Argomento:
Data:
21 Novembre 2007
Descrizione breve:
Europa, formazione, lavoro sono le parti in cui è articolato il Rapporto ISFOL 2007, e, in particolare il difficile accesso alla formazione. L’Italia si pone, infatti, come fanalino di coda per il grado di formazione della popolazione.
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ISFOL 2007/rapporto ISFOL donne.pdf
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Roma, 20 novembre 2007
COMUNICATO STAMPA
LE DONNE.
PIÙ BRAVE A SCUOLA, PIÙ DISCRIMINATE SUL LAVORO
Il 2007, Anno europeo per le pari opportunità per tutti, si sta concludendo all’insegna di un
paradosso ormai consolidato dalla nostra tradizione nazionale: le donne sono più brave a scuola, ma
sul lavoro fanno molta più fatica dei loro colleghi maschi ad affermarsi, in termini di stabilità,
retribuzione e carriera.
I dati emersi dal Rapporto Isfol 2007 confermano la maggiore propensione femminile allo studio.
La migliore resa scolastica delle donne si evince a partire dai dati sulla dispersione scolastica: nel
2006 il tasso di dispersione femminile tra la popolazione 18-24enne è del 17,3%, mentre quella
maschile arriva al 24,3%. Ancora più eloquenti i dati relativi ai risultati raggiunti dalle ragazze sia
nella scuola secondaria sia in ambito accademico: complessivamente, nell’anno scolastico 2005-
2006, il 76,9% delle giovani studentesse ha conseguito un diploma di scuola secondaria
superiore, contro il 65,4% dei maschi.
Tasso di produttività della scuola secondaria superiore per tipo di scuola
Tipo di scuola
Anni
1990/91 2000/01 2003/04 2004/05 2005/06
Istituti Professionali* 33,8 47,1 54,6 51,7 46,6
Istituti Tecnici 63,6 70,6 74,4 73,1 76,0
Licei 74,4 80,8 82,0 83,8 85,1
Istruzione magistrale(a) 62,8 67,5 78,2 78,2 82,9
Istruzione artistica (b)* 57,0 58,9 60,8 62,6 62,4
Tasso di produttività totale 59,7 67,4 71,7 70.9 71,0
(a) Licei e istituti psicopedagogici e dei servizi rivolti alla persona
(b) Istituti d'arte e licei artistici
* il dato può essere influenzato da quanti terminano con il triennio.
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat, Ministero della Pubblica Istruzione
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Le studentesse mantengono la distanza dai maschi anche nella scelta degli studi universitari:
nell’anno accademico 2006-2007, il 78,7% delle ragazze che si erano diplomate nell’anno
precedente è passato all’Università; si tratta di una percentuale significativamente superiore al
72,5%, che corrisponde al tasso complessivo di diplomati passati, l’anno successivo al
conseguimento del diploma, all’istruzione universitaria. Le matricole universitarie di genere
femminile rappresentano il 65,1% dell’intera popolazione femminile tra i 19 e i 20 anni, mentre per
gli uomini la percentuale è pari al 48,4%. In aumento anche il tasso di iscrizione complessivo che è
del 59,5%, ma la presenza delle sole donne raggiunge il 68,8%.
Continuano a prevalere le donne anche per il conseguimento della laurea: dei complessivi 161.445
studenti che nel 2006 hanno conseguito una laurea di primo livello, il 57,3% è costituito da
donne. Se poi passiamo a considerare il gruppo disciplinare letterario, linguistico e
psicopedagogico (pari al 22,4% dei laureati), che nell’anno di riferimento 2006 ha visto la più alta
concentrazione di titoli di primo livello, vediamo che le donne, confermando anche qui una
tradizionale propensione per le materie umanistiche, hanno conseguito quasi l’81% dei titoli.
A fare da contraltare a questi successi nel campo dell’istruzione i dati sull’occupazione femminile:
l’obiettivo fissato dalla strategia di Lisbona di un tasso di occupazione femminile del 60% al
2010 appare irraggiungibile dall’Italia. Con un dato di poco inferiore al 47% nel 2006 (contro
il 71% maschile) l’Italia ha già ampiamente disatteso anche l’obiettivo intermedio fissato al
57% per il 2005.
La partecipazione al lavoro da parte delle donne tende costantemente a diminuire. Cresce il numero
di coloro che si ritirano dal mercato del lavoro: quasi 10 milioni di donne in età lavorativa non
hanno cercato un impiego (gli uomini in questa condizione sono circa la metà).
Il lieve deterioramento della condizione delle donne nel mercato del lavoro è testimoniato dai dati
relativi agli ingressi nell’occupazione. Nel 2006 solo il 36,7% delle nuove occupate è stato
assunto con un contratto a tempo indeterminato (contro il 41,4% del 2005) e, rispetto all’anno
precedente, sono cresciuti invece gli accessi mediante lavoro a termine (36,2) e a progetto (6,4%).
Nel 2006 in seguito alla maternità ben una donna su nove esce dal mercato del lavoro. In due
terzi dei casi per esigenze di cura e assistenza alla prole e per un terzo a causa di motivazioni legate
al tipo di contratto di lavoro. Il tema della conciliazione dei tempi di lavoro con i tempi extra
lavorativi rappresenta un fattore determinante per la partecipazione femminile.
Dall’indagine Isfol-Plus emerge che il 67% delle donne ritiene il proprio orario di lavoro
“troppo lungo” per essere conciliabile con gli impegni familiari. D'altronde oltre l’80% dei
lavoratori part-time è costituito da donne e, nella stragrande maggioranza dei casi, si è trattato di
una scelta “obbligata”, che incide fortemente sulla retribuzione, nonché sulle prospettive di carriera.
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I salari delle lavoratrici sono in media inferiori del 25% rispetto a quelli dei lavoratori, se ci si
riferisce al monte salari annuo calcolato dall’Istat. Il differenziale retributivo medio è pari al
15,8% a parità di contratto e di livello di inquadramento. Il dato medio per gli anni che vanno
dal 1998 al 2002 testimonia comunque una lieve flessione del livello di disparità di trattamento che
è sceso dal 18,5% al 15,8%. Il divario retributivo tra uomini e donne resta quindi uno dei maggiori
ostacoli alla parità di trattamento, sia per le disparità a pari inquadramento e mansioni sia per la
discriminazione all’accesso a posizioni meglio retribuite, anche a pari professionalità, istruzione ed
esperienza lavorativa.
Le donne che hanno ruoli di tipo “dirigenziale” (a vari livelli) sono il 22% contro il 38,5%
degli uomini; tuttavia si può notare che le donne accedono a posizioni “di comando” in tempi più
rapidi rispetto agli uomini.
La strada per la risoluzione del gap con l’Europa passa non solo attraverso la creazione di nuove
opportunità per le donne che entrano per la prima volta o rientrano nel mercato del lavoro dopo un
periodo di inattività, ma anche attraverso la comprensione degli ostacoli alla partecipazione
femminile e il contrasto dei fenomeni di abbandono.
Per informazioni: Ufficio Stampa 06.44590895-2
stampa@isfol.it, r.colella@isfol.it
ISFOL 2007/rapporto ISFOL formazione.pdf
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Roma, 20 novembre 2007
NOTA DI APPROFONDIMENTO PER LA STAMPA
FORMAZIONE
L’anno che si va a concludere ha visto un processo riformatore di notevole rilievo che
dovrebbe incidere in modo significativo sull’assetto del sistema di istruzione e formazione
professionale italiano basti ricordare il prolungamento da 8 a 10 anni dell’obbligo di istruzione,
il mantenimento degli istituti tecnici e professionali nell'ambito del sistema dell'istruzione
secondaria superiore, la soppressione del diploma triennale di qualifica statale, l’istituzione
degli istituti tecnici superiori e dei “poli tecnico-professionali”.
Gli interventi apportati intendono stimolare i giovani ad acquisire delle competenze chiave,
trasversali e culturali, in sintonia con le Raccomandazioni europee e la strategia di Lisbona, che ha
posto al centro dell’attenzione la creazione e l’attuazione di un sistema di apprendimento
permanente. Inoltre questi provvedimenti intendono contrastare il declino dell’istruzione tecnica,
che negli ultimi 15 anni ha perso oltre 350.000 iscritti.
Tuttavia il sistema educativo italiano appare anche stressato da un lungo periodo di riforme
incompiute, annunciate e non realizzate, varate e successivamente riformulate. Si avverte il rischio
che la consapevolezza degli esiti delle riforme precedenti crei tra gli operatori del sistema una
sorta di impermeabilità nei confronti del nuovo processo riformatore, che potrebbe essere
percepito in qualche modo anch’esso come provvisorio.
Rimangono inoltre irrisolti alcuni nodi relativi all’interpretazione del Titolo V della Costituzione,
sui quali è aperto il confronto Stato-Regioni.
La mancanza di una decisa identificazione degli operatori negli obiettivi di riforma rallenta il
progresso del sistema; nonostante l’introduzione dell’obbligo formativo prima e del diritto-dovere
poi, la dispersione scolastica tende a persistere e la qualità complessiva del sistema di
istruzione e formazione è ancora lontana dai target di Lisbona. Gli indicatori più recenti
confermano l’arretratezza del nostro Paese rispetto ai benchmark fissati: ancora il 20% della
popolazione giovanile non riesce ad andare oltre il titolo di licenza media, contro il limite
massimo del 10% indicato dagli obiettivi comunitari; il tasso di diplomati è al 75,5%, contro
l’85% del benchmark europeo. Inoltre, solo il 51% della popolazione italiana possiede un titolo
di studio post-obbligo, contro il 70% della media europea.
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Evoluzione del conseguimento degli obiettivi di Lisbona in materia di istruzione e formazione
Fonte: Eurostat
Particolarmente grave la situazione dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni: circa 113.000 sono esclusi dai
canali formativi formali; a questi si aggiungono gli oltre 40.000 minorenni che, nonostante siano
stati assunti con contratto di apprendistato, non svolgono le attività formative previste dalla legge,
per un totale di oltre 150.000 adolescenti formalmente soggetti ad obbligo che in realtà sono
fuori da ogni canale formativo.
Per quanto riguarda l’istruzione universitaria, rimane stabile il numero degli iscritti, mentre sono in
ripresa (+10,9%) le immatricolazioni nelle facoltà scientifiche, che negli anni precedenti si erano
drasticamente ridimensionate.
Il dato più significativo riguarda l’aumento del numero dei laureati, a dimostrazione del recupero
di efficienza prodotto dall’introduzione del modello 3+2: nel 2006 hanno conseguito un titolo di
studio universitario oltre 300.000 persone, ovvero 100.000 in più di quanti se ne erano
laureate appena 4 anni prima.
Titoli universitari conseguiti nel 2002 e nel 2006
Tipologia di corso
2002 2006
v.a. val. % v.a. val. %
Diploma universitario/Sdfs 13.367 6,6 810 0,3
Laurea vecchio ordinamento 164.531 81,8 100.078 33,3
Laurea di base (1° livello) 22.304 11,1 161.445 53,7
Laurea specialistica a ciclo unico 817 0,4 8.782 2,9
Laurea specialistica (2° livello) 99 (b) 29.620 9,8
Totale titoli conseguiti 201.118 100,0 300.735 100,0
Elaborazione Isfol su dati Miur
Si può dunque concludere che la riforma universitaria del 3+2, sia pure tra luci ed ombre, abbia
sostanzialmente raggiunto l’obiettivo di aumentare l’efficienza del sistema, grazie al suo impianto
modulare.
Meritano un’attenzione particolare i dati relativi ai risultati conseguiti dalle ragazze sia nella
scuola secondaria sia in ambito accademico: complessivamente, il 76,9% delle giovani
studentesse arriva a prendere un diploma di scuola secondaria superiore, contro il 65,4% dei
maschi. Le studentesse mantengono la distanza dai maschi anche nella scelta degli studi
universitari: nell’anno accademico 2006-07 il 78,7% delle diplomate nell’anno precedente è passato
all’Università. Le matricole universitarie di genere femminile rappresentano il 65,1% dell’intera
popolazione femminile tra i 19-20 anni, mentre per gli uomini la percentuale è pari al 48,4%. In
aumento anche il tasso di iscrizione complessivo che è del 59,5%, ma la presenza delle sole donne
raggiunge il 68,8%. Continuano a prevalere le donne anche per il conseguimento della laurea di I
livello: 57,3%.
Per quanto riguarda la formazione professionale, l’attività promossa dalle Regioni arriva a
raccogliere circa 700.000 allievi, di cui 214.000 concentrati nella formazione iniziale: sono dunque
Indicatori
Anni
2000 2006
Italia UE 27 Italia UE 27
Tasso di abbandono scolastico e formativo (a) 25,3 17,6 20,8 15,3
Tasso di istruzione secondaria superiore dei giovani (b) 69,4 76,6 75,5 77,8
Tasso di istruzione secondaria superiore della popolazione 45,2 64,4 51,3 70,0
Tasso di partecipazione ad attività di LLL (c) 4,8 7,1 6,1 9,6
(a). Benchmark europeo: entro il 2010 non oltre il 10%
(b) Benchmark europeo entro il 2010 almeno l’85%
(c) Benchmark europeo: entro il 2010 almeno il 12,5%
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il 37% i giovani tra i 15 ed i 24 anni in cerca di occupazione che decidono di avvalersi di questi
corsi, quota sostanzialmente stabile nell’ultimo anno. Nell’Italia settentrionale il sistema di
formazione professionale raggiunge quasi tutti i giovani in cerca di occupazione, mentre nel Centro
e soprattutto nel Sud la formazione è molto meno presente.
Allievi formati sul bacino d'utenza (2005/2006) – (%)
Regioni
Formazione
giovani(a)
Formazione
adulti(b)
Formazione
adulti
disoccupati(c) Totale
Nord 91,1 1,8 9,9 3,9
Centro 41,7 1,0 6,6 2,4
Sud 10,7 0,4 5,5 1,4
Totale 37,0 1,2 7,0 2,8
(a)Rapporto tra allievi dei corsi di 1° e 2° livello e giovani di età compresa tra 15 e 24 anni in cerca di occupazione
(b)Rapporto tra allievi di corsi per adulti occupati e occupati di età superiore ai 25 anni
(c)Rapporto tra allievi di corsi per disoccupati e disoccupati di età superiore ai 25 anni
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat e regionali
In particolare sono quasi 100.000 i giovani che si sono iscritti ai corsi sperimentali triennali avviati
nell’ambito della precedente riforma della scuola secondaria. Il giudizio espresso su questi corsi è
generalmente positivo: 2 allievi su 3, se tornassero indietro, rifarebbero la stessa scelta (65,7%,
sia nello stesso corso che in un altro), circa l’8% andrebbe a lavorare e il 13,5% si iscriverebbe a
scuola, con un tasso di indecisi che risulta tuttavia di circa il 13%.
Valutazione retrospettiva della scelta dell’agenzia formativa
Fonte: Indagine Isfol, IARD, 2006
Tuttavia i risultati dell’attività formativa in termini di occupazione prodotta stentano a superare le
difficoltà esistenti nel mercato del lavoro locale: solo il 20,6% di coloro che hanno seguito
un’attività formativa finanziata dal Fondo Sociale Europeo nel Mezzogiorno risultano occupati ad
un anno dalla conclusione dei corsi. Pesano su questo risultato problematico le condizioni del
mercato del lavoro meridionale e la composizione degli utenti dei corsi, che sono in buona parte
persone con precedenti difficoltà di inserimento occupazionale.
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Tassi d’inserimento a 12 mesi per regioni degli interventi conclusi tra il luglio 2003 e il luglio 2004 (%)
Fonte:Isfol
L’apprendistato raccoglie quasi 600.000 giovani, e dunque si conferma uno strumento molto
utilizzato dalle imprese; tuttavia solo il 20% di questi svolge una effettiva attività di formazione
formale, mentre per il resto si tratta prevalentemente di formazione in affiancamento.
E’ stabile anche il numero di aziende (19,8%) che promuovono attività di formazione continua per i
propri dipendenti: l’attività formativa dunque rimane stabile, nonostante la crescente adesione ai
Fondi Paritetici Interprofessionali (FPI), che riguarda ormai il 42,4% delle aziende private (per un
totale di quasi 6 milioni di lavoratori).
Adesioni espresse e lavoratori in forza presso le imprese aderenti ai FPI (maggio 2007)
Fondi Adesioni Dipendenti
Fondo Formazione PMI 37.974 434.485
Fon.Ar.Com 13.292 65.523
Fondo Artigianato Formazione 167.045 865.714
Fon.Coop 9.852 300.131
Fondimpresa 43.480 2.386.494
For.Te 91.098 1.394.725
Fondo Professioni 28.444 121.966
Fond.E.R. 7.416 85.806
Fonter 46.521 320.664
Fondirigenti 10.613 63.670 (*)
Fondo Dirigenti PMI 539 1.418 (*)
Fondir 3.211 25.080 (*)
Totale complessivo 459.485 5.975.508
(*) Novembre 2006
Fonte: elaborazione Isfol su dati INPS
Esiste un ampio divario tra le grandi e le piccole imprese nella capacità di offrire corsi di
formazione al proprio personale. Infatti la quota di imprese che offrono formazione è molto alta
fra le grandi imprese (73%), ma molto bassa fra le micro-imprese (16%); minore attività di
formazione viene realizzata nel settore manifatturiero e in generale nel Mezzogiorno.
Anche la partecipazione ad attività formative per i propri interessi personali rimane bassa (vi ricorre
il 12% dei cittadini nell’arco di un anno). Ne consegue che il tasso complessivo di partecipazione
della popolazione ad attività di apprendimento permanente è del 6,1%, contro il 9,6% della
media europea (entro il 2010 occorre giungere almeno al 12,5%).
Il punto debole, a tutti i livelli, riguarda l’organizzazione di una capillare attività di
informazione ed orientamento: così solo il 40% dei giovani che terminano la scuola secondaria ha
trovato nella scuola e nell’Università informazioni adeguate riguardo alle opportunità future di
Regione Tasso
d’inserimento
occupazionale
lordo
(1)
Tasso di
inserimento e
reinserimento in
istruzione e
formazione
(2)
Tasso di
successo
(3)
Tasso di
inserimento
coerente (calcolato
sul totale di
destinatari
conclusi)
(4)
Basilicata 16,8 6,1 22,8 5,2
Campania 19,9 18,3 38,2 8,1
Molise 24,2 39,7 63,9 9,5
Puglia 21,7 16,8 38,5 7,7
Sardegna 32,2 8,3 40,5 14,6
Sicilia 16,3 18,7 35,1 6,4
Totale 20,6 16,2 36,8 7,9
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studio e di lavoro, mentre il 60% della popolazione dichiara di non essere a conoscenza dei luoghi
deputati alla formazione per gli adulti. La scarsità di informazione produce, oltre che una
ridotta partecipazione alle attività formative, il perpetuarsi di scelte legate alla condizione
sociale.
Tipo di scelta per titolo di studio del padre
Liceo Istituto
tecnico
Istituto professionale
(compresi istituti d’arte)
Titolo di studio del padre
Laurea o superiore (Master, ecc.) 32,2 9,1 5,1
Medie superiori 46,6 50,3 37,7
Medie inferiori 18,4 32,7 46,2
Elementari/Nessun titolo 1,0 4,5 9,2
Non risponde/Non sa 1,8 3,4 1,8
Totale 100,0 100,0 100,0
Fonte: indagine Isfol
Anche la mancanza di standard comuni di riferimento, capaci di garantire l’omogeneità delle
certificazioni su tutto il territorio nazionale e il loro riconoscimento in sede comunitaria, costituisce
un punto critico dell’attività formativa, sul quale sta lavorando un Tavolo Unico Nazionale. La
prossima emanazione della Raccomandazione europea sulla certificazione, che introdurrà un
Quadro Europeo delle Qualifiche articolato su 8 livelli per tutti i Paesi membri dell’Unione
Europea, potrà imprimere sicuramente un’ulteriore spinta al processo nazionale.
Per informazioni: Ufficio Stampa 06.44590895-2
stampa@isfol.it, r.colella@isfol.it
ISFOL 2007/rapporto ISFOL lavoro.pdf
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Roma, 20 novembre 2007
NOTA DI APPROFONDIMENTO PER LA STAMPA
LAVORO
Quadro generale
Il numero degli occupati in Italia ha superato quest’anno i 23 milioni. I ritmi di incremento
sono minori di quelli registrati a cavallo tra i due decenni, ma in quanto correlati ad una crescita
economica nazionale e comunitaria – diversamente che in passato - tale incremento occupazionale
sembra assumere un carattere strutturale e fa quindi ben sperare per il futuro.
Il tasso di disoccupazione, pari al 6%, risulta ai minimi “storici” se si guarda all’ultimo
ventennio.
Prosegue tuttavia, sia pure con qualche segnale di rallentamento nell’ultimo periodo, la flessione dei
tassi di attività. In altri termini, vi sono ampi segmenti di popolazione in età attiva che non
lavorano e non cercano lavoro.
Tale fenomeno, che un tempo dipendeva dall’assenza di occasioni di impiego, oggi dipende
soprattutto dal fatto che il lavoro disponibile, spesso, non risponde alle attese e alle esigenze dei
lavoratori, in particolare dei giovani e delle donne.
I fattori che generano “disaffezione” sono prevalentemente tre e spesso tra loro correlati:
molte occasioni di impiego riguardano lavori poco o per niente qualificati;
più della metà dei lavori “in ingresso” sono a carattere temporaneo;
le retribuzioni proposte sono al di sotto delle attese e della soglia di necessità.
In definitiva ciò non significa che “tutto” il nuovo lavoro sia dequalificato, precario e mal pagato,
ma indubbiamente vi sono numerosi segnali che indicano che la crescita del sistema produttivo
stia avvenendo in settori che generano cospicue quote di lavoro a basso contenuto di
“conoscenza” e con poche prospettive di “sviluppo di carriera”.
Le reali dimensioni del “lavoro atipico”
Nonostante l’evoluzione positiva degli indicatori, il lavoro viene percepito come “un problema”
grave nella nostra società a causa di una quota progressivamente crescente di lavoro precario e
della sensazione diffusa che il lavoro sia “di scarsa qualità e di poche prospettive”.
Il lavoro dipendente a termine, nelle sue molteplici forme (contratto a tempo determinato,
apprendistato, interinale, ecc.) riguarda quasi 10 lavoratori su 100. Più contenuta la quota dei
collaboratori (co.co.co., a progetto, occasionali) pari complessivamente al 5,7%.
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Il lavoro atipico riguarda tra i 3,5 e i 4,5 milioni di lavoratori (Indagine Isfol Plus 2006).
Nell’accezione minima coinvolge quasi 3,5 milioni di persone, poco più del 15% dell’occupazione,
includendo gli occupati a termine (compreso l’apprendistato) e i parasubordinati (occupati autonomi
esposti a più vincoli di subordinazione). Se si includono i “part-time involontari” e tutti coloro che
non conoscono la tipologia del proprio contratto di lavoro, nel suo insieme la platea della “atipicità
massima” è formata da poco più di 4,5 milioni di persone, pari a circa il 20% degli occupati.
Non tutti i lavoratori “atipici” si percepiscono come precari; ad esempio il 28% ritiene l’attuale
contratto preludio di un rapporto di lavoro permanente ed il 7% lo considera un periodo
necessario di pratica e specializzazione professionale.
Un dato positivo sta nel fatto che:
la maggior parte del lavoro “precario”, anche reiterato, trova poi sbocco in un lavoro a
carattere permanente;
il lavoro dipendente rimane strutturalmente lavoro a prevalente carattere permanente (86,6%
dei lavoratori alle dipendenze);
solo il 19% degli occupati teme la perdita del proprio impiego.
Se il lavoro “atipico” rappresenta per molti il trampolino di lancio nella vita attiva e nella crescita
professionale, per altri può rappresentare una “trappola”: il 48% dei rapporti di lavoro “atipici”
sono stati già rinnovati almeno una volta.
La mancanza di prospettive di carriera costituisce il fattore di maggiore insoddisfazione degli
occupati italiani (54,5%).
I percorsi di “carriera” in Italia risultano decisamente “ingessati” ed è difficile una progressione
verticale soprattutto per chi entra dal basso della “piramide” delle qualificazioni e degli status
professionali. La carriera è infatti migliorata per 1 lavoratore di alta qualificazione su 2, per 1
impiegato su 3 e solo per 1 un operaio su 5.
La percezione delle possibilità di sviluppo di carriera è addirittura peggiorata nel tempo
passando dal 47% nel 2002 al 41% nel 2006.
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Il lavoro femminile
Il tasso di occupazione femminile si attesta poco sotto il 47%; l’obiettivo di “Lisbona” del 60%
al 2010 non sarà raggiunto dall’Italia, stante anche il fatto che la propensione al lavoro delle
donne tende costantemente a diminuire.
Quasi 10 milioni di donne in età lavorativa non lavorano né cercano un impiego (gli uomini in
questa condizione sono circa la metà).
Motivazioni prevalenti sono:
- il 63% delle donne accede al lavoro con un contratto “atipico” (nel 2005 erano il 60%);
- il 67% delle donne ritiene il proprio orario di lavoro “troppo lungo” per essere conciliabile
con gli impegni famigliari;
- oltre l’80% dei lavoratori con contratto part-time è di genere femminile, ma la scelta è nella
stragrande maggioranza dei casi “obbligata” per ragioni di conciliabilità, e si tratta ovviamente
di una scelta che incide fortemente sulla retribuzione, nonché sulle prospettive “di carriera”;
- i salari delle lavoratrici sono in media inferiori del 25% di quelli dei lavoratori; a parità di
contratto e di livello di inquadramento la differenza è del 15,8%;
- le donne che hanno ruoli di tipo “dirigenziale” a vari livelli sono il 22% contro il 38,5%
degli uomini. Tuttavia si può notare che le donne accedono a posizioni “di comando” in tempi
più rapidi rispetto agli uomini.
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I lavoratori “anziani”
Il 2007 ha visto un ampio confronto sul tema del “prolungamento della vita attiva” a ridosso della
revisione “dello scalone” che ha posto in evidenza il tema della partecipazione al lavoro degli
over55.
Il tasso di attività dei soggetti di età compresa tra i 55 ed i 64 anni è in Italia di poco meno del
33%. Anche in questo caso siamo lontani dall’obiettivo di “Lisbona” del 50% al 2010, anche se si
può notare come dal 2001 in poi i tassi di partecipazione al lavoro dei “meno giovani” siano
lentamente ma progressivamente aumentati. Al 2006 gli over55 che fanno parte della popolazione
attiva sono 2,3 milioni.
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Contrariamente a quanto spesso si pensa non tutti gli inattivi over55 si sono “chiamati fuori” dal
mercato del lavoro in quanto hanno raggiunto la tanto ambita pensione. Oltre il 31% degli inattivi
ha lasciato il lavoro involontariamente per crisi, trasferimenti di azienda, licenziamenti e altro e
quasi il 5% lo ha abbandonato per insoddisfazione. La platea degli “attivabili” appare dunque assai
ampia e soprattutto emerge la necessità di prevenire i fenomeni di abbandono del lavoro.
Al di là del ruolo “forzante” che il sistema pensionistico può comportare nel prolungare la
permanenza al lavoro dei meno giovani - elevando più o meno la soglia dell’età pensionabile - si
rileva la necessità di promuovere incentivi e servizi di accompagnamento che facilitino il
prolungamento della vita attiva o il reinserimento. I dispositivi fino ad ora sperimentati hanno dato
scarsi esiti (il “superbonus” ad esempio); si tratterà ora di vedere se avrà un impatto migliore la
“staffetta giovani-anziani” varata con la legge finanziaria 2007.
Il lavoro degli immigrati
Gli stranieri residenti ufficialmente in Italia hanno raggiunto i 3 milioni di unità e rappresentano
il 7% della popolazione attiva.
Dall’indagine ISFOL-RLIL si rileva che il 21% delle imprese italiane ricorre a mano d’opera
neo o extracomunitaria (23,7% nel Nord-Est).
1 impresa su 2 riporta come motivazione al ricorso di forza lavoro straniera il disinteresse da parte
dell’offerta di lavoro italiana, mentre 1 su 3 lo attribuisce alla difficoltà di reperimento di
manodopera nazionale per quella professionalità.
Il 30% delle imprese dichiara che il costo del lavoro degli “stranieri” è più basso di circa il
24% di quello degli italiani.
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Il 37% degli stranieri lavora nei settori a più alto tasso di lavoro irregolare come: le costruzioni, il
commercio, gli alberghi e i pubblici esercizi.
Una buona parte dei reclutamenti delle aziende ha interessato immigrati “non legalmente
presenti” in Italia, infatti 1 impresa su 2 ha effettuato procedure di regolarizzazione per i propri
dipendenti (3 aziende su 5 al Sud).
7
Sicurezza sul lavoro. Il lavoro “usurante” sia tradizionale che “post moderno”
In generale quasi il 30% dei lavoratori italiani ritiene a rischio la propria salute, la percentuale
sale al 36% tra chi lavora più di 45 ore settimanali, al 40% tra gli operai e supera il 48% tra chi
svolge almeno un turno notturno al mese.
Si riscontra inoltre un aumento dell’indicatore di oltre 9 punti percentuali tra il 2002 e il 2006.
Il rischio è maggiormente percepito dai lavoratori “con esperienza”: se infatti si ritiene “a rischio”
quasi il 32% di chi lavora da più di 20 anni, l’indice scende a meno del 20% tra chi lavora da non
più di 5 anni.
Emergono nuovi fattori di “disagio” percepiti anche nell’ambito dei settori dei servizi. Per il 65% il
disagio deriva dall’“impegno mentale” che le mansioni implicano e per il 62% dal
coinvolgimento psicologico-emotivo. Il disagio psicologico sembra spesso causato dal tipo di
organizzazione del lavoro nei comparti esposti alle sollecitazioni degli utenti e dei clienti (call-
center, luoghi di cura, grande distribuzione, ecc.).
8
Con circa venti punti di distacco segue la percezione della gravosità in termini di sforzo e disagio
(42%). Sono tuttavia questi ultimi, più degli altri, che temono conseguenze gravi per la loro salute.
Quasi il 17% degli occupati ha subito un infortunio nel corso della sua vita lavorativa la cui
gravosità pare nettamente correlata sia con la gravosità del lavoro, in termini di sforzo e disagio
fisico, sia con la durata dell’orario di lavoro.
L’8,4% degli occupati ritiene di aver contratto malattie a causa del lavoro, anche se sono
relativamente pochi i casi di malattie croniche o invalidanti.
Nel 2007 sono state varate, con la Legge Finanziaria, diverse misure finalizzate a contrastare gli
incidenti sul lavoro tra le quali è stata anticipata la comunicazione delle assunzioni agli uffici
competenti e sono state quintuplicate le sanzioni amministrative.
Per informazioni: Ufficio Stampa 06.44590895-2
stampa@isfol.it, r.colella@isfol.it
ISFOL 2007/rapporto ISFOL relazione presidente.pdf
1
PRESENTAZIONE DEL RAPPORTO ANNUALE ISFOL
Relazione del Presidente, Sergio Trevisanato
Innanzitutto un sentito benvenuto a tutta l’assemblea. La
presentazione del Rapporto Isfol 2007 come di consueto, offre
un’ampia panoramica relativa ai sistemi dell’istruzione, della
formazione e del lavoro in Italia, con un’attenzione particolare al
contesto europeo di riferimento. Ma rappresenta anche l’occasione
per fornire alcune chiavi di lettura che possano facilitare la
definizione di azioni adeguate ad affrontare le criticità che ancora
abbiamo di fronte.
In uno sforzo di sintesi, voglio ricondurre i tanti temi affrontati nel
Rapporto a due ambiti che ritengo fondamentali: quello della qualità
e quello della segmentazione. Sono due ambiti strettamente legati
fra di loro.
Per “qualità” intendo: qualità del lavoro e qualità del sistema
formativo.
Qualità del lavoro non implica solo la ben nota contrapposizione tra
occupazione standard ed atipica, ma include anche dimensioni spesso
poco analizzate: il cosiddetto “impoverimento” del lavoro; la
gravosità propria di alcuni mestieri; la sicurezza e la salute sui luoghi
di lavoro; le dinamiche di carriera; oppure ancora le opportunità di
mobilità professionale o la corrispondenza tra competenze acquisite e
lavoro svolto.
Qualità del sistema formativo implica la capacità di garantire percorsi
calibrati sulle reali esigenze degli individui, ma anche capacità di
adattare le competenze della forza lavoro all’evoluzione del contesto
economico e produttivo. E qui, ovviamente, entra in gioco la qualità
2
degli strumenti di intermediazione e di accompagnamento, la qualità
dei servizi per l’impiego e dell’orientamento, ma anche l’efficienza dei
dispositivi per il riconoscimento e la certificazione delle competenze
acquisite.
Quanto alla segmentazione, l’attività di ricerca svolta durante
l’anno si è concentrata soprattutto sulle fasce di popolazione che più
di altre corrono il rischio di “rimanere indietro”, di rimanere ai
margini dello sviluppo economico di questi anni: le donne, gli over
55, gli immigrati, i giovani. Senza dimenticare l’articolato mondo del
lavoro sommerso, o il fenomeno, ancora assai marcato, della
dispersione scolastica.
Al tema della segmentazione si legano alcune problematiche di
vecchia data, come il persistente e profondo gap che continua a
separare in modo netto il Centro-Nord e il Sud del Paese; ma anche
altre più recenti, come la polarizzazione tra professioni altamente
qualificate e non qualificate, oppure lo scarto che separa dirigenti ed
operai per quanto riguarda le opportunità di svolgere attività di
formazione continua.
Voglio però cominciare questa mia relazione con una nota positiva. In
coerenza con i positivi andamenti di tutti i dati disponibili sul mercato
del lavoro, anche i principali indicatori dei sistemi di istruzione,
formazione e lavoro sembrano essersi incamminati lungo un trend
stabile di miglioramento. Si tratta di miglioramenti strutturali,
svincolati cioè da dinamiche congiunturali, di breve periodo. In un
quadro che continua ad essere segnato da luci ed ombre, si profila
dunque la possibilità di un punto di svolta nel nostro sistema di
formazione e istruzione.
3
E qui mi ricollego ad un secondo fattore a mio parere positivo.
L’effervescenza normativa in campo lavoristico dell’ultimo decennio
sembra oggi conclusa, per lasciare invece il campo alla necessaria
fase di applicazione e attuazione delle norme. In questo senso, vedo
nell’accordo sul welfare del 23 luglio tra Governo e Parti sociali la
conclusione –mi auguro– di un lungo periodo di accesa conflittualità.
Ritengo di conseguenza che sia giunto il momento di rilanciare la
sfida delle relazioni industriali decentrate e degli accordi aziendali, in
funzione – appunto – attuativa di una legislazione del lavoro che
negli anni passati aveva largamente demandato a questi livelli
periferici il compito di rendere più elastico il rapporto tra domanda e
offerta nei mercati del lavoro locali.
Non dimentichiamoci, tra l’altro, che ci troviamo ai nastri di partenza
della nuova programmazione delle politiche di coesione europee, con
quasi 6 miliardi di euro messi a disposizione in Italia dai Fondi
strutturali. Credo, sia necessario un grande impegno collettivo di
coordinamento delle varie politiche, come è richiesto dai nuovi
regolamenti comunitari nella messa a punto del Quadro strategico di
riferimento nazionale. Relazioni industriali, offerta formativa, politiche
attive e passive per il lavoro, previdenza, politiche di lotta
all’esclusione e alla povertà, strumenti per la conciliazione tra tempi
di lavoro e tempi extra lavorativi sono tutti pezzi di un unico disegno.
Ritengo che questa necessità di integrazione sia una delle principali
sfide per il prossimo futuro, alla quale sono innanzitutto chiamate le
Regioni e il Governo nazionale.
Ma veniamo ai dati del mercato del lavoro. Il livello dell’occupazione
ha segnato nel 2006 il suo massimo storico in termini assoluti. Le
nostre stime, inoltre, indicano uno scenario favorevole anche per i
prossimi anni: nel 2009 gli occupati in Italia dovrebbero superare la
4
soglia dei 25 milioni. Si tratta di uno scenario per certi versi inatteso
rispetto alle previsioni di 10-15 anni fa, ma che ci obbliga a riflettere
su come avvantaggiarsi di questo contesto di base positivo.
La scarsa partecipazione al mercato del lavoro rimane, invece, uno
tra i problemi strutturali del nostro paese, che siamo costretti a
compensare con una maggiore richiesta di forze di lavoro immigrate.
Buona parte della diminuzione della disoccupazione che si è
registrata in questi ultimi anni – posizionandosi su un valore del 6%,
il più basso dell’ultimo ventennio – è legata ad un incremento del
tasso di attività inferiore a quello del tasso di occupazione. Durante
tutta la prima metà degli anni Duemila si è protratto un effetto di
scoraggiamento che ha ridotto la partecipazione. Il tasso di attività
della popolazione tra i 15 e i 64 anni è ancora inferiore di oltre 9
punti percentuali alla media dell’Europa a 15.
Tuttavia – come dicevo – stanno emergendo segnali di discontinuità
rispetto al passato. Nel 2006, ad esempio, la disoccupazione si è
ridotta soprattutto nei segmenti più deboli del mercato del lavoro. Il
calo dei disoccupati di lunga durata è stato superiore di oltre tre volte
a quello dell’anno precedente; la disoccupazione giovanile ha segnato
una flessione del 2,4%, interrompendo l’aumento costante del
periodo 2002-2004.
Ma non solo. La diminuzione della disoccupazione è avvenuta
contestualmente ad una robusta ripresa della crescita, che lascia
ipotizzare una fase di sviluppo relativamente stabile. Nel 2006 il
tasso di incremento annuale del PIL ha compiuto un balzo in avanti,
in controtendenza rispetto al primo quinquennio degli anni Duemila.
A ciò si aggiunge – altro segnale positivo – una più elevata velocità di
reazione della domanda di lavoro al ciclo economico. Questa
corrispondenza tra aumento del PIL ed aumento dell’occupazione
evidenzia una progressiva erosione di alcuni elementi di rigidità del
5
mercato del lavoro italiano. La maggiore flessibilità degli strumenti
contrattuali sembra aver permesso un migliore adattamento della
forza lavoro alle esigenze produttive.
Accennavo invece, poc’anzi, alla polarizzazione tra professioni
altamente qualificate e non. Continua, inoltre, la segmentazione tra
la componente permanente e quella a termine dell’occupazione
dipendente. La metà dei nuovi posti di lavoro creati nel 2006 è a
tempo determinato – quasi il 10% in più rispetto al 2005. A ciò si
aggiunge il lavoro parasubordinato, che, nasconde non di rado una
subordinazione di fatto. Circa l’80% dei collaboratori ha un solo
committente, usa dotazioni dell’azienda presso cui è impiegato, e
garantisce quindi la propria presenza regolare presso la sede di
lavoro, con orari predefiniti nella maggioranza dei casi.
La possibile sovrapposizione tra queste due dimensioni, cioè l’atipicità
contrattuale e la bassa qualificazione delle professioni, crea il rischio
di una spaccatura, con la creazione di un mercato del lavoro di serie
A ed uno di serie B. Per i lavoratori altamente qualificati la flessibilità
può rappresentare un’opportunità più agile di ingresso nel mercato
del lavoro, ma per i lavoratori a bassa o nulla qualificazione i rischi di
una caduta nella precarietà sono reali.
A livello europeo, come è noto, è stata coniata una nuova parola
chiave, che evidenzia la necessità di conciliare al meglio le esigenze
di efficienza economica e quelle di sicurezza sociale. È la cosiddetta
flexsecurity.
In una sua recente comunicazione, la Commissione europea ha
indicato nella flexsecurity un’opportunità storica per l’Europa, la
possibilità cioè di confermare il suo modello sociale, particolarmente
6
attento alle persone, e al tempo stesso rendere più competitivo il suo
sistema produttivo.
Credo che una serie di interventi previsti nella Finanziaria dell’anno
scorso, finalizzati a contrastare la precarietà del lavoro, vadano in
questa direzione. Ma in tale ottica credo vada letto anche il Protocollo
sul welfare, che si è posto l’obiettivo non tanto di ridurre la
flessibilità, quanto di farla effettivamente diventare un canale di
accesso al mercato del lavoro. Inoltre, non va trascurato che nella
stessa direzione si muove il recente progetto di riforma degli
ammortizzatori sociali.
Prendiamo appunto le donne. Voglio ricordare che la piena
valorizzazione del bacino di lavoro femminile è uno dei cardini della
strategia di Lisbona, che ha stabilito per il 2010 l’obiettivo comune di
un tasso di occupazione delle donne pari al 60%. L’Italia, con circa il
46% registrato nel 2006, ha già ampiamente disatteso l’obiettivo
intermedio del 57% per il 2005.
Il triennio dal 2003 al 2005 è stato particolarmente negativo per
l’occupazione femminile. Per la prima volta in dieci anni, il loro tasso
di attività è sceso, passando dal 62,9% al 62,4%. Nel 2006 solo il
36% delle nuove occupate è entrato nel mercato del lavoro a tempo
indeterminato. Il 17% vi è entrato in forma autonoma e tutte le altre
con contratto a termine o di collaborazione. Ciò può rafforzare
l’effetto di scoraggiamento che ha portato in questi anni molte donne
all’inattività. Per fortuna, ed è questo un altro di quei segnali positivi
di cui parlavo all’inizio, nel 2006 è tornato a diminuire il gap che
separa le donne dagli uomini e sono migliorati tutti i macro indicatori
del mercato del lavoro femminile.
Rimangono alcuni nodi di fondo. Le donne sono ancora molto più
esposte degli uomini a condizioni di lavoro peggiori, sia in termini di
ritmi ed intensità del lavoro, che di carriera, che di reddito. Più del
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75% fra le donne occupate si colloca nella fascia di reddito inferiore
ai 1.250 euro al mese, contro il 46% degli uomini. E’ stato calcolato
un differenziale medio uomo/donna del 15,8%, a parità di contratto e
di inquadramento.
La componente femminile è poi quella che maggiormente rischia di
cadere nella “trappola” del lavoro nero. L’Isfol ha svolto quest’anno la
prima indagine a largo spettro in Italia sull’occupazione sommersa ed
irregolare delle donne. Più del 50% del campione ha dichiarato di
avere un lavoro irregolare da oltre un anno. Il sommerso rappresenta
una domanda strutturale e permanente per le donne, le quali
tendono quindi ad esserne “invischiate”. Ecco la vera precarietà.
C’è poi il problema della conciliazione tra vita professionale e vita
privata. Nel 2006 una donna su nove è uscita dal mercato del lavoro
in seguito alla maternità, che è ancora oggi uno dei fattori più difficili
da gestire per le imprese ed una fonte di grande discriminazione.
Per innalzare i nostri tassi di partecipazione al lavoro, oltre al
segmento femminile, occorre poi intervenire sugli over 55. Il loro
tasso di occupazione è aumentato nell’ultimo decennio del 4%, tra
l’altro prevalentemente grazie alla componente femminile. Tuttavia
nello stesso periodo tale incremento è stato in Europa mediamente
pari al doppio, cioè oltre l’8%. Tra i 50 e i 64 anni quattro persone su
dieci, in Italia, si dichiarano non più attive; e voglio sottolineare che
per queste persone, le cause della non occupazione sono motivi
lavorativi, molto più spesso che personali: il 38% non è attivo perché
il lavoro l’ha perso. Occorre pertanto potenziare le misure finalizzate
a prevenire l’uscita definitiva dal mondo del lavoro soprattutto nei
casi di crisi e ristrutturazioni aziendali e settoriali.
8
Previdenza ed invecchiamento attivo sono temi legati. Non a caso,
nell’anno trascorso il tema dell’invecchiamento attivo ha fatto da
sfondo a tutto il dibattito sulla riforma delle pensioni. Da questo
punto di vista, ritengo che la proposta avanzata con il Protocollo del
23 luglio debba tradursi in un processo di progressivo incremento dei
tassi di occupazione dei lavoratori più anziani. Già la scorsa
Finanziaria, devo dire, era intervenuta in tal senso, con misure
specifiche per ridurre le uscite degli over 55 dal sistema produttivo.
Vanno poi sviluppandosi nel Paese numerose esperienze di
invecchiamento attivo, realizzate a livello locale. Ne diamo conto nel
Rapporto, a cui rimando.
Voglio invece riprendere il tema della qualità del lavoro. Se la
questione flessibilità ha dominato il dibattito politico di questi anni,
non si può dire altrettanto delle condizioni del lavoro e, in particolare,
della soddisfazione percepita dai lavoratori.
La possibilità di fare carriera e quindi di migliorare il proprio status
sociale ed economico è l’aspetto per il quale si riscontra il più elevato
grado di insoddisfazione (il 54,5% degli occupati ne è insoddisfatto).
Le nostre ricerche confermano un’immagine piuttosto statica del
mondo del lavoro italiano, dove oltre la metà dei lavoratori dichiara,
tra l’altro, di non aver mai cambiato occupazione. In Italia si rischia
forse poco di retrocedere dal punto di vista professionale, ma
altrettanto poche sono le chance di progredire.
Il tema si ricollega ad un altro tema di recente attualità, quello dei
lavori usuranti. Se in generale quasi il 30% dei lavoratori ritiene a
rischio la propria salute sui luoghi di lavoro, tale percentuale sale al
40% per gli operai. E in effetti, sappiamo che l’incidenza degli
9
infortuni è strettamente legata alle modalità del lavoro: chi lavora più
a lungo, in orari non standard o a turni, con ritmi più elevati ha una
maggiore incidenza di malattie e infortuni.
La promozione della sicurezza sul lavoro è stata ultimamente al
centro di importanti interventi legislativi. Tra gli aspetti più rilevanti,
voglio segnalare il nuovo approccio – lanciato con la legge 248 del
2006 e poi ripreso dalla delega al Governo – finalizzato a coordinare
in un’unica strategia gli interventi per la sicurezza con quelli di
contrasto al lavoro irregolare. È un approccio da salutare con grande
favore. A fronte di circa 3 milioni di unità di lavoro non regolari (il
12% del totale), sappiamo che il fenomeno riguarda in particolare le
fasce più deboli del mercato del lavoro, in una spirale che somma gli
effetti deleteri della precarietà con quelli legati ai pericoli per la salute
e ai rischi di discriminazione. Ne ho già parlato a riguardo della
componente femminile del sommerso.
Un discorso analogo può essere fatto riguardo agli immigrati. Le
indagini svolte nei mesi scorsi hanno confermato che gli
extracomunitari svolgono lavori che gli italiani non vogliono fare.
Quasi il 50% delle imprese che utilizzano manodopera
extracomunitaria – un quinto delle imprese totali – affermano di
avere fatto tale scelta per il disinteresse da parte dell’offerta di lavoro
italiana. Va inoltre aggiunto che quasi il 30% di tali imprese indica
come motivazione un costo del lavoro più basso degli immigrati. Il
reddito medio da lavoro dei cittadini extracomunitari risulta inferiore
a quello degli italiani in un range che varia dal 20 al 24%.
Credo allora che siano necessarie ulteriori analisi, per verificare se
l’abbandono da parte dei cittadini italiani di alcune professioni sia
esclusivamente da ricondurre ad un’evoluzione qualitativa dell’offerta
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di lavoro, o se non sia in parte legato ad un compenso considerato
inadeguato alle mansioni richieste.
I lavoratori extracomunitari rappresentano ormai in Italia quasi il 6%
degli attivi; è una partecipazione strutturale, non occasionale. Ma il
lavoratore straniero si trova spesso ad operare in un mercato del
lavoro secondario, anche per le difficoltà riscontrate nella gestione
degli ingressi. È quindi da accogliere con favore la proposta di
promuovere l’ingresso di lavoratori qualificati e l’implementazione
all’estero di liste di collocamento che facilitino l’incontro tra domanda
ed offerta. Di fondamentale importanza è poi il ruolo che in tal senso
può essere svolto dai Centri per l’Impiego.
I Centri per l’Impiego hanno progressivamente abbandonato
l’approccio indifferenziato che caratterizzava il vecchio collocamento,
assumendo comportamenti basati invece sulla “presa in carico” delle
persone in cerca di lavoro e sulle politiche attive.
Va detto, tuttavia, che permane una forte dicotomia tra Centro-Nord,
dove si hanno spesso servizi altamente personalizzati e in chiave
“proattiva”, e il Sud, in cui prevalgono servizi di natura, per così dire,
minimalista. E permangono, in generale, alcune eredità del vecchio
collocamento, come lo sbilanciamento del sistema verso l’offerta di
lavoro e la persistenza di un modello generalista, che rivela una certa
difficoltà nel selezionare e segmentare le proprie platee di
riferimento, sia relativamente alle persone che alle aziende. Ritengo
che sia fondamentale concentrare gli sforzi futuri sulla definizione di
strumenti efficaci di valutazione dei fabbisogni.
Sotto questo profilo, il raccordo tra servizi per l’impiego ed offerta
formativa è ancora limitato. Così come le attività di orientamento ed
11
accompagnamento e i percorsi on demand, associati alla definizione
del patto di servizio o del piano di azione individuale.
Inoltre, il ruolo dell’amministrazione centrale è defilato, non tanto sul
versante dell’assistenza tecnica, quanto nella capacità di realizzare
iniziative di raccordo e momenti di sintesi e di sistematizzazione. Ciò
ha determinato un quadro caratterizzato da molte buone pratiche ma
da una certa difficoltà di “fare sistema”, svolgendo una reale azione
di regia delle politiche attive del lavoro a livello locale.
Ritengo, quindi, che anche in vista della nuova programmazione dei
Fondi strutturali si imponga un cambio di passo, specialmente con un
maggiore dialogo istituzionale tra amministrazione centrale e
periferica. L’avvio di un percorso di revisione del Masterplan dei
Servizi per l’Impiego, intrapreso dal Ministero del Lavoro a partire
dalla primavera del 2007, va in questa direzione.
L’evoluzione del mercato dell’intermediazione, come è noto, ha ormai
conferito al sistema italiano una configurazione mista pubblico-
privata. Il processo di liberalizzazione ha avuto una progressiva
accellerazione, che di recente è stata caratterizzata da un vero e
proprio exploit delle agenzie di ricerca e selezione, di contro ad un
ridimensionamento delle agenzie di outplacement. Va poi segnalato il
crescente ruolo degli intermediari speciali, in particolare delle
università. Si sta quindi realizzando un reale equilibrio tra pubblico e
privato. Non dimentichiamoci però che nel nostro Paese ancora oggi
una persona su tre, fra chi cerca lavoro, si rivolge a parenti e
conoscenti e che i canali istituzionali intermediano poco più del 6%.
Ciò potrà essere considerato magari efficace a livello individuale ma
non lo è dal punto di vista sociale, poiché riduce la mobilità, limita la
premialità del sistema, genera inefficienze nel mercato del lavoro.
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Il sistema complessivo dei servizi per l’impiego richiede un
affinamento della capacità di analisi dei fabbisogni, e della capacità di
diagnosi in tempo reale dell’evoluzione del mercato del lavoro.
Occorre individuare modelli di terza generazione, utilizzando al
meglio lo scambio delle buone pratiche. In questo campo anche l’Isfol
dovrà saper dare risposte efficaci, offrendo il proprio contributo di
analisi e ricerca, ma anche di assistenza alle azioni di governance.
Vengo ora al sistema formativo. La qualità complessiva del sistema
italiano di istruzione e formazione è ancora lontana dagli obiettivi
comuni fissati in sede europea dalla strategia di Lisbona. Il tasso di
istruzione secondaria superiore dei giovani tra i 20 ed i 24 anni ha
superato nel 2006 il 75%, ma rimaniamo comunque distanti di 10
punti percentuali dal benchmark dell’85% indicato per il 2010.
Voglio però sottolineare che dal 2000 ad oggi l’Italia ha registrato un
incremento del tasso dei diplomati di circa il 6%, contro l’1,2% della
media europea. In pratica, abbiamo ridotto il gap che ci separa
dall’Europa di circa 5 punti percentuali.
Diverso il discorso per quel che riguarda la popolazione adulta (i 25-
64enni), dove solo un italiano su due risulta avere un titolo di studio
post-obbligo, contro il 70% della media europea. Le ricadute sul
livello complessivo di qualificazione della forza lavoro italiana sono
evidenti: ad avere un titolo di scuola secondaria di II grado è meno
del 60% degli attivi. Ma ricordo che 15 anni fa stavamo ancora al
35%! Nei primi anni ’90 ad avere solo la licenza elementare, o
neanche quella, era un quarto della forza lavoro. Oggi siamo all’8%.
Si tratta di processi lenti, legati al ricambio generazionale. Nel
frattempo è essenziale la funzione svolta dall’apprendimento
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permanente, sempre più al centro dell’attenzione in tutti paesi
europei. A Lisbona è stato fissato l’obiettivo del 12,5% entro il 2010.
Noi siamo al 6,1%, con un incremento rispetto al 2000 inferiore a
quello della media europea. Cioè il gap tra noi e l’Europa, in questo
caso, si è ampliato.
L’educazione degli adulti in Italia è ancora troppo poco sviluppata,
anche se un segnale significativo rispetto all’esigenza di costruire un
vero sistema di apprendimento permanente viene dal disegno di
legge in materia recentemente varato dal Consiglio dei Ministri.
L’offerta dei Centri territoriali permanenti ha coinvolto, lo scorso
anno, oltre 425 mila soggetti, con un lieve incremento rispetto
all’anno precedente.
Dall’analisi dell’offerta di formazione permanente predisposta dalle
Regioni nella programmazione 2000-2006, si nota come tuttora
permanga un’estrema difficoltà nel raggiungere le fasce più deboli
della popolazione. Inoltre emerge una scarsa conoscenza dell’offerta
disponibile sul territorio: il 60% degli intervistati non partecipa
all’attività di formazione perché non ne è a conoscenza. Questo
problema si riscontra anche per la formazione professionale rivolta ai
giovani.
Anche sul fronte della formazione continua riscontriamo un’evidente
segmentazione. I tassi più elevati di partecipazione si hanno infatti
tra i laureati. Tra i lavoratori dipendenti del settore privato che hanno
partecipato ad attività di formazione continua (in totale il 6,6% degli
occupati nel 2006), oltre il 60% ha un livello di istruzione alto, contro
il 18% di chi lo ha basso. Quasi il 55% sono dirigenti o quadri, contro
circa il 16% degli operai.
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In quest’ambito si apre dunque un’altra sfida importante, dato che
nel nostro Paese la formazione continua non ha mai avuto
stanziamenti così cospicui come adesso avviene con i Fondi Paritetici
Interprofessionali.
Le imprese aderenti ai Fondi sono oltre 400 mila, con un tasso di
adesione medio di circa il 42%. Il numero dei lavoratori in forza
presso tali imprese supera ormai i 6 milioni, cioè più della metà dei
dipendenti delle aziende private. Nei primi mesi del 2007 si è poi
conclusa la fase di start-up, che ha già permesso di inserire circa 350
mila lavoratori in attività formative.
Si pone ora il problema dell’integrazione tra gli interventi dei Fondi
Paritetici e quelli della formazione continua a domanda individuale, in
particolare quella mediante voucher. Un’esigenza che è stata ad
esempio recepita dal Ministero del Lavoro nell’ultimo provvedimento
di riparto della legge 236. Ed anche l’Accordo tripartito tra Ministero
del Lavoro, Regioni e Parti sociali, siglato nell’aprile del 2007, ha
indicato nuove modalità di coordinamento tra la programmazione
regionale e quella dei Fondi Paritetici.
Ricordo che l’Italia si posiziona ancora oggi agli ultimi posti in Europa
per quel che riguarda la formazione continua offerta dalle imprese
private. Nonostante il miglioramento registrato nell’ultimo anno,
siamo sempre al di sotto del 20% delle aziende coinvolte. E c’è il
divario tra le micro e le grandi imprese che fanno formazione, con
uno scarto di circa il 56% tra le une e le altre. Sappiamo invece che
la formazione continua paga: le imprese che fanno formazione per i
loro dipendenti risultano infatti essere più dinamiche, e registrano i
maggiori aumenti di redditività e di fatturato rispetto alla media.
15
Ma torniamo ora ai giovani. Complessivamente il sistema
dell’istruzione e della formazione appare stressato da un lungo
periodo di riforme incompiute. L’identità di diverse filiere è ancora
incerta. Il prolungamento dell’obbligo di istruzione fino a 16 anni, la
quinquennalizzazione degli istituti professionali, l’istituzione degli
istituti tecnici superiori e il nuovo assetto dei Centri per l’educazione
permanente rappresentano indubbiamente delle opportunità, che
richiedono però, per essere colte a pieno, uno sforzo sotto il profilo
attuativo.
Dicevo prima del miglioramento dei principali indicatori di
riferimento, ma anche della distanza che ancora ci separa dagli
obiettivi di Lisbona. Un aspetto particolarmente problematico è quello
della dispersione. A Lisbona è stato fissato per il 2010 un tasso di
abbandono scolastico e formativo che non superi il 10%. Noi siamo
oggi ad oltre il 20%, contro una media europea di circa il 15%.
I rischi maggiori ricadono, sulle categorie più deboli. È necessario, in
special modo, far sì che il segmento tecnico-professionale riesca ad
attrarre i giovani attualmente esclusi dai processi educativi, fino al
loro successo formativo. In una logica di apprendimento permanente
è impensabile promuovere solamente percorsi lunghi, maggiormente
esposti al rischio di dispersione, ma va data a chi sceglie i percorsi
brevi la possibilità di ulteriori opportunità formative dopo il
conseguimento della qualifica.
L’adozione di modelli diversi, calibrati sulle esigenze del territorio,
dovrà comunque mantenere saldo innanzi a sé l’obiettivo delle pari
opportunità e dell’inclusione per tutti.
Nonostante la crescente scolarizzazione, la quota di minorenni che
fuoriesce da qualsiasi percorso di formazione è assai ampia: 113 mila
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giovani, ai quali si aggiungono gli oltre 40 mila apprendisti che non
svolgono le attività formative previste dalla legge.
Concentrandosi sulle sole scuole secondarie superiori, inoltre, occorre
segnalare il forte scarto in termini di dispersione tra gli istituti
professionali e i licei. Nei primi gli abbandoni riguardano oltre uno
studente su due, mentre nei secondi solo il 15%.
Relativamente alle scuole tecniche e professionali, sottolineo come,
proprio mentre si cerca giustamente di valorizzare questo segmento
formativo, nell’anno scolastico 2005-2006, per la prima volta, il
numero degli iscritti al primo anno dei licei ha superato quello degli
istituti tecnici.
La scelta dei licei è forse ancora una volta un tentativo di promozione
sociale, visto che le professioni più tecniche hanno subito una
contrazione della loro considerazione.
A tale processo di licealizzazione, si aggiunge, poi, una sostanziale
stabilità nei livelli di partecipazione alle attività di formazione
professionale iniziale e addirittura ad un calo di quella alle attività di
formazione regionale post-secondaria.
Complessivamente la formazione professionale coinvolge il 2,8%
della forza lavoro, cioè circa 700 mila allievi, concentrati soprattutto
nel Nord Italia.
Le disparità in termini geografici risaltano ancora più nettamente
analizzando l’incidenza dei vari segmenti dell’offerta formativa sui
relativi bacini d’utenza.
La formazione per giovani coinvolge circa il 37% dei 15-24enni
italiani in cerca di occupazione, ma tale percentuale è del 91% al
Nord, contro il 42% del Centro ed appena l’11% del Sud. Fra gli
adulti disoccupati (oltre i 25 anni) la formazione interessa in media il
17
7% del bacino potenziale, ma i valori del Nord sono circa il doppio di
quelli del Sud. E per quel che riguarda la formazione degli adulti
occupati, il Nord segna una percentuale oltre quattro volte superiore
a quella del Mezzogiorno.
Da questo punto di vista la vera scommessa è rappresentata
dall’apprendistato, come alternativa alla formazione professionale
rivolta ai giovani. Al chiudersi dell’esperienza pluriennale dei Contratti
di formazione e lavoro si è affiancato un mancato decollo del nuovo
apprendistato.
Il numero degli apprendisti ha quasi raggiunto quota 600 mila, ma
delle tre tipologie previste dal decreto legislativo 276 l’unica ad avere
avuto un qualche sviluppo è quella dell’apprendistato
professionalizzante, tra l’altro con una configurazione a macchia di
leopardo che vede ancora una volta le performance delle Regioni
meridionali a livelli estremamente bassi.
Qui, innanzitutto, c’è una chiara esigenza di omogeneizzazione, con
una più forte regia a livello centrale. È impensabile che convivano sul
territorio modelli così differenti di regolamentazioni regionali e
discipline contrattuali.
Nel segmento dell’alta formazione, l’introduzione degli Istituti tecnici
superiori va accompagnata dallo sviluppo di strumenti di
certificazione e riconoscimento delle qualifiche e da un forte dialogo
con il sistema universitario, evitando sovrapposizioni con le lauree
triennali.
Voglio evidenziare, per quel che riguarda il sistema universitario,
come tra gli immatricolati nel 2006-2007 ai corsi di laurea di primo
livello si registri un incremento di oltre il 10% nel gruppo scientifico,
18
rispetto all’anno precedente, e di quasi l’8% nel gruppo ingegneria-
architettura, mentre calano i gruppi socio-economici. È un aspetto
che va letto positivamente.
Nel complesso, si è interrotto il trend positivo del numero totale di
iscritti all’università, avviatosi nel 2000-2001. Per la prima volta,
risulta in diminuzione il numero degli iscritti ai corsi di primo livello,
mentre si consolida quello degli iscritti alle lauree specialistiche.
Si confermano poi – ma ormai è cosa nota – le migliori performance
della componente femminile, che rendono ancora più stridenti i divari
di genere, sia retributivi che di carriera, nel mondo del lavoro.
In un’ottica di prospettiva futura, la partita principale che andrà
giocata nei prossimi anni riguarda la qualità del sistema formativo, in
termini di competenze acquisite più che di conoscenze; spostando
cioè l’attenzione dai processi ai risultati. E quindi verificando anche la
capacità dei percorsi di tradursi in reali opportunità occupazionali.
A questo riguardo, le indagini svolte sugli interventi finanziati nel
Mezzogiorno dal Fondo sociale europeo non sono entusiasmanti. Solo
uno su cinque dei destinatari delle azioni formative dichiara di essere
occupato.
Relativamente ai corsi IFTS (cioè i corsi di Istruzione e formazione
tecnica superiore), sui quali l’Isfol svolge indagini campionarie a
cadenza annuale, la situazione è migliorata. Dall’ultima rilevazione
effettuata, risulta che a 12 mesi dal termine dei corsi la percentuale
degli occupati è pari ad oltre il 60%. È comunque un fattore di
preoccupazione che uno su tre dei partecipanti che erano in cerca di
occupazione prima del corso continui a dichiararsi tale anche dopo.
19
Ciò non significa che la formazione non paghi sotto il profilo
dell’occupabilità. Tra i formati tramite dottorato nel Mezzogiorno, ad
esempio, si ha un tasso di occupazione del 67%, ben superiore al
41% dei laureati a dodici mesi dall’acquisizione del titolo.
Emerge piuttosto una fragilità delle misure di accompagnamento ed
orientamento. Senza contare che una maggiore qualificazione in
mancanza di una corrispondente domanda di lavoro genera
disoccupazione invece che nuova occupazione.
Gli interventi di orientamento sono in crescita, ma il quadro nel suo
complesso risulta ancora lontano dall’essere soddisfacente.
Il numero di coloro che si rivolgono alle agenzie sul territorio, come
gli Informagiovani o i Centri per l’Impiego, è molto basso. Sul
versante dei corsi IFTS le cose vanno meglio, ma comunque più della
metà del campione che abbiamo intervistato dichiara di non avere
alcuna informazione a riguardo.
Nei loro processi di scelta i giovani si ritrovano spesso con il solo
supporto della famiglia. E questo ha evidenti ricadute a livello sociale.
Tra gli studenti al quinto anno delle superiori il cui padre ha il solo
titolo di scuola media, appena il 18% frequenta il liceo. Una
percentuale che scende a circa l’1% per i figli di chi ha fatto le
elementari o non ha alcun titolo di studio.
Le amministrazioni regionali e provinciali si stanno attivando per
garantire il successo formativo a tutti i giovani, attraverso – appunto
– il rafforzamento delle azioni di orientamento e lo sviluppo di attività
di accompagnamento attraverso i Centri per l’Impiego. Il grado di
copertura dei servizi e il loro livello risulta buono, anche se
scarseggiano gli interventi di vero e proprio tutoraggio, soprattutto al
Sud.
20
Uno dei problemi principali dei CPI, da questo punto di vista, è la
scarsa disponibilità di risorse umane dedicate alle attività dei giovani
in obbligo.
In conclusione, il quadro che ho delineato è – come dicevo all’inizio –
un quadro dove gli elementi di dinamismo prevalgono sugli elementi
di staticità. Torno perciò a sottolineare il valore di una nuova
stagione che superi le conflittualità del passato e permetta un
impegno comune, finalizzato a cogliere le opportunità che abbiamo di
fronte.
Voglio infine fare alcune brevissime considerazioni sul lavoro che ci
attende. Parlo questa volta dell’Isfol. Di fronte alle evoluzioni così
rapide a cui assistiamo, c’è la necessità di raffinare e sistematizzare
la nostra capacità di analisi, di assistenza operativa alla governance
dei sistemi. Ed anche di migliorare la nostra capacità di proposta.
I cambiamenti più recenti del mercato del lavoro richiedono nuovi
indicatori, che innanzitutto vadano oltre l’ambito del lavoro
dipendente. Ma anche sul fronte della formazione, strumenti nuovi,
come i Fondi Paritetici, impongono analisi più accurate, per verificare
gli effetti sui lavoratori, in termini di reddito, mobilità, sicurezza,
carriera.
In generale, credo occorra concentrarsi sulla dimensione
interpretativa dei fenomeni più che semplicemente descrittiva. Penso
al supporto che va offerto agli operatori dei Centri per l’Impiego nel
leggere i dati e poterli quindi usare nel loro lavoro quotidiano.
Ritengo vadano approfondite le indagini sulla qualità, sia del lavoro
che del sistema formativo.
21
Bisogna comprendere meglio le tante segmentazioni del mercato del
lavoro e le disparità che ancora permangono nei processi educativi,
mettendo a fuoco i diversi volti del rischio di esclusione e di
discriminazione e rivolgendo l’attenzione non solo ai dati strutturali
ma anche alle percezioni delle persone in carne ed ossa, al loro modo
di vivere la formazione, il lavoro, le relazioni tra vita professionale e
vita privata.
Chiudo quindi nell’assicurare l’impegno dell’Isfol su questi fronti e
ringrazio i ricercatori e tutto il personale dell’Istituto per il loro
lavoro, che ha permesso anche quest’anno di arrivare al nostro
appuntamento più importante.
Ringrazio tutti i presenti per la loro partecipazione e per il prezioso
contributo che vorranno continuare a darci.
ISFOL 2007/rapporto ISFOL sintesi generale.pdf
Rubbettino
RAPPORTO
2007
Il Rapporto annuale dell’Isfol rende conto dell’evoluzione dei sistemi
di istruzione e formazione, del mercato del lavoro e delle politiche
sociali italiane. L’edizione 2007 fornisce un quadro d’insieme delle
più significative tendenze emergenti dai sistemi nazionali, dando
conto sia dello stato dell’arte che dei nodi persistenti e dei problemi
aperti, alla luce del nuovo scenario delle politiche europee.
I contenuti del Rapporto 2007 si sviluppano lungo tre direttrici prio-
ritarie, in gran parte convergenti:
la presentazione delle tendenze più recenti delle politiche comu-
nitarie su temi quali il lavoro, la coesione sociale, le risorse umane,
che mira a focalizzarne le potenzialità offerte ma anche le sfide
e le ricadute sui contesti nazionali;
l’analisi delle dinamiche del sistema educativo e formativo che
mostra la ricerca di una difficile identità, tra la progressiva affer-
mazione dell’ottica innovativa del lifelong learning e la crescente
frammentazione di assetti, istituti ed interventi riformatori;
la ricognizione del versante lavoro che mostra la compresenza
di una molteplicità di problematiche, progetti e decisioni miglio-
rative, nel quadro di un disegno riformatore più complessivo volto
a coniugare il welfare economicamente sostenibile e la crescita
economica “qualitativa” del Paese.
Quanto presentato dall’Isfol nel Rapporto 2007 è - come sempre -
a supporto del dibattito istituzionale e della più ampia diffusione
delle conoscenze.
RAPPORTO
2007
S I N T E S I
Rubbettino
RAPPORTO
2007
Sin t e s i
© 2007 - ISFOL - Via G.B. Morgagni, 33 - 00161 Roma
Tel. 06.445901 - http://www.isfol.it
La scelta delle sezioni in cui si articola il Rapporto Isfol 2007 nonché dei temi presentati,
segue due criteri in gran parte convergenti: quello dell’attualità dei fenomeni che si sono
verificati, delle politiche adottate o in via di adozione, del dibattito avvenuto tra i soggetti
implicati nel corso dell’anno che volge a conclusione, e quello di rendere quanto più pos-
sibile nota e fruibile in sintesi l’attività che l’Isfol realizza su tanti aspetti dei temi del la-
voro e della formazione.
La sezione Europa, con la quale il Rapporto si apre, non ha solo l’obiettivo di un aggior-
namento informativo sulle politiche europee dell’istruzione e della formazione, del lavoro
e dell’inclusione, ma vuole altresì mettere in evidenza come la dimensione europea sia or-
mai un riferimento obbligato per questi temi, mentre l’Europa politica sta ancora riflet-
tendo sul proprio cammino e, anzi, rallentando il passo.
Il 2007 è stato un anno caratterizzato dall’allargamento a 27 Paesi membri, con l’ingres-
so di Romania e Bulgaria, ma anche cruciale dal punto di vista simbolico: celebra infat-
ti i 50 anni del Trattato di Roma e dell’istituzione del Fondo sociale europeo, i 10 anni
della Strategia europea per l’occupazione, varata col Consiglio europeo di Lussemburgo
nel 1997 e sancita poi col trattato di Amsterdam.
Nel 2004 è stato firmato il trattato di adozione di una Costituzione per l’Europa, al termi-
ne di un percorso che avrebbe dovuto rendere l’Unione più democratica, trasparente ed ef-
ficiente. I problemi incontrati durante il processo di ratifica e il sopraggiunto allargamen-
to, con il peso crescente di nuovi protagonisti, hanno di fatto sacrificato tale prospettiva alle
esigenze del consenso necessario a proseguire la strada delle riforme istituzionali.
Le più recenti decisioni del Consiglio europeo hanno sancito l’abbandono del progetto
costituzionale, dando mandato alla Conferenza intergovernativa di elaborare due nuovi
trattati - il Trattato sull’Unione europea (TUE) e il Trattato che istituisce la Comunità eu-
ropea (TCE) che non conterranno neppure i riferimenti ai simboli dell’Unione europea;
per i quali il Ministro degli Affari Esteri tornerà a essere l’“Alto rappresentante per la po-
litica estera e della sicurezza”, mentre si riduce lo spessore della Carta dei diritti non più
integralmente innestata nel trattato ma sostituita da un articolo di riferimento, con la con-
seguenza che il concetto di cittadinanza europea dovrà essere ridefinito e, probabilmen-
te, “declassato”.
Introduzione
3
4
Siamo dunque in presenza di una sfasatura tra due diversi livelli: l’arretramento di una cer-
ta idea di Europa politica che va di pari passo con il rafforzamento di un modello sociale
europeo impegnato a coniugare le sfide della competitività globale e le accresciute pro-
blematiche interne, quali le disparità territoriali e l’invecchiamento della popolazione.
Nel divario fra espressione politica, istituzionale e amministrativa, ci sono i cittadini eu-
ropei e il loro agire quotidiano. Si registra, a tale proposito, un orientamento positivo
per il quale due cittadini su tre, secondo Eurobarometro, sembrano credere in un’Euro-
pa più forte anche sul piano istituzionale. Sono certamente aumentate le forme di coo-
perazione tra Stati e il loro impegno verso il conseguimento di obiettivi comuni; da que-
sto punto di vista, la Strategia europea per l’occupazione ha rappresentato un modello
per il coordinamento delle politiche dell’istruzione e formazione, del lavoro e della pro-
tezione sociale.
Alla luce di questo scenario complesso, il Rapporto ricostruisce sinteticamente il percor-
so evolutivo delle politiche europee per la formazione e il lavoro e le possibili ricadute per
il nostro Paese. Sullo sfondo, la rinnovata strategia di Lisbona, che lega le politiche vol-
te ad accrescere l’occupazione a quelle per la crescita e lo sviluppo, promuove maggiori
sinergie e nuovi approcci che il nostro Paese, seppur faticosamente, sta cercando di fare
propri. Costante è il richiamo dell’Europa affinché prevalga tra gli Stati una visione stra-
tegica delle politiche del lavoro, improntata coerentemente al ciclo di vita delle persone
e si costruisca finalmente un sistema di apprendimento lungo tutto l’arco della vita.
Forte accento è dato allo sviluppo delle politiche di coesione, dove è determinante l’in-
tervento comunitario grazie alla mobilitazione di rilevanti risorse dei Fondi strutturali.
Queste rappresentano, oggi, il principale sostegno alla strategia di Lisbona, grazie alle si-
nergie che promuovono con le politiche di ricerca, la promozione dell’eccellenza a livel-
lo internazionale e con le politiche di innovazione, per trasformare le conoscenze in op-
portunità economiche e in nuove soluzioni organizzative, tecnologiche e sociali.
La nuova fase di programmazione 2007-2013 delle politiche di coesione comporta nuo-
ve sfide per le Regioni, prima di tutto quella di mettere davvero in atto le sinergie neces-
sarie per far convergere gli investimenti - strutturali, infrastrutturali, in beni e servizi im-
materiali come quelli per la qualificazione delle persone - verso definite prospettive di svi-
luppo territoriale.
Il Fondo sociale europeo ha mantenuto una sua identità e caratterizzazione, benché fos-
sero numerosi i sostenitori di una sua soppressione; la creazione di un sistema di lifelong
learning è il tema all’ordine del giorno cui si legano quelli della qualità dei sistemi, della
standardizzazione dei dispositivi a garanzia della trasparenza e della mobilità dei citta-
dini, della promozione di sperimentazioni innovative attraverso nuovi programmi co-
munitari, declinati rispetto a specifiche urgenze rappresentate da giovani, donne, adul-
ti e lavoratori maturi, persone in condizioni di particolare svantaggio. L’idea è che i si-
stemi formativi debbano garantire efficienza e, al tempo stesso, promuovere capacità com-
petitive, ma anche equità e pari opportunità di accesso.
Purtroppo, il recentissimo rapporto sui progressi degli obiettivi di Lisbona in materia di
istruzione e formazione evidenzia come, nonostante i progressi intervenuti in alcune Re-
gioni, il nostro Paese si collochi sotto la media europea rispetto a quasi tutti gli indica-
rapporto isfol 2007
tori definiti congiuntamente, per le mancate risposte ai problemi dovute alla insufficiente
qualità del mix di politiche adottate, delle strutture di governance dei sistemi, dell’adeguatezza
dei sistemi dell’offerta di istruzione e formazione.
Il tema del lavoro vede all’ordine del giorno dell’agenda europea due focus rilevanti: fles-
sicurezza e salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Il Consiglio europeo ha invitato la Com-
missione, insieme agli Stati membri e alle Parti sociali, a esaminare lo sviluppo di una se-
rie di princìpi comuni in materia di flessicurezza, quale utile riferimento per la definizione
di politiche in grado di assicurare la necessaria apertura e dinamicità dei mercati del la-
voro, ma anche l’altrettanto necessaria tutela dei diritti delle persone e dei loro progetti
di vita. La definizione di un equilibrio accettabile tra queste due dimensioni dipende dal-
le soluzioni e dalle scelte che si compiono in relazione alle forme contrattuali (e quindi
dal sistema di relazioni industriali), alla capacità di definire strategie adeguate e correla-
te di apprendimento lungo l’arco della vita (e quindi dai sistemi pubblici e privati di pro-
grammazione e governo dell’offerta formativa), alla messa in campo di efficaci politiche
attive del lavoro che agevolino le transizioni e all’operatività di moderni sistemi di sicu-
rezza sociale (sostegno al reddito, pensioni, assistenza sanitaria), ivi comprese le politi-
che di conciliazione tra lavoro e responsabilità individuali e familiari. Il problema è far
interagire coerentemente questo mix di politiche all’interno di un modello che ogni Sta-
to membro definisce in base alle proprie specificità.
Il tema della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, oggetto di una risoluzione del Con-
siglio del 25 giugno 2007, si collega strettamente a quello più generale della promozio-
ne della qualità dell’occupazione, ed è oggetto di una specifica strategia quinquennale (2007-
2012) di rilancio di un approccio globale al benessere sul luogo di lavoro e di rivisitazione
delle politiche di prevenzione alla luce dei cambiamenti in atto nelle caratteristiche del
lavoro e dei sistemi produttivi. L’obiettivo, per l’Europa a 27, è quello di ridurre del 25%
il tasso complessivo d’incidenza degli infortuni sul lavoro, migliorando la protezione del-
la salute e la sicurezza dei lavoratori e fornendo un rilevante contributo alla strategia di
Lisbona. Il nuovo programma Progress fornirà un importante supporto a tale strategia.
Infine, nel processo evolutivo delle singole politiche e di specifici temi, il Rapporto evi-
denzia il fatto che gli ultimi anni abbiano visto un rafforzamento significativo del con-
cetto di politiche “attive”, traslato dal classico campo delle politiche del lavoro all’inclu-
sione e alle pari opportunità, fino al diritto di cittadinanza.
In tema di istruzione e formazione, l’anno che si va a concludere ha visto un processo ri-
formatore di notevole rilievo che dovrebbe incidere in modo significativo sull’assetto del
sistema, anche se rimangono irrisolti numerosi nodi, sui quali è aperto il confronto Sta-
to-Regioni. Il sistema educativo italiano appare stressato da un lungo periodo di rifor-
me incompiute, alle quali sembra sviluppare una sorta di impermeabilità. Un esempio:
la dispersione scolastica tende a persistere e la qualità complessiva del sistema di istru-
zione e formazione è ancora lontana dai target di Lisbona. Gli indicatori più recenti con-
fermano l’arretratezza del nostro Paese rispetto ai benchmark fissati: il tasso di abbandono
è al 20% rispetto al 10% indicato dagli obiettivi comunitari; il tasso di diplomati è al 75,5%,
contro l’85% del benchmark europeo; inoltre, solo il 51% della popolazione italiana pos-
siede un titolo di studio post-obbligo, contro il 70% della media europea. È quindi evi-
5
sintesi
6
dente la necessità di promuovere non solo la partecipazione ma anche una partecipazione
che sia coronata dal conseguimento del titolo di studio o della qualifica professionale.
Ma nel processo di riforma l’identità delle diverse filiere è ancora incerta. In questo quadro:
il prolungamento da 8 a 10 anni dell’obbligo di istruzione pone il problema del po-
sizionamento della formazione professionale iniziale e in particolare dei percorsi trien-
nali frutto di un Accordo del giugno 2003
il mantenimento degli istituti professionali nell’ambito del sistema dell’istruzione se-
condaria superiore e la loro quinquennalizzazione, con la soppressione del diploma
di qualifica statale, pone il problema degli effetti sulla dispersione, stante il fatto che
la maggior parte di bocciature e ritiri avviene proprio in questa filiera che, insieme
alla formazione professionale, accoglie i soggetti più deboli e un numero sempre più
elevato di immigrati
l’istituzione degli istituti tecnici superiori mira a un consolidamento dell’istruzione
e formazione tecnica superiore per costruire un nuovo sistema di formazione supe-
riore non universitaria, finalizzato allo sviluppo locale. Ma il processo normativo an-
cora incompleto non rende evidenti le regole che dovrebbero consentire un passag-
gio dalla logica corsuale a quella di un sistema flessibile e aderente alle esigenze del
territorio e dello sviluppo ma anche in grado di rilasciare titoli, crediti certificabili e
riconoscibili anche nel framework europeo e di dialogare con il sistema universitario
il nuovo assetto dei Centri per l’educazione permanente rappresenta un ulteriore tas-
sello nella costruzione di un sistema lifelong learning, ma è fondamentale che essi sia-
no in grado di fare rete sul territorio valorizzando le sinergie con le diverse attività di
formazione permanente programmate dalle Regioni e dagli enti locali.
Il prolungamento da 8 a 10 anni dell’obbligo di istruzione si inserisce nel lungo percor-
so europeo avviato a Lisbona, che ha inteso spostare l’attenzione dalla acquisizione di co-
noscenze alla acquisizione delle competenze e dunque dai processi ai risultati.
Si punta quindi anche alla qualità dei percorsi formativi, agli esiti del processo di inse-
gnamento-apprendimento, alla valutazione dei risultati in termini di conoscenze e com-
petenze effettivamente acquisite, in un’ottica che vede quale obiettivo prioritario la pro-
secuzione dell’iter formativo fino all’acquisizione di una qualifica professionale o di un
titolo di studio di scuola secondaria superiore.
Ma occorre anche ricordare che il peso maggiore del recupero dei giovani attualmente esclu-
si dai processi formativi grava soprattutto sugli istituti professionali e sulla formazione
professionale, che sono particolarmente coinvolti nel processo riformatore in atto che pre-
vede il riordino dei curricula e la soppressione del diploma triennale di qualifica statale.
Le intese tra Stato e Regioni e i raccordi che andranno stabiliti a livello territoriale do-
vranno garantire in ogni caso un’offerta diffusa ed equilibrata di percorsi che portino alla
qualifica professionale, per non penalizzare quei ragazzi che aspirano a un veloce inse-
rimento nel mondo del lavoro, e definire modalità e opportunità di prosecuzione dei per-
corsi per quanti desiderano continuare la loro formazione. Se si vuole perseguire il suc-
cesso formativo in una logica di apprendimento permanente è impensabile promuove-
re solamente percorsi lunghi, di tipo quinquennale, ed è anche necessario offrire ai gio-
rapporto isfol 2007
vani che scelgono i percorsi brevi ulteriori opportunità formative dopo il conseguimen-
to della qualifica.
Sembra voler rispondere a tale sfida anche un altro aspetto rilevante del processo di ri-
forma in atto, dato dalla valorizzazione del rapporto dell’istruzione e della formazione
tecnica e professionale con il territorio. È questo il senso della prefigurata istituzione di
Poli tecnico-professionali tra gli istituti tecnici, gli istituti professionali, le strutture del-
la formazione professionale accreditate e gli istituti tecnici superiori. Essi dovrebbero rap-
presentare una modalità innovativa di promuovere e organizzare le offerte formative, e
al riguardo è in corso una riflessione che mira a definirne modelli e governance. I poli, come
forme di aggregazione dell’offerta caratterizzate da una molteplicità di target e filiere e
collegate con la ricerca e l’innovazione, possono diventare punti significativi di riferimento
per promuovere lo sviluppo sociale ed economico del territorio.
In questo processo di riordino del sistema stenta ad affermarsi il ruolo cruciale delle strut-
ture formative accreditate nel rispondere alle necessità dei ragazzi maggiormente orien-
tati a una formazione breve per un rapido inserimento nel mondo del lavoro. L’attuale
realtà mostra situazioni molto differenziate, tra Regioni che attribuiscono alle strutture
formative un ruolo anche all’interno del percorso di istruzione obbligatoria, pur con di-
verse modalità, e Regioni che concentrano l’intervento di queste strutture sullo specifi-
co percorso di qualifica che si innesta al termine del biennio dell’obbligo d’istruzione. Le
peculiarità locali del territorio nazionale rendono comprensibile l’adozione di modelli di-
versi di scolarizzazione e formazione; ci si augura tuttavia che la scelta dei diversi modelli
venga sempre fatta in ragione degli specifici bisogni dei giovani, nel rispetto dell’obiet-
tivo di “non lasciare nessuno indietro”.
L’introduzione degli istituti tecnici superiori è motivata dall’obiettivo di rivedere e raf-
forzare l’esperienza dell’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore, per sviluppare un’of-
ferta di istruzione post-secondaria alternativa all’Università, consolidare l’offerta corsuale
e renderla maggiormente stabile e visibile per gli studenti e le loro famiglie che oggi in
larga parte ne sono inconsapevoli. Va anche sottolineato che, nel disegnare un nuovo per-
corso post-secondario, occorre definire una precisa strategia di concerto con l’universi-
tà, definendo con chiarezza obiettivi e target delle diverse offerte formative, per evitare
che possibili sovrapposizioni con i percorsi delle lauree triennali ingenerino il timore di
una concorrenzialità tra le offerte, con la conseguente riduzione degli spazi di collabo-
razione interistituzionale.
Ovviamente, per recuperare l’interesse delle famiglie e delle imprese non basta produr-
re una nuova offerta ma occorre anche qualificarla, attraverso la definizione di standard
riconoscibili. La costituzione di un Tavolo Unico Nazionale, volto a definire e implementare
un sistema nazionale di standard professionali, di certificazione e formativi con il coin-
volgimento del Ministero del Lavoro, del Ministero della Pubblica Istruzione, del Mini-
stero dell’Università, del Coordinamento delle Regioni, delle singole Regioni e delle Par-
ti sociali può dare un contributo decisivo alla definizione di questo sistema. I componenti
del tavolo hanno deciso di individuare standard minimi funzionali sia a definire un qua-
dro nazionale unico di riferimento sia a salvaguardare le specifiche identità. L’emanazione
della Raccomandazione europea sulla certificazione, che introduce un Quadro Europeo
7
sintesi
8
delle Qualifiche articolato su 8 livelli per tutti i Paesi membri dell’Unione europea, po-
trà imprimere sicuramente un’ulteriore spinta al processo nazionale.
Un altro aspetto cruciale dell’anno che sta per chiudersi riguarda la qualità dell’offerta for-
mativa, per garantire la quale è in corso di definizione il nuovo sistema di accreditamento,
presso un tavolo istituzionale istituito dal Ministero del Lavoro cui partecipano, oltre alle
Regioni e alle Province autonome, il Ministero della Pubblica Istruzione, il Ministero del-
l’Università, le Parti sociali. Ferme restando la centralità del mantenimento dei requisiti e
dell’efficacia delle visite di audit, il nuovo sistema intende favorire la semplificazione e l’ac-
certabilità dei requisiti, nonché l’integrazione e la sinergia nei controlli, in modo da favo-
rire il diritto individuale alla formazione attraverso l’accesso a servizi formativi integrati.
Il sistema della formazione continua registra una novità significativa, rappresentata dal-
l’Accordo tripartito tra Ministero del Lavoro, Regioni e Parti sociali, siglato nell’aprile del
2007, indirizzato alla definizione di nuove modalità di coordinamento tra la program-
mazione regionale e quella dei Fondi paritetici interprofessionali, per la promozione di
un “sistema nazionale di formazione continua, progressivamente ordinato, non concor-
renziale ma integrato”. Il raccordo tra programmazione regionale e attività dei Fondi in-
terprofessionali si rende necessario per non creare sul territorio una sovrapposizione di
interventi nel momento in cui i Fondi sembrano decollare: al maggio 2007 il numero dei
lavoratori in forza presso le imprese aderenti superava già i 6 milioni, ovvero più della metà
del totale dei lavoratori dipendenti delle imprese private, con un tasso di adesione me-
dio delle imprese pari al 42,4%.
Il rafforzamento del sistema della formazione continua è uno degli strumenti per aumentare
la partecipazione della popolazione italiana alle attività di lifelong learning, oggi ancora
ferma al 6,1%, contro il 9,6% della media europea e il traguardo del 12,5% da raggiun-
gere per il 2010. In questa direzione risultati significativi si attendono anche dal poten-
ziamento dell’educazione degli adulti attraverso la trasformazione dei Centri territoria-
li per l’educazione permanente in strutture diffuse a livello provinciale, dotate di auto-
nomia amministrativa, organizzativa e didattica.
Un ulteriore segnale significativo rispetto all’esigenza di costruire un vero sistema di ap-
prendimento permanente viene dato dal disegno di legge su questa tematica recentemente
varato dal Consiglio dei Ministri, che introduce alcuni elementi fondamentali per assi-
curare il diritto all’istruzione e formazione durante tutto l’arco della vita:
un sistema di riconoscimento dell’apprendimento realizzato anche in contesti non for-
mali e informali e di certificazione delle competenze comunque acquisite
un sistema per l’orientamento per sostenere la fruizione di servizi informativi e di coun-
seling lungo l’arco di tutta la vita
misure a sostegno dell’apprendimento dei lavoratori.
Il processo di riforma del settore dell’istruzione e della formazione professionale si inter-
seca con il problematico varo delle norme applicative della riforma del titolo V della Co-
stituzione riguardo al riassetto dei ruoli dei diversi soggetti e alla ripartizione delle competenze.
La Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome ha approvato un Masterplan del-
le azioni da porre in essere, individuando la data del 1 settembre 2009 quale termine entro
rapporto isfol 2007
il quale le Regioni dovranno aver completato la predisposizione delle condizioni per l’eser-
cizio delle funzioni loro attribuite dal titolo V. Nel frattempo alcune Regioni hanno proce-
duto a riordinare la loro legislazione in materia di istruzione e formazione, non senza con-
trasti con il governo centrale sui quali è chiamata a pronunciarsi la Corte Costituzionale.
Una maggiore condivisione del quadro normativo sarebbe necessaria anche per la rego-
lamentazione dell’Apprendistato, per il quale le normative regionali e le discipline con-
trattuali, pur muovendosi tutte nel quadro del D.Lgs. n. 276/2003, seguono direttrici spes-
so non coincidenti e in qualche caso evidentemente divergenti; si riscontrano numero-
se sovrapposizioni tra le due fonti, quella regionale e quella contrattuale, anche come con-
seguenza della scarsa chiarezza della norma nazionale. Pertanto, si rileva una diffusa in-
certezza applicativa da parte delle imprese e non si può escludere che tali criticità abbia-
no contribuito al rallentamento della crescita della stessa occupazione in apprendistato.
Va inoltre rilevato che solo una quota degli apprendisti (nel 2005 il 20,4% del totale) ri-
ceve effettivamente una formazione esterna, per mancanza di risorse finanziarie ma an-
che per difficoltà organizzative dell’offerta legate alla disomogeneità della domanda.
Sul versante del lavoro, il 2007 si è presentato come un anno ricco di problematiche, di
progetti e decisioni migliorative nel quadro di un disegno riformatore più complessivo.
Così, diverse tematiche hanno comportato lo svilupparsi o il riemergere di analisi, stu-
di, dibattiti su temi salienti della vita sociale del nostro paese quali il conflitto o la soli-
darietà intergenerazionale, la riprogettazione del lavoro nel settore pubblico, la formu-
lazione di soluzioni di welfare economicamente sostenibili e non disincentivanti la par-
tecipazione al lavoro, l’immigrazione come risorsa e come emergenza, la gamma delle ir-
regolarità nei rapporti di lavoro e il tema connesso della sicurezza sul lavoro.
Il confronto sulle tante emergenze ha oscurato in parte alcuni e non secondari fenome-
ni positivi che confermano trend di crescita già manifestatisi negli anni trascorsi nel no-
stro paese. In particolare, nel 2007 si è superata la soglia dei 23 milioni di occupati, con
un incremento su base annua di quasi il 2%, mentre il tasso di disoccupazione si è con-
tratto al 6%, con una contestuale forte diminuzione anche dei disoccupati di lunga du-
rata. Nel Rapporto si analizzano soprattutto le criticità che si riscontrano sul mercato del
lavoro, collocandole però in uno scenario che, se non proprio luminoso, appare tuttavia
migliorato, anche in rapporto con quanto si rileva sul versante dell’occupazione in mol-
ti altri Paesi dell’Unione europea. Il divario territoriale permane il principale e il più pro-
fondo dei dualismi che si registrano nel mercato del lavoro nazionale. Nel Nord Italia la
sostanziale tenuta dell’occupazione manifatturiera e la forte espansione del terziario con-
tinuano ad alimentare la domanda di lavoro rivolta all’esterno, mentre nel Mezzogior-
no si registra una preoccupante flessione dei tassi di partecipazione al lavoro, già peral-
tro ai minimi europei. La discrasia tra domanda e offerta di lavoro emerge quindi pre-
potentemente anche in relazione ad altri segmenti di popolazione - donne e over 55 in
primis - per i quali, anche in linea con gli obiettivi di Lisbona, si auspicherebbe un incremento
dei tassi di attività.
Nel Rapporto si presentano, oltre al consueto scenario di sintesi, approfondimenti su pro-
blematiche emergenti, alcune delle quali hanno dato luogo ad appositi provvedimenti o alla
9
sintesi
10
gestazione di prossimi interventi, mentre di altre si analizzano alcuni aspetti critici del la-
voro meno affrontabili con interventi di natura normativa e che attengono piuttosto alla
sfera della “qualità” della crescita economica nel paese. Su questo fronte occorre interrogarsi,
dunque, su come mai i “lavori” stiano diventando sempre meno conformi alle aspettative
degli individui, posto che si tratti di un gap generato da una molteplicità di fattori e com-
portamenti che attengono sia alla qualità del lavoro disponibile per i nuovi entranti, sia alle
prassi selettive che mette in campo chi cerca un lavoro o chi deve decidere se valga, addi-
rittura, la pena di cercarlo. Mentre in passato fenomeni di scoraggiamento analoghi si era-
no verificati a fronte di alti tassi di disoccupazione, oggi tale comportamento sembra mo-
tivato da altri fattori: la precarietà, le retribuzioni e le scarse prospettive di carriera. Nella
nostra popolazione attiva si manifestano esigenze con le quali i lavori disponibili spesso non
collimano; in proposito è significativo il fatto che quasi il 20% degli occupati ritenga di svol-
gere mansioni che non utilizzano se non parzialmente le loro competenze professionali.
Altro fattore di scoraggiamento è dato dalle retribuzioni all’ingresso, che spesso non cor-
rispondono alle esigenze di giovani che vogliano legittimamente rendersi autonomi dal-
la famiglia, così come le donne quando, per lavorare, debbano accollarsi l’onere di ser-
vizi per la cura dei familiari.
La consistente contrazione della disoccupazione di lunga durata, fenomeno di per sé po-
sitivo, risulta in qualche modo alterato dal fatto che occulta la grande quantità di sogget-
ti che accedono al lavoro ma che molto rapidamente lo perdono. Anche tale aggregato ali-
menta, per quota parte, la inattività, specie tra la popolazione giovanile. Si notano, infat-
ti, molti movimenti di entrate e uscite dal lavoro nelle fasce di età lavorativa più basse, con
consistenti quote di riflusso verso la non ricerca di lavoro. Anche in questo caso il giudi-
zio è complesso. L’ingresso al lavoro si configura, oggi molto più che nel passato, come un
susseguirsi di esperienze lavorative, che in molti casi si dispiegano in percorsi di inserimento.
Il problema nasce laddove una successione spesso discontinua o incoerente di attività poco
qualificate si risolve in una sorta di “trappola” da cui i soggetti non riescono a svincolar-
si. È ovviamente questo il fenomeno che accade e che si cerca di contrastare, agendo sia
sul versante delle imprese che dei lavoratori. A tale scopo nel 2007 sono stati adottati o av-
viati provvedimenti finalizzati a disincentivare le imprese dal ricorso al lavoro atipico, agen-
do sul costo del lavoro e anche sull’uso improprio di diverse forme contrattuali.
Si stanno inoltre anche inaugurando nuove modalità di workfare, in graduale sostituzione
di un sistema di ammortizzatori-incentivazioni che ha avuto una sua storia man mano
superata da assetti meno tradizionali del mercato del lavoro. Si inizia così ad attuare quan-
to rimasto ancora incompiuto del “Libro bianco sul mercato del lavoro” del 2001.
L’incertezza del lavoro o la prospettiva di un lavoro “povero” riguarda in particolare i gio-
vani, il cui percorso di inserimento è spesso lungo e tortuoso, ed è dunque su questo tar-
get che potranno agire in primis le riforme avviate.
Migliorare la coerenza e l’adattabilità reciproca tra domanda e offerta di lavoro rappre-
senta una sfida rilevante per il sistema dei Servizi all’impiego. L’Isfol effettua, fin dall’av-
vio della riforma del collocamento e con l’ausilio delle Amministrazioni provinciali e re-
gionali, attività organiche di monitoraggio dell’avanzamento organizzativo e funziona-
le dei Centri per l’impiego, anche con rilevazioni a carattere censuario. Più di recente, l’in-
rapporto isfol 2007
dagine si è estesa a tutti gli altri soggetti e istituzioni che intervengono nel difficile com-
pito di ottimizzare l’incontro tra le imprese e chi cerca un lavoro o un lavoro migliore.
Si tratta di un compito difficile ma strategico, in un mercato del lavoro che tende sem-
pre più a parcellizzarsi, in relazione alle esigenze specifiche sia della domanda che dell’offerta
di lavoro. Ci sono ampie quote di posti di lavoro vacanti, alcuni per qualifiche e profes-
sionalità ancora (o ormai divenute) rare, altri che corrispondono alle attese e ai requisi-
ti di soggetti che ricercano un impiego con scarso metodo e poca strategia. Facilitare l’in-
contro tra queste esigenze può rappresentare una “creazione” netta di occupazione a co-
sti minori di qualunque altra misura di incentivazione.
Il funzionamento più fluido e trasparente del mercato del lavoro è dato però anche dal
conciliare la competitività e i meriti con l’equità dell’accesso alle opportunità. Si è tor-
nati a parlare quest’anno del cosiddetto “ascensore sociale” e del suo rallentamento. La
scuola sembra aver svolto gran parte del suo compito nel permettere ai figli il raggiun-
gimento di una condizione migliore di quella dei padri; in sintesi, un affrancamento dal-
le condizioni di origine per le categorie sociali più svantaggiate. Adesso il confine delle
opportunità è dato dall’accesso al lavoro in cui intervengono, nuovamente e pesantemente,
fattori di ampia disparità tra chi possiede e gestisce le informazioni e le tecnologie e chi
piuttosto le subisce. È di nuovo forte la correlazione tra ambiente di origine e chances di
accesso a un lavoro conforme alle attese. Il ruolo compensativo che possono svolgere i Ser-
vizi per l’impiego è dunque potenzialmente rilevante e in proposito si sottolinea la ne-
cessità di migliorare le loro capacità di dialogo col versante datoriale, poiché la situazio-
ne appare alquanto sbilanciata sul versante dell’offerta di lavoro.
Nel Rapporto si insiste inoltre sui tanti aspetti di “impoverimento” del lavoro: povero di
prospettive, di stimoli, di realizzazione professionale ancor prima che nelle retribuzioni.
Il maggior fattore di insoddisfazione sul lavoro, come rilevato dalle nostre indagini, at-
tiene soprattutto alla mancanza di prospettive di crescita professionale; più del 57% dei
lavoratori dipendenti lo segnala come fattore primo di criticità, ben superiore all’insod-
disfazione per retribuzioni ritenute insufficienti. L’occupazione è aumentata ma preva-
lentemente in settori poco esposti alla concorrenza internazionale, soprattutto nel terziario
tradizionale e nelle costruzioni. D’altra parte, abbiamo alle spalle anni di scarsa crescita
della produttività del lavoro, in leggera ripresa solo nell’ultimo periodo, con andamenti
anomali del rapporto tra PIL e occupazione. Sono ormai tanti i segnali e le osservazioni
oggettive che confermano l’espansione delle occasioni di lavoro nella fascia bassa delle qua-
lificazioni piuttosto che nella fascia alta, con un andamento dunque poco conforme agli
obiettivi della cosiddetta “società della conoscenza”. Non è tanto il graduale affermarsi del
lavoro a tempo che preoccupa, quanto il saldarsi della precarietà con una insufficiente ri-
chiesta di qualificazioni, sintomo evidente di un sistema produttivo che stenta a raggiungere
adeguati livelli di competitività.
Il 2007 è l’anno europeo delle Pari opportunità, anche e soprattutto di genere.
Con l’assunzione a Londra della prima donna comandante nei “Beefeaters”, le guardie del-
la Torre, si è prodotta una piccola scalfittura in quel “soffitto di cristallo” che rappresen-
ta ancora una realtà per tante altre donne, anche in Italia, che pure dispongono di istru-
zione, competenze e ambizioni. La partecipazione al lavoro delle donne, dopo un anda-
11
sintesi
12
mento positivo dal 1996 al 2001, ha registrato uno stallo, confermato dalle rilevazioni del-
la prima metà dell’anno in corso. Appare problematico non solo il primo inserimento al
lavoro, ma anche il ritorno a un impiego dopo i periodi di maternità: una donna su nove
vi rinuncia, per l’impossibilità di conciliare lavoro e cura dei familiari. Non è questo il solo
dato negativo: meno del 37% delle donne entra nel mondo del lavoro con un rapporto
permanente e dunque la maggior parte del part-time è di natura involontaria e i differenziali
salariali di genere, su base annua, sono del 25%.
Solo con una maggiore assunzione di “responsabilità sociale” da parte delle imprese si può
innescare un’inversione di tendenza a favore del lavoro femminile ed è a tal fine che nel
2007 è stato avviato il progetto “Bollino rosa” con l’obiettivo di promuovere un agile stru-
mento operativo per individuare con precisione gli ostacoli alla parità di trattamento e
contribuire al loro superamento. Nel solo mese di ottobre 2007, 139 imprese si sono auto-
candidate a sperimentare la “certificazione” delle proprie buone prassi per la parità re-
tributiva, la conciliazione e il contenimento o superamento delle condizioni di precarietà.
Un altro tema cruciale nell’anno che sta per concludersi è stato quello dell’invecchiamento
attivo. Alla necessaria attenzione agli appuntamenti che l’agenda europea ha dettato sul
tema, in Italia si è sommato un arduo percorso concertativo per un’ulteriore revisione del
sistema pensionistico.
La concertazione e il dibattito connesso si sono focalizzati, pur nella articolazione del Pro-
tocollo, su previdenza, lavoro e competitività del quale in questo Rapporto si riferisce, su
un diverso posizionamento dell’età pensionabile. L’intento di base è quello di prolunga-
re la vita lavorativa salvaguardando al contempo i diritti (o le aspettative) acquisiti, la so-
stenibilità finanziaria del sistema previdenziale e, non ultima, un’equità generazionale che
non scarichi sui figli il costo dei privilegi dei padri, nell’ottica di una solidarietà interge-
nerazionale collettiva assai diversa dalla solidarietà circoscritta che in Italia è ampiamente
consolidata in seno alle famiglie.
Tuttavia appare evidente come per incentivare la partecipazione al lavoro degli over55 oc-
corrano anche come iniziative e provvedimenti mirati, posto che l’aggregato in questio-
ne è assai disomogeneo. Non sembra infatti che l’inattività della popolazione più adulta
sia dovuta, come nel caso dei giovani e delle donne, all’insoddisfazione per il tipo di oc-
cupazione svolto, che non riguarda più del 6%, mentre più del 31% di questa popolazione
non è attiva perché il lavoro l’ha perso. Esiste pertanto un bacino assai ampio su cui pos-
sono agire misure di attivazione e nel Rapporto se ne analizzano alcune sperimentate sia
in altri Paesi europei che in Regioni italiane.
Altro tema rilevante nell’anno è stato quello della sicurezza del lavoro e del lavoro irregola-
re, emergenze molto spesso associate. Su ambedue i versanti è stato adottato un ampio spet-
tro di provvedimenti sia di natura preventiva (quali le nuove norme sugli appalti e l’inten-
sificazione dei controlli) che di natura repressiva. Il drammatico fenomeno delle “morti bian-
che” mostra segni di attenuazione e la consistenza dell’extragettito fiscale pare testimonia-
re una tendenza all’emersione della produzione e perciò, anche, del lavoro non dichiarato.
Vittime non uniche, ma certo non secondarie di tali distorsioni, sono i lavoratori stra-
nieri, quasi 3 milioni che rappresentano il 5% della popolazione per la cui integrazione
l’Italia, come altri Paesi europei, è in cerca di linee guida.
rapporto isfol 2007
Politiche di coesione
La programmazione comunitaria per il periodo 2007-13 è diventata operativa a seguito
dell’accordo politico sul bilancio UE e quindi sulla dotazione dei Fondi strutturali. Dopo
un lungo e complesso processo di definizione, nel luglio 2007 è stato definitivamente ap-
provato anche per l’Italia il documento chiave per le politiche di coesione: il Quadro stra-
tegico di riferimento nazionale (QSN), che definisce l’articolazione dei Programmi ope-
rativi e delle risorse comunitarie disponibili (FESR e FSE).
Uno dei principali aspetti innovativi rispetto al passato sta proprio nell’impostazione di
un quadro strategico unitario; una scelta che ha imposto a tutti i soggetti coinvolti nel-
la programmazione l’assunzione di obiettivi comuni.
Dieci sono le priorità nazionali del QSN:
miglioramento e valorizzazione delle risorse umane
promozione e diffusione della ricerca e dell’innovazione per la competitività
energia e ambiente: uso sostenibile ed efficiente delle risorse per lo sviluppo
inclusione sociale e servizi per la qualità della vita e l’attrattività territoriale
valorizzazione delle risorse naturali e culturali
reti e collegamenti per la mobilità
competitività dei sistemi produttivi e occupazione
competitività e attrattività delle città e dei sistemi urbani
apertura internazionale e attrazione di investimenti, consumi e risorse
governance, capacità istituzionali e mercati concorrenziali ed efficaci.
Al raggiungimento di tali priorità saranno orientati i 19 Programmi operativi relativi al-
l’obiettivo Convergenza e i 33 Programmi dell’obiettivo Competitività regionale e occupazione.
Quanto al Fondo sociale europeo, la sua strategia continua a essere incentrata sulle risorse
umane. Il FSE finanzia 5 Programmi operativi regionali (POR) per l’obiettivo Conver-
genza e 16 per Competitività regionale e occupazione, per un totale di quasi 6 miliardi
di euro nel periodo 2007-13.
Gli interventi previsti dai POR FSE si svilupperanno nei seguenti ambiti (Assi):
adattabilità (formazione continua, organizzazione del lavoro, imprenditorialità)
occupabilità (politiche del lavoro)
Sezione 1
Europa
13
14
inclusione sociale (inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati)
capitale umano (politiche formative, ricerca)
transnazionalità e interregionalità
assistenza tecnica
capacità istituzionale (migliorare la governance, solo per l’obiettivo Convergenza).
Il FSE finanzia, inoltre, tre Programmi operativi nazionali per svolgere azioni di sistema:
uno a titolarità del Ministero dell’Istruzione (1.485 milioni di euro) e due del Ministero
del Lavoro (rispettivamente di 517 milioni di euro per l’obiettivo Convergenza e 72 mi-
lioni per quello Competitività regionale e occupazione).
La nuova programmazione del FSE ha tratto importanti insegnamenti dall’esperienza di
Equal, che si chiuderà definitivamente nel 2008. Gli aspetti più significativi dell’Iniziati-
va comunitaria sono stati: finanziare l’innovazione; lavorare in partenariato; l’approccio
del mainstreaming (diffondendo le prassi di successo); favorire la cooperazione transna-
zionale.
Politiche dell’istruzione e della formazione
Uno dei processi più significativi che sono stati intrapresi a livello europeo per attuare gli
obiettivi di Lisbona riguarda lo sviluppo della qualità all’interno dei sistemi dell’istruzione
e della formazione professionale. In tale ottica, grazie a un apposito gruppo tecnico è sta-
to elaborato il CQAF (Common Quality Assurance Framework), cioè un quadro di riferi-
mento che comprende un modello per assicurare la qualità, una metodologia per la va-
lutazione e un sistema di monitoraggio.
È stata poi costituita la Rete europea sulla qualità dell’istruzione e della formazione pro-
fessionale, alla quale aderiscono attualmente 25 Stati e di cui l’Italia ha la vicepresiden-
za. All’interno della Rete molti Paesi stanno costituendo dei National Reference Points, ov-
vero dei punti di collegamento tra le attività condotte a livello europeo e le iniziative na-
zionali di promozione e diffusione della qualità (in Italia, il punto di riferimento è pres-
so l’Isfol).
Infine, la Commissione europea ha avviato la procedura per emanare una Raccomandazione
sulla qualità (che dovrebbe essere ufficialmente varata nel 2008), con la quale gli Stati mem-
bri vengono sollecitati ad applicare il CQAF a partire dal 2009.
In Europa sono presenti circa sei milioni di giovani fra i 18 e i 24 anni prematuramente usci-
ti dal sistema scolastico (dropout). La Commissione europea chiede che questo numero sia
ridotto del 10% entro il 2010. Inoltre, circa quattro milioni di adulti dovrebbero aver ac-
cesso al lifelong learning, con un tasso di partecipazione che andrebbe portato al 12,5% sem-
pre entro il 2010. Per raggiungere tali obiettivi è essenziale accrescere la mobilità dei citta-
dini e realizzare un valido sistema di riconoscimento dei crediti formativi. La difficile tra-
sferibilità delle qualifiche risulta essere, infatti, uno dei principali ostacoli alla mobilità per
il 45% delle persone che si dichiarano pronte a partire.
Strumento fondamentale per facilitare la mobilità geografica e professionale è Europass,
il portafoglio di documenti (come il Curriculum Vitae) che facilita la leggibilità delle di-
rapporto isfol 2007
verse certificazioni nazionali. Sulla scorta dell’esperienza maturata dal Centro Naziona-
le Europass (NEC) in Italia - attivo presso l’Isfol - emerge con chiarezza come tale stru-
mento non possa da solo garantire uno stimolo decisivo alla mobilità. Il suo valore po-
trà essere notevolmente accresciuto nel contesto dell’European Qualification Framework
(EQF), la cornice europea delle qualificazioni per l’apprendimento lungo tutto l’arco del-
la vita; una partita importante che spinge il nostro Paese come gli altri Stati membri ad
accelerare il processo di costruzione del sistema nazionale delle qualificazioni.
Un altro sistema in via di definizione è poi l’European Credit System for Vocational Edu-
cation and Training (ECVET). Allo stato attuale, la proposta della Commissione europea
ha concluso la fase di consultazione avviata nell’ottobre 2006. L’Italia ha partecipato in-
viando lo scorso aprile una nota congiunta del Ministero del Lavoro e del Ministero del-
la Pubblica Istruzione, con un contributo tecnico elaborato con il Coordinamento delle
Regioni, delle Parti sociali e di molti altri soggetti.
Il Sistema Europeo dei Crediti Formativi si fonda sull’idea che ogni risultato di appren-
dimento costituisca un credito sfruttabile dal singolo in funzione dei propri obiettivi e
in questo rappresenta una sfida sia sul piano tecnico che su quello politico e sociale, riaf-
fermando la centralità attiva dell’individuo. Occorre ora trasformare in elemento stabi-
le le molte esperienze pratiche realizzate nel nostro Paese.
L’apprendimento permanente è stato in questi mesi un tema a cui le istituzioni comuni-
tarie hanno rivolto grande attenzione. Con la Decisione del 15 novembre 2006 Parlamento
e Consiglio hanno istituito il nuovo programma 2007-13, con lo scopo prioritario di ren-
dere pienamente integrate le politiche per l’istruzione, la formazione e l’occupazione.
In equilibrio tra continuità e innovazione, il programma sull’apprendimento permanen-
te rende evidente lo sforzo di valorizzare le passate esperienze, innanzitutto su tre fronti:
valutazione, semplificazione e complementarità. Viene quindi sottolineata la necessità di
ancorare le azioni a obiettivi concreti e misurabili, attivando processi di follow up, anche
per verificare il ritorno degli investimenti; si propone uno snellimento delle procedure am-
ministrative e gestionali; si chiede di garantire ampie sinergie con gli altri dispositivi.
Intanto, il Programma settoriale Leonardo da Vinci ha confermato nel 2007 le performance
in termini di reclutamento delle candidature del passato recente. Più di 100 candidatu-
re a valere sulla Misura del Trasferimento dell’Innovazione (TOI) e più di 200 progetti
di mobilità sono stati promossi e sottoposti al processo di selezione, consentendo il pie-
no assorbimento delle risorse disponibili (poco più di 21 milioni di euro per il 2007).
Gli obiettivi dell’Agenzia nazionale, costituita presso l’Isfol, sono stati pienamente rag-
giunti, attraverso l’approvazione di 35 progetti TOI e di circa la metà delle candidature
di mobilità, per un totale prevedibile di circa 3.500-3.800 borse di studio.
Politiche attive di inclusione e cittadinanza
Con una comunicazione del febbraio 2006, la Commissione europea ha definito un nuo-
vo quadro per il coordinamento aperto delle politiche di protezione sociale e di integra-
zione. Gli Stati membri sono stati invitati a promuovere un maggiore legame tra politi-
che di lotta all’esclusione e alla povertà, politiche previdenziali e politiche sanitarie. È sta-
15
sintesi
16
ta così lanciata una strategia per l’inclusione attiva, che richiede un giusto mix di misure
di sostegno al reddito, interventi per l’inserimento lavorativo e servizi socio-assistenziali.
Un ruolo centrale continua a essere attribuito al non profit. Il nuovo programma comu-
nitario Progress rappresenterà lo strumento principale di intervento mentre il FSE è il ca-
nale finanziario di riferimento.
La comunicazione ha dato il via a un’ampia consultazione. Nel documento presentato
dal nostro Paese particolare enfasi è stata posta, tra l’altro, al reddito minimo di inseri-
mento.
All’interno delle strategie generali per la coesione sociale, si va ultimamente diffonden-
do un nuovo mainstreaming: le politiche per la cittadinanza europea attiva. A tal fine, nel
2007 è stato lanciato il programma“Europa per i cittadini”, per promuovere la parteci-
pazione della società civile nel processo di integrazione europea. Per il periodo 2007-13
l’iniziativa avrà a disposizione 215 milioni di euro.
In stretta connessione con quest’ambito di attività si va poi configurando la nuova poli-
tica di comunicazione pubblica dell’Unione, con lo slogan “Verso il locale”. La filosofa emer-
gente, dunque, è quella che ritiene il livello locale il più adatto a realizzare incisive inno-
vazioni di governance.
Attualmente, l’informazione delle amministrazioni pubbliche sulle politiche di coesio-
ne risulta prevalentemente rivolta agli addetti ai lavori e incentrata sulle opportunità di
finanziamento. I nuovi Regolamenti dei Fondi strutturali richiedono invece di individuare
come target dei piani di comunicazione dei programmi non solo i beneficiari delle azio-
ni finanziate ma anche la totalità dei cittadini europei.
Politiche del lavoro
Nel corso dell’ultimo, anno il termine flexicurity (flessibilità più sicurezza) è diventato uno
dei simboli degli obiettivi politici dell’Unione europea in materia di impiego e sviluppo
economico. Nel Rapporto 2006 sull’occupazione, la flessicurezza viene indicata espres-
samente come la giusta risposta all’esigenza di migliorare la capacità di adeguamento dei
lavoratori e delle imprese.
Nel Rapporto gli Stati membri sono stati classificati sulla base di cinque modelli di fle-
xicurity sistems e l’Italia è stata inserita nel gruppo dei paesi dell’Est, con un livello di si-
curezza sociale molto basso se non totalmente assente, un livello di flessibilità medio-alto
e un livello di tassazione medio-basso.
La Commissione europea ha anche dato vita a un Gruppo di esperti che delinei la via per
raggiungere risultati concreti in materia. Il documento conclusivo del Gruppo indica la
flexicurity come un’opportunità storica per l’Europa, affinché possa ottenere efficienza
economica e contestualmente garantire alti livelli di sicurezza sociale.
Nell’ottica della flexicurity, la Commissione ha poi presentato un Libro Verde sulla mo-
dernizzazione del diritto del lavoro, mettendo in luce la progressiva crescita della flessi-
bilità per facilitare l’accesso al lavoro delle fasce più giovani e più svantaggiate, ma evi-
denziando al tempo stesso la possibilità che essa si trasformi in una trappola senza usci-
ta, caratterizzata da attività di breve durata e di bassa qualità. Di fatto, l’approccio fatto
rapporto isfol 2007
proprio dall’UE è quello del save the people not the jobs: i lavoratori sono più protetti da
un sistema di aiuti in caso di disoccupazione piuttosto che dalla legislazione sulla tutela
per l’impiego.
Infine, la Commissione ha pubblicato lo scorso giugno una comunicazione che defini-
sce i princìpi comuni della flexicurity e presenta quattro possibili percorsi tipici di attuazione
del modello.
Altro ambito su cui ha ormai preso corpo la strategia comunitaria è quello della salute e
la sicurezza sui luoghi di lavoro. Con la Decisione del 24 ottobre 2006 del Parlamento e
del Consiglio e una successiva comunicazione della Commissione, sono state delineate
le politiche di settore per i prossimi sei anni, con l’obiettivo di ridurre almeno del 25%
le malattie professionali e gli infortuni sul lavoro nell’Unione europea entro il 2012.
Tra le azioni previste: sostegno alle PMI nell’applicazione della legislazione in vigore; sem-
plificazione e adeguamento del quadro giuridico; sviluppo di strategie nazionali; formazione;
valutazione dei nuovi rischi; follow up dei progressi realizzati.
Pari opportunità
Nel marzo 2006 la Commissione europea ha presentato una tabella di marcia per la pa-
rità tra donne e uomini fino al 2010, al fine di migliorare la qualità della vita adottando
un approccio differenziato, in relazione all’appartenenza di genere. Nel luglio successi-
vo, il Parlamento e il Consiglio hanno emanato un’apposita Direttiva sulla parità con ri-
ferimento all’occupazione, insistendo sulla necessità di un cambiamento di approccio alla
tematica, che preveda una vasta azione pubblica, con il coinvolgimento di tutti gli atto-
ri economici e sociali, in un processo di innovazione e progresso culturale. In questo con-
testo, il 2007 è stato dichiarato “Anno europeo delle pari opportunità per tutti”.
Un notevole sostengo alle azioni per la parità giunge poi dalla nuova programmazione
dei Fondi strutturali, che ribadisce la necessità di rafforzare l’adozione del mainstreaming
per assicurare che tutte le politiche tengano conto del loro impatto in termini di genere.
17
sintesi
19
La partecipazione al sistema di istruzione e formazione
professionale
Uno sguardo d’insieme
L’impegno del nostro Paese nel migliorare i propri livelli di istruzione e qualificazione si
inserisce in un contesto più ampio, quello delineato a livello europeo dalla strategia di Li-
sbona, che ha fissato precisi risultati da conseguire entro il 2010.
È ormai evidente che non tutti gli obiettivi saranno raggiunti. Di certo, non sarà possi-
bile centrare quello di contenere la dispersione scolastica giovanile (18-24enni) al di sot-
to del 10%. Nonostante i progressi degli ultimi anni, il nostro Paese è in ritardo anche per
quel che riguarda il tasso di istruzione secondaria dei giovani (75,5%) e, ancor più, del-
la popolazione nel suo insieme. Solo il 51% della popolazione italiana possiede un tito-
lo di studio post-obbligo, contro il 70% della media europea.
Sezione 2
Formazione
2000 2006
Italia UE 27 Italia UE 27
Tasso di abbandono scolastico e formativo (a) 25,3 17,6 20,8 15,3
Tasso di istruzione secondaria superiore dei giovani (b) 69,4 76,6 75,5 77,8
Tasso di partecipazione ad attività di apprendimento permanente (c) 4,8 7,1 6,1 9,6
Conseguimento degli obiettivi di Lisbona in materia di istruzione e formazione
a) Tra i 18-24enni. Benchmark: entro il 2010 non oltre il 10%.
b) Tra i 20-24enni. Benchmark: entro il 2010 almeno l’85%.
c) Tra i 25-64enni. Benchmark: entro il 2010 almeno il 12,5%.
Fonte: Eurostat
20
L’Italia ha progressivamente incrementato la quota di coloro che terminano con succes-
so la scuola secondaria. La percentuale di maturi in rapporto alla media della popolazione
19-20enne ha raggiunto il 78% nel 2005-06, contro il 51,4% del 1990-91. Ma si mantie-
ne pressoché stabile la partecipazione alle attività di formazione professionale iniziale e
diminuisce quella alle attività di formazione regionale post-secondaria.
Nonostante la crescente scolarizzazione, la dispersione formativa dei minori di 18 anni
è ancora ampia. Tra i 14-17enni sono circa 113 mila gli esclusi dai canali formativi for-
mali, ai quali si aggiungono gli oltre 40 mila apprendisti minorenni che non svolgono le
attività formative previste dalla legge, per un totale di oltre 150 mila soggetti.
rapporto isfol 2007
v.a. %
A scuola 2.070.849 88,5
In formazione 108.083 4,6
In apprendistato 47.906 2,1
Fuori dai percorsi 113.172 4,8
Totale 2.340.010 100
Stato formativo dei giovani 14-17enni, 2005-06
Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Mpi, dati regionali, dati Istat
Per quel che riguarda le scuole secondarie superiori, l’intensità del fenomeno della dispersione
è evidenziata dal tasso di produttività: nell’anno scolastico 2005-06 solo il 71% degli iscrit-
ti al primo anno nel 2001-02 ha concluso positivamente il ciclo di studi; i maggiori pro-
blemi si notano negli istituti professionali (46,6%), rispetto ai licei (85,1%). I risultati con-
seguiti dalle ragazze sono migliori: il tasso di produttività femminile raggiunge com-
plessivamente il 76,9% contro il 65,4% di quello maschile.
Si conferma la crescita della propensione agli studi accademici dei giovani italiani. Nel 2006-
07 il 72,5% dei diplomati nell’anno scolastico precedente è entrato nell’istruzione uni-
versitaria (78,7% fra le donne). Il tasso di immatricolazione, tra i 19-20enni, ha raggiunto
il 56,6% (65,1% fra le donne). Complessivamente, la quota dei laureati tra chi ha un’età
non superiore ai 25 anni si è quadruplicata rispetto ai primi anni ’90.
Relativamente alla formazione continua offerta dalle imprese private, l’Italia si posizio-
na ancora agli ultimi posti in Europa, nonostante nel 2006 si sia verificato un leggero mi-
glioramento, portando la percentuale di aziende interessate dal 18,8% al 19,8%. È tutta-
via aumentato il divario tra le micro e le grandi aziende: nel 2006 l’incidenza delle im-
prese formatrici sul totale è rispettivamente del 16% e del 73% (con uno scarto del 56%).
Quanto alla forza lavoro, il suo tasso di istruzione risulta sempre molto basso: la percentuale
di chi ha almeno un titolo di scuola secondaria di II grado è pari al 59,2% (ma solo 15
anni fa era circa il 35%).
21
sintesi
1990-91 2000-01 2005-2006
Tasso di passaggio all’università 71,3 63,9 72,5
Immatricolati per 100 coetanei (19-20enni) 35,6 43,8 56,6
Laureati su popolazione 23enne (a) 2,5 2,5 24,7
Laureati su popolazione 25enne (b) 9,0 23,1 20,2
Il sistema universitario (%)
(a) Comprendono i laureati del I ciclo, i diplomati universitari e delle scuole dirette a fini speciali.
(b) Comprendono i laureati del II ciclo, vecchio ordinamento, lauree specialistiche a ciclo unico.
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat e Mur
1991 2001 2005 2006
Senza titolo e con licenza elementare 24,8 12,0 8,7 7,9
Con licenza media 40,1 36,0 33,3 32,9
Con titolo di studio di s.s.s. 28,0 40,1 43,6 44,2
Con titolo di istruzione universitaria 7,1 11,9 14,4 15,0
Livelli di istruzione della forza lavoro (%)
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat
Dati di dettaglio
Relativamente alla formazione professionale, l’ultima rilevazione Isfol segnala per il 2005-
06 poco più di 60 mila corsi realizzati, che hanno coinvolto quasi 700 mila allievi. Que-
sti ultimi sono molto più numerosi nel Nord Italia (476.588) rispetto al Centro (118.236)
e al Sud (102.378). Si tratta in prevalenza di adulti occupati (quasi 236.000), seguiti dai
giovani in formazione di I livello (125.500) e quelli in corsi di II livello e IFTS (quasi 89.000).
Complessivamente, la formazione professionale coinvolge il 2,8% della forza lavoro. Nel
bacino d’utenza rappresentato dai ragazzi 15-24enni in cerca di occupazione, è coinvolto
22
nella formazione per giovani il 37%; mentre nella formazione destinata ad adulti occupati
viene formato solo l’1,2% degli utenti potenziali (età superiore ai 25 anni).
rapporto isfol 2007
Formazione
giovani
Formazione
adulti
Formazione adulti
disoccupati
Totale
Nord 91,1 1,8 9,9 3,9
Centro 41,7 1,0 6,6 2,4
Sud 10,7 0,4 5,5 1,4
Totale 37,0 1,2 7,0 2,8
Allievi formati sul bacino d'utenza, 2005-06 (%)
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat e regionali
Nella scuola secondaria superiore continua nel 2005-06 l’incremento degli iscritti e si con-
solida il processo di “licealizzazione”. Per la prima volta il numero degli iscritti al primo
anno dei licei (oltre 200 mila su un totale di circa 590 mila) ha superato quello degli isti-
tuti tecnici, che nell’ultimo quindicennio hanno registrato una riduzione del 27%.
v.a. %
Variazione
sul 2000-01
Variazione
sul 2004-05
Ist. professionali 553.958 20,6 3,4 -0,1
Ist. tecnici 945.805 35,1 -3,8 -0,9
Licei 874.216 32,5 15,1 4,9
Istruzione magistrale 212.925 7,9 9,0 2,1
Istruzione artistica 104.809 3,9 8,8 1,9
Totale 2.691.713 100 4,7 1,4
Studenti iscritti alle scuole secondarie superiori, 2005-06
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Istat e Ministero della Pubblica Istruzione
Nell’università gli immatricolati nell’anno accademico 2006-07 sono 325.417, di cui 272.569
ai corsi di laurea di 1° livello. Questi ultimi subiscono un calo del 9,7%, con una forte in-
cidenza del gruppo giuridico, fenomeno giustificato dal contemporaneo avvio delle lau-
ree “magistrali”.
Complessivamente, gli iscritti all’università sono diventati 1.722.457, con una contrazione
del 2,4% rispetto all’anno precedente, che ha interrotto il trend positivo avviatosi a par-
tire dal 2000-01. È per la prima volta in calo il numero degli iscritti ai corsi di 1° livello
(-1,6%), mentre si consolida l’aumento relativo a quelli di laurea specialistica (+21,2%).
Tra i laureati continuano a prevalere le donne, che raggiungono il 57,3% nei corsi di 1° li-
vello. In forte crescita è poi il numero degli studenti che consegue una laurea specialistica.
23
sintesi
2006-07
Variazione
sul 2005-06
Gruppo scientifico 13,4 10,9
Gruppo medico 7,3 -19,9
Gruppo ingegneria-architettura 17,2 7,8
Gruppo agrario 2,3 1,8
Gruppo statistico-economico 16,4 -2,3
Gruppo politico-sociale 13,8 -8,3
Gruppo giuridico 2,3 -82,5
Gruppo letterario, linguistico e psico-pedagogico 25,2 3,5
Gruppo educazione fisica 1,9 9,5
Gruppo difesa e sicurezza 0,1 -16,2
Totale 100 -9,7
Immatricolati ai corsi di laurea di 1° livello
Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Mur
v.a. %
Variazione
% su 2005
Diploma universitario/Sdfs 810 0,3 -52
Laurea vecchio ordinamento 100.078 33,3 -30
Laurea di base (1° livello) 161.445 53,7 16,7
Laurea specialistica a ciclo unico 8.782 2,9 11,8
Laurea specialistica (2° livello) 29.620 9,8 183,3
Totale titoli conseguiti 300.735 100 -0,2
Titoli conseguiti all’università, 2006
Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Mur
24
Relativamente all’educazione permanente, si espande l'offerta dei Centri territoriali per-
manenti, in particolare quella dedicata agli stranieri (+1,9% dei corsi tra il 2004-05 e il
2005-06). I partecipanti alle attività di educazione degli adulti sono passati dalle 423.337
unità del 2004-05 alle 425.290 dell’anno successivo.
rapporto isfol 2007
2004-05 2005-06
Corsi del primo ciclo d’istruzione 2.894 2.790
Corsi per stranieri 3.484 4.070
Corsi brevi modulari di alfabetizzazione funzionale 13.533 13.901
Totale 19.911 20.761
Corsi dei CTP e corsi serali degli istituti di istruzione secondaria di II grado
Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Ministero della Pubblica Istruzione
Venendo alla formazione continua, tra gli occupati 15-64enni, circa il 6,6% ha frequen-
tato corsi nel 2006 (8,5% per le donne e 5,4% per gli uomini). In totale, si tratta di circa
un milione e mezzo di lavoratori, di cui circa 580 mila ha frequentato corsi scolastici e
circa 900 mila corsi di formazione professionale.
La partecipazione si riduce con l’aumentare dell’età anagrafica, già a partire dai 45 anni.
L’Indagine Isfol Indaco ha poi rilevato che i dipendenti pubblici presentano un tasso di
partecipazione doppio rispetto a quello di dipendenti privati e autonomi. L’istruzione rap-
presenta un’ulteriore discriminante: i tassi più elevati si hanno con i laureati.
Livello di istruzione %
Basso 18,0
Medio 30,6
Alto 60,8
Livello di inquadramento
Dirigente/Quadro 54,7
Impiegato 38,1
Operaio 16,4
Lavoratori dipendenti del settore privato che hanno partecipato ad almeno una attività di for-
mazione continua
Fonte: Isfol Indaco 2005
La spesa pubblica per la formazione professionale
Nel 2005 la spesa pubblica per l’istruzione-formazione è stata di quasi 64,3 miliardi di euro,
con un calo progressivo negli ultimi anni. Rispetto al 2004 si rileva una riduzione dello
0,6%. Tale somma corrisponde al 4,52% del PIL (contro il 4,65% dell’anno precedente)
e al 9,35% della spesa pubblica (contro il 9,7%).
Entrando nello specifico della formazione professionale regionale, i bilanci consuntivi del
2005 indicavano un ammontare di risorse disponibili pari a oltre 4,3 miliardi di euro; di
cui ne sono stati effettivamente impegnati 3,2 miliardi, con una capacità di impegno pari
al 74,4% (contro il 72,8% dell’anno precedente). La spesa effettiva è stata invece di circa
2,4 miliardi: 428 al Nord-Ovest, 734 al Nord-Est, 330 al Centro e 911 al Sud. Rispetto al
2004 si registra un calo della spesa dello 0,8%, dovuto quasi esclusivamente alle Regioni
centrali (-18,4%).
25
sintesi
2003 2004 2005
Nord-Ovest 64,1 62,7 61,1
Nord-Est 150,8 136,6 144,6
Centro 64,6 83,3 67,5
Sud 118,9 118,8 121,4
Italia 99,1 99,5 98,3
Spesa media per la formazione professionale per unità di forza lavoro (v.a. in euro)
Fonte: Elaborazioni Isfol su rendiconti regionali 2003-2005 e dati Istat
La capacità realizzativa delle diverse Regioni (riferita al triennio 2002-05), confrontan-
do quanta parte delle somme impegnate è stata effettivamente pagata, è pari al 78,5%, il
che significa che quasi un quarto delle risorse impegnate non giunge a buon fine. Il pri-
mato di efficienza spetta al Nord con un tasso di circa il 90%, mentre Sud e Centro ri-
portano valori decisamente più contenuti (rispettivamente il 73,6% e il 63,1%).
Gli strumenti finanziari di sostegno alla formazione continua non hanno mai beneficiato,
nel nostro Paese, di stanziamenti così cospicui come adesso avviene con i Fondi Parite-
tici Interprofessionali. Per le attività formative dei Fondi sono stati stanziati nel 2004-07
circa 459 milioni di euro.
26
In merito alla formazione continua a domanda individuale mediante voucher, un importante
banco di prova per la sua sperimentazione è rappresentato dalla Legge 236/1993: la Re-
gione Friuli Venezia Giulia è quella che a tale modalità ha destinato la maggior parte del-
le risorse 2006 (82%), seguita dal Veneto e dall’Emilia Romagna (50%) e dalla Toscana
(45%). Prevalentemente concentrati sulla domanda individuale sono poi gli interventi pre-
visti dalla Legge 53/2000. Al finanziamento dei voucher diverse Regioni hanno infatti de-
stinato buona parte delle risorse disponibili.
Si pone comunque da tempo un problema di integrazione tra questi strumenti finanziari
e gli interventi programmati dai Fondi Paritetici. Un’esigenza recepita dal Ministero del
Lavoro nell’ultimo provvedimento di riparto delle risorse della Legge 236/1993.
rapporto isfol 2007
Avvisi 2004 Avvisi 2005 Avvisi 2006 Avvisi 2007
Fon.Coop 2.533.963,87 3.474.829,00 4.428.276,83 13.195.312,11
Fon.Ter 1.000.000,00 11.844.423,52 13.585.465,34 5.650.245,15
Fondimpresa 48.077.400,00 9.200.000,00 35.960.000,00 46.900.000,00
Fondir 720.000,00 5.150.000,00 11.000.000,00 5.000.000,00
Fondirigenti 3.497.000,00 3.000.000,00
Fondo Art. Form. 4.257.420,00 15.464.843,00 8.830.288,00 9.541.000,00
Fondo Dir. PMI 133.740,00 150.000,00 266.945,50
Fondo Form. PMI 4.000.000,00 9.000.000,00 22.500.000,00 9.000.000,00
Fondoprofessioni 2.000.000,00 3.550.000,00 4.500.000,00
For.Te 19.000.000,00 2.835.908,76 60.068.600,00 58.731.000,00
Fond.Er 1.000.000,00
Totale 83.219.523,87 58.970.004,28 163.072.630,17 153.784.502,76
Risorse dei Fondi Paritetici per le attività formative (al settembre 2006)
N.B.: Gli stanziamenti qui riportati sono stati a volte integrati da risorse aggiuntive.
Politiche formative e caratteristiche della domanda e dell’offerta
I processi di riforma in atto
Nel corso del 2007 il sistema di istruzione e formazione italiano ha visto alcune innova-
zioni normative di non scarso rilievo, che dovrebbero incidere in modo significativo sul
suo assetto.
È stato innanzitutto introdotto l’innalzamento dell’obbligo d’istruzione fino a sedici anni
d’età con il conseguente elevamento di un anno dell’età minima per accedere all’inseri-
mento lavorativo. Una volta conseguita la licenza media, i giovani assolveranno l’obbli-
go frequentando la scuola secondaria di secondo grado o anche percorsi e progetti rea-
lizzati da strutture formative accreditate a livello nazionale. I diversi percorsi dovranno
tutti garantire il conseguimento di risultati minimi, espressi in termini di competenze chia-
ve relative ai saperi di base e di tipo sociale e culturale, individuati dal Regolamento ema-
nato dal Ministero della Pubblica Istruzione.
La Legge 40/2007 riordina l’intera istruzione tecnica e professionale nel nostro Paese. Gli
istituti tecnici e gli istituti professionali rientrano a pieno titolo negli ordinamenti della
istruzione secondaria di secondo grado: i primi ritornano al loro statuto originario e non
“subiranno” quindi il processo di licealizzazione annunciato; i secondi costituiranno un
percorso quinquennale d’istruzione professionalizzante e quindi non si conseguirà più
la qualifica statale al termine del terzo anno.
Nello stesso provvedimento si introducono i Poli tecnico-professionali, soggetti di natu-
ra consortile che realizzano un’offerta articolata, destinata a diverse tipologie di utenza.
La sfida è quella di improntare tale offerta in modo da favorire il trasferimento dell’in-
novazione e quindi la crescita della competitività dei territori.
Sul fronte della formazione post-secondaria, si prevede di introdurre una nuova offerta di for-
mazione tecnica superiore attraverso gli istituti tecnici superiori, che dovrebbero garantire mag-
giore stabilità e un più forte collegamento alle esigenze di sviluppo, ricerca e innovazione.
Per quanto riguarda la formazione continua, l’Accordo tripartito dell’aprile 2007 è espli-
citamente indirizzato alla definizione di nuove modalità di coordinamento tra la pro-
grammazione regionale e quella dei Fondi Paritetici Interprofessionali. Lo strumento ope-
rativo e di intesa tra i diversi soggetti è stato individuato nell’Osservatorio nazionale per
la formazione continua.
Ancora tra le nuove proposte il disegno di legge governativo sull’apprendimento permanente,
che per la prima volta traccia un percorso verso la costruzione di un sistema di appren-
dimento permanente come diritto della persona, senza vincoli di età, condizione socia-
le e collocazione occupazionale, evidenziando i temi chiave (orientamento lungo il cor-
so della vita, invecchiamento attivo, dispositivi di certificazione e validazione delle com-
petenze comunque e dovunque acquisite, ecc) per realizzare lo sviluppo di conoscenze e
competenze in favore dell’occupazione, occupabilità e inclusione sociale.
I sistemi regionali per il successo formativo
Nel corso dell’anno formativo 2005-06 il lavoro delle amministrazioni regionali e provin-
ciali è proseguito nella direzione di promuovere il successo formativo di tutti i giovani at-
27
sintesi
28
traverso il rafforzamento delle anagrafi, la promozione di azioni di orientamento, lo sviluppo
di attività di accompagnamento ad opera degli operatori dei Centri per l’Impiego.
In merito a queste ultime attività si riscontra una tenuta sia in termini di copertura del ser-
vizio, sia in termini di livelli dei servizi erogati. La percentuale di strutture che hanno atti-
vato servizi e funzioni relative all’obbligo formativo raggiungono l’84%, con una crescita
rispetto all’anno precedente del 7% e una variazione particolarmente positiva nel Mezzo-
giorno (+21%). I Centri che erogano servizi di accoglienza e informazione sono oltre il 76%;
l’orientamento è realizzato da quasi il 73%; mentre sensibilmente più bassa è la percentuale
di CPI che svolgono azioni di tutoraggio (64,4%), soprattutto al Sud (41%).
Uno dei problemi principali dei CPI continua a essere la scarsa disponibilità di risorse uma-
ne dedicate alle attività per i giovani in obbligo: circa 800 operatori a fronte di una disper-
sione di circa 113mila ragazzi. Lo scarto tra il numero di operatori e il livello della dispersione
scolastica è forse uno dei fattori in grado di spiegare perché l’impatto delle azioni messe in
campo nel corso di questi anni sia stato meno significativo di quanto si potesse sperare.
Per quanto riguarda l’offerta di istruzione e formazione professionale iniziale, essa si è an-
data strutturando secondo due direttrici: i percorsi sperimentali triennali di cui all’Ac-
cordo quadro del giugno 2003, sia pure con “varianti di composizione” all’interno del-
l’itinerario formativo secondo le diverse strategie regionali, e corsi al di fuori dell’Ac-
cordo. Sono, questi ultimi, corsi generalmente più brevi dei triennali, tradizionali o ad
esaurimento, oppure destinati a ragazzi appartenenti a categorie di svantaggio sociale ed
handicap. Quest’ultima offerta è andata progressivamente riducendosi negli ultimi anni.
Il totale degli allievi raggiunge nel 2005-06 un valore consistente, pari a 123.280. Circa
100 mila sono relativi ai percorsi ex Accordo, con una crescita nel 2006-07 rispetto all’anno
scolastico precedente pari al 14,7% (il Mezzogiorno segna però un -8,3%).
Apprendistato
Anche se il numero degli apprendisti continua a crescere, seppure di poco, arrivando a
sfiorare nel 2006 la cifra di 600 mila unità, il quadro dell’implementazione del D.Lgs. n.
276/2003 si presenta ancora a macchia di leopardo per quanto riguarda l’apprendistato
professionalizzante, mentre quello per l’espletamento del diritto-dovere rimane un isti-
tuto di fatto inesistente e l’apprendistato per il conseguimento di un diploma è oggetto
di sperimentazioni di portata alquanto limitata.
rapporto isfol 2007
2005 2006 2006/2005
Nord-Ovest 164.898 172.868 4,8%
Nord-Est 147.410 152.958 3,8%
Centro 126.767 137.196 8,2%
Sud e Isole 125.457 126.415 0,8%
Italia 564.532 589.437 4,4%
Occupazione in apprendistato
Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Inps
Relativamente all’apprendistato professionalizzante, l’ultimo monitoraggio realizzato dal-
l’Isfol ha messo a confronto le regolamentazioni regionali e le discipline contrattuali, evi-
denziando direttrici talvolta divergenti. È impensabile che convivano sul territorio mo-
delli così diversi ed emerge l’esigenza di omogeneizzazione, con un’azione più forte di re-
gia a livello centrale.
Va inoltre segnalato che oggi solo il 20,4% degli apprendisti riceve effettivamente una for-
mazione esterna (nel Mezzogiorno meno del 10%), spesso considerata di scarsa qualità,
poiché manca un sistema nazionale di standard.
Formazione permanente
L’Isfol ha analizzato le caratteristiche dell’offerta di formazione permanente predisposta
dalle Regioni nell’ambito della programmazione FSE 2000-06. I progetti (che durano in
media 5,3 mesi) sono prevalentemente rivolti al settore informatico (47,5% dei corsi), alle
lingue straniere e all’adeguamento delle competenze professionali. Solo il 3% circa del to-
tale delle attività realizzate ha riguardato azioni di assistenza a strutture e sistemi (come
la formazione dei formatori) o di accompagnamento (ad esempio pubblicizzazione del-
le attività svolte).
Per quanto riguarda le caratteristiche dell’utenza si conferma, purtroppo, l’estrema dif-
ficoltà di raggiungere le fasce più deboli della popolazione: i frequentanti sono ancora in
prevalenza soggetti di età compresa tra i 26 e i 40 anni, di cittadinanza italiana, in pos-
sesso di diploma di scuola superiore, occupati.
La Seconda Rilevazione ISFOL 2005 sulla domanda di formazione in Italia degli adulti
di età compresa tra i 25 e i 64 anni ha individuato il grado di partecipazione alle attività
formative nei percorsi formali, non formali ed informali, descrivendo inoltre i bisogni e
le aspettative espresse dalla popolazione adulta.
Nel corso del 2004 il 9,4% degli intervistati ha partecipato ad attività formative corsua-
li per interesse personale; considerando anche le attività di formazione non formali la quo-
ta di partecipanti raggiunge il 12%.
L’indagine ha rilevato un insieme di informazioni sulla fruizione da parte degli intervi-
stati di attività culturali e dei media. Nella settimana precedente l’indagine il 45% aveva
letto quotidiani ed il 28% libri. Inoltre nel corso dell’ultimo anno, uno o più volte: il 48%
degli intervistati era andato al cinema, il 31% era entrato in un museo, il 24% era anda-
to a concerti e l’11% aveva partecipato a dibattiti pubblici.
Tra quanti non hanno frequentato attività formative nel corso del 2004, poco più della
metà degli intervistati dichiara di essere interessato ad attività di formazione dirette a svi-
luppare interessi personali. Sono soprattutto gli occupati (58%) e le persone con un li-
vello d’istruzione più elevato gli adulti più propensi a svolgere attività di formazione per
approfondire interessi personali. Sarebbe inoltre necessario ai fini di una maggiore par-
tecipazione alla formazione flessibilizzare l’offerta rispetto ai tempi di erogazione e rimuovere
alcuni ostacoli al coinvolgimento degli utenti adulti. Tra i vincoli gli stessi intervistati han-
no indicato: la conciliazione con gli orari di lavoro; gli impegni familiari; la mancanza di
tempo in generale; i costi elevati dei corsi di formazione.
29
sintesi
30
Le imprese aderenti ai Fondi Paritetici sono oltre 400 mila, con un tasso di adesione medio
pari al 42,4%. Nell’82% dei casi si tratta di aziende piccole (1-9 lavoratori). Sotto il profilo
settoriale, emerge una buona penetrazione nel manifatturiero, nell’alberghiero e ristorazio-
ne e nelle costruzioni, ma in primo luogo negli “altri servizi” (sanità, servizi alla persona, ecc.).
Tra gli ultimi mesi del 2006 e i primi del 2007 la maggioranza dei Fondi Paritetici ha con-
cluso la fase di start-up, durante la quale sono stati finanziati 2.376 piani formativi, coin-
volgendo 18.543 imprese (il 4,2% delle adesioni totali ai Fondi) e 348.819 lavoratori (il
6,1% di quelli aderenti ai Fondi).
rapporto isfol 2007
Fondi Dipendenti
Fondo Formazione PMI 434.485
Fon.Ar.Com 65.523
Fondo Artigianato Formazione 865.714
Fon.Coop 300.131
Fondimpresa 2.386.494
For.Te 1.394.725
Fondo Professioni 121.966
Fond.E.R. 85.806
Fonter 320.664
Fondirigenti 63.670 (*)
Fondo Dirigenti PMI 1.418 (*)
Fondir 25.080 (*)
Totale 5.975.508
Lavoratori in forza presso le imprese aderenti ai Fondi Paritetici Interprofessionali (maggio
2007)
(*) Novembre 2006.
Fonte: Elaborazione Isfol su dati Inps
Infine, una larga parte degli intervistati ha segnalato il problema della scarsità dell'informa-
zione sull'offerta disponibile nel territorio.
Fondi Paritetici Interprofessionali
I Fondi Paritetici Interprofessionali raccolgono un'adesione crescente. Il numero dei la-
voratori in forza presso le imprese aderenti supera i 6 milioni, cioè più della metà dei di-
pendenti delle imprese private. La distribuzione territoriale registra un profondo sbi-
lanciamento tra il Nord e il Sud del Paese: tre Regioni (Lombardia, Emilia Romagna e Ve-
neto) raccolgono circa il 60% dei potenziali beneficiari.
I comportamenti formativi delle Piccole e Medie Imprese
Nell’ambito dell’Indagine Isfol Indaco-PMI è stato intervistato un campione rappresen-
tativo di circa 149 mila imprese con un organico tra i 10 e i 249 dipendenti: un quarto
ha offerto formazione di tipo corsuale nel corso del 2005. Si tratta nel 46% dei casi di im-
prese con più di 50 dipendenti, prevalentemente del settore credito e assicurazioni (77,5%)
e con una maggiore presenza nel Nord-Est (29,4%).
Le imprese formatrici sono in media quelle più dinamiche, con differenziali talvolta mol-
to elevati rispetto alla media nazionale: hanno più domande di brevetti (+2%), più re-
gistrazioni di marchi (2,2%), più aumenti di redditività (+8,7%) e di fatturato (+8,3%),
più certificazioni di qualità (+17,6%).
I cataloghi di offerta formativa
Negli ultimi anni si è verificata una progressiva creazione di cataloghi utilizzati per la for-
mazione a domanda individuale. Alla caratteristica comune del voucher come forma di
finanziamento si accompagna una diversificazione per quanto riguarda i destinatari e il
livello territoriale. In alcuni casi le Regioni hanno scelto che siano le stesse Province a de-
terminare le regole di creazione e gestione dei cataloghi.
La convinzione del legame stretto tra promozione della qualità e costruzione dei catalo-
ghi per l’offerta si sta ora diffondendo e dalle sperimentazioni regionali per la formazione
continua si è assistito a una loro estensione anche ad altri segmenti della formazione.
31
sintesi
32
L’orientamento e il riconoscimento dei percorsi formativi
Orientamento
Gli interventi di orientamento sono in crescita, ma il quadro complessivo risulta ancora
lontano dall’essere soddisfacente, con evidenti ricadute sui processi di scelta degli studenti.
Nel 2006 l’Isfol ha svolto due ricerche mirate sulla natura di tali processi, che conferma-
no entrambe quanto ancora forte sia il peso del livello socio-culturale delle famiglie di
origine.
rapporto isfol 2007
Livello culturale
Medio-basso Medio-alto Elevato
Liceo 37,9 62,8 86,6
Istituto tecnico 37,2 28,9 8,9
Istituto professionale 19,6 5,9 4,0
Formazione professionale 3,3 1,4 -
Altro 2,0 1,0 0,4
Tipo di scuola scelta dagli studenti di terza media per origini familiari (%)
Fonte: Indagine Isfol-Iard 2006
Continua a esistere una sorta di pre-determinazione nel futuro percorso scolastico e pro-
fessionale dei giovani, sulla base del titolo di studio dei genitori.
Titolo di studio dei genitori
Liceo Istituto tecnico Istituto professionale
Padre Madre Padre Madre Padre Madre
Laurea o superiore 32,2 27,8 9,1 7,3 5,1 5,4
Medie superiori 46,6 51,4 50,3 50,8 37,7 41,3
Medie inferiori 18,4 18,2 32,7 35,3 46,2 41,9
Elementari/Nessun titolo 1,0 1,8 4,5 4,6 9,2 8,9
Non risponde/Non sa 1,8 0,8 3,4 2,0 1,8 2,5
Iscritti al V anno delle scuole secondarie superiori per titolo di studio dei genitori (%)
Fonte: Indagine Isfol-Censis GN Research 2006
I principali veicoli di orientamento sono rappresentati dalla scuola e dall’università (40,3%).
Vi sono poi molti studenti che si attivano autonomamente; mentre la famiglia e gli ami-
ci sono indicati da poco più del 20% del campione interpellato. Minoritario è il nume-
ro di quanti si rivolgono ad agenzie operanti sul territorio (ad esempio gli sportelli In-
formagiovani), così come ai Centri per l’impiego, visitati appena dal 13% degli studen-
ti (nonostante siano ritenuti estremamente utili).
Oltre il 65% dei giovani non considera il diploma di scuola secondaria di II grado un ti-
tolo più che sufficiente per poter trovare lavoro, e circa il 90% si dichiara assolutamente
disponibile a sperimentare un periodo di stage oppure - in percentuale lievemente infe-
riore - un contratto di apprendistato.
Ma la conoscenza dell’offerta formativa disponibile risulta decisamente scarsa. Un terzo
degli studenti delle medie e un quarto delle loro madri affermano di non sapere nulla del-
la formazione professionale. Per quel che riguarda la formazione professionale post-se-
condaria, più della metà degli intervistati dichiara di non avere informazioni sui corsi IFTS
e circa il 60% non ha un’idea chiara di cosa sia l’offerta di formazione professionale di II
livello.
Riconoscimento dei percorsi formativi
Coerentemente con le indicazioni emerse a livello europeo in tema di European Qualifi-
cations Framework (EQF), nel nostro Paese si è andata via via rafforzando l’idea che lo svi-
luppo di un framework nazionale di riferimento per i sistemi educazione-formazione-
lavoro rappresenti una priorità da perseguire. In tale ottica, nel settembre 2006 il Mini-
stero del Lavoro ha promosso la costituzione di un Tavolo unico con Regioni, Parti so-
ciali e Ministero dell’Università e della Ricerca per definire un Quadro nazionale di stan-
dard e certificazione, in cui siano distinti gli standard professionali, quelli formativi e quel-
li relativi ai processi di riconoscimento e certificazione, anche sulla scorta dei criteri pro-
mossi in sede europea (come, ad esempio, il sistema ECVET di accumulazione e trasfe-
rimento dei crediti).
Sul piano operativo, nel corso del 2007 è stata svolta una prima ricognizione delle pras-
si nel settore, che ha censito una trentina di repertori in cui vengono descritti circa 1.700
profili professionali.
Il D.Lgs. n. 276/2003 ha avviato il percorso di definizione del Libretto Formativo del Cit-
tadino, il cui modello è stato approvato nel 2005. Si è poi svolta una fase di sperimenta-
zione alla quale hanno aderito, nel biennio 2006-07, 13 Regioni e Province autonome.
Il Libretto Formativo rappresenta oggi l’unico strumento longitudinale istituzionale di
trasparenza delle competenze presente a livello nazionale e le sue potenzialità sono sta-
te riconosciute in tutti i contesti della sperimentazione. Tuttavia, per dispiegare comple-
tamente tali potenzialità, appare fondamentale rivederne alcuni aspetti relativi al suo ri-
lascio e utilizzo, nonché alla validazione delle competenze in esso riportate.
33
sintesi
La qualità e i risultati del sistema di formazione professionale
I modelli di qualità dei Centri di formazione professionale
La verifica e lo sviluppo della qualità dell’offerta formativa sta diventando una questio-
ne sempre più centrale nelle politiche per la formazione professionale.
L’Isfol ha recentemente concluso una ricerca sul campo nella quale sono state rilevate le
opinioni di un campione significativo di soggetti operanti nel settore. I dati mostrano come
il rapporto dei Centri di formazione professionale con l’approccio alla qualità sia una re-
altà complessa e diversificata. La certificazione secondo le norme ISO è la pratica di gran
lunga più adottata, con un incremento significativo del 25% di Centri che adottano que-
sto approccio rispetto a una precedente rilevazione pubblicata nel 2004. Nel Nord la cer-
tificazione è diffusa nella quasi totalità dei Centri di formazione; nel Centro Italia e nel
Mezzogiorno si è comunque riscontrato un forte recupero del ritardo degli anni scorsi.
34
rapporto isfol 2007
Sì, classe ISO 9000 57,9
Sì, EFQM 0,1
Sì, altro 6,5
No, ma sono in corso procedure 23,1
No 12,3
Sedi operative per tipo di certificazione (%)
Fonte: Ricerca Isfol-Enaip
Rispetto alla questione centrale dell’impatto sulle pratiche pedagogico-didattiche, si è cer-
cato di verificarlo sulla base del tempo complessivo che le sedi dedicano ad affrontare pro-
blematiche inerenti alla qualità dei processi formativi. La durata si distribuisce secondo una
gerarchia interessante: al primo posto si situano problematiche di carattere valutativo sul-
la qualità dei risultati (37,7%), al secondo le tematiche relative alle modalità di insegna-
mento (34,5%) e al terzo le questioni di ordine organizzativo (27,8%). La gestione dei si-
stemi di qualità non sembra, dunque, aver sviluppato nei formatori la consapevolezza del-
l’importanza della dimensione organizzativa. In definitiva, i formatori sono maggiormente
predisposti a confrontarsi sulle conclusioni dei processi piuttosto che sui processi stessi.
L’accreditamento
L’accreditamento rappresenta uno dei principali meccanismi di garanzia della qualità del-
le sedi formative. Queste sono 8.454 nel 2007 (a fronte delle 9.449 del 2006), maggior-
mente concentrate nel Centro Nord (5.574).
Le macrotipologie principali oggetto di accreditamento sono state la formazione supe-
riore (nell’81% dei casi) e la formazione continua (74%), mentre le sedi accreditate per
l’obbligo formativo (36%) tendono a flettere in modo significativo.
35
sintesi
Da segnalare la volontà evidenziata nel 2006 dal Ministero del Lavoro e il Coordinamento
delle Regioni e Province autonome di pervenire a una rivisitazione del D.M. 166/2001,
con la definizione di un nuovo sistema di accreditamento. In tale ottica, è stato costitui-
to un gruppo tecnico, che ha presentato una proposta ad hoc, e poi un tavolo istituzio-
nale per esaminare la proposta stessa. I princìpi di fondo sono il lifelong learning, la cen-
tralità dell’audit, la semplificazione, la sinergia nei controlli.
I formatori
Si registra una situazione di sostanziale stallo nel dibattito sulla regolamentazione dei pro-
fili degli operatori del sistema formativo.
I dati più recenti di monitoraggio mettono in luce come nel nuovo sistema di formazio-
ne professionale accreditata stia procedendo un significativo ricambio generazionale, che
ha determinato un rallentamento del processo di invecchiamento dei formatori (età me-
dia di 43 anni). Vi è poi la novità del sorpasso della componente femminile (53,2%) e di
una crescente incidenza dei laureati (60,7% contro il 39,9% del 2004).
Il 60% circa dei formatori dichiara di aver fruito di una qualche opportunità di forma-
zione in servizio, soprattutto nelle Regioni settentrionali.
Totale Maschi Femmine
Obbligo, qualifica 3,5 5,0 2,2
Diploma 35,8 40,3 32,1
Laurea 60,7 54,7 65,7
Livelli di istruzione dei formatori della FP in Italia, anno 2006 (%)
Fonte: Isfol
La valutazione degli utenti della Formazione Professionale Iniziale
L’Isfol ha realizzato un’indagine su un campione di allievi in uscita dalla Formazione Pro-
fessionale Iniziale (FPI). Riguardo alla valutazione del proprio percorso formativo, il rap-
porto degli allievi con docenti e compagni di classe risulta complessivamente buono.
36
Due allievi su tre se tornassero indietro rifarebbero la stessa scelta della FPI, circa l’8%
andrebbe a lavorare e il 13,5% si iscriverebbe a scuola, con un tasso di indecisi di circa il
13%.
Dalla domanda sui “desiderata”, le proposte più frequenti riguardano un maggior utiliz-
zo dei laboratori e più cura nella preparazione degli stage. Emergono poi carenze riferi-
bili agli ambienti e agli strumenti didattici (circa il 40% del campione).
Gli esiti occupazionali dei percorsi formativi
Un indicatore cruciale della qualità dei percorsi formativi consiste nella loro capacità di
garantire l’occupabilità di coloro che li frequentano. A questo riguardo l’Isfol ha svolto
un’indagine sugli esiti degli interventi finanziati dalle Regioni del Mezzogiorno tramite
il Fondo sociale europeo (2003-04).
I destinatari sono per due terzi donne, in prevalenza di età compresa tra i 20 e i 34 anni
e in possesso di diploma di scuola secondaria superiore. Circa la metà è costituita da per-
sone che si dichiarano essere disoccupate di lunga durata. Si tratta dunque di persone che
hanno già sperimentato difficoltà di inserimento di lavoro e che ripongono forti aspet-
tative nei confronti degli interventi formativi. Ebbene, i giudizi espressi al momento del-
l’intervista mostrano come tali aspettative, a posteriori, siano state in buona parte disat-
tese. Infatti, pur valutando molto favorevolmente sia il corso che lo stage, sia i docenti che
i tutor, i partecipanti esprimono opinioni negative sull’utilità dell’intervento ai fini del-
l’occupazione e sull’assistenza post attività. D’altro canto, a distanza di dodici mesi dal-
la conclusione degli interventi solo uno su cinque dei destinatari coinvolti dichiara di es-
sere occupato.
rapporto isfol 2007
85,6
74
82
80
75,4
56,5
63
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90
I compagni di classe
I compagni del CFP
I docenti
Il tutor formativo
Il tutor di stage
Il Direttore
Il personale di segreteria
Il rapporto degli allievi della FPI con le figure presenti nell’agenzia formativa
(% di molto/abbastanza positivo)
Fonte: Indagine Isfol-Iard 2006
Una seconda area di approfondimento riguarda i corsi di Istruzione e formazione tecni-
ca superiore (IFTS), sui quali l’Isfol svolge indagini campionarie annuali. Dopo dodici
mesi dalla conclusione dei corsi, la percentuale degli occupati risulta in questo caso im-
portante (60,4%). La nuova occupazione, esclusi cioè gli adulti già occupati, ha interes-
sato complessivamente il 46,6% dell’intero campione.
37
sintesi
Nord-
Ovest
Nord-
Est
Centro
Sud e
Isole
Totale
In cerca di prima occupazione 3,2 - 4,6 27,0 12,8
Liste di mobilità/cassa integrazione guadagni 0,5 - 1,3 - 0,3
Disoccupato 13,7 12,0 14,5 22,7 17,3
Occupato 75,8 77,3 65,8 40,9 60,4
Non in cerca di occupazione 6,7 10,7 13,8 9,4 9,2
Condizione occupazionale degli ex corsisti IFTS, annualità 2002-03 (%)
Fonte: Indagine Isfol 2006
Mettendo a confronto la condizione occupazionale dichiarata prima e dopo l’interven-
to formativo, appare tuttavia preoccupante che tra coloro che si dichiaravano in cerca di
prima occupazione più di uno su 3 (il 37,3%) continui a dichiararsi tale. Inoltre, permane
nella stessa condizione il 39,8% dei corsisti disoccupati. Ciò fa presupporre la fragilità del-
le misure di accompagnamento al lavoro e al tempo stesso una pericolosa cristallizzazione
delle difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro.
Il conseguimento di un titolo di studio elevato sembra giocare ancora un ruolo impor-
tante per velocizzare i processi di transizione: la percentuale più elevata di occupati dopo
il corso si riscontra tra coloro che sono in possesso di titoli universitari. In generale, i cor-
si IFTS appaiono maggiormente efficaci per coloro che sono in possesso di quelle carat-
teristiche che nel mercato del lavoro conducono in ogni caso a un più agevole inserimento
lavorativo.
Venendo agli esiti occupazionali dei corsi di alta formazione, finanziati nel Mezzogior-
no dal Programma operativo nazionale “Ricerca, sviluppo tecnologico e alta formazio-
ne”, a sei mesi dalla loro conclusione, i formati tramite dottorato fanno registrare un tas-
so occupazionale del 67,1%, molto superiore a quello dei laureati meridionali (41,1% a
dodici mesi dalla laurea). Il dottorato risulta essere non solo il primo passo verso la car-
riera universitaria, ma anche un canale di ingresso privilegiato nel settore pubblico, men-
tre è scarsa - a differenza dei master - l’occupazione nel settore privato.
38
rapporto isfol 2007
Condizione occupazionale Dottorati Master
Occupato 67,1 43,3
Disoccupato 6,9 9,3
In cerca di prima occupazione 13,1 32,3
Doveva iniziare un’attività in futuro 2,8 1,0
Studente 7,7 9,7
Tirocinante non retribuito 1,8 3,9
Altro inattivo (casalinga, inabile al lavoro) 0,4 0,5
Esiti occupazionali dell’alta formazione a sei mesi dalla conclusione dei corsi
Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Miur
Mercato del lavoro
Andamenti dell’occupazione
Il livello dell’occupazione registrato nel 2006 rappresenta un massimo storico nel nostro
Paese, sia in termini assoluti (quasi 23 milioni di occupati) che in relazione al tasso an-
nuale di crescita (poco meno del 2%). Una tendenza che appare confermata, seppure a
ritmi più lenti, anche nei primi due trimestri del 2007.
Se nel biennio 2004-05 l’aumento occupazionale è dipeso in buona parte dalla regolarizza-
zione del lavoro immigrato, esso sembra ora assumere un carattere strutturale, inauguran-
do una fase nuova. A fronte di una ripresa sostenuta della crescita economica, si registra una
più elevata velocità di reazione della domanda di lavoro al ciclo economico, lasciando intravedere
una progressiva erosione di alcuni elementi di rigidità del mercato del lavoro italiano.
Al tempo stesso, l’incremento contestuale di occupazione e PIL indica come l’Italia con-
fermi nel 2006 la sostanziale stagnazione dei due anni precedenti sul piano della produttività
del lavoro; non solo perché la crescita ha privilegiato comparti a bassa produttività, come
i servizi alle famiglie, ma anche probabilmente per l’emersione di lavoro sommerso, che
provoca un’apparente diminuzione della produttività stessa. Infine, il riassetto delle for-
me contrattuali e la maggiore flessibilità ha comportato un abbassamento del costo del
lavoro e, conseguentemente, si è registrato un aumento della domanda di lavoro rivolta
a segmenti marginali dell’offerta, caratterizzati da produttività più bassa.
Sotto il profilo settoriale, è ai servizi che si deve quasi interamente la crescita occupaziona-
le del 2006, invertendo la tendenza al rallentamento degli anni precedenti. Dal punto di vi-
sta territoriale, si profila una ripresa del Mezzogiorno, dopo la serie negativa avviata nel 2003.
La metà dei nuovi posti di lavoro è a termine (+9,7% rispetto al 2005). Si sta dunque ra-
pidamente modificando la composizione dell’occupazione dipendente, dove la compo-
nente permanente perde progressivamente peso al ritmo di un punto percentuale a bien-
nio. Il contratto di lavoro a tempo determinato è generalmente diffuso tra i giovani e le
donne. A riguardo, permangono le perplessità sui rischi di precarizzazione che tali for-
me di lavoro comportano. Si è infatti registrata negli anni recenti una flessione delle tra-
Sezione 3
Lavoro
39
40
sformazioni di contratti a termine in occupazione stabile e una parallela diminuzione del-
la durata media dei rapporti di lavoro. Inoltre, si segnala la permanenza di una quota non
trascurabile di occupati a tempo determinato in età centrali.
A ciò si aggiunge l’aumento delle altre forme di lavoro non standard: +7,2% per i con-
tratti di collaborazione a progetto; +15,5% delle prestazioni autonome occasionali. Com-
plessivamente, le forme di lavoro parasubordinato rappresentano poco meno del 10% del-
la crescita occupazionale del 2006.
La disoccupazione in Italia ha raggiunto il valore più basso dell’ultimo ventennio (il 6%
nel periodo aprile-giugno 2007). Il trend procede costantemente da quasi un decennio,
ma nell’ultimo anno sembra assumere caratteri di discontinuità con il passato recente.
In primo luogo, la flessione avviene al pari dell’incremento dell’occupazione, contestualmente
a una robusta ripresa della crescita, tanto da ipotizzare l’avvio di una fase di sviluppo re-
lativamente stabile. Inoltre, il 2006 fa registrare una diminuzione della disoccupazione di
lunga durata pari a oltre tre volte quella registrata nell’anno precedente. E il tasso di di-
soccupazione giovanile subisce una decisa flessione (-2,4%) rispetto al 2005, interrom-
pendo la tendenza costante all’aumento del periodo 2002-04.
Buona parte della diminuzione della disoccupazione è comunque legato a un incremento
del tasso di attività inferiore a quello del tasso di occupazione. In sostanza, durante la pri-
ma metà degli anni Duemila sì è protratto un effetto di scoraggiamento che ha ridotto
la partecipazione al mercato del lavoro. È questo uno tra i problemi strutturali più allar-
manti per il nostro Paese: il tasso di partecipazione della popolazione in età attiva (15-
64 anni) risulta inferiore di oltre 9 punti percentuali alla media dei paesi europei più avan-
zati (62,7% a fronte del 72% dell’UE15).
Le cause sono molteplici: dall’aumento della scolarizzazione, al contenimento della cre-
scita nel salario di ingresso, alle scarse prospettive di stabilità occupazionale dei giovani
(solo il 45% dei 15-24enni accede al mercato del lavoro con un contratto standard).
Le direzioni del cambiamento
Lo scenario di medio termine predisposto dall’Isfol in merito all’evoluzione della domanda
di lavoro in Italia indica anche per i prossimi anni una dinamica occupazionale consistente,
ancorché meno esuberante rispetto al recente passato, e un quadro generalmente favo-
revole per il mercato del lavoro.
Nel 2009 si stima che ci saranno circa 25,37 milioni di occupati, con un incremento me-
dio annuo dello 0,8%, cui corrisponde una creazione netta di 205 mila posti di lavoro al-
l’anno. Prosegue il trend di crescita del peso dell’occupazione nei servizi. Al loro interno
si ribadisce, però, la peculiarità italiana di una quota contenuta, e peraltro in ulteriore con-
trazione, nei settori dei servizi non vendibili. Ne risulta che gli incrementi sono tutti con-
centrati nei settori dei servizi vendibili.
Un’altra peculiarità italiana degli ultimi anni consiste nel fatto che, nonostante la crisi di
competitività della nostra industria, restiamo fondamentalmente un Paese con una for-
te base occupazionale industriale.
rapporto isfol 2007
Relativamente alle professioni, si osserva una polarizzazione che vede quelle altamente
qualificate e quelle non qualificate crescere con un tasso oltre la media (superando il 4%).
41
sintesi
1995 2000 2006 2009
Agricoltura 1.316 1.103 1.015 964
Industria in senso stretto 5.273 5.190 5.167 5.148
Costruzioni 1.481 1.554 1.862 1.854
Servizi 13.771 15.084 16.711 17.395
di cui:
Servizi vendibili* 8.569 9.673 10.987 11.583
Servizi non vendibili** 5.202 5.410 5.724 5.812
L’occupazione per settore: valori assoluti (in migliaia)
* Commercio, alberghi e ristoranti, trasporti, intermediazione finanziaria, attività immobiliari e servizi alle
imprese.
** Servizi generali della P.A. e assicurazione sociale obbligatoria, istruzione, sanità, altri servizi pubblici
sociali e personali.
Fonte: Isfol-Ref
v.a. %
Legislatori, dirigenti, imprenditori 9.168 0,85%
Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione 96.216 4,07%
Professioni tecniche 123.41 2,71%
Impiegati 53.811 2,06%
Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi 157.008 4,09%
Artigiani, operai specializzati, agricoltori -85.779 -1,95%
Conduttori di impianti e addetti a macchinari fissi e mobili -11.959 -0,58%
Professioni non qualificate 139.550 4,51%
Previsioni dell’occupazione per gruppi professionali, variazioni 2005-09
Fonte: Isfol-Irs
Le previsioni mostrano che per la maggioranza delle professioni la domanda futura sarà
costituita oltre il 90% da domanda sostitutiva. Fanno eccezione il lavoro intellettuale
(matematici, ingegneri, scienze umane, ecc.) e i professionisti nel settore della finanza
e del commercio, per i quali la domanda aggiuntiva incide tra il 30% e il 60% su quel-
la totale.
42
L’occupazione al femminile
Partecipazione
La partecipazione delle donne al mercato del lavoro è ancora in stand by. La strategia di
Lisbona impone il raggiungimento del 60% come tasso di occupazione femminile nel 2010.
L’Italia, dove tale tasso si attesta nel 2006 al 46,3% (contro il 70,7% maschile), ha già am-
piamente disatteso anche l’obiettivo intermedio fissato al 57% per il 2005.
Il triennio 2003-05 è stato un periodo nero per l’occupazione femminile. Il numero del-
le donne inattive in età lavorativa è cresciuto di quasi 300 mila unità, con la conseguen-
za che, per la prima volta in dieci anni, il tasso di attività è sceso dal 62,9% al 62,4%.
Il 2006 ha segnato un’inversione di tendenza, poiché è ripreso il trend di riduzione del gap
rispetto agli uomini, seppur assai debolmente, e sono migliorati i macro-indicatori del
mercato del lavoro. Tuttavia, vi sono anche segnali in chiaro-scuro: nel 2006 solo il 36,7%
delle nuove occupate è stata assunta con un contratto a tempo indeterminato e rispetto
all’anno precedente crescono invece gli accessi mediante lavoro a termine (36,2%) e a pro-
getto (6,4%).
Permangono, inoltre, i forti squilibri territoriali, con tassi di disoccupazione femminile
nel Mezzogiorno tripli rispetto a quelli del Nord e un tasso di attività in calo nelle Regioni
del Sud, segno del perdurante fenomeno dello scoraggiamento.
rapporto isfol 2007
2004-05 2005-06
Occupato dipendente permanente 41,4 36,7
Occupato dipendente a termine 33,0 36,2
Occupato autonomo collaboratore continuativo 5,9 6,4
Occupato autonomo collaboratore occasionale 2,7 3,3
Occupato altro autonomo 17,0 17,4
Ingressi delle donne nell’occupazione (%)
Fonte: Panel Isfol su indagine Istat-Rcfl 2004-06
Nel 2006 in seguito alla maternità ben una donna su nove esce dal mercato del lavoro. In due
terzi dei casi ciò è dovuto a esigenze di cura e assistenza alla prole e per un terzo a motiva-
zioni circa la tenuta contrattuale. La maternità continua a essere uno dei fattori più difficili
da gestire per le organizzazioni, oltre che una fonte di pratiche discriminatorie. Il tema del-
la conciliazione dei tempi di lavoro ed extra lavorativi rappresenta, quindi, un fattore deter-
minante per la partecipazione femminile.
La percezione delle difficoltà vissute dalle donne nel tentativo di conciliare vita e lavoro
è stata oggetto di analisi - nell’ambito dell’indagine Isfol Plus - in riferimento a tre dimensioni:
l’assistenza a parenti o conoscenti bisognosi, la cura dei figli, le attività domestiche. Le pri-
me due, e in particolare la cura di anziani, appaiono le sfere più problematiche.
Divario retributivo
Il divario retributivo tra uomini e donne è uno dei maggiori ostacoli alla parità di trat-
tamento statuita nella nostra Carta costituzionale, sia per le disparità a pari inquadramento
e mansioni, sia per la discriminazione all’accesso a posizioni meglio retribuite, anche a
pari professionalità, istruzione ed esperienza lavorativa.
Se ci si riferisce al monte salari annuo, l’Istat individua un gap di genere di circa il 25%-
22% per i lavoratori dipendenti e il 27% per quelli autonomi. Il differenziale retributivo
medio a parità di contratto e di inquadramento viene invece misurato dall’Isfol pari al 15,8%.
43
sintesi
0 10 20 30 40 50 60
cura dei figli
cura parenti/conoscenti
attività domestiche
Totalmente Abbastanza Poco Per nulla
In che misura riesce a conciliare la Sua attività lavorativa con…
Fonte: Isfol Plus, 2006
Anno Differenziale
1998 -18,5%
1999 -16,8%
2000 -16,7%
2001 -16,1%
2002 -15,8%
Differenziale retributivo donne/uomini, a parità di CCNL e livello di inquadramento
Fonte: Panel Isfol su dati Inps
44
Le donne risultano fortemente penalizzate rispetto agli uomini pur avendo acquisito le
medesime competenze scolastiche. Nel 2004 una laureata guadagnava il 14,5% in meno
di un suo collega di studi, una diplomata il 7,8%. Il divario torna ad ampliarsi tra i tito-
lari di licenza media (11,8%) e i meno scolarizzati (14,5%).
È opinione diffusa che le ragazze siano portatrici di lauree “deboli” rispetto ai titoli ma-
schili e che ciò determini il gap retributivo. In realtà anche disaggregando il dato rispet-
to ai gruppi di laurea permane sempre un sensibile divario, che sfiora il 30% quando il
gruppo considerato è quello delle discipline socio-economiche.
Condizioni di lavoro
Il 58,6% delle lavoratrici coinvolte nell’indagine Isfol sulla qualità del lavoro dichiara di
non aver mai cambiato occupazione nel corso della propria vita professionale (contro poco
meno del 50% degli uomini). Spesso precarie (una donna su quattro ha un contratto a ter-
mine), le donne sono anche esposte a maggiore intensità produttiva, con ritmi di lavoro
permanentemente elevati per il 36,4% delle occupate (contro il 33,4% degli uomini).
In compenso, le donne sembrano più capaci di governare il proprio contesto lavorativo.
Non a caso, la grande maggioranza ritiene di possedere capacità professionali “adegua-
te” rispetto al lavoro svolto (l’80,8% contro poco meno del 75% registrato tra gli uomi-
ni). Ciò nonostante, risultano molto accentuate le loro preoccupazioni in merito alle op-
portunità di mobilità ascendente: il 62,5% si dice insoddisfatto del percorso di carriera
effettuato (contro il 53,3% degli uomini) e il 67,5% esprime pessimismo e sfiducia riguardo
alle prospettive future (contro il 55,8% di colleghi).
È anche nettamente più ridotta la quota di donne cui sono affidate responsabilità di co-
ordinamento o direzione: rappresentano poco meno del 22% sul totale delle occupate a
fronte del 38,5% di uomini. La massima concentrazione femminile si ha nelle classi di red-
dito più basse: più del 75% fra le occupate guadagna infatti meno di 1.250 euro al mese
(tra gli uomini il 46,4%).
Tra le cause delle maggiori difficoltà di carriera vi è la diversa durata degli orari di lavo-
ro, meno estesi che per gli uomini (mediamente di otto ore effettive la settimana). Ma quel-
li delle donne sono anche orari meno flessibili: le lavoratrici che indicano vincoli rigidi
per l’entrata al lavoro sono oltre il 10% in più degli uomini. Il part-time femminile (vo-
lontario in quasi il 70% dei casi) è quindi, probabilmente, una risposta adattiva alla man-
cata possibilità di contemperare le rigidità dell’orario di lavoro con le esigenze extra-pro-
fessionali.
Il genere si conferma tra i più rilevanti fattori discriminanti nel mondo del lavoro. Sono
principalmente le donne a segnalare disparità legate al sesso: 8,7% nel 2006 (rispetto al
7,3% della precedente rilevazione).
rapporto isfol 2007
Invecchiamento attivo
Over 55
Il tasso di occupazione di chi ha tra i 55 e i 64 anni è arrivato nel 2006 al 32,5%, con un
aumento di 4 punti percentuali in un decennio (ma nell’UE è mediamente dell’8,4%), qua-
si per intero guadagnati a partire dal 2001 e da imputarsi alla crescita della componente
femminile.
Le caratteristiche degli occupati 55-64enni riguardo all’istruzione si differenziano da quel-
le delle generazioni più giovani per più bassi livelli formali conseguiti; circa la metà pos-
siede solamente la licenza elementare o media, e poco più di un quinto, vale a dire meno
di 400 mila individui, ha raggiunto la laurea.
Dai dati dell’indagine Isfol Plus risulta che ancora circa il 20% degli italiani percepisce una
pensione ottenuta prima del compimento dei 50 anni di età. Tra le cause della non oc-
cupazione, per gli over 50 i motivi lavorativi prevalgono di gran lunga rispetto a quelli
personali. Il ritiro dal lavoro rimane comunque il fattore prevalente: nella classe d’età 50-
64 anni quattro persone su dieci si dichiarano non più formalmente attive e cinque su
dieci per quella 55-64. Un dato che lascia molto perplessi, visto il protrarsi in avanti del-
la speranza di vita in buona salute.
45
sintesi
15-29 30-39 40-49 50-64 55-64
Motivi personali 34,77 43,43 26,98 14,5 14,03
Motivi lavorativi 52,49 47,61 65,01 38,1 31,24
Insoddisfazione lavorativa 12,75 8,96 8,01 6,29 4,92
Ritiro dal lavoro 41,11 49,81
Cause della non occupazione per classi d’età
Fonte: Isfol Plus 2006
Politiche e interventi
Il tema dell’invecchiamento attivo è stato di particolare attualità nell’anno trascorso, in
quanto ha fatto da sfondo a tutto il dibattito sulla riforma del sistema pensionistico e sul-
le tematiche correlate, quali la “solidarietà intergenerazionale”, il bilanciamento tra lavoro
e non lavoro nelle fasi della vita, la questione delle attività usuranti.
La riforma della previdenza costituisce da decenni una delle spine nel fianco del nostro
ordinamento, in quanto ancora giudicato da più parti inidoneo a sopportare il peso cre-
scente dell’innalzamento dell’età anagrafica della popolazione. Con il Protocollo del 23
luglio 2007, il Governo ha proposto alle Parti sociali un nuovo sistema pensionistico che
si tradurrà in un maggiore, seppur graduale, invecchiamento attivo della popolazione. Pre-
cedentemente, con la Finanziaria per il 2007, è intervenuto in materia previdenziale con
misure specifiche per ridurre le uscite dal sistema produttivo dei lavoratori over 55. In par-
ticolare, ha introdotto la possibilità di aderire a una sorta di patto di solidarietà tra ge-
46
nerazioni, la cosiddetta staffetta giovani-anziani. E anche la riforma della previdenza in-
tegrativa è stata configurata tenendo conto della necessità di disincentivare il pensiona-
mento anticipato.
Nel quadro delle esperienze di invecchiamento attivo svolte in Italia, è a partire dal 2001
che cominciano a emergere i primi dati relativi a interventi significativi, promossi preva-
lentemente a livello locale dai Servizi per l’impiego, dalle Agenzie di outplacement, oppu-
re finanziati da programmi comunitari: dalle esperienze pionieristiche avviate nel 2002 dal-
la Provincia di Savona e dal Comune di Verona, con il coinvolgimento dei Centri per l’im-
piego, al progetto over 50 della Provincia di Verbania o quello over 40 della Provincia di
Mantova, fino al recente intervento della Provincia di La Spezia che prevede l’impegno al-
l’assunzione da parte di imprese in seguito ad azioni di formazione e work experience.
Tra i primi esempi di strategie complesse di ricollocazione, che si configurano come “azio-
ni di sistema”, sono poi da registrare quelle predisposte già da tempo da Regioni come la
Liguria, il Veneto, la Lombardia, l’Emilia Romagna, le Marche. Da segnalare anche le ini-
ziative della Regione Calabria per l’inserimento lavorativo di donne over 45, nonché il ta-
volo istituzionale ad hoc istituito dalla Regione Lazio.
rapporto isfol 2007
Precarietà versus flessibilità del lavoro
Le varie forme dell’atipico
Mediante l’indagine Isfol Plus è possibile dar conto della consistenza delle prevalenti voci
contrattuali vigenti oggi in Italia, nella consapevolezza che il fenomeno della flessibiliz-
zazione (ma anche precarizzazione) dell’occupazione sia ormai tale da rendere necessa-
ri nuovi indicatori.
Il lavoro dipendente a termine, nelle sue molteplici forme (contratto a tempo determi-
nato, apprendistato, interinale, ecc.) riguarda quasi 10 persone su 100. Più contenuta la
quota dei collaboratori (co.co.co., a progetto, occasionali) pari complessivamente al 5,7%.
47
sintesi
Totale Giovani 15-29 Mezzogiorno Donne
Dipendente a tempo indeterminato 63,02 53,08 58,25 63,77
Dipendente a termine 9,57 24,66 11,95 13,13
Autonomi 19,55 10,03 20,31 12,09
Collaborazioni 5,72 8,4 5,44 7,75
Altri accordi non standard 2,72 4,27 4,36 4,08
Raggruppamenti contrattuali principali
Fonte: Isfol Plus 2006
Circa la metà dei lavoratori atipici ritengono che le motivazioni del loro contratto non
standard siano legate alle esigenze di flessibilità delle imprese. Per queste ultime tali for-
me contrattuali appaiono come una modalità ricorrente: il 48% dei rapporti di lavoro di-
pendenti atipici è infatti già stata rinnovata almeno una volta.
L’83% degli atipici vive non volontariamente, ovvero non positivamente, la condizione
di non stabilità derivante dal loro contratto, che è stato imposto nella maggioranza dei
casi e prevede un vincolo stringente di presenza. Circa l’80% dei collaboratori ha un solo
committente e usa dotazioni dell’azienda presso cui è impiegato.
48
L’Isfol ha identificato due livelli di atipicità: quella minima, definita come gli occupati a
termine (compreso l’apprendistato) e i parasubordinati (ovvero occupati autonomi espo-
sti a più di vincoli di subordinazione) e quella massima, che comprende anche i part-time
involontari (che sono circa un terzo del totale) e coloro che non conoscono o non vogliono
rivelare la propria forma contrattuale. L’atipicità minima coinvolge quasi 3,5 milioni di
persone, ovvero poco più del 15% dell’occupazione; l’atipicità massima, invece, riguar-
da poco più di 4,5 milioni di persone, ovvero circa il 20% degli occupati.
L’incidenza di forme atipiche non è normalmente distribuita nel mondo del lavoro, con-
tribuendo a una forte polarizzazione dei lavoratori tra standard e atipici. L’atipicità mi-
nima registra un’incidenza superiore alla media nelle Isole, tra le donne, i laureati, i gio-
vani (1 su 3), nelle imprese tra 4 e 50 addetti. I valori più alti si hanno nei settori del-
l’agricoltura, degli alberghi, ristoranti e turismo, delle comunicazioni, dell’istruzione e del-
la ricerca e nelle professioni intellettuali e scientifiche e in quelle non qualificate. L’ati-
picità massima incide in maniera maggiore ma in linea con l’incidenza relativa all’atipi-
cità minima.
È evidente l’effetto dell’utilizzo delle forme di lavoro flessibile sulle generazioni più gio-
vani, non giustificato dalla fase di ingresso nel mercato del lavoro. Paradossale la posizione
dei laureati, per i quali l’atipicità incide in maniera molto più forte che per i titoli di stu-
dio inferiori. Se ne deduce una lettura disarmante per la combinazione giovane, donna,
laureata, meridionale.
Call center
Nel primo semestre 2007 l’Isfol ha svolto un’indagine mirata sui call center: circa due ter-
zi della loro forza lavoro sono lavoratori autonomi e tra questi la quasi totalità è assun-
ta con contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Circa il 70% degli addetti
rapporto isfol 2007
Co.co.co.
Collaborazione
occasionale
Co.co.pro. Partite IVA
Lei è un lavoratore autonomo per…?
Sua scelta 34,35 44,62 19,00 92,68
Su richiesta 65,65 55,38 81,00 7,32
Deve garantire la presenza regolare presso la sede del suo lavoro?
No 35,68 26,27 30,69 61,32
Sì 64,32 73,73 69,31 38,68
Ha concordato un orario giornaliero di lavoro con il suo datore di lavoro?
No 39,72 27,24 29,94 80,68
Sì 60,28 72,76 70,06 19,32
Esposizione a vincoli di subordinazione del lavoro autonomo (%)
Fonte: Isfol Plus 2006
sono donne, per le quali si riscontra una ben più notevole incidenza del lavoro a tempo
parziale (35,7%) che non tra gli uomini (16,9%). Gli operatori hanno in larga prevalen-
za un’età compresa tra i 26 e i 35 anni e i livelli di istruzione sono medio-alti, i diplomati
costituiscono infatti la netta maggioranza del personale.
49
sintesi
Distribuzione del personale nei call center per tipologia contrattuale
22,4
10,7
0,8
63,3
2,9
33,8
66,2
30,2
0,0
10,0
20,0
30,0
40,0
50,0
60,0
70,0
80,0
90,0
100,0
A
te
m
po
in
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te
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pa
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tim
e
Fonte: Isfol - Indagine conoscitiva sui contact center in outsourcing, febbraio 2007
Con la Circolare n. 17 del 14 giugno 2006, il Ministero del Lavoro ha indicato i criteri di
utilizzazione dei contratti di collaborazione nei call center, indirizzando l’attività degli ispet-
tori del lavoro e sollecitando al tempo stesso un confronto tra le Parti sociali per avvia-
re un processo di stabilizzazione, come dimostrato dalla sottoscrizione dell’Avviso comune
dell’ottobre 2006. La Finanziaria 2007 ha poi disposto una serie di norme finalizzate ad
agevolare tale processo. Si è così proceduto alla stabilizzazione di un numero consisten-
te di collaboratori operanti nel settore.
Quanto previsto dalla Finanziaria, sostenuto dall’attiva partecipazione delle Parti socia-
li, ha quindi prodotto i suoi frutti; pur confermando la persistente presenza nell’ambito
del mercato del lavoro italiano di prassi aziendali caratterizzate da un’utilizzazione im-
propria di forme di lavoro autonomo.
Misure contro la precarietà e prospettive di riforma
In generale, l’ultimo anno è stato caratterizzato dall’emanazione di numerosi interven-
ti normativi che, anche a costo di potenziali contraddizioni, hanno conferito particola-
re continuità all’azione di contrasto ai fenomeni del lavoro atipico, del sommerso e del-
la sicurezza.
In particolare, con il D.L. 223/2006 sono state adottate misure incisive ai fini della lotta alle
irregolarità diffuse nella gestione della forza lavoro nei cantieri edili. Pochi mesi dopo, con
50
la Finanziaria 2007 sono stati formalizzati importanti provvedimenti per la stabilizzazio-
ne di rapporti di lavoro temporanei e per il contrasto alla precarietà del lavoro.
Infine, con il Protocollo del 23 luglio 2007 tra Governo e Parti sociali, sono state indivi-
duate una serie di proposte per garantire un’occupazione di qualità, nonché per assicu-
rare equità e pari opportunità per tutti i cittadini. Dal documento scaturisce una sostanziale
conferma dell’impianto dispositivo del D.Lgs. n. 276/2003 che, salvo per alcuni aspetti,
dovrebbe rimanere quasi integralmente in vigore; anche perché dall’implementazione del-
lo stesso non sembra essere derivata una rilevante precarizzazione dell’occupazione, quan-
to piuttosto una sistematizzazione di parte della flessibilità già esistente.
In particolare, si ritiene che possa rilevarsi particolarmente efficace il progetto di rior-
dino degli incentivi all’occupazione, finalizzato a consentire una maggiore attenzione nei
confronti della posizione occupazionale delle categorie di lavoratori ancora sottorap-
presentati nel mercato del lavoro, quali le donne, i giovani e gli ultracinquantenni.
Il Protocollo appare dunque, nel suo insieme, idoneo a fornire risposte efficaci a questioni
complesse e da tempo dibattute, specialmente nel disegnare le linee generali della rifor-
ma degli ammortizzatori sociali.
I percorsi di carriera
Se il tema della flessibilità ha dominato il dibattito politico di questi anni, non altrettan-
to si può dire per quanto attiene alla mobilità professionale, ovvero ai percorsi di carrie-
ra e quindi al progressivo miglioramento dello status sociale ed economico dei lavoratori.
In Italia, nel corso della vita attiva, si rischia poco di retrocedere, ma altrettanto poche sono
le chance di progredire. I risultati dell’indagine Isfol sulla qualità del lavoro mostrano ap-
punto come il progresso nella carriera e il miglioramento professionale rappresentino uno
dei nodi di maggiore criticità: la carriera è l’aspetto del lavoro in relazione al quale si ri-
scontra il livello più elevato di insoddisfazione (il 54,5% degli occupati) ed è fonte di pre-
occupazione per quasi sei lavoratori su dieci.
Anche se le donne risultano le più penalizzate, un maggiore grado di pessimismo si ri-
scontra nella componente maschile. Tra il 2002 e il 2006 gli uomini riferiscono un peg-
gioramento delle prospettive di carriera di circa sette punti percentuali: la quota di chi
non ritiene di avere possibilità di crescere professionalmente sale infatti dal 47% al 54%.
Maggiori probabilità di avanzamento si evidenziano per gli occupati in possesso di un ti-
tolo universitario e per quelli con un elevato livello di specializzazione o qualificazione:
il 50% dei laureati e il 48,3% delle alte qualifiche e delle professioni tecniche, infatti, ma-
nifesta un giudizio positivo circa le proprie prospettive di carriera; mentre la percentua-
le scende al 34,5% per chi ha un basso livello di istruzione e al 31% per gli operai.
Inoltre, è nel settore privato che si registrano quote più elevate di occupati possibilisti cir-
ca le proprie opportunità di avanzamento, con uno scarto rispetto al settore pubblico di
quasi sei punti percentuali (42,4% contro 36,4%).
L’Isfol ha anche verificato il giudizio retrospettivo dei lavoratori. La quota di quanti ri-
feriscono di aver fatto carriera è solo il 49% degli occupati. La restante metà, invece, o è
ferma o ha addirittura peggiorato la propria situazione lavorativa.
rapporto isfol 2007
Abbiamo, quindi, un’immagine piuttosto statica del mondo del lavoro italiano, confer-
mata dall’alta percentuale di quanti non hanno mai cambiato lavoro, pari al 53,4%. D’al-
tro canto, il cambiamento di lavoro può comportare anche un rischio di peggioramen-
to, che cresce in proporzione diretta all’aumentare del numero dei cambiamenti stessi:
riportano peggioramenti nella propria posizione il 9,8% di quanti non hanno mai cam-
biato lavoro contro il 33% circa di quanti lo hanno cambiato più di cinque volte.
51
sintesi
Professione Peggiorata Stabile Migliorata Totale
Alte qualifiche e professioni tecniche 9,6 30,9 59,5 100,0
Impiegati 11,2 44,7 44,1 100,0
Operai 16,6 45,2 38,2 100,0
Totale 12,1 38,9 49,0 100,0
Giudizio retrospettivo sulla propria carriera (%)
Fonte: Seconda indagine Isfol sulla qualità del lavoro in Italia
52
Condizioni di lavoro
Sicurezza e salute
Le ormai quotidiane notizie su incidenti, infortuni e morti sul lavoro nel nostro Paese,
rimandano a un aspetto che dovrebbe essere centrale nelle politiche del lavoro e che pur-
troppo, invece, viene spesso trascurato: la sicurezza e la salute sul lavoro.
Se in generale quasi il 30% dei lavoratori italiani ritiene a rischio la propria salute, tale
percentuale sale al 40% per gli operai. Lo sforzo fisico non è l’unico fattore in relazione
al quale vengono riferiti i livelli più elevati di percezione del rischio, ma anche le ore la-
vorate, gli orari atipici e i ritmi di lavoro. La percezione di rischio è riferita dal 27,5% di
quanti lavorano fino a 45 ore, salendo al 36,2% per coloro che lavorano oltre le 45 ore.
Si innalza fino al 41,5% di quanti lavorano almeno un giorno festivo al mese e al 48,4%
per chi lavora almeno una notte al mese. Si riscontra, inoltre, un aumento dell’indicato-
re di oltre nove punti percentuali tra il 2002 e il 2006.
In relazione alla gravosità del lavoro, gli occupati italiani riferiscono un valore elevato so-
prattutto in termini di impegno mentale (65,1% dei casi) o di coinvolgimento psicolo-
gico ed emotivo (62,1%); segue - con circa venti punti di distacco - la gravosità in termini
di sforzo o disagio fisico (42,1%).
Per quel che riguarda gli infortuni, il 16,9% riferisce di averne subiti nel corso della pro-
pria vita lavorativa. Anche in questo caso, il tempo rappresenta un importante fattore di
esposizione al rischio: al crescere del numero di ore lavorate e del numero di anni di espe-
rienza aumenta difatti la gravità degli infortuni.
rapporto isfol 2007
Ha subito infortuni
Ore lavorate
Fino a 30 ore 10,2
Da 31 a 45 ore 18,0
Oltre 45 ore 21,5
Totale 16,9
Anzianità lavorativa
Fino a 5 anni 3,8
Da 6 a 10 anni 9,9
Da 11 a 20 anni 17,8
Più di 20 anni 21,8
Totale 16,9
Incidenza infortuni (%)
Fonte: Prima e Seconda indagine Isfol sulla qualità del lavoro in Italia
Per determinare migliori o peggiori condizioni di lavoro oltre al quanto a lungo è poi de-
terminante il quando: chi lavora in orari non standard oppure a turni riferisce più spes-
so malattie o infortuni. Infine, ulteriore fattore di criticità è il modo, cioè il come viene
erogata la prestazione lavorativa. Il ritmo elevato si ripercuote sull’incidenza di malattie
e infortuni.
Sommerso
Nel 2005 le unità di lavoro non regolari sono stimate in 2,951 milioni, pari al 12,1% del
totale. Si assiste a una contrazione del valore complessivo rispetto al 2001, quando am-
montavano a 3,280 milioni (13,8%).
53
sintesi
Settore di attività economica 2001 2002 2003 2004 2005
Agricoltura 20,9 21,0 18,3 19,9 22,2
Industria 7,4 6,6 5,7 5,7 5,9
Servizi 15,8 14,5 13,5 13,6 13,9
Totale 13,8 12,7 11,6 11,7 12,1
Tassi di irregolarità (%)
Fonte: Elaborazioni Isfol su dati Istat
Le politiche nazionali di contrasto al lavoro nero sono state interessate nell’ultimo anno
da un’intensa attività legislativa. Sul piano organizzativo la principale novità è rappresentata
dall’istituzione di una Cabina nazionale di regia. Inoltre, per la prima volta, con la Leg-
ge 248 del 4 agosto 2006 sono stati considerati come aspetti complementari di un’unica
azione il contrasto al lavoro irregolare e la promozione della sicurezza sui luoghi di la-
voro. Tale legge, partendo da questo nuovo legame, ha attribuito (con l’art. 36 bis) nuo-
vi poteri al personale ispettivo. A riguardo, c’è da segnalare un dato positivo: il raddop-
pio tra il primo e il secondo trimestre 2007 dei provvedimenti revocati per regolarizza-
zione (da 176 a 343) sul totale dei provvedimenti di sospensione verso aziende risultate
irregolari durante le ispezioni.
Ulteriori misure sono state varate con la Finanziaria 2007, che ha anche modificato il re-
gime delle comunicazioni obbligatorie ai Centri per l’impiego e ha quintuplicato gli im-
porti delle sanzioni amministrative.
Ma è la Legge 23/2007 ad assumere un’importanza assoluta per la riforma della norma-
tiva in materia. La delega al Governo è particolarmente ampia e si richiede che venga va-
lorizzata rapidamente attraverso appositi decreti legislativi di attuazione. Appare importante
sottolineare come la riforma troverà applicazione nei confronti di tutti i lavoratori, a pre-
scindere dalla tipologia contrattuale. È stato inoltre valorizzato il ruolo della formazio-
ne, anche grazie alla previsione dell’inserimento della materia della sicurezza all’interno
dei programmi di insegnamento scolastici e universitari.
54
Quanto alle politiche regionali, la ripartizione delle competenze in materia di politiche
attive del lavoro (riforma del titolo V della Costituzione) ha permesso di orientare le po-
litiche di emersione sulla base delle specificità e delle necessità locali. Le Regioni, pertanto,
con la partecipazione delle Parti sociali, hanno attivato una serie di interventi capillari fi-
nalizzati all’emersione del lavoro sommerso, alla stabilizzazione occupazionale e all’av-
vio del lavoro autonomo. Innanzitutto, sono state istituite le Commissioni regionali e pro-
vinciali, alcune delle quali sono state poi supportate dagli Osservatori regionali, che ope-
rano spesso in stretto raccordo con le sedi decentrate dell’Inps.
Il primo caso di legislazione diretta è quello della Regione Puglia (ottobre 2006), che ha
definito una disciplina specifica e organica in materia di emersione. Va poi segnalata la
più recente legge della Regione Lazio (agosto 2007), che prevede forme premiali nei con-
fronti delle imprese; un severo regime sanzionatorio e un’efficace politica di incentivi. Di-
verse amministrazioni regionali hanno anche avviato programmi specifici, come quello
della Regione Sardegna, le cui azioni si sono dimostrate particolarmente rilevanti sia per
la regolarizzazione di una serie di lavoratori sia per la quantità di nuovi occupati.
La componente femminile del lavoro nero
La presenza femminile nel sommerso continua a essere rilevante. Poiché non esistono dati
ufficiali che ne identifichino la dimensione quantitativa, l’Isfol ha realizzato un primo ten-
tativo di stima. L’occupazione femminile irregolare riferita al 2001 si attesta intorno all’1,350
milioni di unità, pari al 47,4% dell’occupazione irregolare totale.
Alla fase di stima è seguita la ricerca sul campo, effettuando la prima indagine a largo spet-
tro sugli aspetti del lavoro femminile sommerso e irregolare, per numero di donne coin-
volte. Un terzo delle intervistate è costituito da straniere, soprattutto extracomunitarie
(56,2%). Di queste, il 18% non ha un regolare permesso di soggiorno e il 9% non ha ri-
sposto alla domanda; ne deriva che per circa il 27% delle donne extracomunitarie l’ac-
cettazione di un lavoro irregolare è una condizione di necessità legata allo stato di clan-
destinità. La condizione di illegalità della residenza in Italia impedisce loro l’accesso a oc-
cupazioni regolari, per contro la mancanza di un’occupazione costituisce il maggior osta-
colo al passaggio a una situazione di legalità. Risulta anche una presenza maggiore di don-
ne italiane nelle classi di età più giovani: le italiane fino a 34 anni sono oltre il 64% con-
tro il 45% circa delle straniere.
Per quanto attiene alla durata, il lavoro irregolare non sembra avere natura occasionale.
Più del 50% svolge l’attuale lavoro irregolare da più di un anno e solo per il 21% ha ca-
rattere saltuario. Il lavoro irregolare femminile costituisce pertanto una domanda strut-
turale e permanente presente sul mercato e per le donne si configura come una sorta di
“trappola del sommerso” nella quale rischiano di restare invischiate.
Sono state anche rilevate le due possibili forme di irregolarità: assenza di contratto for-
malizzato (il 64% dei casi) e la mancata applicazione degli istituti contrattuali pur in pre-
senza di un contratto scritto (28%). In quest’ultimo caso gli istituti meno applicati sono
ferie, contributi previdenziali, indennità di malattia e permessi di maternità.
rapporto isfol 2007
Le motivazioni che inducono le donne a entrare nel mercato del lavoro in condizioni di
irregolarità sono dovute a scelte di necessità per quasi il 65% di loro; in particolare per
l’assenza di altre opportunità di lavoro (43%). Il sommerso sembrerebbe, quindi, legato
alla scarsità di domanda di lavoro regolare.
Circa il 24% delle donne percepisce la situazione di irregolarità come transitoria, men-
tre quasi il 12% svolge un’attività irregolare per non perdere vantaggi già acquisiti (sus-
sidi, assegni familiari, effetto fiscale del cumulo di più redditi).
Ecco, infine, i tre profili di donne italiane che lavorano nel sommerso:
1. età compresa fra i 20-34 anni, nubile, diploma di scuola media superiore, settore terzia-
rio, ufficialmente inoccupata, retribuzione netta mensile compresa fra i 500 e i 700 euro
2. età compresa fra i 35-44 anni, coniugata con figli, licenza di scuola media inferiore,
ufficialmente disoccupata (iscritta quindi a un Centro per l’impiego), settore terzia-
rio, retribuzione fra i 300 e i 700 euro
3. età compresa fra i 45-55 anni, coniugata con figli, licenza media inferiore, ufficialmente
disoccupata, settore dei servizi alle persone, retribuzione fra i 300-500 euro.
Gli stranieri
Il crescente ricorso a lavoratori stranieri è uno dei fenomeni che più ha caratterizzato l’evo-
luzione del mercato del lavoro italiano dalla prima metà degli anni ’90. La popolazione
straniera residente era pari al 4,5% del totale nel gennaio del 2006. Tra gli attivi gli im-
migrati raggiungono quota 6,6% (il 5,9% se si considerano esclusivamente gli extraco-
munitari).
55
sintesi
ferie retribuite
9%
orario
giornaliero e
settimanale
13%
durata
rapporto
3%
mensilità
aggiuntive
7%
TFR
6%
periodi di
malattia
retribuiti
3%
straordinari
retribuiti
6%
regolarità nei
tempi di
pagamento
22%
retribuzione
concordata
31%
Le condizioni di lavoro garantite in assenza di contratto formalizzato
Fonte: Indagine Isfol
56
La Rilevazione longitudinale su imprese e lavoro (Rlil) condotta dall’Isfol, evidenzia come
il 21% delle imprese italiane dichiari di ricorrere a manodopera neo o extracomunitaria.
Fra queste, quasi una su due afferma che ciò è dovuto al disinteresse dell’offerta di lavoro
italiana per alcune occupazioni, mentre una su tre denuncia la carenza di alcuni tipi di pro-
fessionalità tra i lavoratori nazionali. Emerge, dunque, un problema riconducibile all’of-
ferta di lavoro autoctona che mostra un’evidente disaffezione per alcune professioni, op-
pure risulta incapace di soddisfare una crescente domanda interna di professionalità spe-
cifiche (come avviene, ad esempio, nel caso delle professioni infermieristiche).
Di contro, il fatto che il 40% delle imprese non specifichi nessun motivo particolare per
l’assunzione di immigrati, è indice di come la forza lavoro straniera partecipi al merca-
to del lavoro interno come forza strutturale, non occasionale. Infine, un altro aspetto chia-
ve: il 30% delle imprese afferma che il lavoro neo o extracomunitario comporta un co-
sto inferiore a quello italiano. Diventa a questo punto fondamentale comprendere se l’ab-
bandono da parte dei cittadini italiani di alcune professioni sia esclusivamente da ricondurre
a un’evoluzione qualitativa dell’offerta di lavoro o se, in parte, non sia da far risalire an-
che a un compenso considerato inadeguato alla mansione richiesta.
D’altro canto, il reddito medio da lavoro dei cittadini non comunitari risulta inferiore a
quello degli italiani del 20-24%.
rapporto isfol 2007
L'impresa utilizza attualmente lavoratori neo o extra comunitari?
No 72,5
Sì 21,2
Non risponde 6,3
Perché si (*)
Disinteresse dell’offerta di lavoro italiana per alcune occupazioni 48,4
Nessun motivo particolare 40,4
Professionalità poco o per nulla presenti tra i lavoratori italiani 33,2
Comportano un costo del lavoro più basso rispetto ai lavoratori italiani 29,0
Altro 2,3
Principali indicatori circa l’assunzione di lavoratori neo o extracomunitari (val. %)
(*) Multirisposta.
Fonte: Isfol Rlil 2005
Tra i datori di lavoro che fanno ricorso di immigrati, 1 su 2 dichiara di aver effettuato pro-
cedimenti di regolarizzazione, percentuale che nel Sud Italia sale a 3 imprese su 5. Come
a dire che il principale meccanismo di inserimento lavorativo per i cittadini neo o ex-
tracomunitari è non solo legato a canali informali, ma il più delle volte irregolari. E non
si tratta solo di scarso rispetto della normativa, ma anche di difficoltà di ordine tecnico-
amministrativo.
Alberghi, ristorazione e commercio sono i settori a più ampia concentrazione di immi-
grati. Si tratta in gran parte di mansioni poco qualificate e a bassa o nulla specializzazione,
spesso ben poco coerenti con la formazione, l’esperienza precedentemente acquisita e i
titoli di studio posseduti. In pratica, il lavoratore straniero si trova spesso a dover opera-
re in un mercato del lavoro “secondario”, generatosi anche per il fatto che in Italia sono
mancati meccanismi di selezione e regolazione degli ingressi, rendendo di fatto impra-
ticabile un’efficiente programmazione dei flussi.
In tal senso, le prospettive di modifica della disciplina dell’immigrazione e delle norme
sulla condizione dello straniero (così come previste dal disegno di legge delega licenzia-
to dal Consiglio dei Ministri lo scorso aprile) sembrano indicare la volontà di promuo-
vere l’ingresso di lavoratori qualificati e l’implementazione all’estero di liste di colloca-
mento che facilitino un’incontro tra domanda e offerta di lavoro più efficiente. Ma è so-
prattutto potenziando il sistema dei Centri per l’impiego e della formazione professio-
nale che si può rinvenire la strada maestra per la promozione di un modello di integra-
zione sociale di ampio respiro.
Disabili
Sul piano dei dati amministrativi, nel 2005 in Italia risultavano 589.543 persone disabi-
li iscritte agli elenchi unici del collocamento obbligatorio (ex lege 68/99) e fra questi il 68,1%
si dichiara disponibile a una immediata occupazione.
Le informazioni sugli inserimenti lavorativi riportano una media di oltre 20 mila avvia-
menti l’anno, con 30.865 individui interessati nel 2005. Sul versante delle imprese, si ri-
scontra una quota di riserva quantitativamente cresciuta nel corso degli anni. I valori più
alti, infatti, si registrano nel 2005, con 275.726 lavoratori disabili conteggiati nella quo-
ta di riserva, comprensivi di quelli già in servizio e del numero di posti ancora scoperti.
Quest’ultima categoria si è incrementata negli anni e, con le 109.005 scoperture totali del-
l’ultima rilevazione, porta a ridurre il rapporto tra “domanda e offerta” a 1 posto dispo-
nibile ogni 4 persone disabili in cerca di occupazione iscritte agli elenchi. Il dato evidenzia
la necessità di una piena applicazione a livello territoriale dell’impianto di servizi sul qua-
le si poggia la normativa relativa al collocamento obbligatorio.
I servizi provinciali rappresentano il fulcro dell’intero processo del collocamento mira-
to. L’88,1% dei Centri per l’impiego dichiara di avere previsto, presso le proprie sedi, ser-
vizi dedicati all’integrazione lavorativa delle persone disabili, con un incremento del 4,5%
tra il 2004 e il 2005.
Da segnalare che nel Protocollo siglato tra Governo e Parti sociali il 23 luglio 2007 vie-
ne riconosciuta l’efficacia del sistema di integrazione lavorativa rappresentato dal collo-
camento mirato. L’accordo, in risposta a quanto richiesto in più sedi dalle Regioni, interviene
in modo significativo sul fronte della semplificazione delle procedure amministrative.
57
sintesi
58
Sistemi di lavoro e dinamiche dell’intermediazione
Incontro domanda/offerta
La più recente ricerca compiuta dall’Isfol sull’intermediazione di lavoro è quella relativa
alla dinamica di last searching and last matching, ovvero ultima attività di ricerca di la-
voro e relativi canali di intermediazione.
Quasi 1 persona su 3 si rivolge ad amici, parenti o conoscenti. I canali istituzionali (CPI,
sindacati, scuole) intermediano poco più del 6%, con i conseguenti problemi di efficienza
nella dinamica verso l’equilibrio del mercato del lavoro.
rapporto isfol 2007
Centri per l’impiego o servizi pubblici in genere 3,3
Agenzie di lavoro interinale 1,8
Società di ricerca e selezione del personale 0,4
Scuole, università e istituti di formazione 2,4
Sindacati e organizzazioni datoriali 0,5
Lettura di offerte di lavoro sulla stampa 3,2
Attraverso contatti all’interno dell’ambiente professionale 8,2
Amici, parenti, conoscenti 31,1
Auto candidature (invio cv, presentandosi all’impresa) 15,5
Concorsi pubblici (partecipazione o domanda) 19,9
Iniziative legate all’avvio di una attività autonoma 13,6
Quale canale Le ha dato l’attuale impiego?
Fonte: Isfol Plus 2006
Gli amici, parenti e conoscenti sono progressivamente meno utilizzati al crescere del-
l’età, rendendo evidente il ruolo dei canali informali nel primo inserimento nel mon-
do del lavoro e segnalando parallelamente una consistente potenziale domanda di in-
termediazione iniziale. Quanto alla velocità dell’intermediazione con esito positivo, i ca-
nali informali e l’iniziativa diretta sono i più solleciti a dare un’occasione lavorativa (en-
tro un mese dal contatto per oltre la metà dei casi) mentre concorsi, sindacati e CPI sono
i più lenti a dare un riscontro. Il lasso di tempo che trascorre tra l’attivazione della per-
sona in cerca di lavoro e il momento in cui si trova l’opportunità, è proprio il diafram-
ma tra un mercato del lavoro permeabile, o flessibile, e un mercato del lavoro poco per-
meabile, o rigido.
In conclusione, l’alto livello di utilizzo di canali informali in Italia nelle fasi di ricerca di
lavoro risulta efficace a livello individuale. Tuttavia, non lo è da un punto di vista socia-
le, poiché ingenera una serie di distorsioni: riduce la mobilità occupazionale, limita la pre-
mialità del sistema, genera inefficienze nel mercato del lavoro, con elevati costi sociali.
I Servizi pubblici per l’impiego
L’ultimo decennio ha conosciuto un’intensa fase di trasformazione dei sistemi istituzio-
nali che presiedono all’intermediazione. Il sistema dei Servizi pubblici per l’impiego si è
assestato progressivamente e i Centri per l’impiego hanno declinato i propri comporta-
menti sui meccanismi di “presa in carico” delle persone in cerca di lavoro. Nell’ottica del-
le politiche attive si è concretizzata un’organizzazione del lavoro per target di utenza.
Il sistema presenta una fisionomia dicotomica, più sbilanciata verso l’elemento proget-
tuale e sulla costruzione di servizi altamente personalizzati e in chiave proattiva nel Cen-
tro Nord, mentre prevalgono servizi di natura più minimalista al Sud. Permangono, inol-
tre, talune eredità del vecchio collocamento, tra cui la tradizionale asimmetria del siste-
ma verso la domanda di lavoro e la persistenza di un modello generalista (in cui “tutti fan-
no tutto”).
In generale, è possibile riscontrare nell’arco del quinquennio 2001-06 un ampliamento
del ricorso ad attività di diagnostica e pianificazione dei percorsi di miglioramento del-
l’occupabilità. Circa il 79% dei CPI prevede la realizzazione di colloqui finalizzati alla pia-
nificazione di un percorso di accompagnamento al lavoro dei disoccupati (era il 30,2%
nel 2001). Va detto, tuttavia, che solo 4 CPI su 10 ne effettua poi una verifica e un ag-
giornamento.
Nell’area funzionale dell’intermediazione, il 68,4% dei CPI realizza attività di preselezione
con o per le imprese presso i propri locali, ma è invece di minore ampiezza l’incremen-
to di servizi consulenziali (56,3%) e progettuali (21,9%).
59
sintesi
60
Occorre quindi riposizionare l’organizzazione e l’offerta dei SPI in direzione della domanda
di lavoro: tanto in vista di un affinamento delle capacità di analisi dei fabbisogni, quan-
to in vista di un ampliamento della capacità attrattiva dell’utenza aziendale.
In conclusione, l’Italia si presenta all’appuntamento con il nuovo periodo di program-
mazione dei Fondi strutturali, con Servizi al lavoro radicalmente diversi dal passato. Mol-
ti percorsi di allineamento ai modelli comunitari sono divenuti un fatto acquisito, ben-
ché vi siano ancora problemi di sostenibilità (gli SPI sono fortemente dipendenti dalle
risorse comunitarie, rispetto a quelle nazionali).
È stato poi avviato il percorso di revisione del Masterplan dei Servizi per l’impiego intrapreso
dal Ministero del Lavoro, a partire dalla primavera del 2007, evidenziando una ripresa del
dialogo interistituzionale tra Governo, Regioni e Province, con l’obiettivo di identifica-
re non soltanto un assetto programmatico sul quale impiantare lo sviluppo del sistema
pubblico, ma anche di identificare uno spazio stabile di regia istituzionale che accompa-
gni sistematicamente tale sviluppo.
rapporto isfol 2007
Individuazione del percorso prof.le, formativo o di riqualificazione
Promozione dei tirocini presso aziende e giovani; colloqui di selezione
Colloqui individuali di orientamento su convocazione
30,2 29,6
18,3
10,7
19,8
27,5
79,1
63,6 63,2
18,5
26,1
10,9
0,0
10,0
20,0
30,0
40,0
50,0
60,0
70,0
80,0
2001 diff.le N/S 2001 2006 diff.le N/S 2006
Centri per l’impiego: area funzionale dell’occupabilità, livello di attivazione dei servizi, dif-
ferenziale di attivazione tra Centro, Nord e Sud, anni 2001 e 2006 (val. %)
Fonte: Isfol, monitoraggio SPI 2001 e 2006
61
sintesi
Tipologia di Agenzia Ante riforma (2002) Post riforma (2006)
Somministrazione (generalista e specialista) 73 84
Intermediazione 25 15
Ricerca e Selezione 389 579
Ricollocazione 43 19
Totale 530 697
Numerosità operatori privati ante e post riforma
Fonte: Ministero del Lavoro, agosto 2007
L’evoluzione del mercato dell’intermediazione
Il processo di liberalizzazione del mercato dell’intermediazione della manodopera av-
viato in Italia al volgere degli anni Novanta, ha conosciuto una progressiva accelerazio-
ne, fino alla definizione del nuovo assetto organizzativo-funzionale del sistema dei ser-
vizi per il lavoro a opera del D.Lgs. n. 276/2003. L’universo dei nuovi soggetti legittimati,
previa autorizzazione, a operare sul mercato del lavoro è particolarmente ampio e arti-
colato, contemplando oltre alle Agenzie per il lavoro anche i soggetti autorizzati “in re-
gime speciale”.
L’ultimo monitoraggio sulle Agenzie per il lavoro mostra come l’incremento pari a oltre
il 30% degli operatori privati sia da attribuirsi per lo più all’exploit delle Agenzie di ricerca
e selezione, seguite da quelle di somministrazione, mentre c’è un ridimensionamento dei
soggetti che svolgono attività di outplacement.
Quanto agli intermediari speciali, il dato relativo alle università indica 56 atenei, su un
totale di 77 oggetto di apposita rilevazione, che svolgono servizi di intermediazione e job
placement a fine 2006. In particolare, l’88% a livello centrale e il restante 12% per singo-
le facoltà.
Finito di stampare nel mese di ottobre 2007
da Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali
per conto di Rubbettino Editore Srl
88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)
ISFOL 2007/rapporto ISFOL sintesi.pdf
Roma, 20 novembre 2007
in breve
FLASH FORMAZIONE
Nel 2006 aumenta il tasso di diplomati (75,5% della popolazione giovanile), ma l’Italia rimane
sotto al benchmark europeo (85%), ovvero il traguardo da raggiungere entro il 2010. Inoltre il 20%
della popolazione giovanile non riesce ad andare oltre il titolo di licenza media, contro il limite
massimo del 10% indicato dagli obiettivi comunitari; infine, solo il 51% della popolazione italiana
possiede un titolo di studio post-obbligo, contro il 70% della media europea.
150 mila adolescenti formalmente soggetti ad obbligo (Diritto-Dovere) in realtà sono fuori da
ogni canale formativo: circa 113 mila sono esclusi dai canali formativi formali; a questi si
aggiungono gli oltre 40 mila minorenni che, nonostante siano stati assunti con contratto di
apprendistato, di fatto non svolgono le attività di formazione previste dalla legge.
Aumenta il numero dei laureati, a dimostrazione del recupero di efficienza prodotto
dall’introduzione del modello 3+2: nel 2006 hanno conseguito un titolo di studio universitario
oltre 300.000 persone, ovvero 100.000 in più di quante se ne erano laureate appena 4 anni
prima.
Abbastanza soddisfatti gli utenti della formazione professionale iniziale: 2 allievi su 3 (pari al
65,7%), se tornassero indietro, rifarebbero la stessa scelta, circa l’8% andrebbe a lavorare e il
13,5% si iscriverebbe a scuola, con un tasso di indecisi che risulta tuttavia di circa il 13%.
Solo il 20% dei 600.000 apprendisti svolge attività di formazione.
Cresce l’adesione ai Fondi Paritetici Interprofessionali (FPI), che coinvolgono ormai il 42,4%
delle aziende private per un totale di quasi 6 milioni di lavoratori occupati.
Esiste un ampio divario tra le grandi e le piccole imprese nella capacità di offrire corsi di
formazione al proprio personale: la quota di imprese che offrono formazione è molto alta fra
quelle di grandi dimensioni (73%), ma molto bassa fra le micro-imprese (16%); minore attività di
formazione viene realizzata nel settore manifatturiero e in generale nel Mezzogiorno.
Solo il 40% dei giovani che terminano la scuola secondaria ha trovato nella scuola e nell’Università
informazioni adeguate riguardo alle opportunità future di studio e di lavoro, mentre il 60% della
popolazione dichiara di non essere a conoscenza dei luoghi deputati alla formazione per gli
adulti. La scarsità di informazione produce, oltre che una ridotta partecipazione alle attività
formative, il perpetuarsi di scelte legate alla condizione sociale.
FLASH LAVORO
Superano i 23 milioni gli occupati in Italia; il tasso di disoccupazione è al 6%; ancora
insufficiente il tasso di partecipazione al lavoro, in particolare dei giovani e delle donne. Una larga
quota del lavoro disponibile è poco qualificato, precario e sottopagato.
Il lavoro viene percepito come “problematico” a causa di una quota progressivamente
crescente di lavoro precario. La sua consistenza è di 3,5 milioni di occupati, che diventano 4,5
se si includono i “part-time involontari” e coloro i quali dichiarano di non conoscere il tipo di
contratto stipulato. L’evolversi del sistema produttivo e dei “nuovi lavori” non pare dunque del
tutto coerente con l’obiettivo della “società della conoscenza”.
Tuttavia esiste anche la “flessibilità costruttiva”: il 28% degli “atipici” ritiene di avere in prospettiva
un lavoro di tipo permanente ed il 7% considera la “precarietà” come una fase di necessaria crescita
professionale.
Oltre il 54% degli occupati ritiene improbabile un suo sviluppo di “carriera”; in Italia i percorsi di
sviluppo professionale dei lavoratori appaiono decisamente “ingessati”.
10 milioni di donne in età lavorativa non lavorano e non cercano lavoro, il tasso di attività
femminile è del 47%; l’obiettivo di “Lisbona” del 60% al 2010 certamente non sarà raggiunto
dall’Italia.
Le donne percepiscono retribuzioni inferiori a quelle degli uomini anche a parità di contratto e di
orario, il 63% accede al lavoro con un rapporto “atipico”, le donne con ruoli di “comando” sono il
22% contro il 38,5% degli uomini, ma alle giovani sembra andare un po’ meglio.
La vicenda “scalone” ha posizionato i riflettori sulla partecipazione al lavoro degli over55; il loro
tasso di attività, anche se in costante e lento incremento, è lontano dall’obiettivo di Lisbona del
50% al 2010. Tuttavia molti di più lavorerebbero se non avessero subìto le ristrutturazioni aziendali
e gli esuberi del decennio trascorso.
Gli stranieri ufficialmente residenti in Italia hanno raggiunto i 3 milioni. Il 7% della popolazione
attiva è ormai rappresentato da immigrati. Il 21% delle imprese italiane ricorre a mano d’opera
neo o extracomunitaria. La metà delle imprese dichiara di non reperire forza lavoro italiana, ed il
30% che il costo del lavoro degli stranieri è inferiore del 24% rispetto a quello degli italiani.
Nel 2007 sono stati varati diversi provvedimenti finalizzati a contrastare gli incidenti sul lavoro. Ad
esempio gli importi delle sanzioni amministrative sono quintuplicati.
Il 29% degli occupati è preoccupato per la propria salute sul luogo di lavoro; l’indice sale a
36% tra chi lavora più di 45 ore e supera il 48% per chi lavora a turni, in notturno e nei festivi.
I più giovani sono maggiormente a rischio.
Per il 65% il disagio è dovuto al troppo impegno “mentale”, soprattutto a causa del pressing degli
utenti e dei clienti.
Tra gli operai il 48% dichiara un disagio da sforzo e fatica fisica.
Per informazioni: Ufficio Stampa 06.44590895-2
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