Per buone pratiche (best practices) si intende l’insieme delle attività – procedure, comportamenti e abitudini – che, organizzate in modo sistematico, possono essere prese come riferimento e riprodotte per favorire il raggiungimento dei risultati migliori in ambito aziendale, ingegneristico, sanitario, educativo, governativo. 

L’origine del termine risale ai primi anni del Novecento quando, in ambito manageriale, acquista importanza l’osservazione delle tecniche in grado di ottenere i risultati migliori e che potevano quindi rappresentare un modello di regole da poter imitare al fine del miglioramento delle modalità di produzione. Prima della certificazione ISO 9001 rappresentavano nel contesto aziendale, quindi, il modello di riferimento per ottimizzare i risultati, ovvero ottenere il massimo risultato con il minor dispendio di risorse al netto di passaggi inefficaci. Con il tempo, tale modello è stato gradualmente applicato ad altri settori e inquadrato in specifici standard normativi che potessero rappresentare il benchmarking – ovvero test studiati per la valutazione dell'efficacia di un processo tecnico in rapporto a uno standard di riferimento – ed il modello di autovalutazione per i diversi contesti.

I requisiti principali che individuano e analizzano una buona pratica sono:

  • l’adeguatezza e la completezza del quadro progettuale e attuativo;
  • l’innovatività;
  • la riproducibilità;
  • la trasferibilità;
  • la sostenibilità;
  • il mainstreaming.

In questi termini, una buona pratica richiede di nascere dall’esperienza secondo una prospettiva deweyana, che permetta di inserire tale progetto nell’ambito di una più ampia dimensione sociale. Secondo questa prospettiva, la buona pratica richiede inoltre di produrre, a partire dall’esperienza stessa, soluzioni nuove e qualitativamente solide per migliorare la condizione originaria del problema individuato anticipatamente. Seguendo questa prospettiva, il modello viene analizzato per poter essere riprodotto in presenza di problemi analoghi e, quindi, trasferito in contesti differenti da quello in cui era stato identificato. Tale passaggio richiede inoltre di essere sostenibile, ovvero in termini di capacità di generare nuove pratiche a partire da quelle precedentemente esistenti, mettendo in moto le risorse di tutti i soggetti coinvolti nel processo.

Se la buona pratica nasce dal contesto esperienziale, non può che mantenere un risvolto anche sociale, che coinvolga cittadini e professionisti nella riproduzione di quanto funziona al fine di migliorare sempre di più quanto già fatto precedentemente. Questo aspetto emerge da alcuni principi che caratterizzano ulteriormente le buone pratiche: non solo la possibilità di un trasferimento di quanto già prodotto, ma anche il miglioramento del risultato rispetto quello precedentemente svolto. In questi termini, il trasferimento si intende come qualcosa di evolutivo e non automatico o meccanico. Per attivare tali processi, è necessario un monitoraggio degli esiti raggiunti dall’attuazione della buona pratica e che richiede una complessa misurazione della sua efficacia e degli impatti che ne conseguono. Pur essendo numerosi i contesti per l’applicazione delle buone pratiche (sanitario, educativo, di governance), quello cui faremo riferimento sarà necessariamente quello formativo e lavorativo.

Quando si parla di buone pratiche nel contesto della formazione professionale ci riferiamo a qualcuno che insegna e a qualcuno che apprende. Se il contesto dell’apprendimento rappresenta qualcosa di esperienziale, come abbiamo già introdotto, allora l’insegnamento diventa qualcosa di prettamente pratico: da questo principio ne possiamo dedurre, inoltre, la necessità di riconoscere quando una pratica è “buona”, ovvero trasferibile in altro contesto come quello professionale perché ci permette di raggiungere risultati migliori, nel nostro contesto quello lavorativo. È un fare che parte da qualcosa di riflessivo, dove prima del “trasferimento” ci si possa interrogare sui potenziali risvolti efficaci del nuovo contesto. Il fare riflessivo passa quindi dalle mani di coloro che lavorano e dalla loro riflessione circa quanto già appreso in contesti analoghi. Il risultato, pertanto, della possibilità di trasferimento emerge e si diffonde solo alla luce di un monitoraggio che ne esemplifica la sua efficacia. Tale processo, è integrabile con l’evidence-based practices (pratiche basate su prove di efficacia), ovvero i processi che permettono alle evidenze di concretizzarsi in nuove ed efficaci azioni. 


Bibliografia

Vecchiarelli M. Costruire buone pratiche. Il valore aggiunto di un’alleanza territoriale tra Centri di Formazione Professionale (CFP) e Istituzioni scolastiche, in Rassegna CNOS 1/2022. 
Allulli G. – F. Farinelli, Le buone pratiche scuola lavoro. Scuola democratica, (3), pp. 745-754, 2014.
Frigo F., Le buone pratiche nella formazione continua, Roma, ISFOL, 2000. 
Montedoro C. (Ed.). Le buone pratiche nella formazione iniziale, Roma, ISFOL, 2000.


Autore
Liliana Silva Professoressa di pedagogia presso il Dipartimento di Educazione e Scienze Umane dell'Università degli Studi di Modena e Reggio-Emilia.


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