ISFOL: Rapporto ISFOL 2008

Descrizione breve: 
Questo rapporto ha affrontato i temi dell’Europa, del lavoro e della FORMAZIONE.
Allegato: 
Data: 
19 Novembre 2008
ISFOL 2008/a_Rapporto ISFOL 2008_Sintesi.pdf Rubbettino RAPPORTO 2008 S I N T E S I Rubbettino Si n t e s i RAPPORTO 2008 © 2008 - I S F O L - Via G .B. Morgagni, 33 - 00161 Roma Tel. 06.445901 - http://www.isfol.it Come di consueto, il Rapporto annuale Isfol si articola in due ampie sezioni dedicate ai temi del lavoro e della formazione, precedute da una panoramica sulla dimensione eu- ropea, che da tempo si pone come imprescindibile quadro di riferimento per le politi- che nazionali. L’avvio del nuovo periodo di programmazione dei Fondi strutturali rende disponibile un ammontare di circa 350 miliardi di euro fino al 2013, di cui oltre 200 sono destinati al settore della crescita e dell’occupazione (+25% rispetto al 2000-2006). Nonostante sia or- mai evidente il mancato raggiungimento in molti paesi europei degli obiettivi fissati per il 2010, l’ambito centrale d’intervento delle politiche di coesione continua quindi ad es- sere la Strategia di Lisbona, a dimostrazione di come il suo parziale fallimento non ab- bia comunque invalidato i principi posti alla base dei bechmark quantitativi. La forte oscil- lazione dei risultati appare attribuibile, in primo luogo, alla mancanza di dati certi e com- parabili; in secondo luogo, all’inadeguatezza di analisi statistiche che non tengano in de- bito conto le forti disparità regionali adottando opportune clusterizzazioni; in terzo luo- go, all’assenza di criteri per standardizzare le legislazioni nazionali sulle età di ingresso e d’uscita dal mercato del lavoro (età minima di lavoro, età di pensione, regole di compu- to per l’alternanza scuola/lavoro, ecc.). Il trasferimento di principi fondamentali rimane la chiave di lettura con cui guardare al- l’Europa. L’approccio della flexicurity, ad esempio, più che a identificare un unico mo- dello cui ispirare le politiche del lavoro di paesi e realtà territoriali anche profondamen- te diversi tra di loro, è servito a delineare principi comuni su cui fondare interventi che tengano in debito conto gli specifici contesti politici, economici e sociali. Condivisione di linee guida e al tempo stesso attenzione al territorio, attraverso un mag- giore decentramento delle competenze, sono tra gli aspetti significativi che stanno ca- ratterizzando il dibattito già avviato sul futuro delle politiche di coesione. La direzione è quella di un più intenso coordinamento con le azioni direttamente finanziate dagli Sta- ti membri, rafforzando il principio dell’addizionalità. In Italia può essere questa l’occa- sione per avviare una riflessione circa il reale impatto dei Fondi strutturali e specialmente del Fondo sociale europeo sui sistemi del lavoro e della formazione. Mentre i program- mi operativi europei rivolti al capitale umano finanziano solitamente obiettivi specifici Introduzione 3 4 e circoscritti, quelli italiani sono tuttora rivolti ad una molteplicità di azioni, con un evi- dente rischio di dispersione delle risorse, troppo spesso considerate come semplice so- stitutivo di fondi nazionali sempre più scarsi. All’insegna del trasferimento va poi inquadrato l’apporto che giunge dall’Europa in ter- mini di esperienze innovative. Basti pensare al ruolo di Leonardo o di Equal. Nell’ambito del lifelong learning uno dei temi su cui lo stimolo europeo si fa più pressante è quello della trasparenza e del riconoscimento delle competenze. I progressi sul fronte del- l’EQF (Quadro europeo delle qualifiche) e dell’ECVET (Sistema europeo per il riconosci- mento dei crediti) hanno reso più concreto l’obiettivo di un’effettiva leggibilità e correla- bilità dei titoli tra i vari paesi membri. Con il supporto dell’Isfol, il Governo italiano ha par- tecipato attivamente al percorso di elaborazione di queste iniziative e la scadenza del 2012 per aderire a entrambi i sistemi impone ora un ulteriore sforzo a livello nazionale. L’impe- gno per favorire una migliore riconoscibilità dei titoli, d’altro canto, appare perfettamen- te in linea con la filosofia recentemente delineata dal Libro Verde sul futuro modello sociale, predisposto dal Ministero del Lavoro, che pone l’individuo al centro di un sistema di op- portunità - tra cui appunto la piena valorizzazione delle competenze acquisite - volte a so- stenere la sua occupabilità e quindi il suo ruolo di cittadino lavoratore. È necessario crea- re le condizioni strutturali e culturali, anche grazie ad opportune sperimentazioni, che per- mettano di arrivare a questo traguardo. Sarà opportuno, in tale ottica, rafforzare strumen- ti come Europass, il cui potenziale sembra non sia ancora del tutto emerso. Altra sfida essenziale sul piano dell’apprendimento permanente è rappresentata dalla qua- lità dell’istruzione e della formazione professionale, uno dei punti essenziali dell’agenda mes- sa a punto a Lisbona. La Commissione ha di recente proposto un modello di riferimento che si prevede possa essere approvato formalmente entro il 2009. È un nuovo approccio al governo del sistema, con la condivisione di obiettivi confrontabili e misurabili. Tra le grandi tematiche a cui l’Europa ha dedicato nel corso dell’anno un’attenzione par- ticolare occorre ricordare le pari opportunità. Da qualche mese abbiamo in questo cam- po una strategia rinnovata per le politiche sociali, finalizzata a fronteggiare i sempre più rapidi cambiamenti in atto. In essa forte rilevanza è stata data alle problematiche connesse con il progressivo invecchiamento della popolazione, che impone la messa a punto di azio- ni rivolte sia alle donne che alle fasce di popolazione più giovane e agli immigrati. L’Europa chiede che le politiche per l’immigrazione siano oggetto di una strategia comune, a fronte della rilevanza assunta dal fenomeno migratorio. L’intervento solitario dei sin- goli Stati membri non appare più sufficiente, soprattutto in una condizione di libera cir- colazione dei cittadini e di apertura delle frontiere interne. La Commissione ha più vol- te sottolineato come l’immigrazione possa rappresentare un fattore importante di sviluppo economico e di crescita dell’occupazione e con il Libro Verde Migrazione e mobilità, pre- sentato lo scorso luglio, ha voluto avviare un dibattito che ponga concretamente le basi per una futura cooperazione europea in materia di immigrazione, sottolineando in par- ticolar modo il ruolo dell’istruzione nelle politiche di integrazione. Da oltre un decennio il principio di eguaglianza è uno dei cardini del processo di inte- grazione europea e da semplice declamazione dei trattati si è tradotto in normative an- tidiscriminatorie di notevole spessore. Gli obiettivi dell’inclusione sociale e delle pari op- rapporto isfol 2008 portunità ricoprono oggi un ruolo chiave nei regolamenti dei Fondi strutturali. Il tra- sferimento di questi orientamenti agli Stati membri, compresa l’Italia, che li ha recepiti nel proprio ordinamento, apre ora una seconda fase: la verifica relativa alle compatibili- tà sistemiche del nuovo quadro legislativo e al suo grado di effettiva implementazione. Si tratta, in sostanza, di fare in modo che siano pienamente espresse le potenzialità insi- te nelle norme, attraverso la loro attuazione ma anche mediante un’azione costante di mo- nitoraggio del fenomeno e di diffusione delle conoscenze. Dopo una prolungata fase di espansione, che si è protratta per oltre un quadriennio, l’eco- nomia mondiale è entrata in una congiuntura di forte criticità (con stime negative per i paesi occidentali, di rallentamento della crescita per i paesi in via di sviluppo), dove i se- gnali di recessione vengono amplificati dalla grave crisi dei mercati finanziari. Già a par- tire dall’inizio del secondo semestre del 2007 l’economia statunitense aveva mostrato se- gnali di incertezza. Un dollaro fortemente ridimensionato, un bilancio statale in dete- rioramento ed un improvviso rialzo del prezzo di alcune materie prime hanno contribuito ad alimentare una crisi che ha travolto dapprima il mercato immobiliare - anch’esso già indebolito dallo scoppio di una perdurante bolla speculativa - e poi, per via dei derivati finanziari sui cosiddetti mutui sub-prime, il mercato del credito e quello finanziario. Per ciò che riguarda il nostro continente, l’economia europea ha dapprima subito un ral- lentamento del ciclo economico ed è poi stata travolta dal crollo dei mercati finanziari. Tale rallentamento ha fatto sentire le sue conseguenze anche nel nostro Paese, che già scontava un differenziale negativo di crescita sia rispetto all’area Oecd che a quella Euro. A partire dall’ultimo trimestre del 2007 l’economia italiana ha mostrato un andamento sostanzial- mente stagnante, finché nel secondo trimestre 2008 si è verificata una contrazione del PIL. A trainare pesantemente al ribasso sono i consumi interni, con la spesa delle famiglie che scende dello 0,5%, anche in conseguenza di un’inflazione che sale fino a toccare il 4,2%. La crescita del PIL in questi anni sembra essere stata nel nostro Paese più il riflesso del ci- clo positivo dell’economia mondiale che il frutto di un incremento della domanda inter- na. Nonostante le forti pressioni competitive dei paesi emergenti ed in particolare della Cina, le nostre merci hanno infatti mantenuto una buona capacità di penetrazione nei mercati internazionali e le esportazioni hanno continuato a crescere significativamente più dei con- sumi e degli investimenti interni: nel 2007 l’incremento delle esportazioni, rispetto all’an- no precedente è risultato pari al 5% circa, mentre la domanda interna ha fatto registrare un molto più modesto +1,3%. Ancora nel primo trimestre 2008 la dinamica relativamente po- sitiva del PIL è interamente spiegata dal sostegno fornito dalla domanda estera, mentre l’ul- teriore indebolimento del reddito reale delle famiglie, determinato dall’aumento dei prez- zi delle materie prime alimentari e dell’energia, ha continuato a deprimere i consumi che si avviano, così come gli investimenti, verso un tendenziale ristagno. Nonostante l’acuirsi e il diffondersi della crisi internazionale, il contributo al PIL forni- to dalla domanda estera rimane quindi significativo ed in qualche misura “salvifico”. È tut- tavia chiaro come il peggioramento del ciclo economico globale non potrà che ripercuotersi negativamente sulle nostre esportazioni e quindi sulla ricchezza prodotta dal Paese, an- che se qualche nota di ottimismo può venire dall’osservazione che una parte significati- 5 sintesi 6 va delle nostre esportazioni si è orientata in questi anni verso i paesi new comers, quelli cioè che paiono meno risentire della crisi in corso. In ogni caso, anche l’economia italiana è a rischio recessione. Le pressioni sui costi di pro- duzione inaspriscono le difficoltà di un sistema fortemente dipendente dall’estero anche per l’approvvigionamento di materie prime, in particolare energetiche. Scontiamo, inol- tre, le debolezze strutturali che dipendono prima di tutto dalla mancata crescita delle Re- gioni del Sud e dal conseguente ampliarsi dei divari regionali, con effetti a cascata sul li- vello del PIL e della produttività. La crescita economica, infatti, è strettamente connessa all’aumento dei livelli di occupazione, ma anche a dinamiche positive della produttivi- tà, soprattutto in un contesto nel quale aumentano sempre più, e sempre più rapidamente, le pressioni competitive alle quali vengono sottoposti i sistemi produttivi. Esaminando il primo versante si può osservare come le riforme degli ultimi anni abbia- no contribuito ad allargare significativamente la base occupazionale, con un incremen- to importante:  del numero degli occupati  delle ore complessivamente lavorate  del monte retributivo che è aumentato dal 1997 al 2007 del 22,9%, anche se le retri- buzioni individuali sono salite molto poco in termini reali (+7,4% cumulato). La quo- ta del lavoro dipendente sul PIL è salita dal 51,8% al 55,5%; se si considera anche la remunerazione del lavoro autonomo, la quota che va a remunerare il fattore lavoro è passata dal 74,8% al 77,6%. Anche nel 2007, sebbene in rallentamento rispetto all’anno precedente, l’aumento dell’oc- cupazione che si è verificato nel Paese appare più marcato rispetto alla media UE. In un qua- dro nazionale in cui gli investimenti, sia interni che esteri, mostrano evidenti criticità, il ruo- lo di principale determinante della crescita del prodotto interno va dunque ascritto all’au- mento dell’occupazione. Sul piano della produttività, invece, nell’ultimo quinquennio si è registrata una dinamica di poco al di sopra dello 0%, a fronte di uno stabile 1,2% per la pro- duttività dell’area Oecd e di uno 0,8% per la produttività nell’area Euro. Contemporanea- mente, nel 2007 si è verificata una perdita di competitività di prezzo delle imprese italiane. Misurato sulla base dei prezzi alla produzione, il calo è stato di circa il 2%, superiore a quel- lo registrato negli altri maggiori paesi dell’area Euro. Un fattore peggiorativo è stata la di- namica del costo del lavoro per unità di prodotto, innalzata dall’andamento sfavorevole del- la produttività: il CLUP nel decennio 1997-2007 in Italia ha registrato, infatti, un incremento del 26,1% tra il 1997 e il 2007, contro il +14,2% dell’Eurozona e il +3,1% tedesco. Anche la remunerazione degli altri fattori della produzione, cioè del capitale (sotto forma di am- mortamenti, costi di struttura e spese per interessi) e del rischio d’impresa (profitto), risulta in forte calo, soprattutto nella microindustria (-3,2%) e nelle grandi imprese dei servizi, dove è calata di oltre un quinto. Nel complesso, secondo stime basate sui conti nazionali, la red- ditività operativa delle imprese negli ultimi due anni è diminuita, come si è ridotto l’auto- finanziamento, anche a causa dell’aumento degli oneri finanziari netti. Da tempo economisti e statistici stanno cercando una risposta a ciò che è stato chiamato il paradosso o il “buco nero” della produttività italiana. Infatti, non è chiaro come siano rapporto isfol 2008 compatibili con il declino della produttività l’aumento delle esportazioni, gli andamenti della redditività delle imprese (ad esempio come quelli segnalati dalle riclassificazioni dei bilanci aziendali operate da Mediobanca), la stessa crescita dell’occupazione alle dipendenze. L’attenzione critica si sta orientando, in particolare, sui numerosi fattori di possibile sot- tostima del numeratore (valore aggiunto) delle misure della produttività, nel qual caso mol- te incongruenze troverebbero spiegazione e lo stesso giudizio sull’economia italiana si fa- rebbe meno preoccupato. Dal versante opposto, la minore finanziarizzazione della nostra economia e la sua composizione interna potrebbero aver contribuito ad una crescita più modesta ma al tempo stesso meno volatile (si veda, a contrario, il caso spagnolo). Non mancano, inoltre, interessanti segnali di ristrutturazione di parti del sistema produt- tivo. Da un lato l’incremento delle dimensioni medie d’impresa, che convergono lentamente con la media europea, ma in maniera molto più forte nelle Regioni industriali del Nord. Dal- l’altro un’accelerazione delle cessazioni di imprese, che indica un processo di “distruzione creativa”, caratterizzato dall’espulsione delle aziende meno produttive e dalla riallocazione di quote di produzione verso quelle migliori, già presenti o di nuova costituzione. Queste ultime sembrerebbero caratterizzarsi per una maggiore capacità di realizzare significative innovazioni nelle strategie aziendali, con impiego di forza lavoro più qualificata, rinnovo della gamma dei prodotti, investimenti sul marchio e internazionalizzazione della produ- zione e della rete di fornitori. In ogni caso, occorre ricordare che la quota di imprese con le migliori performance produttive - ovvero con livelli di redditività e produttività del lavoro superiori alla media del settore di appartenenza - supera appena il 20% del totale. Rimane il fatto che la competitività delle imprese italiane risulta più elevata di quanto non avvenga per l’ambiente competitivo nazionale. A questo proposito si consideri che la Ban- ca mondiale tra i 10 fattori per valutare un paese business friendly annovera: l’efficienza della giustizia civile (in Italia occorrono quattro anni per ottenere attraverso un giudice il rispetto di un contratto), tempi e costi di apertura/chiusura di un’azienda, la flessibi- lità del lavoro, l’accesso al credito, il pagamento delle tasse, la burocrazia per gli scambi con l’estero. È importante, dunque, fare riferimento anche all’ambiente in cui opera il si- stema socio-produttivo per comprendere quali siano i fattori principali che frenano o fa- voriscono la crescita del Paese. Concentrando l’analisi sulle relazioni tra crescita, produttività e mercato del lavoro, la di- namica della produttività del lavoro riflette l’influenza congiunta di un insieme di fatto- ri (TFP, total factor productivity) come il capitale fisico, le tecnologie adottate, il capitale umano, l’organizzazione del lavoro, le economie di scala. In Italia gli ostacoli principali che il settore pubblico è chiamato a contrastare per favorire la ristrutturazione dell’eco- nomia sono ben noti: i costi e l’inefficienza dei servizi pubblici, ancora non sufficiente- mente aperti al mercato; le disfunzionalità della scuola e l’università, non all’altezza di un paese avanzato; l’inadeguatezza delle infrastrutture; l’eccessivo livello della tassazione sui cittadini, che penalizza i redditi da lavoro e la capacità di consumo delle famiglie, e sul- le imprese (anche dopo la riduzione apportata nel 2008, l’aliquota complessiva di prelievo sui profitti d’impresa resta superiore di 8 punti rispetto alla media degli altri paesi eu- ropei); la necessità di semplificazioni del quadro legislativo; l’ampia dimensione delle at- tività irregolari. 7 sintesi 8 Altri fattori essenziali che emergono dalla lettura dei dati sono correlati al buon funzio- namento del mercato del lavoro quando si dimostri in grado di favorire la mobilità interna ed esterna, la crescita professionale, la soddisfazione dei lavoratori per la propria attività. Ma il dibattito scaturito intorno ai percorsi di flexicurity ha messo in luce come un mer- cato del lavoro che sostenga la mobilità e la qualità del lavoro debba poggiare su sistemi affidabili e universali di protezione e di sicurezza nelle transizioni tra lavoro e lavoro. Di qui l’urgenza nel nostro Paese di una complessiva riforma degli ammortizzatori sociali, che contrasti le segmentazioni, le iniquità e le inefficienze del sistema attuale. Ed occorre an- che un’azione di rafforzamento continuo delle competenze dei lavoratori e di accompa- gnamento efficace nel passaggio dall’inattività o dalla disoccupazione al lavoro. È venuto il momento di porsi un duplice obiettivo. Da una parte agire in maniera com- plessiva per rendere sempre più conveniente il lavoro, per mantenere le persone più a lun- go nell’attività ed attrarre il maggior numero di inattivi nell’occupazione; ciò è tanto più urgente in presenza di dinamiche demografiche che accentuano le conseguenze dell’al- lungamento della vita e dell’innalzamento dei tassi di dipendenza. Dall’altra parte è in- dispensabile fare in modo che tutto il sistema del lavoro venga orientato a rendere più pra- ticabili, più convenienti e più remunerative le transizioni. Al concetto di qualità del lavoro dovrebbe quindi affiancarsi quello di “dinamiche del la- voro di qualità”, nella consapevolezza che occorre non solo porsi il fine di inserire più per- sone ma anche di favorire i percorsi dei lavoratori verso lavori migliori. Il passaggio da posizioni marginali, povere e discontinue, ad altre più convenienti e soddisfacenti è tan- to importante per gli individui quanto per una società che voglia progredire. Nell’un caso come nell’altro un ruolo essenziale è rappresentato da interventi finalizza- ti a migliorare radicalmente il funzionamento della formazione e favorire il necessario ar- ricchimento del capitale umano; è questa una premessa ineludibile per aumentare la qua- lità del lavoro. Ugualmente importante è poi il miglioramento dei meccanismi del mer- cato del lavoro e delle sue istituzioni: il ruolo dei servizi per il lavoro appare quanto mai cruciale sia nell’accesso all’occupazione, sia nel legare politiche passive e politiche attive del lavoro, sia nel rafforzamento delle doti di occupabilità delle persone, specie quelle dif- ficili da collocare. Nel campo delle istituzioni del mercato del lavoro sarà necessaria in primo luogo un’ac- celerazione dell’efficienza delle reti tecnologiche e di relazione; occorre migliorare dra- sticamente i raccordi tra Servizi per l’impiego (SPI) e la formazione professionale, tra SPI e sistemi produttivi locali, tra operatori pubblici, anche quelli “speciali” come le univer- sità, ed operatori privati. Una più efficace integrazione delle politiche, dei soggetti isti- tuzionali, dei servizi e degli erogatori può agire anche da moltiplicatore della funziona- lità delle risorse e delle disponibilità territoriali. La profonda eterogeneità delle situazioni locali rende necessaria un’azione costante di mo- nitoraggio, in grado di individuare i fabbisogni di intervento e di apprezzare e rafforza- re l’efficacia dei diversi dispositivi adottati. Uno degli elementi determinanti per favori- re la competitività sta proprio nella capacità di comprendere i fenomeni a livello locale. Il territorio rappresenta, infatti, l’ambito di riferimento delle dinamiche economiche e so- ciali, un luogo di creazione e di sperimentazione di modelli di sviluppo chiamati a pro- rapporto isfol 2008 muovere la convergenza verso i target europei. In tale ottica, è necessario riconsiderare il concetto di territorio da mero “contenitore” di fenomeni economici, a luogo di produ- zione di capitale sociale (inteso come sistema di relazioni tra attori sociali, reti di imprese e sistemi di organizzazione del lavoro), di capitale umano, di circuiti di conoscenza e di beni collettivi (servizi, infrastrutture) e in ultima analisi di attuazione delle politiche. La dimensione locale rappresenta quindi la base conoscitiva da cui partire per comprende- re i fabbisogni e definire in modo integrato le politiche del lavoro, della formazione e del- lo sviluppo. Il problema della carenza delle professionalità ricercate dalle imprese è al centro di molte proposte delineate a livello europeo per contrastare il fenomeno dei cosiddetti “colli di bot- tiglia” che bloccano il potenziale dei vari mercati del lavoro. Una migliore mobilità profes- sionale e la valorizzazione delle competenze esistenti può essere favorita anche da strumenti incentivanti dal punto di vista della retribuzione. Da questo punto di vista, la detassazio- ne degli straordinari, avviata nella passata legislatura e completata nei primi mesi di quel- la attuale, può andare nella direzione di accrescere i redditi dei lavoratori, in maniera favorevole alla qualità della produzione e contribuendo - insieme all’auspicata riforma del contratto di lavoro - a legare tra loro crescita dei salari reali e della produttività. In ogni caso, tutte le informazioni relative alle carenze di personale e le anticipazioni sul- le dinamiche del mercato del lavoro dovranno alimentare capillarmente i flussi informativi veicolati dai Servizi per il lavoro e dalle connesse reti informative. La funzione dei SPI di orientamento e riqualificazione, prevista ormai da oltre un quinquennio dalla normati- va nazionale e non ancora completamente attuata, deve raggiungere in tutte le aree del Paese piena realizzazione, a livelli qualitativi adeguati. Per assicurare una funzionalità omo- genea dei Servizi è urgente adottare un percorso chiaro e scadenzato di riallineamento che garantisca, in un quadro di sostenibilità finanziaria, l’erogazione dei servizi in funzione di standard qualitativi e livelli essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale, anche attraverso un nuovo Masterplan. Venendo agli andamenti, l’evoluzione dei principali indicatori del mercato del lavoro du- rante l’ultimo anno si è sviluppata - come abbiamo visto - in un contesto nuovo, carat- terizzato da una crescita economica scarsa e dall’aumento dell’inflazione, cui si aggiun- ge un recente incremento della disoccupazione. La crisi delle banche a livello internazionale è solo il segno più evidente di questo malessere, che rischia di avere ripercussioni parti- colarmente pesanti sulle fasce più deboli della popolazione sia in termini di distribuzio- ne del reddito che di opportunità sotto il profilo occupazionale. Le ricadute del cambia- mento di ciclo sui territori meno sviluppati e sui segmenti meno forti del mercato del la- voro andranno accuratamente monitorate e, dove possibile, prevenute. In quest’ottica, la cultura della valutazione dovrà rapidamente transitare da un piano di puro esercizio teo- rico a strumento operativo per i decisori politici. E un discorso analogo può essere fatto relativamente alle sempre più accurate riflessioni svolte in tema di qualità: occorre “ap- plicare” la ricerca e tradurre i suoi risultati nei meccanismi di governo. La consapevolezza dei rischi che abbiamo di fronte evidenzia, inoltre, quella centralità del- la persona di cui si parla nel Libro Verde presentato lo scorso luglio dal ministro Maurizio Sacconi. Gli investimenti in formazione - in linea con il modello di flexicurity - assumono 9 sintesi 10 quindi una valenza strategica. Da troppo tempo il nostro sistema educativo sconta un’ec- cessiva dualità: da una parte l’autoreferenzialità della formazione, dall’altra la scarsa atten- zione alla persona da parte delle aziende. Individuare un nuovo equilibrio tra questi due estre- mi sarà una sfida importante dei prossimi anni per garantire a tutti pari opportunità di ac- cesso al mercato del lavoro e il pieno godimento dei diritti di cittadinanza. Sappiamo che la crescita dei livelli occupazionali è proseguita in Italia anche nel 2007. Il numero degli occupati ha raggiunto il suo massimo storico. Ma assistiamo anche ad un rallentamento. I segnali che provengono nel primo semestre del 2008, infatti, appaiono in chiaroscuro: la crescita dell’occupazione si attesta ad un +1,2% su base tendenziale, ral- lentando, in misura significativa, una crescita ormai protrattasi per oltre 10 anni. Tutta- via, questo ulteriore incremento del numero dei posti di lavoro è il frutto di una contra- zione dell’occupazione a tempo pieno e di una straordinaria crescita dell’occupazione a tempo parziale. Nell’ambito del lavoro dipendente, inoltre, crescono molto più le occu- pazioni a carattere temporaneo di quelle a tempo indeterminato. Va poi aggiunto che la stessa congiuntura economica ha fatto sì che molta dell’offerta di lavoro addizionale non abbia trovato un’adeguata controparte nella domanda: tra il secondo semestre del 2007 e lo stesso periodo del 2008 aumenta in misura preoccupante il numero di disoccupati, con il relativo tasso che si attesta al 6,7%, specie nel Sud, vale a dire 1,3 punti in più del- lo stesso periodo dell’anno precedente. E torna purtroppo a crescere anche il tasso di di- soccupazione giovanile che supera nuovamente il 20%. In un quadro macroeconomico di stagnazione, la più immediata reattività della domanda di lavoro al ciclo economico, legata alla maggiore disponibilità di forme contrattuali fles- sibili, può determinare un arresto del processo espansivo dell’occupazione. La partico- lare debolezza del nostro mercato del lavoro, almeno nelle Regioni del Mezzogiorno, ri- spetto al nucleo più sviluppato dei partner europei accresce tale rischio. In questi anni, la Strategia di Lisbona ha prodotto nel Paese una spinta fondamentale, che tuttavia non è riuscita ha colmare il gap strutturale che ci separa dalla media europea, a cau- sa in particolare del ritardo meridionale. Possiamo ormai constatare che gli obiettivi in ter- mini quantitativi fissati per il 2010 sono falliti. A pagare lo scotto di questi ritardi continuano ad essere in primo luogo i giovani e le donne. In Italia i 15-24enni presentano gli indicato- ri peggiori di ogni altro gruppo di età, anche per via delle diverse legislazioni nazionali re- lativamente al numero di anni di scuola e all’alternanza scuola/lavoro. Quanto alla componente femminile, la bassa partecipazione al mercato del lavoro, che dipende in larga misura dal- la performance del Mezzogiorno, si associa alla scarsa presenza a livelli decisionali. Si trat- ta di un segmento caratterizzato da forte atipicità sul fronte contrattuale, da un’accentua- ta discontinuità occupazionale (legata soprattutto alla maternità) e dall’inattività, fenomeno che investe le donne in misura doppia rispetto agli uomini. Permane indubbiamente il pro- blema di fondo legato ai servizi di supporto e di cura. Se i parametri europei prevedono che gli Stati membri offrano servizi all’infanzia al 33% dei bambini di età compresa tra 0 e 3 anni, l’Italia non arriva al 10%. È ormai chiaro che la questione vada affrontata secondo un approccio multidimensionale e attraverso politiche mirate di welfare to work. Più in generale, appare necessario che i risultati della flessibilità introdotta nel mercato del lavoro siano accompagnati da politiche capaci di garantire effettiva sicurezza ai lavoratori rapporto isfol 2008 nelle transizioni nel mercato del lavoro, secondo il modello della tutela on the market. In un Paese caratterizzato da un ancora insufficiente base occupazionale (e quindi contributiva), è auspicabile che aumentino rapidamente gli sforzi per implementare un modello di flexi- curity, opportunamente rivisitato in una chiave più consona alle specificità del nostro Pae- se, in grado di fornire ai lavoratori gli strumenti per gestire e superare le fasi di difficoltà. Nuovi soggetti deboli si affacciano nel mercato del lavoro, ai quali andrebbe posta mag- giore attenzione. Come i minori a rischio di povertà; un problema emergente, che ci vede ai vertici della graduatoria relativa alla povertà infantile. L’Italia, inoltre, risulta tra i pae- si con la maggiore intensità di lavoro minorile. Altri segmenti sono invece da tempo al centro della scena politica in Italia e in Europa ma si fatica ancora a trovare soluzione ef- ficaci. È il caso degli immigrati. I flussi di ingresso sono in aumento e riguardano nel no- stro Paese quasi esclusivamente il Centro-Nord, dove risiede più dell’88% della popola- zione straniera; un quarto nella sola Lombardia. Ciò impone all’agenda pubblica di in- dividuare efficaci strumenti volti all’integrazione dei migranti, in modo congiunto tra i diversi livelli di governo. Altra criticità che si delinea con crescente evidenza è quella relativa alle disparità terri- toriali. L’insufficiente tasso di occupazione dell’Italia è dovuto all’insufficiente apporto delle Regioni meridionali, dove il valore è pari al 46,5%, mentre il Nord-Est e il Nord-Ovest presentano tassi superiori alla media europea. I dati mostrano come il dualismo del- l’economia e del mercato del lavoro italiani si sia intensificato. Nel periodo 2000-2007, ad esempio, l’effetto “scoraggiamento” che ha spinto molti lavoratori - soprattutto don- ne - nell’area dell’inattività è cresciuta nel Mezzogiorno dell’8,1%, rispetto allo 0,3% del Nord-Ovest e all’1,7% del Nord-Est. Nel Sud i valori dell’inattività delle donne sono sem- pre superiori al 50%. Una fotografia che rivela anche un bacino potenziale su cui inve- stire in politiche di attivazione. Il tema del federalismo acquista quindi un significato particolare, perché il decentramento delle politiche attive del lavoro si trasformi in occasione di sviluppo dei territori sulla base delle diverse caratteristiche locali. Alla luce della ripartizione di competenze operata dal- la riforma del Titolo V della Costituzione, l’Isfol ha svolto un lavoro di indagine sulle mo- dalità di governance territoriale delle politiche attive del lavoro, da cui è emerso un ruo- lo complessivamente discontinuo dell’Amministrazione centrale nella capacità di garantire il raccordo e la sintesi tra i vari percorsi. A riguardo, appare importante la consapevolezza sottolineata dal Libro Verde che l’efficacia dell’azione di governance delle politiche del la- voro dipenda non solo dalle Istituzioni ma anche dal contributo delle Parti sociali. In tema di istruzione e formazione la lettura dei dati mostra ancora una volta un problema di dispersione che non accenna a calare. Ciò è vero non solo per il segmento iniziale ma anche per il post-obbligo. Si conferma, inoltre, la questione della partecipazione degli adul- ti, sempre troppo bassa rispetto ai parametri europei. Il riferimento all’Europa spinge ad una considerazione di fondo, prima di procedere ol- tre nell’analisi degli andamenti. In questi anni la Strategia di Lisbona ha rappresentato per il nostro Paese uno stimolo importante anche per quel che riguarda le politiche del- la formazione, imponendo un impianto metodologico nuovo, centrato sulla necessità di 11 sintesi 12 ancorare la valutazione dell’intervento pubblico a misurazioni valide e attendibili. Que- sto impulso si è scontrato con un problema storico delle nostre politiche pubbliche re- lativo alla scarsa affidabilità dell’informazione statistica disponibile. Inoltre, solo di re- cente i decisori politici e l’opinione pubblica hanno maturato un interesse verso i dati sta- tistici. Si pensi soprattutto alla scarsa attenzione riservata alle rilevazioni Oecd fino a qual- che anno fa, rispetto all’enfasi che ricevevano in altri paesi dell’Unione europea. L’Isfol ha ultimamente profuso uno sforzo rilevante nel superamento di questa storica difficol- tà. Anche su stimolo della generale presa di consapevolezza rappresentata dall’avvio del- la nuova programmazione dei Fondi strutturali, a partire dal 2005 l’Istituto ha intrapre- so iniziative volte a garantire alla decisione pubblica e al dibattito specialistico flussi di informazioni valide e attendibili. Iniziative che confluiscono principalmente nel Sistaf (Si- stema Informativo STAtistico per la Formazione professionale), la cui realizzazione av- verrà nell’ambito dei Programmi operativi nazionali (PON) del Ministero del Lavoro. Al- tri segnali in questo senso sono rappresentati dal Libro Verde sul futuro delle politiche sociali, che dedica un capitolo preliminare proprio alla questione delle basi informative delle politiche di welfare, e dalla decisione di alcune Regioni di partecipare al PISA (Pro- gramme for International Student Assessment). Quanto all’impulso giunto con la Strategia di Lisbona, esso si è concretizzato in un mo- dello di verifica delle politiche più chiaro e codificato. La certezza che tale impianto con- ferisce ai dati, com’è ovvio, acuisce il senso d’allarme suscitato dalla loro lettura. Ecco la situazione del cammino verso i traguardi per il 2010:  almeno l’85% dei ventiduenni nell’Unione europea dovrebbero aver completato l’istru- zione secondaria superiore: Italia 76,3%, UE 78,1%  il valore medio di persone che lasciano la scuola precocemente non dovrebbe supe- rare il 10%: Italia 19,3%, UE 14,8%  il livello medio nella partecipazione alle attività di apprendimento lungo tutto l’arco della vita dovrebbe essere pari almeno al 12,5% della popolazione in età da lavoro, vale a dire tra i 25-64enni: Italia 6,2%, UE 9,7%  la percentuale di studenti quindicenni con al più il primo livello di competenza in let- tura deve essere ridotto del 20% rispetto ai valori del 2000: si passa dal 18,9% al 26,4% per l’Italia, dal 21,3% al 24,1% per l’intera Unione europea. Nonostante il progressivo avvicinamento agli obiettivi indicati a livello europeo, perma- ne quindi un forte ritardo; tranne il caso dell’università, con il buon risultato relativo alla quota di laureati in discipline matematiche, scientifiche e tecnologiche, e alla presenza fem- minile tra essi. Il dato appare ormai consolidato, così come il riavvicinamento alla me- dia dell’Unione europea per il completamento del livello d’istruzione Isced 3 (seconda- rio superiore) e per il tasso di passaggio al livello Isced 5 (istruzione terziaria accademi- ca e non accademica). Quest’ultima constatazione rimanda a una più ampia tendenza alla crescita della scolarizzazione che si registra ormai da alcuni decenni. Ma la costanza della progressione o l’avvicinamento alle medie europee non possono na- scondere la più generale difficoltà del nostro sistema a immettersi sulla strada la cui de- stinazione è l’economia più competitiva del pianeta, disegnata a Lisbona ormai 8 anni fa rapporto isfol 2008 e già tratteggiata nel 1993 dalla Commissione europea presieduta da Jacques Delors. Dif- ficoltà peraltro comune a quelle di molti paesi partner, non solo tra quelli che partivano dai livelli più bassi. L’andamento dei dati sulle capacità di lettura dei giovani costituiscono il principale indicatore di questa non superata difficoltà. L’obiettivo della Strategia di Li- sbona era di ridurre del 20% i giovani con gravi difficoltà di lettura. Quella quota, in 6 anni è aumentata sia a livello europeo sia a livello nazionale. Tale impressione, del resto, emerge anche dalla disamina di indici contigui a quelli eletti a punti di riferimento. Ad esempio, l’andamento del tasso di scolarità sulla popolazione giovanile disaggregata per età mostra in alcuni casi una riduzione. Infatti, per i quindicenni si passa dal 94,7% dell’anno scolastico 2003-2004 al 93,1% dell’anno successivo, per risa- lire al 93,4% dell’anno scolastico 2005-2006 e ridiscendere al 92,9% dell’anno scolastico 2006-2007. È un dato che può ascriversi all’incidenza di vari fattori, come l’eventuale ri- duzione delle ripetenze. Tuttavia, se si considera anche il limitato aumento di questo in- dice nel passaggio da un anno scolastico all’altro, l’impressione di un andamento alterno trova conferma. Considerazioni analoghe possono essere fatte per il tasso di produttività delle scuole secondarie superiori: si passa dal 71,7% nel 2003-2004, al 70,9% nel 2004-2005, al 71% nel 2005-2006 per tornare al 68,6% nel 2006-2007. Anche in questo caso l’oscilla- zione è notevole, ancorché spiegabile con molteplici ragioni, non ultimo l’uso più o meno restrittivo dei parametri di valutazione agli scrutini o agli esami di maturità. Di contro, pare incrementarsi, più o meno costantemente, la quota di allievi della formazione professionale regionale di livello Isced 3 sui pari età. Questa crescita, se si legge assieme alla distribuzione degli studenti di scuola secondaria per indirizzo di studio, sembra al- meno attenuare la tendenza all’aumento dell’istruzione generalista. Essa infatti non va a discapito degli istituti professionali, le cui iscrizioni rimangono sostanzialmente stabili, con tendenza alla diminuzione. Non sembra ridursi rapidamente né significativamente la quota di quanti intraprendo- no gli studi secondari con l’obiettivo di un inserimento professionale. È il segno che l’evo- luzione del sistema scolastico italiano è coerente con quella degli altri sistemi europei ma rispetto ad essi più rallentata e prudente. Relativamente alla specificità dei vari segmenti della formazione professionale in Italia, il dato più rilevante è rappresentato dall’incremento della quota di popolazione recluta- ta dalla formazione professionale iniziale. Se a ciò si aggiunge la considerazione relativa all’efficacia dei percorsi inclusi nel quadro dell’assolvimento del diritto-dovere o, dal 2007, dell’obbligo d’istruzione, l’impressione di un bilancio positivo assume contorni più net- ti. Questi andamenti, assieme alla domanda crescente da parte degli allievi e delle fami- glie, hanno trovato un puntuale riscontro nel pieno inserimento dei percorsi triennali spe- rimentali nell’ordinamento dell’obbligo di istruzione. Le prospettive dei percorsi trien- nali paiono promettenti, anche alla luce del fatto che l’opzione viene spesso trascurata nel- l’informazione orientativa fornita alle famiglie. Oltre a ciò, restano da dirimere le questioni relative al finanziamento di questa tipologia di offerta: ciò avrà effetti decisivi sul suo dimensionamento e sulla sua diffusione. Porre rimedio a tali problematicità fornirà sicuramente un notevole impulso all’espansione ul- teriore di questo segmento nel sistema di istruzione e formazione professionale. 13 sintesi 14 Un dato altrettanto netto, ma di segno opposto, è quello dell’apprendistato. La situazio- ne della regolamentazione - da anni sospesa tra iniziative ogni volta incomplete e non co- ordinate dello Stato, delle Regioni, dei Contratti collettivi di categoria - ha determinato una situazione di opacità operativa che spesso rende difficoltoso l’accesso alla formazio- ne o il suo proficuo svolgimento. Se a ciò si aggiunge l’insufficiente dotazione di risorse, la conseguenza è agevole a prevedersi: il tasso di copertura, vale a dire il rapporto tra ap- prendisti occupati e apprendisti formati, è in caduta libera da tre anni. Si passa da più del 25% del 2004 al 20% del 2005 fino al 17,4% del 2006. Da qui il giudizio del Libro Verde presentato dal Ministro del Welfare, che afferma che «la formazione in alternanza e l’ap- prendistato non hanno pienamente funzionato». La soluzione prospettata è quella di «ri- scoprire la vocazione formativa dell’impresa», vista potenzialmente come una «risposta giusta rispetto a un sistema di formazione pubblica che non decolla e che non risponde alle esigenze della domanda di formazione da parte di lavoratori e imprese». Sarà que- sto un importante tema di dibattito nei prossimi anni, soprattutto con riferimento alle valenze formative dell’apprendistato e alle reali potenzialità delle imprese in questo cam- po: il diritto alla formazione deve essere garantito almeno attraverso la definizione di li- velli essenziali di prestazione e la predisposizione di opportuni strumenti di controllo e di intervento pubblico in caso essi non siano rispettati. Quanto alla formazione continua, si segnala una pesante carenza di basi informative. Dati certi riguardano la progressiva costruzione del sistema della bilateralità (soprattutto i Fon- di interprofessionali) e le modalità di erogazione dei fondi nazionali. Insufficienti le evi- denze circa i contenuti dei corsi, la loro durata, il livello di partecipazione dei lavorato- ri, i tempi di erogazione dei finanziamenti. L’ipotesi di lavoro prospettata dal Libro Ver- de, anche a proposito della formazione continua, merita attenta e articolata discussione, soprattutto alla luce del fatto che il soggetto preminente nell’organizzazione di queste at- tività formative è rappresentato, già oggi, dall’impresa. Infine, il segmento dell’istruzione e della formazione terziaria non accademica. L’attesa di una definizione normativa e regolamentare è assai forte, se si pensa alle evidenze delle prime an- nualità di IFTS circa l’attrattività di questi percorsi per varie tipologie di utenti e circa la loro capacità di soddisfare esigenze e fabbisogni di imprese e lavoratori. Il frutto di queste espe- rienze confluisce nell’istituzione dei Poli, che rappresenteranno - e in buona parte già rap- presentano - la sedimentazione delle aggregazioni partenariali e il frutto dell’accumulazio- ne di saperi tecnologici legati alle più dinamiche e competitive situazioni di sviluppo loca- le. Va detto che su questo fronte non aiuta la persistente situazione di incertezza giuridica che, dall’approvazione della Finanziaria 2007 e poi della legge 40/2007, incombe su questo seg- mento, in piena ridefinizione assieme all’istruzione tecnica di livello secondario superiore. Da segnalare, comunque, la sempre maggiore attenzione all’intreccio scuola, formazio- ne e lavoro. In sintesi, tra le principali criticità riscontrate sotto il profilo generale - oltre alla scarsa disponibilità di misurazioni attendibili di cui abbiamo già parlato - due aspetti partico- larmente problematici si evidenziano nel Rapporto di quest’anno: le persistenti dispari- tà territoriali e i nodi di sistema a livello di governance. rapporto isfol 2008 Da tempo il sistema di istruzione e formazione italiano appare spaccato, fornendo di sé un’immagine doppia: da una parte efficienza ed alta qualità, con punte d’eccellenza ri- spetto ai partner dell’Unione europea e dell’Oecd posizionate al Nord; di contro, bassa qualità e bassi livelli di performance nelle aree centro-meridionali. In primo luogo, se ve- diamo i dati relativi all’attività della formazione professionale regionale, emerge un qua- dro preoccupante. A fronte del 45% circa della popolazione residente e della metà della forza lavoro, il Nord realizza circa il 76% dei corsi, cui partecipa il 75% degli allievi. Que- sto a fronte di indici di spesa non dissimili tra le diverse Regioni e assai meglio propor- zionati alla popolazione residente. Questa disparità, ovviamente, non risparmia la formazione in apprendistato, il cui tasso di copertura nella media dell’area meridionale del Paese è del 10,2%, non supera il 9,1% nelle Regioni del Centro ed arriva invece al 28,9% del Nord Est e al 17,6% del Nord-Ovest. Né scompare se consideriamo i tassi di partecipazione dei lavoratori alla formazione aziendale e la diffusione dei Fondi Paritetici Interprofessionali. In secondo luogo, ci sono gli aspetti strutturali, come l’accreditamento delle sedi forma- tive. Dall’analisi svolta dall’Isfol sui differenti modelli presenti sul territorio emergono chia- ramente tre Italie: gli approcci più dinamici si trovano nel Nord, i cui sistemi paiono go- vernati con efficienza e risolutezza da strutture amministrative consapevolmente prota- goniste dei processi in atto; un gruppo intermedio è rappresentato dalle Regioni del Cen- tro; mentre le Regioni meridionali conoscono difficoltà e immobilismi ancora assai pe- santi a distanza di 7 anni dall’avvio dell’accreditamento. Analoghi sono i risultati delle in- dagini relative ad altri dispositivi regionali, a dimostrazione di come il Sud rappresenti una vera emergenza: le normative sull’apprendistato, le modalità di pubblicazione dei ban- di e quelle di assegnazione delle risorse, il monitoraggio e la valutazione, le discipline dei sistemi di qualifiche e di certificazione. Un ambito, quest’ultimo, che rappresenta la chiave di volta per garantire la produttività dei percorsi formativi e che vede il nostro Paese muoversi ancora con troppa lentezza. Così come servirebbe ben altra rapidità nel dar vita alle anagrafi degli studenti, strumento fon- damentale per controllare il fenomeno della dispersione. Arriviamo così alla questione della governance. La formazione professionale è uno dei ter- reni su cui tale problematica determina difficoltà assai gravi, che si ripercuotono in ter- mini di inefficienza, stallo organizzativo, iniquità nell’accesso a servizi connessi al godi- mento di fondamentali diritti di cittadinanza. L’ultima codificazione nel nostro ordina- mento, com’è noto, è rappresentata dalla riforma del Titolo V della Costituzione. L’ar- chitettura istituzionale che ne è emersa implica un delicato lavoro di definizione dei li- velli essenziali delle prestazioni e degli snodi di sistema, da svolgersi secondo un regime di concertazione tra Ministeri del Lavoro e della Pubblica Istruzione, Regioni e Provin- ce autonome e Parti sociali. In questi anni, nonostante i numerosi tentativi, esso è rima- sto sostanzialmente irrisolto. Il Libro Verde del Ministro del Welfare offre anche qui una proposta mirata, con l’obiettivo di attuare i principi del Titolo V, rilanciando il processo di definizione dei livelli essenziali e varando un’agenzia che abbia il compito di interve- nire opportunamente nel caso in cui le autonomie locali e funzionali non ne garantiscano il rispetto. In tal modo si compirebbe il disegno riformatore, articolando con maggior chia- rezza le funzioni politiche e amministrative che devono rendere operanti i poteri in cui 15 sintesi 16 si incarna il principio costituzionale della sussidiarietà verticale. Questa netta presa di po- sizione si basa su un altrettanto chiaro giudizio negativo circa le modalità con cui si è an- dato attuando il decentramento nel nostro Paese. Tutto ciò dimostra l’urgenza di un pro- fondo ripensamento della governance del sistema della formazione professionale e dei Ser- vizi all’impiego, laddove la mancanza di una puntuale definizione dei compiti e delle in- terrelazioni tra Stato e Regioni può favorire disparità ed inefficienze. È opportuno quin- di che ai processi di deregolamentazione siano affiancate azioni volte a rafforzare una strut- tura di governo capace di intervenire in un’ottica di sistema. rapporto isfol 2008 Politiche di coesione I nuovi Programmi Operativi (PO) della politica di coesione per il periodo 2007-2013 han- no a disposizione 347 miliardi di euro, la seconda voce di spesa del bilancio comunita- rio e la prima in materia di crescita ed occupazione. Rispetto al passato, si registra un ri- levante aumento dei finanziamenti (intorno al 25%) a sostegno della Strategia di Lisbo- na, che corrispondono ad una media del 65% nei programmi dell’obiettivo Convergen- za e ad una dell’82% in quelli dell’obiettivo Competitività. L’investimento in R&S e innovazione rappresenta circa il 20% dei fondi, mentre l’8% è dedicato alla promozione dello sviluppo aziendale, ad esempio con misure che favoriscano l’imprenditorialità. Forte rilevanza viene data al capitale umano, soprattutto attraverso interventi volti al miglioramento dell’offerta di istruzione e formazione e con un’atten- zione particolare all’apprendimento permanente. Aspetto centrale della nuova pro- grammazione, inoltre, è la volontà di accrescere la partecipazione al mercato del lavoro, specialmente in riferimento alle donne, ai giovani, ai lavoratori più anziani e a quelli poco qualificati. Si è poi rivolto un sostegno maggiore ad ambiti quali l’immigrazione, l’esclusione sociale, lo sviluppo sostenibile; mentre sul fronte della governance si assiste ad un più forte ruolo del partenariato allargato, che oltre alle parti sociali comprende ONG, università, agenzie di sviluppo regionale, rappresentanze sociali, promuovendo anche for- me di cooperazione tra pubblico e privato. Il riferimento alle priorità previste nel regolamento comunitario del Fondo sociale eu- ropeo (FSE) è molto alto in tutti i 27 Stati membri, nonostante combinazioni differenti nella definizione dei PO. Il nostro Paese, da questo punto di vista, si distingue per una di- stribuzione regionale assai accentuata, avendo presentato il più alto numero di programmi. L’analisi dei PO FSE italiani mette in luce l’emergere di temi nuovi: l’invecchiamento at- tivo, la sicurezza sul lavoro, la ricerca di un nuovo rapporto tra flessibilità ed esigenza di stabilità per i lavoratori, il rapporto tra innovazione tecnologica, ricerca e formazione, le politiche di conciliazione, i nuovi diritti di cittadinanza, l’inclusione attiva, la lotta con- tro le discriminazioni, gli strumenti per la qualità della formazione, lo sviluppo di una maggior efficienza nell’azione amministrativa. Sezione 1 Europa 17 18 Intanto, il dibattito sul futuro delle politiche di coesione è già iniziato e si profila la ten- denza sia ad un più marcato decentramento delle competenze, sia ad un maggiore coor- dinamento con le altre politiche comunitarie e con le politiche nazionali. In Italia, ciò può significare l’avvio di una riflessione seria circa il reale impatto dei Fondi strutturali ed in particolare del FSE come occasione non tanto di sostituire risorse nazionali sempre più scarse bensì di introdurre innovazione e qualità. rapporto isfol 2008 La Strategia di Lisbona Nel 2005 la Strategia di Lisbona è stata riorganizzata in cicli di revisione triennale. Il pri- mo periodo ha prodotto risultati importanti. Oltre 87 azioni sulle 102 preannunciate era- no già state realizzate entro la metà del 2007. Per il nuovo periodo 2008-2010 sono stati individuati dieci obiettivi chiave, basati sulle Linee guida integrate per la crescita e l’oc- cupazione. Tre sono i settori prioritari: attirare nel mondo del lavoro un maggior numero di persone, accrescere l’offerta di manodopera e attualizzare i sistemi di protezione so- ciale; migliorare l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese e rendere più flessibile il mer- cato del lavoro; aumentare gli investimenti nel capitale umano, migliorando l’istruzio- ne e le competenze. Le Linee guida integrate per la crescita e l’occupazione sono a loro volta ispirate ai prin- cipi comuni per la flexicurity - approvati dal Consiglio europeo nel dicembre del 2007 - che gli Stati membri sono invitati ad attuare, sulla base dei diversi contesti politici, eco- nomici e sociali. In pratica, ogni paese dovrà individuare la sua specifica via di conciliazione tra politiche di flessibilità e sicurezza. 19 sintesi 20 Apprendimento permanente Riconoscimento delle competenze In materia di trasparenza e riconoscimento di titoli, qualifiche e competenze l’anno ap- pena trascorso è stato segnato da importanti passi avanti, con il varo della raccomanda- zione sull’EQF (European Qualification Framework) nell’aprile 2008 e la progressione del- le proposte sull’ECVET, il sistema europeo per il riconoscimento dei crediti. L’adesione volontaria all’EQF da parte degli Stati membri renderà effettiva tra il 2010 e il 2012 la cor- relabilità e reciproca leggibilità di tutti i titoli e le certificazioni rilasciate in Europa. Intorno ai meccanismi EQF ed ECVET la Commissione ha messo in campo anche una serie di ulteriori iniziative, che nel loro complesso ampliano in modo significativo la pro- spettiva concreta di uno spazio europeo dell’apprendimento permanente (lifelong lear- ning): lo sviluppo di Linee guida relative alla validazione dell’apprendimento non formale e informale, la sempre più ampia diffusione di Europass (portafoglio di documenti per favorire la leggibilità di titoli e competenze), l’adozione delle competenze chiave per l’ap- prendimento permanente, la proposta di raccomandazione relativa alla qualità dei siste- mi educativi. L’Italia, tramite i Ministeri competenti e con il supporto dell’Isfol, ha par- tecipato attivamente al percorso di elaborazione e di lancio di queste iniziative. Anche per il sistema ECVET ci sarà un progressivo percorso di avvicinamento per l’ade- sione entro il 2012. Nel frattempo, si dovrà lavorare all’allestimento delle condizioni strut- turali e culturali perché quest’occasione diventi un reale fattore di crescita per ciascun si- stema paese. In tal senso, sono previste sperimentazioni promosse dalla Commissione eu- ropea (tramite, ad esempio, il Programma Lifelong Learning) o dai singoli Stati in rela- zione agli specifici fabbisogni. Per quel che riguarda l’Italia, iniziative come il Tavolo tecnico per la costruzione del Si- stema nazionale di standard minimi o la sperimentazione nazionale del Libretto forma- tivo del cittadino si muovono lungo queste direttrici ed appaiono allo stesso tempo coe- renti con la filosofia delineata nel recente Libro Verde sul futuro modello sociale, predi- sposto dal Ministero del Lavoro, che vede l’individuo al centro di un sistema di oppor- tunità e tra queste, in primo luogo, la valorizzazione delle competenze acquisite, elemento chiave per favorire e sostenere l’occupabilità del cittadino lavoratore. Europass A tre anni dalla sua nascita Europass si conferma strumento indispensabile alla messa in trasparenza delle competenze maturate dagli individui al fine di renderle più compren- sibili e utilizzabili nella mobilità tra i contesti di apprendimento e il mercato del lavoro. Secondo i dati forniti dal Cedefop, le visite al portale Europass europeo sono state sino ad oggi 11,5 milioni, con circa 18mila accessi al giorno, I curriculum vitae Europass generati o scari- cati on line sono circa 6,4 milioni e l’Italia si colloca in assoluto al primo posto per numero di download. Dal 2005 sono quasi 92mila i documenti Europass Mobility (EM) rilasciati in tutta Europa; nel nostro Paese il centro nazionale Europass - attivo presso l’Isfol - ne ha emes- si circa 12mila, la metà solo nel 2007. Ed anche quest’anno l’Italia si appresta a confermar- si leader per numero di libretti EM rilasciati (sono quasi 5mila al settembre 2008). rapporto isfol 2008 Tuttavia, è comune la sensazione che il potenziale di tale strumento non sia del tutto emer- so e che ancora molto possa essere fatto per accrescere i suoi effetti positivi. La leggibili- tà dei titoli e delle qualifiche in possesso ai singoli individui, ad esempio, oltre che da for- mati comuni dovranno essere sostenuti anche da linguaggi condivisi. Qualità dell’istruzione e della formazione professionale Uno dei punti centrali della strategia messa a punto dall’Unione europea in materia di istruzione e formazione professionale riguarda la qualità dell’offerta formativa, come pre- supposto indispensabile non solo per garantire l’effettiva acquisizione di conoscenze ma anche per promuovere l’occupabilità delle persone. Per questo motivo, dopo un lungo la- voro istruttorio condotto negli ultimi anni dalla Rete europea per la qualità (ENQA-VET), la Commissione ha proposto una raccomandazione - che si prevede possa essere porta- ta all’approvazione definitiva entro il 2009 - specificatamente dedicata a tale ambito. Pren- de corpo un modello di riferimento (l’European Quality Assurance Reference Framework - EQARF) ed alcuni strumenti di supporto operativo che aprono la strada ad un nuovo approccio strategico, rovesciando una filosofia di governo basata finora più sulla defini- zione di procedure che sull’indicazione di obiettivi confrontabili e misurabili. Da segnalare che l’Italia, titolare della vicepresidenza della Rete europea per la qualità, è stato uno dei primi paesi ad istituire il Punto di riferimento nazionale (Reference Point), gestito operativamente dall’Isfol. 21 sintesi 22 Pari opportunità e non discriminazione Agenda sociale Malgrado l’esistenza di un’Agenda sociale per il 2005-2010, il Consiglio europeo ha ri- chiesto una nuova strategia per fronteggiare ampiezza e rapidità dei cambiamenti in atto, con riferimento specifico alla globalizzazione, al mutamento tecnologico e ai cambiamenti demografici. Nel luglio 2008 la Commissione ha conseguentemente presentato un’Agen- da sociale rinnovata, come tentativo di risposta ai problemi di discriminazione che in- vestono ampie fasce di popolazione, dai giovani alle donne, dai lavoratori anziani agli im- migrati e in generale ogni gruppo soggetto a barriere che impediscano il godimento di pari opportunità. Ampia rilevanza è stata data alle problematiche connesse con il progressivo invecchiamento e riduzione della popolazione europea: si prevede infatti un calo del 10% entro il 2050. Immigrazione In tema di immigrazione, da tempo l’Europa insiste sulla necessità di avviare una strate- gia comune e in tale ottica, con il Programma dell’Aia varato nel 2005, sono state stabi- lite dieci priorità da mettere in atto entro il 2009. Ad un anno dalla scadenza, la Commissione ha adottato due iniziative (una Comunicazione sulla politica di immigrazione ed un Pia- no strategico sull’asilo) che completano questo quadro d’azione. Complessivamente, l’im- postazione di massima continua a prevedere il contrasto dell’immigrazione clandestina, la regolamentazione di quella legale e la cooperazione con i paesi di origine. Su queste basi, infatti, è stato predisposto anche il Programma 2007-2013 Solidarietà e gestione dei flus- si migratori, che dispone di quattro fondi: per i rifugiati, per le frontiere esterne, per l’in- tegrazione dei cittadini dei paesi terzi, per i rimpatri. Il fenomeno dell’immigrazione sta assumendo per l’Unione europea una rilevanza sem- pre maggiore: su una popolazione che conta intorno ai 500 milioni di abitanti, circa 27 milioni sono gli immigrati con cittadinanza straniera, che diventano circa 50 milioni se si includono anche coloro che hanno acquisito la cittadinanza presso uno degli Stati mem- bri. La portata dei numeri mostra l’esigenza di approcci non più gestibili dai singoli pae- si europei, soprattutto in una condizione di libera circolazione dei cittadini e di apertu- ra delle frontiere interne. La prospettiva di una politica comune è dunque il presupposto perché l’immigrazione legale possa accrescere il proprio contributo allo sviluppo socioeconomico dell’Unione. Servono regole chiare sui requisiti e le procedure per l’ingresso e il soggiorno nel terri- torio comunitario; strumenti di valutazione dei bisogni del mercato del lavoro europeo; una piena integrazione dei cittadini immigrati. L’Europa invita a non vedere il fenome- no migratorio solo in termini di problema, ma come fattore importante per lo sviluppo della Strategia di Lisbona e quindi come elemento essenziale per incrementare la com- petitività del sistema produttivo. Di qui l’esigenza di una maggiore integrazione dei cit- tadini dei paesi terzi, che può avvenire innanzitutto partendo dall’istruzione. È questo il concetto essenziale del Libro Verde su migrazione e mobilità presentato lo scorso luglio. rapporto isfol 2008 Esistono differenze molto accentuate tra i risultati scolastici degli studenti autoctoni e quel- li di coloro che provengono da famiglie straniere. Ancora più preoccupante è il trend che vede gli studenti immigrati di seconda generazione ottenere performance peggiori della generazione precedente, segno che il divario sociale tra immigrati e nativi si va ampliando con il passare del tempo. Inoltre, sembra acuirsi il fenomeno della segregazione determinata dalla concentrazione di immigrati nelle scuole situate in specifiche zone, con il circolo vi- zioso del calo di iscritti da parte dei ragazzi con situazioni sociali migliori. Ciò determi- na un generale abbassamento della qualità formativa, accrescendo in modo la disparità tra le scuole. Con l’adozione del Libro Verde la Commissione ha inteso aprire un dibattito su queste problematiche, al fine di predisporre un documento che traccerà le linee per una futura cooperazione tra gli Stati membri. 23 sintesi 24 Programmi e iniziative comunitarie Leonardo L’avvio del Programma di Apprendimento Permanente 2007-2013 ha profondamente mo- dificato il contesto di implementazione del Programma Leonardo da Vinci, che è stato in esso integrato. Attivato sotto pressione, in tempi troppo ristretti per poter trasferire tut- ta l’innovazione di cui è portatore, Leonardo ha avuto nel 2007 una domanda di parte- cipazione che si attesta su valori analoghi alla media degli anni precedenti, ma con un li- vello di qualità della progettazione non pienamente soddisfacente. In termini di innovatività, le proposte progettuali non hanno prodotto apprezzabili rotture di continuità con il pas- sato. Ciò ha stimolato nel 2008 l’attivazione di una serie di contromisure a livello euro- peo, come la scelta di ritornare alla struttura pluriennale dei bandi. Complessivamente, negli ultimi anni la maggior parte delle risorse è stata finalizzata a sup- portare la Strategia di Lisbona, finanziando interventi volti a migliorare la qualità dei si- stemi, incrementando le competenze dei formatori o supportando i sistemi educativi e formativi nell’individuazione di strumenti e metodi per rendere trasferibili competenze e qualifiche dei cittadini europei. Nel 2008 il focus è stato posto sull’apprendimento de- gli adulti. Ad oggi, risultano impegnati circa 40 milioni di euro per progetti di mobilità transnazionale e di trasferimento dell’innovazione. Per il 2009, anche se il dato non è ancora definitivo, le risorse utilizzabili dovrebbero attestarsi sui 23-24 milioni di euro. Equal I documenti di programmazione delle politiche di coesione hanno ampiamente attinto dall’esperienza maturata con i circa 3.200 progetti (di cui 700 solo in Italia) dell’inizia- tiva Equal, conclusasi nel giugno 2008. Parole chiave quali partenariato, mainstreaming, cooperazione transnazionale sono transitate direttamente nel Fondo sociale europeo, fa- vorendo un linguaggio comune nonostante le diverse modalità di attuazione in rappor- to al contesto. I principi e le pratiche di successo di Equal continuano, inoltre, a rappre- sentare un’indicazione per la progettazione esecutiva dei programmi FSE. Un esempio di particolare successo è rappresentato dal network dedicato al Sound plan- ning management, di cui il Ministero del Lavoro tramite l’Isfol è stato capofila e che ha aggregato attori istituzionali del Fondo sociale intorno all’approccio metodologico del Project Cycle Management (PCM). Sono state messe a disposizione prassi e strumenti di progettazione, un ambiente tecnologico di comunicazione e condivisione, un mo- dello metodologico formativo ed una comunità di esperti ed operatori, attraverso cui sviluppare nuove iniziative. Nel 2008 il progetto è stato segnalato come buona pratica della programmazione 2000-2006 dal Valutatore indipendente europeo ed incluso dal Ministero della Funzione Pubblica tra i 100 progetti migliori realizzati dalla pubblica amministrazione. rapporto isfol 2008 Principali andamenti Il quadro macroeconomico Dopo quattro anni di ritmi sostenuti, nella seconda metà del 2007 la crescita mondiale ha cominciato a rallentare la sua corsa. In Italia, l’andamento del PIL riflette questa di- namica e passa dall’1,8% del 2006 all’1,5% dell’anno successivo, mantenendo però uno scarto di circa un punto percentuale rispetto alla media dell’area euro. Viceversa, l’aumento dell’occupazione nel nostro Paese appare più marcato nel confronto con i partner europei, sebbene vi sia anche in questo caso un rallentamento dal +1,7% del 2006, al +1% del 2007, fino a meno dell’1% nel primo semestre del 2008. Si continua inoltre a registrare una dinamica piuttosto debole della produttività del lavoro (+0,3%), tanto da poter ritenere che sia stata la maggiore occupazione la principale determinan- te della crescita del prodotto. Si conferma così un modello di sviluppo delle imprese ita- liane caratterizzato da una più alta intensità del fattore lavoro. Non mancano comunque segnali di ristrutturazione del sistema. Vi è, ad esempio, un in- cremento della dimensione media d’impresa, che in Europa si riduce nel 1999-2005 da 6,8 a 6,5 addetti, mentre in Italia passa da 3,7 a 3,9. Si assiste ad un’accelerazione delle ces- sazioni di imprese, che rivela un processo di riallocazione di quote di produzione verso le aziende più capaci di realizzare significative innovazioni nelle strategie aziendali, con impiego di forza lavoro più qualificata, rinnovo della gamma dei prodotti, investimenti sul marchio e internazionalizzazione della produzione e della rete di fornitori. Rispetto alle principali economie dell’UE l’Italia mostra un vantaggio comparativo in ter- mini sia di costo del lavoro orario (pari nel 2004 a 22,99 euro contro i 25,04 della media UE o gli oltre 28 di Germania e Francia) sia di dinamica retributiva, in assoluto la più con- tenuta nelle principali economie sviluppate. Nel 2000-2006 abbiamo nel nostro Paese re- tribuzioni reali nette stazionarie, mentre crescono del 6% in Francia e del 5,7% in Ger- mania, fino a raggiungere l’11% nel Regno Unito. Altra caratteristica del nostro sistema è la forte apertura all’estero: il contributo mag- giore all’incremento del PIL viene dalla domanda estera, a fronte di una debolezza tan- to dei consumi quanto degli investimenti, entrambi in rallentamento nel 2008. Ed an- cora rilevanti sono le debolezze strutturali, in particolare la forte incidenza delle pic- Sezione 2 Lavoro 25 26 cole e piccolissime imprese, che ancora basano larga parte della propria capacità com- petitiva sui costi, investendo poco sull’innovazione (nel 2005 il contributo delle imprese private alla spesa in ricerca e sviluppo era in Italia pari a circa il 50,5%, contro il 63,6% dell’area euro). In conclusione, l’economia italiana rischia di risentire della debolezza della congiuntu- ra internazionale ed attestarsi su livelli di crescita pressoché nulli, con possibili ripercus- sioni anche sull’occupazione. Sembrano quindi opportune misure di sostegno dei con- sumi, attraverso l’aumento del reddito disponibile delle famiglie. In questo senso, le ipo- tesi di intervento sul costo del lavoro potrebbero rappresentare un utile strumento. Nel medio-lungo termine pare comunque fondamentale una riduzione della dipendenza del sistema dalla competitività di costo, a favore di una maggiore innovazione di prodotto e di processo. Mercato del lavoro Venendo agli andamenti specifici del mercato del lavoro, la crescita occupazionale con- tinua in Italia anche nel 2007 (+1%) e con oltre 23 milioni di occupati abbiamo raggiunto il massimo storico. Ma vi sono anche su questo fronte segnali di rallentamento e in pro- spettiva, con un contesto macroeconomico stagnante, la più immediata reattività della domanda di lavoro al ciclo economico - dovuta alla maggiore flessibilità delle forme con- trattuali - fa supporre l’arresto imminente della dinamica espansiva dell’occupazione (al primo semestre 2008 si registra infatti una crescita inferiore all’1%). Il tasso di occupazione è sempre lontano dagli obiettivi di Lisbona e di molto inferiore alla media dei paesi UE: nel 2007 è pari al 58,7% contro il 65,4%. Anche considerando l’insieme dei soli paesi “mediterranei” (cioè, oltre al nostro, Grecia, Portogallo e Spagna) abbiamo comunque il valore più basso in tutti gli anni compresi tra il 2000 e il 2007. Ma a ben vedere, questo dato rappresenta la sintesi tra il forte ritardo delle Regioni meridionali (46,5%) e i tassi superiori alla media europea del Nord’Italia (intorno al 67%). Il dualismo del mercato del lavoro in Italia si accresce. Anche in termini di aumento del- l’occupazione, che nel 2000-2007 segna un +4,7% nel Mezzogiorno rispetto al 9,9 del Nord- Ovest, all’8,9 del Nord-Est e addirittura al 16,8% del Centro. Nello stesso periodo le Re- gioni meridionali hanno avuto un calo molto consistente della disoccupazione (-44% con- tro il 29,6 del Nord-Est, il 19,2% del Nord-Ovest e il 26,4% del Centro) ma - oltre al per- manere di un forte gap con il resto d’Italia (il relativo tasso dell’11% è quasi doppio ri- spetto a quello medio nazionale) - tale andamento appare senza dubbio favorito dal co- siddetto effetto “scoraggiamento”, dietro cui solo in parte si cela il lavoro nero. Nel Mez- zogiorno la percentuale degli inattivi è cresciuta in quello stesso periodo dell’8,1%, var- cando la soglia dei dieci milioni di persone. Nelle Regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est l’incremento è stato rispettivamente di appena lo 0,3% e l’1,7%. La crescita complessiva a livello nazionale è trainata dalla componente femminile, seb- bene si registrino segnali di rallentamento. Le donne continuano comunque a rappre- sentare un segmento debole del mercato del lavoro, rappresentando poco meno del 40% degli occupati. rapporto isfol 2008 Tra tutte coloro che risultano occupate nel 2007 solo il 26,4% era in cerca di lavoro nel 2006, rispetto ad un valore del 35,4% relativo alla componente maschile. E tra le inatti- ve del 2007 ben il 7,6% aveva un lavoro l’anno precedente (contro il 4,1% degli uomi- ni), mentre le disoccupate erano il 44,4% (rispetto al 32,8% degli uomini); evidente se- gnale di una situazione di marginalità perdurante. 27 sintesi 2006 2007 Occupato In cerca di occupazione Inattivo Totale Occupato 93,0 1,6 5,5 In cerca di occupazione 30,7 30,5 38,9 Inattivo 4,6 2,4 92,9 Uomini Occupato 94,4 1,5 4,1 In cerca di occupazione 35,4 31,8 32,8 Inattivo 5,7 2,7 91,5 Donne Occupata 90,7 1,7 7,6 In cerca di occupazione 26,4 29,3 44,4 Inattivo 4,0 2,2 93,8 I flussi nel mercato del lavoro (val. %) Fonte: Panel Isfol su RCFL - Istat Un altro collettivo fortemente penalizzato è poi quello dei giovani. Tra i 15-24enni il tas- so di occupazione non raggiunge il 25% e risulta in calo rispetto al 2000; gli inattivi sono invece aumentati di circa il 10%. Infine, il dato relativo alla produttività del lavoro, che si contrae rispetto alle principali economie europee. Fatta pari a 100 la media UE, nel 1995 la produttività nel nostro Pae- se era 105, scende sotto la soglia nel 2001 ed arriva a 95 nel 2006. Le forme contrattuali L’andamento positivo dell’occupazione tra il 2000 e il 2007 è soprattutto il risultato del- la crescita del lavoro alle dipendenze (+13,3%). E tra i dipendenti il maggiore contribu- to è giunto dal lavoro permanente, in tutti gli anni considerati ad eccezione del 2006. Il peso del lavoro a termine sul totale dell’occupazione rimane contenuto (9,8% nel 2007), sebbene presenti un andamento crescente e più marcate oscillazioni in funzione del ci- clo economico. 28 L’analisi per classi di età evidenzia come nel 2007 il contratto a termine e le collaborazioni siano forme di lavoro riservate prevalentemente alla popolazione più giovane, mentre gli occupati ricadenti nelle fasce di età intermedie rappresentano il segmento più stabile del mercato del lavoro italiano. Maggiormente stabili sono anche gli occupati nel Centro- Nord rispetto a quelli del Mezzogiorno, dove si registra la quota più elevata di dipendenti a termine (13%) e quella più bassa di permanenti (60,3%). Le transizioni dalla temporaneità alla stabilità risultano in aumento per i collaboratori, pro- babilmente a causa dei provvedimenti volti alla corretta applicazione della relativa normativa: tra il 2006 e il 2007 il 14,2% è passato a tempo indeterminato, con un aumento di circa 4 punti percentuali rispetto al biennio 2005-2006; l’11,2% è diventato a tempo determinato, con un incremento del 3%. Sono invece stabili le transazioni relative agli occupati a tem- po determinato: circa un dipendente su 4 viene stabilizzato nel corso di un anno. Vanno comunque evidenziati gli elevati tassi di permanenza sia per le collaborazioni che per il lavoro a tempo determinato: in entrambi i casi, infatti, sono ben oltre il 50% colo- ro che mantengono la stessa tipologia contrattuale dell’anno precedente. Per quel che riguarda i flussi dalla ricerca di lavoro verso l’occupazione si riscontra una contrazione: la quota di chi a distanza di un anno è riuscito a trovare un lavoro passa dal 33% del biennio 2005-2006 al 30,6% di quello 2006-2007. Inoltre, aumentano i flussi dal- la disoccupazione all’inattività: dal 37,3% del 2005-2006 al 38,9% del biennio successi- vo. In sostanza, tra tutti i disoccupati circa il 30% riesce ad ottenere un’occupazione, una fetta analoga continua a rimanere senza lavoro ed il resto finisce nell’inattività. rapporto isfol 2008 2006 2007 In cerca di occupaz. Inattivo Dipendente deter. Dipendente indeter. Indipen. Collab. Dipendente determinato 5,4 11,5 54,9 24,6 1,9 1,7 Collaboratore 3,6 12,0 11,2 14,2 5,7 53,2 2005 2006 In cerca di occupaz. Inattivo Dipendente deter. Dipendente indeter. Indipen. Collab. Dipendente determinato 5,6 11,0 54,7 24,9 2,2 1,6 Collaboratore 5,0 10,9 8,2 10,5 6,8 58,6 Le transizioni nel mercato del lavoro per tipologia di contratto (val. %) Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat - RCFL Collaboratori della gestione separata Inps Relativamente alla gestione separata Inps, il numero degli iscritti è cresciuto tra il 2005 e il 2006 del 6% circa, passando da 1.500.285 a 1.585.913. I cosiddetti “atipici” sono circa 720 mila, poiché non avendo un’ulteriore copertura con- tributiva se ne deduce che svolgano l’attività di collaborazione come occupazione unica (a differenza di amministratori, sindaci di società, borsisti, etc.). Se il reddito medio annuo degli iscritti assomma a circa 15.200 euro, per gli atipici su- pera solo di poco i 9.000. Il part-time Nel 2007 i lavoratori a tempo parziale risultano 3.163.000, con un incremento di oltre 100 mila unità rispetto all’anno precedente e un tasso di crescita più alto di quello dell’oc- cupazione complessiva. Ciò non toglie che tale tipologia rimanga inferiore alla media co- munitaria: il nostro 13,6% di contro al 18,2% dell’UE 27 e il 20,9% dell’UE 15. Il lavoro a tempo parziale si concentra in larga parte nel settore dei servizi, che assorbe l’83% di tutti i lavoratori impiegati tramite questo istituto, nonostante una sua inciden- za sul totale degli occupati pari al 17,1%. Se per gli uomini il part-time rimane una caratteristica transitoria delle prime esperien- ze lavorative, per la componente femminile resta fortemente legato alla conciliazione tra vita privata e lavoro. Tra le donne in cerca di occupazione circa il 31% preferirebbe un lavoro a tempo parziale (nella fascia 35-44 anni si arriva al 42,8%), percentuale che tra gli uomini non supera il 3,8%. A fronte di questa alta richiesta, una consistente quota di lavoratori a tempo parziale (cir- ca il 41%) si dice insoddisfatta della propria condizione lavorativa, segno di un possibi- le mismatch nel mercato del lavoro. 29 sintesi Uomini Donne Solo tempo parziale 2,0 16,5 Preferibilmente tempo parziale 1,8 14,4 Totale tempo parziale 3,8 30,9 Preferenze tra le persone in cerca di lavoro anno 2007 (val. %) Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat, RCFL 30 Lavoro irregolare L’economia sommersa pesa relativamente meno sugli equilibri del nostro Paese. Nel 2006 si è registrata rispetto agli anni precedenti una diminuzione del valore aggiunto prodotto nell’area del “nero”. Valore che oscilla tra un minimo del 15,3% del PIL ed un massimo del 16,9%. Le unità di lavoro non regolari sono stimate in poco meno di 3 milioni, con un calo nel periodo 2000-2006 del 4,6%. Il tasso d’irregolarità si attesta intorno al 12%. Il sommerso, tuttavia, si concentra e accresce la sua portata strutturale nelle Regioni che non riescono ad agganciare i processi di modernizzazione. Restano infatti importanti dif- ferenze a livello territoriale: il tasso di irregolarità nel Mezzogiorno arriva al 19,6%, con- tro una media nazionale del 12,1%. Merita evidenziare a questo proposito come le Regioni meridionali abbiano avviato in- teressanti esperienze per fronteggiare il fenomeno, dai tavoli bilaterali per l’emersione con- certati con le parti sociali agli osservatori locali sull’emersione. Un’indagine specifica sull’occupazione maschile irregolare è stata svolta dall’Isfol nel cor- so dell’anno. Gli irregolari risultano 1.480.000, pari a circa il 58,4% di tutto il sommerso. Le quote più elevate si registrano nel settore dei servizi (64%), nel Sud (50,3%), tra gli ita- liani (69%), in relazione a titoli di studio bassi (55%) e ad un’età superiore ai 30 anni (54%). Il lavoro irregolare e sommerso degli uomini non sembra avere natura occasionale né es- sere di breve durata. Il guadagno mensile risulta inferiore ai 1.000 euro per circa il 78% del campione. Il 38% dichiara di svolgere un’attività a condizioni irregolari perché non ha trovato altro lavoro. rapporto isfol 2008 Fabbisogni professionali La polarizzazione tra alte e basse qualifiche In collaborazione con altri Istituti di ricerca, l’Isfol predispone con cadenza annuale uno sce- nario di medio termine relativo all’evoluzione della domanda di lavoro in Italia. Le proie- zioni per il 2007-2012 stimano che l’occupazione proseguirà nel trend di crescita osserva- to nell’ultimo decennio, con un incremento di circa 1 milione e 200mila unità (pari al 5%). Tale aumento sarà prevalentemente determinato dalle professioni a basso livello di quali- fica (8%) e da quelle alto livello (quasi il 6%); mentre le professioni intermedie si fermano intorno al 3%. Si va quindi accentuando il lento processo di polarizzazione delle professioni. Occorre a tal proposito ricordare che rispetto ad altri paesi europei o agli Stati Uniti, l’Italia presen- ta ancora una quota relativamente bassa di occupati nelle professioni ad alta qualifica, ed in particolar modo in quelle intellettuali e scientifiche, che pesano nel 2007 per circa il 10% contro una media del 13,7% nell’UE 15. Nei prossimi anni le maggiori variazioni occu- pazionali riguarderanno proprio questo gruppo professionale, con una crescita dell’8,7% entro il 2012, dovuto prevalentemente agli specialisti in scienze gestionali, commerciali e giuridiche, cui seguono architetti, ingegneri, ed esperti informatici. Buone performance an- che da parte delle professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi, che do- vrebbero aumentare nei prossimi cinque anni di circa il 6,6%. Le professioni tecniche cre- scono invece del 5,5%, mentre il gruppo degli impiegati non supera il 3,8%, rimanendo al di sotto della crescita media dell’occupazione nel suo complesso. Debole anche l’evo- luzione del gruppo relativo a legislatori, dirigenti ed imprenditori, che sfiora il 2%. La nuova classificazione delle Unità Professionali L’esigenza di mettere in cantiere una classificazione che superasse i limiti di quella stati- stica si avvertiva da tempo. La Cabina di Regia che sovrintende allo sviluppo del sistema dei fabbisogni professionali ha sollecitato l’attuazione di questa iniziativa affidandone al- l’Isfol la realizzazione. La nuova classificazione a cui si è pervenuti è stata denominata No- menclatura delle Unità Professionali (NUP). Il nuovo sistema di rappresentazione è utilizzato anche nel Tavolo istituito presso il Mini- stero del Lavoro per la definizione degli standard professionali, formativi e di certificazione. Occupazione e sviluppo sostenibile Il tema della sostenibilità è divenuto un obiettivo fondamentale della politica europea, con- fermando la centralità delle politiche ambientali nelle strategie di sviluppo e l’esigenza di una maggiore integrazione tra tutela delle risorse naturali, competitività ed occupazione. Le potenzialità dell’ambiente nel mercato del lavoro sono evidenti: l’occupazione ambientale cresce di circa il 41% nel 1993-2007, con un peso rilevante della componente femmini- le (che si raddoppia, passando dal 12,7% al 24,8%). Inoltre, negli ultimi cinque anni il mercato del lavoro ambientale si è caratterizzato per una perdita di consistenza dei lavori scarsamente qualificati, di contro ad un aumento di occupazione legata a professioni intermedie di tipo tecnico e di elevata specializzazione. 31 sintesi 32 Incontro domanda/offerta e servizi per il lavoro I canali di intermediazione Analizzando l’utilizzo dei diversi canali di inserimento lavorativo emergono due profili di utenze, quelle relative ai Centri per l’impiego (CPI) e quelle del canale informale. Nel primo caso si tratta delle persone più in difficoltà: donne, utenti ricorsivi, individui non più giovanissimi, con istruzione medio bassa e modeste rete familiari, ecc. I CPI - così come i concorsi pubblici - svolgono ancora un importante ruolo di inserimento nel Mezzogiorno ed interessano prevalentemente il segmento femminile, mentre il ricorso alle società di somministrazione riguarda soprattutto i giovani con meno di 30 anni. rapporto isfol 2008 Canali Totale % Sud % diploma e laurea del padre Società di ricerca e selezione 0,4 23,0 47,7 Agenzie interinali 1,8 17,2 23,8 CPI o servizi pubblici 3,2 27,1 12,9 Contatti sul lavoro 8,0 24,0 23,4 Avvio di attività in proprio 13,2 30,8 19,2 Concorsi pubblici 19,3 37,7 25,4 Amici, parenti, conoscenti 30,1 28,9 16,2 Incidenza di alcuni canali d’ingresso nel mercato del lavoro (val. %) Fonte: Isfol Plus 2006 Venendo all’intermediazione informale, essa continua a rappresentare in Italia la moda- lità principale per trovare un lavoro, soprattutto nelle aziende più piccole. Tale canale è stato spesso identificato nei termini di uno strumento che migliora il match tra doman- da e offerta di lavoro. Indagini più recenti mostrano tuttavia un fenomeno che merita di essere evidenziato: le persone che entrano nel mercato del lavoro attraverso contatti in- formali ricevono in media redditi più bassi. In pratica, la scelta di abbreviare i tempi di ricerca grazie ad amici e parenti crea il rischio di rimanere “intrappolati” in occupazio- ni in cui si guadagna di meno di quanto si potrebbe, a causa della mancata corrispondenza tra le caratteristiche possedute dal lavoratore e le peculiarità richieste dalla professione. Se CPI ed agenzie interinali presentano livelli retributivi medi inferiori rispetto all’informale, risultano invece più redditizi i contatti generati in precedenti ambiti lavorativi, i concorsi pubblici, l’intermediazione della scuola e la lettura di annunci su stampa. Da oltre 20 anni l’Isfol conduce un’indagine sulle offerte di lavoro qualificato pubblica- te sui principali quotidiani nazionali. Nel 2007 tale richiesta mediante inserzioni “a mo- dulo” ha subito un forte calo, con una variazione negativa su base annua pari al 10,3%; valore che si raddoppia nel caso di offerte con sede nel Mezzogiorno. Le inserzioni riguardano per il 40% il Centro, circoscrizione che segna il suo valore più alto degli ultimi 4 anni (men- tre nelle Regioni settentrionali si ha il livello più basso dal 1994). La professione più ricercata nel 2007 è quella dell’operaio, passando dal terzo al primo posto (con un incremento del 16,9%), seguita a poche unità dall’agente (che viceversa ha subito una contrazione superiore al 18%). La professione più ricercata nel 2006, cioè il venditore, fa registrare un calo del 25%, scivolando in terza posizione. In caduta anche la richiesta di operatori di call center, finita al quinto posto, con un dimezzamento rispetto all’anno precedente. A livello settoriale appare marcata la crescita relativa alle imprese tessili, di abbigliamento, cuoio e pelli (+40,2%); mentre il comparto industriale registra pesanti flessioni (-12,1%). Calo del 13,3% per i servizi, che rimangono comunque il settore con più richieste. La rete informativa La gestione e il monitoraggio del mercato del lavoro avviene attualmente mediante tre di- verse reti informative separate: i Sistemi Informativi Lavoro Regionali (SIL-R), la Borsa Continua Nazionale del Lavoro (BCNL) e il sistema delle Comunicazioni Obbligatorie. L’analisi dei dati relativi all’indagine nazionale censuaria sui Centri per l’impiego ha re- stituito un quadro caratterizzato da una scarsa integrazione tra questi tre diversi sistemi, chiamati a gestire segmenti distinti del processo di trattamento delle informazioni. Tuttavia, un importante volano per la riorganizzazione della rete informativa è stata la definizione degli standard e delle regole per l’effettuazione delle Comunicazioni Obbli- gatorie, che ha reso più concreto il percorso verso un sistema effettivamente in grado di monitorare il mercato del lavoro. 33 sintesi Canali Reddito lordo annuo Reddito lordo orario Ore abituali al giorno CPI o servizi pubblici 16.470,2 11,0 6,8 Agenzie interinali 16.792,0 11,2 7,5 Amici, parenti, conoscenti 18.593,1 11,3 7,5 Concorsi pubblici 23.513,7 15,7 6,8 Contatti sul lavoro 24.246,7 13,3 7,8 Società di ricerca e selezione 24.346,8 12,4 8,3 Avvio di attività in proprio 32.531,3 16,2 9,3 Reddito ed ore per alcuni canali d’ingresso nel mercato del lavoro Fonte: Isfol Plus 2006 34 Servizi per l’impiego Rivolgendo lo sguardo agli anni che verranno si intravedono almeno due ordini di pro- blemi riguardanti il funzionamento dei Servizi per l’impiego (SPI). Uno è di natura eco- nomica: da qui a sette anni, per effetto dell’esaurirsi dei finanziamenti comunitari, il si- stema dovrà trasferirsi su fondi nazionali. L’altra questione tira in ballo il tema della so- stenibilità non solo economica ma anche operativa e quindi relativa alla reale capacità di mettere in campo misure di politica attiva del lavoro. In questo processo sono le funzioni di raccordo a costituire la “cartina di tornasole”. Il pri- mo ambito di osservazione è costituito dal raccordo tra SPI e formazione professionale, ancora parziale poiché interessa circa il 60% delle province italiane e solo il 34,3% di quel- le meridionali. Inoltre, poco più del 54% delle province associa al raccordo anche l’av- vio delle procedure di presa in carico degli utenti disoccupati (20% nel Mezzogiorno); mentre è contenuta a circa un terzo la percentuale di quelle che svolgono azioni proat- tive (11,4% nel Mezzogiorno), ad esempio mediante l’erogazione on demand di pacchetti formativi o la gestione di voucher. La segmentazione territoriale è del tutto evidente, con le Regioni del Sud che rimango- no fortemente distanziate dal Centro-Nord. Il numero di CPI in grado di operare seguendo un disegno di servizio coerente con la nor- mativa nazionale (in particolare il D.Lgs. 181/2000) risulta pari ad appena il 24,2% a li- vello nazionale, per scendere fino al 10% nel Mezzogiorno. Tra le strategie di attivazione dei disoccupati si va affermando nei Centri per l’impiego lo strumento del Patto di servizio, una nuova forma di governance ove al tradizionale ap- proccio burocratico si sostituisce una modalità di management del settore pubblico più orientata al mercato nell’allocazione delle risorse e nell’erogazione delle prestazioni. La diffusione di client contracts - vale a dire accordi tra chi mette a disposizione il servizio e l’utente - solo in alcune Regioni è stato accompagnato dalla previsione di un Piano di Azio- ne Individuale (PAI). Inoltre, va segnalato che i CPI si dimostrano poco disponibili a sanzionare la mancata ac- cettazione di una congrua offerta di lavoro e quindi il Patto di servizio non determina ne- cessariamente un incremento della capacità sanzionatoria degli uffici. Non può quindi essere questo l’unico strumento per combattere comportamenti opportunistici dei be- neficiari. Del resto, anche il recente Libro Verde sul futuro del modello sociale ha sotto- lineato l’esigenza di una «gestione coordinata dei livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi» da affidare «a forme condivise di pilotaggio “centralizzato”». È stata in sostanza ribadita l’esigenza di ricondurre ad un unità l’attuale sistema, che appare polverizzato fra le competenze di svariati attori. Gli operatori privati Relativamente alle Agenzie private per il lavoro (APL), la loro diffusione è progredita ma lo scarto da alcune realtà europee è ancora rilevante: nel 2006 in Italia operavano 90 agen- zie di somministrazione di lavoro, contro le 1.200 della Francia, le 2.100 dell’Olanda e le 5.050 della Germania. rapporto isfol 2008 Una recente rilevazione dell’Isfol mostra come nel nostro Paese vi sia un mismatch tra le figure specializzate richieste dalle imprese e quelle disponibili, probabilmente ad indica- re che le aziende si rivolgono ad agenti intermediatori soprattutto laddove i profili ricercati ne giustifichino il costo. Tra gli elementi di criticità segnalati dalle agenzie emerge la prevalenza di proposte con- trattuali atipiche e la forte presenza del sommerso, nonché le poche opportunità di la- voro destinate all’utenza femminile. Nel complesso, i dati confermano l’esistenza di due sottoinsiemi. Il primo rappresentato dal- le agenzie di somministrazione, che si rivolgono ad un mercato ampio, con profili professio- nali non particolarmente elevati, e in parte in concorrenza con il sistema di intermediazione pubblica. Un secondo che raggruppa le altre agenzie ed interessa un target di lavoratori con professionalità di livello medio alto, non interessati ai servizi pubblici per l’impiego. Decentramento e sviluppo locale Alla luce della nuova ripartizione di competenze scaturita dalla riforma del Titolo V del- la Costituzione, l’Isfol ha svolto una ricognizione delle modalità di governance territoriale delle politiche attive del lavoro. Tra gli elementi più problematici si rileva l’inadeguato ac- compagnamento a livello nazionale di questo processo di decentramento. Il ruolo del- l’Amministrazione centrale è apparso complessivamente discontinuo, non tanto sul ver- sante dell’assistenza tecnica, quanto nella capacità di realizzare iniziative di raccordo e mo- menti di sintesi dei diversi percorsi delineati sul territorio. Nel corso delle due ultime programmazioni delle politiche europee di coesione (1994-1999 e 2000-2006) sono stati realizzati in Italia oltre 900 progetti di sviluppo locale. I Progetti In- tegrati Territoriali (PIT) rappresentano l’esperienza più recente. Si tratta di 144 interventi approvati nelle Regioni del Mezzogiorno, che nel 21% dei casi sono stati destinati alle “ri- sorse umane”, concentrandosi su ambiti quali la flessibilità delle forze di lavoro o il poten- ziamento dell’istruzione e della formazione professionale. I risultati di valutazione dei PIT evidenziano purtroppo che le problematiche di fondo legate all’integrazione tra economie territoriali, politiche per lo sviluppo e politiche della formazione e del lavoro restano di fat- to pressoché irrisolte. Un effetto probabilmente determinato da una bassa conoscenza del mercato del lavoro a livello territoriale e da una scarsa partecipazione di soggetti in grado di programmare interventi di politica attiva in una dimensione locale. Nuove potenzialità sembrano emergere dalla programmazione 2007-2013 e dalla politi- ca dei cluster (Sistemi produttivi locali e Distretti industriali), su cui l’Isfol ha svolto re- centemente un’apposita indagine. Un altro campo che vede l’Istituto coinvolto in prima persona è quello del monitorag- gio relativo all’azione svolta dalle Regioni per contrastare il lavoro sommerso. Il dato generale è rappresentato dal legame tra l’efficacia dell’intervento regionale e la con- tinuità delle attività avviate, l’abilità di integrarle tra loro, la capacità di specificare ancora di più i propri interventi, collegandoli ad un’azione preventiva di analisi del territorio e dei bisogni che esprime. 35 sintesi 36 Specifici target Donne I paesi dell’Europa mediterranea come l’Italia si caratterizzano per l’assenza di forme strut- turate di welfare familiare e per una spesa sociale complessivamente più bassa degli altri Stati europei, con scarse risorse destinate al sostegno delle famiglie. In questi paesi si re- gistrano quote elevate di inattività femminile e una partecipazione discontinua delle don- ne al mercato del lavoro, soprattutto in relazione allo status familiare e alla presenza di figli o persone non autosufficienti. Vi è, inoltre, poca condivisione dei carichi familiari all’interno della coppia e ridotte opportunità di conciliazione tra vita e lavoro offerte dal sistema dei servizi pubblici, dall’organizzazione del lavoro e dalla dinamica dei redditi. In sintesi, sono realtà in cui il nodo tra costi reali e costi opportunità si risolve sfavore- volmente alle donne. Sul fronte opposto si colloca l’area del cosiddetto welfare nordico, dove ad un mercato del lavoro flessibile viene associato un sistema di sostegni nei periodi di transizione, forma- zione e assistenza al reinserimento, che permette di affrontare uno degli aspetti peculia- ri della partecipazione femminile, cioè la discontinuità. Stiamo parlando dei paesi euro- pei dove le donne hanno i più alti tassi di occupazione. Tra questi due estremi si collo- cano gli Stati del welfare continentale, come Germania e Francia. A fronte di tali disomogeneità l’Unione europea ha individuato una linea d’intervento nel- l’ambito della Strategia di Lisbona dedicata proprio all’incremento dell’occupazione fem- minile, in stretta connessione con lo sviluppo dei servizi di supporto alla cura. Tutti gli Stati membri sono stati invitati ad offrire servizi all’infanzia al 33% dei bambini di età compresa tra 0 e 3 anni. L’Italia si attesta sul 9,9%, con ampi divari territoriali che van- no dalla punta minima dell’1,8% in Calabria al 22% in Emilia Romagna. Migliore appare la situazione relativa ad un secondo parametro indicato dall’UE, quel- lo di garantire servizi di copertura al 90% dei bambini dai 3 anni all’età scolare; obietti- vo raggiunto da otto paesi tra cui il nostro. Le rilevazioni dell’Isfol confermano come il tempo speso in attività di cura non lavora- tive e quindi «non riconosciute, non pagate, non valorizzate» segnino ancora oggi un dif- ferenziale di genere enorme. Non a caso, nel mercato del lavoro italiano permangono i ben noti squilibri: il tasso di occupazione femminile supera di poco il 45% (l’obiettivo della Strategia di Lisbona è del 60% entro il 2010) mentre quello maschile sfiora il 70%. Questo valore così basso è in realtà il risultato della scarsa partecipazione femminile nel Mezzogiorno, che detiene il maggiore gender gap su base nazionale. In generale, la relazione delle donne con il mercato del lavoro risente di tre caratteri- stiche talmente radicate da poterle considerare “strutturali”: atipicità, discontinuità, inattività. Un aspetto dell’atipicità riguarda ad esempio le “false collaborazioni”, fenomeno che dal- l’analisi dei dati Isfol Plus risulta avere una sovrarappresentazione femminile. I livelli più elevati di falsi collaboratori sorgono dalla combinazione di tre fattori: genere femmini- le, localizzazione territoriale nel Mezzogiorno e livello di studio elevato. rapporto isfol 2008 Quanto alla discontinuità occupazionale, la causa principale è rappresentata dalla maternità. Una donna su nove - lo si evidenzia già nel Rapporto Isfol dello scorso anno - esce dal mer- cato del lavoro. Sul fronte dell’inattività sappiamo la componente femminile ne è coinvolta in misura qua- si doppia rispetto a quella maschile. È una caratteristica prevalente del mercato del lavoro nelle Regioni meridionali, dove i valori dell’inattività delle donne sono sempre superio- ri al 50%, a dimostrazione di una criticità che fatica a risolversi ma anche di un bacino potenziale su cui investire in politiche di attivazione, attraverso un approccio multidi- mensionale e politiche sempre più orientate al welfare to work. Ad oggi, il tema chiave della conciliazione non ha ancora trovato soluzioni che non sia- no affidate alla sensibilità dei contesti lavorativi o alle sperimentazioni progettuali tem- poralmente limitate, come quelle fornite dalla legge 53/2000, che tra l’altro continua a scon- tare diverse difficoltà attuative. Lavoratori anziani In tema di invecchiamento attivo - ossia le azioni volte a favorire la permanenza nel la- voro delle persone con età più elevata - sono due le principali strade seguite in Europa: la promozione di un’immagine positiva dell’anziano attraverso campagne informative o corsi di formazione; lo stimolo attraverso le organizzazioni locali ad accedere ai servizi di cui questo particolare target di popolazione necessita. Altri importanti ambiti d’intervento si riferiscono ai sistemi di protezione sociale. Per quel che riguarda l’Italia, si riscontra una più frequente e pronunciata aspirazione a lasciare il lavoro appena possibile, spesso per stanchezza o insoddisfazione legate allo svol- gimento delle proprie attività professionali. Le caratteristiche organizzative e le condizioni di lavoro diventano dunque una variabile centrale per contrastare la tendenza della fuga dei lavoratori maturi. Un recente studio Isfol sulle politiche aziendali per l’age management rivela che anche nel nostro Paese sta comunque maturando una maggiore consapevolezza circa il valore dei lavoratori esperti. E mentre nella scorsa programmazione del FSE le Regioni sembra non abbiano valorizzato appieno questo ambito, nei programmi relativi al periodo 2007-2013 emergono interessanti iniziative per contrastare la disoccupazione degli “over” espulsi dal mercato del lavoro o coinvolti da crisi aziendali. Disabili Il Piano d’azione 2008-2009 recentemente presentato dalla Commissione europea ha in- dividuato nell’accessibilità un obiettivo prioritario ai fini dell’inclusione attiva, da per- seguire adottando strategie che associno programmi flessibili, occupazione assistita e mi- sure positive. L’approccio di fondo è quello della flessisicurezza. A livello nazionale, la recente presentazione della IV Relazione biennale al Parlamento sul- lo stato di attuazione della legge 68/99 - per la cui stesura l’Isfol ricopre un ruolo centra- le - è stata l’occasione per fare il punto della situazione in questo campo, con particola- re riferimento agli aspetti relativi al mercato del lavoro. Sotto il profilo numerico, al 2007 il totale degli iscritti agli elenchi unici provinciali del collocamento obbligatorio è di 768.394 37 sintesi 38 individui, quasi 68mila unità in più rispetto all’anno precedente. Da sottolineare la pre- ponderanza assoluta del Mezzogiorno, il cui peso rispetto al volume nazionale di iscrit- ti non è mai sceso negli ultimi anni sotto il 60%. Va però aggiunto che la corretta applicazione di quanto previsto all’art. 2 della legge in questione - che ha introdotto il concetto di collocamento mirato - non rappresenta an- cora una pratica diffusa sul territorio nazionale, limitando ad una porzione del paese (42,3%) la piena costruzione di progetti individuali per le persone con disabilità e la sperimen- tazione di nuove modalità di collaborazione con i datori di lavoro. Notizie positive si registrano comunque dalla lettura delle cifre sugli avviamenti al lavo- ro, che hanno interessato 31.535 persone disabili. Le assunzioni con contratti a tempo in- determinato risultano in 51 casi su 100, con un’incidenza del part-time del 26%. La fles- sibilità dell’orario di lavoro è superiore nei tempi determinati, con il 36,6% di casi regi- strati su base nazionale. Un segmento a sé è poi rappresentato dai pazienti psichiatrici. Si stima che i disturbi men- tali interessino più di un europeo su quattro in età adulta e che siano all’origine della mag- gior parte dei 58.000 suicidi annui, causando più vittime degli incidenti stradali. Le di- sparità sono marcate. Ad esempio, il numero di ricoveri non volontari in istituti psichiatrici è 40 volte maggiore in Finlandia rispetto al Portogallo, determinando conseguentemen- te diverse modalità di intervento. Al pari degli paesi europei, anche nelle Regioni italiane varie esperienze stanno caratte- rizzando il processo di deistituzionalizzazione dei pazienti psichiatrici ed il loro reinse- rimento sociale e lavorativo. Con la dismissione dei manicomi, tali interventi sono de- mandati in primis a strutture territoriali di tipo ambulatoriale o semiresidenziale, men- tre obiettivi complementari esplicano le strutture residenziali ed i reparti ospedalieri. Tuttavia, dall’emanazione della legge 180/1978 mancano ancora oggi disposizioni nor- mative nazionali univoche che uniformino i percorsi di recupero e d’inserimento. Nelle diverse Regioni assistiamo a comportamenti istituzionali difformi, dove spesso sono del tutto aleatori i collegamenti tra gli interventi degli assessorati alla sanità e le politiche for- mative e lavorative. rapporto isfol 2008 Politiche di welfare La programmazione sociale sul territorio Negli ultimi anni il profilo istituzionale delle politiche di assistenza ha fatto registrare la netta accentuazione della rilevanza della dimensione territoriale: in luogo di una gestio- ne centralizzata degli interventi sociali emergono diversi indirizzi relativi al protagoni- smo degli attori del decentramento. Su questo punto il Libro Verde sul futuro del modello sociale ha evidenziato come in tema di gestione della spesa socioassistenziale da parte de- gli Enti locali emergano scelte diverse quanto ad assetti di programmazione ed organiz- zazione, da cui discendono «risultati differenti in termini di efficienza». Tale considera- zione appare particolarmente significativa se si considerano anche i processi di polariz- zazione territoriale tra Nord e Sud dei fenomeni di esclusione e disagio che non accen- nano a diminuire. A livello decentrato lo strumento fondamentale della programmazione sociale resta il pia- no di zona. Il relativo monitoraggio dell’Isfol delinea un quadro fatto di luci ed ombre. Tra le prime vi è la tendenziale soluzione di alcune criticità legate al profilo organizzativo e alla conoscenza del territorio: aumenta la presenza e la diffusione di uffici di piano che hanno competenze specializzate. Non possono invece valutarsi in modo del tutto positivo le stra- tegie di concentrazione della spesa, che appare insufficiente in quanto le dotazioni dei pia- ni non assorbono mai più dei due terzi delle risorse inerenti agli ambiti di riferimento. Quanto alle azioni previste, servizi domiciliari ed interventi di promozione sociale sono tipologie che prevalgono in oltre i tre quarti delle risposte; seguono sussidi economici, servizi semiresidenziali ed interventi volti a contrastare emergenze sociali. L’orientamento complessivo premia il sostegno alle responsabilità familiari e di cura, individuando an- ziani ed infanzia come riferimenti elettivi nell’85% dei casi. Una valutazione di insieme consente di affermare che c’è al livello locale un’espressione delle politiche di inclusione che inizia a strutturarsi. Il tratto negativo è invece il divario tra le diverse Regioni, che vede in affanno proprio quei territori in cui i fenomeni di vul- nerabilità sembrano più consistenti. Minori a rischio di povertà Eliminare la povertà infantile rappresenta una delle necessità emergenti nel panorama del- le problematiche sociali in sede europea. La situazione italiana è sotto questo profilo par- ticolarmente difficile, dato che abbiamo uno dei valori più alti di minori a rischio (24%). E la percentuale sale al 35% se si considerano i minori che vivono in famiglie numero- se, raggiungendo il 40% nel caso delle famiglie monoparentali. Inoltre, il nostro Paese presenta una forbice molto significativa del tasso di povertà in- fantile tra Nord e Sud, che permette di spiegare la deludente posizione dell’Italia nelle sta- tistiche europee. Immigrati In tema di immigrazione l’aspetto che maggiormente preoccupa i paesi europei è l’enti- tà dei flussi che anno dopo anno sono destinati ad aumentare. Nel nostro Paese la con- 39 sintesi 40 sistenza del fenomeno viene stimata in modo diverso dalle fonti fin qui disponibili. Se si analizzano i dati della Caritas al gennaio 2007 risultano in Italia circa 3 milioni e 700 mila stranieri, pari al 6,2% della popolazione complessiva (contro una media dei paesi UE del 5,6%) e in continua crescita (+21,6% rispetto all’anno precedente). Secondo i dati presentati dal Ministero dell’Interno gli stranieri con permesso di soggiorno sono quasi 2 milioni e mezzo, con aumenti considerevoli per quelli provenienti dall’Eu- ropa Centro-Orientale. Questa presenza non è diffusa in modo omogeneo su tutto il territorio italiano. Gli im- migrati nel Mezzogiorno sono pochi, mentre nel Centro-Nord vi è una forte concentra- zione (secondo l’Istat più dell’88% del totale, un quarto nella sola Lombardia, seguita dal Veneto). Relativamente alla forza lavoro, gli stranieri ammontano a quasi 1 milione e mezzo (di cui l’8,6% disoccupati), per quasi due terzi concentrati nel Nord, per un quarto nel Cen- tro e per circa il 10% nel Mezzogiorno. Il 7% del PIL è prodotto da cittadini stranieri, in- seriti soprattutto nell’edilizia, nella ristorazione, nell’industria, nel settore dei servizi (in particolare nelle pulizie e nel lavoro domestico). Sono solo quattro le Regioni che all’inizio del 2008 risultavano aver recepito il Testo Uni- co sull’immigrazione e su di esse è stata svolta un’indagine mirata, da cui emerge un sod- disfacente grado di radicamento degli immigrati nel tessuto sociale, dato che vi è in me- dia una permanenza in Italia di oltre 8 anni. La maggioranza degli stranieri risiede in aree periferiche (quasi il 40% del totale). Oltre la metà risulta in affitto e circa il 13% proprietario. È proprio la casa l’ambito di intervento strategico degli interventi messi in atto sul ter- ritorio. Tutte e quattro le Regioni hanno adottato una serie di misure che sostengono le politiche abitative. Un ulteriore elemento di attenzione è rappresentato dai percorsi di for- mazione (vi ha partecipato il 40% degli immigrati), cui sono strettamente legate le azio- ni per l’inserimento lavorativo. Gli strumenti più utilizzati per la ricerca del lavoro sono costituiti dalle relazioni svilup- pate con amici e parenti provenienti dal paese di origine (quasi i due terzi del totale). rapporto isfol 2008 Evoluzione complessiva Gli indicatori di riferimento L’analisi dei livelli di partecipazione alle attività del sistema educativo e formativo mo- stra che i paesi in grado di raggiungere in tutto o in parte gli obiettivi della Strategia di Lisbona sono quelli che partivano già nel 2000 con i migliori “fondamentali”, mentre nes- suno Stato membro che era svantaggiato in partenza è riuscito a capovolgere questa si- tuazione. Il ritardo italiano, non a caso, è rimasto tale nonostante l’evoluzione positiva dei principali indicatori. Una performance particolarmente buona si riferisce al tasso di successo nella scuola se- condaria superiore da parte dei giovani 20-24enni, oggi pari al 76,3% (il benchmark di Lisbona è l’85% entro il 2010). L’andamento del numero di coloro che riescono a con- seguire il titolo mostra la progressiva riduzione del divario con il dato medio europeo: da -7,2% del 2000 a -1,8% del 2007. Altro risultato confortante è l’incremento dei lau- reati in discipline matematiche, scientifiche e tecnologiche (MST), campo in cui l’Italia è uno dei paesi che ha fatto registrare i migliori risultati. Tra le problematiche più evidenti spicca invece il tasso di abbandono scolastico e formativo dei giovani 18-24enni, che rimane circa il doppio rispetto al 10% fissato a Lisbona; non- ché la modesta partecipazione degli adulti alle attività di lifelong learning (LLL). Quest’ultimo aspetto appare tanto più grave considerando il basso livello di qualificazione della po- polazione italiana tra i 25 e i 64 anni: ad avere un titolo di istruzione secondaria supe- riore è solo il 52,3%, circa 20 punti percentuali in meno rispetto al dato medio europeo e addirittura 40 in confronto ai paesi di punta in questo campo. Sezione 3 Formazione 41 42 La scolarizzazione complessiva della popolazione italiana continua a crescere grazie alle nuove generazioni. Tra i 14-18enni oltre il 92% frequenta le superiori, con un leggero ma costante incremento nel corso degli anni. Nella stessa fascia d’età aumenta anche la per- centuale degli iscritti ad un corso di formazione professionale (FP) iniziale, che nell’an- no formativo 2006-2007 è arrivata al 4,3% (+1% rispetto all’anno precedente). E sale tra i 19-24enni il numero di coloro che hanno frequentato un corso di FP post secondaria, passando dall’1% all’1,4%. Nell’ultimo biennio, dopo alcuni anni di espansione delle immatricolazioni, sembra in- vece tornare a scendere la percentuale dei giovani che scelgono di proseguire il proprio percorso di studi iscrivendosi all’università. Il grado di partecipazione rimane tuttavia buo- no. Nel 2007-2008 il tasso di immatricolazioni per 100 coetanei 19-20enni risulta del 55,4% ed il complessivo tasso di iscrizione rispetto alla popolazione 19-23enne del 60,3%. In sintesi, il sistema formativo italiano lavora tra i giovani pressoché a pieno regime sino al termine della scuola secondaria di primo grado, con buoni risultati nel segmento suc- cessivo (portando l’Italia in piena media Ocse per quanto riguarda il grado di istruzio- ne secondaria superiore tra le giovani generazioni), relativamente bene anche a livello uni- versitario, nonostante alcuni aspetti critici. Nel suo insieme, si innalza il complessivo grado di qualificazione della popolazione e al tempo stesso della forza lavoro: per la prima volta in Italia la quota di forza lavoro che ha almeno un titolo di scuola secondaria superiore ha raggiunto il 60%; e la percentua- le in possesso di un titolo universitario è salita al 15,7%, con un incremento annuo di set- te decimi di punto. rapporto isfol 2008 2000 2007 Italia UE 27 Italia UE 27 Abbandono scolastico e formativo (a) 25,3 17,6 19,3 14,8 Conseguimento istruzione secondaria superiore dei giovani (b) 69,4 76,6 76,3 78,1 Partecipazione ad attività di LLL (c) 4,8 7,1 6,2 9,7 Numero di laureati in discipline MST (d) +70,7 +25,9 di cui percentuale di donne 36,6 30,8 37,1 31,2 Benchmark europei (val. %) a) Tra i 18-24enni, benchmark non oltre il 10%. b) Tra i 20-24enni, benchmark almeno l’85%. c) Tra i 25-64enni, benchmark almeno il 12,5%. d) Aumento del 15% rispetto al 2000 e riduzione squilibrio di genere. Fonte: Commissione europea DGEAC, Eurostat, Crell, Ocse/PISA I veri tasti dolenti, su cui le politiche attive dovranno concentrarsi, rimangono due. Da una parte i bassi livelli di qualificazione delle generazioni ultratrentacinquenni, cui si as- socia una scarsa propensione alla partecipazione ad attività educative e formative. Dal- l’altra gli ancora troppo alti livelli di dispersione. Nel 2006-2007 l’1,6% degli studenti del- la scuola secondaria di secondo grado ha abbandonato precocemente il percorso educa- tivo (3,6% negli istituti professionali, contro lo 0,2% dei licei). A ciò va aggiunta la persistenza di percorsi scolastici accidentati. Uno studente su quat- tro risulta in ritardo di almeno un anno (con punte attorno al 45% negli istituti profes- sionali) e solo uno su due viene ammesso senza debiti formativi alla classe successiva. Nel 2006-2007 tra tutti gli studenti iscritti al primo anno delle superiori è arrivato al di- ploma il 68,6%, in calo rispetto al 70,4% registrato in entrambi i due bienni precedenti. Questo indicatore (tasso di produttività) sale nei licei all’81,7% e crolla al 50% negli isti- tuti professionali. La licealizzazione Nell’anno scolastico 2006-2007 il complesso degli iscritti alla scuola secondaria superio- re è cresciuto dell’1,4%, segnando un +6,1% rispetto al 2000-2001. Si conferma il trend di contrazione dell’istruzione tecnica, anche se il fenomeno sembra diminuire leggermente di entità rispetto agli scorsi anni. Di contro, prosegue l’incremento sul fronte licei, con un aumento del 4,4% dal 2000. Gli studenti liceali (33,4%) sono ormai ad un solo pun- to percentuale da quelli dell’istruzione tecnica (34,4%). Considerando solo gli iscritti al primo anno delle superiori (al netto delle ripetenze) il sorpasso dei licei è invece una realtà di fatto: 34,2% contro il 32,4% degli istituti tecnici. I riflessi sulla partecipazione totale si vedranno tra qualche anno. 43 sintesi 2001 2005 2006 2007 Popolazione di 15 anni e oltre Senza titolo e con licenza elementare 30,9 27,7 26,6 25,9 Con licenza media 32,8 31,3 31,5 31,5 Con titolo di studio di s.s s. 29,1 31,9 32,2 32,4 Con titolo di istruzione universitaria 7,2 9,1 9,7 10,2 Forze di lavoro Senza titolo e con licenza elementare 12,0 8,7 7,9 7,3 Con licenza media 36,0 33,3 32,9 32,6 Con titolo di studio di s.s s. 40,1 43,6 44,2 44,3 Con titolo di istruzione universitaria 11,9 14,4 15,0 15,7 Livelli di istruzione (val. %) Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat 44 L’università Nel 2007-2008 rispetto all’anno accademico precedente la variazione del numero degli immatricolati è pari ad un +5,6%. Il gruppo scientifico presenta una variazione del 12,2%. Anche i gruppi di ingegneria-architettura e statistico-economico presentano una performance positiva: i primi aumentano di 5,1 punti percentuali e i secondi di 11,2. In diminuzione risultano, invece, le immatricolazioni ai corsi del gruppo medico (-10,6%), politico-so- ciale (-6,1%) e giuridico (-15,2%). Infine, il 25,4% degli immatricolati ha scelto un cor- so di laurea del gruppo letterario, linguistico e psico-pedagogico, facendo registrare un aumento del 9,2%. L’83,4% delle immatricolazioni riguardano corsi di laurea di 1° livello (dove le donne sono il 55,1%). Quanto agli iscritti, nell’anno accademico 2007-2008 prosegue il processo di “naturale” riduzione di quelli relativi al diploma universitario, alle scuole dirette a fini speciali, ai cor- si di laurea del vecchio ordinamento. Tra le nuove tipologie di percorso, gli iscritti ai cor- si di laurea di 1° livello rappresentano oggi il 63,2% della popolazione universitaria, con un leggero aumento rispetto all’anno accademico precedente. Si consolida anche l’aumento degli iscritti ai corsi di 2° livello (laurea specialistica), sebbene in maniera rallentata. Le nuove tipologie di corsi presentano variazioni tutte positive nel numero di titoli rilasciati. rapporto isfol 2008 Totale 1° anno 2005-06 2006-07 2005-06 2006-07 Ist. Professionali 20,6 20,4 21,9 21,9 Ist. Tecnici 35,1 34,4 32,6 32,4 Licei 32,5 33,4 33,8 34,2 Istruzione Magistrale 7,9 8,0 7,8 7,9 Istruzione Artistica 3,9 3,8 3,8 3,7 Studenti iscritti alle scuole secondarie superiori Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat e Ministero Pubblica Istruzione La formazione professionale regionale L’andamento delle attività formative delle Regioni è stato caratterizzato negli ultimi anni da significative oscillazioni in relazione al numero dei corsi. Nel 2006-2007 si registra un calo, presumibilmente legato alla progressiva diffusione dello strumento della formazione a domanda individuale. Di contro, c’è il rimarchevole risultato in termini di allievi forma- ti, che hanno raggiunto il massimo storico, superando i 986.000. Segnale senz’altro positi- vo della maggiore capacità di diffusione della formazione professionale. In particolare, l’in- cremento maggiore si ha in riferimento ai percorsi che prevedono un numero consistente di ore (formazione iniziale di primo e secondo livello) e rivolti alle categorie svantaggiate. Al Nord si realizzano più del doppio dei corsi rispetto al resto d’Italia, con il triplo degli allievi in quasi tutti i segmenti del sistema. È un quadro noto, ma oggi ancor più evidente: la quota di attività svolta nelle Regioni settentrionali rappresenta nel 2006-2007 il valo- re massimo della sua serie storica. La percentuale di attività finanziata con le risorse comunitarie è nella media nazionale poco più del 50% del totale. Il dato nasconde profonde differenze a livello regionale: nel Nord si hanno valori che solo in rari casi superano il 70%; mentre nel Centro e soprat- tutto nel Mezzogiorno tale quota è assai più alta (tranne la Sicilia, con il 59,3%), sino al caso limite di Molise e Campania con il 100%. Nel 2006-2007 il 4% della forza lavoro nazionale è stato coinvolto dalla formazione pro- fessionale regionale, segnando un incremento annuale dell’1,2%. Anche in questo caso emergono le forti disparità regionali, con il Nord al 6%, il Centro al 2,1% e il Sud all’1,9%. 45 sintesi Val. assoluti Val. % Var. % anno precedente Diploma universitario/Sdfs 1.337 0,1 -37,9 Laurea vecchio ordinamento 191.846 10,7 -28,8 Laurea di base (1° livello) 1.137.626 63,2 0,7 Laurea specialistica a ciclo unico 137.677 7,7 7,6 Laurea specialistica (2° livello) 229.685 12,8 8,3 Laurea magistrale 100.870 5,6 49,0 Iscritti all’università, a.a. 2007-2008 Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Ministero dell’Università e della Ricerca 46 Venendo alla spesa sostenuta dalle Regioni per la FP, i dati relativi alle previsioni inizia- li mostrano per il 2008 un forte aumento rispetto all’anno precedente: 3,5 miliardi di euro (oltre 1 miliardo in più rispetto al 2007, dovuto principalmente all’assegnazione delle do- tazioni FSE). Le previsioni finali risultano sempre superiori del 10-20% rispetto a quel- le iniziali. La capacità di impegno appare invece ridotta nel 2006 (71,6%) rispetto al 2005 (74,4%); così come la spesa effettiva. La spesa media per unità di forza lavoro è pari a circa 96 euro, in calo nel Centro-Nord e con un incremento dell’11,9% nel Mezzogiorno. rapporto isfol 2008 Nord Centro Sud 1° livello o di base 87.553 12.576 27.818 2° livello 119.443 12.686 37.141 Disoccupati 21.308 4.123 12.857 Occupati 438.690 51.267 49.241 Sogg. a rischio di esclusione 47.706 7.896 7.973 Altri 28.342 17.599 1.977 Totale 743.042 106.147 137.007 Numero allievi della FP per ripartizione geografica, anno 2006-2007 Fonte: Elaborazione Isfol su dati regionali 2004/05 2005/06 2006/07 1° livello o di base 101.161 125.501 127.947 2° livello 168.413 88.956 169.270 Disoccupati 54.511 48.882 38.288 Occupati 506.721 332.318 539.198 Sogg. a rischio di esclusione 82.785 38.207 63.575 Altri 7.584 63.308 47.918 Totale 921.175 697.172 986.196 Numero allievi della formazione professionale Fonte: Elaborazione Isfol su dati regionali La partecipazione degli adulti al lifelong learning Rispetto all’obiettivo europeo del 12,5%, la partecipazione della popolazione adulta (25- 64enni) in età lavorativa ai percorsi di qualificazione è stata nel 2004 del 6,3%, per de- crescere nel 2005 al 5,8% e risalire poi nel 2006 al 6,1%, attestandosi nel 2007 sul 6,2%. A prevalere è la componente femminile, il segmento relativo a chi ha titoli di studio me- dio-alti, la fascia d’età dai 25 ai 34 anni. La Regione Lazio, le Province autonome di Bolzano e Trento, il Friuli Venezia Giulia e l’Um- bria registrano tassi di partecipazione molto più elevati della media nazionale (intorno al 7-9%), mentre sul fronte opposto si trovano Regioni come la Valle d’Aosta e la Sicilia, che non raggiungono il 5%. 47 sintesi 4% 5% 6% 7% 8% 9% 10% Pie mo nt e Va lle d' Ao sta Lo mb ar dia Bo lza no Tr en to Ve ne to Fr iu li Lig ur ia Em ilia Ro ma gn a To sc an a Um br ia M ar ch e La zio Ab ru zzo M ol ise Ca mp an ia Pu gl ia Ba sil ica ta Ca lab ria Si cil ia Sa rd eg na 2004 2005 2006 2007 Andamento della partecipazione di adulti ad attività di LLL Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat - Forze di Lavoro Un’evoluzione interessante della formazione a domanda individuale (valorizzando l’espe- rienza dei voucher) si è recentemente posta come strumento integrato di lifelong learning: si tratta del Catalogo Interregionale di Alta Formazione, principalmente rivolto ad un tar- get di cittadini con un livello di istruzione medio-alto. La sua realizzazione è stata avvia- ta nel 2008 a partire dal Protocollo d’intesa siglato nel 2006 tra il Ministero del Lavoro e la Regione Veneto, capofila del progetto, cui hanno poi aderito molte altre Regioni. 48 Formazione iniziale, IFTS, apprendistato I percorsi triennali Il difficile processo avviato circa dieci anni fa con l’introduzione dell’obbligo formati- vo ai 18 anni di età e a seguire con la legge 53/2003 sul diritto-dovere all’istruzione e for- mazione ha vissuto alterne vicende. In particolare, il ruolo della formazione iniziale e il relativo sistema di governance è rimasto un nodo irrisolto di una lunga diatriba isti- tuzionale tra poteri centrali e locali, relativamente all’attribuzione delle responsabilità di gestione del sistema. I percorsi triennali di istruzione e formazione iniziale - avviati con l’Accordo Stato-Re- gioni del giugno 2003 e attraverso i quali si consegue una qualifica di livello nazionale - rappresentano una realtà estesa quasi ovunque; sono infatti poche le Regioni che hanno scelto di puntare esclusivamente sul sistema scolastico per la realizzazione del biennio del- l’obbligo d’istruzione e per il successivo conseguimento della qualifica. Gli elementi di mag- giore differenziazione riguardano: la titolarità dell’intervento formativo (agenzie o scuole), la tipologia di risorse (docenti della scuola o formatori), gli accordi e le moda- lità di interazione tra le strutture scolastiche e le agenzie formative in relazione alla pro- gettazione integrata. I dati del monitoraggio condotto dall’Isfol mostrano nel complesso una crescita costan- te dell’offerta: si passa dai 4.032 corsi registrati nell’anno 2004-2005 ai 6.838 del 2007- 2008; nello stesso periodo la quota di allievi coinvolta nei percorsi triennali è aumenta- ta dell’81%, arrivando oggi a 130.431 giovani. In quest’ultimo anno, il 73,2% degli allievi risulta iscritto presso le agenzie formative, men- tre il 26,8% (+1,6% rispetto all’anno precedente) nei percorsi scolastici integrati con at- tività di formazione professionale. Le Regioni che totalizzano il maggior numero di al- lievi sono Lombardia (34.973), Piemonte (17.156) e Veneto (15.161). Cresce anche il numero degli studenti dei percorsi di 4° anno (+41,9%) che preparano i diplomati tecnici e in modo particolare in Trentino Alto Adige e Lombardia, dove i per- corsi si snodano in alternanza, con la collaborazione delle realtà imprenditoriali locali. rapporto isfol 2008 Percorsi nei CFP Percorsi a scuola Tot. percorsi Iscritti ai CFP Iscritti a scuola Tot. iscritti 5.111 1.727 6.838 95.443 34.988 130.431 Partecipazione ai percorsi triennali ex Accordo 19/06/2003, 2007-2008 Fonte: Elaborazione Isfol su dati amministrazioni regionali Il fenomeno della dispersione Nonostante il grave deficit informativo circa il fenomeno della dispersione formativa, an- che per l’anno 2007 l’Isfol ha cercato di ricostruire uno scenario quanto più vicino alla situazione reale: tra i 14-17enni si evidenzia un numero di dispersi che sfiora quota 120 mila unità, pari ad oltre il 5% del totale dei giovani in diritto-dovere. Per stimare il nu- mero complessivo dei giovani non inseriti nei percorsi formativi bisogna però aggiun- gere anche la grande maggioranza di apprendisti in diritto-dovere, poiché solo una pic- cola percentuale è impegnata in attività formative al di fuori delle imprese. Si arriva così ad una stima di circa 150-155 mila giovani non inseriti in alcun percorso formativo for- malizzato. Evidenti sono le disparità territoriali. Il numero di iscritti presso i Centri di formazione professionale (CFP) è assai più ampio al Nord (8%) che al Centro (1,7%) e al Sud (1,9%). L’apprendistato relativo al diritto-dovere risulta praticamente inutilizzato nel Mezzogiorno, mentre nelle Regioni settentrionali interessa tra il 2,6 ed il 2,8% della popolazione in età di diritto-dovere. Il fenomeno della dispersone si concentra al Sud, dove coinvolge 8 ra- gazzi su 100, contro il 4,1% del Centro e il 3,9% del Nord-Ovest, fino all’inconsistente 0,6% del Nord-Est. Sul totale complessivo di dispersi in Italia il 66% risiede nel Mezzogiorno. 49 sintesi Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Totale Iscritti a scuola 84,7 88,8 92,5 89,2 88,7 Iscritti ai CFP 8,6 8,0 1,7 1,9 4,4 Con contratto di apprendistato 2,8 2,6 1,6 0,9 1,7 Nessun percorso 3,9 0,6 4,1 8,0 5,1 Percorso formativo in cui sono inseriti i 14-17enni, 2007-2008 (val. %) Fonte: Elaborazione Isfol su dati MIUR, dati regionali, dati Istat Tra i nodi irrisolti del mancato recupero dei giovani fuoriusciti dai percorsi formativi vi è la questione informativa, poiché la loro individuazione può avvenire solamente attra- verso un censimento completo e continuo della popolazione soggetta all’obbligo di istru- zione e al diritto-dovere. L’analisi del numero di giovani censiti all’interno dei sistemi ana- grafici regionali e provinciali nel 2007 evidenzia un dato preoccupante: a fronte di 984 mila giovani individuati all’interno dei tre percorsi previsti per legge, oltre 1 milione e 330 mila giovani tra 14 e 17 anni non sono stati censiti dai sistemi informativi. D’altro can- to, solo 10 tra le 21 amministrazioni regionali e delle province autonome dispongono di un’anagrafe centrale. Per quel che riguarda le misure di accompagnamento per i minori realizzate dai Centri per l’impiego si osserva una situazione in evoluzione, con un incremento a livello nazionale (2%) ed una forte caratterizzazione per area geografica: la quota più numerosa di Cen- tri attivi si concentra nel Nord-Ovest (94%), mentre sono al di sotto della media nazio- 50 nale (circa l’80%) i valori relativi alla ripartizione meridionale. In riferimento ai servizi, quelli di livello elementare sono prevalentemente di carattere informativo (84,7%) e di accoglienza (82%), entrambi in crescita, così come i servizi di orientamento. Rispetto ai servizi di livello avanzato si rileva invece un’intensificarsi delle attività di monitoraggio (+7,4%), mentre permangono alcune criticità relativamente al tutorato. La presenza di strutture in grado di erogare servizi di livello avanzato si concentra comunque nella ripartizione settentrionale (in particolare nel Nord-Est) e nel Centro. Nel Mezzo- giorno la capacità di offerta di servizi si colloca invece ben al di sotto della media nazio- nale, comportando di fatto l’esclusione di una fetta ancora molto ampia di utenza dal- l’opportunità di fruire di servizi avanzati. rapporto isfol 2008 Servizi Italia Nord-Ovest Nord-Est Centro Acquisizione dati 79,9 90,7 84,8 87,5 Accoglienza 82,0 89,9 87,5 91,9 Informazione 84,7 91,7 88,4 90,9 Orientamento 79,9 85,2 87,5 88,6 Tutorato 62,0 69,2 83,9 72,7 Monitoraggio 72,0 82,4 84,8 81,8 Distribuzione dei CPI per tipologia di attività realizzata e ripartizione territoriale (val. %) Fonte: Isfol Di particolare interesse risultano i dati relativi ai giovani che, a seguito delle azioni dei CPI, sono stati inseriti nei percorsi previsti per l’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione e formazione: nel 2007 si è infatti verificato un aumento considerevole (22.525 giovani inseriti nella FP e 32.324 nell’apprendistato), con l’eccezione dei reinserimenti nei per- corsi scolastici (3.158 inseriti). FormazioneTecnica Superiore In Italia la Formazione Tecnica Superiore è stata investita negli ultimi quattro anni da un processo di riorganizzazione complessiva. In particolare, con l’istituzione dei Poli formativi per l’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS) si è voluto assicurare la qualità dell’offerta e accrescere la spendibilità dei titoli acquisiti. I Poli formativi IFTS sono at- tualmente 115 (di cui 31 nel Mezzogiorno, 16 al Centro e 68 al Nord), più 11 in via di co- stituzione (di cui 10 nel Mezzogiorno ed 1 al Nord). Un’ulteriore novità riguarda l’inclusione all’interno dell’ordinamento nazionale del- l’istruzione dei percorsi per la Formazione Tecnica Superiore che si realizzeranno mediante la costituzione degli Istituti Tecnici Superiori, come alternativa agli studi universitari per i giovani e gli adulti intenzionati a conseguire una specializzazione elevata. I dati relativi all’offerta di Formazione Tecnica Superiore restituiscono complessivamente l’immagine di un sistema ancora in fase di sviluppo. I numeri delle attività corsuali sono in calo (144 corsi IFTS nel 2006-2008 contro i 388 nel 2004-2006) ed appaiono insuffi- cienti soprattutto se confrontati con l’ampio bacino di utenti potenziali e con le crescenti richieste da parte delle imprese di tecnici di livello intermedio. Apprendistato La necessità di riformare l’istituto dell’apprendistato è ormai evidente e ad esso, infatti, è stato riservato un riferimento specifico nel Libro Verde sul futuro del modello sociale, dove ci si interroga sulle ragioni del mancato decollo di questo strumento, che “non ri- sponde alle esigenze della domanda di formazione da parte di lavoratori e imprese”. Il modello che sembra profilarsi vede l’attribuzione di un ruolo sempre più ampio alle parti sociali e agli organismi bilaterali, invitati a partecipare alla governance del sistema in chiave cooperativa. La soluzione prospettata con la recente approvazione della legge 133/2008 non può che es- sere un primo passo in questa direzione, dal momento che rimangono irrisolte molte criti- cità, come i problemi di omogeneizzazione delle regolamentazioni regionali, in particolare per quanto riguarda i differenti approcci sulla responsabilità della mancata erogazione del- la formazione formale per gli apprendisti, che è di volta in volta attribuita in ultima istanza comunque alle imprese, oppure alle Regioni per i casi di insufficiente offerta pubblica. I dati evidenziano che la formazione esterna realizzata dalle Regioni ha coinvolto nel 2006 poco più di 96.000 apprendisti, facendo segnare per la prima volta nel quinquennio una flessione pari al 15,7% rispetto all’anno precedente. Tra i circa 590.000 apprendisti che risultano mediamente occupati nello stesso anno, la quota di quanti hanno partecipato alle attività di formazione esterna si ferma al 17,4%. 51 sintesi Apprendisti occupati Apprendisti in formazione % formati/ occupatianno 2006 var. 2005-06 anno 2006 var. 2005-06 Nord-Ovest 172.167 4,4 30.284 -43,5 17,6 Nord-Est 152.700 3,6 44.080 4,2 28,9 Centro 136.218 7,5 12.411 -5,1 9,1 Sud e Isole 125.692 0,2 9.369 81,9 10,3 Italia 586.777 3,9 96.144 -15,7 17,4 Apprendisti occupati e in formazione Fonte: Elaborazione Isfol su dati Inps e delle Regioni e Province autonome 52 Allo stesso tempo, la soluzione tecnica individuata per l’affidamento alle parti sociali del- la regolamentazione dell’apprendistato professionalizzante nei casi di formazione esclu- sivamente aziendale non contiene al momento riferimenti a criteri o standard minimi co- muni individuati a livello nazionale. Il rischio è che si passi in breve da un sistema ca- ratterizzato da venti regolamentazioni regionali diverse ad un sistema di centinaia di con- tratti diversi. Quanto alla sperimentazione dell’apprendistato “alto”, anche in quei territori dove sem- bra che lo strumento abbia riscosso il maggior successo - ovvero nell’area del Nord-Ovest, in cui si concentrano i due terzi degli utenti coinvolti (circa 1.000 in tutt’Italia) - il pri- mo avviso pubblico per la raccolta dei progetti ha riscosso una scarsa attenzione da par- te delle strutture produttive, tanto da lasciare una ampia quota di risorse non assegnate. rapporto isfol 2008 Formazione continua Il ritardo accumulato dal nostro Paese sul fronte della diversificazione degli strumenti di formazione continua si riflette anche sulle strategie di integrazione tra amministrazioni regionali e Fondi Paritetici Interprofessionali, che risultano ancora allo stato embriona- le. Alcune Regioni hanno comunque proceduto alla stipula di intese con le parti sociali e con i Fondi che assumono come obiettivo prioritario l’armonizzazione e il coordina- mento delle rispettive programmazioni. Le risorse nazionali ammontano mediamente a circa 105 milioni di euro l’anno e vengo- no ripartite tra le 19 Regioni e le due province autonome di Trento e Bolzano in propor- zione al numero dei lavoratori dipendenti. Sono suddivise in due linee di finanziamento: la prima è la legge 236/1993 attraverso cui vengono finanziati i Piani formativi concorda- ti e i voucher individuali, entrambi a favore dei dipendenti delle imprese private; la secon- da è la legge 53/2000, che finanzia essenzialmente voucher individuali ma anche progetti più complessi e che si rivolge a tutte le categorie di lavoratori dipendenti, compresi i pubblici. Nel biennio 2006-2007 il Ministero del Lavoro ha ripartito quattro annualità (dal 2004 al 2007) della legge 236, pari a circa 351 milioni di euro. Per quanto riguarda invece la leg- ge 53, nel corso del 2007 sono state ripartite due annualità (2006 e 2007) per un totale di 30 milioni di euro. Considerando complessivamente le due linee di intervento, permangono due problemi di estrema rilevanza: uno relativo allo scarso assorbimento di risorse da parte delle Re- gioni del Mezzogiorno; l’altro inerente le difficoltà che si riscontrano sul fronte del mo- nitoraggio. Ambito quest’ultimo che vede l’Isfol impegnato direttamente, avendo ricevuto l’incarico da parte del Ministero del Lavoro di realizzare entro la fine del 2008 un siste- ma in grado di offrire un’esaustiva panoramica delle attività di formazione continua in Italia. I risultati della terza indagine Eurostat Continuing Vocational Training Survey (CVTS) - realizzata in Italia in stretto coordinamento con l’indagine Isfol INDACO Imprese - for- nisce il quadro delle attività di formazione dei lavoratori dell’industria e dei servizi nel- le aziende con almeno 10 addetti. La media europea delle imprese che nel 2005 hanno svol- to attività di formazione continua è pari al 60%. In Italia tale valore scende al 32%, per un totale di circa 70.000 imprese. Il nostro Paese ha valori inferiori alla media sia per in- cidenza delle imprese formatrici che per tasso di partecipazione. Si segnala, tuttavia, un progresso significativo rispetto ai dati relativi al 1993 e al 1999, quando la percentuale di imprese italiane che svolgeva attività di formazione continua era pari rispettivamente al 15 e al 23,9%, con un incremento di circa un terzo tra il 1999 e il 2005. Il gap con l’Eu- ropa è comunque ancora ampio ed espone le nostre imprese a forti rischi sul piano del- la competitività. I dati confermano la forte correlazione tra dimensione d’impresa e propensione alla for- mazione: in parallelo alla dimensione cresce infatti la percentuale di imprese formatri- ci, passando dal 25,6% nella fascia con 10-19 addetti, al 96,7% in quella con almeno 1.000 addetti. 53 sintesi 54 A livello settoriale, maggiore intensità di imprese formatrici si ha nelle assicurazioni e nel- l’intermediazione finanziaria. Una minore propensione alla formazione continua è invece emersa nel settore delle industrie tessili e abbigliamento e in quello di alberghi e ristoranti. Sotto il profilo territoriale, il quadro dell’Italia settentrionale è piuttosto omogeneo, con il 36% di imprese che hanno svolto nel 2005 attività di formazione continua nel Nord- Est e il 34,7% nel Nord-Ovest. Più ridotta è la percentuale nelle Regioni del Centro (27,2%) e del Mezzogiorno (23,6%). I Fondi Paritetici Interprofessionali Le adesioni ai Fondi paritetici evidenziano rispetto a novembre 2007 un aumento del 7,8% in termini di imprese e dell’8,4% in termini di lavoratori. Sensibilmente maggiore risul- ta il contributo delle unità produttive di medie dimensioni, con l’eccezione di Fondim- presa che raccoglie nuove adesioni soprattutto tra le piccole. Il 42% delle imprese private con dipendenti e il 56% dei lavoratori aderisce ad un Fon- do paritetico interprofessionale. Il terreno ancora da dissodare è molto esteso e riguar- da principalmente l’arcipelago delle piccole e micro imprese e il Mezzogiorno. Vi è infatti una concentrazione fortissima al Nord, dove si trova circa il 70% degli aderenti (Lom- bardia, Veneto ed Emilia Romagna raccolgono da sole il 52%). Circa le attività di formazione, è possibile al momento anticipare alcune informazioni di estrema sintesi relative ai dati che saranno a breve messi a disposizione dal Sistema per- manente di monitoraggio: dalla loro partenza al giugno 2008, i Fondi Paritetici Inter- professionali hanno finanziato circa 6.800 piani formativi, che hanno coinvolto circa 40 mila imprese e 850 mila lavoratori, raggiungendo quindi il 14% dell’utenza potenziale (che ammonta attualmente a 6,2 milioni di lavoratori). Le grandi e medie imprese sono de- cisamente sovrarappresentate (10%) rispetto alla loro consistenza in termini di adesio- ni (0,6%). La distribuzione per genere dei partecipanti registra in alcuni settori e terri- tori una netta prevalenza femminile. Incoraggiante anche la partecipazione della classe di età tra i 25 e i 34 anni (mediamente 1 su 3) e degli over 45 (mediamente 1 su 4). rapporto isfol 2008 Certificazione delle competenze Standard minimi e Libretto formativo A fronte dell’impegno comunitario in materia di trasparenza e riconoscimento di titoli, qualifiche e competenze - in particolare con i progressi in tema di EQF e di ECVET - l’Ita- lia ha messo in campo diverse iniziative, quali la sperimentazione nazionale del Libret- to formativo del cittadino e il Tavolo tecnico per la costruzione di un sistema nazionale di standard minimi professionali di certificazione delle competenze e di standard formativi. Sebbene l’Accordo che istituisce il Tavolo sia ancora in via di formalizzazione, i lavori sono stati avviati già dal 2006 sulla base di un documento realizzato da Isfol e Tecnostruttura che definisce un primo impianto di sistema. Si suggeriscono due direttrici fondamenta- li. La prima di tipo tecnico, operando una distinzione tra standard professionali, standard di certificazione e standard formativi. La seconda di tipo istituzionale, sulla base del prin- cipio dello standard minimo inteso come insieme di regole successivamente declinabili a seconda delle specificità territoriali. Si è inoltre proceduto ad una prima mappatura dei settori entro cui avviare la produzione degli standard professionali, che ha permesso di definire 24 aree specifiche in senso economico ed un’area rivolta alle figure prive di spe- cificità di settore. Quanto al Libretto formativo, la sperimentazione è stata condotta su diversi territori re- gionali (Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Liguria, Molise, Toscana, Tren- to, Valle d’Aosta) ed ha visto tra il 2005 e il 2007 il coinvolgimento di operatori di enti di formazione, centri di orientamento e Servizi per l’impiego nonché di diverse categorie di beneficiari finali (giovani studenti dei percorsi di formazione professionale, appren- disti, immigrati, lavoratori in formazione continua). A queste situazioni sperimentali va aggiunto il Piemonte, che ha lavorato su alcune precondizioni di sistema, ovvero un’ipo- tesi di connessione del Libretto con il sistema informativo regionale e la predisposizio- ne di una specifica normativa per l’accreditamento degli operatori. Il progetto OAC OAC (Organizzazione, Apprendimento, Competenze) è un progetto realizzato dall’Isfol che si articola in due macroaree di indagine: una sulle competenze dei lavoratori nelle impre- se industriali e di servizi in Italia; un’altra sulle competenze nelle imprese manifatturiere. Nel primo caso, i dati mostrano che: a) la componente femminile della forza lavoro pre- senta un livello di competenze inferiore rispetto agli uomini; b) l’età centrale è associa- ta a livelli di competenza più elevati rispetto alle classi periferiche della distribuzione; c) con riferimento ai titolo di studio si rileva una forte correlazione soprattutto in quelle com- petenze legate a discipline scolastiche o accademiche (scrittura, lettura calcolo); d) i li- velli di competenza risultano più elevati nei soggetti con contratti più stabili; e) emergono delle situazioni di eccellenza nei comparti dell’intermediazione finanziaria e nel mani- fatturiero science-based con riferimento ad alcune competenze (ad esempio il lavoro di gruppo); f) le imprese italiane che si possono considerare high performance work orga- nization, ovvero che presentano caratteristiche innovative in grado di facilitare lo sviluppo delle competenze, sono solo il 3%. 55 sintesi 56 Dall’indagine sulle competenze nelle imprese manifatturiere italiane è invece emerso che le cinque competenze più importanti richieste sono: l’affidabilità (78,3%), le abilità ma- nuali (70,3%), la resistenza psicofisica (59,6%), la conoscenza del funzionamento del- l’organizzazione (54,7%) e il lavoro di gruppo (34,6%). Sono poco richieste (meno del 10%) le attività di consulenza e cura, la pianificazione delle attività altrui, la capacità di istruire ed addestrare, la capacità di eseguire dei calcoli. L’esperienza maturata nell’ambito del progetto OAC consentirà all’Isfol di partecipare al programma PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), indagine internazionale curata dall’Ocse e destinata alla valutazione delle competenze del- la popolazione adulta. rapporto isfol 2008 Qualità e innovazione Accreditamento e risorse umane delle agenzie formative In tema di accreditamento, alla luce del dinamismo che negli ultimi anni si è registrato in questo campo e avendo ora un nuovo impianto regolamentare - frutto di una recen- te intesa Stato-Regioni per la definizione degli standard minimi del sistema - resta oggi da chiedersi quali siano i passi successivi necessari per tradurre tale dispositivo in uno stru- mento in grado di garantire livelli essenziali di prestazione a tutti gli utenti della forma- zione, salvaguardando le specificità territoriali. Si tratta quindi di comprendere le mol- teplici velocità dei vari contesti locali e i vincoli che i diversi tessuti socio-economici eser- citano nello sviluppo del sistema. Sotto questo profilo, tre sono i modelli di accreditamento individuati dall’Isfol, che sem- brano caratterizzare il panorama italiano: avanzato, intermedio e in ritardo, perfettamente in linea con gli indicatori di sviluppo socioeconomico del nostro Paese. Sul piano generale, emerge un sistema di offerta formativa caratterizzato da una crescente incidenza dei “nuovi soggetti” a svantaggio delle organizzazioni più radicate nel comparto (come i centri di formazione pubblici). In particolare, si segnala un incremento delle or- ganizzazioni afferenti ai comparti contigui della formazione professionale, quali Terzo set- tore, istruzione e produzione-lavoro. Per quanto concerne le risorse umane che operano negli enti accreditati i dati sembra- no evidenziare come il grado di dinamismo sistemico sia correlato a più contenuti indi- ci di vecchiaia e all’innalzamento del tasso di femminilizzazione, mettendo in luce un’in- versione di tendenza rispetto al passato, quando la professione del formatore era media- mente caratterizzata da età media avanzata e dalla ridotta partecipazione delle donne. In altri termini, nel modello avanzato il cambiamento del sistema formativo accreditato ap- pare legato al ringiovanimento del capitale umano e alla componente femminile, oltre che all’innalzamento dei livelli di istruzione in ingresso. Altro fattore chiave di dinamismo è poi la formazione in servizio. Nel Meridione - che coincide ampiamente con il modello più in ritardo di accreditamento - si continua in- fatti ad investire poco sulla formazione formatori (FF). L’e-learning La diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione (ICT) sta trasformando profondamente il nostro Paese, nonostante l’Italia destini a que- sto settore il 2% del PIL contro il 4% degli Stati Uniti. Di pari passo si registra un’evo- luzione dell’utilizzo dell’e-learning, caratterizzato ancora da livelli di spesa contenuti in termini assoluti (equivalente nel 2006 allo 0,66% della spesa complessiva del compar- to ICT), ma anche da una crescita significativa (16,2% rispetto all’anno precedente e ben 341% rispetto al dato del 2002). Ciò rispecchia peraltro lo scarso ricorso all’auto-for- mazione e formazione a distanza nell’ambito della formazione continua, scelto nel 2005 solo dal 6% delle imprese italiane. La dimensione che desta più interesse è comunque la crescita dell’investimento aziendale, che arriva a coprire quasi il 92% del totale, lasciando 57 sintesi 58 la quota restante a Pubblica amministrazione (in crescita costante), università, scuola ed utenti finali. L’Isfol - oltre ad aver promosso nel 2006 la costituzione di un Tavolo di raccordo interi- stituzionale sulla domanda e sull’offerta dell’e-learning - è direttamente coinvolto su que- sto fronte nell’ambito del progetto Sistema Permanente di Formazione on line (SPF), pro- mosso dal Ministero del Lavoro come strumento gratuito di formazione continua a di- stanza, incentrato sull’accompagnamento delle riforme che hanno interessato il merca- to del lavoro e il sistema formativo del paese. Al giugno 2008 il progetto ha raggiunto più di 86.500 utenti. Circa 38.000 corsi a catalogo e 2.900 percorsi (cioè iter formativi più com- plessi) risultano completati. L’e-government Il quadro di riferimento delle politiche nazionali di e-government è strettamente corre- lato al quadro europeo. L’obiettivo-chiave è il passaggio da una Pubblica amministrazione burocratica ad una più orientata al servizio, per ottimizzare le performance del sistema ed offrire agli utenti (cittadini ed imprese) servizi più innovativi ed efficienti. Dall’analisi dei dati disponibili emerge il posizionamento dell’Italia su valori in linea o superiori alla media dell’UE. Due sono le linee evolutive che si sono sviluppate in modo integrato e sinergico: la prima basata su provvedimenti normativi dal carattere innova- tivo ad alto impatto sul sistema, la seconda riguardante una strategia applicativa basata su accordi sistematici Stato-Regioni. Lo stato di attuazione di tali politiche fa rilevare nu- merosi progressi, sia nell’ambito dei servizi erogati, sia in quello della crescita delle in- frastrutture. L’Italia, infatti, è passata per i servizi on line dal 58% del 2006 al 70% del 2007. Sul fron- te degli adempimenti del datore di lavoro, da segnalare come un’operazione di semplifi- cazione notevole sia stata compiuta con il Sistema di Comunicazioni Obbligatorie dei rap- porti di lavoro. Permangono comunque diversi punti critici, quali il potenziamento di un sistema orga- nico di monitoraggio e l’ulteriore sviluppo di politiche formative volte a facilitare l’ap- prendimento organizzativo dell’e-goverment nelle pubbliche amministrazioni. rapporto isfol 2008 59 sintesi IMPRESE E ICT 2007 Tipologia di utilizzo 65% 77% 93% 84% 76% 94% e-gov banda larga accesso ad Internet ITALIA Valore medio UE 27 Imprese e ICT: tipologie di utilizzo, dati 2007 Fonte: Elaborazione Isfol su dati Eurostat Finito di st ampare nel mese di ottobre 2008 da Rubb ettino Industrie Grafiche e d Editoriali per conto di Rubb ettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Cat anzaro) Il Rapporto Isfol illustra lo stato dell’arte, i processi evolutivi e le princi- pali tendenze dei sistemi del lavoro, dell’istruzione e formazione e delle politiche sociali. Oltre a rappresentare un canale fondamentale di dif- fusi o n e d e l l e c o n o s c e n z e , n e l c o n t e m p o c o s t i t u i s c e u n o s t r u m e n t o d i supporto al dibattito istituzionale e politico. Come di consueto, anche l’edizione 200 8 si articola in due ampie se- zioni dedicate ai temi del lavoro e della formazione, precedute da una panoramica sulla dimensione europea, che si conferma imprescindibile quadro di riferimento. Le sfide che giungono dall’Europa sono molteplici, dall’avvio del nuovo periodo di programmazione delle politiche di coe- sione - e quindi dei Fondi strutturali - al lifelong learning , dalla strategia rinnovata per l’inclusione sociale all’attenzione per le pari opportunità. Le dinamiche in atto appaiono contrassegnate da luci ed ombre. Tratti in chiaroscuro caratterizzano gli andamenti più recenti del contesto ma- croeconomico, nonostante il numero di occupati abbia raggiunto il suo massimo storico rallenta la progressione di crescita dell’occupazione. In tema di istruzione e formazione, la progressiva scolarizzazione della società italiana è affiancata da un ancora scarso livello di qualificazione c o m p l e s s i v a d e l l a p o p o l a z i o n e , p e r v i a d e l l a d i s p e r s i o n e c h e n o n a c- cenna a calare e per i deludenti risultati sul piano dell’educazione degli a d u l t i . Pe r m a n g o n o , i n o l t r e , u n a s e r i e d i n o d i r e l a t i v a m e n t e a l l a g o- vernance dei sistemi. S u t u t t o s i s t a g l i a l ’ i m m a g i n e d i u n Pa e s e a d u e v e l o c i t à , d ov e l e d i- sparità geografiche rischiano di adombrare le pur tante performance di successo. RAPPORTO 2008 ISFOL 2008/b_Relazione_Presidente.pdf 1 PRESENTAZIONE DEL RAPPORTO ANNUALE ISFOL Relazione del Presidente Sergio Trevisanato La presentazione del Rapporto Isfol si colloca quest’anno in un contesto di preoccupazione e contrasti. Negli ultimi mesi il quadro macroeconomico globale è stato investito da scosse telluriche di particolare intensità. I sommovimenti che si sono prodotti negli Stati Uniti hanno rapidamente varcato l’oceano, diffondendo un senso generale di incertezza verso il futuro. Nello stesso periodo, le recenti elezioni americane contribuiscono a radicare nell’immaginario collettivo l’impressione di un profondo mutamento in atto e di interventi capaci di risolvere la crisi in corso. Infine, sul piano interno, l’azione di governo, pur nella fase iniziale della nuova legislatura, sembra spingere l’acceleratore su riforme non più rinviabili. Non a caso, nel Libro Verde presentato lo scorso luglio dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, si parla esplicitamente di “rifondazione del nostro modello sociale”. Abbiamo dunque uno scenario segnato al tempo stesso da perturbazioni economiche e da istanze di cambiamento. La lettura dei dati del Rapporto Isfol conferma quest’impressione di ambivalenza. Gli indicatori relativi al mercato del lavoro e al sistema formativo – i due ambiti principali di ricerca dell’Istituto – mostrano segnali positivi ancora evidenti nel 2007, mentre tutti gli indicatori volgono al peggio nel corso del 2008. Di solito, in circostanze 2 come queste, prevale la logica emergenziale, mentre, in questa fase di inizio legislatura, sembra prevalere in tutte le componenti della società italiana quantomeno l’aspirazione a cogliere questa occasione come un’oppportunità per riforme incisive e durature. Le stesse agitazioni studentesche di queste settimane –se vogliamo coglierne l’aspetto positivo- mostrano un’ansia di cambiamento coerente con lo scenario esterno e interno che abbiamo appena descritto. Ed è con questa sensibilità che proverò, seguendo le tracce delineate nel Rapporto, ad evidenziare alcuni dati di fatto e alcune direttrici di policy che mi sembrano di particolare rilevanza. Partiamo dalla dimensione più ampia, quella macroeconomica. Ci troviamo di fronte ad una crisi dei mercati finanziari di notevole gravità, con inevitabili ricadute sull’economia reale. Il logoramento del clima di fiducia, la contrazione della liquidità, l’esaurirsi delle bolle speculative sono tutti elementi che intaccano la tenuta del sistema produttivo e determinano una fase di recessione. Già nella seconda metà del 2008 non devono stupire gli impatti negativi sull’occupazione. Vale per noi e vale per gli altri paesi occidentali. Ma la situazione italiana – questo è il punto da sottolineare – appare caratterizzata tanto da debolezze quanto da opportunità da cogliere in misura maggiore di altri paesi. In questa incertezza devono muoversi le politiche del mercato del lavoro e della formazione. Già nella fase espansiva dell’economia, negli anni tra il 2004 e il 2007, l’Italia ha registrato un differenziale negativo di crescita sia rispetto all’area Ocse che a quella Euro. In positivo, l’andamento del PIL è risultato strettamente connesso al ciclo positivo dell’economia mondiale più che ad un incremento della domanda interna. La vocazione all’export ha tuttavia confermato la debolezza dei consumi e degli investimenti interni. Questa specializzazione e questa vocazione italiana possono comportare riflessi più negativi di altri paesi oppure, invece, costituire una risorsa. Il punto, infatti, 3 riguarda la destinazione delle nostre esportazioni: se rimarranno orientate ai paesi dell’area Euro si può immaginare un trend più negativo, se invece aumenteranno le quote di export verso i paesi emergenti, come è già accaduto in questi anni, Cina e Russia in primis, gli effetti congiunturali potrebbero essere meno negativi di quanto di solito si dica. Rimane il fatto che va sostenuta in qualche modo la già debole domanda di consumi interni: pensare di farlo attraverso il solo sostegno ai redditi rischia di essere insufficiente, vista la naturale tendenza a trasferire qualsiasi incremento di redditi in risparmio a titolo precauzionale. Forse varrebbe la pena intervenire anche con misure di riduzione temporanea dei prezzi finali di vendita, attraverso ad esempio il “congelamento” di parte dell’Iva o una parziale defiscalizzazione per un lasso di tempo ben definito, così da incentivare l’anticipazione di spese comunque previste dai consumatori. Sul fronte del mercato del lavoro, dopo oltre un decennio di performance positive, è sopraggiunta una fase di rallentamento, che quasi sicuramente avrà segno negativo nei prossimi mesi. La crescita occupazionale degli ultimi anni, ha riguardato in modo significativo le componenti relative al tempo determinato e al part-time, strumenti che si sono dimostrati particolarmente adatti nel favorire l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani, da un lato, e la crescita dei settori terziari e commerciali ad alta occupazione femminile, dall’altro lato. Tuttavia, proprio queste tipologie contrattuali presentano aspetti di problematicità nei momenti di congiuntura economica negativa: si pensi, in particolare, alle tensioni sui redditi familiari in caso di mancata riconferma dei contratti. Più in generale, il sistema produttivo italiano negli ultimi 15 anni ha potuto contare su flessibilità e moderazione salariale incrementando anche per questa via il numero degli occupati. L’altra faccia della medaglia di questo processo è il posizionamento dell’economia italiana su una frontiera della produzione non sempre ottimale in termini di allocazione delle risorse, nonché un progressivo processo di segmentazione del mercato del lavoro che 4 ha allargato le aree marginali. E’ evidente che in una fase di crisi l’esposizione al rischio sarà particolarmente alta proprio per quei lavoratori che già si trovano “al margine”. Si pongono quindi due ordini di problemi strettamente collegati tra loro: un attento monitoraggio dei fenomeni in corso e una adeguata capacità di risposta, preferibilmente in termini preventivi. Nel primo caso è necessario rafforzare gli strumenti e la capacità di analisi, diffondere la cultura del monitoraggio e della valutazione in ogni ramo della pubblica amministrazione, ma soprattutto fare in modo che i risultati delle indagini svolte arrivino sul tavolo dei decisori politici e divengano un reale supporto per il loro operato. Quanto alle risposte, si pone innanzitutto la questione degli ammortizzatori sociali, per contrastare possibili iniquità e situazioni di criticità non presidiate. Occorrono valide misure di accompagnamento nei passaggi dall’inattività o dalla disoccupazione al lavoro, grazie ad una maggiore copertura ed una più elevata qualità delle politiche attive, nell’ottica del welfare to work. Lo ribadiamo ormai da tempo: si tratta di tutelare gli individui non solo sul lavoro ma anche on the market. Se da una parte è essenziale accrescere l’appeal del lavoro, per renderlo qualitativamente migliore e favorire quindi la partecipazione; dall’altra serve un sistema affidabile e universale di protezione nelle fasi di mobilità dei lavoratori, che renda più praticabili ed anche convenienti le transizioni da posto a posto nel mercato del lavoro. Il ruolo dei servizi per l’impiego è fondamentale, proprio come luogo d’elezione per congiungere politiche passive e politiche attive. Su questo piano vi sono ancora evidenti difficoltà. Solo in alcune Regioni, ad esempio, il Patto di servizio è accompagnato dalla previsione di un Piano di azione individuale. La “centralità della persona” di cui si parla nel Libro Verde sul futuro del modello sociale è in molte regioni italiane, quelle meridionali in particolare, un approccio ad oggi solo dichiarato o abbozzato. 5 Complessivamente, i Centri in grado di operare in modo coerente con quanto previsto dalla normativa nazionale non sono più di un quarto a livello nazionale, appena il 10% nel Mezzogiorno, quattro volte di più al Nord. Arriviamo così ad un aspetto più volte richiamato nelle pagine del Rapporto Isfol di quest’anno: la profonda spaccatura del Paese tra un Nord che è abbondantemente in linea con le più avanzate regioni europee e un Sud che è in coda alle classifiche europee. Cosa nota a tutti, ma i dati del rapporto Isfol 2008 indicano un ulteriore accentuazione sotto vari profili. Rimanendo ai Servizi per l’impiego, alcune cifre sono emblematiche. Azioni di raccordo con il sistema della formazione professionale si rilevano in circa il 60% delle Province italiane, ma solo in un terzo di quelle meridionali. Oltre la metà delle Province associa al raccordo anche procedure di presa in carico degli utenti disoccupati; nel Mezzogiorno sono il 20%. In tutto il Paese un terzo delle Province svolge azioni proattive, come l’erogazione on demand di pacchetti formativi o la gestione di voucher; nel Sud siamo fermi all’11%. L’interrogativo più forte è cosa fare per impedire che i divari regionali si amplifichino ulteriormente. Se si guarda alle regioni del Nord le scelte di decentramento non sembrano aver dato sotto questo profilo buona prova, una pessima prova, invece se osserviamo cosa è successo nelle regioni meridionali. Cosa fare? Credo sia necessaria una seria riflessione sulla perseguibilità o meno di un modello di federalismo omogeneo, non differenziato, e se, di conseguenza, nei casi di palese inadempienza o di malfunzionamento delle istituzioni regionali e provinciali non si debba procedere ad azioni di surroga o di commissariamento. Un altro aspetto messo in luce nel documento presentato dal ministro Sacconi è quello relativo al sistema telematico di incontro tra domanda e offerta di lavoro. Un’accelerazione dell’efficienza delle reti tecnologiche e di relazione è in effetti indispensabile per garantire il monitoraggio del mercato del lavoro. I tre strumenti attuali – vale a dire il SIL su base regionale, la Borsa continua nazionale del lavoro e il sistema delle Comunicazioni obbligatorie – funzionano ancora in modo separato, come mostrano i dati 6 raccolti dalle indagini Isfol sui Centri per l’impiego. Riaprire una riflessione pacata su questo fronte, facendo tesoro tanto delle esperienze nazionale quanto di quelle locali, può essere utile per far ripartire la messa a regime degli strumenti informativi congiunturali su mercato del lavoro, la cui necessità non viene meno -anzi si rafforza- nei momenti di crisi come questo. In generale, appare fondamentale rafforzare complessivamente le azioni dei servizi per l’impiego, in particolar modo qualora vadano attivate misure straordinarie di placement. Continuare ad affidarsi quasi esclusivamente all’intermediazione informale – il canale tradizionalmente utilizzato per l’incontro domanda/offerta di lavoro in Italia – può rivelarsi poco efficiente. Una funzione fondamentale dei Servizi per l’impiego senz’altro da potenziare è quella relativa alla riqualificazione, prevista ormai da oltre un quinquennio dalla normativa nazionale e non ancora completamente attuata. A fronte dell’attuale congiuntura economica è essenziale garantire un’azione di rafforzamento continuo delle competenze dei lavoratori e i servizi per l’impiego devono rappresentare il punto di raccordo tra tutti i soggetti in campo. Già solo fissare questo obiettivo per i prossimi anni servirebbe a dare slancio e riconoscimento alle migliori esperienze locali registrate in questi anni, specie in alcune regioni del Nord, e che andrebbero diffuse in tutto il territorio nazionale. Il Rapporto Isfol rivolge anche quest’anno un’attenzione particolare ai segmenti maggiormente a rischio di esclusione sociale. Sui disabili, ad esempio, la recente presentazione della IV Relazione biennale al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 68/99 – per la cui stesura il nostro Istituto ricopre un ruolo centrale – è stata l’occasione per fare il punto della situazione in questo campo. Dai dati risulta che la corretta applicazione di quanto previsto all’art. 2 della legge in questione – che ha introdotto il concetto di collocamento mirato – non rappresenta ancora una pratica diffusa sul territorio nazionale, limitando ad una porzione del Paese (circa il 42%) la piena costruzione di progetti individuali per le persone con disabilità e la sperimentazione di nuove modalità di collaborazione con i datori di lavoro. 7 Altra pressante questione è quella relativa alle politiche migratorie. A livello europeo si insiste da tempo sulla necessità di avviare una strategia comune anche in questo settore. Di recente la Commissione ha adottato una Comunicazione sulla politica di immigrazione ed un Piano strategico sull’asilo. Il mese scorso il Consiglio ha adottato il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, per avviare una politica comune in questo ambito. L’impostazione di massima continua a prevedere il contrasto dell’immigrazione clandestina, la regolamentazione di quella legale e la cooperazione con i Paesi di origine. Il fenomeno sta assumendo in tutt’Europa una rilevanza sempre maggiore: su una popolazione che conta intorno ai 500 milioni di abitanti circa 27 milioni sono gli immigrati con cittadinanza straniera, che diventano 50 milioni se si includono anche coloro che hanno acquisito la cittadinanza presso uno degli Stati membri. La portata dei numeri mostra l’esigenza di approcci non più gestibili dai singoli Paesi, soprattutto in una condizione di libera circolazione dei cittadini e di apertura delle frontiere interne. La prospettiva di una politica comune è il presupposto perché l’immigrazione legale possa accrescere il proprio contributo allo sviluppo socioeconomico dell’Unione. Servono regole chiare sui requisiti e sulle procedure per l’ingresso e il soggiorno nel territorio comunitario; strumenti di valutazione dei fabbisogni del mercato del lavoro europeo; una piena integrazione dei cittadini immigrati. Sotto quest’ultimo profilo un aspetto centrale rimane quello dell’istruzione, come è stato ribadito solo qualche mese fa dal Libro Verde su migrazione e mobilità presentato dalla Commissione europea. In Italia, i dati indicano l’esistenza di differenze molto accentuate tra i risultati scolastici degli studenti autoctoni e quelli di coloro che provengono da famiglie straniere. Particolarmente preoccupante è il trend che vede gli studenti immigrati di seconda generazione ottenere performance peggiori della generazione precedente, segno che il divario sociale tra immigrati e nativi non si riduce in modo significativo con il passare del tempo. 8 Inoltre, sembra acuirsi il fenomeno della concentrazione di immigrati in determinati tipi di scuole, in particolare quelle professionali, oppure in specifici ambiti territoriali, fenomeni che a loro volta portano alla diserzione di queste scuole da parte delle famiglie italiane, alimentando ben noti circoli viziosi. La situazione più critica riguarda l’istruzione professionale perché costituisce il punto di snodo tra istruzione e formazione professionale: questo segmento è oggi in gravissima difficoltà e le dinamiche di questi anni di concentrazione di popolazioni immigrate in questo segmento ai fini di assolvere all’obbligo scolastico sta producendo una vera e propria sovrapposizione di figure marginali. Non è mai stato questo l’obiettivo dei governi che si sono succeduti in questi quindici anni, anzi il problema è sempre stato quello opposto, vale a dire di rafforzare il canale dell’istruzione professionale. Si tratta di un tema che dovrà essere oggetto di specifico monitoraggio e di interventi conseguenti in tempi ravvicinati. Altre dinamiche sono ben note ma non per questo più semplici da affrontare. Mi riferisco, ad esempio, alla componente femminile del mercato del lavoro. La crescita complessiva dell’occupazione nell’ultimo decennio è stata trainata dalle donne – che rappresentano oggi quasi il 40% degli occupati - e tuttavia il segmento femminile è quello che più sensibilmente e per primo risente della difficile congiuntura. Alcuni dati: circa il 44% delle donne disoccupate nel 2006 risulta inattiva nel 2007, mentre per la componente maschile non si oltrepassa il 33%. Tra tutte le donne che cercavano un impiego nel 2006, poco più di una su quattro è riuscita a trovarlo l’anno successivo, contro il 35% degli uomini. L’ineguaglianza di genere nel mercato del lavoro è dunque ancora una realtà di fatto, specie nei momenti di crisi, anche se in un’ottica di lungo periodo il nostro paese sembra essere in grado di allinearsi al resto d’Europa, con la sola eccezione, già più volte rilevata, delle regioni meridionali. Una questione fondamentale è la conciliazione tra vita privata e vita professionale. L’Italia, come gli altri Paesi dell’Europa “mediterranea” non dispone tradizionalmente di forme strutturate di welfare familiare. Abbiamo 9 una spesa sociale che destina scarse risorse al sostegno delle famiglie. E abbiamo uno dei più alti tassi di inattività femminile, tra l’altro con una partecipazione particolarmente discontinua al mercato del lavoro, soprattutto in relazione allo status familiare e alla presenza di figli o persone non autosufficienti. Vi è poca condivisione dei carichi familiari all’interno della coppia e insufficienti servizi pubblici per la conciliazione. Nei Paesi nordici, ad esempio, ad un mercato del lavoro flessibile viene associato un sistema di sostegni nei periodi di transizione, con valide misure di formazione e di assistenza al reinserimento. Ciò permette di affrontare uno degli aspetti peculiari della partecipazione femminile, appunto quello della discontinuità. La strategia di Lisbona ha posto l’incremento dell’occupazione femminile in stretta connessione con lo sviluppo dei servizi di supporto alla cura. Tutti gli Stati membri sono stati invitati ad offrire servizi all’infanzia al 33% dei bambini di età compresa tra 0 e 3 anni. L’Italia non arriva al 10% e si registrano ampi divari territoriali, con percentuali a dir poco irrisorie in alcune Regioni del Mezzogiorno, dove notoriamente vi sono i più alti livelli di inattività femminile e di gender gap. Il tempo speso in attività di cura all’interno della famiglia continua a rappresentare un differenziale di genere enorme. Non è quindi un caso che il tasso di occupazione femminile ruoti intorno al 45%, mentre quello maschile sfiori il 70%. L’analisi dei flussi del mercato del lavoro è interessante anche sotto il profilo generale. Al di là del raffronto uomo/donna, possiamo notare come la quota complessiva di disoccupati che a distanza di un anno sono riusciti a trovare un’occupazione passi dal 33% del biennio 2005-2006 a circa il 30% del 2006-2007. Una fetta analoga è rimasta in cerca di lavoro ed il resto è finito nell’inattività. Quanto alle transizioni dalla temporaneità alla stabilità riscontriamo invece dei progressi: i collaboratori stabilizzati sono in aumento, probabilmente a causa dei provvedimenti volti alla corretta applicazione 10 della relativa normativa. Tra il 2006 e il 2007 quasi il 15% è passato a tempo indeterminato, con un aumento di circa 4 punti percentuali rispetto al biennio 2005-2006. E l’11,2% è diventato a tempo determinato, con un incremento del 3%. Risultano tuttavia stabili le transizioni relative agli occupati a tempo determinato: circa un dipendente su 4 viene stabilizzato nel corso di un anno. In Italia, il peso del lavoro a termine sul totale dell’occupazione rimane comunque contenuto: il dato relativo al 2007 è ancora sotto il 10%, tanto che nonostante gli incrementi degli ultimi anni siamo ancora uno dei paesi europei con l’incidenza più bassa di rapporti di lavoro a tempo definito. Analogo discorso vale per i rapporti di lavoro a tempo parziale, che presentano una dinamica di crescita più elevata di quella dell’occupazione complessiva, rimanendo tuttavia ben al di sotto della media comunitaria: nel nostro paese il part-time è al 13,6%, contro il 18,2% dell’Ue a 27 e il 20,9% dell’Ue a 15. Sappiamo bene che il lavoro a tempo parziale rappresenta per la componente femminile un’opportunità importante per conciliare vita privata e lavoro. Tra le donne in cerca di occupazione quasi una su tre preferirebbe avere un part-time, ma nella fascia tra i 35 e i 44 anni si arriva ad oltre il 42%, valore che tra gli uomini non raggiunge il 4%. L’esistenza di incongruenze nelle modalità di incrocio tra domanda e offerta di lavoro anche per quanto riguarda il lavoro a part-time è testimoniata dal fatto che una consistente quota di lavoratori a tempo parziale (circa il 41%) si dice insoddisfatta della propria condizione lavorativa. E’ del tutto probabile, che anche in questo caso si verifichi un mismatch all’interno del mercato del lavoro e una sua non perfetta capacità di soddisfare tanto le richieste dal lato della domanda quanto le aspirazioni dal lato dell’offerta di lavoro. Siamo ormai da tempo abituati a sviluppare le nostre riflessioni sulle politiche da intraprendere entro la dimensione europea, con un’attenzione particolare al fatto che il rapporto tra Commissione e Stati membri si è rafforzato attraverso il cosiddetto “coordinamento aperto”. 11 Nel dibattito comunitario che si è avviato sul futuro delle politiche di coesione sta prendendo corpo l’idea che alla condivisione di linee guida si affianchi una maggiore attenzione al territorio, anche attraverso un’ulteriore accentuazione del decentramento delle competenze. Dal punto di visto finanziario, la direzione è quella di un più intenso coordinamento con le azioni messe in campo grazie alle risorse nazionali, rafforzando quindi il principio dell’addizionalità. In un Paese come l’Italia, dove intere parti dei sistemi di istruzione, formazione e lavoro vengono finanziati in grandissima parte dal Fondo sociale europeo, si dovranno operare cambiamenti importanti. Dicevamo prima dei Servizi per l’impiego: anche su quel fronte, ad esempio, il sistema dovrà attrezzarsi ad un trasferimento sui fondi nazionali. E non sarà un’evoluzione di poco conto. Inoltre, sappiamo che i nostri programmi operativi rivolti al capitale umano sono tradizionalmente finalizzati ad una molteplicità di azioni, a differenza di quelli dei nostri partner europei solitamente dedicati ad obiettivi più specifici e circoscritti. Ne deriva una dispersione di risorse, cui prima o poi occorrerà mettere mano. In definitiva, il dibattito in corso rappresenta un’occasione per ragionare sull’effettivo utilizzo del Fse come volano di sviluppo e non semplice sostitutivo di fondi nazionali sempre più scarsi. Questo ruolo dell’Europa in termini di trasferimento di principi è ancora più evidente se guardiamo al tema della flexsecurity. Appare evidente come tale approccio non possa identificarsi in un unico modello cui ispirare le politiche del lavoro, ma sia comunque servito a delineare principi comuni su cui fondare interventi che tengano in debito conto gli specifici contesti politici, economici e sociali. Le disparità geografiche nell’Unione europea si sono accentuate con l’allargamento. Sul fronte dei risultati relativi alla strategia di Lisbona registriamo un parziale fallimento. Gli obiettivi quantitativi fissati in vista del 2010 non sono stati raggiunti. Almeno come media europea. Poi se andiamo a vedere i singoli Paesi la realtà è assai differenziata, con punte di eccellenza e forti ritardi. Vorrei fare a riguardo un paio di considerazioni. La prima 12 riguarda la mancanza di dati certi e comparabili come una delle possibili cause delle oscillazioni così marcate tra le diverse realtà nazionali. Tra l’altro, non vi sono criteri pienamente validi per standardizzare i diversi assetti istituzionali che influenzano il mercato del lavoro come per esempio le varie legislazioni sulle età di ingresso e d’uscita dal mercato del lavoro. Questo rilievo è particolarmente importante per il nostro paese, spesso penalizzato proprio da un adeguato raccordo a livello europeo tra i criteri delle rilevazioni statistiche e la normalizzazione delle legislazioni nazionali che regolano l’ingresso e l’uscita del mercato del lavoro. La seconda considerazione, in positivo, sottolinea come, al di là dei risultati e delle comparazioni di benchmark, la strategia di Lisbona abbia comunque svolto una funzione di stimolo che ha permesso a tutti gli Stati di migliorare il funzionamento dei rispettivi mercati del lavoro. E l’Italia ne è un esempio evidente: il ritardo rispetto ai partner più avanzati si è ridotto e la spinta europea ha determinato progressi a volte rilevantissimi, come nel caso delle regioni del centro-nord. Di nuovo occorre sottolineare questo aspetto della problematica occupazionale, a cui già ho fatto cenno in alcuni passaggi di questa relazione: la profonda spaccatura tra Nord e Sud. Gli indicatori del mercato del lavoro delle Regioni settentrionali e in molti casi anche del Centro superano la media europea e si collocano ai vertici della graduatoria, ad affiancare i territori più virtuosi. Di contro, il Mezzogiorno rappresenta uno dei fanalini di coda dell’Europa. Il basso tasso di occupazione dell’Italia è dovuto esclusivamente all’insufficiente apporto delle Regioni meridionali, dove il valore è di poco superiore al 45%. E il divario si accentua. Tra il 2000 e il 2007 al Sud l’occupazione è aumentata del 4,7%, rispetto all’8,9 del Nord-Est, al 9,9 del Nord-Ovest e al 16,8% del Centro. Nello stesso periodo le Regioni meridionali hanno registrato un calo molto più consistente della disoccupazione ma il relativo tasso rimane comunque quasi il doppio di 13 quello medio nazionale. Senza contare il fenomeno –più volte evidenziato – dell’effetto “scoraggiamento” che ha portato ad un innalzamento del tasso di inattività. Sempre nel periodo 2000-2007 l’area dell’inattività è cresciuta nel Mezzogiorno dell’8,1%; contro l’1,7% del Nord-Est e l’insignificante 0,3% del Nord-Ovest. Sappiamo, inoltre, che nel Meridione vi sono le quote più elevate di irregolarità sul lavoro: il tasso di irregolarità raggiunge quasi il 20% rispetto al 12% delle Regioni settentrionali. C’è da chiedersi a questo proposito quale sia la strategia da seguire di fronte all’evidente paradosso di forze di lavoro inoccupate nelle regioni del sud e di un rilevantissimo ricorso a forze di lavoro immigrate nelle regioni del nord. O si portano capitali produttivi da nord a sud, oppure si favorisce lo spostamento di forze di lavoro da sud a nord: la nettezza con cui pongo la questione è pari all’urgenza del dilemma. Non si tratta, come è ovvio, di un aut aut. Punti di ragionevole equilibrio tra queste due alternative strategiche se ne possono trovare quanti se ne vuole, ma rimane il fatto che è forse utile cominciare a indagare a quali condizioni sia possibile dare un qualche slancio anche alla seconda strategia, favorendo i trasferimenti interni. Se passiamo al sistema di istruzione e formazione rimane l’immagine di un Paese a due velocità. Prendiamo la formazione professionale regionale: con il 45% della popolazione residente e la metà della forza lavoro, il Nord realizza circa tre quarti dei corsi e totalizza una quota analoga di allievi. Nell’anno scolastico 2006-2007 il 4% della forza lavoro nazionale ha partecipato alle attività di formazione professionale organizzate dalle Regioni, con un incremento annuo dell’1,2%. Ma se scorporiamo i dati a livello geografico vediamo che il Nord ha coinvolto il 6% della forza lavoro, il Centro poco più del 2% e il Sud non arriva neanche a quella soglia, fermandosi all’1,9%. Stesso discorso per l’apprendistato: quello relativo al diritto-dovere risulta praticamente inutilizzato nel Meridione. E il fenomeno della dispersione 14 formativa tra i 14-17enni coinvolge al Sud 8 ragazzi su 100, contro circa il 4% del Centro e del Nord-Ovest e fino all’inconsistente 0,6% del Nord-Est. Quanto alla formazione continua, essa incide sul 35% circa delle imprese settentrionali, mentre a Mezzogiorno si registra un valore più basso di circa 10 punti percentuali. I Fondi paritetici interprofessionali, come è noto, hanno una concentrazione fortissima al Nord e sono assai deboli al Sud. Di analogo tenore sono i dati relativi al monitoraggio, la valutazione, i sistemi di qualità, la certificazione. Un ambito, quest’ultimo, che rappresenta la chiave di volta per garantire la produttività dei percorsi formativi e su cui l’Europa sta insistendo con particolare vigore. I recenti progressi sul fronte del Quadro europeo delle qualifiche e dell’ECVET – il sistema per il riconoscimento dei crediti – hanno infatti reso più concreto l’obiettivo di un’effettiva leggibilità e correlabilità dei titoli tra i vari Paesi dell’Unione. L’Isfol ha partecipato direttamente all’elaborazione di queste iniziative e un rinnovato impegno ci viene chiesto in vista del 2012, cioè la data entro cui gli Stati membri sono chiamati ad aderire su base volontaria. E’ un impegno perfettamente in linea con la filosofia del Libro Verde cui ho fatto riferimento prima: quella che pone l’individuo al centro di un sistema di opportunità, tra cui appunto la piena valorizzazione delle competenze acquisite. Sarà quindi necessario rafforzare strumenti come l’Europass, il cui potenziale non sembra ancora del tutto emerso, e il Libretto formativo del cittadino, la cui sperimentazione si è da poco conclusa. E bisognerà innanzitutto proseguire il lavoro svolto nell’ambito del Tavolo tecnico per la costruzione del Sistema nazionale di standard minimi, cercando di fare in modo che questi strumenti abbiano capacità di vigenza sull’intero territorio nazionale e non riproducano all’infinito la fotografia di una Italia “a due velocità”. La chiave di fondo per leggere le dinamiche relative ai sistemi dell’educazione e della formazione rimane la qualificazione complessiva della popolazione italiana e in particolare della forza lavoro. Un dato certo riguarda la crescita della scolarizzazione. Il tasso di istruzione secondaria 15 superiore per chi ha 15 anni ed oltre è in progressivo aumento e si è attualmente posizionato su un valore di circa il 42%. Relativamente alla sola forza lavoro siamo arrivati per la prima volta al 60%, mentre la percentuale di chi ha anche la laurea ha superato il 15%. Nella fascia dei 20-24enni, più dei tre quarti ha un titolo di scuola superiore, ancora lontani dagli obiettivi di Lisbona che fissano al 2010 una percentuale dell’85%. Va però segnalato che dal 2000 abbiamo drasticamente ridotto lo scarto con la media europea passando da un meno 7,2% ad un meno 1,8%. L’aspetto più critico rimane quello della dispersione scolastica. Nel 2006- 2007 l’1,6% degli studenti della scuola secondaria di secondo grado ha abbandonato precocemente il proprio percorso educativo. Ed anche in questo caso assistiamo ad una forte disparità tra i licei (con una percentuale dello 0,2%) e gli istituti professionali (con il 3,6%). Se consideriamo complessivamente sia la dispersione scolastica che quella formativa, ossia la quota di giovani che risultano al di fuori di qualsiasi percorso educativo, tra i 18-24enni abbiamo una percentuale che sfiora il 20%, mentre il benchmark di Lisbona chiede di non oltrepassare il 10 e la media europea si ferma sotto il 15. Ritorna qui il problema del raccordo tra sistema dell’istruzione e sistema della formazione professionale, e in particolare la necessità di riprendere il percorso di revisione dell’istruzione tecnica, dove la criticità maggiore sembra concentrarsi negli istituti professionali. Marginalità e dispersione scolastica si sommano nel canale più tipico dell’istruzione professionale senza che si intravedano possibili vie di uscita. Di concerto con le autorità ministeriali competenti, l’Isfol propone di avviare un programma di monitoraggio finalizzato a proposte operative in questo snodo critico del nostro sistema formativo. Una seconda criticità riguarda invece il grado di qualificazione complessiva della popolazione adulta. E’ un problema ancora grave, su cui non sono stati fatti sufficienti passi in avanti. Se consideriamo la fascia d’età che va dai 25 ai 64 anni, poco più di una persona su due ha un titolo di 16 istruzione secondaria superiore, vale a dire circa 20 punti percentuali in meno rispetto al dato medio europeo e addirittura 40 in confronto ai paesi più virtuosi. Per quel che riguarda specificatamente la formazione continua, le imprese italiane dell’industria e dei servizi con almeno 10 addetti che svolgono attività formative per i propri lavoratori sono meno di una su tre, contro il 60% della media europea. Il nostro Paese ha valori inferiori sia per incidenza delle imprese formatrici che per tasso di partecipazione. E i dati confermano ancora una volta la forte correlazione tra dimensione d’impresa e propensione alla formazione: solo una su quattro delle aziende con un numero tra 10 e 19 addetti svolge attività di formazione interna; percentuale che supera il 96% in quelle con almeno 1.000 addetti. Relativamente ai Fondi paritetici interprofessionali – che, ricordo, dispongono mediamente di oltre 350 milioni di euro l’anno – al giugno 2008 risulta che abbiano finanziato una quantità di interventi formativi capace di raggiungere il 14% dell’utenza potenziale. Una quota ancora troppo ristretta e – come ho già avuto modo di segnalare – in buona parte concentrata al Nord. Vorrei aggiungere che in questo campo l’Isfol fornirà a breve i primi risultati del sistema di monitoraggio che ha realizzato su incarico del Ministero del Lavoro. Entro la fine dell’anno avremo quindi un quadro molto più dettagliato su cui riflettere, ma già fin d’ora non si può non valutare come adeguata e tempestiva la sollecitazione del Libro verde del Ministro del lavoro a valorizzare in ogni modo la formazione in azienda. Ricapitolando, il sistema formativo italiano mostra buone performance nella scuola secondaria di primo e di secondo grado. Le superiori riescono ormai ad attrarre una percentuale di 14-18enni intorno al 92%. Anche i partecipanti alla formazione professionale sono in crescita. Quanto al livello universitario, nell’ultimo biennio c’è stato un calo delle immatricolazioni, ma il grado di partecipazione rimane comunque apprezzabile. Tra i 19-23enni il tasso di iscrizione è salito per la prima volta oltre il 60%. Inoltre, rispetto agli obiettivi della strategia di Lisbona uno dei risultati sicuramente positivi del 17 nostro Paese rispetto agli altri partner europei riguarda proprio l’università, anche con l’incremento dei laureati in discipline matematiche, scientifiche e tecnologiche: dal 2000 al 2007 l’Italia registra un aumento del 70% contro il 25 della media europea. Tra le criticità, a livello di formazione post secondaria, vi è invece il mancato decollo dei percorsi di specializzazione alternativi all’università. La formazione tecnica superiore, infatti, investita di recente da un processo di riorganizzazione, con l’istituzione dei Poli formativi per l’IFTS, appare un sistema ancora in fase di sviluppo e assestamento. I numeri delle attività corsuali appaiono addirittura in calo, con 144 corsi IFTS tra il 2006-2008 contro i 388 del periodo 2004-2006. Un prossimo monitoraggio ci consentirà anche su questo fronte di presentare dati di riflessione e alternative di intervento alle autorità competenti. Ma già fin d’ora si può dire che al successo delle lauree triennali bisogna aggiungere la progressiva licealizzazione della scuola italiana, fenomeno che rischia di indebolire l’istruzione e la formazione tecnico-professionale. Tra tutti gli studenti italiani i liceali sono ormai uno su tre, ad un solo punto percentuale di distanza dagli iscritti degli Istituto tecnici, mentre quelli degli Istituti professionali sono appena il 22%. Se consideriamo esclusivamente gli iscritti al primo anno delle superiori il sorpasso dei Licei è già una realtà di fatto. A ciò va aggiunto che il fenomeno della dispersione – lo dicevo un attimo fa – riguarda prevalentemente proprio il segmento tecnico- professionale. Di nuovo segnalo l’urgenza di una riflessione e di interventi mirati per ridare ruolo e significato all’istruzione professionale e rafforzare gli istituti tecnici. Un altro capitolo particolarmente preoccupante riguarda l’apprendistato. Vi è una situazione di opacità operativa che rende assai difficoltoso l’accesso alla formazione. è in caduta libera da tre anni: era il 25% nel 2004 – valore già di per sé basso – ed è sceso al 17% due anni dopo. Appare quindi del tutto condivisibile il giudizio espresso nel Libro Verde sul futuro del modello sociale, quando si dice che tale strumento “non risponde alle esigenze della 18 domanda di formazione da parte di lavoratori e imprese”. L’approccio che sembra profilarsi vede l’attribuzione di un ruolo sempre più ampio alle parti sociali e agli organismi bilaterali, invitati a partecipare alla governance del sistema in chiave cooperativa. Quanto alla sperimentazione dell’apprendistato “alto”, anche in quei territori dove sembra che lo strumento abbia riscosso il maggior successo – ovvero nell’area del Nord-Ovest – il primo avviso pubblico per la raccolta dei progetti ha riscosso una scarsa attenzione da parte delle strutture produttive, tanto da lasciare una ampia quota di risorse non assegnate. Mi avvio a concludere. L’anno scorso, in occasione della presentazione del precedente Rapporto, segnalavo come l’analisi degli andamenti in atto fosse positiva. I documenti di programmazione dei Fondi strutturali per il periodo 2007-2013 sono stati elaborati in funzione di un contesto di questo tipo. Improvvisamente, il quadro è cambiato, la crisi e la recessione sono già attualità, e rischiano di aggravare vecchie e nuove fratture territoriali sia sul fronte del mercato del lavoro che del sistema formativo. Innanzitutto, il mutamento di ciclo rischia di accentuare le disparità, tra le persone e fra i territori. Si pone allora la necessità di garantire un’efficace governance delle politiche volte a contrastare tali rischi. Il tema del federalismo acquista quindi un significato particolare, perché il decentramento delle politiche attive del lavoro si trasformi in occasione di sviluppo dei territori sulla base delle diverse caratteristiche locali. Ma occorrono anche momenti di sintesi e di controllo. Ed appare indispensabile un’azione di governo da parte dell’Amministrazione centrale volta ad arginare i forti ritardi che ancora caratterizzano una parte del nostro Paese. E’ la questione dei livelli essenziali dei servizi. A riguardo, appare importante la consapevolezza sottolineata nel Libro Verde sul futuro del modello sociale che l’efficacia dell’azione di governance delle politiche del lavoro dipenda non solo dalle Istituzioni ma anche dal contributo delle parti sociali. 19 Il processo di ridefinizione delle competenze scaturito dalla riforma del Titolo V della Costituzione non ha sempre avuto un adeguato accompagnamento in termini di raccordo, almeno per quel che riguarda le politiche attive del lavoro. E’ invece prioritario rafforzare una struttura di governo capace di intervenire in un’ottica di sistema e al tempo stesso di supportare operativamente i territori in ritardo. Quei territori che potrebbero rivelarsi particolarmente vulnerabili in una fase di maggiore difficoltà macroeconomica. Più in generale, concludendo, ci si deve chiedere se l’intero ciclo delle politiche del lavoro, dell’istruzione e della formazione non debbano essere ripensati e riorientati alla luce della crisi in corso. Chiudo, come sempre, assicurando l’impegno dell’Isfol sia sul versante della ricerca e della valutazione del monitoraggio, sia in materia di assistenza tecnica. Ringrazio i ricercatori e tutto il personale dell’Istituto, poiché il Rapporto è innanzitutto il frutto del loro lavoro. Ringrazio infine tutti i presenti per la partecipazione a questo nostro importante appuntamento annuale.

ISFOL: Rapporto ISFOL 2007

Descrizione breve: 
Europa, formazione, lavoro sono le parti in cui è articolato il Rapporto ISFOL 2007, e, in particolare il difficile accesso alla formazione. L’Italia si pone, infatti, come fanalino di coda per il grado di formazione della popolazione.
Allegato: 
Data: 
21 Novembre 2007
ISFOL 2007/rapporto ISFOL donne.pdf 1 Roma, 20 novembre 2007 COMUNICATO STAMPA LE DONNE. PIÙ BRAVE A SCUOLA, PIÙ DISCRIMINATE SUL LAVORO Il 2007, Anno europeo per le pari opportunità per tutti, si sta concludendo all’insegna di un paradosso ormai consolidato dalla nostra tradizione nazionale: le donne sono più brave a scuola, ma sul lavoro fanno molta più fatica dei loro colleghi maschi ad affermarsi, in termini di stabilità, retribuzione e carriera. I dati emersi dal Rapporto Isfol 2007 confermano la maggiore propensione femminile allo studio. La migliore resa scolastica delle donne si evince a partire dai dati sulla dispersione scolastica: nel 2006 il tasso di dispersione femminile tra la popolazione 18-24enne è del 17,3%, mentre quella maschile arriva al 24,3%. Ancora più eloquenti i dati relativi ai risultati raggiunti dalle ragazze sia nella scuola secondaria sia in ambito accademico: complessivamente, nell’anno scolastico 2005- 2006, il 76,9% delle giovani studentesse ha conseguito un diploma di scuola secondaria superiore, contro il 65,4% dei maschi. Tasso di produttività della scuola secondaria superiore per tipo di scuola Tipo di scuola Anni 1990/91 2000/01 2003/04 2004/05 2005/06 Istituti Professionali* 33,8 47,1 54,6 51,7 46,6 Istituti Tecnici 63,6 70,6 74,4 73,1 76,0 Licei 74,4 80,8 82,0 83,8 85,1 Istruzione magistrale(a) 62,8 67,5 78,2 78,2 82,9 Istruzione artistica (b)* 57,0 58,9 60,8 62,6 62,4 Tasso di produttività totale 59,7 67,4 71,7 70.9 71,0 (a) Licei e istituti psicopedagogici e dei servizi rivolti alla persona (b) Istituti d'arte e licei artistici * il dato può essere influenzato da quanti terminano con il triennio. Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat, Ministero della Pubblica Istruzione 2 Le studentesse mantengono la distanza dai maschi anche nella scelta degli studi universitari: nell’anno accademico 2006-2007, il 78,7% delle ragazze che si erano diplomate nell’anno precedente è passato all’Università; si tratta di una percentuale significativamente superiore al 72,5%, che corrisponde al tasso complessivo di diplomati passati, l’anno successivo al conseguimento del diploma, all’istruzione universitaria. Le matricole universitarie di genere femminile rappresentano il 65,1% dell’intera popolazione femminile tra i 19 e i 20 anni, mentre per gli uomini la percentuale è pari al 48,4%. In aumento anche il tasso di iscrizione complessivo che è del 59,5%, ma la presenza delle sole donne raggiunge il 68,8%. Continuano a prevalere le donne anche per il conseguimento della laurea: dei complessivi 161.445 studenti che nel 2006 hanno conseguito una laurea di primo livello, il 57,3% è costituito da donne. Se poi passiamo a considerare il gruppo disciplinare letterario, linguistico e psicopedagogico (pari al 22,4% dei laureati), che nell’anno di riferimento 2006 ha visto la più alta concentrazione di titoli di primo livello, vediamo che le donne, confermando anche qui una tradizionale propensione per le materie umanistiche, hanno conseguito quasi l’81% dei titoli. A fare da contraltare a questi successi nel campo dell’istruzione i dati sull’occupazione femminile: l’obiettivo fissato dalla strategia di Lisbona di un tasso di occupazione femminile del 60% al 2010 appare irraggiungibile dall’Italia. Con un dato di poco inferiore al 47% nel 2006 (contro il 71% maschile) l’Italia ha già ampiamente disatteso anche l’obiettivo intermedio fissato al 57% per il 2005. La partecipazione al lavoro da parte delle donne tende costantemente a diminuire. Cresce il numero di coloro che si ritirano dal mercato del lavoro: quasi 10 milioni di donne in età lavorativa non hanno cercato un impiego (gli uomini in questa condizione sono circa la metà). Il lieve deterioramento della condizione delle donne nel mercato del lavoro è testimoniato dai dati relativi agli ingressi nell’occupazione. Nel 2006 solo il 36,7% delle nuove occupate è stato assunto con un contratto a tempo indeterminato (contro il 41,4% del 2005) e, rispetto all’anno precedente, sono cresciuti invece gli accessi mediante lavoro a termine (36,2) e a progetto (6,4%). Nel 2006 in seguito alla maternità ben una donna su nove esce dal mercato del lavoro. In due terzi dei casi per esigenze di cura e assistenza alla prole e per un terzo a causa di motivazioni legate al tipo di contratto di lavoro. Il tema della conciliazione dei tempi di lavoro con i tempi extra lavorativi rappresenta un fattore determinante per la partecipazione femminile. Dall’indagine Isfol-Plus emerge che il 67% delle donne ritiene il proprio orario di lavoro “troppo lungo” per essere conciliabile con gli impegni familiari. D'altronde oltre l’80% dei lavoratori part-time è costituito da donne e, nella stragrande maggioranza dei casi, si è trattato di una scelta “obbligata”, che incide fortemente sulla retribuzione, nonché sulle prospettive di carriera. 3 I salari delle lavoratrici sono in media inferiori del 25% rispetto a quelli dei lavoratori, se ci si riferisce al monte salari annuo calcolato dall’Istat. Il differenziale retributivo medio è pari al 15,8% a parità di contratto e di livello di inquadramento. Il dato medio per gli anni che vanno dal 1998 al 2002 testimonia comunque una lieve flessione del livello di disparità di trattamento che è sceso dal 18,5% al 15,8%. Il divario retributivo tra uomini e donne resta quindi uno dei maggiori ostacoli alla parità di trattamento, sia per le disparità a pari inquadramento e mansioni sia per la discriminazione all’accesso a posizioni meglio retribuite, anche a pari professionalità, istruzione ed esperienza lavorativa. Le donne che hanno ruoli di tipo “dirigenziale” (a vari livelli) sono il 22% contro il 38,5% degli uomini; tuttavia si può notare che le donne accedono a posizioni “di comando” in tempi più rapidi rispetto agli uomini. La strada per la risoluzione del gap con l’Europa passa non solo attraverso la creazione di nuove opportunità per le donne che entrano per la prima volta o rientrano nel mercato del lavoro dopo un periodo di inattività, ma anche attraverso la comprensione degli ostacoli alla partecipazione femminile e il contrasto dei fenomeni di abbandono. Per informazioni: Ufficio Stampa 06.44590895-2 stampa@isfol.it, r.colella@isfol.it ISFOL 2007/rapporto ISFOL formazione.pdf 1 Roma, 20 novembre 2007 NOTA DI APPROFONDIMENTO PER LA STAMPA FORMAZIONE L’anno che si va a concludere ha visto un processo riformatore di notevole rilievo che dovrebbe incidere in modo significativo sull’assetto del sistema di istruzione e formazione professionale italiano basti ricordare il prolungamento da 8 a 10 anni dell’obbligo di istruzione, il mantenimento degli istituti tecnici e professionali nell'ambito del sistema dell'istruzione secondaria superiore, la soppressione del diploma triennale di qualifica statale, l’istituzione degli istituti tecnici superiori e dei “poli tecnico-professionali”. Gli interventi apportati intendono stimolare i giovani ad acquisire delle competenze chiave, trasversali e culturali, in sintonia con le Raccomandazioni europee e la strategia di Lisbona, che ha posto al centro dell’attenzione la creazione e l’attuazione di un sistema di apprendimento permanente. Inoltre questi provvedimenti intendono contrastare il declino dell’istruzione tecnica, che negli ultimi 15 anni ha perso oltre 350.000 iscritti. Tuttavia il sistema educativo italiano appare anche stressato da un lungo periodo di riforme incompiute, annunciate e non realizzate, varate e successivamente riformulate. Si avverte il rischio che la consapevolezza degli esiti delle riforme precedenti crei tra gli operatori del sistema una sorta di impermeabilità nei confronti del nuovo processo riformatore, che potrebbe essere percepito in qualche modo anch’esso come provvisorio. Rimangono inoltre irrisolti alcuni nodi relativi all’interpretazione del Titolo V della Costituzione, sui quali è aperto il confronto Stato-Regioni. La mancanza di una decisa identificazione degli operatori negli obiettivi di riforma rallenta il progresso del sistema; nonostante l’introduzione dell’obbligo formativo prima e del diritto-dovere poi, la dispersione scolastica tende a persistere e la qualità complessiva del sistema di istruzione e formazione è ancora lontana dai target di Lisbona. Gli indicatori più recenti confermano l’arretratezza del nostro Paese rispetto ai benchmark fissati: ancora il 20% della popolazione giovanile non riesce ad andare oltre il titolo di licenza media, contro il limite massimo del 10% indicato dagli obiettivi comunitari; il tasso di diplomati è al 75,5%, contro l’85% del benchmark europeo. Inoltre, solo il 51% della popolazione italiana possiede un titolo di studio post-obbligo, contro il 70% della media europea. 2 Evoluzione del conseguimento degli obiettivi di Lisbona in materia di istruzione e formazione Fonte: Eurostat Particolarmente grave la situazione dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni: circa 113.000 sono esclusi dai canali formativi formali; a questi si aggiungono gli oltre 40.000 minorenni che, nonostante siano stati assunti con contratto di apprendistato, non svolgono le attività formative previste dalla legge, per un totale di oltre 150.000 adolescenti formalmente soggetti ad obbligo che in realtà sono fuori da ogni canale formativo. Per quanto riguarda l’istruzione universitaria, rimane stabile il numero degli iscritti, mentre sono in ripresa (+10,9%) le immatricolazioni nelle facoltà scientifiche, che negli anni precedenti si erano drasticamente ridimensionate. Il dato più significativo riguarda l’aumento del numero dei laureati, a dimostrazione del recupero di efficienza prodotto dall’introduzione del modello 3+2: nel 2006 hanno conseguito un titolo di studio universitario oltre 300.000 persone, ovvero 100.000 in più di quanti se ne erano laureate appena 4 anni prima. Titoli universitari conseguiti nel 2002 e nel 2006 Tipologia di corso 2002 2006 v.a. val. % v.a. val. % Diploma universitario/Sdfs 13.367 6,6 810 0,3 Laurea vecchio ordinamento 164.531 81,8 100.078 33,3 Laurea di base (1° livello) 22.304 11,1 161.445 53,7 Laurea specialistica a ciclo unico 817 0,4 8.782 2,9 Laurea specialistica (2° livello) 99 (b) 29.620 9,8 Totale titoli conseguiti 201.118 100,0 300.735 100,0 Elaborazione Isfol su dati Miur Si può dunque concludere che la riforma universitaria del 3+2, sia pure tra luci ed ombre, abbia sostanzialmente raggiunto l’obiettivo di aumentare l’efficienza del sistema, grazie al suo impianto modulare. Meritano un’attenzione particolare i dati relativi ai risultati conseguiti dalle ragazze sia nella scuola secondaria sia in ambito accademico: complessivamente, il 76,9% delle giovani studentesse arriva a prendere un diploma di scuola secondaria superiore, contro il 65,4% dei maschi. Le studentesse mantengono la distanza dai maschi anche nella scelta degli studi universitari: nell’anno accademico 2006-07 il 78,7% delle diplomate nell’anno precedente è passato all’Università. Le matricole universitarie di genere femminile rappresentano il 65,1% dell’intera popolazione femminile tra i 19-20 anni, mentre per gli uomini la percentuale è pari al 48,4%. In aumento anche il tasso di iscrizione complessivo che è del 59,5%, ma la presenza delle sole donne raggiunge il 68,8%. Continuano a prevalere le donne anche per il conseguimento della laurea di I livello: 57,3%. Per quanto riguarda la formazione professionale, l’attività promossa dalle Regioni arriva a raccogliere circa 700.000 allievi, di cui 214.000 concentrati nella formazione iniziale: sono dunque Indicatori Anni 2000 2006 Italia UE 27 Italia UE 27 Tasso di abbandono scolastico e formativo (a) 25,3 17,6 20,8 15,3 Tasso di istruzione secondaria superiore dei giovani (b) 69,4 76,6 75,5 77,8 Tasso di istruzione secondaria superiore della popolazione 45,2 64,4 51,3 70,0 Tasso di partecipazione ad attività di LLL (c) 4,8 7,1 6,1 9,6 (a). Benchmark europeo: entro il 2010 non oltre il 10% (b) Benchmark europeo entro il 2010 almeno l’85% (c) Benchmark europeo: entro il 2010 almeno il 12,5% 3 il 37% i giovani tra i 15 ed i 24 anni in cerca di occupazione che decidono di avvalersi di questi corsi, quota sostanzialmente stabile nell’ultimo anno. Nell’Italia settentrionale il sistema di formazione professionale raggiunge quasi tutti i giovani in cerca di occupazione, mentre nel Centro e soprattutto nel Sud la formazione è molto meno presente. Allievi formati sul bacino d'utenza (2005/2006) – (%) Regioni Formazione giovani(a) Formazione adulti(b) Formazione adulti disoccupati(c) Totale Nord 91,1 1,8 9,9 3,9 Centro 41,7 1,0 6,6 2,4 Sud 10,7 0,4 5,5 1,4 Totale 37,0 1,2 7,0 2,8 (a)Rapporto tra allievi dei corsi di 1° e 2° livello e giovani di età compresa tra 15 e 24 anni in cerca di occupazione (b)Rapporto tra allievi di corsi per adulti occupati e occupati di età superiore ai 25 anni (c)Rapporto tra allievi di corsi per disoccupati e disoccupati di età superiore ai 25 anni Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat e regionali In particolare sono quasi 100.000 i giovani che si sono iscritti ai corsi sperimentali triennali avviati nell’ambito della precedente riforma della scuola secondaria. Il giudizio espresso su questi corsi è generalmente positivo: 2 allievi su 3, se tornassero indietro, rifarebbero la stessa scelta (65,7%, sia nello stesso corso che in un altro), circa l’8% andrebbe a lavorare e il 13,5% si iscriverebbe a scuola, con un tasso di indecisi che risulta tuttavia di circa il 13%. Valutazione retrospettiva della scelta dell’agenzia formativa Fonte: Indagine Isfol, IARD, 2006 Tuttavia i risultati dell’attività formativa in termini di occupazione prodotta stentano a superare le difficoltà esistenti nel mercato del lavoro locale: solo il 20,6% di coloro che hanno seguito un’attività formativa finanziata dal Fondo Sociale Europeo nel Mezzogiorno risultano occupati ad un anno dalla conclusione dei corsi. Pesano su questo risultato problematico le condizioni del mercato del lavoro meridionale e la composizione degli utenti dei corsi, che sono in buona parte persone con precedenti difficoltà di inserimento occupazionale. 4 Tassi d’inserimento a 12 mesi per regioni degli interventi conclusi tra il luglio 2003 e il luglio 2004 (%) Fonte:Isfol L’apprendistato raccoglie quasi 600.000 giovani, e dunque si conferma uno strumento molto utilizzato dalle imprese; tuttavia solo il 20% di questi svolge una effettiva attività di formazione formale, mentre per il resto si tratta prevalentemente di formazione in affiancamento. E’ stabile anche il numero di aziende (19,8%) che promuovono attività di formazione continua per i propri dipendenti: l’attività formativa dunque rimane stabile, nonostante la crescente adesione ai Fondi Paritetici Interprofessionali (FPI), che riguarda ormai il 42,4% delle aziende private (per un totale di quasi 6 milioni di lavoratori). Adesioni espresse e lavoratori in forza presso le imprese aderenti ai FPI (maggio 2007) Fondi Adesioni Dipendenti Fondo Formazione PMI 37.974 434.485 Fon.Ar.Com 13.292 65.523 Fondo Artigianato Formazione 167.045 865.714 Fon.Coop 9.852 300.131 Fondimpresa 43.480 2.386.494 For.Te 91.098 1.394.725 Fondo Professioni 28.444 121.966 Fond.E.R. 7.416 85.806 Fonter 46.521 320.664 Fondirigenti 10.613 63.670 (*) Fondo Dirigenti PMI 539 1.418 (*) Fondir 3.211 25.080 (*) Totale complessivo 459.485 5.975.508 (*) Novembre 2006 Fonte: elaborazione Isfol su dati INPS Esiste un ampio divario tra le grandi e le piccole imprese nella capacità di offrire corsi di formazione al proprio personale. Infatti la quota di imprese che offrono formazione è molto alta fra le grandi imprese (73%), ma molto bassa fra le micro-imprese (16%); minore attività di formazione viene realizzata nel settore manifatturiero e in generale nel Mezzogiorno. Anche la partecipazione ad attività formative per i propri interessi personali rimane bassa (vi ricorre il 12% dei cittadini nell’arco di un anno). Ne consegue che il tasso complessivo di partecipazione della popolazione ad attività di apprendimento permanente è del 6,1%, contro il 9,6% della media europea (entro il 2010 occorre giungere almeno al 12,5%). Il punto debole, a tutti i livelli, riguarda l’organizzazione di una capillare attività di informazione ed orientamento: così solo il 40% dei giovani che terminano la scuola secondaria ha trovato nella scuola e nell’Università informazioni adeguate riguardo alle opportunità future di Regione Tasso d’inserimento occupazionale lordo (1) Tasso di inserimento e reinserimento in istruzione e formazione (2) Tasso di successo (3) Tasso di inserimento coerente (calcolato sul totale di destinatari conclusi) (4) Basilicata 16,8 6,1 22,8 5,2 Campania 19,9 18,3 38,2 8,1 Molise 24,2 39,7 63,9 9,5 Puglia 21,7 16,8 38,5 7,7 Sardegna 32,2 8,3 40,5 14,6 Sicilia 16,3 18,7 35,1 6,4 Totale 20,6 16,2 36,8 7,9 5 studio e di lavoro, mentre il 60% della popolazione dichiara di non essere a conoscenza dei luoghi deputati alla formazione per gli adulti. La scarsità di informazione produce, oltre che una ridotta partecipazione alle attività formative, il perpetuarsi di scelte legate alla condizione sociale. Tipo di scelta per titolo di studio del padre Liceo Istituto tecnico Istituto professionale (compresi istituti d’arte) Titolo di studio del padre Laurea o superiore (Master, ecc.) 32,2 9,1 5,1 Medie superiori 46,6 50,3 37,7 Medie inferiori 18,4 32,7 46,2 Elementari/Nessun titolo 1,0 4,5 9,2 Non risponde/Non sa 1,8 3,4 1,8 Totale 100,0 100,0 100,0 Fonte: indagine Isfol Anche la mancanza di standard comuni di riferimento, capaci di garantire l’omogeneità delle certificazioni su tutto il territorio nazionale e il loro riconoscimento in sede comunitaria, costituisce un punto critico dell’attività formativa, sul quale sta lavorando un Tavolo Unico Nazionale. La prossima emanazione della Raccomandazione europea sulla certificazione, che introdurrà un Quadro Europeo delle Qualifiche articolato su 8 livelli per tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, potrà imprimere sicuramente un’ulteriore spinta al processo nazionale. Per informazioni: Ufficio Stampa 06.44590895-2 stampa@isfol.it, r.colella@isfol.it ISFOL 2007/rapporto ISFOL lavoro.pdf 1 Roma, 20 novembre 2007 NOTA DI APPROFONDIMENTO PER LA STAMPA LAVORO Quadro generale Il numero degli occupati in Italia ha superato quest’anno i 23 milioni. I ritmi di incremento sono minori di quelli registrati a cavallo tra i due decenni, ma in quanto correlati ad una crescita economica nazionale e comunitaria – diversamente che in passato - tale incremento occupazionale sembra assumere un carattere strutturale e fa quindi ben sperare per il futuro. Il tasso di disoccupazione, pari al 6%, risulta ai minimi “storici” se si guarda all’ultimo ventennio. Prosegue tuttavia, sia pure con qualche segnale di rallentamento nell’ultimo periodo, la flessione dei tassi di attività. In altri termini, vi sono ampi segmenti di popolazione in età attiva che non lavorano e non cercano lavoro. Tale fenomeno, che un tempo dipendeva dall’assenza di occasioni di impiego, oggi dipende soprattutto dal fatto che il lavoro disponibile, spesso, non risponde alle attese e alle esigenze dei lavoratori, in particolare dei giovani e delle donne. I fattori che generano “disaffezione” sono prevalentemente tre e spesso tra loro correlati:  molte occasioni di impiego riguardano lavori poco o per niente qualificati;  più della metà dei lavori “in ingresso” sono a carattere temporaneo;  le retribuzioni proposte sono al di sotto delle attese e della soglia di necessità. In definitiva ciò non significa che “tutto” il nuovo lavoro sia dequalificato, precario e mal pagato, ma indubbiamente vi sono numerosi segnali che indicano che la crescita del sistema produttivo stia avvenendo in settori che generano cospicue quote di lavoro a basso contenuto di “conoscenza” e con poche prospettive di “sviluppo di carriera”. Le reali dimensioni del “lavoro atipico” Nonostante l’evoluzione positiva degli indicatori, il lavoro viene percepito come “un problema” grave nella nostra società a causa di una quota progressivamente crescente di lavoro precario e della sensazione diffusa che il lavoro sia “di scarsa qualità e di poche prospettive”. Il lavoro dipendente a termine, nelle sue molteplici forme (contratto a tempo determinato, apprendistato, interinale, ecc.) riguarda quasi 10 lavoratori su 100. Più contenuta la quota dei collaboratori (co.co.co., a progetto, occasionali) pari complessivamente al 5,7%. 2 Il lavoro atipico riguarda tra i 3,5 e i 4,5 milioni di lavoratori (Indagine Isfol Plus 2006). Nell’accezione minima coinvolge quasi 3,5 milioni di persone, poco più del 15% dell’occupazione, includendo gli occupati a termine (compreso l’apprendistato) e i parasubordinati (occupati autonomi esposti a più vincoli di subordinazione). Se si includono i “part-time involontari” e tutti coloro che non conoscono la tipologia del proprio contratto di lavoro, nel suo insieme la platea della “atipicità massima” è formata da poco più di 4,5 milioni di persone, pari a circa il 20% degli occupati. Non tutti i lavoratori “atipici” si percepiscono come precari; ad esempio il 28% ritiene l’attuale contratto preludio di un rapporto di lavoro permanente ed il 7% lo considera un periodo necessario di pratica e specializzazione professionale. Un dato positivo sta nel fatto che:  la maggior parte del lavoro “precario”, anche reiterato, trova poi sbocco in un lavoro a carattere permanente;  il lavoro dipendente rimane strutturalmente lavoro a prevalente carattere permanente (86,6% dei lavoratori alle dipendenze);  solo il 19% degli occupati teme la perdita del proprio impiego. Se il lavoro “atipico” rappresenta per molti il trampolino di lancio nella vita attiva e nella crescita professionale, per altri può rappresentare una “trappola”: il 48% dei rapporti di lavoro “atipici” sono stati già rinnovati almeno una volta. La mancanza di prospettive di carriera costituisce il fattore di maggiore insoddisfazione degli occupati italiani (54,5%). I percorsi di “carriera” in Italia risultano decisamente “ingessati” ed è difficile una progressione verticale soprattutto per chi entra dal basso della “piramide” delle qualificazioni e degli status professionali. La carriera è infatti migliorata per 1 lavoratore di alta qualificazione su 2, per 1 impiegato su 3 e solo per 1 un operaio su 5. La percezione delle possibilità di sviluppo di carriera è addirittura peggiorata nel tempo passando dal 47% nel 2002 al 41% nel 2006. 3 Il lavoro femminile Il tasso di occupazione femminile si attesta poco sotto il 47%; l’obiettivo di “Lisbona” del 60% al 2010 non sarà raggiunto dall’Italia, stante anche il fatto che la propensione al lavoro delle donne tende costantemente a diminuire. Quasi 10 milioni di donne in età lavorativa non lavorano né cercano un impiego (gli uomini in questa condizione sono circa la metà). Motivazioni prevalenti sono: - il 63% delle donne accede al lavoro con un contratto “atipico” (nel 2005 erano il 60%); - il 67% delle donne ritiene il proprio orario di lavoro “troppo lungo” per essere conciliabile con gli impegni famigliari; - oltre l’80% dei lavoratori con contratto part-time è di genere femminile, ma la scelta è nella stragrande maggioranza dei casi “obbligata” per ragioni di conciliabilità, e si tratta ovviamente di una scelta che incide fortemente sulla retribuzione, nonché sulle prospettive “di carriera”; - i salari delle lavoratrici sono in media inferiori del 25% di quelli dei lavoratori; a parità di contratto e di livello di inquadramento la differenza è del 15,8%; - le donne che hanno ruoli di tipo “dirigenziale” a vari livelli sono il 22% contro il 38,5% degli uomini. Tuttavia si può notare che le donne accedono a posizioni “di comando” in tempi più rapidi rispetto agli uomini. 4 I lavoratori “anziani” Il 2007 ha visto un ampio confronto sul tema del “prolungamento della vita attiva” a ridosso della revisione “dello scalone” che ha posto in evidenza il tema della partecipazione al lavoro degli over55. Il tasso di attività dei soggetti di età compresa tra i 55 ed i 64 anni è in Italia di poco meno del 33%. Anche in questo caso siamo lontani dall’obiettivo di “Lisbona” del 50% al 2010, anche se si può notare come dal 2001 in poi i tassi di partecipazione al lavoro dei “meno giovani” siano lentamente ma progressivamente aumentati. Al 2006 gli over55 che fanno parte della popolazione attiva sono 2,3 milioni. 5 Contrariamente a quanto spesso si pensa non tutti gli inattivi over55 si sono “chiamati fuori” dal mercato del lavoro in quanto hanno raggiunto la tanto ambita pensione. Oltre il 31% degli inattivi ha lasciato il lavoro involontariamente per crisi, trasferimenti di azienda, licenziamenti e altro e quasi il 5% lo ha abbandonato per insoddisfazione. La platea degli “attivabili” appare dunque assai ampia e soprattutto emerge la necessità di prevenire i fenomeni di abbandono del lavoro. Al di là del ruolo “forzante” che il sistema pensionistico può comportare nel prolungare la permanenza al lavoro dei meno giovani - elevando più o meno la soglia dell’età pensionabile - si rileva la necessità di promuovere incentivi e servizi di accompagnamento che facilitino il prolungamento della vita attiva o il reinserimento. I dispositivi fino ad ora sperimentati hanno dato scarsi esiti (il “superbonus” ad esempio); si tratterà ora di vedere se avrà un impatto migliore la “staffetta giovani-anziani” varata con la legge finanziaria 2007. Il lavoro degli immigrati Gli stranieri residenti ufficialmente in Italia hanno raggiunto i 3 milioni di unità e rappresentano il 7% della popolazione attiva. Dall’indagine ISFOL-RLIL si rileva che il 21% delle imprese italiane ricorre a mano d’opera neo o extracomunitaria (23,7% nel Nord-Est). 1 impresa su 2 riporta come motivazione al ricorso di forza lavoro straniera il disinteresse da parte dell’offerta di lavoro italiana, mentre 1 su 3 lo attribuisce alla difficoltà di reperimento di manodopera nazionale per quella professionalità. Il 30% delle imprese dichiara che il costo del lavoro degli “stranieri” è più basso di circa il 24% di quello degli italiani. 6 Il 37% degli stranieri lavora nei settori a più alto tasso di lavoro irregolare come: le costruzioni, il commercio, gli alberghi e i pubblici esercizi. Una buona parte dei reclutamenti delle aziende ha interessato immigrati “non legalmente presenti” in Italia, infatti 1 impresa su 2 ha effettuato procedure di regolarizzazione per i propri dipendenti (3 aziende su 5 al Sud). 7 Sicurezza sul lavoro. Il lavoro “usurante” sia tradizionale che “post moderno” In generale quasi il 30% dei lavoratori italiani ritiene a rischio la propria salute, la percentuale sale al 36% tra chi lavora più di 45 ore settimanali, al 40% tra gli operai e supera il 48% tra chi svolge almeno un turno notturno al mese. Si riscontra inoltre un aumento dell’indicatore di oltre 9 punti percentuali tra il 2002 e il 2006. Il rischio è maggiormente percepito dai lavoratori “con esperienza”: se infatti si ritiene “a rischio” quasi il 32% di chi lavora da più di 20 anni, l’indice scende a meno del 20% tra chi lavora da non più di 5 anni. Emergono nuovi fattori di “disagio” percepiti anche nell’ambito dei settori dei servizi. Per il 65% il disagio deriva dall’“impegno mentale” che le mansioni implicano e per il 62% dal coinvolgimento psicologico-emotivo. Il disagio psicologico sembra spesso causato dal tipo di organizzazione del lavoro nei comparti esposti alle sollecitazioni degli utenti e dei clienti (call- center, luoghi di cura, grande distribuzione, ecc.). 8 Con circa venti punti di distacco segue la percezione della gravosità in termini di sforzo e disagio (42%). Sono tuttavia questi ultimi, più degli altri, che temono conseguenze gravi per la loro salute. Quasi il 17% degli occupati ha subito un infortunio nel corso della sua vita lavorativa la cui gravosità pare nettamente correlata sia con la gravosità del lavoro, in termini di sforzo e disagio fisico, sia con la durata dell’orario di lavoro. L’8,4% degli occupati ritiene di aver contratto malattie a causa del lavoro, anche se sono relativamente pochi i casi di malattie croniche o invalidanti. Nel 2007 sono state varate, con la Legge Finanziaria, diverse misure finalizzate a contrastare gli incidenti sul lavoro tra le quali è stata anticipata la comunicazione delle assunzioni agli uffici competenti e sono state quintuplicate le sanzioni amministrative. Per informazioni: Ufficio Stampa 06.44590895-2 stampa@isfol.it, r.colella@isfol.it ISFOL 2007/rapporto ISFOL relazione presidente.pdf 1 PRESENTAZIONE DEL RAPPORTO ANNUALE ISFOL Relazione del Presidente, Sergio Trevisanato Innanzitutto un sentito benvenuto a tutta l’assemblea. La presentazione del Rapporto Isfol 2007 come di consueto, offre un’ampia panoramica relativa ai sistemi dell’istruzione, della formazione e del lavoro in Italia, con un’attenzione particolare al contesto europeo di riferimento. Ma rappresenta anche l’occasione per fornire alcune chiavi di lettura che possano facilitare la definizione di azioni adeguate ad affrontare le criticità che ancora abbiamo di fronte. In uno sforzo di sintesi, voglio ricondurre i tanti temi affrontati nel Rapporto a due ambiti che ritengo fondamentali: quello della qualità e quello della segmentazione. Sono due ambiti strettamente legati fra di loro. Per “qualità” intendo: qualità del lavoro e qualità del sistema formativo. Qualità del lavoro non implica solo la ben nota contrapposizione tra occupazione standard ed atipica, ma include anche dimensioni spesso poco analizzate: il cosiddetto “impoverimento” del lavoro; la gravosità propria di alcuni mestieri; la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro; le dinamiche di carriera; oppure ancora le opportunità di mobilità professionale o la corrispondenza tra competenze acquisite e lavoro svolto. Qualità del sistema formativo implica la capacità di garantire percorsi calibrati sulle reali esigenze degli individui, ma anche capacità di adattare le competenze della forza lavoro all’evoluzione del contesto economico e produttivo. E qui, ovviamente, entra in gioco la qualità 2 degli strumenti di intermediazione e di accompagnamento, la qualità dei servizi per l’impiego e dell’orientamento, ma anche l’efficienza dei dispositivi per il riconoscimento e la certificazione delle competenze acquisite. Quanto alla segmentazione, l’attività di ricerca svolta durante l’anno si è concentrata soprattutto sulle fasce di popolazione che più di altre corrono il rischio di “rimanere indietro”, di rimanere ai margini dello sviluppo economico di questi anni: le donne, gli over 55, gli immigrati, i giovani. Senza dimenticare l’articolato mondo del lavoro sommerso, o il fenomeno, ancora assai marcato, della dispersione scolastica. Al tema della segmentazione si legano alcune problematiche di vecchia data, come il persistente e profondo gap che continua a separare in modo netto il Centro-Nord e il Sud del Paese; ma anche altre più recenti, come la polarizzazione tra professioni altamente qualificate e non qualificate, oppure lo scarto che separa dirigenti ed operai per quanto riguarda le opportunità di svolgere attività di formazione continua. Voglio però cominciare questa mia relazione con una nota positiva. In coerenza con i positivi andamenti di tutti i dati disponibili sul mercato del lavoro, anche i principali indicatori dei sistemi di istruzione, formazione e lavoro sembrano essersi incamminati lungo un trend stabile di miglioramento. Si tratta di miglioramenti strutturali, svincolati cioè da dinamiche congiunturali, di breve periodo. In un quadro che continua ad essere segnato da luci ed ombre, si profila dunque la possibilità di un punto di svolta nel nostro sistema di formazione e istruzione. 3 E qui mi ricollego ad un secondo fattore a mio parere positivo. L’effervescenza normativa in campo lavoristico dell’ultimo decennio sembra oggi conclusa, per lasciare invece il campo alla necessaria fase di applicazione e attuazione delle norme. In questo senso, vedo nell’accordo sul welfare del 23 luglio tra Governo e Parti sociali la conclusione –mi auguro– di un lungo periodo di accesa conflittualità. Ritengo di conseguenza che sia giunto il momento di rilanciare la sfida delle relazioni industriali decentrate e degli accordi aziendali, in funzione – appunto – attuativa di una legislazione del lavoro che negli anni passati aveva largamente demandato a questi livelli periferici il compito di rendere più elastico il rapporto tra domanda e offerta nei mercati del lavoro locali. Non dimentichiamoci, tra l’altro, che ci troviamo ai nastri di partenza della nuova programmazione delle politiche di coesione europee, con quasi 6 miliardi di euro messi a disposizione in Italia dai Fondi strutturali. Credo, sia necessario un grande impegno collettivo di coordinamento delle varie politiche, come è richiesto dai nuovi regolamenti comunitari nella messa a punto del Quadro strategico di riferimento nazionale. Relazioni industriali, offerta formativa, politiche attive e passive per il lavoro, previdenza, politiche di lotta all’esclusione e alla povertà, strumenti per la conciliazione tra tempi di lavoro e tempi extra lavorativi sono tutti pezzi di un unico disegno. Ritengo che questa necessità di integrazione sia una delle principali sfide per il prossimo futuro, alla quale sono innanzitutto chiamate le Regioni e il Governo nazionale. Ma veniamo ai dati del mercato del lavoro. Il livello dell’occupazione ha segnato nel 2006 il suo massimo storico in termini assoluti. Le nostre stime, inoltre, indicano uno scenario favorevole anche per i prossimi anni: nel 2009 gli occupati in Italia dovrebbero superare la 4 soglia dei 25 milioni. Si tratta di uno scenario per certi versi inatteso rispetto alle previsioni di 10-15 anni fa, ma che ci obbliga a riflettere su come avvantaggiarsi di questo contesto di base positivo. La scarsa partecipazione al mercato del lavoro rimane, invece, uno tra i problemi strutturali del nostro paese, che siamo costretti a compensare con una maggiore richiesta di forze di lavoro immigrate. Buona parte della diminuzione della disoccupazione che si è registrata in questi ultimi anni – posizionandosi su un valore del 6%, il più basso dell’ultimo ventennio – è legata ad un incremento del tasso di attività inferiore a quello del tasso di occupazione. Durante tutta la prima metà degli anni Duemila si è protratto un effetto di scoraggiamento che ha ridotto la partecipazione. Il tasso di attività della popolazione tra i 15 e i 64 anni è ancora inferiore di oltre 9 punti percentuali alla media dell’Europa a 15. Tuttavia – come dicevo – stanno emergendo segnali di discontinuità rispetto al passato. Nel 2006, ad esempio, la disoccupazione si è ridotta soprattutto nei segmenti più deboli del mercato del lavoro. Il calo dei disoccupati di lunga durata è stato superiore di oltre tre volte a quello dell’anno precedente; la disoccupazione giovanile ha segnato una flessione del 2,4%, interrompendo l’aumento costante del periodo 2002-2004. Ma non solo. La diminuzione della disoccupazione è avvenuta contestualmente ad una robusta ripresa della crescita, che lascia ipotizzare una fase di sviluppo relativamente stabile. Nel 2006 il tasso di incremento annuale del PIL ha compiuto un balzo in avanti, in controtendenza rispetto al primo quinquennio degli anni Duemila. A ciò si aggiunge – altro segnale positivo – una più elevata velocità di reazione della domanda di lavoro al ciclo economico. Questa corrispondenza tra aumento del PIL ed aumento dell’occupazione evidenzia una progressiva erosione di alcuni elementi di rigidità del 5 mercato del lavoro italiano. La maggiore flessibilità degli strumenti contrattuali sembra aver permesso un migliore adattamento della forza lavoro alle esigenze produttive. Accennavo invece, poc’anzi, alla polarizzazione tra professioni altamente qualificate e non. Continua, inoltre, la segmentazione tra la componente permanente e quella a termine dell’occupazione dipendente. La metà dei nuovi posti di lavoro creati nel 2006 è a tempo determinato – quasi il 10% in più rispetto al 2005. A ciò si aggiunge il lavoro parasubordinato, che, nasconde non di rado una subordinazione di fatto. Circa l’80% dei collaboratori ha un solo committente, usa dotazioni dell’azienda presso cui è impiegato, e garantisce quindi la propria presenza regolare presso la sede di lavoro, con orari predefiniti nella maggioranza dei casi. La possibile sovrapposizione tra queste due dimensioni, cioè l’atipicità contrattuale e la bassa qualificazione delle professioni, crea il rischio di una spaccatura, con la creazione di un mercato del lavoro di serie A ed uno di serie B. Per i lavoratori altamente qualificati la flessibilità può rappresentare un’opportunità più agile di ingresso nel mercato del lavoro, ma per i lavoratori a bassa o nulla qualificazione i rischi di una caduta nella precarietà sono reali. A livello europeo, come è noto, è stata coniata una nuova parola chiave, che evidenzia la necessità di conciliare al meglio le esigenze di efficienza economica e quelle di sicurezza sociale. È la cosiddetta flexsecurity. In una sua recente comunicazione, la Commissione europea ha indicato nella flexsecurity un’opportunità storica per l’Europa, la possibilità cioè di confermare il suo modello sociale, particolarmente 6 attento alle persone, e al tempo stesso rendere più competitivo il suo sistema produttivo. Credo che una serie di interventi previsti nella Finanziaria dell’anno scorso, finalizzati a contrastare la precarietà del lavoro, vadano in questa direzione. Ma in tale ottica credo vada letto anche il Protocollo sul welfare, che si è posto l’obiettivo non tanto di ridurre la flessibilità, quanto di farla effettivamente diventare un canale di accesso al mercato del lavoro. Inoltre, non va trascurato che nella stessa direzione si muove il recente progetto di riforma degli ammortizzatori sociali. Prendiamo appunto le donne. Voglio ricordare che la piena valorizzazione del bacino di lavoro femminile è uno dei cardini della strategia di Lisbona, che ha stabilito per il 2010 l’obiettivo comune di un tasso di occupazione delle donne pari al 60%. L’Italia, con circa il 46% registrato nel 2006, ha già ampiamente disatteso l’obiettivo intermedio del 57% per il 2005. Il triennio dal 2003 al 2005 è stato particolarmente negativo per l’occupazione femminile. Per la prima volta in dieci anni, il loro tasso di attività è sceso, passando dal 62,9% al 62,4%. Nel 2006 solo il 36% delle nuove occupate è entrato nel mercato del lavoro a tempo indeterminato. Il 17% vi è entrato in forma autonoma e tutte le altre con contratto a termine o di collaborazione. Ciò può rafforzare l’effetto di scoraggiamento che ha portato in questi anni molte donne all’inattività. Per fortuna, ed è questo un altro di quei segnali positivi di cui parlavo all’inizio, nel 2006 è tornato a diminuire il gap che separa le donne dagli uomini e sono migliorati tutti i macro indicatori del mercato del lavoro femminile. Rimangono alcuni nodi di fondo. Le donne sono ancora molto più esposte degli uomini a condizioni di lavoro peggiori, sia in termini di ritmi ed intensità del lavoro, che di carriera, che di reddito. Più del 7 75% fra le donne occupate si colloca nella fascia di reddito inferiore ai 1.250 euro al mese, contro il 46% degli uomini. E’ stato calcolato un differenziale medio uomo/donna del 15,8%, a parità di contratto e di inquadramento. La componente femminile è poi quella che maggiormente rischia di cadere nella “trappola” del lavoro nero. L’Isfol ha svolto quest’anno la prima indagine a largo spettro in Italia sull’occupazione sommersa ed irregolare delle donne. Più del 50% del campione ha dichiarato di avere un lavoro irregolare da oltre un anno. Il sommerso rappresenta una domanda strutturale e permanente per le donne, le quali tendono quindi ad esserne “invischiate”. Ecco la vera precarietà. C’è poi il problema della conciliazione tra vita professionale e vita privata. Nel 2006 una donna su nove è uscita dal mercato del lavoro in seguito alla maternità, che è ancora oggi uno dei fattori più difficili da gestire per le imprese ed una fonte di grande discriminazione. Per innalzare i nostri tassi di partecipazione al lavoro, oltre al segmento femminile, occorre poi intervenire sugli over 55. Il loro tasso di occupazione è aumentato nell’ultimo decennio del 4%, tra l’altro prevalentemente grazie alla componente femminile. Tuttavia nello stesso periodo tale incremento è stato in Europa mediamente pari al doppio, cioè oltre l’8%. Tra i 50 e i 64 anni quattro persone su dieci, in Italia, si dichiarano non più attive; e voglio sottolineare che per queste persone, le cause della non occupazione sono motivi lavorativi, molto più spesso che personali: il 38% non è attivo perché il lavoro l’ha perso. Occorre pertanto potenziare le misure finalizzate a prevenire l’uscita definitiva dal mondo del lavoro soprattutto nei casi di crisi e ristrutturazioni aziendali e settoriali. 8 Previdenza ed invecchiamento attivo sono temi legati. Non a caso, nell’anno trascorso il tema dell’invecchiamento attivo ha fatto da sfondo a tutto il dibattito sulla riforma delle pensioni. Da questo punto di vista, ritengo che la proposta avanzata con il Protocollo del 23 luglio debba tradursi in un processo di progressivo incremento dei tassi di occupazione dei lavoratori più anziani. Già la scorsa Finanziaria, devo dire, era intervenuta in tal senso, con misure specifiche per ridurre le uscite degli over 55 dal sistema produttivo. Vanno poi sviluppandosi nel Paese numerose esperienze di invecchiamento attivo, realizzate a livello locale. Ne diamo conto nel Rapporto, a cui rimando. Voglio invece riprendere il tema della qualità del lavoro. Se la questione flessibilità ha dominato il dibattito politico di questi anni, non si può dire altrettanto delle condizioni del lavoro e, in particolare, della soddisfazione percepita dai lavoratori. La possibilità di fare carriera e quindi di migliorare il proprio status sociale ed economico è l’aspetto per il quale si riscontra il più elevato grado di insoddisfazione (il 54,5% degli occupati ne è insoddisfatto). Le nostre ricerche confermano un’immagine piuttosto statica del mondo del lavoro italiano, dove oltre la metà dei lavoratori dichiara, tra l’altro, di non aver mai cambiato occupazione. In Italia si rischia forse poco di retrocedere dal punto di vista professionale, ma altrettanto poche sono le chance di progredire. Il tema si ricollega ad un altro tema di recente attualità, quello dei lavori usuranti. Se in generale quasi il 30% dei lavoratori ritiene a rischio la propria salute sui luoghi di lavoro, tale percentuale sale al 40% per gli operai. E in effetti, sappiamo che l’incidenza degli 9 infortuni è strettamente legata alle modalità del lavoro: chi lavora più a lungo, in orari non standard o a turni, con ritmi più elevati ha una maggiore incidenza di malattie e infortuni. La promozione della sicurezza sul lavoro è stata ultimamente al centro di importanti interventi legislativi. Tra gli aspetti più rilevanti, voglio segnalare il nuovo approccio – lanciato con la legge 248 del 2006 e poi ripreso dalla delega al Governo – finalizzato a coordinare in un’unica strategia gli interventi per la sicurezza con quelli di contrasto al lavoro irregolare. È un approccio da salutare con grande favore. A fronte di circa 3 milioni di unità di lavoro non regolari (il 12% del totale), sappiamo che il fenomeno riguarda in particolare le fasce più deboli del mercato del lavoro, in una spirale che somma gli effetti deleteri della precarietà con quelli legati ai pericoli per la salute e ai rischi di discriminazione. Ne ho già parlato a riguardo della componente femminile del sommerso. Un discorso analogo può essere fatto riguardo agli immigrati. Le indagini svolte nei mesi scorsi hanno confermato che gli extracomunitari svolgono lavori che gli italiani non vogliono fare. Quasi il 50% delle imprese che utilizzano manodopera extracomunitaria – un quinto delle imprese totali – affermano di avere fatto tale scelta per il disinteresse da parte dell’offerta di lavoro italiana. Va inoltre aggiunto che quasi il 30% di tali imprese indica come motivazione un costo del lavoro più basso degli immigrati. Il reddito medio da lavoro dei cittadini extracomunitari risulta inferiore a quello degli italiani in un range che varia dal 20 al 24%. Credo allora che siano necessarie ulteriori analisi, per verificare se l’abbandono da parte dei cittadini italiani di alcune professioni sia esclusivamente da ricondurre ad un’evoluzione qualitativa dell’offerta 10 di lavoro, o se non sia in parte legato ad un compenso considerato inadeguato alle mansioni richieste. I lavoratori extracomunitari rappresentano ormai in Italia quasi il 6% degli attivi; è una partecipazione strutturale, non occasionale. Ma il lavoratore straniero si trova spesso ad operare in un mercato del lavoro secondario, anche per le difficoltà riscontrate nella gestione degli ingressi. È quindi da accogliere con favore la proposta di promuovere l’ingresso di lavoratori qualificati e l’implementazione all’estero di liste di collocamento che facilitino l’incontro tra domanda ed offerta. Di fondamentale importanza è poi il ruolo che in tal senso può essere svolto dai Centri per l’Impiego. I Centri per l’Impiego hanno progressivamente abbandonato l’approccio indifferenziato che caratterizzava il vecchio collocamento, assumendo comportamenti basati invece sulla “presa in carico” delle persone in cerca di lavoro e sulle politiche attive. Va detto, tuttavia, che permane una forte dicotomia tra Centro-Nord, dove si hanno spesso servizi altamente personalizzati e in chiave “proattiva”, e il Sud, in cui prevalgono servizi di natura, per così dire, minimalista. E permangono, in generale, alcune eredità del vecchio collocamento, come lo sbilanciamento del sistema verso l’offerta di lavoro e la persistenza di un modello generalista, che rivela una certa difficoltà nel selezionare e segmentare le proprie platee di riferimento, sia relativamente alle persone che alle aziende. Ritengo che sia fondamentale concentrare gli sforzi futuri sulla definizione di strumenti efficaci di valutazione dei fabbisogni. Sotto questo profilo, il raccordo tra servizi per l’impiego ed offerta formativa è ancora limitato. Così come le attività di orientamento ed 11 accompagnamento e i percorsi on demand, associati alla definizione del patto di servizio o del piano di azione individuale. Inoltre, il ruolo dell’amministrazione centrale è defilato, non tanto sul versante dell’assistenza tecnica, quanto nella capacità di realizzare iniziative di raccordo e momenti di sintesi e di sistematizzazione. Ciò ha determinato un quadro caratterizzato da molte buone pratiche ma da una certa difficoltà di “fare sistema”, svolgendo una reale azione di regia delle politiche attive del lavoro a livello locale. Ritengo, quindi, che anche in vista della nuova programmazione dei Fondi strutturali si imponga un cambio di passo, specialmente con un maggiore dialogo istituzionale tra amministrazione centrale e periferica. L’avvio di un percorso di revisione del Masterplan dei Servizi per l’Impiego, intrapreso dal Ministero del Lavoro a partire dalla primavera del 2007, va in questa direzione. L’evoluzione del mercato dell’intermediazione, come è noto, ha ormai conferito al sistema italiano una configurazione mista pubblico- privata. Il processo di liberalizzazione ha avuto una progressiva accellerazione, che di recente è stata caratterizzata da un vero e proprio exploit delle agenzie di ricerca e selezione, di contro ad un ridimensionamento delle agenzie di outplacement. Va poi segnalato il crescente ruolo degli intermediari speciali, in particolare delle università. Si sta quindi realizzando un reale equilibrio tra pubblico e privato. Non dimentichiamoci però che nel nostro Paese ancora oggi una persona su tre, fra chi cerca lavoro, si rivolge a parenti e conoscenti e che i canali istituzionali intermediano poco più del 6%. Ciò potrà essere considerato magari efficace a livello individuale ma non lo è dal punto di vista sociale, poiché riduce la mobilità, limita la premialità del sistema, genera inefficienze nel mercato del lavoro. 12 Il sistema complessivo dei servizi per l’impiego richiede un affinamento della capacità di analisi dei fabbisogni, e della capacità di diagnosi in tempo reale dell’evoluzione del mercato del lavoro. Occorre individuare modelli di terza generazione, utilizzando al meglio lo scambio delle buone pratiche. In questo campo anche l’Isfol dovrà saper dare risposte efficaci, offrendo il proprio contributo di analisi e ricerca, ma anche di assistenza alle azioni di governance. Vengo ora al sistema formativo. La qualità complessiva del sistema italiano di istruzione e formazione è ancora lontana dagli obiettivi comuni fissati in sede europea dalla strategia di Lisbona. Il tasso di istruzione secondaria superiore dei giovani tra i 20 ed i 24 anni ha superato nel 2006 il 75%, ma rimaniamo comunque distanti di 10 punti percentuali dal benchmark dell’85% indicato per il 2010. Voglio però sottolineare che dal 2000 ad oggi l’Italia ha registrato un incremento del tasso dei diplomati di circa il 6%, contro l’1,2% della media europea. In pratica, abbiamo ridotto il gap che ci separa dall’Europa di circa 5 punti percentuali. Diverso il discorso per quel che riguarda la popolazione adulta (i 25- 64enni), dove solo un italiano su due risulta avere un titolo di studio post-obbligo, contro il 70% della media europea. Le ricadute sul livello complessivo di qualificazione della forza lavoro italiana sono evidenti: ad avere un titolo di scuola secondaria di II grado è meno del 60% degli attivi. Ma ricordo che 15 anni fa stavamo ancora al 35%! Nei primi anni ’90 ad avere solo la licenza elementare, o neanche quella, era un quarto della forza lavoro. Oggi siamo all’8%. Si tratta di processi lenti, legati al ricambio generazionale. Nel frattempo è essenziale la funzione svolta dall’apprendimento 13 permanente, sempre più al centro dell’attenzione in tutti paesi europei. A Lisbona è stato fissato l’obiettivo del 12,5% entro il 2010. Noi siamo al 6,1%, con un incremento rispetto al 2000 inferiore a quello della media europea. Cioè il gap tra noi e l’Europa, in questo caso, si è ampliato. L’educazione degli adulti in Italia è ancora troppo poco sviluppata, anche se un segnale significativo rispetto all’esigenza di costruire un vero sistema di apprendimento permanente viene dal disegno di legge in materia recentemente varato dal Consiglio dei Ministri. L’offerta dei Centri territoriali permanenti ha coinvolto, lo scorso anno, oltre 425 mila soggetti, con un lieve incremento rispetto all’anno precedente. Dall’analisi dell’offerta di formazione permanente predisposta dalle Regioni nella programmazione 2000-2006, si nota come tuttora permanga un’estrema difficoltà nel raggiungere le fasce più deboli della popolazione. Inoltre emerge una scarsa conoscenza dell’offerta disponibile sul territorio: il 60% degli intervistati non partecipa all’attività di formazione perché non ne è a conoscenza. Questo problema si riscontra anche per la formazione professionale rivolta ai giovani. Anche sul fronte della formazione continua riscontriamo un’evidente segmentazione. I tassi più elevati di partecipazione si hanno infatti tra i laureati. Tra i lavoratori dipendenti del settore privato che hanno partecipato ad attività di formazione continua (in totale il 6,6% degli occupati nel 2006), oltre il 60% ha un livello di istruzione alto, contro il 18% di chi lo ha basso. Quasi il 55% sono dirigenti o quadri, contro circa il 16% degli operai. 14 In quest’ambito si apre dunque un’altra sfida importante, dato che nel nostro Paese la formazione continua non ha mai avuto stanziamenti così cospicui come adesso avviene con i Fondi Paritetici Interprofessionali. Le imprese aderenti ai Fondi sono oltre 400 mila, con un tasso di adesione medio di circa il 42%. Il numero dei lavoratori in forza presso tali imprese supera ormai i 6 milioni, cioè più della metà dei dipendenti delle aziende private. Nei primi mesi del 2007 si è poi conclusa la fase di start-up, che ha già permesso di inserire circa 350 mila lavoratori in attività formative. Si pone ora il problema dell’integrazione tra gli interventi dei Fondi Paritetici e quelli della formazione continua a domanda individuale, in particolare quella mediante voucher. Un’esigenza che è stata ad esempio recepita dal Ministero del Lavoro nell’ultimo provvedimento di riparto della legge 236. Ed anche l’Accordo tripartito tra Ministero del Lavoro, Regioni e Parti sociali, siglato nell’aprile del 2007, ha indicato nuove modalità di coordinamento tra la programmazione regionale e quella dei Fondi Paritetici. Ricordo che l’Italia si posiziona ancora oggi agli ultimi posti in Europa per quel che riguarda la formazione continua offerta dalle imprese private. Nonostante il miglioramento registrato nell’ultimo anno, siamo sempre al di sotto del 20% delle aziende coinvolte. E c’è il divario tra le micro e le grandi imprese che fanno formazione, con uno scarto di circa il 56% tra le une e le altre. Sappiamo invece che la formazione continua paga: le imprese che fanno formazione per i loro dipendenti risultano infatti essere più dinamiche, e registrano i maggiori aumenti di redditività e di fatturato rispetto alla media. 15 Ma torniamo ora ai giovani. Complessivamente il sistema dell’istruzione e della formazione appare stressato da un lungo periodo di riforme incompiute. L’identità di diverse filiere è ancora incerta. Il prolungamento dell’obbligo di istruzione fino a 16 anni, la quinquennalizzazione degli istituti professionali, l’istituzione degli istituti tecnici superiori e il nuovo assetto dei Centri per l’educazione permanente rappresentano indubbiamente delle opportunità, che richiedono però, per essere colte a pieno, uno sforzo sotto il profilo attuativo. Dicevo prima del miglioramento dei principali indicatori di riferimento, ma anche della distanza che ancora ci separa dagli obiettivi di Lisbona. Un aspetto particolarmente problematico è quello della dispersione. A Lisbona è stato fissato per il 2010 un tasso di abbandono scolastico e formativo che non superi il 10%. Noi siamo oggi ad oltre il 20%, contro una media europea di circa il 15%. I rischi maggiori ricadono, sulle categorie più deboli. È necessario, in special modo, far sì che il segmento tecnico-professionale riesca ad attrarre i giovani attualmente esclusi dai processi educativi, fino al loro successo formativo. In una logica di apprendimento permanente è impensabile promuovere solamente percorsi lunghi, maggiormente esposti al rischio di dispersione, ma va data a chi sceglie i percorsi brevi la possibilità di ulteriori opportunità formative dopo il conseguimento della qualifica. L’adozione di modelli diversi, calibrati sulle esigenze del territorio, dovrà comunque mantenere saldo innanzi a sé l’obiettivo delle pari opportunità e dell’inclusione per tutti. Nonostante la crescente scolarizzazione, la quota di minorenni che fuoriesce da qualsiasi percorso di formazione è assai ampia: 113 mila 16 giovani, ai quali si aggiungono gli oltre 40 mila apprendisti che non svolgono le attività formative previste dalla legge. Concentrandosi sulle sole scuole secondarie superiori, inoltre, occorre segnalare il forte scarto in termini di dispersione tra gli istituti professionali e i licei. Nei primi gli abbandoni riguardano oltre uno studente su due, mentre nei secondi solo il 15%. Relativamente alle scuole tecniche e professionali, sottolineo come, proprio mentre si cerca giustamente di valorizzare questo segmento formativo, nell’anno scolastico 2005-2006, per la prima volta, il numero degli iscritti al primo anno dei licei ha superato quello degli istituti tecnici. La scelta dei licei è forse ancora una volta un tentativo di promozione sociale, visto che le professioni più tecniche hanno subito una contrazione della loro considerazione. A tale processo di licealizzazione, si aggiunge, poi, una sostanziale stabilità nei livelli di partecipazione alle attività di formazione professionale iniziale e addirittura ad un calo di quella alle attività di formazione regionale post-secondaria. Complessivamente la formazione professionale coinvolge il 2,8% della forza lavoro, cioè circa 700 mila allievi, concentrati soprattutto nel Nord Italia. Le disparità in termini geografici risaltano ancora più nettamente analizzando l’incidenza dei vari segmenti dell’offerta formativa sui relativi bacini d’utenza. La formazione per giovani coinvolge circa il 37% dei 15-24enni italiani in cerca di occupazione, ma tale percentuale è del 91% al Nord, contro il 42% del Centro ed appena l’11% del Sud. Fra gli adulti disoccupati (oltre i 25 anni) la formazione interessa in media il 17 7% del bacino potenziale, ma i valori del Nord sono circa il doppio di quelli del Sud. E per quel che riguarda la formazione degli adulti occupati, il Nord segna una percentuale oltre quattro volte superiore a quella del Mezzogiorno. Da questo punto di vista la vera scommessa è rappresentata dall’apprendistato, come alternativa alla formazione professionale rivolta ai giovani. Al chiudersi dell’esperienza pluriennale dei Contratti di formazione e lavoro si è affiancato un mancato decollo del nuovo apprendistato. Il numero degli apprendisti ha quasi raggiunto quota 600 mila, ma delle tre tipologie previste dal decreto legislativo 276 l’unica ad avere avuto un qualche sviluppo è quella dell’apprendistato professionalizzante, tra l’altro con una configurazione a macchia di leopardo che vede ancora una volta le performance delle Regioni meridionali a livelli estremamente bassi. Qui, innanzitutto, c’è una chiara esigenza di omogeneizzazione, con una più forte regia a livello centrale. È impensabile che convivano sul territorio modelli così differenti di regolamentazioni regionali e discipline contrattuali. Nel segmento dell’alta formazione, l’introduzione degli Istituti tecnici superiori va accompagnata dallo sviluppo di strumenti di certificazione e riconoscimento delle qualifiche e da un forte dialogo con il sistema universitario, evitando sovrapposizioni con le lauree triennali. Voglio evidenziare, per quel che riguarda il sistema universitario, come tra gli immatricolati nel 2006-2007 ai corsi di laurea di primo livello si registri un incremento di oltre il 10% nel gruppo scientifico, 18 rispetto all’anno precedente, e di quasi l’8% nel gruppo ingegneria- architettura, mentre calano i gruppi socio-economici. È un aspetto che va letto positivamente. Nel complesso, si è interrotto il trend positivo del numero totale di iscritti all’università, avviatosi nel 2000-2001. Per la prima volta, risulta in diminuzione il numero degli iscritti ai corsi di primo livello, mentre si consolida quello degli iscritti alle lauree specialistiche. Si confermano poi – ma ormai è cosa nota – le migliori performance della componente femminile, che rendono ancora più stridenti i divari di genere, sia retributivi che di carriera, nel mondo del lavoro. In un’ottica di prospettiva futura, la partita principale che andrà giocata nei prossimi anni riguarda la qualità del sistema formativo, in termini di competenze acquisite più che di conoscenze; spostando cioè l’attenzione dai processi ai risultati. E quindi verificando anche la capacità dei percorsi di tradursi in reali opportunità occupazionali. A questo riguardo, le indagini svolte sugli interventi finanziati nel Mezzogiorno dal Fondo sociale europeo non sono entusiasmanti. Solo uno su cinque dei destinatari delle azioni formative dichiara di essere occupato. Relativamente ai corsi IFTS (cioè i corsi di Istruzione e formazione tecnica superiore), sui quali l’Isfol svolge indagini campionarie a cadenza annuale, la situazione è migliorata. Dall’ultima rilevazione effettuata, risulta che a 12 mesi dal termine dei corsi la percentuale degli occupati è pari ad oltre il 60%. È comunque un fattore di preoccupazione che uno su tre dei partecipanti che erano in cerca di occupazione prima del corso continui a dichiararsi tale anche dopo. 19 Ciò non significa che la formazione non paghi sotto il profilo dell’occupabilità. Tra i formati tramite dottorato nel Mezzogiorno, ad esempio, si ha un tasso di occupazione del 67%, ben superiore al 41% dei laureati a dodici mesi dall’acquisizione del titolo. Emerge piuttosto una fragilità delle misure di accompagnamento ed orientamento. Senza contare che una maggiore qualificazione in mancanza di una corrispondente domanda di lavoro genera disoccupazione invece che nuova occupazione. Gli interventi di orientamento sono in crescita, ma il quadro nel suo complesso risulta ancora lontano dall’essere soddisfacente. Il numero di coloro che si rivolgono alle agenzie sul territorio, come gli Informagiovani o i Centri per l’Impiego, è molto basso. Sul versante dei corsi IFTS le cose vanno meglio, ma comunque più della metà del campione che abbiamo intervistato dichiara di non avere alcuna informazione a riguardo. Nei loro processi di scelta i giovani si ritrovano spesso con il solo supporto della famiglia. E questo ha evidenti ricadute a livello sociale. Tra gli studenti al quinto anno delle superiori il cui padre ha il solo titolo di scuola media, appena il 18% frequenta il liceo. Una percentuale che scende a circa l’1% per i figli di chi ha fatto le elementari o non ha alcun titolo di studio. Le amministrazioni regionali e provinciali si stanno attivando per garantire il successo formativo a tutti i giovani, attraverso – appunto – il rafforzamento delle azioni di orientamento e lo sviluppo di attività di accompagnamento attraverso i Centri per l’Impiego. Il grado di copertura dei servizi e il loro livello risulta buono, anche se scarseggiano gli interventi di vero e proprio tutoraggio, soprattutto al Sud. 20 Uno dei problemi principali dei CPI, da questo punto di vista, è la scarsa disponibilità di risorse umane dedicate alle attività dei giovani in obbligo. In conclusione, il quadro che ho delineato è – come dicevo all’inizio – un quadro dove gli elementi di dinamismo prevalgono sugli elementi di staticità. Torno perciò a sottolineare il valore di una nuova stagione che superi le conflittualità del passato e permetta un impegno comune, finalizzato a cogliere le opportunità che abbiamo di fronte. Voglio infine fare alcune brevissime considerazioni sul lavoro che ci attende. Parlo questa volta dell’Isfol. Di fronte alle evoluzioni così rapide a cui assistiamo, c’è la necessità di raffinare e sistematizzare la nostra capacità di analisi, di assistenza operativa alla governance dei sistemi. Ed anche di migliorare la nostra capacità di proposta. I cambiamenti più recenti del mercato del lavoro richiedono nuovi indicatori, che innanzitutto vadano oltre l’ambito del lavoro dipendente. Ma anche sul fronte della formazione, strumenti nuovi, come i Fondi Paritetici, impongono analisi più accurate, per verificare gli effetti sui lavoratori, in termini di reddito, mobilità, sicurezza, carriera. In generale, credo occorra concentrarsi sulla dimensione interpretativa dei fenomeni più che semplicemente descrittiva. Penso al supporto che va offerto agli operatori dei Centri per l’Impiego nel leggere i dati e poterli quindi usare nel loro lavoro quotidiano. Ritengo vadano approfondite le indagini sulla qualità, sia del lavoro che del sistema formativo. 21 Bisogna comprendere meglio le tante segmentazioni del mercato del lavoro e le disparità che ancora permangono nei processi educativi, mettendo a fuoco i diversi volti del rischio di esclusione e di discriminazione e rivolgendo l’attenzione non solo ai dati strutturali ma anche alle percezioni delle persone in carne ed ossa, al loro modo di vivere la formazione, il lavoro, le relazioni tra vita professionale e vita privata. Chiudo quindi nell’assicurare l’impegno dell’Isfol su questi fronti e ringrazio i ricercatori e tutto il personale dell’Istituto per il loro lavoro, che ha permesso anche quest’anno di arrivare al nostro appuntamento più importante. Ringrazio tutti i presenti per la loro partecipazione e per il prezioso contributo che vorranno continuare a darci. ISFOL 2007/rapporto ISFOL sintesi generale.pdf Rubbettino RAPPORTO 2007 Il Rapporto annuale dell’Isfol rende conto dell’evoluzione dei sistemi di istruzione e formazione, del mercato del lavoro e delle politiche sociali italiane. L’edizione 2007 fornisce un quadro d’insieme delle più significative tendenze emergenti dai sistemi nazionali, dando conto sia dello stato dell’arte che dei nodi persistenti e dei problemi aperti, alla luce del nuovo scenario delle politiche europee. I contenuti del Rapporto 2007 si sviluppano lungo tre direttrici prio- ritarie, in gran parte convergenti:  la presentazione delle tendenze più recenti delle politiche comu- nitarie su temi quali il lavoro, la coesione sociale, le risorse umane, che mira a focalizzarne le potenzialità offerte ma anche le sfide e le ricadute sui contesti nazionali;  l’analisi delle dinamiche del sistema educativo e formativo che mostra la ricerca di una difficile identità, tra la progressiva affer- mazione dell’ottica innovativa del lifelong learning e la crescente frammentazione di assetti, istituti ed interventi riformatori;  la ricognizione del versante lavoro che mostra la compresenza di una molteplicità di problematiche, progetti e decisioni miglio- rative, nel quadro di un disegno riformatore più complessivo volto a coniugare il welfare economicamente sostenibile e la crescita economica “qualitativa” del Paese. Quanto presentato dall’Isfol nel Rapporto 2007 è - come sempre - a supporto del dibattito istituzionale e della più ampia diffusione delle conoscenze. RAPPORTO 2007 S I N T E S I Rubbettino RAPPORTO 2007 Sin t e s i © 2007 - ISFOL - Via G.B. Morgagni, 33 - 00161 Roma Tel. 06.445901 - http://www.isfol.it La scelta delle sezioni in cui si articola il Rapporto Isfol 2007 nonché dei temi presentati, segue due criteri in gran parte convergenti: quello dell’attualità dei fenomeni che si sono verificati, delle politiche adottate o in via di adozione, del dibattito avvenuto tra i soggetti implicati nel corso dell’anno che volge a conclusione, e quello di rendere quanto più pos- sibile nota e fruibile in sintesi l’attività che l’Isfol realizza su tanti aspetti dei temi del la- voro e della formazione. La sezione Europa, con la quale il Rapporto si apre, non ha solo l’obiettivo di un aggior- namento informativo sulle politiche europee dell’istruzione e della formazione, del lavoro e dell’inclusione, ma vuole altresì mettere in evidenza come la dimensione europea sia or- mai un riferimento obbligato per questi temi, mentre l’Europa politica sta ancora riflet- tendo sul proprio cammino e, anzi, rallentando il passo. Il 2007 è stato un anno caratterizzato dall’allargamento a 27 Paesi membri, con l’ingres- so di Romania e Bulgaria, ma anche cruciale dal punto di vista simbolico: celebra infat- ti i 50 anni del Trattato di Roma e dell’istituzione del Fondo sociale europeo, i 10 anni della Strategia europea per l’occupazione, varata col Consiglio europeo di Lussemburgo nel 1997 e sancita poi col trattato di Amsterdam. Nel 2004 è stato firmato il trattato di adozione di una Costituzione per l’Europa, al termi- ne di un percorso che avrebbe dovuto rendere l’Unione più democratica, trasparente ed ef- ficiente. I problemi incontrati durante il processo di ratifica e il sopraggiunto allargamen- to, con il peso crescente di nuovi protagonisti, hanno di fatto sacrificato tale prospettiva alle esigenze del consenso necessario a proseguire la strada delle riforme istituzionali. Le più recenti decisioni del Consiglio europeo hanno sancito l’abbandono del progetto costituzionale, dando mandato alla Conferenza intergovernativa di elaborare due nuovi trattati - il Trattato sull’Unione europea (TUE) e il Trattato che istituisce la Comunità eu- ropea (TCE) che non conterranno neppure i riferimenti ai simboli dell’Unione europea; per i quali il Ministro degli Affari Esteri tornerà a essere l’“Alto rappresentante per la po- litica estera e della sicurezza”, mentre si riduce lo spessore della Carta dei diritti non più integralmente innestata nel trattato ma sostituita da un articolo di riferimento, con la con- seguenza che il concetto di cittadinanza europea dovrà essere ridefinito e, probabilmen- te, “declassato”. Introduzione 3 4 Siamo dunque in presenza di una sfasatura tra due diversi livelli: l’arretramento di una cer- ta idea di Europa politica che va di pari passo con il rafforzamento di un modello sociale europeo impegnato a coniugare le sfide della competitività globale e le accresciute pro- blematiche interne, quali le disparità territoriali e l’invecchiamento della popolazione. Nel divario fra espressione politica, istituzionale e amministrativa, ci sono i cittadini eu- ropei e il loro agire quotidiano. Si registra, a tale proposito, un orientamento positivo per il quale due cittadini su tre, secondo Eurobarometro, sembrano credere in un’Euro- pa più forte anche sul piano istituzionale. Sono certamente aumentate le forme di coo- perazione tra Stati e il loro impegno verso il conseguimento di obiettivi comuni; da que- sto punto di vista, la Strategia europea per l’occupazione ha rappresentato un modello per il coordinamento delle politiche dell’istruzione e formazione, del lavoro e della pro- tezione sociale. Alla luce di questo scenario complesso, il Rapporto ricostruisce sinteticamente il percor- so evolutivo delle politiche europee per la formazione e il lavoro e le possibili ricadute per il nostro Paese. Sullo sfondo, la rinnovata strategia di Lisbona, che lega le politiche vol- te ad accrescere l’occupazione a quelle per la crescita e lo sviluppo, promuove maggiori sinergie e nuovi approcci che il nostro Paese, seppur faticosamente, sta cercando di fare propri. Costante è il richiamo dell’Europa affinché prevalga tra gli Stati una visione stra- tegica delle politiche del lavoro, improntata coerentemente al ciclo di vita delle persone e si costruisca finalmente un sistema di apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Forte accento è dato allo sviluppo delle politiche di coesione, dove è determinante l’in- tervento comunitario grazie alla mobilitazione di rilevanti risorse dei Fondi strutturali. Queste rappresentano, oggi, il principale sostegno alla strategia di Lisbona, grazie alle si- nergie che promuovono con le politiche di ricerca, la promozione dell’eccellenza a livel- lo internazionale e con le politiche di innovazione, per trasformare le conoscenze in op- portunità economiche e in nuove soluzioni organizzative, tecnologiche e sociali. La nuova fase di programmazione 2007-2013 delle politiche di coesione comporta nuo- ve sfide per le Regioni, prima di tutto quella di mettere davvero in atto le sinergie neces- sarie per far convergere gli investimenti - strutturali, infrastrutturali, in beni e servizi im- materiali come quelli per la qualificazione delle persone - verso definite prospettive di svi- luppo territoriale. Il Fondo sociale europeo ha mantenuto una sua identità e caratterizzazione, benché fos- sero numerosi i sostenitori di una sua soppressione; la creazione di un sistema di lifelong learning è il tema all’ordine del giorno cui si legano quelli della qualità dei sistemi, della standardizzazione dei dispositivi a garanzia della trasparenza e della mobilità dei citta- dini, della promozione di sperimentazioni innovative attraverso nuovi programmi co- munitari, declinati rispetto a specifiche urgenze rappresentate da giovani, donne, adul- ti e lavoratori maturi, persone in condizioni di particolare svantaggio. L’idea è che i si- stemi formativi debbano garantire efficienza e, al tempo stesso, promuovere capacità com- petitive, ma anche equità e pari opportunità di accesso. Purtroppo, il recentissimo rapporto sui progressi degli obiettivi di Lisbona in materia di istruzione e formazione evidenzia come, nonostante i progressi intervenuti in alcune Re- gioni, il nostro Paese si collochi sotto la media europea rispetto a quasi tutti gli indica- rapporto isfol 2007 tori definiti congiuntamente, per le mancate risposte ai problemi dovute alla insufficiente qualità del mix di politiche adottate, delle strutture di governance dei sistemi, dell’adeguatezza dei sistemi dell’offerta di istruzione e formazione. Il tema del lavoro vede all’ordine del giorno dell’agenda europea due focus rilevanti: fles- sicurezza e salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Il Consiglio europeo ha invitato la Com- missione, insieme agli Stati membri e alle Parti sociali, a esaminare lo sviluppo di una se- rie di princìpi comuni in materia di flessicurezza, quale utile riferimento per la definizione di politiche in grado di assicurare la necessaria apertura e dinamicità dei mercati del la- voro, ma anche l’altrettanto necessaria tutela dei diritti delle persone e dei loro progetti di vita. La definizione di un equilibrio accettabile tra queste due dimensioni dipende dal- le soluzioni e dalle scelte che si compiono in relazione alle forme contrattuali (e quindi dal sistema di relazioni industriali), alla capacità di definire strategie adeguate e correla- te di apprendimento lungo l’arco della vita (e quindi dai sistemi pubblici e privati di pro- grammazione e governo dell’offerta formativa), alla messa in campo di efficaci politiche attive del lavoro che agevolino le transizioni e all’operatività di moderni sistemi di sicu- rezza sociale (sostegno al reddito, pensioni, assistenza sanitaria), ivi comprese le politi- che di conciliazione tra lavoro e responsabilità individuali e familiari. Il problema è far interagire coerentemente questo mix di politiche all’interno di un modello che ogni Sta- to membro definisce in base alle proprie specificità. Il tema della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, oggetto di una risoluzione del Con- siglio del 25 giugno 2007, si collega strettamente a quello più generale della promozio- ne della qualità dell’occupazione, ed è oggetto di una specifica strategia quinquennale (2007- 2012) di rilancio di un approccio globale al benessere sul luogo di lavoro e di rivisitazione delle politiche di prevenzione alla luce dei cambiamenti in atto nelle caratteristiche del lavoro e dei sistemi produttivi. L’obiettivo, per l’Europa a 27, è quello di ridurre del 25% il tasso complessivo d’incidenza degli infortuni sul lavoro, migliorando la protezione del- la salute e la sicurezza dei lavoratori e fornendo un rilevante contributo alla strategia di Lisbona. Il nuovo programma Progress fornirà un importante supporto a tale strategia. Infine, nel processo evolutivo delle singole politiche e di specifici temi, il Rapporto evi- denzia il fatto che gli ultimi anni abbiano visto un rafforzamento significativo del con- cetto di politiche “attive”, traslato dal classico campo delle politiche del lavoro all’inclu- sione e alle pari opportunità, fino al diritto di cittadinanza. In tema di istruzione e formazione, l’anno che si va a concludere ha visto un processo ri- formatore di notevole rilievo che dovrebbe incidere in modo significativo sull’assetto del sistema, anche se rimangono irrisolti numerosi nodi, sui quali è aperto il confronto Sta- to-Regioni. Il sistema educativo italiano appare stressato da un lungo periodo di rifor- me incompiute, alle quali sembra sviluppare una sorta di impermeabilità. Un esempio: la dispersione scolastica tende a persistere e la qualità complessiva del sistema di istru- zione e formazione è ancora lontana dai target di Lisbona. Gli indicatori più recenti con- fermano l’arretratezza del nostro Paese rispetto ai benchmark fissati: il tasso di abbandono è al 20% rispetto al 10% indicato dagli obiettivi comunitari; il tasso di diplomati è al 75,5%, contro l’85% del benchmark europeo; inoltre, solo il 51% della popolazione italiana pos- siede un titolo di studio post-obbligo, contro il 70% della media europea. È quindi evi- 5 sintesi 6 dente la necessità di promuovere non solo la partecipazione ma anche una partecipazione che sia coronata dal conseguimento del titolo di studio o della qualifica professionale. Ma nel processo di riforma l’identità delle diverse filiere è ancora incerta. In questo quadro:  il prolungamento da 8 a 10 anni dell’obbligo di istruzione pone il problema del po- sizionamento della formazione professionale iniziale e in particolare dei percorsi trien- nali frutto di un Accordo del giugno 2003  il mantenimento degli istituti professionali nell’ambito del sistema dell’istruzione se- condaria superiore e la loro quinquennalizzazione, con la soppressione del diploma di qualifica statale, pone il problema degli effetti sulla dispersione, stante il fatto che la maggior parte di bocciature e ritiri avviene proprio in questa filiera che, insieme alla formazione professionale, accoglie i soggetti più deboli e un numero sempre più elevato di immigrati  l’istituzione degli istituti tecnici superiori mira a un consolidamento dell’istruzione e formazione tecnica superiore per costruire un nuovo sistema di formazione supe- riore non universitaria, finalizzato allo sviluppo locale. Ma il processo normativo an- cora incompleto non rende evidenti le regole che dovrebbero consentire un passag- gio dalla logica corsuale a quella di un sistema flessibile e aderente alle esigenze del territorio e dello sviluppo ma anche in grado di rilasciare titoli, crediti certificabili e riconoscibili anche nel framework europeo e di dialogare con il sistema universitario  il nuovo assetto dei Centri per l’educazione permanente rappresenta un ulteriore tas- sello nella costruzione di un sistema lifelong learning, ma è fondamentale che essi sia- no in grado di fare rete sul territorio valorizzando le sinergie con le diverse attività di formazione permanente programmate dalle Regioni e dagli enti locali. Il prolungamento da 8 a 10 anni dell’obbligo di istruzione si inserisce nel lungo percor- so europeo avviato a Lisbona, che ha inteso spostare l’attenzione dalla acquisizione di co- noscenze alla acquisizione delle competenze e dunque dai processi ai risultati. Si punta quindi anche alla qualità dei percorsi formativi, agli esiti del processo di inse- gnamento-apprendimento, alla valutazione dei risultati in termini di conoscenze e com- petenze effettivamente acquisite, in un’ottica che vede quale obiettivo prioritario la pro- secuzione dell’iter formativo fino all’acquisizione di una qualifica professionale o di un titolo di studio di scuola secondaria superiore. Ma occorre anche ricordare che il peso maggiore del recupero dei giovani attualmente esclu- si dai processi formativi grava soprattutto sugli istituti professionali e sulla formazione professionale, che sono particolarmente coinvolti nel processo riformatore in atto che pre- vede il riordino dei curricula e la soppressione del diploma triennale di qualifica statale. Le intese tra Stato e Regioni e i raccordi che andranno stabiliti a livello territoriale do- vranno garantire in ogni caso un’offerta diffusa ed equilibrata di percorsi che portino alla qualifica professionale, per non penalizzare quei ragazzi che aspirano a un veloce inse- rimento nel mondo del lavoro, e definire modalità e opportunità di prosecuzione dei per- corsi per quanti desiderano continuare la loro formazione. Se si vuole perseguire il suc- cesso formativo in una logica di apprendimento permanente è impensabile promuove- re solamente percorsi lunghi, di tipo quinquennale, ed è anche necessario offrire ai gio- rapporto isfol 2007 vani che scelgono i percorsi brevi ulteriori opportunità formative dopo il conseguimen- to della qualifica. Sembra voler rispondere a tale sfida anche un altro aspetto rilevante del processo di ri- forma in atto, dato dalla valorizzazione del rapporto dell’istruzione e della formazione tecnica e professionale con il territorio. È questo il senso della prefigurata istituzione di Poli tecnico-professionali tra gli istituti tecnici, gli istituti professionali, le strutture del- la formazione professionale accreditate e gli istituti tecnici superiori. Essi dovrebbero rap- presentare una modalità innovativa di promuovere e organizzare le offerte formative, e al riguardo è in corso una riflessione che mira a definirne modelli e governance. I poli, come forme di aggregazione dell’offerta caratterizzate da una molteplicità di target e filiere e collegate con la ricerca e l’innovazione, possono diventare punti significativi di riferimento per promuovere lo sviluppo sociale ed economico del territorio. In questo processo di riordino del sistema stenta ad affermarsi il ruolo cruciale delle strut- ture formative accreditate nel rispondere alle necessità dei ragazzi maggiormente orien- tati a una formazione breve per un rapido inserimento nel mondo del lavoro. L’attuale realtà mostra situazioni molto differenziate, tra Regioni che attribuiscono alle strutture formative un ruolo anche all’interno del percorso di istruzione obbligatoria, pur con di- verse modalità, e Regioni che concentrano l’intervento di queste strutture sullo specifi- co percorso di qualifica che si innesta al termine del biennio dell’obbligo d’istruzione. Le peculiarità locali del territorio nazionale rendono comprensibile l’adozione di modelli di- versi di scolarizzazione e formazione; ci si augura tuttavia che la scelta dei diversi modelli venga sempre fatta in ragione degli specifici bisogni dei giovani, nel rispetto dell’obiet- tivo di “non lasciare nessuno indietro”. L’introduzione degli istituti tecnici superiori è motivata dall’obiettivo di rivedere e raf- forzare l’esperienza dell’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore, per sviluppare un’of- ferta di istruzione post-secondaria alternativa all’Università, consolidare l’offerta corsuale e renderla maggiormente stabile e visibile per gli studenti e le loro famiglie che oggi in larga parte ne sono inconsapevoli. Va anche sottolineato che, nel disegnare un nuovo per- corso post-secondario, occorre definire una precisa strategia di concerto con l’universi- tà, definendo con chiarezza obiettivi e target delle diverse offerte formative, per evitare che possibili sovrapposizioni con i percorsi delle lauree triennali ingenerino il timore di una concorrenzialità tra le offerte, con la conseguente riduzione degli spazi di collabo- razione interistituzionale. Ovviamente, per recuperare l’interesse delle famiglie e delle imprese non basta produr- re una nuova offerta ma occorre anche qualificarla, attraverso la definizione di standard riconoscibili. La costituzione di un Tavolo Unico Nazionale, volto a definire e implementare un sistema nazionale di standard professionali, di certificazione e formativi con il coin- volgimento del Ministero del Lavoro, del Ministero della Pubblica Istruzione, del Mini- stero dell’Università, del Coordinamento delle Regioni, delle singole Regioni e delle Par- ti sociali può dare un contributo decisivo alla definizione di questo sistema. I componenti del tavolo hanno deciso di individuare standard minimi funzionali sia a definire un qua- dro nazionale unico di riferimento sia a salvaguardare le specifiche identità. L’emanazione della Raccomandazione europea sulla certificazione, che introduce un Quadro Europeo 7 sintesi 8 delle Qualifiche articolato su 8 livelli per tutti i Paesi membri dell’Unione europea, po- trà imprimere sicuramente un’ulteriore spinta al processo nazionale. Un altro aspetto cruciale dell’anno che sta per chiudersi riguarda la qualità dell’offerta for- mativa, per garantire la quale è in corso di definizione il nuovo sistema di accreditamento, presso un tavolo istituzionale istituito dal Ministero del Lavoro cui partecipano, oltre alle Regioni e alle Province autonome, il Ministero della Pubblica Istruzione, il Ministero del- l’Università, le Parti sociali. Ferme restando la centralità del mantenimento dei requisiti e dell’efficacia delle visite di audit, il nuovo sistema intende favorire la semplificazione e l’ac- certabilità dei requisiti, nonché l’integrazione e la sinergia nei controlli, in modo da favo- rire il diritto individuale alla formazione attraverso l’accesso a servizi formativi integrati. Il sistema della formazione continua registra una novità significativa, rappresentata dal- l’Accordo tripartito tra Ministero del Lavoro, Regioni e Parti sociali, siglato nell’aprile del 2007, indirizzato alla definizione di nuove modalità di coordinamento tra la program- mazione regionale e quella dei Fondi paritetici interprofessionali, per la promozione di un “sistema nazionale di formazione continua, progressivamente ordinato, non concor- renziale ma integrato”. Il raccordo tra programmazione regionale e attività dei Fondi in- terprofessionali si rende necessario per non creare sul territorio una sovrapposizione di interventi nel momento in cui i Fondi sembrano decollare: al maggio 2007 il numero dei lavoratori in forza presso le imprese aderenti superava già i 6 milioni, ovvero più della metà del totale dei lavoratori dipendenti delle imprese private, con un tasso di adesione me- dio delle imprese pari al 42,4%. Il rafforzamento del sistema della formazione continua è uno degli strumenti per aumentare la partecipazione della popolazione italiana alle attività di lifelong learning, oggi ancora ferma al 6,1%, contro il 9,6% della media europea e il traguardo del 12,5% da raggiun- gere per il 2010. In questa direzione risultati significativi si attendono anche dal poten- ziamento dell’educazione degli adulti attraverso la trasformazione dei Centri territoria- li per l’educazione permanente in strutture diffuse a livello provinciale, dotate di auto- nomia amministrativa, organizzativa e didattica. Un ulteriore segnale significativo rispetto all’esigenza di costruire un vero sistema di ap- prendimento permanente viene dato dal disegno di legge su questa tematica recentemente varato dal Consiglio dei Ministri, che introduce alcuni elementi fondamentali per assi- curare il diritto all’istruzione e formazione durante tutto l’arco della vita:  un sistema di riconoscimento dell’apprendimento realizzato anche in contesti non for- mali e informali e di certificazione delle competenze comunque acquisite  un sistema per l’orientamento per sostenere la fruizione di servizi informativi e di coun- seling lungo l’arco di tutta la vita  misure a sostegno dell’apprendimento dei lavoratori. Il processo di riforma del settore dell’istruzione e della formazione professionale si inter- seca con il problematico varo delle norme applicative della riforma del titolo V della Co- stituzione riguardo al riassetto dei ruoli dei diversi soggetti e alla ripartizione delle competenze. La Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome ha approvato un Masterplan del- le azioni da porre in essere, individuando la data del 1 settembre 2009 quale termine entro rapporto isfol 2007 il quale le Regioni dovranno aver completato la predisposizione delle condizioni per l’eser- cizio delle funzioni loro attribuite dal titolo V. Nel frattempo alcune Regioni hanno proce- duto a riordinare la loro legislazione in materia di istruzione e formazione, non senza con- trasti con il governo centrale sui quali è chiamata a pronunciarsi la Corte Costituzionale. Una maggiore condivisione del quadro normativo sarebbe necessaria anche per la rego- lamentazione dell’Apprendistato, per il quale le normative regionali e le discipline con- trattuali, pur muovendosi tutte nel quadro del D.Lgs. n. 276/2003, seguono direttrici spes- so non coincidenti e in qualche caso evidentemente divergenti; si riscontrano numero- se sovrapposizioni tra le due fonti, quella regionale e quella contrattuale, anche come con- seguenza della scarsa chiarezza della norma nazionale. Pertanto, si rileva una diffusa in- certezza applicativa da parte delle imprese e non si può escludere che tali criticità abbia- no contribuito al rallentamento della crescita della stessa occupazione in apprendistato. Va inoltre rilevato che solo una quota degli apprendisti (nel 2005 il 20,4% del totale) ri- ceve effettivamente una formazione esterna, per mancanza di risorse finanziarie ma an- che per difficoltà organizzative dell’offerta legate alla disomogeneità della domanda. Sul versante del lavoro, il 2007 si è presentato come un anno ricco di problematiche, di progetti e decisioni migliorative nel quadro di un disegno riformatore più complessivo. Così, diverse tematiche hanno comportato lo svilupparsi o il riemergere di analisi, stu- di, dibattiti su temi salienti della vita sociale del nostro paese quali il conflitto o la soli- darietà intergenerazionale, la riprogettazione del lavoro nel settore pubblico, la formu- lazione di soluzioni di welfare economicamente sostenibili e non disincentivanti la par- tecipazione al lavoro, l’immigrazione come risorsa e come emergenza, la gamma delle ir- regolarità nei rapporti di lavoro e il tema connesso della sicurezza sul lavoro. Il confronto sulle tante emergenze ha oscurato in parte alcuni e non secondari fenome- ni positivi che confermano trend di crescita già manifestatisi negli anni trascorsi nel no- stro paese. In particolare, nel 2007 si è superata la soglia dei 23 milioni di occupati, con un incremento su base annua di quasi il 2%, mentre il tasso di disoccupazione si è con- tratto al 6%, con una contestuale forte diminuzione anche dei disoccupati di lunga du- rata. Nel Rapporto si analizzano soprattutto le criticità che si riscontrano sul mercato del lavoro, collocandole però in uno scenario che, se non proprio luminoso, appare tuttavia migliorato, anche in rapporto con quanto si rileva sul versante dell’occupazione in mol- ti altri Paesi dell’Unione europea. Il divario territoriale permane il principale e il più pro- fondo dei dualismi che si registrano nel mercato del lavoro nazionale. Nel Nord Italia la sostanziale tenuta dell’occupazione manifatturiera e la forte espansione del terziario con- tinuano ad alimentare la domanda di lavoro rivolta all’esterno, mentre nel Mezzogior- no si registra una preoccupante flessione dei tassi di partecipazione al lavoro, già peral- tro ai minimi europei. La discrasia tra domanda e offerta di lavoro emerge quindi pre- potentemente anche in relazione ad altri segmenti di popolazione - donne e over 55 in primis - per i quali, anche in linea con gli obiettivi di Lisbona, si auspicherebbe un incremento dei tassi di attività. Nel Rapporto si presentano, oltre al consueto scenario di sintesi, approfondimenti su pro- blematiche emergenti, alcune delle quali hanno dato luogo ad appositi provvedimenti o alla 9 sintesi 10 gestazione di prossimi interventi, mentre di altre si analizzano alcuni aspetti critici del la- voro meno affrontabili con interventi di natura normativa e che attengono piuttosto alla sfera della “qualità” della crescita economica nel paese. Su questo fronte occorre interrogarsi, dunque, su come mai i “lavori” stiano diventando sempre meno conformi alle aspettative degli individui, posto che si tratti di un gap generato da una molteplicità di fattori e com- portamenti che attengono sia alla qualità del lavoro disponibile per i nuovi entranti, sia alle prassi selettive che mette in campo chi cerca un lavoro o chi deve decidere se valga, addi- rittura, la pena di cercarlo. Mentre in passato fenomeni di scoraggiamento analoghi si era- no verificati a fronte di alti tassi di disoccupazione, oggi tale comportamento sembra mo- tivato da altri fattori: la precarietà, le retribuzioni e le scarse prospettive di carriera. Nella nostra popolazione attiva si manifestano esigenze con le quali i lavori disponibili spesso non collimano; in proposito è significativo il fatto che quasi il 20% degli occupati ritenga di svol- gere mansioni che non utilizzano se non parzialmente le loro competenze professionali. Altro fattore di scoraggiamento è dato dalle retribuzioni all’ingresso, che spesso non cor- rispondono alle esigenze di giovani che vogliano legittimamente rendersi autonomi dal- la famiglia, così come le donne quando, per lavorare, debbano accollarsi l’onere di ser- vizi per la cura dei familiari. La consistente contrazione della disoccupazione di lunga durata, fenomeno di per sé po- sitivo, risulta in qualche modo alterato dal fatto che occulta la grande quantità di sogget- ti che accedono al lavoro ma che molto rapidamente lo perdono. Anche tale aggregato ali- menta, per quota parte, la inattività, specie tra la popolazione giovanile. Si notano, infat- ti, molti movimenti di entrate e uscite dal lavoro nelle fasce di età lavorativa più basse, con consistenti quote di riflusso verso la non ricerca di lavoro. Anche in questo caso il giudi- zio è complesso. L’ingresso al lavoro si configura, oggi molto più che nel passato, come un susseguirsi di esperienze lavorative, che in molti casi si dispiegano in percorsi di inserimento. Il problema nasce laddove una successione spesso discontinua o incoerente di attività poco qualificate si risolve in una sorta di “trappola” da cui i soggetti non riescono a svincolar- si. È ovviamente questo il fenomeno che accade e che si cerca di contrastare, agendo sia sul versante delle imprese che dei lavoratori. A tale scopo nel 2007 sono stati adottati o av- viati provvedimenti finalizzati a disincentivare le imprese dal ricorso al lavoro atipico, agen- do sul costo del lavoro e anche sull’uso improprio di diverse forme contrattuali. Si stanno inoltre anche inaugurando nuove modalità di workfare, in graduale sostituzione di un sistema di ammortizzatori-incentivazioni che ha avuto una sua storia man mano superata da assetti meno tradizionali del mercato del lavoro. Si inizia così ad attuare quan- to rimasto ancora incompiuto del “Libro bianco sul mercato del lavoro” del 2001. L’incertezza del lavoro o la prospettiva di un lavoro “povero” riguarda in particolare i gio- vani, il cui percorso di inserimento è spesso lungo e tortuoso, ed è dunque su questo tar- get che potranno agire in primis le riforme avviate. Migliorare la coerenza e l’adattabilità reciproca tra domanda e offerta di lavoro rappre- senta una sfida rilevante per il sistema dei Servizi all’impiego. L’Isfol effettua, fin dall’av- vio della riforma del collocamento e con l’ausilio delle Amministrazioni provinciali e re- gionali, attività organiche di monitoraggio dell’avanzamento organizzativo e funziona- le dei Centri per l’impiego, anche con rilevazioni a carattere censuario. Più di recente, l’in- rapporto isfol 2007 dagine si è estesa a tutti gli altri soggetti e istituzioni che intervengono nel difficile com- pito di ottimizzare l’incontro tra le imprese e chi cerca un lavoro o un lavoro migliore. Si tratta di un compito difficile ma strategico, in un mercato del lavoro che tende sem- pre più a parcellizzarsi, in relazione alle esigenze specifiche sia della domanda che dell’offerta di lavoro. Ci sono ampie quote di posti di lavoro vacanti, alcuni per qualifiche e profes- sionalità ancora (o ormai divenute) rare, altri che corrispondono alle attese e ai requisi- ti di soggetti che ricercano un impiego con scarso metodo e poca strategia. Facilitare l’in- contro tra queste esigenze può rappresentare una “creazione” netta di occupazione a co- sti minori di qualunque altra misura di incentivazione. Il funzionamento più fluido e trasparente del mercato del lavoro è dato però anche dal conciliare la competitività e i meriti con l’equità dell’accesso alle opportunità. Si è tor- nati a parlare quest’anno del cosiddetto “ascensore sociale” e del suo rallentamento. La scuola sembra aver svolto gran parte del suo compito nel permettere ai figli il raggiun- gimento di una condizione migliore di quella dei padri; in sintesi, un affrancamento dal- le condizioni di origine per le categorie sociali più svantaggiate. Adesso il confine delle opportunità è dato dall’accesso al lavoro in cui intervengono, nuovamente e pesantemente, fattori di ampia disparità tra chi possiede e gestisce le informazioni e le tecnologie e chi piuttosto le subisce. È di nuovo forte la correlazione tra ambiente di origine e chances di accesso a un lavoro conforme alle attese. Il ruolo compensativo che possono svolgere i Ser- vizi per l’impiego è dunque potenzialmente rilevante e in proposito si sottolinea la ne- cessità di migliorare le loro capacità di dialogo col versante datoriale, poiché la situazio- ne appare alquanto sbilanciata sul versante dell’offerta di lavoro. Nel Rapporto si insiste inoltre sui tanti aspetti di “impoverimento” del lavoro: povero di prospettive, di stimoli, di realizzazione professionale ancor prima che nelle retribuzioni. Il maggior fattore di insoddisfazione sul lavoro, come rilevato dalle nostre indagini, at- tiene soprattutto alla mancanza di prospettive di crescita professionale; più del 57% dei lavoratori dipendenti lo segnala come fattore primo di criticità, ben superiore all’insod- disfazione per retribuzioni ritenute insufficienti. L’occupazione è aumentata ma preva- lentemente in settori poco esposti alla concorrenza internazionale, soprattutto nel terziario tradizionale e nelle costruzioni. D’altra parte, abbiamo alle spalle anni di scarsa crescita della produttività del lavoro, in leggera ripresa solo nell’ultimo periodo, con andamenti anomali del rapporto tra PIL e occupazione. Sono ormai tanti i segnali e le osservazioni oggettive che confermano l’espansione delle occasioni di lavoro nella fascia bassa delle qua- lificazioni piuttosto che nella fascia alta, con un andamento dunque poco conforme agli obiettivi della cosiddetta “società della conoscenza”. Non è tanto il graduale affermarsi del lavoro a tempo che preoccupa, quanto il saldarsi della precarietà con una insufficiente ri- chiesta di qualificazioni, sintomo evidente di un sistema produttivo che stenta a raggiungere adeguati livelli di competitività. Il 2007 è l’anno europeo delle Pari opportunità, anche e soprattutto di genere. Con l’assunzione a Londra della prima donna comandante nei “Beefeaters”, le guardie del- la Torre, si è prodotta una piccola scalfittura in quel “soffitto di cristallo” che rappresen- ta ancora una realtà per tante altre donne, anche in Italia, che pure dispongono di istru- zione, competenze e ambizioni. La partecipazione al lavoro delle donne, dopo un anda- 11 sintesi 12 mento positivo dal 1996 al 2001, ha registrato uno stallo, confermato dalle rilevazioni del- la prima metà dell’anno in corso. Appare problematico non solo il primo inserimento al lavoro, ma anche il ritorno a un impiego dopo i periodi di maternità: una donna su nove vi rinuncia, per l’impossibilità di conciliare lavoro e cura dei familiari. Non è questo il solo dato negativo: meno del 37% delle donne entra nel mondo del lavoro con un rapporto permanente e dunque la maggior parte del part-time è di natura involontaria e i differenziali salariali di genere, su base annua, sono del 25%. Solo con una maggiore assunzione di “responsabilità sociale” da parte delle imprese si può innescare un’inversione di tendenza a favore del lavoro femminile ed è a tal fine che nel 2007 è stato avviato il progetto “Bollino rosa” con l’obiettivo di promuovere un agile stru- mento operativo per individuare con precisione gli ostacoli alla parità di trattamento e contribuire al loro superamento. Nel solo mese di ottobre 2007, 139 imprese si sono auto- candidate a sperimentare la “certificazione” delle proprie buone prassi per la parità re- tributiva, la conciliazione e il contenimento o superamento delle condizioni di precarietà. Un altro tema cruciale nell’anno che sta per concludersi è stato quello dell’invecchiamento attivo. Alla necessaria attenzione agli appuntamenti che l’agenda europea ha dettato sul tema, in Italia si è sommato un arduo percorso concertativo per un’ulteriore revisione del sistema pensionistico. La concertazione e il dibattito connesso si sono focalizzati, pur nella articolazione del Pro- tocollo, su previdenza, lavoro e competitività del quale in questo Rapporto si riferisce, su un diverso posizionamento dell’età pensionabile. L’intento di base è quello di prolunga- re la vita lavorativa salvaguardando al contempo i diritti (o le aspettative) acquisiti, la so- stenibilità finanziaria del sistema previdenziale e, non ultima, un’equità generazionale che non scarichi sui figli il costo dei privilegi dei padri, nell’ottica di una solidarietà interge- nerazionale collettiva assai diversa dalla solidarietà circoscritta che in Italia è ampiamente consolidata in seno alle famiglie. Tuttavia appare evidente come per incentivare la partecipazione al lavoro degli over55 oc- corrano anche come iniziative e provvedimenti mirati, posto che l’aggregato in questio- ne è assai disomogeneo. Non sembra infatti che l’inattività della popolazione più adulta sia dovuta, come nel caso dei giovani e delle donne, all’insoddisfazione per il tipo di oc- cupazione svolto, che non riguarda più del 6%, mentre più del 31% di questa popolazione non è attiva perché il lavoro l’ha perso. Esiste pertanto un bacino assai ampio su cui pos- sono agire misure di attivazione e nel Rapporto se ne analizzano alcune sperimentate sia in altri Paesi europei che in Regioni italiane. Altro tema rilevante nell’anno è stato quello della sicurezza del lavoro e del lavoro irregola- re, emergenze molto spesso associate. Su ambedue i versanti è stato adottato un ampio spet- tro di provvedimenti sia di natura preventiva (quali le nuove norme sugli appalti e l’inten- sificazione dei controlli) che di natura repressiva. Il drammatico fenomeno delle “morti bian- che” mostra segni di attenuazione e la consistenza dell’extragettito fiscale pare testimonia- re una tendenza all’emersione della produzione e perciò, anche, del lavoro non dichiarato. Vittime non uniche, ma certo non secondarie di tali distorsioni, sono i lavoratori stra- nieri, quasi 3 milioni che rappresentano il 5% della popolazione per la cui integrazione l’Italia, come altri Paesi europei, è in cerca di linee guida. rapporto isfol 2007 Politiche di coesione La programmazione comunitaria per il periodo 2007-13 è diventata operativa a seguito dell’accordo politico sul bilancio UE e quindi sulla dotazione dei Fondi strutturali. Dopo un lungo e complesso processo di definizione, nel luglio 2007 è stato definitivamente ap- provato anche per l’Italia il documento chiave per le politiche di coesione: il Quadro stra- tegico di riferimento nazionale (QSN), che definisce l’articolazione dei Programmi ope- rativi e delle risorse comunitarie disponibili (FESR e FSE). Uno dei principali aspetti innovativi rispetto al passato sta proprio nell’impostazione di un quadro strategico unitario; una scelta che ha imposto a tutti i soggetti coinvolti nel- la programmazione l’assunzione di obiettivi comuni. Dieci sono le priorità nazionali del QSN:  miglioramento e valorizzazione delle risorse umane  promozione e diffusione della ricerca e dell’innovazione per la competitività  energia e ambiente: uso sostenibile ed efficiente delle risorse per lo sviluppo  inclusione sociale e servizi per la qualità della vita e l’attrattività territoriale  valorizzazione delle risorse naturali e culturali  reti e collegamenti per la mobilità  competitività dei sistemi produttivi e occupazione  competitività e attrattività delle città e dei sistemi urbani  apertura internazionale e attrazione di investimenti, consumi e risorse  governance, capacità istituzionali e mercati concorrenziali ed efficaci. Al raggiungimento di tali priorità saranno orientati i 19 Programmi operativi relativi al- l’obiettivo Convergenza e i 33 Programmi dell’obiettivo Competitività regionale e occupazione. Quanto al Fondo sociale europeo, la sua strategia continua a essere incentrata sulle risorse umane. Il FSE finanzia 5 Programmi operativi regionali (POR) per l’obiettivo Conver- genza e 16 per Competitività regionale e occupazione, per un totale di quasi 6 miliardi di euro nel periodo 2007-13. Gli interventi previsti dai POR FSE si svilupperanno nei seguenti ambiti (Assi):  adattabilità (formazione continua, organizzazione del lavoro, imprenditorialità)  occupabilità (politiche del lavoro) Sezione 1 Europa 13 14  inclusione sociale (inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati)  capitale umano (politiche formative, ricerca)  transnazionalità e interregionalità  assistenza tecnica  capacità istituzionale (migliorare la governance, solo per l’obiettivo Convergenza). Il FSE finanzia, inoltre, tre Programmi operativi nazionali per svolgere azioni di sistema: uno a titolarità del Ministero dell’Istruzione (1.485 milioni di euro) e due del Ministero del Lavoro (rispettivamente di 517 milioni di euro per l’obiettivo Convergenza e 72 mi- lioni per quello Competitività regionale e occupazione). La nuova programmazione del FSE ha tratto importanti insegnamenti dall’esperienza di Equal, che si chiuderà definitivamente nel 2008. Gli aspetti più significativi dell’Iniziati- va comunitaria sono stati: finanziare l’innovazione; lavorare in partenariato; l’approccio del mainstreaming (diffondendo le prassi di successo); favorire la cooperazione transna- zionale. Politiche dell’istruzione e della formazione Uno dei processi più significativi che sono stati intrapresi a livello europeo per attuare gli obiettivi di Lisbona riguarda lo sviluppo della qualità all’interno dei sistemi dell’istruzione e della formazione professionale. In tale ottica, grazie a un apposito gruppo tecnico è sta- to elaborato il CQAF (Common Quality Assurance Framework), cioè un quadro di riferi- mento che comprende un modello per assicurare la qualità, una metodologia per la va- lutazione e un sistema di monitoraggio. È stata poi costituita la Rete europea sulla qualità dell’istruzione e della formazione pro- fessionale, alla quale aderiscono attualmente 25 Stati e di cui l’Italia ha la vicepresiden- za. All’interno della Rete molti Paesi stanno costituendo dei National Reference Points, ov- vero dei punti di collegamento tra le attività condotte a livello europeo e le iniziative na- zionali di promozione e diffusione della qualità (in Italia, il punto di riferimento è pres- so l’Isfol). Infine, la Commissione europea ha avviato la procedura per emanare una Raccomandazione sulla qualità (che dovrebbe essere ufficialmente varata nel 2008), con la quale gli Stati mem- bri vengono sollecitati ad applicare il CQAF a partire dal 2009. In Europa sono presenti circa sei milioni di giovani fra i 18 e i 24 anni prematuramente usci- ti dal sistema scolastico (dropout). La Commissione europea chiede che questo numero sia ridotto del 10% entro il 2010. Inoltre, circa quattro milioni di adulti dovrebbero aver ac- cesso al lifelong learning, con un tasso di partecipazione che andrebbe portato al 12,5% sem- pre entro il 2010. Per raggiungere tali obiettivi è essenziale accrescere la mobilità dei citta- dini e realizzare un valido sistema di riconoscimento dei crediti formativi. La difficile tra- sferibilità delle qualifiche risulta essere, infatti, uno dei principali ostacoli alla mobilità per il 45% delle persone che si dichiarano pronte a partire. Strumento fondamentale per facilitare la mobilità geografica e professionale è Europass, il portafoglio di documenti (come il Curriculum Vitae) che facilita la leggibilità delle di- rapporto isfol 2007 verse certificazioni nazionali. Sulla scorta dell’esperienza maturata dal Centro Naziona- le Europass (NEC) in Italia - attivo presso l’Isfol - emerge con chiarezza come tale stru- mento non possa da solo garantire uno stimolo decisivo alla mobilità. Il suo valore po- trà essere notevolmente accresciuto nel contesto dell’European Qualification Framework (EQF), la cornice europea delle qualificazioni per l’apprendimento lungo tutto l’arco del- la vita; una partita importante che spinge il nostro Paese come gli altri Stati membri ad accelerare il processo di costruzione del sistema nazionale delle qualificazioni. Un altro sistema in via di definizione è poi l’European Credit System for Vocational Edu- cation and Training (ECVET). Allo stato attuale, la proposta della Commissione europea ha concluso la fase di consultazione avviata nell’ottobre 2006. L’Italia ha partecipato in- viando lo scorso aprile una nota congiunta del Ministero del Lavoro e del Ministero del- la Pubblica Istruzione, con un contributo tecnico elaborato con il Coordinamento delle Regioni, delle Parti sociali e di molti altri soggetti. Il Sistema Europeo dei Crediti Formativi si fonda sull’idea che ogni risultato di appren- dimento costituisca un credito sfruttabile dal singolo in funzione dei propri obiettivi e in questo rappresenta una sfida sia sul piano tecnico che su quello politico e sociale, riaf- fermando la centralità attiva dell’individuo. Occorre ora trasformare in elemento stabi- le le molte esperienze pratiche realizzate nel nostro Paese. L’apprendimento permanente è stato in questi mesi un tema a cui le istituzioni comuni- tarie hanno rivolto grande attenzione. Con la Decisione del 15 novembre 2006 Parlamento e Consiglio hanno istituito il nuovo programma 2007-13, con lo scopo prioritario di ren- dere pienamente integrate le politiche per l’istruzione, la formazione e l’occupazione. In equilibrio tra continuità e innovazione, il programma sull’apprendimento permanen- te rende evidente lo sforzo di valorizzare le passate esperienze, innanzitutto su tre fronti: valutazione, semplificazione e complementarità. Viene quindi sottolineata la necessità di ancorare le azioni a obiettivi concreti e misurabili, attivando processi di follow up, anche per verificare il ritorno degli investimenti; si propone uno snellimento delle procedure am- ministrative e gestionali; si chiede di garantire ampie sinergie con gli altri dispositivi. Intanto, il Programma settoriale Leonardo da Vinci ha confermato nel 2007 le performance in termini di reclutamento delle candidature del passato recente. Più di 100 candidatu- re a valere sulla Misura del Trasferimento dell’Innovazione (TOI) e più di 200 progetti di mobilità sono stati promossi e sottoposti al processo di selezione, consentendo il pie- no assorbimento delle risorse disponibili (poco più di 21 milioni di euro per il 2007). Gli obiettivi dell’Agenzia nazionale, costituita presso l’Isfol, sono stati pienamente rag- giunti, attraverso l’approvazione di 35 progetti TOI e di circa la metà delle candidature di mobilità, per un totale prevedibile di circa 3.500-3.800 borse di studio. Politiche attive di inclusione e cittadinanza Con una comunicazione del febbraio 2006, la Commissione europea ha definito un nuo- vo quadro per il coordinamento aperto delle politiche di protezione sociale e di integra- zione. Gli Stati membri sono stati invitati a promuovere un maggiore legame tra politi- che di lotta all’esclusione e alla povertà, politiche previdenziali e politiche sanitarie. È sta- 15 sintesi 16 ta così lanciata una strategia per l’inclusione attiva, che richiede un giusto mix di misure di sostegno al reddito, interventi per l’inserimento lavorativo e servizi socio-assistenziali. Un ruolo centrale continua a essere attribuito al non profit. Il nuovo programma comu- nitario Progress rappresenterà lo strumento principale di intervento mentre il FSE è il ca- nale finanziario di riferimento. La comunicazione ha dato il via a un’ampia consultazione. Nel documento presentato dal nostro Paese particolare enfasi è stata posta, tra l’altro, al reddito minimo di inseri- mento. All’interno delle strategie generali per la coesione sociale, si va ultimamente diffonden- do un nuovo mainstreaming: le politiche per la cittadinanza europea attiva. A tal fine, nel 2007 è stato lanciato il programma“Europa per i cittadini”, per promuovere la parteci- pazione della società civile nel processo di integrazione europea. Per il periodo 2007-13 l’iniziativa avrà a disposizione 215 milioni di euro. In stretta connessione con quest’ambito di attività si va poi configurando la nuova poli- tica di comunicazione pubblica dell’Unione, con lo slogan “Verso il locale”. La filosofa emer- gente, dunque, è quella che ritiene il livello locale il più adatto a realizzare incisive inno- vazioni di governance. Attualmente, l’informazione delle amministrazioni pubbliche sulle politiche di coesio- ne risulta prevalentemente rivolta agli addetti ai lavori e incentrata sulle opportunità di finanziamento. I nuovi Regolamenti dei Fondi strutturali richiedono invece di individuare come target dei piani di comunicazione dei programmi non solo i beneficiari delle azio- ni finanziate ma anche la totalità dei cittadini europei. Politiche del lavoro Nel corso dell’ultimo, anno il termine flexicurity (flessibilità più sicurezza) è diventato uno dei simboli degli obiettivi politici dell’Unione europea in materia di impiego e sviluppo economico. Nel Rapporto 2006 sull’occupazione, la flessicurezza viene indicata espres- samente come la giusta risposta all’esigenza di migliorare la capacità di adeguamento dei lavoratori e delle imprese. Nel Rapporto gli Stati membri sono stati classificati sulla base di cinque modelli di fle- xicurity sistems e l’Italia è stata inserita nel gruppo dei paesi dell’Est, con un livello di si- curezza sociale molto basso se non totalmente assente, un livello di flessibilità medio-alto e un livello di tassazione medio-basso. La Commissione europea ha anche dato vita a un Gruppo di esperti che delinei la via per raggiungere risultati concreti in materia. Il documento conclusivo del Gruppo indica la flexicurity come un’opportunità storica per l’Europa, affinché possa ottenere efficienza economica e contestualmente garantire alti livelli di sicurezza sociale. Nell’ottica della flexicurity, la Commissione ha poi presentato un Libro Verde sulla mo- dernizzazione del diritto del lavoro, mettendo in luce la progressiva crescita della flessi- bilità per facilitare l’accesso al lavoro delle fasce più giovani e più svantaggiate, ma evi- denziando al tempo stesso la possibilità che essa si trasformi in una trappola senza usci- ta, caratterizzata da attività di breve durata e di bassa qualità. Di fatto, l’approccio fatto rapporto isfol 2007 proprio dall’UE è quello del save the people not the jobs: i lavoratori sono più protetti da un sistema di aiuti in caso di disoccupazione piuttosto che dalla legislazione sulla tutela per l’impiego. Infine, la Commissione ha pubblicato lo scorso giugno una comunicazione che defini- sce i princìpi comuni della flexicurity e presenta quattro possibili percorsi tipici di attuazione del modello. Altro ambito su cui ha ormai preso corpo la strategia comunitaria è quello della salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro. Con la Decisione del 24 ottobre 2006 del Parlamento e del Consiglio e una successiva comunicazione della Commissione, sono state delineate le politiche di settore per i prossimi sei anni, con l’obiettivo di ridurre almeno del 25% le malattie professionali e gli infortuni sul lavoro nell’Unione europea entro il 2012. Tra le azioni previste: sostegno alle PMI nell’applicazione della legislazione in vigore; sem- plificazione e adeguamento del quadro giuridico; sviluppo di strategie nazionali; formazione; valutazione dei nuovi rischi; follow up dei progressi realizzati. Pari opportunità Nel marzo 2006 la Commissione europea ha presentato una tabella di marcia per la pa- rità tra donne e uomini fino al 2010, al fine di migliorare la qualità della vita adottando un approccio differenziato, in relazione all’appartenenza di genere. Nel luglio successi- vo, il Parlamento e il Consiglio hanno emanato un’apposita Direttiva sulla parità con ri- ferimento all’occupazione, insistendo sulla necessità di un cambiamento di approccio alla tematica, che preveda una vasta azione pubblica, con il coinvolgimento di tutti gli atto- ri economici e sociali, in un processo di innovazione e progresso culturale. In questo con- testo, il 2007 è stato dichiarato “Anno europeo delle pari opportunità per tutti”. Un notevole sostengo alle azioni per la parità giunge poi dalla nuova programmazione dei Fondi strutturali, che ribadisce la necessità di rafforzare l’adozione del mainstreaming per assicurare che tutte le politiche tengano conto del loro impatto in termini di genere. 17 sintesi 19 La partecipazione al sistema di istruzione e formazione professionale Uno sguardo d’insieme L’impegno del nostro Paese nel migliorare i propri livelli di istruzione e qualificazione si inserisce in un contesto più ampio, quello delineato a livello europeo dalla strategia di Li- sbona, che ha fissato precisi risultati da conseguire entro il 2010. È ormai evidente che non tutti gli obiettivi saranno raggiunti. Di certo, non sarà possi- bile centrare quello di contenere la dispersione scolastica giovanile (18-24enni) al di sot- to del 10%. Nonostante i progressi degli ultimi anni, il nostro Paese è in ritardo anche per quel che riguarda il tasso di istruzione secondaria dei giovani (75,5%) e, ancor più, del- la popolazione nel suo insieme. Solo il 51% della popolazione italiana possiede un tito- lo di studio post-obbligo, contro il 70% della media europea. Sezione 2 Formazione 2000 2006 Italia UE 27 Italia UE 27 Tasso di abbandono scolastico e formativo (a) 25,3 17,6 20,8 15,3 Tasso di istruzione secondaria superiore dei giovani (b) 69,4 76,6 75,5 77,8 Tasso di partecipazione ad attività di apprendimento permanente (c) 4,8 7,1 6,1 9,6 Conseguimento degli obiettivi di Lisbona in materia di istruzione e formazione a) Tra i 18-24enni. Benchmark: entro il 2010 non oltre il 10%. b) Tra i 20-24enni. Benchmark: entro il 2010 almeno l’85%. c) Tra i 25-64enni. Benchmark: entro il 2010 almeno il 12,5%. Fonte: Eurostat 20 L’Italia ha progressivamente incrementato la quota di coloro che terminano con succes- so la scuola secondaria. La percentuale di maturi in rapporto alla media della popolazione 19-20enne ha raggiunto il 78% nel 2005-06, contro il 51,4% del 1990-91. Ma si mantie- ne pressoché stabile la partecipazione alle attività di formazione professionale iniziale e diminuisce quella alle attività di formazione regionale post-secondaria. Nonostante la crescente scolarizzazione, la dispersione formativa dei minori di 18 anni è ancora ampia. Tra i 14-17enni sono circa 113 mila gli esclusi dai canali formativi for- mali, ai quali si aggiungono gli oltre 40 mila apprendisti minorenni che non svolgono le attività formative previste dalla legge, per un totale di oltre 150 mila soggetti. rapporto isfol 2007 v.a. % A scuola 2.070.849 88,5 In formazione 108.083 4,6 In apprendistato 47.906 2,1 Fuori dai percorsi 113.172 4,8 Totale 2.340.010 100 Stato formativo dei giovani 14-17enni, 2005-06 Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Mpi, dati regionali, dati Istat Per quel che riguarda le scuole secondarie superiori, l’intensità del fenomeno della dispersione è evidenziata dal tasso di produttività: nell’anno scolastico 2005-06 solo il 71% degli iscrit- ti al primo anno nel 2001-02 ha concluso positivamente il ciclo di studi; i maggiori pro- blemi si notano negli istituti professionali (46,6%), rispetto ai licei (85,1%). I risultati con- seguiti dalle ragazze sono migliori: il tasso di produttività femminile raggiunge com- plessivamente il 76,9% contro il 65,4% di quello maschile. Si conferma la crescita della propensione agli studi accademici dei giovani italiani. Nel 2006- 07 il 72,5% dei diplomati nell’anno scolastico precedente è entrato nell’istruzione uni- versitaria (78,7% fra le donne). Il tasso di immatricolazione, tra i 19-20enni, ha raggiunto il 56,6% (65,1% fra le donne). Complessivamente, la quota dei laureati tra chi ha un’età non superiore ai 25 anni si è quadruplicata rispetto ai primi anni ’90. Relativamente alla formazione continua offerta dalle imprese private, l’Italia si posizio- na ancora agli ultimi posti in Europa, nonostante nel 2006 si sia verificato un leggero mi- glioramento, portando la percentuale di aziende interessate dal 18,8% al 19,8%. È tutta- via aumentato il divario tra le micro e le grandi aziende: nel 2006 l’incidenza delle im- prese formatrici sul totale è rispettivamente del 16% e del 73% (con uno scarto del 56%). Quanto alla forza lavoro, il suo tasso di istruzione risulta sempre molto basso: la percentuale di chi ha almeno un titolo di scuola secondaria di II grado è pari al 59,2% (ma solo 15 anni fa era circa il 35%). 21 sintesi 1990-91 2000-01 2005-2006 Tasso di passaggio all’università 71,3 63,9 72,5 Immatricolati per 100 coetanei (19-20enni) 35,6 43,8 56,6 Laureati su popolazione 23enne (a) 2,5 2,5 24,7 Laureati su popolazione 25enne (b) 9,0 23,1 20,2 Il sistema universitario (%) (a) Comprendono i laureati del I ciclo, i diplomati universitari e delle scuole dirette a fini speciali. (b) Comprendono i laureati del II ciclo, vecchio ordinamento, lauree specialistiche a ciclo unico. Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat e Mur 1991 2001 2005 2006 Senza titolo e con licenza elementare 24,8 12,0 8,7 7,9 Con licenza media 40,1 36,0 33,3 32,9 Con titolo di studio di s.s.s. 28,0 40,1 43,6 44,2 Con titolo di istruzione universitaria 7,1 11,9 14,4 15,0 Livelli di istruzione della forza lavoro (%) Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat Dati di dettaglio Relativamente alla formazione professionale, l’ultima rilevazione Isfol segnala per il 2005- 06 poco più di 60 mila corsi realizzati, che hanno coinvolto quasi 700 mila allievi. Que- sti ultimi sono molto più numerosi nel Nord Italia (476.588) rispetto al Centro (118.236) e al Sud (102.378). Si tratta in prevalenza di adulti occupati (quasi 236.000), seguiti dai giovani in formazione di I livello (125.500) e quelli in corsi di II livello e IFTS (quasi 89.000). Complessivamente, la formazione professionale coinvolge il 2,8% della forza lavoro. Nel bacino d’utenza rappresentato dai ragazzi 15-24enni in cerca di occupazione, è coinvolto 22 nella formazione per giovani il 37%; mentre nella formazione destinata ad adulti occupati viene formato solo l’1,2% degli utenti potenziali (età superiore ai 25 anni). rapporto isfol 2007 Formazione giovani Formazione adulti Formazione adulti disoccupati Totale Nord 91,1 1,8 9,9 3,9 Centro 41,7 1,0 6,6 2,4 Sud 10,7 0,4 5,5 1,4 Totale 37,0 1,2 7,0 2,8 Allievi formati sul bacino d'utenza, 2005-06 (%) Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat e regionali Nella scuola secondaria superiore continua nel 2005-06 l’incremento degli iscritti e si con- solida il processo di “licealizzazione”. Per la prima volta il numero degli iscritti al primo anno dei licei (oltre 200 mila su un totale di circa 590 mila) ha superato quello degli isti- tuti tecnici, che nell’ultimo quindicennio hanno registrato una riduzione del 27%. v.a. % Variazione sul 2000-01 Variazione sul 2004-05 Ist. professionali 553.958 20,6 3,4 -0,1 Ist. tecnici 945.805 35,1 -3,8 -0,9 Licei 874.216 32,5 15,1 4,9 Istruzione magistrale 212.925 7,9 9,0 2,1 Istruzione artistica 104.809 3,9 8,8 1,9 Totale 2.691.713 100 4,7 1,4 Studenti iscritti alle scuole secondarie superiori, 2005-06 Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat e Ministero della Pubblica Istruzione Nell’università gli immatricolati nell’anno accademico 2006-07 sono 325.417, di cui 272.569 ai corsi di laurea di 1° livello. Questi ultimi subiscono un calo del 9,7%, con una forte in- cidenza del gruppo giuridico, fenomeno giustificato dal contemporaneo avvio delle lau- ree “magistrali”. Complessivamente, gli iscritti all’università sono diventati 1.722.457, con una contrazione del 2,4% rispetto all’anno precedente, che ha interrotto il trend positivo avviatosi a par- tire dal 2000-01. È per la prima volta in calo il numero degli iscritti ai corsi di 1° livello (-1,6%), mentre si consolida l’aumento relativo a quelli di laurea specialistica (+21,2%). Tra i laureati continuano a prevalere le donne, che raggiungono il 57,3% nei corsi di 1° li- vello. In forte crescita è poi il numero degli studenti che consegue una laurea specialistica. 23 sintesi 2006-07 Variazione sul 2005-06 Gruppo scientifico 13,4 10,9 Gruppo medico 7,3 -19,9 Gruppo ingegneria-architettura 17,2 7,8 Gruppo agrario 2,3 1,8 Gruppo statistico-economico 16,4 -2,3 Gruppo politico-sociale 13,8 -8,3 Gruppo giuridico 2,3 -82,5 Gruppo letterario, linguistico e psico-pedagogico 25,2 3,5 Gruppo educazione fisica 1,9 9,5 Gruppo difesa e sicurezza 0,1 -16,2 Totale 100 -9,7 Immatricolati ai corsi di laurea di 1° livello Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Mur v.a. % Variazione % su 2005 Diploma universitario/Sdfs 810 0,3 -52 Laurea vecchio ordinamento 100.078 33,3 -30 Laurea di base (1° livello) 161.445 53,7 16,7 Laurea specialistica a ciclo unico 8.782 2,9 11,8 Laurea specialistica (2° livello) 29.620 9,8 183,3 Totale titoli conseguiti 300.735 100 -0,2 Titoli conseguiti all’università, 2006 Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Mur 24 Relativamente all’educazione permanente, si espande l'offerta dei Centri territoriali per- manenti, in particolare quella dedicata agli stranieri (+1,9% dei corsi tra il 2004-05 e il 2005-06). I partecipanti alle attività di educazione degli adulti sono passati dalle 423.337 unità del 2004-05 alle 425.290 dell’anno successivo. rapporto isfol 2007 2004-05 2005-06 Corsi del primo ciclo d’istruzione 2.894 2.790 Corsi per stranieri 3.484 4.070 Corsi brevi modulari di alfabetizzazione funzionale 13.533 13.901 Totale 19.911 20.761 Corsi dei CTP e corsi serali degli istituti di istruzione secondaria di II grado Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Ministero della Pubblica Istruzione Venendo alla formazione continua, tra gli occupati 15-64enni, circa il 6,6% ha frequen- tato corsi nel 2006 (8,5% per le donne e 5,4% per gli uomini). In totale, si tratta di circa un milione e mezzo di lavoratori, di cui circa 580 mila ha frequentato corsi scolastici e circa 900 mila corsi di formazione professionale. La partecipazione si riduce con l’aumentare dell’età anagrafica, già a partire dai 45 anni. L’Indagine Isfol Indaco ha poi rilevato che i dipendenti pubblici presentano un tasso di partecipazione doppio rispetto a quello di dipendenti privati e autonomi. L’istruzione rap- presenta un’ulteriore discriminante: i tassi più elevati si hanno con i laureati. Livello di istruzione % Basso 18,0 Medio 30,6 Alto 60,8 Livello di inquadramento Dirigente/Quadro 54,7 Impiegato 38,1 Operaio 16,4 Lavoratori dipendenti del settore privato che hanno partecipato ad almeno una attività di for- mazione continua Fonte: Isfol Indaco 2005 La spesa pubblica per la formazione professionale Nel 2005 la spesa pubblica per l’istruzione-formazione è stata di quasi 64,3 miliardi di euro, con un calo progressivo negli ultimi anni. Rispetto al 2004 si rileva una riduzione dello 0,6%. Tale somma corrisponde al 4,52% del PIL (contro il 4,65% dell’anno precedente) e al 9,35% della spesa pubblica (contro il 9,7%). Entrando nello specifico della formazione professionale regionale, i bilanci consuntivi del 2005 indicavano un ammontare di risorse disponibili pari a oltre 4,3 miliardi di euro; di cui ne sono stati effettivamente impegnati 3,2 miliardi, con una capacità di impegno pari al 74,4% (contro il 72,8% dell’anno precedente). La spesa effettiva è stata invece di circa 2,4 miliardi: 428 al Nord-Ovest, 734 al Nord-Est, 330 al Centro e 911 al Sud. Rispetto al 2004 si registra un calo della spesa dello 0,8%, dovuto quasi esclusivamente alle Regioni centrali (-18,4%). 25 sintesi 2003 2004 2005 Nord-Ovest 64,1 62,7 61,1 Nord-Est 150,8 136,6 144,6 Centro 64,6 83,3 67,5 Sud 118,9 118,8 121,4 Italia 99,1 99,5 98,3 Spesa media per la formazione professionale per unità di forza lavoro (v.a. in euro) Fonte: Elaborazioni Isfol su rendiconti regionali 2003-2005 e dati Istat La capacità realizzativa delle diverse Regioni (riferita al triennio 2002-05), confrontan- do quanta parte delle somme impegnate è stata effettivamente pagata, è pari al 78,5%, il che significa che quasi un quarto delle risorse impegnate non giunge a buon fine. Il pri- mato di efficienza spetta al Nord con un tasso di circa il 90%, mentre Sud e Centro ri- portano valori decisamente più contenuti (rispettivamente il 73,6% e il 63,1%). Gli strumenti finanziari di sostegno alla formazione continua non hanno mai beneficiato, nel nostro Paese, di stanziamenti così cospicui come adesso avviene con i Fondi Parite- tici Interprofessionali. Per le attività formative dei Fondi sono stati stanziati nel 2004-07 circa 459 milioni di euro. 26 In merito alla formazione continua a domanda individuale mediante voucher, un importante banco di prova per la sua sperimentazione è rappresentato dalla Legge 236/1993: la Re- gione Friuli Venezia Giulia è quella che a tale modalità ha destinato la maggior parte del- le risorse 2006 (82%), seguita dal Veneto e dall’Emilia Romagna (50%) e dalla Toscana (45%). Prevalentemente concentrati sulla domanda individuale sono poi gli interventi pre- visti dalla Legge 53/2000. Al finanziamento dei voucher diverse Regioni hanno infatti de- stinato buona parte delle risorse disponibili. Si pone comunque da tempo un problema di integrazione tra questi strumenti finanziari e gli interventi programmati dai Fondi Paritetici. Un’esigenza recepita dal Ministero del Lavoro nell’ultimo provvedimento di riparto delle risorse della Legge 236/1993. rapporto isfol 2007 Avvisi 2004 Avvisi 2005 Avvisi 2006 Avvisi 2007 Fon.Coop 2.533.963,87 3.474.829,00 4.428.276,83 13.195.312,11 Fon.Ter 1.000.000,00 11.844.423,52 13.585.465,34 5.650.245,15 Fondimpresa 48.077.400,00 9.200.000,00 35.960.000,00 46.900.000,00 Fondir 720.000,00 5.150.000,00 11.000.000,00 5.000.000,00 Fondirigenti 3.497.000,00 3.000.000,00 Fondo Art. Form. 4.257.420,00 15.464.843,00 8.830.288,00 9.541.000,00 Fondo Dir. PMI 133.740,00 150.000,00 266.945,50 Fondo Form. PMI 4.000.000,00 9.000.000,00 22.500.000,00 9.000.000,00 Fondoprofessioni 2.000.000,00 3.550.000,00 4.500.000,00 For.Te 19.000.000,00 2.835.908,76 60.068.600,00 58.731.000,00 Fond.Er 1.000.000,00 Totale 83.219.523,87 58.970.004,28 163.072.630,17 153.784.502,76 Risorse dei Fondi Paritetici per le attività formative (al settembre 2006) N.B.: Gli stanziamenti qui riportati sono stati a volte integrati da risorse aggiuntive. Politiche formative e caratteristiche della domanda e dell’offerta I processi di riforma in atto Nel corso del 2007 il sistema di istruzione e formazione italiano ha visto alcune innova- zioni normative di non scarso rilievo, che dovrebbero incidere in modo significativo sul suo assetto. È stato innanzitutto introdotto l’innalzamento dell’obbligo d’istruzione fino a sedici anni d’età con il conseguente elevamento di un anno dell’età minima per accedere all’inseri- mento lavorativo. Una volta conseguita la licenza media, i giovani assolveranno l’obbli- go frequentando la scuola secondaria di secondo grado o anche percorsi e progetti rea- lizzati da strutture formative accreditate a livello nazionale. I diversi percorsi dovranno tutti garantire il conseguimento di risultati minimi, espressi in termini di competenze chia- ve relative ai saperi di base e di tipo sociale e culturale, individuati dal Regolamento ema- nato dal Ministero della Pubblica Istruzione. La Legge 40/2007 riordina l’intera istruzione tecnica e professionale nel nostro Paese. Gli istituti tecnici e gli istituti professionali rientrano a pieno titolo negli ordinamenti della istruzione secondaria di secondo grado: i primi ritornano al loro statuto originario e non “subiranno” quindi il processo di licealizzazione annunciato; i secondi costituiranno un percorso quinquennale d’istruzione professionalizzante e quindi non si conseguirà più la qualifica statale al termine del terzo anno. Nello stesso provvedimento si introducono i Poli tecnico-professionali, soggetti di natu- ra consortile che realizzano un’offerta articolata, destinata a diverse tipologie di utenza. La sfida è quella di improntare tale offerta in modo da favorire il trasferimento dell’in- novazione e quindi la crescita della competitività dei territori. Sul fronte della formazione post-secondaria, si prevede di introdurre una nuova offerta di for- mazione tecnica superiore attraverso gli istituti tecnici superiori, che dovrebbero garantire mag- giore stabilità e un più forte collegamento alle esigenze di sviluppo, ricerca e innovazione. Per quanto riguarda la formazione continua, l’Accordo tripartito dell’aprile 2007 è espli- citamente indirizzato alla definizione di nuove modalità di coordinamento tra la pro- grammazione regionale e quella dei Fondi Paritetici Interprofessionali. Lo strumento ope- rativo e di intesa tra i diversi soggetti è stato individuato nell’Osservatorio nazionale per la formazione continua. Ancora tra le nuove proposte il disegno di legge governativo sull’apprendimento permanente, che per la prima volta traccia un percorso verso la costruzione di un sistema di appren- dimento permanente come diritto della persona, senza vincoli di età, condizione socia- le e collocazione occupazionale, evidenziando i temi chiave (orientamento lungo il cor- so della vita, invecchiamento attivo, dispositivi di certificazione e validazione delle com- petenze comunque e dovunque acquisite, ecc) per realizzare lo sviluppo di conoscenze e competenze in favore dell’occupazione, occupabilità e inclusione sociale. I sistemi regionali per il successo formativo Nel corso dell’anno formativo 2005-06 il lavoro delle amministrazioni regionali e provin- ciali è proseguito nella direzione di promuovere il successo formativo di tutti i giovani at- 27 sintesi 28 traverso il rafforzamento delle anagrafi, la promozione di azioni di orientamento, lo sviluppo di attività di accompagnamento ad opera degli operatori dei Centri per l’Impiego. In merito a queste ultime attività si riscontra una tenuta sia in termini di copertura del ser- vizio, sia in termini di livelli dei servizi erogati. La percentuale di strutture che hanno atti- vato servizi e funzioni relative all’obbligo formativo raggiungono l’84%, con una crescita rispetto all’anno precedente del 7% e una variazione particolarmente positiva nel Mezzo- giorno (+21%). I Centri che erogano servizi di accoglienza e informazione sono oltre il 76%; l’orientamento è realizzato da quasi il 73%; mentre sensibilmente più bassa è la percentuale di CPI che svolgono azioni di tutoraggio (64,4%), soprattutto al Sud (41%). Uno dei problemi principali dei CPI continua a essere la scarsa disponibilità di risorse uma- ne dedicate alle attività per i giovani in obbligo: circa 800 operatori a fronte di una disper- sione di circa 113mila ragazzi. Lo scarto tra il numero di operatori e il livello della dispersione scolastica è forse uno dei fattori in grado di spiegare perché l’impatto delle azioni messe in campo nel corso di questi anni sia stato meno significativo di quanto si potesse sperare. Per quanto riguarda l’offerta di istruzione e formazione professionale iniziale, essa si è an- data strutturando secondo due direttrici: i percorsi sperimentali triennali di cui all’Ac- cordo quadro del giugno 2003, sia pure con “varianti di composizione” all’interno del- l’itinerario formativo secondo le diverse strategie regionali, e corsi al di fuori dell’Ac- cordo. Sono, questi ultimi, corsi generalmente più brevi dei triennali, tradizionali o ad esaurimento, oppure destinati a ragazzi appartenenti a categorie di svantaggio sociale ed handicap. Quest’ultima offerta è andata progressivamente riducendosi negli ultimi anni. Il totale degli allievi raggiunge nel 2005-06 un valore consistente, pari a 123.280. Circa 100 mila sono relativi ai percorsi ex Accordo, con una crescita nel 2006-07 rispetto all’anno scolastico precedente pari al 14,7% (il Mezzogiorno segna però un -8,3%). Apprendistato Anche se il numero degli apprendisti continua a crescere, seppure di poco, arrivando a sfiorare nel 2006 la cifra di 600 mila unità, il quadro dell’implementazione del D.Lgs. n. 276/2003 si presenta ancora a macchia di leopardo per quanto riguarda l’apprendistato professionalizzante, mentre quello per l’espletamento del diritto-dovere rimane un isti- tuto di fatto inesistente e l’apprendistato per il conseguimento di un diploma è oggetto di sperimentazioni di portata alquanto limitata. rapporto isfol 2007 2005 2006 2006/2005 Nord-Ovest 164.898 172.868 4,8% Nord-Est 147.410 152.958 3,8% Centro 126.767 137.196 8,2% Sud e Isole 125.457 126.415 0,8% Italia 564.532 589.437 4,4% Occupazione in apprendistato Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Inps Relativamente all’apprendistato professionalizzante, l’ultimo monitoraggio realizzato dal- l’Isfol ha messo a confronto le regolamentazioni regionali e le discipline contrattuali, evi- denziando direttrici talvolta divergenti. È impensabile che convivano sul territorio mo- delli così diversi ed emerge l’esigenza di omogeneizzazione, con un’azione più forte di re- gia a livello centrale. Va inoltre segnalato che oggi solo il 20,4% degli apprendisti riceve effettivamente una for- mazione esterna (nel Mezzogiorno meno del 10%), spesso considerata di scarsa qualità, poiché manca un sistema nazionale di standard. Formazione permanente L’Isfol ha analizzato le caratteristiche dell’offerta di formazione permanente predisposta dalle Regioni nell’ambito della programmazione FSE 2000-06. I progetti (che durano in media 5,3 mesi) sono prevalentemente rivolti al settore informatico (47,5% dei corsi), alle lingue straniere e all’adeguamento delle competenze professionali. Solo il 3% circa del to- tale delle attività realizzate ha riguardato azioni di assistenza a strutture e sistemi (come la formazione dei formatori) o di accompagnamento (ad esempio pubblicizzazione del- le attività svolte). Per quanto riguarda le caratteristiche dell’utenza si conferma, purtroppo, l’estrema dif- ficoltà di raggiungere le fasce più deboli della popolazione: i frequentanti sono ancora in prevalenza soggetti di età compresa tra i 26 e i 40 anni, di cittadinanza italiana, in pos- sesso di diploma di scuola superiore, occupati. La Seconda Rilevazione ISFOL 2005 sulla domanda di formazione in Italia degli adulti di età compresa tra i 25 e i 64 anni ha individuato il grado di partecipazione alle attività formative nei percorsi formali, non formali ed informali, descrivendo inoltre i bisogni e le aspettative espresse dalla popolazione adulta. Nel corso del 2004 il 9,4% degli intervistati ha partecipato ad attività formative corsua- li per interesse personale; considerando anche le attività di formazione non formali la quo- ta di partecipanti raggiunge il 12%. L’indagine ha rilevato un insieme di informazioni sulla fruizione da parte degli intervi- stati di attività culturali e dei media. Nella settimana precedente l’indagine il 45% aveva letto quotidiani ed il 28% libri. Inoltre nel corso dell’ultimo anno, uno o più volte: il 48% degli intervistati era andato al cinema, il 31% era entrato in un museo, il 24% era anda- to a concerti e l’11% aveva partecipato a dibattiti pubblici. Tra quanti non hanno frequentato attività formative nel corso del 2004, poco più della metà degli intervistati dichiara di essere interessato ad attività di formazione dirette a svi- luppare interessi personali. Sono soprattutto gli occupati (58%) e le persone con un li- vello d’istruzione più elevato gli adulti più propensi a svolgere attività di formazione per approfondire interessi personali. Sarebbe inoltre necessario ai fini di una maggiore par- tecipazione alla formazione flessibilizzare l’offerta rispetto ai tempi di erogazione e rimuovere alcuni ostacoli al coinvolgimento degli utenti adulti. Tra i vincoli gli stessi intervistati han- no indicato: la conciliazione con gli orari di lavoro; gli impegni familiari; la mancanza di tempo in generale; i costi elevati dei corsi di formazione. 29 sintesi 30 Le imprese aderenti ai Fondi Paritetici sono oltre 400 mila, con un tasso di adesione medio pari al 42,4%. Nell’82% dei casi si tratta di aziende piccole (1-9 lavoratori). Sotto il profilo settoriale, emerge una buona penetrazione nel manifatturiero, nell’alberghiero e ristorazio- ne e nelle costruzioni, ma in primo luogo negli “altri servizi” (sanità, servizi alla persona, ecc.). Tra gli ultimi mesi del 2006 e i primi del 2007 la maggioranza dei Fondi Paritetici ha con- cluso la fase di start-up, durante la quale sono stati finanziati 2.376 piani formativi, coin- volgendo 18.543 imprese (il 4,2% delle adesioni totali ai Fondi) e 348.819 lavoratori (il 6,1% di quelli aderenti ai Fondi). rapporto isfol 2007 Fondi Dipendenti Fondo Formazione PMI 434.485 Fon.Ar.Com 65.523 Fondo Artigianato Formazione 865.714 Fon.Coop 300.131 Fondimpresa 2.386.494 For.Te 1.394.725 Fondo Professioni 121.966 Fond.E.R. 85.806 Fonter 320.664 Fondirigenti 63.670 (*) Fondo Dirigenti PMI 1.418 (*) Fondir 25.080 (*) Totale 5.975.508 Lavoratori in forza presso le imprese aderenti ai Fondi Paritetici Interprofessionali (maggio 2007) (*) Novembre 2006. Fonte: Elaborazione Isfol su dati Inps Infine, una larga parte degli intervistati ha segnalato il problema della scarsità dell'informa- zione sull'offerta disponibile nel territorio. Fondi Paritetici Interprofessionali I Fondi Paritetici Interprofessionali raccolgono un'adesione crescente. Il numero dei la- voratori in forza presso le imprese aderenti supera i 6 milioni, cioè più della metà dei di- pendenti delle imprese private. La distribuzione territoriale registra un profondo sbi- lanciamento tra il Nord e il Sud del Paese: tre Regioni (Lombardia, Emilia Romagna e Ve- neto) raccolgono circa il 60% dei potenziali beneficiari. I comportamenti formativi delle Piccole e Medie Imprese Nell’ambito dell’Indagine Isfol Indaco-PMI è stato intervistato un campione rappresen- tativo di circa 149 mila imprese con un organico tra i 10 e i 249 dipendenti: un quarto ha offerto formazione di tipo corsuale nel corso del 2005. Si tratta nel 46% dei casi di im- prese con più di 50 dipendenti, prevalentemente del settore credito e assicurazioni (77,5%) e con una maggiore presenza nel Nord-Est (29,4%). Le imprese formatrici sono in media quelle più dinamiche, con differenziali talvolta mol- to elevati rispetto alla media nazionale: hanno più domande di brevetti (+2%), più re- gistrazioni di marchi (2,2%), più aumenti di redditività (+8,7%) e di fatturato (+8,3%), più certificazioni di qualità (+17,6%). I cataloghi di offerta formativa Negli ultimi anni si è verificata una progressiva creazione di cataloghi utilizzati per la for- mazione a domanda individuale. Alla caratteristica comune del voucher come forma di finanziamento si accompagna una diversificazione per quanto riguarda i destinatari e il livello territoriale. In alcuni casi le Regioni hanno scelto che siano le stesse Province a de- terminare le regole di creazione e gestione dei cataloghi. La convinzione del legame stretto tra promozione della qualità e costruzione dei catalo- ghi per l’offerta si sta ora diffondendo e dalle sperimentazioni regionali per la formazione continua si è assistito a una loro estensione anche ad altri segmenti della formazione. 31 sintesi 32 L’orientamento e il riconoscimento dei percorsi formativi Orientamento Gli interventi di orientamento sono in crescita, ma il quadro complessivo risulta ancora lontano dall’essere soddisfacente, con evidenti ricadute sui processi di scelta degli studenti. Nel 2006 l’Isfol ha svolto due ricerche mirate sulla natura di tali processi, che conferma- no entrambe quanto ancora forte sia il peso del livello socio-culturale delle famiglie di origine. rapporto isfol 2007 Livello culturale Medio-basso Medio-alto Elevato Liceo 37,9 62,8 86,6 Istituto tecnico 37,2 28,9 8,9 Istituto professionale 19,6 5,9 4,0 Formazione professionale 3,3 1,4 - Altro 2,0 1,0 0,4 Tipo di scuola scelta dagli studenti di terza media per origini familiari (%) Fonte: Indagine Isfol-Iard 2006 Continua a esistere una sorta di pre-determinazione nel futuro percorso scolastico e pro- fessionale dei giovani, sulla base del titolo di studio dei genitori. Titolo di studio dei genitori Liceo Istituto tecnico Istituto professionale Padre Madre Padre Madre Padre Madre Laurea o superiore 32,2 27,8 9,1 7,3 5,1 5,4 Medie superiori 46,6 51,4 50,3 50,8 37,7 41,3 Medie inferiori 18,4 18,2 32,7 35,3 46,2 41,9 Elementari/Nessun titolo 1,0 1,8 4,5 4,6 9,2 8,9 Non risponde/Non sa 1,8 0,8 3,4 2,0 1,8 2,5 Iscritti al V anno delle scuole secondarie superiori per titolo di studio dei genitori (%) Fonte: Indagine Isfol-Censis GN Research 2006 I principali veicoli di orientamento sono rappresentati dalla scuola e dall’università (40,3%). Vi sono poi molti studenti che si attivano autonomamente; mentre la famiglia e gli ami- ci sono indicati da poco più del 20% del campione interpellato. Minoritario è il nume- ro di quanti si rivolgono ad agenzie operanti sul territorio (ad esempio gli sportelli In- formagiovani), così come ai Centri per l’impiego, visitati appena dal 13% degli studen- ti (nonostante siano ritenuti estremamente utili). Oltre il 65% dei giovani non considera il diploma di scuola secondaria di II grado un ti- tolo più che sufficiente per poter trovare lavoro, e circa il 90% si dichiara assolutamente disponibile a sperimentare un periodo di stage oppure - in percentuale lievemente infe- riore - un contratto di apprendistato. Ma la conoscenza dell’offerta formativa disponibile risulta decisamente scarsa. Un terzo degli studenti delle medie e un quarto delle loro madri affermano di non sapere nulla del- la formazione professionale. Per quel che riguarda la formazione professionale post-se- condaria, più della metà degli intervistati dichiara di non avere informazioni sui corsi IFTS e circa il 60% non ha un’idea chiara di cosa sia l’offerta di formazione professionale di II livello. Riconoscimento dei percorsi formativi Coerentemente con le indicazioni emerse a livello europeo in tema di European Qualifi- cations Framework (EQF), nel nostro Paese si è andata via via rafforzando l’idea che lo svi- luppo di un framework nazionale di riferimento per i sistemi educazione-formazione- lavoro rappresenti una priorità da perseguire. In tale ottica, nel settembre 2006 il Mini- stero del Lavoro ha promosso la costituzione di un Tavolo unico con Regioni, Parti so- ciali e Ministero dell’Università e della Ricerca per definire un Quadro nazionale di stan- dard e certificazione, in cui siano distinti gli standard professionali, quelli formativi e quel- li relativi ai processi di riconoscimento e certificazione, anche sulla scorta dei criteri pro- mossi in sede europea (come, ad esempio, il sistema ECVET di accumulazione e trasfe- rimento dei crediti). Sul piano operativo, nel corso del 2007 è stata svolta una prima ricognizione delle pras- si nel settore, che ha censito una trentina di repertori in cui vengono descritti circa 1.700 profili professionali. Il D.Lgs. n. 276/2003 ha avviato il percorso di definizione del Libretto Formativo del Cit- tadino, il cui modello è stato approvato nel 2005. Si è poi svolta una fase di sperimenta- zione alla quale hanno aderito, nel biennio 2006-07, 13 Regioni e Province autonome. Il Libretto Formativo rappresenta oggi l’unico strumento longitudinale istituzionale di trasparenza delle competenze presente a livello nazionale e le sue potenzialità sono sta- te riconosciute in tutti i contesti della sperimentazione. Tuttavia, per dispiegare comple- tamente tali potenzialità, appare fondamentale rivederne alcuni aspetti relativi al suo ri- lascio e utilizzo, nonché alla validazione delle competenze in esso riportate. 33 sintesi La qualità e i risultati del sistema di formazione professionale I modelli di qualità dei Centri di formazione professionale La verifica e lo sviluppo della qualità dell’offerta formativa sta diventando una questio- ne sempre più centrale nelle politiche per la formazione professionale. L’Isfol ha recentemente concluso una ricerca sul campo nella quale sono state rilevate le opinioni di un campione significativo di soggetti operanti nel settore. I dati mostrano come il rapporto dei Centri di formazione professionale con l’approccio alla qualità sia una re- altà complessa e diversificata. La certificazione secondo le norme ISO è la pratica di gran lunga più adottata, con un incremento significativo del 25% di Centri che adottano que- sto approccio rispetto a una precedente rilevazione pubblicata nel 2004. Nel Nord la cer- tificazione è diffusa nella quasi totalità dei Centri di formazione; nel Centro Italia e nel Mezzogiorno si è comunque riscontrato un forte recupero del ritardo degli anni scorsi. 34 rapporto isfol 2007 Sì, classe ISO 9000 57,9 Sì, EFQM 0,1 Sì, altro 6,5 No, ma sono in corso procedure 23,1 No 12,3 Sedi operative per tipo di certificazione (%) Fonte: Ricerca Isfol-Enaip Rispetto alla questione centrale dell’impatto sulle pratiche pedagogico-didattiche, si è cer- cato di verificarlo sulla base del tempo complessivo che le sedi dedicano ad affrontare pro- blematiche inerenti alla qualità dei processi formativi. La durata si distribuisce secondo una gerarchia interessante: al primo posto si situano problematiche di carattere valutativo sul- la qualità dei risultati (37,7%), al secondo le tematiche relative alle modalità di insegna- mento (34,5%) e al terzo le questioni di ordine organizzativo (27,8%). La gestione dei si- stemi di qualità non sembra, dunque, aver sviluppato nei formatori la consapevolezza del- l’importanza della dimensione organizzativa. In definitiva, i formatori sono maggiormente predisposti a confrontarsi sulle conclusioni dei processi piuttosto che sui processi stessi. L’accreditamento L’accreditamento rappresenta uno dei principali meccanismi di garanzia della qualità del- le sedi formative. Queste sono 8.454 nel 2007 (a fronte delle 9.449 del 2006), maggior- mente concentrate nel Centro Nord (5.574). Le macrotipologie principali oggetto di accreditamento sono state la formazione supe- riore (nell’81% dei casi) e la formazione continua (74%), mentre le sedi accreditate per l’obbligo formativo (36%) tendono a flettere in modo significativo. 35 sintesi Da segnalare la volontà evidenziata nel 2006 dal Ministero del Lavoro e il Coordinamento delle Regioni e Province autonome di pervenire a una rivisitazione del D.M. 166/2001, con la definizione di un nuovo sistema di accreditamento. In tale ottica, è stato costitui- to un gruppo tecnico, che ha presentato una proposta ad hoc, e poi un tavolo istituzio- nale per esaminare la proposta stessa. I princìpi di fondo sono il lifelong learning, la cen- tralità dell’audit, la semplificazione, la sinergia nei controlli. I formatori Si registra una situazione di sostanziale stallo nel dibattito sulla regolamentazione dei pro- fili degli operatori del sistema formativo. I dati più recenti di monitoraggio mettono in luce come nel nuovo sistema di formazio- ne professionale accreditata stia procedendo un significativo ricambio generazionale, che ha determinato un rallentamento del processo di invecchiamento dei formatori (età me- dia di 43 anni). Vi è poi la novità del sorpasso della componente femminile (53,2%) e di una crescente incidenza dei laureati (60,7% contro il 39,9% del 2004). Il 60% circa dei formatori dichiara di aver fruito di una qualche opportunità di forma- zione in servizio, soprattutto nelle Regioni settentrionali. Totale Maschi Femmine Obbligo, qualifica 3,5 5,0 2,2 Diploma 35,8 40,3 32,1 Laurea 60,7 54,7 65,7 Livelli di istruzione dei formatori della FP in Italia, anno 2006 (%) Fonte: Isfol La valutazione degli utenti della Formazione Professionale Iniziale L’Isfol ha realizzato un’indagine su un campione di allievi in uscita dalla Formazione Pro- fessionale Iniziale (FPI). Riguardo alla valutazione del proprio percorso formativo, il rap- porto degli allievi con docenti e compagni di classe risulta complessivamente buono. 36 Due allievi su tre se tornassero indietro rifarebbero la stessa scelta della FPI, circa l’8% andrebbe a lavorare e il 13,5% si iscriverebbe a scuola, con un tasso di indecisi di circa il 13%. Dalla domanda sui “desiderata”, le proposte più frequenti riguardano un maggior utiliz- zo dei laboratori e più cura nella preparazione degli stage. Emergono poi carenze riferi- bili agli ambienti e agli strumenti didattici (circa il 40% del campione). Gli esiti occupazionali dei percorsi formativi Un indicatore cruciale della qualità dei percorsi formativi consiste nella loro capacità di garantire l’occupabilità di coloro che li frequentano. A questo riguardo l’Isfol ha svolto un’indagine sugli esiti degli interventi finanziati dalle Regioni del Mezzogiorno tramite il Fondo sociale europeo (2003-04). I destinatari sono per due terzi donne, in prevalenza di età compresa tra i 20 e i 34 anni e in possesso di diploma di scuola secondaria superiore. Circa la metà è costituita da per- sone che si dichiarano essere disoccupate di lunga durata. Si tratta dunque di persone che hanno già sperimentato difficoltà di inserimento di lavoro e che ripongono forti aspet- tative nei confronti degli interventi formativi. Ebbene, i giudizi espressi al momento del- l’intervista mostrano come tali aspettative, a posteriori, siano state in buona parte disat- tese. Infatti, pur valutando molto favorevolmente sia il corso che lo stage, sia i docenti che i tutor, i partecipanti esprimono opinioni negative sull’utilità dell’intervento ai fini del- l’occupazione e sull’assistenza post attività. D’altro canto, a distanza di dodici mesi dal- la conclusione degli interventi solo uno su cinque dei destinatari coinvolti dichiara di es- sere occupato. rapporto isfol 2007 85,6 74 82 80 75,4 56,5 63 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 I compagni di classe I compagni del CFP I docenti Il tutor formativo Il tutor di stage Il Direttore Il personale di segreteria Il rapporto degli allievi della FPI con le figure presenti nell’agenzia formativa (% di molto/abbastanza positivo) Fonte: Indagine Isfol-Iard 2006 Una seconda area di approfondimento riguarda i corsi di Istruzione e formazione tecni- ca superiore (IFTS), sui quali l’Isfol svolge indagini campionarie annuali. Dopo dodici mesi dalla conclusione dei corsi, la percentuale degli occupati risulta in questo caso im- portante (60,4%). La nuova occupazione, esclusi cioè gli adulti già occupati, ha interes- sato complessivamente il 46,6% dell’intero campione. 37 sintesi Nord- Ovest Nord- Est Centro Sud e Isole Totale In cerca di prima occupazione 3,2 - 4,6 27,0 12,8 Liste di mobilità/cassa integrazione guadagni 0,5 - 1,3 - 0,3 Disoccupato 13,7 12,0 14,5 22,7 17,3 Occupato 75,8 77,3 65,8 40,9 60,4 Non in cerca di occupazione 6,7 10,7 13,8 9,4 9,2 Condizione occupazionale degli ex corsisti IFTS, annualità 2002-03 (%) Fonte: Indagine Isfol 2006 Mettendo a confronto la condizione occupazionale dichiarata prima e dopo l’interven- to formativo, appare tuttavia preoccupante che tra coloro che si dichiaravano in cerca di prima occupazione più di uno su 3 (il 37,3%) continui a dichiararsi tale. Inoltre, permane nella stessa condizione il 39,8% dei corsisti disoccupati. Ciò fa presupporre la fragilità del- le misure di accompagnamento al lavoro e al tempo stesso una pericolosa cristallizzazione delle difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro. Il conseguimento di un titolo di studio elevato sembra giocare ancora un ruolo impor- tante per velocizzare i processi di transizione: la percentuale più elevata di occupati dopo il corso si riscontra tra coloro che sono in possesso di titoli universitari. In generale, i cor- si IFTS appaiono maggiormente efficaci per coloro che sono in possesso di quelle carat- teristiche che nel mercato del lavoro conducono in ogni caso a un più agevole inserimento lavorativo. Venendo agli esiti occupazionali dei corsi di alta formazione, finanziati nel Mezzogior- no dal Programma operativo nazionale “Ricerca, sviluppo tecnologico e alta formazio- ne”, a sei mesi dalla loro conclusione, i formati tramite dottorato fanno registrare un tas- so occupazionale del 67,1%, molto superiore a quello dei laureati meridionali (41,1% a dodici mesi dalla laurea). Il dottorato risulta essere non solo il primo passo verso la car- riera universitaria, ma anche un canale di ingresso privilegiato nel settore pubblico, men- tre è scarsa - a differenza dei master - l’occupazione nel settore privato. 38 rapporto isfol 2007 Condizione occupazionale Dottorati Master Occupato 67,1 43,3 Disoccupato 6,9 9,3 In cerca di prima occupazione 13,1 32,3 Doveva iniziare un’attività in futuro 2,8 1,0 Studente 7,7 9,7 Tirocinante non retribuito 1,8 3,9 Altro inattivo (casalinga, inabile al lavoro) 0,4 0,5 Esiti occupazionali dell’alta formazione a sei mesi dalla conclusione dei corsi Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Miur Mercato del lavoro Andamenti dell’occupazione Il livello dell’occupazione registrato nel 2006 rappresenta un massimo storico nel nostro Paese, sia in termini assoluti (quasi 23 milioni di occupati) che in relazione al tasso an- nuale di crescita (poco meno del 2%). Una tendenza che appare confermata, seppure a ritmi più lenti, anche nei primi due trimestri del 2007. Se nel biennio 2004-05 l’aumento occupazionale è dipeso in buona parte dalla regolarizza- zione del lavoro immigrato, esso sembra ora assumere un carattere strutturale, inauguran- do una fase nuova. A fronte di una ripresa sostenuta della crescita economica, si registra una più elevata velocità di reazione della domanda di lavoro al ciclo economico, lasciando intravedere una progressiva erosione di alcuni elementi di rigidità del mercato del lavoro italiano. Al tempo stesso, l’incremento contestuale di occupazione e PIL indica come l’Italia con- fermi nel 2006 la sostanziale stagnazione dei due anni precedenti sul piano della produttività del lavoro; non solo perché la crescita ha privilegiato comparti a bassa produttività, come i servizi alle famiglie, ma anche probabilmente per l’emersione di lavoro sommerso, che provoca un’apparente diminuzione della produttività stessa. Infine, il riassetto delle for- me contrattuali e la maggiore flessibilità ha comportato un abbassamento del costo del lavoro e, conseguentemente, si è registrato un aumento della domanda di lavoro rivolta a segmenti marginali dell’offerta, caratterizzati da produttività più bassa. Sotto il profilo settoriale, è ai servizi che si deve quasi interamente la crescita occupaziona- le del 2006, invertendo la tendenza al rallentamento degli anni precedenti. Dal punto di vi- sta territoriale, si profila una ripresa del Mezzogiorno, dopo la serie negativa avviata nel 2003. La metà dei nuovi posti di lavoro è a termine (+9,7% rispetto al 2005). Si sta dunque ra- pidamente modificando la composizione dell’occupazione dipendente, dove la compo- nente permanente perde progressivamente peso al ritmo di un punto percentuale a bien- nio. Il contratto di lavoro a tempo determinato è generalmente diffuso tra i giovani e le donne. A riguardo, permangono le perplessità sui rischi di precarizzazione che tali for- me di lavoro comportano. Si è infatti registrata negli anni recenti una flessione delle tra- Sezione 3 Lavoro 39 40 sformazioni di contratti a termine in occupazione stabile e una parallela diminuzione del- la durata media dei rapporti di lavoro. Inoltre, si segnala la permanenza di una quota non trascurabile di occupati a tempo determinato in età centrali. A ciò si aggiunge l’aumento delle altre forme di lavoro non standard: +7,2% per i con- tratti di collaborazione a progetto; +15,5% delle prestazioni autonome occasionali. Com- plessivamente, le forme di lavoro parasubordinato rappresentano poco meno del 10% del- la crescita occupazionale del 2006. La disoccupazione in Italia ha raggiunto il valore più basso dell’ultimo ventennio (il 6% nel periodo aprile-giugno 2007). Il trend procede costantemente da quasi un decennio, ma nell’ultimo anno sembra assumere caratteri di discontinuità con il passato recente. In primo luogo, la flessione avviene al pari dell’incremento dell’occupazione, contestualmente a una robusta ripresa della crescita, tanto da ipotizzare l’avvio di una fase di sviluppo re- lativamente stabile. Inoltre, il 2006 fa registrare una diminuzione della disoccupazione di lunga durata pari a oltre tre volte quella registrata nell’anno precedente. E il tasso di di- soccupazione giovanile subisce una decisa flessione (-2,4%) rispetto al 2005, interrom- pendo la tendenza costante all’aumento del periodo 2002-04. Buona parte della diminuzione della disoccupazione è comunque legato a un incremento del tasso di attività inferiore a quello del tasso di occupazione. In sostanza, durante la pri- ma metà degli anni Duemila sì è protratto un effetto di scoraggiamento che ha ridotto la partecipazione al mercato del lavoro. È questo uno tra i problemi strutturali più allar- manti per il nostro Paese: il tasso di partecipazione della popolazione in età attiva (15- 64 anni) risulta inferiore di oltre 9 punti percentuali alla media dei paesi europei più avan- zati (62,7% a fronte del 72% dell’UE15). Le cause sono molteplici: dall’aumento della scolarizzazione, al contenimento della cre- scita nel salario di ingresso, alle scarse prospettive di stabilità occupazionale dei giovani (solo il 45% dei 15-24enni accede al mercato del lavoro con un contratto standard). Le direzioni del cambiamento Lo scenario di medio termine predisposto dall’Isfol in merito all’evoluzione della domanda di lavoro in Italia indica anche per i prossimi anni una dinamica occupazionale consistente, ancorché meno esuberante rispetto al recente passato, e un quadro generalmente favo- revole per il mercato del lavoro. Nel 2009 si stima che ci saranno circa 25,37 milioni di occupati, con un incremento me- dio annuo dello 0,8%, cui corrisponde una creazione netta di 205 mila posti di lavoro al- l’anno. Prosegue il trend di crescita del peso dell’occupazione nei servizi. Al loro interno si ribadisce, però, la peculiarità italiana di una quota contenuta, e peraltro in ulteriore con- trazione, nei settori dei servizi non vendibili. Ne risulta che gli incrementi sono tutti con- centrati nei settori dei servizi vendibili. Un’altra peculiarità italiana degli ultimi anni consiste nel fatto che, nonostante la crisi di competitività della nostra industria, restiamo fondamentalmente un Paese con una for- te base occupazionale industriale. rapporto isfol 2007 Relativamente alle professioni, si osserva una polarizzazione che vede quelle altamente qualificate e quelle non qualificate crescere con un tasso oltre la media (superando il 4%). 41 sintesi 1995 2000 2006 2009 Agricoltura 1.316 1.103 1.015 964 Industria in senso stretto 5.273 5.190 5.167 5.148 Costruzioni 1.481 1.554 1.862 1.854 Servizi 13.771 15.084 16.711 17.395 di cui: Servizi vendibili* 8.569 9.673 10.987 11.583 Servizi non vendibili** 5.202 5.410 5.724 5.812 L’occupazione per settore: valori assoluti (in migliaia) * Commercio, alberghi e ristoranti, trasporti, intermediazione finanziaria, attività immobiliari e servizi alle imprese. ** Servizi generali della P.A. e assicurazione sociale obbligatoria, istruzione, sanità, altri servizi pubblici sociali e personali. Fonte: Isfol-Ref v.a. % Legislatori, dirigenti, imprenditori 9.168 0,85% Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione 96.216 4,07% Professioni tecniche 123.41 2,71% Impiegati 53.811 2,06% Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi 157.008 4,09% Artigiani, operai specializzati, agricoltori -85.779 -1,95% Conduttori di impianti e addetti a macchinari fissi e mobili -11.959 -0,58% Professioni non qualificate 139.550 4,51% Previsioni dell’occupazione per gruppi professionali, variazioni 2005-09 Fonte: Isfol-Irs Le previsioni mostrano che per la maggioranza delle professioni la domanda futura sarà costituita oltre il 90% da domanda sostitutiva. Fanno eccezione il lavoro intellettuale (matematici, ingegneri, scienze umane, ecc.) e i professionisti nel settore della finanza e del commercio, per i quali la domanda aggiuntiva incide tra il 30% e il 60% su quel- la totale. 42 L’occupazione al femminile Partecipazione La partecipazione delle donne al mercato del lavoro è ancora in stand by. La strategia di Lisbona impone il raggiungimento del 60% come tasso di occupazione femminile nel 2010. L’Italia, dove tale tasso si attesta nel 2006 al 46,3% (contro il 70,7% maschile), ha già am- piamente disatteso anche l’obiettivo intermedio fissato al 57% per il 2005. Il triennio 2003-05 è stato un periodo nero per l’occupazione femminile. Il numero del- le donne inattive in età lavorativa è cresciuto di quasi 300 mila unità, con la conseguen- za che, per la prima volta in dieci anni, il tasso di attività è sceso dal 62,9% al 62,4%. Il 2006 ha segnato un’inversione di tendenza, poiché è ripreso il trend di riduzione del gap rispetto agli uomini, seppur assai debolmente, e sono migliorati i macro-indicatori del mercato del lavoro. Tuttavia, vi sono anche segnali in chiaro-scuro: nel 2006 solo il 36,7% delle nuove occupate è stata assunta con un contratto a tempo indeterminato e rispetto all’anno precedente crescono invece gli accessi mediante lavoro a termine (36,2%) e a pro- getto (6,4%). Permangono, inoltre, i forti squilibri territoriali, con tassi di disoccupazione femminile nel Mezzogiorno tripli rispetto a quelli del Nord e un tasso di attività in calo nelle Regioni del Sud, segno del perdurante fenomeno dello scoraggiamento. rapporto isfol 2007 2004-05 2005-06 Occupato dipendente permanente 41,4 36,7 Occupato dipendente a termine 33,0 36,2 Occupato autonomo collaboratore continuativo 5,9 6,4 Occupato autonomo collaboratore occasionale 2,7 3,3 Occupato altro autonomo 17,0 17,4 Ingressi delle donne nell’occupazione (%) Fonte: Panel Isfol su indagine Istat-Rcfl 2004-06 Nel 2006 in seguito alla maternità ben una donna su nove esce dal mercato del lavoro. In due terzi dei casi ciò è dovuto a esigenze di cura e assistenza alla prole e per un terzo a motiva- zioni circa la tenuta contrattuale. La maternità continua a essere uno dei fattori più difficili da gestire per le organizzazioni, oltre che una fonte di pratiche discriminatorie. Il tema del- la conciliazione dei tempi di lavoro ed extra lavorativi rappresenta, quindi, un fattore deter- minante per la partecipazione femminile. La percezione delle difficoltà vissute dalle donne nel tentativo di conciliare vita e lavoro è stata oggetto di analisi - nell’ambito dell’indagine Isfol Plus - in riferimento a tre dimensioni: l’assistenza a parenti o conoscenti bisognosi, la cura dei figli, le attività domestiche. Le pri- me due, e in particolare la cura di anziani, appaiono le sfere più problematiche. Divario retributivo Il divario retributivo tra uomini e donne è uno dei maggiori ostacoli alla parità di trat- tamento statuita nella nostra Carta costituzionale, sia per le disparità a pari inquadramento e mansioni, sia per la discriminazione all’accesso a posizioni meglio retribuite, anche a pari professionalità, istruzione ed esperienza lavorativa. Se ci si riferisce al monte salari annuo, l’Istat individua un gap di genere di circa il 25%- 22% per i lavoratori dipendenti e il 27% per quelli autonomi. Il differenziale retributivo medio a parità di contratto e di inquadramento viene invece misurato dall’Isfol pari al 15,8%. 43 sintesi 0 10 20 30 40 50 60 cura dei figli cura parenti/conoscenti attività domestiche Totalmente Abbastanza Poco Per nulla In che misura riesce a conciliare la Sua attività lavorativa con… Fonte: Isfol Plus, 2006 Anno Differenziale 1998 -18,5% 1999 -16,8% 2000 -16,7% 2001 -16,1% 2002 -15,8% Differenziale retributivo donne/uomini, a parità di CCNL e livello di inquadramento Fonte: Panel Isfol su dati Inps 44 Le donne risultano fortemente penalizzate rispetto agli uomini pur avendo acquisito le medesime competenze scolastiche. Nel 2004 una laureata guadagnava il 14,5% in meno di un suo collega di studi, una diplomata il 7,8%. Il divario torna ad ampliarsi tra i tito- lari di licenza media (11,8%) e i meno scolarizzati (14,5%). È opinione diffusa che le ragazze siano portatrici di lauree “deboli” rispetto ai titoli ma- schili e che ciò determini il gap retributivo. In realtà anche disaggregando il dato rispet- to ai gruppi di laurea permane sempre un sensibile divario, che sfiora il 30% quando il gruppo considerato è quello delle discipline socio-economiche. Condizioni di lavoro Il 58,6% delle lavoratrici coinvolte nell’indagine Isfol sulla qualità del lavoro dichiara di non aver mai cambiato occupazione nel corso della propria vita professionale (contro poco meno del 50% degli uomini). Spesso precarie (una donna su quattro ha un contratto a ter- mine), le donne sono anche esposte a maggiore intensità produttiva, con ritmi di lavoro permanentemente elevati per il 36,4% delle occupate (contro il 33,4% degli uomini). In compenso, le donne sembrano più capaci di governare il proprio contesto lavorativo. Non a caso, la grande maggioranza ritiene di possedere capacità professionali “adegua- te” rispetto al lavoro svolto (l’80,8% contro poco meno del 75% registrato tra gli uomi- ni). Ciò nonostante, risultano molto accentuate le loro preoccupazioni in merito alle op- portunità di mobilità ascendente: il 62,5% si dice insoddisfatto del percorso di carriera effettuato (contro il 53,3% degli uomini) e il 67,5% esprime pessimismo e sfiducia riguardo alle prospettive future (contro il 55,8% di colleghi). È anche nettamente più ridotta la quota di donne cui sono affidate responsabilità di co- ordinamento o direzione: rappresentano poco meno del 22% sul totale delle occupate a fronte del 38,5% di uomini. La massima concentrazione femminile si ha nelle classi di red- dito più basse: più del 75% fra le occupate guadagna infatti meno di 1.250 euro al mese (tra gli uomini il 46,4%). Tra le cause delle maggiori difficoltà di carriera vi è la diversa durata degli orari di lavo- ro, meno estesi che per gli uomini (mediamente di otto ore effettive la settimana). Ma quel- li delle donne sono anche orari meno flessibili: le lavoratrici che indicano vincoli rigidi per l’entrata al lavoro sono oltre il 10% in più degli uomini. Il part-time femminile (vo- lontario in quasi il 70% dei casi) è quindi, probabilmente, una risposta adattiva alla man- cata possibilità di contemperare le rigidità dell’orario di lavoro con le esigenze extra-pro- fessionali. Il genere si conferma tra i più rilevanti fattori discriminanti nel mondo del lavoro. Sono principalmente le donne a segnalare disparità legate al sesso: 8,7% nel 2006 (rispetto al 7,3% della precedente rilevazione). rapporto isfol 2007 Invecchiamento attivo Over 55 Il tasso di occupazione di chi ha tra i 55 e i 64 anni è arrivato nel 2006 al 32,5%, con un aumento di 4 punti percentuali in un decennio (ma nell’UE è mediamente dell’8,4%), qua- si per intero guadagnati a partire dal 2001 e da imputarsi alla crescita della componente femminile. Le caratteristiche degli occupati 55-64enni riguardo all’istruzione si differenziano da quel- le delle generazioni più giovani per più bassi livelli formali conseguiti; circa la metà pos- siede solamente la licenza elementare o media, e poco più di un quinto, vale a dire meno di 400 mila individui, ha raggiunto la laurea. Dai dati dell’indagine Isfol Plus risulta che ancora circa il 20% degli italiani percepisce una pensione ottenuta prima del compimento dei 50 anni di età. Tra le cause della non oc- cupazione, per gli over 50 i motivi lavorativi prevalgono di gran lunga rispetto a quelli personali. Il ritiro dal lavoro rimane comunque il fattore prevalente: nella classe d’età 50- 64 anni quattro persone su dieci si dichiarano non più formalmente attive e cinque su dieci per quella 55-64. Un dato che lascia molto perplessi, visto il protrarsi in avanti del- la speranza di vita in buona salute. 45 sintesi 15-29 30-39 40-49 50-64 55-64 Motivi personali 34,77 43,43 26,98 14,5 14,03 Motivi lavorativi 52,49 47,61 65,01 38,1 31,24 Insoddisfazione lavorativa 12,75 8,96 8,01 6,29 4,92 Ritiro dal lavoro 41,11 49,81 Cause della non occupazione per classi d’età Fonte: Isfol Plus 2006 Politiche e interventi Il tema dell’invecchiamento attivo è stato di particolare attualità nell’anno trascorso, in quanto ha fatto da sfondo a tutto il dibattito sulla riforma del sistema pensionistico e sul- le tematiche correlate, quali la “solidarietà intergenerazionale”, il bilanciamento tra lavoro e non lavoro nelle fasi della vita, la questione delle attività usuranti. La riforma della previdenza costituisce da decenni una delle spine nel fianco del nostro ordinamento, in quanto ancora giudicato da più parti inidoneo a sopportare il peso cre- scente dell’innalzamento dell’età anagrafica della popolazione. Con il Protocollo del 23 luglio 2007, il Governo ha proposto alle Parti sociali un nuovo sistema pensionistico che si tradurrà in un maggiore, seppur graduale, invecchiamento attivo della popolazione. Pre- cedentemente, con la Finanziaria per il 2007, è intervenuto in materia previdenziale con misure specifiche per ridurre le uscite dal sistema produttivo dei lavoratori over 55. In par- ticolare, ha introdotto la possibilità di aderire a una sorta di patto di solidarietà tra ge- 46 nerazioni, la cosiddetta staffetta giovani-anziani. E anche la riforma della previdenza in- tegrativa è stata configurata tenendo conto della necessità di disincentivare il pensiona- mento anticipato. Nel quadro delle esperienze di invecchiamento attivo svolte in Italia, è a partire dal 2001 che cominciano a emergere i primi dati relativi a interventi significativi, promossi preva- lentemente a livello locale dai Servizi per l’impiego, dalle Agenzie di outplacement, oppu- re finanziati da programmi comunitari: dalle esperienze pionieristiche avviate nel 2002 dal- la Provincia di Savona e dal Comune di Verona, con il coinvolgimento dei Centri per l’im- piego, al progetto over 50 della Provincia di Verbania o quello over 40 della Provincia di Mantova, fino al recente intervento della Provincia di La Spezia che prevede l’impegno al- l’assunzione da parte di imprese in seguito ad azioni di formazione e work experience. Tra i primi esempi di strategie complesse di ricollocazione, che si configurano come “azio- ni di sistema”, sono poi da registrare quelle predisposte già da tempo da Regioni come la Liguria, il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna, le Marche. Da segnalare anche le ini- ziative della Regione Calabria per l’inserimento lavorativo di donne over 45, nonché il ta- volo istituzionale ad hoc istituito dalla Regione Lazio. rapporto isfol 2007 Precarietà versus flessibilità del lavoro Le varie forme dell’atipico Mediante l’indagine Isfol Plus è possibile dar conto della consistenza delle prevalenti voci contrattuali vigenti oggi in Italia, nella consapevolezza che il fenomeno della flessibiliz- zazione (ma anche precarizzazione) dell’occupazione sia ormai tale da rendere necessa- ri nuovi indicatori. Il lavoro dipendente a termine, nelle sue molteplici forme (contratto a tempo determi- nato, apprendistato, interinale, ecc.) riguarda quasi 10 persone su 100. Più contenuta la quota dei collaboratori (co.co.co., a progetto, occasionali) pari complessivamente al 5,7%. 47 sintesi Totale Giovani 15-29 Mezzogiorno Donne Dipendente a tempo indeterminato 63,02 53,08 58,25 63,77 Dipendente a termine 9,57 24,66 11,95 13,13 Autonomi 19,55 10,03 20,31 12,09 Collaborazioni 5,72 8,4 5,44 7,75 Altri accordi non standard 2,72 4,27 4,36 4,08 Raggruppamenti contrattuali principali Fonte: Isfol Plus 2006 Circa la metà dei lavoratori atipici ritengono che le motivazioni del loro contratto non standard siano legate alle esigenze di flessibilità delle imprese. Per queste ultime tali for- me contrattuali appaiono come una modalità ricorrente: il 48% dei rapporti di lavoro di- pendenti atipici è infatti già stata rinnovata almeno una volta. L’83% degli atipici vive non volontariamente, ovvero non positivamente, la condizione di non stabilità derivante dal loro contratto, che è stato imposto nella maggioranza dei casi e prevede un vincolo stringente di presenza. Circa l’80% dei collaboratori ha un solo committente e usa dotazioni dell’azienda presso cui è impiegato. 48 L’Isfol ha identificato due livelli di atipicità: quella minima, definita come gli occupati a termine (compreso l’apprendistato) e i parasubordinati (ovvero occupati autonomi espo- sti a più di vincoli di subordinazione) e quella massima, che comprende anche i part-time involontari (che sono circa un terzo del totale) e coloro che non conoscono o non vogliono rivelare la propria forma contrattuale. L’atipicità minima coinvolge quasi 3,5 milioni di persone, ovvero poco più del 15% dell’occupazione; l’atipicità massima, invece, riguar- da poco più di 4,5 milioni di persone, ovvero circa il 20% degli occupati. L’incidenza di forme atipiche non è normalmente distribuita nel mondo del lavoro, con- tribuendo a una forte polarizzazione dei lavoratori tra standard e atipici. L’atipicità mi- nima registra un’incidenza superiore alla media nelle Isole, tra le donne, i laureati, i gio- vani (1 su 3), nelle imprese tra 4 e 50 addetti. I valori più alti si hanno nei settori del- l’agricoltura, degli alberghi, ristoranti e turismo, delle comunicazioni, dell’istruzione e del- la ricerca e nelle professioni intellettuali e scientifiche e in quelle non qualificate. L’ati- picità massima incide in maniera maggiore ma in linea con l’incidenza relativa all’atipi- cità minima. È evidente l’effetto dell’utilizzo delle forme di lavoro flessibile sulle generazioni più gio- vani, non giustificato dalla fase di ingresso nel mercato del lavoro. Paradossale la posizione dei laureati, per i quali l’atipicità incide in maniera molto più forte che per i titoli di stu- dio inferiori. Se ne deduce una lettura disarmante per la combinazione giovane, donna, laureata, meridionale. Call center Nel primo semestre 2007 l’Isfol ha svolto un’indagine mirata sui call center: circa due ter- zi della loro forza lavoro sono lavoratori autonomi e tra questi la quasi totalità è assun- ta con contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Circa il 70% degli addetti rapporto isfol 2007 Co.co.co. Collaborazione occasionale Co.co.pro. Partite IVA Lei è un lavoratore autonomo per…? Sua scelta 34,35 44,62 19,00 92,68 Su richiesta 65,65 55,38 81,00 7,32 Deve garantire la presenza regolare presso la sede del suo lavoro? No 35,68 26,27 30,69 61,32 Sì 64,32 73,73 69,31 38,68 Ha concordato un orario giornaliero di lavoro con il suo datore di lavoro? No 39,72 27,24 29,94 80,68 Sì 60,28 72,76 70,06 19,32 Esposizione a vincoli di subordinazione del lavoro autonomo (%) Fonte: Isfol Plus 2006 sono donne, per le quali si riscontra una ben più notevole incidenza del lavoro a tempo parziale (35,7%) che non tra gli uomini (16,9%). Gli operatori hanno in larga prevalen- za un’età compresa tra i 26 e i 35 anni e i livelli di istruzione sono medio-alti, i diplomati costituiscono infatti la netta maggioranza del personale. 49 sintesi Distribuzione del personale nei call center per tipologia contrattuale 22,4 10,7 0,8 63,3 2,9 33,8 66,2 30,2 0,0 10,0 20,0 30,0 40,0 50,0 60,0 70,0 80,0 90,0 100,0 A te m po in de te rm in at o A te m po de te rm in at o Al tra ti po lo gi a al le d ip en de nz e Co lla bo ra zio ni Al tra ti po lo gi a di p re st at or i d' op er a To ta le di pe nd en ti To ta le la vo ra to ri au to no m i Pe rs on al e pa rt- tim e Fonte: Isfol - Indagine conoscitiva sui contact center in outsourcing, febbraio 2007 Con la Circolare n. 17 del 14 giugno 2006, il Ministero del Lavoro ha indicato i criteri di utilizzazione dei contratti di collaborazione nei call center, indirizzando l’attività degli ispet- tori del lavoro e sollecitando al tempo stesso un confronto tra le Parti sociali per avvia- re un processo di stabilizzazione, come dimostrato dalla sottoscrizione dell’Avviso comune dell’ottobre 2006. La Finanziaria 2007 ha poi disposto una serie di norme finalizzate ad agevolare tale processo. Si è così proceduto alla stabilizzazione di un numero consisten- te di collaboratori operanti nel settore. Quanto previsto dalla Finanziaria, sostenuto dall’attiva partecipazione delle Parti socia- li, ha quindi prodotto i suoi frutti; pur confermando la persistente presenza nell’ambito del mercato del lavoro italiano di prassi aziendali caratterizzate da un’utilizzazione im- propria di forme di lavoro autonomo. Misure contro la precarietà e prospettive di riforma In generale, l’ultimo anno è stato caratterizzato dall’emanazione di numerosi interven- ti normativi che, anche a costo di potenziali contraddizioni, hanno conferito particola- re continuità all’azione di contrasto ai fenomeni del lavoro atipico, del sommerso e del- la sicurezza. In particolare, con il D.L. 223/2006 sono state adottate misure incisive ai fini della lotta alle irregolarità diffuse nella gestione della forza lavoro nei cantieri edili. Pochi mesi dopo, con 50 la Finanziaria 2007 sono stati formalizzati importanti provvedimenti per la stabilizzazio- ne di rapporti di lavoro temporanei e per il contrasto alla precarietà del lavoro. Infine, con il Protocollo del 23 luglio 2007 tra Governo e Parti sociali, sono state indivi- duate una serie di proposte per garantire un’occupazione di qualità, nonché per assicu- rare equità e pari opportunità per tutti i cittadini. Dal documento scaturisce una sostanziale conferma dell’impianto dispositivo del D.Lgs. n. 276/2003 che, salvo per alcuni aspetti, dovrebbe rimanere quasi integralmente in vigore; anche perché dall’implementazione del- lo stesso non sembra essere derivata una rilevante precarizzazione dell’occupazione, quan- to piuttosto una sistematizzazione di parte della flessibilità già esistente. In particolare, si ritiene che possa rilevarsi particolarmente efficace il progetto di rior- dino degli incentivi all’occupazione, finalizzato a consentire una maggiore attenzione nei confronti della posizione occupazionale delle categorie di lavoratori ancora sottorap- presentati nel mercato del lavoro, quali le donne, i giovani e gli ultracinquantenni. Il Protocollo appare dunque, nel suo insieme, idoneo a fornire risposte efficaci a questioni complesse e da tempo dibattute, specialmente nel disegnare le linee generali della rifor- ma degli ammortizzatori sociali. I percorsi di carriera Se il tema della flessibilità ha dominato il dibattito politico di questi anni, non altrettan- to si può dire per quanto attiene alla mobilità professionale, ovvero ai percorsi di carrie- ra e quindi al progressivo miglioramento dello status sociale ed economico dei lavoratori. In Italia, nel corso della vita attiva, si rischia poco di retrocedere, ma altrettanto poche sono le chance di progredire. I risultati dell’indagine Isfol sulla qualità del lavoro mostrano ap- punto come il progresso nella carriera e il miglioramento professionale rappresentino uno dei nodi di maggiore criticità: la carriera è l’aspetto del lavoro in relazione al quale si ri- scontra il livello più elevato di insoddisfazione (il 54,5% degli occupati) ed è fonte di pre- occupazione per quasi sei lavoratori su dieci. Anche se le donne risultano le più penalizzate, un maggiore grado di pessimismo si ri- scontra nella componente maschile. Tra il 2002 e il 2006 gli uomini riferiscono un peg- gioramento delle prospettive di carriera di circa sette punti percentuali: la quota di chi non ritiene di avere possibilità di crescere professionalmente sale infatti dal 47% al 54%. Maggiori probabilità di avanzamento si evidenziano per gli occupati in possesso di un ti- tolo universitario e per quelli con un elevato livello di specializzazione o qualificazione: il 50% dei laureati e il 48,3% delle alte qualifiche e delle professioni tecniche, infatti, ma- nifesta un giudizio positivo circa le proprie prospettive di carriera; mentre la percentua- le scende al 34,5% per chi ha un basso livello di istruzione e al 31% per gli operai. Inoltre, è nel settore privato che si registrano quote più elevate di occupati possibilisti cir- ca le proprie opportunità di avanzamento, con uno scarto rispetto al settore pubblico di quasi sei punti percentuali (42,4% contro 36,4%). L’Isfol ha anche verificato il giudizio retrospettivo dei lavoratori. La quota di quanti ri- feriscono di aver fatto carriera è solo il 49% degli occupati. La restante metà, invece, o è ferma o ha addirittura peggiorato la propria situazione lavorativa. rapporto isfol 2007 Abbiamo, quindi, un’immagine piuttosto statica del mondo del lavoro italiano, confer- mata dall’alta percentuale di quanti non hanno mai cambiato lavoro, pari al 53,4%. D’al- tro canto, il cambiamento di lavoro può comportare anche un rischio di peggioramen- to, che cresce in proporzione diretta all’aumentare del numero dei cambiamenti stessi: riportano peggioramenti nella propria posizione il 9,8% di quanti non hanno mai cam- biato lavoro contro il 33% circa di quanti lo hanno cambiato più di cinque volte. 51 sintesi Professione Peggiorata Stabile Migliorata Totale Alte qualifiche e professioni tecniche 9,6 30,9 59,5 100,0 Impiegati 11,2 44,7 44,1 100,0 Operai 16,6 45,2 38,2 100,0 Totale 12,1 38,9 49,0 100,0 Giudizio retrospettivo sulla propria carriera (%) Fonte: Seconda indagine Isfol sulla qualità del lavoro in Italia 52 Condizioni di lavoro Sicurezza e salute Le ormai quotidiane notizie su incidenti, infortuni e morti sul lavoro nel nostro Paese, rimandano a un aspetto che dovrebbe essere centrale nelle politiche del lavoro e che pur- troppo, invece, viene spesso trascurato: la sicurezza e la salute sul lavoro. Se in generale quasi il 30% dei lavoratori italiani ritiene a rischio la propria salute, tale percentuale sale al 40% per gli operai. Lo sforzo fisico non è l’unico fattore in relazione al quale vengono riferiti i livelli più elevati di percezione del rischio, ma anche le ore la- vorate, gli orari atipici e i ritmi di lavoro. La percezione di rischio è riferita dal 27,5% di quanti lavorano fino a 45 ore, salendo al 36,2% per coloro che lavorano oltre le 45 ore. Si innalza fino al 41,5% di quanti lavorano almeno un giorno festivo al mese e al 48,4% per chi lavora almeno una notte al mese. Si riscontra, inoltre, un aumento dell’indicato- re di oltre nove punti percentuali tra il 2002 e il 2006. In relazione alla gravosità del lavoro, gli occupati italiani riferiscono un valore elevato so- prattutto in termini di impegno mentale (65,1% dei casi) o di coinvolgimento psicolo- gico ed emotivo (62,1%); segue - con circa venti punti di distacco - la gravosità in termini di sforzo o disagio fisico (42,1%). Per quel che riguarda gli infortuni, il 16,9% riferisce di averne subiti nel corso della pro- pria vita lavorativa. Anche in questo caso, il tempo rappresenta un importante fattore di esposizione al rischio: al crescere del numero di ore lavorate e del numero di anni di espe- rienza aumenta difatti la gravità degli infortuni. rapporto isfol 2007 Ha subito infortuni Ore lavorate Fino a 30 ore 10,2 Da 31 a 45 ore 18,0 Oltre 45 ore 21,5 Totale 16,9 Anzianità lavorativa Fino a 5 anni 3,8 Da 6 a 10 anni 9,9 Da 11 a 20 anni 17,8 Più di 20 anni 21,8 Totale 16,9 Incidenza infortuni (%) Fonte: Prima e Seconda indagine Isfol sulla qualità del lavoro in Italia Per determinare migliori o peggiori condizioni di lavoro oltre al quanto a lungo è poi de- terminante il quando: chi lavora in orari non standard oppure a turni riferisce più spes- so malattie o infortuni. Infine, ulteriore fattore di criticità è il modo, cioè il come viene erogata la prestazione lavorativa. Il ritmo elevato si ripercuote sull’incidenza di malattie e infortuni. Sommerso Nel 2005 le unità di lavoro non regolari sono stimate in 2,951 milioni, pari al 12,1% del totale. Si assiste a una contrazione del valore complessivo rispetto al 2001, quando am- montavano a 3,280 milioni (13,8%). 53 sintesi Settore di attività economica 2001 2002 2003 2004 2005 Agricoltura 20,9 21,0 18,3 19,9 22,2 Industria 7,4 6,6 5,7 5,7 5,9 Servizi 15,8 14,5 13,5 13,6 13,9 Totale 13,8 12,7 11,6 11,7 12,1 Tassi di irregolarità (%) Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Istat Le politiche nazionali di contrasto al lavoro nero sono state interessate nell’ultimo anno da un’intensa attività legislativa. Sul piano organizzativo la principale novità è rappresentata dall’istituzione di una Cabina nazionale di regia. Inoltre, per la prima volta, con la Leg- ge 248 del 4 agosto 2006 sono stati considerati come aspetti complementari di un’unica azione il contrasto al lavoro irregolare e la promozione della sicurezza sui luoghi di la- voro. Tale legge, partendo da questo nuovo legame, ha attribuito (con l’art. 36 bis) nuo- vi poteri al personale ispettivo. A riguardo, c’è da segnalare un dato positivo: il raddop- pio tra il primo e il secondo trimestre 2007 dei provvedimenti revocati per regolarizza- zione (da 176 a 343) sul totale dei provvedimenti di sospensione verso aziende risultate irregolari durante le ispezioni. Ulteriori misure sono state varate con la Finanziaria 2007, che ha anche modificato il re- gime delle comunicazioni obbligatorie ai Centri per l’impiego e ha quintuplicato gli im- porti delle sanzioni amministrative. Ma è la Legge 23/2007 ad assumere un’importanza assoluta per la riforma della norma- tiva in materia. La delega al Governo è particolarmente ampia e si richiede che venga va- lorizzata rapidamente attraverso appositi decreti legislativi di attuazione. Appare importante sottolineare come la riforma troverà applicazione nei confronti di tutti i lavoratori, a pre- scindere dalla tipologia contrattuale. È stato inoltre valorizzato il ruolo della formazio- ne, anche grazie alla previsione dell’inserimento della materia della sicurezza all’interno dei programmi di insegnamento scolastici e universitari. 54 Quanto alle politiche regionali, la ripartizione delle competenze in materia di politiche attive del lavoro (riforma del titolo V della Costituzione) ha permesso di orientare le po- litiche di emersione sulla base delle specificità e delle necessità locali. Le Regioni, pertanto, con la partecipazione delle Parti sociali, hanno attivato una serie di interventi capillari fi- nalizzati all’emersione del lavoro sommerso, alla stabilizzazione occupazionale e all’av- vio del lavoro autonomo. Innanzitutto, sono state istituite le Commissioni regionali e pro- vinciali, alcune delle quali sono state poi supportate dagli Osservatori regionali, che ope- rano spesso in stretto raccordo con le sedi decentrate dell’Inps. Il primo caso di legislazione diretta è quello della Regione Puglia (ottobre 2006), che ha definito una disciplina specifica e organica in materia di emersione. Va poi segnalata la più recente legge della Regione Lazio (agosto 2007), che prevede forme premiali nei con- fronti delle imprese; un severo regime sanzionatorio e un’efficace politica di incentivi. Di- verse amministrazioni regionali hanno anche avviato programmi specifici, come quello della Regione Sardegna, le cui azioni si sono dimostrate particolarmente rilevanti sia per la regolarizzazione di una serie di lavoratori sia per la quantità di nuovi occupati. La componente femminile del lavoro nero La presenza femminile nel sommerso continua a essere rilevante. Poiché non esistono dati ufficiali che ne identifichino la dimensione quantitativa, l’Isfol ha realizzato un primo ten- tativo di stima. L’occupazione femminile irregolare riferita al 2001 si attesta intorno all’1,350 milioni di unità, pari al 47,4% dell’occupazione irregolare totale. Alla fase di stima è seguita la ricerca sul campo, effettuando la prima indagine a largo spet- tro sugli aspetti del lavoro femminile sommerso e irregolare, per numero di donne coin- volte. Un terzo delle intervistate è costituito da straniere, soprattutto extracomunitarie (56,2%). Di queste, il 18% non ha un regolare permesso di soggiorno e il 9% non ha ri- sposto alla domanda; ne deriva che per circa il 27% delle donne extracomunitarie l’ac- cettazione di un lavoro irregolare è una condizione di necessità legata allo stato di clan- destinità. La condizione di illegalità della residenza in Italia impedisce loro l’accesso a oc- cupazioni regolari, per contro la mancanza di un’occupazione costituisce il maggior osta- colo al passaggio a una situazione di legalità. Risulta anche una presenza maggiore di don- ne italiane nelle classi di età più giovani: le italiane fino a 34 anni sono oltre il 64% con- tro il 45% circa delle straniere. Per quanto attiene alla durata, il lavoro irregolare non sembra avere natura occasionale. Più del 50% svolge l’attuale lavoro irregolare da più di un anno e solo per il 21% ha ca- rattere saltuario. Il lavoro irregolare femminile costituisce pertanto una domanda strut- turale e permanente presente sul mercato e per le donne si configura come una sorta di “trappola del sommerso” nella quale rischiano di restare invischiate. Sono state anche rilevate le due possibili forme di irregolarità: assenza di contratto for- malizzato (il 64% dei casi) e la mancata applicazione degli istituti contrattuali pur in pre- senza di un contratto scritto (28%). In quest’ultimo caso gli istituti meno applicati sono ferie, contributi previdenziali, indennità di malattia e permessi di maternità. rapporto isfol 2007 Le motivazioni che inducono le donne a entrare nel mercato del lavoro in condizioni di irregolarità sono dovute a scelte di necessità per quasi il 65% di loro; in particolare per l’assenza di altre opportunità di lavoro (43%). Il sommerso sembrerebbe, quindi, legato alla scarsità di domanda di lavoro regolare. Circa il 24% delle donne percepisce la situazione di irregolarità come transitoria, men- tre quasi il 12% svolge un’attività irregolare per non perdere vantaggi già acquisiti (sus- sidi, assegni familiari, effetto fiscale del cumulo di più redditi). Ecco, infine, i tre profili di donne italiane che lavorano nel sommerso: 1. età compresa fra i 20-34 anni, nubile, diploma di scuola media superiore, settore terzia- rio, ufficialmente inoccupata, retribuzione netta mensile compresa fra i 500 e i 700 euro 2. età compresa fra i 35-44 anni, coniugata con figli, licenza di scuola media inferiore, ufficialmente disoccupata (iscritta quindi a un Centro per l’impiego), settore terzia- rio, retribuzione fra i 300 e i 700 euro 3. età compresa fra i 45-55 anni, coniugata con figli, licenza media inferiore, ufficialmente disoccupata, settore dei servizi alle persone, retribuzione fra i 300-500 euro. Gli stranieri Il crescente ricorso a lavoratori stranieri è uno dei fenomeni che più ha caratterizzato l’evo- luzione del mercato del lavoro italiano dalla prima metà degli anni ’90. La popolazione straniera residente era pari al 4,5% del totale nel gennaio del 2006. Tra gli attivi gli im- migrati raggiungono quota 6,6% (il 5,9% se si considerano esclusivamente gli extraco- munitari). 55 sintesi ferie retribuite 9% orario giornaliero e settimanale 13% durata rapporto 3% mensilità aggiuntive 7% TFR 6% periodi di malattia retribuiti 3% straordinari retribuiti 6% regolarità nei tempi di pagamento 22% retribuzione concordata 31% Le condizioni di lavoro garantite in assenza di contratto formalizzato Fonte: Indagine Isfol 56 La Rilevazione longitudinale su imprese e lavoro (Rlil) condotta dall’Isfol, evidenzia come il 21% delle imprese italiane dichiari di ricorrere a manodopera neo o extracomunitaria. Fra queste, quasi una su due afferma che ciò è dovuto al disinteresse dell’offerta di lavoro italiana per alcune occupazioni, mentre una su tre denuncia la carenza di alcuni tipi di pro- fessionalità tra i lavoratori nazionali. Emerge, dunque, un problema riconducibile all’of- ferta di lavoro autoctona che mostra un’evidente disaffezione per alcune professioni, op- pure risulta incapace di soddisfare una crescente domanda interna di professionalità spe- cifiche (come avviene, ad esempio, nel caso delle professioni infermieristiche). Di contro, il fatto che il 40% delle imprese non specifichi nessun motivo particolare per l’assunzione di immigrati, è indice di come la forza lavoro straniera partecipi al merca- to del lavoro interno come forza strutturale, non occasionale. Infine, un altro aspetto chia- ve: il 30% delle imprese afferma che il lavoro neo o extracomunitario comporta un co- sto inferiore a quello italiano. Diventa a questo punto fondamentale comprendere se l’ab- bandono da parte dei cittadini italiani di alcune professioni sia esclusivamente da ricondurre a un’evoluzione qualitativa dell’offerta di lavoro o se, in parte, non sia da far risalire an- che a un compenso considerato inadeguato alla mansione richiesta. D’altro canto, il reddito medio da lavoro dei cittadini non comunitari risulta inferiore a quello degli italiani del 20-24%. rapporto isfol 2007 L'impresa utilizza attualmente lavoratori neo o extra comunitari? No 72,5 Sì 21,2 Non risponde 6,3 Perché si (*) Disinteresse dell’offerta di lavoro italiana per alcune occupazioni 48,4 Nessun motivo particolare 40,4 Professionalità poco o per nulla presenti tra i lavoratori italiani 33,2 Comportano un costo del lavoro più basso rispetto ai lavoratori italiani 29,0 Altro 2,3 Principali indicatori circa l’assunzione di lavoratori neo o extracomunitari (val. %) (*) Multirisposta. Fonte: Isfol Rlil 2005 Tra i datori di lavoro che fanno ricorso di immigrati, 1 su 2 dichiara di aver effettuato pro- cedimenti di regolarizzazione, percentuale che nel Sud Italia sale a 3 imprese su 5. Come a dire che il principale meccanismo di inserimento lavorativo per i cittadini neo o ex- tracomunitari è non solo legato a canali informali, ma il più delle volte irregolari. E non si tratta solo di scarso rispetto della normativa, ma anche di difficoltà di ordine tecnico- amministrativo. Alberghi, ristorazione e commercio sono i settori a più ampia concentrazione di immi- grati. Si tratta in gran parte di mansioni poco qualificate e a bassa o nulla specializzazione, spesso ben poco coerenti con la formazione, l’esperienza precedentemente acquisita e i titoli di studio posseduti. In pratica, il lavoratore straniero si trova spesso a dover opera- re in un mercato del lavoro “secondario”, generatosi anche per il fatto che in Italia sono mancati meccanismi di selezione e regolazione degli ingressi, rendendo di fatto impra- ticabile un’efficiente programmazione dei flussi. In tal senso, le prospettive di modifica della disciplina dell’immigrazione e delle norme sulla condizione dello straniero (così come previste dal disegno di legge delega licenzia- to dal Consiglio dei Ministri lo scorso aprile) sembrano indicare la volontà di promuo- vere l’ingresso di lavoratori qualificati e l’implementazione all’estero di liste di colloca- mento che facilitino un’incontro tra domanda e offerta di lavoro più efficiente. Ma è so- prattutto potenziando il sistema dei Centri per l’impiego e della formazione professio- nale che si può rinvenire la strada maestra per la promozione di un modello di integra- zione sociale di ampio respiro. Disabili Sul piano dei dati amministrativi, nel 2005 in Italia risultavano 589.543 persone disabi- li iscritte agli elenchi unici del collocamento obbligatorio (ex lege 68/99) e fra questi il 68,1% si dichiara disponibile a una immediata occupazione. Le informazioni sugli inserimenti lavorativi riportano una media di oltre 20 mila avvia- menti l’anno, con 30.865 individui interessati nel 2005. Sul versante delle imprese, si ri- scontra una quota di riserva quantitativamente cresciuta nel corso degli anni. I valori più alti, infatti, si registrano nel 2005, con 275.726 lavoratori disabili conteggiati nella quo- ta di riserva, comprensivi di quelli già in servizio e del numero di posti ancora scoperti. Quest’ultima categoria si è incrementata negli anni e, con le 109.005 scoperture totali del- l’ultima rilevazione, porta a ridurre il rapporto tra “domanda e offerta” a 1 posto dispo- nibile ogni 4 persone disabili in cerca di occupazione iscritte agli elenchi. Il dato evidenzia la necessità di una piena applicazione a livello territoriale dell’impianto di servizi sul qua- le si poggia la normativa relativa al collocamento obbligatorio. I servizi provinciali rappresentano il fulcro dell’intero processo del collocamento mira- to. L’88,1% dei Centri per l’impiego dichiara di avere previsto, presso le proprie sedi, ser- vizi dedicati all’integrazione lavorativa delle persone disabili, con un incremento del 4,5% tra il 2004 e il 2005. Da segnalare che nel Protocollo siglato tra Governo e Parti sociali il 23 luglio 2007 vie- ne riconosciuta l’efficacia del sistema di integrazione lavorativa rappresentato dal collo- camento mirato. L’accordo, in risposta a quanto richiesto in più sedi dalle Regioni, interviene in modo significativo sul fronte della semplificazione delle procedure amministrative. 57 sintesi 58 Sistemi di lavoro e dinamiche dell’intermediazione Incontro domanda/offerta La più recente ricerca compiuta dall’Isfol sull’intermediazione di lavoro è quella relativa alla dinamica di last searching and last matching, ovvero ultima attività di ricerca di la- voro e relativi canali di intermediazione. Quasi 1 persona su 3 si rivolge ad amici, parenti o conoscenti. I canali istituzionali (CPI, sindacati, scuole) intermediano poco più del 6%, con i conseguenti problemi di efficienza nella dinamica verso l’equilibrio del mercato del lavoro. rapporto isfol 2007 Centri per l’impiego o servizi pubblici in genere 3,3 Agenzie di lavoro interinale 1,8 Società di ricerca e selezione del personale 0,4 Scuole, università e istituti di formazione 2,4 Sindacati e organizzazioni datoriali 0,5 Lettura di offerte di lavoro sulla stampa 3,2 Attraverso contatti all’interno dell’ambiente professionale 8,2 Amici, parenti, conoscenti 31,1 Auto candidature (invio cv, presentandosi all’impresa) 15,5 Concorsi pubblici (partecipazione o domanda) 19,9 Iniziative legate all’avvio di una attività autonoma 13,6 Quale canale Le ha dato l’attuale impiego? Fonte: Isfol Plus 2006 Gli amici, parenti e conoscenti sono progressivamente meno utilizzati al crescere del- l’età, rendendo evidente il ruolo dei canali informali nel primo inserimento nel mon- do del lavoro e segnalando parallelamente una consistente potenziale domanda di in- termediazione iniziale. Quanto alla velocità dell’intermediazione con esito positivo, i ca- nali informali e l’iniziativa diretta sono i più solleciti a dare un’occasione lavorativa (en- tro un mese dal contatto per oltre la metà dei casi) mentre concorsi, sindacati e CPI sono i più lenti a dare un riscontro. Il lasso di tempo che trascorre tra l’attivazione della per- sona in cerca di lavoro e il momento in cui si trova l’opportunità, è proprio il diafram- ma tra un mercato del lavoro permeabile, o flessibile, e un mercato del lavoro poco per- meabile, o rigido. In conclusione, l’alto livello di utilizzo di canali informali in Italia nelle fasi di ricerca di lavoro risulta efficace a livello individuale. Tuttavia, non lo è da un punto di vista socia- le, poiché ingenera una serie di distorsioni: riduce la mobilità occupazionale, limita la pre- mialità del sistema, genera inefficienze nel mercato del lavoro, con elevati costi sociali. I Servizi pubblici per l’impiego L’ultimo decennio ha conosciuto un’intensa fase di trasformazione dei sistemi istituzio- nali che presiedono all’intermediazione. Il sistema dei Servizi pubblici per l’impiego si è assestato progressivamente e i Centri per l’impiego hanno declinato i propri comporta- menti sui meccanismi di “presa in carico” delle persone in cerca di lavoro. Nell’ottica del- le politiche attive si è concretizzata un’organizzazione del lavoro per target di utenza. Il sistema presenta una fisionomia dicotomica, più sbilanciata verso l’elemento proget- tuale e sulla costruzione di servizi altamente personalizzati e in chiave proattiva nel Cen- tro Nord, mentre prevalgono servizi di natura più minimalista al Sud. Permangono, inol- tre, talune eredità del vecchio collocamento, tra cui la tradizionale asimmetria del siste- ma verso la domanda di lavoro e la persistenza di un modello generalista (in cui “tutti fan- no tutto”). In generale, è possibile riscontrare nell’arco del quinquennio 2001-06 un ampliamento del ricorso ad attività di diagnostica e pianificazione dei percorsi di miglioramento del- l’occupabilità. Circa il 79% dei CPI prevede la realizzazione di colloqui finalizzati alla pia- nificazione di un percorso di accompagnamento al lavoro dei disoccupati (era il 30,2% nel 2001). Va detto, tuttavia, che solo 4 CPI su 10 ne effettua poi una verifica e un ag- giornamento. Nell’area funzionale dell’intermediazione, il 68,4% dei CPI realizza attività di preselezione con o per le imprese presso i propri locali, ma è invece di minore ampiezza l’incremen- to di servizi consulenziali (56,3%) e progettuali (21,9%). 59 sintesi 60 Occorre quindi riposizionare l’organizzazione e l’offerta dei SPI in direzione della domanda di lavoro: tanto in vista di un affinamento delle capacità di analisi dei fabbisogni, quan- to in vista di un ampliamento della capacità attrattiva dell’utenza aziendale. In conclusione, l’Italia si presenta all’appuntamento con il nuovo periodo di program- mazione dei Fondi strutturali, con Servizi al lavoro radicalmente diversi dal passato. Mol- ti percorsi di allineamento ai modelli comunitari sono divenuti un fatto acquisito, ben- ché vi siano ancora problemi di sostenibilità (gli SPI sono fortemente dipendenti dalle risorse comunitarie, rispetto a quelle nazionali). È stato poi avviato il percorso di revisione del Masterplan dei Servizi per l’impiego intrapreso dal Ministero del Lavoro, a partire dalla primavera del 2007, evidenziando una ripresa del dialogo interistituzionale tra Governo, Regioni e Province, con l’obiettivo di identifica- re non soltanto un assetto programmatico sul quale impiantare lo sviluppo del sistema pubblico, ma anche di identificare uno spazio stabile di regia istituzionale che accompa- gni sistematicamente tale sviluppo. rapporto isfol 2007 Individuazione del percorso prof.le, formativo o di riqualificazione Promozione dei tirocini presso aziende e giovani; colloqui di selezione Colloqui individuali di orientamento su convocazione 30,2 29,6 18,3 10,7 19,8 27,5 79,1 63,6 63,2 18,5 26,1 10,9 0,0 10,0 20,0 30,0 40,0 50,0 60,0 70,0 80,0 2001 diff.le N/S 2001 2006 diff.le N/S 2006 Centri per l’impiego: area funzionale dell’occupabilità, livello di attivazione dei servizi, dif- ferenziale di attivazione tra Centro, Nord e Sud, anni 2001 e 2006 (val. %) Fonte: Isfol, monitoraggio SPI 2001 e 2006 61 sintesi Tipologia di Agenzia Ante riforma (2002) Post riforma (2006) Somministrazione (generalista e specialista) 73 84 Intermediazione 25 15 Ricerca e Selezione 389 579 Ricollocazione 43 19 Totale 530 697 Numerosità operatori privati ante e post riforma Fonte: Ministero del Lavoro, agosto 2007 L’evoluzione del mercato dell’intermediazione Il processo di liberalizzazione del mercato dell’intermediazione della manodopera av- viato in Italia al volgere degli anni Novanta, ha conosciuto una progressiva accelerazio- ne, fino alla definizione del nuovo assetto organizzativo-funzionale del sistema dei ser- vizi per il lavoro a opera del D.Lgs. n. 276/2003. L’universo dei nuovi soggetti legittimati, previa autorizzazione, a operare sul mercato del lavoro è particolarmente ampio e arti- colato, contemplando oltre alle Agenzie per il lavoro anche i soggetti autorizzati “in re- gime speciale”. L’ultimo monitoraggio sulle Agenzie per il lavoro mostra come l’incremento pari a oltre il 30% degli operatori privati sia da attribuirsi per lo più all’exploit delle Agenzie di ricerca e selezione, seguite da quelle di somministrazione, mentre c’è un ridimensionamento dei soggetti che svolgono attività di outplacement. Quanto agli intermediari speciali, il dato relativo alle università indica 56 atenei, su un totale di 77 oggetto di apposita rilevazione, che svolgono servizi di intermediazione e job placement a fine 2006. In particolare, l’88% a livello centrale e il restante 12% per singo- le facoltà. Finito di stampare nel mese di ottobre 2007 da Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) ISFOL 2007/rapporto ISFOL sintesi.pdf Roma, 20 novembre 2007 in breve FLASH FORMAZIONE  Nel 2006 aumenta il tasso di diplomati (75,5% della popolazione giovanile), ma l’Italia rimane sotto al benchmark europeo (85%), ovvero il traguardo da raggiungere entro il 2010. Inoltre il 20% della popolazione giovanile non riesce ad andare oltre il titolo di licenza media, contro il limite massimo del 10% indicato dagli obiettivi comunitari; infine, solo il 51% della popolazione italiana possiede un titolo di studio post-obbligo, contro il 70% della media europea.  150 mila adolescenti formalmente soggetti ad obbligo (Diritto-Dovere) in realtà sono fuori da ogni canale formativo: circa 113 mila sono esclusi dai canali formativi formali; a questi si aggiungono gli oltre 40 mila minorenni che, nonostante siano stati assunti con contratto di apprendistato, di fatto non svolgono le attività di formazione previste dalla legge.  Aumenta il numero dei laureati, a dimostrazione del recupero di efficienza prodotto dall’introduzione del modello 3+2: nel 2006 hanno conseguito un titolo di studio universitario oltre 300.000 persone, ovvero 100.000 in più di quante se ne erano laureate appena 4 anni prima.  Abbastanza soddisfatti gli utenti della formazione professionale iniziale: 2 allievi su 3 (pari al 65,7%), se tornassero indietro, rifarebbero la stessa scelta, circa l’8% andrebbe a lavorare e il 13,5% si iscriverebbe a scuola, con un tasso di indecisi che risulta tuttavia di circa il 13%.  Solo il 20% dei 600.000 apprendisti svolge attività di formazione.  Cresce l’adesione ai Fondi Paritetici Interprofessionali (FPI), che coinvolgono ormai il 42,4% delle aziende private per un totale di quasi 6 milioni di lavoratori occupati.  Esiste un ampio divario tra le grandi e le piccole imprese nella capacità di offrire corsi di formazione al proprio personale: la quota di imprese che offrono formazione è molto alta fra quelle di grandi dimensioni (73%), ma molto bassa fra le micro-imprese (16%); minore attività di formazione viene realizzata nel settore manifatturiero e in generale nel Mezzogiorno.  Solo il 40% dei giovani che terminano la scuola secondaria ha trovato nella scuola e nell’Università informazioni adeguate riguardo alle opportunità future di studio e di lavoro, mentre il 60% della popolazione dichiara di non essere a conoscenza dei luoghi deputati alla formazione per gli adulti. La scarsità di informazione produce, oltre che una ridotta partecipazione alle attività formative, il perpetuarsi di scelte legate alla condizione sociale. FLASH LAVORO  Superano i 23 milioni gli occupati in Italia; il tasso di disoccupazione è al 6%; ancora insufficiente il tasso di partecipazione al lavoro, in particolare dei giovani e delle donne. Una larga quota del lavoro disponibile è poco qualificato, precario e sottopagato.  Il lavoro viene percepito come “problematico” a causa di una quota progressivamente crescente di lavoro precario. La sua consistenza è di 3,5 milioni di occupati, che diventano 4,5 se si includono i “part-time involontari” e coloro i quali dichiarano di non conoscere il tipo di contratto stipulato. L’evolversi del sistema produttivo e dei “nuovi lavori” non pare dunque del tutto coerente con l’obiettivo della “società della conoscenza”. Tuttavia esiste anche la “flessibilità costruttiva”: il 28% degli “atipici” ritiene di avere in prospettiva un lavoro di tipo permanente ed il 7% considera la “precarietà” come una fase di necessaria crescita professionale. Oltre il 54% degli occupati ritiene improbabile un suo sviluppo di “carriera”; in Italia i percorsi di sviluppo professionale dei lavoratori appaiono decisamente “ingessati”.  10 milioni di donne in età lavorativa non lavorano e non cercano lavoro, il tasso di attività femminile è del 47%; l’obiettivo di “Lisbona” del 60% al 2010 certamente non sarà raggiunto dall’Italia. Le donne percepiscono retribuzioni inferiori a quelle degli uomini anche a parità di contratto e di orario, il 63% accede al lavoro con un rapporto “atipico”, le donne con ruoli di “comando” sono il 22% contro il 38,5% degli uomini, ma alle giovani sembra andare un po’ meglio.  La vicenda “scalone” ha posizionato i riflettori sulla partecipazione al lavoro degli over55; il loro tasso di attività, anche se in costante e lento incremento, è lontano dall’obiettivo di Lisbona del 50% al 2010. Tuttavia molti di più lavorerebbero se non avessero subìto le ristrutturazioni aziendali e gli esuberi del decennio trascorso.  Gli stranieri ufficialmente residenti in Italia hanno raggiunto i 3 milioni. Il 7% della popolazione attiva è ormai rappresentato da immigrati. Il 21% delle imprese italiane ricorre a mano d’opera neo o extracomunitaria. La metà delle imprese dichiara di non reperire forza lavoro italiana, ed il 30% che il costo del lavoro degli stranieri è inferiore del 24% rispetto a quello degli italiani.  Nel 2007 sono stati varati diversi provvedimenti finalizzati a contrastare gli incidenti sul lavoro. Ad esempio gli importi delle sanzioni amministrative sono quintuplicati. Il 29% degli occupati è preoccupato per la propria salute sul luogo di lavoro; l’indice sale a 36% tra chi lavora più di 45 ore e supera il 48% per chi lavora a turni, in notturno e nei festivi. I più giovani sono maggiormente a rischio. Per il 65% il disagio è dovuto al troppo impegno “mentale”, soprattutto a causa del pressing degli utenti e dei clienti. Tra gli operai il 48% dichiara un disagio da sforzo e fatica fisica. Per informazioni: Ufficio Stampa 06.44590895-2 stampa@isfol.it, r.colella@isfol.it

UNIONCAMERE: Rapporto Excelsior 2007. I fabbisogni professionali e formativi delle imprese italiane nell’industria e nei servizi

Descrizione breve: 
Questo sistema informativo, realizzato da Unioncamere e dal Ministero del Lavoro, giunge nel 2007 alla sua decima edizione.
Data: 
25 Giugno 2007
RAPPORTO UNIONCAMERE 2007 TEMI CHIAVE E SINTESI DEI PRINCIPALI RISULTATI a cura del Centro Studi Unioncamere 2 PREMESSA L’economia italiana sta attraversando un lungo periodo di trasformazione. I principali indicatori economici del 2006 hanno fornito segnali di crescita incoraggianti e le stime previsionali per il 2007 sono altrettanto buone (soprattutto grazie alla componente export e agli investimenti). La domanda principale ora riguarda la capacità del Sistema Paese di consolidare la ripresa nel medio periodo, sciogliendo quei nodi strutturali che frenano la competitività delle imprese. Il Centro Studi Unioncamere ha cercato di analizzare a fondo - anche a livello territoriale e settoriale - la portata di queste trasformazioni, utilizzando la mole di dati che ogni giorno affluisce al sistema delle Camere di commercio dal mondo delle aziende e ascoltando direttamente la voce dei nostri imprenditori attraverso periodiche e approfondite indagini, in ciascuna provincia e nei distretti produttivi; nella convinzione che sia proprio dal “racconto” delle imprese che occorre partire per comprendere quanto sta avvenendo oggi. Gli imprenditori, nel complesso, hanno la consapevolezza di potercela fare e sono tornati ad investire. Anche negli anni più difficili di questo inizio decennio, per la verità, non avevano smesso di puntare sul “capitale umano”, sacrificando in molti casi anche i margini di profitto: lo dimostrano in modo eloquente i dati sulla crescita occupazionale conseguita anche in presenza di risultati di gestione in flessione (soprattutto nel settore manifatturiero). Ora però una quota significativa di imprese - che è riuscita ad innovare prodotti e strategie di mercato (soprattutto medie imprese e filiere a loro collegate, alcuni distretti industriali e, recentemente, anche grandi imprese), puntando in primo luogo sulla qualità e sulla “ibridazione” tra cultura industriale e cultura dei servizi (strategie di marchio, rete distributiva, logistica, design, personalizzazione dei prodotti e assistenza al cliente, ecc.) - è impegnata soprattutto a migliorare l’efficienza produttiva e ha bisogno di contare su un sistema Paese competitivo. Non tutti ce la fanno, evidentemente, e la selezione in diversi settori è molto dura, specie per le piccole imprese, tanto da scoraggiare facili ottimismi: lo dimostrano sia i dati di natimortalità (che vedono un rallentamento della crescita dell’artigianato, con un tasso pari nel 2006 al +0,7%), sia i dati di fatturato (-0,8% nel IV trimestre 2006 per le aziende manifatturiere fino a 9 dipendenti, l’unica variazione di segno negativo in tutto il nostro sistema industriale). Le analisi proposte dal Rapporto Unioncamere 2007 si concentrano essenzialmente su dieci questioni principali: 1. Evoluzione e trasformazione del sistema produttivo: le dimensioni della ripresa. 2. Competitività: il riposizionamento delle produzioni italiane sui mercati mondiali. 3. Il “nodo” del Mezzogiorno. 4. La leadership delle medie imprese italiane e la riorganizzazione dei distretti. 5. Turismo e Cultura: le potenzialità da sfruttare. 6. I consumi e le tendenze evidenziate dalle imprese del commercio. 7. La presenza straniera in Italia e il ruolo degli immigrati nello sviluppo economico. 8. Produttività e politiche salariali. 9. Gli azionisti dell’Azienda Italia. 10. Efficienza e costi della pubblica amministrazione per le imprese. 3 1. Evoluzione e trasformazione del sistema produttivo: le dimensioni della ripresa. Il 2006 è stato per l’Italia l’anno della ripresa. Dopo una fase di lunga stagnazione, durata cinque anni, il PIL è aumentato nel corso del 2006 dell’1,9%. Si tratta di uno sviluppo non eccezionale ma che senz’altro configura una discontinuità rispetto alle tendenze stagnanti degli ultimi anni. Su scala territoriale, tutte le ripartizioni territoriali sembrano aver partecipato a questa ripresa, con l’Italia settentrionale che realizza un incremento del PIL superiore a quello medio nazionale (+2,1% il Nord-Ovest e +2% il Nord-Est), mentre il Centro (+1,8%) e il Mezzogiorno (+1,6%) si posizionano lievemente al di sotto. Nel 2006 la crescita del PIL in Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Val d’Aosta e Veneto, dovrebbe essersi attestata su valori superiori alla media. Ben posizionate appaiono inoltre Sicilia, Emilia- Romagna, Toscana, Lazio, Piemonte e Trentino Alto Adige, con tassi di crescita pari o di poco inferiori a quello nazionale. Basilicata, Calabria, Molise presentano variazioni intorno all’1%. La Calabria riesce a risalire leggermente la china dopo la forte flessione rilevata l’anno precedente; anche per Piemonte e Campania l’incremento del PIL 2006 dovrebbe esser riuscito a equilibrare – o, in alcuni casi, a sopravanzare – la perdita subita nel corso del 2005. Variazioni percentuali del PIL nelle regioni italiane Tassi di var. % su valori concatenati (anno di riferimento 2000) – Anni 2005 e 2006 -1,5 -0,6 0,8 0,6 -0,7 1,6 0,1 0,8 -0,2 1,2 0,1 -0,3 1,4 -0,1 -1,6 -0,3 0,5 -2,0 1,7 2,4 0,1 0,3 -0,1 0,0 0,1 1,8 2,1 2,3 1,8 2,1 2,2 1,5 1,9 1,9 1,6 1,4 1,8 1,4 1,1 1,6 1,4 1,0 1,1 2,0 1,6 2,1 2,0 1,8 1,6 1,9 -2,5 -2,0 -1,5 -1,0 -0,5 0,0 0,5 1,0 1,5 2,0 2,5 3,0 Pi em on te Va l d 'A os ta Lo m ba rd ia Tr en ti no A lt o Ad ig e Ve ne to Fr iu li Ve ne zi a G iu lia Li gu ri a Em ili a Ro m ag na To sc an a U m br ia M ar ch e La zi o Ab ru zz o M ol is e Ca m pa ni a Pu gl ia Ba si lic at a Ca la br ia Si ci lia Sa rd eg na N or d- O ve st N or d- Es t Ce nt ro M ez zo gi or no It al ia 2005 2006 Fonte: Unioncamere-Prometeia, Scenari di sviluppo delle economie locali italiane (maggio 2007) La crescita del prodotto è risultata in linea con quella europea, pur se manteniamo un gap sfavorevole nei confronti nei partner dell’UE. La dinamica di sviluppo del nostro PIL risulta infatti più contenuta rispetto ai nostri diretti competitors, non solo nel Vecchio Continente. Considerando i livelli del 1989, l’Italia ha visto crescere il proprio prodotto di circa 25 punti percentuali, meno di quanto rilevato nel caso della Francia (37,6 punti in più), della Germania 4 (31,5 punti) e del Regno Unito (47,7) ma, soprattutto, molto distante da quanto ha potuto mettere a segno la Spagna (67,3 punti). Su ben altri trend di crescita viaggiano, come è noto, le economie della Cina (con un PIL che si è triplicato dalla fine degli anni Ottanta) e dell’India, ma non va trascurato anche l’incremento continuo – e su ritmi ancora abbastanza sostenuti, nonostante alcune recenti difficoltà – degli Stati Uniti (con un PIL cresciuto di 63,4 punti percentuali tra il 1989 e il 2006). Confronto internazionale della dinamica del PIL Dati a prezzi costanti (US$ 1990) e a parità di potere d’acquisto – n.i. 1989=100 Francia Germania Italia Spagna Regno Unito Stati Uniti Cina India Giappone 1989 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 1990 102,6 103,4 102,2 104,4 100,4 101,7 103,2 105,2 105,1 1991 103,9 106,0 103,7 107,1 99,0 101,6 110,0 106,6 108,6 1992 105,8 108,4 104,5 108,1 99,3 104,9 120,7 112,0 109,7 1993 104,6 107,5 103,6 107,0 101,7 107,8 132,9 118,6 109,9 1994 106,7 110,4 105,8 109,5 106,2 112,1 146,0 127,2 111,1 1995 109,1 112,4 108,8 112,6 109,2 115,0 167,8 136,6 113,2 1996 110,3 113,6 109,6 115,3 112,2 119,3 170,6 147,3 116,2 1997 112,7 115,6 111,7 119,7 115,7 124,7 179,0 154,3 117,8 1998 116,6 118,0 113,3 125,1 119,5 129,9 179,3 164,4 115,7 1999 120,4 120,3 115,5 131,0 123,1 135,6 190,3 174,3 115,5 2000 125,2 124,2 119,6 137,6 128,1 140,6 206,8 181,9 118,8 2001 127,5 125,7 121,7 142,7 130,9 141,7 228,0 192,4 119,3 2002 128,9 125,7 122,2 146,5 133,6 143,9 255,7 199,7 119,5 2003 130,3 125,5 122,2 151,0 136,9 147,5 293,6 216,5 121,6 2004 133,3 127,1 123,5 155,9 141,4 153,3 323,2 232,8 124,4 2005 134,9 128,2 123,5 161,4 144,0 158,2 355,6 252,5 127,6 2006 137,6 131,5 125,7 167,3 147,7 163,4 392,9 273,5 131,2 Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Groningen Growth and Development Centre La ripresa tende a riflettere, comunque, elementi più fortemente legati alle condizioni di contesto internazionale che elementi autonomi di rafforzamento. La portata del recupero in corso infatti ha come principale stimolo la dinamica dell’export. La svolta delle esportazioni, aumentate (a prezzi costanti 2000) del 4% nel 2006, si è verificata all’interno di un quadro di rafforzamento della domanda internazionale. Dal lato della domanda interna gli investimenti, dopo la riduzione del 2005, tornano a crescere ad un tasso pari al 2,3% nel 2006. La spesa per consumi delle famiglie, con un incremento dell’1,6%, appare in netta accelerazione rispetto all’anno precedente. È interessante notare come la ripresa sia stata favorita soprattutto dal settore industriale, il cui valore aggiunto evidenzia un’espansione (+2,5%) dopo un quinquennio in cui ha continuato a contrarsi. Anche le previsioni per il 2007 danno un tasso di crescita per questo settore in linea con l’anno appena trascorso. Natimortalità delle imprese e tendenze di medio periodo Nel 2006, la base imprenditoriale italiana si è accresciuta di 73.333 unità, portando lo stock delle imprese iscritte al Registro delle Imprese gestito dalle Camere di commercio al valore di 6.125.514 unità. Il saldo positivo del 2006 è dato dalla differenza fra le 423.571 nuove iscrizioni e le 350.238 cancellazioni verificatesi tra gennaio e dicembre. Ne è risultato un tasso di crescita pari all’1,21%, inferiore a quello dell’anno precedente (1,61%). 5 La crescita delle cessazioni (aumentate del 14,9% tra il 2003 e il 2006) e quella meno accentuata delle nuove iscrizioni richiamano il processo profondo di ristrutturazione che interessa i grandi settori tradizionali. Si assiste, infatti, alla riduzione costante e netta del numero delle imprese agricole; si riducono, ma in maniera contenuta, anche le imprese manifatturiere; resta stabile il settore del commercio, mentre crescono servizi alle imprese e servizi alle persone, insieme al settore delle costruzioni. Si vanno pertanto modificando, sia pure molto lentamente, i “pesi” del sistema delle imprese sul territorio nazionale. Dal raffronto tra la situazione alla fine del 2000 e quella alla fine dello scorso anno emerge un graduale processo di ispessimento relativo del sistema delle imprese al Sud e al Centro, contro una sostanziale stabilità dell’incidenza relativa al Nord-Ovest e una più chiara diminuzione di quella riferita al Nord-Est. Distribuzione territoriale delle imprese registrate Confronto anni 2000-2006 2000 2006 Valori assoluti Valori % Valori assoluti Valori % Var. % dello stock Nord-Ovest 1.495.310 26,4% 1.615.612 26,4% 8,0% Nord-Est 1.165.888 20,6% 1.219.676 19,9% 4,6% Centro 1.141.091 20,2% 1.257.189 20,5% 10,2% Sud e Isole 1.854.712 32,8% 2.033.037 33,2% 9,6% ITALIA 5.657.001 100,0% 6.125.514 100,0% 8,3% Fonte: Unioncamere-InfoCamere, Movimprese L’analisi delle dinamiche demografiche per forma giuridica nell’arco temporale 2000-2006 consente di evidenziare anche l’accresciuta incidenza delle società di capitale sul totale delle imprese, pari a 4,3 punti percentuali (+38,7% in termini di nuove imprese), segnando così l’affermarsi di una organizzazione di impresa più complessa e “attrezzata” per competere. Perdono invece di peso in percentuale (pur in presenza di un incremento positivo in valori assoluti), sia le società di persone (-0,5%), sia le ditte individuali (3,8 punti percentuali in meno sul totale). Le tendenze fin qui illustrate con riferimento al 2006 sono proseguite, per certi versi in maniera anche più accentuata, nel corso del primo trimestre del 2007. Il numero delle imprese di nuova costituzione ha messo a segno un vero e proprio record (142.416, il valore più alto in assoluto rilevato nel ultimi dieci anni con riferimento al periodo gennaio-marzo) ma, ciononostante, è stato sopravanzato da quello delle cessazioni (156.624 unità). Questo ha generato un saldo negativo di 14.208 imprese, pari a un tasso di crescita del -0,23%. A spingere verso il basso tale variazione sono state essenzialmente le società di persone (-0,27%) e le ditte individuali (-0,74), a fronte di una dinamica di sviluppo ancora positiva delle società di capitale (+1,2%). Il fatturato delle imprese italiane nel 2006 I risultati dell’ultima rilevazione del Centro Studi Unioncamere su un campione rappresentativo di 100.000 imprese italiane con almeno un dipendente consentono di ricostruire un’immagine del nostro sistema produttivo in pieno movimento e consapevole delle proprie potenzialità di crescita. Le aziende che, anche a costo di importanti sacrifici, sono riuscite a superare la fase di forte selezione degli anni precedenti guardano ora con maggiore fiducia allo sviluppo del proprio mercato. 6 Nel complesso, il 30,4% delle aziende italiane con almeno un dipendente ha registrato nel 2006 incrementi di fatturato (5 punti percentuali in più rispetto a quanto rilevato per il 2005), mentre il 19,2% ha segnalato una flessione delle vendite (quasi 3 punti in meno in confronto all’anno precedente). Il saldo fra incrementi e diminuzioni è dunque pari a +11,2 punti percentuali per il totale dell’economia italiana, a fronte del +2,5 del 2005. Per mantenere o migliorare i risultati raggiunti, gli imprenditori intendono focalizzare le loro strategie sull’investimento in qualità (47% del totale), sull’integrazione tra produzione e servizi (“ibridazione” fra industria e terziario, 9%) e sul miglioramento dell’efficienza (circa il 9% riduce i costi e migliora i margini). Il manifatturiero, nel suo complesso, ha manifestato chiari segnali di ripresa e inizia a raccogliere i frutti delle strategie di ristrutturazione organizzativa e commerciale avviate negli ultimi anni. È infatti pari a ben 18 punti percentuali il saldo tra le imprese che hanno chiuso il 2006 con un incremento del fatturato e quelle che invece hanno subito una flessione: una vera e propria inversione di tendenza, se si tien conto di un saldo pari appena a 1,8 punti nel 2005. In ripresa, ma seguendo dinamiche dal ritmo meno sostenuto, appaiono anche i servizi (+9 punti il saldo fra aumenti e diminuzioni del giro di affari). Andamento del fatturato nelle imprese italiane nel 2005 e nel 2006 Saldo fra % di dichiarazioni di aumento e di diminuzione espresse dalle imprese -10 0 10 20 30 40 50 TOTALE ECONOMIA INDUSTRIA di cui: industria in senso stretto di cui: costruzioni SERVIZI 1-9 dipendenti 10-49 dipendenti 50-249 dipendenti 250-499 dipendenti 500 dipendenti e oltre 2005 2006 Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior, aprile 2007 I fenomeni di selezione non sembrano, tuttavia, essersi del tutto esauriti all’interno del nostro tessuto di piccole e piccolissime imprese, per le quali, indipendentemente dal settore di attività, il saldo tra aumenti e diminuzioni del fatturato risulterebbe pari ad appena 6,4 punti percentuali. Un risultato senz’altro positivo rispetto al 2005 ma che è sintesi di andamenti migliori per le attività artigianali e per alcune tipologie di servizi, a fronte di una ripresa che stenta ancora ad arrivare per quelle micro-imprese industriali che non sono state ancora in grado di inserirsi appieno nelle filiere e nelle reti, superando in tal modo i limiti legati alla dimensione. In piena ripresa appaiono le medie imprese (intese come quelle tra i 50 e i 249 dipendenti) e quelle di più grandi dimensioni (con almeno 500 dipendenti nell’industria e nei servizi) che, riuscendo a rifocalizzarsi sul core business, hanno ripreso slancio e dimostrano di poter giocare la partita dei player globali. 7 Si tratta di tendenze che proseguono anche nel primo trimestre di quest’anno: la dinamica del fatturato delle piccole imprese manifatturiere (fino a 49 dipendenti) si mantiene, infatti, ancora bassa (+0,6% nel primo trimestre 2007, contro il +3,6% di quelle tra i 50 e i 500 dipendenti). Solo quelle che stanno in gruppo/filiera/rete riescono a rafforzarsi, e una certa quota prova anche a fare il salto dimensionale. Le prospettive di sviluppo 2007-2010 Le indicazioni formulate dai nostri imprenditori lasciano intravedere per questo 2007 un rafforzamento della crescita già sperimentata nel 2006: l’anno in corso dovrebbe infatti essere caratterizzato da un aumento del PIL pari al +2,0%, conseguenza di un effetto di trascinamento dei buoni risultati del quarto trimestre del 2006 e di una crescita ancora in buona parte dettata dalla domanda estera. Sempre nel 2007, per la spesa per consumi delle famiglie, supportata da un buon andamento del reddito disponibile, si prevede un’espansione a un ritmo (1,7%) lievemente superiore a quello del 2006. Sostenuti dal processo di ristrutturazione e riqualificazione del sistema produttivo, anche gli investimenti fissi lordi dovrebbero far registrare un’accelerazione (+3,2%), quando tutti gli altri Paesi dell’UE (tranne il Regno Unito) dovrebbero invece subire un rallentamento. Dal lato della domanda estera, le esportazioni, penalizzate da una decelerazione del commercio mondiale, dovrebbero subire un leggero rallentamento nell’anno in corso e nel prossimo, mostrando un tasso di crescita pari rispettivamente al 3,9% e al 3,6%. Scenario di previsione al 2010 per l’Italia Tassi di var. % su valori concatenati (anno di riferimento 2000) 2007 2008 2009 2010 Prodotto interno lordo 2,0 1,7 1,6 1,7 Domanda interna (al netto della var. delle scorte) 1,9 1,6 1,7 1,7 Consumi finali interni 1,6 1,3 1,3 1,3 - di cui: spesa per consumi delle famiglie 1,7 1,5 1,4 1,4 Investimenti fissi lordi 3,2 2,7 3,0 3,1 Importazioni di beni dall'estero 3,6 2,8 3,8 4,1 Esportazioni di beni verso l'estero 3,9 3,6 3,9 4,1 Valore aggiunto ai prezzi base agricoltura 0,4 1,2 0,1 0,7 industria 2,5 1,3 1,6 1,9 costruzioni 2,8 1,4 0,9 1,1 servizi 2,0 2,0 1,7 1,9 totale 2,1 1,8 1,6 1,8 Tasso di disoccupazione 6,4 6,1 5,8 5,7 Reddito disponibile a prezzi correnti (var. %) 3,5 3,0 3,4 3,4 Fonte: Unioncamere-Prometeia, Scenari di sviluppo delle economie locali italiane (maggio 2007) 8 L’ulteriore lieve diminuzione del tasso di disoccupazione nel 2007 si distribuisce in maniera abbastanza uniforme sul territorio; pertanto, l’anno in corso appare caratterizzato da un livello dell’indicatore pari al 3,4% nel Nord-Ovest, al 3,3% nel Nord-Est, al 5,8% nel Centro e all’11,9% nel Mezzogiorno. Nel periodo 2008-2010 si prevede poi un’espansione dell’economia italiana in linea con la crescita potenziale e compresa tra l’1,6% e l’1,7% all’anno. L’incremento relativamente sostenuto dei consumi delle famiglie, avviato nel 2006, dovrebbe proseguire anche nei prossimi anni, nei quali l’indicatore appare caratterizzato da un tasso di variazione attorno all’1,4-1,5%. Sostenuti dal reddito disponibile, i consumi delle famiglie dovrebbero espandersi, pertanto, a un ritmo decisamente superiore a quello che ha interessato il periodo 2001-2005. Le esportazioni, dopo il rallentamento del biennio 2007-2008, evidenziano una progressiva accelerazione e arrivano a crescere del 4,1% nel 2010. Tale andamento deriverebbe non solo da una domanda vivace sui mercati internazionali, ma soprattutto da un recupero di competitività delle imprese. Scenario di previsione al 2010 per le esportazioni di beni verso l'estero a livello territoriale Tassi di var. % su valori concatenati (anno di riferimento 2000) 3,8 4,0 4,2 3,8 3,9 4,3 3,0 3,8 2,5 3,6 4,5 3,4 4,1 3,0 3,9 4,6 3,6 4,3 3,3 4,1 2,0 2,5 3,0 3,5 4,0 4,5 5,0 Nord-Ovest Nord-Est Centro Mezzogiorno Italia 2007 2008 2009 2010 Fonte: Unioncamere-Prometeia, Scenari di sviluppo delle economie locali italiane (maggio 2007) La riqualificazione del sistema industriale e la riorganizzazione dei processi produttivi necessarie per ottenere guadagni di competitività dovrebbero creare le condizioni favorevoli alla prosecuzione della fase espansiva degli investimenti, per i quali si prevede tra il 2009 e il 2010 una crescita di circa il 3% all’anno. Il 2008-2010 appare complessivamente caratterizzato da una crescita distribuita in maniera piuttosto uniforme sul territorio nazionale, sebbene permanga una dinamica lievemente più rallentata nel Mezzogiorno. Nel triennio in esame, la crescita del PIL appare più sostenuta in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, mentre le performance più deludenti interessano Molise, Basilicata, Puglia e Piemonte. Il prossimo triennio evidenzia inoltre una progressiva 9 discesa del tasso di disoccupazione per tutte le ripartizioni e anche per le regioni. La diminuzione che interessa il Mezzogiorno, tuttavia, non sembra di entità superiore a quella che coinvolge il resto del Paese e ciò impedisce alla ripartizione di ottenere miglioramenti significativi in relazione alle performance delle altre macro-aree. Pertanto, nel 2010 il tasso di disoccupazione continua ad evidenziare ampi divari sul territorio nazionale, spaziando da valori prossimi al 2% di Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna al 12,3% di Puglia e Sicilia e al 12,6% della Calabria. Efficienza del mercato del lavoro e del sistema formativo La significativa crescita dell’occupazione dal 2000 a oggi (+8,4%, pari a quasi 1 milione e 800mila occupati in più) proseguirà nel 2007, confermando la solidità della ripresa economica prevista per quest’anno. L’incremento previsto (circa +1,0%) della domanda di lavoro espressa dalle imprese private italiane con almeno un dipendente dimostra ancora una volta la volontà strategica di ampie fasce del nostro tessuto produttivo di investire prioritariamente sullo sviluppo delle risorse umane di cui dispongono. Nel 2007, i flussi occupazionali in entrata sul mercato del lavoro fanno riferimento, nel complesso, a oltre il 26% delle imprese italiane, una quota di quasi 3 punti percentuali più alta rispetto al 2006. Le lavorazioni manifatturiere e le costruzioni presentano un più diffuso orientamento all’incremento della forza lavoro a disposizione rispetto al terziario (circa il 30% per il totale dell’industria, contro il 24% dei servizi), dimostrando quindi un elevato turnover al proprio interno, soprattutto per le società di più grandi dimensioni. Imprese che hanno programmato assunzioni di personale dipendente, per settore di attività, ripartizione territoriale e classe dimensionale In % sul totale - Anni 2006 e 2007 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 TOTALE Industria in senso stretto Costruzioni Servizi Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud e Isole 1-9 dipendenti 10-49 dipendenti 50-249 dipendenti 250-499 dipendenti 500 dipendenti e oltre 2007 2006 Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2007 10 Spostando l’attenzione a livello di ripartizione geografica, vale evidenziare una più marcata tendenza ad ampliare o (forse anche più di frequente) a rinnovare la forza lavoro disponibile tra le imprese del Nord-Est, da un lato, e del Mezzogiorno, dall’altro lato (con un’incidenza delle assumenti pari al 28% del totale). Rispetto allo scorso anno, le imprese del Nord-Ovest dichiarano con minor frequenza di voler intraprendere programmi di espansione occupazionale, con una probabile influenza negativa anche sul tasso di variazione complessivo dei lavoratori dipendenti. Così come per gli andamenti di mercato, l’adozione di strategie aggressive (sul versante dei prodotti o dei mercati) implica, nel complesso, un impatto positivo in termini di domanda di lavoro, pur indipendentemente dall’entità e dalla tipologia della domanda stessa. La quota di imprese assumenti nel 2007 sale infatti fino al 36% per quelle che hanno sviluppato nuovi prodotti o servizi e al 38% per le export oriented (che, come visto, crescono di numero nel 2006 fino a sfiorare il 14% del totale). Pur con le limitazioni legate alla mancanza di informazioni sull’entità effettiva dei flussi di assunzioni nel periodo considerato, è comunque possibile evidenziare anche in questo caso alcune differenze negli orientamenti occupazionali delle imprese innovatrici ed esportatrici su scala settoriale. Gran parte delle aziende del manifatturiero “tradizionale” (alimentari, arredamento, ceramica, vetro, metalli, beni per la casa, ecc.) ma anche aziende a medio e alto contenuto tecnologico (chimico-farmaceutico, gomma, elettronica) legano di frequente i programmi di assunzione (soprattutto se riferiti a profili di livello più elevato) allo sviluppo del mercato estero, dove sono sempre di più collocate in fasce di livello medio-alto e alto. Un comportamento leggermente diverso hanno le aziende metalmeccaniche, che, quasi da “apripista” del Made in Italy, sono impegnate per lo più nel mantenimento delle quote di mercato estere conquistate in passato, attraverso un continuo rinnovamento del mix di offerta per soddisfare i desiderata dei diversi target di clientela serviti: in questo, il capitale umano diventa la leva strategica da attivare sia per sviluppare nuovi prodotti, sia per consolidare efficienza produttiva e competitività di mercato. Nel terziario vengono confermati i (possibili) fenomeni di integrazione o inter-relazione con le attività manifatturiere. Non a caso, l’orientamento a investire nel capitale umano avviene più di frequente fra le imprese che, per rispondere alle esigenze degli altri segmenti delle filiere in cui sono inserite (si pensi ai casi del commercio all’ingrosso e dei trasporti), sono sempre più impegnate nell’ammodernamento dell’organizzazione e dei servizi offerti. Le strategie di riposizionamento delle imprese sono individuabili anche attraverso l’esame delle principali tendenze in atto nei programmi occupazionali per livelli di istruzione richiesti, con particolare riferimento alla capacità di assorbimento di figure in possesso di titoli di livello secondario e universitario . In quest’ultimo segmento della domanda di lavoro, vale evidenziare per il 2007 un incremento delle assunzioni (+20.000 entrate circa) dopo la battuta d’arresto che aveva caratterizzato il 2006. Mostra una ancor più decisa dinamica di crescita la richiesta di diplomati (oltre 50.000 in più da un anno all’altro, contro un incremento di 18.000 unità tra il 2005 e il 2006), mentre il più contenuto aumento dei fabbisogni di personale con un titolo pari al livello dell’istruzione e formazione professionale (+15.000 entrate tra il 2006 e il 2007) dovrebbe tradursi in una riduzione in termini relativi. I due segmenti della formazione professionale, “schiacciati” come sono tra la richiesta di diplomati e quella di figure senza alcun titolo oltre l’obbligo, non riescono pertanto ancora a farsi largo nelle preferenze degli imprenditori. Tale tendenza potrebbe essere letta come conseguenza di una domanda ora più orientata al livello secondario superiore (cui non si è accompagnato però un analogo “travaso” di richieste a partire dal livello formativo più basso, ossia quello della scuola dell’obbligo), ma, soprattutto, delle incertezze legate ai ritardi di gran parte delle Regioni italiane nella creazione di un sistema unico dell'istruzione e della formazione professionale. 11 Una conferma di ciò verrebbe dalle tendenze rilevate nella domanda di “formazione integrata”, che considera sia il sapere scolastico, sia quello di tipo esperienziale (che con la riforma universitaria e scolastica è diventato parte integrante del percorso formativo individuale). In questo caso, la domanda di laureati - anche se, ed è bene ricordarlo, non è necessariamente rivolta a giovani in uscita dal sistema formativo – aumenterebbe di oltre 23.000 unità tra il 2006 e il 2007. A fronte di una variazione pressoché nulla nella domanda di diplomati, la qualifica professionale vedrebbe invece in questo caso una crescita di oltre 50.000 entrate, dimostrando quindi alcuni suoi limiti circa il contenuto formativo effettivamente percepito dagli imprenditori. Le informazioni rese disponibili attraverso il Sistema Informativo Excelsior consentono di anche ricavare alcune indicazioni circa le modalità di impiego privilegiate dalle imprese. I dati riferiti alle assunzioni programmate per il 2006 evidenziano che la tendenza delle aziende nell’utilizzo delle diverse fattispecie contrattuali sembra muoversi sempre più nella direzione delle assunzioni a termine, a discapito di quelle a tempo indeterminato. Rispetto ai programmi di assunzione formulati con riferimento al 2005, le entrate di personale a tempo indeterminato sono diminuite ulteriormente nel 2006, passando dal 50,0% al 46,3%. Al contempo, le assunzioni di dipendenti a tempo determinato aumentano dal 29,2% del 2004 al 37,8% del 2005 e fino al 41,1% del 2006. Il calo dell’impiego a tempo indeterminato è risultato nel 2006 più evidente tra le attività terziarie (dove passano in tre anni dal 57,7% al 48,9% e fino al 43,7%) e più contenuto nell’industria (in cui scende dal 59,4% del 2004 al 51,6% del 2005 e al 50,3% del 2006). Su scala territoriale, la tenuta delle assunzioni previste a tempo indeterminato è stata maggiore nelle imprese del Mezzogiorno (50,5%) e, sia pur in misura inferiore, in quelle del Nord-Ovest (48,5%), mentre è stata più limitata al Nord-Est e al Centro (42,4% in entrambi i casi). I dati provvisori relativi al 2007 vedono una prosecuzione di tali tendenze, anche se a ritmi meno marcati: le assunzioni a tempo determinato dovrebbero crescere ancora e attestarsi intorno al 43% del totale, erodendo ancora qualche decimale ai contratti a tempo indeterminato (45,1%). Un esercizio di simulazione del possibile fabbisogno netto (se positivo) o di eccedenza (se negativa) di occupati totali per le imprese private fino al 2010 - considerando per semplicità la sola componente connessa alle uscite per pensionamento – consente infine di evidenziare i gruppi professionali sui quali il nostro sistema produttivo investirà in futuro per accrescere la sua capacità competitiva. Il fabbisogno complessivo medio annuo rapportato allo stock medio del periodo può essere stimato pari ad un valore positivo complessivamente pari al 2,7%, determinato per circa il 70% dalle possibili uscite per pensionamento e per circa il 30% dal saldo positivo atteso nel periodo. L’analisi per gruppo professionale mette in evidenza tendenze assai diversificate. In qualche caso le stime conducono a valori negativi, che possono essere interpretati quali segnali di un’eccedenza, ovvero casi per i quali neppure l’uscita di quote di occupati per raggiunti limiti di età sarebbe sufficiente a compensare la tendenza negativa di quel gruppo professionale. E’ il caso, in particolare, di alcuni gruppi professionali specializzati in lavorazioni di carattere prevalentemente artigianale (comprese nel grande gruppo 7), per i quali deriverebbe l’eventualità di una riconversione verso altro gruppo professionale. Le professioni più qualificate presentano tassi complessivi mediamente superiori: è il caso di tutti i gruppi professionali classificati tra gli specialisti (grande gruppo ISCO 2) e, se pure in misura minore, tra i tecnici (grande gruppo 3). Queste professioni si collocano tra 2 e 4 punti percentuali sopra il valore medio (posto uguale a 0). 12 Stima del fabbisogno o dell’eccedenza media annua di occupati totali privati per gruppo professionale ISCO – Anni 2006-2010 Valori assoluti espressi in migliaia saldi medi annui attesi uscite medie annue pens. fabbisogno/ eccedenza media annua fabb./ecced. medio annuo su stock (val. %) 12 - Dirigenti d'azienda e imprenditori 17,4 27,6 45,1 6,0 21 - Specialisti scienze fisiche, matematiche e ingegneristiche 15,7 5,7 21,4 6,1 22 - Specialisti delle scienze della vita e della salute 7,6 8,4 16,0 5,4 23 - Specialisti dell'insegnamento (compreso 33) 1,8 8,2 9,9 5,0 24 - Specialisti aziendali, legali, delle scienze sociali e altri 32,1 16,6 48,7 6,8 31 - Tecnici delle scienze fisiche e di ingegneria 34,3 18,5 52,8 4,6 32 - Tecnici delle scienze della vita e paramedici 11,3 6,3 17,7 4,9 34 - Tecnici finanziari, commerciali, amministrativi e altri 35,9 40,1 76,0 3,3 41 - Impiegati di ufficio 6,4 27,3 33,6 2,0 42 - Addetti al servizio clienti 1,2 5,4 6,6 2,3 51 - Addetti ai servizi personali e di sicurezza 33,8 22,5 56,3 3,9 52 - Addetti alle vendite 4,9 10,3 15,2 1,6 71 - Addetti all'estrazione ed alla costruzione 0,8 19,1 19,9 1,8 72 - Addetti alla lavorazione dei metalli, meccanici e affini -20,7 25,1 4,4 0,3 73 - Addetti lavorazioni precisione, artigianali, attin. alla stampa -7,4 3,3 -4,1 -2,3 74 - Altri artigiani, esperti di un mestiere e affini -34,0 15,7 -18,3 -2,8 81 - Addetti ad impianti fissi e affini 12,7 6,7 19,4 4,1 82 - Addetti alle macchine e assemblatori -6,2 11,7 5,5 0,7 83 - Conducenti, manovratori ed addetti ad impianti mobili -4,9 13,6 8,7 1,4 91 - Occupazioni elementari nelle vendite e nei servizi 9,9 28,9 38,8 3,3 93 - Manovali settore minerario, costruzioni, industriale, trasporti -11,3 6,3 -5,0 -1,4 Totale 141,4 327,3 468,6 2,7 Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior Le stime svolte sui fabbisogni occupazionali medi annui per il prossimo quinquennio consentono inoltre di effettuare alcuni confronti con analoghi esercizi previsivi condotti in altri Paesi, per poter analizzare le dinamiche emerse anche in relazione a ciò che viene prospettato altrove. Il paragone con due realtà particolarmente importanti dello scenario internazionale, quella francese e quella statunitense, consente in prima battuta di affermare che le dinamiche complessive previste per l’apparato economico nazionale (sempre limitatamente alle tendenze professionali) nell’ambito del presente lavoro non si discostano in maniera significativa dalle dinamiche previste all’estero e rintracciabili in letteratura. L’ordine di grandezza dei risultati cui si perviene permette di collocare l’Italia su valori complessivi paragonabili a quelli di analoghe previsioni per Stati Uniti e Francia: il fabbisogno medio annuo si attesta in tutte e tre le realtà su valori prossimi o di poco superiori al 3%. Le informazioni in possesso consentono solo in parte un confronto fino al dettaglio dei principali gruppi professionali, dal momento che le diverse classificazioni sottostanti pongono, per il momento, problemi di non immediata soluzione. I tentativi fatti in questa direzione consentono, comunque, di affermare che i fabbisogni previsti per i diversi gruppi professionali in ambito 13 italiano appaiono caratterizzati da saldi temporali assai più variabili rispetto ai corrispondenti dati francesi e statunitensi. Questi ultimi presentano una minore variabilità nell’andamento dei singoli gruppi professionali rispetto agli andamenti medi previsti in complesso: una “vivacità” che potrebbe dipendere dal fatto che il nostro Paese è ancora impegnato, come sopra documentato, in processi di ristrutturazione del tessuto economico (soprattutto industriale) più intensi e più diffusi rispetto a quanto accade nei Paesi qui presi a raffronto. Confronto tra gli scenari previsivi per gruppi professionali: Italia, Francia e USA Totale occupati 0,8 1,9 2,7 0,7 2,5 3,1 1,2 2,3 3,4 % saldo medio annuo % pensioni annue tasso fabb/ecced. (media annua su stock medi) saldo % medio annuo % uscite annue previste dal mercato del lavoro tasso fabb/ecced. (media annua su stock medi) saldo % medio annuo % uscite annue previste dal mercato del lavoro tasso fabb/ecced. (media annua su stock medi) ITALIA (2005-2010) FRANCIA (2005-2015) USA (2004-2014) Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior 2. Competitività: il riposizionamento delle produzioni italiane sui mercati mondiali Il quadro positivo finora delineato relativamente al settore manifatturiero nel 2006 viene avvalorato dai segnali di netta ripresa delle vendite sui mercati internazionali. Secondo le indagini congiunturali di Unioncamere sulle piccole e medie imprese manifatturiere, le esportazioni - che nel 2005 avevano mostrato vitalità, in particolare nell’ultimo trimestre - si sono, infatti, nel 2006 ulteriormente rafforzate, visto che in ogni trimestre si rilevano per l’export oltre 2 punti percentuali in più rispetto allo stesso periodo del 2005. In tutte le ripartizioni si registrano saldi positivi, con il Nord-Est che guida decisamente la ripresa (+3,2% nel quarto trimestre), seguito dall’area nord-occidentale del Paese (+1,9%). La dinamicità esportativa è, tuttavia, appannaggio delle imprese più grandi, visto che le microimprese continuano ancora ad evidenziare una decisa flessione anche nel corso degli ultimi trimestri. Nel complesso sembra quindi delinearsi un nuovo slancio delle nostre piccole e medie imprese manifatturiere che, forti di una lento ma costante recupero di competitività, mostrano di aver invertito la tendenza negativa che ha caratterizzato il recente passato. 14 Nel 2006 il valore delle esportazioni italiane ha registrato (a prezzi correnti) un aumento del 9% rispetto allo stesso periodo del 2005 (+7,1% verso i paesi europei e +11,9% verso l’area extra UE). Una crescita di tutto rilievo, frutto sia di una maggiore competitività di mercato da parte delle imprese già tradizionalmente operanti all’estero, sia di un progressivo aumento delle imprese esportatrici. Il Centro studi Unioncamere ha infatti rilevato che la quota di imprese export oriented ha raggiunto nel 2006 il 31,2% con riferimento alle imprese manifatturiere con almeno 1 dipendente (pari a circa 98.500 aziende, oltre 5.000 in più rispetto al 2005) e il 13,8% per il totale dell’economia italiana. Imprese manifatturiere italiane con almeno un dipendente che operano con l’estero In percentuale sul totale delle imprese, per settore – Anni 2004-2006 2004 2005 2006 Estrazione di minerali 22,1 23,3 24,0 Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco 19,0 19,2 23,9 Industrie tessili, dell'abbigliamento e calzature 31,0 31,9 34,0 Industrie del legno e del mobile 23,7 24,3 26,0 Industrie della carta, della stampa ed editoria 23,1 26,4 27,8 Industrie chimiche e petrolifere 47,4 45,8 45,5 Industrie della gomma e delle materie plastiche 38,3 40,2 39,1 Industrie dei minerali non metalliferi 29,9 29,2 32,4 Industrie dei metalli 23,7 23,8 25,6 Industrie meccaniche e dei mezzi di trasporto 45,3 45,3 46,4 Industrie elettriche, elettroniche, ottiche e medicali 29,5 30,9 32,9 Ind. beni per la casa, tempo libero e altre manifatturiere 42,0 42,2 38,3 Produzione e distribuzione di energia, gas e acqua 18,4 21,2 29,0 TOTALE 28,8 29,2 31,2 Fonte: Centro Studi Unioncamere Il valore medio di quello che esportiamo è molto cresciuto: +25% dal 2000 al 2006, a conferma del riposizionamento delle nostre produzioni sulle fasce più pregiate del mercato, anche se sempre all’interno delle nostre tradizionali specializzazioni. Si rilevano infatti punte del 41% nelle calzature, del 37% nei prodotti in metalli, del 33% nel tessile-abbigliamento, del 26% nella meccanica, ma anche del 28% nell’elettronica. Le performance sui mercati esteri rappresentano, d’altra parte, l’indicatore più consolidato e oggettivamente confrontabile a livello internazionale per valutare l’effettiva capacità competitiva di un sistema economico-produttivo. A tal riguardo, è stata approfondita la capacità che l’Italia ha avuto di vendere beni e servizi al di fuori dei suoi confini, pur se con modalità e risultati differenti a seconda della taglia dimensionale delle aziende operanti all’estero. L’analisi condotta ha consentito di circostanziare e valutare meglio il calo della nostra quota di commercio mondiale, legata non solo all’ingresso di nuovi player (imponenti per dimensione e sempre meglio strutturati) sullo scenario internazionale, ma anche a problemi di competitività. Ma la novità consiste nel documentare come tale perdita di competitività non sia stata generalizzata. Un primo sguardo d’insieme consente di evidenziare che nel 2006 l’Italia era l’ottavo Paese esportatore al mondo, con una quota del 3,4% delle esportazioni mondiali. Rispetto al 1997 si registra una perdita di un punto percentuale della quota di mercato e di due posizioni nella 15 graduatoria dei Paesi export-leader. Ma consideriamo che cosa è accaduto negli altri Paesi: gli USA perdono 4 punti in termini di quote di mercato; la Francia –1,2; Giappone –2,3; Regno Unito –1,5; solo la Germania ha tenuto le sue quote (ha perso solo 0,2 punti). L’Italia nel 2006 ha esportato verso i 14 Paesi che, per primi, hanno costituito l’Unione Europea beni per quasi 170 miliardi di euro, quasi il 52% delle esportazioni complessive. Dieci anni prima la quota era del 55%, una leggera riduzione determinata dalla competizione aperta (anche in Europa) alle economie asiatiche emergenti e, nel contempo, dalle opportunità offerte dall’espansione di nuovi mercati nell’Europa centro-orientale e fuori dall’UE; complessivamente, nel decennio considerato le esportazioni verso l’Unione europea sono aumentate del 52%, contro una crescita del 76% del mercato extraeuropeo. Variazione e incidenza delle esportazioni italiane per area di destinazione. Variazione 1996-2006 Incidenza del mercato UE ed Extra UE 52% 76% 63% IntraUE ExtraUE Totale 51,7% 55,5% 48,3% 44,5% 2006 1996 Intra UE Extra UE Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Istat Nel 1996, l’Italia era il sesto partner commerciale dell’Unione Europea, e quasi il 7% delle importazioni della UE provenivano dall’Italia. Nel 2006 l’Italia è scesa all’ottavo posto, superata dal Belgio (considerato unitamente al Lussemburgo) e dalla Cina. La quota di mercato è calata al 5,2%, una riduzione di 1,8 punti percentuali; si noti, però, che Stati Uniti e Francia hanno registrato contrazioni anche più marcate. Russia e, soprattutto, Cina sono i Paesi che acquisiscono nuove quote di mercato; nel 1996 quasi due terzi delle importazioni dell’Unione europea provenivano da Paesi membri, nel 2006 la percentuale è scesa al 58%. I primi 5 Paesi esportatori nel mercato dell’Unione Europea per differenza in punti percentuali delle quote di mercato Anni 1996 e 2006 a confronto Paesi che guadagnano quote di mercato Paesi che perdono quote di mercato Paese differenza quota Paese differenza quota Cina 3,46 Stati Uniti -1,97 Russia 1,67 Francia -1,89 Repubblica Ceca 0,71 Italia -1,80 Polonia 0,69 Regno Unito -1,69 Norvegia 0,58 Giappone -1,26 Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Eurostat L’affacciarsi di nuovi competitors sul mercato europeo ha avuto un differente impatto sui Paesi ma anche sulle singole merci. In Italia nell’ultimo decennio la metà delle oltre tremila tipologie di prodotti esportati (secondo la classificazione internazionale SITC) ha subito una flessione delle quote di mercato, l’11% dei beni commercializzati nella UE ha perso oltre due terzi della quota detenuta nel 1996. D’altro canto, ciò significa che per oltre mille prodotti la quota di mercato è 16 aumentata e per più di 500 di essi la crescita è stata superiore ai due terzi della frazione iniziale1. Può essere interessante confrontare il dato dell’Italia con quello di due Paesi leader nel commercio estero, Germania e Francia, nonché con la Spagna - in quanto economia europea in forte crescita nel periodo considerato - e con la Cina. La Germania evidenzia una maggior stabilità, con variazioni di quote, sia negative che positive, di modesta entità. La Francia presenta una netta prevalenza di merci che perdono quote di mercato, in alcuni casi anche in misura considerevole. La Spagna, viceversa, mostra quasi il 60% delle proprie produzioni in crescita: occorre sottolineare che, partendo da livelli iniziali modesti, incrementare la propria presenza sul mercato è sicuramente più agevole. Tuttavia, complessivamente, la Spagna non aumenta la propria quota di mercato totale, indice di una crescita delle produzioni meno rilevanti per l’economia spagnola, a fronte di una riduzione o di una stazionarietà di quelle maggiormente incidenti. Variazione della quota di mercato dei prodotti, per Paese Flessione Crescita Forte Media Debole Stazionarietà Debole Media Forte Italia 10,6% 19,8% 19,6% 6,3% 13,3% 8,6% 21,7% Germania 5,4% 17,7% 27,8% 9,2% 16,5% 8,8% 14,7% Francia 13,9% 24,6% 20,2% 5,8% 11,3% 6,9% 17,3% Spagna 10,1% 13,1% 13,0% 5,3% 11,6% 9,9% 36,9% Cina 2,8% 2,3% 2,4% 3,0% 5,0% 5,0% 79,5% Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Eurostat Quasi il 90% delle merci cinesi rafforza la propria posizione sul mercato e una quota pari all’80% cresce in misura sostenuta. In pochi anni, per molte produzioni la Cina è diventato il principale partner europeo, “obbligando” l’Italia e le altre economie avanzate a ripensare profondamente le proprie strategie produttive e commerciali. Parte di queste trasformazioni possono essere lette anche attraverso i dati del commercio estero, mettendo a confronto il valore delle esportazioni con le relative quantità. Se, in termini di valore, la quota di mercato si riduce per la metà delle produzioni, in termini di quantità la contrazione coinvolge il 60% dei beni. 1 In questa elaborazione, per forte flessione si intende una diminuzione della quota di mercato superiore al -66%; per media flessione una variazione compresa tra -66% e -33%; debole flessione tra -33 per cento e -5%; stazionarietà tra -5% e +5%; debole crescita tra 5% e 33%; media crescita tra 33% e 66%; forte crescita oltre il 66%. 17 Distribuzione dei prodotti italiani per variazione della quota di mercato in valore e in quantità Valore Quantità 11% 20% 20% 6% 13% 9% 22% <-66% da -66% a -33% da -33% a -5% da -5% a 5% da 5% a 33% da 33% a 66% oltre 66% 21% 21% 17% 5% 9% 6% 21% <-66% da -66% a -33% da -33% a -5% da -5% a 5% da 5% a 33% da 33% a 66% oltre 66% Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Eurostat Il dato deve essere letto ed esaminato con le dovute cautele, ma sembra indicare che la concorrenzialità delle merci italiane si gioca sempre più sulla qualità e meno sulla quantità, come dimostrerebbe anche l’incremento del 25% del valore medio unitario delle nostre esportazioni tra il 2000 e il 2006. È, con ogni evidenza, un’affermazione di carattere generale che ha valenza per il commercio estero nel suo complesso, ma che, per alcune tipologie produttive, può presentare dinamiche differenti. Per una maggior comprensione occorre focalizzare l’analisi sulle singole produzioni; la loro suddivisione per contenuto tecnologico può costituire una valida chiave interpretativa. Iniziando l’analisi con i prodotti caratterizzati da un contenuto di tecnologia basso o assente, emerge come per questo raggruppamento merceologico l’Italia rappresenti nel 2006 il quinto partner commerciale dell’UE, mentre dieci anni prima occupava la seconda posizione. Una perdita di quote di mercato di 2,6 punti percentuali, che riflette una minor dinamica delle esportazioni italiane rispetto a produzioni a maggior contenuto tecnologico. Complessivamente, le esportazioni italiane di prodotti low tech verso i partner europei sono aumentate del 47,8%; tra i 20 principali Paesi esportatori solo la Svizzera presenta un saggio di incremento inferiore. L’incremento modesto sul mercato europeo è stato solo parzialmente compensato dalla crescita del mercato extra-Ue, verso il quale le esportazioni, nei dieci anni di riferimento, sono aumentate del 76%. Nella commercializzazione di produzioni a bassa tecnologia vi è una sostanziale perdita di quote di mercato - oltre che dell’Italia - della Germania, della Francia, del Regno Unito e degli Stati Uniti; tengono il Belgio, la Spagna e l’Irlanda, crescono in misura considerevole Cina e Russia. È interessante osservare come nel 1996 quasi due terzi delle esportazioni cinesi verso l’Unione europea fosse costituito da prodotti resource based o low tech, nel 2006 tale percentuale si è ridotta di oltre 20 punti, ad indicare una forte presenza della concorrenza cinese in produzioni a maggior tecnologia. Il rapporto tra valore delle esportazioni e quantità fornisce il valore dell’export per ogni 100 kg di prodotto. Si tratta, evidentemente, di un indicatore grezzo che accomuna beni estremamente differenti, però fornisce alcuni spunti di riflessione che meritano di essere sottolineati. Il valore unitario dei beni esportati dall’Italia risulta essere mediamente più elevato rispetto a quello dei principali competitors, anche se il tasso di crescita nel decennio preso in esame è stato uno dei più bassi se si esclude la Cina. 18 Il principale gruppo merceologico low tech per l’Italia è costituito da “manufatti in metalli comuni”, al cui interno si trovano i prodotti in metallo e ferro, fibbie, fermagli, catene, produzioni per le quali Germania ed Italia sono leader, anche se la concorrenza cinese e dei Paesi dell’est europeo comincia ad essere pressante; in particolare, la Germania ha perso oltre 10 punti percentuali, guadagnati da Cina, Paesi Bassi, Polonia e Repubblica Ceca. L’Italia, relativamente al gruppo costituito da “mobili, articoli da letto, materassi, cuscini e articoli similari imbottiti” negli ultimi dieci anni ha visto ridursi la propria quota di mercato europeo di oltre sette punti percentuali; nello stesso periodo le importazioni di questo gruppo merceologico dalla Cina sono aumentate del12%, diventando così il principale partner dell’Unione europea. Una dinamica analoga si riscontra nel settore delle “calzature”: nel 1996 l’Italia deteneva il 26% del mercato, la Cina l’8%. Nel 2006 la quota italiana è scesa al 14%, quella cinese è salita al 21%. È tuttavia interessante rilevare che, in termini non di valore ma quantitativi, le calzature cinesi rappresentano quasi la metà dell’intero mercato (per l’esattezza, il 46%), mentre quelle italiane solamente il 6%. Una differenza del genere indica chiaramente un notevole gap qualitativo tra le produzioni provenienti dai due Paesi. L’analisi sui singoli prodotti conferma che su produzioni di qualità l’Italia ha mantenuto o addirittura aumentato le proprie quote di mercato - come nelle “scarpe tecniche resistenti all’acqua” (dal 15% del 1996 al 18% del 2006) - mentre in produzioni connotate da un minor livello qualitativo, la flessione è stata superiore ai venti punti percentuali. Da rilevare il dato sugli “scarponi da sci”: nel 1996 l’Italia deteneva il 53% del mercato, quota scesa al 27% nel 2006; gli oltre 20 punti percentuali persi dall’Italia sono stati assorbiti dalla Romania, ad indicare come i processi di delocalizzazione devono essere attentamente letti e valutati nell’analisi dei flussi commerciali. Se le produzioni italiane a basso contenuto tecnologico sembrano, complessivamente, risentire fortemente della concorrenza estera e, soprattutto, cinese, vi sono produzioni che nel decennio di riferimento hanno guadagnato significative quote di mercato. In particolare, si segnala la crescita per alcuni comparti del sistema moda e dell’agro-alimentare. Quasi il 90% delle esportazioni cinesi ha guadagnato quote di mercato, mentre la metà di quelle italiane ne ha perse, così come quasi il 60% di quelle francesi. Tuttavia, va evidenziato che quasi un quarto delle tipologie produttive italiane incrementa sensibilmente la propria quota di mercato, ad indicare che anche nei beni low tech si può essere competitivi. Utilizzando il massimo dettaglio di classificazione, è poi possibile individuare le nicchie di mercato, cioè quelle produzioni per le quali l’Italia è leader, detenendo una quota di mercato superiore al 50%. Le nicchie sono rappresentate principalmente da particolari lavorazioni della pelle e del cotone; quasi tre quarti del mercato della pasta è controllato dall’Italia. Questo sembrerebbe quindi confermare le prospettive positive nel riposizionamento operato da molte imprese (spesso identificabili con quelle di medio-piccola e piccola dimensione) su segmenti a più alto valore aggiunto e a più elevata specializzazione a monte delle catene produttive di alcuni beni di consumo, tanto da poterle oggi identificare come il cuore – a elevata qualità – delle filiere produttive internazionali. Il secondo raggruppamento merceologico esaminato, quello delle produzioni con un livello medio di contenuto tecnologico, costituisce il 43,8% delle esportazioni nazionali dirette nel mercato europeo, incidenza in crescita rispetto a dieci anni prima. Rispetto a quanto visto per le produzioni low tech, quelle medium tech risentono ancora in misura minore della concorrenza delle economie asiatiche e dell’Est Europa, anche se si sta registrando una progressiva perdita di quote di mercato a favore delle nuove economie. Nel 2006, il 7,4% delle importazioni dell’Unione Europea di prodotti medium tech proveniva dall’Italia, rispetto all’8,4% del 1996. Un 19 calo di oltre un punto percentuale che caratterizza anche gli altri Paesi leader nelle esportazioni di questa tipologia di produzioni, ossia Germania e Francia. Pur con i limiti dettati dall’estrema eterogeneità dei beni che la compongono, anche per questa categoria merceologia sembra essere in atto un riposizionamento dei nostri operatori verso le fasce più alte del mercato, anche se non evidente come nel caso dei prodotti low tech. La dinamica ragguardevole del decennio in esame porta comunque ad evidenziare un avvicinamento – o addirittura un superamento – rispetto ad alcuni Paesi nostri diretti competitors come la Francia, la Svezia e la Corea. La Germania e gli Stati Uniti appaiono ancora fortemente ancorati in posizione di leadership, il Regno Unito e la Spagna vanno riposizionandosi, il Giappone perde posizioni. Il settore automobilistico e il comparto che produce componenti per autovetture costituiscono la filiera caratterizzante l’industria italiana medium tech. Il 4,25% dell’export nazionale è ascrivibile alla commercializzazione di “parti, pezzi staccati ed accessori degli autoveicoli”, in crescita sia nell’incidenza delle esportazioni italiane, sia come quota di mercato detenuta all’interno dell’Unione Europea. In termini di quote di mercato, l’Italia è preceduta da Germania e Francia ma è importante sottolineare che queste, alla pari delle altre nazioni dell’Europa occidentale e contrariamente all’Italia, stanno perdendo quote di mercato a favore dei Paesi dell’est Europa, in particolare Repubblica Ceca, Polonia ed Ungheria. Il dato potrebbe significare un processo delocalizzativo attuato da alcune economie europee avanzate verso i Paesi dell’Est, un fenomeno che in Italia, per quanto attiene il settore automobilistico, si manifesta invece in misura molto più contenuta. Nel gruppo delle “vetture da turismo ed altre automobili per il trasporto di persone”, l’Italia risulta essere l’ottava esportatrice verso l’Unione europea, preceduta da Germania, Francia, Belgio, Spagna, Giappone, Regno Unito e Corea. Tra questi Paesi solo Germania e Corea guadagnano quote di mercato, le altre presentano flessioni nell’ordine di uno-due punti percentuali. Risulta, invece, in forte flessione il comparto “delle macchine ed apparecchi elettrici e non ad uso domestico”, oltre sette punti percentuali in meno nel decennio preso in esame. Nel 1996 l’Italia era il principale Paese esportatore con una quota di mercato che sfiorava il 23%, nel 2006 è scesa al terzo posto, preceduto dalla Cina, che ha guadagnato oltre 13 punti percentuali, e dalla Germania. In forte crescita “gli additivi preparati per oli minerali e similari”, “le caldaie a vapore”, “le macchine ed apparecchi per la lavorazione dei metalli”, “le macchine per la fabbricazione della carta”. Il comparto che ha registrato la flessione più significativa è quello delle “apparecchiature di illuminazione”, con una perdita di quota solo di poco inferiore agli 8 punti percentuali. Ancora una volta la flessione dell’export italiano è da attribuire all’entrata sul mercato delle produzioni cinesi che, con un aumento della quota superiore ai 20 punti percentuali, controllano oltre un terzo dell’intero mercato di apparecchiature di illuminazione. In calo anche il settore dei “motocicli”, una flessione di quasi sei punti percentuali; nonostante la riduzione l’Italia si conferma il secondo esportatore di motocicli in Europa con una quota del 14%, al primo posto si colloca il Giappone (con una quota del 19,5%), che ha registrato una flessione di quasi 9 punti percentuali. In crescita, tra i principali esportatori, Germania, Belgio e Cina. 20 L’Italia è seconda anche per commercializzazione di “trattori”, preceduta dalla Germania. Ma, mentre l’export tedesco risulta essere in crescita, quello italiano registra una sensibile contrazione. Il 47% dei beni medium tech italiani ha registrato una perdita di quote di mercato in termini di valore nel decennio in esame, percentuale che sale al 61% se si considerano le quantità. Il divario tra valore e quantità risulta essere più ampio di quanto visto per i beni a bassa tecnologia, a sottolineare come l’Italia sia riuscita ad estendere ad una larga parte delle produzioni con contenuto tecnologico medio il processo di trasformazione volto al miglioramento qualitativo. Un percorso di crescita che sembra aver interessato l’Italia in misura superiore alla Francia, ma anche alla Germania. Analogamente a quanto visto per le produzioni a basso contenuto tecnologico, è interessante scendere ad una classificazione più dettagliata per individuare le nicchie di mercato. La filiera del “sistema moda” – in particolare alcune produzioni che per la loro lavorazione richiedono un apporto tecnologico e i macchinari necessari per la lavorazione - caratterizzano le nicchie di mercato di produzioni medium tech. Il dato può essere visto come una fotografia della specializzazione distrettuale italiana, che ha portato le imprese ad essere leader non solo nella produzione dei beni finali del distretto – pelli, piuttosto che alcune tipologie di filati o prodotti in metallo – ma anche nei macchinari necessari per la loro lavorazione. Dunque, per larga parte delle produzioni che caratterizzano il Made in Italy, il valore aggiunto dei beni deriva da una crescita dell’intera filiera di cui fanno parte e ciò sembra assicurare una maggior competitività sui mercati internazionali. Solamente l’11% delle esportazioni nazionali riguarda il terzo raggruppamento merceologico in esame, ossia quello delle produzioni ad alto contenuto tecnologico. Si tratta della percentuale più bassa tra i venti principali Paesi esportatori: la Spagna, penultima, presenta una percentuale del 13,8%. Anche in termini dinamici, la crescita rispetto al 1996 è stata inferiore a larga parte degli altri Paesi. L’Italia incide sulle esportazioni high tech dirette nell’Unione europea per una quota inferiore al 3%, undicesimo Paese nella graduatoria che vede in testa la Germania con il 13,5%. Ancora una volta è da evidenziare il dato della Cina. Con un incremento di quasi nove punti percentuali, il Paese asiatico è diventato il secondo partner commerciale europeo per prodotti ad alta tecnologia; il 37% delle esportazioni complessive della Cina verso l’Unione europea è costituito da beni high tech, contro il 16% del 1996. Dunque, la concorrenza cinese - contrariamente a quanto spesso si afferma - è sempre meno circoscritta a merci di fascia bassa ed a scarso contenuto tecnologico, ma si sta estendendo a tutte le produzioni, anche quelle high tech. Va tuttavia specificato che parte di questo fenomeno può essere riconducibile anche a fenomeni di delocalizzazione di imprese provenienti da Paesi di più antica industrializzazione, che tuttavia stanno generando in Cina un indotto locale che, in prospettiva, potrà anche proporsi autonomamente e direttamente sui mercati mondiali. Nel caso dei prodotti high tech, il rapporto fra valore delle esportazioni e le relative quantità appare non particolarmente significativo, data l’ancora maggiore differenziazione dei beni che compongono tale raggruppamento. L’Italia mostra comunque un valore per 100 kg di prodotti più contenuto rispetto ai principali competitors e anche la dinamica di crescita, pur sostenuta, è inferiore rispetto a gran parte dei Paesi maggiori esportatori verso l’UE. Tra le produzioni high tech che maggiormente incidono sull’export nazionale, il primo posto è occupato dal gruppo “medicamenti per la medicina umana e veterinaria”. Nonostante una crescita delle esportazioni del 337%, la quota italiana sul mercato europeo è diminuita di oltre 21 un punto percentuale. Il comparto farmaceutico sta registrando un passaggio di quote tra i Paesi leader nel 1996, Regno Unito, Svizzera e Francia a quelli del 2006, Germania, Belgio ed Irlanda. L’Italia, sesta nel 1996, scende all’ottavo posto. In leggera contrazione anche la quota relativa alle “attrezzature per le telecomunicazioni”, dovuta alla forte crescita dell’export cinese, che ha guadagnato quasi sedici punti percentuali. Stessa dinamica per le “macchine ed apparecchi elettrici”. Nonostante la forte ascesa delle esportazioni cinesi, l’Italia è riuscita a guadagnare quote di mercato per alcune produzioni. Nello specifico crescono i gruppi di “motori e macchine motrici”, delle “turbine a vapore” e, nonostante una variazione negativa delle esportazioni, gli “apparecchi ed equipaggiamenti fotografici”. Tra i prodotti in flessione vi è una netta contrazione degli “apparecchi ricevitori di televisione”, sia per la forte concorrenza di produzioni a basso costo provenienti dall’Asia e dall’Est Europa, sia per prodotti qualitativamente superiori realizzati in altri Paesi dell’Europa occidentale. La crescita di oltre otto punti percentuali dei Paesi Bassi indica che dove si è puntato sull’innovazione e sulla qualità i risultati non sono mancati, nonostante la concorrenza asiatica. La distribuzione dei prodotti high tech in funzione della variazione della quota di mercato presenta un quadro leggermente più negativo di quanto visto per i beni medium tech: poco più della metà dei beni hanno registrato una perdita di quote, il divario tra valore e quantità risulta essere meno ampio. La scarsa propensione dell’Italia verso produzioni ad alta tecnologia – ovviamente con alcune eccezioni – sembra poter essere letta anche attraverso i dati degli scambi commerciali. A ulteriore conferma di ciò, l’Italia non detiene nessuna nicchia di mercato – cioè almeno il 50% della quota – per produzioni ad alta tecnologia. Solo per alcune produzioni farmaceutiche arriva a detenere circa un quarto dell’intero mercato dell’Unione Europea. I dati fin qui esposti presentano numerose chiavi di lettura possibili, ma confermano comunque che l’analisi dei mutamenti nella struttura del commercio internazionale si sta mostrando un potente strumento per identificare le reazioni di aree e paesi ai processi sempre più intensi di globalizzazione e, dunque, per valutare il loro livello di competitività. Il posizionamento sui mercati esteri - misurato a livello di singolo prodotto ancor più che a livello settoriale - può in altri termini essere usato come chiave di lettura dell’evoluzione dei modelli di specializzazione del sistema produttivo italiano e dei processi di ristrutturazione della nostra industria. A tal riguardo, sono soprattutto due gli elementi che pare opportuno evidenziare. Il primo riguarda la conferma ulteriore del graduale innalzamento qualitativo delle nostre merci vendute all’estero. Si tratta, d’altronde, di un passaggio ineludibile per essere competitivi sui mercati internazionali. Ed è un processo che non riguarda solamente i beni a maggior contenuto tecnologico ma è trasversale a tutti i settori e a tutte le categorie di merci. Come dimostrano i dati, vi sono eccellenze in produzioni con un contenuto tecnologico medio, così come in quelle low tech (dove, più che le tecnologie, sono il design e i contenuti “immateriali” dei beni e dei servizi i fattori che determinano l’affermazione sui mercati mondiali). Il secondo aspetto riguarda proprio le eccellenze. In alcuni casi, la leadership commerciale sembra ascrivibile alla abilità di poche imprese di intercettare prima delle altre le dinamiche del settore. In altri casi – che rappresentano tuttavia ancora la grande maggioranza - gli ottimi risultati conseguiti derivano invece da un’evoluzione dell’intera filiera di appartenenza. Un’evoluzione che quasi sempre nasce dalla capacità di alcune imprese driver (generalmente di media dimensione) di trainare l’intera filiera (composta prevalentemente da imprese artigiane e di piccola dimensione), proponendosi come trait d’union tra dimensione locale – il distretto – e la dimensione globale. 22 Il consolidamento di quote di mercato in alcuni settori fortemente esposti alla concorrenza dei Paesi emergenti deriva proprio da un patrimonio di conoscenze sviluppato all’interno del territorio: un capitale sociale fatto di conoscenza tacita e non codificata, quindi non esportabile e difficilmente imitabile. Il potenziale competitivo dell’industria italiana potrà tuttavia esprimersi appieno solo se si riuscirà a dare maggior slancio alla crescita della produttività dei fattori, che, nonostante alcuni chiari segnali di inversione di tendenza nel 2006, mostra una dinamica più contenuta rispetto ai nostri partner dell’UE. Un fenomeno riconducibile, come è stato da più parti evidenziato, alle diseconomie esterne che ancora penalizzano le nostre imprese (dalla dotazione infrastrutturale al credito, dall’efficienza della Pubblica Amministrazione all’offerta di servizi, in primo luogo quelli energetici) e alla ancora limitata capacità di adottare innovazioni ad ampio spettro – e, dunque, non solo di tipo tecnologico - pure nei settori low e medium tech. 3. Il “nodo” del Mezzogiorno Non accennano a chiudersi i divari tra Centro-Nord e Sud del Paese, anche in termini di performance di mercato delle imprese. I saldi fra andamenti positivi e negativi del giro d’affari si attestano infatti su valori elevati (14 punti percentuali) al Centro-Nord, mentre stentano a riprendere quota le aziende del Mezzogiorno: con un saldo pari appena a 4 punti (sintesi di un 26% di aziende con incrementi del giro d’affari e un 22% che ha invece subito una flessione), non sembrano aver ancora beneficiato della congiuntura favorevole dei mercati. E i segnali che emergono dagli andamenti del primo trimestre del 2007 non indicano un cambiamento di tali tendenze: con riferimento alle sole piccole e medie imprese manifatturiere meridionali, il fatturato e la produzione dovrebbero subire un’ulteriore riduzione in termini tendenziali, pari rispettivamente a -1,9% e a -2,1%. Il gap rispetto al Centro-Nord appare evidente se si tiene conto che, nello stesso trimestre, il giro d’affari è cresciuto del +1,9% per le imprese del Centro, del +2,1% al Nord-Ovest e addirittura del +3,4% nel Nord-Est. Gli andamenti delle imprese si riflettono anche sul versante degli indicatori macroeconomici. L’aumento del PIL pari al +2,0% a livello nazionale presenta chiare differenze su scala territoriale: dovrebbe essere il Centro a ottenere i risultati migliori, con uno sviluppo del PIL nel 2007 pari al 2,2% rispetto al 2,0% dell’Italia, mentre al di sotto della media nazionale si trova solo l’1,7% del Mezzogiorno. Tra le regioni, gli incrementi più significativi coinvolgono Lombardia, Umbria, Lazio, Emilia Romagna, Toscana e Marche, quelli più contenuti Calabria, Molise, Abruzzo e Piemonte. Per il 2007, così come per il 2006, l’Italia meridionale sembra dunque seguire una dinamica insufficiente a garantire uno sviluppo in linea con il resto del Paese. Il PIL per abitante nel Mezzogiorno dovrebbe mantenersi anche per il prossimo triennio su una quota pari al 67,7% del totale nazionale, evidenziando quindi ancora una situazione di diffuso disagio per le popolazioni di queste aree e l’esistenza di un divario di sviluppo ancora molto forte, che rischia di tradursi in una profonda lacerazione nella crescita economica e sociale del nostro Paese. 23 Scenario di previsione al 2010 per il PIL delle regioni italiane Tassi di var. % su valori concatenati (anno di riferimento 2000) 2007 2008 2009 2010 Piemonte 1,6 1,3 1,3 1,5 Val d'Aosta 1,8 1,5 1,5 1,7 Lombardia 2,3 1,8 1,8 1,9 Trentino Alto Adige 2,0 1,5 1,5 1,8 Veneto 2,0 1,9 1,8 1,7 Friuli Venezia Giulia 2,0 1,6 1,7 1,7 Liguria 1,8 1,6 1,3 1,5 Emilia Romagna 2,1 2,0 1,7 1,7 Toscana 2,1 1,6 1,6 1,7 Umbria 2,3 1,8 1,7 1,7 Marche 2,1 1,5 1,5 1,6 Lazio 2,2 1,8 1,7 1,6 Abruzzo 1,6 1,6 1,5 1,6 Molise 1,6 1,2 1,0 1,5 Campania 1,8 1,7 1,6 1,7 Puglia 1,7 1,3 1,1 1,6 Basilicata 1,7 1,3 1,2 1,3 Calabria 0,9 1,5 1,3 1,6 Sicilia 1,9 1,8 1,5 1,7 Sardegna 1,8 1,7 1,7 1,8 Nord Ovest 2,1 1,6 1,6 1,8 Nord Est 2,0 1,9 1,7 1,7 Centro 2,2 1,7 1,6 1,7 Mezzogiorno 1,7 1,6 1,4 1,7 Italia 2,0 1,7 1,6 1,7 Fonte: Unioncamere-Prometeia, Scenari di sviluppo delle economie locali italiane (maggio 2007) Il gap rispetto al resto del Paese è peraltro evidente non soltanto in termini di capacità di creare ricchezza (misurata attraverso il PIL) ma anche di benessere della popolazione. I dati al 2005 del patrimonio familiare e del reddito disponibile evidenziano infatti significative discrepanze tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno. Oltre a un divario del patrimonio per famiglia del 41% tra il Mezzogiono e il Centro-Nord (232.561 euro contro 393.013) va detto che in quest’ultimo caso le quote di pertinenza delle attività reali (abitazioni e terreni rappresentano il 58% del totale) e delle attività finanziarie (pari al 42%) divergono tra loro soltanto di 16 punti percentuali, mentre al Sud ad una consistente aliquota di attività reali (70,6%) fa riscontro una più contenuta incidenza di quelle finanziarie (29,4%). In termini di reddito lordo disponibile per abitante, le regioni meridionali (con soli 11.591 euro pro-capite) si distanziano da quelle centro- settentrionali (18.561) in una misura particolarmente accentuata (38 punti percentuali in meno). Intervenire per ridurre le diseconomie esterne alle imprese meridionali e agire per favorire il loro riposizionamento di mercato rappresentano due chiari obiettivi per le politiche a sostegno di queste aree. E ricucire lo “strappo” rispetto al resto del Paese è necessario affinché l’attuale fase di ripresa economica si traduca in sviluppo effettivo e durevole per tutto il nostro territorio. 24 4. La leadership delle medie imprese italiane e la riorganizzazione dei distretti L’ultimo “censimento” effettuato da Unioncamere e Mediobanca sull’universo delle 3.887 medie imprese industriali (intese come quelle con fatturato compreso tra i 13 e i 290 milioni di euro, con un numero di dipendenti compreso tra 50 e 499 e con un assetto proprietario autonomo) operanti in Italia nel 2003 rivela come quell’anno abbia segnato un punto di particolare criticità nelle performance di mercato, posto che in quasi un caso su quattro il bilancio è stato chiuso in perdita (la media degli anni precedenti era di un quinto), pur con una somma dei passivi (1,3 miliardi) largamente superata da quella degli attivi (2,7 miliardi). Nonostante ciò, gli indicatori di redditività mostrano risultati pur sempre migliori rispetto a quelli messi a segno dalle altre tipologie aziendali: tra il 1996 ed il 2003, le medie imprese industriali hanno infatti registrato un incremento del 42,8% del fatturato (contro il +26,4% delle grandi imprese), del 51,7% delle esportazioni (+31,2% delle grandi), del 33,3% del valore aggiunto (+11,9% delle grandi), del 18% dei dipendenti (-10,2% il corrispondente indicatore per le grandi). Indici di sviluppo: un confronto fra le medie e le grandi imprese industriali Variazioni % 1996-2003 Valore Dipendenti MON Risultato Totale Italia Esportazioni aggiunto corrente Medie imprese 42,8 38,6 51,7 33,3 18,0 -1,7 9,4 Insieme chiuso(^) 39,8 36,7 46,5 33,8 17,3 5,6 20,6 Nord Ovest 37,6 33,5 45,9 28,4 13,4 -3,9 7,3 NEC 45,0 41,0 53,0 37,2 21,3 2,2 18,0 Centro Sud e Isole 57,5 49,4 90,3 37,9 23,6 -14,4 -26,4 Grandi imprese(*) 26,4 23,6 31,2 11,9 -10,2 -6,8 1,4 di cui a controllo italiano 23,3 20,8 27,0 7,6 -12,0 -10,0 -11,4 di cui a controllo estero 31,1 27,3 39,2 18,0 -7,5 -3,1 22,5 Fatturato MON = Margine operativo netto. I dati del MON e del risultato corrente sono stati depurati dell’effetto delle rivalutazioni ex leggi n. 342-2000, n. 448- 2001 e n. 350-2003 (^) Si tratta di 2349 società costantemente presenti nell’insieme dal 1996 al 2003. Queste variazioni sono qui riportate a puro titolo di raffronto. (*) Dati relativi alle principali società industriali manifatturiere italiane rilevate da Mediobanca (base Dati cumulativi, ed. 2006). Fonte: Unioncamere-Mediobanca Le stime proiettate al 2005 danno una crescita complessiva dell’export delle medie imprese pari al 60% rispetto al 1996 (contro il 33% delle grandi, esclusi flussi estero su estero), cui si aggiungono un +39% per il valore aggiunto (contro l’11% grandi) e un +26% per il Margine Operativo Lordo (contro +16% delle grandi). La crescita delle medie imprese è stata chiaramente sostenuta dalle performance sui mercati internazionali: la componente estera del fatturato si è mantenuta quasi sempre superiore a quella interna. Considerando la propensione ad esportare come uno degli indici significativi della competitività aziendale, le medie imprese sono riuscite, anche a dispetto della congiuntura sfavorevole degli scorsi anni, a mantenere le loro posizioni sui mercati esteri. Alcune analisi svolte in occasione delle indagini Unioncamere-Mediobanca sull’universo delle medie imprese hanno messo in evidenza la peculiare configurazione della media impresa 25 italiana come impresa a rete che, acquistando beni e servizi per una quota pari a circa l’80% del fatturato, di fatto organizza e collega il lavoro di una pluralità di aziende (prevalentemente di piccola dimensione) con i mercati di consumo dell’economia globale. Si è quindi voluto disegnare l’immagine di una “fabbrica fuori la fabbrica”, attraverso la quale le medie imprese riescono a guadagnare ampi margini di flessibilità produttiva e a concentrare il proprio impegno strategico nella differenziazione dei prodotti. Per meglio approfondire le tematiche della “economia della filiera”, Unioncamere e Mediobanca hanno condotto una indagine diretta sull’universo delle medie imprese industriali. La “forza commerciale” di tali aziende emerge già dall’analisi dei loro prodotti di punta. Ne esce innanzitutto confermato (se non addirittura accentuato) il radicamento delle specializzazioni delle medie imprese nei settori del Made in Italy. Tre le tipologie aziendali identificabili: - i produttori di beni di consumo diretti al mercato finale, all’interno della quale si ritrovano alcuni prodotti di punta sui mercati nazionali e internazionali come quelli dell’industria alimentare (caseario, conserviero, vitivinicolo, pastario), del “sistema moda” (abbigliamento uomo e donna, tessuti, filati, calzature e accessori), dei beni per la casa (dal mobile - camere e camerette, salotti, cucine – alla ceramica e all’arredo bagno), del chimico- farmaceutico (farmaceutica, cosmetica, vernici, detersivi). È in questi ambiti che il fatturato medio per prodotto raggiunge i livelli più elevati, oscillando tra i 32 e i 55 milioni di euro nel 2004 (contro una media complessiva di 31 milioni di euro) anche se con una quota di mercato domestico talvolta molto rilevante. - i produttori di beni strumentali, con specializzazioni nel campo delle macchine utensili, dei macchinari industriali, delle apparecchiature elettriche ed elettroniche. Il fatturato medio aziendale riferito al prodotto principale si attesta su valori più contenuti (tra i 22 e i 29 milioni di euro) ma appare più ampio lo sbocco sui mercati esteri, a conferma del successo internazionale di questo importante segmento del Made in Italy. - i produttori di beni intermedi e componenti (dagli accessori per macchinari industriali ai componenti elettrici ed elettronici per gli autoveicoli, dai prefabbricati ai serramenti per l’edilizia fino agli imballaggi in plastica), al cui interno si rileva una forte variabilità in termini di fatturato medio, non necessariamente legata al grado di apertura all’estero. Va sottolineato lo strettissimo legame esistente tra la media impresa e il proprio prodotto di punta: attraverso il “prodotto principale” (il cui fatturato è legato alle esportazioni per una quota pari al 41%), le medie imprese conseguono infatti circa il 93% del loro giro d’affari complessivo. Si tratta di nicchie produttive che in genere fanno riferimento a segmenti di mercato di fascia alta e medio-alta, dove per mantenere le posizioni acquisite e difendersi dalla concorrenza occorre investire di continuo in innovazione. Tuttavia, date le specializzazioni nei settori “tradizionali” e più legati alle vocazioni territoriali, l’investimento in innovazione viene sviluppato prevalentemente all’interno della fabbrica e non è esclusivamente legato al contenuto tecnologico. Rispetto al prezzo del prodotto “standard” (determinato in genere da produzioni seriali che sempre più spesso incorporano anche vantaggi di costo propri di queste aree) le medie imprese riescono, infatti, a spuntare un prezzo più alto del 19%, avvicinandosi significativamente allo stesso prodotto di fascia alta, per il quale il differenziale di prezzo è valutato pari al +31%. Questo premium price è reso possibile dal prevalere delle economie di specializzazione su quelle di scala, dalla domanda tendenzialmente inelastica dei loro tipici “prodotti di punta” (“unici” e riconoscibili all’interno di specifiche nicchie di mercato), nonché dalla particolare attenzione alle esigenze del cliente (prodotto “su misura”) e al livello qualitativo dell’offerta. 26 Quanto più, dunque, rilevano le politiche di marchio e si accorcia la catena produzione- consumo, tanto più il prezzo spuntato dalle medie imprese si avvicina a quello “dell’eccellenza”. Le medie imprese del Nord-Est conseguono un premium price superiore alla media nazionale (+22%) e riescono ad avvicinarsi di più allo stesso prodotto di fascia alta, per il quale il differenziale di prezzo è valutato pari al +34%. La qualità intrinseca del prodotto rappresenta, evidentemente, la pre-condizione per competere nelle nicchie di mercato tipiche del Made in Italy e, quindi, il fattore critico di successo sul quale le medie imprese hanno già da tempo investito e che, in molti casi, ha rappresentato un elemento determinante per rendere possibile il loro passaggio dalla piccola dimensione. Accanto a questo, un’altra leva strategica che la gran parte delle aziende ha voluto attivare è costituita dallo sviluppo di attività di assistenza alla clientela. Se qualità e assistenza sono, dunque, fattori importanti per la determinazione del premium price sul quale le medie imprese appaiono ben posizionate e il prodotto “su misura” sembra essere un obiettivo di investimento alla portata della maggior parte di esse, più marcato si presenta invece il gap su altri fattori immateriali quali il valore del marchio aziendale, il design e il legame con lo stile di vita. Attraverso questi ultimi, le medie imprese possono migliorare ulteriormente il posizionamento competitivo e mirare a conseguire la leadership nei segmenti più alti del mercato, come un certo numero di loro ha già dimostrato di saper fare. Ogni media impresa è servita mediamente da 244 fornitori di materie prime, semilavorati e servizi (ad esclusione di quelli amministrativi), 51 dei quali legati a rapporti contrattuali su base pluriennale e altri 53 considerati come fornitori “stabili”, con cui esistono rapporti di tipo fiduciario. I primi concentrano il 39% degli acquisti totali e i secondi addirittura il 53%, a conferma della solidità e dello spessore delle filiere guidate dalle medie imprese. Tali fornitori sono rappresentati in primo luogo da quelle piccole imprese e da quel pulviscolo di unità artigianali che, agganciandosi alle filiere produttive, alimentano i distretti e le piattaforme produttive del Made in Italy. Nel complesso, i fornitori risultano essere più numerosi (270) nelle aree di piccola impresa diffusa nel Nord-Est, mentre diminuiscono in misura decisiva nel caso delle medie imprese italiane non legate a specifici distretti industriali (221 fornitori in media). Viene quindi confermata la maggiore consistenza e la più articolata struttura delle filiere che intersecano e caratterizzano i territori dove è ancora forte una tradizione – e un’organizzazione – produttiva: per le medie imprese operanti nei distretti il riferimento al mercato di approvvigionamento “di prossimità” (inteso come quello della provincia di appartenenza) è privilegiato nel 33% di casi, contro il 23% di quelle non distrettuali. Al contempo, gli anelli a monte della filiera solo in minima parte (l’8% del totale) si estendono al di là dei confini nazionali; in generale, la maggioranza dichiara di avere prevalentemente (81%) o esclusivamente (18%) fornitori in Italia, contro solo l’1% che dichiara di approvvigionarsi di beni e servizi soltanto all’estero. Se la media impresa sembra, dunque, avere la produzione ben piantata sul territorio nazionale – e, in particolare, nelle province di origine – il suo mercato è invece sempre più internazionale, come dimostra la concentrazione del 18% dei propri clienti (1.155 in media per ciascuna azienda) al di fuori dei confini italiani. Per produrre è dunque ancora centrale il radicamento territoriale, ma per commercializzare si va nel mondo, come dimostra la quota elevata (91%) di imprese che ha clienti (anche o solo) all’estero. Il territorio si dimostra quindi essere ancora un vero valore aggiunto e un fattore di competizione efficace, per le medie imprese e per tutte le diverse componenti aziendali delle filiere “integrate” 27 da loro guidate (in particolar modo quelle che intercettano le aree distrettuali): la cultura e i saperi del “luogo” sono quello che distingue le loro produzioni e, più in generale, l’immagine del nostro Paese, e che non può essere clonato. I territori di media impresa sono peraltro quelli che trainano lo sviluppo del Paese. 27 province italiane (concentrate in Lombardia, Piemonte orientale, Triveneto, Emilia Romagna) sono caratterizzate da un modello produttivo a presenza prevalente di medie imprese: all’insieme di queste aree fa riferimento il 37% del valore aggiunto industriale e il 42% dell’export. 5. Turismo e Cultura: le potenzialità da sfruttare Il legame al territorio rappresenta un importantissimo asset competitivo non solo per le produzioni del Made in Italy ma anche per il nostro turismo. Il movimento turistico in Italia presenta un trend complessivamente positivo: è aumentato del 23,9% tra il 1995 e il 2005, per un incremento medio annuo del 2,2%. In particolare, gli stranieri determinavano nel 1995 (con 113 milioni di presenze) il 39,4% dell’intero movimento turistico rilevato in Italia, mentre nel 2005 (con 148,3 milioni di presenze) ne determinano il 41,8%. Il confronto con l’anno 2005, consente di rilevare un aumento del 31,2% delle presenze straniere (pari ad un tasso medio annuo di circa il 2,8%), mentre per il movimento dei turisti nazionali all’interno del territorio italiano l’aumento è stato del 19,2%, con un tasso di crescita medio di circa l’1,8% . Gli ospiti stranieri dovrebbero arrivare a superare la cifra record di 30 milioni a fine 2006 (con una conseguente crescita del + 6,6% rispetto all’anno precedente), contabilizzando inoltre una spesa per consumi turistici nel nostro Paese pari a 27.456 milioni di euro nel periodo gennaio- ottobre 2006. Il tasso di incremento del movimento internazionale in Italia è ovviamente minore di quello medio rilevato a livello mondiale, per le forte variazioni determinate dai Paesi new comers. Tutti i Paesi a turismo maturo, come Francia, Regno Unito, Germania e la stessa Spagna, mediamente presentano tassi di sviluppo inferiori. Italia, Francia e Spagna (con un’incidenza del PIL del turismo e del relativo indotto pari rispettivamente all11%, all’8% e all’11%) sono destinate a vedere ulteriormente ridotta la loro quota mondiale di turismo internazionale, ma tale fatto va ben interpretato. Più che l’aumento della quota relativa di turismo appare infatti importante perseguire una aumento continuo della movimentazione. Mantenere un tasso di incremento del turismo internazionale in Italia intorno al 2,5-3%, ed uno complessivo intorno al 2%, sarebbe sufficiente per assicurare un forte sviluppo, anche se il tasso di crescita del turismo internazionale aumentasse, come accadrà, in una misura considerevolmente superiore. In realtà, i dati nazionali sono sempre il risultato di una sintesi che vede diversi comportamenti nei singoli turismi e nei diversi territori. Con riferimento ai turisti stranieri in Italia, ad esempio, nel decennio 1995-2005 si è verificato l’effetto sostituzione dei tedeschi con altre nazionalità, in particolare con riferimento al comparto alberghiero. Considerando le prime quindici nazionalità presenti in Italia nel 1995, solo tedeschi ed austriaci diminuiscono le loro presenze in valori assoluti, rispettivamente del 2,5% e del 2,6%. Tutte le altre prime quindici nazionalità aumentano anche considerevolmente le loro presenze: gli olandesi del 114,3%, i danesi del 109,8%, gli spagnoli del 99,1%, gli inglesi dell’86,1%, gli statunitensi, che fino al 2001 28 mostravano il maggiore incremento, del 66,2%, gli svedesi del 61,9%. Gli aumenti rilevati per Polonia, Russia, Repubblica Ceca mostrano tassi notevoli dovuti ai bassi valori assoluti di partenza. In forte aumento sono anche le quote di cinesi ed indiani, ma con una incidenza ancora minore. Nel 1995 i primi tre Paesi esteri di origine coprivano, in termini di presenze, il 53,5% del mercato estero in Italia e i primi cinque Paesi ne determinavano il 65,6%. Dieci anni dopo, i primi tre Paesi identificano “solo” il 46,3% della componente estera in Italia, mentre con riferimento ai primi cinque Paesi la percentuale di incidenza è scesa al 58,2%. Infine, considerando la distribuzione delle presenze fra i vari mesi dell’anno, si può osservare che se nel 1987 il 67,2% delle presenze straniere si addensava nel quadrimestre giugno- settembre (e, in particolare, il 39,8% a luglio ed agosto), nel 2004 si concentra nei quattro mesi centrali “solo” il 56,8% del movimento (31,9% a luglio e agosto). Considerando il trend del lungo periodo si è verificato, dunque, un fenomeno che negli anni Settanta e Ottanta veniva auspicato: la maggiore diversificazione del mercato, che allora si riteneva troppo dipendente dalla componente tedesca e troppo concentrato nel periodo estivo. Un fenomeno decisamente considerevole dell’ultimo decennio (che peraltro aveva cominciato a manifestarsi già nel decennio precedente) riguarda poi la forte diminuzione della motivazione balneare del movimento estero, associato al forte aumento di altre motivazioni, in primo luogo quella d’arte e culturale, ma anche di quella ambientale, degli eventi e di altre che possono essere definite esperenziali, come ricerca e fruizioni di soggiorni autentici, magari associati a forme di ricettività diffusa. I turisti inglesi, statunitensi, francesi, spagnoli e giapponesi scelgono l’Italia prevalentemente per motivazioni d’arte e culturale e, in subordine, per lo shopping. Continuano a frequentare le nostre coste, anche se in misura sempre minore, i tedeschi (in particolare laghi e spiagge del Nord-Est) e le altre provenienze centroeuropee, mentre negli anni più recenti si è verificato forte aumento nelle provenienze dai Paesi dell’Europa orientale, in particolare dalla Russia. Per olandesi, austriaci, svizzeri, danesi e anche per i tedeschi assume rilievo la componente ambientale, con le sue varie nicchie di mercato che combinano più motivazioni. La perdita di competitività del turismo balneare tradizionale per la componente estera si manifesta per il macrosegmento del mass-market, molto influenzato dalla componente prezzo e dalla combinazione aereo-soggiorno. Il nostro Paese, ed in particolare il Mezzogiorno, si sta organizzando con ritardo rispetto a questo mercato fondato sui voli a basso costo (low cost o charter) point to point e su una organizzazione territoriale funzionale nel raggio di una cinquantina di km dal punto di arrivo. Tuttavia, si può osservare che anche il mercato balneare è ormai articolato in diverse segmentazioni relativamente autonome e che, fra queste, la crisi si manifesta per la parte che può essere definita più tradizionale, quella del puro soggiorno in località marine, mentre la nautica da diporto, le crociere (per le quali l’Italia è la destinazione principale del Mediterraneo), il charter nautico, la pesca subacquea e tutte le altre fruizioni esperenziali di nicchia sono in forte sviluppo. Dal punto di vista dei territori, un punto di debolezza strutturale è rappresentato dal Mezzogiorno, che riesce a raccogliere solo il 13% circa degli arrivi e poco più del 14% delle presenze della componente estera, peraltro localizzata in netta prevalenza in alcuni poli come il Golfo di Napoli e Taormina. L’importanza del Patrimonio Culturale come generatore di ricchezza è nota nel nostro Paese. I 65 milioni di visitatori stranieri annui nei nostri poli turistici di offerta culturale, i due milioni di posti letto organizzati in circa 35.000 strutture di accoglienza e gli oltre 14 milioni di Beni artistici 29 noti (4.100 musei, 110.000 tra chiese e abbazie, 20.000 centri storici) fanno dell’Italia un vertice dell’economia turistica e culturale mondiale. L’Istituto Guglielmo Tagliacarne, su richiesta del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ha recentemente realizzato un’indagine per stimare il valore aggiunto e l’occupazione assorbita dai diversi settori che concorrono a formare la filiera turistica. La stima ottenuta a livello nazionale – scorporando per una migliore lettura e confronto la componente della ricettività turistica e dell’accoglienza – conduce a un dato pari al 6,6% di contributo delle attività potenzialmente collegate al patrimonio culturale/ambientale alla formazione del valore aggiunto e al 6,9% per quanto riguarda l’occupazione presente in Italia. Valore aggiunto e occupazione delle attività potenzialmente collegate al patrimonio culturale e ambientale, per tipologia Valori assoluti e composizioni percentuali – Anno 2004 v.a. v.a. (mil.ni euro) (migl. unità) Enogastronomia, produzioni tipiche 19.469,5 23,7 1,6 474,8 28,5 2,0 Produzioni di natura industriale e artigiana 12.631,2 15,4 1,0 271,6 16,3 1,1 Industria culturale (editoria, audiovisivi, multimediale) 11.924,4 14,5 1,0 262,3 15,7 1,1 Beni e attività culturali 10.184,3 12,4 0,8 259,0 15,5 1,1 Servizi di trasporto e mobilità sul territorio 27.826,9 33,9 2,2 400,4 24,0 1,7 Totale 82.036,2 100,0 6,6 1.668,1 100,0 6,9 Tipologie Valore aggiunto Occupazione contr. % sul totale valore aggiunto contr. % sul totale occupazione % su tot. % su tot. Fonte: stime Istituto Guglielmo Tagliacarne 6. I consumi e le tendenze evidenziate dalle imprese del commercio La ripresa economica che ha caratterizzato l’anno da poco trascorso non ha mancato di far sentire alcuni effetti positivi sulle componenti interne della domanda, come dimostrano l’andamento della spesa per investimenti e quello dei consumi. La spesa per consumi (comprendendo sia quella delle famiglie residenti, sia quella dei turisti) è tornata a viaggiare a ritmi sostenuti nel 2006 (+1,6%, dopo lo scarno +0,5% dell’anno precedente), in particolare nelle regioni centro-settentrionali: Nord-Ovest e, soprattutto, Nord- Est hanno sperimentato un più elevato incremento del tasso di variazione rispetto al 2005, mentre il Centro ha visto l’accentuarsi di una dinamica positiva che già in passato l’aveva distinto in confronto alle altre aree del Paese. Dal canto suo, il Mezzogiorno fa rilevare una variazione sì positiva ma non certo all’altezza di quanto avvenuto altrove. 30 Variazioni percentuali della spesa per consumi nelle regioni italiane Tassi di var. % su valori concatenati (anno di riferimento 2000) – Anni 2005 e 2006 -0,1 0,4 0,5 0,2 0,4 0,0 0,9 0,3 0,9 -0,3 0,7 0,8 -0,4 -0,5 0,2 0,6 0,6 -0,3 0,5 0,8 0,4 0,3 0,8 0,3 0,5 1,5 1,5 1,8 2,1 2,2 2,4 1,5 2,1 2,0 1,9 2,0 1,7 1,4 1,3 0,6 0,9 0,7 1,1 1,2 1,3 1,7 2,2 1,9 1,0 1,6 -1,0 -0,5 0,0 0,5 1,0 1,5 2,0 2,5 3,0 Pi em on te Va l d 'A os ta Lo m ba rd ia Tr en ti no A lt o Ad ig e Ve ne to Fr iu li Ve ne zi a G iu lia Li gu ri a Em ili a Ro m ag na To sc an a U m br ia M ar ch e La zi o Ab ru zz o M ol is e Ca m pa ni a Pu gl ia Ba si lic at a Ca la br ia Si ci lia Sa rd eg na N or d- O ve st N or d- Es t Ce nt ro M ez zo gi or no It al ia 2005 2006 (1) Spesa delle famiglie residenti e spesa in Italia dei non residenti Fonte: Unioncamere-Prometeia, Scenari di sviluppo delle economie locali italiane (maggio 2007) Nel confronto con i nostri maggior partner, l’Italia fa un po’ meglio in relazione all’andamento dei consumi in Germania ma si mantiene ancora al di sotto dell’andamento complessivamente rilevato nei Paesi dell’area euro. Inoltre, la crescita di tale componente risulta maggiormente positiva, una volta considerate le peculiarità del 2006, anno di significativo aumento della pressione fiscale e di forti pressioni sul versante dell’inflazione importata, almeno sin dai mesi estivi. Il risveglio dei consumi è riconducile al buon andamento di alcuni fattori che concorrono alla determinazione del reddito disponibile. In effetti, l’occupazione ha ritrovato vivacità e le retribuzioni reali pro capite hanno accelerato la propria dinamica all’inizio del 2005. Inoltre, un altro elemento da tenere in considerazione è il recupero del potere d’acquisto dei consumatori. In base alle informazioni rielaborate dal Centro Studi Unioncamere su dati Nielsen (disaggregate anche per numero di componenti, area geografica e tipologia distributiva), le famiglie di due componenti vedono una ripresa significativa dei loro consumi (+3%, senza particolari differenze fra food e non food), con un’accentuazione nell’Italia Centrale e nella tipologia dei discount. Una dinamica molto più contenuta ha invece interessato i consumi delle famiglie monocomponenti (+0,9%), dove tuttavia il dato di sintesi nasconde al proprio interno una ancora più forte contrapposizione fra giovani single ed anziani che vivono da soli. Naturalmente per i primi non si colgono segnali negativi (+13,2% nel 2006), ma – anzi – aumenti di spesa non trascurabili sia nel comparto alimentare che in quello non food. La flessione è invece sensibile per le persone non più giovani (-5,1%), anche se tende a rallentare rispetto all’anno precedente (era -13,4% nel 2005). Gli indicatori qualitativi disponibili per il primo trimestre del 2007 forniscono, nel complesso, segnali positivi circa l’andamento dei consumi. Le famiglie si mantengono ottimiste riguardo alle 31 prospettive occupazionali e, del resto, anche le attese delle imprese (sia manifatturiere che di servizi) circa la domanda di lavoro sono in miglioramento. Il quadro generale appare dunque favorevole. Nonostante il miglioramento congiunturale che ha dato supporto alla spesa per consumi delle famiglie, il processo di rinnovamento dei canali distributivi ha continuato a condizionare il giro d’affari degli esercizi commerciali tradizionali, che subiscono la forte concorrenza delle superfici di tipo moderno e delle nuove forme commerciali sui loro mercati di riferimento. Tuttavia, pur se le vendite dei formati specializzati subiscono anche nel 2006 delle flessioni, esse sono di entità più che dimezzata rispetto a quelle dell’anno precedente. Lo specializzato non alimentare è quello che recupera maggiormente, passando dal –1,3% medio annuo del 2005 al –0,4% nel 2006, mentre lo specializzato alimentare si assesta al –0,6%. La maggior tenuta di questi formati risulta peraltro del tutto evidente dal confronto con il triennio precedente. Anche i punti vendita della distribuzione despecializzata (ipermercati, supermercati e grandi magazzini) forniscono un contributo all’accelerazione del fatturato complessivo della distribuzione. Le vendite veicolate da questo formato distributivo non hanno subito negli anni scorsi delle flessioni ma solo, a fronte di una fase poco favorevole della congiuntura italiana, una secca decelerazione della dinamica del giro d’affari. Anche qui il 2006 segna invece un’inversione di tendenza, per cui il valore delle vendite del canale moderno torna ad accelerare di oltre un punto percentuale, dal 2,2% del 2005 al 3,4% del 2006. La dimensione aziendale rappresenta sempre più un fattore discriminante per l’andamento del giro d’affari. Performance positive sono ascrivibili solo ai punti vendita di grandi dimensioni (caratterizzate da un numero di addetti superiore ai 20), mentre per le medie e piccole imprese (rispettivamente fino a 5 addetti e addetti compresi tra i 6 e i 19) si profila ancora un trend negativo. La ristrutturazione del settore commercio va ormai verso il suo completamento: la riforma del commercio ha dato i suoi frutti e ora il settore sembra assestarsi. L’incremento netto delle imprese nel 2006 è del +1,3%, con differenze in base alla tipologia (specializzato alimentare – 1,4, specializzato non alimentare +1,5, despecializzato +4,1%). 7. La presenza straniera in Italia e il ruolo degli immigrati nello sviluppo economico Bisogna prestare particolare attenzione al ruolo dell’immigrazione nella demografia imprenditoriale. L’analisi condotta da Unioncamere registra il raddoppio, nei primi cinque anni del decennio, del numero di titolari d’impresa nati all’estero: nel 2005 ha superato le 200mila unità (contro le 105mila del 2001) e nel 2006 ha sfiorato le 230mila, facendo degli immigrati l’attore fondamentale per la tenuta della piccola dimensione produttiva: senza l’apporto degli immigrati, infatti, il numero delle microimprese avrebbe subito, negli ultimi anni, una perdita secca di 23.366 unità. Gli imprenditori stranieri operano per lo più nel commercio (quasi 95mila), nel settore edile (68mila), nel manifatturiero (25mila) e nei trasporti (11mila). Il Marocco guida la classifica dei titolari di imprese individuali (con quasi 40mila aziende), sopravanzando di gran lunga cinesi (26mila), albanesi (20mila) e romeni (17mila). 32 Imprese individuali con titolare di nazionalità extra-comunitaria alla nascita Anni 2001-2006 Anni Imprese Saldo Contributo % al saldo totale Tasso di crescita 2001 105.541 20.499 19,24% 24,10% 2002 125.461 19.920 22,78% 18,87% 2003 146.571 21.110 24,95% 16,83% 2004 174.933 28.362 27,02% 19,35% 2005 202.013 24.216 25,05% 13,62% 2006 227.524 25.184 34,34% 12,63% Fonte: Unioncamere Effettivamente nel corso degli ultimi quindici anni l’Italia, da fanalino di coda tra i maggiori Paesi europei quanto a incidenza dell’immigrazione sulle forze di lavoro e sugli occupati, si è trasformata in uno straordinario polo d’attrazione per le labour migrations. Secondo alcune fonti l’Italia sarebbe oggi il secondo paese nel mondo in termini di attrazione di immigrati, preceduto soltanto dagli Stati Uniti d’America, una nazione che proprio sull’immigrazione ha edificato la sua storia e la sua identità collettiva. Addirittura, una volta rapportato al peso delle rispettive popolazioni, l’entità dei flussi in ingresso indurrebbe a stimare l’intensità del fenomeno migratorio in Italia superiore a quella americana. Il contributo degli immigrati all’economia del Paese è attestato dal loro apporto alla creazione di valore aggiunto. Secondo una stima originale elaborata dal Centro Studi Unioncamere e dall’Istituto Guglielmo Tagliacarne, tale apporto è pari all’8,8% a livello nazionale ma supera il 10% nelle principali regioni d’inserimento: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. L’elaborazione conferma altresì come le ripartizioni territoriali del Nord - che già si distinguono per la loro capacità attrattiva nei confronti dell’immigrazione - sono anche quelle che ne mettono maggiormente a frutto il potenziale: ciò vale in particolare per il Nord-Ovest, il cui contributo al prodotto interno lordo derivante dal lavoro degli immigrati sfiora il 40% del totale nazionale. A livello settoriale, è l’edilizia a far rilevare il contributo più elevato (18,3%) degli immigrati alla creazione del valore aggiunto. Anche se i servizi concentrano poco meno del 60% del “PIL dell’immigrazione”, a questa componente lavorativa è riconducibile una quota pari al 7,3% del valore aggiunto generato dalle attività terziarie in Italia, probabilmente per la più limitata presenza di occupati stranieri nei servizi avanzati. 33 Valore aggiunto derivante dall’attività di occupati stranieri per regione In milioni di euro – Anno 2005 Valore aggiunto % su totale val. agg. dell’immigrazione in Italia % val. agg. immigrato su val. agg. totale dell’area Piemonte 9.977,0 9,0 9,7 Valle d’Aosta 223,3 0,2 7,0 Lombardia 28.911,7 26,0 10,7 Trentino Alto Adige 2.118,9 1,9 8,0 Veneto 12.860,4 11,6 10,8 Friuli Venezia Giulia 2.824,7 2,5 9,7 Liguria 3.038,4 2,7 8,5 Emilia Romagna 11.807,9 10,6 10,8 Toscana 8.240,4 7,4 9,7 Umbria 1.901,9 1,7 10,8 Marche 3.231,2 2,9 9,8 Lazio 14.046,4 12,6 9,9 Abruzzo 1.147,9 1,0 5,1 Molise 70,4 0,1 1,4 Campania 3.622,6 3,3 4,6 Puglia 1.949,1 1,8 3,4 Basilicata 116,9 0,1 1,3 Calabria 1.369,4 1,2 4,9 Sicilia 3.031,4 2,7 4,3 Sardegna 802,8 0,7 2,9 Nord-Ovest 42.150,4 37,9 10,2 Nord-Est 29.611,9 26,6 10,4 Centro 27.419,9 24,6 9,9 Mezzogiorno 12.110,3 10,9 4,0 Totale Italia 111.292,4 100,0 8,8 Fonte: stime Centro Studi Unioncamere – Istituto Guglielmo Tagliacarne D’altra parte, i più qualificati centri studi specializzati documentano una presenza di immigrati in Italia ormai avviata a raggiungere i 4milioni. Si tratta di una popolazione giovane, nel cui ambito cresce la componente dei minorenni (per effetto dei ricongiungimenti familiari e delle nascite) e che offre un contributo alla crescita demografica anche attraverso i nuovi nati, che già nel 2005 superavano i 50mila all’anno. Una proiezione riferita all’immediato futuro consente inoltre di stimare, nei prossimi 10 anni, un’ulteriore sostenuta crescita della popolazione straniera residente (pari al 120% nell’ipotesi di minima e addirittura al 180% in quella di massima), con una parallela riduzione del peso della fascia d’età più produttiva, quella dei 25-44enni, e un incremento di quella più matura: nel 2015, ci saranno in Italia oltre 250mila immigrati in pensione. Alla luce di questi trend, si spiega come l’ingresso della manodopera immigrata costituisca il principale fattore di trasformazione del mercato del lavoro italiano degli ultimi vent’anni. Ad assorbire il lavoro immigrato sono in primo luogo i servizi, dove risultano occupati 57 immigrati su 100 e addirittura 84 donne immigrate ogni 100 occupate. Tuttavia, se al manifatturiero (27%) sommiamo l’edilizia (28%), il totale dell’industria arriva ad avere un peso in termini occupazionali superiore allo stesso terziario. L’occupazione agricola ha invece un’incidenza trascurabile, sia per i maschi (4,4%), sia per le femmine (1,8%), ma nelle regioni meridionali arriva a coprire il 10% degli occupati. Osserviamo infine che oltre l’80% degli occupati nell’industria in senso stretto risiede in una regione del Nord. 34 Accanto alla crescita ininterrotta del numero di stranieri occupati, va segnalato come l’incidenza delle assunzioni di immigrati sui nuovi reclutamenti è superiore al loro peso sulle forze di lavoro e sugli occupati: esse coprono una quota compresa tra il 15,2% (stima di minima) e il 23,3% (stima di massima) delle assunzioni programmate dalle imprese e monitorate da Unioncamere attraverso il Sistema Informativo Excelsior. D’altro canto, l’interesse delle imprese nei confronti del lavoro immigrato è attestato dall’alta quota di ingressi in azienda che richiedono un’ulteriore formazione, pari addirittura ai tre quarti delle assunzioni programmate. Ancorché prevalentemente assorbite dai profili operai o comunque a bassa qualificazione, le assunzioni di stranieri coprono spesso ruoli cruciali per l’operatività aziendale; ciò vale in particolare per il comparto industriale dove oltre la metà delle assunzioni programmate di immigrati riguarda operai specializzati. Assunzioni di personale immigrato programmate dalle imprese per il 2006, per grandi gruppi professionali Incidenza % sul totale delle assunzioni di immigrati nei principali settori di inserimento Personale non qualificato Professioni delle vendite e servizi Operai specializzati Conduttori d’impianti TOTALE INDUSTRIA 14,9 1,3 51,1 28,6 TOTALE SERVIZI 41,0 37,8 2,8 7,1 Costruzioni 24,6 -- 64,7 8,2 Servizi operativi 91,5 1,1 1,8 3,4 Industrie dei metalli 4,8 -- 63,3 30,0 Trasporti e att. Postali 58,8 1,4 0,7 32,1 Servizi sanitari 7,6 63,6 0,1 0,2 Commercio al dettaglio 9,1 76,6 6,3 2,8 Alberghi, rist., turismo 16,0 79,8 0,8 0,1 Fonte: Unioncamere – Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2006 Tutti i dati, e in particolare quelli emersi dagli studi di Unioncamere, sembrano quindi essere concordi nel delineare per il mercato del lavoro italiano un futuro all’insegna di una sempre maggiore eterogeneità dal punto di vista della composizione etnica degli attivi e degli occupati. I processi d’inserimento del lavoro immigrato evidenziano tuttavia luci ed ombre. Tassi di attività e di occupazione superiori a quelli complessivi, capacità di ampliare gli sbocchi lavorativi e di consolidare nel tempo il proprio status occupazionale, una sostenuta propensione all’avvio di iniziative imprenditoriali ma anche, sull’altro fronte, irregolarità di una componente significativa del lavoro immigrato (l’occupazione sommersa incide complessivamente per il 18%, con picchi ancora più alti nel Mezzogiorno), segregazione occupazionale, elevata incidenza di infortuni sul lavoro, scarsa attenzione per la valorizzazione dei capitali umani e formativi, un rischio di disoccupazione più pronunciato che per il complesso degli attivi (lo scarto del tasso di disoccupazione rispetto a quello riferito alla popolazione complessiva è pari a 3,6 punti percentuali nel caso dei maschi e a 4,6 per le femmine), anche se limitato per lo più agli immigrati irregolari e clandestini. Inoltre - nonostante i ripetuti tentativi di istituzionalizzazione delle procedure di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro immigrato - spontaneismo, logiche particolaristiche e occupazione sommersa diffusa restano caratteri costanti del mercato del lavoro italiano. Di qui la persistente attualità della questione dei dispositivi di governo delle labour migrations. A tal proposito, il dibattito in corso nel Paese registra un notevole interesse per due differenti soluzioni. Entrambe meritano di essere valutate con molta attenzione, perché indicano la ricerca di procedure più in linea con le richieste del sistema economico e con le modalità 35 effettive attraverso le quali si realizza l’incontro tra domanda e offerta di lavoro immigrato. Ma entrambe presentano anche degli elementi di problematicità, che dovrebbero essere tenuti in considerazione e che implicano interventi collaterali a un’eventuale modifica del quadro giuridico che regola le labour migrations. La prima soluzione, maggiormente coerente con i fabbisogni espressi dal comparto industriale – dove la richiesta riguarda soprattutto figure con una specifica professionalità operaia – prevede il lancio di programmi per la formazione e la selezione all’estero dei candidati alla migrazione, sulla falsariga di alcune iniziative già sperimentate negli anni passati. Si tratta di una soluzione contemplata anche dalla stessa Commissione europea nel suo Piano d’azione sull’immigrazione legale. Sui motivi che la rendono vantaggiosa non è neppure il caso di soffermarsi, essendo autoevidenti. La sua adozione suscita, tuttavia, anche una serie di problemi che vanno affrontati e risolti: non sempre è praticabile in alcuni dei circa 200 paesi dai quali provengono gli immigrati diretti verso l’Italia; ha costi economici non marginali; rischia scarse ricadute per le economie dei paesi d’origine (al di là dell’auspicio che i migranti formati prima o poi vi ritornino per reinvestire i propri risparmi e competenze). Ma, soprattutto, occorre tener presente il fatto che, assai spesso, le imprese preferiscono orientare le proprie strategie di reclutamento verso l’offerta già presente in misura copiosa sul territorio italiano e coinvolta in processi di mobilità interaziendale. Anche alla luce di tali considerazioni sembrerebbe opportuno che questa opzione sia perseguita ove possibile; ma sarà opportuno che le risorse economiche disponibili siano indirizzate – oltre che a formare all’estero potenziale forza lavoro immigrata - anche a rafforzare l’offerta di formazione in Italia, per accrescere l’occupabilità dei lavoratori (stranieri e non solo) disoccupati e prefigurare percorsi di mobilità professionale per coloro che hanno maturato la scelta di un insediamento definitivo nel nostro Paese. La seconda soluzione, tendenzialmente più in linea con le esigenze del terziario – dove la domanda si addensa su figure a bassa o nulla qualificazione – si basa sulla sperimentazione di dispositivi “flessibili” per garantire l’approvvigionamento di lavoratori da impiegare nei low profiles jobs, contenendo al contempo la pressione migratoria irregolare. Con le debite distinzioni, anche la domanda espressa dalle famiglie, date le sue specificità, potrebbe trovare risposta in questo tipo di canale, che permette di entrare in contatto col lavoratore o la lavoratrice prima di formalizzare l’assunzione. Questa soluzione presenta però il rischio che, entro un mercato del lavoro che difetta di controlli e in cui sono al contrario andate moltiplicandosi pratiche illegali o ai confini della legalità (come i sistemi di caporalato, o un utilizzo improprio delle cooperative come strumento per comprimere i costi del lavoro), un ulteriore afflusso di manodopera altamente adattabile rafforzi la precarizzazione del lavoro immigrato. Con la conseguenza, assolutamente da non sottovalutare, di rendere gli immigrati una presenza concorrenziale per le fasce più deboli dell’offerta autoctona, quelle maggiormente esposte al rischio di subire un effetto di spiazzamento. Indizi di questo rischio sono già presenti nel nostro mercato del lavoro, segnatamente nelle regioni meno dinamiche dal punto di vista occupazionale. Tutto ciò significa che il ricorso a manodopera straniera dovrebbe essere accompagnato, se si vogliono evitare conseguenze dannose per la tenuta dei diritti dei lavoratori, da un’azione di vigilanza e controllo del mercato del lavoro e di recupero della legalità a tutti i livelli. Altrettanto indispensabile è poi la promozione di politiche che abbiano davvero l’obiettivo di manutenzione delle competenze e di accrescimento dell’occupabilità di tutti i lavoratori, a partire da quelli più deboli – che per livello di qualifica, età o storia professionale rischiano l’esclusione – e di controllo delle condizioni di lavoro, contrastando quelle tendenze negative che spesso vanno di pari passo con la “etnicizzazione” di alcuni mestieri. Vi è un ultimo punto da sottolineare. I fabbisogni professionali devono ovviamente costituire un criterio cardine sul quale impostare una politica di governo delle labour migrations. Ciò è quanto 36 si aspettano le imprese che ormai vedono nell’immigrazione una risorsa fondamentale, ma è anche quanto si aspetta la maggioranza degli italiani, per la quale il lavoro costituisce il criterio per eccellenza di legittimazione della presenza di soggetti stranieri sul territorio della nazione. In definitiva, rendere più efficace il governo dei flussi e contrastare gli aspetti problematici dei processi d’incorporazione economica dei migranti è una sfida quanto mai complessa, che richiede interventi a livelli diversi, da quello legislativo a quello amministrativo; da quello inerente alle politiche aziendali di gestione delle risorse umane a quello relativo alle culture del lavoro e della legalità. Certo è che gli orientamenti della domanda di lavoro, così come emergono dalle previsioni di assunzione formulate dalle imprese, rappresentano una variabile strategica, che oltre a essere attentamente monitorata e interpretata, dovrebbe essere a sua volta “orientata”. Nella consapevolezza che le politiche migratorie e per gli immigrati non sono soltanto soluzioni tecniche più o meno efficaci ed efficienti, ma anche componenti fondamentali di un modello competitivo e di un modello di convivenza. 8. Produttività e politiche salariali Una parte delle difficoltà competitive del nostro Paese nella prima metà di questo decennio è ascrivibile alla sostanziale stagnazione della produttività, mentre sul fronte dei salari si è riusciti a mantenere un profilo abbastanza equilibrato. Con riferimento all’intero periodo 2000-2006, la dinamica della produttività del lavoro ha mostrato un trend sostanzialmente piatto, toccando valori addirittura negativi tra il 2002 e il 2003. Il livello della produttività in Italia (misurata in termini di PIL per ora lavorata, a prezzi costanti e a parità di potere d’acquisto) si è pertanto attestato in questi ultimi anni su valori più contenuti rispetto ai nostri principali competitors: nel 2006 ha sfiorato i 29 US$, contro i 22 della Spagna e i 26 del Giappone, ma a fronte degli oltre 29 della Germania, dei 30 del Regno Unito e dei 36 degli Stati Uniti e della Francia. Confronto internazionale dei livelli della produttività per ora lavorata1 dal 1989 al 2006 15,0 20,0 25,0 30,0 35,0 40,0 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Francia Germania Italia Spagna Regno Unito Stati Uniti Giappone (1) La produttività è misurata rapportando il PIL al totale delle ore lavorate ed è espressa a prezzi costanti (US$ al 1990) e a parità di potere d’acquisto. Fonte: elaborazioni Centro Studi Unioncamere su dati Groningen Growth and Development Centre 37 Stando ai più recenti dati statistici diffusi da Eurostat, i livelli dei salari italiani (al lordo delle tasse e dei contributi) si posizionano al quart’ultimo posto nella graduatoria dei Paesi europei, mentre i salari netti sono superiori solo a quelli portoghesi. La spiegazione di quest’ultimo fenomeno sta principalmente, secondo molti commentatori, in due fattori: il primo è rappresentato dall’elevato cuneo fiscale e il secondo dalla scarsa crescita delle retribuzioni reali che si è avuta nel corso di questi ultimi anni. Per quanto riguarda il cuneo fiscale, l’interpretazione appare univoca e generalmente condivisa da tutti gli analisti. Nel 2004 - prima cioè della riduzione attuata con l’ultima Legge Finanziaria - l’entità del cuneo fiscale italiano era fra i maggiori in Europa; in questa speciale classifica, il Belgio stava al primo posto, seguito dalla Svezia, dalla Germania e, al quarto posto, dall’Italia. Non vi è dubbio che le imposte dirette e i contributi previdenziali agiscano da freno alla competitività di un Paese e provochino conseguenze negative sia sulle pressioni inflazionistiche, sia sul tasso di crescita. La scarsa crescita delle retribuzioni reali nel corso di questi ultimi anni può essere invece spiegata da altri fattori analizzabili attraverso i dati di Contabilità Nazionale 2006 resi recentemente disponibili dall’Istat. I dati Istat confermano innanzitutto che le retribuzioni in Italia sono aumentate relativamente poco, certamente meno di quanto siano aumentate nella media dei Paesi Europei e anche meno di quanto siano aumentate in alcuni periodi particolarmente felici per la dinamica salariale come gli anni Settanta e Ottanta. In termini nominali, le retribuzioni unitarie, nei sette anni del periodo 2000-2006, sono aumentate in media del 3,1% all’anno ed è interessante notare che non si osservano differenze sostanziali passando da un settore produttivo all’altro. Nell’industria in senso stretto le retribuzioni sono aumentate del 3%, un po’ più che nelle costruzioni (2,6% in media annua nel periodo in esame) e un po’ meno che nei servizi (+3,2%), dove ha pesato anche la forte accelerazione delle retribuzioni del settore pubblico. Di fronte a un aumento medio del 3,1%, il costo della vita è aumentato del 2,4%, il che significa che, in termini reali, le retribuzioni medie sono aumentate di poco più di mezzo punto percentuale all’anno (+0,7%, per la precisione). L’aumento più consistente si è verificato proprio in questi due ultimi anni, il 2005 e il 2006, che hanno visto aumentare il potere di acquisto delle retribuzioni – riferite all’intera economia - di un punto percentuale all’anno. Poco più di mezzo punto percentuale all’anno non rappresenta certo un aumento eccezionale; si può anzi dire che è relativamente modesto se confrontato, come si è detto, con l’esperienza dei periodi precedenti e l’esperienza degli altri Paesi Europei. Eppure mezzo punto è un valore tutt’altro da disprezzare se si tiene presente in quali circostanze (sfavorevoli) si è verificato. Certamente è un valore superiore a quello dell‘aumento della produttività media del sistema economico italiano: nello stesso arco di sette anni, il valore aggiunto a prezzi costanti per unità di lavoro è infatti aumentato, nel nostro Paese, di solo lo 0,03% all’anno (+0,2% in sette anni), cioè di un decimo di quanto sono aumentate le retribuzioni reali. In altri termini, la produttività del lavoro è rimasta praticamente ferma in questo scorcio di secolo. Si tratta di un fenomeno ormai ben conosciuto, che diversi economisti hanno anche cercato di spiegare. Le spiegazioni che sono state offerte sono tante e diverse e nessuna da sola sembra essere sufficientemente convincente. Forse hanno operato molti fattori che hanno agito nella stessa direzione. Sta di fatto che di fronte a una performance eccezionale del mercato del lavoro, che ha segnato buoni aumenti dei tassi di occupazione e un deciso calo del tasso di disoccupazione, la scarsa dinamica del PIL reale si è tradotta in una crescita praticamente nulla del valore aggiunto per addetto. 38 A fronte di una produttività stagnante, un aumento delle retribuzioni reali di oltre mezzo punto all’anno (vale a dire più di 4 punti percentuali in sette anni) è certamente un aumento in sé modesto ma è, al contempo, un aumento significativo se confrontato con quello della produttività. E’ noto, in generale, che gli aumenti delle produttività rappresentino lo spazio naturale per gli aumenti dei salari reali. Infatti, se i salari vanno oltre quello spazio, ne consegue una diminuzione della quota dei profitti nel valore aggiunto prodotto dall’economia, a meno che non si verifichino anche variazioni delle ragioni di scambio. Di fatto si sono verificate entrambe le cose. La quota dei profitti (in senso lato, perché in realtà si tratta dei risultati lordi di gestione) è passata dal 34,7% nell’anno 2000 al 33,1% nel 2006, con una caduta quindi di circa un punto e mezzo percentuale (il che ha comportato, in modo speculare, un aumento della quota dei salari nel valore aggiunto). Ma la differenza sostanziale che si osserva nel comportamento di queste variabili macroeconomiche è fra i diversi settori dell’economia ed è relativa proprio alla quota dei risultati lordi di gestione. Questa quota è diminuita molto nel settore dell’industria in senso stretto, molto più che nel settore dei servizi. Nelle costruzioni questa quota è persino aumentata nei sette anni considerati. Le differenze nei risultati non sono tuttavia dovute a una diversa dinamica delle retribuzioni, dal momento che, come visto, queste sono aumentate più o meno allo stesso modo in tutti i grandi settori dell’economia. Né queste differenze vanno imputate alla diversa dinamica della produttività del lavoro, rimasta piatta in tutti e tre i grandi settori considerati: industria in senso stretto, costruzioni e servizi. E, sempre nel periodo 2000-2006, tutti questi grandi rami dell’economia hanno fatto rilevare un incremento medio annuo del CLUP pari a circa il 3%. Sono invece i prezzi dei beni e, più in particolare i deflatori, la variabile che si è comportata in modo diverso da settore a settore. Il deflatore del valore aggiunto è aumentato molto nelle costruzioni, abbastanza nei servizi e poco nell’industria in senso stretto. La spiegazione di questo diverso andamento è facile da trovare: con la moneta unica - e la conseguente impossibilità di adattare il cambio della moneta ai diversi tassi di inflazione - i prezzi dei prodotti esposti al commercio internazionale devono subire la dura legge della concorrenza e sono fissati dalle imprese per garantire adeguati livelli di competitività. I prezzi di gran parte dei servizi e dei prodotti protetti dalla concorrenza internazionale, invece, non subiscono gli stessi condizionamenti: e, infatti, il loro tasso di crescita è stato ben maggiore di quello dei prodotti industriali. Essi sono aumentati in media del 3% all’anno da quando è stato introdotto l’euro, più o meno in linea con l’aumento delle retribuzioni nominali. Salari e prezzi di servizi e prodotti protetti si sono rincorsi e alimentati a vicenda senza portare sostanziali vantaggi al potere di acquisto dei lavoratori. Il modesto vantaggio nelle retribuzioni è stato conseguito in un periodo (soprattutto il triennio 2000-2003) in cui si è verificata una sostanziale diminuzione del grado di competitività delle merci italiane. Il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato di circa 15 punti percentuali più che in Francia e in Germania. E’ chiaro che la causa fondamentale va trovata nella scarsa crescita della produttività del nostro sistema economico piuttosto che negli aumenti salariali: ma i fatti hanno ancora una volta dimostrato che una politica salariale svincolata dal vincolo dell’andamento della produttività porta ai lavoratori vantaggi solo apparenti. Che gli aumenti salariali, pur modesti, degli ultimi anni siano stati erosi dall’inflazione risponde come si è visto al vero. Che le imprese – come alcuni affermano - abbiano fatto molti profitti nell’ultimo triennio e questi ora vadano redistribuiti in favore soprattutto dei salari è una questione che va invece approfondita. E’ vero che molte imprese hanno fatto buoni profitti, ma 39 questo non vale per l’intera economia: le diversificazioni territoriali, settoriali (in particolar modo nei comparti industriali) e dimensionali sono numerose, come il Rapporto Unioncamere documenta. Per quanto riguarda le imprese del settore terziario, hanno fatto profitti quelle che hanno potuto muovere i prezzi al riparo della concorrenza, interna ed estera. Ma sarebbe molto pericolosa una politica salariale tesa ad inseguire questi profitti. Lo sarebbe doppiamente a livello di settore produttivo, perché nell’ambito dei settori si mescolano situazioni di bilanci economici eccellenti ad altri molto meno buoni. Ma lo è anche a livello di singola impresa, quando i profitti derivano da prezzi fissati in mercati scarsamente concorrenziali. In questi casi, l’interesse generale consiste nel ridurre i prezzi (che vanno a vantaggio di tutti i lavoratori–consumatori) e non nell’aumentare i salari dei pochi lavoratori che operano in quelle imprese. Una politica a favore della concorrenza si dimostrerebbe, quindi, essere più ”egualitaria” di una politica di spartizione delle “rendite” all’interno dei singoli settori o delle singole aziende. 9. Gli azionisti dell’Azienda Italia Continua la tendenza di lungo periodo – che ormai può essere definita strutturale – all’aumento delle società di capitali sia in valori assoluti, sia in valori relativi, a testimonianza dell’evoluzione del nostro sistema imprenditoriale verso formule più organizzate, più aperte al rischio, più attrezzate per competere. Nel 2006 si contano 1.123.000 società di capitale (300.000 in più rispetto al 2000), con una diffusione territoriale significativa. In un solo anno il loro peso, riferito allo stock complessivo delle imprese registrate, è pertanto cresciuto di quasi un punto, salendo da 18,5 a 19,3 punti percentuali. Una misura della profonda trasformazione del tessuto imprenditoriale italiano conseguente a questa tendenza emerge chiaramente se si pensa che, a fronte di ogni ditta individuale in più che ha contribuito al saldo di fine anno, nel 2006 si sono contate 31 società di capitale. A grande distanza da queste ultime, le forme giuridiche che hanno mostrato il più elevato tasso di crescita sono state le altre forme societarie (prevalentemente cooperative e consorzi), che, pur rappresentando il 3,2% delle imprese registrate, hanno determinato il 5,1% del saldo complessivo annuale. Per ricostruire un quadro completo dei percorsi evolutivi delle società italiane è stata condotta un’analisi dettagliata delle imprese con tale forma giuridica a partire dai dati dell’archivio della struttura proprietaria delle società di capitale operanti in Italia nel 2005. Ne emerge una notevole ampiezza della partecipazione all’impresa: con riferimento a 620.575 società di capitale, sono state individuate 1.849.867 quote azionarie e 1.373.945 azionisti (1.212.424 persone fisiche e 161.521 persone giuridiche). Struttura proprietaria delle società di capitale Confronto fra il 2003 e il 2005 2003 2005 Imprese partecipate 618.263 620.575 Quote azionarie 1.970.918 1.849.867 Azionisti 1.433.831 1.373.945 Fonte: Osservatorio Unioncamere sui gruppi di impresa, 2007 40 Già da questi primi dati si evince una struttura che riflette la natura imprenditoriale italiana, caratterizzata da una cultura d’impresa particolarmente diffusa e con un forte radicamento familiare. Un mix che determina un numero consistente di azionisti - più di due italiani ogni cento possiede almeno una quota in una società di capitale – e un’elevata concentrazione della proprietà delle singole società (in media, due soli azionisti per ciascuna impresa). Il moderato aumento degli azionisti persone giuridiche – nel 2005 costituivano il 12% dei titolari d’azione, un punto percentuale in più rispetto al 2003 - sembrerebbe essere determinato in parte da una maggior presenza della Pubblica Amministrazione. Nel biennio preso in esame, si assiste infatti all’entrata di quasi 1.000 nuovi azionisti riconducibili all’Amministrazione Pubblica (passano, per l’esattezza, da 6.616 a 7.535, nel 96% dei casi enti locali). Cresce anche il numero di società controllate dagli enti pubblici, dalle 2.958 del 2003 alle 3.211 del 2005. I percorsi di irrobustimento organizzativo del nostro apparato produttivo sono evidenti non solo analizzando l’evoluzione delle forme giuridiche scelte per competere sul mercato ma anche attraverso la capacità delle imprese di relazionarsi con altre unità produttive (manifatturiere o terziarie) e di alimentare in tal modo l’economia delle filiere. La logica del controllo strategico delle filiere produttive è peraltro quella che ha portato alla creazione e diffusione dei gruppi di impresa (soprattutto quelli di tipo "formale"), un fenomeno ormai consolidato all’interno del nostro tessuto economico e in grado di spiegare, tra l’altro, l’ampliamento della platea delle società di capitale sopra evidenziato. Secondo i dati dell’Osservatorio Unioncamere sui gruppi di impresa, nel 2005 26.814 società italiane risultano detenere quote di maggioranza di 44.412 imprese nazionali, alle quali occorre aggiungere le 14.297 società italiane controllate da imprese estere e le 88.178 aziende detenute da una o più persone fisiche. Complessivamente, 183.635 imprese italiane (legate da quote di maggioranza assoluta) operano all’interno di 71.287 gruppi distinti. I gruppi d’impresa in Italia Confronto fra il 2003 e il 2005 Capogruppo Di cui con capogruppo: Anno Totale Gruppi Imprese nazionali Gruppi di persone Persone singole Società estere o costituite all'estero Totale imprese italiane controllate dalle capogruppo del territorio Totale imprese in gruppo Numero medio controllate per gruppo Numero medio imprese per gruppo 2003 71.287 22.686 16.306 19.492 12.803 147.831 183.320 2,07 2,57 2005 72.302 26.814 15.231 20.323 9.934 146.887 183.635 2,03 2,54 Fonte: Osservatorio Unioncamere sui gruppi di impresa, 2007 In primo luogo, si è registrato un moderato aumento del numero dei gruppi, al quale non ha fatto tuttavia seguito un incremento nel numero delle imprese coinvolte, rimasto sostanzialmente stabile rispetto al 2003; tale fenomeno ha, quindi, comportato una leggera flessione del numero medio delle imprese in gruppo. Ancora più interessante sembra essere l’operazione di “nazionalizzazione” dei gruppi: la presenza di società estere a capo di gruppi con ramificazioni nel nostro Paese appare in netta flessione e, di conseguenza, diminuisce il relativo numero di imprese da esse partecipate. 41 In dettaglio, si contano circa tremila società estere capogruppo in meno (da 12.803 nel 2003 a 9.934 nel 2005), un processo che ha interessato tutti i settori di attività e tutte le regioni. La presenza di investitori con sede all’estero si riduce per oltre un terzo in molti comparti manifatturieri, mentre la contrazione appare più attenuata nell’industria delle costruzioni e nei servizi alle imprese. Distribuzione settoriale delle imprese partecipate nei gruppi con capogruppo all’estero Confronto fra il 2003 e il 2005 val. ass. distr. % val. ass. distr. % Agricoltura, caccia, pesca 182 1,0% 107 0,7% Alimentare 250 1,3% 152 1,1% Sistema moda 412 2,2% 266 1,9% Legno, carta, editoria 318 1,7% 239 1,7% Chimica, gomma, plastica 765 4,1% 480 3,4% Metalmeccanica 2.231 11,9% 1.455 10,2% Altre industrie 555 3,0% 323 2,3% Costruzioni 745 4,0% 620 4,3% Commercio,alberghi e ristoranti 4.543 24,3% 3.434 24,0% Trasporti, magazz. e comunicazioni 678 3,6% 548 3,8% Intermed. monetaria finanziaria 784 4,2% 608 4,2% Attività immob. Servizi avanzati alle imprese 6.114 32,7% 5.336 37,3% Altro (PA, Servizi alle persone, etc.) 1.126 6,0% 729 5,1% Totale 18.703 100,0% 14.297 100,0% 20052003 Fonte: Osservatorio Unioncamere sui gruppi di impresa, 2007 10. Efficienza e costi della pubblica amministrazione per le imprese Il rapporto tra Pubblica Amministrazione e imprese si è modificato negli ultimi anni: da un lato, infatti, è emersa una maggiore consapevolezza del fatto che l’efficienza e l’efficacia della pubblica amministrazione sia un elemento indispensabile per la competitività del sistema economico; dall’altro, è cresciuta l’esigenza di soddisfare, con modalità adeguate, la crescente domanda di servizi sempre più avanzati da parte delle imprese in Italia. Il Centro Studi Unioncamere, a tale proposito, ha condotto anche per il 2007 un’indagine per rilevare il livello di soddisfazione per i servizi resi dagli uffici della Pubblica Amministrazione più prossimi alle imprese, con modalità analoghe a quelle utilizzate per gli studi svolti negli anni precedenti sullo stesso tema. In particolare, sono stati considerati i seguenti uffici della P.A.: gli uffici periferici dell’Amministrazione finanziaria (uffici IVA e del Registro e delle Imposte dirette), gli uffici dell’INPS, gli uffici dell’INAIL, le ASL, nonché gli uffici delle Amministrazioni Regionali, Provinciali, Comunali e delle Camere di commercio. La qualità percepita dalle imprese intervistate circa i servizi utilizzati nel corso del 2006 è stata rilevata, in particolare, attraverso tre indicatori specifici: 42 - tempestività nell’assolvimento degli adempimenti amministrativi; - professionalità tecnico–amministrativa del personale pubblico nel trattamento delle pratiche; - facilità d’accesso ai servizi (sotto il punto di vista del tipo d’accoglienza, della disponibilità di informazioni preventive, della chiarezza delle procedure e della modulistica e della idoneità della documentazione richiesta). Per esporre una valutazione complessiva delle imprese sui servizi resi dalla pubblica amministrazione, si è prodotto un indicatore sintetico (da 0 a 100) in grado di tenere conto dei giudizi espressi su ciascuna delle modalità di erogazione dei servizi indicate in precedenza. Il dato relativo alla valutazione della qualità dei servizi prestati è sicuramente quello di maggiore importanza ai fini della comprensione dei punti di forza e di debolezza dei rapporti fra aziende e amministrazione pubblica. Occorre dire innanzitutto che il livello di soddisfazione complessivo da parte delle imprese circa i servizi utilizzati nel corso del 2006 si è attestato su un valore positivo - raggiungendo il punteggio di 69,3 su una scala di valori compresa tra 0 e 100 – ma senza miglioramenti effettivi rispetto al recente passato (l’indice calcolato lo scorso anno con riferimento al 2005 si era attestato a 69,6). L’indice sintetico che riassume simultaneamente le valutazioni relative agli indicatori della tempestività, della professionalità e della facilità di accesso ai servizi è stato ottenuto come media ponderata dell’importanza relativa che ciascuna impresa del campione attribuisce ad ognuna delle tre variabili sopra descritte. Rispetto al settore di attività non si riscontrano differenze significative: l’indicatore si rileva più elevato tra le imprese dei restanti settori dei servizi e delle costruzioni (rispettivamente 69,6 e 69,3), mentre più contenuto risulta tra le imprese dei settori del terziario avanzato (68,8). Sotto l’aspetto territoriale si rileva un miglior giudizio espresso dalle imprese localizzate al Nord- Ovest (70,7) seguite da quelle del Centro (69,9), mentre meno soddisfatte nel complesso appaiono le imprese del Nord-Est (67,9). Leggermente sotto la media nazionale le imprese del Sud (68,7). Indicatore sintetico della soddisfazione delle imprese per i servizi resi dalla Pubblica Amministrazione valore massimo=100 Anno 2006 Anno 2005 ASL CCIAA Comune IVA e Registro INAIL INPS Provincia Regione Totale Uffici Totale Uffici Area geografica Nord-Ovest 70,0 75,0 71,0 66,6 69,5 69,9 71,1 70,8 70,5 70,0 Nord-Est 65,0 74,2 69,7 68,7 69,5 66,3 65,7 64,5 67,9 70,7 Centro 74,7 74,2 65,3 71,1 69,3 68,8 62,9 72,7 69,9 66,6 Sud 64,4 73,8 64,8 78,9 68,8 61,6 70,0 67,1 68,7 68,2 Settore di attività Manifatturiero 66,4 74,3 68,4 69,9 70,7 65,5 68,2 68,0 68,9 67,7 Costruzioni 55,2 70,1 65,2 81,9 73,5 64,6 70,8 72,8 69,3 72,3 Commercio 73,0 74,5 70,4 67,6 65,7 64,2 67,2 67,7 68,8 67,9 Terziario avanzato 70,2 79,9 65,3 70,1 71,2 68,8 63,8 60,3 68,7 70,5 Altri servizi 66,7 73,6 67,0 73,8 67,0 67,8 71,8 68,9 69,6 67,1 Classe dimensionale 1-9 dip. 66,4 73,9 67,5 72,3 68,0 65,6 68,2 67,5 68,7 -- 10-49 dip. 70,2 75,1 67,2 70,6 72,0 68,5 70,4 73,4 70,9 -- 50-500 dip. 70,1 75,6 69,4 67,6 70,5 65,3 69,5 67,3 69,4 -- Totale anno 2006 67,6 74,5 67,6 71,6 69,6 66,4 68,4 68,4 69,3 Totale anno 2005 71,7 77,3 70,3 70,9 69,3 66,6 67,0 63,5 69,6 Uffici contattati Fonte: Unioncamere, Indagine sui livelli di soddisfazione per i servizi resi dalla Pubblica Amministrazione, 2007 Rispetto alle classi dimensionali, le più soddisfatte risultano essere le imprese con 10-49 dipendenti (70,9) mentre più critiche si confermano le imprese fino a 9 dipendenti (68,7). 43 Per quanto riguarda la tempestività dell’espletamento delle pratiche, la percentuale delle imprese che ha giudicato in maniera pienamente soddisfacente (buono, molto buono o ottimo) gli uffici considerati si è attestata al 65,7%, superiore di circa un punto percentuale a quanto rilevato lo scorso anno (64,8%). Considerando anche il giudizio di sufficienza tale dato raggiunge l’85,0%. Cinque imprese su cento, invece, formulano una opinione particolarmente negativa, giudicando gravemente insufficienti i tempi di risposta della Pubblica Amministrazione. Il giudizio più favorevole si conferma quello espresso sulle Camere di commercio (75,3%), seguite dagli uffici IVA e Registro (68,5%). Rispetto al settore di attività, i giudizi peggiori sono stati raccolti presso le imprese del commercio, che nel 18,9% dei casi hanno valutato gravemente insufficiente e/o insufficiente il giudizio relativo ai tempi di espletamento del servizio, mentre il più elevato gradimento (buono, molto buono o ottimo) si registra tra le imprese del settore delle costruzioni (77,8%). L’analisi delle ripartizioni geografiche rileva una tendenza al peggioramento delle valutazioni passando dalle regioni settentrionali a quelle centrali e meridionali: varia, infatti, dall’8,5% registrato nel Nord-Ovest al 20,6% nel Sud e Isole la percentuale delle imprese che giudicano gravemente insufficiente o insufficiente i tempi di risposta degli uffici della P.A. considerati, con uno scarto “territoriale” di oltre dodici punti percentuali. Rispetto alle classi dimensionali, le più soddisfatte sono le medio-grandi imprese (50-500 dipendenti e 10-49 dipendenti), con una frequenza maggiore di giudizi positivi (buono, molto buono o ottimo) pari rispettivamente al 68,0% e 67,8%, rispetto al 65,4% registrato tra quelle fino a 9 dipendenti. Giudizi espressi dalle imprese per i servizi resi dalla PA: tempi necessari per l'espletamento del servizio Valori % - Anno 2006 gravemente insufficiente insufficiente sufficiente buono molto buono ottimo Comune 4,4 10,1 18,3 35,1 20,3 11,7 Provincia 10,3 10,9 18,9 24,6 14,5 20,8 Regione 4,1 15,4 20,9 30,7 19,1 9,8 CCIAA 1,8 7,4 15,5 34,2 22,6 18,5 IVA 5,6 7,7 18,2 28,1 25,6 14,8 INAIL 6,2 8,4 22,3 32,8 11,8 18,5 INPS 9,0 10,5 21,7 30,7 14,1 14,1 ASL 5,7 10,8 24,1 28,5 10,7 20,2 Totale imprese 5,4 9,6 19,3 31,5 18,5 15,7 Uffici contattati Fonte: Unioncamere, Indagine sui livelli di soddisfazione per i servizi resi dalla Pubblica Amministrazione, 2007 Nel complesso, il 68,6% degli imprenditori intervistati ha inoltre giudicato pienamente soddisfacente (buono, molto buono o ottimo) il livello di competenza del personale amministrativo (il dato relativo allo scorso anno si era attestato al 74,0%). Considerando anche il giudizio di sufficienza, tale dato raggiunge l’86,5%. Di poco inferiore a quattro punti percentuali (3,8%) la quota di imprese particolarmente insoddisfatte della professionalità del personale. Per quanto riguarda la localizzazione territoriale, si rileva anche qui un tendenziale miglioramento delle valutazioni al crescere della latitudine (dal 59,1% del Sud e Isole al 80,7% del Nord-Ovest). Positivi i giudizi in tutte le dimensioni di impresa, con un valore più contenuto solo per le imprese fino a 9 dipendenti (68,1%). I giudizi di coloro che ritengono la 44 professionalità insufficiente o gravemente insufficiente sono più frequenti nel caso delle imprese appartenenti ai settori del commercio (16,3%) e degli altri servizi (14,8%). E’ una impresa su cinque del settore delle costruzioni, invece, a ritenere ottima la professionalità del personale amministrativo (20,9%). Particolarmente apprezzate dalle imprese le procedure e le modalità di accesso ai servizi erogati dalla Pubblica Amministrazione, grazie anche all’introduzione della telematica: l’84,3% degli intervistati giudica positivamente (sufficiente, buono, molto buono e ottimo) l’accesso ai servizi amministrativi, dato analogo a quanto rilevato nell’indagine del 2005 (84,4%); solo il 6,3% delle imprese formula un giudizio particolarmente negativo (gravemente insufficiente). Le imprese del manifatturiero si rivelano le più critiche da questo punto di vista (82,8%), mentre quelle del settore del commercio appaiono le più soddisfatte (87,1%). Dal punto di vista geografico, la quota di imprese più soddisfatte varia da un massimo del 86,4% delle imprese del Sud e Isole ad un minimo del 82,5% per quelle del Nord-Est. Positivi,anche per questo indicatore, i giudizi in tutte le dimensioni di impresa. L’informatizzazione della Pubblica Amministrazione continua a coinvolgere un maggior numero di imprese in Italia: da quanto è emerso dalla rilevazione, infatti, oltre il 46% delle imprese (era il 32% lo scorso anno) dichiara di utilizzare almeno qualche volta modalità telematiche per l’espletamento degli adempimenti amministrativi; in particolare, il 16,3% (era il 7,3% l’analogo dato dello scorso anno) dichiara di utilizzare sempre procedure informatiche per la trasmissione di atti amministrativi (in particolare le imprese localizzate al Centro, appartenenti ai settori del terziario avanzato e più frequentemente le imprese con 10-49 dipendenti). Una impresa su tre, inoltre, dichiara di utilizzare modalità telematiche ma saltuariamente (più frequenti in questo caso nel Nord Est, tra le imprese del settore manifatturiero e di media-grande dimensione). In generale le imprese che si avvalgono sempre della telematica per i contatti con gli uffici della Pubblica Amministrazione si evidenziano nei rapporti con le Camere di commercio (22,1%) e uffici IVA e Registro (19,5%). Più contenuto, invece, il dato nei confronti degli uffici della Regione, Provincia e Comune (intorno al 10%). Il 29,7% delle imprese che ha dichiarato di utilizzare sempre o qualche volta modalità telematiche per l’espletamento degli adempimenti amministrativi (pertanto il 13,7% del totale delle imprese intervistate) sostiene di avere riscontrato una riduzione dei costi a proprio carico. Per il 55,8% dei casi (26% sul totale delle imprese intervistate) i costi sono rimasti sostanzialmente invariati mentre l’11,5% delle imprese che ha utilizzato procedure informatiche nei rapporti con la P.A. sostiene di avere registrato un incremento dei costi. Chi dichiara di aver risparmiato di più sono le imprese del manifatturiero e con 10-49 dipendenti. Più contenuta la riduzione dei costi per le imprese del Sud e Isole. Alle imprese intervistate è stato infine richiesto di indicare i costi complessivamente sostenuti per l’espletamento degli adempimenti amministrativi nel corso del 2006. Da quanto è emerso dall’indagine, nonostante l’introduzione dell’informatizzazione dei servizi pubblici che ha sicuramente reso più agevole l’accesso agli uffici della PA, la percezione delle imprese evidenzia (per il 24,6% dei casi) un incremento - rispetto al 2005 - dei costi sostenuti per i principali adempimenti burocratici nei confronti della Pubblica Amministrazione. Solo l’8,4% delle imprese segnala una diminuzione rispetto a due anni fa. Particolarmente differenziata, però, la percezione delle imprese su queste tematiche: le imprese che hanno sostenuto un incremento dei costi nel 2006 dichiarano una percentuale media di aggravio pari al 12,6%, mentre coloro che, invece, hanno registrato una diminuzione dei costi 45 sostenuti nei rapporti con la Pubblica Amministrazione evidenziano un risparmio medio di poco inferiore al 15%. Andamento dei costi sostenuti dalla imprese per adempimenti amministrativi Valori % - Anno 2006 Superiori al 2005 Invariati Inferiori al 2005 Non risponde % incremento % diminuzione Comune 29,4 52,5 10,4 7,8 12,2 15,0 Provincia 22,3 64,4 5,8 7,5 12,1 15,4 Regione 24,7 61,7 7,7 5,9 9,9 14,5 CCIAA 28,1 53,7 11,7 6,5 13,1 15,0 IVA 33,2 51,2 10,4 5,2 11,1 16,3 INAIL 31,5 58,6 5,2 4,7 13,7 25,0 INPS 31,1 54,4 8,7 5,8 13,9 17,6 ASL 38,3 48,5 8,1 5,0 16,5 15,0 Nord-Ovest 20,7 57,8 14,8 6,8 12,0 15,1 Nord-Est 28,2 59,0 6,9 6,0 14,3 12,9 Centro 25,1 61,9 6,2 6,9 12,3 18,7 Sud 25,3 62,6 4,4 7,7 12,7 10,7 manifatturiero 24,1 61,2 7,3 7,4 13,3 16,6 costruzioni 21,0 57,5 13,0 8,5 18,0 17,3 commercio 25,0 64,2 5,6 5,3 10,2 11,1 terziario avanzato 25,8 54,9 8,5 10,7 13,7 13,3 altri servizi 26,2 59,9 9,0 4,8 11,8 13,3 1-9 dip. 25,0 59,9 8,6 6,6 12,8 14,6 10-49 dip. 21,6 62,6 6,9 8,8 13,5 14,6 50-500 dip. 23,8 61,2 6,8 8,1 13,2 13,6 Totale imprese 24,6 60,2 8,4 6,9 12,9 14,6 Classe dimensionale Uffici contattati Ripartizione geografica Settore di attività Fonte: Unioncamere, Indagine sui livelli di soddisfazione per i servizi resi dalla Pubblica Amministrazione, 2007 Nel 2006 si può stimare, sulla base delle informazioni di dettaglio fornite dalle imprese intervistate, che gli oneri amministrativi siano costati al sistema imprenditoriale oltre 14,9 miliardi di euro (contro un onere pari a 13,7 miliardi di euro stimato per il 2005), pari a circa l’1,0% del PIL, con un costo medio per impresa di circa 11.800 euro. Costi sostenuti dalle imprese per l'espletamento degli adempimenti amministrativi nel 2006 Costi esterni (*) Stima costi interni (*) Stima costi totali (*) Stima costi totali per impresa (€) Settore di attività manifatturiero 1.824.441 1.872.373 3.696.814 12.972 costruzioni 1.038.658 1.186.786 2.225.444 10.861 commercio 1.322.519 1.425.812 2.748.330 9.223 terziario avanzato 917.583 989.941 1.907.524 12.215 altri servizi 1.703.638 2.638.462 4.342.099 13.633 Dimensione di impresa 1-9 dip. 5.291.181 6.094.537 11.385.719 10.372 10-49 dip. 1.239.379 1.651.674 2.891.054 20.310 50-500 dip. 276.278 367.161 643.439 28.588 Area geografica Nord-Ovest 2.124.385 2.533.651 4.658.037 12.535 Nord-Est 1.724.361 1.945.640 3.670.001 12.728 Centro 1.409.660 1.676.118 3.085.778 11.898 Sud 1.548.432 1.957.963 3.506.396 10.216 Totale 6.806.839 8.113.373 14.920.211 11.818 (*) in migliaia di Euro Fonte: Unioncamere, Indagine sui livelli di soddisfazione per i servizi resi dalla Pubblica Amministrazione, 2007 46 Il 45,6% dell’ammontare complessivo di tali costi si riferisce a costi esterni, mentre il restante 54,4% è relativo a costi interni all’impresa. Più oneroso il costo medio per impresa sostenuto dalle aziende del Nord-Est (circa 12.700 Euro) seguite dal Nord-Ovest (circa 12.500 Euro), mentre risulta più contenuto nel caso delle imprese localizzate al Sud (poco più di 10.200 Euro). In media, infine, il dato delle imprese del Centro (circa 11.900 Euro). Ancora ampi sembrano, dunque, i margini di miglioramento della Pubblica Amministrazione nel rapporto con il sistema produttivo. È necessario che il processo di semplificazione e telematizzazione proceda ancora più speditamente e, soprattutto, che sia verificabile una riduzione in termini di costi per le imprese. Sarebbe un elemento di fondamentale importanza per il miglioramento della produttività totale dei fattori del nostro Paese.

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