IL SOGNO CHE FA SOGNARE

LA FAME E IL SOGNO[1]

Papà e mamma erano contadini

Sono nato nel giorno in cui si festeggia la madonna Assunta in Cielo.[2] Era l’anno 1815. Vidi la luce a Morialdo,[3] frazione di Castelnuovo d’Asti.

Mio papà si chiamava Francesco, mia mamma Margherita Occhiena. Erano contadini. Si guadagnavano onestamente il pane della vita con il lavoro. Tiravano avanti evitando ogni spesa inutile.

Mio papà, quasi solo con il lavoro delle sue braccia, procurava da vivere a sua mamma settantenne, tribolata dagli acciacchi della vecchiaia, e a noi, suoi tre figli. Il più grande era Antonio, che egli aveva avuto dal suo primo matrimonio. Il secondo si chiamava Giuseppe. Il più giovane ero io, Giovanni. Vivevano nella nostra casa anche due lavoranti che aiutavano mio padre nei campi.

La febbre si porta via papà

Non avevo ancora due anni, quando Dio misericordioso ci colpì con una grave sventura. Mio papà era nel pieno delle forze, nel fiore degli anni, ed era impegnato a darci una buona educazione cristiana. Un giorno, tornando dal lavoro madido di sudore, scese senza pensarci nella cantina sotterranea e fredda. Fu assalito da una febbre violenta, sintomo di una grave polmonite. Fu inutile ogni cura. In pochi giorni la malattia lo stroncò. Nelle ultime ore ricevette i santi Sacramenti e raccomandò a mia madre di avere fiducia in Dio. Cessò di vivere a 34 anni. Era il 12 maggio 1817.

Di quei giorni ho un solo ricordo, il primo ricordo della mia vita: tutti uscivano dalla camera dove mio papà era mancato, ma io non volevo seguirli. Mia mamma mi diceva:

  • Vieni, Giovanni, vieni con me.
  • Se non viene papà, non vengo – risposi.
  • Povero figlio, non hai più papà.

Così dicendo, mamma scoppiò a piangere, mi prese per mani e mi portò fuori. Anch’io piangevo, ma solo perché la vedevo piangere. Per l’età, non potevo capire che grave disgrazia fosse la perdita del padre.

Questo avvenimento gettò tutta la famiglia nella costernazione.

La fame di quell’anno stregato

Le persone che dovevano sopravvivere erano cinque, e proprio quell’anno i raccolti andarono perduti per una terribile siccità. I generi alimentari salirono a prezzi favolosi. Si dovette pagare fino a venticinque lire per un’emina (=23 litri) di grano, e sedici lire per una di granoturco. Gente che ricorda bene quei tempi, mi ha raccontato che i poveri chiedevano in elemosina un pugno di crusca, per rendere più consistente la scarsa minestra di ceci o di fagioli: l’ultima risorsa con cui avevano cercato di nutrirsi.

Mia madre mi raccontò molte volte che nutrì la famiglia dando fondo ad ogni scorta. Poi raccolse il denaro che aveva in casa e lo diede ad un vicino, Bernardo Cavallo, perché cercasse di procurarci dei viveri. Era un nostro amico, si recò a vari mercati, ma non riuscì a combinare niente. Anche offrendo prezzi esorbitanti, non si riusciva a comprare.

L’aspettavamo con ansia. Giunse alla sera del secondo giorno, ma amni vuote. Ricordo che provammo una grande paura, perché già quel giorno non avevamo mangiato quasi niente. Mia madre provò a bussare anche alle case vicine, per avere in prestito qualcosa, ma nessuno fu in grado di aiutarci. Allora senza perdersi di coraggio ci disse:

  • Papà, morendo mi disse si avere fiducia in Dio. Quindi inginocchiamoci e preghiamo.

Dopo una breve preghiera si alzò e disse ancora:

  • Nei casi estremi si devono usare estremi rimedi.

Con l’aiuto di Bernardo Cavallo andò nella stalla, uccise un vitello, ne fece subito cuocere una parte e ci diede da cena. Eravamo affamati fino allo sfinimento. Nei giorni che seguirono riuscì a far arrivare del grano da paesi lontani, a carissimo prezzo.

Una strana proposta per la mamma

In quella durissima annata, mia madre soffrì e faticò moltissimo. Solo con un lavoro instancabile, una parsimonia continua, un risparmio spinto fino al centesimo, e qualche aiuto veramente provvidenziale, riuscimmo a superare la crisi. Questi fatti mi sono statti raccontati più volte da mia madre, e confermati da parenti e amici.

Passato quel terribile momento e tornata l’economia domestica a un bilancio migliore, mia madre ricevette la proposta di risposarsi[4] in maniera molto conveniente. Ma essa rispose con un costante rifiuto.

  • Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto. Morendo egli mi affidò tre figli, e sarei una madre crudele se li dimenticassi nel momento in cui hanno più bisogno di me.

Le fecero notare che i suoi bambini sarebbero stati affidati ad un buon tutore, che ne avrebbe avuto ogni cura. Quella donna generosa rispose:

  • Il tutore è un amico, io sono la madre dei miei figli. Non li abbandonerò mai, nemmeno per tutto l’oro del mondo.

Le sue preoccupazioni più grandi furono: istruire i figli nella religione, educarli all’obbedienza, crescerli senza paura della fatica e del lavoro.

La prima confessione

Quand’ero ancora molto piccolo, mi insegnò le prime preghiere. Appena fui capace di unirmi ai miei fratelli, mi faceva inginocchiare con loro mattino e sera: recitavamo insieme le preghiere e la terza parte del Rosario.

Ricordo che fu lei a prepararmi alla prima confessione. Mi accompagnò in Chiesa, si confessò per prima, mi raccomandò al confessore, e dopo mi aiutò a fare il ringraziamento. Continuò ad aiutarmi fin quando mi credette capace di fare da solo una degna confessione.

Leggere, scrivere e lavorare

Intanto ero arrivato al nono anno di età. Mia madre desiderava mandarmi a scuola, ma era molto incerta a causa della distanza. Il paese di Castelnuovo era lontano cinque chilometri. Pensò di mandarmi in collegio, ma Antonio (16 anni) non era d’accordo. Si finì con un compromesso: durante l’inverno frequentai la scuola di Capriglio, un paese vicino, dove imparai a leggere e a scrivere. Mio maestro fu un sacerdote molto pio, don Giuseppe Dallacqua. Mi trattò con molta gentilezza, si prese a cuore la mia istruzione e più ancora la mia educazione cristiana. Nell’estate, per accontentare mio fratello, andai a lavorare in campagna.

Un sogno che spalanca la vita

A quell’età ho fatto un sogno. Sarebbe rimasto profondamente impresso nella mia mente per tutta la vita.

Mi pareva di essere vicino a casa, in un cortile molto vasto, dove si divertiva una gran quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, mi slanciai in mezzo a loro. Cercai di farli tacere usando pugni e parole.

In quel momento apparve un uomo maestoso, vestito nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La sua faccia era così luminosa che non riuscivo a fissarla. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di mettermi a capo di quei ragazzi. Aggiunse:

- Dovrai farteli amici con bontà e carità, non picchiandoli. Su, parla, spiegagli che il peccato è una cosa cattiva, e che l’amicizia con il Signore è un bene prezioso.

Confuso e spaventato risposi che io ero un ragazzo povero e ignorante, che non ero capace a parlare di religione a quei monelli.

In quel momento i ragazzi cessarono le risse, gli schiamazzi e le bestemmie, e si raccolsero tutti intorno a colui che parlava. Quasi senza sapere cosa dicessi gli domandai:

- Chi siete voi, che mi comandate cose impossibili?

- Proprio perché queste cose ti sembrano impossibili – rispose – dovrai renderle possibili con l’obbedienza e acquistando la scienza.

- Come potrò acquistare la scienza?

- Io ti darò la maestra. Sotto la sua guida si diventa sapienti, ma senza di lei anche chi è sapiente diventa un povero ignorante.

- Ma chi siete voi?

- Io sono il figlio di colei che tua madre ti insegnò a salutare tre volte al giorno.

- La mamma mi dice sempre di non stare con quelli che non conosco, senza il suo permesso. Perciò ditemi il vostro nome.

- Il mio nome domandalo a mia madre.

In quel momento ho visto vicino a lui una donna maestosa, vestita di un manto che risplendeva da tutte le parti, come se in ogni punto ci fosse una stella luminosissima. Vedendomi sempre più confuso, mi fece cenno di andarle vicino, mi prese con bontà per mano e mi disse:

- Guarda.

Guardai, e mi accorsi che quei ragazzi erano tutti scomparsi. Al loro posto c’era una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi e parecchi altri animali. La donna maestosa mi disse:

- Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Cresci umile, forte e robusto, e ciò che adesso vedrai succedere a questi animali, tu lo dovrai fare per i miei figli.

Guardai ancora, ed ecco che al posto di animali feroci comparvero altrettanti agnelli mansueti, che saltellavano, correvano, belavano, facevano festa attorno a quell’uomo e a quella signora.

A quel punto, nel sogno, mi misi a piangere. Dissi a quella signora che non capivo tutte quelle cose. Allora mi pose una mano sul capo e mi disse:

- A suo tempo, tutto comprenderai.

Aveva appena detto queste parole che un rumore mi svegliò. Ogni cosa era scomparsa.

Io rimasi sbalordito. Mi sembrava di avere le mani che facevano male per i pugni che avo dato, che la faccia mi bruciasse per gli schiaffi ricevuti.

 

[1] San Giovanni Bosco, Memorie, Trascrizione in lingua corrente di Teresio Bosco, Editrice Elledici, Torino 1985, pp. 9-16.

[2] Il documento anagrafico attesta che don Bosco nacque il 16 agosto. Invece, curiosamente, sia don bosco sia sua madre affermarono sempre che la nascita avvenne il 15 agosto.

[3] Morialdo era una delle frazioni di Castelnuovo d’Asti (ora Castelnuovo Don Bosco). A sua volta, Morialdo era composto di gruppi sparsi di case, chiamati «cantoni». Don Bosco nacque nel «cantone» dei Becchi.

[4] Solo qui don Bosco accenna a questa circostanza. Altre notizie ci sono completamente ignote.

 

Una rilettura del Sistema Preventivo a partire dal sogno dei nove anni

Piera Ruffinatto

A quell’età ho fatto un sogno

La rievocazione del sogno dei nove anni viene fatta da Don Bosco nelle Memorie dell'Oratorio, uno dei suoi scritti più personali, vera e propria celebrazione in chiave provvidenziale, della storia della sua vita e della Congregazione[1]. Secondo la sua stessa testimonianza esso venne ripetuto a più riprese e, il sogno del 1844 ne riprende la sostanza[2].

Il “sogno” di Giovanni, ai Becchi prende avvio da questo avvenimento, ma poi non si ferma lì, diventa una realtà che incide sempre più fortemente sul futuro del ragazzo il quale vuole studiare, diventare prete, è desideroso di stare con i suoi amici per aiutarli, farli buoni, insegnare loro il catechismo[3]. La vocazione sacerdotale e quella educativa vanno maturando insieme, integrandosi ed illuminandosi l'un l’altra[4]. Lo Stella afferma perciò che «il sogno dei nove anni condizionò tutto il modo di vivere e di pensare di Don Bosco. E in particolare il modo di sentire la presenza di Dio nella vita di ciascuno e nella storia del mondo»[5].

L'ansia e la passione per la salvezza integrale dei giovani è una costante nella vita del nostro Fondatore un “sogno” ricorrente che polarizza le sue energie e le sue forze, ma anche e soprattutto il suo cuore. Secondo il Rettor Maggiore è proprio la relazione, o meglio, l'unione profonda tra “passione” e “Da mihi animas” che costituisce il nostro codice genetico essenziale: «in questo sentire, che è dono carismatico del nostro fondatore, tale “passione” ci collega profondamente a Dio e ai giovani»[6]. Secondo don Chávez, quindi, potremmo utilizzare altri sinonimi per indicare il “sogno” quali ad esempio Da mihi animas come espressione di una missione desiderata, richiesta, accettata.

Infine, in base alla “ricorrenza” continua del sogno nella vita di Don Bosco, possiamo affermare che “ogni età” è il momento di sognare. L'inconscio e la fantasia del piccolo Giovanni, infatti, non si limitarono a tradurre in immagini oniriche un semplice desiderio di bene che si sarebbe vanificato di lì a poco, ma spronarono tutta la personalità di Giovanni: mente, cuore, libertà, volontà a mettersi in atto per realizzare il sogno, nonostante che in molti momenti esso venisse scosso sin nella sua radice. Anzi, proprio in quei momenti di grande difficoltà, il sogno si faceva più chiaro e ricorrente, quasi una “Parola di Dio” rivolta a Don Bosco per confortarlo nei momenti più difficili così come avveniva all'apostolo Pietro rinchiuso in prigione e confortato dall'Angelo messaggero di Dio[7].

L'analogia è evidente: anche nella nostra storia risplende un “sogno”, quello della nostra vocazione salesiana che va continuamente alimentata, richiamata alla mente ed al cuore, fatta risplendere e liberata da quanto la potrebbe soffocare o addirittura uccidere. Per educare con il cuore di Don Bosco quindi, dobbiamo prima di tutto tornare alla radice della nostra vocazione perché «per Don Bosco il servizio e giovani fu la risposta generosa ad una chiamata del Signore. La fusione tra santità ed educazione, perciò che riguarda impegni, ascesi, espressione dell'amore, costituisce il tratto originale della sua figura. Egli è un Santo educatore e un educatore Santo»[8].

Mi sono subito lanciato in mezzo a loro

Francis Desramaut, profondo conoscitore della storia e della spiritualità di Don Bosco, afferma che egli aveva la stoffa del fondatore, innovatore e non conformista, tuttavia non era un rivoluzionario. Queste qualità sono l'opposto dell'imitazione: «se fosse stato conformista, egli sarebbe rimasto, come i suoi fratelli Antonio e Giuseppe, un contadino del Monferrato; e, al più, come il suo compagno di seminario Giacomelli, cappellano di un'istituzione. No, egli sarà prete, e qualcosa di più tra i suoi ragazzi»[9].

Sempre secondo Desramaut, egli aveva un temperamento emotivo-attivo-secondario. Sensibile, attivo, intraprendente, ma anche calmo e riflessivo prima di prendere una decisione. Tuttavia, l'esordio del sogno ci rivela un giovane piuttosto impulsivo o, se vogliamo, assai coraggioso. Invece di scappare alla vista di quella moltitudine “di fanciulli che ridevano, scherzavano e bestemmiavano”, egli si lancia in mezzo a loro e, con pugni e parole, cerca di farli tacere.

Se, da una parte possiamo biasimarne l'impulsività, dall'altra non possiamo che rimanere ammirati da tale intraprendenza mossa dal desiderio di interrompere una situazione spiacevole e di cambiare comportamenti di quei ragazzi.

Dietro a tale comportamento c'è tutta l'inesperienza del piccolo Giovanni, ma anche la ricorrente tentazione degli educatori di ogni tempo e cioè quella che più tardi Don Bosco tre descriverà come metodo “repressivo” il quale «consiste nel far conoscere la legge ai sudditi, poscia sorvegliare per conoscerne i trasgressori ed infliggere, ove sia d'uopo, il meritato castigo […] tale sistema è facile, meno faticoso e giova specialmente nella milizia»[10]. Senza rinnegare l'utilità di tale sistema, Don Bosco, afferma però che esso è valido quando le persone sono adulte e formate nella coscienza morale e quindi in grado di scegliere autonomamente. In questo caso la punizione risulta educativa perché aiuta a riprendere la via che si era smarrita.

Nel caso della persona in crescita, invece, la repressione possiede effetti sgradevoli e deleteri: raffredda i rapporti, allontana il mondo adulto da quello giovanile, e, se da una parte può anche impedire un disordine, dall'altra quasi sicuramente non migliora le persone. È ancora Don Bosco a parlare: «si è osservato che i giovanetti non dimenticano i castighi subiti, e per lo più conservano amarezza con desiderio di scuotere il giogo ed anche di farne vendetta. Sembra talora che non ci badino, ma chi tiene dietro ai loro andamenti conosce che sono terribili le reminiscenze della gioventù; e che dimenticano facilmente le punizioni dei genitori, ma assai difficilmente quelle degli educatori»[11].

In ogni epoca storica ci si confronta con i modelli pedagogici emergenti, li si vaglia e li si critica in base a riferimenti antropologici e poi si prende posizione. Nel secolo della “preventività” in cui Don Bosco era immerso sembrava che la dialettica si dovesse porre principalmente tra questi due sistemi. E lui fece la sua scelta. Se si trovasse con noi oggi avrebbe di fronte molte più possibilità. Il pluralismo pedagogico in cui siamo immersi, infatti, rischia di confondere le idee e di provocare negli educatori molta insicurezza. Tuttavia, sfrondando il discorso, possiamo dire che oggi non sono molte le opportunità anche se, forse, è più difficile individuarle. Anzitutto, tornando all'azione del piccolo e inesperto Giovanni che si “lancia” tra i ragazzi per impedire un male, dobbiamo confessare una sorta di latitanza del mondo adulto riguardo la responsabilità educativa. Ci avvolge cioè una sorta di torpore nel quale, senza accorgerci, stiamo forse scivolando attanagliati anche noi dal relativismo antropologico e morale che causa il consumismo e la frammentazione delle esperienze.

Impedire il male, ma prima ancora smascherarlo, portarlo alla luce, combatterlo con la forza della verità e del bene, così come sentiva di dover fare Giovanni, rimane una componente essenziale del sistema preventivo, ma prima ancora del Vangelo di Cristo. Non si tratta di rinchiuderci in fondamentalismi o integralismi, quanto di essere quello che siamo e cioè cristiani. Afferma il rettor maggiore: «Sale della terra siamo noi quando viviamo lo spirito delle beatitudini, quando costruiamo la nostra vita a partire dal discorso della montagna, quando viviamo un'esistenza alternativa. Si tratta di essere persone che, di fronte a una società che privilegia il successo, l'effimero, il provvisorio, il denaro, il godimento, la potenza, la vendetta, il conflitto, la guerra, scelgono la pace, il perdono, la misericordia, la gratuità, lo spirito di sacrificio, cominciando dal cerchio ristretto della famiglia o della comunità per allargarsi poi alla società»[12].

Dunque, dietro lo slancio del piccolo Giovanni c'è la forza dirompente della vocazione salesiana autentica che deve trascinare anche noi nel riprendere in mano la nostra azione educativa e donarle nuovo vigore ed entusiasmo, una passione per il bene e il vero che si compenetra di amore, come vedremo tra poco.

Questa è, in altre parole, l'azione di contrasto che noi possiamo porre al modello pedagogico che oggi impera nelle nostre società consumista e cioè il permissivismo. Esso è deleterio forse più del sistema repressivo che dominava l'Ottocento perché è una sorta di delega dalla nostra responsabilità di persone adulte e quindi responsabili delle nuove generazioni che crescono. Impoverisce noi come uomini e donne perché ci impedisce di attivare le nostre energie ponendoci testimoni umili e convinti degli ideali che reggono la nostra vita, ma causa anche e soprattutto un danno irreparabile nei giovani i quali crescono in balia dei propri istinti, incapaci di canalizzare le loro forze per raggiungere o conquistare, anche a prezzo di grandi sacrifici, un obiettivo valido e duraturo punto anche qui, come afferma Don Bosco del sistema repressivo, si potrebbe dire che il permissivismo produce degli effetti immediati: non si creano conflitti, la relazione educativa è fondata sul do ut des, ma ciascun membro è solo nell'affrontare le proprie decisioni, spesso troppo gravose e difficili. E a lungo andare le famiglie perdono i valori più importanti: la libertà, la responsabilità, la capacità di lottare per gli ideali in cui si crede. In questo modo, senza accorgersi, gli adulti uccidono l'anima dei giovani.

Infine, non dobbiamo dimenticare un altro modello che si diffonde in modo sottile ed invasivo. Esso permea i nostri sistemi scolastici, ma anche e soprattutto la nostra mentalità e la nostra visione di futuro. Esso è sorretto dall'ideale economico al quale è asservita la formazione, che diventa così funzionale al sistema. L'educazione perde ciò che la rende tale e cioè la centralità della persona compresa nella sua integrità integralità, considerata sempre fine e mai mezzo. Il potere economico non permea solo la politica, ma dirige e orienta soprattutto il modello di uomo e di donna di cui la società ha bisogno provocando uno slittamento sempre più deciso verso l'esteriorità, il successo, il carrierismo e uno svuotamento di valori umani e spirituali. L'orientamento etico che spinge verso l'eliminazione dei soggetti deboli o malati attraverso le diagnosi prenatali, la difesa ad oltranza dell'aborto, l'ombra dell'eutanasia come soluzione per l'eliminazione di chi non è più di alcuna utilità alla società non fanno che confermare gli esiti nefasti di tale modello pedagogico che si ispira all'ideale dell'homo aeconomicus.

Vediamo allora quale orientamento viene consegnato a Giovanni e indirettamente anche a noi suoi discepoli per affrontare questo campo senza disertarlo, ma offrendo invece il nostro apporto appassionato.

Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di quei fanciulli

Don Bosco è un abile narratore. Dopo averci coinvolti in un dramma dai toni vivaci quale quello della moltitudine di fanciulli che bestemmiano e che vengono “aggrediti” da Giovanni nel tentativo di fargli smettere, la scena muta improvvisamente: «In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito punto un manto bianco gli copriva tutta la persona; Ma la sua faccia era così luminosa virgola che io non potevo rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di quei fanciulli aggiungendo. - Non colle percosse ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti dunque immediatamente a fare loro un'istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù»[13].

Il cambio di scena denota anche il mutamento del livello interpretativo: si passa dal fenomenologico al soprannaturale. Questa descrizione, infatti, richiama il genere letterario delle vocazioni bibliche. Il personaggio immerso nella luce, del quale non si può rimirare il volto tanto è lo splendore che lo avvolge, la perentorietà dei verbi “mi chiamò” e “mi ordinò” riconvocano la vocazione di Mosè di fronte al mistero del roveto che arde e non si consuma, di Dio che si rivela come “Colui che è” e che lo vuole trasformare in un condottiero: dovrà, infatti, porsi alla testa del popolo d'Israele per condurlo verso la terra promessa.

Anche a Giovanni è qui consegnata una vocazione davanti alla quale non ci possono essere dubbi o timori. Gli viene, infatti, ordinato di porsi alla testa di quei giovani senza indugiare, di mettersi subito ad educarne la coscienza facendo risplendere davanti a loro la bellezza del vero e del bene, e dimostrando la bruttezza del male. Dentro questo ordine è contenuta in germe la missione preventiva che non consiste evidentemente solo nell'impedire il male, ma soprattutto nel promuovere il bene.

Il messaggio ascoltato ha un impatto fortissimo su Giovanni il quale, alle parole sentite risponde con confusione e spavento quasi perdendo tutto il coraggio e l'intraprendenza con cui l'abbiamo vista affrontare la situazione iniziale. Egli è chiamato ad un cammino di sequela che si sviluppa con un percorso originale e va controcorrente con la vita di prima. D'ora in poi, infatti, non dovrà più usare la violenza ma solo la mansuetudine e la carità.

Siamo arrivati alla parte centrale del sogno, e anche al cuore della Strenna del Rettor Maggiore in quanto, nelle parole del personaggio è indicato il progetto salesiano nei suoi principi ispiratori e nei percorsi metodologici coi quali si attua.

La finalità educativa è espressa con il verbo “guadagnare” divenuto caro alla tradizione salesiana perché ricco di significati legati all'abilità relazionale di Don Bosco, alla valenza pedagogica dell'assistenza, al significato educativo dello spirito di famiglia. Tuttavia esso non è stato esente da critiche perché passibile di essere frainteso e di esprimere una relazione educativa che non promuove l'autonomia ma favorisce la dipendenza, o che è troppo centrata sulla figura dell'educatore a scapito del giovane. Tali critiche non devono lasciarci tranquilli ma, al contrario, ci stimolano a verificare l'intenzionalità educativa delle nostre relazioni con i giovani perché il “guadagno” sia davvero nella direzione di aiutarli a vivere un'esistenza piena, felice, ricca di speranza e di gioia e non un attirarli per fermarli a noi. Credo che oggi, assillati dalla carenza del personale, potremmo più facilmente incorrere nel rischio di trattenere i giovani e di affascinarli al Sistema preventivo più per un calcolo utilitaristico che per un desiderio di una loro vera promozione umana e spirituale.

Nella Strenna Educhiamo con il cuore di Don Bosco del 2008, il Rettor Maggiore riprende questi temi fondamentali, rilanciandoli nella loro valenza educativa e riconsegnandoli alla nostra intraprendenza di educatori perché possano essere tradotti nell'oggi: l'assistenza come recupero del “desiderio” di stare in mezzo ai giovani incarnando l'espressione di Don Bosco: “Qui con voi mi trovo bene”. Essa è prima di tutto presenza fisica, ma soprattutto forza morale che comprende, risveglia, incoraggia, orienta e accompagna[14]. Essa non può esaurirsi al livello dell'amicizia con i giovani, ma esprime una paternità e maternità educativa che è vocazione generativa.

Il cortile come “luogo educativo” per eccellenza dove “guadagnare” i giovani a Cristo e al suo Vangelo. Esso è una metastruttura nel senso che ogni luogo di educazione formale, informale o non formale dovrebbe avere le caratteristiche del cortile, cioè possibilità di esprimersi con spontaneità, luogo di partecipazione e di corresponsabilità, fucina di proposte affascinanti per la loro bellezza ed entusiasmanti per la loro consistenza. Luogo vitale nel senso più pregnante del termine: spazio dove si promuove la vita, terreno buono dove il seme può crescere, germinare, portare frutto e, a sua volta, contagiare altri allargando il cerchio della solidarietà.

Spirito di famiglia come creazione di una comunità nella quale i valori siano comprensibili e condivisibili, ciascuno al punto di maturazione in cui si trova.

Il cuore dei giovani va guadagnato attraverso un metodo diametralmente opposto a quello utilizzato da Giovanni all'inizio del sogno. Alla violenza bisogna sostituire la mansuetudine e la carità. Invero la carità educativa è il vero motore del Sistema preventivo, il sole attorno a cui tutti gli altri elementi ruotano, attratti dalla sua potenza gravitazionale. Si tratta evidentemente della carità divina, magistralmente cantata da san Paolo nella lettera ai Corinzi e ripresa da don bosco nell'Opuscolo sul Sistema preventivo: «La pratica di questo sistema è tutta appoggiata sopra le parole di s. Paolo che dice: Charitas benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet. La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo. Perciò soltanto il cristiano può con successo applicare il Sistema preventivo»[15].

Mi pare di trovare una sinonimia tra carità e le parole utilizzate dal Rettor Maggiore nella Strenna e nei discorsi seguenti: passione, desiderio, Da mihi animas. Don Chavez richiama la scelta effettuata al Congresso internazionale della vita consacrata svoltosi a Roma nel novembre del 2004: Passione per Cristo, passione per l'umanità. E sottolinea: «Tale scelta è ordinata a riportarci a coltivare una potente forza trainante, un'immensa energia che è appunto quella del desiderio»[16]. Una passione che ci lega a Dio e ai giovani perché: «la missione è dono di Dio; è Lui che vuole essere tra i giovani tramite noi, perché Egli stesso vuole salvarli, vuole donare loro la sua pienezza di vita; la missione è perciò da desiderare, perché nasce nel cuore di Dio Salvatore e non dalla nostra volontà»[17]. Sappiamo perciò di quale amore parliamo: è l'agape divina, l'amore che penetra il nostro cuore e lo trasforma utilizzando i canali della nostra umanità spesso fragile, ma sicuramente predisposta a vivere l'amore oblativo e generativo come suo naturale compimento.

Ma non basta ancora parlare di amore in questi termini. Manca, infatti, una precisazione che “fa la differenza” ed è legata alle modalità di espressione di questo amore. Molto spesso ci capita di sentire dalla bocca di genitori scoraggiati la delusione nel vedere che i figli non riconoscono l'amore che ricevono, spesso rinfacciando loro che quanto fanno non basta. Sembra questo l'eco della lettera scritta da Roma nel 1884 quando, un Don Bosco consumato di fatiche apostoliche difende i suoi salesiani di fronte alle critiche dell'antico ex allievo: «Non vedi come [i Direttori, i Prefetti, i maestri e gli assistenti] sono martiri dello studio e del lavoro? Come consumino i loro anni giovanili per coloro che ad essi affidò la Divina Provvidenza? […] Non vedono che quanto si fa per essi è tutto per loro amore?»[18]. E per tutta risposta Valfrè ribatte: «Vedo, conosco, ma ciò non basta: ci manca il meglio. Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati»[19].

L'amore che sorregge l’atto educativo è sì importante, ma Don Bosco ci dice per esperienza che ancor più determinante è il saper utilizzare il “linguaggio del cuore” attraverso l'amorevolezza che è, appunto, amore percepito ed espresso, affettivo ed effettivo: «essa genera un affetto che viene manifestato a misura del ragazzo, particolarmente di quello più povero; è l'approccio fiducioso, il primo passo e la prima parola, la stima dimostrata attraverso gesti comprensibili, che favoriscono la confidenza, infondono sicurezza interiore, suggeriscono e sostengono la voglia di impegnarsi e lo sforzo di superare le difficoltà.[20]

Presomi con bontà per mano mi disse: “Ecco il tuo campo, ecco dove dovrai lavorare”

La narrazione del sogno prosegue con un ulteriore cambio di scena. Alla concitazione e al caos iniziali si vanno sostituendo la calma e l'ordine: «I ragazzi, cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui che parlava»[21]. Pare impossibile che questo avvenga, per questo lo stupore e lo sgomento si diffondono nel cuore di Giovanni il quale, senza sapere che cosa stia dicendo soggiunge: «Chi siete voi che mi comandate cosa impossibile?». E, ancor più sconcertato, egli si sente rispondere: «Proprio perché queste cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll'ubbidienza e coll'acquisto della scienza»[22].

Obbedienza e scienza rendono possibile l'impossibile perché sono sinonimi di fede e ragione, abbandono in Dio e operosità apostolica: le due ali che permettono al cristiano di alzarsi in alto e lasciar risplendere dentro di sé l'immagine del Creatore dal quale proviene. Questo linguaggio, inoltre, richiama immediatamente l'icona dell'Annunciazione nella quale Maria si sente rispondere dall'Angelo che “nulla è impossibile a Dio”. È proprio a questo punto, infatti, che a Giovanni viene indicata la Maestra, la sede della Sapienza e l'educatrice nello stile del Sistema preventivo. Anche in questo caso l'arrivo del personaggio è avvolto da un fascio di luce che provoca un’ulteriore confusione nel ragazzo.

I giovani, o se vogliamo i lupi del sogno, sono dunque il “campo” nel quale Giovanni dovrà lavorare. La metafora del terreno è forse una delle più ricche di tutta la tradizione cristiana ed è anche dello stesso Don Bosco. Gesù stesso nel Vangelo utilizza molte volte l'immagine del terreno: la parabola del seme e del seminatore, il racconto della vigna, quello del seme che cresce da solo, il fico sterile ecc. … Qui è appena il caso di richiamare quanto viene sottolineato all'inizio della Strenna per far emergere la continuità che lega il discorso della promozione della vita (2007) e quello della famiglia (2006): «La vita è il grande dono che Dio ci ha affidato come un “seme”, perché collaboriamo con Lui a farlo crescere e fruttificare in abbondanza. il seme ha bisogno di “cadere in un terreno buono”, nel quale possa germinare e portare frutto; questo terreno è la famiglia, culla della vita e dell'amore, luogo primario di umanizzazione. Essa accoglie con gioia e gratitudine il dono della vita e offre l'ambiente naturale propizio per la sua crescita e il suo sviluppo. Ma, come avviene per il seme, non basta un buon terreno; si richiedono gli sforzi pazienti e laboriosi dell'agricoltore che lo irriga, lo cura, lo aiuta a crescere»[23].

Il legame tra il campo e l'agricoltore ci offre molte suggestioni per approfondire la relazione educativa. Esse si rifanno tutte essenzialmente all'antropologia dell'umanesimo pedagogico cristiano che fa da sfondo all'atto educativo. A premessa di tutto, infatti, vi è la fiducia incondizionata che l'agricoltore ripone nella bontà del suo terreno, dal quale spera senza ombra di timori, un raccolto abbondante.

Egli conosce le potenzialità presenti nella sua terra e sa porre i gesti opportuni perché in ogni stagione essa dia sempre il meglio di se stessa. Nello stesso tempo, possiede la sapienza del contadino il quale è consapevole delle variabili che vengono ad intrecciarsi ad ogni nuova semina. Agenti esterni, ma anche interni, non permettono di fare previsioni matematiche, siccome il rapporto rimane sempre avvolto di fiducia, attesa, silenzio, accoglienza dei risultati più diversi. Fuori di metafora, educare nello stile del Sistema preventivo significa essere profondamente coscienti che al centro dell'atto educativo si pone il soggetto protagonista della sua storia e delle sue scelte il quale va aiutato e orientato, ma mai forzato o costretto in nessun modo. Il rispetto della libertà, infatti, è garanzia di autenticità.

Come un contadino che non conosce il suo campo è un cattivo contadino, così un educatore che non conosca i suoi giovani, il suo “terreno”, è destinato a fallire. Non si ribadirà mai abbastanza, allora, la necessità di non perdere il contatto con il mondo giovanile che spesso ci intimorisce essendo tanto diverso dal nostro. Ma il cuore è sempre lo stesso: bisognoso di cure ed attenzioni date al momento giusto perché il seme del bene possa germogliare in loro. La fiducia nelle possibilità dei giovani dimostra anche fiducia nel futuro dell'umanità in quanto è a loro che è affidato il mondo di domani. Bisogna riprendere perciò con coraggio la strada di una nuova educazione che, a mio parere, non consiste nell'apportare all'educazione delle novità che provengano dall'esterno, magari affidandosi al mero rinnovamento delle strutture, o all'aggiornamento delle tecniche. È l'educazione che deve essere “nuova”, cioè riscoperta nel suo potere umanizzante e per fare questo bisogna operare un'intelligente e serio ritorno al Sistema preventivo di Don Bosco per cogliere nel suo stile educativo, che spesso solo superficialmente diciamo di conoscere e di applicare, tutte quelle virtualità che aspettano di venire alla luce attraverso l'azione seria e competente delle nostre comunità educanti. Di qui procederà sicuramente un'educazione “nuova” impegnata a restituire ai giovani il senso della loro esistenza, a dare loro prospettive di futuro che non si fermano al qui ed ora, anche se hanno il potere di farlo lievitare riempiendolo di significato, a collaborare con lo Spirito Santo per far risplendere Cristo nel cuore di ciascuno.

Credo che la rinnovata scelta dell'educazione salesiana sia uno dei passaggi più urgenti da fare oggi. Rivolgendosi ai capitolari, Benedetto XVI ha affermato: «Il carisma dei salesiani li pone nella situazione privilegiata per poter valorizzare l'apporto dell'educazione nel campo dell'evangelizzazione dei giovani. Senza educazione, in effetti, non c'è evangelizzazione duratura e profonda, non c'è crescita e maturazione, non si dà cambio di mentalità e di cultura. I giovani nutrono desideri profondi di vita piena, di amore autentico, di libertà costruttiva; spesso purtroppo le loro attese sono tradite e non giungono a realizzazione».[24] Si tratta allora di non disertare i “nodi” della cultura odierna con la relativa conoscenza delle matrici della mentalità e dei comportamenti. Le grandi sfide che ci interpellano esigono «serietà di analisi, pertinenza di osservazioni critiche, confronto culturale approfondito, capacità di condividere psicologicamente la situazione».[25]

L'agricoltore non è solo in questo processo. Maria lo ha “preso con bontà per mano” e gli è sempre accanto. È lei ad indicargli il campo di lavoro, a “sceglierlo” per lui e a consegnarglielo come una missione, ed è ancora Lei ad istruire Giovanni sull'itinerario formativo che dovrà compiere: «Renditi umile, forte, robusto».[26]

L'accenno all'itinerario formativo è quanto mai concreto e realistico: umiltà, fortezza, robustezza, assieme alla scienza e all'obbedienza. Sono qualità indispensabili per un contadino che ben conosce la durezza del lavoro dei campi. Infatti, senza la forza fisica e la capacità di resistere alla fatica non si può ottenere alcun risultato. Don Bosco sembra prendere alla lettera tale insegnamento ricordando ai suoi educatori che l'educazione è un'opera che richiede pazienza e capacità di resistenza: «Il lavoro educativo pastorale non può essere compreso e svolto episodicamente, quasi fosse un fuoco d'artificio; esso è come un lavoro di agricoltura, che richiede tempi lunghi, interventi mirati, cura attenta, e soprattutto grande dedizione ed amore».[27]

La resistenza che viene richiesta non è solo quella che contrasta e previene lo stress fisico, ma è la perseveranza dell'apostolo che non si scoraggia mai di fronte a qualsiasi fallimento o diniego. E quell’inguaribile ottimismo che dopo Don Bosco ha caratterizzato migliaia di consacrati e laici che nella Famiglia Salesiana hanno donato la vita nella certezza della bontà del terreno giovanile e i giovani, riposando su questa fiducia, hanno trovato la forza e il motivo di rinascere davvero a vita nuova e di tornare a sperare in se stessi, negli altri e in Dio.

Colei che conduce l'educatore nel suo campo è Maria. Questo particolare non va messo in secondo piano, quasi fosse un semplice inciso. In realtà il fatto che Gesù consegni a Giovanni Bosco sua madre come “Maestra” ci viene a dire che Don Bosco trova il “coraggio di educare” solo «ponendosi alla scuola di Maria, la donna che apre la via che conduce a Cristo»[28]. Maria ci ammaestra di educazione preventiva per molteplici motivi. Anzitutto la sua vicenda e la sua figura «penetrate nel loro significato essenziale, possono indicare le coordinate indispensabili per orientare il processo educativo verso la realizzazione di una personalità integrale considerata nel suo contesto». In lei, cioè, si può scorgere «non solo la piena realizzazione del progetto di Dio sulla persona umana, ma anche il processo che conduce a tale realizzazione […] Alla scuola di Maria si può imparare come si diventa persona; come per Lei, realizzare la propria umanità significa scoprire il senso della vita, assumere in essa responsabilmente il proprio posto, affermare la propria libertà nell'obbedienza alla verità della vita, alle sue leggi, ai suoi valori, ad una giusta scala di valori»[29].

Secondariamente, educare ponendoci alla scuola di Maria ci permette di recuperare la «maternità integrale che non si esaurisce nel compito della generazione dei figli, ma continua nel processo di umanizzazione mediante l'educazione. Educare implica una relazione educativa che trova il suo prototipo nella relazione madre-figlio: da questa prima e fondamentale relazione si sviluppano la fiducia nella vita e la visione stessa dell'universo. Madre, allora, è colei che genera ed educa. Così è stato per Maria nei confronti di quel Figlio eccezionale che la fede le ha fatto accogliere nel grembo; così continua ad essere, nella fede, per i fratelli e le sorelle che Gesù le ha affidato dalla Croce».[30]

Ci aiuti Don Bosco a “ritornare” a lui per appassionarci continuamente della sua missione educativa punto ci incoraggi a lasciarci prendere per mano da Maria, e seguendola, raggiungere i tanti “campi” che ci attendono. Ci sostenga ad impegnarci nella nostra vocazione di agricoltori e, come lui, ci rende saggi ed esperti, pazienti e umili, ricchi di ottimismo e di speranza nei frutti che sicuramente è sempre verranno!

 

[1] Cfr. Braido P., Scrivere “Memorie del futuro”, in Ricerche storiche salesiane 11 (1992) 1, 97-127.

[2] Cfr. MO 129-130.

[3] Cfr. ivi 38.

[4] Cfr. Klein J. – Valentini E., Una rettificazione cronologica delle «Memorie di San Giovanni Bosco», in Salesianum 17 (1955) 581-610.

[5] Stella, Don Bosco nella storia della religiosità I, 31.

[6] Chávez Villanueva P., Discorso del Rettor Maggiore all’apertura del Capitolo Generale XVI 6.

[7] Cfr. Atti degli Apostoli 12, 1-19.

[8] Chávez, Educhiamo con il cuore di Don Bosco 7.

[9] Desramaut F., Don Bosco fondatore, in Midali M. (a cura di), Don Bosco Fondatore della Famiglia Salesiana. Atti del simposio Roma – Salesianum (22-26 gennaio 1989), Roma, ed. SDB 1989, 115.

[10] Bosco G., Il sistema preventivo nell’educazione della gioventù, in Braido P. (a cura di), Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, Roma, LAS 1992, 258.

[11] Ivi 260.

[12] Chávez, Discorso del Rettor Maggiore all’apertura del Capitolo Generale XVI 5.

[13] MO 35.

[14] Cfr. Chávez, Educhiamo con il cuore di Don Bosco 12.

[15] Bosco, Il sistema preventivo, in Braido P. (a cura di), Don Bosco educatore 261.

[16] Chávez, Discorso del Rettor Maggiore all’apertura del Capitolo Generale XVI 6.

[17] Ivi 7.

[18] Bosco G., Due lettere da Roma, in Braido P. (a cura di), Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, Roma, LAS 1992, 381.

[19] L. cit.

[20] Chávez, Educhiamo con il cuore di Don Bosco 11.

[21] MO 35.

[22] Ivi 36.

[23] Chávez, Educhiamo con il cuore di Don Bosco 4.

[24] Messaggio del santo Padre Benedetto XVI al Rettor Maggiore e ai capitolari, n° 4.

[25] Chávez, Educhiamo con il cuore di Don Bosco 21.

[26] MO 36.

[27] Chávez, Educhiamo con il cuore di Don Bosco 4.

[28] Manello M.P. – Marchi M., Introduzione, in Dosio M. – Gannon M. – Manello M.P. – Marchi M. (a cura di), «Io ti darò la maestra…» Il coraggio di educare alla scuola di Maria, Atti del Convegno Mariano Internazionale promosso dalla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium” – Roma. Roma, 27-30 dicembre 2004, Roma, LAS 2005, 13.

[29] Ivi 15.

[30] Colombo A., Un convegno a lungo desiderato, in Dosio M. – Gannon M. – Manello M.P. – Marchi M. (a cura di), «Io ti darò la maestra…» 29.