie aziendali: tra il 1996 ed il 2003, le medie imprese industriali hanno infatti registrato un
incremento del 42,8% del fatturato (contro il +26,4% delle grandi imprese), del 51,7% delle
esportazioni (+31,2% delle grandi), del 33,3% del valore aggiunto (+11,9% delle grandi), del
18% dei dipendenti (-10,2% il corrispondente indicatore per le grandi).
Indici di sviluppo: un confronto fra le medie e le grandi imprese industriali
Variazioni % 1996-2003
Valore Dipendenti MON Risultato
Totale Italia Esportazioni aggiunto corrente
Medie imprese 42,8 38,6 51,7 33,3 18,0 -1,7 9,4
Insieme chiuso(^) 39,8 36,7 46,5 33,8 17,3 5,6 20,6
Nord Ovest 37,6 33,5 45,9 28,4 13,4 -3,9 7,3
NEC 45,0 41,0 53,0 37,2 21,3 2,2 18,0
Centro Sud e Isole 57,5 49,4 90,3 37,9 23,6 -14,4 -26,4
Grandi imprese(*) 26,4 23,6 31,2 11,9 -10,2 -6,8 1,4
di cui a controllo italiano 23,3 20,8 27,0 7,6 -12,0 -10,0 -11,4
di cui a controllo estero 31,1 27,3 39,2 18,0 -7,5 -3,1 22,5
Fatturato
MON = Margine operativo netto.
I dati del MON e del risultato corrente sono stati depurati dell’effetto delle rivalutazioni ex leggi n. 342-2000, n. 448-
2001 e n. 350-2003
(^) Si tratta di 2349 società costantemente presenti nell’insieme dal 1996 al 2003. Queste variazioni sono qui
riportate a puro titolo di raffronto.
(*) Dati relativi alle principali società industriali manifatturiere italiane rilevate da Mediobanca (base Dati cumulativi,
ed. 2006).
Fonte: Unioncamere-Mediobanca
Le stime proiettate al 2005 danno una crescita complessiva dell’export delle medie imprese pari
al 60% rispetto al 1996 (contro il 33% delle grandi, esclusi flussi estero su estero), cui si
aggiungono un +39% per il valore aggiunto (contro l’11% grandi) e un +26% per il Margine
Operativo Lordo (contro +16% delle grandi).
La crescita delle medie imprese è stata chiaramente sostenuta dalle performance sui mercati
internazionali: la componente estera del fatturato si è mantenuta quasi sempre superiore a
quella interna. Considerando la propensione ad esportare come uno degli indici significativi
della competitività aziendale, le medie imprese sono riuscite, anche a dispetto della congiuntura
sfavorevole degli scorsi anni, a mantenere le loro posizioni sui mercati esteri.
Alcune analisi svolte in occasione delle indagini Unioncamere-Mediobanca sull’universo delle
medie imprese hanno messo in evidenza la peculiare configurazione della media impresa
25
italiana come impresa a rete che, acquistando beni e servizi per una quota pari a circa l’80% del
fatturato, di fatto organizza e collega il lavoro di una pluralità di aziende (prevalentemente di
piccola dimensione) con i mercati di consumo dell’economia globale. Si è quindi voluto
disegnare l’immagine di una “fabbrica fuori la fabbrica”, attraverso la quale le medie imprese
riescono a guadagnare ampi margini di flessibilità produttiva e a concentrare il proprio impegno
strategico nella differenziazione dei prodotti.
Per meglio approfondire le tematiche della “economia della filiera”, Unioncamere e Mediobanca
hanno condotto una indagine diretta sull’universo delle medie imprese industriali. La “forza
commerciale” di tali aziende emerge già dall’analisi dei loro prodotti di punta. Ne esce
innanzitutto confermato (se non addirittura accentuato) il radicamento delle specializzazioni
delle medie imprese nei settori del Made in Italy.
Tre le tipologie aziendali identificabili:
- i produttori di beni di consumo diretti al mercato finale, all’interno della quale si ritrovano
alcuni prodotti di punta sui mercati nazionali e internazionali come quelli dell’industria
alimentare (caseario, conserviero, vitivinicolo, pastario), del “sistema moda” (abbigliamento
uomo e donna, tessuti, filati, calzature e accessori), dei beni per la casa (dal mobile -
camere e camerette, salotti, cucine – alla ceramica e all’arredo bagno), del chimico-
farmaceutico (farmaceutica, cosmetica, vernici, detersivi). È in questi ambiti che il fatturato
medio per prodotto raggiunge i livelli più elevati, oscillando tra i 32 e i 55 milioni di euro nel
2004 (contro una media complessiva di 31 milioni di euro) anche se con una quota di
mercato domestico talvolta molto rilevante.
- i produttori di beni strumentali, con specializzazioni nel campo delle macchine utensili, dei
macchinari industriali, delle apparecchiature elettriche ed elettroniche. Il fatturato medio
aziendale riferito al prodotto principale si attesta su valori più contenuti (tra i 22 e i 29 milioni
di euro) ma appare più ampio lo sbocco sui mercati esteri, a conferma del successo
internazionale di questo importante segmento del Made in Italy.
- i produttori di beni intermedi e componenti (dagli accessori per macchinari industriali ai
componenti elettrici ed elettronici per gli autoveicoli, dai prefabbricati ai serramenti per
l’edilizia fino agli imballaggi in plastica), al cui interno si rileva una forte variabilità in termini
di fatturato medio, non necessariamente legata al grado di apertura all’estero.
Va sottolineato lo strettissimo legame esistente tra la media impresa e il proprio prodotto di
punta: attraverso il “prodotto principale” (il cui fatturato è legato alle esportazioni per una quota
pari al 41%), le medie imprese conseguono infatti circa il 93% del loro giro d’affari complessivo.
Si tratta di nicchie produttive che in genere fanno riferimento a segmenti di mercato di fascia
alta e medio-alta, dove per mantenere le posizioni acquisite e difendersi dalla concorrenza
occorre investire di continuo in innovazione. Tuttavia, date le specializzazioni nei settori
“tradizionali” e più legati alle vocazioni territoriali, l’investimento in innovazione viene sviluppato
prevalentemente all’interno della fabbrica e non è esclusivamente legato al contenuto
tecnologico.
Rispetto al prezzo del prodotto “standard” (determinato in genere da produzioni seriali che
sempre più spesso incorporano anche vantaggi di costo propri di queste aree) le medie imprese
riescono, infatti, a spuntare un prezzo più alto del 19%, avvicinandosi significativamente allo
stesso prodotto di fascia alta, per il quale il differenziale di prezzo è valutato pari al +31%.
Questo premium price è reso possibile dal prevalere delle economie di specializzazione su
quelle di scala, dalla domanda tendenzialmente inelastica dei loro tipici “prodotti di punta”
(“unici” e riconoscibili all’interno di specifiche nicchie di mercato), nonché dalla particolare
attenzione alle esigenze del cliente (prodotto “su misura”) e al livello qualitativo dell’offerta.
26
Quanto più, dunque, rilevano le politiche di marchio e si accorcia la catena produzione-
consumo, tanto più il prezzo spuntato dalle medie imprese si avvicina a quello “dell’eccellenza”.
Le medie imprese del Nord-Est conseguono un premium price superiore alla media nazionale
(+22%) e riescono ad avvicinarsi di più allo stesso prodotto di fascia alta, per il quale il
differenziale di prezzo è valutato pari al +34%.
La qualità intrinseca del prodotto rappresenta, evidentemente, la pre-condizione per competere
nelle nicchie di mercato tipiche del Made in Italy e, quindi, il fattore critico di successo sul quale
le medie imprese hanno già da tempo investito e che, in molti casi, ha rappresentato un
elemento determinante per rendere possibile il loro passaggio dalla piccola dimensione.
Accanto a questo, un’altra leva strategica che la gran parte delle aziende ha voluto attivare è
costituita dallo sviluppo di attività di assistenza alla clientela.
Se qualità e assistenza sono, dunque, fattori importanti per la determinazione del premium price
sul quale le medie imprese appaiono ben posizionate e il prodotto “su misura” sembra essere
un obiettivo di investimento alla portata della maggior parte di esse, più marcato si presenta
invece il gap su altri fattori immateriali quali il valore del marchio aziendale, il design e il legame
con lo stile di vita. Attraverso questi ultimi, le medie imprese possono migliorare ulteriormente il
posizionamento competitivo e mirare a conseguire la leadership nei segmenti più alti del
mercato, come un certo numero di loro ha già dimostrato di saper fare.
Ogni media impresa è servita mediamente da 244 fornitori di materie prime, semilavorati e
servizi (ad esclusione di quelli amministrativi), 51 dei quali legati a rapporti contrattuali su base
pluriennale e altri 53 considerati come fornitori “stabili”, con cui esistono rapporti di tipo
fiduciario. I primi concentrano il 39% degli acquisti totali e i secondi addirittura il 53%, a
conferma della solidità e dello spessore delle filiere guidate dalle medie imprese. Tali fornitori
sono rappresentati in primo luogo da quelle piccole imprese e da quel pulviscolo di unità
artigianali che, agganciandosi alle filiere produttive, alimentano i distretti e le piattaforme
produttive del Made in Italy.
Nel complesso, i fornitori risultano essere più numerosi (270) nelle aree di piccola impresa
diffusa nel Nord-Est, mentre diminuiscono in misura decisiva nel caso delle medie imprese
italiane non legate a specifici distretti industriali (221 fornitori in media).
Viene quindi confermata la maggiore consistenza e la più articolata struttura delle filiere che
intersecano e caratterizzano i territori dove è ancora forte una tradizione – e un’organizzazione
– produttiva: per le medie imprese operanti nei distretti il riferimento al mercato di
approvvigionamento “di prossimità” (inteso come quello della provincia di appartenenza) è
privilegiato nel 33% di casi, contro il 23% di quelle non distrettuali. Al contempo, gli anelli a
monte della filiera solo in minima parte (l’8% del totale) si estendono al di là dei confini
nazionali; in generale, la maggioranza dichiara di avere prevalentemente (81%) o
esclusivamente (18%) fornitori in Italia, contro solo l’1% che dichiara di approvvigionarsi di beni
e servizi soltanto all’estero.
Se la media impresa sembra, dunque, avere la produzione ben piantata sul territorio nazionale
– e, in particolare, nelle province di origine – il suo mercato è invece sempre più internazionale,
come dimostra la concentrazione del 18% dei propri clienti (1.155 in media per ciascuna
azienda) al di fuori dei confini italiani. Per produrre è dunque ancora centrale il radicamento
territoriale, ma per commercializzare si va nel mondo, come dimostra la quota elevata (91%) di
imprese che ha clienti (anche o solo) all’estero.
Il territorio si dimostra quindi essere ancora un vero valore aggiunto e un fattore di competizione
efficace, per le medie imprese e per tutte le diverse componenti aziendali delle filiere “integrate”
27
da loro guidate (in particolar modo quelle che intercettano le aree distrettuali): la cultura e i
saperi del “luogo” sono quello che distingue le loro produzioni e, più in generale, l’immagine del
nostro Paese, e che non può essere clonato.
I territori di media impresa sono peraltro quelli che trainano lo sviluppo del Paese. 27 province
italiane (concentrate in Lombardia, Piemonte orientale, Triveneto, Emilia Romagna) sono
caratterizzate da un modello produttivo a presenza prevalente di medie imprese: all’insieme di
queste aree fa riferimento il 37% del valore aggiunto industriale e il 42% dell’export.
5. Turismo e Cultura: le potenzialità da sfruttare
Il legame al territorio rappresenta un importantissimo asset competitivo non solo per le
produzioni del Made in Italy ma anche per il nostro turismo.
Il movimento turistico in Italia presenta un trend complessivamente positivo: è aumentato del
23,9% tra il 1995 e il 2005, per un incremento medio annuo del 2,2%. In particolare, gli stranieri
determinavano nel 1995 (con 113 milioni di presenze) il 39,4% dell’intero movimento turistico
rilevato in Italia, mentre nel 2005 (con 148,3 milioni di presenze) ne determinano il 41,8%. Il
confronto con l’anno 2005, consente di rilevare un aumento del 31,2% delle presenze straniere
(pari ad un tasso medio annuo di circa il 2,8%), mentre per il movimento dei turisti nazionali
all’interno del territorio italiano l’aumento è stato del 19,2%, con un tasso di crescita medio di
circa l’1,8% .
Gli ospiti stranieri dovrebbero arrivare a superare la cifra record di 30 milioni a fine 2006 (con
una conseguente crescita del + 6,6% rispetto all’anno precedente), contabilizzando inoltre una
spesa per consumi turistici nel nostro Paese pari a 27.456 milioni di euro nel periodo gennaio-
ottobre 2006.
Il tasso di incremento del movimento internazionale in Italia è ovviamente minore di quello
medio rilevato a livello mondiale, per le forte variazioni determinate dai Paesi new comers. Tutti
i Paesi a turismo maturo, come Francia, Regno Unito, Germania e la stessa Spagna,
mediamente presentano tassi di sviluppo inferiori. Italia, Francia e Spagna (con un’incidenza del
PIL del turismo e del relativo indotto pari rispettivamente all11%, all’8% e all’11%) sono
destinate a vedere ulteriormente ridotta la loro quota mondiale di turismo internazionale, ma tale
fatto va ben interpretato.
Più che l’aumento della quota relativa di turismo appare infatti importante perseguire una
aumento continuo della movimentazione. Mantenere un tasso di incremento del turismo
internazionale in Italia intorno al 2,5-3%, ed uno complessivo intorno al 2%, sarebbe sufficiente
per assicurare un forte sviluppo, anche se il tasso di crescita del turismo internazionale
aumentasse, come accadrà, in una misura considerevolmente superiore.
In realtà, i dati nazionali sono sempre il risultato di una sintesi che vede diversi comportamenti
nei singoli turismi e nei diversi territori. Con riferimento ai turisti stranieri in Italia, ad esempio,
nel decennio 1995-2005 si è verificato l’effetto sostituzione dei tedeschi con altre nazionalità, in
particolare con riferimento al comparto alberghiero. Considerando le prime quindici nazionalità
presenti in Italia nel 1995, solo tedeschi ed austriaci diminuiscono le loro presenze in valori
assoluti, rispettivamente del 2,5% e del 2,6%. Tutte le altre prime quindici nazionalità
aumentano anche considerevolmente le loro presenze: gli olandesi del 114,3%, i danesi del
109,8%, gli spagnoli del 99,1%, gli inglesi dell’86,1%, gli statunitensi, che fino al 2001
28
mostravano il maggiore incremento, del 66,2%, gli svedesi del 61,9%. Gli aumenti rilevati per
Polonia, Russia, Repubblica Ceca mostrano tassi notevoli dovuti ai bassi valori assoluti di
partenza. In forte aumento sono anche le quote di cinesi ed indiani, ma con una incidenza
ancora minore.
Nel 1995 i primi tre Paesi esteri di origine coprivano, in termini di presenze, il 53,5% del
mercato estero in Italia e i primi cinque Paesi ne determinavano il 65,6%. Dieci anni dopo, i
primi tre Paesi identificano “solo” il 46,3% della componente estera in Italia, mentre con
riferimento ai primi cinque Paesi la percentuale di incidenza è scesa al 58,2%.
Infine, considerando la distribuzione delle presenze fra i vari mesi dell’anno, si può osservare
che se nel 1987 il 67,2% delle presenze straniere si addensava nel quadrimestre giugno-
settembre (e, in particolare, il 39,8% a luglio ed agosto), nel 2004 si concentra nei quattro mesi
centrali “solo” il 56,8% del movimento (31,9% a luglio e agosto).
Considerando il trend del lungo periodo si è verificato, dunque, un fenomeno che negli anni
Settanta e Ottanta veniva auspicato: la maggiore diversificazione del mercato, che allora si
riteneva troppo dipendente dalla componente tedesca e troppo concentrato nel periodo estivo.
Un fenomeno decisamente considerevole dell’ultimo decennio (che peraltro aveva cominciato a
manifestarsi già nel decennio precedente) riguarda poi la forte diminuzione della motivazione
balneare del movimento estero, associato al forte aumento di altre motivazioni, in primo luogo
quella d’arte e culturale, ma anche di quella ambientale, degli eventi e di altre che possono
essere definite esperenziali, come ricerca e fruizioni di soggiorni autentici, magari associati a
forme di ricettività diffusa.
I turisti inglesi, statunitensi, francesi, spagnoli e giapponesi scelgono l’Italia prevalentemente
per motivazioni d’arte e culturale e, in subordine, per lo shopping. Continuano a frequentare le
nostre coste, anche se in misura sempre minore, i tedeschi (in particolare laghi e spiagge del
Nord-Est) e le altre provenienze centroeuropee, mentre negli anni più recenti si è verificato forte
aumento nelle provenienze dai Paesi dell’Europa orientale, in particolare dalla Russia. Per
olandesi, austriaci, svizzeri, danesi e anche per i tedeschi assume rilievo la componente
ambientale, con le sue varie nicchie di mercato che combinano più motivazioni.
La perdita di competitività del turismo balneare tradizionale per la componente estera si
manifesta per il macrosegmento del mass-market, molto influenzato dalla componente prezzo e
dalla combinazione aereo-soggiorno. Il nostro Paese, ed in particolare il Mezzogiorno, si sta
organizzando con ritardo rispetto a questo mercato fondato sui voli a basso costo (low cost o
charter) point to point e su una organizzazione territoriale funzionale nel raggio di una
cinquantina di km dal punto di arrivo. Tuttavia, si può osservare che anche il mercato balneare
è ormai articolato in diverse segmentazioni relativamente autonome e che, fra queste, la crisi si
manifesta per la parte che può essere definita più tradizionale, quella del puro soggiorno in
località marine, mentre la nautica da diporto, le crociere (per le quali l’Italia è la destinazione
principale del Mediterraneo), il charter nautico, la pesca subacquea e tutte le altre fruizioni
esperenziali di nicchia sono in forte sviluppo.
Dal punto di vista dei territori, un punto di debolezza strutturale è rappresentato dal
Mezzogiorno, che riesce a raccogliere solo il 13% circa degli arrivi e poco più del 14% delle
presenze della componente estera, peraltro localizzata in netta prevalenza in alcuni poli come il
Golfo di Napoli e Taormina.
L’importanza del Patrimonio Culturale come generatore di ricchezza è nota nel nostro Paese. I
65 milioni di visitatori stranieri annui nei nostri poli turistici di offerta culturale, i due milioni di
posti letto organizzati in circa 35.000 strutture di accoglienza e gli oltre 14 milioni di Beni artistici
29
noti (4.100 musei, 110.000 tra chiese e abbazie, 20.000 centri storici) fanno dell’Italia un vertice
dell’economia turistica e culturale mondiale.
L’Istituto Guglielmo Tagliacarne, su richiesta del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ha
recentemente realizzato un’indagine per stimare il valore aggiunto e l’occupazione assorbita dai
diversi settori che concorrono a formare la filiera turistica. La stima ottenuta a livello nazionale –
scorporando per una migliore lettura e confronto la componente della ricettività turistica e
dell’accoglienza – conduce a un dato pari al 6,6% di contributo delle attività potenzialmente
collegate al patrimonio culturale/ambientale alla formazione del valore aggiunto e al 6,9% per
quanto riguarda l’occupazione presente in Italia.
Valore aggiunto e occupazione delle attività potenzialmente collegate al patrimonio culturale e ambientale,
per tipologia
Valori assoluti e composizioni percentuali – Anno 2004
v.a. v.a.
(mil.ni euro) (migl. unità)
Enogastronomia, produzioni tipiche 19.469,5 23,7 1,6 474,8 28,5 2,0
Produzioni di natura industriale e artigiana 12.631,2 15,4 1,0 271,6 16,3 1,1
Industria culturale (editoria, audiovisivi, multimediale) 11.924,4 14,5 1,0 262,3 15,7 1,1
Beni e attività culturali 10.184,3 12,4 0,8 259,0 15,5 1,1
Servizi di trasporto e mobilità sul territorio 27.826,9 33,9 2,2 400,4 24,0 1,7
Totale 82.036,2 100,0 6,6 1.668,1 100,0 6,9
Tipologie
Valore aggiunto Occupazione
contr. % sul
totale valore
aggiunto
contr. % sul
totale
occupazione
% su tot. % su tot.
Fonte: stime Istituto Guglielmo Tagliacarne
6. I consumi e le tendenze evidenziate dalle imprese del
commercio
La ripresa economica che ha caratterizzato l’anno da poco trascorso non ha mancato di far
sentire alcuni effetti positivi sulle componenti interne della domanda, come dimostrano
l’andamento della spesa per investimenti e quello dei consumi.
La spesa per consumi (comprendendo sia quella delle famiglie residenti, sia quella dei turisti) è
tornata a viaggiare a ritmi sostenuti nel 2006 (+1,6%, dopo lo scarno +0,5% dell’anno
precedente), in particolare nelle regioni centro-settentrionali: Nord-Ovest e, soprattutto, Nord-
Est hanno sperimentato un più elevato incremento del tasso di variazione rispetto al 2005,
mentre il Centro ha visto l’accentuarsi di una dinamica positiva che già in passato l’aveva
distinto in confronto alle altre aree del Paese. Dal canto suo, il Mezzogiorno fa rilevare una
variazione sì positiva ma non certo all’altezza di quanto avvenuto altrove.
30
Variazioni percentuali della spesa per consumi nelle regioni italiane
Tassi di var. % su valori concatenati (anno di riferimento 2000) – Anni 2005 e 2006
-0,1
0,4
0,5
0,2
0,4
0,0
0,9
0,3
0,9
-0,3
0,7
0,8
-0,4
-0,5
0,2
0,6 0,6
-0,3
0,5
0,8
0,4
0,3
0,8
0,3
0,5
1,5 1,5
1,8
2,1
2,2
2,4
1,5
2,1
2,0
1,9
2,0
1,7
1,4
1,3
0,6
0,9
0,7
1,1
1,2
1,3
1,7
2,2
1,9
1,0
1,6
-1,0
-0,5
0,0
0,5
1,0
1,5
2,0
2,5
3,0
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2005 2006
(1) Spesa delle famiglie residenti e spesa in Italia dei non residenti
Fonte: Unioncamere-Prometeia, Scenari di sviluppo delle economie locali italiane (maggio 2007)
Nel confronto con i nostri maggior partner, l’Italia fa un po’ meglio in relazione all’andamento dei
consumi in Germania ma si mantiene ancora al di sotto dell’andamento complessivamente
rilevato nei Paesi dell’area euro. Inoltre, la crescita di tale componente risulta maggiormente
positiva, una volta considerate le peculiarità del 2006, anno di significativo aumento della
pressione fiscale e di forti pressioni sul versante dell’inflazione importata, almeno sin dai mesi
estivi.
Il risveglio dei consumi è riconducile al buon andamento di alcuni fattori che concorrono alla
determinazione del reddito disponibile. In effetti, l’occupazione ha ritrovato vivacità e le
retribuzioni reali pro capite hanno accelerato la propria dinamica all’inizio del 2005. Inoltre, un
altro elemento da tenere in considerazione è il recupero del potere d’acquisto dei consumatori.
In base alle informazioni rielaborate dal Centro Studi Unioncamere su dati Nielsen
(disaggregate anche per numero di componenti, area geografica e tipologia distributiva), le
famiglie di due componenti vedono una ripresa significativa dei loro consumi (+3%, senza
particolari differenze fra food e non food), con un’accentuazione nell’Italia Centrale e nella
tipologia dei discount. Una dinamica molto più contenuta ha invece interessato i consumi delle
famiglie monocomponenti (+0,9%), dove tuttavia il dato di sintesi nasconde al proprio interno
una ancora più forte contrapposizione fra giovani single ed anziani che vivono da soli.
Naturalmente per i primi non si colgono segnali negativi (+13,2% nel 2006), ma – anzi –
aumenti di spesa non trascurabili sia nel comparto alimentare che in quello non food. La
flessione è invece sensibile per le persone non più giovani (-5,1%), anche se tende a rallentare
rispetto all’anno precedente (era -13,4% nel 2005).
Gli indicatori qualitativi disponibili per il primo trimestre del 2007 forniscono, nel complesso,
segnali positivi circa l’andamento dei consumi. Le famiglie si mantengono ottimiste riguardo alle
31
prospettive occupazionali e, del resto, anche le attese delle imprese (sia manifatturiere che di
servizi) circa la domanda di lavoro sono in miglioramento. Il quadro generale appare dunque
favorevole.
Nonostante il miglioramento congiunturale che ha dato supporto alla spesa per consumi delle
famiglie, il processo di rinnovamento dei canali distributivi ha continuato a condizionare il giro
d’affari degli esercizi commerciali tradizionali, che subiscono la forte concorrenza delle superfici
di tipo moderno e delle nuove forme commerciali sui loro mercati di riferimento. Tuttavia, pur se
le vendite dei formati specializzati subiscono anche nel 2006 delle flessioni, esse sono di entità
più che dimezzata rispetto a quelle dell’anno precedente. Lo specializzato non alimentare è
quello che recupera maggiormente, passando dal –1,3% medio annuo del 2005 al –0,4% nel
2006, mentre lo specializzato alimentare si assesta al –0,6%. La maggior tenuta di questi
formati risulta peraltro del tutto evidente dal confronto con il triennio precedente.
Anche i punti vendita della distribuzione despecializzata (ipermercati, supermercati e grandi
magazzini) forniscono un contributo all’accelerazione del fatturato complessivo della
distribuzione. Le vendite veicolate da questo formato distributivo non hanno subito negli anni
scorsi delle flessioni ma solo, a fronte di una fase poco favorevole della congiuntura italiana,
una secca decelerazione della dinamica del giro d’affari. Anche qui il 2006 segna invece
un’inversione di tendenza, per cui il valore delle vendite del canale moderno torna ad accelerare
di oltre un punto percentuale, dal 2,2% del 2005 al 3,4% del 2006.
La dimensione aziendale rappresenta sempre più un fattore discriminante per l’andamento del
giro d’affari. Performance positive sono ascrivibili solo ai punti vendita di grandi dimensioni
(caratterizzate da un numero di addetti superiore ai 20), mentre per le medie e piccole imprese
(rispettivamente fino a 5 addetti e addetti compresi tra i 6 e i 19) si profila ancora un trend
negativo.
La ristrutturazione del settore commercio va ormai verso il suo completamento: la riforma del
commercio ha dato i suoi frutti e ora il settore sembra assestarsi. L’incremento netto delle
imprese nel 2006 è del +1,3%, con differenze in base alla tipologia (specializzato alimentare –
1,4, specializzato non alimentare +1,5, despecializzato +4,1%).
7. La presenza straniera in Italia e il ruolo degli immigrati nello
sviluppo economico
Bisogna prestare particolare attenzione al ruolo dell’immigrazione nella demografia
imprenditoriale. L’analisi condotta da Unioncamere registra il raddoppio, nei primi cinque anni
del decennio, del numero di titolari d’impresa nati all’estero: nel 2005 ha superato le 200mila
unità (contro le 105mila del 2001) e nel 2006 ha sfiorato le 230mila, facendo degli immigrati
l’attore fondamentale per la tenuta della piccola dimensione produttiva: senza l’apporto degli
immigrati, infatti, il numero delle microimprese avrebbe subito, negli ultimi anni, una perdita
secca di 23.366 unità.
Gli imprenditori stranieri operano per lo più nel commercio (quasi 95mila), nel settore edile
(68mila), nel manifatturiero (25mila) e nei trasporti (11mila). Il Marocco guida la classifica dei
titolari di imprese individuali (con quasi 40mila aziende), sopravanzando di gran lunga cinesi
(26mila), albanesi (20mila) e romeni (17mila).
32
Imprese individuali con titolare di nazionalità extra-comunitaria alla nascita
Anni 2001-2006
Anni Imprese Saldo Contributo % al saldo totale Tasso di crescita
2001 105.541 20.499 19,24% 24,10%
2002 125.461 19.920 22,78% 18,87%
2003 146.571 21.110 24,95% 16,83%
2004 174.933 28.362 27,02% 19,35%
2005 202.013 24.216 25,05% 13,62%
2006 227.524 25.184 34,34% 12,63%
Fonte: Unioncamere
Effettivamente nel corso degli ultimi quindici anni l’Italia, da fanalino di coda tra i maggiori Paesi
europei quanto a incidenza dell’immigrazione sulle forze di lavoro e sugli occupati, si è
trasformata in uno straordinario polo d’attrazione per le labour migrations.
Secondo alcune fonti l’Italia sarebbe oggi il secondo paese nel mondo in termini di attrazione di
immigrati, preceduto soltanto dagli Stati Uniti d’America, una nazione che proprio
sull’immigrazione ha edificato la sua storia e la sua identità collettiva. Addirittura, una volta
rapportato al peso delle rispettive popolazioni, l’entità dei flussi in ingresso indurrebbe a stimare
l’intensità del fenomeno migratorio in Italia superiore a quella americana.
Il contributo degli immigrati all’economia del Paese è attestato dal loro apporto alla creazione di
valore aggiunto.
Secondo una stima originale elaborata dal Centro Studi Unioncamere e dall’Istituto Guglielmo
Tagliacarne, tale apporto è pari all’8,8% a livello nazionale ma supera il 10% nelle principali
regioni d’inserimento: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
L’elaborazione conferma altresì come le ripartizioni territoriali del Nord - che già si distinguono
per la loro capacità attrattiva nei confronti dell’immigrazione - sono anche quelle che ne mettono
maggiormente a frutto il potenziale: ciò vale in particolare per il Nord-Ovest, il cui contributo al
prodotto interno lordo derivante dal lavoro degli immigrati sfiora il 40% del totale nazionale.
A livello settoriale, è l’edilizia a far rilevare il contributo più elevato (18,3%) degli immigrati alla
creazione del valore aggiunto. Anche se i servizi concentrano poco meno del 60% del “PIL
dell’immigrazione”, a questa componente lavorativa è riconducibile una quota pari al 7,3% del
valore aggiunto generato dalle attività terziarie in Italia, probabilmente per la più limitata
presenza di occupati stranieri nei servizi avanzati.
33
Valore aggiunto derivante dall’attività di occupati stranieri per regione
In milioni di euro – Anno 2005
Valore aggiunto
% su totale val. agg.
dell’immigrazione in
Italia
% val. agg. immigrato
su val. agg. totale
dell’area
Piemonte 9.977,0 9,0 9,7
Valle d’Aosta 223,3 0,2 7,0
Lombardia 28.911,7 26,0 10,7
Trentino Alto Adige 2.118,9 1,9 8,0
Veneto 12.860,4 11,6 10,8
Friuli Venezia Giulia 2.824,7 2,5 9,7
Liguria 3.038,4 2,7 8,5
Emilia Romagna 11.807,9 10,6 10,8
Toscana 8.240,4 7,4 9,7
Umbria 1.901,9 1,7 10,8
Marche 3.231,2 2,9 9,8
Lazio 14.046,4 12,6 9,9
Abruzzo 1.147,9 1,0 5,1
Molise 70,4 0,1 1,4
Campania 3.622,6 3,3 4,6
Puglia 1.949,1 1,8 3,4
Basilicata 116,9 0,1 1,3
Calabria 1.369,4 1,2 4,9
Sicilia 3.031,4 2,7 4,3
Sardegna 802,8 0,7 2,9
Nord-Ovest 42.150,4 37,9 10,2
Nord-Est 29.611,9 26,6 10,4
Centro 27.419,9 24,6 9,9
Mezzogiorno 12.110,3 10,9 4,0
Totale Italia 111.292,4 100,0 8,8
Fonte: stime Centro Studi Unioncamere – Istituto Guglielmo Tagliacarne
D’altra parte, i più qualificati centri studi specializzati documentano una presenza di immigrati in
Italia ormai avviata a raggiungere i 4milioni. Si tratta di una popolazione giovane, nel cui ambito
cresce la componente dei minorenni (per effetto dei ricongiungimenti familiari e delle nascite) e
che offre un contributo alla crescita demografica anche attraverso i nuovi nati, che già nel 2005
superavano i 50mila all’anno. Una proiezione riferita all’immediato futuro consente inoltre di
stimare, nei prossimi 10 anni, un’ulteriore sostenuta crescita della popolazione straniera
residente (pari al 120% nell’ipotesi di minima e addirittura al 180% in quella di massima), con
una parallela riduzione del peso della fascia d’età più produttiva, quella dei 25-44enni, e un
incremento di quella più matura: nel 2015, ci saranno in Italia oltre 250mila immigrati in
pensione.
Alla luce di questi trend, si spiega come l’ingresso della manodopera immigrata costituisca il
principale fattore di trasformazione del mercato del lavoro italiano degli ultimi vent’anni.
Ad assorbire il lavoro immigrato sono in primo luogo i servizi, dove risultano occupati 57
immigrati su 100 e addirittura 84 donne immigrate ogni 100 occupate. Tuttavia, se al
manifatturiero (27%) sommiamo l’edilizia (28%), il totale dell’industria arriva ad avere un peso in
termini occupazionali superiore allo stesso terziario. L’occupazione agricola ha invece
un’incidenza trascurabile, sia per i maschi (4,4%), sia per le femmine (1,8%), ma nelle regioni
meridionali arriva a coprire il 10% degli occupati. Osserviamo infine che oltre l’80% degli
occupati nell’industria in senso stretto risiede in una regione del Nord.
34
Accanto alla crescita ininterrotta del numero di stranieri occupati, va segnalato come l’incidenza
delle assunzioni di immigrati sui nuovi reclutamenti è superiore al loro peso sulle forze di lavoro
e sugli occupati: esse coprono una quota compresa tra il 15,2% (stima di minima) e il 23,3%
(stima di massima) delle assunzioni programmate dalle imprese e monitorate da Unioncamere
attraverso il Sistema Informativo Excelsior. D’altro canto, l’interesse delle imprese nei confronti
del lavoro immigrato è attestato dall’alta quota di ingressi in azienda che richiedono un’ulteriore
formazione, pari addirittura ai tre quarti delle assunzioni programmate. Ancorché
prevalentemente assorbite dai profili operai o comunque a bassa qualificazione, le assunzioni di
stranieri coprono spesso ruoli cruciali per l’operatività aziendale; ciò vale in particolare per il
comparto industriale dove oltre la metà delle assunzioni programmate di immigrati riguarda
operai specializzati.
Assunzioni di personale immigrato programmate dalle imprese per il 2006, per grandi gruppi professionali
Incidenza % sul totale delle assunzioni di immigrati nei principali settori di inserimento
Personale non qualificato
Professioni
delle vendite e
servizi
Operai
specializzati
Conduttori
d’impianti
TOTALE INDUSTRIA 14,9 1,3 51,1 28,6
TOTALE SERVIZI 41,0 37,8 2,8 7,1
Costruzioni 24,6 -- 64,7 8,2
Servizi operativi 91,5 1,1 1,8 3,4
Industrie dei metalli 4,8 -- 63,3 30,0
Trasporti e att. Postali 58,8 1,4 0,7 32,1
Servizi sanitari 7,6 63,6 0,1 0,2
Commercio al dettaglio 9,1 76,6 6,3 2,8
Alberghi, rist., turismo 16,0 79,8 0,8 0,1
Fonte: Unioncamere – Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2006
Tutti i dati, e in particolare quelli emersi dagli studi di Unioncamere, sembrano quindi essere
concordi nel delineare per il mercato del lavoro italiano un futuro all’insegna di una sempre
maggiore eterogeneità dal punto di vista della composizione etnica degli attivi e degli occupati.
I processi d’inserimento del lavoro immigrato evidenziano tuttavia luci ed ombre. Tassi di attività
e di occupazione superiori a quelli complessivi, capacità di ampliare gli sbocchi lavorativi e di
consolidare nel tempo il proprio status occupazionale, una sostenuta propensione all’avvio di
iniziative imprenditoriali ma anche, sull’altro fronte, irregolarità di una componente significativa
del lavoro immigrato (l’occupazione sommersa incide complessivamente per il 18%, con picchi
ancora più alti nel Mezzogiorno), segregazione occupazionale, elevata incidenza di infortuni sul
lavoro, scarsa attenzione per la valorizzazione dei capitali umani e formativi, un rischio di
disoccupazione più pronunciato che per il complesso degli attivi (lo scarto del tasso di
disoccupazione rispetto a quello riferito alla popolazione complessiva è pari a 3,6 punti
percentuali nel caso dei maschi e a 4,6 per le femmine), anche se limitato per lo più agli
immigrati irregolari e clandestini. Inoltre - nonostante i ripetuti tentativi di istituzionalizzazione
delle procedure di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro immigrato - spontaneismo,
logiche particolaristiche e occupazione sommersa diffusa restano caratteri costanti del mercato
del lavoro italiano. Di qui la persistente attualità della questione dei dispositivi di governo delle
labour migrations.
A tal proposito, il dibattito in corso nel Paese registra un notevole interesse per due differenti
soluzioni. Entrambe meritano di essere valutate con molta attenzione, perché indicano la
ricerca di procedure più in linea con le richieste del sistema economico e con le modalità
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effettive attraverso le quali si realizza l’incontro tra domanda e offerta di lavoro immigrato. Ma
entrambe presentano anche degli elementi di problematicità, che dovrebbero essere tenuti in
considerazione e che implicano interventi collaterali a un’eventuale modifica del quadro
giuridico che regola le labour migrations.
La prima soluzione, maggiormente coerente con i fabbisogni espressi dal comparto industriale –
dove la richiesta riguarda soprattutto figure con una specifica professionalità operaia – prevede
il lancio di programmi per la formazione e la selezione all’estero dei candidati alla migrazione,
sulla falsariga di alcune iniziative già sperimentate negli anni passati. Si tratta di una soluzione
contemplata anche dalla stessa Commissione europea nel suo Piano d’azione
sull’immigrazione legale. Sui motivi che la rendono vantaggiosa non è neppure il caso di
soffermarsi, essendo autoevidenti. La sua adozione suscita, tuttavia, anche una serie di
problemi che vanno affrontati e risolti: non sempre è praticabile in alcuni dei circa 200 paesi dai
quali provengono gli immigrati diretti verso l’Italia; ha costi economici non marginali; rischia
scarse ricadute per le economie dei paesi d’origine (al di là dell’auspicio che i migranti formati
prima o poi vi ritornino per reinvestire i propri risparmi e competenze). Ma, soprattutto, occorre
tener presente il fatto che, assai spesso, le imprese preferiscono orientare le proprie strategie di
reclutamento verso l’offerta già presente in misura copiosa sul territorio italiano e coinvolta in
processi di mobilità interaziendale. Anche alla luce di tali considerazioni sembrerebbe
opportuno che questa opzione sia perseguita ove possibile; ma sarà opportuno che le risorse
economiche disponibili siano indirizzate – oltre che a formare all’estero potenziale forza lavoro
immigrata - anche a rafforzare l’offerta di formazione in Italia, per accrescere l’occupabilità dei
lavoratori (stranieri e non solo) disoccupati e prefigurare percorsi di mobilità professionale per
coloro che hanno maturato la scelta di un insediamento definitivo nel nostro Paese.
La seconda soluzione, tendenzialmente più in linea con le esigenze del terziario – dove la
domanda si addensa su figure a bassa o nulla qualificazione – si basa sulla sperimentazione di
dispositivi “flessibili” per garantire l’approvvigionamento di lavoratori da impiegare nei low
profiles jobs, contenendo al contempo la pressione migratoria irregolare. Con le debite
distinzioni, anche la domanda espressa dalle famiglie, date le sue specificità, potrebbe trovare
risposta in questo tipo di canale, che permette di entrare in contatto col lavoratore o la
lavoratrice prima di formalizzare l’assunzione. Questa soluzione presenta però il rischio che,
entro un mercato del lavoro che difetta di controlli e in cui sono al contrario andate
moltiplicandosi pratiche illegali o ai confini della legalità (come i sistemi di caporalato, o un
utilizzo improprio delle cooperative come strumento per comprimere i costi del lavoro), un
ulteriore afflusso di manodopera altamente adattabile rafforzi la precarizzazione del lavoro
immigrato. Con la conseguenza, assolutamente da non sottovalutare, di rendere gli immigrati
una presenza concorrenziale per le fasce più deboli dell’offerta autoctona, quelle maggiormente
esposte al rischio di subire un effetto di spiazzamento. Indizi di questo rischio sono già presenti
nel nostro mercato del lavoro, segnatamente nelle regioni meno dinamiche dal punto di vista
occupazionale.
Tutto ciò significa che il ricorso a manodopera straniera dovrebbe essere accompagnato, se si
vogliono evitare conseguenze dannose per la tenuta dei diritti dei lavoratori, da un’azione di
vigilanza e controllo del mercato del lavoro e di recupero della legalità a tutti i livelli. Altrettanto
indispensabile è poi la promozione di politiche che abbiano davvero l’obiettivo di manutenzione
delle competenze e di accrescimento dell’occupabilità di tutti i lavoratori, a partire da quelli più
deboli – che per livello di qualifica, età o storia professionale rischiano l’esclusione – e di
controllo delle condizioni di lavoro, contrastando quelle tendenze negative che spesso vanno di
pari passo con la “etnicizzazione” di alcuni mestieri.
Vi è un ultimo punto da sottolineare. I fabbisogni professionali devono ovviamente costituire un
criterio cardine sul quale impostare una politica di governo delle labour migrations. Ciò è quanto
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si aspettano le imprese che ormai vedono nell’immigrazione una risorsa fondamentale, ma è
anche quanto si aspetta la maggioranza degli italiani, per la quale il lavoro costituisce il criterio
per eccellenza di legittimazione della presenza di soggetti stranieri sul territorio della nazione.
In definitiva, rendere più efficace il governo dei flussi e contrastare gli aspetti problematici dei
processi d’incorporazione economica dei migranti è una sfida quanto mai complessa, che
richiede interventi a livelli diversi, da quello legislativo a quello amministrativo; da quello
inerente alle politiche aziendali di gestione delle risorse umane a quello relativo alle culture del
lavoro e della legalità. Certo è che gli orientamenti della domanda di lavoro, così come
emergono dalle previsioni di assunzione formulate dalle imprese, rappresentano una variabile
strategica, che oltre a essere attentamente monitorata e interpretata, dovrebbe essere a sua
volta “orientata”. Nella consapevolezza che le politiche migratorie e per gli immigrati non sono
soltanto soluzioni tecniche più o meno efficaci ed efficienti, ma anche componenti fondamentali
di un modello competitivo e di un modello di convivenza.
8. Produttività e politiche salariali
Una parte delle difficoltà competitive del nostro Paese nella prima metà di questo decennio è
ascrivibile alla sostanziale stagnazione della produttività, mentre sul fronte dei salari si è riusciti
a mantenere un profilo abbastanza equilibrato.
Con riferimento all’intero periodo 2000-2006, la dinamica della produttività del lavoro ha
mostrato un trend sostanzialmente piatto, toccando valori addirittura negativi tra il 2002 e il
2003. Il livello della produttività in Italia (misurata in termini di PIL per ora lavorata, a prezzi
costanti e a parità di potere d’acquisto) si è pertanto attestato in questi ultimi anni su valori più
contenuti rispetto ai nostri principali competitors: nel 2006 ha sfiorato i 29 US$, contro i 22 della
Spagna e i 26 del Giappone, ma a fronte degli oltre 29 della Germania, dei 30 del Regno Unito
e dei 36 degli Stati Uniti e della Francia.
Confronto internazionale dei livelli della produttività per ora lavorata1 dal 1989 al 2006
15,0
20,0
25,0
30,0
35,0
40,0
1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006
Francia Germania Italia Spagna Regno Unito Stati Uniti Giappone
(1) La produttività è misurata rapportando il PIL al totale delle ore lavorate ed è espressa a prezzi costanti (US$ al 1990) e a parità di
potere d’acquisto.
Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Groningen Growth and Development Centre
37
Stando ai più recenti dati statistici diffusi da Eurostat, i livelli dei salari italiani (al lordo delle
tasse e dei contributi) si posizionano al quart’ultimo posto nella graduatoria dei Paesi europei,
mentre i salari netti sono superiori solo a quelli portoghesi. La spiegazione di quest’ultimo
fenomeno sta principalmente, secondo molti commentatori, in due fattori: il primo è
rappresentato dall’elevato cuneo fiscale e il secondo dalla scarsa crescita delle retribuzioni reali
che si è avuta nel corso di questi ultimi anni. Per quanto riguarda il cuneo fiscale,
l’interpretazione appare univoca e generalmente condivisa da tutti gli analisti. Nel 2004 - prima
cioè della riduzione attuata con l’ultima Legge Finanziaria - l’entità del cuneo fiscale italiano era
fra i maggiori in Europa; in questa speciale classifica, il Belgio stava al primo posto, seguito
dalla Svezia, dalla Germania e, al quarto posto, dall’Italia. Non vi è dubbio che le imposte dirette
e i contributi previdenziali agiscano da freno alla competitività di un Paese e provochino
conseguenze negative sia sulle pressioni inflazionistiche, sia sul tasso di crescita.
La scarsa crescita delle retribuzioni reali nel corso di questi ultimi anni può essere invece
spiegata da altri fattori analizzabili attraverso i dati di Contabilità Nazionale 2006 resi
recentemente disponibili dall’Istat.
I dati Istat confermano innanzitutto che le retribuzioni in Italia sono aumentate relativamente
poco, certamente meno di quanto siano aumentate nella media dei Paesi Europei e anche
meno di quanto siano aumentate in alcuni periodi particolarmente felici per la dinamica salariale
come gli anni Settanta e Ottanta. In termini nominali, le retribuzioni unitarie, nei sette anni del
periodo 2000-2006, sono aumentate in media del 3,1% all’anno ed è interessante notare che
non si osservano differenze sostanziali passando da un settore produttivo all’altro. Nell’industria
in senso stretto le retribuzioni sono aumentate del 3%, un po’ più che nelle costruzioni (2,6% in
media annua nel periodo in esame) e un po’ meno che nei servizi (+3,2%), dove ha pesato
anche la forte accelerazione delle retribuzioni del settore pubblico.
Di fronte a un aumento medio del 3,1%, il costo della vita è aumentato del 2,4%, il che significa
che, in termini reali, le retribuzioni medie sono aumentate di poco più di mezzo punto
percentuale all’anno (+0,7%, per la precisione). L’aumento più consistente si è verificato proprio
in questi due ultimi anni, il 2005 e il 2006, che hanno visto aumentare il potere di acquisto delle
retribuzioni – riferite all’intera economia - di un punto percentuale all’anno.
Poco più di mezzo punto percentuale all’anno non rappresenta certo un aumento eccezionale;
si può anzi dire che è relativamente modesto se confrontato, come si è detto, con l’esperienza
dei periodi precedenti e l’esperienza degli altri Paesi Europei. Eppure mezzo punto è un valore
tutt’altro da disprezzare se si tiene presente in quali circostanze (sfavorevoli) si è verificato.
Certamente è un valore superiore a quello dell‘aumento della produttività media del sistema
economico italiano: nello stesso arco di sette anni, il valore aggiunto a prezzi costanti per unità
di lavoro è infatti aumentato, nel nostro Paese, di solo lo 0,03% all’anno (+0,2% in sette anni),
cioè di un decimo di quanto sono aumentate le retribuzioni reali. In altri termini, la produttività
del lavoro è rimasta praticamente ferma in questo scorcio di secolo. Si tratta di un fenomeno
ormai ben conosciuto, che diversi economisti hanno anche cercato di spiegare. Le spiegazioni
che sono state offerte sono tante e diverse e nessuna da sola sembra essere sufficientemente
convincente. Forse hanno operato molti fattori che hanno agito nella stessa direzione. Sta di
fatto che di fronte a una performance eccezionale del mercato del lavoro, che ha segnato buoni
aumenti dei tassi di occupazione e un deciso calo del tasso di disoccupazione, la scarsa
dinamica del PIL reale si è tradotta in una crescita praticamente nulla del valore aggiunto per
addetto.
38
A fronte di una produttività stagnante, un aumento delle retribuzioni reali di oltre mezzo punto
all’anno (vale a dire più di 4 punti percentuali in sette anni) è certamente un aumento in sé
modesto ma è, al contempo, un aumento significativo se confrontato con quello della
produttività.
E’ noto, in generale, che gli aumenti delle produttività rappresentino lo spazio naturale per gli
aumenti dei salari reali. Infatti, se i salari vanno oltre quello spazio, ne consegue una
diminuzione della quota dei profitti nel valore aggiunto prodotto dall’economia, a meno che non
si verifichino anche variazioni delle ragioni di scambio. Di fatto si sono verificate entrambe le
cose. La quota dei profitti (in senso lato, perché in realtà si tratta dei risultati lordi di gestione) è
passata dal 34,7% nell’anno 2000 al 33,1% nel 2006, con una caduta quindi di circa un punto e
mezzo percentuale (il che ha comportato, in modo speculare, un aumento della quota dei salari
nel valore aggiunto).
Ma la differenza sostanziale che si osserva nel comportamento di queste variabili
macroeconomiche è fra i diversi settori dell’economia ed è relativa proprio alla quota dei risultati
lordi di gestione. Questa quota è diminuita molto nel settore dell’industria in senso stretto, molto
più che nel settore dei servizi. Nelle costruzioni questa quota è persino aumentata nei sette anni
considerati.
Le differenze nei risultati non sono tuttavia dovute a una diversa dinamica delle retribuzioni, dal
momento che, come visto, queste sono aumentate più o meno allo stesso modo in tutti i grandi
settori dell’economia. Né queste differenze vanno imputate alla diversa dinamica della
produttività del lavoro, rimasta piatta in tutti e tre i grandi settori considerati: industria in senso
stretto, costruzioni e servizi. E, sempre nel periodo 2000-2006, tutti questi grandi rami
dell’economia hanno fatto rilevare un incremento medio annuo del CLUP pari a circa il 3%.
Sono invece i prezzi dei beni e, più in particolare i deflatori, la variabile che si è comportata in
modo diverso da settore a settore. Il deflatore del valore aggiunto è aumentato molto nelle
costruzioni, abbastanza nei servizi e poco nell’industria in senso stretto. La spiegazione di
questo diverso andamento è facile da trovare: con la moneta unica - e la conseguente
impossibilità di adattare il cambio della moneta ai diversi tassi di inflazione - i prezzi dei prodotti
esposti al commercio internazionale devono subire la dura legge della concorrenza e sono
fissati dalle imprese per garantire adeguati livelli di competitività. I prezzi di gran parte dei
servizi e dei prodotti protetti dalla concorrenza internazionale, invece, non subiscono gli stessi
condizionamenti: e, infatti, il loro tasso di crescita è stato ben maggiore di quello dei prodotti
industriali. Essi sono aumentati in media del 3% all’anno da quando è stato introdotto l’euro, più
o meno in linea con l’aumento delle retribuzioni nominali. Salari e prezzi di servizi e prodotti
protetti si sono rincorsi e alimentati a vicenda senza portare sostanziali vantaggi al potere di
acquisto dei lavoratori.
Il modesto vantaggio nelle retribuzioni è stato conseguito in un periodo (soprattutto il triennio
2000-2003) in cui si è verificata una sostanziale diminuzione del grado di competitività delle
merci italiane. Il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato di circa 15 punti percentuali
più che in Francia e in Germania. E’ chiaro che la causa fondamentale va trovata nella scarsa
crescita della produttività del nostro sistema economico piuttosto che negli aumenti salariali: ma
i fatti hanno ancora una volta dimostrato che una politica salariale svincolata dal vincolo
dell’andamento della produttività porta ai lavoratori vantaggi solo apparenti.
Che gli aumenti salariali, pur modesti, degli ultimi anni siano stati erosi dall’inflazione risponde
come si è visto al vero. Che le imprese – come alcuni affermano - abbiano fatto molti profitti
nell’ultimo triennio e questi ora vadano redistribuiti in favore soprattutto dei salari è una
questione che va invece approfondita. E’ vero che molte imprese hanno fatto buoni profitti, ma
39
questo non vale per l’intera economia: le diversificazioni territoriali, settoriali (in particolar modo
nei comparti industriali) e dimensionali sono numerose, come il Rapporto Unioncamere
documenta. Per quanto riguarda le imprese del settore terziario, hanno fatto profitti quelle che
hanno potuto muovere i prezzi al riparo della concorrenza, interna ed estera. Ma sarebbe molto
pericolosa una politica salariale tesa ad inseguire questi profitti. Lo sarebbe doppiamente a
livello di settore produttivo, perché nell’ambito dei settori si mescolano situazioni di bilanci
economici eccellenti ad altri molto meno buoni. Ma lo è anche a livello di singola impresa,
quando i profitti derivano da prezzi fissati in mercati scarsamente concorrenziali.
In questi casi, l’interesse generale consiste nel ridurre i prezzi (che vanno a vantaggio di tutti i
lavoratori–consumatori) e non nell’aumentare i salari dei pochi lavoratori che operano in quelle
imprese. Una politica a favore della concorrenza si dimostrerebbe, quindi, essere più
”egualitaria” di una politica di spartizione delle “rendite” all’interno dei singoli settori o delle
singole aziende.
9. Gli azionisti dell’Azienda Italia
Continua la tendenza di lungo periodo – che ormai può essere definita strutturale – all’aumento
delle società di capitali sia in valori assoluti, sia in valori relativi, a testimonianza dell’evoluzione
del nostro sistema imprenditoriale verso formule più organizzate, più aperte al rischio, più
attrezzate per competere.
Nel 2006 si contano 1.123.000 società di capitale (300.000 in più rispetto al 2000), con una
diffusione territoriale significativa. In un solo anno il loro peso, riferito allo stock complessivo
delle imprese registrate, è pertanto cresciuto di quasi un punto, salendo da 18,5 a 19,3 punti
percentuali. Una misura della profonda trasformazione del tessuto imprenditoriale italiano
conseguente a questa tendenza emerge chiaramente se si pensa che, a fronte di ogni ditta
individuale in più che ha contribuito al saldo di fine anno, nel 2006 si sono contate 31 società di
capitale. A grande distanza da queste ultime, le forme giuridiche che hanno mostrato il più
elevato tasso di crescita sono state le altre forme societarie (prevalentemente cooperative e
consorzi), che, pur rappresentando il 3,2% delle imprese registrate, hanno determinato il 5,1%
del saldo complessivo annuale.
Per ricostruire un quadro completo dei percorsi evolutivi delle società italiane è stata condotta
un’analisi dettagliata delle imprese con tale forma giuridica a partire dai dati dell’archivio della
struttura proprietaria delle società di capitale operanti in Italia nel 2005. Ne emerge una
notevole ampiezza della partecipazione all’impresa: con riferimento a 620.575 società di
capitale, sono state individuate 1.849.867 quote azionarie e 1.373.945 azionisti (1.212.424
persone fisiche e 161.521 persone giuridiche).
Struttura proprietaria delle società di capitale
Confronto fra il 2003 e il 2005
2003 2005
Imprese partecipate 618.263 620.575
Quote azionarie 1.970.918 1.849.867
Azionisti 1.433.831 1.373.945
Fonte: Osservatorio Unioncamere sui gruppi di impresa, 2007
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Già da questi primi dati si evince una struttura che riflette la natura imprenditoriale italiana,
caratterizzata da una cultura d’impresa particolarmente diffusa e con un forte radicamento
familiare. Un mix che determina un numero consistente di azionisti - più di due italiani ogni
cento possiede almeno una quota in una società di capitale – e un’elevata concentrazione della
proprietà delle singole società (in media, due soli azionisti per ciascuna impresa).
Il moderato aumento degli azionisti persone giuridiche – nel 2005 costituivano il 12% dei titolari
d’azione, un punto percentuale in più rispetto al 2003 - sembrerebbe essere determinato in
parte da una maggior presenza della Pubblica Amministrazione. Nel biennio preso in esame, si
assiste infatti all’entrata di quasi 1.000 nuovi azionisti riconducibili all’Amministrazione Pubblica
(passano, per l’esattezza, da 6.616 a 7.535, nel 96% dei casi enti locali). Cresce anche il
numero di società controllate dagli enti pubblici, dalle 2.958 del 2003 alle 3.211 del 2005.
I percorsi di irrobustimento organizzativo del nostro apparato produttivo sono evidenti non solo
analizzando l’evoluzione delle forme giuridiche scelte per competere sul mercato ma anche
attraverso la capacità delle imprese di relazionarsi con altre unità produttive (manifatturiere o
terziarie) e di alimentare in tal modo l’economia delle filiere. La logica del controllo strategico
delle filiere produttive è peraltro quella che ha portato alla creazione e diffusione dei gruppi di
impresa (soprattutto quelli di tipo "formale"), un fenomeno ormai consolidato all’interno del
nostro tessuto economico e in grado di spiegare, tra l’altro, l’ampliamento della platea delle
società di capitale sopra evidenziato.
Secondo i dati dell’Osservatorio Unioncamere sui gruppi di impresa, nel 2005 26.814 società
italiane risultano detenere quote di maggioranza di 44.412 imprese nazionali, alle quali occorre
aggiungere le 14.297 società italiane controllate da imprese estere e le 88.178 aziende
detenute da una o più persone fisiche. Complessivamente, 183.635 imprese italiane (legate da
quote di maggioranza assoluta) operano all’interno di 71.287 gruppi distinti.
I gruppi d’impresa in Italia
Confronto fra il 2003 e il 2005
Capogruppo
Di cui con capogruppo:
Anno Totale
Gruppi Imprese
nazionali
Gruppi di
persone
Persone
singole
Società
estere o
costituite
all'estero
Totale imprese
italiane controllate
dalle capogruppo
del territorio
Totale
imprese in
gruppo
Numero medio
controllate per
gruppo
Numero
medio
imprese per
gruppo
2003 71.287 22.686 16.306 19.492 12.803 147.831 183.320 2,07 2,57
2005 72.302 26.814 15.231 20.323 9.934 146.887 183.635 2,03 2,54
Fonte: Osservatorio Unioncamere sui gruppi di impresa, 2007
In primo luogo, si è registrato un moderato aumento del numero dei gruppi, al quale non ha
fatto tuttavia seguito un incremento nel numero delle imprese coinvolte, rimasto
sostanzialmente stabile rispetto al 2003; tale fenomeno ha, quindi, comportato una leggera
flessione del numero medio delle imprese in gruppo.
Ancora più interessante sembra essere l’operazione di “nazionalizzazione” dei gruppi: la
presenza di società estere a capo di gruppi con ramificazioni nel nostro Paese appare in netta
flessione e, di conseguenza, diminuisce il relativo numero di imprese da esse partecipate.
41
In dettaglio, si contano circa tremila società estere capogruppo in meno (da 12.803 nel 2003 a
9.934 nel 2005), un processo che ha interessato tutti i settori di attività e tutte le regioni. La
presenza di investitori con sede all’estero si riduce per oltre un terzo in molti comparti
manifatturieri, mentre la contrazione appare più attenuata nell’industria delle costruzioni e nei
servizi alle imprese.
Distribuzione settoriale delle imprese partecipate nei gruppi con capogruppo all’estero
Confronto fra il 2003 e il 2005
val. ass. distr. % val. ass. distr. %
Agricoltura, caccia, pesca 182 1,0% 107 0,7%
Alimentare 250 1,3% 152 1,1%
Sistema moda 412 2,2% 266 1,9%
Legno, carta, editoria 318 1,7% 239 1,7%
Chimica, gomma, plastica 765 4,1% 480 3,4%
Metalmeccanica 2.231 11,9% 1.455 10,2%
Altre industrie 555 3,0% 323 2,3%
Costruzioni 745 4,0% 620 4,3%
Commercio,alberghi e ristoranti 4.543 24,3% 3.434 24,0%
Trasporti, magazz. e comunicazioni 678 3,6% 548 3,8%
Intermed. monetaria finanziaria 784 4,2% 608 4,2%
Attività immob. Servizi avanzati alle imprese 6.114 32,7% 5.336 37,3%
Altro (PA, Servizi alle persone, etc.) 1.126 6,0% 729 5,1%
Totale 18.703 100,0% 14.297 100,0%
20052003
Fonte: Osservatorio Unioncamere sui gruppi di impresa, 2007
10. Efficienza e costi della pubblica amministrazione per le imprese
Il rapporto tra Pubblica Amministrazione e imprese si è modificato negli ultimi anni: da un lato,
infatti, è emersa una maggiore consapevolezza del fatto che l’efficienza e l’efficacia della
pubblica amministrazione sia un elemento indispensabile per la competitività del sistema
economico; dall’altro, è cresciuta l’esigenza di soddisfare, con modalità adeguate, la crescente
domanda di servizi sempre più avanzati da parte delle imprese in Italia.
Il Centro Studi Unioncamere, a tale proposito, ha condotto anche per il 2007 un’indagine per
rilevare il livello di soddisfazione per i servizi resi dagli uffici della Pubblica Amministrazione più
prossimi alle imprese, con modalità analoghe a quelle utilizzate per gli studi svolti negli anni
precedenti sullo stesso tema.
In particolare, sono stati considerati i seguenti uffici della P.A.: gli uffici periferici
dell’Amministrazione finanziaria (uffici IVA e del Registro e delle Imposte dirette), gli uffici
dell’INPS, gli uffici dell’INAIL, le ASL, nonché gli uffici delle Amministrazioni Regionali,
Provinciali, Comunali e delle Camere di commercio.
La qualità percepita dalle imprese intervistate circa i servizi utilizzati nel corso del 2006 è stata
rilevata, in particolare, attraverso tre indicatori specifici:
42
- tempestività nell’assolvimento degli adempimenti amministrativi;
- professionalità tecnico–amministrativa del personale pubblico nel trattamento delle pratiche;
- facilità d’accesso ai servizi (sotto il punto di vista del tipo d’accoglienza, della disponibilità di
informazioni preventive, della chiarezza delle procedure e della modulistica e della idoneità
della documentazione richiesta).
Per esporre una valutazione complessiva delle imprese sui servizi resi dalla pubblica
amministrazione, si è prodotto un indicatore sintetico (da 0 a 100) in grado di tenere conto dei
giudizi espressi su ciascuna delle modalità di erogazione dei servizi indicate in precedenza.
Il dato relativo alla valutazione della qualità dei servizi prestati è sicuramente quello di maggiore
importanza ai fini della comprensione dei punti di forza e di debolezza dei rapporti fra aziende e
amministrazione pubblica. Occorre dire innanzitutto che il livello di soddisfazione complessivo
da parte delle imprese circa i servizi utilizzati nel corso del 2006 si è attestato su un valore
positivo - raggiungendo il punteggio di 69,3 su una scala di valori compresa tra 0 e 100 – ma
senza miglioramenti effettivi rispetto al recente passato (l’indice calcolato lo scorso anno con
riferimento al 2005 si era attestato a 69,6). L’indice sintetico che riassume simultaneamente le
valutazioni relative agli indicatori della tempestività, della professionalità e della facilità di
accesso ai servizi è stato ottenuto come media ponderata dell’importanza relativa che ciascuna
impresa del campione attribuisce ad ognuna delle tre variabili sopra descritte.
Rispetto al settore di attività non si riscontrano differenze significative: l’indicatore si rileva più
elevato tra le imprese dei restanti settori dei servizi e delle costruzioni (rispettivamente 69,6 e
69,3), mentre più contenuto risulta tra le imprese dei settori del terziario avanzato (68,8).
Sotto l’aspetto territoriale si rileva un miglior giudizio espresso dalle imprese localizzate al Nord-
Ovest (70,7) seguite da quelle del Centro (69,9), mentre meno soddisfatte nel complesso
appaiono le imprese del Nord-Est (67,9). Leggermente sotto la media nazionale le imprese del
Sud (68,7).
Indicatore sintetico della soddisfazione delle imprese per i servizi resi dalla Pubblica Amministrazione
valore massimo=100
Anno 2006 Anno 2005
ASL CCIAA Comune
IVA e
Registro
INAIL INPS Provincia Regione
Totale
Uffici
Totale Uffici
Area geografica
Nord-Ovest 70,0 75,0 71,0 66,6 69,5 69,9 71,1 70,8 70,5 70,0
Nord-Est 65,0 74,2 69,7 68,7 69,5 66,3 65,7 64,5 67,9 70,7
Centro 74,7 74,2 65,3 71,1 69,3 68,8 62,9 72,7 69,9 66,6
Sud 64,4 73,8 64,8 78,9 68,8 61,6 70,0 67,1 68,7 68,2
Settore di attività
Manifatturiero 66,4 74,3 68,4 69,9 70,7 65,5 68,2 68,0 68,9 67,7
Costruzioni 55,2 70,1 65,2 81,9 73,5 64,6 70,8 72,8 69,3 72,3
Commercio 73,0 74,5 70,4 67,6 65,7 64,2 67,2 67,7 68,8 67,9
Terziario avanzato 70,2 79,9 65,3 70,1 71,2 68,8 63,8 60,3 68,7 70,5
Altri servizi 66,7 73,6 67,0 73,8 67,0 67,8 71,8 68,9 69,6 67,1
Classe dimensionale
1-9 dip. 66,4 73,9 67,5 72,3 68,0 65,6 68,2 67,5 68,7 --
10-49 dip. 70,2 75,1 67,2 70,6 72,0 68,5 70,4 73,4 70,9 --
50-500 dip. 70,1 75,6 69,4 67,6 70,5 65,3 69,5 67,3 69,4 --
Totale anno 2006 67,6 74,5 67,6 71,6 69,6 66,4 68,4 68,4 69,3
Totale anno 2005 71,7 77,3 70,3 70,9 69,3 66,6 67,0 63,5 69,6
Uffici contattati
Fonte: Unioncamere, Indagine sui livelli di soddisfazione per i servizi resi dalla Pubblica Amministrazione, 2007
Rispetto alle classi dimensionali, le più soddisfatte risultano essere le imprese con 10-49
dipendenti (70,9) mentre più critiche si confermano le imprese fino a 9 dipendenti (68,7).
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Per quanto riguarda la tempestività dell’espletamento delle pratiche, la percentuale delle
imprese che ha giudicato in maniera pienamente soddisfacente (buono, molto buono o ottimo)
gli uffici considerati si è attestata al 65,7%, superiore di circa un punto percentuale a quanto
rilevato lo scorso anno (64,8%). Considerando anche il giudizio di sufficienza tale dato
raggiunge l’85,0%. Cinque imprese su cento, invece, formulano una opinione particolarmente
negativa, giudicando gravemente insufficienti i tempi di risposta della Pubblica Amministrazione.
Il giudizio più favorevole si conferma quello espresso sulle Camere di commercio (75,3%),
seguite dagli uffici IVA e Registro (68,5%). Rispetto al settore di attività, i giudizi peggiori sono
stati raccolti presso le imprese del commercio, che nel 18,9% dei casi hanno valutato
gravemente insufficiente e/o insufficiente il giudizio relativo ai tempi di espletamento del
servizio, mentre il più elevato gradimento (buono, molto buono o ottimo) si registra tra le
imprese del settore delle costruzioni (77,8%).
L’analisi delle ripartizioni geografiche rileva una tendenza al peggioramento delle valutazioni
passando dalle regioni settentrionali a quelle centrali e meridionali: varia, infatti, dall’8,5%
registrato nel Nord-Ovest al 20,6% nel Sud e Isole la percentuale delle imprese che giudicano
gravemente insufficiente o insufficiente i tempi di risposta degli uffici della P.A. considerati, con
uno scarto “territoriale” di oltre dodici punti percentuali.
Rispetto alle classi dimensionali, le più soddisfatte sono le medio-grandi imprese (50-500
dipendenti e 10-49 dipendenti), con una frequenza maggiore di giudizi positivi (buono, molto
buono o ottimo) pari rispettivamente al 68,0% e 67,8%, rispetto al 65,4% registrato tra quelle
fino a 9 dipendenti.
Giudizi espressi dalle imprese per i servizi resi dalla PA: tempi necessari per l'espletamento del servizio
Valori % - Anno 2006
gravemente
insufficiente
insufficiente sufficiente buono
molto
buono
ottimo
Comune 4,4 10,1 18,3 35,1 20,3 11,7
Provincia 10,3 10,9 18,9 24,6 14,5 20,8
Regione 4,1 15,4 20,9 30,7 19,1 9,8
CCIAA 1,8 7,4 15,5 34,2 22,6 18,5
IVA 5,6 7,7 18,2 28,1 25,6 14,8
INAIL 6,2 8,4 22,3 32,8 11,8 18,5
INPS 9,0 10,5 21,7 30,7 14,1 14,1
ASL 5,7 10,8 24,1 28,5 10,7 20,2
Totale imprese 5,4 9,6 19,3 31,5 18,5 15,7
Uffici contattati
Fonte: Unioncamere, Indagine sui livelli di soddisfazione per i servizi resi dalla Pubblica Amministrazione, 2007
Nel complesso, il 68,6% degli imprenditori intervistati ha inoltre giudicato pienamente
soddisfacente (buono, molto buono o ottimo) il livello di competenza del personale
amministrativo (il dato relativo allo scorso anno si era attestato al 74,0%). Considerando anche
il giudizio di sufficienza, tale dato raggiunge l’86,5%. Di poco inferiore a quattro punti
percentuali (3,8%) la quota di imprese particolarmente insoddisfatte della professionalità del
personale.
Per quanto riguarda la localizzazione territoriale, si rileva anche qui un tendenziale
miglioramento delle valutazioni al crescere della latitudine (dal 59,1% del Sud e Isole al 80,7%
del Nord-Ovest). Positivi i giudizi in tutte le dimensioni di impresa, con un valore più contenuto
solo per le imprese fino a 9 dipendenti (68,1%). I giudizi di coloro che ritengono la
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professionalità insufficiente o gravemente insufficiente sono più frequenti nel caso delle imprese
appartenenti ai settori del commercio (16,3%) e degli altri servizi (14,8%). E’ una impresa su
cinque del settore delle costruzioni, invece, a ritenere ottima la professionalità del personale
amministrativo (20,9%).
Particolarmente apprezzate dalle imprese le procedure e le modalità di accesso ai servizi
erogati dalla Pubblica Amministrazione, grazie anche all’introduzione della telematica: l’84,3%
degli intervistati giudica positivamente (sufficiente, buono, molto buono e ottimo) l’accesso ai
servizi amministrativi, dato analogo a quanto rilevato nell’indagine del 2005 (84,4%); solo il
6,3% delle imprese formula un giudizio particolarmente negativo (gravemente insufficiente).
Le imprese del manifatturiero si rivelano le più critiche da questo punto di vista (82,8%), mentre
quelle del settore del commercio appaiono le più soddisfatte (87,1%). Dal punto di vista
geografico, la quota di imprese più soddisfatte varia da un massimo del 86,4% delle imprese del
Sud e Isole ad un minimo del 82,5% per quelle del Nord-Est. Positivi,anche per questo
indicatore, i giudizi in tutte le dimensioni di impresa.
L’informatizzazione della Pubblica Amministrazione continua a coinvolgere un maggior numero
di imprese in Italia: da quanto è emerso dalla rilevazione, infatti, oltre il 46% delle imprese (era il
32% lo scorso anno) dichiara di utilizzare almeno qualche volta modalità telematiche per
l’espletamento degli adempimenti amministrativi; in particolare, il 16,3% (era il 7,3% l’analogo
dato dello scorso anno) dichiara di utilizzare sempre procedure informatiche per la trasmissione
di atti amministrativi (in particolare le imprese localizzate al Centro, appartenenti ai settori del
terziario avanzato e più frequentemente le imprese con 10-49 dipendenti). Una impresa su tre,
inoltre, dichiara di utilizzare modalità telematiche ma saltuariamente (più frequenti in questo
caso nel Nord Est, tra le imprese del settore manifatturiero e di media-grande dimensione).
In generale le imprese che si avvalgono sempre della telematica per i contatti con gli uffici della
Pubblica Amministrazione si evidenziano nei rapporti con le Camere di commercio (22,1%) e
uffici IVA e Registro (19,5%). Più contenuto, invece, il dato nei confronti degli uffici della
Regione, Provincia e Comune (intorno al 10%).
Il 29,7% delle imprese che ha dichiarato di utilizzare sempre o qualche volta modalità
telematiche per l’espletamento degli adempimenti amministrativi (pertanto il 13,7% del totale
delle imprese intervistate) sostiene di avere riscontrato una riduzione dei costi a proprio carico.
Per il 55,8% dei casi (26% sul totale delle imprese intervistate) i costi sono rimasti
sostanzialmente invariati mentre l’11,5% delle imprese che ha utilizzato procedure informatiche
nei rapporti con la P.A. sostiene di avere registrato un incremento dei costi. Chi dichiara di aver
risparmiato di più sono le imprese del manifatturiero e con 10-49 dipendenti. Più contenuta la
riduzione dei costi per le imprese del Sud e Isole.
Alle imprese intervistate è stato infine richiesto di indicare i costi complessivamente sostenuti
per l’espletamento degli adempimenti amministrativi nel corso del 2006. Da quanto è emerso
dall’indagine, nonostante l’introduzione dell’informatizzazione dei servizi pubblici che ha
sicuramente reso più agevole l’accesso agli uffici della PA, la percezione delle imprese
evidenzia (per il 24,6% dei casi) un incremento - rispetto al 2005 - dei costi sostenuti per i
principali adempimenti burocratici nei confronti della Pubblica Amministrazione. Solo l’8,4%
delle imprese segnala una diminuzione rispetto a due anni fa.
Particolarmente differenziata, però, la percezione delle imprese su queste tematiche: le imprese
che hanno sostenuto un incremento dei costi nel 2006 dichiarano una percentuale media di
aggravio pari al 12,6%, mentre coloro che, invece, hanno registrato una diminuzione dei costi
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sostenuti nei rapporti con la Pubblica Amministrazione evidenziano un risparmio medio di poco
inferiore al 15%.
Andamento dei costi sostenuti dalla imprese per adempimenti amministrativi
Valori % - Anno 2006
Superiori
al 2005
Invariati
Inferiori al
2005
Non
risponde
% incremento % diminuzione
Comune 29,4 52,5 10,4 7,8 12,2 15,0
Provincia 22,3 64,4 5,8 7,5 12,1 15,4
Regione 24,7 61,7 7,7 5,9 9,9 14,5
CCIAA 28,1 53,7 11,7 6,5 13,1 15,0
IVA 33,2 51,2 10,4 5,2 11,1 16,3
INAIL 31,5 58,6 5,2 4,7 13,7 25,0
INPS 31,1 54,4 8,7 5,8 13,9 17,6
ASL 38,3 48,5 8,1 5,0 16,5 15,0
Nord-Ovest 20,7 57,8 14,8 6,8 12,0 15,1
Nord-Est 28,2 59,0 6,9 6,0 14,3 12,9
Centro 25,1 61,9 6,2 6,9 12,3 18,7
Sud 25,3 62,6 4,4 7,7 12,7 10,7
manifatturiero 24,1 61,2 7,3 7,4 13,3 16,6
costruzioni 21,0 57,5 13,0 8,5 18,0 17,3
commercio 25,0 64,2 5,6 5,3 10,2 11,1
terziario avanzato 25,8 54,9 8,5 10,7 13,7 13,3
altri servizi 26,2 59,9 9,0 4,8 11,8 13,3
1-9 dip. 25,0 59,9 8,6 6,6 12,8 14,6
10-49 dip. 21,6 62,6 6,9 8,8 13,5 14,6
50-500 dip. 23,8 61,2 6,8 8,1 13,2 13,6
Totale imprese 24,6 60,2 8,4 6,9 12,9 14,6
Classe
dimensionale
Uffici contattati
Ripartizione
geografica
Settore di attività
Fonte: Unioncamere, Indagine sui livelli di soddisfazione per i servizi resi dalla Pubblica Amministrazione, 2007
Nel 2006 si può stimare, sulla base delle informazioni di dettaglio fornite dalle imprese
intervistate, che gli oneri amministrativi siano costati al sistema imprenditoriale oltre 14,9 miliardi
di euro (contro un onere pari a 13,7 miliardi di euro stimato per il 2005), pari a circa l’1,0% del
PIL, con un costo medio per impresa di circa 11.800 euro.
Costi sostenuti dalle imprese per l'espletamento degli adempimenti amministrativi nel 2006
Costi esterni (*) Stima costi interni (*)
Stima costi
totali (*)
Stima costi
totali per
impresa (€)
Settore di attività
manifatturiero 1.824.441 1.872.373 3.696.814 12.972
costruzioni 1.038.658 1.186.786 2.225.444 10.861
commercio 1.322.519 1.425.812 2.748.330 9.223
terziario avanzato 917.583 989.941 1.907.524 12.215
altri servizi 1.703.638 2.638.462 4.342.099 13.633
Dimensione di impresa
1-9 dip. 5.291.181 6.094.537 11.385.719 10.372
10-49 dip. 1.239.379 1.651.674 2.891.054 20.310
50-500 dip. 276.278 367.161 643.439 28.588
Area geografica
Nord-Ovest 2.124.385 2.533.651 4.658.037 12.535
Nord-Est 1.724.361 1.945.640 3.670.001 12.728
Centro 1.409.660 1.676.118 3.085.778 11.898
Sud 1.548.432 1.957.963 3.506.396 10.216
Totale 6.806.839 8.113.373 14.920.211 11.818
(*) in migliaia di Euro
Fonte: Unioncamere, Indagine sui livelli di soddisfazione per i servizi resi dalla Pubblica Amministrazione, 2007
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Il 45,6% dell’ammontare complessivo di tali costi si riferisce a costi esterni, mentre il restante
54,4% è relativo a costi interni all’impresa.
Più oneroso il costo medio per impresa sostenuto dalle aziende del Nord-Est (circa 12.700
Euro) seguite dal Nord-Ovest (circa 12.500 Euro), mentre risulta più contenuto nel caso delle
imprese localizzate al Sud (poco più di 10.200 Euro). In media, infine, il dato delle imprese del
Centro (circa 11.900 Euro).
Ancora ampi sembrano, dunque, i margini di miglioramento della Pubblica Amministrazione nel
rapporto con il sistema produttivo. È necessario che il processo di semplificazione e
telematizzazione proceda ancora più speditamente e, soprattutto, che sia verificabile una
riduzione in termini di costi per le imprese. Sarebbe un elemento di fondamentale importanza
per il miglioramento della produttività totale dei fattori del nostro Paese.