Argomento:
Data:
19 Novembre 2008
Descrizione breve:
Questo rapporto ha affrontato i temi dell’Europa, del lavoro e della FORMAZIONE.
Contenuto nascosto:
ISFOL 2008/a_Rapporto ISFOL 2008_Sintesi.pdf
Rubbettino
RAPPORTO
2008
S I N T E S I
Rubbettino
Si n t e s i
RAPPORTO
2008
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Come di consueto, il Rapporto annuale Isfol si articola in due ampie sezioni dedicate ai
temi del lavoro e della formazione, precedute da una panoramica sulla dimensione eu-
ropea, che da tempo si pone come imprescindibile quadro di riferimento per le politi-
che nazionali.
L’avvio del nuovo periodo di programmazione dei Fondi strutturali rende disponibile un
ammontare di circa 350 miliardi di euro fino al 2013, di cui oltre 200 sono destinati al
settore della crescita e dell’occupazione (+25% rispetto al 2000-2006). Nonostante sia or-
mai evidente il mancato raggiungimento in molti paesi europei degli obiettivi fissati per
il 2010, l’ambito centrale d’intervento delle politiche di coesione continua quindi ad es-
sere la Strategia di Lisbona, a dimostrazione di come il suo parziale fallimento non ab-
bia comunque invalidato i principi posti alla base dei bechmark quantitativi. La forte oscil-
lazione dei risultati appare attribuibile, in primo luogo, alla mancanza di dati certi e com-
parabili; in secondo luogo, all’inadeguatezza di analisi statistiche che non tengano in de-
bito conto le forti disparità regionali adottando opportune clusterizzazioni; in terzo luo-
go, all’assenza di criteri per standardizzare le legislazioni nazionali sulle età di ingresso e
d’uscita dal mercato del lavoro (età minima di lavoro, età di pensione, regole di compu-
to per l’alternanza scuola/lavoro, ecc.).
Il trasferimento di principi fondamentali rimane la chiave di lettura con cui guardare al-
l’Europa. L’approccio della flexicurity, ad esempio, più che a identificare un unico mo-
dello cui ispirare le politiche del lavoro di paesi e realtà territoriali anche profondamen-
te diversi tra di loro, è servito a delineare principi comuni su cui fondare interventi che
tengano in debito conto gli specifici contesti politici, economici e sociali.
Condivisione di linee guida e al tempo stesso attenzione al territorio, attraverso un mag-
giore decentramento delle competenze, sono tra gli aspetti significativi che stanno ca-
ratterizzando il dibattito già avviato sul futuro delle politiche di coesione. La direzione è
quella di un più intenso coordinamento con le azioni direttamente finanziate dagli Sta-
ti membri, rafforzando il principio dell’addizionalità. In Italia può essere questa l’occa-
sione per avviare una riflessione circa il reale impatto dei Fondi strutturali e specialmente
del Fondo sociale europeo sui sistemi del lavoro e della formazione. Mentre i program-
mi operativi europei rivolti al capitale umano finanziano solitamente obiettivi specifici
Introduzione
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e circoscritti, quelli italiani sono tuttora rivolti ad una molteplicità di azioni, con un evi-
dente rischio di dispersione delle risorse, troppo spesso considerate come semplice so-
stitutivo di fondi nazionali sempre più scarsi.
All’insegna del trasferimento va poi inquadrato l’apporto che giunge dall’Europa in ter-
mini di esperienze innovative. Basti pensare al ruolo di Leonardo o di Equal.
Nell’ambito del lifelong learning uno dei temi su cui lo stimolo europeo si fa più pressante
è quello della trasparenza e del riconoscimento delle competenze. I progressi sul fronte del-
l’EQF (Quadro europeo delle qualifiche) e dell’ECVET (Sistema europeo per il riconosci-
mento dei crediti) hanno reso più concreto l’obiettivo di un’effettiva leggibilità e correla-
bilità dei titoli tra i vari paesi membri. Con il supporto dell’Isfol, il Governo italiano ha par-
tecipato attivamente al percorso di elaborazione di queste iniziative e la scadenza del 2012
per aderire a entrambi i sistemi impone ora un ulteriore sforzo a livello nazionale. L’impe-
gno per favorire una migliore riconoscibilità dei titoli, d’altro canto, appare perfettamen-
te in linea con la filosofia recentemente delineata dal Libro Verde sul futuro modello sociale,
predisposto dal Ministero del Lavoro, che pone l’individuo al centro di un sistema di op-
portunità - tra cui appunto la piena valorizzazione delle competenze acquisite - volte a so-
stenere la sua occupabilità e quindi il suo ruolo di cittadino lavoratore. È necessario crea-
re le condizioni strutturali e culturali, anche grazie ad opportune sperimentazioni, che per-
mettano di arrivare a questo traguardo. Sarà opportuno, in tale ottica, rafforzare strumen-
ti come Europass, il cui potenziale sembra non sia ancora del tutto emerso.
Altra sfida essenziale sul piano dell’apprendimento permanente è rappresentata dalla qua-
lità dell’istruzione e della formazione professionale, uno dei punti essenziali dell’agenda mes-
sa a punto a Lisbona. La Commissione ha di recente proposto un modello di riferimento
che si prevede possa essere approvato formalmente entro il 2009. È un nuovo approccio al
governo del sistema, con la condivisione di obiettivi confrontabili e misurabili.
Tra le grandi tematiche a cui l’Europa ha dedicato nel corso dell’anno un’attenzione par-
ticolare occorre ricordare le pari opportunità. Da qualche mese abbiamo in questo cam-
po una strategia rinnovata per le politiche sociali, finalizzata a fronteggiare i sempre più
rapidi cambiamenti in atto. In essa forte rilevanza è stata data alle problematiche connesse
con il progressivo invecchiamento della popolazione, che impone la messa a punto di azio-
ni rivolte sia alle donne che alle fasce di popolazione più giovane e agli immigrati.
L’Europa chiede che le politiche per l’immigrazione siano oggetto di una strategia comune,
a fronte della rilevanza assunta dal fenomeno migratorio. L’intervento solitario dei sin-
goli Stati membri non appare più sufficiente, soprattutto in una condizione di libera cir-
colazione dei cittadini e di apertura delle frontiere interne. La Commissione ha più vol-
te sottolineato come l’immigrazione possa rappresentare un fattore importante di sviluppo
economico e di crescita dell’occupazione e con il Libro Verde Migrazione e mobilità, pre-
sentato lo scorso luglio, ha voluto avviare un dibattito che ponga concretamente le basi
per una futura cooperazione europea in materia di immigrazione, sottolineando in par-
ticolar modo il ruolo dell’istruzione nelle politiche di integrazione.
Da oltre un decennio il principio di eguaglianza è uno dei cardini del processo di inte-
grazione europea e da semplice declamazione dei trattati si è tradotto in normative an-
tidiscriminatorie di notevole spessore. Gli obiettivi dell’inclusione sociale e delle pari op-
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portunità ricoprono oggi un ruolo chiave nei regolamenti dei Fondi strutturali. Il tra-
sferimento di questi orientamenti agli Stati membri, compresa l’Italia, che li ha recepiti
nel proprio ordinamento, apre ora una seconda fase: la verifica relativa alle compatibili-
tà sistemiche del nuovo quadro legislativo e al suo grado di effettiva implementazione.
Si tratta, in sostanza, di fare in modo che siano pienamente espresse le potenzialità insi-
te nelle norme, attraverso la loro attuazione ma anche mediante un’azione costante di mo-
nitoraggio del fenomeno e di diffusione delle conoscenze.
Dopo una prolungata fase di espansione, che si è protratta per oltre un quadriennio, l’eco-
nomia mondiale è entrata in una congiuntura di forte criticità (con stime negative per i
paesi occidentali, di rallentamento della crescita per i paesi in via di sviluppo), dove i se-
gnali di recessione vengono amplificati dalla grave crisi dei mercati finanziari. Già a par-
tire dall’inizio del secondo semestre del 2007 l’economia statunitense aveva mostrato se-
gnali di incertezza. Un dollaro fortemente ridimensionato, un bilancio statale in dete-
rioramento ed un improvviso rialzo del prezzo di alcune materie prime hanno contribuito
ad alimentare una crisi che ha travolto dapprima il mercato immobiliare - anch’esso già
indebolito dallo scoppio di una perdurante bolla speculativa - e poi, per via dei derivati
finanziari sui cosiddetti mutui sub-prime, il mercato del credito e quello finanziario.
Per ciò che riguarda il nostro continente, l’economia europea ha dapprima subito un ral-
lentamento del ciclo economico ed è poi stata travolta dal crollo dei mercati finanziari. Tale
rallentamento ha fatto sentire le sue conseguenze anche nel nostro Paese, che già scontava
un differenziale negativo di crescita sia rispetto all’area Oecd che a quella Euro. A partire
dall’ultimo trimestre del 2007 l’economia italiana ha mostrato un andamento sostanzial-
mente stagnante, finché nel secondo trimestre 2008 si è verificata una contrazione del PIL.
A trainare pesantemente al ribasso sono i consumi interni, con la spesa delle famiglie che
scende dello 0,5%, anche in conseguenza di un’inflazione che sale fino a toccare il 4,2%.
La crescita del PIL in questi anni sembra essere stata nel nostro Paese più il riflesso del ci-
clo positivo dell’economia mondiale che il frutto di un incremento della domanda inter-
na. Nonostante le forti pressioni competitive dei paesi emergenti ed in particolare della Cina,
le nostre merci hanno infatti mantenuto una buona capacità di penetrazione nei mercati
internazionali e le esportazioni hanno continuato a crescere significativamente più dei con-
sumi e degli investimenti interni: nel 2007 l’incremento delle esportazioni, rispetto all’an-
no precedente è risultato pari al 5% circa, mentre la domanda interna ha fatto registrare un
molto più modesto +1,3%. Ancora nel primo trimestre 2008 la dinamica relativamente po-
sitiva del PIL è interamente spiegata dal sostegno fornito dalla domanda estera, mentre l’ul-
teriore indebolimento del reddito reale delle famiglie, determinato dall’aumento dei prez-
zi delle materie prime alimentari e dell’energia, ha continuato a deprimere i consumi che
si avviano, così come gli investimenti, verso un tendenziale ristagno.
Nonostante l’acuirsi e il diffondersi della crisi internazionale, il contributo al PIL forni-
to dalla domanda estera rimane quindi significativo ed in qualche misura “salvifico”. È tut-
tavia chiaro come il peggioramento del ciclo economico globale non potrà che ripercuotersi
negativamente sulle nostre esportazioni e quindi sulla ricchezza prodotta dal Paese, an-
che se qualche nota di ottimismo può venire dall’osservazione che una parte significati-
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sintesi
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va delle nostre esportazioni si è orientata in questi anni verso i paesi new comers, quelli
cioè che paiono meno risentire della crisi in corso.
In ogni caso, anche l’economia italiana è a rischio recessione. Le pressioni sui costi di pro-
duzione inaspriscono le difficoltà di un sistema fortemente dipendente dall’estero anche
per l’approvvigionamento di materie prime, in particolare energetiche. Scontiamo, inol-
tre, le debolezze strutturali che dipendono prima di tutto dalla mancata crescita delle Re-
gioni del Sud e dal conseguente ampliarsi dei divari regionali, con effetti a cascata sul li-
vello del PIL e della produttività. La crescita economica, infatti, è strettamente connessa
all’aumento dei livelli di occupazione, ma anche a dinamiche positive della produttivi-
tà, soprattutto in un contesto nel quale aumentano sempre più, e sempre più rapidamente,
le pressioni competitive alle quali vengono sottoposti i sistemi produttivi.
Esaminando il primo versante si può osservare come le riforme degli ultimi anni abbia-
no contribuito ad allargare significativamente la base occupazionale, con un incremen-
to importante:
del numero degli occupati
delle ore complessivamente lavorate
del monte retributivo che è aumentato dal 1997 al 2007 del 22,9%, anche se le retri-
buzioni individuali sono salite molto poco in termini reali (+7,4% cumulato). La quo-
ta del lavoro dipendente sul PIL è salita dal 51,8% al 55,5%; se si considera anche la
remunerazione del lavoro autonomo, la quota che va a remunerare il fattore lavoro
è passata dal 74,8% al 77,6%.
Anche nel 2007, sebbene in rallentamento rispetto all’anno precedente, l’aumento dell’oc-
cupazione che si è verificato nel Paese appare più marcato rispetto alla media UE. In un qua-
dro nazionale in cui gli investimenti, sia interni che esteri, mostrano evidenti criticità, il ruo-
lo di principale determinante della crescita del prodotto interno va dunque ascritto all’au-
mento dell’occupazione. Sul piano della produttività, invece, nell’ultimo quinquennio si è
registrata una dinamica di poco al di sopra dello 0%, a fronte di uno stabile 1,2% per la pro-
duttività dell’area Oecd e di uno 0,8% per la produttività nell’area Euro. Contemporanea-
mente, nel 2007 si è verificata una perdita di competitività di prezzo delle imprese italiane.
Misurato sulla base dei prezzi alla produzione, il calo è stato di circa il 2%, superiore a quel-
lo registrato negli altri maggiori paesi dell’area Euro. Un fattore peggiorativo è stata la di-
namica del costo del lavoro per unità di prodotto, innalzata dall’andamento sfavorevole del-
la produttività: il CLUP nel decennio 1997-2007 in Italia ha registrato, infatti, un incremento
del 26,1% tra il 1997 e il 2007, contro il +14,2% dell’Eurozona e il +3,1% tedesco. Anche
la remunerazione degli altri fattori della produzione, cioè del capitale (sotto forma di am-
mortamenti, costi di struttura e spese per interessi) e del rischio d’impresa (profitto), risulta
in forte calo, soprattutto nella microindustria (-3,2%) e nelle grandi imprese dei servizi, dove
è calata di oltre un quinto. Nel complesso, secondo stime basate sui conti nazionali, la red-
ditività operativa delle imprese negli ultimi due anni è diminuita, come si è ridotto l’auto-
finanziamento, anche a causa dell’aumento degli oneri finanziari netti.
Da tempo economisti e statistici stanno cercando una risposta a ciò che è stato chiamato
il paradosso o il “buco nero” della produttività italiana. Infatti, non è chiaro come siano
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compatibili con il declino della produttività l’aumento delle esportazioni, gli andamenti
della redditività delle imprese (ad esempio come quelli segnalati dalle riclassificazioni dei
bilanci aziendali operate da Mediobanca), la stessa crescita dell’occupazione alle dipendenze.
L’attenzione critica si sta orientando, in particolare, sui numerosi fattori di possibile sot-
tostima del numeratore (valore aggiunto) delle misure della produttività, nel qual caso mol-
te incongruenze troverebbero spiegazione e lo stesso giudizio sull’economia italiana si fa-
rebbe meno preoccupato. Dal versante opposto, la minore finanziarizzazione della nostra
economia e la sua composizione interna potrebbero aver contribuito ad una crescita più
modesta ma al tempo stesso meno volatile (si veda, a contrario, il caso spagnolo).
Non mancano, inoltre, interessanti segnali di ristrutturazione di parti del sistema produt-
tivo. Da un lato l’incremento delle dimensioni medie d’impresa, che convergono lentamente
con la media europea, ma in maniera molto più forte nelle Regioni industriali del Nord. Dal-
l’altro un’accelerazione delle cessazioni di imprese, che indica un processo di “distruzione
creativa”, caratterizzato dall’espulsione delle aziende meno produttive e dalla riallocazione
di quote di produzione verso quelle migliori, già presenti o di nuova costituzione. Queste
ultime sembrerebbero caratterizzarsi per una maggiore capacità di realizzare significative
innovazioni nelle strategie aziendali, con impiego di forza lavoro più qualificata, rinnovo
della gamma dei prodotti, investimenti sul marchio e internazionalizzazione della produ-
zione e della rete di fornitori. In ogni caso, occorre ricordare che la quota di imprese con le
migliori performance produttive - ovvero con livelli di redditività e produttività del lavoro
superiori alla media del settore di appartenenza - supera appena il 20% del totale.
Rimane il fatto che la competitività delle imprese italiane risulta più elevata di quanto non
avvenga per l’ambiente competitivo nazionale. A questo proposito si consideri che la Ban-
ca mondiale tra i 10 fattori per valutare un paese business friendly annovera: l’efficienza
della giustizia civile (in Italia occorrono quattro anni per ottenere attraverso un giudice
il rispetto di un contratto), tempi e costi di apertura/chiusura di un’azienda, la flessibi-
lità del lavoro, l’accesso al credito, il pagamento delle tasse, la burocrazia per gli scambi
con l’estero. È importante, dunque, fare riferimento anche all’ambiente in cui opera il si-
stema socio-produttivo per comprendere quali siano i fattori principali che frenano o fa-
voriscono la crescita del Paese.
Concentrando l’analisi sulle relazioni tra crescita, produttività e mercato del lavoro, la di-
namica della produttività del lavoro riflette l’influenza congiunta di un insieme di fatto-
ri (TFP, total factor productivity) come il capitale fisico, le tecnologie adottate, il capitale
umano, l’organizzazione del lavoro, le economie di scala. In Italia gli ostacoli principali
che il settore pubblico è chiamato a contrastare per favorire la ristrutturazione dell’eco-
nomia sono ben noti: i costi e l’inefficienza dei servizi pubblici, ancora non sufficiente-
mente aperti al mercato; le disfunzionalità della scuola e l’università, non all’altezza di un
paese avanzato; l’inadeguatezza delle infrastrutture; l’eccessivo livello della tassazione sui
cittadini, che penalizza i redditi da lavoro e la capacità di consumo delle famiglie, e sul-
le imprese (anche dopo la riduzione apportata nel 2008, l’aliquota complessiva di prelievo
sui profitti d’impresa resta superiore di 8 punti rispetto alla media degli altri paesi eu-
ropei); la necessità di semplificazioni del quadro legislativo; l’ampia dimensione delle at-
tività irregolari.
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sintesi
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Altri fattori essenziali che emergono dalla lettura dei dati sono correlati al buon funzio-
namento del mercato del lavoro quando si dimostri in grado di favorire la mobilità interna
ed esterna, la crescita professionale, la soddisfazione dei lavoratori per la propria attività.
Ma il dibattito scaturito intorno ai percorsi di flexicurity ha messo in luce come un mer-
cato del lavoro che sostenga la mobilità e la qualità del lavoro debba poggiare su sistemi
affidabili e universali di protezione e di sicurezza nelle transizioni tra lavoro e lavoro. Di
qui l’urgenza nel nostro Paese di una complessiva riforma degli ammortizzatori sociali, che
contrasti le segmentazioni, le iniquità e le inefficienze del sistema attuale. Ed occorre an-
che un’azione di rafforzamento continuo delle competenze dei lavoratori e di accompa-
gnamento efficace nel passaggio dall’inattività o dalla disoccupazione al lavoro.
È venuto il momento di porsi un duplice obiettivo. Da una parte agire in maniera com-
plessiva per rendere sempre più conveniente il lavoro, per mantenere le persone più a lun-
go nell’attività ed attrarre il maggior numero di inattivi nell’occupazione; ciò è tanto più
urgente in presenza di dinamiche demografiche che accentuano le conseguenze dell’al-
lungamento della vita e dell’innalzamento dei tassi di dipendenza. Dall’altra parte è in-
dispensabile fare in modo che tutto il sistema del lavoro venga orientato a rendere più pra-
ticabili, più convenienti e più remunerative le transizioni.
Al concetto di qualità del lavoro dovrebbe quindi affiancarsi quello di “dinamiche del la-
voro di qualità”, nella consapevolezza che occorre non solo porsi il fine di inserire più per-
sone ma anche di favorire i percorsi dei lavoratori verso lavori migliori. Il passaggio da
posizioni marginali, povere e discontinue, ad altre più convenienti e soddisfacenti è tan-
to importante per gli individui quanto per una società che voglia progredire.
Nell’un caso come nell’altro un ruolo essenziale è rappresentato da interventi finalizza-
ti a migliorare radicalmente il funzionamento della formazione e favorire il necessario ar-
ricchimento del capitale umano; è questa una premessa ineludibile per aumentare la qua-
lità del lavoro. Ugualmente importante è poi il miglioramento dei meccanismi del mer-
cato del lavoro e delle sue istituzioni: il ruolo dei servizi per il lavoro appare quanto mai
cruciale sia nell’accesso all’occupazione, sia nel legare politiche passive e politiche attive
del lavoro, sia nel rafforzamento delle doti di occupabilità delle persone, specie quelle dif-
ficili da collocare.
Nel campo delle istituzioni del mercato del lavoro sarà necessaria in primo luogo un’ac-
celerazione dell’efficienza delle reti tecnologiche e di relazione; occorre migliorare dra-
sticamente i raccordi tra Servizi per l’impiego (SPI) e la formazione professionale, tra SPI
e sistemi produttivi locali, tra operatori pubblici, anche quelli “speciali” come le univer-
sità, ed operatori privati. Una più efficace integrazione delle politiche, dei soggetti isti-
tuzionali, dei servizi e degli erogatori può agire anche da moltiplicatore della funziona-
lità delle risorse e delle disponibilità territoriali.
La profonda eterogeneità delle situazioni locali rende necessaria un’azione costante di mo-
nitoraggio, in grado di individuare i fabbisogni di intervento e di apprezzare e rafforza-
re l’efficacia dei diversi dispositivi adottati. Uno degli elementi determinanti per favori-
re la competitività sta proprio nella capacità di comprendere i fenomeni a livello locale.
Il territorio rappresenta, infatti, l’ambito di riferimento delle dinamiche economiche e so-
ciali, un luogo di creazione e di sperimentazione di modelli di sviluppo chiamati a pro-
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muovere la convergenza verso i target europei. In tale ottica, è necessario riconsiderare il
concetto di territorio da mero “contenitore” di fenomeni economici, a luogo di produ-
zione di capitale sociale (inteso come sistema di relazioni tra attori sociali, reti di imprese
e sistemi di organizzazione del lavoro), di capitale umano, di circuiti di conoscenza e di
beni collettivi (servizi, infrastrutture) e in ultima analisi di attuazione delle politiche. La
dimensione locale rappresenta quindi la base conoscitiva da cui partire per comprende-
re i fabbisogni e definire in modo integrato le politiche del lavoro, della formazione e del-
lo sviluppo.
Il problema della carenza delle professionalità ricercate dalle imprese è al centro di molte
proposte delineate a livello europeo per contrastare il fenomeno dei cosiddetti “colli di bot-
tiglia” che bloccano il potenziale dei vari mercati del lavoro. Una migliore mobilità profes-
sionale e la valorizzazione delle competenze esistenti può essere favorita anche da strumenti
incentivanti dal punto di vista della retribuzione. Da questo punto di vista, la detassazio-
ne degli straordinari, avviata nella passata legislatura e completata nei primi mesi di quel-
la attuale, può andare nella direzione di accrescere i redditi dei lavoratori, in maniera favorevole
alla qualità della produzione e contribuendo - insieme all’auspicata riforma del contratto
di lavoro - a legare tra loro crescita dei salari reali e della produttività.
In ogni caso, tutte le informazioni relative alle carenze di personale e le anticipazioni sul-
le dinamiche del mercato del lavoro dovranno alimentare capillarmente i flussi informativi
veicolati dai Servizi per il lavoro e dalle connesse reti informative. La funzione dei SPI di
orientamento e riqualificazione, prevista ormai da oltre un quinquennio dalla normati-
va nazionale e non ancora completamente attuata, deve raggiungere in tutte le aree del
Paese piena realizzazione, a livelli qualitativi adeguati. Per assicurare una funzionalità omo-
genea dei Servizi è urgente adottare un percorso chiaro e scadenzato di riallineamento che
garantisca, in un quadro di sostenibilità finanziaria, l’erogazione dei servizi in funzione
di standard qualitativi e livelli essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale,
anche attraverso un nuovo Masterplan.
Venendo agli andamenti, l’evoluzione dei principali indicatori del mercato del lavoro du-
rante l’ultimo anno si è sviluppata - come abbiamo visto - in un contesto nuovo, carat-
terizzato da una crescita economica scarsa e dall’aumento dell’inflazione, cui si aggiun-
ge un recente incremento della disoccupazione. La crisi delle banche a livello internazionale
è solo il segno più evidente di questo malessere, che rischia di avere ripercussioni parti-
colarmente pesanti sulle fasce più deboli della popolazione sia in termini di distribuzio-
ne del reddito che di opportunità sotto il profilo occupazionale. Le ricadute del cambia-
mento di ciclo sui territori meno sviluppati e sui segmenti meno forti del mercato del la-
voro andranno accuratamente monitorate e, dove possibile, prevenute. In quest’ottica, la
cultura della valutazione dovrà rapidamente transitare da un piano di puro esercizio teo-
rico a strumento operativo per i decisori politici. E un discorso analogo può essere fatto
relativamente alle sempre più accurate riflessioni svolte in tema di qualità: occorre “ap-
plicare” la ricerca e tradurre i suoi risultati nei meccanismi di governo.
La consapevolezza dei rischi che abbiamo di fronte evidenzia, inoltre, quella centralità del-
la persona di cui si parla nel Libro Verde presentato lo scorso luglio dal ministro Maurizio
Sacconi. Gli investimenti in formazione - in linea con il modello di flexicurity - assumono
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sintesi
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quindi una valenza strategica. Da troppo tempo il nostro sistema educativo sconta un’ec-
cessiva dualità: da una parte l’autoreferenzialità della formazione, dall’altra la scarsa atten-
zione alla persona da parte delle aziende. Individuare un nuovo equilibrio tra questi due estre-
mi sarà una sfida importante dei prossimi anni per garantire a tutti pari opportunità di ac-
cesso al mercato del lavoro e il pieno godimento dei diritti di cittadinanza.
Sappiamo che la crescita dei livelli occupazionali è proseguita in Italia anche nel 2007. Il
numero degli occupati ha raggiunto il suo massimo storico. Ma assistiamo anche ad un
rallentamento. I segnali che provengono nel primo semestre del 2008, infatti, appaiono
in chiaroscuro: la crescita dell’occupazione si attesta ad un +1,2% su base tendenziale, ral-
lentando, in misura significativa, una crescita ormai protrattasi per oltre 10 anni. Tutta-
via, questo ulteriore incremento del numero dei posti di lavoro è il frutto di una contra-
zione dell’occupazione a tempo pieno e di una straordinaria crescita dell’occupazione a
tempo parziale. Nell’ambito del lavoro dipendente, inoltre, crescono molto più le occu-
pazioni a carattere temporaneo di quelle a tempo indeterminato. Va poi aggiunto che la
stessa congiuntura economica ha fatto sì che molta dell’offerta di lavoro addizionale non
abbia trovato un’adeguata controparte nella domanda: tra il secondo semestre del 2007
e lo stesso periodo del 2008 aumenta in misura preoccupante il numero di disoccupati,
con il relativo tasso che si attesta al 6,7%, specie nel Sud, vale a dire 1,3 punti in più del-
lo stesso periodo dell’anno precedente. E torna purtroppo a crescere anche il tasso di di-
soccupazione giovanile che supera nuovamente il 20%.
In un quadro macroeconomico di stagnazione, la più immediata reattività della domanda
di lavoro al ciclo economico, legata alla maggiore disponibilità di forme contrattuali fles-
sibili, può determinare un arresto del processo espansivo dell’occupazione. La partico-
lare debolezza del nostro mercato del lavoro, almeno nelle Regioni del Mezzogiorno, ri-
spetto al nucleo più sviluppato dei partner europei accresce tale rischio.
In questi anni, la Strategia di Lisbona ha prodotto nel Paese una spinta fondamentale, che
tuttavia non è riuscita ha colmare il gap strutturale che ci separa dalla media europea, a cau-
sa in particolare del ritardo meridionale. Possiamo ormai constatare che gli obiettivi in ter-
mini quantitativi fissati per il 2010 sono falliti. A pagare lo scotto di questi ritardi continuano
ad essere in primo luogo i giovani e le donne. In Italia i 15-24enni presentano gli indicato-
ri peggiori di ogni altro gruppo di età, anche per via delle diverse legislazioni nazionali re-
lativamente al numero di anni di scuola e all’alternanza scuola/lavoro. Quanto alla componente
femminile, la bassa partecipazione al mercato del lavoro, che dipende in larga misura dal-
la performance del Mezzogiorno, si associa alla scarsa presenza a livelli decisionali. Si trat-
ta di un segmento caratterizzato da forte atipicità sul fronte contrattuale, da un’accentua-
ta discontinuità occupazionale (legata soprattutto alla maternità) e dall’inattività, fenomeno
che investe le donne in misura doppia rispetto agli uomini. Permane indubbiamente il pro-
blema di fondo legato ai servizi di supporto e di cura. Se i parametri europei prevedono che
gli Stati membri offrano servizi all’infanzia al 33% dei bambini di età compresa tra 0 e 3
anni, l’Italia non arriva al 10%. È ormai chiaro che la questione vada affrontata secondo un
approccio multidimensionale e attraverso politiche mirate di welfare to work.
Più in generale, appare necessario che i risultati della flessibilità introdotta nel mercato del
lavoro siano accompagnati da politiche capaci di garantire effettiva sicurezza ai lavoratori
rapporto isfol 2008
nelle transizioni nel mercato del lavoro, secondo il modello della tutela on the market. In un
Paese caratterizzato da un ancora insufficiente base occupazionale (e quindi contributiva),
è auspicabile che aumentino rapidamente gli sforzi per implementare un modello di flexi-
curity, opportunamente rivisitato in una chiave più consona alle specificità del nostro Pae-
se, in grado di fornire ai lavoratori gli strumenti per gestire e superare le fasi di difficoltà.
Nuovi soggetti deboli si affacciano nel mercato del lavoro, ai quali andrebbe posta mag-
giore attenzione. Come i minori a rischio di povertà; un problema emergente, che ci vede
ai vertici della graduatoria relativa alla povertà infantile. L’Italia, inoltre, risulta tra i pae-
si con la maggiore intensità di lavoro minorile. Altri segmenti sono invece da tempo al
centro della scena politica in Italia e in Europa ma si fatica ancora a trovare soluzione ef-
ficaci. È il caso degli immigrati. I flussi di ingresso sono in aumento e riguardano nel no-
stro Paese quasi esclusivamente il Centro-Nord, dove risiede più dell’88% della popola-
zione straniera; un quarto nella sola Lombardia. Ciò impone all’agenda pubblica di in-
dividuare efficaci strumenti volti all’integrazione dei migranti, in modo congiunto tra i
diversi livelli di governo.
Altra criticità che si delinea con crescente evidenza è quella relativa alle disparità terri-
toriali. L’insufficiente tasso di occupazione dell’Italia è dovuto all’insufficiente apporto
delle Regioni meridionali, dove il valore è pari al 46,5%, mentre il Nord-Est e il Nord-Ovest
presentano tassi superiori alla media europea. I dati mostrano come il dualismo del-
l’economia e del mercato del lavoro italiani si sia intensificato. Nel periodo 2000-2007,
ad esempio, l’effetto “scoraggiamento” che ha spinto molti lavoratori - soprattutto don-
ne - nell’area dell’inattività è cresciuta nel Mezzogiorno dell’8,1%, rispetto allo 0,3% del
Nord-Ovest e all’1,7% del Nord-Est. Nel Sud i valori dell’inattività delle donne sono sem-
pre superiori al 50%. Una fotografia che rivela anche un bacino potenziale su cui inve-
stire in politiche di attivazione.
Il tema del federalismo acquista quindi un significato particolare, perché il decentramento
delle politiche attive del lavoro si trasformi in occasione di sviluppo dei territori sulla base
delle diverse caratteristiche locali. Alla luce della ripartizione di competenze operata dal-
la riforma del Titolo V della Costituzione, l’Isfol ha svolto un lavoro di indagine sulle mo-
dalità di governance territoriale delle politiche attive del lavoro, da cui è emerso un ruo-
lo complessivamente discontinuo dell’Amministrazione centrale nella capacità di garantire
il raccordo e la sintesi tra i vari percorsi. A riguardo, appare importante la consapevolezza
sottolineata dal Libro Verde che l’efficacia dell’azione di governance delle politiche del la-
voro dipenda non solo dalle Istituzioni ma anche dal contributo delle Parti sociali.
In tema di istruzione e formazione la lettura dei dati mostra ancora una volta un problema
di dispersione che non accenna a calare. Ciò è vero non solo per il segmento iniziale ma
anche per il post-obbligo. Si conferma, inoltre, la questione della partecipazione degli adul-
ti, sempre troppo bassa rispetto ai parametri europei.
Il riferimento all’Europa spinge ad una considerazione di fondo, prima di procedere ol-
tre nell’analisi degli andamenti. In questi anni la Strategia di Lisbona ha rappresentato
per il nostro Paese uno stimolo importante anche per quel che riguarda le politiche del-
la formazione, imponendo un impianto metodologico nuovo, centrato sulla necessità di
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sintesi
12
ancorare la valutazione dell’intervento pubblico a misurazioni valide e attendibili. Que-
sto impulso si è scontrato con un problema storico delle nostre politiche pubbliche re-
lativo alla scarsa affidabilità dell’informazione statistica disponibile. Inoltre, solo di re-
cente i decisori politici e l’opinione pubblica hanno maturato un interesse verso i dati sta-
tistici. Si pensi soprattutto alla scarsa attenzione riservata alle rilevazioni Oecd fino a qual-
che anno fa, rispetto all’enfasi che ricevevano in altri paesi dell’Unione europea. L’Isfol
ha ultimamente profuso uno sforzo rilevante nel superamento di questa storica difficol-
tà. Anche su stimolo della generale presa di consapevolezza rappresentata dall’avvio del-
la nuova programmazione dei Fondi strutturali, a partire dal 2005 l’Istituto ha intrapre-
so iniziative volte a garantire alla decisione pubblica e al dibattito specialistico flussi di
informazioni valide e attendibili. Iniziative che confluiscono principalmente nel Sistaf (Si-
stema Informativo STAtistico per la Formazione professionale), la cui realizzazione av-
verrà nell’ambito dei Programmi operativi nazionali (PON) del Ministero del Lavoro. Al-
tri segnali in questo senso sono rappresentati dal Libro Verde sul futuro delle politiche
sociali, che dedica un capitolo preliminare proprio alla questione delle basi informative
delle politiche di welfare, e dalla decisione di alcune Regioni di partecipare al PISA (Pro-
gramme for International Student Assessment).
Quanto all’impulso giunto con la Strategia di Lisbona, esso si è concretizzato in un mo-
dello di verifica delle politiche più chiaro e codificato. La certezza che tale impianto con-
ferisce ai dati, com’è ovvio, acuisce il senso d’allarme suscitato dalla loro lettura. Ecco la
situazione del cammino verso i traguardi per il 2010:
almeno l’85% dei ventiduenni nell’Unione europea dovrebbero aver completato l’istru-
zione secondaria superiore: Italia 76,3%, UE 78,1%
il valore medio di persone che lasciano la scuola precocemente non dovrebbe supe-
rare il 10%: Italia 19,3%, UE 14,8%
il livello medio nella partecipazione alle attività di apprendimento lungo tutto l’arco
della vita dovrebbe essere pari almeno al 12,5% della popolazione in età da lavoro, vale
a dire tra i 25-64enni: Italia 6,2%, UE 9,7%
la percentuale di studenti quindicenni con al più il primo livello di competenza in let-
tura deve essere ridotto del 20% rispetto ai valori del 2000: si passa dal 18,9% al 26,4%
per l’Italia, dal 21,3% al 24,1% per l’intera Unione europea.
Nonostante il progressivo avvicinamento agli obiettivi indicati a livello europeo, perma-
ne quindi un forte ritardo; tranne il caso dell’università, con il buon risultato relativo alla
quota di laureati in discipline matematiche, scientifiche e tecnologiche, e alla presenza fem-
minile tra essi. Il dato appare ormai consolidato, così come il riavvicinamento alla me-
dia dell’Unione europea per il completamento del livello d’istruzione Isced 3 (seconda-
rio superiore) e per il tasso di passaggio al livello Isced 5 (istruzione terziaria accademi-
ca e non accademica). Quest’ultima constatazione rimanda a una più ampia tendenza alla
crescita della scolarizzazione che si registra ormai da alcuni decenni.
Ma la costanza della progressione o l’avvicinamento alle medie europee non possono na-
scondere la più generale difficoltà del nostro sistema a immettersi sulla strada la cui de-
stinazione è l’economia più competitiva del pianeta, disegnata a Lisbona ormai 8 anni fa
rapporto isfol 2008
e già tratteggiata nel 1993 dalla Commissione europea presieduta da Jacques Delors. Dif-
ficoltà peraltro comune a quelle di molti paesi partner, non solo tra quelli che partivano
dai livelli più bassi. L’andamento dei dati sulle capacità di lettura dei giovani costituiscono
il principale indicatore di questa non superata difficoltà. L’obiettivo della Strategia di Li-
sbona era di ridurre del 20% i giovani con gravi difficoltà di lettura. Quella quota, in 6
anni è aumentata sia a livello europeo sia a livello nazionale.
Tale impressione, del resto, emerge anche dalla disamina di indici contigui a quelli eletti
a punti di riferimento. Ad esempio, l’andamento del tasso di scolarità sulla popolazione
giovanile disaggregata per età mostra in alcuni casi una riduzione. Infatti, per i quindicenni
si passa dal 94,7% dell’anno scolastico 2003-2004 al 93,1% dell’anno successivo, per risa-
lire al 93,4% dell’anno scolastico 2005-2006 e ridiscendere al 92,9% dell’anno scolastico
2006-2007. È un dato che può ascriversi all’incidenza di vari fattori, come l’eventuale ri-
duzione delle ripetenze. Tuttavia, se si considera anche il limitato aumento di questo in-
dice nel passaggio da un anno scolastico all’altro, l’impressione di un andamento alterno
trova conferma. Considerazioni analoghe possono essere fatte per il tasso di produttività
delle scuole secondarie superiori: si passa dal 71,7% nel 2003-2004, al 70,9% nel 2004-2005,
al 71% nel 2005-2006 per tornare al 68,6% nel 2006-2007. Anche in questo caso l’oscilla-
zione è notevole, ancorché spiegabile con molteplici ragioni, non ultimo l’uso più o meno
restrittivo dei parametri di valutazione agli scrutini o agli esami di maturità.
Di contro, pare incrementarsi, più o meno costantemente, la quota di allievi della formazione
professionale regionale di livello Isced 3 sui pari età. Questa crescita, se si legge assieme
alla distribuzione degli studenti di scuola secondaria per indirizzo di studio, sembra al-
meno attenuare la tendenza all’aumento dell’istruzione generalista. Essa infatti non va a
discapito degli istituti professionali, le cui iscrizioni rimangono sostanzialmente stabili,
con tendenza alla diminuzione.
Non sembra ridursi rapidamente né significativamente la quota di quanti intraprendo-
no gli studi secondari con l’obiettivo di un inserimento professionale. È il segno che l’evo-
luzione del sistema scolastico italiano è coerente con quella degli altri sistemi europei ma
rispetto ad essi più rallentata e prudente.
Relativamente alla specificità dei vari segmenti della formazione professionale in Italia,
il dato più rilevante è rappresentato dall’incremento della quota di popolazione recluta-
ta dalla formazione professionale iniziale. Se a ciò si aggiunge la considerazione relativa
all’efficacia dei percorsi inclusi nel quadro dell’assolvimento del diritto-dovere o, dal 2007,
dell’obbligo d’istruzione, l’impressione di un bilancio positivo assume contorni più net-
ti. Questi andamenti, assieme alla domanda crescente da parte degli allievi e delle fami-
glie, hanno trovato un puntuale riscontro nel pieno inserimento dei percorsi triennali spe-
rimentali nell’ordinamento dell’obbligo di istruzione. Le prospettive dei percorsi trien-
nali paiono promettenti, anche alla luce del fatto che l’opzione viene spesso trascurata nel-
l’informazione orientativa fornita alle famiglie.
Oltre a ciò, restano da dirimere le questioni relative al finanziamento di questa tipologia
di offerta: ciò avrà effetti decisivi sul suo dimensionamento e sulla sua diffusione. Porre
rimedio a tali problematicità fornirà sicuramente un notevole impulso all’espansione ul-
teriore di questo segmento nel sistema di istruzione e formazione professionale.
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sintesi
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Un dato altrettanto netto, ma di segno opposto, è quello dell’apprendistato. La situazio-
ne della regolamentazione - da anni sospesa tra iniziative ogni volta incomplete e non co-
ordinate dello Stato, delle Regioni, dei Contratti collettivi di categoria - ha determinato
una situazione di opacità operativa che spesso rende difficoltoso l’accesso alla formazio-
ne o il suo proficuo svolgimento. Se a ciò si aggiunge l’insufficiente dotazione di risorse,
la conseguenza è agevole a prevedersi: il tasso di copertura, vale a dire il rapporto tra ap-
prendisti occupati e apprendisti formati, è in caduta libera da tre anni. Si passa da più del
25% del 2004 al 20% del 2005 fino al 17,4% del 2006. Da qui il giudizio del Libro Verde
presentato dal Ministro del Welfare, che afferma che «la formazione in alternanza e l’ap-
prendistato non hanno pienamente funzionato». La soluzione prospettata è quella di «ri-
scoprire la vocazione formativa dell’impresa», vista potenzialmente come una «risposta
giusta rispetto a un sistema di formazione pubblica che non decolla e che non risponde
alle esigenze della domanda di formazione da parte di lavoratori e imprese». Sarà que-
sto un importante tema di dibattito nei prossimi anni, soprattutto con riferimento alle
valenze formative dell’apprendistato e alle reali potenzialità delle imprese in questo cam-
po: il diritto alla formazione deve essere garantito almeno attraverso la definizione di li-
velli essenziali di prestazione e la predisposizione di opportuni strumenti di controllo e
di intervento pubblico in caso essi non siano rispettati.
Quanto alla formazione continua, si segnala una pesante carenza di basi informative. Dati
certi riguardano la progressiva costruzione del sistema della bilateralità (soprattutto i Fon-
di interprofessionali) e le modalità di erogazione dei fondi nazionali. Insufficienti le evi-
denze circa i contenuti dei corsi, la loro durata, il livello di partecipazione dei lavorato-
ri, i tempi di erogazione dei finanziamenti. L’ipotesi di lavoro prospettata dal Libro Ver-
de, anche a proposito della formazione continua, merita attenta e articolata discussione,
soprattutto alla luce del fatto che il soggetto preminente nell’organizzazione di queste at-
tività formative è rappresentato, già oggi, dall’impresa.
Infine, il segmento dell’istruzione e della formazione terziaria non accademica. L’attesa di una
definizione normativa e regolamentare è assai forte, se si pensa alle evidenze delle prime an-
nualità di IFTS circa l’attrattività di questi percorsi per varie tipologie di utenti e circa la loro
capacità di soddisfare esigenze e fabbisogni di imprese e lavoratori. Il frutto di queste espe-
rienze confluisce nell’istituzione dei Poli, che rappresenteranno - e in buona parte già rap-
presentano - la sedimentazione delle aggregazioni partenariali e il frutto dell’accumulazio-
ne di saperi tecnologici legati alle più dinamiche e competitive situazioni di sviluppo loca-
le. Va detto che su questo fronte non aiuta la persistente situazione di incertezza giuridica che,
dall’approvazione della Finanziaria 2007 e poi della legge 40/2007, incombe su questo seg-
mento, in piena ridefinizione assieme all’istruzione tecnica di livello secondario superiore.
Da segnalare, comunque, la sempre maggiore attenzione all’intreccio scuola, formazio-
ne e lavoro.
In sintesi, tra le principali criticità riscontrate sotto il profilo generale - oltre alla scarsa
disponibilità di misurazioni attendibili di cui abbiamo già parlato - due aspetti partico-
larmente problematici si evidenziano nel Rapporto di quest’anno: le persistenti dispari-
tà territoriali e i nodi di sistema a livello di governance.
rapporto isfol 2008
Da tempo il sistema di istruzione e formazione italiano appare spaccato, fornendo di sé
un’immagine doppia: da una parte efficienza ed alta qualità, con punte d’eccellenza ri-
spetto ai partner dell’Unione europea e dell’Oecd posizionate al Nord; di contro, bassa
qualità e bassi livelli di performance nelle aree centro-meridionali. In primo luogo, se ve-
diamo i dati relativi all’attività della formazione professionale regionale, emerge un qua-
dro preoccupante. A fronte del 45% circa della popolazione residente e della metà della
forza lavoro, il Nord realizza circa il 76% dei corsi, cui partecipa il 75% degli allievi. Que-
sto a fronte di indici di spesa non dissimili tra le diverse Regioni e assai meglio propor-
zionati alla popolazione residente. Questa disparità, ovviamente, non risparmia la formazione
in apprendistato, il cui tasso di copertura nella media dell’area meridionale del Paese è
del 10,2%, non supera il 9,1% nelle Regioni del Centro ed arriva invece al 28,9% del Nord
Est e al 17,6% del Nord-Ovest. Né scompare se consideriamo i tassi di partecipazione dei
lavoratori alla formazione aziendale e la diffusione dei Fondi Paritetici Interprofessionali.
In secondo luogo, ci sono gli aspetti strutturali, come l’accreditamento delle sedi forma-
tive. Dall’analisi svolta dall’Isfol sui differenti modelli presenti sul territorio emergono chia-
ramente tre Italie: gli approcci più dinamici si trovano nel Nord, i cui sistemi paiono go-
vernati con efficienza e risolutezza da strutture amministrative consapevolmente prota-
goniste dei processi in atto; un gruppo intermedio è rappresentato dalle Regioni del Cen-
tro; mentre le Regioni meridionali conoscono difficoltà e immobilismi ancora assai pe-
santi a distanza di 7 anni dall’avvio dell’accreditamento. Analoghi sono i risultati delle in-
dagini relative ad altri dispositivi regionali, a dimostrazione di come il Sud rappresenti
una vera emergenza: le normative sull’apprendistato, le modalità di pubblicazione dei ban-
di e quelle di assegnazione delle risorse, il monitoraggio e la valutazione, le discipline dei
sistemi di qualifiche e di certificazione.
Un ambito, quest’ultimo, che rappresenta la chiave di volta per garantire la produttività
dei percorsi formativi e che vede il nostro Paese muoversi ancora con troppa lentezza. Così
come servirebbe ben altra rapidità nel dar vita alle anagrafi degli studenti, strumento fon-
damentale per controllare il fenomeno della dispersione.
Arriviamo così alla questione della governance. La formazione professionale è uno dei ter-
reni su cui tale problematica determina difficoltà assai gravi, che si ripercuotono in ter-
mini di inefficienza, stallo organizzativo, iniquità nell’accesso a servizi connessi al godi-
mento di fondamentali diritti di cittadinanza. L’ultima codificazione nel nostro ordina-
mento, com’è noto, è rappresentata dalla riforma del Titolo V della Costituzione. L’ar-
chitettura istituzionale che ne è emersa implica un delicato lavoro di definizione dei li-
velli essenziali delle prestazioni e degli snodi di sistema, da svolgersi secondo un regime
di concertazione tra Ministeri del Lavoro e della Pubblica Istruzione, Regioni e Provin-
ce autonome e Parti sociali. In questi anni, nonostante i numerosi tentativi, esso è rima-
sto sostanzialmente irrisolto. Il Libro Verde del Ministro del Welfare offre anche qui una
proposta mirata, con l’obiettivo di attuare i principi del Titolo V, rilanciando il processo
di definizione dei livelli essenziali e varando un’agenzia che abbia il compito di interve-
nire opportunamente nel caso in cui le autonomie locali e funzionali non ne garantiscano
il rispetto. In tal modo si compirebbe il disegno riformatore, articolando con maggior chia-
rezza le funzioni politiche e amministrative che devono rendere operanti i poteri in cui
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sintesi
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si incarna il principio costituzionale della sussidiarietà verticale. Questa netta presa di po-
sizione si basa su un altrettanto chiaro giudizio negativo circa le modalità con cui si è an-
dato attuando il decentramento nel nostro Paese. Tutto ciò dimostra l’urgenza di un pro-
fondo ripensamento della governance del sistema della formazione professionale e dei Ser-
vizi all’impiego, laddove la mancanza di una puntuale definizione dei compiti e delle in-
terrelazioni tra Stato e Regioni può favorire disparità ed inefficienze. È opportuno quin-
di che ai processi di deregolamentazione siano affiancate azioni volte a rafforzare una strut-
tura di governo capace di intervenire in un’ottica di sistema.
rapporto isfol 2008
Politiche di coesione
I nuovi Programmi Operativi (PO) della politica di coesione per il periodo 2007-2013 han-
no a disposizione 347 miliardi di euro, la seconda voce di spesa del bilancio comunita-
rio e la prima in materia di crescita ed occupazione. Rispetto al passato, si registra un ri-
levante aumento dei finanziamenti (intorno al 25%) a sostegno della Strategia di Lisbo-
na, che corrispondono ad una media del 65% nei programmi dell’obiettivo Convergen-
za e ad una dell’82% in quelli dell’obiettivo Competitività.
L’investimento in R&S e innovazione rappresenta circa il 20% dei fondi, mentre l’8% è
dedicato alla promozione dello sviluppo aziendale, ad esempio con misure che favoriscano
l’imprenditorialità. Forte rilevanza viene data al capitale umano, soprattutto attraverso
interventi volti al miglioramento dell’offerta di istruzione e formazione e con un’atten-
zione particolare all’apprendimento permanente. Aspetto centrale della nuova pro-
grammazione, inoltre, è la volontà di accrescere la partecipazione al mercato del lavoro,
specialmente in riferimento alle donne, ai giovani, ai lavoratori più anziani e a quelli poco
qualificati. Si è poi rivolto un sostegno maggiore ad ambiti quali l’immigrazione,
l’esclusione sociale, lo sviluppo sostenibile; mentre sul fronte della governance si assiste
ad un più forte ruolo del partenariato allargato, che oltre alle parti sociali comprende ONG,
università, agenzie di sviluppo regionale, rappresentanze sociali, promuovendo anche for-
me di cooperazione tra pubblico e privato.
Il riferimento alle priorità previste nel regolamento comunitario del Fondo sociale eu-
ropeo (FSE) è molto alto in tutti i 27 Stati membri, nonostante combinazioni differenti
nella definizione dei PO. Il nostro Paese, da questo punto di vista, si distingue per una di-
stribuzione regionale assai accentuata, avendo presentato il più alto numero di programmi.
L’analisi dei PO FSE italiani mette in luce l’emergere di temi nuovi: l’invecchiamento at-
tivo, la sicurezza sul lavoro, la ricerca di un nuovo rapporto tra flessibilità ed esigenza di
stabilità per i lavoratori, il rapporto tra innovazione tecnologica, ricerca e formazione, le
politiche di conciliazione, i nuovi diritti di cittadinanza, l’inclusione attiva, la lotta con-
tro le discriminazioni, gli strumenti per la qualità della formazione, lo sviluppo di una
maggior efficienza nell’azione amministrativa.
Sezione 1
Europa
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Intanto, il dibattito sul futuro delle politiche di coesione è già iniziato e si profila la ten-
denza sia ad un più marcato decentramento delle competenze, sia ad un maggiore coor-
dinamento con le altre politiche comunitarie e con le politiche nazionali. In Italia, ciò può
significare l’avvio di una riflessione seria circa il reale impatto dei Fondi strutturali ed in
particolare del FSE come occasione non tanto di sostituire risorse nazionali sempre più
scarse bensì di introdurre innovazione e qualità.
rapporto isfol 2008
La Strategia di Lisbona
Nel 2005 la Strategia di Lisbona è stata riorganizzata in cicli di revisione triennale. Il pri-
mo periodo ha prodotto risultati importanti. Oltre 87 azioni sulle 102 preannunciate era-
no già state realizzate entro la metà del 2007. Per il nuovo periodo 2008-2010 sono stati
individuati dieci obiettivi chiave, basati sulle Linee guida integrate per la crescita e l’oc-
cupazione. Tre sono i settori prioritari: attirare nel mondo del lavoro un maggior numero
di persone, accrescere l’offerta di manodopera e attualizzare i sistemi di protezione so-
ciale; migliorare l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese e rendere più flessibile il mer-
cato del lavoro; aumentare gli investimenti nel capitale umano, migliorando l’istruzio-
ne e le competenze.
Le Linee guida integrate per la crescita e l’occupazione sono a loro volta ispirate ai prin-
cipi comuni per la flexicurity - approvati dal Consiglio europeo nel dicembre del 2007 -
che gli Stati membri sono invitati ad attuare, sulla base dei diversi contesti politici, eco-
nomici e sociali.
In pratica, ogni paese dovrà individuare la sua specifica via di conciliazione tra politiche
di flessibilità e sicurezza.
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sintesi
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Apprendimento permanente
Riconoscimento delle competenze
In materia di trasparenza e riconoscimento di titoli, qualifiche e competenze l’anno ap-
pena trascorso è stato segnato da importanti passi avanti, con il varo della raccomanda-
zione sull’EQF (European Qualification Framework) nell’aprile 2008 e la progressione del-
le proposte sull’ECVET, il sistema europeo per il riconoscimento dei crediti. L’adesione
volontaria all’EQF da parte degli Stati membri renderà effettiva tra il 2010 e il 2012 la cor-
relabilità e reciproca leggibilità di tutti i titoli e le certificazioni rilasciate in Europa.
Intorno ai meccanismi EQF ed ECVET la Commissione ha messo in campo anche una
serie di ulteriori iniziative, che nel loro complesso ampliano in modo significativo la pro-
spettiva concreta di uno spazio europeo dell’apprendimento permanente (lifelong lear-
ning): lo sviluppo di Linee guida relative alla validazione dell’apprendimento non formale
e informale, la sempre più ampia diffusione di Europass (portafoglio di documenti per
favorire la leggibilità di titoli e competenze), l’adozione delle competenze chiave per l’ap-
prendimento permanente, la proposta di raccomandazione relativa alla qualità dei siste-
mi educativi. L’Italia, tramite i Ministeri competenti e con il supporto dell’Isfol, ha par-
tecipato attivamente al percorso di elaborazione e di lancio di queste iniziative.
Anche per il sistema ECVET ci sarà un progressivo percorso di avvicinamento per l’ade-
sione entro il 2012. Nel frattempo, si dovrà lavorare all’allestimento delle condizioni strut-
turali e culturali perché quest’occasione diventi un reale fattore di crescita per ciascun si-
stema paese. In tal senso, sono previste sperimentazioni promosse dalla Commissione eu-
ropea (tramite, ad esempio, il Programma Lifelong Learning) o dai singoli Stati in rela-
zione agli specifici fabbisogni.
Per quel che riguarda l’Italia, iniziative come il Tavolo tecnico per la costruzione del Si-
stema nazionale di standard minimi o la sperimentazione nazionale del Libretto forma-
tivo del cittadino si muovono lungo queste direttrici ed appaiono allo stesso tempo coe-
renti con la filosofia delineata nel recente Libro Verde sul futuro modello sociale, predi-
sposto dal Ministero del Lavoro, che vede l’individuo al centro di un sistema di oppor-
tunità e tra queste, in primo luogo, la valorizzazione delle competenze acquisite, elemento
chiave per favorire e sostenere l’occupabilità del cittadino lavoratore.
Europass
A tre anni dalla sua nascita Europass si conferma strumento indispensabile alla messa in
trasparenza delle competenze maturate dagli individui al fine di renderle più compren-
sibili e utilizzabili nella mobilità tra i contesti di apprendimento e il mercato del lavoro.
Secondo i dati forniti dal Cedefop, le visite al portale Europass europeo sono state sino ad oggi
11,5 milioni, con circa 18mila accessi al giorno, I curriculum vitae Europass generati o scari-
cati on line sono circa 6,4 milioni e l’Italia si colloca in assoluto al primo posto per numero
di download. Dal 2005 sono quasi 92mila i documenti Europass Mobility (EM) rilasciati in
tutta Europa; nel nostro Paese il centro nazionale Europass - attivo presso l’Isfol - ne ha emes-
si circa 12mila, la metà solo nel 2007. Ed anche quest’anno l’Italia si appresta a confermar-
si leader per numero di libretti EM rilasciati (sono quasi 5mila al settembre 2008).
rapporto isfol 2008
Tuttavia, è comune la sensazione che il potenziale di tale strumento non sia del tutto emer-
so e che ancora molto possa essere fatto per accrescere i suoi effetti positivi. La leggibili-
tà dei titoli e delle qualifiche in possesso ai singoli individui, ad esempio, oltre che da for-
mati comuni dovranno essere sostenuti anche da linguaggi condivisi.
Qualità dell’istruzione e della formazione professionale
Uno dei punti centrali della strategia messa a punto dall’Unione europea in materia di
istruzione e formazione professionale riguarda la qualità dell’offerta formativa, come pre-
supposto indispensabile non solo per garantire l’effettiva acquisizione di conoscenze ma
anche per promuovere l’occupabilità delle persone. Per questo motivo, dopo un lungo la-
voro istruttorio condotto negli ultimi anni dalla Rete europea per la qualità (ENQA-VET),
la Commissione ha proposto una raccomandazione - che si prevede possa essere porta-
ta all’approvazione definitiva entro il 2009 - specificatamente dedicata a tale ambito. Pren-
de corpo un modello di riferimento (l’European Quality Assurance Reference Framework
- EQARF) ed alcuni strumenti di supporto operativo che aprono la strada ad un nuovo
approccio strategico, rovesciando una filosofia di governo basata finora più sulla defini-
zione di procedure che sull’indicazione di obiettivi confrontabili e misurabili.
Da segnalare che l’Italia, titolare della vicepresidenza della Rete europea per la qualità, è
stato uno dei primi paesi ad istituire il Punto di riferimento nazionale (Reference Point),
gestito operativamente dall’Isfol.
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sintesi
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Pari opportunità e non discriminazione
Agenda sociale
Malgrado l’esistenza di un’Agenda sociale per il 2005-2010, il Consiglio europeo ha ri-
chiesto una nuova strategia per fronteggiare ampiezza e rapidità dei cambiamenti in atto,
con riferimento specifico alla globalizzazione, al mutamento tecnologico e ai cambiamenti
demografici. Nel luglio 2008 la Commissione ha conseguentemente presentato un’Agen-
da sociale rinnovata, come tentativo di risposta ai problemi di discriminazione che in-
vestono ampie fasce di popolazione, dai giovani alle donne, dai lavoratori anziani agli im-
migrati e in generale ogni gruppo soggetto a barriere che impediscano il godimento di
pari opportunità.
Ampia rilevanza è stata data alle problematiche connesse con il progressivo invecchiamento
e riduzione della popolazione europea: si prevede infatti un calo del 10% entro il 2050.
Immigrazione
In tema di immigrazione, da tempo l’Europa insiste sulla necessità di avviare una strate-
gia comune e in tale ottica, con il Programma dell’Aia varato nel 2005, sono state stabi-
lite dieci priorità da mettere in atto entro il 2009. Ad un anno dalla scadenza, la Commissione
ha adottato due iniziative (una Comunicazione sulla politica di immigrazione ed un Pia-
no strategico sull’asilo) che completano questo quadro d’azione. Complessivamente, l’im-
postazione di massima continua a prevedere il contrasto dell’immigrazione clandestina,
la regolamentazione di quella legale e la cooperazione con i paesi di origine. Su queste basi,
infatti, è stato predisposto anche il Programma 2007-2013 Solidarietà e gestione dei flus-
si migratori, che dispone di quattro fondi: per i rifugiati, per le frontiere esterne, per l’in-
tegrazione dei cittadini dei paesi terzi, per i rimpatri.
Il fenomeno dell’immigrazione sta assumendo per l’Unione europea una rilevanza sem-
pre maggiore: su una popolazione che conta intorno ai 500 milioni di abitanti, circa 27
milioni sono gli immigrati con cittadinanza straniera, che diventano circa 50 milioni se
si includono anche coloro che hanno acquisito la cittadinanza presso uno degli Stati mem-
bri. La portata dei numeri mostra l’esigenza di approcci non più gestibili dai singoli pae-
si europei, soprattutto in una condizione di libera circolazione dei cittadini e di apertu-
ra delle frontiere interne.
La prospettiva di una politica comune è dunque il presupposto perché l’immigrazione
legale possa accrescere il proprio contributo allo sviluppo socioeconomico dell’Unione.
Servono regole chiare sui requisiti e le procedure per l’ingresso e il soggiorno nel terri-
torio comunitario; strumenti di valutazione dei bisogni del mercato del lavoro europeo;
una piena integrazione dei cittadini immigrati. L’Europa invita a non vedere il fenome-
no migratorio solo in termini di problema, ma come fattore importante per lo sviluppo
della Strategia di Lisbona e quindi come elemento essenziale per incrementare la com-
petitività del sistema produttivo. Di qui l’esigenza di una maggiore integrazione dei cit-
tadini dei paesi terzi, che può avvenire innanzitutto partendo dall’istruzione. È questo il
concetto essenziale del Libro Verde su migrazione e mobilità presentato lo scorso luglio.
rapporto isfol 2008
Esistono differenze molto accentuate tra i risultati scolastici degli studenti autoctoni e quel-
li di coloro che provengono da famiglie straniere. Ancora più preoccupante è il trend che
vede gli studenti immigrati di seconda generazione ottenere performance peggiori della
generazione precedente, segno che il divario sociale tra immigrati e nativi si va ampliando
con il passare del tempo. Inoltre, sembra acuirsi il fenomeno della segregazione determinata
dalla concentrazione di immigrati nelle scuole situate in specifiche zone, con il circolo vi-
zioso del calo di iscritti da parte dei ragazzi con situazioni sociali migliori. Ciò determi-
na un generale abbassamento della qualità formativa, accrescendo in modo la disparità
tra le scuole.
Con l’adozione del Libro Verde la Commissione ha inteso aprire un dibattito su queste
problematiche, al fine di predisporre un documento che traccerà le linee per una futura
cooperazione tra gli Stati membri.
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sintesi
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Programmi e iniziative comunitarie
Leonardo
L’avvio del Programma di Apprendimento Permanente 2007-2013 ha profondamente mo-
dificato il contesto di implementazione del Programma Leonardo da Vinci, che è stato in
esso integrato. Attivato sotto pressione, in tempi troppo ristretti per poter trasferire tut-
ta l’innovazione di cui è portatore, Leonardo ha avuto nel 2007 una domanda di parte-
cipazione che si attesta su valori analoghi alla media degli anni precedenti, ma con un li-
vello di qualità della progettazione non pienamente soddisfacente. In termini di innovatività,
le proposte progettuali non hanno prodotto apprezzabili rotture di continuità con il pas-
sato. Ciò ha stimolato nel 2008 l’attivazione di una serie di contromisure a livello euro-
peo, come la scelta di ritornare alla struttura pluriennale dei bandi.
Complessivamente, negli ultimi anni la maggior parte delle risorse è stata finalizzata a sup-
portare la Strategia di Lisbona, finanziando interventi volti a migliorare la qualità dei si-
stemi, incrementando le competenze dei formatori o supportando i sistemi educativi e
formativi nell’individuazione di strumenti e metodi per rendere trasferibili competenze
e qualifiche dei cittadini europei. Nel 2008 il focus è stato posto sull’apprendimento de-
gli adulti.
Ad oggi, risultano impegnati circa 40 milioni di euro per progetti di mobilità transnazionale
e di trasferimento dell’innovazione. Per il 2009, anche se il dato non è ancora definitivo,
le risorse utilizzabili dovrebbero attestarsi sui 23-24 milioni di euro.
Equal
I documenti di programmazione delle politiche di coesione hanno ampiamente attinto
dall’esperienza maturata con i circa 3.200 progetti (di cui 700 solo in Italia) dell’inizia-
tiva Equal, conclusasi nel giugno 2008. Parole chiave quali partenariato, mainstreaming,
cooperazione transnazionale sono transitate direttamente nel Fondo sociale europeo, fa-
vorendo un linguaggio comune nonostante le diverse modalità di attuazione in rappor-
to al contesto. I principi e le pratiche di successo di Equal continuano, inoltre, a rappre-
sentare un’indicazione per la progettazione esecutiva dei programmi FSE.
Un esempio di particolare successo è rappresentato dal network dedicato al Sound plan-
ning management, di cui il Ministero del Lavoro tramite l’Isfol è stato capofila e che ha
aggregato attori istituzionali del Fondo sociale intorno all’approccio metodologico del
Project Cycle Management (PCM). Sono state messe a disposizione prassi e strumenti
di progettazione, un ambiente tecnologico di comunicazione e condivisione, un mo-
dello metodologico formativo ed una comunità di esperti ed operatori, attraverso cui
sviluppare nuove iniziative. Nel 2008 il progetto è stato segnalato come buona pratica
della programmazione 2000-2006 dal Valutatore indipendente europeo ed incluso dal
Ministero della Funzione Pubblica tra i 100 progetti migliori realizzati dalla pubblica
amministrazione.
rapporto isfol 2008
Principali andamenti
Il quadro macroeconomico
Dopo quattro anni di ritmi sostenuti, nella seconda metà del 2007 la crescita mondiale
ha cominciato a rallentare la sua corsa. In Italia, l’andamento del PIL riflette questa di-
namica e passa dall’1,8% del 2006 all’1,5% dell’anno successivo, mantenendo però uno
scarto di circa un punto percentuale rispetto alla media dell’area euro.
Viceversa, l’aumento dell’occupazione nel nostro Paese appare più marcato nel confronto
con i partner europei, sebbene vi sia anche in questo caso un rallentamento dal +1,7%
del 2006, al +1% del 2007, fino a meno dell’1% nel primo semestre del 2008. Si continua
inoltre a registrare una dinamica piuttosto debole della produttività del lavoro (+0,3%),
tanto da poter ritenere che sia stata la maggiore occupazione la principale determinan-
te della crescita del prodotto. Si conferma così un modello di sviluppo delle imprese ita-
liane caratterizzato da una più alta intensità del fattore lavoro.
Non mancano comunque segnali di ristrutturazione del sistema. Vi è, ad esempio, un in-
cremento della dimensione media d’impresa, che in Europa si riduce nel 1999-2005 da
6,8 a 6,5 addetti, mentre in Italia passa da 3,7 a 3,9. Si assiste ad un’accelerazione delle ces-
sazioni di imprese, che rivela un processo di riallocazione di quote di produzione verso
le aziende più capaci di realizzare significative innovazioni nelle strategie aziendali, con
impiego di forza lavoro più qualificata, rinnovo della gamma dei prodotti, investimenti
sul marchio e internazionalizzazione della produzione e della rete di fornitori.
Rispetto alle principali economie dell’UE l’Italia mostra un vantaggio comparativo in ter-
mini sia di costo del lavoro orario (pari nel 2004 a 22,99 euro contro i 25,04 della media
UE o gli oltre 28 di Germania e Francia) sia di dinamica retributiva, in assoluto la più con-
tenuta nelle principali economie sviluppate. Nel 2000-2006 abbiamo nel nostro Paese re-
tribuzioni reali nette stazionarie, mentre crescono del 6% in Francia e del 5,7% in Ger-
mania, fino a raggiungere l’11% nel Regno Unito.
Altra caratteristica del nostro sistema è la forte apertura all’estero: il contributo mag-
giore all’incremento del PIL viene dalla domanda estera, a fronte di una debolezza tan-
to dei consumi quanto degli investimenti, entrambi in rallentamento nel 2008. Ed an-
cora rilevanti sono le debolezze strutturali, in particolare la forte incidenza delle pic-
Sezione 2
Lavoro
25
26
cole e piccolissime imprese, che ancora basano larga parte della propria capacità com-
petitiva sui costi, investendo poco sull’innovazione (nel 2005 il contributo delle imprese
private alla spesa in ricerca e sviluppo era in Italia pari a circa il 50,5%, contro il 63,6%
dell’area euro).
In conclusione, l’economia italiana rischia di risentire della debolezza della congiuntu-
ra internazionale ed attestarsi su livelli di crescita pressoché nulli, con possibili ripercus-
sioni anche sull’occupazione. Sembrano quindi opportune misure di sostegno dei con-
sumi, attraverso l’aumento del reddito disponibile delle famiglie. In questo senso, le ipo-
tesi di intervento sul costo del lavoro potrebbero rappresentare un utile strumento. Nel
medio-lungo termine pare comunque fondamentale una riduzione della dipendenza del
sistema dalla competitività di costo, a favore di una maggiore innovazione di prodotto e
di processo.
Mercato del lavoro
Venendo agli andamenti specifici del mercato del lavoro, la crescita occupazionale con-
tinua in Italia anche nel 2007 (+1%) e con oltre 23 milioni di occupati abbiamo raggiunto
il massimo storico. Ma vi sono anche su questo fronte segnali di rallentamento e in pro-
spettiva, con un contesto macroeconomico stagnante, la più immediata reattività della
domanda di lavoro al ciclo economico - dovuta alla maggiore flessibilità delle forme con-
trattuali - fa supporre l’arresto imminente della dinamica espansiva dell’occupazione (al
primo semestre 2008 si registra infatti una crescita inferiore all’1%).
Il tasso di occupazione è sempre lontano dagli obiettivi di Lisbona e di molto inferiore
alla media dei paesi UE: nel 2007 è pari al 58,7% contro il 65,4%. Anche considerando
l’insieme dei soli paesi “mediterranei” (cioè, oltre al nostro, Grecia, Portogallo e Spagna)
abbiamo comunque il valore più basso in tutti gli anni compresi tra il 2000 e il 2007. Ma
a ben vedere, questo dato rappresenta la sintesi tra il forte ritardo delle Regioni meridionali
(46,5%) e i tassi superiori alla media europea del Nord’Italia (intorno al 67%).
Il dualismo del mercato del lavoro in Italia si accresce. Anche in termini di aumento del-
l’occupazione, che nel 2000-2007 segna un +4,7% nel Mezzogiorno rispetto al 9,9 del Nord-
Ovest, all’8,9 del Nord-Est e addirittura al 16,8% del Centro. Nello stesso periodo le Re-
gioni meridionali hanno avuto un calo molto consistente della disoccupazione (-44% con-
tro il 29,6 del Nord-Est, il 19,2% del Nord-Ovest e il 26,4% del Centro) ma - oltre al per-
manere di un forte gap con il resto d’Italia (il relativo tasso dell’11% è quasi doppio ri-
spetto a quello medio nazionale) - tale andamento appare senza dubbio favorito dal co-
siddetto effetto “scoraggiamento”, dietro cui solo in parte si cela il lavoro nero. Nel Mez-
zogiorno la percentuale degli inattivi è cresciuta in quello stesso periodo dell’8,1%, var-
cando la soglia dei dieci milioni di persone. Nelle Regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est
l’incremento è stato rispettivamente di appena lo 0,3% e l’1,7%.
La crescita complessiva a livello nazionale è trainata dalla componente femminile, seb-
bene si registrino segnali di rallentamento. Le donne continuano comunque a rappre-
sentare un segmento debole del mercato del lavoro, rappresentando poco meno del 40%
degli occupati.
rapporto isfol 2008
Tra tutte coloro che risultano occupate nel 2007 solo il 26,4% era in cerca di lavoro nel
2006, rispetto ad un valore del 35,4% relativo alla componente maschile. E tra le inatti-
ve del 2007 ben il 7,6% aveva un lavoro l’anno precedente (contro il 4,1% degli uomi-
ni), mentre le disoccupate erano il 44,4% (rispetto al 32,8% degli uomini); evidente se-
gnale di una situazione di marginalità perdurante.
27
sintesi
2006
2007
Occupato
In cerca
di occupazione
Inattivo
Totale
Occupato 93,0 1,6 5,5
In cerca di occupazione 30,7 30,5 38,9
Inattivo 4,6 2,4 92,9
Uomini
Occupato 94,4 1,5 4,1
In cerca di occupazione 35,4 31,8 32,8
Inattivo 5,7 2,7 91,5
Donne
Occupata 90,7 1,7 7,6
In cerca di occupazione 26,4 29,3 44,4
Inattivo 4,0 2,2 93,8
I flussi nel mercato del lavoro (val. %)
Fonte: Panel Isfol su RCFL - Istat
Un altro collettivo fortemente penalizzato è poi quello dei giovani. Tra i 15-24enni il tas-
so di occupazione non raggiunge il 25% e risulta in calo rispetto al 2000; gli inattivi sono
invece aumentati di circa il 10%.
Infine, il dato relativo alla produttività del lavoro, che si contrae rispetto alle principali
economie europee. Fatta pari a 100 la media UE, nel 1995 la produttività nel nostro Pae-
se era 105, scende sotto la soglia nel 2001 ed arriva a 95 nel 2006.
Le forme contrattuali
L’andamento positivo dell’occupazione tra il 2000 e il 2007 è soprattutto il risultato del-
la crescita del lavoro alle dipendenze (+13,3%). E tra i dipendenti il maggiore contribu-
to è giunto dal lavoro permanente, in tutti gli anni considerati ad eccezione del 2006. Il
peso del lavoro a termine sul totale dell’occupazione rimane contenuto (9,8% nel 2007),
sebbene presenti un andamento crescente e più marcate oscillazioni in funzione del ci-
clo economico.
28
L’analisi per classi di età evidenzia come nel 2007 il contratto a termine e le collaborazioni
siano forme di lavoro riservate prevalentemente alla popolazione più giovane, mentre gli
occupati ricadenti nelle fasce di età intermedie rappresentano il segmento più stabile del
mercato del lavoro italiano. Maggiormente stabili sono anche gli occupati nel Centro-
Nord rispetto a quelli del Mezzogiorno, dove si registra la quota più elevata di dipendenti
a termine (13%) e quella più bassa di permanenti (60,3%).
Le transizioni dalla temporaneità alla stabilità risultano in aumento per i collaboratori, pro-
babilmente a causa dei provvedimenti volti alla corretta applicazione della relativa normativa:
tra il 2006 e il 2007 il 14,2% è passato a tempo indeterminato, con un aumento di circa 4
punti percentuali rispetto al biennio 2005-2006; l’11,2% è diventato a tempo determinato,
con un incremento del 3%. Sono invece stabili le transazioni relative agli occupati a tem-
po determinato: circa un dipendente su 4 viene stabilizzato nel corso di un anno.
Vanno comunque evidenziati gli elevati tassi di permanenza sia per le collaborazioni che
per il lavoro a tempo determinato: in entrambi i casi, infatti, sono ben oltre il 50% colo-
ro che mantengono la stessa tipologia contrattuale dell’anno precedente.
Per quel che riguarda i flussi dalla ricerca di lavoro verso l’occupazione si riscontra una
contrazione: la quota di chi a distanza di un anno è riuscito a trovare un lavoro passa dal
33% del biennio 2005-2006 al 30,6% di quello 2006-2007. Inoltre, aumentano i flussi dal-
la disoccupazione all’inattività: dal 37,3% del 2005-2006 al 38,9% del biennio successi-
vo. In sostanza, tra tutti i disoccupati circa il 30% riesce ad ottenere un’occupazione, una
fetta analoga continua a rimanere senza lavoro ed il resto finisce nell’inattività.
rapporto isfol 2008
2006
2007
In cerca di
occupaz.
Inattivo
Dipendente
deter.
Dipendente
indeter.
Indipen. Collab.
Dipendente determinato 5,4 11,5 54,9 24,6 1,9 1,7
Collaboratore 3,6 12,0 11,2 14,2 5,7 53,2
2005
2006
In cerca di
occupaz.
Inattivo
Dipendente
deter.
Dipendente
indeter.
Indipen. Collab.
Dipendente determinato 5,6 11,0 54,7 24,9 2,2 1,6
Collaboratore 5,0 10,9 8,2 10,5 6,8 58,6
Le transizioni nel mercato del lavoro per tipologia di contratto (val. %)
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat - RCFL
Collaboratori della gestione separata Inps
Relativamente alla gestione separata Inps, il numero degli iscritti è cresciuto tra il 2005
e il 2006 del 6% circa, passando da 1.500.285 a 1.585.913.
I cosiddetti “atipici” sono circa 720 mila, poiché non avendo un’ulteriore copertura con-
tributiva se ne deduce che svolgano l’attività di collaborazione come occupazione unica
(a differenza di amministratori, sindaci di società, borsisti, etc.).
Se il reddito medio annuo degli iscritti assomma a circa 15.200 euro, per gli atipici su-
pera solo di poco i 9.000.
Il part-time
Nel 2007 i lavoratori a tempo parziale risultano 3.163.000, con un incremento di oltre 100
mila unità rispetto all’anno precedente e un tasso di crescita più alto di quello dell’oc-
cupazione complessiva. Ciò non toglie che tale tipologia rimanga inferiore alla media co-
munitaria: il nostro 13,6% di contro al 18,2% dell’UE 27 e il 20,9% dell’UE 15.
Il lavoro a tempo parziale si concentra in larga parte nel settore dei servizi, che assorbe
l’83% di tutti i lavoratori impiegati tramite questo istituto, nonostante una sua inciden-
za sul totale degli occupati pari al 17,1%.
Se per gli uomini il part-time rimane una caratteristica transitoria delle prime esperien-
ze lavorative, per la componente femminile resta fortemente legato alla conciliazione tra
vita privata e lavoro. Tra le donne in cerca di occupazione circa il 31% preferirebbe un
lavoro a tempo parziale (nella fascia 35-44 anni si arriva al 42,8%), percentuale che tra
gli uomini non supera il 3,8%.
A fronte di questa alta richiesta, una consistente quota di lavoratori a tempo parziale (cir-
ca il 41%) si dice insoddisfatta della propria condizione lavorativa, segno di un possibi-
le mismatch nel mercato del lavoro.
29
sintesi
Uomini Donne
Solo tempo parziale 2,0 16,5
Preferibilmente tempo parziale 1,8 14,4
Totale tempo parziale 3,8 30,9
Preferenze tra le persone in cerca di lavoro anno 2007 (val. %)
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat, RCFL
30
Lavoro irregolare
L’economia sommersa pesa relativamente meno sugli equilibri del nostro Paese. Nel 2006
si è registrata rispetto agli anni precedenti una diminuzione del valore aggiunto prodotto
nell’area del “nero”. Valore che oscilla tra un minimo del 15,3% del PIL ed un massimo del
16,9%. Le unità di lavoro non regolari sono stimate in poco meno di 3 milioni, con un calo
nel periodo 2000-2006 del 4,6%. Il tasso d’irregolarità si attesta intorno al 12%.
Il sommerso, tuttavia, si concentra e accresce la sua portata strutturale nelle Regioni che
non riescono ad agganciare i processi di modernizzazione. Restano infatti importanti dif-
ferenze a livello territoriale: il tasso di irregolarità nel Mezzogiorno arriva al 19,6%, con-
tro una media nazionale del 12,1%.
Merita evidenziare a questo proposito come le Regioni meridionali abbiano avviato in-
teressanti esperienze per fronteggiare il fenomeno, dai tavoli bilaterali per l’emersione con-
certati con le parti sociali agli osservatori locali sull’emersione.
Un’indagine specifica sull’occupazione maschile irregolare è stata svolta dall’Isfol nel cor-
so dell’anno. Gli irregolari risultano 1.480.000, pari a circa il 58,4% di tutto il sommerso.
Le quote più elevate si registrano nel settore dei servizi (64%), nel Sud (50,3%), tra gli ita-
liani (69%), in relazione a titoli di studio bassi (55%) e ad un’età superiore ai 30 anni (54%).
Il lavoro irregolare e sommerso degli uomini non sembra avere natura occasionale né es-
sere di breve durata. Il guadagno mensile risulta inferiore ai 1.000 euro per circa il 78%
del campione. Il 38% dichiara di svolgere un’attività a condizioni irregolari perché non
ha trovato altro lavoro.
rapporto isfol 2008
Fabbisogni professionali
La polarizzazione tra alte e basse qualifiche
In collaborazione con altri Istituti di ricerca, l’Isfol predispone con cadenza annuale uno sce-
nario di medio termine relativo all’evoluzione della domanda di lavoro in Italia. Le proie-
zioni per il 2007-2012 stimano che l’occupazione proseguirà nel trend di crescita osserva-
to nell’ultimo decennio, con un incremento di circa 1 milione e 200mila unità (pari al 5%).
Tale aumento sarà prevalentemente determinato dalle professioni a basso livello di quali-
fica (8%) e da quelle alto livello (quasi il 6%); mentre le professioni intermedie si fermano
intorno al 3%.
Si va quindi accentuando il lento processo di polarizzazione delle professioni. Occorre a
tal proposito ricordare che rispetto ad altri paesi europei o agli Stati Uniti, l’Italia presen-
ta ancora una quota relativamente bassa di occupati nelle professioni ad alta qualifica, ed
in particolar modo in quelle intellettuali e scientifiche, che pesano nel 2007 per circa il 10%
contro una media del 13,7% nell’UE 15. Nei prossimi anni le maggiori variazioni occu-
pazionali riguarderanno proprio questo gruppo professionale, con una crescita dell’8,7%
entro il 2012, dovuto prevalentemente agli specialisti in scienze gestionali, commerciali e
giuridiche, cui seguono architetti, ingegneri, ed esperti informatici. Buone performance an-
che da parte delle professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi, che do-
vrebbero aumentare nei prossimi cinque anni di circa il 6,6%. Le professioni tecniche cre-
scono invece del 5,5%, mentre il gruppo degli impiegati non supera il 3,8%, rimanendo
al di sotto della crescita media dell’occupazione nel suo complesso. Debole anche l’evo-
luzione del gruppo relativo a legislatori, dirigenti ed imprenditori, che sfiora il 2%.
La nuova classificazione delle Unità Professionali
L’esigenza di mettere in cantiere una classificazione che superasse i limiti di quella stati-
stica si avvertiva da tempo. La Cabina di Regia che sovrintende allo sviluppo del sistema
dei fabbisogni professionali ha sollecitato l’attuazione di questa iniziativa affidandone al-
l’Isfol la realizzazione. La nuova classificazione a cui si è pervenuti è stata denominata No-
menclatura delle Unità Professionali (NUP).
Il nuovo sistema di rappresentazione è utilizzato anche nel Tavolo istituito presso il Mini-
stero del Lavoro per la definizione degli standard professionali, formativi e di certificazione.
Occupazione e sviluppo sostenibile
Il tema della sostenibilità è divenuto un obiettivo fondamentale della politica europea, con-
fermando la centralità delle politiche ambientali nelle strategie di sviluppo e l’esigenza di
una maggiore integrazione tra tutela delle risorse naturali, competitività ed occupazione.
Le potenzialità dell’ambiente nel mercato del lavoro sono evidenti: l’occupazione ambientale
cresce di circa il 41% nel 1993-2007, con un peso rilevante della componente femmini-
le (che si raddoppia, passando dal 12,7% al 24,8%).
Inoltre, negli ultimi cinque anni il mercato del lavoro ambientale si è caratterizzato per
una perdita di consistenza dei lavori scarsamente qualificati, di contro ad un aumento di
occupazione legata a professioni intermedie di tipo tecnico e di elevata specializzazione.
31
sintesi
32
Incontro domanda/offerta e servizi per il lavoro
I canali di intermediazione
Analizzando l’utilizzo dei diversi canali di inserimento lavorativo emergono due profili
di utenze, quelle relative ai Centri per l’impiego (CPI) e quelle del canale informale. Nel
primo caso si tratta delle persone più in difficoltà: donne, utenti ricorsivi, individui non
più giovanissimi, con istruzione medio bassa e modeste rete familiari, ecc. I CPI - così come
i concorsi pubblici - svolgono ancora un importante ruolo di inserimento nel Mezzogiorno
ed interessano prevalentemente il segmento femminile, mentre il ricorso alle società di
somministrazione riguarda soprattutto i giovani con meno di 30 anni.
rapporto isfol 2008
Canali Totale % Sud
% diploma
e laurea del padre
Società di ricerca e selezione 0,4 23,0 47,7
Agenzie interinali 1,8 17,2 23,8
CPI o servizi pubblici 3,2 27,1 12,9
Contatti sul lavoro 8,0 24,0 23,4
Avvio di attività in proprio 13,2 30,8 19,2
Concorsi pubblici 19,3 37,7 25,4
Amici, parenti, conoscenti 30,1 28,9 16,2
Incidenza di alcuni canali d’ingresso nel mercato del lavoro (val. %)
Fonte: Isfol Plus 2006
Venendo all’intermediazione informale, essa continua a rappresentare in Italia la moda-
lità principale per trovare un lavoro, soprattutto nelle aziende più piccole. Tale canale è
stato spesso identificato nei termini di uno strumento che migliora il match tra doman-
da e offerta di lavoro. Indagini più recenti mostrano tuttavia un fenomeno che merita di
essere evidenziato: le persone che entrano nel mercato del lavoro attraverso contatti in-
formali ricevono in media redditi più bassi. In pratica, la scelta di abbreviare i tempi di
ricerca grazie ad amici e parenti crea il rischio di rimanere “intrappolati” in occupazio-
ni in cui si guadagna di meno di quanto si potrebbe, a causa della mancata corrispondenza
tra le caratteristiche possedute dal lavoratore e le peculiarità richieste dalla professione.
Se CPI ed agenzie interinali presentano livelli retributivi medi inferiori rispetto all’informale,
risultano invece più redditizi i contatti generati in precedenti ambiti lavorativi, i concorsi
pubblici, l’intermediazione della scuola e la lettura di annunci su stampa.
Da oltre 20 anni l’Isfol conduce un’indagine sulle offerte di lavoro qualificato pubblica-
te sui principali quotidiani nazionali. Nel 2007 tale richiesta mediante inserzioni “a mo-
dulo” ha subito un forte calo, con una variazione negativa su base annua pari al 10,3%;
valore che si raddoppia nel caso di offerte con sede nel Mezzogiorno. Le inserzioni riguardano
per il 40% il Centro, circoscrizione che segna il suo valore più alto degli ultimi 4 anni (men-
tre nelle Regioni settentrionali si ha il livello più basso dal 1994).
La professione più ricercata nel 2007 è quella dell’operaio, passando dal terzo al primo
posto (con un incremento del 16,9%), seguita a poche unità dall’agente (che viceversa ha
subito una contrazione superiore al 18%). La professione più ricercata nel 2006, cioè il
venditore, fa registrare un calo del 25%, scivolando in terza posizione. In caduta anche
la richiesta di operatori di call center, finita al quinto posto, con un dimezzamento rispetto
all’anno precedente.
A livello settoriale appare marcata la crescita relativa alle imprese tessili, di abbigliamento,
cuoio e pelli (+40,2%); mentre il comparto industriale registra pesanti flessioni (-12,1%).
Calo del 13,3% per i servizi, che rimangono comunque il settore con più richieste.
La rete informativa
La gestione e il monitoraggio del mercato del lavoro avviene attualmente mediante tre di-
verse reti informative separate: i Sistemi Informativi Lavoro Regionali (SIL-R), la Borsa
Continua Nazionale del Lavoro (BCNL) e il sistema delle Comunicazioni Obbligatorie.
L’analisi dei dati relativi all’indagine nazionale censuaria sui Centri per l’impiego ha re-
stituito un quadro caratterizzato da una scarsa integrazione tra questi tre diversi sistemi,
chiamati a gestire segmenti distinti del processo di trattamento delle informazioni.
Tuttavia, un importante volano per la riorganizzazione della rete informativa è stata la
definizione degli standard e delle regole per l’effettuazione delle Comunicazioni Obbli-
gatorie, che ha reso più concreto il percorso verso un sistema effettivamente in grado di
monitorare il mercato del lavoro.
33
sintesi
Canali
Reddito
lordo annuo
Reddito
lordo orario
Ore abituali
al giorno
CPI o servizi pubblici 16.470,2 11,0 6,8
Agenzie interinali 16.792,0 11,2 7,5
Amici, parenti, conoscenti 18.593,1 11,3 7,5
Concorsi pubblici 23.513,7 15,7 6,8
Contatti sul lavoro 24.246,7 13,3 7,8
Società di ricerca e selezione 24.346,8 12,4 8,3
Avvio di attività in proprio 32.531,3 16,2 9,3
Reddito ed ore per alcuni canali d’ingresso nel mercato del lavoro
Fonte: Isfol Plus 2006
34
Servizi per l’impiego
Rivolgendo lo sguardo agli anni che verranno si intravedono almeno due ordini di pro-
blemi riguardanti il funzionamento dei Servizi per l’impiego (SPI). Uno è di natura eco-
nomica: da qui a sette anni, per effetto dell’esaurirsi dei finanziamenti comunitari, il si-
stema dovrà trasferirsi su fondi nazionali. L’altra questione tira in ballo il tema della so-
stenibilità non solo economica ma anche operativa e quindi relativa alla reale capacità di
mettere in campo misure di politica attiva del lavoro.
In questo processo sono le funzioni di raccordo a costituire la “cartina di tornasole”. Il pri-
mo ambito di osservazione è costituito dal raccordo tra SPI e formazione professionale,
ancora parziale poiché interessa circa il 60% delle province italiane e solo il 34,3% di quel-
le meridionali. Inoltre, poco più del 54% delle province associa al raccordo anche l’av-
vio delle procedure di presa in carico degli utenti disoccupati (20% nel Mezzogiorno);
mentre è contenuta a circa un terzo la percentuale di quelle che svolgono azioni proat-
tive (11,4% nel Mezzogiorno), ad esempio mediante l’erogazione on demand di pacchetti
formativi o la gestione di voucher.
La segmentazione territoriale è del tutto evidente, con le Regioni del Sud che rimango-
no fortemente distanziate dal Centro-Nord.
Il numero di CPI in grado di operare seguendo un disegno di servizio coerente con la nor-
mativa nazionale (in particolare il D.Lgs. 181/2000) risulta pari ad appena il 24,2% a li-
vello nazionale, per scendere fino al 10% nel Mezzogiorno.
Tra le strategie di attivazione dei disoccupati si va affermando nei Centri per l’impiego
lo strumento del Patto di servizio, una nuova forma di governance ove al tradizionale ap-
proccio burocratico si sostituisce una modalità di management del settore pubblico più
orientata al mercato nell’allocazione delle risorse e nell’erogazione delle prestazioni. La
diffusione di client contracts - vale a dire accordi tra chi mette a disposizione il servizio e
l’utente - solo in alcune Regioni è stato accompagnato dalla previsione di un Piano di Azio-
ne Individuale (PAI).
Inoltre, va segnalato che i CPI si dimostrano poco disponibili a sanzionare la mancata ac-
cettazione di una congrua offerta di lavoro e quindi il Patto di servizio non determina ne-
cessariamente un incremento della capacità sanzionatoria degli uffici. Non può quindi
essere questo l’unico strumento per combattere comportamenti opportunistici dei be-
neficiari. Del resto, anche il recente Libro Verde sul futuro del modello sociale ha sotto-
lineato l’esigenza di una «gestione coordinata dei livelli essenziali delle prestazioni e dei
servizi» da affidare «a forme condivise di pilotaggio “centralizzato”». È stata in sostanza
ribadita l’esigenza di ricondurre ad un unità l’attuale sistema, che appare polverizzato fra
le competenze di svariati attori.
Gli operatori privati
Relativamente alle Agenzie private per il lavoro (APL), la loro diffusione è progredita ma
lo scarto da alcune realtà europee è ancora rilevante: nel 2006 in Italia operavano 90 agen-
zie di somministrazione di lavoro, contro le 1.200 della Francia, le 2.100 dell’Olanda e le
5.050 della Germania.
rapporto isfol 2008
Una recente rilevazione dell’Isfol mostra come nel nostro Paese vi sia un mismatch tra le
figure specializzate richieste dalle imprese e quelle disponibili, probabilmente ad indica-
re che le aziende si rivolgono ad agenti intermediatori soprattutto laddove i profili ricercati
ne giustifichino il costo.
Tra gli elementi di criticità segnalati dalle agenzie emerge la prevalenza di proposte con-
trattuali atipiche e la forte presenza del sommerso, nonché le poche opportunità di la-
voro destinate all’utenza femminile.
Nel complesso, i dati confermano l’esistenza di due sottoinsiemi. Il primo rappresentato dal-
le agenzie di somministrazione, che si rivolgono ad un mercato ampio, con profili professio-
nali non particolarmente elevati, e in parte in concorrenza con il sistema di intermediazione
pubblica. Un secondo che raggruppa le altre agenzie ed interessa un target di lavoratori con
professionalità di livello medio alto, non interessati ai servizi pubblici per l’impiego.
Decentramento e sviluppo locale
Alla luce della nuova ripartizione di competenze scaturita dalla riforma del Titolo V del-
la Costituzione, l’Isfol ha svolto una ricognizione delle modalità di governance territoriale
delle politiche attive del lavoro. Tra gli elementi più problematici si rileva l’inadeguato ac-
compagnamento a livello nazionale di questo processo di decentramento. Il ruolo del-
l’Amministrazione centrale è apparso complessivamente discontinuo, non tanto sul ver-
sante dell’assistenza tecnica, quanto nella capacità di realizzare iniziative di raccordo e mo-
menti di sintesi dei diversi percorsi delineati sul territorio.
Nel corso delle due ultime programmazioni delle politiche europee di coesione (1994-1999
e 2000-2006) sono stati realizzati in Italia oltre 900 progetti di sviluppo locale. I Progetti In-
tegrati Territoriali (PIT) rappresentano l’esperienza più recente. Si tratta di 144 interventi
approvati nelle Regioni del Mezzogiorno, che nel 21% dei casi sono stati destinati alle “ri-
sorse umane”, concentrandosi su ambiti quali la flessibilità delle forze di lavoro o il poten-
ziamento dell’istruzione e della formazione professionale. I risultati di valutazione dei PIT
evidenziano purtroppo che le problematiche di fondo legate all’integrazione tra economie
territoriali, politiche per lo sviluppo e politiche della formazione e del lavoro restano di fat-
to pressoché irrisolte. Un effetto probabilmente determinato da una bassa conoscenza del
mercato del lavoro a livello territoriale e da una scarsa partecipazione di soggetti in grado
di programmare interventi di politica attiva in una dimensione locale.
Nuove potenzialità sembrano emergere dalla programmazione 2007-2013 e dalla politi-
ca dei cluster (Sistemi produttivi locali e Distretti industriali), su cui l’Isfol ha svolto re-
centemente un’apposita indagine.
Un altro campo che vede l’Istituto coinvolto in prima persona è quello del monitorag-
gio relativo all’azione svolta dalle Regioni per contrastare il lavoro sommerso.
Il dato generale è rappresentato dal legame tra l’efficacia dell’intervento regionale e la con-
tinuità delle attività avviate, l’abilità di integrarle tra loro, la capacità di specificare ancora
di più i propri interventi, collegandoli ad un’azione preventiva di analisi del territorio e
dei bisogni che esprime.
35
sintesi
36
Specifici target
Donne
I paesi dell’Europa mediterranea come l’Italia si caratterizzano per l’assenza di forme strut-
turate di welfare familiare e per una spesa sociale complessivamente più bassa degli altri
Stati europei, con scarse risorse destinate al sostegno delle famiglie. In questi paesi si re-
gistrano quote elevate di inattività femminile e una partecipazione discontinua delle don-
ne al mercato del lavoro, soprattutto in relazione allo status familiare e alla presenza di
figli o persone non autosufficienti. Vi è, inoltre, poca condivisione dei carichi familiari
all’interno della coppia e ridotte opportunità di conciliazione tra vita e lavoro offerte dal
sistema dei servizi pubblici, dall’organizzazione del lavoro e dalla dinamica dei redditi.
In sintesi, sono realtà in cui il nodo tra costi reali e costi opportunità si risolve sfavore-
volmente alle donne.
Sul fronte opposto si colloca l’area del cosiddetto welfare nordico, dove ad un mercato del
lavoro flessibile viene associato un sistema di sostegni nei periodi di transizione, forma-
zione e assistenza al reinserimento, che permette di affrontare uno degli aspetti peculia-
ri della partecipazione femminile, cioè la discontinuità. Stiamo parlando dei paesi euro-
pei dove le donne hanno i più alti tassi di occupazione. Tra questi due estremi si collo-
cano gli Stati del welfare continentale, come Germania e Francia.
A fronte di tali disomogeneità l’Unione europea ha individuato una linea d’intervento nel-
l’ambito della Strategia di Lisbona dedicata proprio all’incremento dell’occupazione fem-
minile, in stretta connessione con lo sviluppo dei servizi di supporto alla cura. Tutti gli
Stati membri sono stati invitati ad offrire servizi all’infanzia al 33% dei bambini di età
compresa tra 0 e 3 anni. L’Italia si attesta sul 9,9%, con ampi divari territoriali che van-
no dalla punta minima dell’1,8% in Calabria al 22% in Emilia Romagna.
Migliore appare la situazione relativa ad un secondo parametro indicato dall’UE, quel-
lo di garantire servizi di copertura al 90% dei bambini dai 3 anni all’età scolare; obietti-
vo raggiunto da otto paesi tra cui il nostro.
Le rilevazioni dell’Isfol confermano come il tempo speso in attività di cura non lavora-
tive e quindi «non riconosciute, non pagate, non valorizzate» segnino ancora oggi un dif-
ferenziale di genere enorme. Non a caso, nel mercato del lavoro italiano permangono i
ben noti squilibri: il tasso di occupazione femminile supera di poco il 45% (l’obiettivo
della Strategia di Lisbona è del 60% entro il 2010) mentre quello maschile sfiora il 70%.
Questo valore così basso è in realtà il risultato della scarsa partecipazione femminile nel
Mezzogiorno, che detiene il maggiore gender gap su base nazionale.
In generale, la relazione delle donne con il mercato del lavoro risente di tre caratteri-
stiche talmente radicate da poterle considerare “strutturali”: atipicità, discontinuità,
inattività.
Un aspetto dell’atipicità riguarda ad esempio le “false collaborazioni”, fenomeno che dal-
l’analisi dei dati Isfol Plus risulta avere una sovrarappresentazione femminile. I livelli più
elevati di falsi collaboratori sorgono dalla combinazione di tre fattori: genere femmini-
le, localizzazione territoriale nel Mezzogiorno e livello di studio elevato.
rapporto isfol 2008
Quanto alla discontinuità occupazionale, la causa principale è rappresentata dalla maternità.
Una donna su nove - lo si evidenzia già nel Rapporto Isfol dello scorso anno - esce dal mer-
cato del lavoro.
Sul fronte dell’inattività sappiamo la componente femminile ne è coinvolta in misura qua-
si doppia rispetto a quella maschile. È una caratteristica prevalente del mercato del lavoro
nelle Regioni meridionali, dove i valori dell’inattività delle donne sono sempre superio-
ri al 50%, a dimostrazione di una criticità che fatica a risolversi ma anche di un bacino
potenziale su cui investire in politiche di attivazione, attraverso un approccio multidi-
mensionale e politiche sempre più orientate al welfare to work.
Ad oggi, il tema chiave della conciliazione non ha ancora trovato soluzioni che non sia-
no affidate alla sensibilità dei contesti lavorativi o alle sperimentazioni progettuali tem-
poralmente limitate, come quelle fornite dalla legge 53/2000, che tra l’altro continua a scon-
tare diverse difficoltà attuative.
Lavoratori anziani
In tema di invecchiamento attivo - ossia le azioni volte a favorire la permanenza nel la-
voro delle persone con età più elevata - sono due le principali strade seguite in Europa:
la promozione di un’immagine positiva dell’anziano attraverso campagne informative o
corsi di formazione; lo stimolo attraverso le organizzazioni locali ad accedere ai servizi
di cui questo particolare target di popolazione necessita. Altri importanti ambiti d’intervento
si riferiscono ai sistemi di protezione sociale.
Per quel che riguarda l’Italia, si riscontra una più frequente e pronunciata aspirazione a
lasciare il lavoro appena possibile, spesso per stanchezza o insoddisfazione legate allo svol-
gimento delle proprie attività professionali. Le caratteristiche organizzative e le condizioni
di lavoro diventano dunque una variabile centrale per contrastare la tendenza della fuga
dei lavoratori maturi.
Un recente studio Isfol sulle politiche aziendali per l’age management rivela che anche nel
nostro Paese sta comunque maturando una maggiore consapevolezza circa il valore dei
lavoratori esperti. E mentre nella scorsa programmazione del FSE le Regioni sembra non
abbiano valorizzato appieno questo ambito, nei programmi relativi al periodo 2007-2013
emergono interessanti iniziative per contrastare la disoccupazione degli “over” espulsi dal
mercato del lavoro o coinvolti da crisi aziendali.
Disabili
Il Piano d’azione 2008-2009 recentemente presentato dalla Commissione europea ha in-
dividuato nell’accessibilità un obiettivo prioritario ai fini dell’inclusione attiva, da per-
seguire adottando strategie che associno programmi flessibili, occupazione assistita e mi-
sure positive. L’approccio di fondo è quello della flessisicurezza.
A livello nazionale, la recente presentazione della IV Relazione biennale al Parlamento sul-
lo stato di attuazione della legge 68/99 - per la cui stesura l’Isfol ricopre un ruolo centra-
le - è stata l’occasione per fare il punto della situazione in questo campo, con particola-
re riferimento agli aspetti relativi al mercato del lavoro. Sotto il profilo numerico, al 2007
il totale degli iscritti agli elenchi unici provinciali del collocamento obbligatorio è di 768.394
37
sintesi
38
individui, quasi 68mila unità in più rispetto all’anno precedente. Da sottolineare la pre-
ponderanza assoluta del Mezzogiorno, il cui peso rispetto al volume nazionale di iscrit-
ti non è mai sceso negli ultimi anni sotto il 60%.
Va però aggiunto che la corretta applicazione di quanto previsto all’art. 2 della legge in
questione - che ha introdotto il concetto di collocamento mirato - non rappresenta an-
cora una pratica diffusa sul territorio nazionale, limitando ad una porzione del paese (42,3%)
la piena costruzione di progetti individuali per le persone con disabilità e la sperimen-
tazione di nuove modalità di collaborazione con i datori di lavoro.
Notizie positive si registrano comunque dalla lettura delle cifre sugli avviamenti al lavo-
ro, che hanno interessato 31.535 persone disabili. Le assunzioni con contratti a tempo in-
determinato risultano in 51 casi su 100, con un’incidenza del part-time del 26%. La fles-
sibilità dell’orario di lavoro è superiore nei tempi determinati, con il 36,6% di casi regi-
strati su base nazionale.
Un segmento a sé è poi rappresentato dai pazienti psichiatrici. Si stima che i disturbi men-
tali interessino più di un europeo su quattro in età adulta e che siano all’origine della mag-
gior parte dei 58.000 suicidi annui, causando più vittime degli incidenti stradali. Le di-
sparità sono marcate. Ad esempio, il numero di ricoveri non volontari in istituti psichiatrici
è 40 volte maggiore in Finlandia rispetto al Portogallo, determinando conseguentemen-
te diverse modalità di intervento.
Al pari degli paesi europei, anche nelle Regioni italiane varie esperienze stanno caratte-
rizzando il processo di deistituzionalizzazione dei pazienti psichiatrici ed il loro reinse-
rimento sociale e lavorativo. Con la dismissione dei manicomi, tali interventi sono de-
mandati in primis a strutture territoriali di tipo ambulatoriale o semiresidenziale, men-
tre obiettivi complementari esplicano le strutture residenziali ed i reparti ospedalieri.
Tuttavia, dall’emanazione della legge 180/1978 mancano ancora oggi disposizioni nor-
mative nazionali univoche che uniformino i percorsi di recupero e d’inserimento. Nelle
diverse Regioni assistiamo a comportamenti istituzionali difformi, dove spesso sono del
tutto aleatori i collegamenti tra gli interventi degli assessorati alla sanità e le politiche for-
mative e lavorative.
rapporto isfol 2008
Politiche di welfare
La programmazione sociale sul territorio
Negli ultimi anni il profilo istituzionale delle politiche di assistenza ha fatto registrare la
netta accentuazione della rilevanza della dimensione territoriale: in luogo di una gestio-
ne centralizzata degli interventi sociali emergono diversi indirizzi relativi al protagoni-
smo degli attori del decentramento. Su questo punto il Libro Verde sul futuro del modello
sociale ha evidenziato come in tema di gestione della spesa socioassistenziale da parte de-
gli Enti locali emergano scelte diverse quanto ad assetti di programmazione ed organiz-
zazione, da cui discendono «risultati differenti in termini di efficienza». Tale considera-
zione appare particolarmente significativa se si considerano anche i processi di polariz-
zazione territoriale tra Nord e Sud dei fenomeni di esclusione e disagio che non accen-
nano a diminuire.
A livello decentrato lo strumento fondamentale della programmazione sociale resta il pia-
no di zona. Il relativo monitoraggio dell’Isfol delinea un quadro fatto di luci ed ombre. Tra
le prime vi è la tendenziale soluzione di alcune criticità legate al profilo organizzativo e alla
conoscenza del territorio: aumenta la presenza e la diffusione di uffici di piano che hanno
competenze specializzate. Non possono invece valutarsi in modo del tutto positivo le stra-
tegie di concentrazione della spesa, che appare insufficiente in quanto le dotazioni dei pia-
ni non assorbono mai più dei due terzi delle risorse inerenti agli ambiti di riferimento.
Quanto alle azioni previste, servizi domiciliari ed interventi di promozione sociale sono
tipologie che prevalgono in oltre i tre quarti delle risposte; seguono sussidi economici,
servizi semiresidenziali ed interventi volti a contrastare emergenze sociali. L’orientamento
complessivo premia il sostegno alle responsabilità familiari e di cura, individuando an-
ziani ed infanzia come riferimenti elettivi nell’85% dei casi.
Una valutazione di insieme consente di affermare che c’è al livello locale un’espressione
delle politiche di inclusione che inizia a strutturarsi. Il tratto negativo è invece il divario
tra le diverse Regioni, che vede in affanno proprio quei territori in cui i fenomeni di vul-
nerabilità sembrano più consistenti.
Minori a rischio di povertà
Eliminare la povertà infantile rappresenta una delle necessità emergenti nel panorama del-
le problematiche sociali in sede europea. La situazione italiana è sotto questo profilo par-
ticolarmente difficile, dato che abbiamo uno dei valori più alti di minori a rischio (24%).
E la percentuale sale al 35% se si considerano i minori che vivono in famiglie numero-
se, raggiungendo il 40% nel caso delle famiglie monoparentali.
Inoltre, il nostro Paese presenta una forbice molto significativa del tasso di povertà in-
fantile tra Nord e Sud, che permette di spiegare la deludente posizione dell’Italia nelle sta-
tistiche europee.
Immigrati
In tema di immigrazione l’aspetto che maggiormente preoccupa i paesi europei è l’enti-
tà dei flussi che anno dopo anno sono destinati ad aumentare. Nel nostro Paese la con-
39
sintesi
40
sistenza del fenomeno viene stimata in modo diverso dalle fonti fin qui disponibili. Se si
analizzano i dati della Caritas al gennaio 2007 risultano in Italia circa 3 milioni e 700 mila
stranieri, pari al 6,2% della popolazione complessiva (contro una media dei paesi UE del
5,6%) e in continua crescita (+21,6% rispetto all’anno precedente).
Secondo i dati presentati dal Ministero dell’Interno gli stranieri con permesso di soggiorno
sono quasi 2 milioni e mezzo, con aumenti considerevoli per quelli provenienti dall’Eu-
ropa Centro-Orientale.
Questa presenza non è diffusa in modo omogeneo su tutto il territorio italiano. Gli im-
migrati nel Mezzogiorno sono pochi, mentre nel Centro-Nord vi è una forte concentra-
zione (secondo l’Istat più dell’88% del totale, un quarto nella sola Lombardia, seguita dal
Veneto).
Relativamente alla forza lavoro, gli stranieri ammontano a quasi 1 milione e mezzo (di
cui l’8,6% disoccupati), per quasi due terzi concentrati nel Nord, per un quarto nel Cen-
tro e per circa il 10% nel Mezzogiorno. Il 7% del PIL è prodotto da cittadini stranieri, in-
seriti soprattutto nell’edilizia, nella ristorazione, nell’industria, nel settore dei servizi (in
particolare nelle pulizie e nel lavoro domestico).
Sono solo quattro le Regioni che all’inizio del 2008 risultavano aver recepito il Testo Uni-
co sull’immigrazione e su di esse è stata svolta un’indagine mirata, da cui emerge un sod-
disfacente grado di radicamento degli immigrati nel tessuto sociale, dato che vi è in me-
dia una permanenza in Italia di oltre 8 anni. La maggioranza degli stranieri risiede in aree
periferiche (quasi il 40% del totale). Oltre la metà risulta in affitto e circa il 13% proprietario.
È proprio la casa l’ambito di intervento strategico degli interventi messi in atto sul ter-
ritorio. Tutte e quattro le Regioni hanno adottato una serie di misure che sostengono le
politiche abitative. Un ulteriore elemento di attenzione è rappresentato dai percorsi di for-
mazione (vi ha partecipato il 40% degli immigrati), cui sono strettamente legate le azio-
ni per l’inserimento lavorativo.
Gli strumenti più utilizzati per la ricerca del lavoro sono costituiti dalle relazioni svilup-
pate con amici e parenti provenienti dal paese di origine (quasi i due terzi del totale).
rapporto isfol 2008
Evoluzione complessiva
Gli indicatori di riferimento
L’analisi dei livelli di partecipazione alle attività del sistema educativo e formativo mo-
stra che i paesi in grado di raggiungere in tutto o in parte gli obiettivi della Strategia di
Lisbona sono quelli che partivano già nel 2000 con i migliori “fondamentali”, mentre nes-
suno Stato membro che era svantaggiato in partenza è riuscito a capovolgere questa si-
tuazione. Il ritardo italiano, non a caso, è rimasto tale nonostante l’evoluzione positiva
dei principali indicatori.
Una performance particolarmente buona si riferisce al tasso di successo nella scuola se-
condaria superiore da parte dei giovani 20-24enni, oggi pari al 76,3% (il benchmark di
Lisbona è l’85% entro il 2010). L’andamento del numero di coloro che riescono a con-
seguire il titolo mostra la progressiva riduzione del divario con il dato medio europeo:
da -7,2% del 2000 a -1,8% del 2007. Altro risultato confortante è l’incremento dei lau-
reati in discipline matematiche, scientifiche e tecnologiche (MST), campo in cui l’Italia
è uno dei paesi che ha fatto registrare i migliori risultati.
Tra le problematiche più evidenti spicca invece il tasso di abbandono scolastico e formativo
dei giovani 18-24enni, che rimane circa il doppio rispetto al 10% fissato a Lisbona; non-
ché la modesta partecipazione degli adulti alle attività di lifelong learning (LLL). Quest’ultimo
aspetto appare tanto più grave considerando il basso livello di qualificazione della po-
polazione italiana tra i 25 e i 64 anni: ad avere un titolo di istruzione secondaria supe-
riore è solo il 52,3%, circa 20 punti percentuali in meno rispetto al dato medio europeo
e addirittura 40 in confronto ai paesi di punta in questo campo.
Sezione 3
Formazione
41
42
La scolarizzazione complessiva della popolazione italiana continua a crescere grazie alle
nuove generazioni. Tra i 14-18enni oltre il 92% frequenta le superiori, con un leggero ma
costante incremento nel corso degli anni. Nella stessa fascia d’età aumenta anche la per-
centuale degli iscritti ad un corso di formazione professionale (FP) iniziale, che nell’an-
no formativo 2006-2007 è arrivata al 4,3% (+1% rispetto all’anno precedente). E sale tra
i 19-24enni il numero di coloro che hanno frequentato un corso di FP post secondaria,
passando dall’1% all’1,4%.
Nell’ultimo biennio, dopo alcuni anni di espansione delle immatricolazioni, sembra in-
vece tornare a scendere la percentuale dei giovani che scelgono di proseguire il proprio
percorso di studi iscrivendosi all’università. Il grado di partecipazione rimane tuttavia buo-
no. Nel 2007-2008 il tasso di immatricolazioni per 100 coetanei 19-20enni risulta del 55,4%
ed il complessivo tasso di iscrizione rispetto alla popolazione 19-23enne del 60,3%.
In sintesi, il sistema formativo italiano lavora tra i giovani pressoché a pieno regime sino
al termine della scuola secondaria di primo grado, con buoni risultati nel segmento suc-
cessivo (portando l’Italia in piena media Ocse per quanto riguarda il grado di istruzio-
ne secondaria superiore tra le giovani generazioni), relativamente bene anche a livello uni-
versitario, nonostante alcuni aspetti critici.
Nel suo insieme, si innalza il complessivo grado di qualificazione della popolazione e al
tempo stesso della forza lavoro: per la prima volta in Italia la quota di forza lavoro che
ha almeno un titolo di scuola secondaria superiore ha raggiunto il 60%; e la percentua-
le in possesso di un titolo universitario è salita al 15,7%, con un incremento annuo di set-
te decimi di punto.
rapporto isfol 2008
2000 2007
Italia UE 27 Italia UE 27
Abbandono scolastico e formativo (a) 25,3 17,6 19,3 14,8
Conseguimento istruzione secondaria superiore dei giovani (b) 69,4 76,6 76,3 78,1
Partecipazione ad attività di LLL (c) 4,8 7,1 6,2 9,7
Numero di laureati in discipline MST (d) +70,7 +25,9
di cui percentuale di donne 36,6 30,8 37,1 31,2
Benchmark europei (val. %)
a) Tra i 18-24enni, benchmark non oltre il 10%.
b) Tra i 20-24enni, benchmark almeno l’85%.
c) Tra i 25-64enni, benchmark almeno il 12,5%.
d) Aumento del 15% rispetto al 2000 e riduzione squilibrio di genere.
Fonte: Commissione europea DGEAC, Eurostat, Crell, Ocse/PISA
I veri tasti dolenti, su cui le politiche attive dovranno concentrarsi, rimangono due. Da
una parte i bassi livelli di qualificazione delle generazioni ultratrentacinquenni, cui si as-
socia una scarsa propensione alla partecipazione ad attività educative e formative. Dal-
l’altra gli ancora troppo alti livelli di dispersione. Nel 2006-2007 l’1,6% degli studenti del-
la scuola secondaria di secondo grado ha abbandonato precocemente il percorso educa-
tivo (3,6% negli istituti professionali, contro lo 0,2% dei licei).
A ciò va aggiunta la persistenza di percorsi scolastici accidentati. Uno studente su quat-
tro risulta in ritardo di almeno un anno (con punte attorno al 45% negli istituti profes-
sionali) e solo uno su due viene ammesso senza debiti formativi alla classe successiva.
Nel 2006-2007 tra tutti gli studenti iscritti al primo anno delle superiori è arrivato al di-
ploma il 68,6%, in calo rispetto al 70,4% registrato in entrambi i due bienni precedenti.
Questo indicatore (tasso di produttività) sale nei licei all’81,7% e crolla al 50% negli isti-
tuti professionali.
La licealizzazione
Nell’anno scolastico 2006-2007 il complesso degli iscritti alla scuola secondaria superio-
re è cresciuto dell’1,4%, segnando un +6,1% rispetto al 2000-2001. Si conferma il trend
di contrazione dell’istruzione tecnica, anche se il fenomeno sembra diminuire leggermente
di entità rispetto agli scorsi anni. Di contro, prosegue l’incremento sul fronte licei, con
un aumento del 4,4% dal 2000. Gli studenti liceali (33,4%) sono ormai ad un solo pun-
to percentuale da quelli dell’istruzione tecnica (34,4%).
Considerando solo gli iscritti al primo anno delle superiori (al netto delle ripetenze) il
sorpasso dei licei è invece una realtà di fatto: 34,2% contro il 32,4% degli istituti tecnici.
I riflessi sulla partecipazione totale si vedranno tra qualche anno.
43
sintesi
2001 2005 2006 2007
Popolazione di 15 anni e oltre
Senza titolo e con licenza elementare 30,9 27,7 26,6 25,9
Con licenza media 32,8 31,3 31,5 31,5
Con titolo di studio di s.s s. 29,1 31,9 32,2 32,4
Con titolo di istruzione universitaria 7,2 9,1 9,7 10,2
Forze di lavoro
Senza titolo e con licenza elementare 12,0 8,7 7,9 7,3
Con licenza media 36,0 33,3 32,9 32,6
Con titolo di studio di s.s s. 40,1 43,6 44,2 44,3
Con titolo di istruzione universitaria 11,9 14,4 15,0 15,7
Livelli di istruzione (val. %)
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat
44
L’università
Nel 2007-2008 rispetto all’anno accademico precedente la variazione del numero degli
immatricolati è pari ad un +5,6%. Il gruppo scientifico presenta una variazione del 12,2%.
Anche i gruppi di ingegneria-architettura e statistico-economico presentano una performance
positiva: i primi aumentano di 5,1 punti percentuali e i secondi di 11,2. In diminuzione
risultano, invece, le immatricolazioni ai corsi del gruppo medico (-10,6%), politico-so-
ciale (-6,1%) e giuridico (-15,2%). Infine, il 25,4% degli immatricolati ha scelto un cor-
so di laurea del gruppo letterario, linguistico e psico-pedagogico, facendo registrare un
aumento del 9,2%.
L’83,4% delle immatricolazioni riguardano corsi di laurea di 1° livello (dove le donne sono
il 55,1%).
Quanto agli iscritti, nell’anno accademico 2007-2008 prosegue il processo di “naturale”
riduzione di quelli relativi al diploma universitario, alle scuole dirette a fini speciali, ai cor-
si di laurea del vecchio ordinamento. Tra le nuove tipologie di percorso, gli iscritti ai cor-
si di laurea di 1° livello rappresentano oggi il 63,2% della popolazione universitaria, con
un leggero aumento rispetto all’anno accademico precedente. Si consolida anche l’aumento
degli iscritti ai corsi di 2° livello (laurea specialistica), sebbene in maniera rallentata.
Le nuove tipologie di corsi presentano variazioni tutte positive nel numero di titoli rilasciati.
rapporto isfol 2008
Totale 1° anno
2005-06 2006-07 2005-06 2006-07
Ist. Professionali 20,6 20,4 21,9 21,9
Ist. Tecnici 35,1 34,4 32,6 32,4
Licei 32,5 33,4 33,8 34,2
Istruzione Magistrale 7,9 8,0 7,8 7,9
Istruzione Artistica 3,9 3,8 3,8 3,7
Studenti iscritti alle scuole secondarie superiori
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat e Ministero Pubblica Istruzione
La formazione professionale regionale
L’andamento delle attività formative delle Regioni è stato caratterizzato negli ultimi anni
da significative oscillazioni in relazione al numero dei corsi. Nel 2006-2007 si registra un
calo, presumibilmente legato alla progressiva diffusione dello strumento della formazione
a domanda individuale. Di contro, c’è il rimarchevole risultato in termini di allievi forma-
ti, che hanno raggiunto il massimo storico, superando i 986.000. Segnale senz’altro positi-
vo della maggiore capacità di diffusione della formazione professionale. In particolare, l’in-
cremento maggiore si ha in riferimento ai percorsi che prevedono un numero consistente
di ore (formazione iniziale di primo e secondo livello) e rivolti alle categorie svantaggiate.
Al Nord si realizzano più del doppio dei corsi rispetto al resto d’Italia, con il triplo degli
allievi in quasi tutti i segmenti del sistema. È un quadro noto, ma oggi ancor più evidente:
la quota di attività svolta nelle Regioni settentrionali rappresenta nel 2006-2007 il valo-
re massimo della sua serie storica.
La percentuale di attività finanziata con le risorse comunitarie è nella media nazionale
poco più del 50% del totale. Il dato nasconde profonde differenze a livello regionale: nel
Nord si hanno valori che solo in rari casi superano il 70%; mentre nel Centro e soprat-
tutto nel Mezzogiorno tale quota è assai più alta (tranne la Sicilia, con il 59,3%), sino al
caso limite di Molise e Campania con il 100%.
Nel 2006-2007 il 4% della forza lavoro nazionale è stato coinvolto dalla formazione pro-
fessionale regionale, segnando un incremento annuale dell’1,2%. Anche in questo caso
emergono le forti disparità regionali, con il Nord al 6%, il Centro al 2,1% e il Sud all’1,9%.
45
sintesi
Val. assoluti Val. %
Var. % anno
precedente
Diploma universitario/Sdfs 1.337 0,1 -37,9
Laurea vecchio ordinamento 191.846 10,7 -28,8
Laurea di base (1° livello) 1.137.626 63,2 0,7
Laurea specialistica a ciclo unico 137.677 7,7 7,6
Laurea specialistica (2° livello) 229.685 12,8 8,3
Laurea magistrale 100.870 5,6 49,0
Iscritti all’università, a.a. 2007-2008
Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Ministero dell’Università e della Ricerca
46
Venendo alla spesa sostenuta dalle Regioni per la FP, i dati relativi alle previsioni inizia-
li mostrano per il 2008 un forte aumento rispetto all’anno precedente: 3,5 miliardi di euro
(oltre 1 miliardo in più rispetto al 2007, dovuto principalmente all’assegnazione delle do-
tazioni FSE). Le previsioni finali risultano sempre superiori del 10-20% rispetto a quel-
le iniziali. La capacità di impegno appare invece ridotta nel 2006 (71,6%) rispetto al 2005
(74,4%); così come la spesa effettiva.
La spesa media per unità di forza lavoro è pari a circa 96 euro, in calo nel Centro-Nord
e con un incremento dell’11,9% nel Mezzogiorno.
rapporto isfol 2008
Nord Centro Sud
1° livello o di base 87.553 12.576 27.818
2° livello 119.443 12.686 37.141
Disoccupati 21.308 4.123 12.857
Occupati 438.690 51.267 49.241
Sogg. a rischio di esclusione 47.706 7.896 7.973
Altri 28.342 17.599 1.977
Totale 743.042 106.147 137.007
Numero allievi della FP per ripartizione geografica, anno 2006-2007
Fonte: Elaborazione Isfol su dati regionali
2004/05 2005/06 2006/07
1° livello o di base 101.161 125.501 127.947
2° livello 168.413 88.956 169.270
Disoccupati 54.511 48.882 38.288
Occupati 506.721 332.318 539.198
Sogg. a rischio di esclusione 82.785 38.207 63.575
Altri 7.584 63.308 47.918
Totale 921.175 697.172 986.196
Numero allievi della formazione professionale
Fonte: Elaborazione Isfol su dati regionali
La partecipazione degli adulti al lifelong learning
Rispetto all’obiettivo europeo del 12,5%, la partecipazione della popolazione adulta (25-
64enni) in età lavorativa ai percorsi di qualificazione è stata nel 2004 del 6,3%, per de-
crescere nel 2005 al 5,8% e risalire poi nel 2006 al 6,1%, attestandosi nel 2007 sul 6,2%.
A prevalere è la componente femminile, il segmento relativo a chi ha titoli di studio me-
dio-alti, la fascia d’età dai 25 ai 34 anni.
La Regione Lazio, le Province autonome di Bolzano e Trento, il Friuli Venezia Giulia e l’Um-
bria registrano tassi di partecipazione molto più elevati della media nazionale (intorno
al 7-9%), mentre sul fronte opposto si trovano Regioni come la Valle d’Aosta e la Sicilia,
che non raggiungono il 5%.
47
sintesi
4%
5%
6%
7%
8%
9%
10%
Pie
mo
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e
Va
lle
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na
2004 2005 2006 2007
Andamento della partecipazione di adulti ad attività di LLL
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat - Forze di Lavoro
Un’evoluzione interessante della formazione a domanda individuale (valorizzando l’espe-
rienza dei voucher) si è recentemente posta come strumento integrato di lifelong learning:
si tratta del Catalogo Interregionale di Alta Formazione, principalmente rivolto ad un tar-
get di cittadini con un livello di istruzione medio-alto. La sua realizzazione è stata avvia-
ta nel 2008 a partire dal Protocollo d’intesa siglato nel 2006 tra il Ministero del Lavoro e
la Regione Veneto, capofila del progetto, cui hanno poi aderito molte altre Regioni.
48
Formazione iniziale, IFTS, apprendistato
I percorsi triennali
Il difficile processo avviato circa dieci anni fa con l’introduzione dell’obbligo formati-
vo ai 18 anni di età e a seguire con la legge 53/2003 sul diritto-dovere all’istruzione e for-
mazione ha vissuto alterne vicende. In particolare, il ruolo della formazione iniziale e
il relativo sistema di governance è rimasto un nodo irrisolto di una lunga diatriba isti-
tuzionale tra poteri centrali e locali, relativamente all’attribuzione delle responsabilità
di gestione del sistema.
I percorsi triennali di istruzione e formazione iniziale - avviati con l’Accordo Stato-Re-
gioni del giugno 2003 e attraverso i quali si consegue una qualifica di livello nazionale -
rappresentano una realtà estesa quasi ovunque; sono infatti poche le Regioni che hanno
scelto di puntare esclusivamente sul sistema scolastico per la realizzazione del biennio del-
l’obbligo d’istruzione e per il successivo conseguimento della qualifica. Gli elementi di mag-
giore differenziazione riguardano: la titolarità dell’intervento formativo (agenzie o
scuole), la tipologia di risorse (docenti della scuola o formatori), gli accordi e le moda-
lità di interazione tra le strutture scolastiche e le agenzie formative in relazione alla pro-
gettazione integrata.
I dati del monitoraggio condotto dall’Isfol mostrano nel complesso una crescita costan-
te dell’offerta: si passa dai 4.032 corsi registrati nell’anno 2004-2005 ai 6.838 del 2007-
2008; nello stesso periodo la quota di allievi coinvolta nei percorsi triennali è aumenta-
ta dell’81%, arrivando oggi a 130.431 giovani.
In quest’ultimo anno, il 73,2% degli allievi risulta iscritto presso le agenzie formative, men-
tre il 26,8% (+1,6% rispetto all’anno precedente) nei percorsi scolastici integrati con at-
tività di formazione professionale. Le Regioni che totalizzano il maggior numero di al-
lievi sono Lombardia (34.973), Piemonte (17.156) e Veneto (15.161).
Cresce anche il numero degli studenti dei percorsi di 4° anno (+41,9%) che preparano i
diplomati tecnici e in modo particolare in Trentino Alto Adige e Lombardia, dove i per-
corsi si snodano in alternanza, con la collaborazione delle realtà imprenditoriali locali.
rapporto isfol 2008
Percorsi
nei CFP
Percorsi
a scuola
Tot.
percorsi
Iscritti
ai CFP
Iscritti
a scuola
Tot.
iscritti
5.111 1.727 6.838 95.443 34.988 130.431
Partecipazione ai percorsi triennali ex Accordo 19/06/2003, 2007-2008
Fonte: Elaborazione Isfol su dati amministrazioni regionali
Il fenomeno della dispersione
Nonostante il grave deficit informativo circa il fenomeno della dispersione formativa, an-
che per l’anno 2007 l’Isfol ha cercato di ricostruire uno scenario quanto più vicino alla
situazione reale: tra i 14-17enni si evidenzia un numero di dispersi che sfiora quota 120
mila unità, pari ad oltre il 5% del totale dei giovani in diritto-dovere. Per stimare il nu-
mero complessivo dei giovani non inseriti nei percorsi formativi bisogna però aggiun-
gere anche la grande maggioranza di apprendisti in diritto-dovere, poiché solo una pic-
cola percentuale è impegnata in attività formative al di fuori delle imprese. Si arriva così
ad una stima di circa 150-155 mila giovani non inseriti in alcun percorso formativo for-
malizzato.
Evidenti sono le disparità territoriali. Il numero di iscritti presso i Centri di formazione
professionale (CFP) è assai più ampio al Nord (8%) che al Centro (1,7%) e al Sud (1,9%).
L’apprendistato relativo al diritto-dovere risulta praticamente inutilizzato nel Mezzogiorno,
mentre nelle Regioni settentrionali interessa tra il 2,6 ed il 2,8% della popolazione in età
di diritto-dovere. Il fenomeno della dispersone si concentra al Sud, dove coinvolge 8 ra-
gazzi su 100, contro il 4,1% del Centro e il 3,9% del Nord-Ovest, fino all’inconsistente 0,6%
del Nord-Est. Sul totale complessivo di dispersi in Italia il 66% risiede nel Mezzogiorno.
49
sintesi
Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Totale
Iscritti a scuola 84,7 88,8 92,5 89,2 88,7
Iscritti ai CFP 8,6 8,0 1,7 1,9 4,4
Con contratto di apprendistato 2,8 2,6 1,6 0,9 1,7
Nessun percorso 3,9 0,6 4,1 8,0 5,1
Percorso formativo in cui sono inseriti i 14-17enni, 2007-2008 (val. %)
Fonte: Elaborazione Isfol su dati MIUR, dati regionali, dati Istat
Tra i nodi irrisolti del mancato recupero dei giovani fuoriusciti dai percorsi formativi vi
è la questione informativa, poiché la loro individuazione può avvenire solamente attra-
verso un censimento completo e continuo della popolazione soggetta all’obbligo di istru-
zione e al diritto-dovere. L’analisi del numero di giovani censiti all’interno dei sistemi ana-
grafici regionali e provinciali nel 2007 evidenzia un dato preoccupante: a fronte di 984
mila giovani individuati all’interno dei tre percorsi previsti per legge, oltre 1 milione e 330
mila giovani tra 14 e 17 anni non sono stati censiti dai sistemi informativi. D’altro can-
to, solo 10 tra le 21 amministrazioni regionali e delle province autonome dispongono di
un’anagrafe centrale.
Per quel che riguarda le misure di accompagnamento per i minori realizzate dai Centri
per l’impiego si osserva una situazione in evoluzione, con un incremento a livello nazionale
(2%) ed una forte caratterizzazione per area geografica: la quota più numerosa di Cen-
tri attivi si concentra nel Nord-Ovest (94%), mentre sono al di sotto della media nazio-
50
nale (circa l’80%) i valori relativi alla ripartizione meridionale. In riferimento ai servizi,
quelli di livello elementare sono prevalentemente di carattere informativo (84,7%) e di
accoglienza (82%), entrambi in crescita, così come i servizi di orientamento. Rispetto ai
servizi di livello avanzato si rileva invece un’intensificarsi delle attività di monitoraggio
(+7,4%), mentre permangono alcune criticità relativamente al tutorato.
La presenza di strutture in grado di erogare servizi di livello avanzato si concentra comunque
nella ripartizione settentrionale (in particolare nel Nord-Est) e nel Centro. Nel Mezzo-
giorno la capacità di offerta di servizi si colloca invece ben al di sotto della media nazio-
nale, comportando di fatto l’esclusione di una fetta ancora molto ampia di utenza dal-
l’opportunità di fruire di servizi avanzati.
rapporto isfol 2008
Servizi Italia Nord-Ovest Nord-Est Centro
Acquisizione dati 79,9 90,7 84,8 87,5
Accoglienza 82,0 89,9 87,5 91,9
Informazione 84,7 91,7 88,4 90,9
Orientamento 79,9 85,2 87,5 88,6
Tutorato 62,0 69,2 83,9 72,7
Monitoraggio 72,0 82,4 84,8 81,8
Distribuzione dei CPI per tipologia di attività realizzata e ripartizione territoriale (val. %)
Fonte: Isfol
Di particolare interesse risultano i dati relativi ai giovani che, a seguito delle azioni dei
CPI, sono stati inseriti nei percorsi previsti per l’assolvimento del diritto-dovere all’istruzione
e formazione: nel 2007 si è infatti verificato un aumento considerevole (22.525 giovani
inseriti nella FP e 32.324 nell’apprendistato), con l’eccezione dei reinserimenti nei per-
corsi scolastici (3.158 inseriti).
FormazioneTecnica Superiore
In Italia la Formazione Tecnica Superiore è stata investita negli ultimi quattro anni da un
processo di riorganizzazione complessiva. In particolare, con l’istituzione dei Poli formativi
per l’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS) si è voluto assicurare la qualità
dell’offerta e accrescere la spendibilità dei titoli acquisiti. I Poli formativi IFTS sono at-
tualmente 115 (di cui 31 nel Mezzogiorno, 16 al Centro e 68 al Nord), più 11 in via di co-
stituzione (di cui 10 nel Mezzogiorno ed 1 al Nord).
Un’ulteriore novità riguarda l’inclusione all’interno dell’ordinamento nazionale del-
l’istruzione dei percorsi per la Formazione Tecnica Superiore che si realizzeranno mediante
la costituzione degli Istituti Tecnici Superiori, come alternativa agli studi universitari per
i giovani e gli adulti intenzionati a conseguire una specializzazione elevata.
I dati relativi all’offerta di Formazione Tecnica Superiore restituiscono complessivamente
l’immagine di un sistema ancora in fase di sviluppo. I numeri delle attività corsuali sono
in calo (144 corsi IFTS nel 2006-2008 contro i 388 nel 2004-2006) ed appaiono insuffi-
cienti soprattutto se confrontati con l’ampio bacino di utenti potenziali e con le crescenti
richieste da parte delle imprese di tecnici di livello intermedio.
Apprendistato
La necessità di riformare l’istituto dell’apprendistato è ormai evidente e ad esso, infatti,
è stato riservato un riferimento specifico nel Libro Verde sul futuro del modello sociale,
dove ci si interroga sulle ragioni del mancato decollo di questo strumento, che “non ri-
sponde alle esigenze della domanda di formazione da parte di lavoratori e imprese”.
Il modello che sembra profilarsi vede l’attribuzione di un ruolo sempre più ampio alle
parti sociali e agli organismi bilaterali, invitati a partecipare alla governance del sistema
in chiave cooperativa.
La soluzione prospettata con la recente approvazione della legge 133/2008 non può che es-
sere un primo passo in questa direzione, dal momento che rimangono irrisolte molte criti-
cità, come i problemi di omogeneizzazione delle regolamentazioni regionali, in particolare
per quanto riguarda i differenti approcci sulla responsabilità della mancata erogazione del-
la formazione formale per gli apprendisti, che è di volta in volta attribuita in ultima istanza
comunque alle imprese, oppure alle Regioni per i casi di insufficiente offerta pubblica.
I dati evidenziano che la formazione esterna realizzata dalle Regioni ha coinvolto nel 2006
poco più di 96.000 apprendisti, facendo segnare per la prima volta nel quinquennio una
flessione pari al 15,7% rispetto all’anno precedente. Tra i circa 590.000 apprendisti che
risultano mediamente occupati nello stesso anno, la quota di quanti hanno partecipato
alle attività di formazione esterna si ferma al 17,4%.
51
sintesi
Apprendisti occupati Apprendisti in formazione % formati/
occupatianno 2006 var. 2005-06 anno 2006 var. 2005-06
Nord-Ovest 172.167 4,4 30.284 -43,5 17,6
Nord-Est 152.700 3,6 44.080 4,2 28,9
Centro 136.218 7,5 12.411 -5,1 9,1
Sud e Isole 125.692 0,2 9.369 81,9 10,3
Italia 586.777 3,9 96.144 -15,7 17,4
Apprendisti occupati e in formazione
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Inps e delle Regioni e Province autonome
52
Allo stesso tempo, la soluzione tecnica individuata per l’affidamento alle parti sociali del-
la regolamentazione dell’apprendistato professionalizzante nei casi di formazione esclu-
sivamente aziendale non contiene al momento riferimenti a criteri o standard minimi co-
muni individuati a livello nazionale. Il rischio è che si passi in breve da un sistema ca-
ratterizzato da venti regolamentazioni regionali diverse ad un sistema di centinaia di con-
tratti diversi.
Quanto alla sperimentazione dell’apprendistato “alto”, anche in quei territori dove sem-
bra che lo strumento abbia riscosso il maggior successo - ovvero nell’area del Nord-Ovest,
in cui si concentrano i due terzi degli utenti coinvolti (circa 1.000 in tutt’Italia) - il pri-
mo avviso pubblico per la raccolta dei progetti ha riscosso una scarsa attenzione da par-
te delle strutture produttive, tanto da lasciare una ampia quota di risorse non assegnate.
rapporto isfol 2008
Formazione continua
Il ritardo accumulato dal nostro Paese sul fronte della diversificazione degli strumenti di
formazione continua si riflette anche sulle strategie di integrazione tra amministrazioni
regionali e Fondi Paritetici Interprofessionali, che risultano ancora allo stato embriona-
le. Alcune Regioni hanno comunque proceduto alla stipula di intese con le parti sociali
e con i Fondi che assumono come obiettivo prioritario l’armonizzazione e il coordina-
mento delle rispettive programmazioni.
Le risorse nazionali ammontano mediamente a circa 105 milioni di euro l’anno e vengo-
no ripartite tra le 19 Regioni e le due province autonome di Trento e Bolzano in propor-
zione al numero dei lavoratori dipendenti. Sono suddivise in due linee di finanziamento:
la prima è la legge 236/1993 attraverso cui vengono finanziati i Piani formativi concorda-
ti e i voucher individuali, entrambi a favore dei dipendenti delle imprese private; la secon-
da è la legge 53/2000, che finanzia essenzialmente voucher individuali ma anche progetti più
complessi e che si rivolge a tutte le categorie di lavoratori dipendenti, compresi i pubblici.
Nel biennio 2006-2007 il Ministero del Lavoro ha ripartito quattro annualità (dal 2004
al 2007) della legge 236, pari a circa 351 milioni di euro. Per quanto riguarda invece la leg-
ge 53, nel corso del 2007 sono state ripartite due annualità (2006 e 2007) per un totale di
30 milioni di euro.
Considerando complessivamente le due linee di intervento, permangono due problemi
di estrema rilevanza: uno relativo allo scarso assorbimento di risorse da parte delle Re-
gioni del Mezzogiorno; l’altro inerente le difficoltà che si riscontrano sul fronte del mo-
nitoraggio. Ambito quest’ultimo che vede l’Isfol impegnato direttamente, avendo ricevuto
l’incarico da parte del Ministero del Lavoro di realizzare entro la fine del 2008 un siste-
ma in grado di offrire un’esaustiva panoramica delle attività di formazione continua in
Italia.
I risultati della terza indagine Eurostat Continuing Vocational Training Survey (CVTS) -
realizzata in Italia in stretto coordinamento con l’indagine Isfol INDACO Imprese - for-
nisce il quadro delle attività di formazione dei lavoratori dell’industria e dei servizi nel-
le aziende con almeno 10 addetti. La media europea delle imprese che nel 2005 hanno svol-
to attività di formazione continua è pari al 60%. In Italia tale valore scende al 32%, per
un totale di circa 70.000 imprese. Il nostro Paese ha valori inferiori alla media sia per in-
cidenza delle imprese formatrici che per tasso di partecipazione. Si segnala, tuttavia, un
progresso significativo rispetto ai dati relativi al 1993 e al 1999, quando la percentuale di
imprese italiane che svolgeva attività di formazione continua era pari rispettivamente al
15 e al 23,9%, con un incremento di circa un terzo tra il 1999 e il 2005. Il gap con l’Eu-
ropa è comunque ancora ampio ed espone le nostre imprese a forti rischi sul piano del-
la competitività.
I dati confermano la forte correlazione tra dimensione d’impresa e propensione alla for-
mazione: in parallelo alla dimensione cresce infatti la percentuale di imprese formatri-
ci, passando dal 25,6% nella fascia con 10-19 addetti, al 96,7% in quella con almeno 1.000
addetti.
53
sintesi
54
A livello settoriale, maggiore intensità di imprese formatrici si ha nelle assicurazioni e nel-
l’intermediazione finanziaria. Una minore propensione alla formazione continua è invece
emersa nel settore delle industrie tessili e abbigliamento e in quello di alberghi e ristoranti.
Sotto il profilo territoriale, il quadro dell’Italia settentrionale è piuttosto omogeneo, con
il 36% di imprese che hanno svolto nel 2005 attività di formazione continua nel Nord-
Est e il 34,7% nel Nord-Ovest. Più ridotta è la percentuale nelle Regioni del Centro (27,2%)
e del Mezzogiorno (23,6%).
I Fondi Paritetici Interprofessionali
Le adesioni ai Fondi paritetici evidenziano rispetto a novembre 2007 un aumento del 7,8%
in termini di imprese e dell’8,4% in termini di lavoratori. Sensibilmente maggiore risul-
ta il contributo delle unità produttive di medie dimensioni, con l’eccezione di Fondim-
presa che raccoglie nuove adesioni soprattutto tra le piccole.
Il 42% delle imprese private con dipendenti e il 56% dei lavoratori aderisce ad un Fon-
do paritetico interprofessionale. Il terreno ancora da dissodare è molto esteso e riguar-
da principalmente l’arcipelago delle piccole e micro imprese e il Mezzogiorno. Vi è infatti
una concentrazione fortissima al Nord, dove si trova circa il 70% degli aderenti (Lom-
bardia, Veneto ed Emilia Romagna raccolgono da sole il 52%).
Circa le attività di formazione, è possibile al momento anticipare alcune informazioni di
estrema sintesi relative ai dati che saranno a breve messi a disposizione dal Sistema per-
manente di monitoraggio: dalla loro partenza al giugno 2008, i Fondi Paritetici Inter-
professionali hanno finanziato circa 6.800 piani formativi, che hanno coinvolto circa 40
mila imprese e 850 mila lavoratori, raggiungendo quindi il 14% dell’utenza potenziale (che
ammonta attualmente a 6,2 milioni di lavoratori). Le grandi e medie imprese sono de-
cisamente sovrarappresentate (10%) rispetto alla loro consistenza in termini di adesio-
ni (0,6%). La distribuzione per genere dei partecipanti registra in alcuni settori e terri-
tori una netta prevalenza femminile. Incoraggiante anche la partecipazione della classe
di età tra i 25 e i 34 anni (mediamente 1 su 3) e degli over 45 (mediamente 1 su 4).
rapporto isfol 2008
Certificazione delle competenze
Standard minimi e Libretto formativo
A fronte dell’impegno comunitario in materia di trasparenza e riconoscimento di titoli,
qualifiche e competenze - in particolare con i progressi in tema di EQF e di ECVET - l’Ita-
lia ha messo in campo diverse iniziative, quali la sperimentazione nazionale del Libret-
to formativo del cittadino e il Tavolo tecnico per la costruzione di un sistema nazionale
di standard minimi professionali di certificazione delle competenze e di standard formativi.
Sebbene l’Accordo che istituisce il Tavolo sia ancora in via di formalizzazione, i lavori sono
stati avviati già dal 2006 sulla base di un documento realizzato da Isfol e Tecnostruttura
che definisce un primo impianto di sistema. Si suggeriscono due direttrici fondamenta-
li. La prima di tipo tecnico, operando una distinzione tra standard professionali, standard
di certificazione e standard formativi. La seconda di tipo istituzionale, sulla base del prin-
cipio dello standard minimo inteso come insieme di regole successivamente declinabili
a seconda delle specificità territoriali. Si è inoltre proceduto ad una prima mappatura dei
settori entro cui avviare la produzione degli standard professionali, che ha permesso di
definire 24 aree specifiche in senso economico ed un’area rivolta alle figure prive di spe-
cificità di settore.
Quanto al Libretto formativo, la sperimentazione è stata condotta su diversi territori re-
gionali (Bolzano, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Liguria, Molise, Toscana, Tren-
to, Valle d’Aosta) ed ha visto tra il 2005 e il 2007 il coinvolgimento di operatori di enti di
formazione, centri di orientamento e Servizi per l’impiego nonché di diverse categorie
di beneficiari finali (giovani studenti dei percorsi di formazione professionale, appren-
disti, immigrati, lavoratori in formazione continua). A queste situazioni sperimentali va
aggiunto il Piemonte, che ha lavorato su alcune precondizioni di sistema, ovvero un’ipo-
tesi di connessione del Libretto con il sistema informativo regionale e la predisposizio-
ne di una specifica normativa per l’accreditamento degli operatori.
Il progetto OAC
OAC (Organizzazione, Apprendimento, Competenze) è un progetto realizzato dall’Isfol che
si articola in due macroaree di indagine: una sulle competenze dei lavoratori nelle impre-
se industriali e di servizi in Italia; un’altra sulle competenze nelle imprese manifatturiere.
Nel primo caso, i dati mostrano che: a) la componente femminile della forza lavoro pre-
senta un livello di competenze inferiore rispetto agli uomini; b) l’età centrale è associa-
ta a livelli di competenza più elevati rispetto alle classi periferiche della distribuzione; c)
con riferimento ai titolo di studio si rileva una forte correlazione soprattutto in quelle com-
petenze legate a discipline scolastiche o accademiche (scrittura, lettura calcolo); d) i li-
velli di competenza risultano più elevati nei soggetti con contratti più stabili; e) emergono
delle situazioni di eccellenza nei comparti dell’intermediazione finanziaria e nel mani-
fatturiero science-based con riferimento ad alcune competenze (ad esempio il lavoro di
gruppo); f) le imprese italiane che si possono considerare high performance work orga-
nization, ovvero che presentano caratteristiche innovative in grado di facilitare lo sviluppo
delle competenze, sono solo il 3%.
55
sintesi
56
Dall’indagine sulle competenze nelle imprese manifatturiere italiane è invece emerso che
le cinque competenze più importanti richieste sono: l’affidabilità (78,3%), le abilità ma-
nuali (70,3%), la resistenza psicofisica (59,6%), la conoscenza del funzionamento del-
l’organizzazione (54,7%) e il lavoro di gruppo (34,6%). Sono poco richieste (meno del
10%) le attività di consulenza e cura, la pianificazione delle attività altrui, la capacità di
istruire ed addestrare, la capacità di eseguire dei calcoli.
L’esperienza maturata nell’ambito del progetto OAC consentirà all’Isfol di partecipare al
programma PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies),
indagine internazionale curata dall’Ocse e destinata alla valutazione delle competenze del-
la popolazione adulta.
rapporto isfol 2008
Qualità e innovazione
Accreditamento e risorse umane delle agenzie formative
In tema di accreditamento, alla luce del dinamismo che negli ultimi anni si è registrato
in questo campo e avendo ora un nuovo impianto regolamentare - frutto di una recen-
te intesa Stato-Regioni per la definizione degli standard minimi del sistema - resta oggi
da chiedersi quali siano i passi successivi necessari per tradurre tale dispositivo in uno stru-
mento in grado di garantire livelli essenziali di prestazione a tutti gli utenti della forma-
zione, salvaguardando le specificità territoriali. Si tratta quindi di comprendere le mol-
teplici velocità dei vari contesti locali e i vincoli che i diversi tessuti socio-economici eser-
citano nello sviluppo del sistema.
Sotto questo profilo, tre sono i modelli di accreditamento individuati dall’Isfol, che sem-
brano caratterizzare il panorama italiano: avanzato, intermedio e in ritardo, perfettamente
in linea con gli indicatori di sviluppo socioeconomico del nostro Paese.
Sul piano generale, emerge un sistema di offerta formativa caratterizzato da una crescente
incidenza dei “nuovi soggetti” a svantaggio delle organizzazioni più radicate nel comparto
(come i centri di formazione pubblici). In particolare, si segnala un incremento delle or-
ganizzazioni afferenti ai comparti contigui della formazione professionale, quali Terzo set-
tore, istruzione e produzione-lavoro.
Per quanto concerne le risorse umane che operano negli enti accreditati i dati sembra-
no evidenziare come il grado di dinamismo sistemico sia correlato a più contenuti indi-
ci di vecchiaia e all’innalzamento del tasso di femminilizzazione, mettendo in luce un’in-
versione di tendenza rispetto al passato, quando la professione del formatore era media-
mente caratterizzata da età media avanzata e dalla ridotta partecipazione delle donne. In
altri termini, nel modello avanzato il cambiamento del sistema formativo accreditato ap-
pare legato al ringiovanimento del capitale umano e alla componente femminile, oltre che
all’innalzamento dei livelli di istruzione in ingresso.
Altro fattore chiave di dinamismo è poi la formazione in servizio. Nel Meridione - che
coincide ampiamente con il modello più in ritardo di accreditamento - si continua in-
fatti ad investire poco sulla formazione formatori (FF).
L’e-learning
La diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione
(ICT) sta trasformando profondamente il nostro Paese, nonostante l’Italia destini a que-
sto settore il 2% del PIL contro il 4% degli Stati Uniti. Di pari passo si registra un’evo-
luzione dell’utilizzo dell’e-learning, caratterizzato ancora da livelli di spesa contenuti in
termini assoluti (equivalente nel 2006 allo 0,66% della spesa complessiva del compar-
to ICT), ma anche da una crescita significativa (16,2% rispetto all’anno precedente e ben
341% rispetto al dato del 2002). Ciò rispecchia peraltro lo scarso ricorso all’auto-for-
mazione e formazione a distanza nell’ambito della formazione continua, scelto nel 2005
solo dal 6% delle imprese italiane. La dimensione che desta più interesse è comunque
la crescita dell’investimento aziendale, che arriva a coprire quasi il 92% del totale, lasciando
57
sintesi
58
la quota restante a Pubblica amministrazione (in crescita costante), università, scuola ed
utenti finali.
L’Isfol - oltre ad aver promosso nel 2006 la costituzione di un Tavolo di raccordo interi-
stituzionale sulla domanda e sull’offerta dell’e-learning - è direttamente coinvolto su que-
sto fronte nell’ambito del progetto Sistema Permanente di Formazione on line (SPF), pro-
mosso dal Ministero del Lavoro come strumento gratuito di formazione continua a di-
stanza, incentrato sull’accompagnamento delle riforme che hanno interessato il merca-
to del lavoro e il sistema formativo del paese. Al giugno 2008 il progetto ha raggiunto più
di 86.500 utenti. Circa 38.000 corsi a catalogo e 2.900 percorsi (cioè iter formativi più com-
plessi) risultano completati.
L’e-government
Il quadro di riferimento delle politiche nazionali di e-government è strettamente corre-
lato al quadro europeo. L’obiettivo-chiave è il passaggio da una Pubblica amministrazione
burocratica ad una più orientata al servizio, per ottimizzare le performance del sistema
ed offrire agli utenti (cittadini ed imprese) servizi più innovativi ed efficienti.
Dall’analisi dei dati disponibili emerge il posizionamento dell’Italia su valori in linea o
superiori alla media dell’UE. Due sono le linee evolutive che si sono sviluppate in modo
integrato e sinergico: la prima basata su provvedimenti normativi dal carattere innova-
tivo ad alto impatto sul sistema, la seconda riguardante una strategia applicativa basata
su accordi sistematici Stato-Regioni. Lo stato di attuazione di tali politiche fa rilevare nu-
merosi progressi, sia nell’ambito dei servizi erogati, sia in quello della crescita delle in-
frastrutture.
L’Italia, infatti, è passata per i servizi on line dal 58% del 2006 al 70% del 2007. Sul fron-
te degli adempimenti del datore di lavoro, da segnalare come un’operazione di semplifi-
cazione notevole sia stata compiuta con il Sistema di Comunicazioni Obbligatorie dei rap-
porti di lavoro.
Permangono comunque diversi punti critici, quali il potenziamento di un sistema orga-
nico di monitoraggio e l’ulteriore sviluppo di politiche formative volte a facilitare l’ap-
prendimento organizzativo dell’e-goverment nelle pubbliche amministrazioni.
rapporto isfol 2008
59
sintesi
IMPRESE E ICT 2007
Tipologia di utilizzo
65%
77%
93%
84%
76%
94%
e-gov
banda larga
accesso ad Internet
ITALIA
Valore medio UE 27
Imprese e ICT: tipologie di utilizzo, dati 2007
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Eurostat
Finito di st ampare nel mese di ottobre 2008
da Rubb ettino Industrie Grafiche e d Editoriali
per conto di Rubb ettino Editore Srl
88049 Soveria Mannelli (Cat anzaro)
Il Rapporto Isfol illustra lo stato dell’arte, i processi evolutivi e le princi-
pali tendenze dei sistemi del lavoro, dell’istruzione e formazione e delle
politiche sociali. Oltre a rappresentare un canale fondamentale di dif-
fusi o n e d e l l e c o n o s c e n z e , n e l c o n t e m p o c o s t i t u i s c e u n o s t r u m e n t o d i
supporto al dibattito istituzionale e politico.
Come di consueto, anche l’edizione 200 8 si articola in due ampie se-
zioni dedicate ai temi del lavoro e della formazione, precedute da una
panoramica sulla dimensione europea, che si conferma imprescindibile
quadro di riferimento. Le sfide che giungono dall’Europa sono molteplici,
dall’avvio del nuovo periodo di programmazione delle politiche di coe-
sione - e quindi dei Fondi strutturali - al lifelong learning , dalla strategia
rinnovata per l’inclusione sociale all’attenzione per le pari opportunità.
Le dinamiche in atto appaiono contrassegnate da luci ed ombre. Tratti
in chiaroscuro caratterizzano gli andamenti più recenti del contesto ma-
croeconomico, nonostante il numero di occupati abbia raggiunto il suo
massimo storico rallenta la progressione di crescita dell’occupazione.
In tema di istruzione e formazione, la progressiva scolarizzazione della
società italiana è affiancata da un ancora scarso livello di qualificazione
c o m p l e s s i v a d e l l a p o p o l a z i o n e , p e r v i a d e l l a d i s p e r s i o n e c h e n o n a c-
cenna a calare e per i deludenti risultati sul piano dell’educazione degli
a d u l t i . Pe r m a n g o n o , i n o l t r e , u n a s e r i e d i n o d i r e l a t i v a m e n t e a l l a g o-
vernance dei sistemi.
S u t u t t o s i s t a g l i a l ’ i m m a g i n e d i u n Pa e s e a d u e v e l o c i t à , d ov e l e d i-
sparità geografiche rischiano di adombrare le pur tante performance di
successo.
RAPPORTO
2008
ISFOL 2008/b_Relazione_Presidente.pdf
1
PRESENTAZIONE DEL RAPPORTO ANNUALE ISFOL
Relazione del Presidente Sergio Trevisanato
La presentazione del Rapporto Isfol si colloca quest’anno in un contesto di
preoccupazione e contrasti. Negli ultimi mesi il quadro macroeconomico
globale è stato investito da scosse telluriche di particolare intensità. I
sommovimenti che si sono prodotti negli Stati Uniti hanno rapidamente
varcato l’oceano, diffondendo un senso generale di incertezza verso il futuro.
Nello stesso periodo, le recenti elezioni americane contribuiscono a
radicare nell’immaginario collettivo l’impressione di un profondo mutamento
in atto e di interventi capaci di risolvere la crisi in corso.
Infine, sul piano interno, l’azione di governo, pur nella fase iniziale della
nuova legislatura, sembra spingere l’acceleratore su riforme non più
rinviabili. Non a caso, nel Libro Verde presentato lo scorso luglio dal ministro
del Welfare, Maurizio Sacconi, si parla esplicitamente di “rifondazione del
nostro modello sociale”.
Abbiamo dunque uno scenario segnato al tempo stesso da perturbazioni
economiche e da istanze di cambiamento. La lettura dei dati del Rapporto
Isfol conferma quest’impressione di ambivalenza. Gli indicatori relativi al
mercato del lavoro e al sistema formativo – i due ambiti principali di ricerca
dell’Istituto – mostrano segnali positivi ancora evidenti nel 2007, mentre tutti
gli indicatori volgono al peggio nel corso del 2008. Di solito, in circostanze
2
come queste, prevale la logica emergenziale, mentre, in questa fase di inizio
legislatura, sembra prevalere in tutte le componenti della società italiana
quantomeno l’aspirazione a cogliere questa occasione come un’oppportunità
per riforme incisive e durature. Le stesse agitazioni studentesche di queste
settimane –se vogliamo coglierne l’aspetto positivo- mostrano un’ansia di
cambiamento coerente con lo scenario esterno e interno che abbiamo appena
descritto.
Ed è con questa sensibilità che proverò, seguendo le tracce delineate nel
Rapporto, ad evidenziare alcuni dati di fatto e alcune direttrici di policy che
mi sembrano di particolare rilevanza.
Partiamo dalla dimensione più ampia, quella macroeconomica.
Ci troviamo di fronte ad una crisi dei mercati finanziari di notevole
gravità, con inevitabili ricadute sull’economia reale.
Il logoramento del clima di fiducia, la contrazione della liquidità,
l’esaurirsi delle bolle speculative sono tutti elementi che intaccano la tenuta
del sistema produttivo e determinano una fase di recessione.
Già nella seconda metà del 2008 non devono stupire gli impatti negativi
sull’occupazione. Vale per noi e vale per gli altri paesi occidentali. Ma la
situazione italiana – questo è il punto da sottolineare – appare caratterizzata
tanto da debolezze quanto da opportunità da cogliere in misura maggiore di
altri paesi. In questa incertezza devono muoversi le politiche del mercato del
lavoro e della formazione.
Già nella fase espansiva dell’economia, negli anni tra il 2004 e il 2007,
l’Italia ha registrato un differenziale negativo di crescita sia rispetto all’area
Ocse che a quella Euro. In positivo, l’andamento del PIL è risultato
strettamente connesso al ciclo positivo dell’economia mondiale più che ad un
incremento della domanda interna. La vocazione all’export ha tuttavia
confermato la debolezza dei consumi e degli investimenti interni. Questa
specializzazione e questa vocazione italiana possono comportare riflessi più
negativi di altri paesi oppure, invece, costituire una risorsa. Il punto, infatti,
3
riguarda la destinazione delle nostre esportazioni: se rimarranno orientate ai
paesi dell’area Euro si può immaginare un trend più negativo, se invece
aumenteranno le quote di export verso i paesi emergenti, come è già
accaduto in questi anni, Cina e Russia in primis, gli effetti congiunturali
potrebbero essere meno negativi di quanto di solito si dica.
Rimane il fatto che va sostenuta in qualche modo la già debole domanda
di consumi interni: pensare di farlo attraverso il solo sostegno ai redditi
rischia di essere insufficiente, vista la naturale tendenza a trasferire qualsiasi
incremento di redditi in risparmio a titolo precauzionale. Forse varrebbe la
pena intervenire anche con misure di riduzione temporanea dei prezzi finali
di vendita, attraverso ad esempio il “congelamento” di parte dell’Iva o una
parziale defiscalizzazione per un lasso di tempo ben definito, così da
incentivare l’anticipazione di spese comunque previste dai consumatori.
Sul fronte del mercato del lavoro, dopo oltre un decennio di performance
positive, è sopraggiunta una fase di rallentamento, che quasi sicuramente
avrà segno negativo nei prossimi mesi.
La crescita occupazionale degli ultimi anni, ha riguardato in modo
significativo le componenti relative al tempo determinato e al part-time,
strumenti che si sono dimostrati particolarmente adatti nel favorire l’ingresso
nel mondo del lavoro dei giovani, da un lato, e la crescita dei settori terziari
e commerciali ad alta occupazione femminile, dall’altro lato. Tuttavia,
proprio queste tipologie contrattuali presentano aspetti di problematicità nei
momenti di congiuntura economica negativa: si pensi, in particolare, alle
tensioni sui redditi familiari in caso di mancata riconferma dei contratti.
Più in generale, il sistema produttivo italiano negli ultimi 15 anni ha
potuto contare su flessibilità e moderazione salariale incrementando anche
per questa via il numero degli occupati. L’altra faccia della medaglia di
questo processo è il posizionamento dell’economia italiana su una frontiera
della produzione non sempre ottimale in termini di allocazione delle risorse,
nonché un progressivo processo di segmentazione del mercato del lavoro che
4
ha allargato le aree marginali. E’ evidente che in una fase di crisi
l’esposizione al rischio sarà particolarmente alta proprio per quei lavoratori
che già si trovano “al margine”.
Si pongono quindi due ordini di problemi strettamente collegati tra loro:
un attento monitoraggio dei fenomeni in corso e una adeguata capacità di
risposta, preferibilmente in termini preventivi.
Nel primo caso è necessario rafforzare gli strumenti e la capacità di
analisi, diffondere la cultura del monitoraggio e della valutazione in ogni
ramo della pubblica amministrazione, ma soprattutto fare in modo che i
risultati delle indagini svolte arrivino sul tavolo dei decisori politici e
divengano un reale supporto per il loro operato. Quanto alle risposte, si pone
innanzitutto la questione degli ammortizzatori sociali, per contrastare
possibili iniquità e situazioni di criticità non presidiate. Occorrono valide
misure di accompagnamento nei passaggi dall’inattività o dalla
disoccupazione al lavoro, grazie ad una maggiore copertura ed una più
elevata qualità delle politiche attive, nell’ottica del welfare to work. Lo
ribadiamo ormai da tempo: si tratta di tutelare gli individui non solo sul
lavoro ma anche on the market. Se da una parte è essenziale accrescere
l’appeal del lavoro, per renderlo qualitativamente migliore e favorire quindi
la partecipazione; dall’altra serve un sistema affidabile e universale di
protezione nelle fasi di mobilità dei lavoratori, che renda più praticabili ed
anche convenienti le transizioni da posto a posto nel mercato del lavoro.
Il ruolo dei servizi per l’impiego è fondamentale, proprio come luogo
d’elezione per congiungere politiche passive e politiche attive. Su questo
piano vi sono ancora evidenti difficoltà.
Solo in alcune Regioni, ad esempio, il Patto di servizio è accompagnato
dalla previsione di un Piano di azione individuale. La “centralità della
persona” di cui si parla nel Libro Verde sul futuro del modello sociale è in
molte regioni italiane, quelle meridionali in particolare, un approccio ad oggi
solo dichiarato o abbozzato.
5
Complessivamente, i Centri in grado di operare in modo coerente con
quanto previsto dalla normativa nazionale non sono più di un quarto a livello
nazionale, appena il 10% nel Mezzogiorno, quattro volte di più al Nord.
Arriviamo così ad un aspetto più volte richiamato nelle pagine del Rapporto
Isfol di quest’anno: la profonda spaccatura del Paese tra un Nord che è
abbondantemente in linea con le più avanzate regioni europee e un Sud che è
in coda alle classifiche europee. Cosa nota a tutti, ma i dati del rapporto
Isfol 2008 indicano un ulteriore accentuazione sotto vari profili.
Rimanendo ai Servizi per l’impiego, alcune cifre sono emblematiche.
Azioni di raccordo con il sistema della formazione professionale si rilevano in
circa il 60% delle Province italiane, ma solo in un terzo di quelle meridionali.
Oltre la metà delle Province associa al raccordo anche procedure di presa in
carico degli utenti disoccupati; nel Mezzogiorno sono il 20%. In tutto il Paese
un terzo delle Province svolge azioni proattive, come l’erogazione on demand
di pacchetti formativi o la gestione di voucher; nel Sud siamo fermi all’11%.
L’interrogativo più forte è cosa fare per impedire che i divari regionali si
amplifichino ulteriormente. Se si guarda alle regioni del Nord le scelte di
decentramento non sembrano aver dato sotto questo profilo buona prova, una
pessima prova, invece se osserviamo cosa è successo nelle regioni
meridionali. Cosa fare? Credo sia necessaria una seria riflessione sulla
perseguibilità o meno di un modello di federalismo omogeneo, non
differenziato, e se, di conseguenza, nei casi di palese inadempienza o di
malfunzionamento delle istituzioni regionali e provinciali non si debba
procedere ad azioni di surroga o di commissariamento.
Un altro aspetto messo in luce nel documento presentato dal ministro
Sacconi è quello relativo al sistema telematico di incontro tra domanda e
offerta di lavoro. Un’accelerazione dell’efficienza delle reti tecnologiche e di
relazione è in effetti indispensabile per garantire il monitoraggio del mercato
del lavoro. I tre strumenti attuali – vale a dire il SIL su base regionale, la
Borsa continua nazionale del lavoro e il sistema delle Comunicazioni
obbligatorie – funzionano ancora in modo separato, come mostrano i dati
6
raccolti dalle indagini Isfol sui Centri per l’impiego. Riaprire una riflessione
pacata su questo fronte, facendo tesoro tanto delle esperienze nazionale
quanto di quelle locali, può essere utile per far ripartire la messa a regime
degli strumenti informativi congiunturali su mercato del lavoro, la cui
necessità non viene meno -anzi si rafforza- nei momenti di crisi come questo.
In generale, appare fondamentale rafforzare complessivamente le azioni
dei servizi per l’impiego, in particolar modo qualora vadano attivate misure
straordinarie di placement. Continuare ad affidarsi quasi esclusivamente
all’intermediazione informale – il canale tradizionalmente utilizzato per
l’incontro domanda/offerta di lavoro in Italia – può rivelarsi poco efficiente.
Una funzione fondamentale dei Servizi per l’impiego senz’altro da
potenziare è quella relativa alla riqualificazione, prevista ormai da oltre un
quinquennio dalla normativa nazionale e non ancora completamente attuata.
A fronte dell’attuale congiuntura economica è essenziale garantire un’azione
di rafforzamento continuo delle competenze dei lavoratori e i servizi per
l’impiego devono rappresentare il punto di raccordo tra tutti i soggetti in
campo. Già solo fissare questo obiettivo per i prossimi anni servirebbe a dare
slancio e riconoscimento alle migliori esperienze locali registrate in questi
anni, specie in alcune regioni del Nord, e che andrebbero diffuse in tutto il
territorio nazionale.
Il Rapporto Isfol rivolge anche quest’anno un’attenzione particolare ai
segmenti maggiormente a rischio di esclusione sociale. Sui disabili, ad
esempio, la recente presentazione della IV Relazione biennale al Parlamento
sullo stato di attuazione della legge 68/99 – per la cui stesura il nostro Istituto
ricopre un ruolo centrale – è stata l’occasione per fare il punto della
situazione in questo campo. Dai dati risulta che la corretta applicazione di
quanto previsto all’art. 2 della legge in questione – che ha introdotto il
concetto di collocamento mirato – non rappresenta ancora una pratica diffusa
sul territorio nazionale, limitando ad una porzione del Paese (circa il 42%) la
piena costruzione di progetti individuali per le persone con disabilità e la
sperimentazione di nuove modalità di collaborazione con i datori di lavoro.
7
Altra pressante questione è quella relativa alle politiche migratorie. A
livello europeo si insiste da tempo sulla necessità di avviare una strategia
comune anche in questo settore. Di recente la Commissione ha adottato una
Comunicazione sulla politica di immigrazione ed un Piano strategico sull’asilo.
Il mese scorso il Consiglio ha adottato il Patto europeo sull’immigrazione e
l’asilo, per avviare una politica comune in questo ambito. L’impostazione di
massima continua a prevedere il contrasto dell’immigrazione clandestina, la
regolamentazione di quella legale e la cooperazione con i Paesi di origine. Il
fenomeno sta assumendo in tutt’Europa una rilevanza sempre maggiore: su
una popolazione che conta intorno ai 500 milioni di abitanti circa 27 milioni
sono gli immigrati con cittadinanza straniera, che diventano 50 milioni se si
includono anche coloro che hanno acquisito la cittadinanza presso uno degli
Stati membri. La portata dei numeri mostra l’esigenza di approcci non più
gestibili dai singoli Paesi, soprattutto in una condizione di libera circolazione
dei cittadini e di apertura delle frontiere interne.
La prospettiva di una politica comune è il presupposto perché
l’immigrazione legale possa accrescere il proprio contributo allo sviluppo
socioeconomico dell’Unione. Servono regole chiare sui requisiti e sulle
procedure per l’ingresso e il soggiorno nel territorio comunitario; strumenti di
valutazione dei fabbisogni del mercato del lavoro europeo; una piena
integrazione dei cittadini immigrati. Sotto quest’ultimo profilo un aspetto
centrale rimane quello dell’istruzione, come è stato ribadito solo qualche
mese fa dal Libro Verde su migrazione e mobilità presentato dalla
Commissione europea.
In Italia, i dati indicano l’esistenza di differenze molto accentuate tra i
risultati scolastici degli studenti autoctoni e quelli di coloro che provengono
da famiglie straniere. Particolarmente preoccupante è il trend che vede gli
studenti immigrati di seconda generazione ottenere performance peggiori
della generazione precedente, segno che il divario sociale tra immigrati e
nativi non si riduce in modo significativo con il passare del tempo.
8
Inoltre, sembra acuirsi il fenomeno della concentrazione di immigrati in
determinati tipi di scuole, in particolare quelle professionali, oppure in
specifici ambiti territoriali, fenomeni che a loro volta portano alla diserzione
di queste scuole da parte delle famiglie italiane, alimentando ben noti circoli
viziosi. La situazione più critica riguarda l’istruzione professionale perché
costituisce il punto di snodo tra istruzione e formazione professionale: questo
segmento è oggi in gravissima difficoltà e le dinamiche di questi anni di
concentrazione di popolazioni immigrate in questo segmento ai fini di
assolvere all’obbligo scolastico sta producendo una vera e propria
sovrapposizione di figure marginali. Non è mai stato questo l’obiettivo dei
governi che si sono succeduti in questi quindici anni, anzi il problema è
sempre stato quello opposto, vale a dire di rafforzare il canale dell’istruzione
professionale. Si tratta di un tema che dovrà essere oggetto di specifico
monitoraggio e di interventi conseguenti in tempi ravvicinati.
Altre dinamiche sono ben note ma non per questo più semplici da
affrontare. Mi riferisco, ad esempio, alla componente femminile del mercato
del lavoro. La crescita complessiva dell’occupazione nell’ultimo decennio è
stata trainata dalle donne – che rappresentano oggi quasi il 40% degli occupati
- e tuttavia il segmento femminile è quello che più sensibilmente e per primo
risente della difficile congiuntura. Alcuni dati: circa il 44% delle donne
disoccupate nel 2006 risulta inattiva nel 2007, mentre per la componente
maschile non si oltrepassa il 33%. Tra tutte le donne che cercavano un
impiego nel 2006, poco più di una su quattro è riuscita a trovarlo l’anno
successivo, contro il 35% degli uomini.
L’ineguaglianza di genere nel mercato del lavoro è dunque ancora una
realtà di fatto, specie nei momenti di crisi, anche se in un’ottica di lungo
periodo il nostro paese sembra essere in grado di allinearsi al resto d’Europa,
con la sola eccezione, già più volte rilevata, delle regioni meridionali.
Una questione fondamentale è la conciliazione tra vita privata e vita
professionale. L’Italia, come gli altri Paesi dell’Europa “mediterranea” non
dispone tradizionalmente di forme strutturate di welfare familiare. Abbiamo
9
una spesa sociale che destina scarse risorse al sostegno delle famiglie. E
abbiamo uno dei più alti tassi di inattività femminile, tra l’altro con una
partecipazione particolarmente discontinua al mercato del lavoro,
soprattutto in relazione allo status familiare e alla presenza di figli o persone
non autosufficienti. Vi è poca condivisione dei carichi familiari all’interno
della coppia e insufficienti servizi pubblici per la conciliazione. Nei Paesi
nordici, ad esempio, ad un mercato del lavoro flessibile viene associato un
sistema di sostegni nei periodi di transizione, con valide misure di formazione
e di assistenza al reinserimento. Ciò permette di affrontare uno degli aspetti
peculiari della partecipazione femminile, appunto quello della discontinuità.
La strategia di Lisbona ha posto l’incremento dell’occupazione femminile
in stretta connessione con lo sviluppo dei servizi di supporto alla cura. Tutti
gli Stati membri sono stati invitati ad offrire servizi all’infanzia al 33% dei
bambini di età compresa tra 0 e 3 anni. L’Italia non arriva al 10% e si
registrano ampi divari territoriali, con percentuali a dir poco irrisorie in
alcune Regioni del Mezzogiorno, dove notoriamente vi sono i più alti livelli di
inattività femminile e di gender gap.
Il tempo speso in attività di cura all’interno della famiglia continua a
rappresentare un differenziale di genere enorme. Non è quindi un caso che il
tasso di occupazione femminile ruoti intorno al 45%, mentre quello maschile
sfiori il 70%.
L’analisi dei flussi del mercato del lavoro è interessante anche sotto il
profilo generale. Al di là del raffronto uomo/donna, possiamo notare come la
quota complessiva di disoccupati che a distanza di un anno sono riusciti a
trovare un’occupazione passi dal 33% del biennio 2005-2006 a circa il 30% del
2006-2007. Una fetta analoga è rimasta in cerca di lavoro ed il resto è finito
nell’inattività.
Quanto alle transizioni dalla temporaneità alla stabilità riscontriamo
invece dei progressi: i collaboratori stabilizzati sono in aumento,
probabilmente a causa dei provvedimenti volti alla corretta applicazione
10
della relativa normativa. Tra il 2006 e il 2007 quasi il 15% è passato a tempo
indeterminato, con un aumento di circa 4 punti percentuali rispetto al
biennio 2005-2006. E l’11,2% è diventato a tempo determinato, con un
incremento del 3%. Risultano tuttavia stabili le transizioni relative agli
occupati a tempo determinato: circa un dipendente su 4 viene stabilizzato nel
corso di un anno.
In Italia, il peso del lavoro a termine sul totale dell’occupazione rimane
comunque contenuto: il dato relativo al 2007 è ancora sotto il 10%, tanto che
nonostante gli incrementi degli ultimi anni siamo ancora uno dei paesi
europei con l’incidenza più bassa di rapporti di lavoro a tempo definito.
Analogo discorso vale per i rapporti di lavoro a tempo parziale, che
presentano una dinamica di crescita più elevata di quella dell’occupazione
complessiva, rimanendo tuttavia ben al di sotto della media comunitaria: nel
nostro paese il part-time è al 13,6%, contro il 18,2% dell’Ue a 27 e il 20,9%
dell’Ue a 15. Sappiamo bene che il lavoro a tempo parziale rappresenta per la
componente femminile un’opportunità importante per conciliare vita privata
e lavoro. Tra le donne in cerca di occupazione quasi una su tre preferirebbe
avere un part-time, ma nella fascia tra i 35 e i 44 anni si arriva ad oltre il
42%, valore che tra gli uomini non raggiunge il 4%.
L’esistenza di incongruenze nelle modalità di incrocio tra domanda e
offerta di lavoro anche per quanto riguarda il lavoro a part-time è
testimoniata dal fatto che una consistente quota di lavoratori a tempo
parziale (circa il 41%) si dice insoddisfatta della propria condizione lavorativa.
E’ del tutto probabile, che anche in questo caso si verifichi un mismatch
all’interno del mercato del lavoro e una sua non perfetta capacità di
soddisfare tanto le richieste dal lato della domanda quanto le aspirazioni dal
lato dell’offerta di lavoro.
Siamo ormai da tempo abituati a sviluppare le nostre riflessioni sulle
politiche da intraprendere entro la dimensione europea, con un’attenzione
particolare al fatto che il rapporto tra Commissione e Stati membri si è
rafforzato attraverso il cosiddetto “coordinamento aperto”.
11
Nel dibattito comunitario che si è avviato sul futuro delle politiche di
coesione sta prendendo corpo l’idea che alla condivisione di linee guida si
affianchi una maggiore attenzione al territorio, anche attraverso un’ulteriore
accentuazione del decentramento delle competenze. Dal punto di visto
finanziario, la direzione è quella di un più intenso coordinamento con le
azioni messe in campo grazie alle risorse nazionali, rafforzando quindi il
principio dell’addizionalità. In un Paese come l’Italia, dove intere parti dei
sistemi di istruzione, formazione e lavoro vengono finanziati in grandissima
parte dal Fondo sociale europeo, si dovranno operare cambiamenti
importanti. Dicevamo prima dei Servizi per l’impiego: anche su quel fronte,
ad esempio, il sistema dovrà attrezzarsi ad un trasferimento sui fondi
nazionali. E non sarà un’evoluzione di poco conto. Inoltre, sappiamo che i
nostri programmi operativi rivolti al capitale umano sono tradizionalmente
finalizzati ad una molteplicità di azioni, a differenza di quelli dei nostri
partner europei solitamente dedicati ad obiettivi più specifici e circoscritti.
Ne deriva una dispersione di risorse, cui prima o poi occorrerà mettere
mano. In definitiva, il dibattito in corso rappresenta un’occasione per
ragionare sull’effettivo utilizzo del Fse come volano di sviluppo e non
semplice sostitutivo di fondi nazionali sempre più scarsi.
Questo ruolo dell’Europa in termini di trasferimento di principi è ancora
più evidente se guardiamo al tema della flexsecurity. Appare evidente come
tale approccio non possa identificarsi in un unico modello cui ispirare le
politiche del lavoro, ma sia comunque servito a delineare principi comuni su
cui fondare interventi che tengano in debito conto gli specifici contesti
politici, economici e sociali.
Le disparità geografiche nell’Unione europea si sono accentuate con
l’allargamento. Sul fronte dei risultati relativi alla strategia di Lisbona
registriamo un parziale fallimento. Gli obiettivi quantitativi fissati in vista del
2010 non sono stati raggiunti. Almeno come media europea. Poi se andiamo a
vedere i singoli Paesi la realtà è assai differenziata, con punte di eccellenza e
forti ritardi. Vorrei fare a riguardo un paio di considerazioni. La prima
12
riguarda la mancanza di dati certi e comparabili come una delle possibili
cause delle oscillazioni così marcate tra le diverse realtà nazionali. Tra
l’altro, non vi sono criteri pienamente validi per standardizzare i diversi
assetti istituzionali che influenzano il mercato del lavoro come per esempio le
varie legislazioni sulle età di ingresso e d’uscita dal mercato del lavoro.
Questo rilievo è particolarmente importante per il nostro paese, spesso
penalizzato proprio da un adeguato raccordo a livello europeo tra i criteri
delle rilevazioni statistiche e la normalizzazione delle legislazioni nazionali
che regolano l’ingresso e l’uscita del mercato del lavoro.
La seconda considerazione, in positivo, sottolinea come, al di là dei
risultati e delle comparazioni di benchmark, la strategia di Lisbona abbia
comunque svolto una funzione di stimolo che ha permesso a tutti gli Stati di
migliorare il funzionamento dei rispettivi mercati del lavoro. E l’Italia ne è un
esempio evidente: il ritardo rispetto ai partner più avanzati si è ridotto e la
spinta europea ha determinato progressi a volte rilevantissimi, come nel caso
delle regioni del centro-nord.
Di nuovo occorre sottolineare questo aspetto della problematica
occupazionale, a cui già ho fatto cenno in alcuni passaggi di questa relazione:
la profonda spaccatura tra Nord e Sud.
Gli indicatori del mercato del lavoro delle Regioni settentrionali e in molti
casi anche del Centro superano la media europea e si collocano ai vertici
della graduatoria, ad affiancare i territori più virtuosi. Di contro, il
Mezzogiorno rappresenta uno dei fanalini di coda dell’Europa.
Il basso tasso di occupazione dell’Italia è dovuto esclusivamente
all’insufficiente apporto delle Regioni meridionali, dove il valore è di poco
superiore al 45%. E il divario si accentua.
Tra il 2000 e il 2007 al Sud l’occupazione è aumentata del 4,7%, rispetto
all’8,9 del Nord-Est, al 9,9 del Nord-Ovest e al 16,8% del Centro. Nello stesso
periodo le Regioni meridionali hanno registrato un calo molto più consistente
della disoccupazione ma il relativo tasso rimane comunque quasi il doppio di
13
quello medio nazionale. Senza contare il fenomeno –più volte evidenziato –
dell’effetto “scoraggiamento” che ha portato ad un innalzamento del tasso di
inattività. Sempre nel periodo 2000-2007 l’area dell’inattività è cresciuta nel
Mezzogiorno dell’8,1%; contro l’1,7% del Nord-Est e l’insignificante 0,3% del
Nord-Ovest. Sappiamo, inoltre, che nel Meridione vi sono le quote più elevate
di irregolarità sul lavoro: il tasso di irregolarità raggiunge quasi il 20% rispetto
al 12% delle Regioni settentrionali.
C’è da chiedersi a questo proposito quale sia la strategia da seguire di
fronte all’evidente paradosso di forze di lavoro inoccupate nelle regioni del
sud e di un rilevantissimo ricorso a forze di lavoro immigrate nelle regioni del
nord. O si portano capitali produttivi da nord a sud, oppure si favorisce lo
spostamento di forze di lavoro da sud a nord: la nettezza con cui pongo la
questione è pari all’urgenza del dilemma. Non si tratta, come è ovvio, di un
aut aut. Punti di ragionevole equilibrio tra queste due alternative
strategiche se ne possono trovare quanti se ne vuole, ma rimane il fatto che
è forse utile cominciare a indagare a quali condizioni sia possibile dare un
qualche slancio anche alla seconda strategia, favorendo i trasferimenti
interni.
Se passiamo al sistema di istruzione e formazione rimane l’immagine di un
Paese a due velocità. Prendiamo la formazione professionale regionale: con il
45% della popolazione residente e la metà della forza lavoro, il Nord realizza
circa tre quarti dei corsi e totalizza una quota analoga di allievi.
Nell’anno scolastico 2006-2007 il 4% della forza lavoro nazionale ha
partecipato alle attività di formazione professionale organizzate dalle
Regioni, con un incremento annuo dell’1,2%. Ma se scorporiamo i dati a livello
geografico vediamo che il Nord ha coinvolto il 6% della forza lavoro, il Centro
poco più del 2% e il Sud non arriva neanche a quella soglia, fermandosi
all’1,9%.
Stesso discorso per l’apprendistato: quello relativo al diritto-dovere risulta
praticamente inutilizzato nel Meridione. E il fenomeno della dispersione
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formativa tra i 14-17enni coinvolge al Sud 8 ragazzi su 100, contro circa il 4%
del Centro e del Nord-Ovest e fino all’inconsistente 0,6% del Nord-Est. Quanto
alla formazione continua, essa incide sul 35% circa delle imprese
settentrionali, mentre a Mezzogiorno si registra un valore più basso di circa
10 punti percentuali. I Fondi paritetici interprofessionali, come è noto, hanno
una concentrazione fortissima al Nord e sono assai deboli al Sud.
Di analogo tenore sono i dati relativi al monitoraggio, la valutazione, i
sistemi di qualità, la certificazione.
Un ambito, quest’ultimo, che rappresenta la chiave di volta per garantire
la produttività dei percorsi formativi e su cui l’Europa sta insistendo con
particolare vigore. I recenti progressi sul fronte del Quadro europeo delle
qualifiche e dell’ECVET – il sistema per il riconoscimento dei crediti – hanno
infatti reso più concreto l’obiettivo di un’effettiva leggibilità e correlabilità
dei titoli tra i vari Paesi dell’Unione. L’Isfol ha partecipato direttamente
all’elaborazione di queste iniziative e un rinnovato impegno ci viene chiesto
in vista del 2012, cioè la data entro cui gli Stati membri sono chiamati ad
aderire su base volontaria. E’ un impegno perfettamente in linea con la
filosofia del Libro Verde cui ho fatto riferimento prima: quella che pone
l’individuo al centro di un sistema di opportunità, tra cui appunto la piena
valorizzazione delle competenze acquisite. Sarà quindi necessario rafforzare
strumenti come l’Europass, il cui potenziale non sembra ancora del tutto
emerso, e il Libretto formativo del cittadino, la cui sperimentazione si è da
poco conclusa. E bisognerà innanzitutto proseguire il lavoro svolto nell’ambito
del Tavolo tecnico per la costruzione del Sistema nazionale di standard
minimi, cercando di fare in modo che questi strumenti abbiano capacità di
vigenza sull’intero territorio nazionale e non riproducano all’infinito la
fotografia di una Italia “a due velocità”.
La chiave di fondo per leggere le dinamiche relative ai sistemi
dell’educazione e della formazione rimane la qualificazione complessiva della
popolazione italiana e in particolare della forza lavoro. Un dato certo
riguarda la crescita della scolarizzazione. Il tasso di istruzione secondaria
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superiore per chi ha 15 anni ed oltre è in progressivo aumento e si è
attualmente posizionato su un valore di circa il 42%. Relativamente alla sola
forza lavoro siamo arrivati per la prima volta al 60%, mentre la percentuale di
chi ha anche la laurea ha superato il 15%. Nella fascia dei 20-24enni, più dei
tre quarti ha un titolo di scuola superiore, ancora lontani dagli obiettivi di
Lisbona che fissano al 2010 una percentuale dell’85%. Va però segnalato che
dal 2000 abbiamo drasticamente ridotto lo scarto con la media europea
passando da un meno 7,2% ad un meno 1,8%.
L’aspetto più critico rimane quello della dispersione scolastica. Nel 2006-
2007 l’1,6% degli studenti della scuola secondaria di secondo grado ha
abbandonato precocemente il proprio percorso educativo. Ed anche in questo
caso assistiamo ad una forte disparità tra i licei (con una percentuale dello
0,2%) e gli istituti professionali (con il 3,6%). Se consideriamo
complessivamente sia la dispersione scolastica che quella formativa, ossia la
quota di giovani che risultano al di fuori di qualsiasi percorso educativo, tra i
18-24enni abbiamo una percentuale che sfiora il 20%, mentre il benchmark di
Lisbona chiede di non oltrepassare il 10 e la media europea si ferma sotto il
15.
Ritorna qui il problema del raccordo tra sistema dell’istruzione e sistema
della formazione professionale, e in particolare la necessità di riprendere il
percorso di revisione dell’istruzione tecnica, dove la criticità maggiore
sembra concentrarsi negli istituti professionali. Marginalità e dispersione
scolastica si sommano nel canale più tipico dell’istruzione professionale senza
che si intravedano possibili vie di uscita. Di concerto con le autorità
ministeriali competenti, l’Isfol propone di avviare un programma di
monitoraggio finalizzato a proposte operative in questo snodo critico del
nostro sistema formativo.
Una seconda criticità riguarda invece il grado di qualificazione
complessiva della popolazione adulta. E’ un problema ancora grave, su cui
non sono stati fatti sufficienti passi in avanti. Se consideriamo la fascia d’età
che va dai 25 ai 64 anni, poco più di una persona su due ha un titolo di
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istruzione secondaria superiore, vale a dire circa 20 punti percentuali in meno
rispetto al dato medio europeo e addirittura 40 in confronto ai paesi più
virtuosi.
Per quel che riguarda specificatamente la formazione continua, le imprese
italiane dell’industria e dei servizi con almeno 10 addetti che svolgono
attività formative per i propri lavoratori sono meno di una su tre, contro il
60% della media europea. Il nostro Paese ha valori inferiori sia per incidenza
delle imprese formatrici che per tasso di partecipazione. E i dati confermano
ancora una volta la forte correlazione tra dimensione d’impresa e
propensione alla formazione: solo una su quattro delle aziende con un
numero tra 10 e 19 addetti svolge attività di formazione interna; percentuale
che supera il 96% in quelle con almeno 1.000 addetti. Relativamente ai Fondi
paritetici interprofessionali – che, ricordo, dispongono mediamente di oltre
350 milioni di euro l’anno – al giugno 2008 risulta che abbiano finanziato una
quantità di interventi formativi capace di raggiungere il 14% dell’utenza
potenziale. Una quota ancora troppo ristretta e – come ho già avuto modo di
segnalare – in buona parte concentrata al Nord. Vorrei aggiungere che in
questo campo l’Isfol fornirà a breve i primi risultati del sistema di
monitoraggio che ha realizzato su incarico del Ministero del Lavoro. Entro la
fine dell’anno avremo quindi un quadro molto più dettagliato su cui
riflettere, ma già fin d’ora non si può non valutare come adeguata e
tempestiva la sollecitazione del Libro verde del Ministro del lavoro a
valorizzare in ogni modo la formazione in azienda.
Ricapitolando, il sistema formativo italiano mostra buone performance
nella scuola secondaria di primo e di secondo grado. Le superiori riescono
ormai ad attrarre una percentuale di 14-18enni intorno al 92%. Anche i
partecipanti alla formazione professionale sono in crescita. Quanto al livello
universitario, nell’ultimo biennio c’è stato un calo delle immatricolazioni, ma
il grado di partecipazione rimane comunque apprezzabile. Tra i 19-23enni il
tasso di iscrizione è salito per la prima volta oltre il 60%. Inoltre, rispetto agli
obiettivi della strategia di Lisbona uno dei risultati sicuramente positivi del
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nostro Paese rispetto agli altri partner europei riguarda proprio l’università,
anche con l’incremento dei laureati in discipline matematiche, scientifiche e
tecnologiche: dal 2000 al 2007 l’Italia registra un aumento del 70% contro il
25 della media europea.
Tra le criticità, a livello di formazione post secondaria, vi è invece il
mancato decollo dei percorsi di specializzazione alternativi all’università. La
formazione tecnica superiore, infatti, investita di recente da un processo di
riorganizzazione, con l’istituzione dei Poli formativi per l’IFTS, appare un
sistema ancora in fase di sviluppo e assestamento. I numeri delle attività
corsuali appaiono addirittura in calo, con 144 corsi IFTS tra il 2006-2008
contro i 388 del periodo 2004-2006. Un prossimo monitoraggio ci consentirà
anche su questo fronte di presentare dati di riflessione e alternative di
intervento alle autorità competenti.
Ma già fin d’ora si può dire che al successo delle lauree triennali bisogna
aggiungere la progressiva licealizzazione della scuola italiana, fenomeno che
rischia di indebolire l’istruzione e la formazione tecnico-professionale. Tra
tutti gli studenti italiani i liceali sono ormai uno su tre, ad un solo punto
percentuale di distanza dagli iscritti degli Istituto tecnici, mentre quelli degli
Istituti professionali sono appena il 22%. Se consideriamo esclusivamente gli
iscritti al primo anno delle superiori il sorpasso dei Licei è già una realtà di
fatto. A ciò va aggiunto che il fenomeno della dispersione – lo dicevo un
attimo fa – riguarda prevalentemente proprio il segmento tecnico-
professionale. Di nuovo segnalo l’urgenza di una riflessione e di interventi
mirati per ridare ruolo e significato all’istruzione professionale e rafforzare
gli istituti tecnici.
Un altro capitolo particolarmente preoccupante riguarda l’apprendistato.
Vi è una situazione di opacità operativa che rende assai difficoltoso l’accesso
alla formazione. è in caduta libera da tre anni: era il 25% nel 2004 – valore già
di per sé basso – ed è sceso al 17% due anni dopo. Appare quindi del tutto
condivisibile il giudizio espresso nel Libro Verde sul futuro del modello
sociale, quando si dice che tale strumento “non risponde alle esigenze della
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domanda di formazione da parte di lavoratori e imprese”. L’approccio che
sembra profilarsi vede l’attribuzione di un ruolo sempre più ampio alle parti
sociali e agli organismi bilaterali, invitati a partecipare alla governance del
sistema in chiave cooperativa.
Quanto alla sperimentazione dell’apprendistato “alto”, anche in quei
territori dove sembra che lo strumento abbia riscosso il maggior successo –
ovvero nell’area del Nord-Ovest – il primo avviso pubblico per la raccolta dei
progetti ha riscosso una scarsa attenzione da parte delle strutture produttive,
tanto da lasciare una ampia quota di risorse non assegnate.
Mi avvio a concludere. L’anno scorso, in occasione della presentazione del
precedente Rapporto, segnalavo come l’analisi degli andamenti in atto fosse
positiva. I documenti di programmazione dei Fondi strutturali per il periodo
2007-2013 sono stati elaborati in funzione di un contesto di questo tipo.
Improvvisamente, il quadro è cambiato, la crisi e la recessione sono già
attualità, e rischiano di aggravare vecchie e nuove fratture territoriali sia sul
fronte del mercato del lavoro che del sistema formativo.
Innanzitutto, il mutamento di ciclo rischia di accentuare le disparità, tra
le persone e fra i territori. Si pone allora la necessità di garantire un’efficace
governance delle politiche volte a contrastare tali rischi. Il tema del
federalismo acquista quindi un significato particolare, perché il
decentramento delle politiche attive del lavoro si trasformi in occasione di
sviluppo dei territori sulla base delle diverse caratteristiche locali. Ma
occorrono anche momenti di sintesi e di controllo. Ed appare indispensabile
un’azione di governo da parte dell’Amministrazione centrale volta ad arginare
i forti ritardi che ancora caratterizzano una parte del nostro Paese. E’ la
questione dei livelli essenziali dei servizi. A riguardo, appare importante la
consapevolezza sottolineata nel Libro Verde sul futuro del modello sociale
che l’efficacia dell’azione di governance delle politiche del lavoro dipenda
non solo dalle Istituzioni ma anche dal contributo delle parti sociali.
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Il processo di ridefinizione delle competenze scaturito dalla riforma del
Titolo V della Costituzione non ha sempre avuto un adeguato
accompagnamento in termini di raccordo, almeno per quel che riguarda le
politiche attive del lavoro. E’ invece prioritario rafforzare una struttura di
governo capace di intervenire in un’ottica di sistema e al tempo stesso di
supportare operativamente i territori in ritardo. Quei territori che potrebbero
rivelarsi particolarmente vulnerabili in una fase di maggiore difficoltà
macroeconomica.
Più in generale, concludendo, ci si deve chiedere se l’intero ciclo delle
politiche del lavoro, dell’istruzione e della formazione non debbano essere
ripensati e riorientati alla luce della crisi in corso.
Chiudo, come sempre, assicurando l’impegno dell’Isfol sia sul versante
della ricerca e della valutazione del monitoraggio, sia in materia di assistenza
tecnica.
Ringrazio i ricercatori e tutto il personale dell’Istituto, poiché il Rapporto
è innanzitutto il frutto del loro lavoro.
Ringrazio infine tutti i presenti per la partecipazione a questo nostro
importante appuntamento annuale.