Svimez 2022

Descrizione breve: 
L’aggiornamento annuale di contabilità territoriale del Rapporto SVIMEZ fornisce il “consuntivo” della ripresa post-pandemia del 2021 alla quale il Mezzogiorno ha partecipato, a differenza di quanto avvenuto nelle precedenti fasi cicliche espansive, fino all’arrivo del nuovo “shock Ucraina”.
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Data: 
28 Novembre 2022
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Rapporto Svimez 2021: l'economia e la società del Mezzogiorno

Descrizione breve: 
Il Rapporto SVIMEZ 2021 sull’economia e la società del Mezzogiorno intende analizzare le ricadute economiche e sociali della pandemia nella nuova geografia dei divari territoriali europei e italiani e offre una prima valutazione sulla partecipazione delle diverse aree del Paese alla ripartenza dell’economia nazionale.
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Data: 
30 Novembre 2021
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Rapporto SVIMEZ 2017 sull'economia del Mezzogiorno

Descrizione breve: 
Secondo le previsioni, il Mezzogiorno resta agganciato alla ripresa economica dell'Italia anche nel 2017 e nel 2018. La resilienza alla crisi non è stata omogenea, tra Regioni e tra settori.
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Data: 
7 Novembre 2017
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Svimez: Rapporto 2016

Descrizione breve: 
Dopo sette anni di crisi ininterrotta il Sud torna a crescere. Nel Rapporto Svimez 2016 sull’economia del Mezzogiorno si registra una crescita del Pil nel 2015 pari all’1%, crescita trainata dai settori legati all’agricoltura, al manifatturiero e dalla chiusura della programmazione dei fondi strutturali europei 2007/2013 che ha portato a un’accelerazione della spesa pubblica.
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Data: 
10 Novembre 2016
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SVIMEZ: Rapporto 2015 sull'economia del Mezzogiorno

Descrizione breve: 
Un Paese diviso e diseguale: nel 2014 per il 7° anno il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo (-1,3%); il divario di Pil pro capite è tornato ai livelli di 15 anni fa; negli anni 2008-2014 i consumi delle famiglie meridionali sono crollati del 13% e gli investimenti nell’industria del 59% e quasi il 62% dei meridionali guadagna meno di 12mila€ annui (28,5% del Centro-Nord).
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Data: 
30 Luglio 2015
SVIMEZ: Rapporto 2015 sull'economia del Mezzogiorno
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Rapporto SVIMEZ 2014 sull’economia del Mezzogiorno

Descrizione breve: 
Rilancio degli investimenti, una politica industriale nazionale specifica per il Sud, fiscalità di compensazione, sono alcune delle proposte di policy che la SVIMEZ avanza nel Rapporto 2014 sull’economia del Mezzogiorno.
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Data: 
28 Ottobre 2014
Rapporto SVIMEZ 2014 sull’economia del Mezzogiorno
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SVIMEZ: Rapporto 2011 sull'economia del Mezzogiorno

Descrizione breve: 
Lo SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, mette in luce le condizioni economico industriali del Mezzogiorno italiano.
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Data: 
27 Settembre 2011
SVIMEZ: Rapporto 2011 sull'economia del Mezzogiorno
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SVIMEZ: Rapporto 2010 sull'economia del Mezzogiorno

Descrizione breve: 
Lo SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, mette in luce le condizioni economico industriali del Mezzogiorno italiano.
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Data: 
20 Luglio 2010
Svimez 2010/00_Comunicato_Stampa.pdf Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it Roma,20 luglio 2010 SVIMEZ, PIANO DA 38 MILIARDI DI EURO PER LE GRANDI INFRASTRUTTURE Nel 2009 il Pil torna ai livelli di dieci anni fa – Giù tutti i settori 2,4 milioni via dal Sud in venti anni – 26mila pendolari in meno per la crisi Al 24% il tasso di disoccupazione effettivo al Sud Il 44% delle famiglie non può sostenere una spesa extra di 750 euro La fotografia dell’economia del Mezzogiorno nel Rapporto SVIMEZ Un Mezzogiorno in recessione, colpito duramente dalla crisi nel settore industriale, che da otto anni consecutivi cresce meno del Centro-Nord, cosa mai avvenuta dal dopoguerra a oggi, il cui Pil del 2009 è tornato ai livelli di dieci anni fa. Un’area periferica in cui gli emigrati precari, colpiti dalla crisi, privi di tutele, a parte la CIG, iniziano a rientrare, ma già pensano a ripartire, dove il tasso di disoccupa- zione paradossalmente cresce di più al Nord che al Sud, dove 6 milioni 830mila persone sono a rischio povertà. Mentre serve un nuovo progetto Paese per il Sud, che parta dal rilancio delle infrastrutture, con piano di 38 miliardi di euro, per co- involgere quale nuova “frontiera” i settori più innovativi: questa la fotografia che emerge dal Rapporto SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno 2010 in presentazio- ne a Roma martedì 20 luglio. Nel 2009 il Pil del Sud è calato del 4,5%, un valore molto più negativo del -1,5% del 2008, leggermente inferiore al dato del Centro-Nord (-5,2%). Il Pil per abitan- te è pari a 17.317 euro, il 58,8% del Centro-Nord (29.449 euro). A livello regionale l’Abruzzo mostra nel 2009 una diminuzione del Pil particolar- mente elevata (-5,9%), seguito dalla Campania (-5,4%), e Puglia e Basilicata a pari merito (-5%). Tutte negative le altre regioni meridionali, come le settentrionali, a ecce- zione della Valle d’Aosta. La perdita più contenuta in Sicilia (-3,1%). A livello settoriale nel 2009 anche l’agricoltura meridionale è stata investita dalla crisi, con un crollo del valore aggiunto del 5%, contro il -1,9% del Centro-Nord. A livello re- gionale il valore aggiunto di Abruzzo, Basilicata, Molise e Puglia, che nel 2008 avevano registrato buone performances, è sceso fortemente, con valori compresi tra -8% e -11%. A fare le spese maggiori della crisi, l’industria, con un crollo del valore aggiunto in- dustriale nel 2009 del 15,8%, mentre le produzioni manifatturiere hanno segnato un calo del 16,6%. A tirare giù l’industria meridionale soprattutto minerali non metallurgici (-26,9%), metalli (23,9%) e macchine e mezzi di trasporto (-20,5%). Sempre per effetto della crisi, per la prima volta dalla fine della guerra il valore aggiun- to del settore dei servizi è calato per due anni consecutivi, segnando nel 2009 – 2,7% (Centro-Nord -2,6%), con effetti molto più pesanti nel commercio (-11% contro -9%). Giù anche turismo e trasporti (-3%) e intermediazione creditizia e immobiliare (-1,7%). Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it Circa 88mila i posti di lavoro persi nel settore al Sud (-1,9% rispetto al 2008), con punte del -3,9% nel commercio, il doppio che al Centro-Nord (-1,7%), concentrate soprattutto nel lavoro autonomo. Due le cause principali dell’andamento recessivo: investimenti che rallentano, fa- miglie che non consumano. Queste ultime infatti hanno ridotto al Sud la spesa del 2,6% contro l’1,6% del Centro-Nord. Mentre gli investimenti industriali sono crolla- ti del 9,6% nel 2009, dopo la flessione (-3,7%) del 2008. L’INDUSTRIA DEL SUD A RISCHIO ESTINZIONE Una situazione senza precedenti: dal 2008 al 2009 l’industria manifatturiera del Sud ha perso oltre 100mila posti di lavoro, di cui 61mila soltanto lo scorso anno. In que- sto modo il gap dell’industria meridionale con il Centro-Nord e il resto dell’Europa si è ulteriormente aggravato. Dal 2004 al 2008 il valore aggiunto industriale al Sud ha perso il 2,4% contro il + 9,7% dei paesi dell’area Euro. Secondo la SVIMEZ per uscire dall’impasse occorre promuovere una nuova politica in- dustriale specifica per il Sud, con risorse adeguate. Uno degli elementi fondamentali dovrebbe essere costituito dalla fiscalità di vantaggio. LA DISOCCUPAZIONE CRESCE DI PIU’ AL CENTRO-NORD Il tasso di occupazione nella media del 2009 è sceso di quasi un punto percentuale ri- spetto al 2008, da 58,7% a 57,5%. Su 380mila posti di lavoro in meno in tutto il Paese, 186 mila sono stati al Centro- Nord (-1,1%). Situazione più pesante nel Mezzogiorno, con 194mila unità in meno (-3%). Se si analizzano gli andamenti trimestrali dell’occupazione, emerge che la crisi è inizia- ta prima al Sud e lì sembra durare più a lungo. Gli occupati al Sud sono quindi tornati ai livelli di dieci anni fa. Dei circa 530mila posti di lavoro persi nell’ultimo anno e mezzo, 335mila sono al Sud. Regioni - Nel 2009 tutte le regioni meridionali sono state interessate da difficoltà occu- pazionali. Perdite più consistenti in Abruzzo (-4,6%, pari a 23.800 posti di lavoro in meno), Campania (-4,1%, pari a 68.700 posti di lavoro in meno) e Puglia (-3,8%, 49.200 unità in meno). In linea con il calo del 3% degli occupati meridionali il Molise (-3,1%, meno 3.600 posti) e la Sardegna (-3%, meno 18.600 posti di lavoro). Cifre più contenute, pur se negative, in Basilicata (-2,7%, pari a 5.200 posti di lavoro), Ca- labria (-1,5%, 9.100 posti) e Sicilia (-1,1%, 15.700 posti di lavoro). Settori - La domanda di lavoro in agricoltura continua a scendere, soprattutto al Sud (-5,8% contro il +0,9% del Centro-Nord). In calo anche l’industria, che segna - 6,3% al Sud e -2,7% nell’altra ripartizione. La dinamica dell’occupazione industriale è Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it sensibilmente negativa in tutte le regioni del Sud, particolarmente in Sicilia (-8,4%), Campania (-7,2%) e Puglia (-7,3%), con l’eccezione della Calabria (+0,4%). Giù anche i servizi, con un calo dell’1,6%, ben più marcato che nell’altra ripartizione (- 0,4%). In valori assoluti, il Sud ha perso nel 2009 25mila unità nel settore agricolo (+4.300 al Centro-Nord), 94mila nell’industria (-145mila nell’altra ripartizione) e 74.300 unità nei servizi (-44.700 nel Centro-Nord). Nel 2009 i disoccupati sono aumentati più al Centro-Nord (+29,9%), quasi 30 volte di più che al Sud (+1,4%). Nella classe di età 15-24 anni la disoccupazione è arrivata al 20,1% al Centro-Nord e al 36% al Sud. Qui crescono anche i disoccupati di lunga du- rata (sono il 6,6% del totale, erano il 6,4% nel 2008). All’Italia spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione giovanile più alto in Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Nel 2009 gli occupati in età 15-24 anni crollano del 13,2%. La laurea paga, ma in ritardo - Nel 2009 il tasso di occupazione dei laureati 25- 34enni è stato del 53% contro il 75% del Centro-Nord. Solo in età adulta, oltre i 40 anni, il tasso di occupazione dei laureati si allinea tra le due ripartizioni: 90,3% al Sud, 92% al Centro-Nord in età 45-54 anni. Inattivi: il Nord che si meridionalizza - Nel 2009 i giovani italiani Neet (Not in edu- cation, employment or training), cioè che non studiano, non lavorano, né lo cercano, sono aumentati del 6,6% rispetto al 2008, sforando quota 2 milioni. Di questi, 1,2 mi- lioni sono al Sud e 850mila al Centro-Nord. Da segnalare che in questo senso il Nord si sta meridionalizzando: qui gli inattivi sono aumentati dell’81% dal 2005 al 2009. Spina nel fianco, le donne: nel 2009 1 ragazza su tre (15-29 anni) al Sud non ha lavo- rato né studiato. Pesa ancora un modello familiare con un unico stipendio in famiglia e il ruolo sociale della donna, confinata tra le mura domestiche. Disoccupati impliciti ed espliciti - Come già rilevato nel Rapporto SVIMEZ dello scorso anno, al Sud continua a crescere la zona grigia della disoccupazione, che rag- gruppa scoraggiati (persone che non cercano lavoro ma si dicono disponibili a lavorare), disoccupati impliciti e lavoratori potenziali. Considerando questa componente, il tasso di disoccupazione effettivo del Sud salirebbe nel 2009 a sfiorare il 23,9% (era stima- to nel 22,5% nel 2008). Con forti differenze regionali: in Campania arriverebbe al 25,2%, in Calabria al 25,3%, in Sicilia addirittura al 27,2%. Cifre diverse anche per il Centro-Nord: in Piemonte arriverebbe a sfiorare il 12% e in Lombardia al 9,5%. Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it IN VENTI ANNI 2,4 MILIONI VIA DAL SUD, A PARTE I PENDOLARI Tra il 1990 e il 2009 circa 2 milioni 385mila persone hanno abbandonato il Mezzo- giorno. La vera America, per i meridionali, resta il Centro-Nord, dove si dirigono 9 emigranti su 10. Solo 1 su dieci si trasferisce all’estero: in valori assoluti, dal 1996 al 2007, parliamo di 242mila persone, di cui oltre 13mila laureati. In testa alle preferenze la Germania, che attrae oltre un terzo degli emigranti verso l’estero, per il 20% laureati; seguono Svizzera e Regno Unito. Nel 2009 114mila persone si sono trasferite dal Sud al Nord, 8mila in meno rispetto al 2008. In crescita invece i trasferimenti in direzione opposta, da Nord a Sud, arrivati nel 2009 a 55mila unità (erano 50mila l’anno precedente). Riguardo alla provenienza, in testa per partenze la Campania (38mila nel 2007), se- guita da Sicilia (26.200) e Puglia (21.300). La regione più attrattiva per il Mezzo- giorno resta la Lombardia, che ha attratto nel 2007 quasi un migrante su quattro, pari a quasi 29mila persone, seguita dall’Emilia Romagna, con 22mila unità in più. In A- bruzzo e Molise la prima regione di destinazione resta il Lazio, mentre per la Campania è l’Emilia Romagna. I migranti sono soprattutto uomini, anche se il Lazio è una regione che attrae più donne. Riguardo al titolo di studio, i laureati sono il 17,5%, e la regione che ne attrae di più è il Lazio (25%). L’emigrante tipo ha 31 anni in media: i più giovani, under 30, si dirigono in Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, mentre l’età media di chi si trasferisce nel Lazio è di 33,8 anni. Pendolari e crisi - La crisi ha colpito duro i pendolari, generalmente giovani, laureati e precari. Nel 2009 sono stati 147mila, in calo del 14,8% rispetto al 2008, pari a 26mila unità. Oltre 60mila sono campani, 36.500 i pugliesi, 35mila i siciliani. A se- guire, abruzzesi (19mila), calabresi (16.800), lucani (14mila) e molisani (8.300). È un’emigrazione diversa dagli anni 60: il trolley e il pc al posto della valigia di cartone, molti con la laurea in tasca, e moltissime donne. I posti di lavoro disponibili nel Mezzo- giorno sono in numero assai inferiore a quello degli occupati; il sistema produttivo ar- retrato non è in grado di richiedere e assorbire il personale ad alta qualificazione che sfornano le Università e non solo. Sono giovani e con un livello di studio medio-alto: il 75% ha meno di 45 anni e quasi il 50% svolge professioni di livello elevato. Oltre il 26% è laureato e quasi il 43% lavora da meno di tre anni. Non lasciano la residenza generalmente perché non lo giustifiche- rebbe né il costo della vita nelle aree urbane né un contratto di lavoro a tempo. Sono so- prattutto maschi (76%), singles (50%), dipendenti (90%) full time in una fase transitoria della loro vita, come l’ingresso o l’assestamento nel mercato del lavoro. A livello regionale, l’identikit del pendolare cambia leggermente: l’84% dei pendolari in Trentino Alto Adige opera nei servizi, mentre chi vuole lavorare nell’industria si dirige in Emilia Romagna, Umbria o va all’estero (22%). Il Lazio assorbe molti laureati, men- Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it tre Veneto, Friuli e Marche molti pendolari privi di titolo di studio o con licenza ele- mentare. La maggior parte dei pendolari in Valle d’Aosta è donna e svolge lavoro di- pendente, mentre chi va all’estero è soprattutto uomo (89%). I lavoratori autonomi pre- feriscono Lazio e Marche. I pendolari part time si concentrano in Umbria (13,8%). Senza tutele - Incrociando i dati della Cassa integrazione e delle forze lavoro risulta che su 186 posti di lavoro persi al Nord, gli interventi di CIG hanno interessato 438mila persone, mentre al Sud su oltre 200mila occupati in meno le misure utilizzate sono state di appena 96mila unità. In altri termini, al Nord per ogni persona che perde il lavoro, 2 sono protette; al Sud è l’opposto, solo un lavoratore su 3 ottiene la CIG. Gli effetti sociali sono devastanti: molti lavoratori precari, perso il lavoro, al Sud, non sono stati minimamente tutelati. QUASI UN MERIDIONALE SU 2 IN TILT PER SPESA EXTRA DI 750 EURO In base agli ultimi dati disponibili (2007) il 14% delle famiglie meridionali vive con meno di 1.000 euro al mese, un dato quasi tre volte superiore all’altra ripartizione (5,5%). Un unico stipendio e più familiari a carico - Nel 47% delle famiglie meridionali vi è un unico stipendio, addirittura il 54% in Sicilia. Hanno inoltre a carico tre o più fa- miliari il 12% delle famiglie meridionali, un dato quattro volte superiore al Centro- Nord (3,7%), che arriva al 16,5% in Campania. Il rischio resta anche con due stipendi - A rischio povertà a causa di un reddito trop- po basso quasi un meridionale su 3, contro 1 su 10 al Centro-Nord. In valori assoluti, al Sud, si tratta di 6 milioni 838mila persone, fra cui 889mila lavoratori dipendenti e 760mila pensionati. Riguardo al titolo di studio, oltre 1 milione 100mila ha un li- vello medio-alto, con 122mila laureati. Da segnalare che non sempre, al Sud, uno stipendio in più oltre a quello base modi- fica la situazione: in quasi una famiglia su 4 (23,9%) con due redditi il rischio ri- mane. Una famiglia meridionale su 5 non ha soldi per andare dal medico - Ben il 44% delle famiglie meridionali, quasi una famiglia su due, non ha potuto sostenere una spesa imprevista di 750 euro (26% al Centro-Nord). La povertà morde particolarmente nelle piccole scelte quotidiane: nel 2008 nel 30% del- le famiglie al Sud sono mancati i soldi per vestiti necessari e nel 16,7% dei casi si sono pagate in ritardo bollette di luce, acqua e gas. Otto famiglie su cento hanno tirato la cinghia rinunciando ad alimentari necessari (il 12% in Basilicata), il 21% non ha avuto soldi per il riscaldamento (27,5% in Sicilia) e il 20% per andare dal medico (il 25,3% in Campania e il 24,8% in Sicilia). Nel 2008 è arrivato con difficoltà a fi- ne mese oltre una famiglia su 4 (25,9%) contro il 13,2% del Centro-Nord. Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it BANCHE, CREDITO E BANCA SUD Nel 2009 il numero di banche operative nel Mezzogiorno è passato da 222 a 215; di queste, tra le 151 aventi sede nell’area, 17 facevano parte di gruppi del Centro-Nord. Nel 2009 gli sportelli bancari presenti al Sud erano 7.196, 100 in meno rispetto al 2008. 4.133 facevano parte di banche con sede legale al Sud, e di queste 2.737 appartene- vano a gruppi del Centro-Nord. Colpendo l’industria, la crisi ha inferto un duro colpo anche all’accesso al credito delle imprese del settore, già critico al Sud per motivi strutturali (maggiori rischi, minor nu- mero di aziende, prevalenza di aziende di piccole dimensioni e attive nei settori tradi- zionali, ecc). A livello settoriale le imprese manifatturiere hanno subito un tracollo nell’erogazione dei prestiti, con un calo, nel Nord Ovest, del 10%, a marzo 2010, rispetto a marzo 2009. Dimezzata invece nello stesso periodo la riduzione al Sud: -5,39%. Resta il grande problema dell’accesso al credito: nel 2009 i prestiti bancari alle imprese meridionali sono cresciuti dello 0,4%, in forte rallentamento rispetto al 2008 (+4,6%), mentre sono diminuiti del 4% al Centro-Nord. A livello dimensionale al Sud le piccole imprese hanno tenuto, mentre le altre sono cresciute dello 0,5%. A livello settoriale, in- vece, le contrazioni più forti hanno interessato l’industria manifatturiera (-7,2% al Sud, - 9,9% al Centro-Nord). In crescita rispetto al 2008 anche le sofferenze, aumentate nelle imprese del Sud di un punto percentuale (da 2,2% a 3,2%), più o meno come per le aziende del Centro-Nord (da 1,5% a 2,4%). La Banca del Sud - L’impianto della legge è sbilanciato verso la raccolta, e la fisca- lità di vantaggio introdotta è rivolta ai risparmiatori, mentre la banca senza misure di incentivo ad hoc non avrebbe alcuna convenienza a investire nell’area. Possibili cor- rettivi potrebbero venire ad esempio dall’introduzione della detassazione degli utili per progetti di investimento delle pmi meridionali, oppure dall’emissione di bond ga- rantiti dallo Stato, come per i finanziamenti alle infrastrutture. Ciò non toglie che i progetti di investimento dovrebbero essere sottoposti a una severa selezione, così da evitare distorsioni. La Banca potrebbe inoltre stipulare convenzioni con i Confidi più strutturati, per accelerare il progetto di concentrazione del settore. CONTINUA IL CALO DELLA SPESA PUBBLICA AL SUD La quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto capitale è stimata nel 2009 (o 2008??) al 34,8%, una percentuale ben più bassa del 41,1% del 2001 e lontanissi- ma dall’obiettivo del 45%, che ormai appare come una chimera. Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it Le spese correnti dei Comuni tra il 2007 e il 2009 sono cresciute, a livello na- zionale, del 5,3%. Ma l’incremento maggiore si è avuto al Sud, +9,1%, a fronte del 3,4% al Nord e del 5,3% al Centro. Non solo, ma mentre crescevano le spese, le entra- te aumentavano dell’1,8% a livello nazionale, aumento che deriva da una riduzione dell’ 1,9% al Nord, e da incrementi del 2,3% al Centro e dell’1,1% al Sud. Infine, i trasferimenti erariali, anche in seguito alla progressiva abolizione dell’Ici sulla prima casa, sono cresciuti nel triennio del 28,5% a livello nazionale, con un andamento molto diversificato tra le diverse ripartizioni territoriali: +13,9% nel Mezzogiorno, +39,8% al Nord, +31,2% al Centro. Ciò è anche la conseguenza del fatto che l’abolizione dell’Ici ha ridotto nel triennio le entrate tributarie del 26,5%, che significa - 26,1% al Nord, -37,3% al Centro, -14,3% al Sud. DAI RIFIUTI AI TRIBUNALI: I DATI DEL DIVARIO NORD – SUD Circa due terzi dei rifiuti urbani al Sud nel Sud sono finiti in discarica, contro il 28,5% del Centro-Nord. La raccolta differenziata arriva nel Centro-Nord al 45,5%, in linea con l’obiettivo del 45% fissato dalla normativa, mentre il Mezzogiorno è fermo al 14,7%. Agli uffici delle Asl al Sud 57 persone su 100 rimangono in fila più di 20 minuti contro le 44 del Centro-Nord; situazione ancora più grave alle Poste, dove addirittura un meri- dionale su due resta in fila più di 20 minuti, 29 su cento nell’altra ripartizione. Servizio elettrico ancora intermittente, con frequenza di interruzioni 2 volte superiore al Centro- Nord. Per non parlare dei tribunali: la sentenza di primo grado arriva nel Mezzogiorno dopo 1.108 giorni, oltre un anno in più rispetto al Centro-Nord (805 giorni). LA GREEN ECONOMY VOLANO PER L’ECONOMIA DEL SUD Energia e imprese: un settore che non conosce crisi – Dal 2000 al 2008 la potenza degli impianti e l’elettricità prodotta con le rinnovabili al Sud è cresciuta in modo rilevante. Nel periodo in questione la potenza è cresciuta del 108% nel Mezzogiorno e l’elettricità prodotta del 151%, staccando di 3 e 4 volte il dato nazionale (rispettivamen- te 31% e 15%). Quote ancora più grandi a livello regionale: la Sardegna e la Puglia au- mentano la produzione di 5 volte, la Sicilia addirittura di 10. A scoraggiare però l’attrazione di altre industrie al Sud, locali o multinazionali, è la bassa qualità delle in- frastrutture presenti, la rete elettrica arretrata e le interruzioni di servizio elettrico. Ricerca e sviluppo: Pil, occupati e brevetti – La situazione non è delle migliori: in ba- se agli ultimi dati disponibili (2007) il Sud spende solo lo 0,87% del Pil in R&S contro l’1,28% del Centro-Nord, pure distante dal parametro del 3% stabilito dalla “Strategia di Lisbona” per il 2010. Anche la percentuale di occupati nel settore la dice lunga sulla scarsa capacità innovativa delle imprese meridionali: solo 1,86 ogni 1.000 abitanti con- tro il 4,4 del Centro-Nord. Debole anche l’attività brevettuale: solo 11 brevetti regi- strati per milione di abitanti contro gli 88 dell’altra ripartizione. Punto dolente, i finanziamenti. I contributi statali non superano i 500mila euro a pro- getto e gli imprenditori privati disposti a rischiare capitali in settori innovativi sono Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it troppo pochi. Fra i pochi, al Mezzogiorno vanno solo le briciole: dal 2000 al 2008 gli investimenti privati realizzati facendo ricorso al venture capital e al private equity hanno interessato il Sud solo per il 3% del totale. LE RICETTE SVIMEZ PER IL SUD Come uscire dalla crisi – La “frontiera Sud” rende più che mai urgente la realizzazio- ne di grandi infrastrutture dei trasporti, condizione necessaria e imprescindibile per il rilancio dell’economia meridionale. La SVIMEZ stima un costo di 49 miliardi di euro, di cui 11 miliardi già disponibili e quasi 38 da reperire, da dedicare al poten- ziamento dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria e della Statale “Jonica”; la realizza- zione di nuove tratte interne alla Sicilia; l’estensione dell’Alta Capacità (se non dell’Alta Velocità) nel tratto ferroviario Salerno-ReggioCalabria-Palermo-Catania (a completamento del Corridoio I Berlino- Palermo); il nuovo asse ferroviario Napoli- Bari; infine, il Ponte sullo Stretto. Forme di finanza di progetto e di partenariato pubbli- co-privato gli strumenti più adatti al reperimento delle risorse. La proposta: Conferenza delle Regioni e Agenzia, i nuovi soggetti per il Sud - La programmazione degli interventi strategici per il rilancio del Sud andrebbe affidata a una Conferenza delle Regioni meridionali, quale luogo di coordinamento tra le Regioni, in stretta relazione con la Presidenza del Consiglio. I due soggetti costituirebbero una sorta di “Consiglio per la coesione nazionale” deputato a impegnarsi in pochi grandi progetti strategici prioritari. Accanto, un’Agenzia indipendente di natura tecnica, di supporto operativo alle decisioni del Consiglio, e destinata alla progettazione. Per informazioni: Ufficio stampa Elisa Costanzo: 06/47850239 – 328/1430500 Svimez 2010/01_Direttore_Testo.pdf 1 Presentazione del “Rapporto SVIMEZ 2010” di Riccardo Padovani (Direttore SVIMEZ) I dati e le analisi presentati nel Rapporto SVIMEZ di quest’anno documentano il processo di deterioramento in atto nel Mezzogiorno, a livello di capitale fisso, sociale e produttivo. Nel Paese, indebolito nel suo insieme, sembra prevalere un atteggiamento di contrapposizione tra aree deboli e aree forti, che se da un lato delinea il rischio di un ulteriore allargamento del divario, dall’altro condiziona anche le possibilità di ripresa dell’intera economia italiana. Il Rapporto SVIMEZ 2010 vuole, invece, richiamare l’attenzione sull’urgenza di un profondo processo di ristrutturazione dell’apparato produttivo meridionale, che deve essere accompagnato da più efficaci politiche di sviluppo che pongano le condizioni per cogliere le sfide e le opportunità nel “nuovo” scenario che si aprirà all’uscita dalla crisi. In questa ottica, un approccio “storico”, tanto più quest’anno che precede la celebrazione dei 150 anni dell’Unità nazionale, può aiutare a recuperare l’abitudine, persa da troppo tempo, a sviluppare un’analisi di sistema nella quale il Mezzogiorno sia parte di un disegno complessivo di interesse nazionale. Dobbiamo tornare a ragionare sul se e su come da Sud possa proporsi, in analogia a quanto avvenne negli anni della Ricostruzione post-bellica, una fondamentale azione di rigenerazione dell’economia e della società italiana. Questo si traduce per noi nel concetto di Mezzogiorno come “frontiera” del Paese, verso il Mediterraneo e verso le opportunità offerte dai nuovi settori di sviluppo legati all’innovazione, alle competenze, all’economia verde; un nuovo “progetto Paese”, in grado di valorizzare le tante energie inutilizzate, soprattutto nelle sue aree deboli. 1. Il Mezzogiorno nella crisi: effetti economici ed effetti sociali La grave recessione che ha colpito l’economia mondiale si è abbattuta pesantemente sull’economia del Mezzogiorno, provata da un decennio di forte 2 rallentamento e da un allargamento del divario di sviluppo col resto del Paese (Fig.1). Dall’inizio degli anni duemila fino all’arrivo della crisi, il Mezzogiorno ha registrato ritmi di crescita dimezzati rispetto al Centro-Nord. Con la recessione del 2008 e del 2009 il PIL meridionale è ritornato, in valore assoluto, ai livelli di dieci anni prima. In base a valutazioni di preconsuntivo elaborate dalla SVIMEZ (Fig.2), nel 2009 il prodotto interno lordo (a prezzi concatenati) si è ridotto nel Mezzogiorno del 4,5%, con una caduta molto più ampia di quella registrata nell’anno precedente (-1,5%), inferiore – ma solo per effetto di una diversa composizione dei settori dell’economia – di poco più di mezzo punto a quella nel resto del Paese (-5,2%). La crisi del biennio 2008-2009 è l’unica, tra quelle vissute negli ultimi decenni, in cui il PIL si sia contratto per due anni consecutivi: il prodotto a prezzi concatenati tra il 2007 e il 2009 si è ridotto complessivamente del 5,7% nel Mezzogiorno e del 4,9% nel resto del Paese. Ciò sfata l’ipotesi di un Mezzogiorno che subisce meno gli effetti del ciclo, specie quello internazionale, in quanto meno aperto agli scambi con l’estero, e in cui i settori anticiclici, come quelli dei servizi, hanno un ruolo congiunturale determinante. Al contrario, la maggiore debolezza dell’economia meridionale la rende particolarmente vulnerabile non solo agli shock diretti provenienti dalla domanda estera, ma anche ai suoi effetti indiretti, tramite la domanda proveniente dal Centro-Nord. La recessione attuale, aggiunta alla bassa crescita, comporta che il prodotto del Mezzogiorno risulti nel 2009 ancora inferiore dello 0,3% al livello raggiunto dall’inizio del decennio. Nel resto del Paese, la migliore dinamica di sviluppo realizzata nello stesso periodo ha portato ad una crescita cumulata nel decennio del 2%, un valore esiguo ma comunque positivo. In tutti i comparti in cui sono disaggregati i conti regionali (Fig.3), la flessione produttiva del Sud è stata maggiore di quella del Centro-Nord. Soltanto la diversa composizione settoriale – con un peso strutturalmente maggiore dei servizi, meno colpiti dalla crisi – ha determinato al Sud un risultato meno negativo nell’anno. Tra le componenti della domanda (Fig.4), la caduta nell’acquisto di beni capitali è la prima causa anche nel 2009 della recessione del PIL: gli investimenti fissi lordi del Mezzogiorno sono diminuiti del 9,6%, dopo la flessione del 3,7% già registrata l’anno precedente. Nel Centro-Nord la flessione è stata più ampia (-13,0%), come nel 2008. 3 Assai più grave (Fig.5) è stata, invece, al Sud la contrazione dei consumi. In particolare, la spesa finale delle famiglie nel 2009 si è ridotta nel Mezzogiorno del 2,6%, un punto in più che nel resto del Paese. La contrazione dell’occupazione (Fig.6) è stata nel 2009 nelle regioni meridionali di intensità tripla (-3%) rispetto al -1,1% del Centro-Nord. In termini assoluti ciò vuol dire 194 mila occupati in meno nel Mezzogiorno, che si aggiungono ai 34 mila posti persi nel precedente anno. Una riduzione dello stock di occupazione impiegata (Fig.7) che ha determinato tra il 2007 e il 2009 un calo di circa due punti del tasso di occupazione: dal 46,5% al 44,7%, valore distante di quasi venti punti dal resto del Paese (64,5%). Solo un ulteriore e deciso incremento dello “scoraggiamento” a cercare lavoro ha limitato gli effetti di tali andamenti sul tasso di disoccupazione. 2. La crisi e il rischio della scomparsa del Sud industriale La perdita di occupazione registrata per effetto della crisi economica risulta di estrema gravità nel comparto industriale italiano (Fig.8). In particolare, la riduzione della manodopera industriale nel Mezzogiorno sta assumendo dimensioni mai sperimentate: nel corso del 2009 si sono persi 61 mila posti di lavoro dell’industria in senso stretto (-7% a fronte del -3,7% nel Centro-Nord). Nel complesso del biennio di crisi 2008-2009, la perdita occupazionale supera le 100 mila unità (-12%), andando così a ridurre ulteriormente il tasso di industrializzazione di un’area che presentava già livelli assai inferiori al resto del Paese. Va ricordato, a riguardo, che ancora nel 2007 vi erano al Sud, secondo i dati dell’Archivio ASIA, appena 35 addetti manifatturieri ogni 1.000 abitanti a fronte dei 105 del Centro-Nord. I dati sul valore aggiunto industriale confermano la lettura di una crisi che viene da lontano e che mostra elementi di debolezza strutturali che rischiano di andare oltre il ciclo congiunturale. Nel biennio 2008-2009 (Fig.9), l’output industriale è complessivamente diminuito di poco meno di venti punti percentuali nel Sud e di quasi diciotto nel Centro- Nord. Relativamente a ciò, vi sono due considerazioni che preme evidenziare. La prima è che dal 2004, anno a partire dal quale la dinamica nazionale era tendenzialmente tornata ad essere positiva, e fino al 2007, la variazione cumulata del prodotto 4 dell’industria è risultata pari al 5,9% nel Mezzogiorno ed al 4,6% nel resto del Paese. Ciò implica che, in assenza di una consistente accelerazione del ritmo di crescita del prodotto industriale nella fase post-crisi, il recupero dei livelli di produzione del 2007 richiederà un arco temporale prossimo, in entrambi i casi, al decennio. In secondo luogo, diversamente da quanto di solito avveniva in fasi recessive indotte dall’estero, la crisi avviatasi dalla seconda metà del 2008 pare aver colpito con intensità maggiore l’industria del Sud. Generalmente, infatti, dato il maggior grado di apertura dell’industria del Nord, quest’ultima era coinvolta in misura più ampia da una contrazione del commercio mondiale. Il venir meno, nella fase ciclica recente, di questo elemento può indicare la presenza, nel Sud, di uno shock (fortemente) asimmetrico. La caduta di output industriale (Fig.10) registrata nelle regioni meridionali nel 2009 è, con l’eccezione di Germania e Finlandia, quella di entità più ampia, sia rispetto ai paesi di più antica industrializzazione (Francia, Regno Unito) che, soprattutto, nei confronti dei nuovi competitors presenti nella stessa Europa a 27, quali ad esempio la Polonia. La particolare intensità con cui la recessione industriale ha colpito il Mezzogiorno nel 2009 fa seguito, infatti, ad un già forte ampliamento del gap di crescita con il resto del Paese – e, soprattutto, con gli altri paesi europei – nella fase antecedente la crisi, caratterizzata dall’acuirsi delle differenze in termini di produttività a causa della sostanziale inadeguatezza che i processi di riorganizzazione della struttura produttiva – comparativamente lenti nell’intero Paese – hanno mostrato al Sud. Nel complesso del periodo 2004-2008, la variazione cumulata del prodotto industriale è risultata nel Mezzogiorno negativa (-2,4%), a fronte di un aumento del 2,8% nel Centro- Nord e in presenza di incrementi medi complessivi del 9,7% per l’Area dell’Euro e del 9,8% per l’Ue a 27 paesi. Nel complesso, dalle analisi sui fattori determinanti la competitività e sulla dinamica dell’export (Fig.11) sviluppate nel Rapporto, emerge un quadro in cui l’Italia perde terreno rispetto agli altri paesi dell’Area dell’Euro e – al suo interno – le regioni più in ritardo subiscono un ulteriore peggioramento della loro posizione relativa. Un processo di polarizzazione degli squilibri che contrasta nettamente con la convergenza riscontrabile in Spagna e soprattutto in Germania, finanche nel pieno della crisi. 5 Le cronache di questi mesi e settimane sugli stabilimenti FIAT di Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, alquanto complesse e diverse tra loro, sono emblematiche. E mostrano che, al di là di singole scelte aziendali, a pesare sono i decenni di mancate strategie di politica industriale. 3. L’urgenza di una strategia di politica industriale per il Sud La mancanza di indirizzi chiari di politica industriale impedisce di affrontare i problemi posti dalla globalizzazione e dall’irruzione delle economie emergenti sui mercati dei prodotti manifatturieri, e penalizza in maggiore misura le regioni in ritardo. Proprio per queste aree, ci sarebbe stato bisogno di definire e perseguire specifiche politiche ancorate ad un disegno strategico di politica industriale, che ormai manca dalla metà degli anni ’70. Dopo di allora si è assistito in Italia a un progressivo indebolimento della politica industriale tout court, verso la quale è cresciuta, ormai da molti anni, un’avversione spesso di marca ideologica. Le politiche di riequilibrio territoriale, in particolare, sono state travolte dalla convinzione di un basso rendimento economico e sociale delle risorse pubbliche impiegate nel Sud. Dopo la scomparsa di importanti strumenti, tra i quali, in primo luogo, la legge 488/1992, ma anche altri ad essa collegati, finalizzati in particolare al sostegno delle R&S e all’innovazione, nel 2009, sono infatti rimasti non operativi (Fig.12) tutti gli interventi di incentivazione, anche quelli per i quali era prevista nell’anno l’attivazione, come le Zone franche urbane, i nuovi contratti di programma e i contratti di sviluppo, ancora in attesa di una regolamentazione. In assenza di rifinanziamenti, le risorse disponibili per i crediti di imposta per l’occupazione si sono esaurite già nell’ottobre 2008, mentre le agevolazioni concesse per i crediti di imposta a favore degli investimenti hanno assorbito l’intero stanziamento complessivo del 2007-2013. La riduzione del volume complessivo degli aiuti di Stato (Fig.13) per l’industria e i servizi, rispetto al PIL, ha riguardato invero nel triennio 2006-2008 tutte le maggiori economie europee. A ben vedere, però, una dinamica sostanzialmente omogenea sta portando a risultati sensibilmente differenziati. Il dato dell’Italia, in particolare, è divenuto notevolmente inferiore alla media (0,35% del PIL, contro lo 0,54% dell’Ue a 6 27), ed è comunque al di sotto degli altri principali paesi europei (escluso solamente il Regno Unito): 0,63% del PIL in Germania e 0,5% in Francia e Spagna. Dal punto di vista normativo, la “legge sviluppo” (L. 99/2009) ha delegato il Governo a riformare tutto il sistema degli incentivi, compresi quelli destinati alle aree sottoutilizzate, ma i tempi previsti per la presentazione del progetto di riforma sono lunghi. Nel frattempo è opportuno ribadire con forza le ragioni di una politica industriale specifica per il Mezzogiorno. Solo col ripristino di un consistente apporto differenziale di politica industriale regionale – coniugato con un più adeguato accesso del Sud agli interventi della politica industriale nazionale – è possibile, infatti, porre le condizioni per un disegno strategico di sviluppo strutturale. Gli “obiettivi guida” di questa possibile strategia di politica industriale possono sommariamente individuarsi: nella riqualificazione del modello di specializzazione produttiva, attraverso il sostegno alla ricerca e all’innovazione tecnologica e organizzativa e allo sviluppo delle attività a più alta produttività relativa; nell’innalzamento delle dimensioni medie dell’impresa, attraverso il sostegno alla formazione di “reti” di imprese e ad un maggiore accesso al credito; nell’innalzamento del grado di apertura del sistema verso l’estero; nella promozione e nell’arricchimento di “filiere produttive”; nel pieno inserimento delle agglomerazioni di imprese in settori strategici per l’industria nazionale (anche attraverso i “Progetti di innovazione Industriale” di “Industria 2015”); nel rilancio delle politiche di attrazione. Quanto agli strumenti di questa strategia di politica industriale per il Sud, un ruolo centrale dovrà continuare ad essere affidato anche agli interventi di incentivazione. Interventi per i quali – al di là della forma tecnica di erogazione – sarebbe però il momento di aprirsi ad un approccio più “selettivo” rispetto a quello seguito con la legge 488 e ancor più con i crediti di imposta; un approccio, cioè, mirato al perseguimento di obiettivi specifici, che consenta di evitare la dispersione delle risorse tra un novero troppo ampio di finalità e su una platea troppo vasta di imprese. In questa prospettiva, deve rilevarsi che i crediti di imposta – che una posizione oggi largamente prevalente tende a considerare non solo come la tipologia di incentivo più efficace ma pressoché come l’unica praticabile, in ragione della quasi totale automaticità dei criteri di concessione e di erogazione, che può consentire di evitare gli 7 elementi di possibile distorsione derivanti dall’interferenza, a volte anche “impropria”, della macchina amministrativa – sono, invece, a nostro avviso, da considerare una componente importante di un “sistema” di incentivazione, ma non esclusiva, né sostitutiva di una componente di tipo valutativo in grado di indirizzare risorse verso obiettivi di miglioramento strutturale. Un importante elemento della nuova strategia di politica industriale potrebbe essere costituito da una “vera” fiscalità di vantaggio, intesa come fiscalità differenziata a favore delle regioni meridionali nel loro complesso, e non di semplice accentuazione a favore del Sud di misure per il sistema produttivo nazionale. Essa dovrebbe costituire, infatti, una forma strutturale di diversificazione delle convenienze, tale da mettere effettivamente in moto una capacità di attrarre risorse esterne, nazionali ed internazionali, quale quella di cui si sono avvantaggiati altri paesi dell’Area dell’Euro, contribuendo a dare concretezza alla già evocata possibilità per il Mezzogiorno di proporsi quale “frontiera” in una rinnovata strategia di sviluppo del Paese. L’ultima manovra governativa (decreto legge 78/2010) prevede una forma di fiscalità di vantaggio per le Regioni del Mezzogiorno, che con propria legge possono, in relazione all'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) modificare le aliquote, fino ad azzerarle, e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei riguardi delle nuove iniziative produttive. In realtà, é difficile pensare che le Regioni del Mezzogiorno, tanto più dopo i tagli previsti dalla manovra stessa (e, per alcune di esse, con l’obbligo di far ricorso alla leva fiscale per coprire i disavanzi sanitari) abbiano risorse per avviare una concorrenza fiscale nei confronti delle altre aree per attirare nuove iniziative. 4. L’intreccio tra politiche ordinarie e politiche aggiuntive L’assenza di risultati soddisfacenti in termini di crescita e di convergenza del Mezzogiorno ha cause complesse che rimandano in larga parte al generale prolungato ristagno dell’intera economia italiana rispetto al resto d’Europa. Tuttavia, a frenare il processo di sviluppo concorrono problemi di dimensione nazionale, che assumono per il Sud gravità del tutto particolare, tra cui: l’impiego improprio di spesa pubblica ordinaria, il deficit di qualità ed efficienza delle Pubbliche Amministrazioni (regionali e 8 locali, ma anche nazionali), la presenza della criminalità organizzata, il difficile avanzamento della liberalizzazione dei mercati. Sempre più condizionanti, per innescare un processo di convergenza, sono i gravi effetti di un “disegno debole” di politiche generali nazionali che, in campi assai rilevanti per lo sviluppo, hanno costantemente mancato di adattare intensità e strumenti di intervento in funzione dei divari intercorrenti tra la macroarea debole e quella forte del Paese. Nel complesso intrico tra ciò che deve essere “ordinario” e ciò che deve essere “aggiuntivo”, preoccupa tuttavia l’emergere di una posizione che tende a dare priorità all’offerta dei servizi pubblici quale contenuto della “politica regionale” (aggiuntiva). Ora, settori come l’istruzione, la giustizia, la sicurezza sono decisivi per la creazione di “condizioni ambientali” favorevoli allo sviluppo, ma l’azione pubblica in questi settori non è certo mossa da finalità di promozione dello sviluppo dei territori più arretrati, bensì destinata a tutto il territorio nazionale. Non esitiamo a dire che questi comparti dell’azione pubblica costituiscono un presupposto delle politiche regionali, ma non possono sostituire gli elementi – legati all’obiettivo precipuo della crescita economica – che caratterizzano queste ultime. È un tema, quello della decisiva rilevanza delle politiche nazionali per lo sviluppo del Mezzogiorno e per i risultati della politica regionale stessa, che la Banca d’Italia ha di recente proposto con forza al centro della propria riflessione. È quanto ha affermato il Governatore Mario Draghi, con una formula che non si presta a equivoci, nella sua Relazione di apertura del Convegno del novembre scorso dedicato al Mezzogiorno: «ogni qualvolta si disegni un intervento pubblico nell’economia o nella società, occorre avere ben presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre ex ante adeguati correttivi». In definitiva, la politica regionale di sviluppo deve aggiungersi alle politiche generali nazionali, volte a fornire i beni collettivi essenziali e ad assicurare il normale funzionamento dei servizi pubblici. Ed è proprio in quest’ultimo ambito, legato all’azione “ordinaria” della Pubblica Amministrazione, che è venuto a consolidarsi, ed anzi in molti casi a radicalizzarsi, il divario del Sud rispetto al resto del Paese. Dalle analisi del Rapporto – al di là delle ben note ragioni di inefficienza e delle responsabilità politiche delle Amministrazioni meridionali – emerge la persistente 9 mancanza di un modello consolidato di gestione dei servizi pubblici degli Enti territoriali. Una questione che si pone con forza nella prospettiva di un sempre più compiuto processo di federalizzazione, i cui effetti benefici potranno aversi solo a condizione che esso sia correttamente inteso. L’assunto fondamentale da noi proposto è che il federalismo non debba significare separatezza tra territori, ma complementarità nelle responsabilità dei diversi livelli di governo nel quadro di una visione nazionale; non debba significare il disimpegno dello Stato nella regolamentazione e nel finanziamento dei servizi; né interpretare il concetto di sussidiarietà in termini “statici”, cioè soltanto come attribuzione dei poteri al livello più decentrato di governo, bensì in termini “dinamici”, ossia attraverso la costituzione di meccanismi di responsabilità tali da produrre l’intervento del livello di governo “superiore” – e in definitiva dello Stato, come «assicuratore di ultima istanza» – allorché un maggiore decentramento comprometta le ragioni dell’efficacia, o dell’efficienza. Nella fase di attuazione, in ogni caso, occorrerà rilanciare le condizioni economiche (il modello di finanziamento delle funzioni) e i forti elementi di precauzione (sulle disparità strutturali di partenza tra territori), su cui si insiste nel Rapporto. 5. Limiti e fallimenti della politica di coesione Oltre alle cause appena richiamate, al peggior andamento del Mezzogiorno ha concorso, a nostro avviso in misura decisiva, anche una ridotta efficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, mirata all’obiettivo precipuo della crescita economica. La spiegazione va ricercata, in primo luogo, in una dimensione della spesa pubblica in conto capitale complessiva destinata al Mezzogiorno assai inferiore a quanto programmato (Fig.14). Più precisamente, il dato definitivo per il 2008 dell’indicatore anticipatore della spesa in conto capitale, elaborato dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica, conferma la localizzazione nel Mezzogiorno di una quota pari al 34,8% del totale nazionale, in progressivo declino dopo il valore massimo registrato nel 2001 quando essa fu pari al 41,1% della spesa in conto capitale del Paese. Si tratta di un valore non solo ben lontano dal 45% del totale nazionale 10 originariamente fissato (ormai cancellato) in fase di programmazione, ma che, come accade ormai da qualche anno, non eguaglia neppure il “peso naturale” del Mezzogiorno in termini di popolazione e di territorio (38%). I dati relativi alla spesa servono a smentire l’idea, purtroppo assai diffusa anche nell’opinione pubblica, di un Sud inondato da un fiume di pubbliche risorse; ma sta anche ad indicare come la spesa in conto capitale aggiuntiva (comunitaria e nazionale) in tale area sia valsa negli ultimi anni solo a compensare il deficit della spesa ordinaria. Quest’ultima, infatti, è stata pari nel 2007 ad appena il 21,4% del totale nazionale. A deprimere l’efficacia della complessiva politica regionale, nazionale e comunitaria, ha però concorso anche la scarsa qualità degli interventi. Le carenze di fondo, come la SVIMEZ ha più volte segnalato, sono state: la dispersione delle risorse aggiuntive da finalizzare all’accelerazione dello sviluppo sul territorio in una eccessiva molteplicità di interventi, rispondenti troppo spesso a domande localistiche; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui. L’analisi condotta nel Rapporto (Fig.15) sugli “indicatori di contesto chiave”, identificati dal QCS 2000-2006, evidenzia che gli interventi realizzati non hanno modificato sensibilmente le condizioni competitive del territorio (con una quota maggioritaria di indicatori rimasti al di sotto dei valori target individuati a inizio Programmazione). Anche le “variabili di rottura” (Fig.16) del modello tradizionale di dipendenza del Mezzogiorno presentano, tra il 2000 e il 2008, un profilo sostanzialmente piatto. La riflessione sulle criticità identificate con riferimento al ciclo di programmazione 2000-2006 rappresenta, purtroppo, ancora oggi un tema di attualità; l’impostazione del nuovo “Quadro Strategico Nazionale” 2007 -2013 si è mossa, infatti, all’interno di una sostanziale continuità con il precedente periodo di programmazione. Riguardo all’avanzamento degli interventi, si confermano le difficoltà attuative (Fig.17). A tre anni e mezzo dall’approvazione dei Programmi, il livello di attuazione complessivo al febbraio 2010 per l’Obiettivo Convergenza si attesta, in relazione agli impegni e ai pagamenti, rispettivamente, ad appena il 14,6% e il 6,2% del contributo assegnato. Basso è anche l’avanzamento dei Programmi Regionali, che si ferma, in relazione al contributo, al 13,2%, per gli impegni, e al 5,7%, per i pagamenti. 11 Performances leggermente migliori riguardano i Programmi Nazionali, che in relazione al contributo assegnato, fanno registrare il 20% per gli impegni, e il 7,7% per i pagamenti. Ma i maggiori ritardi si sperimentano per i due Programmi Operativi Interregionali. Alla luce delle valutazioni critiche riguardanti il passato ciclo di programmazione, attualmente la principale preoccupazione riguarda non tanto e non solo il raggiungimento dei target di spesa che si richiede per evitare di restituire parte delle risorse comunitarie, ma la necessità di un’immediata ridefinizione e concentrazione delle priorità di intervento, nonché la riqualificazione delle procedure e dei meccanismi di progettazione e di attuazione degli interventi. 6. Il FAS e il depotenziamento della “politica regionale unitaria” Il Quadro Strategico Nazionale (QSN) 2007-2013, delineato con la Finanziaria 2007, voleva rappresentare una sede privilegiata della programmazione unitaria, in grado di ridurre l’eccessiva articolazione tra diversi strumenti finanziari (a livello comunitario, nazionale e regionale). Il Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS) inserito nel “quadro unitario” doveva avere un ruolo “chiave” di strumento generale della politica regionale nazionale. Nel corso del 2008, del 2009, e della prima parte del 2010 (Fig.18), invece, il legislatore, anticipando l’opera di ripartizione del CIPE, è intervenuto con rilevanti utilizzi della dotazione FAS per impieghi sovente senza rapporti con le finalità proprie del Fondo, che erano e che avrebbero dovuto restare finalità – meridionaliste – di “sviluppo” territoriale, verso la “coesione” nazionale. I tagli e le preallocazioni operate sono stati pari a circa 19 miliardi di euro. A ciò si sono però aggiunti numerosi interventi che hanno finito per dirottare risorse del FAS verso indirizzi dispersivi rispetto alla sua missione originaria. La quota delle risorse nazionali del FAS complessivamente dirottata verso altri indirizzi, secondo stime del CNEL, raggiunge circa i 26 miliardi di euro. Questo ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul “Quadro Strategico Nazionale 2007-2013”, indebolendone significativamente la componente nazionale. Il 12 QSN prevedeva, infatti, come richiamato, una programmazione coordinata e contestuale dei fondi nazionali ed europei destinati alle politiche regionali, e costituiva pertanto la sede unitaria per il finanziamento delle priorità individuate a seguito di un lungo negoziato tra Amministrazioni regionali, centrali e comunitarie. Anche nella manovra 2011, con il decreto legge 78/2010, tuttora all’esame del Parlamento, ancora una volta si interviene con una severa decurtazione delle risorse del FAS essenzialmente in funzione di “stabilizzazione finanziaria” dei conti pubblici (il taglio della Missione “Sviluppo e riequilibrio territoriale” del Ministero dello Sviluppo Economico per circa 2,4 miliardi di euro). 7. Necessità di visione strategica, mutamenti istituzionali e riforma delle politiche post 2013 La mancanza di strategicità non deriva, dunque, solo da fattori “interni” alla programmazione degli interventi (come la frammentarietà), ma emerge dalla crisi stessa dell’impianto complessivo del QSN. Il recupero di strategicità della politica regionale passa per una “revisione” – tecnicamente possibile – del quadro di programmazione che concentri gli interventi su poche priorità strategiche tenendo conto del mutato scenario economico e delle accresciute esigenze “cooperative” tra i diversi livelli di governo. Questa rinnovata visione strategica delle politiche di sviluppo per le aree deboli, tuttavia, sarà difficile da perseguire senza un mutamento “istituzionale”, in cui l’interesse complessivo della macroarea possa trovare alta espressione e modalità di relazione e confronto più proficue ed efficaci con l’azione del Governo nazionale. Per la SVIMEZ, il luogo di una rinnovata programmazione degli interventi strategici per il Mezzogiorno non può che essere una “Conferenza delle Regioni meridionali”, in costante rapporto con la Presidenza del Consiglio che (come previsto dal d.l. 78/2010) riacquista una centralità nelle politiche regionali di sviluppo. In sede congiunta – una sorta di “Consiglio per la coesione nazionale” – Conferenza delle Regioni meridionali e Presidenza del Consiglio dovranno assumere impegni vincolanti nella scelta di pochi grandi progetti strategici prioritari, su cui “appostare” risorse nazionali e regionali, frutto del “riordino” degli interventi e del “reintegro” dei fondi nazionali, certe e vincolate sino al completamento del progetto. La 13 Conferenza, poi, sarà il luogo di un coordinamento istituzionale tra Regioni, per ovviare alle criticità emerse, al fine di rendere coerenti gli interventi regionali con il disegno strategico di politica di sviluppo per l’intera macroarea. A questo luogo di coordinamento strategico è necessario affiancare una struttura tecnica, un’Agenzia indipendente che, nell’ambito del QSN e della normativa del quinto comma dell’art. 119 Cost., si occupi della progettazione (su cui in tutti questi anni si sono registrate le maggiori deficienze) e sia di supporto all’attuazione dei grandi interventi prioritari per il Mezzogiorno definiti dalla Conferenza e dal Governo, frutto di una più ampia legittimazione istituzionale e di un impegno politico assai più vincolante della semplice “contrattazione bilaterale” tra Stato e singole Regioni. L’Agenzia, in virtù dell’elevato grado di competenze tecniche e di indipendenza, dovrebbe consentire, oltre alla valutazione e selezione dei progetti attuativi, il loro monitoraggio in itinere ed ex post, facendo venire meno quella sostanziale autovalutazione che ha condizionato fortemente le politiche. Sulle prospettive della politica di coesione per gli anni successivi al 2013, la SVIMEZ ribadisce l’esigenza di mantenere e rafforzare nei prossimi anni una politica di sviluppo europea per i territori e la forte critica ad un approccio euroburocratico che si concentra più sulla correttezza delle procedure che sulla valutazione degli obiettivi perseguiti. In quest’ottica, appare condivisibile l’impianto del Rapporto indipendente, promosso dal Commissario per le politiche regionali e curato da Fabrizio Barca, Agenda for a reformed cohesion policy, che punta alla concentrazione ex ante delle risorse su alcune precise priorità strategiche. Infine, sarà decisivo rafforzare il ruolo delle decisioni del Bilancio europeo nell’indirizzare, monitorare e verificare gli obiettivi di sviluppo e coesione, e gli strumenti (e le risorse) messi in opera dalle Autorità nazionali e territoriali, a partire dal prima richiamato principio dell’addizionalità delle risorse. È da ritenere che la responsabilità europea non possa esaurirsi sul piano della quantità di risorse. I fondi del Bilancio Ue non possono essere visti come trasferimenti “globali” agli Stati, da destinare a compensare situazioni di difficoltà dei cittadini o delle imprese di una certa area geografica; e tantomeno come elemento di sostegno temporaneo della domanda. È invece obiettivo dichiarato nelle norme costitutive dell’Unione quello dello sviluppo, e 14 nella sua realizzazione l’Unione deve impegnarsi non solo destinando risorse, ma anche “validando” le finalità, l’efficacia e le priorità delle azioni proposte dallo Stato membro interessato. Insomma, concludendo, per la SVIMEZ il nuovo modello di governance della coesione implica il rafforzamento della capacità di indirizzo e di controllo da parte dell’Europa. Ciò vuol dire prevedere ex ante la scelta delle (poche) priorità da finanziare, la definizione di obiettivi quantitativi da raggiungere per mantenere le risorse, un sistema di valutazione indipendente, l’aumento della forza e cogenza dell’azione esterna, attraverso un rafforzamento del ruolo della Commissione e del suo sistema di condizionalità. Sono strumenti e proposte che dovrebbero orientare anche il versante nazionale delle politiche di sviluppo. Le proposte avanzate, infatti, mirano non solo ad aumentare la coerenza degli interventi messi in atto da una pluralità di livelli di governo, ma – attraverso un meccanismo più trasparente di responsabilizzazione e semplificazione della filiera decisionale – anche la stessa “sostenibilità” di un impegno aggiuntivo per il superamento dei divari. Svimez 2010/02_Direttore_Slide.pdf Rapporto 2010 sull’economia del Mezzogiorno Roma, 20 luglio 2010 Riccardo PADOVANI direttore della SVIMEZ Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Roma, 20 luglio 2010 Andamento del PIL dal 2001 al 2009 (Variazioni %) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Fig. 1 -6 -5 -4 -3 -2 -1 0 1 2 3 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 Mezzogiorno Centro-Nord Prodotto Interno Lordo (Variazioni % medie annue) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno 2001-2009 20092008 1,4 2,0 -0,3 Cumulata 0,2 0,2 0,0 Media annua Mezzogiorno -1,5 -4,5 Centro-Nord -1,3 -5,2 Italia -1,3 -5,0 Fig. 2 Valore aggiunto nei settori dell’economia nel 2009 (Variazioni %) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Fig. 3 -20 -15 -10 -5 0 Agricoltura, silvicoltura e pesca Industria s.s. Costruzioni e lavori del Genio civile Servizi Totale Mezzogiorno Centro-Nord PIL, Consumi e Investimenti (tassi annui di variazione %) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno -4,9-0,6-13,0-4,1Investimenti fissi lordi 17,31,80,60,8Consumi finali delle AAPP e delle ISP 3,70,4-1,7-0,8Consumi finali delle famiglie 2,00,2-5,2-1,3PIL Centro-Nord -2,3-0,3-9,6-3,7Investimenti fissi lordi 14,71,50,50,7Consumi finali delle AAPP e delle ISP -1,3-0,1-2,6-1,5Consumi finali delle famiglie -0,30,0-4,5-1,5PIL Mezzogiorno CumulataMedia annua 2001-2009 2008 2009 Fig. 4 Consumi delle famiglie per categoria di spesa (Variazioni % medie annue) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno 4,00,4-1,9-2,2Altri beni e servizi 7,60,8-1,6-1,0Altri beni e servizi 4,20,5-0,40,6Abitazioni e spese connesse -8,8-1,0-3,5-1,1Vestiario e calzature -2,3-0,3-3,1-2,3Alimentari, bevande e tabacco 3,70,4-1,7-0,8Spese per consumi finali delle famiglie Centro-Nord -1,9-0,2-2,30,8Abitazioni e spese connesse -10,7-1,2-4,4-0,8Vestiario e calzature -6,4-0,7-4,0-3,5Alimentari, bevande e tabacco -1,3-0,1-2,6-1,5Spese per consumi finali delle famiglie Mezzogiorno CumulataMedia annua 2001-2009 2008 2009 Fig. 5 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Andamento dell’occupazione (variazioni annuali assolute in migliaia di unità e %) Fig. 6 -4 -3 -2 -1 0 1 2 2007 2008 2009 Mezzogiorno Centro-Nord - 1 217 - 34 - 186 - 194 234 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Tasso di occupazione (%) e tasso di attività (%) nel 2009 e nel 2009 Fig. 7 30 40 50 60 70 80 2008 2009 2008 2009 Tasso di occupazione Tasso di attività Mezzogiorno Centro-Nord -8 -6 -4 -2 0 2008 2009 V a l o r i % Mezzogiorno Centro-Nord Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Occupazione industria in senso stretto nel 2008 e nel 2009. Valori assoluti in migliaia di unità e % Fig. 8 - 45,0 - 61,1 - 153,1 - 18,0 TASSO DI INDUSTRIALIZZAZIONE Mezzogiorno 35 Centro-Nord 105 VALORE AGGIUNTO DELL’INDUSTRIA IN SENSO STRETTO VARIAZIONE % CUMULATA Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno -19,75,9Mezzogiorno 2004-2007 2008-2009 Centro-Nord 4,6 -17,9 Fig. 9 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno -10,2-3,1-0,6Regno Unito -20,030,85,5Finlandia -15,525,94,7Slovenia -7,02,90,6Portogallo -1,147,58,1Polonia -10,32,40,5Francia -13,73,20,6Spagna -9,828,15,1Grecia -17,214,12,7Germania -13,39,71,9Euro Zone 2004-2008 -15,02,80,6Centro-Nord Media annua Cumulata 2009 Mezzogiorno -0,5 -2,4 -15,6 Italia 0,4 2,1 -15,1 Ue 27 1,9 9,8 -12,4 Fig. 10 Valore aggiunto industria ss. Variazione %, media annua e cumulata Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Crescita delle esportazioni di merci in alcune regioni dell’Obiettivo Convergenza (variazioni % su valori in euro correnti) -30 -25 -20 -15 -10 -5 0 5 10 15 2003-07 tasso medio annuo 2008 2009 Regioni tedesche Regioni spagnole Regioni italiane Germania Spagna Italia Fig. 11 Misure di agevolazione dell'intervento per le aree sottoutilizzate. Situazione al 30 giugno 2010 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Bandi avviati nel 2009 per attivare interventi di agevolazione per la ricerca e l'innovazione PON "Ricerca e Competitività" 2007-2013 per le regioni della Convergenza Approvazioni ferme dal 2007, in attesa di decreti di attuazione Unificazione dei contratti di programma e dei contratti di localizzazione nei contratti di sviluppo e loro estensione a tutto il territorio nazionale In attesa di attuazione; trasformate in zone a burocrazia zeroZone franche urbane (estese al Centro-Nord) Non operativi per esaurimento risorse dell'intero periodoCrediti di imposta per investimenti (2007-2013) MISURE SITUAZIONE Crediti di imposta per l'occupazione (2008) Non operativi perché vigenti per dipendenti assunti nel 2008 Fig. 12 AIUTI DI STATO NELL’UNIONE EUROPEA, NEL 2008* (in % del PIL) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno 0,290,35Italia 0,390,53Francia 0,400,48Spagna 0,570,63Germania 0,400,50Ue a 15 Stati membri Totale aiuti di Stato Totale aiuti per industria e servizi Ue a 27 0,54 0,42 Fig. 13*al netto degli aiuti alle ferrovie e degli interventi per il settore finanziario QUOTE DEL MEZZOGIORNO SULLA SPESA PUBBLICA IN CONTO CAPITALE DELLA P.A. (%) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno 34,8 35,2 34,6 2008B 35,4 37,7 34,0 2007A 36,8 43,2 32,9 2006 36,9 45,0 32,3 2005 36,6 47,5 30,7 2004Settori di spesa 2001 2002 2003 Spese d’investimento 35,4 32,6 30,6 Trasferimenti di capitale 49,9 48,7 48,1 Totale 41,1 39,3 37,5 Fig. 14 A: Il dato è provvisorio B: Il dato è il risultato delle stime dell’indicatore anticipatore dei CTP. Confronto tra i valori target e valori 2008 di alcuni indicatori di "contesto chiave" per le regioni Obiettivo 1 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Differenze con ipotesi alta Differenze con ipotesi bassaIndicatori di “contesto chiave” 100,0 26,3 73,7 Valori % 38 10 28 Valori assoluti Valori assoluti Valori % Numero indicatori che sono rimasti al di sotto dei valori target 22 57,9 Numero indicatori che hanno superato i valori target 16 42,1 Totale 38 100,0 Fig. 15 Andamento dell’indice sintetico delle variabili di rottura, del PIL a prezzi costanti (valori concatenati, anno 2000) e tasso di occupazione 15-64 anni per regioni Ob. 1 e non Ob. 1 – Anni 2000 - 2008 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Fig. 16 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Fig. 17 QSN 2007-2013 delle regioni italiane dell’Obiettivo Convergenza FESR: Attuazione finanziaria al 28 febbraio 2010, per Programma Operativo (milioni di euro) Contributo totale Impegni Pagamenti Impegni Pagamenti 2007-2013 (b) (c) (b/a) (%) (c/a) (%) (a) ● Programmi Interregionali Convergenza 2.638,9 97,8 97,8 3,71 3,71 POI Attrattori culturali, naturali e turismo 1.031,1 0,0 0,0 0,00 0,00 POI Energie rinnovabili e risparmio energetico 1.607,8 97,8 97,8 6,08 6,08 ● Programmi Nazionali Convergenza 10.884,4 2.178,6 841,5 20,02 7,73 ● Programmi Regionali Convergenza 22.393,0 2.949,7 1.285,8 13,17 5,74 POR FESR Campania 6.864,8 685,4 261,9 9,98 3,81 POR FESR Puglia 5.238,0 503,4 313,9 9,61 5,99 POR FESR Basilicata 752,2 178,0 113,8 23,66 15,13 POR FESR Calabria 2.998,4 920,0 198,5 30,68 6,62 POR FESR Sicilia 6.539,6 662,9 397,7 10,14 6,08 ● Totale 35.916,3 5.226,1 2.225,1 14,55 6,19 Attuazione finanziaria Programmi Operativi Ripartizione e utilizzo del FAS 2007-2013 Copertura attraverso FAS: -10,505 md Risorse FAS 2000- 2006 non impegnate: +1,2 md Fondo economia reale 9,053 md Fondo Infrastrutture 12,356 md Pre-allocazione e altri investimenti: 1,533 md Quota regionale e interregionale FAS 27,026 md FAS (Cipe 21 dic 2007) 63,273 md FAS (Cipe 18 dic 2008) 53,968 md Quota nazionale FAS 25,409 md Fondo ammortizzatori 4 md Comunicato CNEL del 12 novembre 2009: “.. interventi che hanno di fatto indirizzato oltre 26 miliardi del FAS (circa il 40% delle disponibilità) verso utilizzi non coerenti con la sua missione originaria” Fig. 18 Riccardo PADOVANI direttore della SVIMEZ Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Roma, 20 luglio 2010 Svimez 2010/03_Vicedirettore_Testo.pdf Roma, 20 luglio 2010 Luca BIANCHI vice direttore della SVIMEZ Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno L’IMPATTO SOCIALE DELLA CRISI AL SUD: PAGANO I PIU’ DEBOLI La condizione giovanile Troppi senza “paracadute” Il rischio povertà I GIOVANI: VITTIME SILENZIOSE Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile Variazione % dell’occupazione per le classi giovanili ed adulte: 2008-2009 -10,0% -8,0% -6,0% -4,0% -2,0% 0,0% 2,0% 15-34 anni 35 anni e oltre Totale Mezzogiorno Centro-Nord Si chiudono le porte di accesso al mercato del lavoro Variazioni 2008-2009 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile In calo l’occupazione dei laureati 25-34 anni variazione 2008-2009 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile Tasso di occupazione dei laureati 25-34 . Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile Il divario di competenze in terza media Scarto dal valore medio - Dati INVALSI – Prova nazionale 2009 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile Serve ancora studiare? Tasso di passaggio dalle scuole superiori all'università Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile L’esercito degli invisibili: chi non studia e non lavora Not in education, employment or training di 15-29 anni Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile L’esercito degli invisibili: chi non studia e non lavora Not in education, employment or training di 15-29 anni Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile 30,3% 15,0% Incidenza % sulla popolazione della stessa età nel 2009 La fuga dal mercato del lavoro “formale” Inattivi e persone in cerca di occupazione Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno L’assenza di paracadute per troppi +700.000 Tasso di disoccupazione e tasso di disoccupazione corretto nel 2009 - Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno L’assenza di paracadute per troppi Composizione percentuale della disoccupazione corretta Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno L’assenza di paracadute per troppi Mezzogiorno Centro-Nord La diversa copertura degli ammortizzatori Variazione assol. occupati ed occupati equivalenti in CIG Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno L’assenza di paracadute per troppi Le famiglie a rischio povertà . Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il rischio povertà % delle famiglie per classi di reddito Meno di 1000 € mensili Tra 1000 e 1500 € mensili Più di 3000 € mensili Mezzogiorno 14,0 16,8 24,5 Centro-Nord 5,5 11,5 41,9 Condizioni del breadwinner . Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il rischio povertà % delle famiglie Almeno tre persone a carico Non occupato e non pensionato Mezzogiorno 12% 22,1% Centro-Nord 3,7% 10% Indicatori di deprivazione delle famiglie . Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il rischio povertà Indicatori di deprivazione delle famiglie . Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il rischio povertà Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Cambi di residenza: 114.000 -8.000 rispetto al 2008 Pendolari di lungo raggio: 147.000 -26.000 (-15%) rispetto al 2008 I nuovi emigranti: il flusso permane nonostante la crisi Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Nel 2009 i pendolari di lungo raggio laureati sono stati 39.000 (il 26,2% rispetto al 23,9% del 2008). Diminuisce invece nel 2009 la quota di impieghi ad alta qualificazione Studiare Emigrare Gli emigranti laureati sono stati oltre 17.000 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno LA FRONTIERA SUD La sfida è di portare a coerenza l’interesse specifico del Mezzogiorno con quello complessivo del sistema Recuperare, come nella migliore tradizione meridionalista, una visione dello sviluppo nazionale: un Mezzogiorno che esca dalla crisi puntando su uno sviluppo “non residuale” è un vantaggio anche per il Nord Il SUD battistrada di nuove vie per l’internazionalizzazione “attiva” del nostro sistema economico e non solo all’«inseguimento» del modello di sviluppo settentrionale Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno LA FRONTIERA SUD • Il Mediterraneo, “terra” di possibile integrazione • Le nuove vie allo sviluppo: ricerca e innovazione per valorizzare il capitale umano e puntare sulla green economy Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il Mediterraneo, “terra” di possibile integrazione • Il “rovesciamento” delle convenienze logistiche: fine della marginalità del Sud • Il Mediterraneo e l’Europa: da frontiera “ostile” a prossimità “contagiosa” L’attuale condizione è evidentemente figlia della “debolezza” dell’Italia nello scenario continentale: una nuova “missione” sovranazionale per l’Italia Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il Mediterraneo, “terra” di possibile integrazione anche economica 1.000 1.500 2.000 2.500 3.000 3.500 4.000 4.500 5.000 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 Quote export sul totale Area MED extra UE 6,0Centro-Nord 9,8Mezzogiorno Esportazioni del Mezzogiorno verso area MED extra UE Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Ricerca e innovazione per valorizzare il capitale umano 11,865,69Italia Laureati per discipline scientifiche e tecnologiche (per 1000 abitanti in età 20-29 anni) 2000 2007 Mezzogiorno 3,83 8,03 Centro-Nord 6,89 14,48 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Ricerca e innovazione per valorizzare le potenzialità della green economy 29,8 29,6 38,4 18,3 0 10 20 30 40 50 Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Quota imprese che investiranno nel 2010 in prodotti e tecnologie green Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti Rompere il persistente isolamento: condizione necessaria per ogni disegno strategico di crescita economica dell’area La Frontiera SUD come “cerniera”, per l’intero Paese, nella “nuova geografia dello sviluppo” post crisi. Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti 38,311,249,5TOTALE 14,7014,7Reti FerroviarieSA-RC-CT-PA, NA-BA Stima dei fabbisogni finanziari (mld €) Costo previsto Copertura finanziaria Fabbisogni da reperire Strade e Autostrade SA-RC, 106 Ionica, PA-AG e ME-SR-Gela, AG-CL, RG-CT 28,7 9,6 19,1 Ponte sullo stretto 6,1 1,6 4,5 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti Questo progetto rappresenta il primo campo su cui procedere con uno sforzo di concentrazione e riorientamento dei Fondi per lo sviluppo e sperimentare quel necessario mutamento istituzionale che prevede la condivisione di obiettivi strategici tra Governo e Conferenza delle Regioni meridionali vincolando quote significative delle risorse del Fondo infrastrutture strategiche e dei Fondi strutturali nazionali e regionali. Roma, 20 luglio 2010 Luca BIANCHI vice direttore della SVIMEZ Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Svimez 2010/04_Novacco_Testo.pdf SVIMEZ Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEL “RAPPORTO SVIMEZ 2010 SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO” CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE al dibattito con le Regioni meridionali, col Governo e col Paese di Nino NOVACCO Presidente Emerito della SVIMEZ ROMA, 20 luglio 2010 c/o ABI - Sala della Clemenza di Palazzo Altieri SVIMEZ Cosa fare oggi per il Mezzogiorno e per l’Italia. Considerazioni introduttive al pubblico dibattito promosso dalla SVIMEZ Roma, 20 luglio 2010 1. Il “meridionalismo” politico, ma soprattutto economico, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, si batte da decenni con determinazione contro i divari e contro ogni differenza – storica e fattuale – tra Nord e Sud, cioè tra regioni avanzate ed aree deboli, tra territori industrializzati e no. In tale squilibrata situazione, è certo che occorre tener fermo il “timone” e garantire le scelte di una necessaria ma inesistente “regia” nazionale sul valore prioritario e determinante delle politiche pubbliche finalizzate all’accelerazione dello sviluppo nelle aree deboli del Mezzogiorno, come condizione verso la convergenza e la finalistica coesione, mai rinunciando alla documentata denuncia e contestazione dei limiti sempre più inadeguati della “spesa in conto capitale” da riservare allo sviluppo meridionale, che non sarà mai tale se non vi è lavoro, ed occupazione, ed imprese, e se non si riesce a combattere al Sud disoccupazione ed inoccupazione. Le politiche richiedono di essere sistematicamente valutate con particolare riferimento per un verso alle “grandi opere strategiche” essenziali sia all’unificazione infrastrutturale dell’Italia, sia alla interconnessione territoriale dell’intero Sud, e per altro verso al sistema delle “reti” e alla qualità dei servizi da rendere funzionali sia nelle singole regioni meridionali, sia tra di esse, fino ad oggi assai poco ed assai male interconnesse. I tagli apportati in questi ultimi anni alla spesa in tali campi nel Sud – utilizzando talvolta il FAS come il Bancomat del Governo –, hanno dato luogo ad una situazione che sarebbe non improprio definire di “sacrificio dei territori deboli”. Il fatto poi che siano scomparsi in sede di Governo i riferimenti introdotti dal DPEF 2000-2003 in ordine agli obiettivi di spesa di investimento da garantire nel Mezzogiorno [il 45% della spesa complessiva ed il 30% della spesa ordinaria in conto capitale, come era stato promesso dal DPS di Carlo Azeglio Ciampi e di Fabrizio Barca] sono la controprova del progressivo disimpegno della politica nazionale e di quella degli Enti erogatori nazionali che, salvo eccezioni, tendono a collocarsi addirittura al di sotto del “peso naturale” del Sud (popolazione e superficie dell’area), essenziale da rispettare se non si vuole accentuare il declino relativo del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. SVIMEZ 2 2. È tuttavia venuto forse il momento di dire con chiarezza che altrettanto gravi ed inaccettabili dei divari economici e di investimento, e di formazione di capitale, sono i differenziali territoriali relativi all’esercizio della “gestione del fare e del governare”, cioè dell’amministrare, e quindi le differenze ingiustificate tra “costi unitari” [e più tecnicamente tra “costi standard”, in termini analoghi a quelli di cui si parla a proposito del c.d. “federalismo fiscale”]; e ciò sia in senso “monetario” (spendere di meno per fare la stessa cosa, ottenendo pari o migliori risultati), sia in senso “organizzativo”, impiegando nelle diverse Regioni – e fin nei Comuni – le necessarie “risorse umane”, cioè un adeguato ma non eccessivo numero di addetti, che siano però veri dipendenti produttivi, e non soggetti burocratici lenti, indecisionisti e di fatto poco efficienti, incapaci di garantire – a parità di sforzi e di costi con le realtà più avanzate – i risultati che servono ad un Sud che diventi soggetto di modernità, garantendo così risultati sempre migliori. Mentre è evidente l’artificio dialettico – di fatto antimeridionalista – di chi pretende strumentalmente di ignorare (e comunque tacere) le “differenze strutturali” tra macro-comunità territoriali italiane che si trovano ad un differente livello di sviluppo, resta vero che non si può prescindere dalla doverosa presa in considerazione delle macro-differenze di costi e risultati in situazioni diverse, ed in un clima politico-mediatico in cui le denuncie (anche da parte di noti pubblicisti e di fin fantasiosi professori alla Ricolfi) in ordine alle diversità di costi e ricavi tra territori e/o Amministrazioni viene presentata come “colpa”, cioè come effetto di inefficienze e di incapacità, se non addirittura di imbrogli e ruberie, considerate quasi tipiche del Sud. È chiaro che in questo quadro è importante non lasciare solo alla sistematica e strumentale retorica “leghista”, e tanto meno alle generiche accuse di “cialtroneria” rivolte agli Amministratori regionali meridionali, il diritto di sventolare la bandiera delle “responsabilità dei politici e degli amministratori del Mezzogiorno”. Sarebbe perlomeno necessario evocare queste responsabilità in parallelo alla denuncia delle colpe storiche e strategiche dei Governi nazionali degli ultimi 20 anni, colpe che non potranno non accrescersi nel quadro di un federalismo che, se malinteso, rischia di divenire fattore disgregatore, fonte di aspirazioni a progressive devoluzioni, cioè l’esatto contrario del foedus, cioè del “patto”, che nel disegno di Cattaneo doveva servire a rendere più forte e saldo l’intero Paese. 3. Non hanno purtroppo trovato fino ad oggi una costruttiva soluzione i problemi aperti dai mutamenti costituzionali apportati nel 2001 in Italia alla assai saggia Costituzione “autonomista” del 1948. SVIMEZ 3 Quei mutamenti, ridimensionando il ruolo dello Stato nazionale, in favore (a parole) dei più ampi poteri di Regioni, Province, Aree Metropolitane e Comuni, in uno stravagante intreccio tra poteri propri e poteri condivisi, non hanno certo contribuito a fare chiarezza sulla disponibilità e sull’uso delle risorse, sia umane sia finanziarie. Si tenga presente in proposito quanto, in termini di “materie” – di cui si fece strame di non ben definite “competenze” – prevede oggi la Costituzione nell’art. 117 comma 2, a titolo di “legislazione concorrente” tra Stato e suoi territori. In una tale situazione, quando e come si riuscirà a mettere ordine nel caos e nello “spezzatino” che si è irresponsabilmente creato? E sarà possibile farlo, con un’Amministrazione burocratica tradizionalmente “cartolare”, “formalista”, “lenta” e “pigra” come la nostra? E se è già un rebus quello della identificazione dei costi standard per la sanità, per l’istruzione, per l’assistenza sociale, forse per i trasporti locali e per quant’altro, chi porrà mano a “costi standardizzati” per lo “sviluppo”, per l’“industrializzazione”, per il “capitale sociale”? E ciò anche a prescindere – ovviamente – da quel sempre più spesso evocato “capitale civico” accumulatosi, in secoli di storia e di esperienze, proprio in alcune delle zone più avanzate dell’Italia centro- settentrionale, e la cui assenza nel Mezzogiorno viene ricondotta a colpa odierna dei soli Amministratori del Sud, e non ad effetto dei modi storici dell’unificazione piemontese, ed ai differenziali che lo sviluppo produttivo ed occupazionale ha avuto nelle macro-regioni nazionali sotto tanti profili più deboli, così diverse rispetto ad altre, che godono degli articolati vantaggi del Nord. 4. Dunque, un nodo assai difficile e problematico per il Mezzogiorno è oggi senza dubbio – specie assieme alle iniziative necessarie per lo sviluppo produttivo, determinanti come nel caso FIAT per Pomigliano d’Arco – quello relativo al federalismo. Un groviglio da sciogliere con una certa urgenza, benché l’attuazione del “federalismo fiscale” – fors’anche a causa di incertezze e difficoltà finanziarie – non è affatto detto che proceda nei tempi e nei modi previsti dal Governo, e voluti e pretesi dalla Lega. Le frettolose determinazioni già intervenute in materia di “federalismo demaniale” non possono non rendere evidenti i rischi di una devoluzione del demanio, che testimonierebbe una volontà e comunque un esplicito disinteresse al fatto che si faccia a pezzi il patrimonio storico e condiviso della Nazione, con effetti evidenti sui territori deboli, le cui Amministrazioni versano in SVIMEZ 4 assai più difficili condizioni finanziarie, e che saranno incentivate a “svendere” anche solo per esigenze di bilancio corrente. Ecco perché la sfida dell’autonomia e dell’autogoverno del Mezzogiorno può essere vinta solo se coniugata con l’urgenza di elaborare un disegno nazionale di politiche pubbliche generali, tendenti al superamento del divario, come unica via per rendere sostenibile la solidarietà nazionale, e l’unità stessa del Paese. 5. Difficile situazione, quella del Mezzogiorno. Ma quanto peggio le sue Regioni si troverebbero oggi se a metà degli anni ’40 – e poi dal 1950, promuovendo e difendendo per un quarto di secolo la “Cassa per il Mezzogiorno” e l’intervento speciale e straordinario per il Sud – non fosse nata la SVIMEZ, che si è sforzata [con Morandi e Saraceno, con Menichella e con Giordani, con Cenzato e con tanti altri italiani – da Rossi Doria a La Malfa, da Cifarelli a Compagna, da Annesi a La Cavera (citato quest’ultimo da Emanuele Macaluso in una lectio doctoralis pronunciata a Catania nelle settimane scorse, ricordando anche il meridionalismo di Giorgio Amendola e di Giorgio Napolitano) –, italiani tutti allora e poi sensibili al destino unitario di un’Italia più uniformemente industrializzata ed unita nella disponibilità di dotazioni produttive e civili], la SVIMEZ si è sforzata, dicevo, di essere strumento del progresso di una parte non trascurabile della Nazione e dell’Europa. E quanto più preoccupati dovremmo essere oggi se a contrastare chi nega addirittura l’opportunità di avviare tra pochi mesi le Celebrazioni dei 150 anni dell’Unità – pur non ancora economica – dell’Italia, non ci fosse per un verso il rigore e l’impegno del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e per un altro verso l’impegno che la Chiesa italiana sta mostrando per il necessario progresso del Sud come condizione per la crescita e per la coesione dell’Italia tutta. 6. Il richiamo all’orgoglio dell’appartenenza alla tradizione del “meridionalismo” e al contributo che la SVIMEZ, anche in anni recenti e difficili, ha dato per mantenere alta e viva l’attenzione all’unificazione economica, e produttiva, e sociale, del Paese, occorre sia reso esplicito nella sua attualità ed urgenza. Un certo “meridionalismo meridiano” ha avuto il difetto e la colpa di non cogliere – come si è osservato – il profondo legame tra la modernizzazione del Mezzogiorno e quella del Paese nel suo insieme, ed è stato incapace di elaborare una politica per il Sud che fosse “funzione” dello sviluppo nazionale e internazionale. SVIMEZ 5 In questo senso – anche per mettere in doveroso risalto i contributi analitici offerti dalla SVIMEZ nei propri Rapporti di questi ultimi anni –, occorre inquadrare la questione dello sviluppo del Mezzogiorno nella cornice nazionale e internazionale, individuando le linee di espansione in settori capaci di competere nel nuovo scenario globale. In fondo, è quello che si tentò – con alterne fortune – di fare in passato al Sud con l’industria dell’automobile, dell’acciaio, del petrolio, della chimica, e comunque con stabilimenti produttivi che ancor oggi hanno un peso ed una rilevanza determinante nell’economia meridionale. Le ricette per il Sud, mutuate dalle esperienze internazionali che si richiamavano ad un liberismo “estremista”, si sono rivelate fallimentari; e oggi, dopo la crisi in corso, sono ovunque messe in discussione. E così, anche il localismo, figlio innaturale dello stesso pensiero dominante, è dal canto suo del tutto inadeguato a cogliere i vantaggi competitivi nel mutato scenario dell’economia globale. Ecco perché occorre tornare a riproporre il Mezzogiorno, nel suo insieme, non solo come “problema” nazionale, ma soprattutto come “occasione nazionale”, ben al di là delle contingenti motivazioni politiche – la denuncia SVIMEZ dell’entità cospicua dei movimenti migratori Sud-Nord – che nel luglio dello scorso 2009 ebbero a segnare il ritorno dei problemi meridionali nel dibattito pubblico della stampa e della politica italiana. Solo la diffusione della consapevolezza – che è compito della “cultura”, ma anche della “politica” – di una reale «occasione Mezzogiorno», può trasmettere al Paese l’immagine di un Sud “utile” all’Italia, e non soltanto “tollerato” dal Nord a titolo di una evocata solidarietà nazionale su cui, in realtà – leghe o non leghe – non pare si possa fare sempre affidamento. 7. Lasciate che io confessi che malgrado tutto resto nella mia tristezza, quando penso che oggi noi della SVIMEZ, con il Presidente della Repubblica, con la Confindustria, con la Conferenza Episcopale Italiana, appariamo tutti a diverso titolo paralizzati dalla verbosità e fantasia capziosa dei personaggi maggiori e no del “leghismo” italiano, e dalla sproporzionata influenza che esso esercita sugli equilibri e sul futuro dell’Italia. Come la lotta nazionale contro il cancro mafioso non sarà vinta in Italia senza una condanna morale e civile che non conceda attenuanti e giustificazioni pur indirette al potere delle mafie diffusesi ormai nell’economia e nella società dell’intera Italia, così la posizione della Chiesa italiana resterà non risolutiva senza la formalizzata e pubblicizzata esclusione degli adepti mafiosi e delle loro famiglie dalle Comunità Ecclesiali, e senza che si affermi ovunque il valore morale di un massimo di “pulizia” e di rigore nell’amministrare, e fin nell’accettare come normali gli eccessi di SVIMEZ 6 eccezioni (finti malati, ad esempio, inventati, coinvolti e sfruttati dalle mafie) in determinati territori e campi. Allo stesso modo e titolo, la meritoria battaglia di alcune Confindustrie meridionali contro i comportamenti mafiosi e malavitosi di tante imprese di costruzione, non sarà vittoriosa finché ognuna di esse guarderà prioritariamente al proprio orticello, lasciando che risulti vincente il cinico “realismo” di quelle altre imprese – spesso grandi, se non le maggiori – che accettano (magari riuscendo a nascondersi o camuffarsi) la logica del “compromesso” e la prassi della “convivenza” come fattori di pur anomala competitività, specie nella qualità delle opere relative a grandi ma anche piccoli lavori pubblici, e più in generale nella scadente qualità del mercato degli immobili, urbani e metropolitani, per non parlare delle troppo ampie libertà di una struttura di “Protezione civile” divenuta di fatto una SpA senza regole e vincoli. 8. Senza voler formulare qui ed oggi giudizi né di “politica” né di “politica economica”, determinante sarà lo stato d’animo che il meridionalismo tutto sarà capace di assumere nei confronti delle scelte dei poteri pubblici nazionali a proposito della allocazione territoriale delle risorse, fino a quando esse non divengano trasparentemente e stabilmente corrispondenti – come era sembrato si volesse fare quando è nato il DPS di Ciampi e di Barca – alle esigenze delle Regioni meno avanzate e più deboli. Il progresso di esse è infatti una “condicio sine qua non”, se crediamo essere vero – come anche la Confindustria ha rilevato nel celebrare il proprio Centenario – che “l’Italia non crescerà se non crescerà adeguatamente l’intero Mezzogiorno”. In effetti, l’obiettivo di una “crescita” rapida e competitiva è per l’Italia quello prioritario, ed è obiettivo che non ha altre ragionevoli alternative, ma che è reso difficile ed improbabile anche per l’indebolimento del “Ministero dello Sviluppo Economico”, cui era stata affidata impropriamente la delega per le politiche di sviluppo, in precedenza in carico al Ministero dell’Economia, ed ora, più opportunamente passata al Presidente del Consiglio, e delegata al Ministro degli Affari Regionali. Siamo forse al tornante di una necessaria svolta, nella quale tutto si tiene e conta, comprese, come ho detto all’inizio, le gravissime ed insopportabili inefficienze e fin corruzioni degli Amministratori responsabili e dei Governi locali meridionali, troppo influenzati da storici condizionamenti: familisti, parentali e amicali, oltre a quelli economico-affaristici, professionali, mafiosi e massonici – P2 oppure P3 che sia –, tutti determinanti, perché tutti a vari livelli burocratici ed economici tra loro intrecciati. Una svolta che se non si tradurrà presto nei fatti e nelle politiche, ci vedrà inevitabilmente condannati a negativi destini: dal venir meno del prestigio di cui SVIMEZ 7 il “made in Italy” gode ancora sui mercati (maggiore di quello riconosciuto all’Italia nella politica internazionale), al sicuro declino economico della intera nostra Nazione rispetto ai BRIC; e non solo ad essi, ma a tanti nuovi Paesi emergenti nel Mondo, vicino e lontano. Vi è quindi la necessità – è da molto tempo ormai che si parla di un “Piano per il Mezzogiorno”, come già in recenti anni passati si è addirittura parlato di un “Piano Marshall” per il Sud – di un forte progetto nazionale, e di realizzazioni straordinariamente impegnative anche e proprio per il progresso ambientale e produttivo meridionale, capaci di contrastare la perdurante disunità del sistema Italia. Questa appare ormai forse come la sola speranza nazionale per i prossimi anni, e di essa sarebbe grave – ripeto – voler rendere colpevoli i soli “governatori” del Sud – vecchi e nuovi, e di alterno colore politico –, gravati da tante responsabilità, ma anche da tanti storici problemi irrisolti, e da sistematici “tagli e condizionamenti” alle risorse, che creano insopportabili ma concrete incertezze. 9. A progetti di programmazione di tal fatta, che riprendano gli aspetti positivi di ciò che nel corso degli “anni migliori” dell’intervento straordinario della “Cassa per il Mezzogiorno” (1950-1975) si era saputo fare – sotto la guida di Gabriele Pescatore – ispirandosi alle Authority americane degli anni rooseveltiani dopo la “Grande Crisi” (Tennesse Valley Authority, Columbia River, altre, come più tardi all’esperienza dell’Appalachian Commission), la SVIMEZ sta di fatto lavorando, attraverso l’elaborazione della proposta di una specifica “Agenzia per lo sviluppo del territorio del Mezzogiorno”, e per altro verso grazie ai prospettati servizi di un “Osservatorio economico e sociale del Mezzogiorno” che essa è capace di offrire ed ha offerto – a basso costo – ad una sorta di opportuna “Conferenza delle Regioni meridionali”. Si potrebbero così dare contenuti positivi alle troppo vaghe previsioni dell’art. 119 comma 5 della Costituzione, con cui il legislatore volle nel 2001 annacquare il riferimento di fatto al solo Mezzogiorno, quale esso era contenuto al comma 3 dell’art. 119 della Costituzione autonomista del 1948, che allora venne cancellato. C’è in effetti un ineludibile bisogno – possibilità e necessità insieme – di strutture che assicurino forme di coordinamento efficaci per interventi che siano connessi alla qualità degli ambienti produttivi e ad una efficace “gestione” delle politiche e degli interventi indirizzati a “strategie di localizzazione” che guardino – anche a scala ed in ottica mediterranea – alle potenzialità del Mezzogiorno nel nuovo scenario che si aprirà con la ripresa, dopo la grave crisi internazionale che stiamo ancora attraversando. Del resto, le posizioni di questi ultimi anni – figlie di un pensiero economico variamente declinato in Europa fin nelle forme estreme di antistatalismo SVIMEZ 8 liberista, e nella mitologizzata esaltazione di un localismo senza storia e senza orizzonti – hanno rivelato tutta la loro inadeguatezza. In questo quadro, l’idea che noi della SVIMEZ coltiviamo, e la bussola cui guardiamo, e che riteniamo possa e debba guidare l’Italia, è quella di ripensare al ruolo di organismi – promossi dallo Stato, e comunque gestiti con risorse rese effettivamente disponibili per le Regioni meridionali – operanti nel quadro del tante volte promesso “Piano per il Mezzogiorno”, anche nel campo dei «servizi reali alle piccole e medie imprese». Con tal tipo di Organismi – e con la valorizzazione produttiva degli immobili industriali oggi non più utilizzati nelle ASI e nei “nuclei” industriali per colpa della crisi e del “mal governo” amministrativo di troppi – sarebbe possibile dare un più che efficace supporto – per il futuro prossimo – all’individuazione di localizzazioni, strategie e strumenti per accelerare i processi di sviluppo delle «aree deboli» del Sud, processi senza i quali non ci sarà unità nazionale, e permarranno ancora – troppo a lungo – divari e squilibri, nemici da sempre dello sviluppo competitivo e complessivo dell’Italia. Ci sentiamo impegnati, come SVIMEZ, affinché politiche che non restino solo declamate in improbabili programmi e nei quasi quotidiani comunicati alla stampa e soprattutto alle TV, e strumenti operativi non miopi e non paralizzati dall’assenza di reale operatività dei poteri locali, possano aiutare in concreto il Mezzogiorno, e con esso l’Italia. Nino Novacco Presidente Emerito della SVIMEZ Roma, 20 luglio 2010 Svimez 2010/05_Scheda_Sintesi.pdf SVIMEZ Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno RAPPORTO SVIMEZ 2010 SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO INTRODUZIONE E SINTESI 2 Finito di stampare il 16 luglio 2010 dall’Industria Failli Grafica s.r.l. Via Roma, 202, 00010 Pomezia (Roma) – Tel. 06.9122520 fax 06.9108363 per conto della SVIMEZ “Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno” Via di Porta Pinciana 6, 00187 Roma Tel. 06.47.850.1 • fax 06.47.850.850 • e–mail: svimez@svimez.it 3 Indice 1. IL MEZZOGIORNO NELLA CRISI: INDIETRO DI 10 ANNI p. 5 2. IL DIFFICILE PERCORSO DELL’INDUSTRIA MERIDIONALE E LA NECESSITÀ DEL RILANCIO DI UNA STRATEGIA DI POLITICA INDUSTRIALE PER IL SUD 8 2.1. La crisi e il rischio della scomparsa del Sud industriale 8 2.2. L’urgenza di una strategia di politica industriale per il Sud 11 3. L’IMPATTO SOCIALE DELLA CRISI 15 3.1. I giovani, le vittime silenziose 15 3.2. L’inoccupazione e la povertà: i limiti del welfare italiano 19 4. LE POLITICHE E I FONDI STRUTTURALI: LA NECESSITÀ DI VISIONE STRATEGICA E DI COORDINAMENTO 22 4.1. La spesa pubblica al Sud: superare i luoghi comuni 22 4.2. Limiti e fallimenti della politica di coesione 23 4.3. Il FAS e il depotenziamento della “politica regionale unitaria” 25 4.4. Necessità di visione strategica, mutamenti istituzionali e riforma delle politiche post 2013 27 4 5. POLITICHE GENERALI NAZIONALI, PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E DIVARIO p. 30 5.1. La necessità di politiche generali nazionali differenziate 30 5.2. I “nuovi contenuti”del divario: i servizi pubblici per i cittadini e per le imprese 31 6. IL MEZZOGIORNO NELLA PROSPETTIVA DELL’ATTUAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE 35 6.1. La necessità di un adeguato modello di governance e di finanziamento 35 6.2. Le risorse aggiuntive e gli interventi speciali per il Mezzogiorno 38 7. LA “FRONTIERA” SUD E LE NUOVE “STRADE” DELLO SVILUPPO 40 7.1. La “frontiera” 40 7.2. Il Mediterraneo, “terra”di possibile integrazione 41 7.3. Le nuove vie allo sviluppo: ricerca e innovazione per valorizzare il capitale umano e puntare sulla green economy 43 7.4. Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti: strumento per la crescita e l’integrazione 46 5 Introduzione e sintesi 1. IL MEZZOGIORNO NELLA CRISI: INDIETRO DI 10 ANNI I dati e le analisi presentati nel Rapporto SVIMEZ di quest’anno documentano il processo di deterioramento in atto nel Mezzogiorno, a livello di capitale fisso, sociale e produttivo. Un declino in corso da un decennio, e aggravatosi nella attuale fase di crisi, che ostacola il processo di adeguamento competitivo di tale area ed accresce le condizioni di fragilità delle sue strutture produttive. Il rallentamento e poi il calo degli investimenti produttivi privati è accompagnato da un parallelo indebolimento degli investimenti effettuati dall’Amministrazione pubblica e dalle imprese pubbliche, nazionali e locali, cui si aggiungono in questa fase i consistenti tagli ai Fondi per il Sud. Conseguenti e drammatici i risvolti sociali: calo demografico, migrazione dei giovani laureati, aumento della quota di anziani e di inoccupati, allargamento dei divari sul piano delle tutele del lavoro e forte contrazione nella dotazione dei servizi socio-assistenziali. È in tale difficile quadro che si colloca l’analisi del presente Rapporto che pone in evidenza il processo incompiuto di trasformazione dell’economia meridionale in questi ultimi anni; troppe le debolezze strutturali che affondano le radici nel passato e troppo deboli ancora i segnali di ripresa per far sperare in una rapida fuoriuscita dalla crisi. Nel Paese, indebolito nel suo insieme, sembra prevalere un atteggiamento di contrapposizione tra aree deboli e aree forti, che se da un lato delinea il rischio di un ulteriore allargamento del divario, dall’altro condiziona anche le possibilità di ripresa dell’intera economia italiana. Il Rapporto SVIMEZ 2010 vuole, invece, richiamare l’attenzione sull’urgenza di un profondo processo di ristrutturazione dell’apparato produttivo meridionale, che deve essere accompagnato da più efficaci politiche di sviluppo che pongano le condizioni per cogliere le sfide e le opportunità nel “nuovo” scenario che si aprirà all’uscita dalla crisi. In questa ottica, un approccio “storico”, tanto più quest’anno in cui si celebrano i 150 anni dell’Unità nazionale, può aiutare a recuperare l’abitudine, persa da troppo tempo, a sviluppare un’analisi di sistema nella quale il 6 Mezzogiorno sia parte di un disegno complessivo di interesse nazionale. Dobbiamo tornare a ragionare sul se e su come da Sud possa proporsi, in analogia a quanto avvenne negli anni della Ricostruzione post-bellica, una fondamentale azione di rigenerazione dell’economia e della società italiana. Questo si traduce per noi nel concetto di Mezzogiorno come “frontiera” del Paese, verso il Mediterraneo e verso le opportunità offerte dai nuovi settori di sviluppo legati all’innovazione, alle competenze, all’economia verde. Cogliere tali opportunità richiede però innovazioni istituzionali nel Sud e per il Sud: un’attuazione del federalismo fiscale costituzionalmente orientata; un risveglio di coscienza civile; una nuova strategia di politica economica che, in coerenza con le esigenze di stabilità finanziaria, ponga le basi per un rilancio della crescita dell’intero Paese. A tal fine il Rapporto, nella Parte terza, identifica alcune principali linee di questo nuovo “progetto Paese”, in grado di valorizzare le tante energie inutilizzate soprattutto nelle sue aree deboli. Un progetto che deve basarsi su più coerenti ed efficienti politiche generali nazionali (nel campo della Pubblica Amministrazione, della scuola, del credito, della lotta alla povertà e all’esclusione sociale, del contrasto alla criminalità organizzata), e su di una riformata, ma ancora indispensabile, politica specifica per le aree deboli, in grado di favorire i processi di modernizzazione, presenti anche al Sud, e le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale che torneranno a presentarsi. Il Mezzogiorno nella crisi: effetti economici ed effetti sociali La grave recessione che ha colpito l’economia mondiale si è abbattuta pesantemente sull’economia del Mezzogiorno, provata da un decennio di forte rallentamento e da un allargamento del divario di sviluppo col resto del Paese. Dall’inizio degli anni duemila fino all’arrivo della crisi, il Mezzogiorno ha registrato ritmi di crescita dimezzati rispetto al Centro-Nord. Con la recessione del 2008 e del 2009 il PIL meridionale è ritornato, in valore assoluto, ai livelli di dieci anni prima. Non si era mai verificato, nella storia repubblicana, una così lunga interruzione del processo di crescita e di convergenza con le aree “forti”. In base a valutazioni di preconsuntivo elaborate dalla SVIMEZ, nel 2009 il prodotto interno lordo (a prezzi concatenati) si è ridotto nel Mezzogiorno del 4,5%, con una caduta molto più ampia di quella registrata nell’anno precedente (-1,5%), ma inferiore – solo per effetto di una diversa composizione dei settori dell’economia – di poco più di mezzo punto a quella 7 nel resto del Paese (-5,2%). La crisi del biennio 2008-2009 è l’unica, tra quelle vissute negli ultimi decenni, in cui il PIL si sia contratto per due anni consecutivi: il prodotto a prezzi concatenati tra il 2007 e il 2009 si è ridotto complessivamente del 5,7% nel Mezzogiorno e del 4,9% nel resto del Paese. Ciò sfata l’ipotesi di un Mezzogiorno che subisce meno gli effetti del ciclo, specie quello internazionale, in quanto meno aperto agli scambi con l’estero, e in cui i settori anticiclici, come quelli dei servizi, hanno un ruolo congiunturale determinante. Al contrario, la maggiore debolezza dell’economia meridionale la rende particolarmente vulnerabile non solo agli shock diretti provenienti dalla domanda estera, ma anche ai suoi effetti indiretti, tramite la domanda proveniente dal Centro-Nord. La recessione attuale, aggiunta alla bassa crescita, comporta che il prodotto del Mezzogiorno risulti nel 2009 ancora inferiore del -0,3% al livello raggiunto dall’inizio del decennio. Nel resto del Paese, la migliore dinamica di sviluppo realizzata nello stesso periodo ha portato ad una crescita cumulata nel decennio del 2,1%, un valore esiguo ma comunque positivo. Le differenze tra gli andamenti settoriali tra Mezzogiorno e Centro-Nord sono nel 2009 complessivamente modeste. In tutti i comparti in cui sono disaggregati i conti regionali la flessione produttiva del Sud è stata però maggiore di quella del Centro-Nord. Soltanto la diversa composizione settoriale – con un peso maggiore dei servizi meno colpiti dalla crisi – ha determinato al Sud un risultato meno negativo nell’anno. Tra le componenti della domanda, la caduta nell’acquisto di beni capitali è la prima causa anche nel 2009 della recessione del PIL: gli investimenti fissi lordi del Mezzogiorno sono diminuiti del 9,6%, dopo la flessione già registrata l’anno precedente (-3,7%). Nel Centro-Nord la flessione è stata più ampia (- 13,0%), come nel 2008 (-4,1%). Assai più grave è stata invece al Sud la contrazione dei consumi. In particolare, la spesa finale delle famiglie nel 2009 si è ridotta nel Mezzogiorno del 2,6%, un punto in più che nel resto del Paese. Ma la forza dell’impatto della crisi sulla capacità di spesa delle famiglie emerge con ancora più evidenza dalla dinamica assai negativa nel comparto dei beni essenziali: la spesa alimentare si è ridotta nel 2009 del 4%, valore che fa seguito al -3,5% del 2008. Una chiara indicazione delle difficoltà delle famiglie meridionali a sostenere il livello di spesa, che vanno al di là della congiuntura ma che sembrano ulteriormente aggravarsi nella fase più recente, in conseguenza delle consistenti perdite di posti di lavoro, che al Sud, più che nel resto del Paese, spesso riguardano l’unico percettore di reddito dell’intero nucleo familiare. 8 La contrazione dell’occupazione è stata nel 2009 nelle regioni meridionali di intensità tripla (-3%) rispetto al -1,1% del Centro-Nord. In termini assoluti ciò vuol dire 194 mila occupati in meno nel Mezzogiorno, che si aggiungono ai 35 mila posti persi nel precedente anno. Una riduzione dello stock di occupazione impiegata cha ha determinato tra il 2007 e il 2009 un calo di circa due punti del tasso di occupazione: dal 46,5% al 44,7%, valore distante di quasi venti punti dal resto del Paese (64,5%). Solo un ulteriore e deciso incremento dello “scoraggiamento” a cercare lavoro ha limitato gli effetti di tali andamenti sul tasso di disoccupazione. Nel solo 2009, gli “inattivi” in età lavorativa, cioè coloro che non svolgono un lavoro né lo cercano, sono aumentati al Sud di oltre il 3%. Deve far riflettere il fatto che nel 2009 il tasso di attività sia sceso al Sud al 51,1%: ciò vuol dire che una persona su due in età lavorativa è completamente estranea al mercato del lavoro regolare (non solo non ha una occupazione ma non segue i formali canali di ricerca di lavoro previsti dall’indagine ISTAT). Si tratta di un esercito di oltre sei milioni e mezzo di donne e uomini che partecipa ad un mondo “grigio”, tra l’attività irregolare nell’economia sommersa e la ricerca estemporanea di lavori saltuari, attraverso canali informali se non di carattere clientelare. 2. IL DIFFICILE PERCORSO DELL’INDUSTRIA MERIDIONALE E LA NECESSITÀ DEL RILANCIO DI UNA STRATEGIA DI POLITICA INDUSTRIALE PER IL SUD 2.1. La crisi e il rischio della scomparsa del Sud industriale La perdita di occupazione registrata per effetto della crisi economica risulta di estrema gravità nel comparto industriale italiano. In particolare, la riduzione della manodopera industriale nel Mezzogiorno sta assumendo dimensioni mai sperimentate: nel corso del 2009 si sono persi 61 mila posti di lavoro dell’industria manifatturiera (-7% a fronte del -3,7% nel Centro-Nord). Nel complesso del biennio di crisi 2008-2009, la perdita occupazionale supera le 100 mila unità (-12%), andando così a ridurre ulteriormente il tasso di industrializzazione di un’area che presentava già livelli assai inferiori al resto del Paese. Va ricordato, a riguardo, che ancora nel 2007 vi erano al Sud, secondo i dati dell’Archivio ASIA, appena 35 addetti manifatturieri ogni 1.000 abitanti a fronte dei 105 del Centro-Nord. La crisi si è riflessa con particolare gravità sulle regioni meridionali maggiormente industrializzate: -14% nel 9 biennio in Campania, -13% in Puglia e Basilicata (in quest’ultima regione tra il 2004 e il 2009 si è perso circa un occupato industriale su cinque). I dati sul valore aggiunto industriale confermano la lettura di una crisi che viene da lontano e che mostra elementi di debolezza strutturali che rischiano di andare oltre il ciclo congiunturale. Nel biennio 2008-2009, l’output industriale è complessivamente diminuito di poco meno di venti punti percentuali nel Sud (-19,7%) e di quasi diciotto nel Centro-Nord (-17,9%). Relativamente a ciò, vi sono due considerazioni che preme evidenziare. La prima è che dal 2004, anno a partire dal quale la dinamica nazionale era tendenzialmente tornata ad essere positiva, e fino al 2007, la variazione cumulata del prodotto dell’industria è risultata pari al 5,9% nel Mezzogiorno ed al 4,6% nel resto del Paese. Ciò implica che, in assenza di una consistente accelerazione del ritmo di crescita del prodotto industriale nella fase post-crisi, il recupero dei livelli di produzione del 2007 richiederà un arco temporale prossimo, in entrambi i casi, al decennio. In secondo luogo, diversamente da quanto di solito avveniva in fasi recessive indotte dall’estero, la crisi avviatasi dalla seconda metà del 2008 pare aver colpito con intensità maggiore l’industria del Sud. Generalmente, infatti, dato il maggior grado di apertura dell’industria del Nord, quest’ultima era coinvolta in misura più ampia da una contrazione del commercio mondiale. Il venir meno, nella fase ciclica recente, di questo elemento può indicare la presenza, nel Sud, di uno shock (fortemente) asimmetrico. Nelle aree valutarie uniche, qual è l’Euro-zone, in presenza di una ridotta flessibilità di prezzi e salari unitamente ad una scarsa mobilità dei fattori, gli aggiustamenti in seguito ad uno shock esogeno, perso il cambio, spettano alla politica fiscale. Misure di sostegno della domanda non appaiono tuttavia praticabili in considerazione dell’elevato stock di debito pubblico già accumulato. In assenza, inoltre, di politiche strutturali volte a ridurre in maniera consistente i divari regionali, l’eventualità che gli shock possano generare recessioni, nelle aree deboli, di entità relativamente maggiore, è molto alta – venendo meno, in queste, la tradizionale valvola del mercato interno. Il confronto internazionale sembra avvalorare tale ipotesi. La caduta di output industriale registrata nelle regioni meridionali nel 2009 è, con l’eccezione di Germania e Finlandia, quella di entità più ampia, sia rispetto ai paesi di più antica industrializzazione (Francia, Regno Unito) che, soprattutto, nei confronti dei nuovi competitors presenti nella stessa Europa a 27, quali ad esempio la Polonia. La particolare intensità con cui la recessione industriale ha colpito il Mezzogiorno nel 2009 fa seguito, infatti, ad un già forte ampliamento del gap di crescita con il resto del Paese (e, soprattutto, con gli altri paesi europei) nella 10 fase antecedente la crisi, caratterizzata dall’acuirsi delle differenze in termini di produttività a causa della sostanziale inadeguatezza che i processi di riorganizzazione della struttura produttiva – comparativamente lenti nell’intero Paese – hanno mostrato al Sud. Nel complesso del periodo 2004-2008 la variazione cumulata del prodotto industriale è risultata nel Mezzogiorno negativa (-2,4%), a fronte di un aumento del 2,8% nel Centro-Nord e in presenza di incrementi medi complessivi del 9,7% per l’Area dell’Euro e del 9,8% per l’Ue a 27 paesi. Queste considerazioni paiono rafforzarsi da un’analisi econometrica condotta dalla SVIMEZ su un campione di imprese presenti nelle indagini curate da UNICREDIT. I miglioramenti competitivi sono risultati fortemente circoscritti a una quota limitata di imprese, mentre a livello di sistema sono emerse rilevanti difficoltà ad adeguarsi al nuovo contesto. La diffusione e la rilevanza, in termini di impatto sulla performance del valore aggiunto, di quei fattori “competitività” che nelle regioni del Centro-Nord hanno assunto il ruolo di driver della crescita – innovazione (non incrementale) e internazionalizzazione (specie nelle forme più evolute che vanno oltre il semplice export) – è comparativamente assai debole. Il doppio shock (euro/globalizzazione) di inizio decennio si è abbattuto su una struttura industriale che nel Mezzogiorno permane fortemente polarizzata tra poche, e sempre meno, grandi imprese, quasi sempre di proprietà esterna all’area, e molte piccole imprese locali orientate al mercato interno, con scarsi collegamenti con le unità produttive maggiori localizzate nello stesso Sud. Piccole imprese nelle quali l’innovazione è un’attività residuale, e/o che entrano/escono dal mercato estero a seconda della convenienza relativa. La lettura del pattern seguito dal sistema del Mezzogiorno appare preoccupante se si confrontano le esportazioni meridionali con le altre regioni europee in ritardo di sviluppo. Considerando il quinquennio 2003-2007, sia in Germania che in Spagna le regioni relativamente più arretrate riuscivano a far crescere le proprie esportazioni a tassi - rispettivamente del 14,5 e del 9,4% - molto più elevati delle corrispondenti medie nazionali (8,2 e 6,8%), in Italia invece la convergenza era molto lenta: i tassi medi annui erano del 6,9% nelle regioni in ritardo e del 6,3% nella media nazionale. La crisi economica mondiale ha imposto nel 2008 un brusco rallentamento e nel 2009 una secca flessione delle esportazioni in tutte le regioni considerate. Tuttavia, comparativamente, il colpo più duro è stato subito proprio dalle quattro regioni meridionali dell’Obiettivo Convergenza considerate, che hanno fatto registrare risultati vistosamente peggiori anche rispetto alla propria media nazionale. Nel complesso emerge dunque un quadro 11 in cui l’Italia perde terreno rispetto agli altri paesi dell’Area dell’Euro e – al suo interno – le regioni più in ritardo subiscono un ulteriore peggioramento della loro posizione relativa. Un processo di polarizzazione degli squilibri che contrasta nettamente con la convergenza riscontrabile in Spagna e soprattutto in Germania, finanche nel pieno della crisi. Le cronache di questi mesi e settimane sugli stabilimenti FIAT di Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, alquanto complesse e diverse tra loro, sono emblematiche. Evidenziano il rischio di spiazzamento che la nuova divisione internazionale del lavoro può determinare in aree che non possono essere concorrenziali sul costo del lavoro e che, attraverso la chiusura dei grandi impianti, potrebbero andare incontro a forme di desertificazione del tessuto di piccole industrie ad essi legate. E mostrano che, al di là di singole scelte aziendali, a pesare sono i decenni di mancate strategie di politica industriale. 2.2. L’urgenza di una strategia di politica industriale per il Sud La mancanza di indirizzi chiari di politica industriale impedisce di affrontare i problemi posti dalla globalizzazione e dall’irruzione delle economie emergenti sui mercati dei prodotti manifatturieri, e penalizza in maggiore misura le regioni in ritardo. Proprio per queste aree, ci sarebbe stato bisogno di definire e perseguire specifiche politiche ancorate ad un disegno strategico di politica industriale, che ormai manca dalla metà degli anni ’70, volto a sostenere la modernizzazione e la crescita della struttura produttiva e a rendere possibile il pieno inserimento del Mezzogiorno, da protagonista attivo, in un progetto complessivo di sviluppo del sistema produttivo italiano. Dopo di allora si è assistito in Italia a un progressivo indebolimento della politica industriale tout court, verso la quale è cresciuta, ormai da molti anni, un’avversione spesso di marca ideologica. Le politiche di riequilibrio territoriale, in particolare, sono state travolte dalla convinzione di un basso rendimento economico e sociale delle risorse pubbliche impiegate nel Sud. A partire dalla seconda metà degli anni duemila, è maturato infatti un progressivo ridimensionamento della politica industriale per il Sud, ed in particolare della politica di incentivazione regionale, che ne ha storicamente costituito l’ossatura portante, fino ad arrivare nel 2009 ad un sostanziale azzeramento. La riduzione del volume complessivo degli aiuti di Stato per l’industria e i servizi, rispetto al PIL, ha riguardato invero nel triennio 2006-2008 tutte le maggiori economie europee. A ben vedere, però, una dinamica sostanzialmente 12 omogenea sta portando a risultati sensibilmente differenziati. Il dato dell’Italia, in particolare, è divenuto notevolmente inferiore alla media (0,35% del PIL, contro lo 0,54% dell’Ue a 27), ed è comunque al di sotto degli altri principali paesi europei (escluso solamente il Regno Unito): 0,63% del PIL in Germania e 0,5% in Francia e Spagna. In un momento, poi, in cui gli aiuti specificamente destinati all’obiettivo dello sviluppo regionale sperimentano in termini relativi una ripresa in diversi paesi europei, sorprende che la loro quota sul totale degli aiuti si sia attestata in Italia, nel 2008, su un livello di circa il 18%, meno della metà del valore di Francia (40,8%) e Spagna (39,9%), non caratterizzati peraltro da uno squilibrio territoriale così ampio e persistente come quello presente nel nostro Paese. Al drastico impoverimento, a partire dal 2007, degli interventi di incentivazione della politica regionale per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno, è seguito, nel corso del 2009, il loro sostanziale azzeramento. Dopo la scomparsa di importanti strumenti, tra i quali, in primo luogo, la legge 488/1992, ma anche altri ad essa collegati, finalizzati in particolare al sostegno delle R&S e all’innovazione, nel 2009, sono infatti rimasti non operativi tutti gli interventi di incentivazione, anche quelli per i quali era prevista nell’anno l’attivazione, come le Zone franche urbane, i nuovi contratti di programma e i contratti di sviluppo, ancora in attesa di una regolamentazione. In assenza di rifinanziamenti, le risorse disponibili per i crediti di imposta per l’occupazione si sono esaurite già nell’ottobre 2008, mentre le agevolazioni concesse per i crediti di imposta a favore degli investimenti hanno assorbito l’intero stanziamento complessivo del 2007-2013. Sul versante della programmazione negoziata, nel 2009, il blocco dell’attività di deliberazione ha riguardato anche i contratti di localizzazione (riservati al Sud), cui a partire dal 2003 era stato principalmente affidato il compito di favorire l’attrazione degli investimenti esteri. Anche i contratti di sviluppo, destinati a sostituire, con procedure più snelle, i contratti di programma e i contratti di localizzazione, sono rimasti non operativi, in mancanza del decreto di attuazione del Ministero dello Sviluppo Economico. Lo stesso processo di definizione delle Zone franche urbane è stato caratterizzato da una lunga fase di gestazione, che non ne ha consentito l’avvio neanche nel 2009. La recente manovra del decreto legge 78/2010 ha poi di fatto abolito le Zone franche urbane in favore delle “Zone a burocrazia zero”. Appare improbabile, tuttavia, che tale misura possa contribuire da sola a superare uno dei principali elementi di criticità della capacità attrattiva, concorrendo, cioè, a 13 migliorare quei fattori di inefficienza del sistema istituzionale decisamente più accentuati nelle regioni meridionali che nel resto del Paese. Dal punto di vista normativo, la “legge sviluppo” (L. 99/2009) ha delegato il Governo a riformare tutto il sistema degli incentivi, compresi quelli destinati alle aree sottoutilizzate, ma i tempi previsti per la presentazione del progetto di riforma sono lunghi. Nel frattempo è opportuno ribadire con forza le ragioni di una politica industriale specifica per il Mezzogiorno. Solo col ripristino di un consistente apporto differenziale di politica industriale regionale – coniugato con un più adeguato accesso del Sud agli interventi della politica industriale nazionale – è possibile, infatti, porre le condizioni per un disegno strategico di sviluppo strutturale. Gli “obiettivi guida” di questa possibile strategia di politica industriale possono sommariamente individuarsi: nella riqualificazione del modello di specializzazione produttiva, attraverso il sostegno alla ricerca e all’innovazione tecnologica e organizzativa e allo sviluppo delle attività a più alta produttività relativa; nell’innalzamento delle dimensioni medie dell’impresa, attraverso il sostegno alla formazione di “reti” di imprese e ad un maggiore accesso al credito; nell’innalzamento del grado di apertura del sistema verso l’estero; nella promozione e nell’arricchimento di “filiere produttive”; nel pieno inserimento delle agglomerazioni di imprese in settori strategici per l’industria nazionale (anche attraverso i “Progetti di innovazione Industriale” di “Industria 2015”); nel rilancio delle politiche di attrazione. Non si tratta di un “inventario indistinto” delle ambizioni, ma di una strategia consapevolmente fondata sulla convinzione che il circolo vizioso del sottosviluppo vada aggredito in più punti. Più ingenue debbono al contrario essere considerate quelle impostazioni che, di volta in volta, individuano un solo asse strategico di intervento, per poi scoprire che le forti complementarità tra tutti i fattori vanificano ogni impegno unilaterale. Quanto agli strumenti di questa strategia di politica industriale per il Sud, un ruolo centrale dovrà continuare ad essere affidato anche agli interventi di incentivazione. Interventi per i quali – al di là della forma tecnica di erogazione – sarebbe però il momento di aprirsi ad un approccio più “selettivo” rispetto a quello seguito con la legge 488 e ancor più con i crediti di imposta; un approccio, cioè, mirato al perseguimento di obiettivi specifici, che consenta di evitare la dispersione delle risorse tra un novero troppo ampio di finalità e su una platea troppo vasta di imprese. In questa prospettiva, deve rilevarsi che i crediti di imposta – che una posizione oggi largamente prevalente tende a considerare non solo come la tipologia di incentivo più efficace ma pressoché come l’unica praticabile, in 14 ragione della quasi totale automaticità dei criteri di concessione e di erogazione, che può consentire di evitare gli elementi di possibile distorsione derivanti dall’interferenza, a volte anche “impropria”, della macchina amministrativa – sono, invece, a nostro avviso, da considerare una componente importante di un “sistema” di incentivazione, ma non esclusiva, né sostitutiva di una componente di tipo valutativo in grado di indirizzare risorse verso obiettivi di miglioramento strutturale. Nell’attuale fase di crisi economica, i crediti di imposta possono sicuramente assumere un’importanza anche maggiore rispetto al passato, agendo in funzione anticiclica e contribuendo a mitigare i vincoli finanziari che ostacolano la crescita delle imprese, soprattutto di quelle con bassi livelli di produttività. Ma – come posto in luce, con riferimento al periodo 1998-2005, anche da un recente studio dell’ISAE1 – non sembrano in grado di favorire i processi di innalzamento della competitività del sistema e, in particolare delle imprese più prossime alla frontiera tecnologica Un importante elemento della nuova strategia di politica industriale potrebbe essere costituito da una “vera” fiscalità di vantaggio, intesa come fiscalità differenziata a favore delle regioni meridionali nel loro complesso, e non di semplice accentuazione a favore del Sud di misure per il sistema produttivo nazionale. Essa dovrebbe costituire, infatti, una forma strutturale di diversificazione delle convenienze, tale da mettere effettivamente in moto una capacità di attrarre risorse esterne, nazionali ed internazionali, quale quella di cui si sono avvantaggiati altri paesi dell’Area dell’Euro, contribuendo a dare concretezza alla già evocata possibilità per il Mezzogiorno di proporsi quale “frontiera” in una rinnovata strategia di sviluppo del Paese. L’ultima manovra governativa (decreto legge 78/2010) prevede una forma di fiscalità di vantaggio per le Regioni del Mezzogiorno, che con propria legge possono, in relazione all'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) modificare le aliquote, fino ad azzerarle, e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei riguardi delle nuove iniziative produttive. In realtà, é difficile pensare che le Regioni del Mezzogiorno, tanto più dopo i tagli previsti dalla manovra stessa (e, per alcune di esse, con l’obbligo di far ricorso alla leva fiscale per coprire i disavanzi sanitari) abbiano risorse per avviare una concorrenza fiscale nei confronti delle altre aree per attirare nuove iniziative. 1 Cfr. ISAE, Rapporto ISAE. Politiche pubbliche e redistribuzione, Roma, ottobre 2009; per una valutazione sull’efficacia dei crediti di imposta, si vedano anche: Ministero dello Sviluppo Economico, La valutazione del credito d’imposta: i risultati di un’indagine presso gli imprenditori, Roma, 2005, R. Bruschi, Il credito di imposta per gli investimenti nelle aree svantaggiate: appunti su questioni aperte e prospettive finanziarie, in “Rivista giuridica del Mezzogiorno”, trimestrale della SVIMEZ, n. 4, 2009. 15 Non sembra inoltre che, nella situazione di arretratezza, carenza di infrastrutture, degrado istituzionale, esposizione alla malavita organizzata in cui molte zone delle regioni interessate si trovano, sia sufficiente abolire l’IRAP per compensare i maggiori costi che un investitore sostiene aprendo un’attività. Rimane, quindi, questo il punctum dolens della politica di riequilibrio. Perché è del tutto evidente che una “vera” fiscalità di vantaggio (che non può che essere alimentata da risorse nazionali), fungerebbe da volano anche per le altre misure di correzione del ritardo. 3. L’IMPATTO SOCIALE DELLA CRISI I dati più recenti, che tengono conto degli effetti pesanti sul già disastrato mercato del lavoro meridionale, danno conto da un lato di una progressiva e crescente penalizzazione dei giovani ad elevata scolarizzazione e dall’altro anche di una interruzione del processo di crescita della scolarizzazione, soprattutto universitaria. Emerge, dunque, in tutto il Paese, ma con una particolare accentuazione nel Mezzogiorno, l’esistenza di una vera e propria questione giovanile che si manifesta, a diversi stadi e livelli di intensità, in una riduzione delle iscrizioni all’Università, in una crescita del precariato (prima della crisi) e dell’inoccupazione giovanile (con la crisi dell’ultimo biennio). 3.1. I giovani, le vittime silenziose La crisi occupazionale ha colpito prevalentemente soggetti giovani, con lavori temporanei e sostanzialmente privi di tutele o in fase di entrata sul mercato del lavoro. Tali criticità, rilevabili per l’intero Paese, mostrano un particolare rilievo nel Mezzogiorno, dove la concentrazione dei costi della crisi sulle categorie più deboli determina effetti sociali di particolare gravità. Più della metà delle persone che hanno perso il lavoro nel 2009 (194 mila unità di cui 145 mila uomini e 49 mila donne) era impiegata al Sud, dove invece si concentra circa un quarto dell’occupazione italiana. Tutto il calo dell’occupazione italiana è inoltre concentrato nelle fasce di età giovanile, mentre appare ancora in modesta crescita nella classe di età 35anni e oltre. Il crollo dell’occupazione più giovane è particolarmente forte al Sud dove gli 16 occupati dai 15 ai 34 anni sono diminuiti di ben 175 mila unità (-9%, a fronte del -6% al Centro-Nord ). La crisi al Sud non ha fatto altro che aggravare una tendenza già in atto negli ultimi anni, caratterizzata da un numero sempre minore di ragazzi che riesce ad accedere al mercato del lavoro regolare: tra il 2004 e il 2009 gli occupati con meno di 35 anni si sono ridotti del 15%, a fronte di un incremento delle fasce di età più avanzate. Il confronto con i dati degli altri paesi e regioni europee conferma la peculiare situazione dei giovani italiani, in particolare dei residenti nelle regioni meridionali. Con riferimento alla classe d’età da 15 a 24 anni, emerge al 2008 un divario tra Italia ed Ue a 27 nel tasso di occupazione di 13 punti percentuali (24,4 contro 37,5%). Il divario sale a oltre 20 punti se si considera il Mezzogiorno (17,0%). Scendendo a livello di regioni, Campania, Basilicata, Sicilia e Calabria si collocano tra le ultime 10 nel ranking dei tassi di occupazione giovanile con valori inferiori al 16%. Su livelli inferiori a Sicilia e Calabria vi sono soltanto tre isole francesi dei domini d’oltremare. Il dato più evidente, emerso nel corso dell’ultimo anno, rivela che i costi più elevati della crisi si scaricano soprattutto sulle generazioni che ancora devono trovare un lavoro. Una dinamica che ritarda ulteriormente il processo di crescita individuale dei giovani italiani e meridionali in particolare, procrastinandone ulteriormente oltre all’accesso al lavoro anche le decisioni individuali e sociali. La crisi, dunque, determina una rarefazione delle nuove opportunità di lavoro, mentre fattori inerziali ed ammortizzatori sociali limitano i danni per le occupazioni preesistenti: il dato nazionale vede un calo dello 0,3% di coloro che risultavano già occupati lo scorso anno e un calo del 17% del numero di coloro che risultano neo-occupati (cioè che risultavano senza una occupazione nel 2008): -16% al Sud e -18% al Centro-Nord. In numero assoluto, i “neoccupati” sono scesi in Italia da 1,8 milioni a circa 1,5 milioni. Tra le nuove occupazioni, particolarmente accentuati risultano i cali dei contratti a tempo indeterminato nelle fasce di età giovanile (-25% e -27% rispettivamente per il Mezzogiorno ed il Centro-Nord nella classe 15-34 anni). Complessivamente si è passati al Sud da un flusso di neo-occupati di 15-34 anni nel 2008, già anno di crisi, di 450 mila unità ad un flusso nel 2009 di poco superiore alle 350 mila unità; altrettanto forte è stata la riduzione di coloro che hanno trovato lavoro nel 2009 rilevabile nel Centro-Nord (dei -194 mila complessivi, circa 150 mila nelle classi di età inferiori ai 35 anni), a dimostrazione che anche nelle regioni più sviluppate il sistema economico e sociale è riuscito in parte ad arginare gli 17 effetti della crisi sui già occupati, scaricando però tali effetti sulle possibilità di accesso dei giovani al mercato del lavoro. Questi andamenti hanno effetti economici e sociali particolarmente negativi in quanto aumentano la dipendenza dei giovani dalle famiglie, riducono la crescita demografica e la mobilità sociale, aumentano i fenomeni di marginalizzazione e di povertà. Indicazioni in chiaroscuro provengono anche dal mondo dell’istruzione. Nel corso dell’ultimo quindicennio è avvenuta una vera e propria rivoluzione nel Mezzogiorno. Una rivoluzione che ha avuto al centro il mondo della scuola. Almeno con riferimento all’istruzione primaria e secondaria, il divario tra Nord e Sud è stato colmato. Ed oggi, contrariamente a quanto avveniva ad inizio anni ‘90, la percentuale di ragazzi del Sud che ha conseguito il diploma è addirittura superiore a quella del Nord. Nel 2009, 77 diciannovenni meridionali su 100 erano diplomati, contro i 72 del Nord. Contemporaneamente nella scuola secondaria superiore il problema degli abbandoni mantiene ancora una certa importanza. In particolare, non sembra che al Sud si siano raggiunti risultati tangibili nelle periferie delle grandi aree urbane, a conferma della profonda correlazione tra tale fenomeno e la presenza di situazioni di degrado economico e sociale. Il Mezzogiorno presenta tuttora tassi di abbandono assai più elevati: nei primi due anni di scuola secondaria superiore abbandonano quasi 2 studenti (17%) su 10, il doppio del valore rilevabile al Centro-Nord (11,5%). Segnali contrastanti provengono anche dall’istruzione terziaria. La partecipazione all’istruzione universitaria è aumentata: il tasso di iscrizione, è salito da circa il 33% del 2001 a quasi il 40% nel 2008, con il Mezzogiorno su livelli più elevati del Centro-Nord (43,3% contro 36,5%). Dal 2003, tuttavia, il trend crescente pare essersi fermato. Il tasso di passaggio all’Università – cioè il rapporto tra immatricolati e maturi nell’anno precedente, che dal 2000 al 2004 era aumentato di 10 punti percentuali sia al Centro-Nord che al Mezzogiorno, raggiungendo rispettivamente il 73,4% e il 72,2% – è tornato nel 2008-2009 ai livelli di inizio anni duemila (62,4% nel Sud e 63,4% nel Centro-Nord). Incremento degli abbandoni e declino dei tassi di passaggio all’Università sembrano sottendere un mutamento del rapporto tra l’istruzione, ed in particolare quella universitaria, e il sistema economico. Mentre fino a un recente passato la convinzione della spendibilità di un titolo di studio terziario sul mercato del lavoro, e la legittima aspettativa di retribuzioni di gran lunga migliori per i laureati, avevano favorito l’espansione dei livelli di partecipazione, nella fase di difficoltà degli ultimi anni sembrano emergere segnali di un certo scoraggiamento fra le coorti più giovani a investire 18 nell’istruzione avanzata. La consapevolezza di un’effettiva disuguaglianza delle opportunità, come testimoniato dalla elevata correlazione tra il titolo di studio dei genitori e quello dei figli, con forti ricadute anche sulla possibilità di trovare una occupazione, contribuisce a “ingessare” il sistema economico e sociale meridionale. La progressiva emarginazione dei giovani dai processi formativi e produttivi emerge dalla crescente diffusione dei giovani (15-29 anni) Neet (Not in education, employment or training) che nel 2009 hanno superato i 2 milioni, con un aumento di 126 mila unità pari al 6,6% rispetto all’anno precedente. Il fenomeno Neet è particolarmente diffuso nel Mezzogiorno. In quest’area, con poco più del 40% della popolazione di riferimento, si concentra circa il 60% dei Neet: nel 2009 sono 1,2 milioni, 368 mila in più dello scorso anno . Essi rappresentano il 30% della popolazione tra i 15 ed i 29 anni a fronte del 15% del Centro-Nord. Con una componente femminile più accentuata: una ragazza di 15-29 anni su tre che risiede nel Mezzogiorno non ha svolto nel 2009 né attività di studio, né di formazione, né di lavoro. Anche i giovani che hanno intrapreso la via delle “nuove” emigrazioni non sono indenni dagli effetti della crisi. Ciò che non è riuscito a fare lo sviluppo – far tornare i giovani meridionali offrendo loro opportunità di lavoro – rischia di farlo a suo modo la crisi: è cominciato nel 2009 un piccolo e lento flusso di rientro di emigrati e pendolari di lungo raggio espulsi dal mercato del lavoro del Centro-Nord. Una forma di rientro, dunque, molto lontana da quella auspicata, connessa al vantaggio di usufruire di un sostegno delle famiglie di origine, nel momento in cui viene meno il reddito da lavoro rendendo insostenibile il costo della vita nelle città centro-settentrionali. È un rientro, tuttavia, che si esaurisce nell’attesa di una “ripartenza”, di nuove occasioni di impiego che, verosimilmente, saranno ancora soprattutto al Nord. La flessione, in effetti, ha riguardato soprattutto i pendolari di lungo raggio (cioè coloro che pur risiedendo nel Sud svolgono un’attività lavorativa nel Centro-Nord), perché connessa alla precarietà del lavoro che li caratterizza e che, come si è visto, è significativamente più esposta alla congiuntura. Nel 2009 i trasferimenti di residenza dal Sud al Nord sono stati 114 mila (8 mila in meno rispetto al 2008), mentre lo stock di “emigranti precari” (pendolari di lungo raggio) è sceso a 147 mila unità (-15% rispetto al 2008, quando era di 173 mila unità). Il fenomeno, dunque, persiste in tutta la sua dimensione e rilevanza. Non solo, ma l’effetto più significativo della crisi è stato una ridefinizione della struttura interna alla “nuova” emigrazione, con l’aumento relativo della componente più qualificata: tra i pendolari, l’incidenza dei laureati è aumentata 19 di due punti rispetto al 2008 (raggiungendo, in valore assoluto, le oltre 40 mila unità); ad essi, si aggiungono circa altri 18 mila laureati meridionali che ogni anno spostano la residenza al Centro-Nord (il 93%) o all’estero (7%). È particolarmente preoccupante, non solo la sempre più consolidata perdita di capitale umano prezioso per il Sud, ma, sul piano individuale, il fatto che a fronte di una crescita della “qualità” dell’emigrazione nel 2009 si sia ridotta significativamente la “qualità” delle occupazioni svolte: gli occupati con alta qualificazione sono infatti calati, nel solo 2009, di circa l’8% (sia pur meno delle altre componenti). 3.2. L’inoccupazione e la povertà: i limiti del welfare italiano Questa fase di crisi ha fatto emergere con ancora maggiore evidenza l’asimmetria tra soggetti colpiti e sistema di tutele. I più esposti sono risultati coloro che devono ancora entrare sul mercato del lavoro e i lavoratori con contratto precario e a termine (che sono i primi a subire i ridimensionamenti degli organici); categorie per le quali non esiste un sistema universale di tutela dei redditi e che dunque risultano molto più esposte al rischio povertà. Tale polarizzazione del mercato del lavoro assume nel nostro Paese anche una connotazione territoriale per effetto della concentrazione nelle regioni meridionali di inoccupazione, irregolarità e precarietà. In primo luogo, il sistema di ammortizzatori sociali, incentrato sulla Cassa integrazione guadagni, appare una coperta ancora troppo corta nel Mezzogiorno. Ciò risulta evidente confrontando i dati sulla CIG con quelli sull’occupazione. A fronte dunque di 186 mila posti di lavoro persi, al Nord vi sono stati nell’anno circa 438 mila unità di lavoro virtuali in Cassa integrazione; mentre al Sud la CIG ha riguardato appena 96 mila unità virtuali a fronte di una perdita di occupazione allarmante, di circa 200 mila occupati. In altre parole, mentre al Nord per ogni persona che ha perso il lavoro ve ne sono altre due protette dal sistema di ammortizzatori sociali, nel Sud invece il rapporto è inverso: solo un lavoratore su tre gode delle tutele offerte dall’attuale sistema improntato sulla Cassa integrazione. Una crisi sul fronte del lavoro che, insomma, nel Mezzogiorno, solo in minima parte si riflette sui dati relativi alla crescita della CIG. Ciò vuol dire che molti lavoratori precari e a termine si sono trovati improvvisamente senza lavoro e senza reddito, privi della copertura del sistema di ammortizzatori sociali. Si pone con ancora maggiore forza l’esigenza di una riforma in grado di potenziare l’offerta di aiuti economici e di servizi diretti ai lavorati espulsi 20 dal ciclo produttivo, tramite ammortizzatori sociali rivolti ai singoli individui indipendentemente dal settore, dalla dimensione e dalla tipologia delle imprese. Si tratterebbe di interventi che (proprio perché diretti alla persona e non alle imprese) permetterebbero di intervenire sull’intero mercato del lavoro, in maniera assai più equa di quanto non faccia l’attuale sistema, anche dal punto di vista territoriale. L’Italia si distingue per i ritardi e le incoerenze nel percorso di riforma del Welfare, che ha coinvolto molti paesi dell’Europa occidentale dagli anni ’90 in poi. In particolare, per quanto riguarda i ritardi in materia di lotta alla povertà estrema, l’Italia è tuttora uno dei pochi paesi europei a non avere misure universali di integrazione dei redditi per garantire uno standard di vita essenziale. I principali ammortizzatori sociali riescono a raggiungere una copertura parziale dei fabbisogni e sono essenzialmente orientati ai lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. Il bonus per le famiglie, che costituisce l’unico esempio di strumento calibrato sulle necessità familiari tramite una scala di equivalenza e di impianto universale, è di importo troppo limitato per incidere significativamente sulle condizioni di vita. Se aumentato nell’importo e armonizzato all’imposta personale sui redditi (ovviamente come imposta negativa, a beneficio del contribuente), potrebbe costituire una prima applicazione, limitata ai redditi più bassi, di tassazione familiare dei redditi da più parti sollecitata. L’insufficienza del modello di Welfare italiano, il suo riassetto parziale ed incompleto e l’elevato grado di evasione e di elusione fiscale concorrono a determinare, soprattutto nelle fasi di crisi, profondi squilibri nella distribuzione della ricchezza e nelle condizioni di vita fra le diverse aree del Paese e fra le generazioni. Nel Mezzogiorno, la diversità delle strutture familiari e i minori tassi di occupazione rendono più preoccupante, rispetto al Centro-Nord, il problema della disuguaglianza “interna”, cioè fra famiglie meridionali. Le analisi del Rapporto, sui dati di un’indagine sui redditi del 2007 e le condizioni di vita del 2008, rivelano il persistere di importanti differenze fra le due macroaree del Paese. Dalla distribuzione delle famiglie per classi di reddito monetario emerge che le famiglie con entrate mensili superiori ai 3 mila euro sono circa il 42% nel Centro-Nord e meno di un quarto (24,5%) nel Mezzogiorno. Per contro, il 27,7% delle famiglie meridionali appartiene alla fascia di redditi medio-bassi, fra i 500 e i 1.500 euro al mese a fronte del 16,1% del Centro-Nord. Il 14% delle famiglie del Mezzogiorno vive con meno di 1.000 euro al mese mentre nel Centro-Nord questa condizione riguarda soltanto 21 il 5,5%. Il confronto è particolarmente sfavorevole per le famiglie che comprendono bambini, giovani e altre persone non ancora anziane. La diversa vulnerabilità economica delle famiglie meridionali è strettamente connessa al basso tasso di occupazione. La percentuale di famiglie il cui breadwinner (cioè, il principale percettore di reddito) deve mantenere due o più persone è più che doppia (30,5% rispetto al 14,6% del Centro-Nord). Il rapporto col mercato del lavoro delle famiglie meridionali è complessivamente più fragile rispetto al Centro-Nord: nel 22,1% delle famiglie del Mezzogiorno il principale percettore non è attualmente occupato e non è neanche un ritirato dal lavoro, contro il 10,2% del resto del Paese. Nel 14,5% delle famiglie meridionali è presente almeno un disoccupato (contro il 6,2% di quelle del Centro-Nord). La disparità dei redditi primari è generalmente il fattore che determina gran parte della disuguaglianza nei redditi e nelle condizioni di vita. In presenza di un forte squilibrio nella distribuzione primaria, la redistribuzione operata dal sistema di tasse e benefici non riesce a compensare le disparità in misura sufficiente, sia per mancanza di risorse finanziarie, sia per i ritardi e le incoerenze delle politiche sociali. In base alla nozione di povertà relativa dell’Unione europea, quasi un terzo (32,7%) degli individui residenti nel Mezzogiorno contro l’11,1% di quelli del Centro-Nord sono a rischio di povertà a causa di un reddito troppo basso. Su un totale di 11 milioni e 152 mila persone a rischio di povertà in Italia (18,7% degli individui), 6 milioni e 838 mila risiedono nel Mezzogiorno. La problematicità della situazione meridionale è confermata dagli indicatori non monetari. Nel Mezzogiorno la deprivazione oggettiva raggiunge livelli preoccupanti sia in termini assoluti che relativamente al resto del Paese. Circa il 30% delle famiglie meridionali in almeno un’occasione nel corso dei dodici mesi precedenti non ha avuto soldi per comprare i vestiti necessari, il 20,6% per le spese mediche, l’8,3% per gli alimentari e il 21,7% per il riscaldamento. Si tratta di valori significativamente superiori a quelli registrati nel Centro-Nord. Gli indicatori soggettivi relativi al Mezzogiorno segnalano una diffusa preoccupazione per la gestione ordinaria dei bilanci familiari: il 25,9% delle famiglie meridionali arriva con difficoltà o molta difficoltà alla fine del mese e, nel 44,0% dei casi, ritiene di non poter affrontare una spesa imprevista di 750 euro con le proprie risorse. L’analisi delle strutture familiari può dunque fornire qualche elemento di valutazione anche dei possibili effetti della crisi occupazionale sulla disuguaglianza e sui rischi di povertà. L’insieme degli effetti di impatto implica un aumento del rapporto fra il numero medio di familiari a carico e percettori di 22 reddito per una parte rilevante delle famiglie e tende pertanto ad aggravare sia i rischi di povertà, sia la disuguaglianza ‘interna’ a ciascuna delle due macroaree (e, potenzialmente, anche la disuguaglianza fra Mezzogiorno e Centro-Nord, se l’aggravio dei carichi familiari si manifesta in misura relativamente maggiore per le famiglie meridionali). D’altra parte, i breadwinner delle famiglie meridionali hanno già, relativamente a quelli del Centro-Nord, una più alta probabilità strutturale di dover sopportare maggiori carichi familiari, dati i bassi tassi di occupazione femminili e giovanili (e per di più con redditi generalmente inferiori) e si trovano, per così dire, più vicini alle soglie del rischio di povertà. Nelle due le aree, comunque, la crisi ha fatto aumentare, nel caso di figli che abbiano perso il lavoro, o peggiorare, nel caso di figli che abbiano ritardato l’ingresso nel mercato del lavoro, il peso economico delle responsabilità familiari dei breadwinner. Senza un recupero sostenuto dei tassi di attività femminili e giovanili, soprattutto nel Mezzogiorno, i rischi di povertà sembrano inevitabilmente destinati a crescere nel tempo. 4. LE POLITICHE E I FONDI STRUTTURALI: LA NECESSITÀ DI VISIONE STRATEGICA E DI COORDINAMENTO 4.1. La spesa pubblica al Sud: superare i luoghi comuni L’assenza di risultati soddisfacenti in termini di crescita e di convergenza del Mezzogiorno ha cause complesse che rimandano in larga parte al generale prolungato ristagno dell’economia nazionale rispetto al resto d’Europa. Tuttavia, a frenare il processo di sviluppo concorrono problemi di dimensione nazionale, che assumono per il Sud gravità del tutto particolare, tra cui: l’impiego improprio di spesa pubblica ordinaria, il deficit di qualità ed efficienza delle Pubbliche Amministrazioni, la presenza della criminalità organizzata, il difficile avanzamento della liberalizzazione dei mercati. Ma al peggior andamento del Mezzogiorno ha concorso anche una ridotta efficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, che trova spiegazione, in primo luogo, in una dimensione della spesa pubblica in conto capitale complessiva destinata al Mezzogiorno assai inferiore a quanto programmato. Più precisamente, il dato definitivo per il 2008 dell’indicatore anticipatore della spesa in conto capitale, elaborato dal Dipartimento per lo 23 Sviluppo e la Coesione Economica, conferma la localizzazione nel Mezzogiorno di una quota pari al 34,8% del totale nazionale, in progressivo declino dopo il valore massimo registrato nel 2001 quando essa fu pari al 41,1% della spesa in conto capitale del Paese. Si tratta di un valore non solo ben lontano dal 45% del totale nazionale originariamente fissato in fase di programmazione, ma che, come accade ormai da qualche anno, non eguaglia neppure il “peso naturale” del Mezzogiorno, che può valutarsi nel 38% circa, media tra la sua quota di popolazione (35%) e la quota del suo territorio (40,8%). I dati relativi alla spesa nel Mezzogiorno servono a smentire l’idea, purtroppo assai diffusa anche nella pubblicistica, di un Sud inondato da un fiume di pubbliche risorse; ma sta anche ad indicare come la spesa in conto capitale aggiuntiva (comunitaria e nazionale) in tale area sia valsa negli ultimi anni solo a compensare il deficit della spesa ordinaria. La quota di spesa ordinaria destinata alla formazione di capitale nel Mezzogiorno, infatti, è stata pari nel 2007 ad appena il 21,4% del totale nazionale, inferiore di circa 16 punti al citato peso naturale dell’area, e di quasi 9 punti rispetto all’obiettivo del 30%, a tal titolo indicato nei documenti governativi. È paradossale che il divario crescente registrato tra enunciazioni programmatiche e realtà attuative, invece di determinare un impegno più forte a rispettare gli obiettivi, abbia portato alla cancellazione, nel silenzio diffuso della politica e degli osservatori economici, di tali obiettivi quantitativi negli ultimi due DPEF. 4.2. Limiti e fallimenti della politica di coesione A deprimere l’efficacia della complessiva politica regionale, nazionale e comunitaria, ha concorso anche la scarsa qualità degli interventi. Le carenze di fondo, come la SVIMEZ ha più volte segnalato e, da ultimo, anche nell’Audizione presso la Camera dei Deputati del febbraio scorso, sono state: la dispersione delle risorse aggiuntive da finalizzare all’accelerazione dello sviluppo sul territorio in una eccessiva molteplicità di interventi, rispondenti troppo spesso a domande localistiche; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui. Il Rapporto conclusivo di valutazione della Commissione europea ha altresì posto in evidenza gli effetti limitati dei contributi agli investimenti, caratterizzati da un ampio “dead-weight”, ossia l’utilizzo degli incentivi per iniziative che sarebbero state realizzate in ogni caso, e la mancanza di indirizzi 24 chiari di politica industriale a fronte di processi di globalizzazione che hanno penalizzato in maggiore misura le regioni più arretrate; proprio quelle per cui ci sarebbe stato bisogno di definire e perseguire specifiche politiche di accompagnamento e sostegno alle modificazioni della struttura produttiva. L’analisi condotta nel Rapporto sugli “indicatori di contesto chiave”, identificati dal QCS 2000-2006, evidenzia che gli interventi realizzati non hanno modificato sensibilmente le condizioni competitive del territorio. Dei valori target individuati ad inizio Programmazione, ben il 70% sono rimasti al di sotto delle previsioni nell’ipotesi con esternalità “alta”, e il 58% non hanno raggiunto l’obiettivo nell’ipotesi “bassa”. Anche le variabili di rottura del modello tradizionale di dipendenza del Mezzogiorno presentano un profilo sostanzialmente piatto, tra il 2000 e il 2008, e perfettamente sovrapponibile a quello delle regioni italiane non destinatarie di specifiche risorse pubbliche con finalità di riequilibrio strutturale. La riflessione sulle criticità identificate con riferimento al ciclo di programmazione 2000-2006 rappresenta, purtroppo, ancora oggi un tema di attualità; l’impostazione del nuovo “Quadro Strategico Nazionale” 2007 -2013 si è mossa, infatti, all’interno di una sostanziale continuità con il precedente periodo di programmazione. Appare ancora assente una regia complessiva del processo di attuazione nella direzione del perseguimento degli obiettivi enunciati, che conferma l’esistenza di un disegno “debole” e il rischio di una riproposizione dell’esperienza negativa del ciclo di programmazione 2000- 2006. Riguardo all’avanzamento degli interventi, si confermano le difficoltà attuative. A tre anni e mezzo dall’approvazione dei Programmi, il livello di attuazione complessivo al febbraio 2010 per l’Obiettivo Convergenza si attesta, in relazione agli impegni e ai pagamenti, rispettivamente, ad appena il 14,6% e il 6,2% del contributo assegnato. Basso è l’avanzamento dei Programmi Regionali, che si ferma, in relazione al contributo, al 10%, per gli impegni, e al 3,8%, per i pagamenti. Performances leggermente migliori riguardano i Programmi Nazionali, che in relazione al contributo assegnato, fanno registrare il 20% per gli impegni, e il 7,7% per i pagamenti. Ma i maggiori ritardi si sperimentano per i due Programmi Operativi Interregionali: il POI “Energie rinnovabili e risparmio energetico”, che presenta un livello di impegni e di pagamenti pari al 6% del contributo assegnato, ed in particolare il POI “Attrattori culturali, naturali e turismo”, che non registra né impegni, né spesa. Alla luce delle valutazioni critiche riguardanti il passato ciclo di programmazione, attualmente la principale preoccupazione riguarda non tanto e non solo il raggiungimento dei target di spesa che si richiede per evitare di 25 restituire parte delle risorse comunitarie, ma la necessità di un’immediata ridefinizione e concentrazione delle priorità di intervento, nonché la riqualificazione delle procedure e dei meccanismi di progettazione e di attuazione degli interventi. Tale processo di revisione può avvenire anche all’interno del quadro programmatico esistente, sufficientemente ampio e flessibile da consentire di concentrare risorse ed obiettivi, senza avviare processi di negoziazione lunghi e laboriosi con la Commissione europea e non può che riguardare il complesso dei programmi e delle risorse destinate alle politiche regionali, comunitarie e nazionali, inclusa la quota di “risorse rinvenienti o liberate” a seguito della certificazione dei progetti coerenti, queste ultime, vale la pena ricordare, rappresentano circa 1/3 delle risorse programmate nel ciclo 2000-2006. 4.3. Il FAS e il depotenziamento della “politica regionale unitaria” Il Quadro Strategico Nazionale (QSN) 2007-2013, delineato con la Finanziaria 2007, voleva rappresentare una sede privilegiata della programmazione unitaria, in grado di ridurre l’eccessiva articolazione tra diversi strumenti finanziari (a livello comunitario, nazionale e regionale), che si riteneva avesse limitato la piena attuazione degli obiettivi strategici nella programmazione 2000-2006. Il Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS) inserito nel “quadro unitario” doveva avere un ruolo “chiave” di strumento generale della politica regionale nazionale. È stato infatti istituito nell’intento di assicurare “finanza di lungo termine” alla programmazione unitaria e continuità agli interventi mediante risorse aggiuntive nazionali con un profilo pluriennale di spesa in grado di coprire l’intero ciclo di programmazione delle risorse. Con la costruzione del Quadro Strategico Nazionale si puntava ad un impiego efficiente delle risorse secondo un metodo unitario, coordinato e coerente, in base a parametri di qualità propri delle politiche di coesione in ambito comunitario, in un contesto di piena cooperazione istituzionale tra Stato e Regioni. Il FAS, secondo quanto stabilito dalla legge istitutiva, avrebbe dovuto essere ripartito esclusivamente con apposite delibere CIPE per investimenti pubblici e per incentivi con finalità di riequilibrio economico e sociale, sulla base del criterio generale di destinazione territoriale delle risorse. Nel corso del 2008, del 2009, e della prima parte del 2010, invece, il legislatore, anticipando l’opera di ripartizione del CIPE, è intervenuto con rilevanti utilizzi della dotazione FAS per impieghi sovente senza rapporti con le finalità proprie del 26 Fondo, che erano e che avrebbero dovuto restare finalità – meridionaliste – di “sviluppo” territoriale, verso la “coesione” nazionale. Il volume delle risorse FAS che è stato così mobilitato, prima per il finanziamento di interventi di carattere emergenziale (rifiuti in Campania, risanamento dei bilanci dei Comuni di Roma e Catania, ed altro) e successivamente per misure anticrisi, è stato oggettivamente ingente. I tagli e le preallocazioni operate sono stati pari a circa 19 miliardi di euro (risultanti per 13,7 miliardi dai tagli indicati nella delibera CIPE n. 112/2008, e per i restanti 5,3 miliardi da preallocazioni previste da leggi successive). A ciò si sono però aggiunti numerosi interventi che hanno finito per dirottare risorse del FAS verso indirizzi dispersivi rispetto alla sua missione originaria. Come illustrato nel Rapporto, in considerazione della crisi economica, la legge 2/2009 ha previsto la riprogrammazione e la concentrazione delle risorse nazionali disponibili destinate allo sviluppo delle aree sottoutilizzate su obiettivi prioritari per il rilancio dell’economia italiana. L’intera quota nazionale del FAS 2007-2013 è stata collocata in tre fondi, il primo destinato a opere infrastrutturali (e quindi coerente con la mission originaria), e gli altri due a politiche prevalentemente anticongiunturali: uno è stato utilizzato per il finanziamento degli ammortizzatori, e l’altro – accentrato presso la Presidenza del Consiglio – per far fronte in primo luogo all’emergenza in Abruzzo. L’illusione che la crisi potesse colpire meno l’economia meridionale, poi smentita dai fatti, ha alimentato la colpevole illusione di un Mezzogiorno “protetto”, e quindi ha finito per giustificare arretramenti sul terreno delle politiche di sviluppo. La quota delle risorse nazionali del FAS complessivamente dirottata verso altri indirizzi, secondo stime del CNEL, raggiunge circa 26 miliardi. Questo ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul “Quadro Strategico Nazionale 2007-2013”, indebolendone significativamente la componente nazionale. Il QSN prevedeva, infatti, come richiamato, una programmazione coordinata e contestuale dei fondi nazionali ed europei destinati alle politiche regionali, e costituiva pertanto la sede unitaria per il finanziamento delle priorità individuate a seguito di un lungo negoziato tra Amministrazioni regionali, centrali e comunitarie. L’«unità delle regole e degli obiettivi» del QSN era funzionale all’esigenza di rendere massima la capacità di intervento e l’efficacia dell’impatto: la riduzione delle risorse compromette l’impianto unitario; se definitiva, determina l’abbandono dei programmi per i quali “l’integrazione” delle fonti finanziarie è essenziale; se seguita da un 27 parziale o integrale ripristino determina rallentamenti e rinvii con conseguenza sugli effetti e sull’obsolescenza, economica e tecnica, degli interventi. Le ultime indicazioni di politica economica del Governo sembrano proseguire nell’indebolimento dell’aggiuntività delle risorse. Anche nella manovra 2011, con il decreto legge 78/2010, tuttora all’esame del Parlamento, ancora una volta si interviene con una severa decurtazione delle risorse del FAS essenzialmente in funzione di “stabilizzazione finanziaria” dei conti pubblici: a copertura delle maggiori spese del provvedimento, si registra un taglio della Missione “Sviluppo e riequilibrio territoriale” del Ministero dello Sviluppo Economico per circa 2,4 miliardi di euro con effetti diretti sulla quota FAS assegnata alle Amministrazioni centrali. Nonostante l’urgenza della crisi abbia guidato la scelta di finanziare, con i fondi destinati alle politiche di coesione, politiche generali che hanno obiettivi riferiti a tutto il Paese (ma con ricadute ben diverse a seconda del contesto territoriale), il persistente e più acuto divario tra Nord e Sud impone un tempestivo ripristino dei fondi nazionali destinati alle politiche di sviluppo anche per garantire una piena attuazione dei programmi comunitari nei tempi previsti, concentrando le risorse su finalità infrastrutturali e di sviluppo di lungo periodo. 4.4. Necessità di visione strategica, mutamenti istituzionali e riforma delle politiche post 2013 La mancanza di strategicità non deriva, dunque, solo da fattori “interni” alla programmazione degli interventi (come la frammentarietà), ma emerge dalla crisi stessa dell’impianto complessivo del QSN. I caratteri di unitarietà delle opzioni strategiche tra componente nazionale e comunitaria della politica regionale, e di addizionalità finanziaria e strategica della politica regionale rispetto alla componente ordinaria, sono stati fortemente incrinati dalle decisioni intervenute, come visto, dal 2008. Il recupero di strategicità della politica regionale, da un lato, passa per una “revisione” – tecnicamente possibile – del quadro di programmazione che concentri gli interventi su poche priorità strategiche tenendo conto del mutato scenario economico e delle accresciute esigenze “cooperative” tra i diversi livelli di governo; dall’altro, significa garantire la “certezza” e la “congruità” delle risorse e la “tempestività” nelle erogazioni. Questa rinnovata visione strategica delle politiche di sviluppo per le aree deboli, tuttavia, sarà difficile da perseguire senza un mutamento “istituzionale”, in cui l’interesse complessivo della macroarea possa trovare 28 alta espressione e modalità di relazione e confronto più proficue ed efficaci con l’azione del Governo nazionale. Per la SVIMEZ, il luogo di una rinnovata programmazione degli interventi strategici per il Mezzogiorno non può che essere una “Conferenza delle Regioni meridionali”, in costante rapporto con la Presidenza del Consiglio che, come si vedrà, riacquista una centralità nelle politiche regionali di sviluppo, su cui lo Stato mantiene competenza e responsabilità primarie, nel rispetto di tutte le articolazioni istituzionali della Repubblica. In sede congiunta – una sorta di “Consiglio per la coesione nazionale” – Conferenza delle Regioni meridionali e Presidenza del Consiglio dovranno assumere impegni vincolanti nella scelta di pochi grandi progetti strategici prioritari, su cui “appostare” risorse nazionali e regionali, frutto del “riordino” degli interventi e del “reintegro” dei fondi nazionali, certe e vincolate sino al completamento del progetto. La Conferenza, poi, sarà il luogo di un coordinamento istituzionale tra Regioni, per ovviare alle criticità emerse, al fine di rendere coerenti gli interventi regionali con il disegno strategico di politica di sviluppo per l’intera macroarea. A questo luogo di coordinamento strategico è necessario affiancare una struttura tecnica, un’Agenzia indipendente che, nell’ambito del QSN e della normativa del quinto comma dell’art. 119 Cost., si occupi della progettazione (su cui in tutti questi anni si sono registrate le maggiori deficienze) e sia di supporto all’attuazione dei grandi interventi prioritari per il Mezzogiorno definiti dalla Conferenza e dal Governo, frutto di una più ampia legittimazione istituzionale e di un impegno politico assai più vincolante della semplice “contrattazione bilaterale” tra Stato e singole Regioni, nella prospettiva del perseguimento di un interesse nazionale e macroregionale. L’Agenzia, in virtù dell’elevato grado di competenze tecniche e di indipendenza, dovrebbe consentire, oltre alla valutazione e selezione dei progetti attuativi, il loro monitoraggio in itinere ed ex post, facendo venire meno quel senso di autovalutazione che ha condizionato fortemente le politiche di coesione. L’intero sistema della politica regionale di sviluppo, in verità, necessita di una precisa definizione di sedi e strumenti di valutazione e controllo degli interventi, e della loro necessaria “terzietà” rispetto ai luoghi della programmazione, mediante i quali un rinnovato impegno per la coesione del Paese e dell’Europa possa risultare maggiormente “accettabile” e “responsabile”. Ciò dovrebbe costituire uno dei principali obiettivi della riforma delle politica europea di coesione per il post 2013. 29 Sulle prospettive della politica di coesione per gli anni successivi al 2013, la SVIMEZ ribadisce l’esigenza di mantenere e rafforzare nei prossimi anni una politica di sviluppo europea per i territori e la forte critica ad un approccio euroburocratico che si concentra più sulla correttezza delle procedure che sulla valutazione degli obiettivi perseguiti. In quest’ottica, appare condivisibile l’impianto del Rapporto indipendente, promosso dal Commissario per le politiche regionali e redatto da Fabrizio Barca, Agenda for a reformed cohesion policy, che punta alla concentrazione ex ante delle risorse su alcune precise priorità strategiche. Infine, sarà decisivo rafforzare il ruolo delle decisioni del Bilancio europeo nell’indirizzare, monitorare e verificare gli obiettivi di sviluppo e coesione, e gli strumenti (e le risorse) messi in opera dalle Autorità nazionali e territoriali, a partire dal prima richiamato principio dell’addizionalità delle risorse. È da ritenere che la responsabilità europea non possa esaurirsi insomma sul piano della quantità di risorse. I fondi del Bilancio Ue non possono essere visti come trasferimenti “globali” agli Stati, da destinare a compensare situazioni di difficoltà dei cittadini o delle imprese di una certa area geografica. Tantomeno possono essere visti come elemento di sostegno temporaneo della domanda; redistribuzione e stabilizzazione non rientrano tra gli obiettivi affidati o affidabili - secondo un corretto principio di sussidiarietà - all’Unione. È invece obiettivo dichiarato nelle norme costitutive dell’Unione quello dello sviluppo, e nella sua realizzazione l’Unione deve impegnarsi non solo destinando risorse, ma anche “validando” le finalità, l’efficacia e le priorità delle azioni proposte dallo Stato membro interessato. Insomma, concludendo, per la SVIMEZ il nuovo modello di governance della coesione implica il rafforzamento della capacità di indirizzo e di controllo da parte dell’Europa. Ciò vuol dire prevedere ex ante la scelta delle (poche) priorità da finanziare, la definizione di obiettivi quantitativi da raggiungere per mantenere le risorse, un sistema di valutazione indipendente, l’aumento della forza e cogenza dell’azione esterna, attraverso un rafforzamento del ruolo della Commissione e del suo sistema di condizionalità. Questo nuovo modello di governance dovrebbe prevedere un sistema di indicatori di risultato che siano statisticamente adeguati: un piccolo gruppo di core indicators che assicurino la comparabilità degli effetti delle politiche; e poi indicatori di intervento che costringano gli attuatori a tenere la barra dritta su poche cose, a dimostrare se ci sono progressi. Sono strumenti e proposte che dovrebbero orientare anche il versante nazionale delle politiche di sviluppo. Le proposte avanzate, infatti, mirano non solo ad aumentare la coerenza degli interventi messi in atto da una pluralità di 30 livelli di governo, ma – attraverso un meccanismo più trasparente di responsabilizzazione e semplificazione della filiera decisionale – anche la stessa “sostenibilità” di un impegno aggiuntivo per il superamento dei divari. 5. POLITICHE GENERALI NAZIONALI, PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E DIVARIO 5.1. La necessità di politiche generali nazionali differenziate All’insoddisfacente andamento della spesa aggiuntiva per lo sviluppo del Mezzogiorno si accompagna, come si è osservato, il suo carattere sostitutivo di una debole spesa ordinaria. Sono sempre più condizionanti, a nostro avviso, per innescare un processo di convergenza, i gravi effetti di un “disegno debole” di politiche generali nazionali2 che, in campi assai rilevanti per lo sviluppo, hanno costantemente mancato di adattare intensità e strumenti di intervento in funzione dei divari intercorrenti tra la macroarea debole e quella forte del Paese. Nel complesso intrico tra ciò che deve essere “ordinario” e ciò che deve essere “aggiuntivo”, preoccupa l’emergere di una posizione che tende a dare priorità all’offerta dei servizi pubblici quale contenuto della “politica regionale” (aggiuntiva). Ora, settori come l’istruzione, la giustizia, la sicurezza sono decisivi per la creazione di “condizioni ambientali” favorevoli allo sviluppo, ma l’azione pubblica in questi settori non è certo mossa da finalità di promozione dello sviluppo dei territori più arretrati, bensì destinata a tutto il territorio nazionale. Non esitiamo a dire che questi comparti dell’azione pubblica costituiscono un presupposto delle politiche regionali, ma non possono sostituire gli elementi – legati all’obiettivo precipuo della crescita economica – che caratterizzano queste ultime. Il nesso tra politica regionale ed effetti territoriali delle politiche ordinarie nazionali è sempre più stringente; uno dei limiti di fondo della Nuova Programmazione, del resto, è consistito proprio nella sottovalutazione di questo vincolo “esterno”. Già negli anni ‘80 Salvatore Cafiero, allora Direttore della SVIMEZ, con lucidissima sintesi, esprimeva questo concetto cruciale: «se l’intervento nell’area meridionale – ordinario o straordinario – resta, come è ovvio, 2 Nella distinzione proposta nelle analisi della Banca d’Italia, quelle che utilizzano la spesa in conto capitale “ordinaria” e l’intera spesa corrente delle Amministrazioni Pubbliche, sia di livello centrale che locale. 31 importante, non meno importante è la caratterizzazione meridionalistica che occorrerebbe conferire anche alle politiche [nazionali] i cui obiettivi non sono specificamente meridionalistici»3. È un tema, quello della decisiva rilevanza delle politiche nazionali per lo sviluppo del Mezzogiorno e per i risultati della politica regionale stessa, che la Banca d’Italia ha di recente proposto con forza al centro della propria riflessione sulle politiche pubbliche nel Mezzogiorno4, sottolineando altresì la necessità, che la SVIMEZ condivide e rilancia, di svolgere politiche ordinarie nazionali «di intensità differenziata a seconda della distribuzione territoriale dei problemi da affrontare». È quanto ha affermato il Governatore Mario Draghi, con una formula che non si presta a equivoci, nella sua Relazione di apertura del Convegno del novembre scorso dedicato al Mezzogiorno: «ogni qualvolta si disegni un intervento pubblico nell’economia o nella società, occorre avere ben presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre ex ante adeguati correttivi». A nostro avviso, in definitiva, la politica regionale di sviluppo deve aggiungersi alle politiche generali nazionali, volte a fornire i beni collettivi essenziali e ad assicurare il normale funzionamento dei servizi pubblici. Ed è proprio in quest’ultimo ambito, legato all’azione “ordinaria” della Pubblica Amministrazione, che è venuto a consolidarsi, ed anzi in molti casi a radicalizzarsi, il divario del Sud rispetto al resto del Paese. 5.2. I “nuovi contenuti” del divario: i servizi pubblici per i cittadini e per le imprese La lettura del divario di sviluppo del Mezzogiorno con il resto del Paese, com’è noto, dalla sfera economica in senso stretto (dal PIL pro capite, al tasso di industrializzazione, al tasso di occupazione, alla propensione alle esportazioni, ecc.) si è progressivamente caratterizzata per l’attenzione su “nuovi contenuti”, su una vasta gamma di servizi essenziali a regolamentazione nazionale e locale, e all’efficienza delle Pubbliche Amministrazioni, delineando un quadro che rende ancora più problematica la predisposizione di un’adeguata strategia di interventi per il Sud. In realtà, si pone spesso poca attenzione – e si mostra comunque una sostanziale incapacità di riforma – sulle carenze istituzionali che ritardano, se non ostacolano, il processo di sviluppo nel Mezzogiorno. Le carenze 3 Cfr. S. Cafiero, Tradizione e attualità del meridionalismo, Bologna, il Mulino, Collana della SVIMEZ, 1989, p. 211 4 Banca d’Italia, Mezzogiorno e politiche regionali, Roma, novembre 2009. 32 istituzionali pesano d’altro canto anche sulla fornitura da parte delle Amministrazioni pubbliche di “beni a domanda individuale” (scuola, sanità, giustizia, ecc.), il cui consumo si configura non solo come un diritto costituzionale di cittadinanza ma produce esternalità positive – ossia vantaggi indiretti – per l’intera collettività sotto forma di minore conflittualità sociale, migliore qualità della vita, maggiore produttività del lavoro, ecc. Nel frattempo, il settore pubblico è cresciuto in misura considerevole, anche se non abnorme, drenando risorse e ponendo con ciò le premesse per politiche di bilancio restrittive che contribuiscono a rallentare ulteriormente lo sviluppo dell’economia. In Italia, secondo valutazioni e stime dell’Unioncamere e dell’Istituto Tagliacarne, la Pubblica Amministrazione intesa come settore che fornisce servizi ai cittadini, non destinabili alla vendita, assorbe quasi il 15% dell’occupazione totale e contribuisce all’incirca nella stessa misura alla formazione del prodotto nazionale. Il peso del settore pubblico è ancora più consistente al Sud dove raggiunge il 18,8% dell’occupazione ed il 22,2% del prodotto, a fronte del 12% circa del Centro-Nord. Ma ciò che desta preoccupazione, al Sud, è soprattutto la qualità dell’offerta di beni e servizi pubblici essenziali, come giustizia, sanità, istruzione, trasporti, lavori pubblici, servizi locali, con ricadute rilevanti sulle condizioni di vita dei cittadini e sul funzionamento dell’economia. In alcune aree l’influenza delle attività criminali sulle relazioni economiche e sociali continua a essere pervasiva. Gli stessi processi avviati negli ultimi anni – di liberalizzazione, di privatizzazione, di riforma delle autonomie e dei servizi pubblici locali – anche se potenzialmente positivi hanno finito per costituire occasione di ampliamento dei divari tra le diverse aree del Paese. L’insieme di questi nodi critici contribuisce a limitare l’afflusso nel Mezzogiorno non solo degli investimenti diretti esteri e privati interni ma anche degli investimenti delle grandi società pubbliche e/o ex pubbliche che, ben lungi dalla logica “sociale” che ne aveva guidato l’azione negli anni passati, tendono a limitare la loro presenza nelle regioni meridionali. I conti pubblici territoriali evidenziano profonde differenze nella spesa pro capite a svantaggio del Mezzogiorno nei comparti dell’energia, della sanità, dei trasporti, delle telecomunicazioni, dello smaltimento rifiuti, del ciclo integrato dell’acqua. Sul versante economico, le associazioni delle imprese continuano a lamentare ostacoli e costi connessi a carenze della Pubblica Amministrazione. Tra questi, la capacità di governo del territorio, la semplificazione delle procedure amministrative e i tempi della giustizia amministrativa assumono un particolare rilievo, e vedono l’Italia fortemente svantaggiata nel confronto con gli altri principali paesi. Il Rapporto della Banca Mondiale Doing Business 33 2010, sulla facilità di fare impresa, colloca l’Italia al 78° posto su 183 paesi in una graduatoria che vede al vertice Singapore, Stati Uniti e Regno Unito nei primi cinque posti. A notevole distanza dall’Italia si collocano anche Germania (25°), Francia (31°) e Spagna (62°). Il confronto internazionale non mostra la dimensione effettiva del divario in atto all’interno del Paese. Emerge da varie indagini che i tempi medi per l’avvio di un’attività di impresa sono più bassi di circa la metà nel Centro- Nord ed i costi inferiori del 56%; il tempo medio per la cessazione delle attività è superiore al Sud di quasi il 40% rispetto al resto del Paese mentre il costo è pressoché doppio. L’Indice della Qualità della Vita dell’Impresa, elaborato dalla Confartigianato sulla base di 42 indicatori, evidenzia come le province e le regioni del Mezzogiorno si collochino agli ultimi posti della graduatoria con poche eccezioni. Il valore dell’Indice va dai 682 punti del Nord-Est, ai 632 del Nord-Ovest, ai 584 del Centro ai 469 del Sud ed infine ai 438 delle Isole. Forte è la correlazione tra valore dell’Indice e PIL pro capite. Gli indicatori di efficienza e/o le valutazioni dei cittadini concernenti i servizi pubblici fanno emergere ulteriori carenze e divari ancora di più consistenti. Pochi dati possono sintetizzare questa situazione. L’Italia mostra ancora un forte ritardo sia nel perseguire le priorità ambientali indicate in sede europea, sia nel dotarsi di un sistema organizzativo e impiantistico adeguato alla complessità del ciclo gestionale dei rifiuti urbani. Nel 2008, circa i due terzi dei rifiuti urbani totali sono conferiti in discarica, contro il 28,5% del Nord: quantità inversamente correlate all’andamento della raccolta differenziata. Nel 2008, la media nazionale di raccolta differenziata si attesta al 30,6% della produzione totale dei rifiuti urbani in miglioramento ma distante dall’obiettivo del 45% fissato dalla normativa. L’analisi territoriale evidenzia che le regioni del Nord (45,5%) sono in linea con l’obiettivo 2008, mentre il Centro (22,9%) e, soprattutto, il Mezzogiorno (14,7%) restano ancora molto lontani. L’analisi di un altro gruppo di indicatori riguardanti sia l’efficienza nell’erogazione di alcuni servizi di pubblica di pubblica utilità sia la diffusione delle tecnologie dell’informazione negli Enti locali conferma i divari a sfavore del Mezzogiorno. Solo per gli uffici anagrafici nel Mezzogiorno si rileva una maggiore efficienza. Per gli uffici delle ASL, la situazione meridionale risulta più negativa con circa 57 persone su 100 costrette a file di oltre 20 minuti a fronte delle 44 del Centro-Nord. In netto peggioramento in tutto il Paese è anche la qualità dei servizi offerti dagli uffici postali con un primato negativo del Mezzogiorno (50 persone su 100 sono costrette a file di oltre 20 minuti contro le 29 del Centro-Nord). In forte miglioramento appare, invece, il grado 34 di informatizzazione degli Enti locali in tutto il Paese: la popolazione residente in Comuni con anagrafe collegata al sistema INA SAIA sale in Italia tra il 2000 ed il 2006 dal 25 al 76%; su livelli più elevati il Centro-Nord che passa dal 30 all’82% mentre il Mezzogiorno passa dal 16 al 65%. Nella fornitura di alcuni servizi di rete a livello locale, vanno segnalati al Sud, pur con qualche miglioramento, il malfunzionamento nel servizio elettrico (con una frequenza di interruzioni lunghe di ben due volte superiori) e i problemi nell’erogazione dell’acqua (con irregolarità che riguardano, nel 2009, il 20% delle famiglie meridionali, a fronte del 7% circa nel Centro-Nord). Divari emergono dai confronti internazionali anche nel funzionamento della giustizia con tempi almeno doppi rispetto ai principali paesi europei per la risoluzione delle controversie civili. Tali divari nascondono le rilevanti differenze territoriali che sono in atto. Nel 2007 la durata media dei procedimenti di cognizione in primo grado nei tribunali italiani era pari a 904 giorni come media di una durata di 1.108 giorni nel Mezzogiorno e di 805 al Centro-Nord. Peggiore al Sud è anche la qualità dei servizi socio-assistenziali. Le persone molto soddisfatte dei servizi ospedalieri sono il 30,8% nel Mezzogiorno, a fronte del 44,7% del Centro-Nord. Il tasso di emigrazione ospedaliera, riferito ai casi di ricovero per interventi chirurgici acuti, è pari a circa il 10% del totale dei residenti ricoverati nel Mezzogiorno, a fronte di valori intorno al 5% delle regioni del Centro-Nord. L’obiettivo europeo, che prevedeva di erogare servizi per l’infanzia ad almeno il 33% dei bambini aventi meno di tre anni, è ancora lontano per l’Italia: era nel 2006 all’11,7% come media di un 15,9% del Centro-Nord e di un 4,3% del Mezzogiorno. I Comuni che hanno attivato servizi per l’infanzia erano, nel 2006, il 25,1% nel Mezzogiorno a fronte del 52,7% della media delle regioni centro-settentrionali. Questi «nuovi contenuti» del divario svelano, insomma, una condizione in cui, ancora oggi, per il cittadino meridionale sono a rischio (o gravemente carenti) alcuni diritti fondamentali. Si tratta di carenze, dunque, imputabili non solo alle Amministrazioni locali ma anche allo Stato, che si riflettono sulla vita dei cittadini e sono tuttavia determinanti ai fini dell’attrazione e della economicità delle iniziative imprenditoriali. 35 6. IL MEZZOGIORNO NELLA PROSPETTIVA DELL’ATTUAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE 6.1. La necessità di un adeguato modello di governance e di finanziamento Dalle analisi del Rapporto emerge la persistente mancanza di un modello consolidato di gestione dei servizi pubblici degli Enti territoriali, dall’avvio del processo di decentramento amministrativo degli anni ‘90 e a quasi dieci anni dall’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Costituzione. La questione del modello di governance si pone con forza nella prospettiva di un sempre più compiuto processo di federalizzazione. L’assunto fondamentale da noi proposto è che il federalismo, se correttamente inteso, significhi non separatezza, ma complementarità nelle competenze dei diversi livelli di governo; significhi non il disimpegno dello Stato nella regolamentazione e nel finanziamento dei servizi, che trova il suo risvolto nel ricorso abnorme a logiche e strumenti “emergenziali” di fronte a prevedibili fallimenti; significhi non interpretare il concetto di sussidiarietà in termini “statici”, cioè soltanto come attribuzione dei poteri al livello più decentrato di governo, bensì in termini “dinamici”, ossia attraverso la costituzione di meccanismi di responsabilità tali da produrre l’intervento del livello di governo “superiore” – e in definitiva dello Stato, come «assicuratore di ultima istanza» – allorché un maggiore decentramento comprometta le ragioni dell’efficacia, o dell’efficienza (come peraltro previsto dalla Costituzione, che all’art. 118, comma 1, individua nell’adeguatezza e nella sussidiarietà limiti al principio di differenziazione, e all’art. 120, comma 2, prevede interventi sostitutivi ove siano compromessi i livelli essenziali delle prestazioni). Quest’ultimo aspetto merita un approfondimento importante, perché l’impianto essenziale della legge delega 42/2009 è centrato sulla distinzione tra funzioni riconducibili, o non riconducibili, ai livelli essenziali delle prestazioni (LEP). L’indicazione contenuta nell’art. 6, comma 3, della legge, secondo cui tra le spese “riconducibili” al vincolo riferito ai livelli essenziali delle prestazioni “sono comprese quelle per la sanità, l’assistenza e, per quanto riguarda l’istruzione, le spese per lo svolgimento delle funzioni amministrative attribuite alle Regioni dalle norme vigenti”, è da intendersi come esemplificativa e non come una elencazione esclusiva e esauriente. È difficile immaginare che servizi come lo smaltimento dei rifiuti urbani, le forniture idriche, l’assistenza alla famiglia, non costituiscano diritti del cittadino per i quali devono essere costituzionalmente garantiti livelli essenziali di prestazioni. 36 Se ovviamente alcune caratteristiche del sistema degli Enti territoriali meridionali concorrono a spiegare i ritardi economici e sociali delle collettività che in essi risiedono, si pone con ogni evidenza il problema della complessità dell’analisi sull’efficacia della spesa pubblica e sull’efficienza nella gestione dei servizi. Tutta la discussione sull’attuazione del federalismo fiscale, del resto, dovrebbe riguardare in primo luogo questi aspetti cruciali, anche per dare credibilità e “consenso” ad una vasta opera di ridefinizione della macchina pubblica, qual è il federalismo fiscale. Allo stesso modo, posto che la Costituzione impegna lo Stato, per competenza esclusiva, a garantire un livello di prestazioni che assicuri a tutti i cittadini, sull’intero territorio nazionale, quei diritti civili e sociali che ne consentano la pari dignità (non di rado oggi negata agli abitanti delle regioni meridionali), è necessario spostare l’accento dalle questioni della finanza a quelle, assai più concrete, di “chi ha diritto a che cosa”. Occorre passare da una mera discussione ragionieristica sui “costi standard” ad una eminentemente politica – e costituzionalmente orientata – sugli “standard dei servizi”: non ha senso dire “quale costo?”, o peggio, “quale spesa?”, senza avere stabilito, anzitutto, “che cosa” – senza avere determinato, cioè, la quantità delle prestazioni che si ritenga essenziale. Da questo punto di vista, ci troviamo di fronte ad un punto di svolta decisivo. Nella fase di attuazione della legge delega 42/2009 si impone la necessità di stabilire un modello di finanziamento basato sulla determinazione dei fabbisogni finanziari, determinati sulla base dei “costi standard”, dei diversi servizi in cui si articolano i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti – secondo una griglia che, seppur di difficile compilazione, assicuri un facile riscontro dei “vizi” e della “virtù” di una gestione che miri, oltre che all’efficienza, anche all’efficacia dell’azione pubblica. Del resto, la questione del passaggio dal sistema della spesa storica al costo standard, che è posta al centro del progetto di riforma, è cruciale per il Sud: in larga misura, è dal modo in cui verrà definito il costo (e quindi il “giusto prezzo”) dei servizi e delle prestazioni pubbliche, che dipenderà l’entità dei trasferimenti perequativi. La direzione del cambiamento che è proposto nella legge delega, è apprezzabile in quanto conduca verso un federalismo più efficiente e allo stesso tempo più sostenibile; tuttavia, da questo punto di vista, è bene non cadere in facilonerie da propagandisti. Preoccupa la persistente mancanza di elementi utili a definire la suddetta nozione di “costo standard”. I parametri rilevanti sono, infatti, ancora tutti da individuare e, per farlo, il legislatore dovrebbe considerare numerosi altri fattori, come le diversità strutturali (ad esempio, il 37 peso dei fattori di scala, della struttura della popolazione e della struttura del territorio), le caratteristiche economiche (quali il peso delle attività produttive) e i differenziali di reddito pro capite tra le diverse aree territoriali5, che tanto possono incidere, in determinati campi in particolare, sulla funzione dei costi. Se non si considerano, nel determinare quest’ultima, le effettive situazioni di partenza, si rischia di definire come “inefficienza” il fatto che l’Ente opera su un tratto diverso e “peggiore” della curva della funzione dei costi senza che ciò implichi necessariamente un “vizio”. Ciò vale per la generalità dei servizi e costituisce oggi il rischio più grave, nel dibattito che si va conducendo sulle questioni della stima dei costi standard, che non può avere come riferimento né la spesa storica di una o più Regioni, perché in tal modo si trascurerebbero del tutto le diversità strutturali degli Enti e dei territori (di cui s’è detto sopra); né il costo medio del servizio, perché non è detto che un identico ammontare di spesa media pro capite tra i vari Enti produca lo stesso livello di output (di servizi). Naturalmente, tutto ciò non significa negare le specifiche ragioni di inefficienza che nel Mezzogiorno sussistono con ogni evidenza. Ciò che conta, tuttavia, è richiamare la necessità di un percorso di definizione dei costi che rinvii ad elementi di flessibilità e alla capacità dell’Ente di adattare nel tempo la situazione in cui si trova ai vincoli che siano introdotti e alla concreta possibilità di un percorso “virtuoso” da intraprendere. Le analisi svolte dalla SVIMEZ, dunque, ci portano a fare presenti alcuni elementi di preoccupazione riferiti ad aspetti a nostro avviso notevoli: le scelte concernenti i livelli di erogazione e le modalità del reperimento delle risorse necessarie eccessivamente affidate, specie per le funzioni “autonome”, alla responsabilità e all’autonomia finanziaria delle Regioni (col rischio che si comprometta la norma costituzionale che prescrive di “finanziare integralmente” le funzioni pubbliche attribuite agli Enti). Il timore per il possibile ampliamento dei divari nell’offerta di beni e servizi discende principalmente da due ragioni: la prima deriva dalla constatazione che il dibattito sulla diversa efficienza, efficacia e qualità dei servizi offerti nelle regioni italiane, specie dei servizi e delle funzioni non “essenziali”, sembra dare scarso rilievo alla diversa dotazione di risorse ed infrastrutture che caratterizza e condiziona l’attuale erogazione di tali servizi; la seconda dipende dal 5 Questi fattori, nella legge delega, non sono affatto ipotizzati, sicché la partita di un federalismo sostenibile appare ancora tutta da giocare, sia sul lato dell’offerta (come il livello del servizio da fornire, la presenza di economie di scala o di esternalità di produzione), sia sul lato della domanda (come la dimensione, la densità e le caratteristiche della popolazione in ogni territorio). 38 meccanismo prescelto per finanziare le funzioni “autonome”, in generale, e dalle modalità di erogazione del fondo di perequazione, in particolare. A questo ultimo riguardo, occorre ricordare che la soluzione indicata per il finanziamento di queste funzioni – molto importanti non solo per il miglioramento delle condizioni di vita ma anche per lo sviluppo economico dei territori – al fine di un incremento delle prestazioni, è quella di un aumento della pressione fiscale regionale. Questa strada appare, tuttavia, difficile da percorrere nelle Regioni a più bassa capacità fiscale. A meno di compromettere ogni capacità di autogoverno del territorio che miri ad un rilancio degli investimenti nella prospettiva di innescare autonomi processi di sviluppo: l’unica strada, questa, per ridurre il grado “dipendenza” e i trasferimenti dall’esterno senza inficiare i diritti di cittadinanza che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini. 6.2. Le risorse aggiuntive e gli interventi speciali per il Mezzogiorno Le questioni che legano il destino del Mezzogiorno alla complessa fase di attuazione del federalismo fiscale vanno necessariamente al di là del finanziamento delle “funzioni normali” degli Enti territoriali, e trovano una “chiave di volta” nello stabilire i modi di utilizzo delle “risorse aggiuntive” e di effettuazione degli “interventi speciali” di cui al quinto comma dell’art. 119 della Costituzione. La norma costituzionale, sul punto, opera un’espressa e netta distinzione tra il finanziamento delle funzioni ordinarie, e l’aggiuntività di interventi destinati dallo Stato a determinati Enti, vincolati al perseguimento di specifiche finalità – «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale», «rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona» - e, più in generale, per «provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni». L’attuazione del comma quinto dell’art. 119 della Costituzione, può e deve costituire l’occasione, proprio nel rispetto delle norme costituzionali che prevedono una pluralità di livelli di governo, ma affidano allo Stato la competenza in materia, per ridare “disegno” politico all’intervento per il Mezzogiorno, con la ricerca di un nuovo assetto istituzionale, finanziario e contabile del quale si avverte sempre più l’esigenza, di fronte all’indebolimento delle strutture, alla scarsa trasparenza e alla dispersione nell’utilizzo dei fondi, al venir meno di una politica per il riequilibrio territoriale. Rimangono da chiarire alcuni punti cruciali, su cui i principi e i criteri direttivi della delega non fanno piena luce: i limiti di intervento dello Stato in materie di competenza delle Regioni; il contenuto specifico degli obiettivi che ne giustificano l’intervento; la differenza tra questi interventi e quelli destinati, 39 in via ordinaria, alla realizzazione di livelli essenziali di spesa in conto capitale; la distinzione tra le due diverse modalità di intervento, risorse aggiuntive e interventi speciali, previste dalla norma costituzionale; il problema della quantificazione dei trasferimenti erariali attualmente presenti nel Bilancio dello Stato attribuibili a tale funzione. Il ruolo che svolgerà lo Stato, al compimento del processo di federalizzazione, è un enigma che la SVIMEZ, confortata dal giudizio di autorevoli giuristi, ha provato a risolvere nel senso di un intervento quantitativamente meno esteso ma qualitativamente molto più rilevante che nel passato: nel nuovo assetto di poteri lo Stato centrale è chiamato a svolgere una funzione di garanzia dei diritti e di salvaguardia del sistema, estremamente importante per la tenuta complessiva del Paese. Questa funzione trova compiuta espressione nel contenuto del comma 5 dell’art. 119 che prevede l’intervento dello Stato, attraverso la destinazione di apposite risorse, per finalità generali di promozione dello sviluppo e della coesione e di rimozione degli squilibri economici sociali, anche in materie di competenza delle Regioni, come precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 451/2006. È evidente che, dopo la riforma del 2001, gli interventi aggiuntivi a favore del Mezzogiorno si collocano in questo ambito. Le decisioni che hanno prodotto il dirottamento delle fonti di finanziamento del QSN, unitamente alla tendenza culturale a considerare i servizi essenziali (tra cui, per dire, la sanità) tra i contenuti di una politica di sviluppo, a cui si è diffusamente accennato, introducono un preoccupante elemento di incertezza. Per questa via, a nostro avviso a torto, le Regioni meridionali in difficoltà finanziaria hanno sostenuto – essendo i FAS destinati allo sviluppo e la sanità tra i servizi che possono contribuire ad innalzarlo – la legittimità dell’utilizzo di tali fondi aggiuntivi per ripianare i deficit sanitari, come peraltro previsto dalla legge finanziaria per il 2010. È evidente che tale approccio stride, se non contrasta, con l’impianto costituzionale dell’art. 119, comma 5, della Costituzione, che deve orientare la fase di attuazione del federalismo fiscale. Nell’incertezza del quadro di riferimento, tuttavia, è da accogliere con favore il passaggio (previsto dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78, “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”) al Presidente del Consiglio delle competenze in materia di programmazione economica e finanziaria, coordinamento e verifica degli interventi relativamente alle politiche di sviluppo e coesione. Le norme sono ancora lontane dal disegnare un nuovo assetto organico, ma è da valutare positivamente l’individuazione della Presidenza del Consiglio, in sostituzione di un Ministero 40 di settore, come organo di Governo delle politiche per lo sviluppo, che per loro natura dovrebbero avere carattere intersettoriale; in modo analogo va letta la delega affidata, in base al decreto legge citato, al Ministro per gli Affari Regionali. La politica regionale di sviluppo, tanto più se opera con risorse aggiuntive e interventi speciali, deve essere ancorata a una forte visione d’insieme, che solo luoghi istituzionali in cui emergano interessi che vadano al di là dei singoli livelli regionali possono assicurare. Una visione d’insieme che declini lo sviluppo del Mezzogiorno come funzione della crescita complessiva del Paese, e nella prospettiva di un grande progetto per il Sud – “utile” all’intera economia italiana – richieda alla Nazione uno sforzo collettivo – controllabile, valutabile, sanzionabile – aggiuntivo e speciale. 7. LA “FRONTIERA” SUD E LE NUOVE VIE DELLO SVILUPPO 7.1. La “frontiera” L’intero sistema produttivo nazionale necessita di “invertire” il declino. Una politica che miri a sostenere e rafforzare l’esistente è del tutto insufficiente. Occorre procedere a sostanziali modifiche del modello di specializzazione, come del resto stanno facendo altre economie in vista della ripresa. Qui deve tornare in gioco, da protagonista attivo, il Mezzogiorno. Il punto da cui partire, per impostare un disegno strategico, è che il quadro competitivo dopo la crisi dovrà essere ancora più aperto ai processi di internazionalizzazione. Se il Sud non ha goduto dei nuovi vantaggi competitivi in atto nella fase di globalizzazione che ha preceduto la crisi, occorre trovare una strada che consenta una crescita comparabile con le performances di tutte le altre aree deboli. Ecco perché quest’anno la SVIMEZ rilancia con forza il concetto di “frontiera”, che evidentemente richiama un’opportunità più ampia, per il Paese e per l’Europa, di un investimento in grado di valorizzare le tante energie inutilizzate e di favorire i processi di modernizzazione, presenti anche al Sud. Ma occorre aver presente che gli spazi per un serio rilancio dell’economia meridionale non sembrano particolarmente ampi in assenza di scelte che coinvolgano la strategia di rilancio del “sistema Italia” nel suo complesso. 41 La sfida è di portare a coerenza l’interesse specifico del Mezzogiorno con quello complessivo del sistema, recuperando dalla migliore lezione del passato un’impostazione meridionalista che si ponga il problema della modernizzazione nazionale, e dei vantaggi anche per il Nord di un Mezzogiorno che esca dalla crisi puntando su uno sviluppo “non residuale”: dunque, non solo sull’«inseguimento» del modello di sviluppo settentrionale italiano ed europeo, facendo da battistrada su una via nuova per l’internazionalizzazione “attiva” del nostro sistema economico. 7.2. Il Mediterraneo, “terra”di possibile integrazione Nella grave penuria di opzioni strategiche, il richiamo al ruolo del Mezzogiorno nella ritrovata centralità globale del Mediterraneo (che si rafforzerà nella “nuova geografia” dello sviluppo del dopo crisi) non è certo una novità, ma altrettanto certamente non è riuscito a trovare il modo, in tutti questi anni, di uscire dalla suggestione e dalla retorica. Il Mediterraneo è luogo di complessità, conflitti endemici, instabilità politica, radicate ingiustizie sociali, profonde disuguaglianze tra standard di vita delle diverse aree, diversi sistemi di regole istituzionali, che rendono difficoltosa l’elaborazione di una strategia politica comune. Per lungo tempo, del resto, l’Europa ha preferito volgere lo sguardo verso Est con l’allargamento, avvertendo il Sud come frontiera “ostile”, foriera di immigrazione clandestina e fondamentalismo religioso – relegando il nostro Mezzogiorno ad una condizione di marginalità, da “periferia dell’impero”. La centralità del Mediterraneo nello scenario globale dell’economia e degli scambi internazionali, com’è noto, è essenzialmente dovuta al ruolo crescente dei paesi dell’Estremo Oriente che con impressionante velocità (che finora ha suscitato soprattutto la preoccupazione delle nostre piccole imprese e dei distretti) irrompono nei traffici, negli investimenti e nelle strategie di sviluppo del mercato globale. Un fenomeno che, vista la scala di due protagonisti come India e Cina, è destinato a consolidarsi e crescere (specie se intanto si realizza il raddoppio del Canale di Suez), e a rappresentare l’aspetto più dinamico e progressivo della globalizzazione da cui il sistema Italia e la stessa Europa, non solo il Mezzogiorno, possono trarre maggiore vantaggio. Tuttavia, l’occasione può essere colta solo da un’imponente azione politica da parte dell’Europa che, al di là di saltuari e incostanti afflati verso il Mare nostrum, non è stata in grado di mettere in campo strategie che andassero nella direzione di una maggiore concertazione regionale, al fine di allargare le possibilità di integrazione economica a più settori, e di favorire una prossimità 42 “contagiosa” negli standard di vita e dei diritti civili e sociali. Questa condizione è evidentemente figlia della “debolezza” dell’Italia nello scenario continentale e della miopia di leader politici che hanno troppo a lungo guardato oltralpe. Il suo superamento, invece, dovrebbe rappresentare la costante “missione” politica del nostro Paese su scala sovranazionale. È possibile infatti immaginare percorsi di collaborazione e integrazione guardando al rafforzamento di filiere produttive, al terreno della ricerca e della formazione, alla condivisione di politiche di marketing regionale e globale, che permettano allo stesso tempo di migliorare gli standard di prodotto e di stemperare competizioni penalizzanti (ad esempio, sul costo del lavoro), con ricadute positive in termini di benessere delle popolazioni e di vantaggi per l’Italia e il Mezzogiorno, che possono trovare ulteriori sbocchi alle proprie esportazioni. Su scala più ampia, il radicale “rovesciamento” delle convenienze logistiche può mettere fine ad una storica emarginazione dal centro dei traffici mondiali del Sud dell’Europa ed, in particolare, del suo fulcro mediterraneo. Una prospettiva di questo genere, per la dimensione e la rapidità con la quale si materializza, può ben convivere e compensare l’effetto dell’allargamento dell’Unione Europea ad Est che tanto avvantaggia altri sistemi nazionali. Il recupero del Sud non è dunque il frutto di un afflato romantico, ma è funzionale a un disegno sovranazionale per rendere coerente lo sviluppo dell’Europa nelle sue due articolazioni: quella mediterranea e quella nord-orientale. Il Mezzogiorno diventa per questa via la più rilevante opportunità di rilancio per tutta l’economia italiana; per la prima volta nella storia moderna (rispetto al passato quando fu necessario anche esportare milioni di persone dalle campagne meridionali per alimentare lo sviluppo nazionale), anche come “luogo fisico”, godendo per la sua collocazione di una «rendita logistica» essenziale per gli insediamenti produttivi votati all’integrazione. La prospettiva Mediterranea non si esaurisce, dunque, nella realizzazione della Zona di Libero Scambio tra le due sponde, che peraltro sconta incomprensibili ritardi che penalizzano l’economia meridionale e le spontanee dinamiche di integrazione della “mesoregione”, comunque in atto. Infatti, interrogandosi sulle possibilità di maggiore integrazione economica, è utile ricordare che negli ultimi 15 anni il dato delle esportazioni meridionali mostra come in termini aggregati aumenti il peso di quelle verso il Mediterraneo, sino a sfiorare il 30% del totale extra Ue (pur con un comprensibile arretramento congiunturale nel 2009). Si tratta di economie in continua espansione che, non solo non fanno registrare arretramenti nella crisi (in particolare per la “sponda Sud”, benché ciò sia dovuto alla minore 43 “apertura” dei loro mercati), ma vengono da un periodo di forte crescita e per le quali si prevedono ritmi di ripresa sostenuti nel 2011, intorno al 5% (compresa l’area balcanica e la Turchia). Eppure, per mettere effettivamente a frutto questo che oggi è un puro vantaggio potenziale, è urgente varare politiche ed azioni che possano riattivare processi accumulazione e dinamismo economico, concentrando risorse su alcuni grandi progetti nella direzione di una ristrutturazione profonda e urgente dell’economia meridionale. Nel quadro competitivo attuale, la principale leva strategica per il perseguimento di un nuovo modello di specializzazione produttiva del Mezzogiorno è data dagli investimenti in ricerca e innovazione, per la valorizzazione del capitale umano e per presidiare i settori avanzati dell’economia, legati anche allo sfruttamento tecnologico e sostenibile delle risorse naturali e ambientali. 7.3. Le nuove vie allo sviluppo: ricerca e innovazione per valorizzare il capitale umano e puntare sulla green economy Il deciso rafforzamento dell’attività di ricerca, sviluppo ed innovazione tecnologica rappresenta una delle principali leve strategiche da attivare per accrescere i livelli di competitività dei territori, necessaria anche per favorire – in questa particolare fase di crisi – la ristrutturazione e l’allargamento della matrice produttiva verso quei settori in grado di competere nel nuovo scenario internazionale che si determinerà con la ripresa. Com’è noto, l’Italia presenta, nel confronto con altri paesi sviluppati, forti ritardi nel processo di adeguamento delle risorse umane e strumentali necessarie per sostenere il pieno dispiegamento del proprio potenziale competitivo, ancora caratterizzato da carenze significative in termini di partecipazione delle imprese alle attività di R&S, di disponibilità di risorse umane ad alta qualificazione, di sviluppo di strumenti finanziari adeguati, di integrazione e valorizzazione delle attività di ricerca, di iniziative volte a favorire il trasferimento tecnologico nel tessuto socio-economico e produttivo. Si tratta di debolezze strutturali che nel Mezzogiorno si vanno ad innestare in un contesto di maggiore arretratezza e polverizzazione del tessuto imprenditoriale, di insufficiente attrattività dell’offerta universitaria e delle strutture di ricerca, acuendone le criticità. Il rapporto tra spesa in R&S e PIL è risultato in Italia nel 2007 pari all’1,18%, nettamente inferiore alla soglia del 2% (media dei principali paesi europei) e ancora molto distante dall’obiettivo del 3% fissato per il 2010 dalla 44 «Strategia di Lisbona». Il sistema meridionale della ricerca e sviluppo ha conosciuto un sensibile rafforzamento negli ultimi anni, tuttavia il rapporto tra spesa in R&S e PIL è ancora inferiore al punto percentuale e molto scarsa la domanda di innovazione tecnologica delle imprese. La politica, a fronte di ciò, ha ampi margini di manovra; nella consapevolezza, però, che sono necessarie ingenti risorse. È importante fornire un sostegno alle imprese del Mezzogiorno, mettendo in campo politiche “attive”, che non si limitino cioè ad incontrare la “domanda”, ma in qualche modo la facciano emergere, favorendo la crescita qualitativa delle piccole imprese, che tocchi anche aspetti relativi alle capacità organizzative, manageriali e di allestimento di investimenti complessi. Occorre promuovere rapporti di collaborazione tra imprese e centri di ricerca pubblici e privati (reti, laboratori, centri di competenza, distretti tecnologici, spin-off della ricerca, ecc.), allo scopo ultimo non solo di sostenere competitività e crescita economica della regione ma, come diremo subito, di mettere a disposizione del sistema produttivo quello straordinario capitale umano formato dalle Università, che molto spesso rischia invece di risultare scarsamente spendibile per lo sviluppo. Insomma, il rafforzamento dell’attività di ricerca, sviluppo ed innovazione tecnologica è una strada – non l’unica, s’intende – che il Mezzogiorno deve adottare con determinazione, sapendo però che, in un contesto di risorse limitate e di netta prevalenza delle PMI, è necessario individuare i settori e le tecnologie maggiormente “pervasivi”, ovvero quelli il cui sviluppo, con un investimento iniziale accessibile anche per imprese di piccole e medie dimensioni, abbia le più ampie ricadute positive anche su altri settori e su diversi ambiti produttivi: sia attivando, rivitalizzando, innovando linee produttive di beni e servizi anche in settori tradizionali, sia sostenendo lo sviluppo di settori e produzioni che vadano oltre la specificità del sistema imprenditoriale locale. Del resto, le politiche dell’innovazione possono rappresentare lo strumento di penetrazione in settori non tradizionali: per le imprese, da impegnare nella cd. new economy, attraverso i Poli di innovazione e gli spin-off della ricerca pubblica; e per le amministrazioni pubbliche, al fine di sperimentare nuove politiche di gestione e valorizzazione del territorio, ovviamente di carattere ambientale ma anche con riguardo al patrimonio culturale latamente inteso; e, non da ultimo, per la qualità della vita dei cittadini, con la possibilità di accesso a nuovi e più avanzati servizi. Le tipologie di interventi che possono rappresentare un ponte tra Università, Enti di ricerca e imprese e su cui è possibile fare leva per 45 incentivare i processi di trasferimento tecnologico pubblico-privato sono, in definitiva, molteplici. E al Sud possono agire positivamente su due fronti: da un lato, nel breve e medio periodo, per mettere a disposizione del sistema produttivo il capitale umano formato dalle Università e, dall’altro, in un periodo più lungo, per incrementare la competitività dell’area, favorendo un circolo virtuoso di aumento della domanda di innovazione e di capitale umano qualificato. Infatti, uno dei punti di forza principali, per il Mezzogiorno, è costituito proprio dal forte potenziale di capitale umano. Notevoli, come visto, sono i progressi compiuti nel tasso di scolarizzazione secondaria e nell’istruzione terziaria. L’impegno pubblico in formazione e i risultati ottenuti, tuttavia, rischiano di essere vanificati da un’insufficiente capacità del sistema produttivo di assorbire queste preziose risorse umane, che in mancanza di opportunità di lavoro, come visto, sono destinate inevitabilmente alla emigrazione, specie dei giovani maggiormente qualificati. In quest’ottica, la prospettiva della green economy, in particolare nei settori energetico e agro-ambientale, e la valorizzazione del patrimonio storico- paesaggistico meridionale possono essere oggetto di una ben più decisa considerazione, come specifico elemento catalizzatore della catena di connessione ricerca-innovazione-produzione, in grado di dare piena espressione alle potenzialità del sistema universitario e di ricerca e al patrimonio territoriale del Mezzogiorno. È un campo in cui sperimentare una base economica più solida, che possa sostenere concretamente il tessuto produttivo locale, fornire lavoro anche nel breve periodo alle risorse umane già presenti e attrarre nuovi capitali e (almeno “trattenere”) risorse umane, in una prospettiva di sviluppo durevole. Per garantire queste condizioni, la tradizionale prospettiva legata ai prodotti tipici e al turismo deve essere certamente contemplata, in quanto risorse gravemente sottoutilizzate. Ma accanto all’“industria” turistica (ancora in gran parte da costruire), nuova linfa vitale all’economia del Sud deve essere garantita da due settori economici dalle prospettive di sviluppo per nulla aleatorie: il settore delle energie rinnovabili e il settore del recupero edilizio. Si tratta di due settori per alcuni versi assai distanti: il primo è relativamente nuovo e in espansione; il secondo appartiene a una delle più sviluppate filiere economiche degli ultimi decenni. Per entrambi, però, è possibile ipotizzare lo sviluppo di quelle tecnologie “pervasive” che sono alla base anche del lancio di numerosi spin-off del sistema universitario. Il settore delle energie rinnovabili è in espansione planetaria e presenta grazie alle agevolazioni nazionali e alle felici condizioni ambientali del 46 Mezzogiorno una potenzialità locale notevole. In pochi anni di convinte politiche regionali la Puglia è divenuta la prima regione italiana per produzione energetica da fonti rinnovabili, superando le più industrializzate Lombardia e Veneto. Molte altre regioni del Sud offrono condizioni climatiche altrettanto favorevoli per l’utilizzo dell’energia solare e in parte anche per quella eolica. Più della Puglia, regioni come la Calabria e la Basilicata, per la ben diffusa biomassa forestale, presentano condizioni favorevoli al recupero energetico da biomasse. Nel breve medio periodo, inoltre, il rilancio della filiera edilizia del recupero trova rispondenza nella necessità di favorire l’efficienza energetica, di salvaguardare dai rischi geologici e dall’incuria il patrimonio edilizio storico e di frenare il disordinato e insostenibile consumo di suolo. Il consumo di questa preziosa risorsa e l’aumento della dispersione insediativa cui esso si accompagna, producono gravi danni al patrimonio paesaggistico e all’attrattività turistica, rendendo nel contempo sempre più onerosa la fornitura e la gestione delle reti di urbanizzazione e dei servizi pubblici. La rivitalizzazione delle aree interne, e un’accorta politica di integrazione e messa in coerenza dell’insieme di incentivi e disincentivi al recupero e alla rivitalizzazione dei tessuti insediativi storici attraverso investimenti, appare, oltreché una necessaria politica preventiva di riduzione del danno conseguente all’avverarsi dei rischi geologici, una intelligente prospettiva di tutela e uso del patrimonio insediativo storico. Infine, ritorna il tema della “frontiera”: il Mezzogiorno rappresenta l’area del Paese che ha più interesse ad una modifica del modello di sviluppo nazionale, che ponga al centro il tema della sostenibilità anche come strumento per la realizzazione di una maggiore equità intergenerazionale, e perfino “storica”: il Sud è stata l’area in cui si sono avuti i minori vantaggi del processo di industrializzazione del secolo scorso e al tempo stesso è stata l’area in cui si sono scaricati i costi ambientali più elevati dell’inquinamento dell’industria pesante e, per effetto di una peggiore gestione del territorio, le scorie di una industrializzazione a volte senza regole. 7.4. Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti: strumento per la crescita e l’integrazione In conclusione la SVIMEZ vorrebbe lanciare l’idea di un vasto programma a partire dal 2010: completare e rafforzare le grandi infrastrutture dei trasporti. È questa una condizione fondamentale da soddisfare, in assenza 47 della quale, sarebbe sostanzialmente ozioso attardarsi a riflettere su un possibile sviluppo del Mezzogiorno. Per assumere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa e Mediterraneo (utile dunque all’intero Paese), il Sud deve diventare un punto di giunzione fondamentale che investa l’intero sistema infrastrutturale nazionale. Di fronte ad una posizione così favorevole nei rapporti tra Europa e Mediterraneo, infatti, un serio limite allo sviluppo dell’area è costituito dalla carenza e dalla scarsa integrazione sistemica delle infrastrutture per la mobilità delle merci e delle persone. Ed è in buona misura anche a causa di tale carenza che nello scorso decennio il Mezzogiorno ha potuto sfruttare meno del resto del Paese, e di altre aree europee, i vantaggi competitivi offerti dal processo di globalizzazione dei mercati, con una conseguente perdita di competitività del proprio sistema economico. La “frontiera Sud” rende più che mai urgente la realizzazione di grandi infrastrutture strategiche, non solo per la loro valenza economico-territoriale rispetto a qualsiasi progetto di sviluppo produttivo del Mezzogiorno, ma anche per la loro capacità di mobilitare risorse e impieghi tali da contribuire in misura rilevante all’uscita dalla crisi. È questo il momento per aprire al mercato la realizzazione di quelle infrastrutture potenzialmente in grado di acquisire risorse finanziarie attraverso la gestione dei relativi servizi. Forme di finanza di progetto e di partenariato pubblico-privato sono gli strumenti più idonei a impostare un programma di priorità infrastrutturali, da completare o da attuare ex novo, capaci di generare rientri accettabili per pianificare in modo equilibrato la loro realizzazione. Una prima selezione di opere prioritarie per il completamento del sistema dei trasporti nel Mezzogiorno, operata dalla SVIMEZ, dovrebbe comportare un costo di circa 46 miliardi di euro, con una copertura attuale di poco più di 11 miliardi e un fabbisogno finanziario da reperire di quasi 35 miliardi di euro. Si tratta di opere cruciali, tra cui il potenziamento della capacità di servizio dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria e della Statale “Jonica”; la realizzazione di nuove tratte interne alla Sicilia; l’estensione dell’Alta Capacità (se non dell’Alta Velocità) nel tratto ferroviario Salerno- ReggioCalabria-Palermo-Catania (a completamento del Corridoio I Berlino- Palermo); il nuovo asse ferroviario Napoli-Bari; infine, il Ponte sullo Stretto. Alcune di queste opere sono già in corso di esecuzione e dotate di parziale copertura finanziaria o da finanziare in misura totale, altre non ancora esaminate dal CIPE. Si tratta di importi consistenti ma tuttavia contenuti se confrontati con gli impegni finanziari rilevabili per il resto del Paese (si ricorda che, nel caso delle sole opere della Legge Obiettivo già approvate dal CIPE nel 48 2009, oltre il 70% interessa il Nord). La realizzazione di tali opere, peraltro, potrebbe avvalersi di un non trascurabile contributo della componente privata; infatti, per tutte le opere esaminate l’ampiezza della domanda dei propri bacini d’utenza potrebbe generare, per i servizi resi, flussi di rientri di una certa consistenza. Per invertire con decisione la tendenza al progressivo definanziamento degli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, che ha caratterizzato gli ultimi tre decenni, occorre avviare al più presto un percorso di analisi e approfondimento per verificare la fattibilità finanziaria e tecnica per una realizzazione basata anche su rientri da tariffa. È evidente, infine, che la realizzabilità di un programma di tale portata richiede una forte condivisione istituzionale e politica tra tutti i livelli di governo. Potrebbe rappresentare, infatti, un primo campo su cui procedere con il più volte richiamato sforzo di concentrazione e riorientamento dei Fondi per lo sviluppo e su cui sperimentare quel necessario mutamento istituzionale che prevede la condivisione di obiettivi strategici tra Governo e Conferenza delle Regioni meridionali; obiettivi a cui vincolare quote significative delle risorse del Fondo infrastrutture strategiche e dei Fondi strutturali nazionali e regionali. Svimez 2010/06_Sintesi.pdf “RAPPORTO SVIMEZ 2010 SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO” SINTESI Roma, 20 luglio 2010 2 LE DINAMICHE ECONOMICHE GENERALI E SETTORIALI LE POLITICHE INDUSTRIALI LE POLITICHE DI COESIONE E L’EUROPA FEDERALISMO E LE POLITICHE DI FINANZA PUBBLICA LE POLITICHE INFRASTRUTTURALI E AREE URBANE LE POLITICHE CREDITIZIE LE POLITICHE PER LA P.A. LE POLITICHE PER IL SUD, COMPETITIVITA’ E INTERNAZIONALIZZAZIONE POPOLAZIONE, SCUOLA E MERCATO DEL LAVORO, MIGRAZIONI POLITICHE CONTRO LA CRIMINALITA’ MEDITERRANEO E TURISMO POVERTA’ GREEN ECONOMY E R&S 3 LE POLITICHE ECONOMICHE GENERALI E SETTORIALI 2009: la crisi continua – Come il 2008, anche il 2009 è stato un anno di crisi per l’economia mondiale. La recessione in corso nelle principali economie del mondo continua ad essere la più profonda dal dopoguerra. La crisi è stata più marcata nei paesi dove maggiore è la quota della produzione manifatturiera, come Giappone ed Europa, soprattutto Germania. Nel 2009 le economie Ue hanno registrato una flessione del Pil del 4,1% rispetto al +0,6% del 2008. Numerosi Paesi hanno messo in atto interventi a sostegno dell’economia, cosa che ha comportato nell’area Euro un aumento del debito pari al +6,3%, a fronte del +2% del 2008. Tra le principali economie industrializzate, quella italiana è la più colpita dalla crisi: -5%, vicino alla Germania e Regno Unito (-4,9%), decisamente maggiore della Spagna (-3,6%) e della Francia (-2,2%). La crisi si è fatta sentire sulla domanda estera prima e interna poi, con una riduzione del redditi e dei consumi, una caduta negli acquisti di beni soprattutto durevoli e una forte flessione negli investimenti (-12%, il valore più negativo dal 1970). E nel Mezzogiorno? Pil e Mezzogiorno - In base a valutazioni SVIMEZ nel 2009 il Pil ha segnato nel Mezzogiorno una riduzione del 4,5%, un valore molto più negativo del -1,5% del 2008, leggermente inferiore al dato del Centro-Nord (-5,2%). Ormai da otto anni consecutivi il Sud cresce meno del Centro- Nord, cosa che non è mai successa dal dopoguerra a oggi. Rispetto agli altri periodi recenti di crisi (1992-93, con l’uscita della lira dallo Sme; 2002- 2004, con il crollo della new economy) quella del biennio 2008-2009 è l’unica in cui il Pil si è contratto per due anni consecutivi. Nel 2009 il prodotto del Mezzogiorno risultava ancora inferiore dello 0,3% rispetto al livello del 2000. Pil per abitante e divari storici - Una misura efficace del divario Nord-Sud la dà il Pil per abitante: nel 2009 nel Mezzogiorno è stato 17.317 euro, circa il 58,8% del Centro- Nord (29.449 euro), con un leggero recupero rispetto all’anno precedente (58,2%) e di oltre 2 punti percentuali dal 2000, dovuto però solo alla riduzione relativa della popolazione. A livello regionale l’Abruzzo mostra una diminuzione del Pil particolarmente elevata (- 5,9%), seguito dalla Campania (-5,4%) e Puglia e Basilicata a pari merito (-5%). Tutte negative anche le altre regioni meridionali, come le settentrionali, a eccezione della Valle d’Aosta. La perdita più contenuta in Sicilia (-3,1%). L’economia per settori Agricoltura – Diversamente dai precedenti periodi di recessione, nel 2009 anche l’agricoltura meridionale è stata investita dalla crisi. Questo quadro difficile è reso ancora più complesso dai cambiamenti in atto nelle politiche di sostegno al settore previste dalla nuova PAC, che viene esposto sempre di più alle forze di mercato. Nel 2009 il valore aggiunto del settore primario nel suo complesso si è ridotto in valori correnti dell’11,5% in Italia e del 9% nel Mezzogiorno rispetto al 2008. Riguardo all’agricoltura in senso stretto, la contrazione valutata a prezzi costanti è stata del -5% al Sud e del -1,9% al Centro-Nord. Giù anche produzione (soprattutto colture legnose e cereali) e consumi, rispettivamente -3,9% e -2,2%, con valori decisamente più bassi del Centro- 4 Nord (-1,8%). A livello regionale il valore aggiunto di Abruzzo, Basilicata, Molise e Puglia, che nel 2008 avevano registrato buone performances, è sceso fortemente, con valori compresi tra -8% e -11%. Nel 2009 sono continuati i processi di ristrutturazione del settore, con la chiusura di piccole aziende e la diminuzione di 17.600 lavoratori, soprattutto autonomi. Dal 2001 al 2009 il Sud agricolo ha perso 115mila posti di lavoro. In calo la produttività (-1,7% contro -1,2% del Centro-Nord) e gli investimenti, -12% rispetto al 2008. Il Sud è biologico – Il 67% della superficie agricola biologica utilizzata si trova nel Mezzogiorno, con Sicilia, Basilicata e Puglia in testa. Nel 2008 Sicilia e Puglia avevano aumentato le superfici rispettivamente del 24,7% e del 27,8%. Su quasi 29mila operatori del settore nel Mezzogiorno, la maggior parte è attiva in Sicilia, Calabria, Puglia. Purtroppo il vantaggio climatico e ambientale meridionale del settore è a rischio per le carenze sul fronte dell’organizzazione della filiera (produzione-trasformazione-distribuzione). Meno del 20% degli agriturismi italiani si trova nel Mezzogiorno: in testa Campania (809), leader in Italia per la presenza di fattorie didattiche, e Sardegna (757), pur cresciute nel 2008 del 4,4% rispetto al 2007. Ma, a differenza del Centro-Nord, qui l’agriturismo è soprattutto e quasi esclusivamente ristorazione. Riguardo ai prodotti di qualità, su 226 marchi italiani DOP e IGP il 43%, pari a 77, è meridionale, soprattutto oli e prodotti ortofrutticoli. Molto carenti però le promozioni dei prodotti a marchio, così come i biocombustibili. Industria - La crisi in atto ha colpito duramente, a livello nazionale e non solo, il settore industriale, soprattutto il manifatturiero. Cali della domanda interna ed estera hanno pesato in modo determinante, soprattutto per quanto riguarda i beni durevoli, intermedi, strumentali e gli investimenti fissi lordi. L’intensità della crisi si è fatta sentire ancora di più al Sud, con un crollo del valore aggiunto industriale nel 2009 del 15,6%, a fronte del -15,2% nazionale. Segno negativo per tutti i prodotti industriali. Giù soprattutto il manifatturiero, che è arrivato nel 2009 a - 16,6%. A tirare giù l’industria del Sud, come nell’altra ripartizione, soprattutto i minerali non metalliferi (-26,9%), i metalli (-23,9%) e macchine e mezzi di trasporto (-20,5%). Non va meglio sul fronte dell’export: nel 2009 il manifatturiero del Sud ha perso il 29% contro il 20% del Centro-Nord. Da segnalare i crolli delle esportazioni nei metalli (- 40,4%), nel chimico-farmaceutico (-35%), nei macchinari elettrici e mezzi di trasporto (- 30%), ancora più negativi dei risultati dell’altra ripartizione (-28%, -13%, -21%). A fare le spese della situazione critica anche la produttività, scesa del 6,6% al Sud e del 7,8% nel Centro-Nord. Nel 2009 il gap tra le due aree si è mantenuto intorno ai 25 punti percentuali. Nel 2009 si sono persi 319mila posti di lavoro al Centro-Nord e 87mila al Sud. In altri termini, degli occupati persi nel settore dal 2004 al 2009, il 70% al Sud e l’87% al Centro-Nord del totale si è concentrato nello scorso anno. Nel manifatturiero gli occupati sono scesi nel 2009 al Sud del 10% contro l’8% del Centro-Nord. Particolarmente colpito il tessile e calzaturiero (-13% al Sud, -10,8% al Centro-Nord) e la produzione di metalli (-11,8% al Sud, -9,6% al Centro-Nord). Riguardo agli investimenti fissi lordi, sono crollati nel 2009 al Sud del 18,8%, al Centro-Nord del 19,2%. Il quadro pre-crisi: Sud uguale al Nord - In base a un’analisi SVIMEZ sulla sopravvivenza delle aziende negli anni pre-crisi 2002-2007 si è notato che le principali dinamiche imprenditoriali nell’area non sono troppo diverse dagli andamenti nelle altre ripartizioni: a 5 cinque anni dall’insediamento al Sud sopravvive il 53% rispetto al 57% del Nord-Ovest; negli anni le dimensioni d’impresa crescono, addirittura di quattro volte in Basilicata rispetto al raddoppio di Piemonte e Lombardia; al Sud il rapporto tra addetti guadagnati e persi nelle imprese sopravviventi al 2007 è uguale a quello medio nazionale (30%). Edilizia - La crisi non ha risparmiato il settore edile: rispetto all’anno precedente, nel 2009 il Sud ha segnato un crollo del valore aggiunto del 9,4% (che arriva al -16,7% nel periodo 2001-2009), degli investimenti dell’8,5% e del 3,8% degli occupati pari a 23mila posti di lavoro. Particolarmente colpita l’occupazione dipendente, - 28.500 posti, a fronte di una crescita di 5.600 nuove unità autonome. Le misure varate dal Governo a sostegno delle spese di manutenzione e ristrutturazione hanno contribuito a far emergere quote di sommerso, che restano però alte: delle 180mila unità totali “in nero”, il 63%, oltre 110 mila, è al Sud. Sul fronte delle opere pubbliche, i bandi di gara al Sud nel 2009 sono scesi per numero del 21,7%, con punte particolarmente negative in Basilicata (-63%) e Molise (-60%), per importo del 13,5% (-70% in Basilicata e – 66% in Molise). Servizi e terziario - Sempre per effetto della crisi, per la prima volta dalla fine della guerra il valore aggiunto del settore dei servizi è calato per due anni consecutivi, segnando nel 2009 – 2,7% (Centro-Nord -2,6%), con effetti molto più pesanti nel commercio (-11% contro -9%). Giù anche turismo e trasporti (-3%) e intermediazione creditizia e immobiliare (-1,7%). Circa 88mila i posti di lavoro persi nel settore al Sud (- 1,9% rispetto al 2008), con punte del -3,9% nel commercio, il doppio che al Centro-Nord (-1,7%), concentrate soprattutto nel lavoro autonomo. Il terziario, specialmente nei servizi alle imprese e alle famiglie, è il settore che ha più recuperato dal 2002 il divario di produttività con il Centro-Nord, ma resta poco competitivo. Tale divario di produttività, pari al 15,5%, nel 2009 portava il costo del lavoro al Sud a superare del 12% il centro-Nord nonostante i salari fossero più bassi del 5%. Il terziario al Sud è soprattutto di tipo tradizionale (commercio al dettaglio, istruzione, sanità) mentre è molto ridotto il suo peso nei servizi alle imprese (assicurazioni, trasporto aereo, immobiliare). Nel 2009 i dipendenti pubblici al Sud sono stati 58 su mille abitanti, contro il 54 del Centro-Nord. La percentuale più alta però non è nel Mezzogiorno, ma in Trentino-Alto Adige e nel Lazio (72%). Cosa dice la SVIMEZ – Nel periodo 2000-2008 il Mezzogiorno è cresciuto la metà del Centro-Nord. Dal dopoguerra non si era mai verificato una così lunga interruzione del processo di crescita tra le due aree. La forte contrapposizione tra Nord e Sud oggi rischia di allargare il divario e ostacola la ripresa economica nazionale. Di qui la proposta di un “progetto Paese” per valorizzare le aree deboli con politiche nazionali più efficienti e politiche specifiche riformate, che passi attraverso il concetto di Mezzogiorno come “frontiera” verso il Mediterraneo e le nuove opportunità di sviluppo che vengono soprattutto dai settori innovativi. 6 LE POLITICHE INDUSTRIALI L’azzeramento delle politiche di riequilibrio - Nel corso del 2009 si è passati dalla crisi della politica industriale regionale a un suo sostanziale azzeramento. Perché sono rimasti non operativi tutti gli interventi di incentivazione che si sarebbero dovuti attivare: le zone franche urbane, i nuovi contratti di programma, i contratti di localizzazione, i contratti di sviluppo. Mentre si sono definitivamente esaurite le risorse finanziarie per i crediti d’imposta a favore dell’occupazione e dei nuovi investimenti. Gli effetti della crisi economica – La crisi inevitabilmente alimenta soprattutto una politica industriale difensiva; un esempio in tal senso sono le misure di incentivazione dei consumi attuate dal Governo, che recuperano una selettività settoriale sepolta da un ventennio di strategie comunitarie. A fare le spese di una crescente avversione per le politiche di incentivazione è stata, ancor più della politica industriale, la politica di riequilibrio territoriale, che ha finito per pagare pesantemente l’inevitabile contrazione delle risorse disponibili. Gli aiuti di Stato in Europa e in Italia – Nel 2008 gli aiuti di Stato hanno rappresentato nell’Ue a 27 lo 0,5% del Pil. Ma le situazioni nei diversi Paesi non sono uniformi: in Germania il livello degli aiuti è il doppio rispetto all’Italia, e anche Francia e Spagna gli riservano una maggiore attenzione. Nel nostro Paese le misure orizzontali rappresentano l’85% del totale e la maggior quantità di aiuti è destinata al sostegno delle piccole e medie imprese. Troppo poco in Italia è stato finalizzato al superamento degli squilibri territoriali, appena il 18,3%, contro il 22,8% della Germania, il 40,8% della Francia, il 39,9% della Spagna e, addirittura, il 25,8% della Ue a 27. I recenti interventi in Italia – L’anno scorso il Governo ha varato la “legge sviluppo” 99/2009 anche allo scopo di riordinare tutte le misure di incentivazione esistenti, ma difficilmente potrà essere operativa per la metà di agosto 2010. Ha poi approvato la direttiva “Small Business Act” che tra le altre prevede misure per favorire l’accesso al credito delle piccole e medie imprese, incentivando in particolare la finanza innovativa. Sono stati a questo proposito estesi, in funzione anticrisi, sia gli interventi del Fondo di garanzia che la moratoria sul debito. E’ stato creato un Fondo pubblico privato di private equity, la cui società di gestione del risparmio è stata costituita a marzo di quest’anno e a settembre farà i primi investimenti. Il contratto di rete d’impresa - Con il consolidamento del “contratto di rete d’impresa”, per poter accedere alle procedure di programmazione negoziata con le pubbliche amministrazioni, agli interventi di garanzia per l’accesso al credito e alle misure per l’internazionalizzazione e l’innovazione, si favoriscono le aggregazioni tra imprese. Ma, a differenza dei distretti, il legame tra le stesse non è necessariamente di natura territoriale né settoriale. Progetti di innovazione industriale – La legge sviluppo estende i progetti di innovazione industriale anche alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, all’industria aerospaziale e all’osservazione della terra e dell’ambiente. Diversi bandi debbono ancora essere avviati. Si è invece conclusa la fase di valutazione del progetto per le nuove tecnologie 7 per il made in Italy: stanziati 280 milioni, 104 progetti ammessi al finanziamento, che attivano investimenti complessivi per 638 milioni. Incentivi a sostegno della domanda – Gli incentivi al consumo varati dal Governo nel 2010 hanno avuto al Sud una ricaduta notevolmente inferiore rispetto al resto del Paese: le Regioni meridionali, infatti, al 10 maggio di quest’anno, avevano assorbito il 20% dei finanziamenti erogati. Sempre meno incentivi al Mezzogiorno - Nel 2009 sono significativamente calate le agevolazioni nazionali, gestite cioè dall’Amministrazione centrale: siamo attorno ai 4 miliardi e mezzo, un valore nettamente inferiore alla media dei precedenti sei anni, quando oscillava attorno ai 6 miliardi e 200 milioni l’anno, per un totale di 37 miliardi e 200 milioni nell’intero periodo. Di questi incentivi circa la metà sono stati destinati al superamento degli squilibri territoriali, 18 miliardi e 400 milioni. Ma soprattutto al Sud il calo del 2009 è ancor più evidente che nel resto del Paese: su 4 miliardi e mezzo, poco più di un miliardo e mezzo è andato al Mezzogiorno. Il peso delle aree meridionali sul totale degli incentivi, che era di circa il 70% fino al 2006 e attorno al 56% fino al 2008, nel 2009 è drasticamente calato al 34%. Contratti di Programma e di localizzazione, crediti di imposta, Zone franche – Le risorse disponibili per i crediti d’imposta per l’occupazione, pari a 200 milioni per ciascuno degli anni 2008, 2009 e 2010, si sono già esaurite nell’ottobre del 2008. Così come le risorse per i crediti d’imposta a favore degli investimenti, pari a 4 miliardi e mezzo: nel 2008 l’intero stanziamento del periodo 2007 – 2013 era già stato interamente assorbito. L’estensione dei Contratti di programma all’intero territorio nazionale rischia in prospettiva di danneggiare il Sud, al quale prima erano riservati. Nel 2009 c’è stato altresì il blocco dei contratti di localizzazione che non si sono rivelati un efficace strumento di attrazione degli investimenti. Si attende l’avvio operativo dei nuovi Contratti di Sviluppo. Per di più la manovra del Governo di quest’estate ha trasformato le Zone franche urbane in zone a burocrazia zero. Cosa dice la Svimez - “La particolare intensità con cui la recessione industriale ha colpito il Mezzogiorno nel 2009 segue un già forte ampliamento del gap di crescita con il resto del Paese. Le cronache di questi mesi e settimane sugli stabilimenti FIAT di Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, alquanto complesse e diverse tra loro, sono emblematiche. C’è stato un progressivo ridimensionamento della politica industriale per il Sud, in particolare della politica di incentivazione regionale, che ne ha storicamente costituito l’ossatura portante, fino ad arrivare nel 2009 ad un sostanziale azzeramento. Solo col ripristino di un consistente apporto differenziale di politica industriale regionale, coniugato con un più adeguato accesso del Sud agli interventi della politica industriale nazionale, è possibile porre le condizioni per un disegno strategico di sviluppo strutturale. Gli “obiettivi guida” di questa possibile strategia sono: la riqualificazione del modello di specializzazione produttiva, attraverso il sostegno alla ricerca e all’innovazione tecnologica e organizzativa e allo sviluppo delle attività a più alta produttività relativa; l’innalzamento delle dimensioni medie dell’impresa, attraverso il sostegno alla formazione di “reti” di imprese e a un maggiore accesso al credito; una maggiore apertura del sistema verso l’estero; la promozione e l’arricchimento di “filiere produttive”; il pieno inserimento delle agglomerazioni di imprese in settori strategici per l’industria nazionale; il rilancio delle politiche di attrazione”. 8 LE POLITICHE DI COESIONE Bilancio complessivo Fondi strutturali 2000/2006 – La ventesima relazione annuale sull’esecuzione dei Fondi strutturali della Commissione Europea certifica che il 2008 è stato un anno positivo per l’attuazione del bilancio comunitario: risultano, infatti, impegnati 211,92 miliardi ed erogati 192,42, pari rispettivamente al 100% e al 90,8% delle risorse stanziate nei Paesi Ue. Le migliori performance le hanno avute la Finlandia, la Lettonia, la Lituania, Malta, l’Austria e l’Estonia, mentre i dati più bassi di avanzamento finanziario riguardano la Danimarca, Lussemburgo e Cipro, che hanno erogato tra l’82,4% e l’83,6% del contributo assegnato. L’Italia è cinque punti percentuali sotto la media dell’Unione Europea, con un livello di pagamenti che si aggira attorno all’85%. Grazie alla proroga al 30 giugno 2009 per il completamento della programmazione 2000 – 2006, la regola del disimpegno automatico non è stata applicata all’annualità 2008. Nei Paesi Obiettivo 1 gli investimenti sono stati prevalentemente concentrati sulle infrastrutture di base, 41,4%, in particolare su quelle di trasporto, sul sostegno alle piccole e medie industrie e all’artigianato per il 33,3%, sulle risorse umane per il 23,2%. I risultati in Italia – All’Italia per il periodo 2000/2006 sono stati assegnati 28,8 miliardi di contributi comunitari per le politiche di coesione, che, grazie alle risorse nazionali di cofinanziamento, hanno più che raddoppiato lo stanziamento. Per cui il totale dei finanziamenti ha raggiunto 63,3 miliardi, di cui 45,9 destinati alle Regioni obiettivo 1. Nel corso dell’anno scorso, grazie alla proroga, sono state completate fisicamente e finanziariamente le iniziative programmate a partire dal 2000. I dati a fine 2009 della Ragioneria dello Stato mettono in evidenza come, per tutti gli obiettivi, gli impegni siano in eccesso rispetto alla dotazione finanziaria, mentre i livelli di pagamento siano differenziati: in termini assoluti su 45,9 miliardi programmati, ne sono stati impegnati 57 e spesi 48. I fondi e gli Assi - Per quel che riguarda i pagamenti, la quota più alta rispetto ai contributi l’ha registrata il Feoga, specializzato in agricoltura, la più bassa lo Sfop, fondo dedicato alla pesca, per il quale il livello di spesa è pari al 92% del contributo. Se la valutazione viene fatta per Assi, le risorse finalizzate alle “Reti e nodi di servizio” sono state impegnate per il 123,6% ed erogate per il 105,9% del contributo, mentre per gli Assi “Risorse culturali” e “Sistemi locali di sviluppo” si sono raggiunti livelli di pagamento rispettivamente dell’86% e dell’89,6% del contributo. I Programmi operativi - La media dei PON (Programmi operativi nazionali) è al 120,7% per gli impegni e al 105% per i pagamenti. Livelli di impegno inferiori al contributo assegnato si sono registrati solo per i PON “Assistenza tecnica” e “Pesca”. Mentre per le erogazioni solo quattro PON hanno speso meno del contributo assegnato: quelli per la “Pesca”, la “Scuola per lo sviluppo”, l’“Assistenza tecnica” e la “Sicurezza”. La media dei POR (Programmi operativi regionali) si attesta su un livello di pagamenti del 104,6% del contributo, con il valore più alto in Puglia, dove raggiunge il 112,7% e quello più basso in Campania, dove è al 101% di quanto assegnato. Quanto hanno influito i progetti coerenti – Secondo il Rapporto 2008 del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo, il valore dei “progetti coerenti” è calcolato in 20,4 miliardi, corrispondenti al 44,5% della dotazione finanziaria. Particolarmente rilevante l’incidenza dei 9 progetti coerenti, meglio noti come “progetti sponda”, su alcuni Assi strategici, come quello delle “Reti e nodi di servizio”, che li ha utilizzati per l’85,7% del totale. E’ perciò evidente che a fine 2009 il livello complessivo della capacità di spesa delle risorse assegnate con la programmazione 2000/2006 è stato elevato proprio grazie ai progetti coerenti. Le valutazioni dell’Ue – Nel Rapporto della Commissione Europea del 19 aprile di quest’anno emerge che in Italia le risorse del Fesr del ciclo 2000/2006 hanno dato un contributo significativo alla crescita delle aree Obiettivo 1. Rendendo più attrattivi i territori meridionali e migliorando l’armatura infrastrutturale e la capacità della pubblica amministrazione, anche se non si sono potute contrastare le cause profonde del ritardo di sviluppo. Ciò soprattutto perché sono stati privilegiati progetti di ridotto importo unitario, frammentati, non inseriti in una complessiva strategia di sviluppo e perché c’è stata una quasi totale assenza di progetti interregionali. La programmazione 2007/2013 – A circa tre anni dall’approvazione del Quadro Strategico Nazionale 2007/2013, il disegno di una cornice programmatica unitaria per la politica regionale, finanziata con risorse nazionali, del Fas e comunitarie, è in crisi. Ciò a seguito delle decisioni intervenute nel corso del 2008 e del 2009 relative alla manovra finanziaria per fronteggiare la grave crisi economica internazionale. Complessivamente il Quadro Strategico Nazionale prevedeva di attivare 60,3 miliardi di risorse europee e 64,4 del Fas, per un totale di 125 miliardi. Ma i 64,4 miliardi inizialmente assegnati al Fondo Aree Sotto Utilizzate sono stati via via ridotti e spostati su obiettivi che nulla hanno a che vedere con le politiche di sviluppo e coesione. Quanto è stato destinato al Sud – Sul totale delle risorse dei Fondi Strutturali stanziate per la programmazione 2007/2013, alle Regioni della Convergenza, è stato destinato il 78,5% del totale, comprendendo anche le aree interessate dai fenomeni di transizione. Per il 60% questa somma è stata finalizzata a investimenti nell’energia e nell’ambiente, al sostegno della competitività dei sistemi produttivi e dell’occupazione, alle reti, alla ricerca e innovazione. I Programmi operativi regionali (POR) che hanno avuto più soldi sono il POR FESR Campania e Sicilia, che assorbono rispettivamente il 15,9% e il 15,1% del contributo dato alle regioni della Convergenza. A che punto è la programmazione 2007/2013 – I maggiori ritardi riguardano proprio quei programmi destinati a favorire interventi interregionali e una maggiore cooperazione tra le Regioni, come due Programmi operativi interregionali (POI): quello per le “Energie rinnovabili e risparmio energetico”, che presenta un livello di impegni e di pagamenti pari al 6,08% di quanto assegnato, e quello “Attrattori culturali, naturali e turismo” che addirittura non registra né impegni né spesa. Un avanzamento superiore alla media degli impegni e della spesa dell’obiettivo Convergenza si riscontra per tutti i Programmi operativi nazionali (PON). Per i Programmi operativi regionali, invece, le migliori performances le hanno il POR FESR Basilicata, con un livello di impegni e pagamenti rispettivamente del 23,66% e del 15,13% del contributo, e il POR FESR Calabria, con il 30,6% di impegni e il 6,62 di pagamenti. Peggio vanno quelli della Campania e della Puglia, con un livello di impegno per entrambe le Regioni inferiore al 10% e di spesa rispettivamente al 3.81% e al 5,99% dei contributi assegnati. Grazie a una recente modifica al Regolamento sui Fondi strutturali che prevede una riduzione della soglia minima di spesa da realizzare entro il 31 dicembre 2010, si limitano notevolmente i rischi di perdere risorse comunitarie a fine anno. 10 Cosa dice la Svimez - “Al peggior andamento del Mezzogiorno ha concorso una ridotta efficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, conseguente a una dimensione della spesa pubblica per investimenti assai inferiore a quanto programmato. A deprimere l’efficacia ha concorso anche la scarsa qualità degli interventi. Le carenze di fondo sono state: la dispersione delle risorse aggiuntive da finalizzare all’accelerazione dello sviluppo sul territorio in una eccessiva molteplicità di interventi, rispondenti troppo spesso a domande localistiche; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui. E l’impostazione del nuovo “Quadro Strategico Nazionale” 2007 -2013 si è mossa in continuità con il precedente periodo di programmazione: c’è il rischio di una riproposizione dell’esperienza negativa del ciclo di programmazione 2000- 2006. Non solo, ma riguardo all’avanzamento degli interventi, si confermano le difficoltà attuative”. 11 FEDERALISMO E POLITICHE DI FINANZA PUBBLICA Gli effetti della crisi finanziaria – L’andamento dei conti pubblici nel 2009 è stato pesantemente condizionato dagli effetti della crisi economica e finanziaria mondiale. Tali conseguenze sono state particolarmente rilevanti sugli stanziamenti di bilancio a favore delle aree sotto utilizzate, perché ai tagli già decisi nel 2008 se ne sono aggiunti altri nel 2009. La Svimez ha stimato tali riduzioni in 1 miliardo e 963 milioni nel 2008 e in 4 miliardi e 284 milioni nel 2009. Tuttavia il tasso di utilizzazione delle risorse del Fas è migliorato l’anno scorso rispetto al 2008, passando dal 26,6% al 36,3%: un livello comunque ancora troppo basso, se si pensa che nel 2004 aveva raggiunto il 73,3%. Andamento insoddisfacente anche per i pagamenti effettuati sul conto corrente di tesoreria che gestisce, nell’ambito del Fondo di Rotazione delle politiche comunitarie, le risorse statali destinate al cofinanziamento nazionale degli interventi comunitari. Legge delega sul federalismo fiscale - Il nostro Paese ha bisogno di un sistema federale credibile, che si può ottenere solo attraverso la commistione e non la separatezza delle competenze. Il modello di riferimento è quello degli Usa, dove i poteri del governo federale e degli States sono distinti, ma non separati. Se si guarda, invece, ai potenziali effetti del federalismo fiscale per i Comuni, ai quali sono demandate in gran parte materie come l’assistenza, l’istruzione, i trasporti pubblici locali, si notano subito le difficoltà di attuazione. La situazione attuale è sotto gli occhi di tutti: a fronte di una maggior pressione fiscale subita dai meridionali, il livello dei servizi al Sud è peggiore. E i trasferimenti erariali, invece di venire incontro alle esigenze dei più deboli, premiano i più forti. Spesa storica e costi standard - La legge delega prevede che il fabbisogno delle funzioni di Comuni e Province sia finanziato considerando l’80% delle spese come fondamentali e l’altro 20% come non fondamentali. In particolare per i Comuni sono fondamentali le funzioni di gestione, amministrazione e controllo, quelle di polizia, l’istruzione pubblica, la viabilità e i trasporti, la gestione del territorio, quelle in campo sociale. Tutto ciò è attualmente finanziato col criterio della spesa storica. Il passaggio dalla spesa storica ai costi standard è al centro della nuova legge sul federalismo fiscale. Perché è dal modo in cui si definisce il giusto prezzo dei servizi che dipende l’entità dei trasferimenti. Qualità dei servizi al Nord e al Sud – Secondo la Banca d’Italia, la qualità di alcuni servizi pubblici essenziali, come istruzione, sanità e giustizia, che normalmente non rientrano nella sfera di competenza delle politiche territoriali, è generalmente scarsa nelle aree meridionali. In tale ottica il Quadro Strategico Nazionale 2007/2013 ha riconosciuto un ruolo strategico al rafforzamento dell’offerta di servizi collettivi, confermando un sistema di premialità a favore delle Regioni meridionali che conseguiranno gli obiettivi fissati per il miglioramento di tali prestazioni, in particolare in quattro ambiti: istruzione, cura per bimbi e anziani, gestione dei rifiuti, servizi idrico. Federalismo demaniale – L’obiettivo del federalismo demaniale, il primo dei decreti attuativi approvati dal Governo, è rendere più efficiente e redditizia la gestione del patrimonio, anche dismettendo gli immobili non più strumentali all’esercizio delle funzioni, e, al tempo stesso, favorire il decentramento delle funzioni pubbliche agli enti territoriali, che 12 possono così procacciarsi nuove entrate sfruttando economicamente il patrimonio immobiliare trasferito. Naturalmente ci sono anche dei rischi: gli enti territoriali potrebbero essere incentivati ad adottare comportamenti opportunistici scegliendo solo quei beni che hanno immediate prospettive di valorizzazione. Inoltre le attuali difficoltà economiche dei Comuni e la prevista riduzione dei trasferimenti statali potrebbero spingere quelli più deboli a concedere varianti allo strumento urbanistico pur di rendere edificabili nuove aree e procacciarsi così maggiori risorse. La grande disomogeneità nella distribuzione territoriale e la ridotta dimensione dei valori finanziari in gioco rischiano di rendere l’intera operazione scarsamente utile nella direzione del federalismo fiscale. Spesa pubblica al Sud e al Nord – La spesa pubblica, intesa come spesa delle amministrazioni centrali e territoriali, al netto di quella per interessi, è più bassa nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord. Non hanno consistenza le affermazioni anche di fonte autorevole che accreditano il Sud di un volume di spesa pubblica elevato. I dati disaggregati per livello di governo relativi alle spese correnti evidenziano un divario molto più marcato per gli enti locali meridionali, che presentano livelli di spesa pro capite inferiori a quelli del Centro Nord del 14%. Si conferma la tendenza alla riduzione della quota di spesa in conto capitale nel Mezzogiorno, attestata al 34,8% dopo che nel 2001 aveva raggiunto il 41,1%: lontano e praticamente irraggiungibile resta l’obiettivo del 45%. Quanto ha pesato il taglio al Fas – I tagli al Fas hanno notevolmente influito sul livello di spesa pubblica al Sud. Infatti, fino al 2007 non si sono avuti scostamenti significativi tra previsioni di spesa iniziali e finali. A partire da quell’anno, però, la situazione è cambiata: già nel 2007, infatti, le previsioni definitive sono state minori rispetto a quelle iniziali di 1 miliardo e 100 milioni, poi saliti a 1 miliardo e 968 milioni nel 2008 e addirittura a 4 miliardi e 284 milioni nel 2009. Riducendo così drasticamente l’ammontare delle risorse di competenza del Fondo Aree Sotto Utilizzate. Attualmente il tasso di utilizzo delle risorse del Fas è al 36,3% del totale a fronte del 26,6% del 2008, un livello più elevato ma ancora nettamente inferiore a quello degli anni precedenti. Cofinanziamento interventi comunitari – Le risorse destinate al cofinanziamento degli interventi dei fondi strutturali comunitari, che si sommano a quelle del Fas, hanno avuto anch’esse un trend discendente di utilizzo: nel 2004 si è raggiunto il picco con circa 5 miliardi erogati, tra il 2006 e il 2008 ci si è attestati tra i 4,8 e i 4,9 miliardi, nel 2009 si è scesi a 3,2 miliardi: ciò significa che solo il 17% delle somme spendibili su questo capitolo è stato erogato. La Finanza comunale – Le spese correnti dei Comuni tra il 2007 e il 2009 sono cresciute, a livello nazionale, del 5,3%. Ma l’incremento maggiore si è avuto al Sud, +9,1%, a fronte del 3,4% al Nord e del 5,3% al Centro. Non solo, ma mentre crescevano le spese, le entrate aumentavano dell’1,8% a livello nazionale, aumento che deriva da una riduzione dell’ 1,9% al Nord, e da incrementi del 2,3% al Centro e dell’1,1% al Sud. Infine, i trasferimenti erariali, anche in seguito alla progressiva abolizione dell’Ici sulla prima casa, sono cresciuti nel triennio del 28,5% a livello nazionale, con un andamento molto diversificato tra le diverse ripartizioni territoriali: +13,9% nel Mezzogiorno, +39,8% al Nord, +31,2% al Centro. Ciò è anche la conseguenza del fatto che l’abolizione dell’Ici ha 13 ridotto nel triennio le entrate tributarie del 26,5%, che significa -26,1% al Nord, -37,3% al Centro, -14,3% al Sud. Cosa dice la Svimez - “La quota delle risorse nazionali del FAS dirottata verso altri indirizzi raggiunge circa 26 miliardi. Ciò ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul “Quadro Strategico Nazionale 2007-2013”, indebolendone significativamente la componente nazionale. E le ultime indicazioni di politica economica del Governo sembrano proseguire nell’indebolimento dell’aggiuntività delle risorse. La SVIMEZ propone l’istituzione di una “Conferenza delle Regioni meridionali”, in costante rapporto con la Presidenza del Consiglio, che in sede congiunta, una sorta di “Consiglio per la coesione nazionale”, possano assumere impegni vincolanti nella scelta di pochi grandi progetti strategici prioritari, su cui appostare risorse nazionali e regionali, frutto del riordino degli interventi e del reintegro dei fondi nazionali. A questo coordinamento strategico è necessario affiancare una struttura tecnica, un’Agenzia indipendente che si occupi della progettazione e sia di supporto all’attuazione dei grandi interventi prioritari per il Mezzogiorno definiti dalla Conferenza e dal Governo.” 14 POLITICHE INFRASTRUTTURALI ED AREE URBANE Il Sud piattaforma logistica del Mediterraneo – Grazie alla posizione geografica e alla dotazione di porti e aeroporti il Sud può svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del Far East lungo la rotta del canale di Suez. La piattaforma sub – mediterranea, con i suoi oltre 250 milioni di abitanti, è una fonte di interscambio da valorizzare e la creazione di un’area di libero scambio tra l’Europa e i paesi del Mediterraneo va in questa direzione. La spesa per infrastrutture – Tra il 2007 e il 2010 la caduta degli investimenti infrastrutturali è stata pari all’8,8%. Eppure, proprio i grandi programmi di sviluppo infrastrutturale sono il principale strumento capace di generale la crescita economica. Per rilanciare gli investimenti in quest’ambito bisogna sviluppare il finanziamento privato e sfruttare tutte le opportunità che ancora ci sono di finanziamento pubblico. Al Sud è determinante la leva pubblica. Le scelte del Cipe – Il Cipe a metà maggio 2010 ha definitivamente assegnato 7 miliardi e mezzo degli 11 miliardi e 300 milioni di risorse pubbliche programmate, di cui 6 destinati alle grandi opere e 1 e mezzo a quelle medio piccole, e ha anche approvato convenzioni autostradali per quasi 6 miliardi sui 18 previsti. Ma l’attivazione effettiva di queste risorse a tutt’oggi è piuttosto scarsa, con solo 1 miliardo e 300 milioni impiegabili a breve termine, grazie ai cantieri già aperti. Peraltro la produttività dei cantieri meridionali è ancora molto critica, in particolare per responsabilità della Pubblica Amministrazione che non sa programmare, progettare finanziare e gestire, e ciò incide notevolmente sui tentativi di reperimento di risorse private. Concentrare le risorse su obiettivi strategici – Il recupero del gap infrastrutturale meridionale passa attraverso la riduzione della frammentazione delle risorse. In quanto la progressiva erosione dei fondi del Fas spinge verso una concentrazione su poche ma significative priorità. La programmazione 2007/2013, mettendo insieme le risorse del Fas e quelle dei fondi strutturali, si basa su una spesa infrastrutturale attivabile al Sud di 35 miliardi e 600 milioni, di cui 18,6 a valere sul Fondo Aree Sotto Utilizzate e 17 sui fondi strutturali. Ma finora i primi segnali sull’attuazione del nuovo ciclo di programmazione non sono confortanti: a parte le incertezze sui Piani di Attuazione Regionali (Par), la programmazione comunitaria cammina troppo lentamente, per cui a febbraio 2010 i Programmi Operativi Regionali (Por) avevano impegnato appena il 13,2% dei fondi e speso solo il 5,7%. Le reti ferroviarie – Nel 2009 solo una persona su 5 al Sud ha utilizzato il treno per i propri spostamenti, contro una su 3 del Centro Nord. La dotazione di reti ferroviarie ad Alta Velocità è e sempre più sarà quasi interamente concentrata al Centro Nord, mentre al Sud sono previsti progetti importanti, ma di livello tecnologico e di prestazione inferiore, sia sulla Napoli – Bari che sulla Salerno Reggio Calabria e sulla rete siciliana. Per di più dal polo di Napoli, snodo decisivo nei collegamenti tra Nord e Sud, partono e arrivano, esclusa l’AV, 35 treni al giorno da e per Roma, che si riducono a un terzo nel percorso fino e da Reggio Calabria e addirittura a un settimo se si raggiunge o si viene dalla Sicilia. Peraltro la rete ferroviaria meridionale, fatta eccezione per la dorsale tirrenica e una parte di quella jonica, è costituita da linee 15 complementari secondarie. E ancora oggi deve fare i conti con una rete che al 51,6% non è elettrificata e spesso è a binario unico. Le reti stradali – La rete stradale meridionale è formata prevalentemente da assi viari non autostradali. Un elevato indice di diffusione autostradale c’è in Abruzzo e in Campania, mentre è fortemente deficitaria in Calabria, Puglia, Molise e Basilicata. La Sardegna è del tutto priva di tratte autostradali. Peraltro la mancata tariffazione di gran parte delle autostrade al Sud si è rivelata incoerente con le esigenze di sviluppo e di funzionalità della rete. I porti – 178 dei 263 porti italiani sono localizzati al Sud. Ma le infrastrutture a servizio degli scali meridionali non sono adeguate, soprattutto per quel che riguarda la capacità di movimentazione delle aree di stoccaggio. Nel 2009 la portualità italiana ha registrato una brusca caduta dei volumi di traffico. Gli aeroporti – Il Sud ha una buona dotazione aeroportuale: tra i 45 scali italiani, 17 sono nel Mezzogiorno. Gli aeroporti meridionali hanno collegamenti stradali ma sono privi di collegamenti ferroviari. Centri intermodali – La distribuzione sul territorio italiano delle piattaforme logistiche e dei centri intermodali riflette la forte concentrazione delle attività produttive al Nord. Non a caso l’indice di dotazione è pari al 39,9 al Sud a fronte del 135,7 del Centro Nord. Caratteristiche delle aree urbane al Sud – Le aree urbane del Mezzogiorno sono caratterizzate da una scarsa interrelazione tra le città, da una difficile, a volte addirittura fallimentare, gestione dell’ambiente urbano, da un’insufficienza dei servizi pubblici essenziali. Peraltro il Sud appare fortemente svantaggiato rispetto al Nord in particolare per gli investimenti in ferrovie di interesse urbano. Le grandi città del Sud sono ben lontane dagli standard europei di sostenibilità urbana e segnano il passo nelle politiche ambientali. Ciò vale soprattutto per le grandi conurbazioni, come Napoli – Caserta, Palermo e Catania, mentre segnali positivi vengono da alcune città di media dimensione come Cagliari e Salerno. In particolare il capoluogo campano è afflitto da un grave problema di congestione urbana, da un affollamento abitativo eccessivo, e da una scarsa dotazione di strutture ricettive di tipo alberghiero che non consente di far fronte in modo adeguato alla crescente domanda turistica. Cosa dice la Svimez - “Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti è uno strumento per la crescita e l’integrazione, già a partire dal 2010. Per assumere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa e Mediterraneo, il Sud deve diventare un punto di giunzione fondamentale che investa l’intero sistema infrastrutturale nazionale. La “frontiera Sud” rende urgente la realizzazione di grandi infrastrutture strategiche, non solo per la loro valenza economico-territoriale rispetto a qualsiasi progetto di sviluppo produttivo del Mezzogiorno, ma anche per la loro capacità di mobilitare risorse e impieghi tali da contribuire in misura rilevante all’uscita dalla crisi. Forme di finanza di progetto e di partenariato pubblico-privato sono gli strumenti più idonei a impostare un programma di priorità infrastrutturali. Una prima selezione di opere prioritarie per il completamento del sistema dei trasporti nel Mezzogiorno dovrebbe comportare un costo di circa 46 miliardi, con una copertura attuale di poco più di 11 miliardi e un fabbisogno finanziario da reperire di quasi 35 miliardi. Si tratta di opere cruciali, alcune già in corso di esecuzione e dotate di parziale copertura finanziaria o da finanziare in misura totale, altre non ancora esaminate 16 dal CIPE. Si tratta di importi consistenti ma tuttavia contenuti se confrontati con gli impegni finanziari rilevabili per il resto del Paese. La realizzazione di tali opere potrebbe avvalersi di un non trascurabile contributo della componente privata. Potrebbe essere un primo campo su cui procedere con lo sforzo di concentrazione e riorientamento dei Fondi per lo sviluppo.” 17 LE POLITICHE DELLA P.A. Qualità dei servizi pubblici al Sud – La qualità dei servizi pubblici al Sud, come giustizia, sanità, istruzione, trasporti, servizi locali, è decisamente inferiore rispetto al resto del Paese. E i processi avviati di liberalizzazione, privatizzazione e riforma delle autonomie e dei servizi pubblici locali hanno ampliato invece di ridurre i divari tra le due Italie. Peraltro il tentativo di ridisegnare lo Stato in senso federalista ha reso evidente l’incapacità di molti enti locali a gestire in modo efficiente funzioni di grande rilevanza. L’effetto è sotto gli occhi di tutti: scarsa vivibilità ambientale, poca sicurezza, mancanza di adeguati standard di istruzione, servizi sanitari non idonei. Il peso delle carenze istituzionali – Le carenze istituzionali pesano in modo considerevole sulla fornitura da parte delle amministrazioni pubbliche di servizi primari, come scuola, sanità e giustizia. Al Sud questo fenomeno è più diffuso, sia per il rapporto di sudditanza del dirigente pubblico al potere politico, sia per gli alti costi connessi agli adempimenti amministrativi: basti pensare che le Conferenze dei servizi sorte proprio per ridurre tale complessità, si sono spesso trasformate in un ostacolo insuperabile. I numeri della P.A. meridionale – Attualmente la Pubblica Amministrazione italiana assorbe quasi il 15% dell’occupazione totale. Ma il peso degli occupati nella P.A. è molto più consistente al Sud: 18,8% contro il 12,2% del Centro Nord. Soprattutto in Calabria, dove raggiunge il 21,2%, in Sicilia 20% e in Campania 19,5%. La scarsa attrattività del Mezzogiorno - L’insieme di questi nodi critici contribuisce a limitare l’afflusso al Sud non solo degli investimenti diretti esteri e privati interni ma anche di quelli delle grandi società pubbliche o ex pubbliche. Ciò perché la potenzialità attrattiva di un territorio non è soltanto la conseguenza di aree attrezzate con infrastrutture specifiche al servizio di un insediamento industriale, ma dipende anche da una serie di fattori di contesto come la capacità di governo del territorio, la semplificazione amministrativa, i tempi della giustizia. La gestione dei rifiuti urbani – Le Regioni del Nord sono in linea con l’obiettivo posto per la raccolta differenziata dei rifiuti, 45,5%, quelle del Centro sono ancora lontane, attestate al 22,9%, quelle meridionali sono ferme ad appena il 14,7%. Servizi pubblici al cittadino – Migliorano i tempi d’attesa negli uffici comunali preposti all’anagrafe al Sud mentre resta negativa la situazione nelle Asl, dove i tempi di attesa per gli utenti sono molto più lunghi rispetto al Centro Nord. L’aspetto più preoccupante è quello della giustizia civile, dove la durata di un processo civile al Sud è attorno ai 1.108 giorni contro gli 805 del Centro Nord. Persiste un forte divario sui servizi ospedalieri e ciò spinge circa il 10% del totale dei residenti ricoverati per interventi chirurgici acuti nei nosocomi del Sud ad andare al Nord. 18 Cosa dice la Svimez - “La lettura del divario di sviluppo del Mezzogiorno con il resto del Paese si è progressivamente caratterizzata su una vasta gamma di servizi essenziali a regolamentazione nazionale e locale, e sull’efficienza delle Pubbliche Amministrazioni. Si pone spesso poca attenzione sulle carenze istituzionali che ritardano, se non ostacolano, il processo di sviluppo nel Mezzogiorno: eppure la scarsa qualità al Sud dell’offerta di beni e servizi pubblici essenziali, come giustizia, sanità, istruzione, trasporti, lavori pubblici, servizi locali, ha ricadute rilevanti sulle condizioni di vita dei cittadini e sul funzionamento dell’economia. Gli stessi processi avviati negli ultimi anni, di liberalizzazione, privatizzazione, riforma delle autonomie e dei servizi pubblici locali, anche se potenzialmente positivi hanno finito per costituire occasione di ampliamento dei divari tra le diverse aree del Paese. L’insieme di questi nodi critici contribuisce a limitare l’afflusso nel Mezzogiorno non solo degli investimenti diretti esteri e privati interni ma anche degli investimenti delle grandi società pubbliche e/o ex pubbliche”. 19 LE POLITICHE CREDITIZIE Credito e Mezzogiorno - Dai primi anni ‘90, la crescente integrazione economica internazionale ha spinto le banche italiane a introdurre forti processi di ristrutturazione per consentire di agire in un contesto diventato molto più competitivo. Nonostante questo, la dimensione del mercato bancario italiano è ancora sotto la media europea e tale criticità si fa sentire soprattutto al Sud. Lo prova, ad esempio, la riduzione del numero di banche meridionali nell’area e la penetrazione di istituti del Centro-Nord: nel 1990 esistevano al Sud 100 banche indipendenti con sede legale nell’area e 16 gruppi bancari con sede nell’altra ripartizione; nel 2004 erano rimaste solo 21 aziende di credito, tutte appartenenti a gruppi settentrionali. Banche e sportelli - Nel 2009 il numero di banche operative nel Mezzogiorno è passato da 222 a 215; di queste, tra le 151 aventi sede nell’area, 17 facevano parte di gruppi del Centro-Nord. L’Italia è il paese con il più alto numero di sportelli per abitante in Europa dopo la Spagna, ma la loro diffusione è disomogenea e legata al diverso peso economico regionale (presenza di imprese, densità di popolazione, PIL). Nel 2009 gli sportelli bancari presenti al Sud erano 7.196, 100 in meno rispetto al 2008. 4.133 facevano parte di banche con sede legale al Sud, e di queste 2.737 appartenevano a gruppi del Centro-Nord. Dal 2000 al 2006 la quota di sportelli di grandi banche è passata al Sud da 58% al 66%, le medie sono scese dal 21% all’11%, le piccole e BCC sono rimaste pressoché stabili, dal 20,2% al 21,9%: Imprese e accesso al credito – Colpendo l’industria, la crisi ha inferto un duro colpo anche all’accesso al credito delle imprese del settore, già critico al Sud per motivi strutturali (maggiori rischi, minor numero di aziende, prevalenza di aziende di piccole dimensioni e attive nei settori tradizionali, ecc). Tra le due ripartizioni, però, ne ha fatto le spese soprattutto il Nord-Ovest, con un crollo dei prestiti erogati che al febbraio 2010 arrivava a -5,5% rispetto all’anno precedente, mentre nello stesso periodo il Sud segnava +0,4%. A livello settoriale le imprese manifatturiere hanno subito un tracollo nell’erogazione dei prestiti, con un calo, nel Nord Ovest, del 10%, a marzo 2010, rispetto a marzo 2009. Dimezzata invece nello stesso periodo la riduzione al Sud: -5,39%. Da segnalare però che mentre il Nord Ovest ha iniziato a perdere colpi dal marzo 2009, per stretto effetto della crisi, al Sud, invece, le dinamiche negative erano già presenti dal dicembre 2008, quindi più legati a fattori di contesto che alla crisi congiunturale. Riguardo alle dimensioni, a marzo 2010 le piccole imprese del Sud (meno di 20 addetti) hanno registrato contrazioni dello 0,5% rispetto all’anno precedente, mentre per quelle di dimensione superiore la disponibilità di credito è cresciuta dello 0,85%. Situazione capovolta al Centro-Nord, con un calo del 4,5% per le imprese over 20 addetti, e una flessione dello 0,8% per le under 20. Nel 2009 i prestiti bancari alle imprese meridionali sono cresciuti dello 0,4%, in forte rallentamento rispetto al 2008 (+4,6%), mentre sono diminuiti del 4% al Centro-Nord. A livello dimensionale al Sud le piccole imprese hanno tenuto, mentre le altre sono cresciute dello 0,5%. A livello settoriale, invece, le contrazioni più forti hanno interessato l’industria 20 manifatturiera (-7,2% al Sud, - 9,9% al Centro-Nord). Tengono, invece, le imprese di costruzioni (+1,2% al Sud). A dicembre 2009 i tassi di interesse sui prestiti a breve termine alle imprese del Sud sono scesi al 6,4%, oltre due punti in meno rispetto al 2008. Andamento simile nell’altra ripartizione, ora al 5% (dal 7,4% del 2008). Nel 2009 il divario del costo del credito nelle due aree si è mantenuto stabile, a 1,4%. In crescita rispetto al 2008 anche le sofferenze, aumentate nelle imprese del Sud di un punto percentuale (da 2,2% a 3,2%), più o meno come per le aziende del Centro-Nord (da 1,5% a 2,4%). In base a un altro indicatore, però, che misura il grado di peggioramento del sistema nel 2007-2009 in piena crisi, a livello di sofferenze le imprese del Sud segnano +54%, mentre quelle del Centro-Nord arrivano al 142%. La riduzione del gap di rischiosità delle imprese delle due ripartizioni, passato dal 2% del 2007 all’1,2% del 2009, dimostra non un aumento della disponibilità di credito al Sud, ma un peggioramento del rapporto banche-imprese al Centro-Nord. Famiglie - Nel 2009 i prestiti concessi alle famiglie del Mezzogiorno sono cresciuti quasi del 6%, a fronte del 5% dell’altra ripartizione, mentre si sono contratti notevolmente soprattutto i prestiti per l’acquisto di abitazioni, al Sud -17%. In crescita anche le sofferenze, passate da +1,1% del 2008 a +1,5% del 2009. Sul fronte dei risparmi, per famiglie e imprese, nel complesso tengono depositi e obbligazioni (+4,7% al Sud, +6,7% al Centro-Nord). Giù i titoli di stato (-32% al Sud, -20% nell’altra ripartizione) e le gestioni patrimoniali (-14,5% e -29%, rispettivamente). Il Governo e la Banca del Mezzogiorno – Gli interventi nazionali del Governo a sostegno degli istituti di credito per favorire l’accesso al credito delle imprese si sono mossi prevalentemente nella direzione di rafforzare il Fondo di garanzia per le pmi e le funzioni della Cassa Depositi e Prestiti. Accanto a questi interventi che non rivestono specificità territoriali, va segnalato il progetto di costituire la Banca del Mezzogiorno, originato dal decreto legge 112/2008, che vuole invece essere uno strumento specifico di sostegno al credito e allo sviluppo delle regioni meridionali. Secondo la SVIMEZ, occorrerebbe analizzare meglio la capacità della Banca di finanziare progetti in grado di avviare lo sviluppo dell’area. Se infatti seguisse esclusivamente logiche di massimizzazione del profitto non potrebbe garantire di stornare i risparmi raccolti nell’area alle imprese meridionali, dati i maggiori rischi legati alla clientela, la fragilità del sistema, la minore qualità della domanda di credito. L’impianto della legge è sbilanciato verso la raccolta, e la fiscalità di vantaggio introdotta è rivolta ai risparmiatori, mentre la banca senza misure di incentivo ad hoc non avrebbe alcuna convenienza a investire nell’area. Possibili correttivi potrebbero venire ad esempio dall’introduzione della detassazione degli utili per progetti di investimento delle pmi meridionali, oppure dall’emissione di bond garantiti dallo Stato, come per i finanziamenti alle infrastrutture. Ciò non toglie che i progetti di investimento dovrebbero essere sottoposti a una severa selezione, così da evitare distorsioni. La Banca potrebbe inoltre stipulare convenzioni con i Confidi più strutturati, per accelerare il progetto di concentrazione del settore. Da definire meglio inoltre i rapporti con Banche di Credito Cooperativo e Poste Italiane: le prime già svolgono funzioni creditizie, ma le seconde non hanno esperienza in questo settore ed un loro coinvolgimento potrebbe avere delle implicazioni sulla concorrenza del mercato del credito, data la capillare distribuzione degli uffici postali sul territorio. 21 LE POLITICHE PER IL SUD, COMPETITIVITA’ E INTERNAZIONALIZZAZIONE Mezzogiorno parte più vulnerabile del sistema economico – Nel 2009 le esportazioni dal Sud hanno subito una flessione molto pesante, pari al 29,4%. Non solo, ma la quota del Mezzogiorno sul totale dell’export italiano è bruscamente diminuita, attestandosi su un valore di poco superiore all’8%. Ancora più bassa è la quota meridionale nelle partecipazioni produttive italiane all’estero, pari al 3% in termini di addetti. L’aspetto più preoccupante è la scarsa capacità dei territori del Sud di attrarre investimenti stranieri: appena il 5% sul totale degli addetti nelle partecipazioni estere in Italia. Quali settori risentono della crisi dell’export - L’impatto della crisi si è fatto sentire in tutti i settori, pur se con intensità diversa: oltre un terzo della caduta è attribuibile ai derivati del petrolio. I mezzi di trasporto e la metallurgia hanno risentito pesantemente del contesto economico, mentre l’industria alimentare ha fatto registrare un piccolo incremento delle proprie quote sui mercati esteri. Le specificità regionali dell’export meridionale – Il calo più brusco nel 2009 lo hanno avuto le esportazioni dalla Sicilia e dalla Sardegna, essenzialmente per la caduta dei prezzi dei derivati del petrolio. La Campania ha recuperato, a sua volta, il primo posto nella graduatoria delle Regioni esportatrici del Sud. Il Mezzogiorno detiene una quota relativamente elevata dei traffici di perfezionamento attivo, sui quali è previsto dalla normativa europea un trattamento agevolato, trattandosi di merci importate solo temporaneamente nel territorio comunitario per essere trasformate o lavorate prima di essere riesportate. Il fenomeno è concentrato in particolare in alcune Regioni, in prima fila la Campania, soprattutto per le operazioni svolte nel polo aeronautico napoletano e per l’industria agro alimentare del distretto nocerino – sarnese. Gli assi di sviluppo al Sud – Il Quadro Comunitario di Sostegno 2000 – 2006 ha tradotto in sei assi di intervento prioritario alcune aree che presentano rilevanti potenzialità di sviluppo, ma, al tempo stesso, evidenti carenze: risorse naturali, risorse culturali, risorse umane, sistemi locali di sviluppo, città, reti e nodi di servizio. Risorse naturali: negli ultimi anni sono diminuite dell’8,8% le famiglie con problemi di erogazione dell’acqua, scendendo dal 30% al 20%. La raccolta differenziata dei rifiuti è cresciuta dal 2,2% al 14,1%. Risorse culturali: Campania, Molise e Sicilia sono le Regioni meridionali che hanno maggiormente valorizzato le risorse culturali. Risorse umane: è aumentata la quota di famiglie povere al Sud, raggiungendo il 27,5% del totale. Ed è cresciuto l’abbandono scolastico nel primo anno di scuola secondaria dal 10,5% al 13,5%. Sistemi locali di sviluppo: prosegue la perdita di produttività in molti dei settori economici del Mezzogiorno. Città: è aumentato il verde pubblico e c’è una maggiore diffusione di asili nido. Reti e nodi di servizio: è cresciuta del 13,5% la quota di piccole imprese che dispone di personal computer. Gli assi di sviluppo a livello regionale – L’Abruzzo è la Regione con valori più simili alla media italiana. La Campania è ancora carente in tutti gli assi, va un po’ meglio solo nel settore delle risorse culturali, così come la Puglia. La Basilicata si conferma come Regione meridionale che ha standard superiori alla media. La Calabria associa a valori sistematicamente più bassi una struttura socio economica molto squilibrata, così come la 22 Sicilia. La Sardegna ha, invece, un andamento più regolare, ma al di sotto delle medie di riferimento. In definitiva, i risultati sono ancora complessivamente deludenti. I tagli al Fas cominciati nel 2008 – Il rapido deterioramento del quadro macro economico nazionale ha orientato la scelta del Governo di impiegare le risorse del Fondo per le Aree Sotto Utilizzate per interventi prioritari destinati al rilancio dell’economia. Nel secondo semestre del 2008 le risorse del Fas apparivano, peraltro, inutilizzate in percentuale elevata. Di qui la decisione di impiegarle sistematicamente in funzione anticiclica, anche al di fuori delle aree destinatarie delle politiche di coesione. Nel corso del 2008 numerosi interventi hanno previsto l’utilizzo del Fas a copertura di oneri correnti. A fine dicembre 2008 una delibera del Cipe ha rideterminato per il periodo di programmazione 2007 – 2013 le risorse Fas stanziate dalla Finanziaria 2007 per un totale di 64 miliardi e 379 milioni in 52 miliardi e 768 milioni. La riduzione totale è stata di 12 miliardi e 900 milioni. I tagli al Fas proseguiti nel 2009 e nel 2010 – Nel corso dei primi mesi del 2009 c’è stata una piccola reintegrazione della dotazione del Fondo Aree Sotto Utilizzate per un miliardo e 200 milioni. La successiva delibera del Cipe ha quantificato in 27 miliardi e 27 milioni le risorse del Fas da assegnare alle Regioni e Province autonome, e in 25 miliardi e 409 milioni quelle da destinare alle amministrazioni centrali. Il Fas di competenza nazionale è stato a sua volta ripartito in tre fondi settoriali: al Fondo sociale per l’occupazione sono stati dati 4 miliardi, al Fondo infrastrutture 5, al Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia reale 9. Quest’ultimo non è vincolato, come gli altri due Fondi, alla realizzazione di politiche di sviluppo e coesione, e perciò è stato utilizzato per 7 miliardi e 122 milioni per interventi diversi: per esempio, il finanziamento del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese e l’incremento del Fondo conti dormienti destinato all’indennizzo dei risparmiatori vittime di frodi finanziare. Invece i 27 miliardi del Fas di competenza regionale sono stati ripartiti tra le due macro aree ma non rispettando, però, il vincolo territoriale: in quanto al Mezzogiorno sono andati 21 miliardi e 800 milioni, al Centro Nord 5 miliardi e 195 milioni. Risorse Fas per coprire i buchi della sanità - A fine marzo 2010 il ministero della Salute ha previsto che le risorse Fas possano essere utilizzate per il ripiano dei disavanzi sanitari di alcune Regioni: 1 miliardo per la Calabria, 420 milioni per il Lazio, 67 per il Molise, 500 per la Campania. Cosa dice la Svimez - “Serve un profondo processo di ristrutturazione dell’apparato produttivo meridionale, che deve essere accompagnato da più efficaci politiche di sviluppo che pongano le condizioni per cogliere le sfide e le opportunità nel “nuovo” scenario che si aprirà all’uscita dalla crisi. Bisogna puntare su un Mezzogiorno come “frontiera” del Paese, verso il Mediterraneo. Una specifica politica per le aree deboli, pur se riformata, è ancora indispensabile, al fine di favorire i processi di modernizzazione, presenti anche al Sud, e le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale che torneranno a presentarsi”. 23 POVERTA’ Nel 2010, anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale, secondo Unione Europea e Lisbona 2010, molti paesi del Vecchio Continente sono tornati a fare i conti con un fenomeno in crescita e mai completamente debellato, difficilmente definibile con un unico indicatore comune dal punto di vista statistico. Il nostro Paese, inoltre, è uno dei pochi a essere privo di interventi di integrazione dei redditi, salvo la cassa integrazione, il principale ammortizzatore sociale a cui si è ampiamente ricorso, dove possibile, durante la crisi. Da 500 a 1.000 euro al mese – In base agli ultimi dati disponibili (2007) il 14% delle famiglie meridionali vive con meno di 1.000 euro al mese, un dato quasi tre volte superiore all’altra ripartizione (5,5%). Nemmeno una famiglia su 4 al Sud guadagna più di 3mila euro al mese, mentre al Centro-Nord la percentuale è del 42%. I più ricchi in Abruzzo (28,4%) e Puglia (28,1%), i più poveri in Sicilia (solo il 19%). A livello regionale, ad avere un reddito massimo di 12mila euro l’anno sono oltre il 17% delle famiglie calabresi e lucane, oltre il 16% delle molisane e siciliane, oltre il 14% le campane, quasi l’11% delle pugliesi. Vivono poi con meno di 500 euro al mese oltre il 3% delle famiglie meridionali, contro lo 0,9% del Centro-Nord. In testa alla classifica la Calabria, con 4 famiglie su 100, seguita da Campania e Sicilia (3,7%), Basilicata (3,1%), Molise (2,9%), Puglia (2,2%), Sardegna (1,5%), Abruzzo (1,4%). Fatto pari a 1 il reddito medio nazionale, il Sud si ferma al 77%, contro il 112% del centro-Nord, con punte del 71% in Calabria e Sicilia, che arrivano a poco più della metà nelle coppie senza figli calabresi, con la moglie under 64 anni, e tra gli autonomi. Da notare che al Sud i pensionati sono più ricchi dei lavoratori autonomi (82% contro il 68%), con punte basse in Calabria (76 contro 58), Sicilia (80 contro 65), Campania (82 contro 64). Studiare, in più, paga sempre: i laureati al Sud arrivano a un reddito pari all’89% del nazionale, 10 punti in più di chi ha solo la licenza elementare. In valori assoluti, nel 2007 il reddito mediano è stato al Centro Nord di 21.066 euro, al Sud quasi 6.500 euro in meno, 14.500, con forti differenze regionali: i più ricchi in Sardegna (17.101 euro) e Abruzzo (16.820), i più poveri in Calabria (13.350 euro). Un unico stipendio e più familiari a carico - Nel 47% delle famiglie meridionali vi è un unico stipendio, addirittura il 54% in Sicilia. Hanno inoltre a carico tre o più familiari il 12% delle famiglie meridionali, un dato quattro volte superiore al Centro-Nord (3,7%), che arriva al 16,5% in Campania. In oltre il 30% delle famiglie meridionali con un unico percettore di reddito un solo stipendio deve sfamare almeno 2 familiari a carico, in oltre il 17% dei casi più di tre. Anche la disoccupazione si fa sentire particolarmente: nelle famiglie del Sud è presente un disoccupato nel 12% dei casi, più del doppio dell’altra ripartizione (5,7%), con la punta del 15% in Calabria. Il 4,4% delle famiglie sarde ha due o più disoccupati a carico. Riguardo al titolo di studio, in oltre il 32% delle famiglie meridionali lo stipendio principale è portato a casa da chi è in possesso di licenza elementare, o nessuno, una quota superiore di quasi 8 punti rispetto al Centro-Nord, mentre solo nel 10,6% delle famiglie meridionali è laureato. 24 Il rischio resta anche con due stipendi - A rischio povertà a causa di un reddito troppo basso quasi un meridionale su 3, contro 1 su 10 al Centro-Nord. In valori assoluti, al Sud, si tratta di 6 milioni 838mila persone, fra cui 889mila lavoratori dipendenti e 760mila pensionati. Riguardo al titolo di studio, oltre 1 milione 100mila ha un livello medio-alto, con 122mila laureati. Quasi 2,5 milioni ha un’età compresa tra i 25 e i 49 anni. A livello di composizione familiare le più colpite dal rischio sono i single con figli a carico, ben il 47,5% del totale, e il 42% degli anziani soli. Anche i monoreddito non se la passano bene: il 46% delle famiglie meridionali è a rischio povertà contro il 24% del Centro-Nord. Da segnalare che non sempre, al Sud, uno stipendio in più oltre a quello base modifica la situazione: in quasi una famiglia su 4 (23,9%) con due redditi il rischio rimane. Se è poi presente anche un disoccupato, il rischio aumenta: al Sud il 48% delle famiglie con un disoccupato è a rischio, contro meno della metà nell’altra ripartizione (23,2%). Quando non si possono comprare vestiti, riscaldamento, medicine – La povertà morde particolarmente nelle piccole scelte quotidiane: nel 2008 nel 30% delle famiglie al Sud sono mancati i soldi per vestiti necessari e nel 16,7% dei casi si sono pagate in ritardo bollette di luce, acqua e gas. Otto famiglie su cento hanno tirato la cinghia rinunciando ad alimentari necessari (il 12% in Basilicata), il 21% non ha avuto soldi per il riscaldamento (27,5% in Sicilia) e il 20% per andare dal medico (il 25,3% in Campania e il 24,8% in Sicilia). Nel 2008 è arrivato con difficoltà a fine mese oltre una famiglia su 4 (25,9%) contro il 13,2% del Centro-Nord. Ben il 44% delle famiglie meridionali, quasi una famiglia su due, non ha potuto sostenere una spesa imprevista di 750 euro (26% al Centro-Nord). Crisi, welfare e povertà – Nel 2009 in Italia hanno perso il lavoro per la crisi 380mila persone. Di queste, 194mila al Sud (145mila uomini e 49mila donne). Su 194mila, ben 125mila erano giovani tra i 15 e i 29 anni. La dinamica aggrava un contesto in cui il tasso di attività femminile e giovanile è già bassissimo. Incrociando i dati della Cassa integrazione e delle forze lavoro risulta che su 186 posti di lavoro persi al Nord, gli interventi di CIG hanno interessato 438mila persone, mentre al Sud su oltre 200mila occupati in meno le misure utilizzate sono state di appena 96mila unità. In altri termini, al Nord per ogni persona che perde il lavoro, 2 sono protette; al Sud è l’opposto, solo un lavoratore su 3 ottiene la CIG. La bomba sociale è devastante: molti lavoratori precari, perso il lavoro, al Sud, non sono stati minimamente tutelati. Cosa dice la SVIMEZ – La crisi ha evidenziato la distanza tra soggetti tutelati e lavoratori precari privi di garanzie, una polarizzazione che si riflette anche a livello territoriale, tra Nord e Sud, dove sono numerose le famiglie monoreddito. Senza un recupero dei tassi di attività giovanili e femminili il rischio di povertà è destinato a crescere nel tempo. Serve una riforma del welfare che introduca misure individuali e soggettive a tutela dei lavoratori espulsi dal ciclo produttivo, indipendentemente dal settore, dimensione e tipologia di imprese. Il bonus famiglie varato dal Governo va nella giusta direzione, ma è di importo troppo limitato per incidere sulle condizioni di vita; avrebbe bisogno di più risorse e di misure di armonizzazione all’imposta personale sui redditi. In questo senso la riforma del welfare, oltre a un elemento di equità generazionale, consisterebbe di attuare la più importante politica meridionalistica. 25 POPOLAZIONE, SCUOLA E MERCATO DEL LAVORO, MIGRAZIONI Sessanta milioni di italiani – Alla fine del 2009 la popolazione italiana residente ha consolidato il superamento della soglia dei 60 milioni di abitanti, concentrati per quasi il 66% al Centro- Nord. Il Mezzogiorno a fine 2009 ha superato i 20,8 milioni. Resta un’area più giovane, con un’età media di 41 anni rispetto ai 44 del Centro-Nord. Natalità e mortalità – Nel 2008 il numero medio di figli per donna è stato 1,34 nel Mezzogiorno e 1,42 nel Centro-Nord. È dal 2006 che le donne del Centro-Nord fanno più figli delle donne del Sud. Tra le regioni a più bassa fertilità la Sardegna, il Molise e la Basilicata. Da notare che al Centro-Nord più di un nato su 5 nel 2008 ha la madre straniera, mentre nel Sud soltanto 1 su 20. L’età media della maternità è stata nel 2008 di 32 anni al Centro-Nord contro i 30,7 del Sud. Nel 2009 il Centro-Nord ha registrato un tasso di natalità leggermente superiore a quello del Sud: 9,5‰ contro 9,4‰. Campania e Sicilia hanno mantenuto natalità elevate, intorno al 10 per mille, come Valle d’Aosta, Lombardia e Trentino Alto Adige. Per quanto riguarda la mortalità, la media meridionale nel 2009 è stata dell’9,2‰, mentre al Centro-Nord il 10,1‰. Nel 2009 soltanto due regioni meridionali su otto, Campania e Puglia, hanno evidenziato un incremento naturale positivo. La speranza media di vita nel 2009 è stata per le donne di 83,6 anni nel Mezzogiorno e 84,4 anni al Centro-Nord. Le donne più longeve nelle Marche, con 85,4 anni, le meno longeve in Campania e Calabria (83). Per gli uomini la speranza media è al Centro-Nord di 79,2 anni, al Sud di 78,3. Gli uomini più longevi nelle Marche (80 anni), i meno in Campania (77). Figli e matrimoni – Resiste al Sud la tendenza a contrarre matrimonio a un’età media relativamente più giovane rispetto al Centro-Nord. L’età media degli sposi meridionali nel 2008 è stata di 32 anni per gli uomini e di 29 anni per le donne, in aumento rispetto a dieci anni prima, quando sia gli uomini che le donne si sposavano mediamente prima dei trent’anni. Al Sud 3 matrimoni su 4 sono ancora celebrati secondo rito religioso ed è minoritaria rispetto al Centro-Nord la percentuale di matrimoni con un coniuge straniero. Mercato del lavoro: il Sud torna indietro di dieci anni – Nel 2009 gli occupati in Italia sono stati 23 milioni e 25mila unità, 380mila in meno rispetto al 2008. Il tasso di occupazione nella media del 2009 è sceso di quasi un punto percentuale rispetto al 2008, da 58,7% a 57,5%. Su 380mila posti di lavoro in meno in tutto il Paese, 186 mila sono stati al Centro-Nord (- 1,1%). Situazione più pesante nel Mezzogiorno, con 194mila unità in meno (-3%). Se si analizzano gli andamenti trimestrali dell’occupazione, emerge che la crisi è iniziata prima al Sud e lì sembra durare più a lungo. Gli occupati al Sud sono quindi tornati ai livelli di dieci anni fa. Dei circa 530mila posti di lavoro persi nell’ultimo anno e mezzo, 335mila sono al Sud. Crescono gli inattivi, più dei disoccupati – Dopo una riduzione di 110mila unità nel 2008, nel 2009 gli inattivi in età lavorativa sono cresciuti di 329mila unità (+2,3%), in termini assoluti un incremento superiore a quello registrato dai disoccupati. 26 Mercato del lavoro regionale – Nel 2009 tutte le regioni meridionali sono state interessate da difficoltà occupazionali. Perdite più consistenti in Abruzzo (-4,6%, pari a 23.800 posti di lavoro in meno), Campania (-4,1%, pari a 68.700 posti di lavoro in meno) e Puglia (- 3,8%, 49.200 unità in meno). In linea con il calo del 3% degli occupati meridionali il Molise (-3,1%, meno 3.600 posti) e la Sardegna (-3%, meno 18.600 posti di lavoro). Cifre più contenute, pur se negative, in Basilicata (-2,7%, pari a 5.200 posti di lavoro), Calabria (- 1,5%, 9.100 posti) e Sicilia (-1,1%, 15.700 posti di lavoro). Occupati e settori – La domanda di lavoro in agricoltura continua a scendere, soprattutto al Sud (-5,8% contro il +0,9% del Centro-Nord). In calo anche l’industria, che segna -6,3% al Sud e -2,7% nell’altra ripartizione. La dinamica dell’occupazione industriale è sensibilmente negativa in tutte le regioni del Sud, particolarmente in Sicilia (-8,4%), Campania (-7,2%) e Puglia (-7,3%), con l’eccezione della Calabria (+0,4%). Giù anche i servizi, con un calo dell’1,6%, ben più marcato che nell’altra ripartizione (-0,4%). In valori assoluti, il Sud ha perso nel 2009 25mila unità nel settore agricolo (+4.300 al Centro- Nord), 94mila nell’industria (-145mila nell’altra ripartizione) e 74.300 unità nei servizi (- 44.700 nel Centro-Nord). Occupati e contratti – Nel Sud nel 2009 i dipendenti sono calati del 2,9%, pari a 138mila unità, gli autonomi del 3,2% (-55mila occupati). In Italia gli atipici nel 2009 sono scesi del 4,1%, ma nel Sud il calo è stato più forte, pari a -5,6%, cioè 82mila unità. In picchiata tra gli atipici i contratti a termine, -7%, mentre i contratti part time scendono del 3,7%, pari a 30mila unità in meno. Da segnalare che nel Sud il contratto atipico viene spesso usato non come tipologia più flessibile nell’accesso al primo lavoro, ma in sostituzione di contratti standard, trasformandosi così da strumento di flessibilità in trappola di precarietà. In forte calo al Sud anche le collaborazioni coordinate continuative (-11,7%, pari a 10mila unità). Disoccupati, giovani, impliciti e non – Nel 2009 il tasso di disoccupazione nazionale è salito al 7,8% rispetto al 6,7% del 2008: 12,5% al Sud, 5,9% al Centro-Nord. I disoccupati sono aumentati più al Centro-Nord (+29,9%) che al Sud (+1,4%). In testa alla non invidiabile classifica, la Sicilia (13,9%), seguita dalla Sardegna (13,3%) e dalla Campania (12,9%). In valori assoluti i disoccupati sono aumentati di 12.500 unità nel Mezzogiorno, di cui 10.400 in Puglia (+6,2%). Nella classe di età 15-24 anni nel 2009 la disoccupazione è arrivata in Italia al 25,4%, quattro punti in più del 2008. A livello territoriale, arriva al 20,1% al Centro-Nord (+5,6% rispetto al 2008) e al 36% al Sud (dal 33,6% del 2008).Qui crescono anche i disoccupati di lunga durata (sono il 6,6%del totale, erano il 6,4% nel 2008). All’Italia spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione giovanile più alto in Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Dal 2004 al 2009 il Sud ha perso 143mila unità, pari a -2,2%, percentuale che sale a -15,2% nella classe di età 15-35 anni. Nel solo 2009 gli occupati al Sud dai 15 ai 24 anni crollano del -13,2%, -7,7% dai 25 ai 31 anni, mentre si mantengono stabili dai 45 ai 54 anni (+0,2%) e addirittura crescono in età avanzata, over 55, + 3,6%. Cali più contenuti dell’occupazione giovanile al Nord (-10,8% tra 15 e 24 anni, -5,8% tra 25 e 34). Da confronto con dati Ue 2008 emerge il divario nel tasso di 27 occupazione di 13 punti percentuali (24,4% contro 37,5%) che sale al 20 se si considera il Mezzogiorno (17%). Disoccupati impliciti ed espliciti - Inoltre il tasso di disoccupazione rileva una realtà in parte alterata. Nel 2009 la disoccupazione è aumentata 30 volte di più al Centro-Nord rispetto al Sud, +29,9% a fronte di +1,4%. Come già rilevato nel Rapporto SVIMEZ dello scorso anno, al Sud continua a crescere la zona grigia della disoccupazione, che raggruppa scoraggiati (persone che non cercano lavoro ma si dicono disponibili a lavorare), disoccupati impliciti e lavoratori potenziali. Considerando questa componente, il tasso di disoccupazione effettivo del Sud salirebbe nel 2009 a sfiorare il 23,9% (era stimato nel 22,5% nel 2008). Con forti differenze regionali: in Campania arriverebbe al 25,2%, in Calabria al 25,3%, in Sicilia addirittura al 27,2%. Cifre diverse anche per il Centro-Nord: in Piemonte arriverebbe a sfiorare il 12% e in Lombardia al 9,5%. Migrazioni – Caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni. Oltre a questa mobilità unidirezionale, altrettanto tipicamente italiano è la presenza, accanto a trasferimenti permanenti di residenza anagrafica, di trasferimenti “temporanei”, i cosiddetti pendolari di lungo raggio, che fisicamente lavorano e vivono per buona parte della settimana al Centro-Nord, ma che mantengono casa e famiglia al Sud. Migranti, pendolari e crisi – Nel 2009 114mila persone si sono trasferite dal Sud al Nord, 8mila in meno rispetto al 2008. In crescita invece i trasferimenti in direzione opposta, da Nord a Sud, arrivati nel 2009 a 55mila unità (erano 50mila l’anno precedente). Tra il 1990 e il 2009 circa 2 milioni 385mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno. La vera America, per i meridionali, resta il Centro-Nord, dove si dirigono 9 emigranti su 10. Solo 1 su dieci si trasferisce all’estero: in valori assoluti, dal 1996 al 2007, parliamo di 242mila persone, di cui oltre 13mila laureati. In testa alle preferenze la Germania, che attrae oltre un terzo degli emigranti verso l’estero, per il 20% laureati; seguono Svizzera e Regno Unito. Riguardo alla provenienza, in testa per partenze la Campania (38mila nel 2007), seguita da Sicilia (26.200) e Puglia (21.300). La regione più attrattiva per il Mezzogiorno resta la Lombardia, che ha attratto nel 2007 quasi un migrante su quattro, pari a quasi 29mila persone, seguita dall’Emilia Romagna, con 22mila unità in più. In Abruzzo e Molise la prima regione di destinazione resta il Lazio, mentre per la Campania è l’Emilia Romagna. I migranti sono soprattutto uomini, anche se il Lazio è una regione che attrae più donne. Riguardo al titolo di studio, i laureati sono il 17,5%, e la regione che ne attrae di più è il Lazio (25%). L’emigrante tipo ha 31 anni in media: i più giovani, under 30, si dirigono in Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, mentre l’età media di chi si trasferisce nel Lazio è di 33,8 anni. A livello di aree urbane, dal 2001 al 2007 Roma ha intercettato 43mila meridionali, Milano 32mila, Bologna 21mila, Reggio Emilia 9mila, Bergamo 8mila, Verona e Firenze 7mila. 28 A trasferirsi al Centro Nord sono soprattutto napoletani (quasi 75mila), palermitani (21mila) e baresi (oltre 10mila). Perdite forti anche a Caserta (quasi 10mila) e Foggia (oltre 7mila). Taranto perde circa 8.500 persone, Torre del Greco 13mila, Nola e Aversa 8mila. Riguardo al titolo di studio, la Campania perde nel periodo in questione 18mila laureati (quasi 8mila a Napoli) e la Puglia 15mila (2.200 a Bari, quasi 2mila a Taranto). La crisi ha colpito duro i pendolari, generalmente giovani, laureati e precari. Nel 2009 sono stati 147mila, in calo del 14,8% rispetto al 2008, pari a 26mila unità. Oltre 60mila sono campani, 36.500 i pugliesi, 35mila i siciliani. A seguire, abruzzesi (19mila), calabresi (16.800), lucani (14mila) e molisani (8.300). È un’emigrazione diversa dagli anni 60: il trolley e il pc al posto della valigia di cartone, molti con la laurea in tasca, e moltissime donne. I posti di lavoro disponibili nel Mezzogiorno sono in numero assai inferiore a quello degli occupati; il sistema produttivo arretrato non è in grado di richiedere e assorbire il personale ad alta qualificazione che sfornano le Università e non solo. Sono giovani e con un livello di studio medio-alto: il 75% ha meno di 45 anni e quasi il 50% svolge professioni di livello elevato. Oltre il 26% è laureato e quasi il 43% lavora da meno di tre anni. Non lasciano la residenza generalmente perché non lo giustificherebbe né il costo della vita nelle aree urbane né un contratto di lavoro a tempo. Sono soprattutto maschi (76%), singles (50%), dipendenti (90%) full time in una fase transitoria della loro vita, come l’ingresso o l’assestamento nel mercato del lavoro. A livello regionale, l’identikit del pendolare cambia leggermente: l’84% dei pendolari in Trentino Alto Adige opera nei servizi, mentre chi vuole lavorare nell’industria si dirige in Emilia Romagna, Umbria o va all’estero (22%). Il Lazio assorbe molti laureati, mentre Veneto, Friuli e Marche molti pendolari privi di titolo di studio o con licenza elementare. La maggior parte dei pendolari in Valle d’Aosta è donna e svolge lavoro dipendente, mentre chi va all’estero è soprattutto uomo (89%). I lavoratori autonomi preferiscono Lazio e Marche. I pendolari part time si concentrano in Umbria (13,8%). Scuole, atenei e abbandoni scolastici – Negli anni 2000 il Mezzogiorno ha aumentato di 8 punti il tasso di scolarizzazione superiore, dall’86 al 94%, arrivando a superare il Centro-Nord, stabile al 92%. Nel 2009 77 diciannovenni meridionali su 100 erano diplomati, contro i 72 del Centro-Nord. Resta comunque lontano per entrambi l’obiettivo di Lisbona 2010, con l’85% di diplomati in rapporto alla popolazione. I tassi di abbandono scolastico rimangono più alti al Sud: 13 su 100 lasciano dopo il primo anno di scuola superiore contro il 10 del Centro-Nord. A pesare, le condizioni di degrado sociale e familiare. Università – Dal 2000 al 2008 il tasso di passaggio all’università al Sud, come al Nord, è rimasto stabile (dal 62,6 al 62,4): prima ha toccato picchi di oltre il 72% nel 2002, poi è sceso gradualmente, tornando ai livelli di dieci anni fa. Tra il 2000 e il 2005 i laureati sono raddoppiati, passando al Sud da 54mila a 113mila. In forte crescita anche i laureati in materie scientifiche, saliti al Sud dal 4,2 per mille abitanti del 2000 a 8,2 del 2008. Non solo numeri: studio e qualità – Nonostante i buoni risultati conseguiti, pesa al Sud il divario di qualità della formazione. In base a elaborazioni su dati della Prova nazionale svolta nel 2009 all’esame di stato di terza media emerge che i ragazzi del Nord che hanno competenze superiori in italiano sono il 28% contro il 25,7% del Sud, e in matematica il 29 18,7% contro il 16,2%. Da segnalare che in Molise i dati sono superiori alla media nazionale (rispettivamente 28,5% e 18,3% a fronte di dati medi del 27% e 17,5%). Chi lavora, chi cerca il lavoro e chi no. Anche al Nord – Nel 2009 i giovani italiani Neet (Not in education, employment or training), cioè che non studiano, non lavorano, né lo cercano, sono aumentati del 6,6% rispetto al 2008, sforando quota 2 milioni. Di questi, 1,2 milioni sono al Sud e 850mila al Centro-Nord. Da segnalare che in questo senso il Nord si sta meridionalizzando: qui gli inattivi sono aumentati dell’81% dal 2005 al 2009. Spina nel fianco, le donne: nel 2009 1 ragazza su tre (15-29 anni) al Sud non ha lavorato né studiato. Pesa ancora un modello familiare con un unico stipendio in famiglia e il ruolo sociale della donna, confinata tra le mura domestiche. Dal 2004 al 2009 il Sud ha perso 143mila occupati, pari a -2,2%, percentuale che sale a - 15,2% nella classe di età 15-35 anni. Nel solo 2009 gli occupati al Sud dai 15 ai 24 anni crollano del 13,2%, -7,7% dai 25 ai 34 anni, mentre si mantengono stabili dai 45 ai 54 anni (+0,2%) e addirittura crescono in età avanzata, over 55, + 3,6%. Cali più contenuti dell’occupazione giovanile al Nord (-10,8% tra 15 e 24 anni, -5,8% tra 25 e 31). Dal confronto con dati Ue 2008 emerge il divario nel tasso di occupazione di 13 punti percentuali (24,4% contro 37,5%) che sale al 20 se si considera il Mezzogiorno (17%). Resta forte, anche nel 2009, la differenza nel tasso di attività tra le due ripartizioni: 40,8% al Sud contro 52,8% al Centro-Nord. Stacco ancora più forte nelle classi di età più giovani: al Nord il tasso è dell’84% in età 25-31 contro il 60% del Sud. In altri termini, nel 2009 al Centro-Nord sono attivi 84 giovani su 100 in età 25-34 anni, mentre al Sud solo 60. Divario forte anche nel tasso di disoccupazione: 12,5% al Sud, più del doppio del Centro- Nord (5,9%). A livello di classi di età al Sud rimangono percentuali a due cifre fino ai 44 anni. Il tasso di disoccupazione è del 36% nei 15-24enni, 18% tra 25 e 34 anni, ancora del 10% tra i 35 e 44 anni (mentre al Centro-Nord è del 4,8%). Giovani, welfare e crisi - L’impatto della crisi si è fatto sentire su tutti i lavoratori, indipendentemente dal titolo di studio. La differenza dei tassi di occupazione tra le due ripartizioni resta nell’ordine dei 20-30 punti percentuali nelle varie classi di età. Critica la situazione al Sud soprattutto degli occupati con titolo alto. Nel 2009 il tasso di occupazione di laureati 25-34enni è stato del 53% contro il 75% del Centro-Nord. Solo in età adulta, oltre i 40 anni, il tasso di occupazione dei laureati si allinea tra le due ripartizioni: 90,3% al Sud, 92% al Centro-Nord in età 45-54 anni. Cosa dice la SVIMEZ – Nel Mezzogiorno le debolezze della rete formativa italiana si associano ad un contesto produttivo debole e ad un sistema sociale sostanzialmente bloccato, impedendo così ai progressi quantitativi realizzati nei tassi di istruzione di tradursi in sviluppo economico e civile. Le misure di policy volte ad incrementare l’offerta di competenze da parte dei nuovi entranti sul mercato del lavoro hanno finito per incrementare in questi anni il livello di educational mismatch, tra qualità dell’offerta di lavoro e competenze richieste dalle imprese. La crisi si sta scaricando sulle generazioni ancora in cerca di lavoro, che in questo modo ritardano molte decisioni individuali e sociali legate alla crescita personale. Permane un profondo senso di scoraggiamento tra i giovani, che spiega, da un lato, la sfiducia verso la possibilità di iscriversi all’Università per trovare un lavoro adeguato dopo la laurea, dall’altro i rientri di emigranti e pendolari dal Centro-Nord, che ritornano sconfitti, in attesa di ripartire. 30 LE POLITICHE CONTRO LA CRIMINALITA’ Criminalità organizzata e crisi – I numerosi arresti di esponenti mafiosi compiuti nel periodo più recente hanno forse portato a un eccesso di ottimismo, quasi che la criminalità organizzata stesse per essere definitivamente sconfitta. In realtà, i pur brillanti risultati hanno aperto una fase di transizione alla ricerca di nuove leadership, che non ha al momento determinato un indebolimento nel controllo della mafia sul territorio. La Mafia Spa è un settore che non conosce crisi. Le organizzazioni criminali, veloci e attente ad adeguare il proprio core business ai cambiamenti esterni, oltre ad essere radicate nei territori meridionali d’origine, si vanno sempre più diffondendo in numerose altre regioni italiane, in cui attuano attività economiche diverse. Quello della presenza mafiosa è l’unico divario territoriale Sud-Nord che nel tempo si sta colmando. Non a caso, la crisi ha portato le organizzazioni criminali a potenziare la pratica dei prestiti alle aziende a tassi usurari. Il giro d’affari nel 2009 è stato di 56 miliardi di euro. In base a dati Svimez, 500mila sono i commercianti colpiti da truffe, 200mila da usura, 160mila da racket, 90mila da furti e 15mila da contrabbando. Al vertice del bilancio mafioso resta il traffico di stupefacenti (60 miliardi di euro), le ecomafie (16) e l’usura (15). Gli arresti eccellenti e le misure restrittive messe in atto dal Governo contro la criminalità hanno dato uno scossone, ma non hanno determinato il crollo. In questo periodo di transizione si stanno inserendo nuove professionalità mafiose e continua la pratica del consenso e della mediazione per condizionare appalti e opere pubbliche. Cosa Nostra - La mafia siciliana, dopo gli arresti eccellenti degli ultimi anni, sta vivendo una fase di assestamento e riorganizzazione interna che trasmette all’esterno un atteggiamento meno violento e più mimetico. Essa sta però mostrando una grande capacità di mantenere intatta la sua vitalità e pericolosità. L’andamento del reati in Sicilia dal 2007 al 2009 rileva una flessione generale, nei reati associativi (da 25 a 7), nell’usura (da 22 a 12), nel riciclaggio (49 episodi segnalati). In calo anche le denunce per estorsione, danneggiamento, incendio. La ‘ndrangheta - Radicata in Calabria, ma ormai presente in tutto il mondo, è ormai diventata leader nel traffico mondiale di droghe, ma forte anche nella gestione degli appalti. Da segnalare nel 2009, rispetto al 2007, accanto a una generale flessione delle denunce dei reati in Calabria, la crescita di usura e riciclaggio. Forte la sua presenza in Lombardia, con la gestione di attività operanti nel settore dell’edilizia, delle forniture alimentari, dell’abbigliamento e della ristorazione. Sacra Corona Unita - Fortemente ridimensionata dall’azione di contrasto operata dalle Forze dell’ordine negli ultimi anni, la “Sacra Corona Unita” resta concentrata nel traffico di stupefacenti, estorsioni, speculazione edilizia, usura. La camorra - “Specializzata” in traffico di stupefacenti, estorsioni, racket, gioco d’azzardo e usura, negli ultimi anni la camorra ha visto crescere il core business soprattutto nell’offerta di servizi alle imprese, approfittando anche della domanda di abbattimento dei costi da parte di imprese legali. Con lo smaltimento illegale dei rifiuti, le fatturazioni “truccate”, l’espulsione di imprese “non gradite” nella gestione di impianti, la camorra influenza in modo determinante l’economia campana. 31 Agricoltura e criminalità – La presenza delle cosche nel settore agricolo investe l’intera filiera, con più di 150 reati al giorno, sei ogni ora, un agricoltore colpito su tre. Da segnalare, tra truffe, usura, abigeato, danneggiamenti alle colture, l’imposizione del pizzo “indiretto”: non più una riscossione in denaro, ma l’obbligo di utilizzare determinate imprese di pulizie, ditte di trasporto, di imballaggio, non solo al Sud, ma anche per tutte le imprese che vogliono esportare prodotti agricoli nell’area. In testa, le imprese di trasporto, pressoché totalmente in mano alla camorra, che provocano uno strangolamento dei prezzi per il produttore agricolo, e un aumento per il consumatore finale totalmente immotivato. I beni confiscati – Con la legge 50/2010 è stata istituita l’Agenzia nazionale dei Beni confiscati alla mafia, con l’obiettivo di superare le criticità nella gestione dei patrimoni sequestrati e di semplificare le procedure di assegnazione. Su 8.933 beni immobili confiscati dal 1992 al luglio 2009, i destinati sono 5.407, pari al 60,5% del totale, di cui l’86% agli Enti locali per finalità sociali. Sul totale, ben 7.559, pari all’83%, si trovano nel Mezzogiorno: il 46% in Sicilia (4.075), il 15% in Campania (1.323), il 14% in Calabria (1.300), l’8% in Puglia (722). Le aziende confiscate sono, al giugno 2009, 1.185, di cui solo il 32% è stato destinato (388), con punte del 68% nel Lazio e del 23% in Campania e Calabria. La maggior parte delle confische in Sicilia (452), seguita da Campania (227) e Lombardia (164). Le difficoltà a cui vanno incontro le aziende sequestrate sono la scarsa fiducia di cui godono presso gli istituti bancari e un carico burocratico aggiuntivo. Dei beni consegnati ai Comuni, il 52% è inutilizzato, per ipoteche, occupazioni abusive, carenza di risorse per la riconversione. 32 MEDITERRANEO E TURISMO Crisi, Mediterraneo e Mezzogiorno – L’impatto della crisi finanziaria iniziato nel 2008 si è avuto soprattutto sulle maggiori economie mondiali. Nel Rapporto dello scorso anno avevamo rilevato la maggiore tenuta dei paesi mediterranei, attraverso l’esame degli andamenti borsistici e del Pil. La tendenza si conferma anche quest’anno: a differenza dell’Unione e dell’area balcanica, il Pil dei paesi mediterranei nel 2009 registra tutti segni positivi, dal +0,7% di Israele a +2% di Algeria, +2,8% di Albania e Giordania, + 4,7% dell’Egitto, +5,2% del Marocco, fino al +9% del Libano. Segni positivi anche in base alle proiezioni per il 2010 e 2011, con valori nell’area compresi tra il 3 e il 6%. Sud ed export – Nel 2009 il calo dell’export si è fatto sentire pesantemente anche verso i paesi mediterranei, con -17,2% rispetto all’anno precedente, dato che crolla del 31,8% nel Mezzogiorno. La pesante ricaduta dello scorso anno arriva dopo un decennio di incrementi a due cifre, fino al +30,9% registrato nel 2008, a testimonianza di un trend di relazioni commerciali importanti: a livello nazionale, infatti 1 euro su 3 delle nostre esportazioni viene venduto nel Mediterraneo, mentre il Mezzogiorno vende nel Mediterraneo non Ue circa il 10% dell’export totale, contro il 6% del Centro-Nord. Negli ultimi 15 anni, dal 1994 al 2009, l’integrazione di scambi commerciali con i paesi Med, a livello nazionale, è quasi raddoppiata: le esportazioni con la Libia sono passate dallo 0,4 al 0,8%, con la Turchia dall’1 all’1,9%, con la Tunisia dallo 0,5% al 0,9%; le importazioni con l’Algeria sono salite dallo 0,9 al 2%, con la Libia dal 2 al 3,4%, con la Turchia dallo 0,6 all’1,5%. Prodotti alimentari – Analizzando nello specifico gli scambi commerciali tra Italia e Mediterraneo nel 2009 di cinque prodotti alimentari (pomodori, olive e olio, cereali e riso, agrumi, pesci e crostacei) risultano invece relazioni molto ridotte: le importazioni di agrumi dal Medio Oriente del 3,9%, di riso e cereali dal Nord Africa per il 3,3% e di olive e olio del 15%. L’analisi porta alla conclusione che iniziative di rete tra associazioni di categoria, enti locali, università, anche tra le due sponde del Mediterraneo, potrebbero aiutare a migliorare la salvaguardia dei prodotti e la penetrazione di nuovi mercati. Il caso del Distretto della Pesca, nato a Mazara del Vallo nel 2005 e composto da 118 imprese che interagiscono nella trasformazione e commercializzazione dei prodotti, e dell’Osservatorio della Pesca nel Mediterraneo, a cui aderiscono anche molti paesi nordafricani e mediorientali, vanno in questa direzione di sviluppo economico attraverso dialogo e partecipazione. Il fatto che siano state introdotte tra gli aderenti al distretto tecniche di prelievo del prodotto meno invasive verso l’ambiente e rapporti di collaborazione che permettono ai pescherecci italiani di pescare nelle acque tunisine senza timore di sequestri apre nuove prospettive di crescita, in cui il Mezzogiorno può svolgere un ruolo prezioso. Il meccanismo potrebbe portare anche a sviluppare le esportazioni fuori dal Mediterraneo, dove si fatica a vendere gli stessi prodotti in assenza di una massa critica sufficiente. Turismo e Mediterraneo – Negli ultimi anni i Paesi mediterranei della Riva Sud hanno sviluppato una notevole attrazione turistica. Sugli oltre 1,1 miliardi di presenze nell’area nel 2008, il 62% ha visitato la Riva Nord, mentre il 38% quella Sud, con un aumento in 33 quest’area di 13 punti percentuali rispetto al 2000. La destinazione preferita nell’area, dopo la Spagna, è l’Egitto. Il gap diventa ancora più forte sul fronte dei turisti stranieri: su 100 visitatori nel Mediterraneo, solo il 10% va nel Mezzogiorno, contro il 40% della Spagna. Il Mezzogiorno non riesce ad esercitare sui turisti italiani e stranieri una forte capacità attrattiva, a causa di critiche difficoltà strutturali. Il turismo è soprattutto domestico, di prossimità. Nonostante le condizioni climatiche consentano di estendere la stagione a dodici mesi l’anno, di fatto oltre il 70% delle presenze si concentra nel periodo giugno-settembre. Se si confronta la situazione del Mezzogiorno rispetto alle regioni mediterranee di alcuni paesi della Riva Nord (Spagna, Francia, Grecia e Croazia) per i quali sono disponibili dati sufficientemente omogenei, si rileva come, nonostante un capitale turistico di grande pregio, certamente non inferiore a quello degli altri paesi mediterranei, l’area meridionale attrae solo il 19,2% delle presenze complessive delle regioni considerate. La quota scende addirittura al 10,1% per le presenze straniere, rispetto al 39,6% della Spagna mediterranea, al 23,9% della Grecia e al 14,7% della Croazia, che ha meno della metà di superficie territoriale rispetto al Mezzogiorno. La concorrenza con gli altri paesi mediterranei va combattuta non tanto con la predisposizione di progetti locali definiti teoricamente dalle istituzioni, che poi non trovano riscontro reale nell’attività degli operatori. Occorrerebbe, invece, finalmente, realizzare un grande progetto Southern Italy, recuperando un’idea di qualche anno fa, naufragata per la scarsa collaborazione tra le Regioni. La strategia di questo progetto non deve essere vista come la costruzione e valorizzazione di un marchio, ma come un quadro di riferimento e come una cabina di regia con la quale coordinare l’insieme delle attività turistiche, in modo che non si sovrappongano e possano determinare reciproco valore aggiunto. Cosa dice la SVIMEZ – Nella ritrovata centralità globale del Mediterraneo, ponte e cerniera tra i paesi del Far East in espansione e le economie occidentali, il Mezzogiorno rappresenta un luogo dove è possibile pensare una nuova integrazione economica e politica, fatta di percorsi di rafforzamento delle filiere produttive, condivisione di politiche comuni nel campo della ricerca, della formazione, del marketing di prodotto. Serve quindi una rinnovata azione politica in questa direzione, che veda l’Italia non più figlia debole dello scenario internazionale, ma paese di “frontiera”, che guidi come avanguardia il Mezzogiorno verso la crescita. 34 GREEN ECONOMY, INNOVAZIONE, RICERCA E SVILUPPO Green economy, fondi strutturali e Mezzogiorno – Energie rinnovabili ed efficienza energetica sono grandi opportunità per rilanciare la crescita, specie nel Mezzogiorno, grazie soprattutto a processi di riconversione industriale e alla produzione di nuovi beni in settori innovativi. Il ciclo di programmazione 2007-2013 destina alle energie rinnovabili, cuore della green economy, al settore dei trasporti e dei rifiuti poco più di 13 miliardi di euro, di cui circa 10 alle regioni della Convergenza: 7,4 ai trasporti, 2,8 all’energia e fonti rinnovabili, 617 milioni di euro ai rifiuti. In particolare, dei 4,7 miliardi di euro previsti dai POR delle Regioni Convergenza per i trasporti, 1,7 miliardi vanno alla Sicilia (403 milioni per trasporto urbano, 446 per ferrovie, 339 per i porti), 1,1 a Puglia e Campania, 482 milioni alla Calabria (di cui 104 di ferrovie e 126 di strade), 204 alla Sardegna, 146 alla Basilicata, 36 al Molise e 12 all’Abruzzo. Energia e imprese: un settore che non conosce crisi – Dal 2000 al 2008 la potenza degli impianti e l’elettricità prodotta con le rinnovabili al Sud è cresciuta in modo sbalorditivo. Nel periodo in questione la potenza è cresciuta del 108% nel Mezzogiorno e l’elettricità prodotta del 151%, staccando di 3 e 4 volte il dato nazionale (rispettivamente 31% e 15%). Quote ancora più grandi a livello regionale: la Sardegna e la Puglia aumentano la produzione di 5 volte, la Sicilia addirittura di 10. A scoraggiare però l’attrazione di altre industrie al Sud, locali o multinazionali, è la bassa qualità delle infrastrutture presenti, la rete elettrica arretrata e le interruzioni di servizio elettrico. Il caso dell’eolico off shore – A parte la terraferma, le migliori potenzialità di utilizzo dell’energia eolica vengono dai venti del mare. Il Mediterraneo, e il Mezzogiorno, godono di condizioni favorevoli soprattutto in Sardegna, Sicilia, Calabria e Puglia, con possibilità per l’intero Paese di arrivare a raggiungere il 10% della produzione elettrica totale dall’eolico (terrestre più off shore). Da segnalare il progetto di una centrale nel golfo di Manfredonia, una nelle acque di Lamezia Terme e un parco eolico al largo del Molise. Ricerca e sviluppo: Pil, occupati e brevetti – La situazione non è delle migliori: in base agli ultimi dati disponibili (2007) il Sud spende solo lo 0,87% del Pil in R&S contro l’1,28% del Centro-Nord, pure distante dal parametro del 3% stabilito dalla “Strategia di Lisbona” per il 2010. Anche la percentuale di occupati nel settore la dice lunga sulla scarsa capacità innovativa delle imprese meridionali: solo 1,86 ogni 1.000 abitanti contro il 4,4 del Centro- Nord. Debole anche l’attività brevettuale: solo 11 brevetti registrati per milione di abitanti contro gli 88 dell’altra ripartizione. Riguardo alle nuove tecnologie, nel 2009 la banda larga era diffusa nel 78% delle imprese meridionali, contro l’84% del Centro-Nord; il 49% delle imprese meridionali ha un proprio sito web, contro il 61% dell’altra ripartizione, mentre gli addetti che usano il pc sono al Sud solo il 22%, ben 11 punti in meno del Centro-Nord. Anche nella diffusione di internet nelle famiglie permane una differenza di 7 punti percentuali tra le due ripartizioni: 42% nel Mezzogiorno, 49% nel Centro-Nord. Laboratori pubblico-privati – Sono strutture in cui ricercatori e imprese industriali lavorano in stretta collaborazione, spaziando dall’ICT alla certificazione di nuove specie 35 vegetali. Nel Sud sono 26, concentrati in Campania (11), Puglia (7), Sicilia (4), Sardegna (3), Calabria (1). Tra il 2006 e il 2007 il MIUR li ha finanziati per oltre 211 milioni di euro, ma le erogazioni si sono fermate neanche al 15% dei contributi totali, pari a 31 milioni di euro. La più virtuosa la Campania, con oltre il 21% di contributi erogati, seguita dalla Sicilia (20%). Seguono la Sardegna, con l’8,4% delle risorse erogate, e la Puglia (7,5%). In Calabria l’unico laboratorio, attivo nell’ICT, finanziato con oltre 5 milioni di euro, non ha utilizzato alcun contributo. Distretti tecnologici – Nascono come evoluzione dei laboratori, frutto di progetti di sviluppo MIUR-Regioni: nel Mezzogiorno sono attivi 10 distretti tecnologici, 2 in Puglia e Calabria, 1 in Sicilia, Campania, Sardegna, Abruzzo, Molise, Basilicata. Il MIUR li ha finanziati con oltre 81 milioni di euro, ma lo scorso anno era stato erogato solo il 24% dei contributi. Con casi clamorosi: il distretto agroalimentare molisano, finanziato con oltre 1,4 miliardi di euro e il logistico calabrese (quasi 12 miliardi) non hanno utilizzato nemmeno un euro. Spin off: numeri, regioni, settori – Un fenomeno giovane, ma in crescita. L’89% delle aziende italiane nate su progetti innovativi ideati e studiati nelle Università, gli spin off, ha visto la luce tra il 2000 e il 2009. Delle 806 aziende attive in Italia a fine 2009 il 23% si trova al Sud, contro il 77% dell’altra ripartizione. A livello regionale, in testa l’Emilia Romagna, con 113 spin off, seguita da Lombardia (99) e Toscana (89). Il Mezzogiorno ospita 187 aziende, concentrate in Puglia (47, pari al 5,8% nazionale) e Sardegna (45). A seguire la Calabria (27), la Campania e la Sicilia (25), l’Abruzzo (11), la Basilicata (4). Fanalino di coda il Molise (3). A livello settoriale prevale l’ICT in entrambe le ripartizioni (218 aziende al Centro-Nord e 49 al Sud), seguito da energia e ambiente (92 e 40), life sciences, cioè biotecno-logie e farmaceutica (93 e 27), elettronica (60 e 21) e biomedicale (41 e 17). In termini relativi però il Sud supera il Nord riguardo ai settori dell’energia e ambiente, dell’elettronica, del biomedicale, delle nanotecnologie e dei beni culturali. Punto dolente, i finanziamenti. I contributi statali non superano i 500mila euro a progetto e gli imprenditori privati disposti a rischiare capitali in settori innovativi sono troppo pochi. Fra i pochi, al Mezzogiorno vanno solo le briciole: dal 2000 al 2008 gli investimenti privati realizzati facendo ricorso al venture capital e al private equity hanno interessato il Sud solo per il 3% del totale. Cosa dice la SVIMEZ – Il Mezzogiorno è l’area del Paese che ha più interesse a modificare il modello di sviluppo industriale nazionale. Il settore delle energie rinnovabili e del recupero edilizio, oltre alla valorizzazione del patrimonio paesaggistico meridionale, possono offrire importanti opportunità di crescita. Da un lato possono mettere a frutto i tanti giovani laureati altamente qualificati che non riescono ad essere assorbiti dal contesto produttivo; dall’altro, possono incrementare la competitività dell’area, elevando e stimolando la domanda di innovazione. Va in questo senso la proposta di promuovere rapporti di collaborazione tra imprese e centri di ricerca pubblici e privati, avendo cura di puntare soprattutto sui settori che permettano, a fronte di investimenti iniziali accessibili, ricadute positive su altri ambiti produttivi. Svimez 2010/07_Messaggio_Napolitano.PDF ' ì ' PI{OF. ADRIANQ GTANNOLA FI{ÉSIDENTE ASSOCI,AZIONE PER LO SVILUI'PO DELL'INDUSTRIA NEL MIIZZOCIORI.IO _ SVIMEZ VIA DI POITîA PINCIANA, 6 00187 ROMA TBLEGRAMMA LA PRESENÎAZIONE DELL'ANNUALE I{A}PORTO DELLA SVIMEZ SULL'ECONOMIA DEL IvIEZZOGIORNO FORNISCE UNA IMPORTANTII OCCASIONE DI AFPROFONDIMENî'O E DI CONIIRONTO, P,qRTICOLARIvÍENI'E UTILE IN UNA FASE ECONO'MICA COMPLESSA COME QUELLA ATTUALE. I,A CRISI CFIE FTA COLPITO I]UTTE LE AIIE;E DEL tsAESE NON HA RISPAI{MIATO LE SITUA2:IONI (iIA' DI I'ROFONDA D1FFICOLTA DEL MEZZOGIORNO CIIE RISCFIIANO DI IUSULI'AR}IE AGGRAVATE ANCHB IN PROSPETTTVA. L'OBMTTIVO DI IUDURR-E GLI EFFE"fTI DELLA CRISI FINA}IZIARI,A NEI. BREVE PERIODO E DIVBNUTO PRIOTUTARIO; IN PRESENZA DL tIN INI'I,UDIBILH VTNCOI.O DI CONTENIMEN'IO DEL DISAVANZO PUBBI,ICO SI E OPETLATC) UNO SITOSTAIvIENTO DI RISORSE DI C'uI I.IANNO SOFFERTO LE POLffICHE DI SVILUfPO COMÉ È ouuosrnn'ro DALLE RICADUTE sut euADRo STRATEGICO NAZIONALE 2007-20i3 AL QUALE soNo STATE SOîrRA1-[E INGENù DOTAZIOM E CHE REGIS'I'RA, A META DEL I5ERIOI}O DI PROGRAMMAZIONE, CRAVI IUTARDI. I RTSUI,TATI COMPLESSIVAÀ4ÉN'I'E INSUT-FICIEN'N DELLE POLI'I'ICI{E SEGUTTE IN PASSATO E I."{ PRESENUA DT SIQNIFICATTVE INEFFICIENZE RENDONO NECESSAR]O UN RIPENSAMENI'O E POSSONO AbíCFIE SPINGERE AI) UNA PROFONDA MODIFICA DELLE MODAI-ITA E t]tsLLO STESSO TMPIAN'TO STITATEGTCO DEGLI TNTEI{\GNTI DI SVÍLUPPO. MA E' UN FATTO CIIE IL MEZZOGIORNO PUO CONTRTBUIR-E, ATTRAVERSO LA PIÉNTA MESSA A FRU'TTO DELLE SUE RISORSE, ALLA RIPRSSA DI UN Pru' SOSTENUTO E STABILE fII.OCESSO TJI CR-ESCI'I'A DELL'ECONOMTA E DELLA SOCIEÎÀ. ITALTAhIA FONDAI'O ANCI{E SIJ UNA STRATEGTA DI LEALE E CON/INTA COLLABORAZIONE TRA LE REGIONI E LO STATO, II, RAfPORTO DELI,A SVII\,TEZ OTTFRE UN APPORTO MPORTANTE SIA ALL'ANALISI DEGLI ANDAMENTT FIU Iì-ECENTI, SIA ALL'APITITOFONDMENTO DEI PRINCIIIALI NODI DA AFFI(ONTAT! COME L'ATTUAZIONE DEL "FEDEIIALISMO FISCALE'" I-E P{}I-ITICFIE DI coEsIoNE DErr,L'LNIQNE EUROPEA, LA QUAUTA DEI SEI1VIZI PUBBLICI, LA FORMAZIONE ED ACCESSO AL LAVORO DEI CIOVAhI, TL RUQLO DEL SISTEMA ÈANCARIO. SONO CERTO C}IE IL DISATTITO SUL IìA}PORTO C}T.h, TN]ZIA OCCI, E LA CONT$JUAZIONE DEL LAVORO DI APPROFONDMENTO CONDOTTO DALLA SVR411Z CoNCOITRERANNo A RAFFoRZARE LA COI'{SAPEVA;LETJA DEL LEGAIVIE IbÍSCINDIBILE ÎI:LA' SV NUPPO D EI. MjEZLOGIORNO E COMPLE S SIVO RIIA}I C lO, DELL' EC ON OMIA TI'ALIANA. coN QLIESTE RtFL,EssIoNI INVro A LEI ED A Tul*fr r PARTECIPAI\TI ]L MIO SENTII'O AUGU}UO PER UNPROFICUO SVOLCIN{ENI'O DEl LAVORI- CIQRGIO NAPOLTTAÌ'IO {\., ,l(,"*r î | : 7 ) Ì ^ r ; , ti [,Pt.e.ro ur.l, h*g"C'ú?'"t A \-, k î-e- u, /4 tr-./\. (lf "rq +'Ls-ls zgltB 9?d vIZNf(lI:i lHd lt',10t53flF zerdE69F9B6[88 ' 'E :9 I tJ I f lZ, ; 79 151 SVIMEZ: Rapporto 2010 sull'economia del Mezzogiorno
Argomento: 

SVIMEZ: Rapporto 2009 sull'economia del Mezzogiorno

Descrizione breve: 
Lo SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, mette in luce le condizioni economico industriali del tanto dibattuto Mezzogiorno italiano.
Allegato: 
Data: 
16 Luglio 2009
Svimez 2009/00_Comunicato stampa.pdf Roma,16 luglio 2009 SVIMEZ, LA CRISI COLPISCE SOPRATTUTTO AL SUD Un Mezzogiorno in recessione, colpito particolarmente dalla crisi nel settore industriale, che da sette anni consecutivi cresce meno del Centro- Nord, cosa mai avvenuta dal dopoguerra a oggi. Un’area periferica da cui si continua a emigrare, dove crescono gli anziani ma non arrivano gli stranieri, dove esistono le realtà economiche eccellenti ma non si trasformano in siste- ma né si intercettano stabilmente investitori e turisti stranieri: questa la foto- grafia che emerge dal Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 2009 in pre- sentazione a Roma giovedì 16 luglio. Nel 2008 il Pil del Sud è calato dell’1,1%, con una minima percentuale di differenza rispetto al Centro-Nord (-1%). Il PIL per abitante è pari a 17.971 euro, il 59% del Centro-Nord (30.681 euro), con una riduzione però del divario di oltre 2 punti percentuali dal 2000, dovuta solo alla riduzione relativa della popolazione. Un altro indicatore rende l’idea della situazione stagnante: nel 1951 nel Mez- zogiorno veniva prodotto il 23,9% del Pil nazionale. Sessant’anni dopo, nel 2008, la quota è rimasta sostanzialmente immutata (23,8%). Dal 1951 al 2008 il Sud è cresciuto circa agli stessi ritmi del Centro-Nord, ma non è riuscito e non riesce a recuperare il gap di sviluppo. A livello regionale la Campania mostra nel 2008 una diminuzione del Pil particolarmente elevata (-2,8%), mentre le altre regioni meridionali presentano perdite più contenute. Meno colpita dalla crisi la Puglia (-0,2%). A livello settoriale l’agricoltura meridionale ha tenuto molto più di industria e servizi e ha invertito il trend negativo iniziato nel 2005. In particolare, molto posi- tiva è stata la performance della Basilicata, con una crescita del prodotto agricolo nel 2008 rispetto al 2007 di ben il 24%. A fare le spese maggiori della crisi l’industria, con un calo del valore ag- giunto industriale nel 2008 del 3,8%, mentre le produzioni manifatturiere hanno segnato un calo di oltre il 6%. A tirare giù l’industria meridionale soprattutto mac- chine e mezzi di trasporto (-10,5%), settore dei metalli e chimico-farmaceutico (- 7,1%). In controtendenza invece il settore energetico. Perdita più contenuta nel settore dei servizi, dove, dopo quattro anni di forte crescita, nel 2008 il Pil è sceso dello 0,3%, con un calo quasi del 3% nel com- parto commercio. Due le cause principali dell’andamento recessivo: investimenti che rallen- tano, famiglie che non consumano. Queste ultime infatti hanno ridotto al Sud la spesa dell’1,4% contro il calo dello 0,9% del Centro-Nord. Mentre gli investi- menti industriali sono scesi del 2,1% annuo dal 2001 al 2008, tre volte tanto ri- spetto al Centro-Nord (-0,6%), anche a seguito della riduzione o abolizione di al- cune agevolazioni (credito d’imposta, legge 488). IL MEZZOGIORNO CENERENTOLA D’EUROPA Il quadro diventa sconsolante se confrontato con le dinamiche economiche degli altri paesi europei. In dieci anni, dal 1995 al 2005, le regioni meridionali sono sprofondate nella classifica europea, situandosi in posizione comprese tra 165 e 200 su un totale di 208. Un processo in decisa controtendenza con le altre aree deboli Ue, che sono cresciute mediamente del 3% annuo dal 1999 al 2005, mentre il Sud si è fermato a +0,3%. LA DISOCCUPAZIONE CRESCE DI PIU’ AL CENTRO-NORD Nel 2008 il tasso di occupazione meridionale è sceso al 46,1%. Gli occu- pati sono cresciuti al Centro-Nord di 217 mila unità, mentre sono scesi di 34 mila nel Mezzogiorno. A livello regionale, risultati positivi per il terzo anno consecutivo per Mo- lise (1,6%), Puglia (0,3%) e Abruzzo (3,2%). Crollano gli occupati soprattut- to in Campania (-2,2%) e Calabria (-1,2%), mentre flessioni più contenute si rilevano nelle Isole (-0,6% e –0,3% in Sicilia e Sardegna). A livello di settori la domanda di lavoro in agricoltura continua a scen- dere soprattutto al Sud (-2,8% contro il -1,5% del Centro-Nord). In calo anche l’industria, che segna -2,4% al Sud (dopo il +2,9% del 2007) e -1,1% nell’altra ripartizione. La dinamica dell’occupazione industriale è sensibilmente negativa in tutte le regioni del Sud, con l’eccezione del Molise, dove cresce del 4% per il forte boom del settore delle costruzioni (+16,4%) e della Sicilia, dove flette soltanto dello 0,7% perché l’incremento delle costruzioni (2,7%) compensa in larga parte la flessione dell’industria in senso stretto (-4,2%). Positivo solo il terziario, che registra comunque un rallentamento rispetto agli scorsi anni: +0,2% al Sud (era crescita zero nel 2007) e +0,7% al Centro-Nord (+1,5% nel 2007). Nel 2008 i disoccupati sono aumentati più al Centro-Nord (+15,3%) che al Sud (+9,8%). Nella classe di età 15-24 anni la disoccupazione è arrivata al 14,5% al Centro-Nord e al 33,6% al Sud. Qui crescono anche i disoccupati di lun- ga durata (sono il 6,4% del totale, erano il 5,9% nel 2007). All’Italia spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione gio- vanile più alto in Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Nel 2008 solo il 17% dei giovani meridionali in età 15-24anni lavora, contro il 30% del Centro-Nord. Al Sud cresce la zona grigia della disoccupazione, che raggruppa scorag- giati e lavoratori potenziali: 95mila persone in più l’anno scorso. Dal 2004 al 2008 infatti i disoccupati impliciti e gli scoraggiati sono aumentati di 424mila uni- tà. Considerando anche questa componente, il tasso di disoccupazione effettivo del Sud salirebbe a oltre il 22%. IN CALO IL SOMMERSO, MA AL SUD E’ IN NERO 1 LAVORATORE SU 5 Cala il lavoro nero nel 2008, con 22mila unità irregolari in meno, per effet- to anche della campagna di regolarizzazione dei lavoratori stranieri, soprattutto nel settore edile. Qui ad esempio nel Sud il tasso di irregolarità è sceso dal 29,7% del 2001 al 18,6% del 2008. Nel 2008 in Italia i lavoratori in nero sono stimati in 2 milioni 943 mi- la, l’11,8% del totale. I settori di maggiore diffusione sono l’agricoltura e i servi- zi. Nel 2008 al Sud è irregolare 1 lavoratore su 5, pari in valori assoluti a 1 mi- lione 300mila persone, con tassi di irregolarità del 12,8% nell’industria e del 19% nelle costruzioni. A livello territoriale la regione più “nera” è la Calabria, con il 26% di manodopera irregolare, che sale a quasi il 50% in agricoltura e al 40% nelle co- struzioni. A seguire, la Basilicata (20,3%), con un forte peso del settore industria- le, Sicilia (19,8%), Sardegna (19,5%) e Puglia (17,4%). Il più alto numero di lavoratori in nero in valori assoluti spetta alla Cam- pania (329mila persone), che dal 2000 ha però perso il 19,4% (79mila unità). IN DIECI ANNI 700MILA VIA DAL SUD, A PARTE I PENDOLARI Caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese spac- cato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni. I posti di lavoro del Mezzogiorno sono in numero assai inferiore a quello degli occupati. Ed è la carenza di domanda di figure professionali di livello me- dio-alto a costituire la principale spinta all’emigrazione. Tra il 1997 e il 2008 circa 700mila persone hanno abbandonato il Mez- zogiorno. Nel 2008 il Mezzogiorno ha perso oltre 122mila residenti a favore delle regioni del Centro-Nord a fronte di un rientro di circa 60 mila persone. Riguardo alla provenienza, oltre l’87% delle partenze ha origine in tre regioni: Campa- nia, Puglia, Sicilia. L’emorragia più forte in Campania (-25 mila), a seguire Puglia e Sicilia rispettivamente con 12,2 mila e 11,6 mila unità in meno. Nel 2008 sono stati 173.000 gli occupati residenti nel Mezzogiorno ma con un posto di lavoro al Centro-Nord o all’estero, 23 mila in più del 2007 (+15,3%). Sono i pendolari di lungo raggio, cittadini a termine che rientrano a ca- sa nel week end o un paio di volte al mese. Giovani e con un livello di studio me- dio-alto: l’80% ha meno di 45 anni e quasi il 50% svolge professioni di livello e- levato. Il 24% è laureato. Non lasciano la residenza generalmente perché non lo giustificherebbe né il costo della vita nelle aree urbane né un contratto di lavoro a tempo. Spesso sono maschi, singles, dipendenti full time in una fase transitoria della loro vita, come l’ingresso o l’assestamento nel mercato del lavoro. Le regioni che attraggono maggiormente i pendolari sono Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio. Da segnalare però la crescita dei pendolari meridio- nali verso altre province del Mezzogiorno, pur lontane dal luogo d’origine: 60mila nel 2008 (erano24mila nel 2007). Una curiosità: la crisi ha colpito anche i pendolari meridionali. Se infat- ti il movimento Sud-Nord è cresciuto nei primi sei mesi del 2008, con l’aggravarsi del quadro economico 20mila persone sono rientrate al Sud, soprattutto donne. Rispetto ai primi anni 2000 sono cresciuti i giovani meridionali trasferiti al Centro-Nord dopo il diploma che si sono laureati lì e lì lavorano, mentre sono ca- lati i laureati negli atenei meridionali in partenza dopo la laurea in cerca di lavoro. In vistosa crescita le partenze dei laureati “eccellenti”: nel 2004 partiva il 25% dei laureati meridionali con il massimo dei voti; tre anni più tardi la percentuale è balzata a quasi il 38%. La mobilità geografica Sud-Nord permette una mobilità sociale. I laureati meridionali che si spostano dopo la laurea al Centro-Nord vanno incontro a contratti meno stabili rispetto a chi rimane, ma a uno stipendio più alto. Il 50% dei giovani immobili al Sud non arriva a 1000 euro al mese, mentre il 63% di chi è partito dopo la laurea guadagna tra 1000 e 1500 euro e oltre il 16% più di 1500 euro. UN SUD IN CUI NON MANCANO AREE DI DINAMISMO In base a una serie di indicatori la SVIMEZ ha analizzato i 325 distretti del Mezzogiorno dividendoli in sette tipologie diverse da cui emerge un Sud forte- mente differenziato. - aree delle opportunità consolidate: qui la popolazione è in crescita, gli abitanti hanno un livello di studio elevato, il tasso di occupazione è in linea con la media nazionale o addirittura superiore al Centro-Nord (come a Olbia e alla Maddalena, 52%), il tasso di disoccupazione basso (7%), il livello di reddito (19.400 euro pro capite) è superiore alla media del Mezzogiorno (14.500). Fanno parte di questo gruppo sette sistemi locali dell’Abruzzo (tra cui Avezzano, Celano, Giulianova e Teramo) e alcune importanti realtà turistiche della Sardegna (Arzachena, La Mad- dalena, Olbia, Santa Teresa Gallura e San Teodoro) e di altre regioni (Capri e Li- pari). - aree urbane: qui viene prodotto il 60% del Pil meridionale, ma si spazia dalle zone con un terziario molto forte e un’occupazione in forte crescita (Benevento, Avellino, Bari, Monopoli, Putignano, Lecce, Alghero, Sassari, Macomer, Nuoro, Cagliari e Oristano) ad altre concentrate nel manifatturiero, che arrancano, con una crescita senza occupazione (Caserta, Nola, Taranto, Gioia Tauro, Porto Em- pedocle e Gela) ad altre in piena crisi. In quest’ultimo caso i tassi di attività e oc- cupazione sono più bassi, la disoccupazione più alta (Foggia, Brindisi, Catanzaro, Reggio Calabria, Vibo Valentia, Trapani, Palermo, Messina, Agrigento, Caltanis- setta, Enna, Catania e Siracusa). - aree delle opportunità distrettuali e industriali: Qui prevalgono attività manifattu- riere piccole e medie ma anche realtà industriali più forti non sostenute da un ter- ziario avanzato. Sono zone da cui si emigra, che sembrano offrire opportunità di lavoro non qualificato, come denota il tasso di attività superiore alla media meri- dionale unito alla diffusione di titoli di studio medio-bassi. Fanno parte di questo comparto i distretti di Pineto, Penne, Solofra, Altamura e Calangianus, Atessa, Termoli, Grottaminarda, Melfi e Pisticci. - aree delle opportunità turistiche: sono zone di significative potenzialità turistiche che non riescono però a sfociare in livelli di reddito e occupazione superiori alla media. Qui troviamo ad esempio Sant’Agata dei Goti, Amalfi, Maiori, Telese Terme, Sapri, San Giovanni Rotondo, Barletta e Gallipoli, Diamante, Praia a Ma- re, Scalea, Soverato, Castelvetrano, Taormina, Capo d’Orlando, Acireale. - aree dinamiche: sono le aree di eccellenza, in crescita, più ricche, con una forte capacità attrattiva, a vocazione soprattutto turistica (Forio, Ischia, Sorrento, Ostu- ni, Tropea, Cefalù, Castelsardo, Bosa, Orosei e Muravera). - aree della crisi: poche aziende, scarsa offerta di lavoro e reddito modesto. Si concentrano soprattutto in Puglia, Calabria e Sicilia. - aree marginali:la struttura produttiva è debolissima e il reddito medio pro capite il più basso d’Italia (8.600 euro). Sono le aree più interne e periferiche, scarsa- mente abitate, della Sicilia, Calabria, Campania, Sardegna. BANCHE, PIU’ DIFFICILE L’ACCESSO AL CREDITO PER LE AZIENDE Tra il 1990 e il 2001 il numero di banche presenti nell’area si è ridotto del 46% contro il 20% del Centro-Nord. Il numero di banche meridionali indi- pendenti, sia Spa che Banche popolari, è crollato da 100 del 1990 a 16 del 2004; negli stessi anni le banche di credito cooperativo (BCC) si sono più che dimez- zate (da 213 a 111). Mentre resta forte la dipendenza del sistema bancario meridionale dal Centro-Nord: nel periodo in questione le banche appartenenti a gruppi dell’altra ripartizione sono salite da 0 a 21, con una forte diffusione in Basilicata, Calabria e Sardegna Resta il grande problema dell’accesso al credito: al Sud dal 2004 al 2006 il 9,3% delle imprese ha lamentato difficoltà, contro il 3,8% del Nord. Dal 2007 al 2008 inoltre il tasso di crescita annua dei prestiti alle imprese è crolla- to al Sud dal 14,9% al 7,9% contro il calo più contenuto a livello nazionale (da 12,4% a 10,2%). CONTINUA IL CALO DELLA SPESA PUBBLICA AL SUD La spesa pubblica pro capite nel Mezzogiorno è stata nel 2008 pari a 10.490 euro, inferiore rispetto ai 12.300 euro pro capite del Centro Nord . Per di più, nel Mezzogiorno, c’è una tendenza all’incremento delle spese correnti che invece si riducono nel Centro Nord e a una diminuzione di quelle per investimen- ti, che invece aumentano in misura doppia nelle zone più sviluppate del Paese. La quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto capitale è stimata nel 2008 al 34,9%, una percentuale ben più bassa del 41,1% del 2001 e lontanissima dall’obiettivo del 45%, che ormai appare come una chimera. Ha inciso su tale riduzione il ridimensionamento dei trasferimenti di capitale per agevolazioni alle imprese, che non è stato sostituito, come nei programmi, da un maggior impegno per la dotazione di infrastrutture. STRADE, FERROVIE, PORTI, AEROPORTI, ACQUA, RIFIUTI Fra tutte le regioni del Sud le autostrade a tre corsie sono presenti solo in Campania e in misura minore in Abruzzo, mentre la Sardegna è tuttora priva di autostrade. Solo il 7,8% delle linee ad alta velocità, cioè il tratto campano Roma- Napoli, entrato in funzione nel 2005, risulta localizzato nel Mezzogiorno. La si- tuazione più critica in Sardegna, dove mancano completamente linee elettrifi- cate. L’offerta di servizi ferroviari è particolarmente modesta al Sud, dove le per- correnze dei treni (treni-km) sono soltanto il 17% del totale per le merci e il 23% per i passeggeri, un valore non diverso dalla situazione di dieci anni fa. La maggior parte dei porti è di piccola dimensione e orientata al transito passeggeri. Nel Mezzogiorno l’indice di dotazione dei centri intermodali è pa- ri ad appena un ventesimo del totale nazionale. Il livello degli aeroporti nelle regioni meridionali (per numero di strutture, piste e dimensioni) è accettabile, pur mancando scali in Molise e Basilicata. La criticità più forte è data ancora una volta dalla carenza di collegamenti. Nessun aeroporto del Mezzogiorno, ad eccezione di Palermo, ad esempio è collegato con una stazione ferroviaria. A livello nazionale circa 1/3 dell’acqua immessa in acquedotto viene disper- sa. Nel Mezzogiorno la situazione si fa ancora più critica, con il 37% dell’acqua sprecata. In testa alla poco invidiabile classifica la Puglia, con oltre il 46% di di- spersione, seguita da Sardegna (43%) e Abruzzo (41%). Praticamente in Puglia su 308 metri cubi d’acqua pro capite (dati 2005) immessi nelle tubature solo 165 ar- rivano a destinazione, in Sardegna su 385 ne arrivano 219, in Abruzzo 415 su 245. Se a livello nazionale solo il 3,2% della popolazione non dispone di acque depurate, la percentuale sale al Sud, arrivando al 7% in Calabria e addirittura all’11,5% in Campania. In Sicilia il 3% della popolazione è priva di fognatu- re, il 3,6% in Puglia, mentre tale servizio è presente in tutte le altre regioni. Interessante notare che la diffusione delle fonti rinnovabili vede il Sud in testa rispetto al Centro-Nord, con punte eccezionali in Molise, Calabria, Basili- cata e Puglia. Rifiuti – In dieci anni, dal 1997 al 2008 la produzione di rifiuti urbani è cre- sciuta nelle regioni meridionali di 1,5 milioni di tonnellate, raggiungendo quota 10,6. A produrre più rifiuti Calabria (+35%, media nazionale +22%), Abruzzo e Puglia (+27%). Nel 2007 ogni cittadino del Sud ha prodotto in media 508 kg di rifiuti (Sicilia 536, Molise 414). Differenziata – A fronte di una media nazionale del 27,5% (con il Nord a 42,4%), il Sud resta lontano anni luce, fermo all’11,6%. Ma non tutto: la Sardegna è al 27,8%, con punte superiori al 50% nel Medio Campidano e nell’Ogliastra. An- che l’Abruzzo non è da meno, con Teramo che realizza il 30%. Ma il problema vero sono i costi, dovuti a una cattiva gestione del ciclo: la rac- colta e il trasporto dell’indifferenziato costa al Sud 80 euro a tonnellata contro i 65 del Centro-Nord. Il trattamento e smaltimento spazia dai 45 euro a tonnellata della Calabria ai 99 della Campania. Situazione ancora peggiore per la differenziata: al Centro-Nord, dove si recu- perano maggiori quantità di materiali, il costo medio è di 124 euro a tonnellata, al Sud poco meno del doppio, 220 euro. LOGISTICA Nel 2008 nel Mezzogiorno i volumi di traffico container sono scesi di quasi il 4% a fronte della crescita del 3% del Centro-Nord. A trainare il se- gno meno Cagliari (-53,2%) e Salerno (-14%). I porti meridionali perdono inol- tre competitività per la mancanza di una adeguata integrazione tra traffico portua- le e terrestre. Ad esempio infatti soltanto il 2% dei container al Sud viene in- stradato via ferrovia, rispetto al 18% del Centro-Nord (il 14% a Livorno, il 18% a Ravenna, il 23% a La Spezia e appena l’1,4% a Gioia Tauro). Nono- stante la diversa dotazione portuale Nord-Sud, il 48% del totale di container è movimentato nel Centro-Nord e il 52% nel Sud, con un trend che vede il Sud dal 2002 perdere quote di traffico. Per informazioni: Ufficio stampa Elisa Costanzo: 06/47850239 – 328/1430500 Svimez 2009/01_Direttore_testo.pdf 1 Introduzione e sintesi di Riccardo Padovani∗ 1. IL MEZZOGIORNO PRIMA, DENTRO E OLTRE LA CRISI La presentazione del Rapporto di quest’anno interviene in una fase in cui la crisi internazionale si sta ripercuotendo sull’economia nazionale con una forza anche maggiore di quella che solo pochi mesi era stata prevista. Il calo degli ordini, della produzione industriale, degli investimenti e dell’occupazione configurano una recessione pesante con impatti significativi che tenderanno a trasferirsi dal sistema economico al tessuto sociale nazionale. E’ in tale quadro che va collocata l’analisi del presente Rapporto che ha cercato di mettere in evidenza il processo incompiuto di trasformazione dell’economia meridionale in questi ultimi anni; processo sul quale continuano ad incidere debolezze strutturali che affondano le radici nel passato e, al tempo stesso, alcuni importanti elementi di mutamento dell’economia e della società meridionali. L’attuale mix di crisi economica e delegittimazione politica che il Sud sta attraversando pone ad alto rischio la possibilità di completare la transizione verso una economia più competitiva e allo stesso tempo indebolisce qualsiasi prospettiva di ripresa del sistema nazionale. Occorre invece essere consapevoli che un progetto nazionale per la crescita del Mezzogiorno e per la valorizzazione delle sue potenzialità dipenderà in larga parte dal sostegno che una rinnovata azione pubblica (europea, nazionale e delle Regioni) saprà fornire al sistema delle imprese e alle famiglie, sia attraverso le politiche anticongiunturali sia attraverso politiche strutturali di crescita e coesione nel campo delle infrastrutture, dell’innovazione e ricerca e per lo sviluppo dell’industria. A tal fine il Rapporto identifica alcune linee di intervento che possono servire ad accompagnare i processi di modernizzazione in atto: lo sviluppo delle reti infrastrutturali, tecnologiche, formative e bancarie; una politica industriale specifica per ∗ Le “linee” del “Rapporto SVIMEZ 2009” sono state predisposte dal Direttore dott. Riccardo Padovani e dal Vice Direttore dott. Luca Bianchi. Il loro contenuto è stato esposto dal dott. Riccardo Padovani e nel successivo intervento dal dott. Luca Bianchi. 2 il Sud; il rafforzamento della qualità del territorio intesa come gestione dell’ambiente e delle risorse naturali, vivibilità delle aree urbane, contrasto alla criminalità; l’avvio delle grandi riforme strutturali, della Pubblica Amministrazione e del Welfare in primo luogo, utili per tutto il Paese e indispensabili per riavviare la crescita del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno nella recessione Le stime della SVIMEZ (v. Fig. 1) mostrano come già nel 2008 l’economia meridionale abbia registrato una recessione, sia pur di poco, più grave che nel Centro- Nord: -1,1% contro il -1,0% del resto del Paese; recessione che, in base agli indicatori congiunturali territoriali relativi alla prima parte del 2009, ha conosciuto al Sud una ulteriore forte intensificazione. Una prospettiva critica che incide su un’area già con elevata disoccupazione e con diffuse situazioni di povertà e che dunque rischia di determinare effetti pesanti sia in termini economici che sociali. Ma soprattutto vi è un fatto nuovo rispetto al passato. Nelle fasi congiunturali negative determinate, come in questo caso, da fattori esogeni, il Mezzogiorno, proprio per effetto della sua minore apertura internazionale, tendeva a risentire meno del rallentamento dell’economia mondiale. Questa volta invece è proprio nel Sud che la crisi rischia di mordere maggiormente, con effetti fortemente negativi sulla dinamica dei consumi, degli investimenti e dell’occupazione. Questo perché l’economia meridionale somma all’inversione ciclica debolezze strutturali che affondano le loro radici nel tempo e che si aggravano nell’attuale fase congiunturale. Dal 2002 ad oggi (v. Fig. 2) le regioni del Sud sono sempre cresciute meno di quelle del resto del Paese: nel periodo 2001-2008 l’incremento annuo del prodotto (a prezzi concatenati) del Mezzogiorno (0,6%) è risultato pari a poco più della metà di quello del Centro-Nord (1,0%). Non si era mai registrato dal dopoguerra un periodo di sette anni in cui lo sviluppo del Sud fosse costantemente inferiore a quello del Centro- Nord. Il divario (v. Fig. 3) in termini di prodotto per abitante, che è la misura comunemente utilizzata per valutare le differenze di sviluppo economico fra aree, è invece lievemente diminuito a causa dei flussi migratori meridionali ed esteri in direzione del Nord. Il Pil pro capite del Mezzogiorno è risultato essere nel 2008 pari al 3 58,6% di quello del Centro Nord, con un recupero rispetto all’anno precedente (58,2%), quasi due punti percentuali in più rispetto al livello del 2000 (56,9%). Si conferma dunque il giudizio dato lo scorso anno di una leggera convergenza raggiunta per via patologica, cioè non con maggiore crescita ma con perdita relativa di popolazione Il Mezzogiorno cenerentola d’Europa La mancanza di convergenza delle regioni in ritardo di sviluppo con quelle più ricche che si verifica in Italia nell’ultimo decennio è in controtendenza con quanto avviene nel resto dell’Europa (v. Fig. 4). Gli anni duemila sono stati infatti caratterizzati a livello continentale da un significativo recupero delle aree europee dell’Obiettivo 1, che si sono sviluppate ad un tasso superiore a quello della media dell’UE a 27: nel periodo 1999-2005 il tasso di crescita medio annuo delle regioni dell’Obiettivo 1 è risultato del 3% circa, mentre quello medio dell’Unione è stato dell’1,9%. Le aree Obiettivo 1 del Mezzogiorno non hanno però seguito questo andamento: la crescita del Pil pro capite è stata nel periodo non solo lievemente minore di quella italiana (0,6% rispetto allo 0,7%), ma soprattutto molto inferiore a quella delle restanti regioni Obiettivo 1 dell’Europa. Il confronto con il complesso delle aree in ritardo di sviluppo in Europa è sempre sfavorevole alle regioni meridionali: tra il 1995 e il 2005 la quota italiana della popolazione europea che viveva in regioni con un Pil pro capite inferiore all’85% della media UE è passata dal 50,7 al 69,8%. L’interruzione nel processo di adeguamento competitivo L’economia meridionale risente particolarmente del fatto di essere stata colta dalla crisi in una fase di particolare fragilità, mentre si stavano avviando, su tutto il territorio nazionale, processi di aggiustamento sia dal lato delle imprese, per aumentare la produttività e profittabilità a fronte della accresciuta pressione competitiva internazionale, sia dal lato del bilancio pubblico, volti alla riduzione del debito. Tali processi sono risultati ( e appaiono ancora tutt’oggi) meno intensi nel Mezzogiorno; area che soffre in misura assai più accentuata delle note debolezze strutturali, 4 riguardanti il modello di specializzazione produttiva e la capacità innovativa, che caratterizzano il sistema nazionale nel confronto con i principali paesi sviluppati. Le analisi del Rapporto mostrano come le imprese meridionali sembrino essere state maggiormente colpite dall’intensificarsi della concorrenza internazionale, verosimilmente per motivi di composizione settoriale (nel Mezzogiorno pesano meno che al Centro-Nord i settori che hanno “tenuto” meglio, quali ad esempio le industrie meccaniche fornitrici di beni capitali), per una minore presenza nei mercati emergenti, e per una dimensione media delle imprese inferiore a quella del Centro-Nord. In questo contesto, la compressione in atto del processo di accumulazione al Sud (v. Fig. 5) può ridurre drasticamente le potenzialità competitive dell’area, anche in presenza di una ripresa della domanda interna e internazionale. Dall’inizio del decennio alla fine del 2008 gli investimenti fissi lordi sono cresciuti al Sud del 9,3%, quasi due punti percentuali in meno che nel Centro-Nord (11,0%). Se si analizza solo il settore dell’industria in senso stretto (v. Fig. 6), gli investimenti sono crollati cumulativamente nel 2001-2008 del 15,7%, a fronte di una flessione cumulata del 5,1% nel resto del Paese. All’interno di una simile dinamica, va sottolineato il dato non favorevole del 2008, quando gli investimenti fissi lordi del Mezzogiorno sono diminuiti del 2,8% (- 3,0% nel Centro-Nord), dopo una crescita dell’1,1% l’anno precedente, e, in particolare, quelli industriali hanno fatto segnare un -6,5%. Va sottolineato che è proprio il meccanismo di accumulazione (in realtà non solo di capitale fisico ma anche umano e tecnologico) che guida il recupero di produttività e quindi di capacità competitiva. Se si analizza (v. Fig. 7) l’andamento del divario economico Sud/Nord nel più lungo periodo, è possibile verificare che un significativo processo di convergenza si è realizzato soltanto nel periodo compreso tra il 1951 e il 1973, periodo in cui il processo di accumulazione è stato nel Mezzogiorno elevato e sempre superiore a quello registrato nel Centro-Nord, sostenendo la dinamica della produttività: sono gli anni nei quali un rapido aumento del prodotto per addetto ha riflesso il diffondersi di una struttura industriale caratterizzata da un’elevata produttività in un’economia prevalentemente agricola (v. Fig. 8). Tra il 1951 e il 1973 il rapporto tra Investimenti e Pil al Sud è circa raddoppiato, dal 17% al 33%, raggiungendo un livello superiore di oltre 10 punti a quello rilevabile nel Nord. Dagli anni immediatamente successivi alla prima crisi da 5 petrolio esso si indebolisce progressivamente, crollando nel 1995 ai livelli di 50 anni prima e riallineandosi a quello del Centro-Nord. Simili dinamiche riflettono non solo i cambiamenti nel contesto competitivo e istituzionale ma anche la diversa efficacia delle politiche pubbliche. Come si avrà modo di riprendere nel seguito, una riflessione sulla struttura e i contenuti delle politiche di sviluppo e coesione nel nostro Paese, non può dunque prescindere da una maggiore finalizzazione degli interventi pubblici alla capacità di accrescere le convenienze per gli investimenti produttivi. Nel 2008 (v. Fig. 9) ha contribuito alla flessione della domanda interna anche una contrazione della dinamica dei consumi in tutto il Paese. In particolare, i consumi delle famiglie hanno fatto segnare una significativa riduzione (-0,9% al Nord e -1,4% nel Sud), con una estensione specialmente nel Sud delle difficoltà dal comparto dei beni durevoli a quelli non durevoli: i consumi alimentari sono calati nel 2008 del 2,7% nel Sud, oltre mezzo punto più che nel Nord, spia di difficoltà a mantenere lo standard di vita che cominciano ad investire strati sempre più ampi della popolazione. Alla base del progressivo impoverimento del Mezzogiorno c’è la brusca contrazione dell’occupazione (v. Fig. 10), registratasi già nel corso del 2008 e poi aggravatasi significativamente nel 2009. La sequenza nei trimestri è preoccupante:- 1,0% nel terzo trimestre 2008, - 1,9% nel quarto trimestre, poi riconfermato nel primo del 2009; tra gennaio 2009 e gennaio 2008 si sono persi al Sud 114 mila posti di lavoro. Nel solo comparto industriale meridionale, che più sta soffrendo la fase di crisi, l’occupazione si è ridotta di 57 mila unità (-6,6% a fronte del -0,6% al Centro-Nord). Ciò vuol dire che molti lavoratori, spesso precari e a termine e quindi privi della copertura del sistema di ammortizzatori sociali, si sono trovati improvvisamente senza lavoro e senza reddito. Simili dinamiche, in un area dove lavora appena il 44% della popolazione in età di lavoro, e le donne che lavorano sono meno di 3 su 10, costituiscono una situazione di potenziale emergenza sociale, trascurata dalla politica nazionale, che richiede risposte assai più incisive. 6 Migrazioni e calo demografico L’insufficiente dotazione di capitale fisso sociale e produttivo nel Mezzogiorno (v. Fig. 11), oltre a lasciare più di una persona su dieci senza lavoro, spinge ogni anno circa 120 mila persone ad abbandonare il Sud per cercare di realizzare le proprie aspettative professionali nel resto del Paese; si tratta perlopiù di giovani individui con un buon livello di scolarizzazione. Questo a fronte di un rientro nell’area di circa 65 mila persone all’anno. Ciò non mancherà di condizionare negativamente, più che in passato, anche l’evoluzione della demografia del Mezzogiorno (v. Fig. 12). In una fase di forte calo della natalità, la fuoriuscita delle giovani coorti in età riproduttiva innesca, infatti, un processo che in poco più di un ventennio si prevede porterà al declino demografico; il Sud, dagli attuali 20,8 milioni di abitanti diminuirà ai 19,3 milioni, e vedrà crescere considerevolmente il peso delle classi anziane e vecchie: una persona su tre avrà più di 65 anni e una su dieci più di 80 anni. Soltanto poco più di un meridionale su 3 (il 36,7%) avrà meno di 40 anni, e i giovani sotto i vent’anni scenderanno al 17%. Nel Mezzogiorno, tra il 2008 e il 2030 la forza lavoro subirà una contrazione di circa 2,2 milioni di unità. Questa difficile transizione demografica porterà il Sud ad affrontare i problemi propri di un’economia matura senza aver ancora superato la condizione di ritardo nello sviluppo. Ciò avrà forti implicazioni, come si avrà modo di sottolineare nell’analisi sul sistema di Welfare, nella gestione di un’assistenza sociale che dovrà fronteggiare costi crescenti con insufficienti flussi di ricchezza. Del resto una popolazione invecchiata esprimi modelli di consumo che tendono a deprimere la dinamica della domanda interna aggregata, con inevitabili riflessi negativi sul sistema produttivo domestico. 2. NECESSITÀ DI UNA RIFORMA INTERNA DELLA POLITICA PER IL SUD L’interruzione di un sia pur minima tendenza alla convergenza tra aree deboli e aree forti del nostro Paese costituisce, come visto, un’anomalia nel panorama europeo e richiede una profonda riflessione. La analisi contenute nel Rapporto mostrano, sulla base di una valutazione econometrica, che la politica di coesione comunitaria ha contribuito positivamente ai 7 processi di crescita e di convergenza nell’Unione europea e che tale contributo è valutabile per il complesso delle regioni Obiettivo 1, destinatarie di tali risorse, in circa mezzo punto all’anno di crescita aggiuntiva, nel periodo 1994-2006. Un esercizio similare condotto dalla Banca d’Italia con riferimento alle sole regioni Obiettivo 1 del Sud ha valutato invece tale contributo in circa 0,25 decimi di punto, a conferma di una minore efficacia delle politiche nel Mezzogiorno. 8 2.1. La spesa pubblica La minore efficacia della politica di coesione nel nostro Paese si colloca in un contesto caratterizzato da un progressivo indebolimento del processo di accumulazione di capitale pubblico, indebolimento che si è manifestato con effetti particolarmente marcati nel Mezzogiorno dove la spesa complessiva della Pubblica Amministrazione, anche escludendo gli Enti previdenziali, risulta più bassa che nel resto del Paese. Questo dato smentisce l’opinione diffusa di un eccesso di spesa nell’area. Il fenomeno riguarda sia le spese correnti che quelle in conto capitale. Per le spese correnti, la differenza negativa rispetto al livello pro capite del Centro-Nord è pari nel 2007 all’1,7%; per quelle in conto capitale, al 2,6%. La quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto capitale del Paese (v. Fig. 13) è scesa progressivamente nel corso di questo decennio, dal 41,1% del 2001 al 36,8% del 2006, al 35,4% nel 2007; il valore stimato per il 2008, diminuito al 34,9%, è inferiore al peso demografico dell’area ed è ben lontano dall’obiettivo del 40/45% indicato fino all’anno scorso nei documenti governativi. Si sarebbe in tal modo ormai del tutto annullata l’aggiuntività delle risorse destinate allo sviluppo del Mezzogiorno. Poiché quest’anno il Dipartimento per le Politiche di sviluppo e Coesione non ha potuto rendere disponibile il dato relativo alla spesa ordinaria, il riferimento è a quello contenuto nel Rapporto dell’anno scorso, che indicava per il 2007 una quota di spesa ordinaria destinata alla formazione di capitale nel Mezzogiorno sul totale nazionale pari ad appena il 21,4%, inferiore cioè di circa 16 punti al peso naturale dell’area (valutabile nel 38% circa) e di quasi 9 punti rispetto all’obiettivo del 30% indicato, per questa componente, nei documenti governativi. L’effetto negativo sulla dotazione di capitale nel Mezzogiorno, conseguente al basso livello di spesa in conto capitale effettuato dalle Amministrazioni Pubbliche, è ampliato per effetto di una ridotta attività di investimento delle imprese pubbliche nazionali e locali, che danno invece un forte contributo all’accumulazione di capitale nel Centro-Nord. Per le imprese pubbliche locali (v. Fig. 14), la quota di spesa localizzata nel Mezzogiorno, pari a meno del 20% della spesa complessiva a livello nazionale, risente, da una parte, della debolezza degli Enti locali meridionali e, dall’altra, delle minori capacità manageriali, espressione della debolezza del sistema 9 produttivo dell’area. Siamo ben lontani dalla realtà delle imprese locali del Centro- Nord, tra le quali vi sono vere e proprie holding, con società quotate in borsa che competono a livello nazionale e internazionale. Nel caso delle imprese pubbliche nazionali (v. Fig. 15), invece, la concentrazione degli interventi nel Nord risponde al criterio, nell’ambito di una gestione privatistica, di privilegiare gli investimenti con maggiore ritorno economico, localizzati nelle aree già sviluppate dove ampia è la domanda da soddisfare, piuttosto che quelli in aree non sviluppate dove dovrebbero svolgere una funzione di stimolo allo sviluppo. Spetterebbe allo Stato, che ne è azionista, di perseguire un’azione redistributiva tra le aree del Paese al momento della approvazione del contratto di programma con queste imprese, impedendo così che, ad esempio, le Ferrovie dello Stato destinino appena il 21% degli investimenti al Sud. 2.2. La politica di coesione Il ciclo di programmazione dei Fondi strutturali 2000-2006 è giunto a completamento, essendo scaduto il termine utile per l’erogazione dei contributi assegnati, fissato al 30 giugno scorso. Al febbraio 2009, per l’Obiettivo 1 si stimava necessario erogare circa 2,7 miliardi di euro per conseguire il risultato del completo assorbimento del contributo programmato, pari a 45,9 miliardi. Il risultato del pieno utilizzo delle risorse comunitarie, tuttavia, non è un dato del tutto significativo. I target di spesa dell’Obiettivo 1, infatti, sono stati finora raggiunti grazie anche ad un ampio ricorso ai “progetti coerenti”, progetti che avevano già copertura in altre risorse nazionali o regionali, presenti in tutti gli Assi prioritari di sviluppo (v. Fig. 16). Alla fine del 2008, il valore dei “progetti coerenti” è calcolato pari a 20,4 miliardi di euro, corrispondente al 44,5% del valore della dotazione finanziaria del QCS 2000-2006 ed al 34,7% del valore dei progetti identificati. L’uso dei progetti coerenti nella programmazione appena conclusa, risulta particolarmente elevato in alcuni Assi strategici per lo sviluppo regionale, riguardanti le infrastrutture, in particolare di trasporto, come ad esempio “Reti e nodi di servizio”, per il quale la quota risulta 10 superiore ai tre quarti del valore della dotazione dell’Asse ed oltrepassa il 60% del valore dei progetti identificati. L’elevato ricorso ai progetti coerenti, costituisce una manifestazione di alcuni importanti limiti del passato ciclo di programmazione ormai largamente riconosciuti: la mancata concentrazione degli interventi su un numero selezionato di ambiti, con la dispersione delle risorse aggiuntive finalizzate alla accelerazione dello sviluppo in una eccessiva molteplicità di progetti; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui. Ciò è frutto in buona parte dell’impianto strategico ed istituzionale stesso della programmazione 2000-2006, che è stato, già in passato, oggetto di critiche in relazione alla numerosità dei livelli di governo coinvolti ed alle difficoltà del loro coordinamento e all’eccessiva enfasi attribuita nella impostazione e nella realizzazione della politica ai fattori di contesto e ai soggetti locali. La presa d’atto della scarsa efficacia della programmazione 2000-2006 ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno sta chiaramente ad indicare la necessità di una svolta, sia per quanto riguarda le modalità di programmazione e la focalizzazione della spesa, sia per quanto riguarda la realizzazione degli interventi. Rispetto al percorso sin qui seguito, parrebbe necessario procedere ad un più forte processo di “riforma interna” della programmazione, che, pur evitando di determinare “rotture” traumatiche che rischierebbero di ritardare la spesa e far perdere le risorse, ponga più stringenti vincoli alla frammentazione, alla dispersione territoriale, e a quell’eccesso di localismi che ha non marginalmente condizionato i risultati delle politiche. L’impostazione del nuovo Quadro Strategico Nazionale 2007-2013 si è invece mossa all’interno di una sostanziale continuità con il precedente ciclo di programmazione. La struttura dei Programmi risulta, inoltre, caratterizzata da una maggiore flessibilità, ma anche indeterminatezza: sono stati identificati indicatori e target da raggiungere, ma sono solo accennati i contenuti operativi della programmazione e delle linee di intervento; queste ultime, peraltro, contengono scarse indicazioni in merito agli strumenti ed ai percorsi di realizzazione, così da determinare una insufficiente definizione dei contenuti e una frattura tra programmazione strategica ed operativa. Appare assente una regia complessiva del processo di attuazione nella 11 direzione del perseguimento degli obiettivi enunciati; mentre la scelta dei tempi e delle modalità di realizzazione della strategia viene rimandata e demandata alle decisioni di attuazione delle singole Amministrazioni. In definitiva, sebbene le premesse programmatiche avessero potuto essere almeno in parte diverse, l’attuale periodo di programmazione 2007-2013. Il QSN 2007-2013 dovrebbe rappresentare, per altro, la cornice programmatica per la “politica regionale unitaria”, finanziata con le risorse nazionali del FAS e con quelle comunitarie dei Fondi strutturali. Tuttavia, come si avrà modo di riprendere, il disegno di programmazione unitario è stato depotenziato da decisioni governative intervenute nel corso del 2008 e nei primi mesi del 2009. Rispetto al passato, un’accresciuta importanza, anche in virtù della “contaminazione” degli obiettivi di riequilibrio territoriale con le priorità della Strategia di Lisbona e Goteborg, viene riconosciuta nel QSN all’economia della conoscenza ed alla innovazione, al capitale umano, alla valorizzazione ambientale ed alle energie pulite, quali fattori di crescita dei territori con condizioni di arretratezza socio- economica. Vengono inoltre introdotti gli “Obiettivi di servizio”. Con essi si registra un esperimento di “transizione” delle finalità e del campo di intervento della politica regionale; quest’ultima passa, infatti, dalla fissazione di obiettivi di riequilibrio, e quindi dalla compensazione di uno svantaggio iniziale, alla definizione di uno standard minimo di servizio, quale condizione irrinunciabile di cittadinanza, nei campi dell’istruzione, della cura per l’infanzia e per gli anziani, e del miglioramento del servizio idrico e della gestione dei rifiuti urbani. In tal senso si prefigura un nuovo, e a nostro avviso rischioso, percorso che fa carico alla politica regionale di intervenire in un ambito di spettanza della politica nazionale ordinaria, e che potrebbe condurre a ridimensionare il ruolo delle infrastrutture, del capitale produttivo e dell’impresa. Per evitare che nel ciclo 2007-2013 si ripetano le criticità emerse con riferimento al precedente periodo 2000-2006, un mutamento di rotta è possibile e auspicabile dando luogo ad una più effettiva e stabile cooperazione tra le Regioni del Sud, e ad un più forte coordinamento fra esse e l’azione dell’Amministrazione Centrale, in una prospettiva strategica riferita ai bisogni collettivi del Mezzogiorno. Dovrebbe inoltre essere riconosciuta priorità politica di livello nazionale al governo, alla valorizzazione ed alla sorveglianza di un bacino finanziario significativo come quello dei Fondi 12 strutturali, con un vincolo territoriale vigilato dalla Commissione europea, e che, quindi, in caso di mancato impiego, non sia destinabile ad altri utilizzi. Va evidenziato, al riguardo, che la flessibilità della programmazione attuale consente di focalizzare le scelte e di selezionare i “progetti cruciali” senza interventi della Commissione europea. E’ possibile, pertanto, e necessario, identificare, dare evidenza e visibilità, nell’ambito di obiettivi chiave di grande rilevanza, ad alcuni specifici progetti, in particolare a quelli legati a infrastrutture e innovazione delle imprese, che possano rappresentare e tradurre in maniera chiara le priorità strategiche indicate nei Programmi operativi, regionali e nazionali; ed avviarne immediatamente la realizzazione con un calendario stringente, da sottoporre a stretta sorveglianza. E’ importante, però, che su tale percorso – a ormai soli cinque anni dalla fine dell’attuale ciclo di programmazione – abbia a focalizzarsi l’attenzione della politica (Governo e Parlamento) e della opinione pubblica, assicurando il più ampio coinvolgimento e supporto per il suo successo. 2.3. Le politiche per il Sud nella crisi In Italia il finanziamento degli interventi anticrisi è stato assicurato principalmente da interventi di riallocazione e rimodulazione di risorse pluriennali destinate in larga misura a interventi infrastrutturali. Infatti, gran parte delle maggiori spese sono state compensate mediante tagli, riprogrammazioni e riallocazioni delle risorse nazionali finalizzate soprattutto allo sviluppo del Mezzogiorno, presenti nel Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS). Il FAS, secondo quanto stabilito dalla legge istitutiva, avrebbe dovuto essere ripartito esclusivamente con apposite delibere CIPE per investimenti pubblici e per incentivi con finalità di riequilibrio economico e sociale sulla base del criterio generale di destinazione territoriale delle risorse. Nel corso del 2008 e nei primi sei mesi del 2009, invece, il legislatore, anticipando l’opera di ripartizione del Cipe, è intervenuto con rilevanti utilizzi della dotazione FAS per impieghi sovente non coerenti con le finalità proprie del Fondo. Questo ha determinato “preallocazioni” delle risorse FAS verso specifiche destinazioni che, prima delle deliberazioni CIPE, hanno ridotto in misura considerevole 13 l’entità dei fondi da ripartire per le aree sottoutilizzate ed esteso anche al Centro-Nord la possibilità di finanziamento sistematico su fonti vincolate alle politiche di coesione. Il volume delle risorse FAS mobilitato, prima per il finanziamento di interventi di carattere emergenziale (rifiuti, risanamento bilanci Comuni Roma e Catania, ecc..) e, successivamente, per misure anticrisi, è ingente: partendo dalle risorse appostate dal Bilancio pluriennale 2008-2010 sul Fondo Aree Sottoutilizzate e da quelle previste per finanziare impegni con un profilo pluriennale di spesa anche per gli anni 2011-2012, a maggio 2009 risultavano utilizzi del FAS per oltre 18 miliardi di euro a valere sulle risorse stanziate per il periodo 2008-2012. Questo ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul Quadro Strategico Nazionale 2007-2013, indebolendone significativamente la componente nazionale. Il Quadro Strategico Nazionale prevedeva, infatti, come richiamato, una programmazione coordinata e contestuale dei fondi nazionali ed europei destinati alle politiche regionali, e costituiva pertanto la sede unitaria per il finanziamento delle priorità individuate a seguito di un lungo negoziato tra Amministrazioni regionali, centrali e comunitarie. Con i successivi decreti anticrisi, una percentuale significativa delle risorse FAS è stata stanziata su altri fondi: il Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia reale, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con una dotazione di circa 9 miliardi; il Fondo infrastrutture, nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico, con una dotazione prima di circa 7 miliardi poi integrata di altri 5 miliardi; il Fondo sociale per l’occupazione e la formazione, presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, cui sono stati destinati circa 4 miliardi del FAS. Tali fondi, pur formalmente vincolati per legge per l’85% in favore delle regioni del Mezzogiorno e per il 15% in favore delle aree sottoutilizzate delle regioni del Centro-Nord), di fatto sono stati successivamente utilizzati per finalità specifiche non condizionate a particolari destinazioni territoriali. Esemplare è il caso del Fondo sociale per l’occupazione e la formazione, nel quale confluiscono, in modo non distinto, oltre alle risorse FAS destinate alle aree sottoutilizzate, anche le risorse del Fondo per l’occupazione nonché tutti gli stanziamenti per il finanziamento degli ammortizzatori 14 sociali, concessi in deroga alla normativa vigente, e quelli destinati in via ordinaria dal CIPE alla formazione. L’area meridionale si trova pertanto a competere, in termini di capacità di assorbimento, con le aree a più alto tasso di sviluppo del Paese che riescono ad attivare una più efficiente programmazione di spesa e più elevati livelli di progettualità, anche in una non favorevole situazione congiunturale. La concentrazione e riprogrammazione delle risorse FAS a fini strategici e su infrastrutture prioritarie, nel quadro di una più generale “riforma interna” della politica regionale, di cui si è prima affermata la necessità, viene così limitata e “spiazzata” da impieghi verso aree a più intenso e rapido tiraggio di risorse. Emerge, dunque, con evidenza, una configurazione di “non neutralità” delle crisi che rischia di dare luogo ad una tendenza alla redistribuzione delle risorse a favore delle aree più forti; tendenza che potrebbe perdurare anche oltre la fase congiunturale, in considerazione dell’ampiezza dei processi di ristrutturazione che si richiederanno per il superamento delle difficoltà strutturali indotte da una crisi di carattere internazionale ed esogena quale quella in corso. Da questo punto di vista, l’attuale situazione appare confrontabile con quella degli anni successivi alla crisi petrolifera del 1973, che pose fine alla fase di più intensa convergenza tra il Sud e il Nord e alla quale fece seguito un lungo periodo di progressivo indebolimento dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Nella sua introduzione al secondo “Rapporto sull’economia del Mezzogiorno”, del 1975, l’allora Presidente della SVIMEZ Pasquale Saraceno aveva prontamente denunciato tale rischio (v. Fig. 17). “Quando, come quest’anno – rilevava Saraceno – non vi è alcun surplus dell’economia da distribuire tra varie alternative di utilizzazione, ma anzi è l’impoverimento generale che occorre distribuire, la forza organizzativa di pressione e di lotta in difesa degli interessi immediatamente minacciati, tende naturalmente a prevalere … Le regioni settentrionali sembrano di fatto reclamare a sé la parte più rilevante delle risorse da destinare alla ristrutturazione, e quindi anche al futuro sviluppo, dell’industria italiana … Non sarebbe certo sorprendente … che il grande obiettivo dell’unificazione economica del Paese sia di fatto travolto da una successione di decisioni condizionate dall’evolversi della congiuntura”. E, di fronte a un simile 15 rischio, egli ammoniva: “Oggi meno che mai il Mezzogiorno può essere considerato un problema residuo, da affrontare solo se e dopo che si sia risolto quello del rilancio dell’economia. Il Mezzogiorno è … un problema di politica generale, che deve trovar posto nelle strategie della ripresa”*. Oggi come allora conserva la sua validità l’indicazione della necessità di una politica di sviluppo nazionale unitaria che, tenendo conto anche delle urgenti esigenze di ristrutturazione dei sistemi produttivi a più alto tasso di sviluppo, sia però in grado di conciliare la necessità di risanamento e riconversione degli uni con il mantenimento di una azione costante ed efficace per la riduzione del divario strutturale di sviluppo tra Sud e Nord. * Cfr. SVIMEZ, Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 1975, Collana Documenti SVIMEZ, pp. 11, 13, 15. Svimez 2009/02_Direttore_slide.pdf Rapporto 2009 sull’economia del Mezzogiorno Roma, 16 luglio 2009 Riccardo PADOVANI direttore della SVIMEZ Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno Roma, 16 luglio 2009 2,9 0,9 1,8 CRESCITA DEL PIL Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno -1,00,9 -1,1 2008 2007 Fig. 1 7,9 Mezzogiorno Centro-Nord 5,0 TASSI ANNUI DI VARIAZIONE % DEL PIL Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 2001 - 2008 Cumulata Mezzogiorno Centro-Nord 0,5 0,4 2002 0,0 -0,3 2003 1,8 0,5 2004 0,8 0,4 2005 2,1 1,7 2006 0,9 2007 1,8 -1,1 2008 -1,0 1,7 2,3 2001 Fig. 2 Tassi medi annui di variazione % di PIL, popolazione e PIL pro capite (2001-2008) Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno Mezzogiorno Centro-Nord PIL 0,6 1,0 Popolazione 0,2 0,9 PIL pro capite 0,4 0,1 Fig. 3 PIL pro capite nelle aree “deboli” e nelle aree “forti” Ue Tassi medi annui di crescita (%) 1999-2005 Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno REGIONI NON Obiettivo 1 REGIONI Obiettivo 1 ITALIA 0,7 0,6 GERMANIA 0,8 1,8 SPAGNA 1,8 2,4 UE a 27 1,3 3,0 Fig. 4 2,4 5,8 -2,6 2,3 1,2 11,0 Mezzogiorno Centro-Nord 3,5 -2,1 2,9 2,3 -0,3 9,32001 2002 2003 2004 2005 TASSI ANNUI DI VARIAZIONE % DEGLI INVESTIMENTI FISSI LORDI TOTALI Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 2001 - 2008 4,5 2006 2,4 Cumulata Mezzogiorno Centro-Nord 1,1 2007 2,3 -2,8 2008 -3,0 Fig. 5 0,8 2,8 -5,5 -1,2 -1,9 -5,1 Mezzogiorno Centro-Nord -4,8 -6,5 1,4 -2,4 -6,2 -15,7 2001 2002 2003 2004 2005 TASSI ANNUI DI VARIAZIONE % DEGLI INVESTIMENTI FISSI LORDI INDUSTRIALI Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 2001 - 2008 10,0 2006 3,9 Cumulata Mezzogiorno Centro-Nord-0,5 2007 2,0 -6,7 2008 -5,6 Fig. 6 ANDAMENTO DEL PIL PRO CAPITE DAL 1951 AL 2008 Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 0 5.000 10.000 15.000 20.000 25.000 30.000 35.000 1 9 5 1 1 9 5 4 1 9 5 7 1 9 6 0 1 9 6 3 1 9 6 6 1 9 6 9 1 9 7 2 1 9 7 5 1 9 7 8 1 9 8 1 1 9 8 4 1 9 8 7 1 9 9 0 1 9 9 3 1 9 9 6 1 9 9 9 2 0 0 2 2 0 0 5 2 0 0 8 E u r o 2 0 0 8 50,0 52,0 54,0 56,0 58,0 60,0 62,0 M e z z o g i o r n o i n % d e l C e n t r o - N o r d Centro-Nord Mezzogiorno Mezzogiorno in % del Centro-Nord Fig. 7 TASSO DI ACCUMULAZIONE NEL MEZZOGIORNO E NEL CENTRO-NORD Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 10,0 15,0 20,0 25,0 30,0 35,0 40,0 1 9 5 1 1 9 5 4 1 9 5 7 1 9 6 0 1 9 6 3 1 9 6 6 1 9 6 9 1 9 7 2 1 9 7 5 1 9 7 8 1 9 8 1 1 9 8 4 1 9 8 7 1 9 9 0 1 9 9 3 1 9 9 6 1 9 9 9 2 0 0 2 2 0 0 5 2 0 0 8 I n v e s t i m e n t i i n % P I L Tasso di accum. Centro-Nord Tasso di accum. MezzogiornoCentro-Nord Mezzogiorno Fig. 8 CONSUMI DELLE FAMIGLIE E CONSUMI ALIMENTARI Variazioni percentuali nel 2008 Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno Mezzogiorno Centro-Nord TOTALE -1,4 -0,9 - Alimentari -2,7 -2,1 Fig. 9 ANDAMENTO CONGIUNTURALE DELL’OCCUPAZIONE TASSI DI VARIAZIONE % TENDENZIALI E VARIAZIONI ASSOLUTE Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno -90-114-0,5-1,8I trimestre 09 150-1260,9-1,9IV trimestre 08 165-641,0-1,0III trimestre 08 Valori percentuali Valori assoluti(migliaia di unità) Mezzogiorno Centro-Nord Mezzogiorno Centro-Nord I trimestre 08 -0,2 2,1 -15 339 II trimestre 08 1,0 1,3 69 214 Fig. 10 Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 65.000 Rientri 56.000 Temporanei 120.000 Trasferimenti 173.000 Temporanei I TRASFERIMENTI DI RESIDENZA E IL PENDOLARISMO Fig. 11 STRUTTURA PER ETA’ E SESSO DELLA POPOLAZIONE RESIDENTE NEL MEZZOGIORNO Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno Anno 2007 Anno 2037 Fig. 12 QUOTA DEL MEZZOGIORNO SULLA SPESA IN CONTO CAPITALE DELLA P.A. Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 Spese d’investimento 35,4 32,6 30,6 30,7 32,3 32,9 34,0 35,0 Trasferimenti capitale 49,9 48,7 48,1 47,5 45,0 43,2 37,7 34,8 TOTALE 41,1 39,3 37,5 36,6 36,9 36,8 35,4 34,9 Fig. 13 SPESA IN CONTO CAPITALE DELLE IMPRESE PUBBLICHE LOCALI Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 10,910,79,57,67,46,87,1Centro-Nord 19,716,719,323,319,119,218,8 Mezzogiorno in % Italia 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Valori assoluti (miliardi di euro) Mezzogiorno 1,6 1,6 1,8 2,3 2,3 2,1 2,7 Fig. 14 SPESA IN CONTO CAPITALE DELLE IMPRESE PUBBLICHE NAZIONALI Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 18,027,820,528,513,312,58,8Centro-Nord 23,615,526,331,623,523,326,4 Mezzogiorno in % Italia 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Valori assoluti (miliardi di euro) Mezzogiorno 3,2 3,8 4,1 13,2 7,3 5,1 5,6 Fig. 15 QCS 2000-2006: PROGETTI COERENTI Situazione al 31-12-2008 Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 64,085,78.377Reti e nodi di servizio 2,52,623Assistenza tecnica Assi Valori assoluti(milioni di Euro) In % della dotazione finanziaria In % dei progetti identificati Risorse naturali 4.173 54,5 38,9 Risorse culturali 794 31,5 26,6 Risorse umane 1.542 18,6 15,8 Sistemi locali di sviluppo 4.092 27,7 22,4 Città 1.433 70,2 44,6 TOTALE QCS 20.434 44,5 34,7 Fig. 16 Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno Pasquale Saraceno, Introduzione al “Rapporto SVIMEZ sul Mezzogiorno 1975” “Quando, come quest’anno, non vi è alcun surplus dell’economia da distribuire tra varie alternative di utilizzazione, ma anzi è l’impoverimento generale che occorre distribuire, la forza organizzativa di pressione e di lotta in difesa degli interessi immediatamente minacciati, tende naturalmente a prevalere ….. Le regioni settentrionali sembrano di fatto reclamare a sé la parte più rilevante delle risorse da destinare alla ristrutturazione, e quindi anche al futuro sviluppo, dell’industria italiana ….. Non sarebbe certo sorprendente….. che il grande obiettivo dell’unificazione economica del Paese sia di fatto travolto da una successione di decisioni condizionate dall’evolversi della congiuntura.” [Di fronte a un simile rischio] “Oggi meno che mai il Mezzogiorno può essere considerato un problema residuo, da affrontare solo se e dopo che si sia risolto quello del rilancio dell’economia. Il Mezzogiorno è … un problema di politica generale, che deve trovar posto nelle strategie della ripresa ”. Fig. 17 Riccardo PADOVANI direttore della SVIMEZ Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno Roma, 16 luglio 2009 Svimez 2009/03_Vicedirettore_testo.pdf Rapporto 2009 sull’economia del Mezzogiorno Roma, 16 luglio 2009 Roma, 16 luglio 2009 Luca BIANCHI vice direttore della SVIMEZ Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno LE RIFORME STRUTTURALI UNA PRIORITA’ DELL’AZIONE PER IL MEZZOGIORNO LE RETI FORMATIVE LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IL SISTEMA DI WELFARE Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno LA RETE FORMATIVA Iscritti all’università per 100 diplomati nel Mezzogiorno 62,8 72,2 70,6 64,5 58 60 62 64 66 68 70 72 74 2000 2002 2004 2007 Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno Aumenta la dipendenza dalle famiglie Riduce la crescita demografica e la mobilità sociale Aumenta il legame tra istruzione dei genitori e risultati dei figli Tasso di iscrizione in diminuzione Scoraggiamento ad investire nell’istruzione superiore Consapevolezza di una effettiva disuguaglianza sociale LA RETE FORMATIVA Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno La mobilità per motivi di studio 72.000 si iscrivono nel Sud Iscrizioni all’università 1% 24.000 si iscrivono al Nord (2 su 3 trovano lavoro al Nord) Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 72.000 nel Sud 46.000 lavorano 15.000 vanno al Nord 31.000 restano al Sud La mobilità per motivi di studio Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 33.000 disoccupati 26.000 lavorano al Nord 37.000 lavorano al Sud La mobilità dei 96.000 laureati del Sud Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 41,5% dei laureati meridionali che, dopo tre anni, lavorano emigrano al Nord +10% rispetto al 2001 Il 40% con votazione di 110 Studiare Emigrare La mobilità dei laureati del Sud Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno 20.000 rientri nel secondo semestre del 2008 (soprattutto donne) 173.000 Trasferimenti +15,3% rispetto al 2007 80% meno di 45 anni 24% laureato I nuovi emigranti: il pendolarismo Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IMPATTO SULLA QUALITA’ DELLA VITA DEI CITTADINI E SULLE CONDIZIONI DEL “FARE IMPRESA” NEL SUD Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno INEFFICIENZE IRREGOLARITA’ DISTRIBUZIONE ACQUA 21,8% 9% 30% in Sicilia e Calabria Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno INEFFICIENZE ATTESA > 20 min ALLO SPORTELLO POSTEASL 53% 40%45% 25% POSTEASL Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno INEFFICIENZE SANITA’ Insoddisfazione servizi ospedalieri Mobilità per ricoveri ospedalieri Sud Nord Sud Nord 10% 5% 82% 54% Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno INEFFICIENZE GESTIONE RIFIUTI 0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100% Mezzogiorno Centro Nord Discarica Incenerimento Recupero Compostaggio Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno INEFFICIENZE SISTEMA GIUDIZIARIO: DURATA MEDIA PROCEDIMENTI DI COGNIZIONE ED ESECUTIVI Di cui cause di lavoro1°grado 1200 gg 750 gg 1000 gg 500 gg 2300 gg 1000 gg Esecutivi Sud Nord Sud Nord Sud Nord Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno INEFFICIENZE OPERE PUBBLICHE: PROGETTAZIONE E AGGIUDICAZIONE OPERE Approvazione e aggiudicazione Progettazione 1000 gg 380 gg 272 gg 93 gg S i c i l i a L o m b a r d i a S i c i l i a L o m b a r d i a Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno UN WELFARE PIU’ EQUO TRA LE GENERAZIONI E I TERRITORI Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno WELFARE I PENSIONATI GIOVANI IL 46,8% DEI 50-69ENNI VA IN PENSIONE PER RAGGIUNTI LIMITI DI ETA’ IL 35% PER MANCANZA DI INTERESSE IL 3% PER INCENTIVI ECONOMICI L’ETA’ MEDIA DI PENSIONAMENTO E’ 56,3 ANNI CON 34,4 ANNI DI CONTRIBUTI AL NORD 58,3 ANNI CON 33,1 ANNI DI CONTRIBUTI AL SUD Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno WELFARE SPESA PER PRESTAZIONI SOCIALI E PER PENSIONI 0 1000 2000 3000 4000 5000 6000 7000 8000 Mezzogiorno Grecia Italia UE25 Centro-Nord Germania Francia Prestazioni sociali Pensioni Welfare pro-capite 7200 € al Nord 5700 € al Sud Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno WELFARE LIVELLO LOCALE 1Campania Bambini in asilo nido x 100 bambini Emilia 24 Toscana 17 ITALIA 9 Mezzogiorno 4 Calabria 1 Welfare locale pro-capite Nord 127 Sud 54 Spesa pro-capite area famiglia-infanzia Nord 130 Sud 48 Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno WELFARE LIVELLO LOCALE % Anziani assistiti Spesa per anziano Mezzogiorno 2,1 1.390 Centro-Nord 2,6 1.650 % Disabili assistiti Spesa per disabile Mezzogiorno 5,7 2.727 Centro-Nord 8,9 4.579 Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno WELFARE AMMORTIZZATORI SOCIALI Occupati senza tutela Italia 2 milioni Mezzogiorno 650mila 550mila1,1 milioniMezzogiorno Disoccupati Irregolari e disoccupati Irregolari 30% della forza lavoro al Sud è senza tutele; il 50% considerando anche gli autonomi Rapporto SVIMEZ 2009 sull'economia del Mezzogiorno REDDITO DI ULTIMA ISTANZA IPOTESI DI COSTO 1.938.310.680974milaItalia 930.389.126443milaMezzogiorno 213.214.175133milaCentro 794.707.379398milaNord Costo stimato (€) Famiglie povere e stima sul costo di una integrazione del reddito Famiglie povere Svimez 2009/04_Novacco_testo.pdf SVIMEZ 1 INTRODUZIONE AL DIBATTITO SULLE POLITICHE STRUTTURALI PER LO SVLUPPO E PER LA COESIONE NAZIONALE a cura di Nino Novacco, Presidente SVIMEZ La SVIMEZ sollecita un franco confronto nazionale di politica economica, ed impegni strutturali sul futuro del Mezzogiorno e dell’Italia. Roma, 16 luglio 2009 SVIMEZ 1 La SVIMEZ sollecita un franco confronto nazionale di politica economica, ed impegni strutturali sul futuro del Mezzogiorno e dell’Italia. Intervento introduttivo di Nino NOVACCO, Presidente SVIMEZ 1. Ancora una volta − e di sicuro peggio che altre volte, per la natura mondiale della crisi in atto − i dati della congiuntura economica e sociale italiana non sono rosei, né per l’intero Paese rispetto al mercato europeo e globale, né, a livello delle nostre storiche macro- regioni, per la vasta area del Mezzogiorno, la cui crescita la SVIMEZ ha documentato essere stata anche nell’ultimo anno inferiore a quella del Centro-Nord. Il Sud è un’area ampia ed articolata, composta da 8 Regioni e 41 Province, con 21 milioni di abitanti (il 35,6 % dell’Italia), e con una superficie di 124.000 Kmq (il 46,1 % dell’Italia), sia con una poco articolata struttura industriale ed occupazionale nelle manifatture, sia con un più debole PIL (solo il 23,9 % di quello dell’Italia), sia con un PIL pro-capite (di oltre 15.000 Euro) che certo è assai più elevato di quelli attuali di Paesi (africani, asiatici e latino-americani marginali) che una volta si chiamavano “in via di sviluppo”. Ma non è certo con tali Paesi che dobbiamo prioritariamente confrontarci, visto che siamo parte integrante dell’Italia e dell’Europa, ed è rispetto ad esse che siamo quotidianamente impegnati a competere. Anche se il PIL pro-capite del Mezzogiorno viene paragonato con quello del Centro- Nord − cioè con la realtà politica ed economica di quella parte fondamentale ed avanzata dell’Italia e dell’Ue di cui anche il Sud è componente −, esso presenta sistematici scarti; e sono tali divari che dobbiamo contrastare. Nella graduatoria nazionale, la Regione del Mezzogiorno mediamente più ricca (l’Abruzzo, con 18.915 Euro pro-capite) presenta un ampio distacco di quasi 3.800 Euro con la Regione (l’Umbria, che ha 22.734 Euro pro-capite) che è la meno avanzata dell’Italia Centrale, mentre il distacco tra il valore del PIL pro-capite di quella meno prospera regione centro-settentrionale è superiore di oltre 8.500 Euro al dato pro-capite della più povera regione meridionale. E ciò mentre il distacco del PIL pro-capite tra la più ricca regione del Nord-Italia e la più povera del nostro Sud è di quasi 37.000 Euro. SVIMEZ 2 Anche volendo esprimere i divari rispetto non alle Regioni, ma alle macro-aree del Paese, il Sud ha un PIL pro-capite medio di 15.280 Euro, contro i 27.515 Euro medi del Centro-Nord (oltre 12.000 Euro di scarto), con un differenziale percentuale sul proprio valore dell’80%. Ed anche rispetto alla media nazionale il Sud presenta uno scarto di PIL pro-capite medio (7.800 Euro circa) che è pari al 50 % del proprio valore. 2. I citati incontestabili divari interni sono figli della geografia e della storia, e riflettono la circostanza che un Paese geograficamente lungo e stretto come l’Italia non può non risultare influenzato − nella dinamica delle sue 20 Regioni − dalla prossimità o dalla lontananza di esse dalle aree più avanzate e forti del Continente Europeo, e dal fatto che i fattori cumulativi della crescita giocano sempre a favore delle aree in cui lo sviluppo − manifatturiero ed occupazionale − si è reso possibile prima che altrove, come è avvenuto storicamente per l’Inghilterra e la Germania rispetto all’Italia. Quando poi né il mercato né le politiche nazionali sono capaci per qualsivoglia ragione di garantire una strategica distribuzione nei territori delle realizzazioni e degli interventi di politica economica capaci di correggere od attenuare gli squilibri strutturali che si siano consolidati nel tempo, si può essere certi che risultati di “convergenza” e di tendenziale “coesione” saranno non solo improbabili, ma sicuramente impossibili. Ma questa condizione non è ragionevole possa valere per uno Stato-Nazione come l’Italia, che − Leghe nordiste, ed estremistici localismi a parte − si vuole sia e rimanga struttura unitaria, nel senso che in esso tutti i cittadini debbono avere gli stessi diritti, e comunque analoghe opportunità, ovunque essi risiedano, al Nord o al Sud. Ed è questa la ragione per cui − con questo mio intervento − sollecito un approfondito confronto di strategie e di riflessione politica per lo sviluppo nazionale, ed insieme impegni strutturali sul futuro del Mezzogiorno, condizione per lo sviluppo dell’Italia tutta, come la Banca d’Italia ha più volte sottolineato. 3. Dopo il periodo (1950-1975 circa) di politica “straordinaria” per il Sud − anni caratterizzati dall’operatività di un organismo speciale quale seppe essere per quasi cinque lustri la “Cassa per il Mezzogiorno” −, in Italia dopo gli anni ’70 si è tornati, anche per le pressioni esercitate dalle allora neonate Regioni, ad una politica “ordinaria”, affidata ad Amministrazioni pubbliche centrali e locali che non avevano esperienze in materia di interventi intersettoriali di lunga durata, e che tendevano e tendono tutt’oggi ad operare SVIMEZ 3 non in base ad un disegno di geografia volontaria, finalizzata allo sviluppo e capace di concorrere a determinarlo, ma sulla base della domanda dell’economia e dei mercati esistenti; e che per questo erano e sono attenti soprattutto alle esigenze di ordinaria crescita ed integrazione di un sistema produttivo cui era sufficiente che lo Stato ed i poteri pubblici accompagnassero la crescita che già c’era, e che risulta da tutti riconoscibile soprattutto in talune aree più avanzate del Centro-Nord; per contro sembrava e sembra non interessare nessuno il fatto che i poteri pubblici non fossero e non siano capaci di consentire e di favorire la crescita delle aree più arretrate del Sud, obiettivo evidentemente non considerato prioritario. 4. L’Europa economica si avviò nel 1957 tra 6 Paesi; ma solo l’Italia era tra essi caratterizzata dalla sistematicità dell’arretratezza − corposa ed unitaria, seppur certo articolata − dell’intero proprio Mezzogiorno. Dalle politiche europee siamo perciò stati condizionati nei successivi ampliamenti [a 9 Stati; a 10; a 12; a 15; a 25; a 27], dato che la Comunità ha sempre privilegiato la logica di accompagnare lo sviluppo delle aree avanzate e forti − e non è stata capace di rendere determinanti le scelte della politica “regionale” prima, e delle politiche di “coesione”: dopo il MEC, quelle della CEE e quelle dell’UE. La logica para-federalista delle Istituzioni europee, [che − malgrado l’impegno del “Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale” (FESR) e del “Fondo Sociale Europeo” (FSE) − si è parametrata alla dimensione delle Regioni NUTS 2, fissando arbitrariamente come soglia di uno sviluppo giudicato accettabile per tutti il fantasioso valore del 75% del PIL pro-capite medio della Comunità, frattanto ridimensionatosi con l’adesione all’Ue di Paesi assai più poveri del nostro], quella logica non è riuscita a costruire approcci e a darsi ottiche capaci di contrastare i divari territoriali continentali, nessuno dei quali presentava peraltro, come si è detto, caratteristiche analoghe a quelle del sistematico dualismo italiano. La realtà del Mezzogiorno italiano ne è risultata anche per ciò penalizzata, come è avvenuto in occasione della istituzione in Europa del “Fondo per la coesione” − da cui il Mezzogiorno è stato purtroppo capziosamente escluso, senza adeguate resistenze italiane −, mentre il solo elemento innovativo che è possibile ritrovare nella politica europea è proprio l’originale disegno geografico dei “corridoi” continentali, con i quali le politiche nazionali avrebbero potuto e dovuto collegarsi, per costruire reti e snodi e circuiti regionali ed interregionali efficienti, la cui esistenza e funzionalità avrebbe dovuto essere (ed è un SVIMEZ 4 vincolo che ancor oggi permane, ed è valido anche per il futuro) la premessa ad ogni sviluppo produttivo, nelle industrie, nei servizi, nel turismo; non attraverso opere singolari pur valide qua o la, ma attraverso una pluralità di opere capaci di costruire le maglie di un sistema infrastrutturale comparabile a quello che ha reso altrove conveniente nel tempo la localizzazione di imprese produttive valide e concorrenziali. 5. Dopo l’abbandono a metà degli anni ’70 dell’impegno di Gabriele Pescatore e della Sua squadra tecnica (Piero Grassini, Celentani Ungaro, Giulio Leone, Francesco Curato, per non dir d’altri) e con la cessazione formale nel 1993 della pur necessaria ed utile straordinarietà della “Cassa”, vi fu intorno al passaggio di Secolo il tentativo di fare politica nazionale di sviluppo e di coesione attraverso la troppo dispersiva e localistica “nuova politica economica” dei troppi progetti del DPS, [che pur ha avuto non pochi meriti metodologici e statistico-strumentali, ma che non ha saputo tenere fermi quei parametri politico-tecnici minimi (correttamente richiamati dal prof. Gianfranco Viesti nel suo recente libro “Mezzogiorno a tradimento”, Laterza 2009), che avrebbero reso possibile conseguire obiettivi di convergenza e di pur lontana unificazione tra Centro-Nord e Mezzogiorno]. Ma fu tentativo che non poteva non provocare esiti deludenti, per l’assenza di un unitario disegno strutturale macro-regionale per l’insieme del Sud, e per la disarticolazione delle realizzazioni nei territori, con opere e approcci definiti dall’Ue “programmatici”, ma in effetti assai dispersivi, e settorialmente spesso poco determinanti. Eppure proprio le direttrici europee dei grandi “corridoi” definiti dall’Ue avrebbero potuto risultare determinanti. Il corridoio verticale (il n. 1) da Berlino a Palermo, che vuol dire una apertura storica verso i Paesi del Nord Africa, e forse verso una ipotesi di tunnel sotto il Canale di Sicilia; e quello orizzontale (il corridoio n. 5) che va dalla Spagna, a Lione in Francia, e fin verso Budapest e la Russia, che vuol dire una apertura determinante verso l’Est ed il Nord-Est dell’Europa; e quello meridionale (il corridoio n. 8) disegnato per collegare l’Italia all’Albania e alla Bulgaria (e viceversa), che vuol dire una importante apertura, anche petrolifera, con i Balcani ed in direzione (non necessariamente politica) della Turchia e del Medio Oriente anche islamico. Con opportuni innesti a quei corridoi noi avremmo dovuto saper rendere operativa la trama e il tessuto dello sviluppo; sviluppo certo impossibile senza efficaci ed efficienti infrastrutture e servizi a rete, servizi alcuni dei quali già oggi positivamente funzionanti, a partire dalla complessa realtà dell’”Interporto di Nola” – col CIS e col “Vulcano buono”, nel retroterra napoletano, che sarà presto intensamente collegato per ferrovia col Porto di Napoli, ed è già oggi collegato con quotidiani treni merci e porta-container con Gioia Tauro e con Milano Segrate, ma anche con un rinnovato e reso sperabilmente attraente “fronte del porto” di Napoli, come noi della SVIMEZ avevamo ipotizzato con Paolo SVIMEZ 5 Baratta e con l’Unione industriali guidata da Giovanni Lettieri(∗), che ha evocato una “legge speciale” per Napoli, non negata ad altre città; o almeno − direi io − un “progetto speciale” di valorizzazione di quella straordinaria città. Quelle direttrici avrebbero potuto e potrebbero costituire la base forte dei contenuti programmatici e realizzativi del capitale fisso − infrastrutturale e sociale − da rendere operativo come condizione per la penetrazione e la diffusione dello sviluppo produttivo nell’intero Mezzogiorno, senza per questo sacrificare le impegnative realizzazioni del Brennero e degli altri molteplici trafori (la “groviera alpina”, come ebbe a definirla Francesco Compagna), compresa la nuova direttrice trans-europea dalla Liguria all’Olanda. 6. È personale convincimento di chi parla, rivolgendosi a quanti nel Paese hanno responsabilità determinanti nelle scelte strategiche relative alle condizioni dell’economia in un’area determinata [ed essi sono forse in troppi, e talvolta con poteri ed orientamenti conflittuali. Chi decide? il Consiglio dei Ministri?; il Presidente del Consiglio?; un decisivo Sottosegretario alla Presidenza come Gianni Letta od uno come Bertolaso?; il Ministro del Tesoro?; il Ministro dei Trasporti?; il Ministro dell’Economia?; il Ministro per le Regioni?; od organi come un rivitalizzato DPS, meglio collocato nel Governo?; o un più determinato CIPE?], è mio convincimento che, a parte ogni altra definita priorità organizzativa o gestionale − quale l’immondizia nel Napoletano, quale il terremoto in Abruzzo o quale il G8 all’Aquila −, il futuro dell’economia italiana sarà quello che nel più prossimo domani saremo capaci di adottare, con un disegno strategico e con opere di area vasta, che abbiano caratteristiche almeno comparabili con le troppe altre scelte extraeconomiche che vengono ogni giorno definite prioritarie, o rispetto alle quali ci si impegna a definire scadenze: entro pochi mesi; entro l’anno; entro la Legislatura; entro la prossima futura riunione internazionale… Ed invece proprio le necessarie ed urgenti strategie della “coesione nazionale” meriterebbero l’impegnativo sforzo di un progetto (o almeno di un disegno) relativo all’intero Mezzogiorno, che sia accompagnato da numeri e da importi, qui sì incidendo se necessario sulle risorse dei cittadini e dei territori, con un effetto di redistribuzione che non sarà possibile rinviare all’infinito; perché lo sviluppo produttivo non investirà l’intero Sud fino a quando anche in esso non vi saranno funzionali reti di infrastrutture e di attività − (∗) Si vedano in proposito gli Atti del Seminario del 16 aprile 2007 a Napoli., nei “Quaderni del Centro Studi” dal titolo: “Scelte strategiche per lo sviluppo delle grandi aree urbane del Mezzogiorno”. SVIMEZ 6 dai trasporti, all’acqua, all’energia, al turismo −, e snodi urbani, ed agglomerati, ed articolati centri commerciali e produttivi, comparabili a quelli frequenti nel Centro-Nord, e per altri versi in tanta parte della restante Europa, con i quali non è possibile confrontarsi a parole, o magari limitandoci ad invidiare gli altri, ed il reddito e l’occupazione produttiva che essi hanno, e le opportunità che essi offrono, con “costi del lavoro” non altrettanto gravati da imposte quanto al Sud, che meriterebbe − per lo storico ritardo della sua economia e produttività − un trattamento di speciale favore da parte dello Stato. I dati che l’ISTAT ha pubblicato nel luglio 2008 nel proprio “Atlante statistico territoriale delle infrastrutture” sono − con largamente generalizzata sistematicità − impressionanti; essi denunciano scarti Nord/Sud che [nelle autostrade, nei trasporti ferroviari, aerei e fin marittimi, come nell’energia, nel turismo, nella ricerca e sviluppo e nello stesso sistema bancario e in quello dell’innovazione e delle tecnologie della comunicazione, per non dire delle tante infrastrutture civili e sociali], sono alla base della mancata convenienza delle imprese esterne, italiane e straniere, ad insediarsi nel Mezzogiorno, dove esse vedono quasi solo gli spezzoni di uno “specchio rotto”, e non un’immagine coerente di opportunità da utilizzare. 7. Non sono certo così ingenuo da non capire che la riflessione sul futuro dell’Italia che stò qui sviluppando può non essere gradita a chi, in questa fase storica ma soprattutto politica dominata dall’immagine e dai media, sembra privilegiare non i problemi macro- economici dello sviluppo, ma quelli organizzativi ed informatici della società (ordinamenti, funzionamento della giustizia, efficienza burocratica), che ovviamente hanno pur essi una loro concreta rilevanza, ma soprattutto per gli interessi reali già presenti ed attivi nel Paese, o per quelli che sono considerati gli urgenti e più sentiti interessi dalla maggioranza degli elettori e dei partiti di governo. Il fatto è che non pare ragionevole accettare che i problemi dei rapporti tra i poteri costituzionali (come tra giudici istruttori e magistrati giudicanti, ad esempio, o in materia di intercettazioni telefoniche, o di proliferanti “ronde” urbane o di sicurezza privata, con inevitabili implicazioni ostili agli immigrati stranieri), vengano considerati, a 150 anni dal compimento dell’Unificazione politica dell’Italia, prioritari rispetto a quelli della tendenziale eguaglianza dei cittadini che vivono nei territori nazionali. Troppo ci si riempie oggi la bocca con esaltate esigenze di riforme, e di modernizzazione, e di garanzie dei più privati diritti personali, correndo peraltro il rischio SVIMEZ 7 di cambiare i valori stessi che stanno iscritti nella prima parte della Costituzione del 1948, sulla base di una visione non equilibrata del “federalismo”, i cui fautori estremisti di Lombardia e dintorni (contro le cui tesi la SVIMEZ si è dovuta per anni impegnare, non senza un qualche successo) non si fermeranno certo all’attualmente definito testo sul “federalismo fiscale”, che di per sé, senza un serio ulteriore tira e molla, non garantirà di sicuro il Sud, ma torneranno a premere per nuove, fantasiose ed antiunitarie devoluzioni. Ed occorre con franchezza dire e ricordare a tutti che intorno alla “questione” del Mezzogiorno e degli squilibri Nord-Sud, su cui già dal tardo ‘800 il meridionalismo classico attirava l’attenzione degli uomini di Stato italiani, vi è oggi un clamoroso silenzio, ed una sistematica assenza di attenzione e di interlocuzione propositiva, anche da parte della stampa e della cultura, quasi più attente ad una non comparabile “questione settentrionale”, di tutt’altra natura e portata rispetto alla “questione meridionale”, su cui un primo gruppo di istituzioni culturali italiane ha portato con doverosa modestia – assieme alla SVIMEZ – la propria attenzione, sottoscrivendo − da una comune ottica meridionalista − un messaggio al Paese. 8. Se si escludono i prima richiamati positivi brevi lustri del c.d. “intervento straordinario” per il Mezzogiorno degli anni a metà del ‘900, è un fatto che anche le “Leggi speciali regionali” emanate a cavallo tra XIX° e XX° Secolo, o anche opere di eccezionale singolare valore − quali la trasformazione del Fucino e poi delle Paludi Pontine, o quali le città costruite dal Regime fascista, o più tardi la creazione del sistema autostradale italiano − prescindevano sovente da una sistematica logica di riequilibrio, spesso essendosi trattato di opere puntuali (come avvenne per tanti stabilimenti meridionali della chimica, ad esempio), e per ciò stesso senza implicazioni straordinarie, oppure essendosi trattato di reti “monche”, che al meglio sono partite da Milano per fermarsi a Napoli (se non ad Eboli, come scriveva Carlo Levi). E siamo − oggi, nel 2009 − ancora fermi alla finta “Autostrada” dell’ANAS che dovrà collegare la Campania con la Calabria, e ad un assai incompleto disegno ferroviario di Alta Velocità e Capacità, che invece − nella logica (anche siciliana) del Corridoio 1 da Berlino a Palermo, e del Corridoio 8 da Napoli a Bari e Brindisi e Taranto, e verso i Balcani − dovrebbe oggi trovarsi assai oltre gli attuali programmi, ed oltre le troppo lente programmazioni, per non dire della rilevabile assenza di compiute realizzazioni, come il circuito autostradale della Sicilia. SVIMEZ 8 Anche con riferimento ad uno dei tanti esercizi propagandistici che i Governi sanno fare − si pensi all’impegno che ha riempito per alcuni anni la bocca dei governanti di centro-sinistra, ed all’impropria invidia degli Amministratori del Centro-Nord e di non pochi dei suoi economisti, in ordine agli oltre 100 miliardi di Euro, nazionali e dell’Ue, da destinare al Mezzogiorno nell’arco del settennio 2007-2013, forse ultimo periodo di concreto impegno di risorse europee per l’Italia −, ben poco di concreto è successo in ordine sia all’obbligo morale e tecnico di avviare le realizzazioni, sia a quello di destinare comunque al Sud l’85% dei Fondi FAS e simili. Ed ancora oggi il Governo gioca a dirottare dal Sud risorse mai seriamente assegnate, e mai rese né disponibili né certe, con la assai debole scusante che gli Amministratori del Mezzogiorno non sanno spendere, o spendono male, per cui tanto vale non assegnare loro le pur dovute risorse. 9. Quando alcuni anni fa mi presi l’ardire di graficizzare davanti al Parlamento i decenni necessari a far muovere determinatamente l’Italia verso la convergenza e l’unificazione economica ed industriale, apparvi a molti quasi un provocatore; e quando ricordai al “Ministro del Programma” del Governo di centro-sinistra di allora il senso e la strategia riequilibratrice nazionale dello “Schema Vanoni”, lo vidi sorridere se non irridere, quasi avessi raccontato una barzelletta. E quando dissi poi che sarei stato contento di un risultato di coesione Nord/Sud da raggiungere entro i prossimi 50 anni − e per questo proposi ai soci SVIMEZ di fissare al 2050 la durata ulteriore della piccola nostra Associazione − il solo risultato concreto parve essere quello di ridurre al lumicino, assieme al numero dei nostri Associati, il contributo che lo Stato assegnava alle nostre attività di analisi e di ricerca macro-economica e strategica, di cui il Rapporto oggi presentato è ricorrente e valida testimonianza.. SPES CONTRA SPEM, dicemmo nel 2004 ricordando il prof. Pasquale Saraceno, meridionalista valtellinese. Ripeto quel convincimento, segnalando a tanti acidi critici del Sud che non abbiamo mai chiesto soldi e risorse, ma esposto meditati suggerimenti, quali: • dar vita in Italia ad un apposito “Comitato interministeriale per lo sviluppo e la coesione”; • assicurare poteri di indirizzo e controllo di una appositamente innovata “Commissione parlamentare bicamerale per lo sviluppo e la coesione”; • accrescere i poteri di coordinamento “centrale” e di stimolo del Presidente del Consiglio dei Ministri, rispetto a competenze settoriali, regionali e localistiche; SVIMEZ 9 • assicurare “certezze” in ordine alle risorse pluriennali − e strutturali, e strategiche, e speciali − da destinare alla coesione e all’unificazione, nello spirito dell’art. 119 comma 5 della vigente Costituzione, da cui pure il richiamo al Sud era stato cancellato dal centro-sinistra alla Bassanini, in omaggio alla esaltata ordinarietà degli interventi nell’intero Paese. L’anno scorso, nel luglio 2008, ho qui ripetuto a nome della SVIMEZ i citati suggerimenti, aggiungendo l’invito alle Istituzioni ad organizzare una autorevole “Conferenza Nazionale sul Mezzogiorno”, che certo non potevamo essere noi − piccoli e privati − a promuovere formalmente, ma che peraltro ci appare ancor oggi strumento necessario a dare la giusta dimensione all’impegno nazionale ed a quello degli Amministratori regionali e locali del Sud. È in effetti ad essi che spetta − con la responsabilità di programmare e di spender bene − il determinante impegno a contrastare ogni inefficienza ed ogni spreco − come quelli che sono stati in qualche modo consentiti ai danni dell’Europa per carenza di seri, costanti ed onesti controlli da parte delle nostre Pubbliche Amministrazioni specie locali − e di combattere ogni forma impropria di “intermediazione” ed ogni illegalità e collusione mafiosa, che scoraggia anche imprenditori ed imprese, e che costituisce assai grave ostacolo all’immagine positiva che il Meridione, come l’Italia, in generale, merita. Ma anche la riflessione a favore di un futuro migliore dell’Italia tutta − Nord e Sud − sembra essere recepita dal sistema nazionale come una operazione non unitaria e non prioritaria, cui cinicamente si adeguano tutti i partiti, al Nord sempre più “federalisti” alla Bossi − considerato vincente e desideroso di stravincere in quei territori −, ed al Sud al limite di crescenti illusioni “localiste”, trasversali od interne a partiti vecchi e nuovi ed a loro esponenti, in Sicilia addirittura con tentazioni “para-separatistiche”, evocando fin Antonio Canepa ed il suo Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia del dopoguerra. Ma la risposta all’arretratezza strutturale del Sud non sarà mai figlia solo dei partiti e della politica locale − che pur certo contano, specie se vogliono restare meridionalisti ed unitariamente nazionali − ma sono altro dalle strategie macro-economiche, e dai mercati concorrenziali, su cui la battaglia economica del Sud va unitariamente condotta, qui sì contestando il Nord, divenuto insieme piagnone e prepotente. E ciò, a mio preoccupato giudizio, è ben più che scoraggiante, perché rischia di togliere fondamento ad ogni possibile prospettiva di realistico “meridionalismo”, ed SVIMEZ 10 insieme di doveroso impegno di “unificazione economica nazionale”. Ed invece è su ciò che vorrei si discutesse, se è vero che anche la Chiesa Cattolica italiana sembra prendere coscienza della necessità − dopo quello del 1989 − di un nuovo documento “meridionale” che sia finalmente non solo “sociale”, ma attento ed aperto alla “coesione economica” anche dei territori, la cui condizione − ed il cui livello di sviluppo strutturale ed infrastrutturale, che risulta poco attraente per i capitali esteri ed esterni − vincola le legittime opportunità ed i diritti stessi degli uomini e dei cittadini, che nei territori dello Stato dovrebbero poter vivere con pari opportunità e dignità. Su ciò ho combattuto per quasi sessant’anni quella che io mi permetto di giudicare la mia “buona battaglia”; ma temo di non essere ormai in grado di poter fare assai di più. Ed alla mia età me ne scuso, sperando che sia altri − o meglio la politica cui sono stato vicino, quella alta e nobile, nazionale e mai localistica − a saper fare quel che serve all’Italia. Roma, 16 luglio 2009 Nino Novacco Presidente SVIMEZ Svimez 2009/05_Scheda_sintesi.pdf 2 3 SVIMEZ Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno RAPPORTO SVIMEZ 2009 SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO INTRODUZIONE E SINTESI 4 Indice 1. Il Mezzogiorno prima, dentro e oltre la crisi p. 5 2. Necessità di una riforma interna della politica per il Sud p. 10 2.1. La spesa pubblica p. 11 2.2. La politica di coesione p. 13 2.3. Le politiche per il Sud nella crisi p. 16 3. Perché serve una politica industriale per il Sud p. 19 3.1. La difficile integrazione dell’industria del Sud p. 19 3.2. Le ragioni di una politica regionale p. 22 4. Le reti per lo sviluppo e lo sviluppo delle reti p. 25 4.1. Il completamento del sistema dei trasporti p. 25 4.2. Completare le reti formative e di transizione tra scuola e lavoro per fermare la fuga dei cervelli p. 28 4.3. Credito e reti bancarie p. 30 5. Le riforme della Pubblica Amministrazione e del Welfare: una priorità per la crescita del Sud p. 34 5.1. Una Pubblica Amministrazione al servizio dello sviluppo p. 34 5.2. Un Welfare più equo tra le generazioni e i territori p. 37 5 Introduzione e sintesi 1. IL MEZZOGIORNO PRIMA, DENTRO E OLTRE LA CRISI La stesura del Rapporto di quest’anno interviene in una fase in cui la crisi internazionale si sta ripercuotendo sull’economia nazionale con una forza anche maggiore di quella che solo pochi mesi era stata prevista. Il calo degli ordini, della produzione industriale, degli investimenti e dell’occupazione configurano una recessione pesante con impatti significativi che tenderanno a trasferirsi dal sistema economico al tessuto sociale nazionale. E’ in tale quadro che va collocata l’analisi del presente Rapporto che ha cercato di mettere in evidenza il processo incompiuto di trasformazione dell’economia meridionale in questi ultimi anni; processo sul quale continuano ad incidere debolezze strutturali che affondano le radici nel passato e, al tempo stesso, alcuni importanti elementi di mutamento dell’economia e della società meridionali. L’attuale mix di crisi economica e delegittimazione politica che il Sud sta attraversando pone ad alto rischio la possibilità di completare la transizione verso una economia più competitiva e allo stesso tempo indebolisce qualsiasi prospettiva di ripresa del sistema nazionale. Occorre invece essere consapevoli che un progetto nazionale per la crescita del Mezzogiorno e per la valorizzazione delle sue potenzialità dipenderà in larga parte dal sostegno che una rinnovata azione pubblica (europea, nazionale e delle Regioni) saprà fornire al sistema delle imprese e alle famiglie, sia attraverso le politiche anticongiunturali sia attraverso politiche strutturali di crescita e coesione nel campo delle infrastrutture, dell’innovazione e ricerca e per lo sviluppo dell’industria. A tal fine il Rapporto identifica alcune linee di intervento che possono servire ad accompagnare i processi di modernizzazione in atto: lo sviluppo delle reti infrastrutturali, tecnologiche, formative e bancarie; una politica industriale specifica per il Sud; il rafforzamento della qualità del territorio intesa come gestione dell’ambiente e delle risorse naturali, vivibilità delle aree urbane, contrasto alla criminalità; l’avvio delle grandi riforme strutturali, della Pubblica 6 Amministrazione e del Welfare in primo luogo, utili per tutto il Paese e indispensabili per riavviare la crescita del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno nella recessione La recessione economica che dalla fine del 2008 ha interessato l’economia nazionale con crescente intensità si sta riflettendo con particolare intensità nelle regioni del Mezzogiorno. Le prospettive per i prossimi mesi, nonostante qualche timido segnale di miglioramento soprattutto nel clima di fiducia di imprese e cittadini, appaiono particolarmente gravi per il nostro Paese e in particolare per le sue zone deboli. La diffusa percezione di una crisi che avrebbe riguardato soprattutto le aree più industrializzate del Paese, perché più aperte alla competizione internazionale, è purtroppo smentita dai dati relativi sia alla seconda metà del 2008 sia alla prima parte del 2009. L’impatto della crisi internazionale, infatti, si sta riflettendo con particolare intensità sul mercato del lavoro meridionale, con brusche riduzioni dell’occupazione e contemporanei incrementi del tasso di disoccupazione e conseguente contrazione dei redditi da lavoro delle famiglie. Tali dinamiche si riflettono in una ulteriore contrazione della domanda interna che va ad aggravare la tendenza recessiva. Le stime della SVIMEZ mostrano come già nel 2008 l’economia meridionale abbia registrato una recessione, sia pur di poco, più grave che nel Centro-Nord: -1,1% contro il -1,0% del resto del Paese; recessione che, in base agli indicatori congiunturali territoriali relativi alla prima parte del 2009, ha conosciuto al Sud una ulteriore forte intensificazione. Una prospettiva critica che incide su un’area già con elevata disoccupazione e con diffuse situazioni di povertà e che dunque rischia di determinare effetti pesanti sia in termini economici che sociali. Ma soprattutto vi è un fatto nuovo rispetto al passato. Nelle fasi congiunturali negative determinate, come in questo caso, da fattori esogeni, il Mezzogiorno, proprio per effetto della sua minore apertura internazionale, tendeva a risentire meno del rallentamento dell’economia mondiale. Questa volta invece è proprio nel Sud che la crisi rischia di mordere maggiormente, con effetti fortemente negativi sulla dinamica dei consumi, degli investimenti e dell’occupazione. Questo perché l’economia meridionale somma all’inversione ciclica debolezze strutturali che affondano le loro radici nel tempo e che si aggravano nell’attuale fase congiunturale. Dal 2002 ad oggi le regioni del Sud sono sempre cresciute meno di quelle del resto del Paese: nel periodo 2001-2008 l’incremento annuo del prodotto (a prezzi concatenati) del Mezzogiorno (0,6%) è risultato pari a poco 7 più della metà di quello del Centro-Nord (1,0%). Non si era mai registrato dal dopoguerra un periodo di sette anni in cui lo sviluppo del Sud fosse costantemente inferiore a quello del Centro-Nord. Il divario in termini di prodotto per abitante, che è la misura comunemente utilizzata per valutare le differenze di sviluppo economico fra aree, è invece lievemente diminuito a causa dei flussi migratori meridionali ed esteri in direzione del Nord. Il Pil pro capite del Mezzogiorno è risultato essere nel 2008 pari al 58,6% di quello del Centro Nord, con un recupero rispetto all’anno precedente (58,2%), quasi due punti percentuali in più rispetto al livello del 2000 (56,9%). Si conferma dunque il giudizio dato lo scorso anno di una leggera convergenza raggiunta per via patologica, cioè non con maggiore crescita ma con perdita relativa di popolazione Il Mezzogiorno cenerentola d’Europa La mancanza di convergenza delle regioni in ritardo di sviluppo con quelle più ricche che si verifica in Italia nell’ultimo decennio è in controtendenza con quanto avviene nel resto dell’Europa. Gli anni duemila sono stati infatti caratterizzati a livello continentale da un significativo recupero delle aree europee dell’Obiettivo 1, che si sono sviluppate ad un tasso superiore a quello della media dell’UE a 27: nel periodo 1999-2005 il tasso di crescita medio annuo delle regioni dell’Obiettivo 1 è risultato del 3% circa, mentre quello medio dell’Unione è stato dell’1,9%. Le aree Obiettivo 1 del Mezzogiorno non hanno però seguito questo andamento: la crescita del Pil pro capite è stata nel periodo non solo lievemente minore di quella italiana (0,6% rispetto allo 0,7%), ma soprattutto molto inferiore a quella delle restanti regioni Obiettivo 1 dell’Europa. Il confronto con il complesso delle aree in ritardo di sviluppo in Europa è sempre sfavorevole alle regioni meridionali: tra il 1995 e il 2005 la quota italiana della popolazione europea che viveva in regioni con un Pil pro capite inferiore all’85% della media UE è passata dal 50,7 al 69,8%. Se si ordinano le 208 regioni europee rispetto al PIL pro capite si nota che le 8 regioni meridionali si situavano nel 1995 tra il 112° e il 192° posto; nel 2005, esse si collocavano tra la 165a e la 200a posizione. L’interruzione nel processo di adeguamento competitivo L’economia meridionale risente particolarmente del fatto di essere stata colta dalla crisi in una fase di particolare fragilità, mentre si stavano avviando, 8 su tutto il territorio nazionale, processi di aggiustamento sia dal lato delle imprese, per aumentare la produttività e profittabilità a fronte della accresciuta pressione competitiva internazionale, sia dal lato del bilancio pubblico, volti alla riduzione del debito. Tali processi sono risultati ( e appaiono ancora tutt’oggi) meno intensi nel Mezzogiorno; area che soffre in misura assai più accentuata delle note debolezze strutturali, riguardanti il modello di specializzazione produttiva e la capacità innovativa, che caratterizzano il sistema nazionale nel confronto con i principali paesi sviluppati. Le analisi del Rapporto mostrano come le imprese meridionali sembrino essere state maggiormente colpite dall’intensificarsi della concorrenza internazionale, verosimilmente per motivi di composizione settoriale (nel Mezzogiorno pesano meno che al Centro-Nord i settori che hanno “tenuto” meglio, quali ad esempio le industrie meccaniche fornitrici di beni capitali), per una minore presenza nei mercati emergenti, e per una dimensione media delle imprese inferiore a quella del Centro-Nord. In questo contesto, la compressione in atto del processo di accumulazione al Sud può ridurre drasticamente le potenzialità competitive dell’area, anche in presenza di una ripresa della domanda interna e internazionale. Dall’inizio del decennio alla fine del 2008 gli investimenti fissi lordi sono cresciuti al Sud del 9,3%, quasi due punti percentuali in meno che nel Centro-Nord (11,0%). Se si analizza solo il settore dell’industria in senso stretto (che conta nel Mezzogiorno un terzo delle unità locali localizzate nel Paese), gli investimenti sono crollati cumulativamente nel 2001-2008 del 15,7%, a fronte di una flessione cumulata del 5,1% nel resto del Paese. All’interno di una simile dinamica, va sottolineato il dato non favorevole del 2008, quando gli investimenti fissi lordi del Mezzogiorno sono diminuiti del 2,8% (-3,0% nel Centro-Nord), dopo una crescita dell’1,1% l’anno precedente, e, in particolare, quelli industriali hanno fatto segnare un -6,5%. Va sottolineato che è proprio il meccanismo di accumulazione (in realtà non solo di capitale fisico ma anche umano e tecnologico) che guida il recupero di produttività e quindi di capacità competitiva. Se si analizza l’andamento del divario economico Sud/Nord nel più lungo periodo, è possibile verificare che un significativo processo di convergenza si è realizzato soltanto nel periodo compreso tra il 1951 e il 1973, periodo in cui il processo di accumulazione è stato nel Mezzogiorno elevato e sempre superiore a quello registrato nel Centro-Nord. Tra il 1951 e il 1973 il rapporto tra Investimenti e Pil al Sud è circa raddoppiato dal 17% al 33%, raggiungendo un livello superiore di oltre 10 punti a quello rilevabile nel Nord. 9 Dall’anno successivo esso si indebolisce, crollando nel 1995 ai livelli di 50 anni prima e riallineandosi a quello del Centro-Nord. Simili dinamiche riflettono non solo i cambiamenti nel contesto competitivo e istituzionale ma anche la diversa efficacia delle politiche pubbliche. Come vedremo nel paragrafo seguente, una riflessione sulla struttura e i contenuti delle politiche di sviluppo e coesione nel nostro Paese, non può dunque prescindere da una maggiore finalizzazione degli interventi pubblici alla capacità di accrescere le convenienze per gli investimenti produttivi. Nel 2008 ha contribuito alla flessione della domanda interna anche una contrazione della dinamica dei consumi in tutto il Paese. In particolare, i consumi delle famiglie hanno fatto segnare una significativa contrazione (-0,9% al Nord e -1,4% nel Sud), con una estensione specialmente nel Sud delle difficoltà dal comparto dei beni durevoli a quelli non durevoli: i consumi alimentari sono calati nel 2008 del 2,7% nel Sud, un punto circa più che nel Nord, spia di difficoltà a mantenere lo standard di vita che cominciano ad investire strati sempre più ampi della popolazione. Alla base del progressivo impoverimento del Mezzogiorno c’è la brusca contrazione dell’occupazione, registratasi già nel corso del 2008 e poi aggravatasi significativamente nel 2009. La sequenza nei trimestri è preoccupante:-1,0% nel terzo trimestre 2008, - 1,9% nel quarto trimestre, poi riconfermato nel primo del 2009; tra gennaio 2009 e gennaio 2008 si sono persi al Sud 114 mila posti di lavoro. Nel solo comparto industriale meridionale, che più sta soffrendo la fase di crisi, l’occupazione si è ridotta di 57 mila unità (- 6,6% a fronte del -0,6% al Centro-Nord). Ciò vuol dire che molti lavoratori, spesso precari e a termine e quindi, come si vedrà meglio in seguito, privi della copertura del sistema di ammortizzatori sociali, si sono trovati improvvisamente senza lavoro e senza reddito. Simili dinamiche, in un area dove lavora appena il 44% della popolazione in età di lavoro, e le donne che lavorano sono meno di 3 su 10, costituiscono una situazione di potenziale emergenza sociale, trascurata dalla politica nazionale, che richiede risposte assai più incisive. Migrazioni e calo demografico L’insufficiente dotazione di capitale fisso sociale e produttivo nel Mezzogiorno, oltre a lasciare più di una persona su dieci senza lavoro, spinge ogni anno circa 300 mila persone ad abbandonare il Sud per cercare di realizzare le proprie aspettative professionali nel resto del Paese. Di questi circa 120 mila abbandonano definitivamente il luogo di origine; si tratta perlopiù di 10 giovani individui con un buon livello di scolarizzazione. Ciò non mancherà di condizionare negativamente, più che in passato, anche l’evoluzione della demografia del Mezzogiorno. In una fase di forte calo della natalità, la fuoriuscita delle giovani coorti in età riproduttiva innesca, infatti, un processo che in poco più di un ventennio si prevede porterà al declino demografico; il Sud, dagli attuali 20,8 milioni di abitanti diminuirà ai 19,3 milioni, e vedrà crescere considerevolmente il peso delle classi anziane e vecchie: una persona su tre avrà più di 65 anni e una su dieci più di 80 anni. Questa difficile transizione demografica porterà il Sud ad affrontare i problemi propri di un’economia matura senza aver ancora superato la condizione di ritardo nello sviluppo. Ciò avrà forti implicazioni, come si avrà modo di sottolineare nell’analisi sul sistema di Welfare, nella gestione di un’assistenza sociale che dovrà fronteggiare costi crescenti con insufficienti flussi di ricchezza. Del resto una popolazione invecchiata esprimi modelli di consumo che tendono a deprimere la dinamica della domanda interna aggregata, con inevitabili riflessi negativi sul sistema produttivo domestico. 2. NECESSITÀ DI UNA RIFORMA INTERNA DELLA POLITICA PER IL SUD L’interruzione di un sia pur minima tendenza alla convergenza tra aree deboli e aree forti del nostro Paese costituisce, come visto, un’anomalia nel panorama europeo e richiede una profonda riflessione. La analisi contenute nel Rapporto mostrano, sulla base di una valutazione econometrica, che la politica di coesione comunitaria ha contribuito positivamente ai processi di crescita e di convergenza nell’Unione europea e che tale contributo è valutabile per il complesso delle regioni Obiettivo 1, destinatarie di tali risorse, in circa mezzo punto all’anno di crescita aggiuntiva. Un esercizio similare condotto dalla Banca d’Italia con riferimento alle sole regioni Obiettivo 1 del Sud ha valutato invece tale contributo in circa 0,25 decimi di punto, a conferma di una minore efficacia delle politiche nel Mezzogiorno. Un simile risultato, che non è certamente riconducibile soltanto a difetti interni alla politica regionale, ma anche ai limiti delle politiche generali nazionali, richiede una valutazione più ampia delle caratteristiche e dei limiti della politica di sviluppo nei suoi aspetti quantitativi ma anche nelle carenze nella qualità degli interventi. 11 2.1. La spesa pubblica La minore efficacia della politica di coesione nel nostro Paese si colloca in un contesto caratterizzato da un progressivo indebolimento del processo di accumulazione di capitale pubblico, indebolimento che si è manifestato con effetti particolarmente marcati nel Mezzogiorno dove la spesa complessiva della Pubblica Amministrazione, anche escludendo gli Enti previdenziali, risulta più bassa che nel resto del Paese. Questo dato smentisce l’opinione diffusa di un eccesso di spesa nell’area, opinione influenzata da annunci di rilevanti risorse destinate al Sud che poi, espresse su base annuale e nel loro ammontare effettivamente disponibile dopo i tagli cui sono sottoposte, risultano notevolmente più contenute. Il fenomeno riguarda sia le spese correnti che quelle in conto capitale. Per le spese correnti, la differenza negativa rispetto al livello pro capite del Centro-Nord è pari nel 2007 all’1,7%; per quelle in conto capitale, al 2,6%, nonostante che esse comprendano anche le spese effettuate a valere sulle risorse aggiuntive di origine nazionale e comunitaria destinate specificatamente allo sviluppo di tale area. La quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto capitale del Paese è scesa ulteriormente, negli ultimi anni, dal 41,1% del 2001 al 36,8% del 2006, al 35,4% nel 2007; il valore stimato per il 2008, diminuito al 34,9%, è inferiore al suo peso demografico ed è ben lontano dall’obiettivo del 40/45% indicato fino all’anno scorso nei documenti governativi. Si sarebbe in tal modo del tutto annullata l’aggiuntività delle risorse destinate allo sviluppo del Mezzogiorno che, al contrario, sarebbero state utilizzate per compensare la insufficiente spesa ordinaria in interventi di “normale amministrazione”. Poiché quest’anno il Dipartimento per le Politiche di sviluppo e Coesione non ha potuto rendere disponibile il dato relativo alla spesa ordinaria, il riferimento è a quello contenuto nel Rapporto dell’anno scorso, che indicava per il 2007 una quota di spesa ordinaria destinata alla formazione di capitale nel Mezzogiorno sul totale nazionale pari ad appena il 21,4%, inferiore cioè di circa 16 punti al peso naturale dell’area (valutabile nel 38% circa) e di quasi 9 punti rispetto all’obiettivo del 30% indicato, per questa componente, nei documenti governativi. L’effetto negativo sulla dotazione di capitale nel Mezzogiorno, conseguente al basso livello di spesa in conto capitale effettuato dalle Amministrazioni Pubbliche, è ampliato per effetto di una ridotta attività di investimento delle imprese pubbliche nazionali e locali, che danno invece un forte contributo all’accumulazione di capitale nel Centro-Nord. Per le imprese pubbliche locali, la quota di spesa localizzata nel Mezzogiorno, poco meno del 12 20% della spesa complessiva a livello nazionale, risente, da una parte, della debolezza degli Enti locali meridionali e, dall’altra, delle minori capacità manageriali, espressione della debolezza del sistema produttivo dell’area. Siamo ben lontani dalla realtà delle imprese locali del Centro-Nord, tra le quali vi sono vere e proprie holding, con società quotate in borsa che competono a livello nazionale e internazionale. Nel caso delle imprese pubbliche nazionali, invece, la concentrazione degli interventi nel Nord risponde al criterio, nell’ambito di una gestione privatistica, di privilegiare gli investimenti con maggiore ritorno economico, localizzati nelle aree già sviluppate dove ampia è la domanda da soddisfare, piuttosto che quelli in aree non sviluppate dove dovrebbero svolgere una funzione di stimolo allo sviluppo: spetterebbe allo Stato, che ne è azionista, di perseguire un’azione redistributiva tra le aree del Paese al momento della approvazione del contratto di programma con queste imprese, impedendo così che, ad esempio, le Ferrovie dello Stato destinino appena il 21% degli investimenti al Sud. La funzione sostitutiva svolta dalle risorse aggiuntive ha inciso anche sulla qualità degli interventi volti a rispondere ad una domanda locale, al di fuori di una seria programmazione e senza una precisa finalizzazione. Vanno poi considerati i limiti della capacità di progettazione sia per quel che riguarda la capacità di individuare interventi di maggiore complessità ed impatto sul territorio, sia come capacità di programmare e approntare un parco progetti tale da utilizzare tempestivamente e totalmente le risorse disponibili. Il basso livello di spesa in conto capitale del Mezzogiorno risente infatti della modesta capacità di spesa espressa dalle Amministrazioni pubbliche nell’area. E’ quanto mostrano i dati relativi all’utilizzo delle risorse del Fondo per le aree sottoutilizzate nel 2008: nonostante i tagli agli stanziamenti intervenuti nel corso dell’anno e l’accantonamento disposto dalla Finanziaria per il 2007, le risorse assegnate con trasferimento di fondi alle Amministrazioni responsabili dell’attuazione degli interventi sono diminuite del 40% rispetto al 2007 e l’incidenza delle assegnazioni sulle disponibilità dell’anno è stata pari al 26%. La risposta a questi dati però non può essere quella di proseguire nei tagli alle risorse del FAS; ma piuttosto quella di intervenire sui fattori che limitano la capacità di spesa per investimenti nel Mezzogiorno. 13 2.2. La politica di coesione Il ciclo di programmazione dei Fondi strutturali 2000-2006 è giunto a completamento, essendo scaduto il termine utile per l’erogazione dei contributi assegnati, fissato al 30 giugno scorso. Al febbraio 2009, per l’Obiettivo 1 si stimava necessario erogare circa 2,7 miliardi di euro per conseguire il risultato del completo assorbimento del contributo programmato, pari a 45,9 miliardi. Il risultato del pieno utilizzo delle risorse comunitarie, che, peraltro, sulla base dei dati disponibili potrebbe essere a rischio con riferimento ad alcuni programmi rilevanti, come ad esempio il POR Campania, tuttavia, non è un dato del tutto significativo. I target di spesa dell’Obiettivo 1, infatti, sono stati finora raggiunti grazie anche ad un ampio ricorso ai “progetti coerenti”, progetti che avevano già copertura in altre risorse nazionali o regionali, presenti in tutti gli Assi prioritari di sviluppo. Alla fine del 2008, il valore dei “progetti coerenti” è calcolato pari a 20,4 miliardi di euro, corrispondente al 44,5% del valore della dotazione finanziaria del QCS 2000-2006 ed al 34,7% del valore dei progetti identificati. L’uso dei progetti coerenti nella programmazione appena conclusa, risulta particolarmente elevato in alcuni Assi strategici per lo sviluppo regionale, riguardanti le infrastrutture, in particolare di trasporto, come ad esempio “Reti e nodi di servizio”, per il quale la quota risulta superiore ai tre quarti del valore della dotazione dell’Asse ed oltrepassa il 60% del valore dei progetti identificati. Sono stati, inoltre, contabilizzati progetti coerenti per circa un quarto del valore dell’Asse “Sistemi locali di sviluppo”, riguardante l’incentivazione delle imprese, altra componente fondamentale della politica di sviluppo regionale. Una quota di progetti coerenti così elevata non appare fisiologica e conferma la non aggiuntività di una parte sostanziale del ciclo di programmazione che si è appena concluso: la spesa in conto capitale aggiuntiva (comunitaria e nazionale) nelle regioni del Mezzogiorno è stata cioè in significativa misura diretta a compensare il deficit di spesa ordinaria. L’elevato ricorso ai progetti coerenti, costituisce una manifestazione di alcuni importanti limiti del passato ciclo di programmazione ormai largamente riconosciuti: la mancata concentrazione degli interventi su un numero selezionato di ambiti, con la dispersione delle risorse aggiuntive finalizzate alla accelerazione dello sviluppo in una eccessiva molteplicità di progetti; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui. 14 Ciò è frutto in buona parte dell’impianto strategico ed istituzionale stesso della programmazione 2000-2006, che è stato, già in passato, oggetto di critiche in relazione alla numerosità dei livelli di governo coinvolti ed alle difficoltà del loro coordinamento, alla mancata individuazione di interventi che rivestano un ruolo cruciale per lo sviluppo delle aree, all’eccessiva enfasi attribuita nella impostazione e nella realizzazione della politica ai fattori di contesto e ai soggetti locali. La presa d’atto della scarsa efficacia della programmazione 2000-2006 ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno sta chiaramente ad indicare la necessità di una svolta sia per quanto riguarda le modalità di programmazione e la focalizzazione della spesa, sia per quanto riguarda la realizzazione degli interventi. Rispetto al percorso sin qui seguito parrebbe necessario procedere ad un più forte processo di “riforma interna” della programmazione, che, pur evitando di determinare “rotture” traumatiche che rischierebbero di ritardare la spesa e far perdere le risorse, ponga più stringenti vincoli alla frammentazione, alla dispersione territoriale, e a quell’eccesso di localismi che ha non marginalmente condizionato i risultati delle politiche. L’impostazione del nuovo Quadro Strategico Nazionale 2007-2013 si è invece mossa all’interno di una sostanziale continuità con il precedente ciclo di programmazione. La struttura dei Programmi risulta, inoltre, caratterizzata da una maggiore flessibilità, ma anche indeterminatezza: sono stati identificati indicatori e target da raggiungere, ma sono solo accennati i contenuti operativi della programmazione e delle linee di intervento; queste ultime, peraltro, contengono scarse indicazioni in merito agli strumenti ed ai percorsi di realizzazione, così da determinare una insufficiente definizione dei contenuti e una frattura tra programmazione strategica ed operativa. Appare assente una regia complessiva del processo di attuazione nella direzione del perseguimento degli obiettivi enunciati; mentre la scelta dei tempi e delle modalità di realizzazione della strategia viene rimandata e demandata alle decisioni di attuazione delle singole Amministrazioni, in un contesto tuttora caratterizzato da moltiplicazioni di livelli di governo e luoghi di decisione, non coordinati tra loro. In definitiva, sebbene le premesse programmatiche avessero potuto essere almeno in parte diverse, l’attuale periodo di programmazione 2007-2013 - che, a due anni e mezzo dal suo avvio, vede le Amministrazioni occupate nella costruzione di complesse archittetture istituzionali ed organizzative, in attività propedeutiche all’individuazione e selezione dei progetti, con poche procedure o bandi avviati – conferma l’esistenza di un disegno di sviluppo “debole” e il 15 rischio di una riproposizione dell’esperienza negativa del ciclo di programmazione 2000-2006. Il QSN 2007-2013 dovrebbe per altro rappresentare la cornice programmatica per la “politica regionale unitaria”, finanziata con le risorse nazionali del FAS e con quelle comunitarie dei Fondi strutturali; novità salutata con apprezzamento ed interesse proprio in relazione all’ampiezza delle disponibilità finanziarie ed al potenziale di coordinamento attivabile tra le diverse componenti di policy che possono incidere sui divari territoriali. Tuttavia, come si avrà modo di riprendere, il disegno di programmazione unitario è stato depotenziato da decisioni governative intervenute nel corso del 2008 e nei primi mesi del 2009. Rispetto al passato, un’accresciuta importanza, anche in virtù della “contaminazione” degli obiettivi di riequilibrio territoriale con le priorità della Strategia di Lisbona e Goteborg, viene riconosciuta nel QSN all’economia della conoscenza ed alla innovazione, al capitale umano, alla valorizzazione ambientale ed alle energie pulite, quali fattori di crescita dei territori con condizioni di arretratezza socio-economica. Vengono inoltre introdotti gli “Obiettivi di servizio”. Con essi si registra un esperimento di “transizione” delle finalità e del campo di intervento della politica regionale; quest’ultima passa, infatti, dalla fissazione di obiettivi di riequilibrio, e quindi dalla compensazione di uno svantaggio iniziale, alla definizione di uno standard minimo di servizio, quale condizione irrinunciabile di cittadinanza. In tal senso si prefigura un nuovo, e a nostro avviso rischioso, percorso che fa carico alla politica regionale di intervenire in un ambito di spettanza della politica nazionale ordinaria, e che potrebbe condurre a ridimensionare il ruolo delle infrastrutture, del capitale produttivo e dell’impresa. Per evitare che nel ciclo 2007-2013 si ripetano le criticità emerse con riferimento al precedente periodo 2000-2006, è necessario prevedere, affrontare e risolvere i nodi decisionali e procedurali che rallentano l’avvio e la realizzazione dei progetti. Un mutamento di rotta è possibile e auspicabile, dando luogo ad una più effettiva e stabile cooperazione tra le Regioni del Sud, e ad un più forte coordinamento fra esse e l’azione dell’Amministrazione Centrale, in una prospettiva strategica riferita ai bisogni collettivi del Mezzogiorno. Dovrebbe inoltre essere riconosciuta priorità politica di livello nazionale al governo, alla valorizzazione ed alla sorveglianza di un bacino finanziario significativo come quello dei Fondi strutturali, con un vincolo territoriale vigilato dalla Commissione europea, e che, quindi, in caso di mancato impiego, non sia destinabile ad altri utilizzi. 16 Va evidenziato, infine, che la flessibilità della programmazione attuale consente di focalizzare le scelte e di selezionare i “progetti cruciali” senza interventi della Commissione europea. E’ possibile, pertanto, e necessario, identificare, dare evidenza e visibilità, nell’ambito di obiettivi chiave di grande rilevanza, ad alcuni specifici progetti, in particolare a quelli legati a infrastrutture, innovazione delle imprese e capitale umano, che possano rappresentare e tradurre in maniera chiara le priorità strategiche indicate nei Programmi operativi, regionali e nazionali; ed avviarne immediatamente la realizzazione con un calendario stringente, da sottoporre a stretta sorveglianza. E’ importante, però, che su tale percorso – a ormai soli cinque anni dalla fine dell’attuale ciclo di programmazione – abbia a focalizzarsi l’attenzione della politica (Governo e Parlamento) e della opinione pubblica, assicurando il più ampio coinvolgimento e supporto per il suo successo. 2.3. Le politiche per il Sud nella crisi In Italia il finanziamento degli interventi anticrisi è stato assicurato principalmente da interventi di riallocazione e rimodulazione di risorse pluriennali destinate in larga misura a interventi infrastrutturali. Infatti, gran parte delle maggiori spese sono state compensate mediante tagli, riprogrammazioni e riallocazioni delle risorse nazionali finalizzate soprattutto allo sviluppo del Mezzogiorno, presenti nel Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS). Il FAS, secondo quanto stabilito dalla legge istitutiva, avrebbe dovuto essere ripartito esclusivamente con apposite delibere CIPE per investimenti pubblici e per incentivi con finalità di riequilibrio economico e sociale sulla base del criterio generale di destinazione territoriale delle risorse. Nel corso del 2008 e nei primi sei mesi del 2009, invece, il legislatore, anticipando l’opera di ripartizione del Cipe, è intervenuto con rilevanti utilizzi della dotazione FAS per impieghi sovente non coerenti con le finalità proprie del Fondo. Questo ha determinato “preallocazioni” delle risorse FAS verso specifiche destinazioni che, prima delle deliberazioni CIPE, hanno ridotto in misura considerevole l’entità dei fondi da ripartire per le aree sottoutilizzate ed esteso anche al Centro-Nord la possibilità di finanziamento sistematico su fonti vincolate alle politiche di coesione. Il volume delle risorse FAS mobilitato prima per il finanziamento di interventi di carattere emergenziale (emergenza rifiuti, risanamento bilanci Comuni Roma e Catania, ecc..) e, successivamente, per misure anticrisi è ingente: partendo dalle risorse appostate dal Bilancio pluriennale 2008-2010 17 sul Fondo Aree Sottoutilizzate e di quelle previste per finanziare impegni con un profilo pluriennale di spesa anche per gli anni 2011-2012, a maggio 2009 risultavano utilizzi del FAS per oltre 18 miliardi di euro a valere sulle risorse stanziate per il periodo 2008-2012. Questo ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul Quadro Strategico Nazionale 2007-2013, indebolendone significativamente la componente nazionale. Il Quadro Strategico Nazionale prevedeva, infatti, come richiamato, una programmazione coordinata e contestuale dei fondi nazionali ed europei destinati alle politiche regionali, e costituiva pertanto la sede unitaria per il finanziamento delle priorità individuate a seguito di un lungo negoziato tra Amministrazioni regionali, centrali e comunitarie. Con i decreti anticrisi, una percentuale significativa delle risorse FAS è stata stanziata su altri fondi: il Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia reale, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri con una dotazione di circa 9 miliardi; il Fondo infrastrutture, nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico, con una dotazione prima di circa 7 miliardi poi integrata di altri 5 miliardi; il Fondo sociale per l’occupazione e la formazione, presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, cui sono stati destinati circa 4 miliardi del FAS. Tali fondi, pur formalmente vincolati per legge (il DL 185 prevede che nell’attribuzione delle risorse FAS ai tre fondi debba essere rispettato il vincolo di destinazione dell’85% in favore delle regioni del Mezzogiorno e del 15% in favore delle aree sottoutilizzate delle regioni del Centro-Nord), di fatto sono stati successivamente utilizzati per finalità specifiche non condizionate a particolari destinazioni territoriali. Esemplare è il caso del Fondo sociale per l’occupazione e la formazione, nel quale confluiscono, in modo non distinto, oltre alle risorse FAS destinate alle aree sottoutilizzate, anche le risorse del Fondo per l’occupazione nonché tutti gli stanziamenti per il finanziamento degli ammortizzatori sociali, concessi in deroga alla normativa vigente, e quelli destinati in via ordinaria dal CIPE alla formazione. L’area meridionale si trova pertanto a competere, in termini di capacità di assorbimento, con le aree a più alto tasso di sviluppo del Paese che riescono ad attivare una più efficiente programmazione di spesa e più elevati livelli di progettualità, anche in una non favorevole situazione congiunturale. La concentrazione e riprogrammazione delle risorse FAS a fini strategici e su infrastrutture prioritarie, di cui si è precedentemente affermata 18 l’opportunità, viene così limitata e “spiazzata” da impieghi verso aree a più intenso e rapido tiraggio di risorse. Anche qualora la riprogrammazione e la concentrazione dei fondi su poche priorità condivise attivasse più efficienti meccanismi di concertazione, migliorando la specializzazione tecnica e organizzativa dell’intero processo realizzativo delle opere, le frequenti riallocazioni dei fondi stanziati su un orizzonte pluriennale di spesa per tali opere verso aree “forti” ad elevato assorbimento, determinerebbe dannosi “stop and go” della programmazione. Emerge, dunque, con evidenza, una configurazione di “non neutralità” delle crisi che rischia di dare luogo ad una tendenza alla redistribuzione delle risorse a favore delle aree più forti; tendenza che potrebbe perdurare anche oltre la fase congiunturale, in considerazione dell’ampiezza dei processi di ristrutturazione che si richiedono per il superamento delle difficoltà strutturali indotte da una crisi di carattere internazionale ed esogena quale quella in corso. Da questo punto di vista, l’attuale situazione appare confrontabile con quella degli anni successivi alla crisi petrolifera del 1973, che pose fine alla fase di più intensa convergenza tra il Sud e il Nord e alla quale fece seguito un lungo periodo di progressivo indebolimento dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Nella sua introduzione al secondo “Rapporto sull’economia del Mezzogiorno”, del 1975, Pasquale Saraceno aveva prontamente denunciato tale rischio. “Quando, come quest’anno – rilevava Saraceno – non vi è alcun surplus dell’economia da distribuire tra varie alternative di utilizzazione, ma anzi è l’impoverimento generale che occorre distribuire, la forza organizzativa di pressione e di lotta in difesa degli interessi immediatamente minacciati, tende naturalmente a prevalere … Le regioni settentrionali sembrano di fatto reclamare a sé la parte più rilevante delle risorse da destinare alla ristrutturazione, e quindi anche al futuro sviluppo, dell’industria italiana … Non sarebbe certo sorprendente per chi non ignori la storia italiana degli ultimi venti anni, che il grande obiettivo dell’unificazione economica del Paese sia di fatto travolto da una successione di decisioni condizionate dall’evolversi della congiuntura”1. Oggi come allora, quindi, conserva la sua validità l’indicazione della necessità di una politica di sviluppo nazionale unitaria che, tenendo conto anche delle urgenti esigenze di ristrutturazione dei sistemi produttivi a più alto tasso di sviluppo, sia però in grado di conciliare la necessità di risanamento e 1 Cfr. SVIMEZ, Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 1975, Collana Documenti SVIMEZ, pp. 11, 13. 19 riconversione degli uni con il mantenimento di una azione continua e costante per la riduzione del divario strutturale di sviluppo tra Sud e Nord. 3. PERCHÉ SERVE UNA POLITICA INDUSTRIALE PER IL SUD 3.1. La difficile integrazione dell’industria del Sud Con la nuova fase di integrazione dell’economia mondiale, avviatasi all’inizio degli anni duemila, i limiti impliciti nel modello – unico tra i principali paesi sviluppati – dell’industria italiana sono divenuti più stringenti. A partire da tale fase si sono avviati processi di adattamento del sistema alle nuove condizioni competitive che hanno riguardato però in misura diversa le due macroaree del Paese. Nelle regioni centro-settentrionali, a partire dalla metà degli anni duemila sono emersi, in maniera via via più evidente fino alla recente crisi globale, alcuni segnali di discontinuità con il modello precedente. Accanto a fenomeni di aggiustamento intra-settoriale – non nuovi, essendo la storia di larga parte dell’industria nazionale fatta di un continuo upgrading qualitativo – vi sono stati anche mutamenti di natura inter-settoriale. Una parte minoritaria, ma significativa del comparto manifatturiero del Centro-Nord ha avviato un processo di transizione – una “metamorfosi” – verso una struttura maggiormente simile a quella da tempo prevalente nei paesi capitalistici avanzati. L’industria meridionale ha seguito invece un percorso differente. In primo luogo, come pongono in luce le analisi del Rapporto, basate sull’ultima “Indagine sulle imprese manifatturiere italiane” (d’ora in avanti Indagine) realizzata con riferimento al triennio 2004-2006 da Unicredit sui bilanci di un campione di imprese di piccola e media dimensione (PMI) – ovvero con un numero di addetti compreso tra le 11 e le 250 unità – le difficoltà incontrate da quest’ultime, assolutamente prevalenti nel Mezzogiorno, hanno spinto a privilegiare strategie difensive incentrate sulle convenienze derivanti da un utilizzo più che flessibile del lavoro e, per le micro-imprese (11-20 addetti), dalla prossimità con l’economia informale. Nonostante i miglioramenti conseguiti dalle PMI meridionali sul versante finanziario, la performance reddituale delle PMI meridionali negli ultimi anni è stata condizionata da una dinamica della produttività negativa (-1,0%) nella media del triennio 2004-2006 a fronte di una’evoluzione positiva nel resto del Paese (+4,1%). Solamente una 20 dinamica del costo del lavoro per addetto che, nello stesso periodo, è risultata nel Sud lievemente negativa (-0,4%, che si raffronta al +1,2% nel Centro-Nord) ha evitato un peggioramento ancora più marcato degli indicatori di profittabilità. Ciò conferma il ruolo chiave giocato dal contenimento del costo del lavoro nel garantire la competitività di larga parte delle imprese dell’area a scapito, però, di quegli adeguamenti competitivi più strutturali - identificabili in primis nel rafforzamento della componente extra-produttiva dell’organizzazione produttiva - necessari per fronteggiare durevolmente il nuovo contesto concorrenziale. Ma è sul versante estero che il differente pattern seguito dai due sistemi industriali è divenuto più manifesto. I vantaggi comparati dell’economia meridionale, così come sono “rivelati” dai dati di export, evidenziano un costante e significativo aumento di peso dei settori caratterizzati dalla presenza di forte economie di scala, macro-branca quasi prevalentemente composta da grandi imprese a proprietà esterna all’area. L’incidenza dell’export delle produzioni di scala sulle vendite all’estero complessive dell’area meridionale è passata dal 49,8% degli anni 2001-2003 ad oltre il 61% registrato nel 2008. Di converso, il raggruppamento costituito dalle produzioni tradizionali, in cui sono essenzialmente ricomprese le attività del made in Italy, ha perso, nello stesso periodo, quasi dieci punti percentuali: dal 29,3% al 19,6%; fenomeno che non si è invece sostanzialmente verificato nel Centro-Nord, dove la quota di export dei beni tradizionali ha perso nel corso di questo decennio meno di due punti percentuali e rappresenta tuttora circa un quarto di tutte le vendite all’estero. Nel Mezzogiorno, l’accresciuta incidenza dei settori di scala ha garantito, nella fase ciclica recente, la sostanziale tenuta della quota complessiva di export dell’area, di poco inferiore al 12% del totale nazionale. Nel Rapporto vengono presentati i risultati di un semplice esercizio volto a valutare l’intensità del legame tra il “grado di multinazionalità” (calcolato come rapporto tra il numero degli addetti nelle imprese a partecipazione estera e il numero degli addetti nelle unità locali) delle varie branche dell’industria del Mezzogiorno e la loro propensione ad esportare: la correlazione positiva tra le due variabili è piuttosto evidente. Settori come la chimica, i mezzi di trasporto, la gomma-plastica, che vantano i più elevati valori di propensione a esportare, sono anche caratterizzati da una presenza molto rilevante di stabilimenti a partecipazione estera. Per contro, in quasi tutti i settori tradizionali dei beni di consumo per la persona e per la casa, entrambe le variabili tendono ad assumere valori relativamente bassi. Alla luce di quest’ultima considerazione, la modesta presenza delle multinazionali nell’intero sistema economico del Mezzogiorno - nettamente 21 inferiore rispetto a quanto si ravvisa nel resto del Paese – appare dunque fortemente penalizzante per la macro-area. In base agli ultimi dati disponibili, il Mezzogiorno si caratterizza complessivamente (industria e servizi) per un grado di multinazionalità molto basso, dell’1,2%, a fronte del 5,1% medio nazionale. Con riferimento agli IDE in uscita, e cioè agli investimenti delle imprese all’estero, il divario tra le due ripartizioni risulta maggiore. Va sottolineato al riguardo che la presenza produttiva sui mercati esteri con partecipazioni azionarie è la forma più matura e impegnativa di internazionalizzazione; essa non soltanto implica rilevanti innovazioni organizzative, ma anche l’impegno di competenze professionali e risorse finanziarie che spesso superano le capacità delle imprese di dimensioni minori. Non sorprende dunque che la capacità delle imprese del Mezzogiorno di adottare questa forma di internazionalizzazione risulti particolarmente bassa. L’indicatore più rilevante a questo proposito, dato dal rapporto tra gli addetti nelle imprese estere partecipate e quelli nelle regioni di origine degli investitori, presenta nel Sud un valore di appena l’1,0%, a fronte del 6,7% medio italiano. Tra i paesi di destinazione delle partecipazioni si notano in primo luogo quelli verso cui si dirigono normalmente investimenti attratti da costi di produzione più bassi, e in particolare l’Europa centro- orientale (Romania, Albania, Polonia e Bulgaria), la Tunisia (unico paese del bacino Sud del Mediterraneo) e la Cina. Relativamente minore appare l’importanza dei paesi più sviluppati, come gli Stati Uniti e la Francia, nei quali invece l’acquisizione di partecipazioni produttive è motivata da strategie competitive di rafforzamento del potere di mercato delle imprese investitrici. All’interno di questo quadro, caratterizzato da una crescente divaricazione tra i due sistemi industriali, si segnala per altro l’emergere nel Mezzogiorno di alcuni segnali positivi, anch’essi presumibilmente indotti dalla pressione competitiva estera. Un primo elemento di interesse è costituito dalla crescita dei traffici di “perfezionamento attivo” nel Sud (importazioni temporanee di merci e successive ri-esportazioni), la cui quota sul totale nazionale è risultata, nel 2008, del 17%, valore di gran lunga più elevato rispetto a quello registrato dall’area per le altre forme di internazionalizzazione (IDE ed export). Sebbene sotto il profilo qualitativo questa tipologia di internazionalizzazione non sia direttamente confrontabile con altre proprie di sistemi economici ad uno stadio più evoluto, ciò può comunque rappresentare una concreta possibilità di inserire il Mezzogiorno nelle filiere trans-nazionali in cui si è ri-organizzata la produzione su scala mondiale, con indubbi effetti positivi per un’area che proprio nella modesta integrazione con l’estero trova un formidabile vincolo allo sviluppo. Un secondo elemento da sottolineare è relativo alla forte crescita 22 nell’ultimo decennio del peso delle merci meridionali esportate verso i paesi dell’Africa del Nord, ben al di sopra di quanto registrato a livello mondiale. L’export verso i paesi dell’Africa settentrionale appare inoltre risentire in misura limitata di fattori prettamente congiunturali. Nel 2008 il valore delle esportazioni del Sud verso i paesi mediterranei è aumentato di quasi il 40%. Ormai circa un terzo delle esportazioni meridionali che escono dall’Unione europea vanno verso i paesi mediterranei. La prospettiva di una stabile crescita economica del Mediterraneo può rappresentare un importante mercato di sbocco per le imprese meridionali. Il Mezzogiorno potrebbe trovare dunque nella tanto invocata “prospettiva mediterranea” non solo una condizione per lo sviluppo della produttività in termini di piattaforma logistica ma anche di vera e propria integrazione economica. 3.2. Le ragioni di una politica regionale Le perduranti difficoltà sperimentate nel corso degli anni duemila dalle piccole e medie imprese del Mezzogiorno, nel reggere i ritmi imposti da un’intensificazione della competizione sui mercati nazionali e internazionali, spingono a riproporre le ragioni di una “politica industriale regionale” in grado di affrontare i fattori strutturali endogeni che sono alla base di tali difficoltà, attenuando le asimmetrie territoriali e i divari regionali. Nella fase più recente si è assistito, di contro, ad un indebolimento della politica regionale, in un quadro caratterizzato da un rapido depotenziamento, a scala nazionale, degli interventi destinati alla riduzione degli squilibri territoriali, componente in precedenza di grande rilievo; nel periodo 2000-2007 le agevolazioni concesse per quest’ultima finalità avevano, infatti, rappresentato il 56% del totale delle agevolazioni (nazionali e regionali) concesse in Italia. A partire dal 2006 si è manifestata una progressiva crisi degli interventi di incentivazione della politica regionale per lo sviluppo dell’industria del Sud. Innanzitutto, alcuni di essi sono venuti meno. La legge 488/1992 e gli interventi per la ricerca e l’innovazione che ad essa si riconducevano (i “Pacchetti integrati di agevolazioni”) sono stati definitivamente archiviati, e al loro posto non è stata prevista alcuna altra misura che - sia per finalità, sia per entità di risorse pubbliche da destinarvi - potesse essere paragonabile. La crisi ha riguardato, inoltre, nel 2007, l’inoperatività di tutti gli strumenti di politica regionale, inoperatività che nel caso dei contratti di programma e delle “Zone franche urbane” è proseguita nel 2008. A ciò, a partire dalla metà del 2008, si sono aggiunte anche difficoltà di natura finanziaria, che hanno determinato per i crediti di imposta a favore degli investimenti e per quelli a favore 23 dell’occupazione (specificamente destinati alle aree sottoutilizzate del Mezzogiorno) un accesso limitato a pochi mesi, a causa dell’esaurimento delle risorse disponibili. Un ulteriore elemento che in prospettiva rischia di indebolire grandemente l’efficacia della politica di incentivazione regionale è rappresentato dall’estensione al Centro-Nord di alcuni strumenti inizialmente destinati al solo Mezzogiorno, intervenuta tra la fine del 2007 e il 2008. E’ prevedibile che in conseguenza di simili estensioni territoriali abbia a determinarsi, in un quadro di scarse risorse finanziarie, una crescente concorrenza da parte delle regioni centro-settentrionali nell’assorbimento degli incentivi. La trasformazione di una politica specifica per il Sud, adeguata alle peculiari caratteristiche del suo sistema industriale, in una politica indifferenziata ed omogenea nel Paese è destinata ad acuire le asimmetrie territoriali. Le richiamate estensioni al Centro-Nord hanno riguardato le “Zone franche urbane” e i contratti di programma. Per questi ultimi, in particolare, al rischio di un maggiore assorbimento di risorse da parte del Nord si aggiunge quello di una erosione della capacità di compensazione degli svantaggi localizzativi del Sud. Alcuni primi dati sulle domande presentate nel 2008 per accedere ai contratti di programma sembrano avvalorare tali timori. La quota degli investimenti del Centro-Nord per i quali sono state richieste le agevolazioni è risultata del 37%, a fronte di una quota del 15% rilevata nel periodo 2000-2007 per gli investimenti agevolati. Nella fase attuale desta particolare preoccupazione quanto maturato sul versante delle politiche di incentivazione della ricerca e dell’innovazione tecnologica, sia per la sostituzione di misure di politica regionale con interventi della politica industriale nazionale sia per la forte diminuzione delle risorse inizialmente previste per il Sud e di recente destinate a finanziare necessità di rilievo nazionale. Nel Mezzogiorno, gli investimenti in R&S continuano a dipendere molto più che nel Centro-Nord dalle politiche pubbliche, sia di incentivazione del settore privato, sia di investimento diretto delle Università e degli Enti di ricerca pubblici. Sin qui, peraltro, le politiche non hanno dato i risultati sperati. I principali indicatori mostrano che il divario tra il Mezzogiorno e le altre regioni italiane tende a ridursi, ma con eccessiva lentezza. Una vera svolta non c’è stata, anche a causa della non eccessiva ampiezza delle risorse messe in campo. Tra il 2000 e il 2007, sul complesso delle agevolazioni, quelle destinate alla ricerca e all’innovazione hanno rappresentato comunque nel Centro-Nord il 24 35% e il 15% nel Mezzogiorno. Tali quote sono cresciute sensibilmente negli ultimi due-tre anni in entrambe le aree, in presenza di un ridimensionamento dell’insieme delle agevolazioni. Tuttavia, nel Mezzogiorno il trend in crescita è risultato meno marcato e, soprattutto, si è interrotto bruscamente nel 2008, in concomitanza con la transizione dai vecchi strumenti di incentivazione del periodo di programmazione 2000-2006 ai nuovi strumenti dell’attuale ciclo 2007-2013. In effetti, mentre il Centro-Nord ha fatto registrare un buon accesso al credito d’imposta per la ricerca e lo sviluppo e al Progetto di Innovazione Industriale “Mobilità sostenibile”, il Mezzogiorno è riuscito a catturare solamente una quota residuale delle nuove risorse concesse, a fronte di un inaridimento delle incentivazioni della politica regionale. Considerato che il problema dell’accesso delle imprese meridionali agli interventi di politica nazionale è un problema ritornante che affonda le sue radici nella qualità, prima ancora che la dimensione, delle imprese meridionali, i dati menzionati spingono, come già rilevato, a riproporre le ragioni di una “politica industriale regionale”. Invero, di recente, come richiamato, è stata avanzata la tesi che un apporto differenziale di politica regionale sarebbe corretto destinarlo al Mezzogiorno soprattutto per il potenziamento delle politiche nazionali di cittadinanza (sanità, istruzione, giustizia). E’ difficile contestare la validità di questa tesi in ciò che dice in positivo: basti pensare a quanto sarebbe importante poter contare, per una seria riforma della sanità, su un investimento di risorse nelle aree di maggiore inefficienza, in attesa di poterne, a regime, risparmiare. Ma, in negativo, essa sembra prospettare almeno un ridimensionamento del ruolo delle infrastrutture, dell’impresa e del capitale produttivo. E i rischi di fallimento di una politica regionale che ignori questi fattori possono essere molto elevati. Il problema che bisogna affrontare, infatti, è come far maturare il tessuto imprenditoriale meridionale. Che ciò possa avvenire senz’altro con il miglioramento delle condizioni del contesto civile è desiderabile, ma non dimostrato. Del resto, come non vedere che è la stessa diffusione di un sistema industriale forte a costituire per la società civile un indispensabile elemento di contesto? Ancora una volta, vale ricordare che il circolo vizioso dello sviluppo va spezzato in più punti, accantonando formule ideologiche che attribuiscono un primato assoluto ora a un fattore ora all’altro. Non si comprende, inoltre, ad esempio, come l’inutilità degli incentivi nel Sud da molti sostenuta a causa della loro bassa efficacia, non valga per il Centro-Nord, se è vero, come si è richiamato, che nel 2008 è stata prevista l’estensione dei contratti di programma in tutte le regioni del Paese. 25 Una considerazione analoga può valere anche con riferimento all’azzeramento del PAN FAS “Ricerca e competitività”, destinato in gran parte alle regioni del Mezzogiorno, e al trasferimento delle relative risorse (7,2 miliardi di euro) al “Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia reale”. Tale decisione è destinata a determinare un indubbio depotenziamento degli interventi per la ricerca e l’innovazione nel Sud, e in particolare, nelle regioni meridionali che non rientrano nell’Obiettivo Convergenza (Abruzzo, Molise e Sardegna). 4. LE RETI PER LO SVILUPPO E LO SVILUPPO DELLE RETI Lo sviluppo delle “reti” di infrastrutture, materiali ed immateriali, non solo con la creazione di nuove dotazioni ma soprattutto con il completamento e il rafforzamento della connessione tra le dotazioni già esistenti, in diversi casi tutt’altro che irrilevanti, costituisce un obiettivo centrale per incrementare la competitività e la crescita dei territori. Un simile approccio, applicabile a vari ambiti – dal sistema dei trasporti, alla logistica, al capitale umano, alla ricerca e l’innovazione e al sistema creditizio – consiste nell’identificare alcune direttrici prioritarie di intervento e nel cercare di verificare se le dotazioni esistenti in tali ambiti abbiano un elevato grado di interconnessione tra di esse. 4.1. Il completamento del sistema dei trasporti Di fronte ad una situazione di scambi sempre più fitti tra sistemi “a rete”, il Mezzogiorno, si presenta ancora oggi come un’area periferica e scarsamente connessa, non tanto e non solo per i vincoli geomorfologici, ma, soprattutto, per l’insufficienza delle dotazioni, per la loro scarsa qualità e per la scarsa accessibilità delle infrastrutture esistenti. Integrando l’analisi quantitativa sullo stock infrastrutturale regionale, con indicatori che diano conto dei livelli prestazionali delle infrastrutture e dei livelli di servizio delle componenti di trasporto, le criticità del sistema dei trasporti emergono in tutta la loro evidenza. L’analisi delle prestazioni della rete stradale primaria è stata effettuata nel Rapporto assumendo quale indicatore dei livelli di servizio, su una molteplicità di relazioni tra capoluoghi di Regione, i tempi medi di viaggio per un’autovettura di media cilindrata, ovvero la velocità “commerciale”. Si è 26 osservato che la velocità media delle relazioni fra città del Mezzogiorno è pari ad 83 km/h, a fronte di un valore di 92 km/h relativo alle relazioni fra città del Nord Italia. Tale differenza di circa 10 km/h si rileva non solo sulle direttrici Sud-Sud e Nord-Nord, ma anche sulle direttrici Nord-Sud. Le linee ferroviarie non offrono standard adeguati alle odierne esigenze (passeggeri e merci) a causa di criticità localizzate di tracciato, d’impianto e di esercizio. Se l’offerta di trasporto ferroviario è di poco inferiore al livello medio nazionale in termini di estensione della rete, le potenzialità di servizio del comparto si ridimensionano molto se si tiene conto di alcuni parametri “qualitativi”, come la lunghezza delle tratte elettrificate (appena il 26% della rete a fronte del 50% nel Centro-Nord), le velocità di spostamento in treno, il numero ed il tipo di treni operativi. Quanto alla presenza di linee ferroviarie ad Alta Velocità, solo il 7,8% del totale dell’estesa nazionale è presente nel Mezzogiorno (nel tratto campano della linea Roma-Napoli entrata in funzione nel 2005). Tale divario è destinato ad ampliarsi nei prossimi anni. La rete AV che dovrebbe entrare in funzione entro il 2015 nel nostro Paese comprende per ora solo tratte nel Centro-Nord: la Firenze- Bologna e la Novara-Milano (la cui apertura dovrebbe avvenire nel 2009). Altre tratte di fondamentale importanza per il Mezzogiorno, come la Napoli-Bari, sono in corso di definizione o hanno probabilità assai remote di realizzazione, come la Napoli-Reggio Calabria. Uno dei punti di forza del sistema infrastrutturale meridionale è costituito dai porti, che costituiscono il segmento di innesco di una strategia volta a cogliere le opportunità offerte dalla riconquistata centralità del Mediterraneo nei traffici internazionali e a migliorare la competitività dei territori. Nel Mezzogiorno la dotazione di infrastrutture portuali è molto elevata ed anche superiore a quella del Centro-Nord, sia nel numero dei porti (l’indice di dotazione, posta l’Italia pari a 100, è di 185,9 contro 50,9), sia nel numero (153,2, contro 69,6) e nella superficie degli accosti (150,5, contro 71,1). Anche in questo settore permangono, tuttavia, deficit consistenti, con una dotazione funzionale dei porti meridionali (magazzini, binari ferroviari, silos, piazzali dedicati alle merci) inferiore nella media a quella dei porti del Centro-Nord. Ciò che riduce drasticamente l’operatività del sistema portuale meridionale è soprattutto la rarefatta presenza dei centri intermodali all’esterno delle aree portuali ma ad esse funzionalmente collegati. L’indice di dotazione di infrastrutture intermodali delle regioni meridionali (posta l’Italia pari a 100) risulta, come numero, pari a 39,9; alla generale carenza nella dotazione si accompagna una assai ridotta dimensione degli impianti: l’indice del Mezzogiorno risulta pari al 6,6% di quello medio nazionale. Quanto alla 27 “capacità di movimentazione” dei mezzi utilizzati nel trasporto merci (container, semirimorchi e casse mobili), la dotazione del Mezzogiorno non va oltre un centesimo della media nazionale. Proprio la dotazione portuale logistica rappresenta una condizione essenziale per cogliere le prospettive che, superata l’attuale fase recessiva mondiale, potrebbero determinarsi con la ripresa del commercio mondiale e quindi dei traffici dal Far East che transitano nel Mediterraneo. Le azioni da porre in essere per sfruttare questo vantaggio dovrebbero coinvolgere non solo il territorio meridionale ma l’intero Paese, ed il suo assetto economico e infrastrutturale, a partire dai valichi alpini e da questi alle reti ferroviarie, prima ancora che stradali, di collegamento ai terminali portuali ed alle connesse strutture di movimentazione e lavorazione delle merci. In tale ottica vanno definiti alcuni assi prioritari di intervento sui quali concentrare le risorse nazionali e comunitarie. Emerge, in particolare, per il Mezzogiorno, la necessità di favorire lo sviluppo dell’alta capacità e alta velocità (AC/AV) ferroviaria e, in questo contesto, l’urgenza della realizzazione delle grandi reti di comunicazione con il Centro Europa: il corridoio I (Berlino – Palermo) e il Corridoio VIII (Bari e altri porti del Sud – Paesi balcanici). La realizzazione del Corridoio I contribuirebbe, almeno per la parte meridionale del tragitto, ad estendere la rete AV/AC da Salerno sino a Palermo, rimuovendo quelle strozzature nella rete ferroviaria che impediscono ora il transito “normale” di container High Cube (lo standard ora prevalente nel commercio marittimo) da e per il Porto di Gioia Tauro. A fronte di una situazione di evidente squilibrio territoriale nella dotazione di infrastrutture, si rileva come nel nostro Paese i margini di espansione degli investimenti infrastrutturali siano notevolmente limitati, tanto per la finanza pubblica quanto per quella privata. Peraltro la manovra anticiclica del Governo, come sottolineato anche in precedenza, ha determinato una riallocazione della spesa per investimenti già programmata per le finalità di riequilibrio economico-territoriale a vantaggio di obiettivi diversi, quali il riassetto dei conti pubblici, il finanziamento di interventi congiunturali di natura corrente, e solo in parte ancora a sostegno di programmi di spesa per investimenti, compresi quelli infrastrutturali, ma senza più salvaguardare i vincoli localizzativi posti sulle risorse originarie. Quanto alla Legge Obiettivo, il più importante programma infrastrutturale del Paese negli ultimi anni, si segnala che a fine 2008 un parte decisamente minoritaria delle opere approvate dal CIPE risulta localizzata nel Mezzogiorno: il 28,6% per un ammontare di circa 33 miliardi di euro. Tra le varie tipologie infrastrutturali, la quota del Mezzogiorno per opere ferroviarie è 28 appena del 7,5% , quelle stradale del 37,5% e quella per porti e interporti del 28,6%: una distribuzione degli interventi che non prefigura alcun riequilibrio modale nel sistema dei trasporti. E’ del tutto evidente che impegni di tale portata non possono consentire il perseguimento di alcun obiettivo di convergenza tra le due parti del Paese. In un quadro ancora complessivamente improntato per il Mezzogiorno ad una sostanziale debolezza nella dotazione di infrastrutture logistiche, è peraltro d’obbligo sottolineare l’importanza che per l’area assume la presenza di alcuni centri logistici di elevata eccellenza, a scala europea e non solo nazionale. È il caso, tra i porti, di Gioia Tauro che, da porto Hub container di transhipment, contende con successo il primato dei traffici marittimi containerizzati ai porti spagnoli di Algesiras e Valencia. Tra gli interporti, si ricorda il Distretto di Nola, che sorge nelle vicinanze della più grande realtà metropolitana del Sud, Napoli, e in prossimità dei grandi assi viari (autostrada e direttrice ferrovia principale tirrenica) che collegano il Nord Europa con il Mezzogiorno e il Mediterraneo; esso è, inoltre, in posizione baricentrica nel corridoio trasversale tra le regioni tirreniche e quelle adriatiche. All’interno del distretto il CIS rappresenta il più importante polo di distribuzione commerciale d’Europa, nel quale operano oltre 300 aziende che occupano circa 3.500 addetti. Il terminal intermodale, cuore dell’Interporto, dispone di una stazione ferroviaria interna altamente automatizzata, con tredici coppie di binari elettrificati, inserita nella rete ferroviaria nazionale e in grado di collegarsi via ferro sia con i porti del Sud Italia sia con il Nord Italia, e di qui - grazie al network dell’operatore ferroviario RTC - con il Centro-Nord Europa (Monaco, Amburgo, Oslo). L’Interporto Campano è, inoltre, pienamente integrato con i principali porti del Mezzogiorno. 4.2. Completare le reti formative e di transizione tra scuola e lavoro per fermare la fuga dei cervelli L’Italia è il Paese con il più elevato divario tra tasso medio di disoccupazione e tasso di disoccupazione giovanile; tale divario nel Mezzogiorno raggiunge livelli elevatissimi, che portano ad identificare una vera e propria questione giovanile. La crisi in atto, ha sostenuto il prof. Mario Monti in un articolo dal titolo “Una speranza per i giovani”2, rischia di penalizzare ulteriormente le prospettive delle giovani generazioni. Le politiche adottate, anche sul mercato 2 Il Corriere della Sera, 8 febbraio 2009. 29 del lavoro, sono tutte orientate alla conservazione dei posti di lavoro e dei settori produttivi esistenti, rendendo ancora più difficile e, quando avviene, ancora più precario, l’inserimento nel mercato del lavoro dei nostri giovani. Tale situazione di crescente difficoltà – che rischia nei prossimi mesi di bloccare l’accesso al lavoro di una generazione di giovani, soprattutto meridionali e molto spesso con un ricco bagaglio formativo – si inserisce nel nostro Paese, oltre che in un sistema di Welfare, che come vedremo in seguito è molto squilibrato, anche in un sistema formativo ancora debole e incapace di offrire una reale uguaglianza nelle opportunità. Le debolezze della rete formativa italiana riguardano sia la presenza di standard qualitativi inferiori agli altri grandi paesi sviluppati, sia un inadeguato sistema di transizione scuola-lavoro. Nel Mezzogiorno tali debolezze si associano ad un contesto produttivo debole e ad un sistema sociale sostanzialmente bloccato, impedendo così ai progressi quantitativi realizzati nei tassi di istruzione di tradursi in sviluppo economico e civile. Le misure di policy volte ad incrementare l’offerta di competenze da parte dei nuovi entranti sul mercato del lavoro, in quanto non accompagnate da un’adeguata evoluzione del tessuto produttivo, hanno finito per incrementare in questi anni il livello di educational mismatch, tra qualità dell’offerta di lavoro e competenze richieste dalle imprese. Rappresenta un importante segnale di allarme il fatto che, dopo una lunga fase di crescita ininterrotta, il tasso d’iscrizione all’Università al Sud negli ultimi anni abbia cominciato a declinare. Infatti, se fino a un recente passato la convinzione della spendibilità di un titolo di studio terziario sul mercato del lavoro ha favorito l’espansione dei livelli di partecipazione come fattore produttivo, oltre che come elemento umano, sembra emergere nella fase attuale un certo scoraggiamento fra le coorti più giovani a investire nell’istruzione superiore. La consapevolezza di un’effettiva disuguaglianza delle opportunità potrebbe ridurre quella mobilità intergenerazionale, che invece negli ultimi decenni ha portato a aumentare notevolmente il tasso di scolarizzazione in linea con quanto si riscontra nei maggiori paesi europei. Questo circolo vizioso ha effetti economici e sociali particolarmente negativi, in quanto aumenta la dipendenza dei giovani dalle famiglie, riduce la crescita demografica e la mobilità sociale. Dai risultati di alcune recenti indagini sembra emergere che, in generale, è forte il legame tra istruzione dei genitori e risultati scolastici dei figli. Questa è la più grave ingiustizia, con effetti rilevanti sul medio-lungo periodo. Studiare serve soprattutto ad emigrare, in particolare per coloro che, non provenendo da famiglie agiate non possono godere di quel sistema di relazioni 30 informali che rappresenta ancora nel Sud uno dei principali canali di accesso al mercato del lavoro. I dati riportati nel Rapporto consentono di verificare un ulteriore incremento della tendenza ad emigrare al Nord dei laureati del Mezzogiorno. Il primo momento della fuoriuscita è connesso alla scelta di studio: mentre rimane irrisoria la quota di giovani del Centro-Nord che scelgono di studiare in una regione del Sud (meno dell’1%), circa un meridionale su quattro che si iscrive all’Università lo fa in un Ateneo del Centro-Nord. Dunque, nonostante l’incremento registrato negli ultimi anni di Universita e soprattutto di corsi di laurea nel Sud, non si indebolisce il flusso in uscita né tantomeno aumenta la capacità di attrarre giovani dal Centro-Nord. Il secondo momento di fuga dal Sud avviene al momento di trovare una occupazione. Tra i laureati meridionali che a tre anni dalla laurea si dichiarano occupati, nel 2007 ben il 41,5% (26.000 su 62.576) lavora in una regione del Centro-Nord, una percentuale più elevata di due punti percentuali rispetto a quella rilevata nell’indagine ISTAT precedente, relativa al 2004, e di ben dieci punti percentuali rispetto all’indagine del 2001. Per completare il quadro sulla mobilità, è interessante notare che circa il 40% dei laureati meridionali che hanno trovato lavoro al Nord si è laureato con una votazione pari a 110 o 110 e lode, a conferma di una forte selezione da parte del mercato del lavoro settentrionale. In conclusione, la mobilità dei laureati meridionali appare garantire, soprattutto ai più bravi, migliori probabilità di trovare un’occupazione e un lavoro meglio remunerato di quanto non sarebbe possibile ottenere nel Mezzogiorno. In questo senso la mobilità geografica se, da un lato, deprime le prospettive di crescita dell’intera economia meridionale, dall’altro, appare un mezzo per consentire una valorizzazione del merito e quindi una maggiore mobilità sociale. Il mancato superamento dei vincoli costituiti da un apparato produttivo debole e da un sistema sociale bloccato, nonostante i progressi nella formazione scolastica universitaria, condanna il Mezzogiorno al ruolo di fornitore di risorse umane qualificate al resto del Paese e i suoi migliori giovani a cercare altrove le modalità per mettere a frutto le proprie competenze e a realizzare i propri sogni. 4.3. Credito e reti bancarie Qualsiasi ipotesi di rilancio del sistema produttivo del Mezzogiorno non può prescindere dal potenziamento del canale creditizio. Anzi, la dipendenza dal credito – assicurato da un’articolata rete di sportelli sul territorio – del 31 processo di accumulazione delle imprese minori nelle aree deboli, è significativamente maggiore di quanto non lo sia per le attività imprenditoriali operanti delle regioni più sviluppate. Se questo è il dato di partenza, va detto che il processo di trasformazione iniziato negli anni ’90 nel nostro sistema bancario, e che ha imposto un confronto competitivo via via più incisivo ed articolato, ha sortito effetti problematici sulle dimensioni e sull’assetto del settore nel Sud. L’ondata di fusioni e acquisizioni, realizzate per raggiungere dimensioni maggiori, sfruttare i vantaggi derivanti dalle economie di scala, perseguire superiori condizioni di efficienza gestionale, si è tradotta in una riduzione del numero di aziende di credito operanti sul mercato ed in una significativa espansione della rete degli sportelli, tale da allineare la densità bancaria alla media europea. Gli sportelli italiani sono divenuti più “leggeri” in termini di dipendenti e di impieghi per dipendente rispetto alla media europea, un aspetto che risulta strettamente correlato alle modalità con cui la rete degli sportelli si rapporta al sistema produttivo e alle famiglie per ciò che concerne impieghi e raccolta. Dal punto di vista territoriale, la trasformazione del sistema bancario italiano ha sconvolto gli assetti proprietari delle banche meridionali; queste, nel corso degli anni ‘90, investite dal repentino e drastico deterioramento del quadro macroeconomico, subiscono un drastico ridimensionamento che segna la liquidazione di un autonomo sistema bancario. La quota di sportelli facenti capo a banche meridionali indipendenti passa dal 66% nel 1990 a meno di un terzo del totale. Complessivamente, con il consolidamento cresce la quota di sportelli localizzati nel Nord-Est e nel Centro Italia a spese di un corrispondente calo nel Nord-Ovest e nel Mezzogiorno. Inoltre, la maggiore diffusione di sportelli bancari sul territorio non si traduce necessariamente in una più elevata attenzione al cliente e al valore della prossimità. In particolare per i grandi gruppi che hanno fatto proprio il modello della “banca-rete”, è del tutto evidente come l’esigenza di migliorare l’efficienza allocativa si traduca in una strategia di razionalizzazione dei processi lavorativi presso le filiali con una standardizzazione delle attività di vendita, l’adozione di modelli quantitativi di valutazione del rischio e un accentramento di funzioni decisionali presso le sedi centrali, pregiudicando il concetto di prossimità e personalizzazione del servizio. Lo svuotamento della prossimità fisica, mediante standardizzazione dei servizi, si ripercuote negativamente con particolare intensità sulla (piccola e media) clientela meridionale. Essa, proprio in conseguenza delle fusioni ed 32 acquisizioni “esterne” delle banche locali, subisce più intensamente le conseguenze dell’aumento della distanza funzionale e del progressivo impoverimento di contenuti nel rapporto banchiere-affidato. Ne consegue che soprattutto al Sud il consistente aumento del numero degli sportelli si rivela funzionale alla ottimizzazione di una rete di distribuzione di un prodotto non differenziato e, ancor di più, alla espansione della raccolta del risparmio locale che per la banca “esterna” rappresenta il principale “valore” delle acquisizioni meridionali. Diversamente, per le banche di minori dimensioni la persistenza della prossimità territoriale non si esaurisce in una mera vicinanza geografica tra sportello e cliente, bensì alimenta una vicinanza di “intelligenza”, grazie alla quale la decisione di affidare o meno un cliente è presa in condizione di prossimità fisica e soprattutto informativa con il cliente stesso, attingendo al patrimonio di informazioni qualitative e non standardizzate che derivano da una relazione quotidiana e ripetuta. E sono infatti proprio le banche di dimensione minore, gestite in forma cooperativa, a forte radicamento territoriale, a presentare una performance comparativamente migliore rispetto a quella esibita dalle banche “a rete” dei grandi gruppi esterni al Mezzogiorno. Gli effetti di questo processo di “consolidamento” e “razionalizzazione” del sistema bancario si rivelano particolarmente pesanti per il sistema produttivo meridionale nel quale il modello della banca locale di dimensione regionale in grado di sviluppare forti relazioni con le imprese affidate, di fatto, finisce con l’essere sempre più minoritario; basti pensare all’esiguo peso, in termini di sportelli, delle banche minori e delle banche di credito cooperativo rispetto a quella delle grandi banche. Gli effetti più vistosi del consolidamento di questo sistema bancario nel Mezzogiorno si traducono in una drastica riduzione del numero di imprese affidate, in particolare di quelle di dimensioni minori, per loro natura opache, cioè in grado di produrre un flusso informativo più eterogeneo e impalpabile rispetto alla clientela medio-grande ed alle stesse imprese minori non meridionali. Per le banche operanti nel Mezzogiorno diviene quindi più problematico applicare criteri di valutazione che investono di più sulle informazioni intangibili (soft information) rispetto all’utilizzo di procedure standardizzate proprie della “banca-rete”, che risulta relativamente più verticalizzata proprio al Sud. Se, da una lato, la “rete creditizia” risulta quantitativamente accresciuta nelle regioni meridionali, dall’altro, essa si rivela relativamente più fragile ed inadeguata funzionalmente ad accompagnare lo sviluppo di tante imprese minori – quando non “minime” – che dominano l’economia del Mezzogiorno. 33 Certo, almeno in una prospettiva di medio termine, i processi del consolidamento che hanno stravolto il sistema bancario meridionale sono del tutto irreversibili. Tuttavia, occorrerebbe individuare forme di controllo e di promozione tali da rendere l’articolazione della rete bancaria cosi delineata molto più incisiva e vantaggiosa per i sistemi produttivi locali. Qui entra in campo necessariamente il regolatore pubblico, il quale dovrebbe articolare e portare avanti una strategia utile a conseguire questi obiettivi. Per governare i rischi della banca rete viene in mente quanto da anni la Vigilanza statunitense si ripromette di conseguire a salvaguardia delle comunità locali attraverso la regolazione contenuta nel cosiddetto Community Reinvestment Act. Le autorità Federali si fanno carico di “controllare” i fenomeni di penalizzazione delle comunità locali indotti proprio dai processi di consolidamento. E’ davvero singolare che in un sistema dualistico quale quello italiano, nel quale il consolidamento si è realizzato in forme così rapide e drastiche, questi aspetti non siano considerati dalle autorità Monetarie come compiti e responsabilità primarie. Potrebbe essere auspicabile, allora, la promozione da parte delle Regioni meridionali – singolarmente o ancor meglio tra loro coordinate – di un’azione volta alla realizzazione di un “osservatorio attivo” capace di dettare (e non di imporre) linee guida di comportamento e di realizzazione di performance nei confronti del sistema bancario, che potrebbero essere ben accette anche ai grandi gruppi bancari operanti secondo il modelli della “banca-rete”, i quali nel rapporto con le istituzioni pubbliche meridionali trovano una clientela tutt’altro che marginale. Quanto al superstite sistema creditizio locale, assumono un rilievo strategico quelle componenti bancarie che, sebbene minoritarie, possono avere un ruolo significativo per l’imprenditoria meridionale, ossia le banche a dimensione regionale e quelle organizzate in forma cooperativa: il loro radicamento aiuta a mitigare le difficoltà di accesso al credito anche in condizioni difficili come quelle attuali. A tale riguardo, l’azione dovrebbe essere quella di promuovere, più che un’ espansione, un significativo irrobustimento di una “rete” di banche locali, le quali potrebbero coordinarsi rispetto a problemi ed opportunità interessanti per tutte, con l’ausilio e la consulenza critica di operatori specializzati nel mettere a sistema unità operative indipendenti che di norma insistono su territori diversi ma limitrofi. Rafforzare la rete delle banche locali è un importante snodo, la premessa essenziale, per avviare un nuovo e più fisiologico rapporto con la clientela (contenendo i rischi e ampliando le opportunità). 34 L’altro versante sul quale la politica economica, anche a livello locale, è chiamata a misurarsi, attiene ai profili di rischio delle imprese meridionali A tal fine, occorre tornare a sottolineare con preoccupazione i gravi ritardi e, quindi, la urgente e assoluta necessità di una rapida riforma del sistema dei Consorzi di Garanzia Collettiva Fidi meridionali. Anche in tal caso non si vede come ciò possa avvenire se non attraverso una azione pubblica in grado di responsabilizzare e di “trascinare” coerentemente gli operatori privati. Concentrazione, rafforzamento patrimoniale, crescita operativa e professionale sono alcuni dei tratti essenziali da perseguire. La riforma dei Confidi può costituire uno strumento a disposizione delle imprese associate nel rapporto con le banche, per l’accesso al credito a condizioni mediamente più favorevoli di quelle altrimenti ottenibili da un’impresa non associata. In definitiva, è cruciale limitare i danni al sistema produttivo che possono derivare dalla “banca-rete” quando – come nel caso del Sud – si è alla periferia, e cioè, funzionalmente distanti dal cuore del sistema. A questo scopo le autonomie locali (specie quelle Regionali) dovrebbero assumersi responsabilità del tutto alla portata dei loro attuali poteri. E’ necessario pensare ad una regia, senza farsi illusioni su automatici processi di coordinamento, ma confidando invece sul fatto che vi è un’aspettativa proprio in questo senso da parte di tanti operatori, sia sul versante bancario che su quello dell’impresa. Essi da tempo attendono e meritano da parte delle Istituzioni un coerente e significativo segnale di attenzione. 5. LE RIFORME DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E DEL WELFARE: UNA PRIORITÀ PER LA CRESCITA DEL SUD 5.1. Una Pubblica Amministrazione al servizio dello sviluppo La necessità di rilanciare gli interventi di politica nazionale e regionale di sviluppo riporta inevitabilmente al nodo critico irrisolto e mai affrontato in modo sistemico della riforma della Pubblica Amministrazione. Una riforma efficiente della P.A permetterebbe, come accaduto nelle esperienze straniere di maggior successo, di rimettere in circolo riserve di produttività compresse da dispositivi normativi e dal conformismo dei comportamenti burocratici. Sino ad ora nel nostro Paese i tentativi di intervento hanno mostrato una sostanziale inefficacia. 35 In assenza di un approccio sistemico di rinnovamento della Pubblica Amministrazione, i processi di riforma settoriali avviati negli anni novanta del secolo scorso sembrano aver determinato un ulteriore ampliamento dei divari tra le diverse aree del Paese. Le stesse politiche di coesione, peraltro, sono rimaste condizionate dall’acutezza dei nodi critici che volevano aggredire, dai ritardi strutturali della società e dell’economia meridionale. Al tempo stesso, si trascina irrisolta al Sud ancor più che al Nord la questione dei rapporti tra poteri politici e poteri amministrativi; da qui la continuità di un rapporto di sudditanza del dirigente pubblico al potere politico. Le esperienze straniere di maggiore successo attribuiscono al dirigente pubblico una autorità e responsabilità nell’applicare una dettagliata procedura di pianificazione strategica ed operativa, favoriscono la maggiore trasparenza nei processi decisionali, consentendo di meglio tracciare i confini tra ciò che appartiene al potere politico e ciò che appartiene al potere amministrativo. Le informazioni raccolte da una serie di indagini condotte da Istat, Banca d’Italia, DPS ed Autorità di settore, danno conto che i risultati di una inefficace azione della Pubblica Amministrazione si riflettono con particolare gravità nel Mezzogiorno. La percentuale di famiglie che denunciano irregolarità nella distribuzione dell’acqua è pari al 21,8% nel Sud (supera il 30% in Calabria e Sicilia), contro il 9% nel Centro-Nord; il grado di insoddisfazione del servizio elettrico è nel Sud circa tre volte superiore al Centro-Nord; nei servizi ospedalieri, la quota di ricoveri in ospedali di altra ripartizione risulta nel Mezzogiorno pari a 6 volte a quella del Centro Nord. In tema di raccolta rifiuti, la quota di rifiuti inviata in discarica è ancora all’83% nel Mezzogiorno, contro circa il 70 ed il 30% nel Centro e nel Nord. La raccolta differenziata nel Mezzogiorno è pari ad un terzo di quella del Centro-Nord. I collegamenti di trasporto pubblico urbano sono inferiori di quasi il 34%. Una pluralità di inefficienze che riducono la qualità della vita nel Sud e sono il riflesso di uno Stato che nel Sud è debole proprio nell’erogazione dei servizi che dovrebbe essere fondamentali. La cartina al tornasole della debolezza delle politiche degli ultimi dieci anni è rappresentato dal fatto che “fare impresa” nel Sud, nonostante gli ingenti fondi nazionali ed europei spesi in queste regioni, è diventato più sempre difficile. I più recenti studi delle grandi organizzazioni internazionali hanno posto in evidenza come il peso elevato degli oneri burocratici per le imprese siano un fattore di ostacolo rilevante alla concorrenza e alla crescita del sistema economico. Su tali temi è l’intero sistema Paese che presenta posizioni 36 decisamente sfavorevoli a livello internazionale. Ad esempio, in base all’indicatore di “Doing Business” elaborato dalla Banca Mondiale e che si basa sulle procedure necessarie in fasi significative della vita d’impresa (l’avvio di una attività, la concessione di licenze edilizie, la soluzione di controversie, etc), l’Italia si colloca al 65° posto. Si tratta di condizioni che divengono in media nel Mezzogiorno ancora più difficili. L’indice di semplificazione/regolazione elaborato dal Formez, che valuta il livello di semplificazione amministrativa (grado di funzionamento dello Sportello unico, qualità delle normative in temi di impianti produttivi e aree ecologicamente attrezzate, qualità delle politiche di semplificazione amministrative a favore delle imprese), presenta per le regioni del Sud un valore peggiore di circa il 30%. Un significativo divario si rileva anche con riguardo ai tempi necessari per aprire una impresa, calcolati in circa 19 giorni per le regioni del Mezzogiorno continentale e in 15 nelle Isole, valori superiori rispetto alle circoscrizioni del Centro-Nord e in particolare alle regioni nord- occidentali, dove sono necessari meno di 9 giorni. Un approfondimento a parte merita il tema dell’efficienza del sistema giudiziario. Esso rappresenta una condizione fondamentale per il buon funzionamento del sistema economico. I tempi lunghi di risoluzione delle controversie civili generano ogni anno costi insopportabili che minano le condizioni di sopravvivenza delle imprese di minori dimensioni. La durata media dei procedimenti di cognizione di primo grado è nel Mezzogiorno di 1.200 giorni per il totale dei procedimenti e di circa 1.000 per le cause di lavoro, contro, rispettivamente, 750 e 500 giorni nel Centro-Nord. Differenze altrettanto rilevanti si rilevano per quanto riguardano i procedimenti esecutivi. In questo caso si raggiunge nelle regioni del Sud una durata media dei procedimenti esecutivi immobiliari di oltre 2.300 giorni contro meno di 1.000 giorni nelle regioni del Centro-Nord (che già sono moltissimi rispetto alle medie europee). Pesano come un macigno sulle prospettive di realizzare significativi avanzamenti nelle dotazioni dei territori meridionali le difficoltà, presenti nell’intero Paese, nel realizzare le opere pubbliche. In questo ambito, alle difficoltà di carattere decisionale e programmatico delle Regioni e dello Stato centrale si sommano tempi di realizzazione delle opere che potremmo definire biblici. I dati dell’ultima Relazione dell’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture Infrastrutturali evidenziano che per opere di entità superiore ai 5 meuro, i tempi di realizzazione sono di circa 10 anni; sotto i 5 meuro, sono di almeno 4 anni. 37 Se si considerano i dati relativi ai territori, emergono particolari criticità del Mezzogiorno, specialmente nella fase di progettazione e aggiudicazione delle opere. La fase di progettazione oscilla tra gli oltre 1.000 giorni della Sicilia e i 380 giorni della Lombardia; tra l’approvazione del progetto e la pubblicazione del bando passano ulteriori 272 giorni in Sicilia, 207 in Campanile a fronte di 93 giorni in Lombardia. I dati complessivi riportati nella Relazione citata mostrano una durata complessiva delle fasi amministrative necessarie solo a “decidere” di circa 900 giorni; si tratta del periodo che passa tra la data di incarico per la progettazione esterna e la data dell’aggiudicazione definitiva. Questi 900 giorni però nascondono grandi variabilità territoriali: si passa, infatti, dai 583 giorni della Lombardia ai 1.120 della Campania, fino ai 1.582 della Sicilia. Ciò vuol dire 4 anni solo per cominciare una opera pubblica. 5.2. Un Welfare più equo tra le generazioni e i territori Nella metà degli anni ’80, in uno dei Suoi ultimi scritti, l’economista Federico Caffè sosteneva , con riferimento al dibattito già allora in corso sulla crisi dei sistemi di Welfare europei, che da parti di molti si confondeva “un tramonto con una non ancora raggiunta pienezza di un nuovo giorno”. Con ciò stava ad indicare che il problema era proprio la mancata realizzazione di molti degli obiettivi che uno Stato sociale si dovrebbe proporre, e non certo il suo declino. Tali riflessioni di circa vent’anni fa sembrano adattarsi perfettamente alla fase attuale, che sta ponendo in particolare evidenza i limiti dell’attuale sistema che presenta una composizione squilibrata e soprattutto non in grado di coprire in maniera universale i bisogni della popolazione. Tali incompletezze rendono il nostro sistema di Welfare iniquo in particolare verso le fasce più deboli della società, i poveri, i giovani e il Mezzogiorno. In termini di spesa complessiva per la protezione sociale rapportata al PIL, l’Italia non si discosta di molto dalla media europea: nel 2006 era al 26,6% a fronte del 27% della UE a 25. L’anomalia italiana sta nella quota molto elevata della spesa previdenziale destinata alla popolazione in età avanzata (58,8% della spesa sociale complessivamente erogata, a fronte di valori inferiori al 50% della quasi totalità dei paesi europei). Proprio per effetto della concentrazione delle pensioni nel Centro-Nord, la spesa del Welfare che riceve ogni abitante è pari a 7.200 euro al Nord e a 5.700 euro al Sud, con un divario a sfavore del cittadino del Sud di circa 1.500 euro. Gli interventi di riforma sin qui adottati, troppo timidi nel modificare lo status quo, hanno solo parzialmente contenuto la tendenza espansiva del deficit 38 della parte più rilevante della spesa sociale, la spesa previdenziale. Nonostante le diverse riforme del sistema previdenziale, l’età media di pensionamento permane nel nostro Paese, e soprattutto nel Centro-Nord, piuttosto bassa: 56,3 anni al Nord e 58,3 anni al Sud, in entrambe le aree con circa 35 anni di contributi versati. Rimane ancora debole la seconda gamba del Welfare italiano, quella che dovrebbe favorire, attraverso servizi e trasferimenti, l’inclusione sociale e l’ampliamento delle opportunità. Queste carenze relative al livello nazionale sottendono squilibri rilevanti a livello territoriale delle due circoscrizioni. In particolare, divari si evidenziano nei servizi socio-assistenziali a favore di minori ed anziani: la percentuale di bambini accolti in asilo nido, pubblici o privati convenzionati, è al 4,5% nel Mezzogiorno, rispetto al 15,0% nel Centro-Nord mentre è ancora all’1,8% nel Mezzogiorno. Con riferimento agli ammortizzatori sociali in senso stretto, nonostante i recenti correttivi introdotti dal Governo, il diritto a prestazioni di entità e durata significative resta limitato ai soli lavoratori dipendenti – cui ora si aggiunge una piccola porzione di parasubordinati –, restando in ciò fondamentalmente legato ad un approccio tradizionale di protezione del lavoratore contro il rischio di disoccupazione che tutela solamente chi ha già avuto una occupazione a carattere subordinato, solitamente per un periodo non marginale di tempo, escludendo oltre ai lavoratori autonomi anche i dipendenti con storie lavorative frammentate e di breve durata. E’ evidente come un sistema siffatto comporti il razionamento di quelle aree territoriali dove minore è il peso del settore industriale e delle imprese medio-grandi e dove maggiore è, per converso, la quota di occupazione precaria ed irregolare. In base a valutazioni svolte dalla SVIMEZ, il numero degli occupati esclusi da ogni tutela è in Italia valutabile in circa 2 milioni e di questi circa 650 mila sono nel Mezzogiorno. Se a questi aggiungiamo nel Sud i disoccupati e i lavoratori in nero, circa il 50% della forza lavoro del Mezzogiorno è outsider rispetto al sistema di ammortizzatori. Ciò pone con forza l’esigenza di una riforma in grado di potenziare l’offerta di aiuti economici e di servizi diretti ai lavoratori espulsi dal ciclo produttivo, tramite ammortizzatori sociali rivolti ai singoli individui indipendentemente dal settore, dalla dimensione e dalla tipologia delle imprese. Tra le carenze del sistema italiano, spicca in particolare l’assenza di prestazioni di carattere universale per la povertà e l’inoccupazione. La SVIMEZ, utilizzando il modello MICROREG dell’IRPET, ha condotto una simulazione per valutare, in base ai dati ISTAT sulle famiglie che vivono al di 39 sotto della soglia di povertà assoluta, il costo che comporterebbe l’introduzione di una forma di sussidio universale al reddito in grado di riportare il reddito familiare al di sopra di tale soglia. In base a tale stima, il numero di famiglie in condizioni di povertà assoluta è pari a livello nazionale a circa 1 milione, di cui 398 mila nel Nord, 133 mila nel Centro e 443 mila nel Mezzogiorno. L’esercizio condotto ha valutato in circa 2 miliardi di euro all’anno il costo di un intervento universale in grado di far uscire tutte le famiglie dalla condizione di povertà, assicurando il differenziale tra il reddito percepito e la soglia definita dall’ISTAT. Tale costo sarebbe destinato per circa il 48% alle famiglie meridionali (930 milioni di euro), per il 41% a quelle del Nord (795 milioni di euro) e per il restante 11% al Centro (213 milioni di euro). Il costo di tale intervento, che renderebbe il nostro sistema di protezione sociale più omogeneo al modello prevalente negli altri paesi europei, se confrontato con quello di misure recenti come l’abolizione dell’ICI sulla prima casa, non appare incompatibile con gli equilibri di finanza pubblica. Nel breve e medio periodo – naturalmente con modalità e tempi da stabilire con metodi concertativi – le risorse necessarie potrebbero derivare da un modesto contenimento della spesa pensionistica. In tale quadro, occorrerebbe procedere ad una accelerazione del passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo e ad un innalzamento dell’età media di fruizione delle pensioni. Quest’ultimo obiettivo non può non comprendere forme più efficaci di scoraggiamento del ricorso al pensionamento anticipato, che costituisce una delle principali fonti della crescita previdenziale negli ultimi anni e che risulta concentrato soprattutto nelle regioni più ricche. La rimodulazione delle componenti del Welfare a favore delle fasce oggi escluse, oltre a determinare una maggiore equità del sistema di protezione nel suo complesso, avrebbe quindi indiscutibilmente anche l’effetto di un riequilibrio della sua allocazione tra le due grandi aree del Paese. 40 Finito di stampare il 15 luglio 2009 dall’Industria Failli Grafica s.r.l. Via Roma, 202, 00010 Pomezia (Roma) – Tel. 06.9122520 fax 06.9108363 per conto della SVIMEZ “Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno” Via di Porta Pinciana 6, 00187 Roma Tel. 06.47.850.1 • fax 06.47.850.850 • e–mail: svimez@svimez.it Svimez 2009/06_sintesi.pdf “RAPPORTO SVIMEZ 2009 SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO” SINTESI Roma, 16 luglio 2009 Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 3 . LE DINAMICHE ECONOMICHE GENERALI E SETTORIALI LE POLITICHE INDUSTRIALI LE POLITICHE DI COESIONE E L’EUROPA LE POLITICHE DI FINANZA PUBBLICA LE POLITICHE INFRASTRUTTURALI LE POLITICHE CREDITIZIE LE POLITICHE PER LA P.A. LE POLITICHE PER IL SUD POPOLAZIONE, SCUOLA E MERCATO DEL LAVORO, MIGRAZIONI POLITICHE PER LO STATO SOCIALE POLITICHE CONTRO LA CRIMINALITA’ Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 4 LE POLITICHE ECONOMICHE GENERALI E SETTORIALI 2008 anno di crisi - Il 2008 è stato un anno di crisi per l’economia mondiale e la recessione in corso nelle principali economie del mondo continua ad essere la più profonda dal dopoguerra. La crisi è stata più marcata nei paesi dove maggiore è la quota della produzione manifatturiera, come Giappone ed Europa. Nel 2008 le economie Ue hanno registrato una crescita del Pil dello 0,8%, rispetto al +2,7% del 2007. La crisi è diventata recessione solo per pochi paesi, tra cui l’Italia (- 1%), il Lussemburgo ( -0,9%) e l’Irlanda (-2,3%). La crisi si è fatta sentire sulla domanda estera prima e interna poi, con una caduta negli acquisti di beni capitali e una flessione negli investimenti. E nel Mezzogiorno? Pil e Mezzogiorno - In base a valutazioni SVIMEZ nel 2008 il Pil ha segnato nel Mezzogiorno -1,1%. Ormai da sette anni consecutivi il Sud cresce meno del Centro- Nord, cosa che non è mai successa dal dopoguerra a oggi. Il divario in termini di prodotto per abitante è invece lievemente diminuito, a causa dei flussi migratori nazionali ed esteri in direzione del Nord, arrivando 58,6% di quello del Centro Nord. A livello regionale la Campania mostra una diminuzione del Pil particolarmente elevata (- 2,8%), mentre le altre regioni meridionali presentano perdite più contenute. Meno colpita dalla crisi la Puglia (-0,2%). Pil per abitante e divari storici - Una misura efficace del divario Nord-Sud la dà il Pil per abitante: nel 2008 nel Mezzogiorno è stato 17.971 euro, circa il 59% del Centro- Nord (30.681 euro), con una riduzione però del divario di oltre 2 punti percentuali dal 2000, dovuta solo alla riduzione relativa della popolazione. Un altro indicatore storico rende l’idea della situazione stagnante: nel 1951 nel Mezzogiorno veniva prodotto il 23,9% del Pil nazionale. Sessant’anni dopo, nel 2008, la quota è rimasta sostanzialmente immutata (23,8%). Dal 1951 al 2008 il Sud è cresciuto circa agli stessi ritmi del Centro-Nord, ma non è riuscito e non riesce a recuperare il gap di sviluppo. Nella ricostruzione della SVIMEZ l’intervento pubblico straordinario, cioè ad hoc per il Sud, è stato in media pari allo 0,7% del Pil negli anni cinquanta e sessanta, e allo 0,9% negli anni settanta. Successivamente è sceso allo 0,65% negli anni 1981-1986, riportandosi poi fino al 1993 allo 0,75% e poi allo 0,8% negli anni recenti. Tra i fattori responsabili del mancato sviluppo l’andamento della produttività, troppo ridotto, anche perché legato, oltre che al capitale, a elementi di contesto fortemente deficitari nel Sud , come il capitale umano, la R&S, le infrastrutture e il capitale sociale. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 5 Oltre al gap Nord-Sud Italia, cresce anche la distanza tra il Sud e l’Europa, soprattutto per effetto della scarsa competitività (fig 13). Il Sud infatti è cresciuto molto meno delle altre regioni Obiettivo 1 in Europa. L’economia per settori Agricoltura - Nel 2008 l’agricoltura meridionale ha tenuto molto più degli altri settori e ha invertito il trend negativo iniziato nel 2005. In particolare, molto positiva è stata la performance della Basilicata, con una crescita del Pil nel 2008 rispetto al 2007 di ben il 24%. Bene anche Abruzzo, Molise e Puglia, più contenuta la Sicilia (2,9%), segno meno in Campania (-1,8%) e Calabria (-0,8%). Aziende agricole - Nonostante gli sforzi e i progressi degli ultimi anni le criticità strutturali di fondo restano: la dimensione media delle aziende nel Mezzogiorno è di 6 ettari, contro i quasi 10 del Centro-Nord. Nel Sud l’occupazione agricola è soprattutto dipendente e tende ad aumentare, a differenza del Centro-Nord. Dal 2001 al 2008 la crescita della produttività agricola meridionale è stata la metà di quella del Centro-Nord (+8,9% contro +17%). A pesare ulteriormente sulla poca competitività è il costo del lavoro per unità di prodotto, che nel Sud è superiore del 38% a quello del Centro- Nord Export - Crescono però le esportazioni: nel 2008 +9,7% al Sud, più del triplo del Centro-Nord, con un vero e proprio boom verso i mercati extra Ue (+36%). Le regioni più forti Molise (+105%) e Basilicata (+98%), mentre scendono fortemente Calabria (- 18%) e Sardegna (-60%). Industria - La crisi in atto ha colpito a livello nazionale e non solo soprattutto il comparto industriale. Cali della domanda interna ed estera hanno pesato in modo determinante, soprattutto per quanto riguarda i beni durevoli e gli investimenti fissi lordi. La recessione si è fatta sentire in modo particolare al Sud, con un calo del Pil industriale nel 2008 del 3,8%, mentre le produzioni manifatturiere hanno segnato un calo di oltre il 6%. A tirare giù l’industria meridionale soprattutto macchine e mezzi di trasporto (-10,5%), settore dei metalli e chimico-farmaceutico (-7,1%). In controtendenza invece il settore energetico, che ha segnato un rialzo dell’8,7% a causa soprattutto del calo del prezzo delle materie prime. Più vario il panorama delle esportazioni: a fronte di un calo di quasi il 6% per l’automotive, il chimico-farmaceutico ha segnato un incremento superiore al 15%. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 6 Occupazione industriale - Sull’industria meridionale pesa soprattutto la scarsa produttività (il divario con il centro-Nord è di oltre 22 punti percentuali) e le ridotte dimensioni delle imprese. Immediato il contraccolpo sull’occupazione: 23mila lavoratori del comparto auto hanno perso il lavoro al Sud nel 2008. Dal 2004 al 2008 il settore manifatturiero ha espulso quasi 33mila lavoratori. Giù anche gli investimenti: -2,1% annuo dal 2001 al 2008, tre volte tanto rispetto al Centro-Nord (-0,6%), anche a seguito della riduzione o abolizione di alcune agevolazioni (credito d’imposta, legge 488). Imprese cooperative - Un caso a parte è costituito dalle imprese cooperative, che nel Sud dal 1971 al 2001 sono aumentate di oltre otto volte, con un vero e proprio boom in Campania (+1.432%) e Sicilia (+1.297%). Una curiosità: nonostante nel Sud nel periodo in questione il numero medio di addetti si sia dimezzato (erano in media 21 nel 1971, 9 nel 2001), il 20% delle imprese totali è classificato come media (classe 10-49 addetti) e ben 58 su 450 hanno più di 250 addetti. A parte il Molise, dove ben l’80% delle imprese con più di 250 addetti sono cooperative, le imprese di grandi dimensioni sono superiori al 20% anche in Basilicata e Calabria: dati che fotografano un fenomeno in controtendenza rispetto al sistema economico nazionale (il 96% delle imprese al Sud ha meno di 9 addetti, il 94% al Centro-Nord). Contrariamente a quanto si pensa, le imprese cooperative sono diffuse più nel Sud che nel resto del paese (53.130 su un totale di 111.800), concentrate nel settore agroalimentare, nelle costruzioni e nell’edilizia abitativa, con una prevalenza del settore terziario (soprattutto servizi alle persone, istruzione, sanità). Nel Mezzogiorno sono più diffuse le cooperative agricole, nel Centro-Nord quelle attive nei servizi alle imprese e alla persona). Edilizia - La crisi non ha risparmiato il settore edile: dopo la forte crescita degli ultimi otto anni (quasi +16%), nel 2008 il Sud ha segnato un calo degli investimenti del 2% rispetto all’anno precedente. Dal 2003 al 2007 inoltre i bandi di gara per opere pubbliche sono scesi del 27% a livello nazionale, con punte particolarmente negative in Basilicata (-43,5%), Calabria (-31%) e Puglia (-30%). Sul fronte occupazione il Mezzogiorno ha registrato una flessione dell’1,2%, pari a 7mila lavoratori in meno, il doppio del Centro-Nord, di cui quasi 5mila lavoratori autonomi. La vera piaga del settore edile è data però soprattutto dal sommerso: secondo stime SVIMEZ i lavoratori in nero occupati nel settore sarebbero 180mila, di cui il 63% (110mila) concentrati al Sud. Servizi e terziario - Sempre per effetto della crisi, per la prima volta dal 2000 il Pil del settore dei servizi è calato. Al Sud, dopo quattro anni di forte crescita, nel 2008 il Pil è sceso dello 0,3%, con un calo quasi del 3% nel comparto commercio. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 7 La crescita degli occupati nel settore è stata molto contenuta e al Sud ha segnato + 0,2%, pari a 10mila nuovi posti di lavoro. Più in particolare si segnala il calo dell’1,4% degli occupati nel settore del commercio a fronte della creazione di nuovi posti di lavoro nel comparto assicurativo, immobiliare e finanziario (+1,4%). Turismo - Nel 2007 nel Mezzogiorno gli arrivi e le presenze di turisti stranieri sono aumentati del 6 e del 5% rispetto all’anno precedente, a fronte del 4% e del 2,1% del Centro-Nord. Sono state Sardegna e Puglia a trainare la crescita, con un salto in avanti rispettivamente del 12,5% e dell’11,2%, più contenuti i dati campani (+3,3%) e siculi (+0,2%), in flessione Abruzzo (-1%) e Molise (-12,2%). Nonostante questo, il Mezzogiorno non riesce ad esercitare sui turisti italiani e stranieri una forte capacità attrattiva, a causa di critiche difficoltà strutturali. Il turismo al Sud è soprattutto domestico, di prossimità: circa il 60% dei vacanzieri infatti proviene dalle diverse regioni meridionali, più il Lazio. Nonostante le condizioni climatiche consentano di estendere la stagione a dodici mesi l’anno, di fatto oltre il 70% delle presenze si concentra nel periodo giugno- settembre. Ad esempio nel febbraio 2007 gli stranieri che hanno scelto di trascorrere un periodo di ferie nel Mezzogiorno sono stati l’1,4% sul totale annuo, contro il 4,5% del Centro-Nord; nello stesso periodo i turisti italiani al Sud sono stati meno della metà rispetto al dato del Centro-Nord (2,1% contro 4,5%). Nonostante la ricchezza del patrimonio ambientale e artistico, il Sud viene inoltre percepito essenzialmente come una località balneare, mentre il turismo d’affari e congressuale, spesso sviluppato nei mesi invernali, è praticamente assente. Punti critici nell’attrazione dei turisti sono dati dalla scarsità di servizi e trasporti: pochi aeroporti poco collegati con voli low cost e città europee; trasporti pubblici carenti; rete ferroviaria a binario unico e sistema autostradale sottodotato. Città e aree urbane – Mentre al Centro-Nord le grandi città attraggono importanti attività terziarie, al Sud non riescono a trainare uno sviluppo diffuso e limitrofo, ma sono espressione di un radicato disagio sociale, inadeguate a fornire efficienti livelli di servizio ai cittadini per le funzioni essenziali come acqua, rifiuti, assistenza socio- sanitaria. Lo dimostra anche il fatto che nel 2008 la popolazione delle aree urbane del Centro- Nord è cresciuta in valori compresi tra il +3 e il +6% a seconda delle ripartizioni, mentre le città al Sud hanno perso 13mila unità (-0,3%). Se Milano ha visto aumentare la popolazione del 2 per mille e Torino addirittura del 12, Napoli ha perso 4 residenti su mille. Nel complesso la situazione resta difficile: grandi aree urbane sull’orlo della crisi, Napoli, Palermo e Catania, aree urbane intermedie poco collegate tra loro non sempre in grado di fornire servizi adeguati agli abitanti, come Paola. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 8 Paradossalmente, il Sud è più legato con il Nord che con se stesso, come dimostrano i dati sulle migrazioni e sul pendolarismo Sud-Nord. Non mancano esperienze positive, come Salerno, Pescara, Bari e le realtà intermedie di Sassari e Cagliari. Cosa dice la SVIMEZ – A differenza del passato, nel Sud oggi la crisi rischia di mordere maggiormente con effetti fortemente negativi sui consumi, investimenti e occupazione. L’economia meridionale risente particolarmente del fatto di essere stata colta dalla crisi in una fase di particolare fragilità, mentre si stavano avviando processi di aggiustamento sia dal lato delle imprese che del bilancio pubblico. Questo perché l’economia meridionale somma all’inversione ciclica debolezze strutturali che affondano le loro radici nel tempo. La leggera convergenza con il Centro-Nord viene raggiunta per via patologica, non con maggiore crescita, ma con perdita di popolazione. Tale dinamica è in controtendenza con quanto avviene nelle aree deboli nel resto dell’Europa. Le analisi del Rapporto mostrano come le imprese meridionali sembrino essere state maggiormente colpite dall’intensificarsi della concorrenza internazionale, verosimilmente per motivi di composizione settoriale (nel Mezzogiorno pesano meno che al Centro-Nord i settori che hanno “tenuto” meglio, quali ad esempio le industrie meccaniche fornitrici di beni capitali), per una minore presenza nei mercati emergenti, e per una dimensione media delle imprese inferiore a quella del Centro-Nord. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 9 LE POLITICHE INDUSTRIALI Crisi economica e politiche di settore – L’inatteso deterioramento dei saldi di finanza pubblica conseguente alla crisi economica e finanziaria ha spinto il Governo a dirottare altrove parte delle risorse disponibili in precedenza che erano state programmate per la politica industriale. Ciò, peraltro, è avvenuto mentre prosegue la flessione delle agevolazioni nel Sud. Il sostegno del Governo è stato indirizzato soprattutto verso il settore del credito, potenziando il Fondo di Garanzia per le piccole imprese e i Confidi, aiutando la ricapitalizzazione delle banche attraverso i Tremonti bond, immettendo liquidità a basso costo grazie a parte dei fondi della Cassa Depositi e Prestiti, ampliando le forme di garanzia e le modalità di intervento della Sace. Le norme agevolative varate –La definitiva archiviazione della legge 488 sugli incentivi alle imprese ha cambiato radicalmente il ventaglio agevolativo. Si è puntato, invece, soprattutto su due programmi di incentivazione: i Progetti di Innovazione Industriale e il Credito d’Imposta per ricerca e sviluppo. Ai primi il Governo precedente aveva destinato quasi un miliardo nel triennio 2007 – 2009. A inizio 2008 era stato già avviato l’iter per il finanziamento dei primi cinque Progetti di Innovazione. Ma per entrambi il Mezzogiorno è riuscito a catturare quote di risorse del 4,9% e dell’8,1%, decisamente trascurabili. Progetti di Innovazione Industriale – Per il progetto “Mobilità sostenibile” sono state presentate 50 domande, che hanno coinvolto 420 imprese e 225 organismi di ricerca. Di cui solo il 12% sono localizzate nel Mezzogiorno. I progetti ammessi sono stati la metà, che riguardano 250 imprese e 100 organismi di ricerca. Il totale dei contributi sfiora i 180 milioni. Per il progetto “Efficienza energetica” sono state presentate 86 richieste, che coinvolgono circa 500 imprese, di cui poco più del 20% ubicate nelle aree meridionali. Ammessi al finanziamento 30 progetti che riguardano 234 imprese e 160 enti di ricerca. Il totale dei contributi è di 200 milioni. Per il progetto “Nuove tecnologie per il Made in Italy” il bando stanzia 190 milioni: sono stati presentati 429 progetti che hanno coinvolto più di 3mila imprese e mille centri di ricerca. Non c’è ancora la graduatoria degli ammessi. Per gli ultimi due progetti “Tecnologie innovative per i beni culturali” e “Nuove tecnologie della vita”, siamo ancora alle battute iniziali. Crediti d’Imposta per ricerca e sviluppo – La misura è rimasta inattuata per l’intero 2007, in attesa dell’autorizzazione della Commissione Europea. Nel corso del 2008 Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 10 sono state concesse agevolazioni per oltre 700 milioni, di cui più del 94% a imprese del Centro Nord. Successivamente, con l’aggravarsi della crisi economica, il Credito d’imposta è stato esteso ai settori del tessile e della moda. Sud e politica industriale – In Italia nel 2007 c’è stato un crollo rispetto all’anno precedente sia del numero di domande per agevolazioni, che ha sfiorato il 76%, sia degli importi, diminuiti da 6 miliardi e mezzo a 1 miliardo e mezzo. Le cause sono molteplici, ma soprattutto la non operatività di numerosi strumenti di incentivazione, le difficoltà connesse al nuovo ciclo di programmazione dei fondi comunitari, i ritardi nell’avvio dei nuovi interventi. A livello territoriale c’è stata una forte differenziazione tra Centro Nord, dove le agevolazioni si sono ridotte del 27% rispetto all’anno prima, e Mezzogiorno, dove il calo è stato dell’86,5%. Il motivo è stato il sostanziale azzeramento degli interventi per ridurre gli squilibri territoriali. In definitiva nelle aree meridionali il 90% delle agevolazioni nel corso del 2007 si è concentrato nella ricerca e sviluppo e nella nuova imprenditorialità. Nuovo pacchetto di agevolazioni al Mezzogiorno Crediti d’imposta per investimenti - Sono destinati esclusivamente al Mezzogiorno. Sono diventati operativi nel 2008. Gli stanziamenti complessivi per il periodo 2008 – 2015 sono 4 miliardi e 477 milioni. Sono state presentate 35.490 domande, quelle agevolate sono 23.687, per 11 miliardi e 481 milioni di investimenti. Le agevolazioni concesse pari a 4 miliardi e 475 milioni hanno esaurito, già a settembre 2008, l’intero stanziamento fino al 2015. Non sono stati rifinanziati. Crediti d’imposta per nuova occupazione – Si tratta di un bonus fiscale per i datori di lavoro che nel corso del 2008 hanno assunto dipendenti a tempo indeterminato nel Mezzogiorno. L’anno scorso i crediti fruiti sono stati pari a 84,8 milioni, di cui solo 20 milioni nell’industria. Le Regioni dove sono stati maggiormente utilizzati sono Sicilia, Campania e Puglia. Sarebbe stato auspicabile prolungare la durata dell’intervento, limitato al solo 2008. Grazie a questa misura è stimato un aumento di posti di lavoro tra 40mila e 50mila. Zone Franche Urbane – Sono state introdotte con la Finanziaria 2007 per il solo Mezzogiorno, poi, in seguito ai rilievi mossi da Bruxelles, sono state estese anche al Centro Nord con la Finanziaria 2008. Hanno una dotazione di risorse molto limitata, appena 50 milioni per gli anni 2008 e 2009. A seguito di un’istruttoria durante la quale sono giunte 64 proposte, il Cipe ne ha scelte 22, di cui 18 al Sud. Ma non riescono ancora a decollare finché non giunge la definitiva approvazione da parte della Comunità Europea e non vengono approvati i decreti di attuazione. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 11 Contratti di Programma – Sono stati modificati rispetto al passato, puntando su progetti di più ampio respiro e sulla promozione di investimenti non esclusivamente produttivi, ma anche infrastrutturali, di formazione e di ricerca. Si tratta ora di uno strumento non più limitato alle aree sotto utilizzate ma esteso in tutt’Italia. Con i Contratti di Programma possono essere attivati più regimi di aiuto, nazionali e a finalità regionale. Il Cipe ha affidato a Invitalia la gestione di questo strumento agevolativo. L’anno scorso sono state presentate 36 proposte di Contratti di Programma: 24 per il settore manifatturiero e 12 per il comparto agro industriale, che prevedono investimenti complessivi per circa 5,2 miliardi, di cui 3,2 nelle aree meridionali. A fine 2008 nessuna di questa proposte aveva ultimato l’iter procedurale. Contratti di Localizzazione – Hanno il compito di attrarre gli investimenti esteri. Riguardano solo le Regioni meridionali. Sono gestiti da Invitalia, che svolge attività di promozione, stipula e realizzazione di detti contratti. Finora ne sono stati stipulati 10, per circa 480 milioni di investimenti e 206 milioni di agevolazioni. Contratti di sviluppo - Sono uno strumento agevolativo più snello destinato a sostituire i Contratti di Programma e di Localizzazione. Non sono ancora decollati: dovrebbero essere finanziati ricorrendo al Fondo strategico a sostegno dell’economia reale presso la Presidenza del Consiglio, che ha una dotazione di 9 miliardi, ma non si sa quanto di questo ammontare sarà destinato a tale strumento. Sarebbe auspicabile che in sede di attuazione questo nuovo strumento fosse limitato solo al Sud. Ricerca e innovazione – Il ritardo in questo settore è un problema che riguarda l’Italia nel suo complesso, ma soprattutto il Mezzogiorno, dove gli investimenti in ricerca e sviluppo dipendono molto più che altrove dalle politiche pubbliche. Basta guardare il rapporto tra la spesa complessiva in ricerca e sviluppo e il Pil nel Centro Nord e al Sud: nelle aree meridionali è circa il 30% meno rispetto al resto del Paese. Lo stesso vale per il numero di addetti al settore: 4 ricercatori su mille abitanti al Centro Nord, 1,8 nel Mezzogiorno. Peraltro nelle aree meridionali negli anni 2000-2007 l’80% delle agevolazioni per ricerca e sviluppo è concentrato in 2 interventi: il Fondo per le Agevolazioni alla ricerca e il Pia Innovazione, che hanno indirizzato verso quest’area 2 miliardi ciascuno. Il Quadro Strategico Nazionale 2007 – 2013 attribuisce grande rilievo alle politiche di sostegno a ricerca e innovazione, dichiarandole una delle 10 priorità di intervento. PMI - L’ultima “Indagine sulle imprese manifatturiere italiane” realizzata sui bilanci di un campione di imprese di piccola e media dimensione (PMI) negli anni 2004-2006, assolutamente prevalenti nel Sud, ha evidenziato l’importanza di strategie difensive basate su un utilizzo più che flessibile del lavoro e/o dalla prossimità con l’economia Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 12 informale. Ciò è dovuto alla negativa produttività media (-1,0%) delle PMI meridionali, a fronte di una’evoluzione positiva nel resto del paese (+4,1%). L’internazionalizzazione – L’economia meridionale ha un minor grado di apertura ai mercati internazionali e ciò limita sia l’efficienza che l’innovazione. Le esportazioni meridionali hanno scontato un commercio internazionale in fase di forte rallentamento ma ancora in crescita, perché le stime sono precedenti all’insorgere della crisi economica – finanziaria nell’ultima parte del 2008: eppure già in questo contesto il peso del Sud sui dati nazionali relativi all’internazionalizzazione commerciale e produttiva delle imprese è inferiore alle sue dimensioni demografiche ed economiche. Il contributo del Mezzogiorno all’export italiano è, infatti, del 12% per le merci e del 7% per i servizi. La quota di produzione meridionale destinata all’estero è meno della metà della media nazionale. Lo svantaggio dei servizi rispetto alle merci esiste nonostante il potenziale turistico del Sud ed è la conseguenza dello scarso sviluppo di un terziario avanzato. Il Mezzogiorno contribuisce solo per lo 0,5% all’export mondiale, al pari di Paesi come il Portogallo e la Slovacchia, la cui popolazione è comunque inferiore a quella meridionale. Cosa esporta il Mezzogiorno – Il Sud esporta soprattutto derivati del petrolio: ciò spiega la crescita dell’export meridionale del 3,2% nel secondo semestre del 2008 rispetto a una contrazione dello 0,6% del resto del Paese. L’export meridionale è sempre più concentrato in settori come l’acciaio, la chimica, il petrolio, i mezzi di trasporto. Che le esportazioni del Mezzogiorno siano condizionate soprattutto dalla produzione petrolifera, lo dimostrano i dati regionali, con la Sicilia e la Sardegna che sono le prime, mentre Campania e Puglia perdono terreno per quel che riguarda le merci. Ma in particolare la Campania lo riguadagna con l’export dei servizi, puntando sull’attrattività turistica che ha e sul fatto che le maggiori imprese del terziario si collocano nelle grandi aree metropolitane, e quindi segnatamente a Napoli. Gli investimenti esteri in Italia - Se il rapporto tra numero di addetti nelle imprese a partecipazione straniera e numero di addetti nelle unità locali è, nella media nazionale, attorno al 5,1%, nel Sud tale rapporto scende all’1,2% e solo in Sardegna tocca l’1,7%. Ciò testimonia la modesta presenza delle multinazionali nel sistema economico meridionale, dovuta a un contesto nel quale mancano politiche adeguate a creare le condizioni istituzionali e infrastrutturali più adatte, senza le quali difficilmente si riescono ad attrarre capitali esteri. Gli investimenti italiani all’estero – Sono aumentate le partecipazioni all’estero di imprese meridionali, con capitali provenienti da alcune Regioni del Sud: innanzitutto la Basilicata che supera addirittura il dato nazionale, ma anche la Campania, la Puglia e l’Abruzzo. Ma sono comunque decisamente al di sotto della media nazionale. Il primo Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 13 gennaio 2007 le aziende manifatturiere straniere partecipate da investitori meridionali superavano di poco le 200. Gli investimenti meridionali si dirigono in particolare verso l’Europa centro orientale, attratti dai più bassi costi di produzione. Sistemi locali del lavoro – In base a una serie di indicatori la SVIMEZ ha analizzato i 325 distretti del Mezzogiorno dividendoli in sette tipologie diverse da cui emerge un Sud fortemente differenziato al suo interno. - aree delle opportunità consolidate: qui la popolazione è in crescita, gli abitanti hanno un livello di studio elevato, il tasso di occupazione è in linea con la media nazionale o addirittura superiore al Centro-Nord (come a Olbia e alla Maddalena, 52%), il tasso di disoccupazione basso (7%), il livello di reddito (19.400 euro pro capite) è superiore alla media del Mezzogiorno (14.500). Fanno parte di questo gruppo sette sistemi locali dell’Abruzzo (tra cui Avezzano, Celano, Giulianova e Teramo) e alcune importanti realtà turistiche della Sardegna (Arzachena, La Maddalena, Olbia, Santa Teresa Gallura e San Teodoro) e di altre regioni (Capri e Lipari). - aree urbane: qui viene prodotto il 60% del Pil meridionale, ma si spazia dalle zone con un terziario molto forte e un’occupazione in forte crescita (Benevento, Avellino, Bari, Monopoli, Putignano, Lecce, Alghero, Sassari, Macomer, Nuoro, Cagliari e Oristano) ad altre concentrate nel manifatturiero, che arrancano, con una crescita senza occupazione (Caserta, Nola, Taranto, Gioia Tauro, Porto Empedocle e Gela) ad altre in piena crisi. In quest’ultimo caso i tassi di attività e occupazione sono più bassi, la disoccupazione più alta (Foggia, Brindisi, Catanzaro, Reggio Calabria, Vibo Valentia, Trapani, Palermo, Messina, Agrigento, Caltanissetta, Enna, Catania e Siracusa). - aree delle opportunità distrettuali e industriali: Qui prevalgono attività manifatturiere piccole e medie ma anche realtà industriali più forti non sostenute da un terziario avanzato. Sono zone da cui si emigra, che sembrano offrire opportunità di lavoro non qualificato, come denota il tasso di attività superiore alla media meridionale unito alla diffusione di titoli di studio medio-bassi. Fanno parte di questo comparto i distretti di Pineto, Penne, Solofra, Altamura e Calangianus, Atessa, Termoli, Grottaminarda, Melfi e Pisticci. - aree delle opportunità turistiche: sono zone di significative potenzialità turistiche che non riescono però a sfociare in livelli di reddito e occupazione superiori alla media. Qui troviamo ad esempio Sant’Agata dei Goti, Amalfi, Maiori, Telese Terme, Sapri, San Giovanni Rotondo, Barletta e Gallipoli, Diamante, Praia a Mare, Scalea, Soverato, Castelvetrano, Taormina, Capo d’Orlando, Acireale. - aree dinamiche: sono le aree di eccellenza, in crescita, più ricche, con una forte capacità attrattiva, a vocazione soprattutto turistica (Forio, Ischia, Sorrento, Ostuni, Tropea, Cefalù, Castelsardo, Bosa, Orosei e Muravera). - aree della crisi: poche aziende, scarsa offerta di lavoro e reddito modesto. Si concentrano soprattutto in Puglia, Calabria e Sicilia. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 14 - aree marginali:la struttura produttiva è debolissima e il reddito medio pro capite il più basso d’Italia (8.600 euro). Sono le aree più interne e periferiche, scarsamente abitate, della Sicilia, Calabria, Campania, Sardegna. Il Mediterraneo – L’impatto della crisi finanziaria si è avuto soprattutto sulle maggiori economie mondiali, come dimostrano le minori perdite registrate dalle Borse di numerosi Paesi terzi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, i quali stanno anche registrando una contrazione del Pil inferiore rispetto a quella delle nazioni più industrializzate. Oggi la parte principale dell’export meridionale è concentrata in Turchia, Libia, Tunisia ed Egitto, sebbene l’export verso il Mediterraneo si attesti a poco meno di 6 miliardi, pur crescendo considerevolmente, mentre quello del Centro Nord verso la stessa area sfiora i 25 miliardi. Il Sud, approfittando della stabile crescita economica di aree geograficamente prossime, può diventare l’interlocutore privilegiato di numerosi Paesi nord africani e asiatici che si affacciano sul Mediterraneo, sia attraverso il potenziamento della logistica sia attraverso maggiori relazioni economiche. Cosa dice la Svimez – In base ad analisi SVIMEZ, settori come la chimica, i mezzi di trasporto, la gomma-plastica, che vantano i più elevati valori di propensione a esportare, sono anche caratterizzati da una presenza molto rilevante di stabilimenti a partecipazione estera. Per contro, in quasi tutti i settori tradizionali dei beni di consumo per la persona e per la casa, entrambe le variabili tendono ad assumere valori relativamente bassi. Dunque la modesta presenza delle multinazionali nell’intero sistema economico del Mezzogiorno appare fortemente penalizzante. Va comunque segnalato che la crescita dei traffici di “perfezionamento attivo” nel Sud (importazioni temporanee di merci e successive ri-esportazioni), può comunque rappresentare una concreta possibilità di inserire il Mezzogiorno nelle filiere trans- nazionali in cui si è ri-organizzata la produzione su scala mondiale. Visto che ormai circa un terzo delle esportazioni meridionali che escono dall’Unione Europea vanno verso i paesi mediterranei, il Mezzogiorno potrebbe trovare nella “prospettiva mediterranea” non solo una condizione per lo sviluppo della produttività in termini di piattaforma logistica ma anche di vera e propria integrazione economica. Le perduranti difficoltà sperimentate nel corso degli anni duemila dalle piccole e medie imprese del Mezzogiorno spingono a riproporre le ragioni di una “politica industriale regionale” in grado di affrontare i fattori strutturali endogeni alla base di tali difficoltà. Nel Mezzogiorno, gli investimenti in R&S continuano a dipendere molto più che nel Centro-Nord dalle politiche pubbliche, che finora non hanno dato i risultati sperati. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 15 Il problema che bisogna affrontare è come far maturare il tessuto imprenditoriale meridionale. Che ciò possa avvenire senz’altro con il miglioramento delle condizioni del contesto civile è desiderabile, ma non dimostrato. Ancora una volta vale ricordare che il circolo vizioso dello sviluppo va spezzato in più punti, accantonando formule ideologiche che attribuiscono un primato assoluto ora a un fattore ora all’altro. Non si comprende, inoltre, ad esempio, come l’inutilità degli incentivi nel Sud da molti sostenuta a causa della loro bassa efficacia non valga per il Centro-Nord, se è vero che nel 2008 è stata prevista l’estensione dei contratti di programma in tutte le regioni del Paese. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 16 LE POLITICHE DI COESIONE E L’EUROPA Fondi strutturali 2000-2006 – L’ultima relazione annuale sull’esecuzione dei Fondi strutturali nei 25 Stati membri dell’UE, relativa al 2007, certifica che alla fine dell’anno erano stati impegnati quasi 224 miliardi ed erogati poco meno di 190, pari al 100% e all’84,6% delle risorse stanziate. Le migliori performance le hanno avute Irlanda e Austria, che hanno rispettivamente raggiunto un livello di spesa pari al 91,5% e al 91,1%. Mentre la peggiore l’hanno avuta i Paesi Bassi, fermi al 66,2% del contributo. L’Italia ha registrato un livello di spesa attorno all’80,6% del contributo assegnato, più basso della media UE. Gli investimenti sono stati concentrati sulle infrastrutture di base, per oltre il 41%, delle risorse disponibili, di cui più della metà per quelle di trasporto. La regola del disimpegno automatico si stima abbia fatto perdere risorse per circa 140 milioni. Lo stato di attuazione del ciclo 2000-2006 in Italia – Nel periodo di programmazione 2000 – 2006 al nostro Paese sono stati assegnati 28,8 miliardi di contributi comunitari a prezzi 2004, che, con le risorse nazionali di cofinanziamento, si sono raddoppiati, per cui il totale dei fondi disponibili ha raggiunto 63,3 miliardi, di cui 45,9 destinati alle Regioni dell’Obiettivo 1. Il 31 dicembre 2008 avrebbe dovuto essere la data limite per l’erogazione di detti finanziamenti, ma, in seguito alla grave crisi economica internazionale, tale scadenza è stata prorogata al 30 giugno di quest’anno. I dati di monitoraggio della Ragioneria dello Stato mettono in evidenza che a fine 2008 erano state impegnate anche più risorse di quelle disponibili, per un “overbooking” di progetti. Mentre la spesa effettiva nelle aree Obiettivo 1 era attestata in media al 93,6%. A fine febbraio 2009 gli impegni sfioravano il 120%, pari a circa 55 miliardi a fronte di circa 46 programmati. Ma i pagamenti superavano di poco il 94%, attestandosi al 94,1%, che in cifra fissa equivale a 43,2 miliardi. Nello specifico, le erogazioni dei contributi del Fondo europeo di sviluppo regionale sono pari al 94,8%, con una significativa concentrazione nell’Asse Reti e nodi di servizio, dove è stata completata la spesa per la realizzazione dei progetti. Mentre per i Programmi Operativi nazionali (Pon) la media degli impegni e dei pagamenti è pari rispettivamente al 117% e al 98,2%: dei Pon solo quello Trasporti ha completato le erogazioni. Infine i Programmi Operativi Regionali (Por): il livello medio della spesa è fermo al 92,3%, con alcune realtà, come la Campania, dove è inchiodato all’86,8%. L’utilizzo dei progetti sponda o coerenti – Nel ciclo 2000-2006 è stato fatto ampio ricorso ai progetti sponda, quelli originariamente finanziati con fondi di diversa provenienza ma utilizzati successivamente nell’ambito della programmazione Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 17 comunitaria proprio perché coerenti con essa, allo scopo di rispettare i tempi molto rigidi imposti dai regolamenti di Bruxelles. Alla fine del 2008 il loro valore era pari al 44,5% dell’intera dotazione finanziaria del QCS. Ciò pone seri interrogativi sull’effettiva aggiuntività di una parte del ciclo di programmazione appena concluso. I progetti finanziati con i Fondi strutturali 2000-2006 – A fine 2008 erano stati finanziati oltre 269mila progetti per un valore di quasi 59 miliardi, il 73% dei quali completati. Per oltre la metà si tratta di infrastrutture, il 20% delle quali riguarda reti di trasporto. Di questa somma complessiva, un po’ meno del 30%, pari a 17 miliardi, è stata destinata alle imprese. Il nuovo ciclo di programmazione 2007 – 2013 – Le decisioni del Governo intervenute nel 2008 hanno ridimensionato gli impegni finanziari della politica regionale, ma solo per la parte che riguarda le risorse nazionali del Fas e non sulla fetta di risorse stanziate dall’UE. Nel nuovo ciclo, accanto ai Pon e ai Por, compaiono anche i Programmi Operativi Interregionali (POIn), finalizzati a 3 obiettivi: la Competitività, che riguarda le Regioni sotto sviluppate del Centro Nord e tre regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Molise e Sardegna), la Convergenza, che comprende le rimanenti regioni meridionali, compresa la Basilicata in regime transitorio, la Cooperazione, sia trasfrontaliera che transazionale e interregionale. La novità più importante riguarda il raggiungimento, attraverso questi progetti, degli Obiettivi di servizio, per loro natura trasversali: significa offrire migliori servizi collettivi in termini di qualità della vita, convenienza a investire, pari opportunità. Tali Obiettivi sono: maggior livello di istruzione, aumento dei servizi per l’infanzia e di quelli socio sanitari per anziani e non auto sufficienti, migliorare l’approvvigionamento dell’acqua e la gestione dei rifiuti urbani. Su queste basi ciascuna Regione ha fissato target quantitativi da raggiungere entro il 2013, e il Cipe ha stanziato 3 miliardi del Fas come premialità a quelle che li conseguiranno. Le risorse del nuovo QCS – Complessivamente tra risorse comunitarie, nazionali di cofinanziamento e Fas la previsione nel luglio 2007 era di mobilitare circa 125 miliardi entro il 2013. Ma i 64 miliardi inizialmente stanziati ricorrendo al Fas sono stati ridotti (come spieghiamo nel precedente capitolo) per destinarne parte alle politiche anti crisi. Mentre i poco meno di 29 miliardi a valori indicizzati assegnati all’Italia come risorse della politica regionale comunitaria sono rimasti inalterati e di questi 21,6 vanno al Sud: nelle Regioni Convergenza questi contributi saranno destinati per quasi il 60% a investimenti nell’energia e nell’ambiente, per migliorare la competitività, le reti e i collegamenti, la ricerca e innovazione. I Programmi che possono fare affidamento sulla maggiore quantità di risorse sono i Por Campania e Sicilia, che assorbono rispettivamente il 15,9% e il 15,1% del contributo. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 18 PON RICERCA – Il programma, finanziato con fondi Fesr, ha uno stanziamento di 6,2 miliardi, di cui 3,2 assegnati al Ministero della Ricerca e circa 3 a quello dello Sviluppo Economico. Agisce attraverso due Assi: modificare il tessuto produttivo delle Regioni meridionali e potenziare l’innovazione e lo sviluppo delle imprese. I target fissati sono: aumentare la spesa privata in ricerca sul Pil allo 0,39%, la percentuale di progetti all’Ufficio Brevetti al 43,2 per milione di abitante, gli addetti al settore dall’1,6 per mille al 2,66 per mille abitanti. Le modifiche in seguito alla crisi economica – Tra le iniziative intraprese dalla Commissione europea per fronteggiare la crisi oltre allo slittamento al 30 giugno di quest’anno del termine per ammettere le spese del vecchio ciclo di programmazione, sono previste alcune altre che riguardano l’attuale QSN: immediata disponibilità a livello comunitario di circa 19 miliardi dell’Fse nel biennio 2009 – 2010, anche in mancanza di cofinanziamento nazionale, aiuti alle imprese che si ristrutturano, promozione di forme di auto imprenditoria e auto impiego, destinazione di 2,65 miliardi provenienti dal Fondo sociale di spettanza delle Regioni italiane agli ammortizzatori in deroga per i lavoratori esclusi dall’ordinaria Cig. Cosa dice la Svimez – La presa d’atto della scarsa efficacia della programmazione 2000-2006 ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno sta chiaramente ad indicare la necessità di una svolta sia per quanto riguarda le modalità di programmazione e la focalizzazione della spesa, sia per quanto riguarda la realizzazione degli interventi. Rispetto al percorso sin qui seguito parrebbe necessario procedere ad un più forte processo di “riforma interna” della programmazione, che, pur evitando di determinare “rotture” traumatiche che rischierebbero di ritardare la spesa e far perdere le risorse, ponga più stringenti vincoli alla frammentazione, alla dispersione territoriale, e a quell’eccesso di localismi che ha non marginalmente condizionato i risultati delle politiche. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 19 LE POLITICHE DI FINANZA PUBBLICA Gli effetti della crisi finanziaria – Sugli andamenti della finanza pubblica nel 2008 hanno giocato i primi effetti della grave crisi finanziaria. Le entrate delle pubbliche amministrazioni sono cresciute di appena l’1%, per effetto di una flessione del Pil rispetto al 2007 dell’1% e delle misure di riduzione del carico fiscale, dall’abolizione dell’Ici sulla prima casa alla parziale detassazione degli straordinari e dei premi di produttività, decise dal Governo. La spesa corrente è aumentata del 4,5% al netto degli interessi sul debito, con un’incidenza sul Prodotto lordo che ha raggiunto il livello record del 40,4%, mentre quella in conto capitale si è ridotta del 6,1%. Finanza e spesa pubblica – La legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale è destinata a incidere notevolmente sugli assetti finanziari delle amministrazioni pubbliche. Ma pone alcune questioni di non facile soluzione, in particolare per il Mezzogiorno: soprattutto la definizione dei costi standard e l’attuazione degli interventi per il riequilibrio territoriale. Attualmente il Sud ha un livello di spesa pubblica pro capite più basso rispetto al Centro Nord, anche non considerando la spesa previdenziale che è più elevata laddove ci sono maggiore occupazione e retribuzioni più alte: non è esatto, quindi, sostenere che vi sia un eccesso di spesa nel Mezzogiorno. Federalismo fiscale – La definitiva approvazione della legge delega sul federalismo fiscale dovrà ora essere seguita da alcune decisive misure attuative: innanzitutto, entro un mese dal suo varo, deve essere istituita una Commissione paritetica consultiva composta da tecnici dello Stato e degli Enti territoriali. Successivamente, entro due anni, dovranno essere predisposti i decreti delegati, ma già entro 12 mesi dovrà essere emesso un primo decreto per definire i principi fondamentali in materia di bilanci pubblici. La transizione al nuovo regime avverrà in un quinquennio, attraverso la convergenza dalla spesa storica ai costi standard: punti essenziali saranno la quantificazione di tali costi e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. Le prestazioni essenziali – Non tutte le funzioni saranno finanziate integralmente ma solo le prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali, la sanità, l’assistenza, i compiti amministrativi relativi all’istruzione, per garantire le quali si farà ricorso, a un intervento perequativo dello Stato. Per la sanità il parametro c’è già ed è costituito dai Lea (Livelli essenziali di assistenza). I costi standard – Sarà introdotto un meccanismo di calcolo in base al quale si sostituisce la spesa storica con una modalità di finanziamento oggettiva basata sui costi di produzione. Ma è auspicabile che, nel determinarli, si tenga conto, a parità di Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 20 efficienza di Enti diversi, degli effetti che tali costi subiscono per effetto dei differenti contesti ambientali e sociali. Spesa pubblica al Sud – La spesa pubblica pro capite nel Mezzogiorno è stata nel 2007 pari a 10.490 euro, inferiore rispetto ai 12.300 euro pro capite del Centro Nord . Rispetto al 2006 si è registrato nel Mezzogiorno un incremento delle spese correnti, che invece si riducono nel Centro Nord, e una diminuzione di quelle per investimenti, che invece aumentano in misura doppia nelle zone più sviluppate del Paese. Focus su spese in conto capitale – La quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto capitale è stimata nel 2008 al 34,9%, una percentuale ben più bassa del 41,1% del 2001 e lontanissima dall’obiettivo del 45%, che ormai appare come una chimera. Ha inciso su tale riduzione il ridimensionamento dei trasferimenti di capitale per agevolazioni alle imprese, che non è stato sostituito, come nei programmi, da un maggior impegno per la dotazione di infrastrutture. Nell’intero Settore Pubblico Allargato, compresi cioè gli investimenti delle imprese pubbliche nazionali e locali, la percentuale di spesa è ancor più bassa e si collocava nel 2007 al 32,1%. Le risorse per le aree sottoutilizzate nel 2008 – Nella Finanziaria 2008 le risorse di competenza per le aree sottoutilizzate sono pari a 13 miliardi e 646 milioni di euro. Tale ammontare si riferisce per 8,557 milioni di euro agli stanziamenti per il cofinanziamento delle politiche comunitarie, pressocchè raddoppiati rispetto all’anno precedente per far fronte all’ingente quantità di pagamenti da effettuare entro fine anno al fine di non perdere i fondi di Agenda Duemila. Modesto, invece, l’aumento delle risorse del Fondo per le Aree Sottoutilizzate (FAS) che hanno raggiunto l’importo di 4.543 milioni di euro. L’utilizzo delle risorse del FAS – Le risorse di competenza assegnate dalla Finanziaria al FAS (4.543 milioni di euro) hanno subito nel corso dell’anno importanti tagli, per un ammontare di 1.581 milioni di euro. Le risorse complessivamente disponibili, comprensive dei residui passivi all’inizio dell’anno e al netto dell’accantonamento disposto dalla Finanziaria 2007, sono state pari a 6.720 milioni: solo il 26% di questo ammontare, corrispondente in valore assoluto a 1.752 milioni di euro, è stato trasferito, su loro richiesta, alle amministrazioni responsabili degli interventi per essere da queste utilizzati. La finanza regionale – La situazione delle regioni a statuto ordinario mostra che, nonostante le Regioni meridionali ricevano finanziamenti aggiuntivi, le loro entrate pro capite sono inferiori del 6-5% rispetto alle corrispondenti regioni del Centro- Nord. Analogamente più basse, del 2,4%, risultano le spese pro capite. La parte più consistente della spesa regionale è costituita dalla sanità che rappresenta il 70% del totale. Essa presenta nel 2008, sempre in riferimento alle Regioni a statuto ordinario, un Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 21 livello più basso del 3,7% nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord. Su tale livello incide il sistema di finanziamento della sanità, che attribuisce minori risorse, in riferimento alla popolazione effettiva, alle Regioni meridionali con una minore incidenza della popolazione anziana. La finanza locale - Gli Enti territoriali sono massicciamente coinvolti nella crisi economica mondiale, in quanto in particolare il “Patto di stabilità” interno ha effetti pro ciclici e non certo anti ciclici. Nei Comuni meridionali l’aumento delle entrate tributarie è stato più del doppio rispetto al resto d’Italia, perché le aliquote Ici e le addizionali Irpef applicate sono state più alte; questo fino a quando non è stata abolita l’Ici sulla prima casa, che ha provocato una riduzione drastica delle entrate fiscali. La differenza di comportamento tra i Comuni del Centro Nord e del Sud sta nel fatto che i primi hanno reagito ai vincoli posti dal Patto di stabilità nel corso del 2008 riducendo sia le spese correnti che le entrate tributarie, mentre i secondi hanno aumentato entrambe, al fine di recuperare servizi adeguati per i cittadini. Cosa pensa la Svimez - E’ difficile sostenere che il Mezzogiorno goda di un eccesso di risorse o che spenda troppo;occorre piuttosto valutare la capacità ed efficacia di tale spesa. Anzi, le Regioni meridionali hanno un livello di spesa pubblica, sia corrente che in conto capitale, inferiore alle altre nonostante i finanziamenti aggiuntivi ad esse destinati, che in realtà diventano così sostitutivi e servono a coprire le ordinarie esigenze di dotazione di capitale e di sostegno agli investimenti. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 22 LE POLITICHE INFRASTRUTTURALI La spesa per infrastrutture – Nel 2008 la spesa per investimenti pubblici ha registrato una brusca caduta, pari al 2,8%. Tale diminuzione riguarda sia le amministrazioni centrali che quelle locali. Ciò è la conseguenza sia della manovra correttiva precedente all’esplosione della crisi, sia del sostanzioso taglio di risorse del Fas. Gli investimenti nel Sud – Nel periodo compreso tra il 2000 e il 2008 la quota di spesa in conto capitale della Pubblica Amministrazione nelle aree meridionali è progressivamente calata al di sotto del 35%, dieci punti in meno del target prefissato del 45%. Ancor di più è diminuita se si guarda al Settore Pubblico Allargato, dove oggi tale quota è attestata al 32%. In particolare, per quel che riguarda gli investimenti infrastrutturali del Settore Pubblico Allargato sono cresciuti al Centro Nord dell’17,8% e al Sud del 6,9%. I SETTORI Autostrade - La rete stradale nel Mezzogiorno presenta un indice di diffusione in linea con la media nazionale, ma è costituita prevalentemente da strade con caratteristiche non autostradali. Ad esempio fra tutte le regioni del Sud le autostrade a tre corsie sono presenti solo in Campania e in misura minore in Abruzzo, mentre la Sardegna è tuttora priva di autostrade. La mobilità stradale è dunque garantita nel Mezzogiorno soprattutto da strade comunali, provinciali o regionali, generalmente a una corsia. Circa il 40% della rete autostradale meridionale non è sottoposta a pedaggio, una scelta che comporta bassi livelli di servizio ed efficienza. Ferrovie - Al Sud la dotazione è minore e la qualità modesta. Ad esempio solo il 7,8% delle linee ad alta velocità, cioè il tratto campano Roma-Napoli, entrato in funzione nel 2005, risulta localizzato nel Mezzogiorno. A parte la Campania, molte regioni dispongono di reti a binario doppio in misura minima (l’indice rispetto all’Italia è pari a 29 in Sicilia, 23 in Molise, 11 in Basilicata). La situazione più critica in Sardegna, dove mancano completamente linee elettrificate. L’offerta di servizi ferroviari è particolarmente modesta al Sud, dove le percorrenze dei treni (treni-km)sono soltanto il 17% del totale per le merci e il 23% per i passeggeri, un valore non diverso dalla situazione di dieci anni fa. Porti - Nel Mezzogiorno i porti sono numerosi, concentrati soprattutto in Calabria, Sicilia e Sardegna. Resta tuttavia elevato il deficit funzionale (magazzini, silos, binari Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 23 ferroviari). La maggior parte dei porti è di piccola dimensione e orientata al transito passeggeri. I porti hub del Mezzogiorno praticano soprattutto il transhipment, cioè la movimentazione di merci e container, per il cabotaggio interno e mediterraneo. Ciò che limita maggiormente il potenziale sviluppo dei porti è la carenza dei centri intermodali. Nel Mezzogiorno l’indice di dotazione è pari ad appena un ventesimo del totale nazionale. Aeroporti - Il livello degli aeroporti nelle regioni meridionali (per numero di strutture, piste e dimensioni) è accettabile, pur mancando scali in Molise e Basilicata. La criticità più forte è data ancora una volta dalla carenza di collegamenti. Nessun aeroporto del Mezzogiorno, ad eccezione di Palermo, ad esempio è collegato con una stazione ferroviaria. Acqua - A livello nazionale circa 1/3 dell’acqua immessa in acquedotto viene dispersa. Nel Mezzogiorno la situazione si fa ancora più critica, con il 37% dell’acqua sprecata. In testa alla poco invidiabile classifica la Puglia, con oltre il 46% di dispersione, seguita da Sardegna (43%) e Abruzzo (41%). Praticamente in Puglia su 308 metri cubi d’acqua pro capite (dati 2005) immessi nelle tubature solo 165 arrivano a destinazione, in Sardegna su 385 ne arrivano 219, in Abruzzo 415 su 245. Se a livello nazionale solo il 3,2% della popolazione non dispone di acque depurate, la percentuale sale al Sud, arrivando al 7% in Calabria e addirittura all’11,5% in Campania. In Sicilia il 3% della popolazione è priva di fognature, il 3,6% in Puglia, mentre tale servizio è presente in tutte le altre regioni. La presenza di un apparato produttivo meno sviluppato non ha influito positivamente sullo stato delle acque meridionali, che presentano in Sicilia e Puglia livelli di qualità preoccupanti. Né si può chiamare in causa la mancanza di depuratori, dato che negli ultimi anni le regioni hanno fatto grossi passi in avanti nelle dotazioni. Energia - La dotazione di reti di energia elettrica è al Sud molto carente: su un indice nazionale di 100, ad esempio, le reti a media tensione in Puglia sono ferme a 22, ad alta tensione in Sardegna a 36. Sempre in Sardegna manca totalmente una rete secondaria di trasporto del gas. Le interruzioni di energia elettrica sono ancora molto diffuse in Sicilia (il doppio della media nazionale), Campania e Calabria. Interessante notare che la diffusione delle fonti rinnovabili vede il Sud in testa rispetto al Centro-Nord, con punte eccezionali in Molise, Calabria, Basilicata e Puglia. Ambiente – La gestione del ciclo delle risorse naturali al Sud nasconde una realtà molto variegata e curiosa, al di là dei luoghi comuni. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 24 Rifiuti – In dieci anni, dal 1997 al 2008 la produzione di rifiuti urbani è cresciuta nelle regioni meridionali di 1,5 milioni di tonnellate, raggiungendo quota 10,6. A produrre più rifiuti Calabria (+35%, media nazionale +22%), Abruzzo e Puglia (+27%). Nel 2007 ogni cittadino del Sud ha prodotto in media 508 kg di rifiuti (Sicilia 536, Molise 414). La crescita è stata legata al reddito e ai consumi. Differenziata – A fronte di una media nazionale del 27,5% (con il Nord a 42,4%), il Sud resta lontano anni luce, fermo all’11,6%. Ma non tutto: la Sardegna è al 27,8%, con punte superiori al 50% nel Medio Campidano e nell’Ogliastra. Anche l’Abruzzo non è da meno, con Teramo che realizza il 30%. A livello settoriale al Sud si raccoglie il 13% sul totale nazionale di organico (18 kg all’anno su 49 di media), il 15% di carta (41 kg contro 61), il 16% di vetro, il 14% di plastica. Ma il problema vero sono i costi, dovuti a una cattiva gestione del ciclo: la raccolta e il trasporto dell’indifferenziato costa al Sud 80 euro a tonnellata contro i 65 del Centro-Nord. Il trattamento e smaltimento spazia dai 45 euro a tonnellata della Calabria ai 99 della Campania. Situazione ancora peggiore per la differenziata: al Centro-Nord, dove si recuperano maggiori quantità di materiali, il costo medio è di 124 euro a tonnellata, al Sud poco meno del doppio, 220 euro. Inoltre se dal 2003 al 2006 a livello nazionale la quantità di rifiuti speciali smaltita a discarica è passata da 19,7 a 18,2 milioni di tonnellate, il Sud ha registrato una crescita di quasi un punto percentuale, da 4,3 a 5,2 milioni di tonnellate. Impianti – Dei 47 impianti di incenerimento italiani solo 7 sono nel Sud, concentrati in Sardegna e Campania. Al Sud fa da padrone lo smaltimento in discarica, con circa l’85% dei rifiuti. Sismi, frane ed erosioni – I 5.581 comuni italiani a rischio idrogeologico secondo il Ministero dell’Ambiente si concentrano in alcune regioni: Valle d’Aosta, Umbria, Calabria, Toscana e Marche, con valori compresi tra il 100 e il 98% di sismicità. A guidare la poco invidiabile classifica la Calabria, con il 100% dei 409 comuni coinvolti, seguita dalla Basilicata (94%), Molise (89%) e Campania (86%). Il 70% dei comuni siciliani è a rischio per le frane e sono molto colpiti dal fenomeno anche Campania e Calabria. Quanto alle erosioni, la situazione è critica in Basilicata, con il 73% dei km di spiaggia colpiti dal fenomeno, seguita da Puglia (48%) e Calabria (34%). Logistica - Gli scambi commerciali tra Est asiatico ed Europa si sviluppano via mare soprattutto attraverso il canale di Suez ed il Mediterraneo. Dalla metà degli anni ’90 al 2007 la domanda di traffico marittimo di container nel Mediterraneo è cresciuta in media del 9% all’anno. Grazie alla sua posizione geografica il Mezzogiorno ha un Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 25 vantaggio di circa 6-7 giorni di percorrenza rispetto ai principali porti del Nord Europa (Francia, Belgio, Paesi Bassi e Germania) per raggiungere i mercati mitteleuropei. Nei porti del Nord Europa nel 2008 la crisi si è fatta sentire di meno che nell’Europa del Sud (+2,1%, contro appena lo 0,4%). Nel 2008 nel Mezzogiorno i volumi di traffico container sono scesi di quasi il 4% a fronte della crescita del 3% del Centro-Nord. A trainare il segno meno Cagliari (- 53,2%) e Salerno (-14%). I porti meridionali perdono inoltre competitività per la mancanza di una adeguata integrazione tra traffico portuale e terrestre. Ad esempio infatti soltanto il 2% dei container al Sud viene instradato via ferrovia, rispetto al 18% del Centro-Nord (il 14% a Livorno, il 18% a Ravenna, il 23% a La Spezia e appena l’1,4% a Gioia Tauro). Nonostante la diversa dotazione portuale Nord-Sud, il 48% del totale di container è movimentato nel Centro-Nord e il 52% nel Sud, con un trend che vede il Sud dal 2002 perdere quote di traffico. Un’eccezione - L’interporto di Nola, considerato come un polo dell’intermodalità e della logistica fra i più importanti d’Italia e d’Europa. Nato nel 1986, in posizione centrale tra Tirreno e Adriatico, oggi è dotato di una pluralità di servizi e infrastrutture. Al suo interno il CIS rappresenta il più importante polo di distribuzione commerciale d’Europa, con oltre 300 aziende e 3.500 addetti. Il terminal intermodale è il cuore dell’Interporto, con una stazione ferroviaria interna altamente automatizzata dotata di 13 coppie di binari elettrificati. In questo modo l’Interporto è collegato con la rete ferroviaria nazionale, i porti del Sud e Nord Italia, e il Centro-Nord Europa Internet e la banda larga - La diffusione della banda larga in Italia è cresciuta molto dal 2002 al 2007: la popolazione servita era il 63% nel 2002, cinque anni dopo è salita al 94%. In base agli ultimi dati disponibili (2005) in Italia sono presenti 7,7 milioni di km di cavi ottici, di cui 2,1 nel Mezzogiorno. Nel 2009 possiedono un personal computer poco più del 53% delle famiglie del Centro-Nord e il 45% delle famiglie meridionali, con un trend crescente rispetto al 2007, più marcato nelle regioni del Nord; l'accesso ad internet è presente nel 35,2% nelle famiglie meridionali e in quasi il 45,2% nelle famiglie centro-settentrionali. Le regioni meridionali dove si è registrato il maggior incremento di accessi alla banda larga sono Basilicata, Puglia e Calabria. Legge Obiettivo e Infrastrutture – Quanto alla Legge Obiettivo, il più importante programma infrastrutturale del Paese negli ultimi anni, si segnala che a fine 2008 un parte decisamente minoritaria delle opere approvate dal CIPE risulta localizzata nel Mezzogiorno: il 28,6% per un ammontare di circa 33 miliardi di euro. Tra le varie tipologie infrastrutturali, la quota del Mezzogiorno per opere ferroviarie è appena del 7,5% , quelle stradale del 37,5% e quella per porti e interporti del 28,6%: una Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 26 distribuzione degli interventi che non prefigura alcun riequilibrio modale nel sistema dei trasporti. . Accordi di Programma Quadro – Nel periodo 2000 – 2008 gli Accordi di Programma Quadro delle Intese Istituzionali di Programma hanno riguardato 20.660 progetti, per un costo di 85 miliardi. Di questi oltre il 60% dei progetti e quasi il 76% dei costi sono relativi a infrastrutture e ben più della metà di entrambi ha per oggetto interventi nel Sud. QCS 2000 – 2006 – L’altro rilevante capitolo di spesa indirizzato alle infrastrutture è quello dei Fondi strutturali comunitari, in particolare sull’ Asse “Reti e nodi di servizio”, per il quale il livello di impegno ha superato il 127% delle risorse disponibili e anche la spesa ha oltrepassato il 100%, attestandosi al 108,1%. Con un evidente avanzamento del Pon Trasporti, che da solo raggiunge il 122% degli impegni e il 112,1% delle erogazioni. A fine 2008 erano stati conclusi più di 20mila progetti infrastrutturali, di cui oltre 16mila nel Mezzogiorno. QCS 2007 – 2013 – Il Programma infrastrutturale 2009 – 2012 si basa su tre grandi capitoli di spesa: la Legge Obiettivo, le reti transeuropee e il Pon reti e mobilità. Complessivamente sono stati programmati 133 miliardi, di cui 70,5 già finanziati. I progetti TEN prioritari sono: TEN 1, l’asse ferroviario Berlino – Verona – Bologna – Napoli- Messina – Palermo; il TEN 6, l’asse ferroviario Lione – Torino – Trieste, Lubiana – Budapest – Ucraina; il TEN 21, le Autostrade del Mare, il TEN 24, l’asse ferroviario Genova – Basilea – Duisburg – Rotterdam. Per la realizzazione di numerosi interventi infrastrutturali si farà ricorso al “project financing”. La proposta del ministro Tremonti di bond europei per il finanziamento delle infrastrutture potrebbe essere utile, così come l’introduzione di un trattamento contabile più favorevole per le spese in infrastrutture. Al Pon reti e mobilità è stato assegnato 1 miliardo e 375 milioni. Manovre anticicliche negli altri Paesi – In Belgio c’è stata una contenuta accelerazione degli investimenti infrastrutturali; in Germania sono stati accelerati quelli nelle reti di trasporto. In Spagna si è deciso di puntare sulle opere locali. In Francia è stata accelerata la spesa e sono stati attivati nuovi crediti. In Austria sono previsti modesti investimenti aggiuntivi. In Svezia l’investimento infrastrutturale con finalità anti cicliche è molto modesto. In Gran Bretagna sono stati accelerati gli interventi già programmati. Negli Usa sono state stanziati 70 miliardi di euro aggiuntivi per le infrastrutture. In Cina saranno investiti poco più di 200 miliardi per realizzare strade, ferrovie ed aeroporti. In Italia un importante contributo a una manovra anti ciclica sulle infrastrutture lo potrebbe fornire la realizzazione di opere pubbliche piccole e medie, a condizione che si decida di puntare su quelle immediatamente cantierabili. Nel decreto anti crisi è esplicitamente prevista la nomina di commissari straordinari, scelti dal Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 27 Presidente del Consiglio, ai quali attribuire poteri di vigilanza e anche poteri sostitutivi. Nello stesso provvedimento sono stati drasticamente ridotti i termini per eventuali ricorsi giurisdizionali. Per gli interventi di particolare complessità si potrebbe ricorrere a un Commissario Delegato per lo stato di emergenza socio- economico- ambientale, com’è avvenuto, con buoni risultati, per il Passante di Mestre. Cosa pensa la SVIMEZ - Bisogna puntare su ben individuate priorità: sarebbe opportuno riorientare la spesa per le infrastrutture su poche e significative priorità, sugli interventi immediatamente realizzabili e di indubbia efficacia, su progetti che possano avere una sicura valenza meridionalistica. Le criticità del nostro sistema logistico-infrastrutturale sono date dalla congestione nel Centro-Nord e dall’isolamento geo-economico nel Mezzogiorno. Occorre sfruttare il vantaggio geografico del Mezzogiorno nelle rotte tra Far East ed Europa con una strategia integrata che investa tutte le articolazioni del Paese (valichi alpini, reti ferroviarie, stradali, collegamenti ai porti e alle strutture di movimentazione e lavorazione delle merci). La concorrenza mediterranea dovrebbe indurre a sviluppare nel Sud nuove opportunità di sviluppo, come dimostra il caso eccellente dell’interporto di Nola. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 28 LE POLITICHE CREDITIZIE Credito e Mezzogiorno - Dai primi anni ‘90, la crescente integrazione economica internazionale ha spinto le banche italiane a muoversi in un contesto più competitivo. Lo prova la crescita delle fusioni, 552 dal 1990 al 2001. Nonostante questo, la dimensione del mercato bancario italiano è ancora sotto la media europea e tale criticità si fa sentire soprattutto al Sud. Banche - Tra il 1990 e il 2001 il numero di banche presenti nell’area si è ridotto del 46% contro il 20% del Centro-Nord. Il numero di banche meridionali indipendenti, sia Spa che Banche popolari, è crollato da 100 del 1990 a 16 del 2004; negli stessi anni le banche di credito cooperativo (BCC) si sono più che dimezzate (da 213 a 111). Mentre resta forte la dipendenza del sistema bancario meridionale dal Centro-Nord: nel periodo in questione le banche appartenenti a gruppi dell’altra ripartizione sono salite da 0 a 21, con una forte diffusione in Basilicata, Calabria e Sardegna. Nel 2008 il numero di banche operative nel Mezzogiorno è diminuito di 5 unità, portandosi a 223. Tra le 151 banche con sede amministrativa in una delle regioni meridionali 17 facevano parte di gruppi del Centro-Nord (Tab. 3). Sportelli - L’Italia è il paese con il più alto numero di sportelli per abitante in Europa dopo la Spagna, ma la loro diffusione è disomogenea e legata al diverso peso economico regionale (presenza di imprese, densità di popolazione, PIL): per esempio, dal 2001 al 2006 il numero di comuni con sportelli bancari è cresciuto in Lombardia del 21% mentre è calato del 15% in Sardegna, del 9% in Calabria e Sicilia e del 5 in Basilicata. Da segnalare che mentre sono state le banche nazionali più grandi a ridurre sportelli e personale (-20% in Italia), sono quelle minori e di credito cooperativo a essere più dinamiche. Nel periodo in questione infatti nel Mezzogiorno le banche di medie dimensioni hanno dimezzato gli sportelli (da 21% a 11%), mentre sono state soprattutto le banche di piccole dimensioni a crescere. Il numero degli sportelli di strutture di questa tipologia è passato nel Sud dall’11,8% al 12,7% e nelle isole dal 4,4% al 7,6%. In crescita anche il numero di sportelli delle banche di credito cooperativo, passate nelle due ripartizioni rispettivamente da 8,4% a 9,2% e da 5,8% a 6,5%. Gli sportelli bancari nel Sud sono saliti di 136 unità (1,9%); dal 2000 al 2008 il numero di terminali POS presso gli esercizi commerciali per ogni 1.000 abitanti è passato da 5 a 15, restando su livelli più contenuti della media del Centro-Nord (25,1). Sulla stessa linea la diffusione delle carte di credito, passate dal 2000 al 2008 da 176 a 430 ogni 1.000 abitanti, lontani sempre dai livelli del Centro-Nord (796). Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 29 Accesso al credito - Resta poi il grande problema dell’accesso al credito: al Sud dal 2004 al 2006 il 9,3% delle imprese ha lamentato difficoltà, contro il 3,8% del Nord. Dal 2007 al 2008 inoltre il tasso di crescita annua dei prestiti alle imprese è crollato al Sud dal 14,9% al 7,9% contro il calo più contenuto a livello nazionale (da 12,4% a 10,2%). A farne le spese le aziende con un numero di addetti inferiore a 20: dal 2007 al 2008 i prestiti a breve termine a piccole imprese meridionali sono crollati da 6,9 a 2,4%, mentre nello stesso periodo le aziende del Centro-Nord hanno registrato una dinamica più positiva (da 2,6 a 3,1%). Famiglie - Nel 2008 i prestiti bancari alle famiglie del Mezzogiorno sono cresciuti quasi del 7%, in rallentamento rispetto all’anno precedente. Il calo è stato più forte nel comparto dei mutui. Crescita ancora più ridotta per i prestiti alle imprese (+5,4%, erano il doppio nel 2007), che sono stati più contenuti specialmente per le aziende di piccole dimensioni. Il clima di incertezza generale ha spinto a una crescita del risparmio, più forte al Centro-Nord (12,6%) che nel Mezzogiorno, dove i depositi delle famiglie sono aumentati del 7,7%. Le famiglie hanno privilegiato forme di investimento tradizionali e a basso profilo di rischio (titoli di Stato e obbligazioni societarie) Cosa dice la SVIMEZ - La “rete creditizia” meridionale risulta quantitativamente ma si rivela relativamente più fragile ed inadeguata funzionalmente ad accompagnare lo sviluppo delle imprese. Occorrerebbe individuare forme di controllo e di promozione tali da rendere la rete bancaria molto più incisiva e vantaggiosa per i sistemi produttivi locali. Qui entra in campo necessariamente il regolatore pubblico. Per governare i rischi della banca rete viene in mente quanto da anni la Vigilanza statunitense si ripromette di conseguire a salvaguardia delle comunità locali attraverso la regolazione contenuta nel cosiddetto Community Reinvestment Act. Potrebbe essere auspicabile la promozione da parte delle Regioni meridionali di un “osservatorio attivo” capace di dettare (e non di imporre) linee guida di comportamento nei confronti del sistema bancario. L’azione dovrebbe essere anche quella di promuovere un significativo irrobustimento di una “rete” di banche locali, premessa essenziale per avviare un nuovo e più fisiologico rapporto con la clientela. La riforma dei Confidi può costituire uno strumento a disposizione delle imprese associate nel rapporto con le banche, per l’accesso al credito a condizioni mediamente più favorevoli di quelle altrimenti ottenibili da un’impresa non associata. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 30 LE POLITICHE DELLA P.A. Qualità dei servizi pubblici al Sud – La qualità dei servizi pubblici essenziali, come giustizia, sanità, istruzione, trasporti, lavori pubblici, servizi locali, è al Sud molto bassa e inferiore al resto del Paese. Ciò ha rilevanti ricadute sulle condizioni di vita dei cittadini e sul funzionamento dell’economia, limitando fortemente sia gli investimenti stranieri che quelli delle grandi società pubbliche. In alcune zone ciò è aggravato dall’influenza della criminalità organizzata. Per di più le liberalizzazioni, le privatizzazioni, la riforma dei servizi pubblici locali e i processi di decentramento hanno finito per ampliare il divario tra Settentrione e Mezzogiorno. Una forbice, quella tra le due Italie, che non è solo connessa a vincoli di bilancio, ma a vere e proprie inefficienze di organizzazione e gestione dei flussi finanziari. I ritardi della P.A. – La riforma della Pubblica Amministrazione ha avuto come obiettivo la rottura di una prassi burocratica vincolata più alla legalità formale che alla cultura del risultato, e perciò stesso tesa a privilegiare gli interessi dei cittadini beneficiari. Ma non è riuscita a recidere i nodi gordiani che rendono la nostra P.A. più costosa e meno efficiente, appesantendo così la competitività del Sistema Paese. In particolare è rimasta irrisolta la questione dei rapporti tra poteri politici e amministrativi, i cui confini sono ancora troppo labili e indefiniti, mantenendo in vita, in particolare nelle aree meridionali, un rapporto di sudditanza del dirigente pubblico, il quale è penalizzato nella sua autonomia e, per di più, mortificato dalla mancata incentivazione di ogni forma di meritocrazia. Mentre nelle esperienze straniere è la dirigenza pubblica ad assumere un ruolo centrale nella formulazione dei programmi. La gestione dei rifiuti – Forti divari territoriali permangono nella gestione dei rifiuti solidi urbani tra le diverse aree del Paese. In base ai dati 2007, degli oltre 623 kg per abitante raccolti, il 56,5% va in discarica, il 21,3% è destinato a impianti di recupero, il 16,4% è incenerito, il 5,9% è avviato a impianti di compostaggio. Ma, mentre al Nord l’incenerimento rappresenta il 31,7% del totale, il recupero il 30,8% e il compostaggio l’8,4%, al Sud si ricorre quasi esclusivamente alle discariche, dove finisce l’83,3% dei rifiuti raccolti. Ciò vuol dire che la raccolta differenziata, che avrebbe dovuto raggiungere il target del 40%, si attesta in Italia su un ben più contenuto 27,5%, che al Sud cala addirittura all’11,6%. Servizi alle imprese – I fattori di localizzazione capaci di attrarre nuove imprese non sono costituiti solo dalle aree attrezzate, dai distretti industriali e dai sistemi locali di sviluppo, in quanto è necessario che soprattutto i Governi locali siano capaci di mettere Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 31 in campo una serie di interventi in campo amministrativo, nella realizzazione delle infrastrutture, nell’erogazione dei servizi reali, nell’attuazione di politiche del lavoro. Passi avanti significativi sono stati lo Sportello Unico delle Attività Produttive, i Centri per l’Impiego, l’adozione di strumenti di marketing territoriale e di aiuti all’internazionalizzazione attraverso Sprint. Ma l’indice del buon governo, misurato su questi parametri, è diverso dal Centro Nord al Sud, dove è più basso del 30%. Capitalismo municipale al Nord e al Sud - Il ritardo delle Regioni meridionali non riguarda solo la quantità e qualità dei servizi pubblici offerti, ma anche le imprese municipali, che sono ulteriormente aumentate in tutt’Italia, anche se quelle al Sud hanno un numero di dipendenti mediamente superiore, un fatturato più contenuto e un valore aggiunto per addetto più basso. Non solo, ma, analizzando i bilanci, si vede che mentre quelle del Centro Nord fanno utili in media di oltre mezzo milione quelle meridionali accusano perdite pari a più di 260mila euro: ciò deriva dall’inefficienza di tali aziende e dalla eccessiva commistione tra politica a gestione. Tempi opere pubbliche - L’armatura infrastrutturale dell’Italia è decisamente inferiore rispetto agli altri partners europei. Il divario, invece di diminuire nel corso degli anni, si è allargato, ed è ancora maggiore se si considerano le Regioni meridionali. Sui ritardi nella realizzazione delle opere pubbliche incide una molteplicità di fattori, che, in particolare al Sud, va dalla revoca di lavori non avviati a opere completate nel doppio del tempo previsto, a lavori consegnati ma non collaudati, alla modesta capacità di progettazione delle pubbliche amministrazioni, ai ritardi nei pagamenti da parte dei committenti, all’elevata diffusione del contenzioso. Per progettare e affidare i lavori di un’infrastruttura sono necessari in Italia 900 giorni, risultanti dalla media di diversi valori regionali: dai 583 in Lombardia e 693 in Emilia ai 1.100 giorni della Campania e 1.582 della Sicilia. Nuove tecnologie e servizi all’utenza – Negli Enti locali si sono andate via via diffondendo importanti innovazione tecnologiche. Ma, nonostante questi progressi, al Sud i tempi di attesa a una Asl sono ancora molto elevati, con circa il 53% degli utenti (40% al Nord) costretto a una fila di oltre 20 minuti, così come i servizi offerti dagli uffici postali sono ulteriormente peggiorati, per cui 45 persone su 100 restano in fila più di 20 minuti. Disparità territoriali più modeste tra Nord e Sud riguardano l’erogazione di elettricità e gas, solo per l’acqua i problemi di distribuzione nelle aree meridionali sono ancora oggi non completamente risolti. Servizi socio assistenziali – Permane una diffusa critica dei cittadini per la qualità di alcuni servizi socio assistenziali, in particolare i ricoveri ospedalieri: nel Mezzogiorno neppure il 19% dei malati è soddisfatto, a fronte del 45% del Centro-Nord, e lo si vede dal dato relativo al tasso di emigrazione dai nosocomi del Sud verso quelli del Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 32 Nord, pari al 10,7%. Per di più le cure domiciliari riguardano il 3,9% degli assistiti nel Settentrione e appena l’1,8% nelle aree meridionali. Lo stesso vale per i bimbi accolti in asili nido, che in Italia sono poco più dell’11% del totale, nel Centro-Nord il 15% e calano fortemente al Sud ad appena il 4,5%. Cosa dice la Svimez - La necessità di rilanciare gli interventi di politica nazionale e regionale di sviluppo riporta inevitabilmente al nodo critico irrisolto e mai affrontato in modo sistemico della riforma della Pubblica Amministrazione. Come accaduto nelle esperienze straniere di maggior successo, essa permetterebbe di rimettere in circolo riserve di produttività compresse da dispositivi normativi e dal conformismo dei comportamenti burocratici. Sino ad ora nel nostro Paese i tentativi di intervento hanno mostrato una sostanziale inefficacia. Al tempo stesso, si trascina irrisolta al Sud ancor più che al Nord la questione dei rapporti tra poteri politici e poteri amministrativi; da qui la continuità di un rapporto di sudditanza del dirigente pubblico al potere politico Le informazioni raccolte da una serie di indagini condotte da Istat, Banca d’Italia, DPS ed Autorità di settore, danno conto che i risultati di una inefficace azione della Pubblica Amministrazione si riflettono con particolare gravità nel Mezzogiorno. Una pluralità di inefficienze che riducono la qualità della vita nel Sud e sono il riflesso di uno Stato che nel Sud è debole proprio nell’erogazione dei servizi che dovrebbe essere fondamentali Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 33 POLITICHE PER IL SUD I tagli al Fas – Il finanziamento delle misure anti crisi economica in Italia è stato garantito spostando su quest’obiettivo risorse già presenti nel bilancio alle quali era stata data inizialmente una diversa finalità. In particolare ricorrendo a quelle destinate alle aree meridionali attraverso il Fondo Aree Sotto Utilizzate, che sono state spostate su obiettivi oggi considerati prioritari per rilanciare l’economia, dalle grandi opere pubbliche, perché i cantieri hanno una funzione anticiclica, agli interventi per attutire l’impatto della perdita di posti di lavoro. La modifica dei meccanismi di stanziamento e di spesa dei fondi finalizzati alle politiche di riequilibrio e di coesione è avvenuta in tre modi; sia recuperando risorse relative al periodo 2000 – 2006 assegnate dal Cipe ma non ancora impegnate, che sono stati revocate ai beneficiari e riassegnati al FAS; sia creando un nuovo Fondo per il finanziamento delle infrastrutture di livello nazionale la cui dotazione è costituita da risorse provenienti dal FAS; sia, infine, attraverso una ricognizione prima e una riprogrammazione poi, effettuata dal Cipe, di quelle risorse non ancora impegnate reperite dai vecchi progetti sponda o coerenti, quelli cioè in un primo momento finanziati con fondi nazionali e successivamente inseriti nei programmi comunitari. Come cambia il QSN – Queste modifiche negli stanziamenti delle risorse del Fas effettuate nel corso del 2008 e nei primi mesi del 2009, hanno comportato una ridefinizione del Quadro Strategico Nazionale 2007 – 2013 approvato dalla Commissione Europea a metà luglio 2007. All’inizio dello scorso anno il FAS poteva contare su 64 miliardi e 379 milioni, stanziati con la Finanziaria 2007 e poi rimodulati con quella del 2008, di cui l’85% destinato alle aree meridionali e il restante 15% alle zone sotto utilizzate del Centro Nord. Come anche in passato, la previsione era di un basso impiego delle risorse nel biennio 2007 – 2008, con una successiva accelerazione della spesa a partire dal 2010. Le nuove destinazioni dei fondi Fas - Una cospicua parte dei fondi Fas, nel corso del 2008 e dei primi mesi del 2009, è stata destinata, con leggi e con delibere Cipe, alla copertura finanziaria di altre esigenze della finanza pubblica ritenute prioritarie. E’ il caso dei provvedimenti per arginare la crisi finanziaria internazionale presi dal Governo nel secondo semestre dell’anno scorso, in sintonia con le decisioni degli altri partners europei. Misure che avevano lo scopo di stabilizzare il sistema del credito, sostenere l’economia reale messa a dura prova, rilanciare gli investimenti e contrastare la crescente disoccupazione. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 34 Una quota consistente di risorse del FAS è stata concentrata in altri Fondi: il Fondo sociale per l’occupazione e la formazione, che agisce anche come forma di sostegno al reddito, il Fondo Infrastrutture, il Fondo per la Competitività poi confluito nel Fondo Strategico a sostegno dell’economia reale presso la Presidenza del Consiglio. Cosa comportano i tagli al Fas - I tagli effettuati alla risorse inizialmente destinate al Fas hanno sottratto risorse al Sud destinandole ad altri scopi e hanno comportato una dequalificazione della spesa pubblica, in quanto in numerosi casi stanziamenti che erano in precedenza finalizzati a investimenti sono stati trasferiti a un Fondo che serve, invece, a coprire spese correnti. Per di più ogni euro di spesa corrente fatto con le risorse del FAS provoca, contabilmente, un taglio sul Fondo pari ad almeno il triplo, a causa dell’accelerazione dell’utilizzo dei soldi che, destinati alla spesa corrente, hanno effetti immediati. Il volume delle risorse FAS mobilitato prima per il finanziamento di interventi di carattere emergenziale (emergenza rifiuti, risanamento bilanci Comuni Roma e Catania, ecc..) e, successivamente, per misure anticrisi è ingente: partendo dalle risorse appostate dal Bilancio pluriennale 2008-2010 sul Fondo Aree Sottoutilizzate e di quelle previste per finanziare impegni con un profilo pluriennale di spesa anche per gli anni 2011-2012, a maggio 2009 risultavano utilizzi del FAS per oltre 18 miliardi di euro a valere sulle risorse stanziate per il periodo 2008-2012. Le risorse rimaste al Sud - In seguito ai tagli di risorse del FAS, a marzo 2009 la dotazione del Fondo Aree Sotto Utilizzata per il periodo 2007 – 2013 era diminuita a circa 53 miliardi e mezzo. Il Cipe, il 6 marzo di quest’anno, dopo aver preso atto di una destinazione al Fondo infrastrutture di circa 7 miliardi ha ripartito la somma di 45 miliardi, destinando 27 miliardi circa alle Amministrazioni regionali e ripartendo la quota restante paria a circa 18 miliardi tra i tre fondi: il Fondo sociale per l’occupazione e la formazione, il Fondo Infrastrutture, il Fondo Strategico a sostegno dell’economia reale. Tali fondi, pur formalmente vincolati per legge (il DL 185 prevede che nell’attribuzione delle risorse FAS ai tre fondi debba essere rispettato il vincolo di destinazione dell’85% in favore delle regioni del Mezzogiorno e del 15% in favore delle aree sottoutilizzate delle regioni del Centro-Nord), di fatto sono stati successivamente utilizzati per finalità specifiche non condizionate a particolari destinazioni territoriali. Esemplare è il caso del Fondo sociale per l’occupazione e la formazione, nel quale confluiscono, in modo non distinto, oltre alle risorse FAS destinate alle aree sottoutilizzate, anche le risorse del Fondo per l’occupazione nonché tutti gli stanziamenti per il finanziamento degli ammortizzatori sociali, concessi in deroga alla normativa vigente, e quelli destinati in via ordinaria dal CIPE alla formazione Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 35 Cosa dice la Svimez – Con i decreti anticrisi, una percentuale significativa delle risorse FAS è stata stanziata su altri fondi. L’area meridionale si trova pertanto a competere, in termini di capacità di assorbimento, con le aree a più alto tasso di sviluppo del Paese che riescono ad attivare una più efficiente programmazione di spesa e più elevati livelli di progettualità. Emerge con evidenza, una configurazione di “non neutralità” delle crisi che rischia di dare luogo ad una tendenza alla redistribuzione delle risorse a favore delle aree più forti che potrebbe perdurare anche oltre la fase congiunturale. Da questo punto di vista sono assolutamente attuali le parole di Pasquale Saraceno nel lontano 1975: “Quando, come quest’anno non vi è alcun surplus dell’economia da distribuire tra varie alternative di utilizzazione, ma anzi è l’impoverimento generale che occorre distribuire, la forza organizzativa di pressione e di lotta in difesa degli interessi immediatamente minacciati, tende naturalmente a prevalere … Le regioni settentrionali sembrano di fatto reclamare a sé la parte più rilevante delle risorse da destinare alla ristrutturazione, e quindi anche al futuro sviluppo, dell’industria italiana … Non sarebbe certo sorprendente per chi non ignori la storia italiana degli ultimi venti anni, che il grande obiettivo dell’unificazione economica del Paese sia di fatto travolto da una successione di decisioni condizionate dall’evolversi della congiuntura”. Oggi come allora conserva la sua validità l’indicazione della necessità di una politica di sviluppo nazionale unitaria in grado di conciliare la necessità di risanamento e riconversione dei sistemi produttivi a più alto tasso di sviluppo con il mantenimento di una azione costante per la riduzione del divario di sviluppo tra Sud e Nord. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 36 POPOLAZIONE, SCUOLA E MERCATO DEL LAVORO, MIGRAZIONI Sessanta milioni di italiani – Alla fine del 2008 la popolazione italiana residente ha raggiunto la soglia dei 60 milioni di abitanti, concentrati per quasi il 66% al Centro- Nord. Il Mezzogiorno a fine 2008 ha superato i 20,8 milioni. Avanti i vecchi e gli stranieri non basteranno - Nel 2030 il Mezzogiorno avrà una popolazione ridotta e invecchiata. Al Sud il flusso di immigrati non basterà a compensare il calo degli attivi meridionali: qui tra il 2008 e il 2030 infatti la forza lavoro perderà circa 2,2 milioni di persone, a fronte di 150 mila nuovi stranieri. Oggi i giovani sotto i 20 anni sono il 21,5% della popolazione e gli over 65 il 18%. Tra trent’anni i giovani sotto 20anni scenderanno al 17%, e avrà meno di 40 al Sud il 36% della popolazione (oggi è quasi il 50%); gli ultrasessantacinquenni cresceranno del 65% e la quota degli ultraottantenni raddoppierà dall’attuale 5% al 10%. Conseguenze: un deficit di forza lavoro locale e una necessaria modifica degli stili di consumo e della gestione del welfare. Natalità e mortalità - Nel 2008 il Centro-Nord ha registrato un tasso di natalità leggermente superiore a quello del Sud: 9,7‰ contro 9,6‰. Per quanto riguarda la mortalità, la media meridionale è dell’8,9‰, mentre al Centro-Nord il 10,1‰. Nel 2008 soltanto tre regioni meridionali su otto (Campania, Puglia e Sicilia) hanno evidenziato un incremento naturale positivo. Figli e matrimoni – Resiste al Sud la tendenza a contrarre matrimonio a un’età media relativamente più giovane rispetto al Centro-Nord. L’età media degli sposi meridionali nel 2007 è stata di 31,9 anni per gli uomini e di 28,8 anni per le donne (rispettivamente 33,5 nel Centro e 30,4 nel Nord), in aumento rispetto a dieci anni prima, quando sia gli uomini che le donne si sposavano mediamente prima dei trent’anni. Di conseguenza, anche il numero di figli è sceso, arrivando nel 2007 a poco più di 1 figlio a testa (1,3), a un’età media pari a 30,7 anni. La quota più consistente di nascite va attribuita a donne tra i 30 e i 50 anni, che sempre più raramente partoriscono un secondo e un terzo figlio. Il peso degli stranieri - La popolazione italiana continua a crescere grazie agli stranieri presenti nel nostro Paese. Nel 2002 erano 1,2 milioni; all’inizio del 2008 sono diventati 3,4 milioni. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 37 Quasi il 90% dei residenti, pari a circa 3 milioni, si concentra nelle regioni del Centro- Nord, mentre al Sud sono poco meno di 430 mila unità e mediamente più vecchi di un paio d’anni (33 contro 31). Secondo stime Istat gli stranieri in Italia nel 2030 saranno 8 milioni e cresceranno nel Centro-Nord del 145%, al Sud del 75%. Mercato del lavoro – Nel 2008 il divario dell’Italia con l’Unione europea sul fronte occupazione si è ulteriormente ampliato, con una distanza di 11 punti per il tasso di occupazione complessivo e poco al di sotto dei 13 punti per quello femminile. A pesare maggiormente il Mezzogiorno, dove il tasso di occupazione è sceso al 46,1%. Gli occupati infatti crescono al Centro-Nord di 217 mila unità, mentre scendono di 34 mila nel Mezzogiorno. Gli stranieri nuovi occupati nel 2008 sono stati 249 mila, 223 mila al Centro-Nord e 26 mila nel Mezzogiorno. Mercato del lavoro regionale - Risultati positivi per il terzo anno consecutivo per Molise (1,6%), Puglia (0,3%) e Abruzzo (3,2%). Crollano gli occupati soprattutto in Campania (-2,2%) e Calabria (-1,2%), mentre flessioni più contenute si rilevano nelle Isole (-0,6% e –0,3% in Sicilia e Sardegna). In Campania tiene solo l’agricoltura (+4,3%), mentre cala l’occupazione nell’industria (-2,8%) e nei servizi (-1,4%). Occupati e settori – La domanda di lavoro in agricoltura continua a scendere, soprattutto al Sud (-2,8% contro il -1,5% del Centro-Nord). In calo anche l’industria, che segna -2,4% al Sud (dopo il +2,9% del 2007) e -1,1% nell’altra ripartizione. La dinamica dell’occupazione industriale è sensibilmente negativa in tutte le regioni del Sud, con l’eccezione del Molise, dove cresce del 4% per il forte boom del settore delle costruzioni (+16,4%) e della Sicilia, dove flette soltanto dello 0,7% perché l’incremento delle costruzioni (2,7%) compensa in larga parte la flessione dell’industria in senso stretto (-4,2%). Positivo solo il terziario, che registra comunque un rallentamento rispetto agli scorsi anni: +0,2% al Sud (era crescita zero nel 2007) e +0,7% (+1,5% nel 2007). Occupati e contratti – A livello contrattuale in Italia gli atipici crescono di 200mila unità, di cui 26mila al Sud. Tra gli atipici aumentano i part-time e al Sud i part-time in crescita sono soprattutto “maschili”. Nel 2008 la quota nazionale di neoassunti con contratto a termine è del 47%, ma nel Sud è in discesa (da 43% a 41%). Da segnalare che nel Sud il contratto atipico viene spesso usato non come tipologia più flessibile nell’accesso al primo lavoro, ma in sostituzione di contratti standard, trasformandosi così da strumento di flessibilità in trappola di precarietà. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 38 Disoccupati – Nel 2008 il tasso di disoccupazione nazionale è salito al 6,7% rispetto al 6,1% del 2007. I disoccupati sono aumentati più al Centro-Nord (+15,3%) che al Sud (+9,8%). Nella classe di età 15-24 anni la disoccupazione è arrivata al 14,5% al Centro- Nord e al 33,6% al Sud. Qui crescono anche i disoccupati di lunga durata (sono il 6,4% del totale, erano il 5,9% nel 2007). All’Italia spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione giovanile più alto in Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Nel 2008 solo il 17% dei giovani meridionali in età 15-24anni lavora, contro il 30% del Centro-Nord. Viceversa, il tasso di disoccupazione nella classe 25-34 anni è al Sud del 16,6% contro il 5,5% dell’altra ripartizione. Al Sud, cresce la zona grigia della disoccupazione, che raggruppa scoraggiati e lavoratori potenziali: 95mila persone in più nel solo Mezzogiorno l’anno scorso. Dal 2004 al 2008 infatti i disoccupati impliciti e gli scoraggiati sono aumentati di 424mila unità. Considerando anche questa componente, il tasso di disoccupazione effettivo del Sud salirebbe a oltre il 22%. Sommerso – Cala il lavoro nero nel 2008, con 22mila unità irregolari in meno, per effetto anche della campagna di regolarizzazione dei lavoratori stranieri, soprattutto nel settore edile. Qui ad esempio nel Sud il tasso di irregolarità è sceso dal 29,7% del 2001 al 18,6% del 2008. Nel 2008 in Italia i lavoratori in nero sono stimati in 2 milioni 943 mila, l’11,8% del totale. Ma non tutti sono lavoratori in nero “totali”: poco più di un terzo è rappresentato da secondi lavori, il 12% circa da stranieri, e solo il 55% circa da unità di lavoro irregolari in senso stretto. I settori di maggiore diffusione sono l’agricoltura e i servizi. Se al Centro-Nord il lavoro nero è una forma per integrare un primo reddito o per gli stranieri per inserirsi nel mercato del lavoro, al Sud è spesso invece una consuetudine diffusa riservata ai residenti. Nel 2008 al Sud è irregolare 1 lavoratore su 5, pari in valori assoluti a 1 milione 300mila persone. Nel settore industriale al Sud circa 1 lavoratore su 8 (12,8%) è in nero, con tasso di irregolarità del 19% nelle costruzioni. A livello territoriale la regione più “nera” è la Calabria, con il 26% di manodopera irregolare, che sale a quasi il 50% in agricoltura e al 40% nelle costruzioni. A seguire, la Basilicata (20,3%), con un forte peso del settore industriale, Sicilia (19,8%), Sardegna (19,5%) e Puglia (17,4%). Il più alto numero di lavoratori in nero in valori assoluti spetta alla Campania (329mila persone), che dal 2000 ha però perso il 19,4% (79mila unità). Migrazioni – Caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 39 pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni. Le campagne meridionali si spopolano, ma non a vantaggio delle vicine aree urbane. I posti di lavoro del Mezzogiorno sono in numero assai inferiore a quello degli occupati. Ed è la carenza di domanda di figure professionali di livello medio-alto a costituire la principale spinta all’emigrazione. Tra il 1997 e il 2008 circa 700mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno. Nel 2008 il Mezzogiorno ha perso oltre 122mila residenti a favore delle regioni del Centro-Nord a fronte di un rientro di circa 60 mila persone. Riguardo alla provenienza, oltre l’87% delle partenze ha origine in tre regioni: Campania, Puglia, Sicilia. L’emorragia più forte in Campania (-25 mila), a seguire Puglia e Sicilia rispettivamente con 12,2 mila e 11,6 mila unità in meno. In controtendenza invece Abruzzo e Sardegna, che nel 2008 hanno attratto flussi migratori dall’interno intercettato flussi esterni di una certa consistenza. Nel 2008 sono stati 173.000 gli occupati residenti nel Mezzogiorno ma con un posto di lavoro al Centro-Nord o all’estero, 23 mila in più del 2007 (+15,3%). Sono i pendolari di lungo raggio, cittadini a termine che rientrano a casa nel week end o un paio di volte al mese. Sono giovani e con un livello di studio medio-alto: l’80% ha meno di 45 anni e quasi il 50% svolge professioni di livello elevato. Il 24% è laureato. Non lasciano la residenza generalmente perché non lo giustificherebbe né il costo della vita nelle aree urbane né un contratto di lavoro a tempo. Spesso sono maschi, singles, dipendenti full time in una fase transitoria della loro vita, come l’ingresso o l’assestamento nel mercato del lavoro. Le regioni che attraggono maggiormente i pendolari sono Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio. Da segnalare però la crescita dei pendolari meridionali verso altre province del Mezzogiorno, pur lontane dal luogo d’origine: 60mila nel 2008 (erano24mila nel 2007). In calo i lavoratori meridionali all’estero: -4%, arrivando nel 2008 a 11mila 700 persone. Una curiosità: la crisi ha colpito anche i pendolari meridionali. Se infatti il movimento Sud-Nord è cresciuto nei primi sei mesi del 2008, con l’aggravarsi del quadro economico 20mila persone sono rientrate al Sud, soprattutto donne. Laurea, mobilità e lavoro – La mobilità geografica Sud-Nord permette una mobilità sociale. I laureati meridionali che si spostano dopo la laurea al Centro-Nord vanno incontro a contratti meno stabili rispetto a chi rimane, ma a uno stipendio più alto. Il 50% dei giovani immobili al Sud non arriva a 1000 euro al mese, mentre il 63% di chi è partito dopo la laurea guadagna tra 1000 e 1500 euro e oltre il 16% più di 1500 euro. Chi resta al Sud o rientra dopo aver studiato al Nord trova però lavoro prima di chi si Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 40 sposta dopo la laurea. Tra chi parte dopo aver conseguito la laurea al Sud e chi dopo il diploma, alla fine in termini di contratto, occupazione e retribuzione i più avvantaggiati sono i secondi. Dal 1992 al 2004 i laureati meridionali che hanno studiato al Nord e lì sono rimasti sono arrivati a toccare il 67% del totale. In base a dati Istat, nel 2004 (gli ultimi disponibili) 24.700 meridionali sono andati a studiare al Centro-Nord a fronte di un dato inverso davvero irrisorio (meno dell’1% del totale). Il 95,7% dei laureati settentrionali, infatti, lavora nel luogo in cui ha studiato. Riguardo all’occupazione, nel 2007 su 96mila laureati meridionali 33mila erano disoccupati (il 78% residente al Sud), e dei 62mila occupati, 26mila lavoravano al Centro-Nord. Rispetto ai primi anni 2000 sono cresciuti i giovani meridionali trasferiti al Centro-Nord dopo il diploma che si sono laureati lì e lì lavorano, mentre sono calati i laureati negli atenei meridionali in partenza dopo la laurea in cerca di lavoro. In vistosa crescita le partenze dei laureati “eccellenti”: nel 2004 partiva il 25% dei laureati meridionali con il massimo dei voti; tre anni più tardi la percentuale è balzata a quasi il 38%. Riguardo al tipo di studi, i più mobili sono i laureati in architettura, seguiti dai laureati in materie scientifiche. Ma quanto paga la scelta di un ateneo piuttosto che un altro? Dipende dalla distanza temporale tra la fine degli studi e il primo lavoro. Per i laureati meridionali che hanno trovato lavoro a un anno dalla laurea la scelta del tipo e della sede dell’Università è stato determinante, mentre al Centro-Nord la maggiore domanda di lavoro non spinge a selezionare i giovani in base all’ateneo di provenienza. A tre anni dalla laurea, invece, la scelta dell’ateneo è indifferente. Scuole, atenei e abbandoni scolastici – Negli ultimi anni è cresciuta l’età di ingresso nel mondo del lavoro anche per effetto di una più diffusa scolarizzazione. Nonostante ciò, la scuola italiana non consente di rimuovere gli ostacoli alla mobilità sociale, e soprattutto nel Sud i figli tendono a ereditare il destino dei padri. Mentre sia a Nord che a Sud la partecipazione alla scuola materna ed elementare è pressoché totale, nel 2008 il tasso di scolarità meridionale relativo alla scuola secondaria ha superato il Centro-Nord (95,4% contro 91,2%). Tuttavia è proprio in questa classe che si registrano gli abbandoni scolastici, soprattutto al primo anno di corso (il 13% al Sud contro il 9,6% del Centro-Nord). Nonostante una leggera tendenza alla riduzione, dati simili allontano il raggiungimento del target di Lisbona del 15% di abbandoni scolastici precoci ( l’Italia è ferma al 19,8%, ma il Sud è quasi al 24%). Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 41 Il Sud recupera invece nella scuola secondaria superiore: è lontano il target del diploma all’85% dei giovani 20-24enni entro il 2010, ma dal 2000 al 2008 il Sud è passato dal 67 a oltre il 72% di giovani diplomati. Recupero anche a livello universitario: dal 2000 al 2008 i laureati meridionali sono più che raddoppiati, da 54 a 118mila. Notevole e positivo la crescita di laureati in materie scientifiche: dal 2000 al 2006 il Sud è passato dal 3,8% all’8,4%. Nota dolente i fuori corso: il 92% dei laureati meridionali non riesce a laurearsi entro i termini e quasi il 50% lo fa a oltre 4 anni dal termine regolare previsto. Rappresenta un importante segnale di allarme il fatto che, dopo una lunga fase di crescita ininterrotta, il tasso d’iscrizione all’Università al Sud negli ultimi anni abbia comincia a declinare. Se fino a un recente passato la convinzione della spendibilità di un titolo di studio terziario sul mercato del lavoro ha favorito l’espansione dei livelli di partecipazione come fattore produttivo, oltre che come elemento umano, sembra emergere nella fase attuale un certo scoraggiamento fra le coorti più giovani a investire nell’istruzione superiore. Studio e qualità – Dai dati PISA emerge un quadro deludente per la scuola italiana e soprattutto meridionale. I 15enni con difficoltà di lettura nel 2006 sono stati al Sud ben il 37% e addirittura il 46% ha dichiarato scarse competenze in matematica. I dati del monitoraggio nazionale dell’INVALSI confermano il deficit di competenze degli studenti della scuola secondaria superiore del Sud, mentre per quanto riguarda la scuola elementare meridionale evidenziano un livello qualitativo al sud superiore alla media nazionale. Rendimento dell’investimento formativo – Ma quanto ripaga studiare? Quanto rende l’istruzione? Il titolo di studio riesce a ripagare in termini di più facile accesso al mondo del lavoro e di uno stipendio più alto, ma soltanto dopo un lasso di tempo. Il fattore tempo è infatti soprattutto al Sud dove il rendimento è massimo tra i 40 e i 64 anni raggiungendo il valore di 180. Mentre la laurea dai 25 ai 39 anni permette uno stipendio più pesante del 20% al Sud, oltre i 40 anni essa permette un incremento del 40%. Cosa dice la SVIMEZ – Nel Mezzogiorno le debolezze della rete formativa italiana si associano ad un contesto produttivo debole e ad un sistema sociale sostanzialmente bloccato, impedendo così ai progressi quantitativi realizzati nei tassi di istruzione di tradursi in sviluppo economico e civile. Le misure di policy volte ad incrementare l’offerta di competenze da parte dei nuovi entranti sul mercato del lavoro hanno finito per incrementare in questi anni il livello di educational mismatch, tra qualità dell’offerta di lavoro e competenze richieste dalle imprese. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 42 La mobilità dei laureati meridionali se da un lato deprime le prospettive di crescita dell’intera economia meridionale, dall’altro appare un mezzo per consentire una valorizzazione del merito e quindi una maggiore mobilità sociale. Il mancato superamento dei vincoli costituiti da un apparato produttivo debole e da un sistema sociale bloccato, nonostante i progressi nella formazione scolastica universitaria, condanna il Mezzogiorno al ruolo di fornitore di risorse umane qualificate al resto del Paese e i suoi migliori giovani a cercare altrove le modalità per mettere a frutto le proprie competenze e realizzare i propri sogni. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 43 POLITICHE PER LO STATO SOCIALE Spesa per protezione sociale – Lo Stato sociale è inadeguato nei confronti di alcuni bisogni essenziali, come le politiche di sostegno alla famiglia, le nuove forme di povertà, l’aumento dei rischi per i futuri anziani, e, invece, assicura un’elevata protezione del reddito agli occupati regolari. La quota di Pil destinata alla protezione sociale nei 25 Paesi dell’Unione Europea è pari mediamente al 27%, in Italia è solo lievemente più contenuta, 26,6%, ma comunque lontana da nazioni come la Francia che destina a quest’obiettivo il 31,1% del Prodotto lordo, la Svezia il 30,7%, il Belgio il 30,1%. Divari Nord Sud nella spesa sociale - Nel Mezzogiorno l’incidenza della spesa sociale sul Pil è largamente superiore alla media europea, collocandosi al 33,3%, mentre al Centro Nord è attestata al 24,7%. Ma se valutiamo, più correttamente la spesa in termini pro capite risulta un deficit consistente di spesa nelle regioni del Sud: nel Centro-Nord essa è infatti pari a 7.200 euro per abitante a fronte dei 5.600 euro del Mezzogiorno. L’anomalia del sistema del welfare italiano è soprattutto nella sua composizione, troppo sbilanciata verso i trattamenti previdenziali, ai quali destina circa il 20% in più degli altri partners europei: per le pensioni il livello di spesa pro capite è più elevato al Nord, dove è pari a circa 1,3 volte rispetto alla media dei 25 Paesi dell’Ue, mentre al Sud è al di sotto di tale media. La spesa per la disoccupazione nella Ue –Per quel che riguarda la spesa per le politiche di sostegno al reddito nei casi di disoccupazione o di corsi di formazione per il reinserimento nel mercato del lavoro, restano forti differenze tra i vari Stati: la media dell’Ue è del 5,6% del totale ma varia tra il 12% di Belgio e Spagna e il 2% dell’Italia, anche se nel Sud tale quota è superiore di due volte alla media nazionale perché in quest’area vi è la maggior quantità di persone in cerca di occupazione. Il sistema pensionistico – La riorganizzazione e razionalizzazione della spesa sociale passa attraverso la realizzazione di politiche di welfare to work, puntando sempre più su un’inclusione attiva nel mercato del lavoro. Ma tale obiettivo è condizionato dal sistema previdenziale, in particolare per quel che riguarda la sua sostenibilità finanziaria. Oggi l’Italia è tra i partners Ue quello con la maggiore incidenza degli oneri previdenziali sul totale delle prestazioni sociali. Peraltro la spesa per le pensioni è fortemente sperequata sotto il profilo territoriale, in quanto il 68,6% è erogato al Centro Nord, che assorbe il 72,4% delle risorse, mentre ai pensionati meridionali va il 31,3%, che equivale a una quota di risorse del 27,6%. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 44 Pensionati assistenziali – Le pensioni assistenziali includono tutte quelle prestazioni previdenziali non legate alla contribuzione che hanno il compito di garantire un reddito minimo alle persone. La percentuale di pensionati assistenziali nelle aree meridionali supera di circa 12 punti quella del resto del Paese, perché il reddito pro capite dei beneficiari è al Sud inferiore del 20% rispetto a quelli residenti nel resto d’Italia. Se si eccettuano le pensioni assistenziali, per tutti gli altri assegni previdenziali prevalgono i percettori nel Centro Nord rispetto a quelli nel Mezzogiorno. Non solo, ma complessivamente al Sud i pensionati di vecchiaia che hanno versato i contributi e percepiscono meno di 1.000 euro al mese, sono il 50%; il 40% nel Centro-Nord Pensioni minime e maggiorazione sociale – Il trattamento minimo è un’integrazione erogata dallo Stato ai pensionati il cui assegno è inferiore al minimo vitale. La maggiorazione sociale è, invece, condizionata oltre che dal reddito, anche dall’età perché bisogna avere almeno 70 anni o avere particolari inabilità. Su un totale di 16 milioni di pensionati, circa 1,3 milioni (590 mila al Sud) sono i titolari di pensioni con maggiorazione sociale, mentre sono 4,3 milioni (1,5 milioni al Sud) i pensionati che ricevono un’integrazione al minimo. Le pensioni sociali sono circa 800 mila, di cui 400 mila al Sud. I valori reddituali medi annui delle pensioni sociali è 8 mila euro al Centro-Nord e 7,5 mila nel Mezzogiorno. In Italia è il 27% dei soggetti in pensione a non riuscire a raggiungere la soglia del minimo vitale, la maggiore parte dei quali risiede al Sud. Welfare locale – I Comuni del Nord gestiscono più della metà delle risorse sociali a livello locale, quelli del Mezzogiorno solo il 20%. Oltre l’80% delle risorse per il welfare locale è destinato a famiglia e minori, in particolare al Sud, e ad anziani e disabili. Ma anche in questo caso permangono notevoli differenze territoriali, perché la spesa per le famiglie e i minori varia tra i 130 euro pro capite del Nord e i 48,6 del Mezzogiorno, con una media nazionale attestata a 95 euro. Più delle metà di questi finanziamenti va a sostenere il funzionamento degli asili nido e dei servizi per l’infanzia. Lo stesso avviene se si analizza la spesa pro capite per gli anziani: in media in Italia è 116,7 euro ma al Nord supera i 150, al Sud si ferma a 66,3 euro. Una differenza ancor più marcata esiste per i fondi ai disabili, con 3.500 euro pro capite al Nord, 2.300 al Centro e appena 806 nelle aree meridionali: in questa cifra i maggiori esborsi sono quelli per l’assistenza domiciliare, molto più diffusa al Nord che al Sud. Ammortizzatori sociali – La disoccupazione, in seguito alla grave crisi economica, sta aumentando vertiginosamente. Nel primo trimestre di quest’anno ha raggiunto i 2 milioni di persone. E contestualmente è cresciuto in modo esponenziale anche il ricorso alla Cassa integrazione guadagni, che agli inizi del 2009 riguardava circa 400mila lavoratori. Le risorse messe a disposizione dal Governo per fronteggiare questa difficile fase sono 32 miliardi nel biennio 2009 – 2010, di cui 8 per i trattamenti in deroga. E per Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 45 la prima volta la misura è stata estesa ad apprendisti e collaboratori a progetto. Questo strumento, però, non garantisce una copertura adeguata a tutti i lavoratori: dei circa 1.700mila disoccupati, di cui 890mila nel Mezzogiorno, possono usufruire dei sussidi solo quanti abbiano precedenti esperienze lavorative, che sono 1.200mila di cui 560mila al Sud. Ma da questo numero vanno poi sottratti i disoccupati da oltre un anno che non possono più goderne, che sono in tutto circa 460mila, di cui 250mila nelle aree meridionali. Ciò significa che solo la metà dei disoccupati, circa 850mila di cui 350mila nel Sud, potrà avere un sussidio: di questi il 60% nel Centro Nord e il 40% al Sud. Su un totale di 14 milioni e 700mila lavoratori dipendenti e parasubordinati nel nostro Paese, di cui 4 milioni al Sud, finora 3 milioni e 200mila, di cui 950mila nel Mezzogiorno, erano esclusi da queste forme di tutela. Dopo l’intervento del Governo si è ampliata la platea dei beneficiari: il numero degli esclusi si ridurrebbe a circa 2 milioni, di cui 650mila nelle aree meridionali, in base a una stima prudenziale, o addirittura a 1 milione e 600mila, di cui mezzo milione al Sud, in base a previsioni più ottimistiche. Un fatto è certo: non è il Nord a subire maggiormente l’impatto della crisi, se solo si considera il fatto che in Regioni come la Campania e la Sicilia lavora poco più del 40% della popolazione e le donne in attività sono meno di 3 su 10. L’andamento della Cig – Nel periodo da gennaio a giugno del 2009 i lavoratori a cassa integrazione sono stati circa 415mila, di cui 330mila al Centro Nord e 85mila al Sud. L’accordo sugli ammortizzatori sociali raggiunto tra Governo e Regioni è stato finanziato in larga misura con risorse delle Regioni meridionali: infatti, su 8 miliardi complessivi, 2,6 sono a carico dell’Fse e 4 del Fas. Manca un reddito minimo di inserimento – Manca in Italia una forma di reddito minimo di inserimento finalizzato al sostegno delle famiglie a più basso tenore di vita. Eppure i più recenti dati Eurostat collocano il nostro Paese al terz’ultimo posto in Europa quanto a livelli di povertà, peggio di noi solo Grecia e Lettonia. Una povertà che è in gran parte meridionale, dove l’incidenza è doppia rispetto alla media nazionale e addirittura cinque volte superiore a quella del Nord . La Comunità Europea ha invitato i Paesi membri a dotarsi di una forma di reddito minimo che garantisca anche ai poveri una vita adeguata. Oggi siamo l’unica nazione, insieme alla Grecia, a non averlo, anche se ci sono stati vari tentativi di introdurre il reddito minimo di inserimento e il reddito di ultima istanza. Le misure di sostegno al reddito – Il Governo ha cancellato l’Ici sulla prima casa e ha introdotto il bonus famiglie e la social card. Il costo dell’abolizione dell’imposta comunale sugli immobili è stato di oltre 2 miliardi per le casse dello Stato, con un beneficio ai proprietari di circa 60 euro al Sud, 129 al Centro e 88 al Nord. Il bonus famiglie riguarda 6 milioni di nuclei, costa 2,1 miliardi, consiste in un trasferimento una tantum di una somma variabile tra i 200 e i 1.000 euro a seconda del reddito e della Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 46 dimensione familiare. La misura avvantaggia le famiglie più povere ed è il Sud a trarne i maggiori vantaggi: nelle aree meridionali, infatti, risiede il 48% dei beneficiari, contro il 36% del Nord . La social card è un buono acquisto pari a 40 euro mensili destinato ai cittadini con basso reddito che abbiano almeno 65 anni e ai genitori con figli di età inferiore a 3 anni. Per averlo bisogna documentare un reddito inferiore a 6mila euro, non più di una casa e una sola autovettura. Costo stimato 490 milioni. I beneficiari sono potenzialmente un milione, in gran parte anziani. L’intervento per il 52% è destinato al Sud, per il 32% al Nord, per il 16% al Centro. Se consideriamo che dal prossimo anno certamente verrà meno il bonus famiglia mentre rimarranno gli effetti della detrazione ICI (non si sa ancora bene se verrà continuata l’esperienza della social card) l’impatto complessivo della manovra sarà più favorevole alle regioni del Centro-Nord piuttosto che a quelle del Sud. I pensionati giovani – Bisogna porre grande attenzione sull’età di pensionamento e sui motivi che influenzano la decisione di abbandonare il lavoro. L’età prevista è sensibilmente più elevata al Sud, dove la metà degli occupati tra 50 e 59 anni prevede di terminare il lavoro a 65 anni e anche oltre: ciò perché nel Mezzogiorno più difficilmente si riescono ad ottenere requisiti contributivi sufficienti per garantirsi una pensione adeguata. Tendenzialmente l’età di pensionamento coincide con quella in cui si maturano i diritti anagrafici e contributivi per percepire una pensione di anzianità o di vecchiaia. Coloro che decidono di prolungare l’attività lavorativa sono prevalente uomini che svolgono un lavoro da dirigente o quadro o che siano imprenditori. Molte persone sarebbero altresì pronte a ritardare l’età di pensionamento se potessero usufruire di bonus o di maggiori flessibilità nell’orario o di forme di part time. Cosa dice la Svimez - In Italia è ancora irrisolto il problema di come finanziare maggiori aiuti economici ai lavoratori espulsi dal processo produttivo e ad assicurare un minimo di sussistenza ai più poveri. La SVIMEZ, utilizzando il modello MICROREG dell’IRPET, ha condotto una simulazione per valutar, il costo dell’introduzione di una forma di reddito di ultima istanza in grado di riportare il reddito familiare al di sopra della soglia di povertà assoluta. L’esercizio condotto ha valutato in circa 2 miliardi di euro il costo di un intervento universale in grado di far uscire tutte le famiglie dalla condizione di povertà, assicurando il differenziale tra il reddito percepito e la soglia definita dall’ISTAT. Il costo di tale intervento, che renderebbe il nostro sistema di protezione sociale più omogeneo al modello prevalente negli altri Paesi europei, se confrontato con quello di misure recenti come l’abolizione dell’ICI sulla prima casa, non appare incompatibile con gli equilibri di finanza pubblica. Nel medio lungo periodo è, però, indispensabile ridurre la spesa previdenziale, attraverso lo scoraggiamento delle varie forme di pensionamento anticipato. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 47 LE POLITICHE CONTRO LA CRIMINALITA’ Criminalità e insicurezza – In rapporto alla popolazione residente, nel Mezzogiorno il numero dei reati denunciati (38,8 per mille abitanti) è decisamente inferiore a quello del Centro-Nord (55,0). In sintonia con tali dati, sono le famiglie settentrionali a dichiarare di sentirsi più insicure di quelle meridionali: nel 2008 sono state il 37,5% rispetto al 35,2%. In entrambe le aree il peggioramento della percezione di insicurezza, visibile dai grafici 1995-2008, è stato forte: nel 2000 al Centro-Nord non si sentivano sicure quasi 1 famiglia su 3 (31,5%), mentre al Sud il dato era del 28,7%. A livello regionale le differenze sono molto elevate: più a rischio i nuclei campani (53,6%, la percentuale più alta a livello nazionale) e pugliesi (36,5%), mentre si sentono più sicure le famiglie molisane (16,7%) e lucane (11,8%). Criminalità organizzata e globalizzazione - Le organizzazioni criminali, veloci e attente ad adeguare il proprio core business ai cambiamenti esterni, hanno saputo cogliere le opportunità offerte dalla globalizzazione e oggi, oltre ad essere radicate nei territori meridionali d’origine, sono sempre più diffuse con attività economiche diverse, in numerose altre regioni italiane e straniere. La ‘ndrangheta - Radicata in Calabria, ma ormai presente in tutto il mondo, è ormai diventata leader nel traffico mondiale di droghe (soprattutto cocaina), ma forte anche nelle estorsioni, usura e traffico di armi. In Italia, la ‘ndrangheta ha notevoli interessi anche Milano, Brescia, Roma e in Piemonte. Nel 2007 secondo l’Eurispes il suo fatturato è stato di 44 miliardi di euro, pari al 2,9% del Pil italiano. Cosa Nostra - La mafia siciliana, dopo gli arresti eccellenti degli ultimi anni, sta vivendo una fase di assestamento e riorganizzazione interna. Essa sta però mostrando una grande capacità di mantenere intatta la sua vitalità e pericolosità. Sono i mercati ortofrutticoli, le sale da gioco e soprattutto la grande distribuzione alimentare le nuove frontiere del business mafioso; attività che si aggiungono a quelle tradizionali dell’estorsione e dell’inserimento nei pubblici appalti. L’esistenza di numerose attività criminali si è segnalata anche a Modena e a Genova. La camorra - “Specializzata” in traffico di stupefacenti, estorsioni, racket, gioco d’azzardo e usura, negli ultimi anni la camorra ha visto crescere il core business soprattutto nell’offerta di servizi alle imprese, approfittando anche della domanda di abbattimento dei costi da parte di imprese legali. Con lo smaltimento illegale dei rifiuti, le fatturazioni “truccate”, l’espulsione di imprese “non gradite” nella gestione di impianti, la camorra influenza in modo determinante l’economia campana. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 48 Sacra Corona Unita - Fortemente ridimensionata dall’azione di contrasto operata dalle Forze dell’ordine negli ultimi anni, la “Sacra Corona Unita” resta concentrata nel traffico di stupefacenti, armi e clandestini. Fuori regione è operativa soprattutto in Lombardia e nella vicina Basilicata. Criminalità, crisi e terremoto – La crisi economica sembra essere un vantaggio per la criminalità organizzata, che può disporre di ingenti risorse provenienti dalle sue attività illecite, mentre colpisce pesantemente famiglie e imprese, che diventano così più vulnerabili alle pressioni criminali. Il rilancio dell’intervento statale nell’economia, ad esempio nella ricostruzione post terremoto dell’Abruzzo, potrebbe convogliare gli interessi delle imprese mafiose attive nell’edilizia, che già in Umbria dopo il sisma del 1996 diedero prova di un’intensa attività nella gestione degli appalti. A ciò si sta rispondendo con l’assicurazione di una maggiore vigilanza nella spesa pubblica. Il contrasto alla criminalità organizzata I beni confiscati - Dal 1982 (anno in cui fu istituita la legge Rognoni-La Torre) ad oggi sono stati 8.446 gli immobili confiscati in Italia; di questi, il 40% risulta ancora in gestione al Demanio, l’8% è stato destinato ma non consegnato e solo il restante 52%, pari a 4.372 immobili, destinato e consegnato. Il 47% del totale degli immobili confiscati si concentra in Sicilia, dove però ben 2.243 beni (il 57% del totale) è ancora in mano al Demanio. Riguardo alle regioni del Centro-Nord, i beni confiscati sono 102 in Piemonte, 610 in Lombardia e 328 nel Lazio. Tra il 2007 e il 2008 si è assistito ad una forte accelerazione (+70% a livello nazionale) del numero di immobili destinati ai differenti enti per il loro riutilizzo; l’aumento più vistoso si rileva in Calabria (197%), seguita dalla Campania (112%) e dalla Lombardia (191%). Per quanto riguarda le aziende, le confische operate dalle forze dell’ordine ammontano a 1.139, di cui 935 (pari all’82%) risulta già destinato, a testimonianza degli importanti passi avanti compiuti soprattutto negli ultimi anni. Va però segnalato che solo meno della metà delle aziende consegnate risulta realmente utilizzata e che delle 204 aziende che sono ancora in carico dell’Agenzia del Demanio solo il 10% ha ancora personale e porta avanti una attività produttiva. Criminalità e governi locali –Per realizzare una maggiore trasparenza e controllabilità delle procedure degli appalti pubblici si sono istituite le cosiddette “Stazioni Uniche Appaltanti”, la prima in Sicilia nel 2005, la seconda in Calabria nel 2009. L’esperienza siciliana non sembra aver prodotto per ora risultati eclatanti, anche in relazione alle notevoli risorse economiche destinate al suo funzionamento. Per la Calabria, al momento si può solo dire che dalla lettura del dispositivo legislativo che ha istituito la Stazione Unica si ha l’impressione che si possano evitare alcuni degli errori commessi in Sicilia. Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009 49 In merito alle due Regioni va anche ricordato la decisione di costituirsi parte civile in tutti i processi di mafia per fatti accaduti sul loro territorio. Vanno anche ricordate alcune altre iniziative tese ad ostacolare le azioni criminose della criminalità organizzata, come la decisione di Confindustria di espellere gli imprenditori che non denunciano le richieste estorsive della mafia; il “Codice antimafia” adottato da Italcementi; il protocollo d’intesa per lo “Sviluppo locale in sicurezza e legalità”, tra il prefetto di Napoli e il presidente dell’Unione degli industriali napoletani; l’istituzione di una Commissione, decisa dalla Regione Sicilia, per redigere una serie di norme vincolanti per le pubbliche amministrazioni per impedire ogni forma di infiltrazione mafiosa. Criminalità e società civile – L’eterogeneo insieme di forze della società civile, comunemente indicate con il termine di “movimento antimafia” ha avuto ruolo decisivo per la promulgazione di quei provvedimenti normativi che oggi costituiscono i capisaldi nella lotta alla mafia. Le tre esperienze più significative sono costituite da “Addio Pizzo” di Palermo, “Ammazzateci tutti” di Locri e da “Libera”, che ha il grande merito di essere stata determinante nella istituzione della legge sul riutilizzo a fini sociali dei patrimoni mafiosi. Le tre organizzazioni, che si sono ormai estese in tutto il territorio nazionale, attraverso le loro campagne di sensibilizzazione sono riuscite ad interrompere quel muro di silenzio che caratterizzava l’atteggiamento comune nei confronti della mafia e ad innescare un processo di ribellione al racket. Politiche per la Sicurezza – Il bilancio del primo biennio di attività del Programma Operativo Nazionale “Sicurezza per lo Sviluppo ” 2007-2013 appare decisamente positivo per l’Asse 1, che riguarda un ambito di intervento di diretta competenza delle forze dell’ordine, mentre un preoccupante ritardo si rileva per l’Asse 2, finalizzato alla diffusione di migliori condizioni di legalità e giustizia a cittadini e imprese. Per l’Asse 1, infatti, sono stati approvati progetti per un importo di 394,1 milioni di euro, pari al 60% della dotazione (573,2 milioni); per l’Asse 2 si sono invece spesi 64,6 milioni di euro, pari ad appena il 12% della dotazione (538,5 milioni). Desta preoccupazione, in particolare, che non figurano progetti approvati in merito ad interventi di grande rilievo, come quello sull’impatto migratorio e sulla trasparenza della pubblica amministrazione. Svimez 2009/07_Messaggio_Napolitano.pdf Il Presidente della Repubblica Messaggio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla presentazione del “Rapporto SVIMEZ 2009 sull’economia del Mezzogiorno” Roma, 16 luglio 2009 I rapporti della SVIMEZ sull'economia del Mezzogiorno offrono, ogni anno, un quadro accurato di informazioni e valutazioni che fornisce la base per una analisi critica degli andamenti recenti, aperta ad una riflessione sulle prospettive dell'economia meridionale nei suoi rapporti con l'economia nazionale ed internazionale. Nell'attuale situazione di crisi economica e finanziaria, che spinge a dare priorità agli interventi che possono mitigarne gli effetti sulle famiglie e sulle imprese, il lavoro della SVIMEZ ci aiuta anche a comprendere la necessità di una analisi non limitata all'immediato. La crisi economica rafforza il convincimento che una prospettiva di stabile ripresa del processo di sviluppo debba essere fondata sul superamento degli squilibri territoriali, necessario per utilizzare pienamente tutte le potenzialità del nostro Paese. Il fatto che le politiche di riequilibrio territoriale messe in atto in passato abbiano conseguito risultati insufficienti rende certamente indispensabile un forte impegno di efficienza e di innovazione da parte delle istituzioni meridionali; ma questo impegno non sarebbe sufficiente senza il supporto di una strategia di politica economica nazionale mirata al superamento dei divari in termini di dotazione di infrastrutture, di investimento in capitale umano, di rendimento delle amministrazioni pubbliche e di qualità dei servizi pubblici. In un contesto nel quale la crisi economica rende più difficile il bilanciamento tra i diversi obbiettivi, cresce l'incertezza sulle risorse disponibili, e insieme con essa, l'incertezza del quadro di riferimento delle politiche per il Mezzogiorno. Occorre reagire accrescendo la consapevolezza, nelle Istituzioni ed in tutta la società italiana, del carattere prioritario e della portata strategica dell'obiettivo del superamento dei divari tra Nord e Sud. Il lavoro della SVIMEZ offre un contributo importante allo sviluppo di un confronto nazionale, aperto ed approfondito, su questi temi; confronto che la stessa SVIMEZ ed altre istituzioni culturali meridionaliste ritengono, fondatamente, indispensabile. Con queste riflessioni auguri il migliore svolgimento ai vostri lavori. Giorgio Napolitano SVIMEZ: Rapporto 2009 sull'economia del Mezzogiorno
Argomento: 

SVIMEZ: Rapporto 2008 sull’economia del Mezzogiorno

Descrizione breve: 
Lo SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, mette in luce le condizioni economico industriali del tanto dibattuto MEZZOGIORNO italiano.
Allegato: 
Data: 
18 Luglio 2008
SVIMEZ/00_com_stampa.pdf � � � � � ������������ ���� ��� ��� �•���������� ��•������� ��������•������ ����������•� Roma,18 luglio 2008 SVIMEZ, IL NON-SISTEMA MEZZOGIORNO, PERIFERIA DELL’EUROPA PIL A +0,7%, IN TESTA PUGLIA, MOLISE E BASILICATA DISOCCUPAZIONE IN CALO, MA IL TASSO REALE SUPERA IL 20% Un Mezzogiorno che non riesce a tenere il lento passo dell’economia settentrionale, e che da sei anni consecutivi cresce meno del Centro-Nord. Un’area periferica, un non-sistema infrastrutturale socialmente statico, dove cresce il rischio di povertà e dove i disoccupati scompaiono dalle statistiche: questa la fotografia che emerge dal Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 2008 in presentazione a Roma venerdì 18 luglio. Nel 2007 il Sud è cresciuto dello 0,7%, un punto di meno rispetto al Centro-Nord e in calo di 0,4 punti percentuali rispetto allo scorso anno. Il PIL per abitante è pari a 17.482 euro, il 57,5% del Centro-Nord (30.380 euro), da cui lo separa una differenza di oltre 42 punti percentuali, pari a circa 13mila euro. In termini di crescita, tutte le regioni registrano segni positivi, tranne la Calabria. In testa alle regioni del Mezzogiorno la Puglia (2%), seguita da Molise (+1,7%), Basilicata (+1,5%) e Sardegna (+1,3%). Quasi ferme Campania (+0,5%) e Sicilia (+0,1%). A livello settoriale si registra nell’area una tenuta del sistema industriale, cui corrisponde però un forte rallentamento dei servizi: tra il 2001 e il 2007 il settore nel Mezzogiorno è cresciuto dello 0,8% contro l’1,7% dell’altra ripartizione; anche nel 2007 ha registrato una crescita pari a un quarto di quella del Centro-Nord. Due le cause principali del fenomeno: investimenti che rallentano, famiglie che non consumano. Rilevante infatti il rallentamento degli investimenti fissi lordi dell’area (che hanno fatto segnare nel 2007 un timido +0,5% a fronte del + 2,4% dell’anno precedente), che testimonia il peggioramento del clima di fiducia delle imprese. Sulla stessa linea la spesa delle famiglie meridionali, ferma al +0,8%, circa la metà di quella del Centro-Nord (+1,5%). Da sette anni la dinamica dei consumi interni è poco più che stagnante (+0,5%), a conferma delle difficoltà delle famiglie meridionali a sostenere il livello di spesa. IL MEZZOGIORNO CRESCE MENO DELLE ALTRE AREE DEBOLI UE Il quadro diventa sconsolante se confrontato con le dinamiche economiche degli altri paesi europei. Dal 2000 al 2007 il tasso di crescita dell’economia meridionale è stato del 2%, un dato molto lontano da quello spagnolo (+4,9%), irlandese (+5,5%) e greco (+6,2%). In questi paesi sono state proprio le aree deboli, per molti anni ai margini delle direttrici economiche europee, a rilanciare i processi di crescita interni, come ha dimostrato il sorpasso spagnolo. � � � � � ������������ ���� ��� ��� �•���������� ��•������� ��������•������ ����������•� OCCUPAZIONE A CRESCITA ZERO - CONTINUA LA SCOMPARSA DEI DISOCCUPATI – IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE REALE AL SUD SAREBBE DI OLTRE IL 28% Come negli scorsi anni, continua il calo dei disoccupati: meno 66mila al Centro-Nord e ben meno 101mila al Sud, con una flessione rispetto all’anno precedente rispettivamente dell’8,6% e addirittura dell’11,2%. Ma non tutti i disoccupati hanno trovato un nuovo lavoro. Nel 2007 infatti il Mezzogiorno ha registrato un’occupazione a crescita zero, a fronte di un aumento dell’1,4% al Centro-Nord (+234mila in valori assoluti). Molto positivi i risultati di Puglia (+2,2%) e Molise (+2,5%), più modesti quelli di Abruzzo (+0,8%) e Sardegna (+0,9%) mentre la Calabria segna una forte flessione (-2%). Ma dove sono finiti i 101mila disoccupati meridionali? Una quota consistente ha smesso di cercare un’occupazione. In Campania, ad esempio, nel 2007 i disoccupati sono scesi di oltre 38mila unità, e i nuovi occupati a loro volta sono scesi di 11mila unità. Situazione simile in Calabria (crollo della disoccupazione del 16% - meno 14.600 disoccupati, ma calo degli occupati di oltre 12mila unità), Sicilia (-13mila disoccupati e meno 14mila occupati) e Basilicata, dove i valori si annullano a vicenda (meno 2mila occupati e disoccupati). In altri termini, negli ultimi sei anni al Sud i disoccupati sono scesi di 635mila unità: 285mila hanno trovato un lavoro, 350mila sono “scomparsi”: non cercano né trovano lavoro. Nel 2007 dunque al Sud gli inoccupati sono aumentati di 147mila unità (+248mila disoccupati impliciti – 109mila disoccupati espliciti). Aggiungendo ai disoccupati ufficiali quelli impliciti il tasso di disoccupazione reale al Sud nel 2007 dall’11% attuale più che raddoppierebbe (28%), a fronte del 6,9% del Centro-Nord. Spina nel fianco il sommerso, che riguarda al Sud circa 1 lavoratore su 5 (19,2%), a fronte del 9,1% dell’altra ripartizione. Nel 2007 i lavoratori irregolari al Sud sono scesi di 66mila unità (-4,8%), arrivando a quota 1 milione 304mila. Agricoltura, commercio e servizi i settori dove si concentrano i lavoratori al nero. Da segnalare la forte presenza di sommerso al Sud nel settore industriale (11,6% contro 1,8% del Centro-Nord), segno delle forti difficoltà delle PMI meridionali. Maglia nera alla Calabria, che nel 2007 registra 2,6 lavoratori irregolari su 10. FAMIGLIE E LAUREATI A RISCHIO DI POVERTA’ Rispetto al 28% del Centro-Nord, più della metà delle famiglie monoreddito al Sud risulta esposto al rischio di povertà. Nel 2005 il 18% delle famiglie meridionali ha percepito meno di 1.000 euro al mese e il 20% circa ha guadagnato tra 1.000 e 1.500 euro mensili. Con differenze da regione e regione: nel 2005 più di una famiglia su 5 in Sicilia ha guadagnato meno di 1.000 euro al mese e nelle altre regioni la percentuale varia � � � � � ������������ ���� ��� ��� �•���������� ��•������� ��������•������ ����������•� dal 19 al 17%. Inoltre quasi 14 famiglie su 100 al Sud hanno più di tre persone a carico (4,1% al Centro-Nord), con punte del 18% in Campania. Vi sono famiglie in cui non ci si può permettere un pasto adeguato almeno tre volte a settimana (10% sul totale meridionale), né riscaldare adeguatamente l’abitazione (20%) o comprare vestiti necessari (28%). Quasi il 20% delle famiglie meridionali nel 2005 ha avuto periodi in cui non poteva acquistare medicinali. Vasca e doccia in casa mancano ancora al 2% delle famiglie pugliesi, all’1,5 di quelle calabresi e all’1,4% delle siciliane. Neanche raggiungere un buon livello di istruzione tutela dall’esposizione al rischio povertà: si trova in questa situazione il 9,4% dei laureati residenti al Sud. MIGRAZIONI, DAL 1997 IN 600 MILA HANNO LASCIATO IL SUD E IL NUOVO EMIGRANTE E’ PENDOLARE Negli ultimi dieci anni, dal 1997 al 2007, oltre 600mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno per trasferire la residenza al Centro-Nord. Nel 2007 ai 120mila trasferimenti di residenza si aggiungono 150mila pendolari di lungo raggio, che si spostano temporaneamente al Centro-Nord per lavorare. Questi flussi di mobilità unidirezionale Sud-Nord sono un caso unico in Europa e testimoniano la distanza economica tra le due aree. I nuovi emigranti sono in larga parte pendolari: soprattutto maschi, giovani (l’80% ha meno di 45 anni), single o figli che vivono in famiglia, con un titolo di studio medio-alto e che svolgono mansioni di livello elevato nel 50% dei casi, a conferma dell’incapacità del sistema produttivo meridionale di assorbire manodopera qualifica; alti costi delle abitazioni e contratti a termine spingono a trasferire definitivamente la residenza. Lombardia, Emilia Romagna e Lazio restano le tre regioni preferite dai nuovi emigranti. Le regioni più soggette al pendolarismo di lunga distanza verso il Nord sono la Campania (50mila unità), Sicilia (28mila) e Puglia (21mila). IL SUD ANCORA TAGLIATO FUORI DAI FLUSSI DI IDE Gli investimenti diretti esteri (IDE) nel 2006 (che in Italia rappresentano appena l’1,8% del PIL contro valori medi nell’Ue del 3,7%) sono stati concentrati per appena lo 0,66% al Mezzogiorno, contro il 99,34% del Centro-Nord. Più in particolare, è stata la Lombardia a ricevere il 68,2% degli IDE a livello nazionale, seguita da Piemonte (11,36%), Lazio (7,8%) e Veneto (4,15%), mentre Campania, Puglia e Basilicata restano ferme allo 0,16%, Sardegna a Abruzzo allo 0,06%, Calabria e Sicilia allo 0,02% e il Molise allo 0,01%. Forte il divario anche riguardo alla quota di IDE per abitante: negli anni 2002-2006 l’Italia ha attirato in media solo 253 euro pro capite, contro i 608 della Francia e i 1.200 euro del Regno Unito. Di questi, 241 sono concentrati nel Centro-Nord, mentre al Sud vanno soltanto 12 euro per abitante. � � � � � ������������ ���� ��� ��� �•���������� ��•������� ��������•������ ����������•� Tra i vincoli che penalizzano gli investimenti esteri nell’area la carenza di infrastrutture, la scarsità di servizi alle imprese (aggravata da una burocrazia inefficiente) e la criminalità organizzata. In questo senso le aree urbane, “in altre aree europee veri motori dello sviluppo, luogo dove si concentrano le funzioni direzionali e innovative, i mercati e le risorse più qualificate” diventano invece al Sud “luoghi di disagio e di svantaggio, dove le donne sono escluse dal mondo del lavoro, le emergenze ambientali e le sperequazioni sociali sono più forti. Lo dimostra il caso Napoli”, dove, al di là dei rifiuti, “è stata messa a nudo l’inadeguatezza del sistema istituzionale e di governance”. Altra forte carenza nel Mezzogiorno è data dal sistema creditizio locale, che concentra nell’area solo il 17,6% degli sportelli. I confidi meridionali, chiamati a svolgere un ruolo di primo piano nel sostenere il rilancio del sistema industriale, si trovano però in condizione di forte debolezza, con un capitale sociale medio di 470mila euro, meno della metà della media dei confidi settentrionali, e con un volume di garanzie medio di 8,8 milioni di euro, distante anni luce dai 42 del Nord. MEZZOGIORNO ANCORA TROPPO POCO COMPETITIVO In base a tre indicatori individuati dalla SVIMEZ (benessere economico, situazione di partecipazione ed equilibrio del mercato del lavoro, livello di sviluppo delle risorse umane e della ricerca scientifica) è stato costruito un indice di competitività che conferma in modo evidente la debolezza del Mezzogiorno. Sicilia, Puglia, Campania e Calabria registrano i più bassi tassi di occupazione femminile in Europa (sotto il 30%), distanti di quasi 10 punti dalle regioni più arretrate della Grecia e della Spagna e di quasi 20 dall’est Europa. Sul fronte della ricerca pesa la scarsità di laureati nelle discipline scientifiche: (dal 10,4% di laureati sulla popolazione adulta in Sardegna ai 10,8% della Sicilia. Per trovare in Europa il successivo valore più basso dovremo andare in Extremadura, Spagna, con il 21%. Non va meglio neanche riguardo alla spesa per ricerca e sviluppo in percentuale del PIL: rispetto a un valore medio Ue dell’1,8%, a parte l’1,2% della Campania tutte le regioni meridionali sono sotto il punto percentuale, fino allo 0,4% del PIL della Calabria. CONTINUA IL CALO DELLA SPESA PUBBLICA IN CONTO CAPITALE La quota di spesa pubblica in conto capitale del Mezzogiorno è passata dal 40,6% del 2001 al 35,3% nel 2007, arrivando così al livello più basso dal 1998. Tale quota non solo è ben lontana dall’obiettivo del 45% fissato in fase di programmazione, ma non raggiunge neppure il peso naturale del Mezzogiorno (la media tra la sua quota di popolazione e di territorio) che è del 38% circa. Negli ultimi anni nel Mezzogiorno la spesa “aggiuntiva” nazionale e comunitaria, data l’esiguità delle risorse, si è limitata a compensare le carenze della spesa ordinaria. � � � � � ������������ ���� ��� ��� �•���������� ��•������� ��������•������ ����������•� La quota di risorse ordinarie ha segnato un ulteriore diminuzione, passando da 11,8 a 10,2 miliardi di euro, dal 24,5% del 2006 al 21,4% del 2007. Il livello basso della spesa ordinaria ha ultimamente ridotto l’efficacia delle politiche di coesione nazionale. La dispersione delle risorse aggiuntive in molteplici interventi e la progettazione scoordinata degli stessi, gestita soprattutto dagli enti locali, non hanno prodotto i risultati attesi. INFRASTRUTTURE Fatto pari a 100 il valore Italia, riguardo alla dotazione di autostrade il Sud è fermo al 78,6%, con livelli particolarmente bassi per Molise (37,4) e Basilicata (13,4), fino ad arrivare alla Sardegna, totalmente priva di autostrade. Non va meglio sul fronte delle ferrovie: il 42% delle linee presenti nell’area non sono elettrificate. Sottodotate anche le linee di trasmissione elettrica e del gas (67,3% dell’Italia), che raggiungono percentuali ancora più basse in Basilicata (49,2%), Molise (37,4) e Sardegna (32,2). Fa eccezione la Campania, che registra il 123,1%. L’indice sintetico di dotazione di reti idriche ferma il Sud al 65,6%, la metà circa del Centro-Nord (135,2). Nel Mezzogiorno inoltre il 37% dell’acqua immessa in rete viene perso, con percentuali particolarmente elevate in Sardegna (43,2%) e Puglia (46,3%). Molise e Basilicata sono totalmente prive di aeroporti; tutti gli aeroporti meridionali hanno collegamenti stradali, ma mancano quelli ferroviari. Particolarmente carente la presenza di strutture intermodali (37,8%) e di magazzini all’interno dei porti, ancora troppo piccoli e orientati soprattutto al traffico passeggeri. Scarsissima la capacità di movimentazione dei mezzi per il trasporto merci, che dota il Sud di un indice pari a un centesimo della media nazionale. Unica eccezione in questo panorama, il porto industriale di Gioia Tauro, che è tornato a essere il porto di transhipment leader nel Mediterraneo, con 3,5 milioni di TEU di traffico e una crescita del 19,1% rispetto al 2006. Per informazioni: Ufficio stampa Elisa Costanzo: 06/27850239 – 328/1430500 SVIMEZ/01_Direttore.pdf Roma, 18 luglio 2008 Riccardo PADOVANI ��������� ����� �� � Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno 2,9 0,7 1,7 CRESCITA DEL PIL NEL 2007 Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno 0,5 0,1 1,8 0,6 2,1 1,2 8,8 Mezzogiorn o Centro-Nord 0,4 -0,3 0,6 0,3 1,1 0,7 5,0 2002 2003 2004 2005 2006 TASSI ANNUI DI VARIAZIONE % DEL PIL Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno 2001 - 2007 0,7 2007 1,7 Media Cumulata annua Media Cumulata annua Mezzogiorno Centro-Nord 2,4 5,8 -2,6 2,1 1,5 2,5 1,9 13,8 Mezzogiorn o Centro-Nord 3,5 -2,0 2,9 2,6 -1,6 2,4 1,2 8,4 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Media Cumulata annua TASSI ANNUI DI VARIAZIONE % DEGLI INVESTIMENTI FISSI LORDI TOTALI Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno 2001 - 2007 0,5 2007 1,5 Media Cumulata annua Mezzogiorno Centro-Nord 1,5 4,7 -7,4 2,5 2,5 2,3 0,9 6,6 Mezzogiorno Centro-Nord 0,7 -7,5 5,5 1,7 -4,5 7,6 0,2 1,1 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Media Cumulata annua TASSI ANNUI DI VARIAZIONE % INVESTIMENTI FISSI LORDI IN MACCHINE E ATTREZZATURE Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno 2001 - 2007 -1,5 2007 0,6 Media Cumulata annua Mezzogiorno Centro-Nord 0,5 0.0 0,6 1,1 0,8 1,4 0,8 6,1 Mezzogiorn o Centro-Nord 0,4 -0,3 0,7 0,4 0,6 0,7 0,5 3,3 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Media Cumulata annua TASSI ANNUI DI VARIAZIONE % DEI CONSUMI DELLE FAMIGLIE Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno 2001 - 2007 0,8 2007 1,5 2,4 1,2 0,7 2,0 1,3 2,3 1,7 12,7Mezzogiorn o Centro-Nord 2,7 0,1 -0,4 0,4 0,5 1,5 0,8 5,5 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Media Cumulata annua TASSI ANNUI DI VARIAZIONE % DEL VALORE AGGIUNTO DEL SETTORE DEI SERVIZI Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno 2001 - 2007 0,6 2007 2,3 Media Cumulata annua Mezzogiorno Centro-Nord PIL PRO CAPITE IN PPA Tassi medi annui di crescita (%) 2001-2007 Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno MEZZOGIOR NO 2,0 GERMANIA 3,3 SPAGNA 4,9 IRLANDA 5,5 GRECIA 6,2 UE a 27 3,9 PIL IN PPA NELLE AREE “DEBOLI” E NELLE AREE “FORTI” Tassi medi annui di crescita (%) 2000-2005 Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno REGIONI CONVERGENZ A REGIONI COMPETITIVIT A’ TOTALE ITALIA 1,5 1,7 1,7 GERMANI A 3,0 2,8 2,8 SPAGNA 6,5 5,8 6,0 IRLANDA 7,6 7,0 7,2 GRECIA 6,6 4,4 6,5 UE a 27 4,8 3,3 3,7 Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno INDICE SINTETICO DI OCCUPABILITA’ Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno PUGLIA, CAMPANIA, SARDEGNA MOLISE, BASILICATA, CALABRIA, SARDEGNA ABRUZZO CENTRO-NORD INDICE SINTETICO DI OCCUPABILITA’ Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno INDICE SINTETICO DI FORMAZIONE E RICERCA Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno MOLISE, PUGLIA, CAMPANIA, BASILICATA, CALABRIA, SICILIA, SARDEGNA ABRUZZO INDICE SINTETICO DI FORMAZIONE E RICERCA Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno INDICE SINTETICO DI COMPETITIVITA’ ECONOMICA Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno PUGLIA, BASILICATA, CAMPANIA, CALABRIA, SICILIA ABRUZZO, MOLISE, SARDEGNA INDICE SINTETICO DI COMPETITIVITA’ ECONOMICA SPESA DELLA P.A. IN CONTO CAPITALE NEL MEZZOGIORNO Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno 2000 2001 2002 2003 2004 200 5 2006 200 7 Miliardi di euro 2007 ORDINARIA 11,4 9,3 13,0 13,4 11,3 11, 3 11,8 10, 2PER LE AREE SOTTOUTIL. 10,5 15,1 11,2 10,4 11,0 10, 7 10,9 12, 1COMPLESSIVA 21,9 24,4 24,3 23,8 22,3 22, 1 22,7 22, 3In % dell’Italia ORDINARIA 27,0 22,2 26,3 26,1 23,4 23, 9 24,5 21,4 PER LE AREE SOTTOUTIL. 75,2 81,8 83,3 79,2 78,8 78, 0 79,3 78,1 COMPLESSIVA 39,0 40,4 38,5 36,8 35,9 36, 0 36,8 35,3 STATO DI AVANZAMENTO DELLA SPESA DEL QCS 2000-2006, Obiettivo 1 a fine 2006 Pagamenti in % delle risorse programmate Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno ITALIA 60,1 GERMANIA 77,3 SPAGNA 75,1 IRLANDA 82,8 UE a 15 69,1 Roma, 18 luglio 2008 Riccardo PADOVANI ���������������� �� � Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno SVIMEZ/02_Vice Direttore.pdf Roma, 18 luglio 2008 Luca BIANCHI ����������� ����� ��� ���� Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno MANCATO SVILUPPO DEL MEZZOGIORNO DISEGUAGLIANZA DEI REDDITI SVILUPPO EQUITA’ Le Regioni meridionali: più povere e più diseguali Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno Le Regioni meridionali più povere e più diseguali Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno Disuguaglianza dei redditi Il rischio povertà: le famiglie in bilico Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno % delle famiglie per classi di reddito Meno di 1000 � mensili Tra 1000 e 1500 � mensili Più di 3000 � mensili Mezzogiorno 18,0 19,7 21,7 Centro-Nord 7,3 12,5 40,2 Le nuove povertà: anche gli occupati sono sempre più a rischio Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno Mezzogiorno Centro-Nord Lavoratori dipendenti 19,6% 4,6% di cui: pubblici 9,0% 1,6% privati 29,6% 7,3% Quota dei lavoratori esposti al rischio povertà per settore Le nuove povertà: anche gli occupati sono sempre più a rischio Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno Mezzogiorno Centro-Nord Fino alla scuola dell’obbligo 39,8% 14,8% Media superiore 25,3% 7,5% Laurea 9,4% 4,0% Quota dei lavoratori esposti al rischio povertà per titolo di studio Mezzogiorno Centro-Nord 1 percettore 51,6% 28,6% 2 percettori 27,6% 6,6% Quota delle famiglie esposte al rischio povertà per percettori di reddito Il Sud tra immobilità interna e nuove migrazioni verso il Nord Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno Centro-Nord Elevata mobilità interna multidirezionale Forte pendolarismo Consistente immigrazione dall’estero e dal Sud Mezzogiorno Scarsi spostamenti di breve e medio raggio Bassa immigrazione dall’estero e non qualificata Elevata emigrazione qualificata verso il Nord Il Sud tra immobilità interna e nuove migrazioni verso il Nord Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno Centro-Nord Elevata mobilità interna multidirezionale Forte pendolarismo Consistente immigrazione dall’estero e dal Sud Mezzogiorno Scarsi spostamenti di breve e medio raggio Bassa immigrazione dall’estero e non qualificata Elevata emigrazione qualificata verso il Nord Modello regioni industrializzate Staticità del sistema locale e riduzione potenzialità di sviluppo Il Sud tra immobilità interna e nuove migrazioni verso il Nord Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno Centro-Nord Elevata mobilità interna multidirezionale Forte pendolarismo Consistente immigrazione dall’estero e dal Sud Mezzogiorno Scarsi spostamenti di breve e medio raggio Bassa immigrazione dall’estero e non qualificata Elevata emigrazione qualificata verso il Nord 83% della mobilità residenziale è di breve raggio (+34% rispetto al 1996) 58% della mobilità residenziale è di breve raggio (-4% rispetto al 1996) Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno I sistemi locali del lavoro che perdono e attraggono popolazione VECCHIA E NUOVA EMIGRAZIONE Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno 60.000 Rientri 20.000 Temporanei 120.000 Trasferimenti 150.000 Temporanei Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno I pendolari dalle Regioni del Sud al Nord Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno L’identikit del nuovo emigrante meridionale Quota sul totale dei pendolari Sud Nord 25 - 34 anni 43% Diploma Laurea 44% 25% Settore dei servizi 70% Lavora da 1 anno oltre 5 anni 32% 31% Qualifica medio-alta 55% Lavoro dipendente di cui: a termine 90% 1/3 Accelerare il grado di apertura del Mezzogiorno per rompere l’immobilità del sistema meridionale INTEGRAZIONE INTERNAZIONALIZZAZIONE Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno ACCESSIBILITA’ PERIFERICITA’ PROMOZIONE DELL’EXPORT ATTRAZIONE DEGLI INVESTIMENTI Accelerare il grado di apertura del Mezzogiorno per rompere l’immobilità del sistema meridionale INTEGRAZIONE INTERNAZIONALIZZAZIONE Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno ACCESSIBILITA’ PERIFERICITA’ PROMOZIONE DELL’EXPORT ATTRAZIONE DEGLI INVESTIMENTI Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno INDICE DI PERIFERICITA’ DELLE REGIONI EUROPEE Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno ACCESSIBILITA’ DEI SISTEMI LOCALI DEL LAVORO RAPPRESENTAZIONE DELL’INTERAZIONE DINAMICA TRA TESSUTO PRODUTTIVO E RETE LOGISTICA Accelerare il grado di apertura del Mezzogiorno per rompere l’immobilità del sistema meridionale INTEGRAZIONE INTERNAZIONALIZZAZIONE Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno ACCESSIBILITA’ PERIFERICITA’ PROMOZIONE DELL’EXPORT ATTRAZIONE DEGLI INVESTIMENTI Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno DEBOLEZZA STRUTTURALE DELL’EXPORT MERIDIONALE Quota % per settore alla Pavitt MEZZOGIORNO CENTRO-NORD 2003-2005 2006-2007 2003-2005 2006-2007 Tradizionali 25,7% 19,6% 27,8% 25,4% Di scala 54,1% 60,9% 36,5% 38,7% Specialistici 8,5% 8,9% 23,5% 24,8% Alta tecnologia 11,7% 10,6% 12,1% 11,1% Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno ATTRAZIONE DEGLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI IDE SU INVESTIMENTI TOTALI ITALIA 6,6% SPAGNA 6,8% FRANCIA 14,6% IRLANDA 21,1% POLONIA 21,0% REGNO UNITO 32,1% IDE Mezzogiorno 0,7 Centro-Nord 99,3 DISTRIBUZIONE TERRITORIALE Rapporto SVIMEZ 2008 sull'economia del Mezzogiorno ATTRAZIONE DEGLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI IDE PER ABITANTE (2002-2006) ITALIA 253 � SPAGNA 490 � FRANCIA 608 � REGNO UNITO 1.200 � UE a 27 680 � IDE Mezzogiorno 12 � Centro-Nord 241 � DISTRIBUZIONE TERRITORIALE SVIMEZ/03_Novacco.pdf � �� L’Italia, tra cento “divari territoriali” ed uno strutturale “dualismo” Nord/Sud. TRACCIA DELLA INTRODUZIONE DI NINO NOVACCO Roma, 18 luglio 2008 1. Apro quest’anno la mia esposizione con una dichiarazione che spe- ro possa rallegrare i molti amici meridionalisti che vedo qui presenti, convenuti per prendere atto dei diversificati aspetti dell’annuale “Rap- porto SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno” − tecnicamente e stati- sticamente assai valido ed adeguato, ma ancora insopportabilmente non soddisfacente per la triste “fotografia”, in bianco e nero, che nel merito esso fornisce sulla condizione economico-sociale meridionale − e per seguire il dibattito che ancora una volta ci proponiamo di animare sui temi del necessario sviluppo del Sud, fattore e condizione per la crescita dell’economia italiana, da tempo caratterizzata invece da una condizio- ne di relativo declino. A seguito di un invito formulato dal Presidente della Repubblica, Sen. Giorgio Napolitano, da me sollecitato, un gruppo di istituzioni me- ridionaliste e meridionali si è incontrato il 9 giugno scorso al Quirinale, per concordare le modalità di una loro reciproca sistematica collabora- zione sui temi di un più equilibrato futuro della Nazione, e per testimo- niare unitariamente al Paese − pur nella ovvia autonomia di ognuno e rispettosi delle caratteristiche storiche di ciascuna istituzione − il loro sostanziale comune impegno per lo sviluppo e verso la coesione. Sono stati perciò qui invitati − in via formale per la prima volta − gli amici che con noi della SVIMEZ si sono incontrati al Quirinale, e � �� che contiamo possano definire presto, insieme, ulteriori occasioni ed i- niziative di comune impegno nazionale e meridionalista. Di ciò sono lieto di dare pubblica testimonianza, rinnovando il rin- graziamento al Presidente Napolitano per la sua sensibilità ed attenzio- ne, ma anche per il messaggio che nell’odierna occasione Egli ci ha fat- to pervenire, e di cui dò lettura. 2. Il meridionalismo della SVIMEZ, legato alla lettura e comprensione dei numeri più che all’inseguimento delle non sempre chiare né signifi- cative astrazioni della politica, è oggettivamente testardo, nel senso che non si pone all’inseguimento di continuamente nuove ipotesi tipologi- che di obiettivi ed interventi − che peraltro rientrano nelle doverose re- sponsabilità dei Governi, soprattutto di quelli elettivi, e semmai di quel- li ombra, fino ad ora tutti alquanto distratti da altre più facili o fruttuose priorità − ma insiste da sempre sulla necessità che il Paese si decida a scegliere ed adottare soluzioni strutturali capaci di porre rimedio al problema dei crescenti “divari territoriali”, ed a ciò che tutti tali molte- plici differenziali quali-quantitativi sintetizza, e che noi chiamiamo “dualismo”, e che potremmo indicare evocando il crescente rischio di una sorta di accelerata “disunità” dell’Italia, i cui termini abbiamo sot- toposto al Presidente della Repubblica, garante appunto della Costitu- zione e dell’unità dello Stato. Lo scorso anno, al termine del dibattito sugli andamenti dell’economia meridionale ed italiana, ebbi ad insistere qui nel sottoli- neare l’assenza, per il Mezzogiorno, di un “disegno nazionale di politi- ca economica”, per definire il quale avevamo vanamente sollecitato di � �� intervenire nel dibattito alcuni tra i più autorevoli esponenti Parlamen- tari della maggioranza e dell’opposizione di allora. La situazione di oggi − pur sotto vari profili assai diversa − è tale per cui sarebbe possibile partire ora da quelle stesse notazioni. In effetti la SVIMEZ – che non può non ribadire le proprie perdu- ranti preoccupazioni per gli andamenti dell’economia del Mezzogiorno quali emergono anche quest’anno in termini di prodotto, di investimen- ti, di occupazione, e finanche dalle tendenze demografiche di lungo pe- riodo dell’Italia, che avranno pesanti effetti contrapposti al Nord e al Sud − ritiene di dover confermare le non favorevoli conseguenze ed implicazioni del vuoto nazionale in materia di politica economica, che pur non sarà certo di per sé in grado di dare pronta soluzione (comun- que impossibile a breve, ma che sarebbe irresponsabile non avviare con rigore scientifico e con ogni possibile urgenza) ai problemi meridionali, ma che in ogni caso appare essenziale per fissare i punti fermi di un ge- nerale approccio italiano allo sviluppo ed alla coesione, in cui un riequi- librio strategico tra le spese in conto capitale di base e quelle addizio- nali, ed un nuovo equilibrio tecnico tra agevolazioni e infrastrutture, che siano effettivamente incisive e determinanti (e le città e l’economia di uno Stato-Nazione non vivono di solo arredo urbano, o di opere pa- ra-sociali o para-culturali, ma anche di grandi opere strategiche), e che si prospettano comunque necessari, all’interno di un quadro econome- trico definito e coerente. Una politica per l’Italia − ed è questo ciò che oggi serve a tutti gli italiani, e non politiche sistematicamente e solo locali o settoriali − de- ve oggi essere insieme capace di risolvere sia i non pochi “problemi” presenti nel nostro Centro-Nord (che sono assai sentiti dalle sue popo- � �� lazioni, come i risultati elettorali hanno confermato), sia quelli struttu- rali che mantengono ancora irrisolta nel meridione la storica “questio- ne”, peraltro neppure sentita ed affrontata dalla maggioranza del Paese come prioritariamente condizionante l’unità della Nazione; esigenza, quest’ultima, che è stata peraltro oggettivamente indebolita dalle spinte localistiche e para-federalistiche che si sono diffuse negli ultimi de- cenni. Le complesse responsabilità della politica nazionale verso i proble- mi presenti nel Nord, ed insieme verso la storica “questione meridiona- le”, non appaiono essere al centro dell’impegno di Governo − dicevo nel 2007 e confermo oggi −, che acconsente vengano considerati priori- tari rispetto a quelli economici, aventi carattere strutturale e strategico, altri temi – diritti civili, funzionamento dei tribunali, esigenze ecologi- che ed ambientali, modeste correzioni al sistema fiscale o pensionistico, costruzione di piccole case popolari, sostegni alle situazioni di più gra- ve povertà sociale – che dovrebbero far parte dell’ordinario impegno di progresso di una società mediamente ricca e mediamente avanzata. Di fatto il nostro Paese non è stato finora in grado di definire nep- pure le linee di un realistico e necessario programma di politica econo- mica a lungo temine, che dal 1992 non ha trovato né nei vari Governi, nè nel sistema istituzionale complessivo, punti e luoghi unitari di deci- sionalità, nello spezzettamento e nella disarticolazione e nella frequente ridefinizione delle sedi istituzionali, e nell’assenza per contro, nel Par- lamento, di un unitario luogo di discussione e di ricerca di soluzioni, quale potrebbe essere una autorevole “Commissione bicamerale sui problemi nazionali della coesione”, che lo scorso anno ebbi ad evocare come necessaria, e la cui opportunità ribadisco anche oggi. � �� Su tali questioni – in ordine alle quali da decenni il Mezzogiorno ha dialogato con personalità ed esperti di diversa ispirazione e collocazio- ne, con Regioni e territori, con imprenditori e con sindacati – la SVI- MEZ esprime l’augurio che un più intenso ed efficace confronto si pos- sa avere nel prossimo futuro, anche con più specifici ed impegnativi approfondimenti, nelle Commissioni Parlamentari, tradizionali o tema- tiche, della Camera e del Senato, di cui è certo opportuno rivedere ruoli e prassi, ma senza ridurre il Senato a mero costoso megafono di regio- nalismi e localismi, contraddittorî con l’unità dello Stato, e con la dove- rosa unitarietà degli approcci nazionali. Per quel che la storia della SVIMEZ ha rappresentato, non possia- mo non confermare che la natura decisiva della questione strutturale del Sud – che resta “problema aperto”, come è stata definita dal prof. Giu- seppe Galasso – appare comunque tale da richiedere, con ogni consenti- ta urgenza, una sorta di autorevole “Conferenza Nazionale”, in cui Par- lamento e Governo, e le istituzioni specializzate, e la cultura migliore del Paese tutto, possano esprimere al meglio impegnative e se del caso contrapposte posizioni, non certo tuttavia solo meramente declaratorie e propagandistiche – magari con slogans di autocondanna, come “il Sud deve salvarsi da solo”, oppure “non c’è nulla da fare finché c’è la ma- fia”, oppure, “in fondo si sta facendo molto…” –, ma entrando nel meri- to dei difficili problemi territoriali che condizionano la coesione nazio- nale da costruire, premessa ad ogni pur necessaria socialità e sussidia- rietà, con le quali è doveroso evitare ogni confusione, gravi essendo i rischi della retorica delle parole. Su tali temi ho ritenuto, dopo la tornata elettorale dell’aprile scorso, di sollecitare una riflessione dei Parlamentari italiani vecchi e nuovi, in � �� qualsiasi circoscrizione eletti, inviando loro una lettera − che ritroverete ora riprodotta nel “Quaderno SVIMEZ n. 16” che vi è stato oggi conse- gnato − su passato, presente e futuro del dualismo Nord/Sud; una sinte- si, storica, attuale e prospettica, come aiuto a capire, a riflettere e a decidere, alla luce delle reali condizioni di disarmonico sviluppo in cui si trova il nostro Paese; ma anche come occasione per affermare il no- stro convincimento in ordine alla entità, qualità e dinamica della spesa per lo sviluppo e la coesione in Italia, che deve poter contare su un flus- so di risorse ordinarie parametrato al “peso naturale” dei territori, e su un adeguato e non incerto stanziamento – spendibile perché program- mato e progettato ex-ante – di risorse straordinarie ed addizionali. Noi della SVIMEZ non siamo quantitativisti, e non siamo quindi noi che abbiamo mai chiesto prioritariamente soldi per il Mezzogiorno, né abbiamo gridato di gioia per i 100 miliardi 2007-2015 destinati, sen- za indicazioni di finalità strategiche, al Mezzogiorno con la finanziaria 2007. Ma riteniamo che un processo di sviluppo che voglia porsi – nel quadro di un meccanismo di sviluppo – l’obiettivo della convergenza verso la coesione economica, richiede tendenzialmente, nelle due ma- cro-regioni del Paese, pari condizioni infrastrutturali, e afflussi di capi- tali che nella grande Regione meridionale debole e in ritardo non pos- sono ovviamente che essere largamente esterni, nel senso che non pos- sono formarsi certo e solo all’interno di un’area che − come il Mezzo- giorno − si caratterizza insieme per un più basso livello di PIL e per una sistematica sotto-dotazione di fattori essenziali allo sviluppo produttivo, pur presentando il Sud la disponibilità di fattori utili e determinanti per la crescita nazionale e locale. � �� Concludo queste preliminari notazioni ripetendo che la piccola SVIMEZ, quasi sola in passato nel perseguire e nel suggerire al Paese un organico disegno di politica economica − che è sicuramente assai ambizioso, ma che a noi appare necessario per salvare l’unità della Na- zione, che temiamo possa correre elevati rischi, come una crescente let- teratura relativa al Nord sottolinea fin nei proliferanti e provocatori suoi titoli −, non ci sembra possa fare molto di più, se non continuare, finché risulterà utile e possibile, a predicare quello che crediamo essere obiet- tivo e compito a lungo termine dello Stato, e dell’intera società naziona- le. 3. Anche quest’anno ci proponiamo di mettere al centro del dibattito − che con questa introduzione intendiamo ora sollecitare tra gli esponenti politici delle attuali maggioranza e minoranza uscite dalle Elezioni dell’aprile 2008 che hanno ritenuto di accogliere il nostro invito − il tema della coesione economica nazionale. Vorremmo infatti che potes- sero essere resi espliciti i giudizi delle forze politiche italiane in ordine alla reale priorità ed urgenza − rispetto ai molti e troppo vari temi di cui ogni giorno i Governi dicono di doversi occupare sol perché lo hanno promesso agli elettori nei loro pur vaghi programmi − che esse intendono attribuire alla squilibrata “coesistenza” della storica questio- ne meridionale, con la cosiddetta questione settentrionale. La prima “questione”, quella meridionale, appare caratterizzata dal- la sistematica negatività delle condizioni del Sud, confermata dalla molteplicità dei dati economico-sociali che vengono rilevati dall’ISTAT e da tutti i centri e luoghi di osservazione della situazione economica e produttiva nazionale. In proposito non è irrilevante osser- � � vare e ricordare che da diversi anni non si è determinato alcun signifi- cativo avvicinamento strutturale tra i livelli di sviluppo del Centro- Nord e del Mezzogiorno, ma anzi, con riferimento all’ultimo decennio, sono proprio le regioni forti del Centro-Nord ad avere fatto segnare tas- si di crescita più sostenuti, evidenziando così un aggravamento delle divergenze interne al Paese, unico caso in un’Europa che tende invece, sia pur lentamente, a convergere. La seconda c.d. “questione”, quella settentrionale, riflette per contro − malgrado la maggiore crescita del PIL e dell’occupazione (che peral- tro sollecita una elevata immigrazione) la accresciuta sensibilità delle aree storicamente forti ed avanzate dell’Italia verso i molti problemi che esse oggi sentono come limite alla loro produttività e al loro ruolo nei mercati concorrenziali, ma anche per le condizioni di vita in quei territori − la lentezza dei traffici, e fin la sicurezza pubblica e privata −, che sempre più la stampa e la politica tendono ad identificare con le priorità cui Governo e Parlamento dovrebbero sentirsi chiamati a dedi- carsi. Provocatoriamente, e con grande franchezza, voglio rilevare che tutti i Partiti politici italiani hanno sempre tendenzialmente rifiutato di accogliere l’approccio macro-economico e strutturale del concreto me- ridionalismo della SVIMEZ, e che anche le strutture di ricerca e le Fon- dazioni gravitanti attorno ad alcuni Partiti si occupano generalmente d’altro, tendendo, rispetto al dualismo Nord/Sud, a concentrare i loro giudizi sugli andamenti a breve e sulla congiuntura, o utilizzando anche i dati della pur essenziale “spesa pubblica in conto capitale” come me- ro indicatore dell’impegno − letto volta a volta con ottimismo o pessi- mismo, a seconda che in ciascun momento esse si trovino al Governo o � � all’opposizione −, ma certo poco valendosi di strumenti di analisi sofi- sticati ed a lungo termine, capaci di incrociare gli investimenti infra- strutturali e produttivi nel territorio − quelli ordinari, e soprattutto quel- li straordinari e strategici − con il PIL, e con l’occupazione, e con le dotazioni ambientali, e con l’attrattività dei territori, e magari con le as- sai deboli tendenze degli investimenti esteri produttivi; per non dire dei mutamenti che si stanno registrando − come ho accennato − nella stessa demografia macro-territoriale e nazionale, che entro il 2050 vedrà au- mentare di oltre 5 milioni gli abitanti del Centro-Nord, e diminuire di oltre 2 milioni quelli del Sud. Dopo la lontana stagione della programmazione degli anni ’50 e ’60 [quella di Pasquale Saraceno e di Giorgio Ruffolo, di Paolo Sylos Labi- ni e di Giorgio Fuà, di Ezio Vanoni e di Antonio Giolitti], non si è mai più assistito in Italia e nelle sue macro-regioni ad uno sforzo serio di analisi economica, i governanti essendo stati travolti anch’essi dall’onda e dalla logica dei sociologismi, cioè degli approcci volta a volta troppo quantitativi o troppo qualitativi; troppo economici o troppo sociali; troppo centrali oppure troppo localistici; e da logiche di svilup- po volta a volta solo dall’alto oppure solo dal basso, che hanno distorto nel profondo fin la validità dei più costruttivi approcci storici all’unità dell’Italia. Da questo punto di vista non è stato producente quel che è avvenuto – dopo la crisi petrolifera – con la progressiva vanificazione dagli anni ’80 dell’intervento straordinario al Sud, e con l’esaltazione meridiana del ritorno all’ordinarietà, troppi avendo espresso mal riposta fiducia che tradizionali e ordinari Ministeri − e Regioni nate dal nulla nel ’70 − potessero essere in grado di agevolmente farsi carico dei difficili com- � ��� piti connessi ad una necessariamente forte accelerazione dello sviluppo in aree non caratterizzate da dotazioni anche solo comparabili, per enti- tà e qualità, a quelle delle aree già da tempo più avanzate, chiamate anch’esse a confrontarsi con sempre più vasti mercati mondiali globa- lizzati. Nel clima determinatosi, non si dimostrò certo costruttivo l’impegno micro del centro-sinistra, che venne favorito da forti suoi spezzoni interni, anti-centralisti e para-federalisti. Il Mezzogiorno fu così di fatto abrogato dalla politica nei primi anni ’90, ed è certamente stato errore storico del centro e della sinistra (quando la destra contava relativamente meno di oggi) l’aver poi concorso a vanificare i pur posi- tivi approcci [esprimo tuttavia qualche riserva su valori e massimali] dell’unico tentativo che vi è stato − sullo stimolo di C. A. Ciampi ed at- traverso il DPS di Fabrizio Barca − a ragionare in termini macro, sep- pure − qualità delle strutture DPS che si sono dedicate a valide analisi a parte, che meritano elogio − lasciandosi troppo prendere nella pania dei formalismi che anche l’Europa di Bruxelles ci ha imposto, quando anch’essa contribuiva a favorire i localismi, erroneamente confusi con validi regionalismi. 4. Questa non è certo la sede né per una analisi storica, né per distri- buire meriti e colpe. Resta che oggi, a quasi 150 anni dall’Unificazione politica dell’Italia nel 1861, il Paese è ancora economicamente disunito tra Nord e Sud, mentre sentiamo pesanti giudizi critici sulle “troppo e- levate risorse” impiegate per un insoddisfacente passato, o che lo sa- ranno per un non garantito futuro del Sud, riferite ora ai 100 miliardi i- scritti dal Governo Prodi per il ciclo europeo 2007-2013, l’ultimo cui � ��� potremo attingere (per i gravi errori italiani di approccio, quali l’accettazione − per il c.d. “Obiettivo 1” − della soglia del 75% della media tra le Regioni Ue!); materia che abbiamo consentito venisse a lungo regolamentata senza alcuna incisiva e determinante presenza ita- liana, ed accettando quindi che il Sud da sviluppare − con il solo “O- biettivo 1”, ma non con il “Fondo per la coesione”, che si lasciò fosse riservato ad altri Paesi − sia ormai costituito solo – e per poco ancora – da 4 Regioni meridionali su 8. E che faremo dopo il 2013? Quale sarà la chiave di un nostro origi- nale New Deal, che non si traduca in una sistematica arbitrarietà di finti “progetti sponda” o di c.d. “progetti coerenti”? Manterremo i vecchi improduttivi parametri, e le regole dell’Ue? Quante risorse l’Italia vorrà e saprà impegnare, su fondi tutti propri e sul proprio PIL – che, quanto alla formazione di capitale pubblico, impegna oggi il 2.6% al Nord e l’1,5% al Sud –, senza più stanziamenti comunitari da co-finanziare do- po il 2013? In quanto tempo ci si proporrà di cancellare l’onta interna- zionale del dualismo italiano? La Germania, per la sua riunificazione Est/Ovest, seppe fare assai meglio!! O di tutto questo pensiamo di poter continuare a non parlare, pur essendo transitati dal non-meridionalismo di Prodi alle priorità altre di Berlusconi, ed alle priorità federaliste ed oggettivamente nordiste ed anti-meridionaliste di Bossi e delle Leghe, ai cui elettori del Nord an- che la non piccola “minoranza parlamentare” specie del PD, al potere fino a ieri, guarda oggi (come li guardò − cattolici alla Piero Bassetti e comunisti alla Guido Fanti − nella iniziale fase “padana” degli anni ’90) con eccessiva attenzione? � ��� Mentre nel 1961 la SVIMEZ veniva invitata a partecipare al Comi- tato per la Celebrazione dei 100 anni dell’Unificazione politica dell’Italia, ed era chiamata a documentare statisticamente le dinamiche Nord-Sud emerse nel primo Secolo, oggi rileviamo che altre sembrano essere le priorità degli organizzatori, apparendo forse più importante garantirsi la presenza di storici attenti anche alla parentesi fascista, o il contributo − anti-unitario, di certo, e fuori dalla Costituzione vigente − di chi ama ormai parlare di una “Repubblica Federale Italiana”, quasi fosse problema maturo, ed utile per tutti gli italiani. E tutto questo avviene perché è stata cambiata la Costituzione auto- nomista del 1948, in cui il sottosviluppo e l’arretratezza meridionale erano iscritti con nome e cognome, e di cui sono stati riscritti fonda- mentali articoli del “Titolo V°”, intrisi di contenuti tendenzialmente federalistici – cui comunque andrà in Parlamento data applicazione – per definire operativamente i quali si dovrà traversare l’ancora poco e- splorato “deserto”, legislativo prima e regolamentare poi, del federali- smo fiscale, reso di non agevole praticabilità dalla difficoltà di trattare con pari equità per un verso le Regioni Ordinarie fiscalmente più debo- li, e per l’altro le Regioni a Statuto Speciale talvolta relativamente ric- che, a cui a suo tempo vennero garantiti rilevanti e fin eccessivi privile- gi. Sul federalismo fiscale molto la SVIMEZ − da sempre legata all’idea che cittadini e territori debbano godere di pari o analoghe op- portunità e diritti − si è comunque per quasi due lustri impegnata, tro- vandosi poi anche vicina alla “Commissione Vitaletti”, di cui peraltro pochi oggi parlano; come pochi amano quantificare se le risorse nazio- nali saranno domani sufficienti insieme per il Centro-Nord e per il Mezzogiorno, per un federalismo che nel Nord vorrebbe gestire esso – � ��� by-passando lo Stato e la Costituzione, ed appropriandosi in prima i- stanza della larghissima maggioranza delle imposte a carico dei produt- tori locali, e fin dei consumatori in quei territori – le risorse per il fede- ralismo fiscale dell’intero Paese, ma anche per alimentare uno sviluppo a più velocità, comunque assai costoso (altro che “riduzione delle tas- se”, come “dividendo fiscale del federalismo”!), e necessariamente con- trastante con la razionalità di un complesso disegno contestuale di rie- quilibrio strutturale nazionale, che il “meridionalismo” della SVIMEZ propone, considerandolo la vera doverosa priorità, per un prossimo non breve futuro. *** Perdonate, ad un italiano non più giovane e che ha superato gli 80 anni, i toni di un approccio forse sopra le righe, ma di cui non so chie- dere scusa, perché è profondo il mio desiderio − la mia “fame”, direi − di poter ascoltare risposte chiare sul futuro dell’unità economica dell’Italia (e forse non solo di quella economica). In effetti, cerco ri- sposte non generali ed evasive − o consolatorie −, che troppo tendono a parlar d’altro, nel senso che continuano a riferirsi alle molte priorità di una Italia che rischia purtroppo di essere considerata − dopo quella ge- ografica − una mera “espressione” politico-amministrativa, ma che non è certo una unitaria e forte realtà economica, e che forse non è neanche più uno Stato-Nazione. SVIMEZ/04_Scheda sintesi.pdf 3 SVIMEZ Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno RAPPORTO SVIMEZ 2008 SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO INTRODUZIONE E SINTESI 4 Indice 1. Il Mezzogiorno non tiene il (lento) passo dell’economia settentrionale p. 5 2. La mancata convergenza del Sud in una Europa che riduce le disparità p. 8 3. L’esigenza di una ridefinizione della politica per il Sud p. 11 4. Sui principi di attuazione del federalismo fiscale p. 14 5. I riflessi della bassa crescita sulla società meridionale p. 16 6. L’industria del Sud nel mercato globale p. 20 7. L’assenza delle politiche per l’internazionalizzazione p. 24 8. Finanziamento dello sviluppo e rafforzamento del ruolo dei Confidi p. 27 9. I trasporti del Sud: un “non sistema” p. 31 10. La mesoregione mediterranea: opportunità concreta per il Mezzogiorno p. 34 5 Introduzione e sintesi 1. IL MEZZOGIORNO NON TIENE IL (LENTO) PASSO DELL’ECONOMIA SETTENTRIONALE Il risultato del 2007 Il brusco peggioramento del quadro internazionale verificatosi nei primi mesi del 2008, fa seguito a segnali di indebolimento della crescita economica già manifestatisi nell’anno precedente. La fase di ripresa che dal 2006 aveva riguardato anche l’Italia sembra dunque essersi ormai esaurita. In un simile quadro nazionale, il Mezzogiorno pur seguendo il profilo congiunturale del resto del Paese si è mantenuto su tassi di crescita stabilmente più bassi. La permanenza di un divario di crescita che prescinde dalla dinamica del ciclo economico rappresenta un elemento che caratterizza tutti gli anni 2000 e riflette la mancata soluzione di problemi strutturali dell’economia meridionale, aggravatisi nel nuovo quadro internazionale. In base a valutazioni di preconsuntivo elaborate dalla SVIMEZ, il PIL è aumentato al Sud nel 2007 dello 0,7%, un punto in meno che nel resto del Paese, con un calo di 0,4 punti percentuali rispetto al 2006. Con il 2007 sono ormai sei anni consecutivi che il Mezzogiorno cresce meno del resto del Paese. Dal 2002 ad oggi l’incremento cumulato del prodotto a prezzi concatenati delle regioni meridionali è stato poco meno di un terzo di quello del Centro-Nord (rispettivamente, 2,4% e 6,4%). Bisogna risalire ai primi anni ottanta e all’espansione dell’economia distrettuale nel Centro-Nord per ritrovare un’interruzione così intensa dei processi di convergenza. In termini di prodotto per abitante il risultato del Mezzogiorno appare meno sfavorevole, per effetto della diversa dinamica della popolazione. Negli ultimi sette anni infatti nonostante l’economia del Mezzogiorno sia cresciuta meno di quella del resto del Paese (0,7% in media annua, rispetto all’1,2% del resto del Paese), l’aumento della popolazione residente al Centro-Nord (6% rispetto all’1% al Sud nel periodo 2000-2007), dovuto principalmente all’immigrazione straniera ma anche a seguito di movimenti migratori interni, ha comportato una lieve diminuzione del divario: dal 2000 il gap si è ridotto di 1,2 punti percentuali. Un recupero del divario realizzato attraverso una minore crescita della popolazione rappresenta una “via patologica” alla convergenza. I fattori che determinano il calo demografico, la ripresa dei flussi migratori, la bassa natalità legata a condizioni di precarietà economica, la scarsa attrazione di capitale finanziario e 6 umano dall’esterno, sono elementi di accentuazione del declino dell’area e al tempo stesso di riduzione di potenzialità di sviluppo del Mezzogiorno. Nel 2007, il forte rallentamento della crescita nel Mezzogiorno ha più che compensato il differente andamento della popolazione e ha determinato un nuovo ampliamento delle differenze di reddito medio pro capite tra le due aree, che si attesta intorno ai 13.000 euro (pari a oltre 42 punti percentuali di differenza). La riduzione della crescita del Mezzogiorno nel 2007 è da attribuire principalmente alla flessione della dinamica dell’accumulazione di capitale gli investimenti fissi lordi sono aumentati nella macroarea nel 2007 solo dello 0,5%, con un abbassamento di circa due punti percentuali rispetto all’incremento registrato l’anno precedente (2,4%). La flessione del ritmo di crescita degli investimenti, in presenza di ampi margini di capacità inutilizzata, ha risentito in entrambe le ripartizioni della maggiore incertezza del quadro congiunturale che da metà anno si è associata all’impennata dei prezzi delle materie prime. In particolare nel Mezzogiorno, il clima di fiducia delle imprese ha mostrato un sensibile declino nella seconda metà del 2007, cui si è associata anche una caduta verticale del grado di utilizzo degli impianti, ritornato ai livelli del 1999. Tale peggioramento nelle prospettive di domanda si sono già riflesse nella componente degli investimenti, relativa agli acquisti di macchinari e mezzi di trasporto, che nel 2007 ha fatto registrare al Sud una flessione dell’1,5%, dopo il +7,6% del 2006. Alla forte flessione degli investimenti si è accompagnata una persistente debolezza nella dinamica dei consumi interni nel Mezzogiorno. In particolare, la crescita della spesa finale delle famiglie è risultata nel Mezzogiorno (0,8%) la metà di quella registrata nel Centro-Nord (1,5%). Negli ultimi sette anni la dinamica dei consumi interni si è mantenuto su di un profilo poco più che stagnante ( 0,5%), a conferma di difficoltà delle famiglie meridionali a sostenere il livello di spesa, che vanno al di là della congiuntura. Ma che sembrano ulteriormente aggravarsi nella fase più recente, in conseguenza dell’aumento di tensioni inflazionistiche, i cui effetti rischiano di essere particolarmente sensibili per le classi di reddito più basse, come noto concentrate nel Mezzogiorno. Il mancato apporto dei servizi e la questione urbana (a partire da Napoli) Le dinamiche settoriali degli ultimi anni hanno posto in evidenza nel Mezzogiorno una sostanziale tenuta del settore industriale, che si è mantenuto sui ritmi di crescita, seppur modesti, del Centro-Nord e una assai più modesta dinamica dei servizi. Un quadro che però rischia di peggiorare ulteriormente nei prossimi mesi in considerazione delle difficoltà congiunturali che anche il settore manifatturiero del Sud sembra mostrare nella prima parte del 2008, come mostrato dall’andamento dell’occupazione che nel primo trimestre del 2008 ha fatto segnare una contrazione del 4,9%. La crisi di alcuni distretti del Sud (divano in Puglia) e le difficoltà di alcuni grandi impianti a rischio di delocalizzazione rappresentano la spia di un aggravamento 7 di difficoltà competitive di natura strutturale, sulle quali avremo modo di tornare in seguito Quanto ai servizi, anche le più recenti informazioni riguardo, ad esempio, all’andamento del settore commerciale confermano e aggravano le prospettive di un settore fortemente depresso dalla incapacità delle famiglie meridionali di mantenere gli standard di consumo; difficoltà ulteriormente aggravate dalla accresciuta dinamica inflazionistica che rischia di far sentire i propri effetti proprio sulle famiglie a più basso reddito. Come anticipato, anche con riferimento al complesso degli anni 2000, la peggiore dinamica del settore dei servizi spiega in larga misura le differenze di crescita tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Il terziario nel Mezzogiorno è cresciuto tra il 2001 e il 2007 ad un tasso pari a meno della metà di quello del Centro-Nord (0,8% contro l’1,7%); nel 2007 la crescita al Sud è meno di un quarto di quella del Nord. l diverso modello di crescita mostrato nelle due aree suggerisce che, mentre nel settore industriale, più esposto alla concorrenza, vi sarebbero stati nel Mezzogiorno primi, anche se insufficienti, recuperi di produttività – specie con la espulsione dal mercato delle imprese più inefficienti nei settori tradizionali – nel settore dei servizi i processi di ristrutturazione, che stanno avvenendo sotto l’impulso dei cambiamenti di regolamentazione e delle forze di mercato che spingono all’utilizzo delle economie di scala, sarebbero in ritardo. I settori dei servizi oltre ad essere meno esposti alla concorrenza internazionale soffrono anche una carente gestione da parte della pubblica amministrazione. Nel caso dei servizi pubblici locali, il processo di privatizzazione, che doveva portare ad aumenti di efficienza, è rimasto spesso incompiuto, e la frammentazione rimane elevata. Peso centrale nello spiegare il mancato sviluppo del terziario di mercato nel Mezzogiorno assume la “questione” delle grandi aree urbane. Le città, nella gran parte delle esperienze europee di questi ultimi decenni, sono il luogo dove si concentrano le funzioni direzionali, le economie di scala del terziario, i mercati e le risorse umane più qualificate e dove quindi si possono moltiplicare gli effetti positivi dello sviluppo. E’ in queste aree che vi è spesso concentrazione di capitale umano e agglomerazione di imprese in settori tecnologicamente avanzati del terziario che presentano in genere tassi di crescita più elevati. Il “potenziale vantaggio urbano” si ribalta, invece, nel Sud in oggettiva “condizione di svantaggio”. Le aree metropolitane meridionali, da potenziali “motori dello sviluppo” divengono luoghi della acutizzazione del disagio sociale, dell’aggravamento delle crisi ambientali, della accentuazione delle difficoltà di partecipazione delle donne al mondo del lavoro. In tale quadro, non si può non citare Napoli, che assume il valore di caso limite e al tempo stesso emblematico della condizione delle grandi aree urbane meridionali. L’immagine dei rifiuti che invadono le strade centrali della Città rappresentano una triste rappresentazione simbolica di alcuni aspetti sociali ed economici che accompagnano e descrivono la inversione dell’idea di città come concentrazione di opportunità e di servizi; fenomeni, la cui risonanza rischia di travolgere nell’immagine interna e internazionale gli sforzi e le esperienze di progresso di molte realtà del Sud. 8 Occorre prendere atto che in città come Napoli l’emergenza non è solo quella della raccolta dei rifiuti ma quella più generale della difficoltà di accesso ai servizi, di degrado del tessuto sociale, di mantenimento della sicurezza. A Napoli è messa a nudo l’inadeguatezza del sistema istituzionale e di governance del fenomeno urbano che caratterizza complessivamente la realtà italiana. Resta in sintesi drammaticamente irrisolto il problema istituzionale del governo metropolitano, che a Napoli per condizioni oggettive, come la impressionante densità insediativa e i gravi problemi ambientali e sociali, appare molto più complesso e difficile che nelle altre realtà metropolitane italiane o europee. Solo in modo emergenziale e per la difesa della immagine del Paese, Napoli diviene elemento di interesse nazionale, essendo rimasti inascoltati, o intrappolati nelle maglie dei richiami al regionalismo costituzionale italiano, gli appelli a varare leggi nazionali dedicate alla più grande conurbazione italiana. 2. LA MANCATA CONVERGENZA DEL SUD IN UNA EUROPA CHE RIDUCE LE DISPARITA’ L’anomalia del Mezzogiorno La creazione di un mercato comune, la costante riduzione delle barriere allo scambio tra paesi, l’intensificarsi del commercio interno accompagnato da una maggiore mobilità dei fattori e, non ultimo, l’uso dei Fondi strutturali come strumento perequativo, sono elementi che hanno sostenuto e contribuito ai processi di convergenza all’interno dell’Unione europea. A livello continentale, infatti, gli ultimi sette anni sono stati caratterizzati da un forte processo di convergenza che ha visto sia le economie dei Nuovi Stati membri, sia le altre regioni dell’obiettivo “Convergenza”, sia pur in maniera più contenuta, crescere assai più della media europea. Fa eccezione in un tale quadro proprio il nostro Mezzogiorno. I risultati economici dell’economia meridionale negli ultimi sette anni sembrano evidenziare non solo che quello che, a fine anni ’90, sembrava un timido processo di convergenza si è arrestato, ma addirittura che il divario ha ripreso ad allargarsi sia nei confronti del resto del Paese sia rispetto alle altre aree deboli dell’Unione. Dal confronto della dinamica nel periodo 2000-2007 del prodotto interno lordo pro capite (espresso in parità di potere d’acquisto) del Mezzogiorno con quella dei paesi deboli dell’Ue a 27, emerge un quadro sconsolante. Il tasso di crescita dell’economia meridionale (2,0% m.a.) è stato meno della metà di quello della Spagna (4,9%), poco più di un terzo di quello dell’Irlanda (5,5%) e meno di un terzo di quello della Grecia (6,2% m.a.). Nel corso dell’ultimo settennio (2000-2007), il prodotto per abitante della Spagna, soprattutto per effetto del contributo di crescita offerto dalle aree deboli, ha superato il livello della Ue a 27 ed è superiore a quello del Mezzogiorno (68,8% della media Ue a 27) di quasi 36 punti percentuali; anche la Grecia (98,6%) ha superato il 9 Sud, e, tra i Nuovi Stati membri, nel 2007, la Slovacchia ha raggiunto il livello di sviluppo del nostro Mezzogiorno, mentre Estonia, Repubblica Ceca e Slovenia lo hanno già superato. Anche i dati analizzati nel Rapporto relativi alle performances di tutte le 267 regioni dell’Europa confermano la “specialità” in negativo delle regioni del Sud. Le aree comprese nell’obiettivo “Convergenza” sono cresciute tra il 2000 e il 2005 ad un tasso del 4,8% medio annuo a fronte del 3,7% medio dell’area. Analizzando nel dettaglio i singoli paesi, la Germania fa registrare un tasso di crescita del PIL nelle regioni “Convergenza” pari al 3%, a fronte del 2,8% delle regioni “Competitività”. Il processo di convergenza è ancora più evidente in Spagna dove le regioni deboli fanno segnare un +6,5% (quasi 5 volte la crescita delle regioni “Convergenza” italiane) superiore di quasi un punto al già sostenuto tasso di crescita delle regioni “Competitività” (+5,8%). Se si considerano le regioni “Convergenza” e quelle in phasing-out − cioè quelle che nel precedente ciclo di programmazione erano Obiettivo 1 −, anche la Grecia evidenzia tassi di crescita più sostenuti nelle regioni in ritardo. In Italia, invece, nel periodo 2000-2005 il tasso di crescita medio annuo del PIL delle regioni italiane rientranti nell’obiettivo “Convergenza” è stato inferiore a quello rilevabile nelle regioni “Competitività e Occupazione”: 1,5% contro 1,7%. Deboli, svantaggiate o sottoutilizzate: è in queste aree che si è giocata in quest’ultimo decennio la partita per lo sviluppo in Europa. Irlanda, Grecia e Spagna hanno deciso di concentrare su queste aree gli interventi e hanno così realizzato salti nel trend di sviluppo. In Italia, invece, il potenziale di sviluppo costituito dalle regioni meridionali è stato troppe volte vissuto e sentito come una zavorra, e non come una risorsa da valorizzare per attivare dinamiche di crescita che possono e devono estendersi a tutto il Paese. Gli indicatori di competitività regionali A fronte di tali performances negative si è cercato di approfondire quali possano essere i fattori che determinano la mancata convergenza delle regioni meridionali. L’analisi condotta mira a costruire una geografia delle regioni europee, costruita sulla base di tre dimensioni: il benessere economico, la situazione di partecipazione ed equilibrio del mercato del lavoro, il livello di sviluppo delle risorse umane e della ricerca scientifica. Sulla base di queste tre dimensioni si è costruito un indicatore denominato «indice di competitività», con il quale si tenta di esprimere una valutazione di sintesi sulla situazione di vantaggio/svantaggio competitivo delle diverse regioni europee. Tale risultato, seppure abbia un’ovvia relazione con aspetti più strutturali dell’economia come il PIL per abitante, integra tali indicazioni con una valutazione degli strumenti soft che un’economia ha a disposizione per fronteggiare le sfide competitive del mercato globale. Secondo l’indicatore relativo all’occupabilità, le regioni del Mezzogiorno tendano a collocarsi su valori inferiori a quelli rilevabili in base al reddito pro capite. Contribuisce a peggiorare sensibilmente la posizione delle regioni meridionali, ad 10 esempio, il tasso di occupazione femminile che in Sicilia, Puglia, Campania e Calabria non raggiunge il 30%, in assoluto il più basso valore riscontrabile in Europa; distante di quasi 10 punti dai valori riscontrabili nelle regioni più deboli della Grecia e della Spagna e di quasi 20 dalle regioni appartenenti ai paesi dell’Est Europa. Il gap con le altre regioni, anche meno sviluppate, dell’Europa risulta particolarmente rilevante nel campo della formazione del capitale umano e della ricerca. Emerge in particolare la scarsità di laureati nelle discipline scientifiche: la quota dei laureati in tali materie sulla popolazione adulta è pari ad appena il 10,4% in Sardegna, al 10,5% in Puglia, al 10,8% in Sicilia. Solo alcune regioni della Romania e del Portogallo hanno indici più bassi. Se confrontiamo le regioni del Sud con quelle dei paesi della Ue a 15 emerge un quadro sconsolante. Il valore più basso in Spagna si rileva nella regione dell’Extremadura con il 21%. Va sottolineato che anche le regioni del Centro-Nord rimangono sotto i valori medi della Ue. Pesa,infine, per le stesse prospettive di crescita del Sud, la scarsità di risorse dedicate alla ricerca e sviluppo, sia in termini di spesa in percentuale del PIL sia in termini di addetti al settore per 1.000 abitanti. Rispetto ad un valore medio nella Ue a 27 pari all’1,8%, le regioni del Mezzogiorno si collocano tutte sotto l’1%,con la sola eccezione della Campania con l’1,2%; i valori minimi si registrano in Calabria con una spesa in R&S pari ad appena lo 0,4% del PIL. Vanno sottolineati i livelli particolarmente elevati nell’indicatore di capitale umano e ricerca scientifica fatti segnare da alcune regioni rientranti nell’obiettivo “Convergenza” ( e quindi caratterizzate da bassi livelli del PIL pro capite) della Germania, della Slovenia, della Repubblica Ceca, regioni che hanno fatto segnare nella fase più recente tassi di crescita particolarmente significativi, a dimostrazione della capacità di attivazione di processi di sviluppo degli investimenti nel capitale umano e nella innovazione. In base all’indice sintetico di potenzialità competitive predisposto dalla SVIMEZ, per tutte le 271 regioni della Ue a 27 sono state costruite diverse classi. Le regioni italiane dell’attuale obiettivo “Convergenza”, restano su valori inferiori al 70% della media europea, denotando una sostanziale staticità se non segnali di declino. Se si considerano le 80 regioni NUTS2 dell’obiettivo “Convergenza”, emerge come l’indicatore sintetico di competitività calcolato collochi le regioni meridionali dal 36 posto in giù in un gruppo composto soltanto da regioni di paesi nuovi entranti, più 3 regioni del Portogallo e 3 della Grecia. L’analisi condotta sembra contrastare con le indicazioni emergenti dall’indicatore utilizzato dalla Ue, di una progressiva uscita di alcune regioni meridionali dalla situazione di debolezza strutturale. L’utilizzazione di un indicatore più complesso, proprio nel caso delle regioni del Sud Italia, determina un abbassamento dei livelli relativi e il recupero di una sostanziale omogeneità del Mezzogiorno, con la sola eccezione dell’Abruzzo. In particolare la posizione delle regioni del Sud risulta particolarmente deficitaria proprio con riferimento agli indicatori di occupabilità e soprattutto di conoscenza e occupazione. 11 3. L’ESIGENZA DI UNA RIDEFINIZIONE DELLA POLITICA PER IL SUD Di fronte ai radicali mutamenti rapidamente impostisi a partire dall’inizio di questo decennio nel quadro macro-economico internazionale, con l’irruzione delle grandi economie emergenti e per l’affermarsi di un mercato globale dei prodotti, delle tecnologie, dei capitali e delle capacità individuali – mutamenti certo non congiunturali ma tali da configurare l’apertura di una vera e propria nuova “fase storica” –, l’economia del Mezzogiorno ha mostrato gravi e sino ad oggi insuperate difficoltà di adeguamento. Il Mezzogiorno è risultato penalizzato più che in passato dai vincoli strutturali afferenti al contesto economico, sociale e ambientale e dalla debolezza del proprio apparato produttivo, mentre non è riuscito a cogliere, se non in assai limitata misura, i nuovi vantaggi competitivi vigenti nella fase attuale, legati principalmente alle capacità di esportazione e all’attrazione degli investimenti esteri. Da ciò sono discesi il ridotto saggio di crescita dell’economia meridionale e il divario di sviluppo sperimentato negli ultimi anni rispetto alle altre aree deboli dell’Unione europea, caratterizzate invece proprio nella fase più recente – come s’è visto – da progressi anche più sostenuti rispetto a quelle forti. Le cause di questo peggiore andamento del Mezzogiorno sono complesse, e rimandano in larga parte al generale prolungato ristagno dell’economia nazionale rispetto al resto d’Europa, o comunque a problemi di dimensione nazionale, ma che assumono per il Sud gravità del tutto particolare, tra cui soprattutto il deficit di qualità ed efficienza della Pubblica Amministrazione, la presenza della criminalità organizzata, il difficile avanzamento della liberalizzazione dei mercati. Né vanno poi sottaciuti i gravi effetti di un “disegno” debole delle politiche generali nazionali in materia di infrastrutture, istruzione, innovazione e ricerca, che – in campi così rilevanti per lo sviluppo – hanno costantemente mancato di adattare intensità e strumenti di intervento in funzione dei divari intercorrenti tra la macroarea debole e quella forte del Paese. Ma certamente l’assenza di risultati soddisfacenti in termini di crescita e di convergenza del Mezzogiorno è in gran parte dovuta anche ad una ridotta efficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, ai fini dell’impulso all’aumento della competitività del territorio e all’adattamento del sistema produttivo meridionale, mediamente così poco “aperto”, alle nuove condizioni dei mercati. Il mancato successo della politica regionale di sviluppo trova spiegazione in primo luogo in una dimensione della spesa pubblica in conto capitale complessiva destinata al Mezzogiorno assai inferiore a quanto programmato. In secondo luogo, in una forte “frammentazione” dell’intervento. Questa è in parte conseguenza implicita di una impostazione – coerente sia con il nuovo quadro istituzionale interno, sia con quello europeo – che affida primaria responsabilità nella conduzione della politica al livello locale, ossia alle Regioni e alle altre Amministrazioni territoriali. Ma costituisce pure, in buona misura, il portato – non inevitabile – della tendenza, spesso prevalente, di ciascuna Regione a programmare di fatto l’intero intervento all’interno dei propri confini amministrativi; e quindi della difficoltà a realizzarsi di una auspicabile più 12 effettiva e stabile cooperazione tra le Regioni del Sud, e di un più forte coordinamento fra esse e l’Amministrazione Centrale, in una prospettiva strategica riferita al Mezzogiorno nella sua dimensione di macroarea. Il mutamento delle condizioni strutturali del quadro macroeconomico internazionale e nazionale, prima richiamate, sembrano peraltro confermare la necessità di un ripensamento dell’importanza assolutamente prevalente a suo tempo assegnata, nella impostazione stessa della politica per il Sud dopo la fine dell’intervento straordinario, ai fattori di contesto e ai soggetti locali. Il dato, già sottolineato, di una quota della spesa pubblica complessiva in conto capitale nazionale destinata al Mezzogiorno decisamente al di sotto di quanto programmato, serve di per sé a smentire l’idea, purtroppo assai diffusa, di un Sud inondato da un fiume di pubbliche risorse, ma sta anche ad indicare come la spesa in conto capitale aggiuntiva (comunitaria e nazionale) in tale area sia valsa negli ultimi anni solo a compensare il deficit di spesa ordinaria. Più precisamente, i dati elaborati dal Dipartimento per le Politiche di sviluppo e Coesione ci mostrano che la quota di spesa pubblica in conto capitale complessivamente effettuata nelle regioni meridionali è passata, con un progressivo declino, dal 40,4% del 2001 al 35,3% nel 2007. Si tratta di un valore non solo ben lontano dal 45% del totale nazionale originariamente fissato in fase di programmazione, ma che, come accade ormai da qualche anno, non eguaglia neppure il “peso naturale” del Mezzogiorno, che può valutarsi nel 38% circa, media tra la sua quota di popolazione (35%) e la quota del suo territorio (40,8%). Tale deludente risultato è stato conseguito con una “spesa aggiuntiva” di circa 12 miliardi di euro 2007 all’anno. La quota di risorse ordinarie destinate alla formazione di capitale nel Mezzogiorno è stata pari nel 2007 ad appena il 21,4% del totale nazionale, inferiore di circa 16 punti al citato peso naturale dell’area, e di quasi 9 punti rispetto all’obiettivo del 30% indicato nei documenti governativi. Partendo da simili valori di spesa ordinaria, risulta evidentemente assai difficile qualsiasi discorso sull’effettiva addizionalità delle risorse, facendo di fatto divenire di scarso fondamento ogni ragionamento sulla quantità delle risorse specificamente dedicate all’accelerazione del progresso del Sud. Il livello assai basso della spesa ordinaria ha avuto sino ad oggi una influenza decisiva nel ridurre l’efficacia della politica di coesione nazionale. Ma a deprimere l’efficacia dell’azione speciale hanno certamente concorso anche le carenze nella qualità degli interventi: la dispersione delle risorse aggiuntive da finalizzare alla accelerazione dello sviluppo sul territorio in una eccessiva molteplicità di interventi; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui. La mancanza di una adeguata capacità di utilizzazione delle risorse stanziate da parte dei soggetti – spesso numerosi – coinvolti nel processo di spesa, si è manifestata anche nel caso degli interventi finanziati dai Fondi strutturali, nonostante che i tempi d’utilizzo delle risorse “europee” siano comunque stati più veloci di quelli dell’intervento ordinario interno. A tale proposito, le informazioni contenute nella 13 Diciottesima relazione annuale sull’esecuzione dei Fondi strutturali della Commissione Europea, dello scorso novembre, pongono in luce, con riferimento all’attuazione dei programmi dell’obiettivo 1 per il ciclo 2000-2006, come l’Italia, a fine 2006, abbia fatto registrare un livello di spesa pari a circa il 62% delle risorse programmate, di quasi 7 punti inferiore alla media della Ue a 15, a fronte di livelli di circa il 75% sia in Germania che in Spagna, e di oltre l’82% in Irlanda. A inizio 2008, le spese del QCS delle Regioni italiane dell’obiettivo 1 sono risultate positivamente accresciute, arrivando all’81% delle risorse programmate, ma circa il 35% della spesa rendicontata è da attribuire ai cosiddetti “progetti coerenti”, cioè progetti che avevano già una copertura in altre risorse nazionali. L’uso di tali progetti è stato particolarmente elevato nel caso degli interventi in infrastrutture; nel settore dei trasporti, ambito di decisiva importanza strategica per il Sud, in base agli ultimi dati disponibili relativi a fine 2006, i progetti coerenti hanno rappresentato circa il 78% della spesa. L’esperienza della fase di programmazione 2000-2006 ha dunque posto in evidenza la necessità di una netta svolta sia per quanto riguarda le modalità di programmazione e la focalizzazione della spesa, sia per quanto riguarda le modalità di realizzazione degli interventi. L’impostazione del nuovo QSN 2007-2013 – pur presentando alcuni significativi elementi di novità, con la focalizzazione su aspetti particolarmente importanti, quali l’istruzione, l’innovazione e la ricerca, l’inclusione sociale, la legalità e sicurezza, e con l’introduzione dello strumento dei cosiddetti “obiettivi di servizio” – si è però mossa ancora all’interno di una sostanziale continuità con la precedente fase di programmazione. Rispetto al percorso sin qui seguito parrebbe invece necessario procedere ad un più forte processo di riforma interna della programmazione, che, pur evitando di determinare “rotture” traumatiche che rischierebbero di ritardare la spesa e di far perdere risorse, ponga più stringenti vincoli alla frammentazione, alla dispersione territoriale e a quell’eccesso di localismi che ha non marginalmente condizionato i risultati delle politiche. L’ingente dotazione finanziaria programmatica (circa 100 miliardi di euro per l’intero periodo) costituisce certo un presupposto importante, cui deve seguire però una maggiore capacità di concentrare gli interventi su un minor numero di ambiti e su obiettivi chiave di grande rilevanza, secondo un piano di priorità costruito non come sommatoria di richieste dal basso, ma secondo un ben organizzato sistema di responsabilità dei livelli di governo. Anche in questo federalismo spesso “confuso”, occorre individuare i livelli più opportuni – locale, regionale, di cooperazione interregionale, centrale – ai quali definire la programmazione, la realizzazione e il finanziamento di iniziative che siano destinate alle priorità, soprattutto nel campo dell’infrastrutturazione strategica, più strettamente connesse con la realizzazione delle condizioni necessarie per la crescita della produttività delle imprese esistenti e per l’attrazione degli investimenti esteri. 14 4. SUI PRINCIPI DI ATTUAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE Rispetto all’insieme dei problemi che definiscono oggi la questione meridionale, i problemi dell’assetto istituzionale della Repubblica d’Italia appaiono della massima importanza. La SVIMEZ ritiene al riguardo che, con la riforma del Titolo V avvenuta nel 2001, sono stati introdotti in Italia istituti importanti, anche in materia di finanza degli Enti territoriali (art. 119 della Costituzione), che debbono essere intesi nella loro effettiva valenza ed attuati in modo corretto in tempi brevi, per por fine alla situazione paradossale in cui si trova ad operare il nostro sistema democratico. Questo impegnativo compito comporta che si abbia piena consapevolezza del fatto che le norme dell’art. 119 non sono alcunché di separato dal resto della Costituzione; è del tutto necessario connetterle ai contenuti (tra l’altro) degli artt. 3 (uguaglianza di fatto dei cittadini) e 53 (affermazione del punto che vi è in Italia un solo sistema tributario e che esso ha il carattere della progressività) della Costituzione. Il tema più controverso e più controvertibile è quello del finanziamento degli Enti territoriali, o per dire meglio, del finanziamento delle funzioni pubbliche che sono ad essi attribuite, il così detto “federalismo fiscale”. Rispetto ad esso vanno posti con forza due punti. Occorre, in primo luogo, avere chiaro che qualsivoglia regime si voglia introdurre deve essere compatibile con la tenuta dei bilanci degli Enti territoriali (questione della sostenibilità finanziaria della riforma). Sembra del tutto evidente che i commi 2, 3 e 4 dell’art. 119 definiscono per ciascun Ente un insieme complessivo di risorse e lo pongono a fronte di un fabbisogno: ciò attiene alle condizioni di tenuta dei bilanci di tutti gli Enti territoriali e di ciascuno di essi individualmente considerato. Come indicato dalla SVIMEZ in questi anni e ripetuto in questo Rapporto, il fabbisogno va riferito al livello normale delle attività attribuite agli Enti territoriali: dice, infatti, il comma 5 dell’articolo in questione che, per quanto concerne “scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni degli Enti” debba farsi ricorso, ove ricorrano le ragioni indicate in detto comma, a “risorse aggiuntive ed interventi speciali”. In sostanza, lo Stato provvede, in base al comma 5, a ciò che va oltre i normali bisogni, nell’assunto che a questo livello normale già si provveda secondo le indicazioni dei commi 2, 3 e 4 dell’articolo. A questa lettura delle norme costituzionali si oppone l’idea che, stabilito il fabbisogno di ciascun Ente, si attribuisca poi alle collettività più ricche risorse superiori ad esso, producendo la conseguenza che l’insieme dei mezzi che restano disponibili per le altre (compresi entrate e tributi propri che gli Enti stessi conferiscono) non risulti bastevole per gli Enti delle zone più povere. Ciò attraverso operazioni di mera “appropriazione” delle risorse che ciascuno di noi, dovunque risieda e in condizioni di uguaglianza, è tenuto a versare per concorrere alle spese dello Stato (art. 53 della Costituzione). La pretesa dei territori più ricchi all’appropriazione (restituzione), che è implicita nelle proposte di attuazione dell’art. 119 della Costituzione fin qui prevalenti, è in contrasto con le norme citate 15 (art. 119, commi 2, 3 e 4) e compromette il principio della sostenibilità finanziaria della riforma “federale”. Il secondo punto è quello dell’autonomia, definita come il potere di variare il livello dei servizi e in modo concomitante le pertinenti entrate. Questo potere è da intendersi riferito all’offerta di ulteriori servizi oltre quelli rientranti nelle “funzioni normali”. Ove, invece, esso dovesse essere esercitato dagli Enti a minore capacità fiscale per la copertura delle “funzioni normali”, non adeguatamente assicurata in base all’interpretazione di cui si è detto, sarebbe negata di fatto a tali Enti l’autonomia che le nuove norme costituzionali prevedono (comma 1, art. 119). L’effettiva attuazione della riforma costituzionale, con l’attribuzione di maggiori funzioni e di autonomia di entrata e di spesa agli Enti territoriali, implica anche la considerazione del ruolo e delle responsabilità dello Stato nel nuovo contesto: minore per ampiezza di funzioni ma con una valenza maggiore ai fini della tenuta dell’intero sistema. Al riguardo sono da salvaguardare due principi. In primo luogo, vale sul piano costituzionale ed ancora di più nella convinzione dei cittadini l’impegno dello Stato in materia di diritti fondamentali delle persone (principio dello Stato assicuratore di ultima istanza). Spetta al Governo centrale, tra l’altro, il potere di “sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni quando lo richiedono la tutela dell’unità economica d’Italia ed in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali” (art. 120, comma 2, della Costituzione). Su questa base hanno avuto luogo gli interventi per l’emergenza rifiuti in Campania e per la copertura dei disavanzi sanitari di alcune Regioni; su questa base vanno applicate le norme del Testo unico degli Enti locali (art. 244) riferite, tra l’altro, all’ipotesi del dissesto. Va nella stessa direzione la previsione di interventi dello Stato “volti a promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, a rimuovere gli squilibri economici e sociali, a favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona”, che è affermata nel comma 5 dell’art. 119 della Costituzione. Il secondo principio è quello dello Stato garante di ultima istanza. In realtà, la tenuta complessiva del nostro sistema democratico e civile è affidata al sistema pubblico nel suo complesso (alla Repubblica) ed, in ultima analisi, a ciascuno di noi, individualmente considerato, nei limiti dei suoi poteri e delle sue responsabilità. Nel sistema è tuttavia preminente, e si esprime nell’ordinamento costituzionale - tra l’altro, attraverso il precetto in base al quale la tutela ultima (di ultima istanza) dell’unità giuridica d’Italia spetta allo Stato - un ruolo forte dell’Ente centrale e, per esso, del Parlamento e del Governo della Repubblica. Ciò vale specificatamente per la tenuta del quadro macroeconomico, per la legislazione elettorale e, sia pure con specificazioni e distinguo, per il sistema contabile, amministrativo e tributario. La concorrenza, la competizione tra gli individui per l’acquisizione e l’uso delle risorse, deve svolgersi, pertanto, entro un quadro di regole della cui correttezza e sostanziale “fairness” lo Stato è in ultima istanza garante. Ciò vale per il sistema nel suo complesso, ma vale anche per il segmento di esso cui è fatto riferimento attraverso 16 l’espressione “federalismo fiscale”. I comportamenti dei poteri decentrati, in termini di servizi forniti, spesa erogata, trattamento fiscale dei cittadini e delle imprese, vanno a determinare l’ambiente (inteso nel senso più generale) in cui l’attività economica si svolge. Ciò che questo Rapporto ampiamente mostra è che l’attuale situazione non soltanto non aiuta, nella direzione di un sostegno effettivo allo sviluppo delle parti deboli d’Italia, ma costituisce esso stesso un ulteriore handicap. 5. I RIFLESSI DELLA BASSA CRESCITA SULLA SOCIETÀ MERIDIONALE Vecchie e nuove povertà L’evoluzione tendenzialmente divergente dai ritmi di crescita degli altri paesi europei che caratterizza l’Italia ed al suo interno le regioni del Mezzogiorno negli anni duemila sta gradualmente aumentando le condizioni di rischio e disagio di fasce sempre più ampie della popolazione. Bassa crescita, domanda di lavoro e/o produttività stagnante sono fattori determinanti di questa evoluzione. Una lettura più attenta delle disuguaglianze presenti nel Mezzogiorno consente di evidenziare accanto agli effetti del mancato sviluppo, anche, all’inverso, gli effetti che un incremento della deprivazione delle famiglie e della diseguaglianza dei redditi può esercitare nel deprimere le stesse potenzialità di crescita di un’area. Richiamare l’esistenza di un forte nesso tra equità e crescita consente di leggere le trasformazioni dell’economia e della società meridionale in una ottica più ampia che va al di la degli aspetti legati all’accumulazione del capitale produttivo e che attiene anche alla più ampia accezione di capitale sociale. L’insufficiente grado di coesione sociale, l’incertezza dei diritti di proprietà, l’inefficienza delle Amministrazioni pubbliche, l’illegalità diffusa e la relativa minore efficacia delle politiche pubbliche concorrono ad ostacolare contemporaneamente sia la crescita della produttività, sia il conseguimento di più alti livelli di eguaglianza dei redditi e di migliori condizioni di vita. Le regioni meridionali,oltre a presentare un minor livello di benessere, mostrano anche un più alto grado di disuguaglianza distributiva rispetto alle regioni del Centro-Nord. In particolare, Campania, Calabria e Sicilia risultano in fondo alla classifica, insieme ai paesi più diseguali d’Europa (Grecia, Portogallo, Lituania e Lettonia). Una sperequata distribuzione del reddito espone molte famiglie al rischio povertà, soprattutto in conseguenza di congiunture negative quale quella che caratterizza il nostro Paese nella fase più recente. L’esistenza a livello nazionale di una “questione salariale” si acuisce fortemente nel Mezzogiorno, dove ormai anche famiglie in cui è presente un percettore di reddito, in passato estranee al rischio di cadere in povertà, evidenziano disagio nel far fronte a bisogni di carattere ordinario. Significativo appare il fatto che nel Mezzogiorno oltre la metà delle famiglie 17 monoreddito (51,6%) risultano esposte al rischio di povertà, rispetto al 28,6% nel Centro-Nord. Nel Sud il 18% delle famiglie percepisce meno di 1.000 euro al mese (sono il 7% nel Centro-Nord); ad esse si aggiunge un ulteriore 20% circa che guadagna tra i 1.000 e i 1.500 euro. In tutte le regioni del Mezzogiorno è relativamente più frequente una collocazione nel segmento più povero della distribuzione dei redditi (e, simmetricamente, meno frequente l’appartenenza al quinto più ricco). I bassi tassi di occupazione, soprattutto femminile, che caratterizzano il Mezzogiorno fanno sì che a parità di numero di percettori, le famiglie meridionali siano più numerose e, quindi, con più familiari a carico. Al di la degli indicatori monetari, la condizione di disagio e vulnerabilità delle regioni meridionali può cogliersi con riferimento ad alcune indicazioni concrete. Il 10% delle famiglie del Mezzogiorno, più del doppio delle famiglie del Centro-Nord, dichiara di non potersi permettere un pasto adeguato almeno tre volte alla settimana. Il 20,9% delle famiglie del Mezzogiorno afferma, inoltre, di non potersi permettere di riscaldare adeguatamente l’abitazione, rispetto al 5,4% del Centro-Nord. Nel Mezzogiorno, il 19,3% delle famiglie ha avuto periodi (anche una volta soltanto nell’anno) in cui non aveva soldi sufficienti per l’acquisto di medicinali (il 6,1% delle famiglie al Centro-Nord). Il 28,6% delle famiglie non ha potuto acquistare i vestiti di cui necessitava, l’8,2% delle famiglie con figli in età scolare non aveva soldi per la scuola, il 12,8% delle famiglie non aveva sempre denaro sufficiente per i trasporti e il 24,3% ha dichiarato di non avere avuto abbastanza soldi per pagare le tasse. Le famiglie residenti in Sicilia, Campania e Calabria sono, fra le regioni del Mezzogiorno, quelle con le percentuali di disagio più elevate. Il ritardo nei pagamenti delle utenze, delle rate del mutuo, dell’affitto o dei debiti contratti con il credito al consumo, rappresenta una condizione di forte disagio economico delle famiglie. Nel Mezzogiorno le famiglie in disagio risultano, tranne nel caso del pagamento del mutuo, quasi il doppio di quelle del Centro-Nord. Le condizioni oggettive di deprivazione delle famiglie trovano conferma negli indicatori soggettivi relativi alla percezione delle famiglie delle difficoltà ad arrivare a fine mese, nel sostenere una spesa imprevista, nel risparmiare o nel riuscire ad avere una settimana di ferie in un anno. Le minori opportunità di occupazione sono uno dei fattori determinanti del rischio di povertà. Il 51,1% dei disoccupati nel Mezzogiorno è esposto al rischio di povertà rispetto al 26,2% nel Centro-Nord, così come risultano più elevati i rischi per gli altri inoccupati (casalinghe, studenti, inabili al lavoro, “in altra condizione”), compresi in parte i ritirati dal lavoro. Accanto alla quantità un ruolo importante ricopre la qualità del lavoro. Se la flessibilità nel mercato del lavoro consente solo di trasferire una parte della disoccupazione in lavori precari o a bassa retribuzione, l’esposizione al rischio di povertà rimane comunque elevata. Un altro rilevante fattore di rischio è costituito dalla scarsa formazione del capitale umano: nel Mezzogiorno il 40,6% di chi possiede un’istruzione elementare o nessun titolo risulta esposto al rischio di povertà, rispetto al 18,1% del Centro-Nord. In 18 quest’ultima area, il 7,5% di chi ha conseguito un diploma di scuola superiore si trova in condizione di basso reddito, mentre nel Mezzogiorno quasi un terzo (31,5%) dei diplomati non ha redditi sufficienti. Neanche il conseguimento della laurea garantisce comunque di raggiungere sempre livelli di reddito adeguati: il 9,4% dei laureati residenti nel Mezzogiorno e il 4% di quelli del Centro-Nord sono esposti al rischio di povertà. In presenza di un forte squilibrio nella distribuzione primaria, la redistribuzione operata dal sistema di tasse e benefici non riesce a compensare le disparità in misura sufficiente, sia per mancanza di risorse finanziarie, sia per i possibili ritardi e per le incoerenze delle politiche sociali Il sistema di Welfare italiano resta legato al vecchio modello fordista, caratterizzandosi per una elevata copertura del rischio di perdita del reddito connesso prevalentemente ai raggiunti limiti di età degli occupati regolari, e prevedendo uno scarso grado di protezione per le famiglie, l’infanzia e la disoccupazione e nessun tipo di prestazione per i giovani in cerca di prima occupazione o con lavori irregolari. Una rimodulazione delle politiche sociali si rende pertanto indispensabile per contrastare gli effetti negativi dei ben noti vincoli che penalizzano gli individui, le famiglie e le imprese del nostro Paese. L’invecchiamento della popolazione è probabilmente il vincolo più pesante, sia nell’immediato che in prospettiva. Le conseguenze negative che ne derivano sono molteplici ed incidono sia in termini di spesa previdenziale, sia in termini di capacità contributiva al sistema e di riassetto del sistema di protezione sociale. La progressiva partecipazione femminile al mercato del lavoro, a partire dai livelli decisamente arretrati rispetto alla media Ue, ha acuito il problema di una disponibilità di servizi spesso insufficienti. Le famiglie stanno perdendo gradualmente il loro ruolo di rete di supporto, tradizionalmente affidato alle donne, vale a dire la loro capacità di farsi carico dell’assistenza ai bambini, agli anziani e alle persone con disabilità (destinate ad aumentare). Questo scenario richiede al sistema di protezione sociale sia l’attivazione dei tradizionali strumenti di sostegno al reddito, attraverso i trasferimenti monetari ai lavoratori disoccupati o alle famiglie in condizioni di disagio, sia l’attuazione di politiche attive che favoriscano tanto la conciliazione della famiglia con il lavoro, quanto l’ampliamento dell’offerta di servizi di assistenza agli anziani. Nel dibattito sulla riforma del Welfare non si può comunque prescindere dalla considerazione delle profonde differenze che, in un’economia dualistica qual è ancora l’Italia, permangono nella distribuzione delle risorse e dei bisogni tra le due aree del Paese. Un esempio della scarsa coerenza del riassetto del Welfare italiano è il fatto che importanti liberalizzazioni, come quelle dei mercati del lavoro e degli affitti, non siano state accompagnate da sufficienti misure di salvaguardia dei soggetti più vulnerabili dalle conseguenze prevedibili delle riforme. Gli interventi per la disoccupazione e le politiche abitative sono in Italia al di sotto degli standard dei paesi europei più avanzati. Né è stato possibile, in un quadro di preoccupante declino demografico e di crescente disagio delle famiglie con minori, adottare politiche familiari più razionali e 19 incisive, con pesanti ricadute in termini di occupazione femminile e, per le famiglie a reddito insufficiente, di povertà minorile. Per quanto riguarda i ritardi in materia di lotta alla povertà estrema, anche questi più volte segnalati da numerosi osservatori, si deve ricordare ancora una volta che l’Italia è uno dei pochi paesi europei a non avere misure universali di integrazione dei redditi insufficienti a garantire uno standard di vita minimo. Il Sud tra immobilità interna e nuove migrazioni verso il Nord Le situazioni di crescente disagio economico e sociale si riflettono anche sui fenomeni di mobilità territoriale. Il carattere dualistico del mercato del lavoro italiano determina una caratterizzazione patologica di fenomeni di per sé fisiologici come i trasferimenti di residenza o il pendolarismo. Il Centro-Nord emerge come un’area caratterizzata da un’elevata mobilità interna multidirezionale; un modello molto simile a quello prevalente nei paesi ad elevata industrializzazione, in cui una elevata mobilità interna si associa ad un consistente flusso in entrata di immigrati dall’estero e dal Mezzogiorno. Nell’area meridionale, al contrario, gli spostamenti di breve e medio raggio sono assai minori, e si limitano per lo più a spostamenti di figure professionali di basso livello all’interno della stessa città o provincia. Il fatto che tra le regioni meridionali ci siano limitati scambi e trasferimenti di forze lavoro temporanee o permanenti è dovuto principalmente ad una generalizzata carenza di occasioni di impiego, che tende ad alimentare la staticità del sistema e la fuoriuscita di risorse umane non assimilabili nell’area. Un sistema quindi di sostanziale immobilità negli spostamenti di piccolo e medio raggio, cui invece fa riscontro una elevata mobilità di lungo raggio verso il Centro-Nord, che solo parzialmente si riflette nei cambi di residenza, in quanto in larga misura si caratterizza per un pendolarismo Sud-Nord. La consistenza di trasferimenti di lungo raggio unidirezionali (con cambio di residenza o attraverso pendolarismo) tra le due macro-regioni dell’Italia costituisce un fatto unico tra i paesi europei. Le dimensioni complessive del fenomeno assumono negli ultimi anni una forte rilevanza. Per quanto riguarda i trasferimenti di residenza, i flussi in uscita dal Sud verso il Centro-Nord si sono attestati intorno alle 120 mila unità nel biennio 2004- 2005, per poi continuare a crescere, seppur lievemente, nel successivo biennio 2006- 2007. Mentre i trasferimenti dal Centro-Nord al Mezzogiorno negli ultimi venti anni sono rimasti sostanzialmente stabili – nell’ordine delle 65 mila unità e segnati da rientri di persone in età pensionabile o giovani al termine del ciclo di studi – tra il 1997 e il 2007 oltre 600 mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno. Ma la cosa più rilevante è che la gran parte di coloro che si sposta è costituito da forza lavoro giovane e ad elevata scolarità. Sono proprio questi aspetti qualitativi che assumono particolare valenza in un’ottica di effetti di tale fuoriuscita di capitale umano sulle potenzialità di sviluppo dell’area. 20 Una analisi più complessiva del fenomeno della ripresa delle migrazioni Sud- Nord non può non tenere conto, come detto, della “nuova migrazione” costituita dal pendolarismo di lungo raggio. Una modalità di spostamento per motivi di lavoro che ha assunto negli ultimi anni una elevata consistenza e che riflette la maggiore precarietà dei rapporti di lavoro nelle regioni di destinazione del Centro-Nord, nonché gli elevati costi di insediamento in quelle aree. Nel 2007 gli occupati residenti nel Mezzogiorno ma con un posto di lavoro nelle regioni centrali e settentrionali erano 150.000, pari al 2,3% degli occupati residenti nel Sud e nelle Isole, dato sostanzialmente simile a quello del 2006. I posti di lavoro del Mezzogiorno, in altri termini, sono in numero assai inferiore a quello degli occupati. La carenza di domanda di lavoro nel Mezzogiorno di figure professionali di livello medio-alto costituisce la principale spinta all’emigrazione. La crescente offerta di rapporti di lavoro temporanei e la crescita dei costi delle abitazioni spinge moltissimi lavoratori a non trasferire la propria residenza, dando così origine a una migrazione “precaria”, percepita come condizione transitoria e legata alla fase di ingresso e assestamento nel mercato del lavoro. Non a caso i pendolari meridionali sono per lo più giovani: oltre l’80% dei pendolari meridionali, infatti, ha meno di 45 anni; quasi il 50% svolge professioni di livello elevato, mentre il 40% ricopre posizioni di livello intermedio. La perdita di tali professionalità per il Sud, prezioso capitale umano giovane e formato, diventa doppiamente penalizzante, in quanto determina da un lato il fallimento economico dell’investimento formativo e dall’altro la mancanza di energie e di competenze in loco necessarie per innescare un processo di sviluppo autonomo e autopropulsivo. 6. L’INDUSTRIA DEL SUD NEL MERCATO GLOBALE Per una ripresa dell’economia nel Mezzogiorno rimane centrale l’ulteriore avanzamento del processo di industrializzazione1, da cui può venire un contributo determinante all’innalzamento del grado di apertura del sistema verso l’estero. Nel nuovo contesto, di un mercato sempre più globale dei prodotti, della tecnologia e, soprattutto dei capitali, il saggio di crescita di un’economia è infatti tanto più elevato quanto più il sistema è aperto ed è in grado di esportare beni e servizi, e quanto più è capace di attrarre investimenti dall’estero. Le due condizioni testimoniano di una raggiunta efficienza produttiva, di un buon livello di profitti, di un clima favorevole alla vita delle imprese, di un’alta fiducia per produttori e investitori. 1 Con riferimento al gap di industrializzazione del Mezzogiorno, si può ricordare che nel 2005, in base ai dati più recenti dell’archivio ASIA, gli addetti nelle unità locali delle imprese nell’industria e servizi del Sud sono risultati 274 ogni 1.000 residenti in età di lavoro (di età compresa tra 15 e 64 anni), a fronte dei 519 del Centro-Nord. 21 Il grado di apertura verso l’estero è strutturalmente molto più basso nelle regioni meridionali rispetto a quello del Centro-Nord, ma per un certo periodo, in particolare nella seconda metà degli anni ‘90, le esportazioni sono cresciute ad un tasso superiore a quello del resto del Paese, determinando una tendenza al riavvicinamento. In quel periodo, la crescita dell’export meridionale è stata più intensa anche nei comparti tradizionali. A partire dai primi anni di questo decennio, tuttavia, la tendenza alla convergenza si è arrestata. Con riferimento al più recente biennio 2006-2007, le esportazioni italiane hanno mostrato una rinnovata ed inattesa vitalità che ha interessato entrambe le aree, ma con qualche differenziazione: nel Sud, diversamente che nel Centro-Nord, essa non si è diffusa alle produzioni tradizionali, nelle quali sono comprese essenzialmente le produzioni del made in Italy, per lo più operanti in imprese di piccola dimensione. Nel Mezzogiorno i settori tradizionali - che presentano una specializzazione produttiva più sensibile all’accresciuta concorrenza dei paesi emergenti - hanno registrato dinamiche meno favorevoli. Il loro peso sul totale delle esportazioni manifatturiere si è fortemente ridotto, passando dal 29,3% degli anni 2001-2003 al 19,6% registrato nel 2007. Tali andamenti hanno coinciso con le difficoltà di sistemi produttivi di piccole imprese locali particolarmente dinamici fino alla fine degli anni ’90, ma fortemente inadeguati ad affrontare la crescente competitività internazionale. Soprattutto nei sistemi produttivi del Sud, in coerenza con quanto accade nei distretti del Nord, è proprio la dimensione a fare la differenza e, quindi, a spiegare le diverse performances. I sistemi produttivi che presentano al loro interno imprese leader di maggiori dimensioni registrano i risultati migliori, quelli caratterizzati dalla presenza di piccole imprese locali appaiono in crisi. Le difficoltà incontrate dalle imprese tradizionali meridionali sono da ricercare, in primo luogo, nella loro attitudine ad entrare ed uscire dai mercati esteri in funzione di variazioni del ciclo e dei prezzi relativi. Tale comportamento segnala evidenti criticità di queste unità produttive nel radicarsi nei mercati, ed una conseguente fragilità delle loro quote di mercato. Le produzioni che hanno fatto da driver all’export meridionale (autoveicoli, altri mezzi di trasporto, prodotti raffinati) sono quelle con forti economie di scala, quasi prevalentemente costituite da grandi imprese, a proprietà esterna all’area e per le quali è più elevata la domanda a livello mondiale. Esse costituiscono un punto di forza dell’apparato produttivo meridionale: il loro peso sul totale delle esportazioni manifatturiere, già pari a circa il 50% negli anni 2001-2003, è salito al 60,9% nel 2007, a fronte del 38,7% nel Centro-Nord. Molte di queste imprese si sono localizzate nel Mezzogiorno tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ‘60, quando venne avviato il “secondo tempo” dell’intervento straordinario, basato su una politica di industrializzazione trainata dalle Partecipazioni statali e dalle grandi imprese del Centro-Nord. Nell’ambito del processo di ristrutturazione avviato dal sistema industriale italiano per far fronte alle crescenti pressioni competitive, un ruolo centrale hanno avuto le medie imprese largamente specializzate nei settori tipici del made in Italy 22 (comprendenti le produzioni tradizionali e la meccanica strumentale). Le brillanti performances delle medie imprese sono messe in luce dall’ultima Indagine Mediobanca-Unioncamere2 , che analizza le società di capitale aventi una forza lavoro tra i 50 e i 499 addetti e un fatturato tra i 13 e i 290 milioni di euro. Da tale analisi emerge come le medie imprese italiane, circa 4.000, siano divenute il punto di forza dell’apparato produttivo nazionale, sotto il profilo della competitività, solidità finanziaria e redditività. Nel Rapporto SVIMEZ di quest’anno è stata condotta un’analisi territoriale dei dati (relativi al 2005) messi a disposizione da Mediobanca, che ha posto in luce come anche nel Sud vi sia la presenza di un nucleo di medie imprese dinamiche, anche se in numero relativamente assai ridotto (333, pari all’8,2% del totale nazionale). Nel Mezzogiorno le medie imprese si caratterizzano per una redditività superiore a quella generalmente conseguita dalle piccole imprese dell’area e per una dinamica (1996-2005) delle principali grandezze economiche (fatturato, valore aggiunto capitale investito tangibile, investimenti) migliore di quella delle medie imprese nazionali. Esse ricoprono un ruolo di primo piano, poiché consentono al sistema delle piccole imprese e, talora, anche all’artigianato di “qualità”, di competere nei mercati internazionali. La media impresa industriale è, infatti, un’impresa “a rete”, che organizza e collega il lavoro di una pluralità di aziende, prevalentemente di piccola dimensione, con i mercati di consumo dell’economia globale. I dati pongono in luce una propensione all’export relativamente minore delle medie imprese meridionali. Tale circostanza si può rilevare dal confronto della quota di export detenuta dalle medie imprese meridionali sul totale di quelle italiane (pari al 4,7%) e il loro peso in termini di numero di aziende (pari, come detto, all’8% del totale nazionale). La loro relativamente minore capacità esportativa rispetto a quella delle altre imprese potrebbe, inoltre, essere il riflesso, nel Mezzogiorno, di una generale difficoltà delle piccole imprese operanti nella “rete” organizzata dalle medie di aprirsi sui mercati e del fatto che, almeno in parte, queste ultime abbiano forme di integrazione con imprese del Centro-Nord, che sfuggono alle rilevazioni. Passando a considerare l’altro aspetto che caratterizza l’apertura di un economia verso l’estero, vale a dire la capacità di un’area di attrarre investimenti diretti esteri, va sottolineato come nell’attuale contesto di crescente globalizzazione, gli investimenti diretti esteri (IDE), sono sempre più considerati come uno dei fattori strategici soprattutto per il loro contributo allo sviluppo delle aree in ritardo. In particolare, l’insediamento di un primo gruppo industriale estero può attirare altre imprese operanti nello stesso settore, innescando un circolo virtuoso di crescita che si autoalimenta. Secondariamente, gli investimenti esteri possono innescare processi di spin-off per le imprese locali, favorire la formazione di filiere produttive, sostenere la crescita dimensionale delle PMI, e non ultimo contribuire a determinare uno spostamento della struttura produttiva verso i settori più innovativi e dove la domanda mondiale è più dinamica. 2 Mediobanca-Unioncamere, Le medie imprese industriali italiane (1996-2005), Milano-Roma, 2008. 23 Ma l’Italia non è in grado di intercettare significativi flussi di investimenti esteri. I dati sull’incidenza degli IDE, sul PIL o sugli investimenti fissi lordi, mostrano quote notevolmente più basse della media europea, nonostante la modesta accelerazione dei flussi netti in entrata negli ultimi anni. Nel triennio 2004-2006, il rapporto tra IDE e PIL si attesta all’1,8%, nel nostro Paese, a fronte del 3,7% della media dell’Ue a 25; quello tra IDE e investimenti fissi (pari all’6,6%), pone l’Italia nettamente al di sotto della media europea a 25 (14,4%) e in coda ai principali competitori internazionali. Il divario rimane elevato sia rispetto a grandi paesi, come la Francia e il Regno Unito (che hanno attirato flussi di IDE pari nell’ordine al 3,7% e 7,1% dei PIL nazionali e al 14,6% e 32,1% dei rispettivi investimenti), sia rispetto a paesi più piccoli ma tradizionalmente considerati a forte attrattività di IDE, come l’Irlanda e i Paesi Bassi (i cui flussi di IDE rappresentano rispettivamente il 6,9% e 3,1%, dei loro PIL, e il 21,1% e 12,7%, degli investimenti), sia ancora rispetto a un grande paese dell’Est, come la Polonia, che ha attratto IDE pari al 5,1% del proprio PIL e al 21% degli investimenti nazionali. A livello territoriale, inoltre, la distribuzione degli IDE è totalmente sbilanciata a favore delle grandi regioni del Centro-Nord: nel biennio 2005-2006 (ultimi anni per i quali si dispone di informazioni), i flussi in entrata nel Mezzogiorno non hanno raggiunto l’1% dell’aggregato nazionale. I due aspetti della internazionalizzazione, esportazioni ed IDE, sono tra di loro correlati. Nel Rapporto di quest’anno è stata condotta un’analisi che ha attinto alle statistiche della banca dati Reprint, dalla quale emerge nel Mezzogiorno il ruolo cruciale della presenza delle imprese a partecipazione estera anche nel favorire la crescita delle esportazioni. Le regioni e le industrie nelle quali è più elevato il “grado di multinazionalità” (misurato come rapporto tra gli addetti negli stabilimenti di imprese a partecipazione estera e gli addetti nelle unità locali manifatturiere), infatti, sono anche quelle caratterizzate sia da più elevati livelli di propensione a esportare (espressa dal valore medio delle esportazioni per addetto), sia da una maggiore capacità di tenuta delle relative quote di export nel periodo 2003-2007. Ciò sembra confermare il ruolo di stimolo diretto e indiretto che le multinazionali esercitano verso una maggiore apertura internazionale delle aree in cui si insediano. In particolare, la presenza delle multinazionali nel Sud appare trascurabile nei settori tradizionali del tessile-abbigliamento, cuoio-calzature e legno. E’ questo un ulteriore indizio di come nel Sud, a differenza che nel resto del Paese, i settori tradizionali siano prevalentemente costituiti da aziende scarsamente attrattive per gli investitori internazionali. In altre parole, mentre i sistemi di piccola impresa locale, specializzati nei settori tradizionali dei beni di consumo per la persona e per la casa, sembrano tuttora attraversare nel Mezzogiorno una crisi più grave che in altre aree del Paese, le esportazioni dei settori caratterizzati da una forte presenza di imprese estere hanno conseguito risultati generalmente migliori, sostenendo la crescita complessiva della ripartizione. 24 7. L’ASSENZA DELLE POLITICHE PER L’INTERNAZIONALIZZAZIONE In un quadro caratterizzato da una bassa propensione ad esportare delle imprese meridionali, soprattutto di piccola e media dimensione, e da una capacità di attrazione di investimenti esteri dell’area di gran lunga inferiore al suo potenziale, si può legittimamente ritenere che le politiche possano giocare un ruolo rilevante. Per quanto riguarda le politiche di sostegno all’export, è importante favorire le imprese meridionali, seppure relativamente poche, che già hanno avviato un’attività di esportazione, ma soprattutto occorre contribuire a creare le condizioni affinché un numero sempre maggiore di imprese decida di accedere ai mercati esteri. A tal fine, si pone, a nostro avviso, l’esigenza di spostare l’azione pubblica su un piano di intervento più ampio, che comprenda oltre alle tradizionali politiche commerciali anche azioni di contorno, quali la promozione di filiere di prodotti, l’incentivazione delle operazioni di cooperazione e di aggregazione tra imprese, la tutela del made in Italy dalle contraffazioni, il finanziamento delle attività di informazione e di consulenza alle imprese, il sostegno alla formazione. Tuttavia, una riforma sostanziale degli strumenti di incentivazione non è stata ancora realizzata, e dal lato quantitativo si osserva una compressione dell’intervento pubblico. L’analisi sull’accesso agli strumenti nazionali e conferiti alle Regioni per il sostegno all’export nel periodo 2003-2006 (tra cui i principali sono il decreto legislativo 143/1998 - ex legge “Ossola”; la legge 394/1981 - penetrazione commerciale all’estero; la legge 100/1990 - crediti agevolati per imprese miste all’estero; la legge 304/1990 - gare internazionali) mostra, infatti, come, in Italia, le agevolazioni si siano progressivamente ridotte: dagli oltre 500 milioni di euro del 2003, esse sono infatti scese a poco più di 300 milioni nel biennio 2005-2006. Pur in un quadro di risorse per l’export complessivamente calanti, nel Centro- Nord il sostegno all’internazionalizzazione si è comunque confermato anche negli ultimi anni come uno dei principali obiettivi delle politiche di incentivazione. Il suo peso relativo sul complesso delle agevolazioni concesse nell’area è andato continuamente rafforzandosi: dal 21% al 26% tra il 2003 e il 2006. Di converso, verso il Mezzogiorno sono stati indirizzati incentivi a sostegno dell’internazionalizzazione che rappresentano meno dello 0,5% delle agevolazioni complessive destinate nel quadriennio 2003-2006 all’area. Lo scarso utilizzo delle agevolazioni nazionali e conferite, specificamente destinate al sostegno dell’internazionalizzazione, non è stato, d’altra parte, compensato, nel Sud, da un maggiore impegno delle agevolazioni messe in campo dalle Regioni attraverso i Fondi strutturali. In tale ambito, l’ammontare delle relative agevolazioni concesse alle imprese a favore della internazionalizzazione è irrisorio: 4,1 milioni di euro nel quadriennio 2003-2006, pari allo 0,1% del totale delle agevolazioni regionali concesse. Nel Centro-Nord, invece, gli incentivi regionali alla internazionalizzazione hanno raggiunto un ammontare ben più significativo: 229 25 milioni di euro, che rappresentano all’incirca l’11% del totale delle risorse regionali allocate tramite i Fondi strutturali. Questo inadeguato impegno finanziario a favore dell’internazionalizzazione delle imprese del Sud non può che sorprendere, anche perché appare in contrasto con quanto enunciato nei vari documenti programmatici (nazionali e regionali) dove non si manca mai di sottolineare i vantaggi derivanti da un maggiore grado di apertura verso l’estero. In realtà, sembra essere risultata alla fine determinante la natura prevalentemente “passiva” della maggior parte degli strumenti di incentivazione, la cui attivazione risulta troppo dipendente dalla domanda espressa dalle imprese. Nelle regioni meridionali, la percentuale delle imprese che svolge una consistente attività di esportazione risulta ancora relativamente limitata. Il basso accesso del Sud è, dunque, in larga parte da attribuire al fatto che le imprese meridionali non sono sufficientemente mature per avere bisogno di interventi quali quelli previsti dalle agevolazioni in oggetto; gli stessi amministratori locali hanno, perciò, un ridotto interesse a convogliare risorse su strumenti che non incontrano la “domanda”. E’ chiaro che la domanda di agevolazioni all’esportazione non può che svilupparsi nell’ambito di una complessiva crescita qualitativa delle piccole imprese che tocchi anche altri aspetti della capacità di gestione e di relazione con il mercato. Orbene, è proprio la capacità di leggere la complessiva evoluzione delle imprese di un territorio che avrebbe dovuto costituire il principale vantaggio della politica industriale regionale. Ma, con tutta evidenza, per cogliere questo vantaggio non è risultata ancora sufficiente la maturità amministrativa. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, occorre ricordare come forti ostacoli all’attuazione di politiche di sostegno dell’internazionalizzazione più incisive ed efficaci si siano prodotti anche in relazione all’attuale assetto del quadro istituzionale italiano. A livello nazionale, infatti, anche le politiche a favore dell’internazionalizzazione sono state oggetto del processo di decentramento; lo Stato centrale ha conservato in materia di commercio estero solo la determinazione degli indirizzi fondamentali. Ma il quadro istituzionale è in corso di evoluzione e ancora non ben definito: emergono incertezze e sovrapposizioni di competenze tra i diversi organismi nazionali e territoriali. L’esigenza di individuare forme e modalità di coordinamento tra le singole Regioni e tra i diversi livelli territoriali di governance (nazionale, regionale, locale), è quindi largamente riconosciuta; molto più difficile è individuare soluzioni efficienti e condivise. Per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri, il livello di attrazione dell’Italia - come messo in luce da diverse analisi - è molto più basso del potenziale, come conseguenza sia del sottodimensionamento della struttura produttiva (nelle PMI prevalgono assetti proprietari ostili alle fusioni e acquisizioni da parte di altre imprese), sia della debolezza della cosiddetta “filiera istituzionale” (diffusa illegalità, scarsa difesa dei diritti di proprietà, inefficienza della Pubblica Amministrazione), fattori di debolezza che si accentuano nel Mezzogiorno. Le regioni meridionali sono inoltre penalizzate dal basso livello delle infrastrutture fisiche e tecnologiche e da una mediamente minore qualità del sistema di formazione del capitale umano, fattori che 26 possono risultare decisivi nel determinare le scelte di localizzazione delle imprese estere. Sono questi, dunque, in sostanza i principali punti su cui devono fare leva, con la necessaria incisività, le politiche di sostegno degli investimenti esteri. L’ importanza delle politiche di attrazione degli IDE è ampiamente riconosciuta in tutti i paesi europei, che presidiano tale azione con specifici organismi e utilizzano diversi strumenti di agevolazione (fiscali, contributivi, di contesto). In notevole misura, infatti, l’effettiva efficacia delle politiche di attrazione dipende, da un lato, dal grado di coordinamento e di integrazione tra i diversi meccanismi di incentivazione disponibili, dall’altro, da azioni di promozione dell’immagine del territorio, di offerta di servizi di tipo consulenziale e di servizi cosiddetti di aftercare, vale a dire di assistenza “continua” agli investitori, anche dopo il loro insediamento. L’efficacia di un così complesso e articolato ventaglio di attività necessita della disponibilità di elevate competenze specialistiche, con marcate capacità di analisi e di individuazione delle migliori soluzioni. Per questo motivo, nella maggior parte dei paesi europei si rileva la tendenza ad affidare l’attrazione degli IDE ad Agenzie istituite ad hoc, specificamente e quasi del tutto esclusivamente dedite al sostegno degli investimenti esteri. Per quanto riguarda la politica industriale italiana, il tema dell’attrazione degli investimenti esteri è forse quello dove si consuma la frattura più netta tra le enunciazioni programmatiche e la loro concreta attuazione. A livello nazionale, infatti, l’Italia non ha mai perseguito stabilmente una specifica politica di attrazione degli IDE, tanto meno indirizzata al Mezzogiorno. Prima ancora che da una insufficienza di risorse e di strumenti, il sostegno agli investimenti esteri è stato frenato dalla mancanza di un’azione sistematica e duratura, dalla carenza di un coordinamento tra i vari meccanismi di incentivazione, attuati ai diversi livelli di governance territoriale (nazionale, regionale, locale), dall’assenza di un interlocutore nazionale privilegiato. A partire dal 1999 anche in Italia la finalità di promozione degli IDE è stata affidata ad una specifica agenzia, l’”Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa” (ex “Sviluppo Italia”), operativa in tutto il territorio nazionale. A differenza che nella maggior parte degli altri paesi europei, tuttavia, all’Agenzia è stato attribuito un mandato molto ampio ed eterogeneo: oltre alle politiche di attrazione degli IDE, esso comprende una pluralità di altre attività, tra cui il sostegno allo sviluppo territoriale, alla creazione d’impresa, alla promozione del turismo, e alla realizzazione di infrastrutture di rete di telecomunicazioni a banda larga. Nell’ambito delle attività di promozione degli IDE, solo a partire dal 2003 è stato istituito un programma di interventi specifico per il Mezzogiorno (“Programma operativo pluriennale di marketing territoriale”), il cui strumento di agevolazione è rappresentato dai cosiddetti “contratti di localizzazione”, che prevedono, oltre che la concessione di agevolazioni agli investimenti produttivi, anche il finanziamento di opere infrastrutturali e il sostegno dell’attività di ricerca e formazione. Il bilancio del funzionamento dei contratti di localizzazione è stato, sin qui, alquanto deludente. Tra il 2003 e il 2007 solo 9 progetti di investimento sono stati ritenuti ammissibili, per un totale di circa 350 milioni di euro di investimenti e 140 milioni di agevolazioni; volumi 27 chiaramente insufficienti a innescare significativi processi di spin-off o di agglomerazione all’interno delle strutture produttive regionali. Inoltre, le erogazioni hanno avuto inizio solo nel 2006 e hanno raggiunto poco meno del 20% delle agevolazioni concesse, a testimonianza del basso stato di avanzamento degli interventi. Tra i fattori che possono avere frenato la sottoscrizione dei “contratti di localizzazione” vi sono innanzitutto le complessità procedurali: alla sovrapposizione di due diverse procedure, quella dei contratti di programma e quella degli APQ, si aggiungono infatti le fasi specifiche del contratto di localizzazione. Pesa, inoltre, la stessa molteplicità dei soggetti istituzionali coinvolti (Ministero dello Sviluppo Economico, Agenzia per l’attrazione, Regioni), contribuendo non poco a dilatare i tempi. Spunti di interesse scaturiscono, tuttavia, dalle nuove disposizioni previste dal decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 all’esame del Parlamento per la sua conversione in legge, che prefigurano una semplificazione degli strumenti di attrazione degli investimenti (contratti di programma e contratti di localizzazione) e un iter più rapido di approvazione degli stessi. 8. FINANZIAMENTO DELLO SVILUPPO E RAFFORZAMENTO DEL RUOLO DEI CONFIDI La piena affermazione del processo di crescita e internazionalizzazione del tessuto produttivo meridionale passa in larga misura per lo sviluppo del sistema finanziario e del mercato del credito. L’accrescimento dimensionale delle piccole e medie imprese meridionali e l’auspicato processo di internazionalizzazione devono tuttavia misurarsi con gli esiti del recente processo di consolidamento del sistema bancario italiano. Tale processo, iniziato negli anni ’90, ha inciso profondamente sugli assetti organizzativi e sui modelli di comportamento degli intermediari, ha plasmato le relazioni banca-impresa, ha inciso sensibilmente sulla rilevanza della contiguità territoriale e dell’intangibilità delle informazioni, traducendosi in un modello relazionale tra domanda e offerta di credito poco in sintonia con le reali esigenze di finanziamento dello sviluppo dell’economia meridionale, e producendo tra l’altro la scomparsa di autonomi centri decisionali del Mezzogiorno. Le fusioni e concentrazioni seguite alla liberalizzazione del mercato del credito, infatti, hanno spostato il baricentro dell’industria bancaria nel Nord del Paese con conseguente indebolimento delle relazioni di clientela tra intermediari locali e piccole imprese meridionali. La politica del credito seguita dagli istituti del Centro-Nord, coerentemente ad una ineccepibile ottica aziendale, si è indirizzata prevalentemente a favore della clientela che presenta migliori combinazioni rischio-rendimento, il che penalizza il tessuto produttivo meridionale peggiorandone le condizioni di accesso al credito; una rarefazione del credito che appare ancora più acuta se si pensa che ha investito piccole e medie imprese, generalmente prive – e ciò assume connotati di particolare intensità nel Mezzogiorno – di strumenti alternativi di finanziamento. 28 La debancarizzazione del Mezzogiorno è leggibile nel calo consistente del numero di banche con sede locale al Sud verificatosi nel corso degli anni ’90, e con particolare vigore a partire dal 1995. Particolarmente indicativo dello spostamento progressivo del baricentro proprietario delle banche all’esterno dell’area meridionale è il dato sulla percentuale di sportelli gestiti da banche con sede locale al Sud: solo il 17,6% del totale. Permangono ampie e crescenti anche le differenze relative alla presenza di sportelli bancari per abitante e per km2. Più di un dubbio emerge pertanto in merito alla coerenza interna del modello strategico che ha ispirato il suddetto processo di ristrutturazione e consolidamento: le piccole e medie imprese del Mezzogiorno avrebbero avuto bisogno di un fitto tessuto di banche locali in grado di interagire proficuamente con il territorio e di instaurare relazioni di clientela durature e capaci di mitigare le opacità informative di imprese sottodimensionate e operanti in contesti ambientali avversi. La direzione del cambiamento è stata invece un’altra e se ne subiscono gli effetti in termini di scarsi volumi intermediati con le imprese del Sud e di drenaggio di risorse a favore di mercati più redditizi. Se una attenuazione degli svantaggi competitivi nella facilità di accesso al credito e nel costo dei finanziamenti è oggi, dunque, per le piccole e medie imprese meridionali una condizione quanto mai importante per la crescita e l’avanzamento del processo di internazionalizzazione, tale percorso può trovare un forte alleato nell’azione delle strutture di garanzia collettive – Confidi – in virtù del ruolo che queste possono svolgere nell’agevolare l’incontro tra domanda e offerta di credito. Le indagini svolte nel corso degli ultimi anni hanno infatti evidenziato il ruolo sempre più rilevante che i Confidi svolgono nel tessuto socio-economico locale, non solo in termini di facilitazione dell’accesso al credito ma anche di sostegno allo sviluppo del tessuto imprenditoriale e di crescita di una cultura finanziaria moderna. L’azione concomitante di vari fenomeni (liberalizzazioni dei mercati finanziari, processi di aggregazione del sistema bancario, riforma dell’accordo di Basilea, adeguamento della normativa nazionale) ha, da un lato, portato a una progressiva evoluzione della natura stessa dei Confidi, con la previsione di nuovi servizi offerti alle imprese e con la nascita di soggetti mossi da logiche più apertamente di “mercato” e, dall’altro, ha indotto a ripensare ruolo, struttura e mission dei Confidi esistenti. Essi infatti sono chiamati oggi non solo ad affinare il loro tradizionale compito di agevolazione delle PMI, generalmente prive di un rating esterno, nell’accesso all’indebitamento bancario, ma anche a favorirne i processi di crescita, elevazione della cultura finanziaria ed internazionalizzazione. Perché ciò possa realizzarsi – affinché, cioè, i Confidi possano ripensare al loro modo di essere e di operare sul mercato del credito e siano in grado di affrontare le sfide o cogliere le opportunità offerte da Basilea II – è indispensabile avviare un processo di ristrutturazione e riorganizzazione interna che ne assicuri il rafforzamento strutturale ed operativo. Con Basilea II, infatti, si introducono una rigida disciplina sui requisiti patrimoniali delle banche – che impone loro di accantonare quote di capitale 29 proporzionali ai rischi assunti – e limiti stringenti al riconoscimento delle garanzie consortili ai fini della mitigazione del rischio di credito, determinando nel contesto nazionale cambiamenti radicali nelle relazioni tra banche ed imprese e, conseguentemente, nel ruolo dei Confidi. La possibilità di superare i suddetti limiti è legata ad un duplice percorso virtuoso che investe banche finanziatrici e Confidi. Le prime sono chiamate ad evolvere verso più accurati sistemi di valutazione del merito creditizio, i secondi a spingersi verso nuove configurazioni più articolate, quali le banche di garanzia collettiva e gli intermediari finanziari di garanzia. Tuttavia, il sistema dei Confidi operanti nel Mezzogiorno mostra attualmente tratti di debolezza strutturale e criticità operative tali da poter costituire – in assenza di azioni volte a favorirne il consolidamento – un serio freno al passaggio verso le su richiamate più evolute configurazioni di Confidi, e al compimento di quel salto di qualità in grado di rendere gli organismi di garanzia collettivi operanti al Sud interlocutori forti e credibili nei confronti del sistema bancario. A tale riguardo, il Rapporto di quest’anno ha dedicato un primo, breve approfondimento proprio ad una ricognizione delle specificità che, in termini dimensionali e di volumi di attività e requisiti patrimoniali, il sistema dei Confidi presenta nelle due macro-aree del Paese; approfondimento che si è basato sulle informazioni offerte dall’XI Indagine annuale sul sistema dei Confidi artigiani aderenti a Fedart Fidi (Federazione nazionale unitaria dei consorzi e delle cooperative artigiane di garanzia), aggiornate al 31 dicembre 20063. Un quadro di ridotta capacità aggregativa e di minore disponibilità di mezzi finanziari dei Confidi meridionali emerge, in particolare dalla lettura di alcuni indicatori dimensionali, quali il numero medio di imprese associate da ciascun Confidi (totale e artigiane) e il capitale sociale. I Confidi meridionali, infatti, associano in media un quarto delle imprese dei Confidi centro-settentrionali (circa 1.100 a fronte di circa 4.100). Inoltre, il capitale sociale medio dei Confidi meridionali è di 470.000 euro, meno della metà della media dei Confidi settentrionali. Infine, il dato relativo al volume di garanzie in essere a livello regionale restituisce immediatamente l’immagine del divario esistente tra strutture di garanzie centro-settentrionali e meridionali: in media, un Confidi localizzato nel Mezzogiorno è esposto per un volume di garanzie di 8,8 milioni di euro, rispetto ai 42 e 32 milioni di un Confidi del Nord e del Centro. In conclusione, il deficit strutturale ed operativo del sistema dei Confidi meridionali rispetto a quello centro-settentrionale – che trova ampia conferma dalla lettura dei dati territoriali –, unitamente alla presenza di una rete di banche locali ancorate a sistemi tradizionali di rating, rischia di rendere molto più ardui nel Mezzogiorno il percorso di consolidamento del sistema delle garanzie collettive e i relativi processi di aggregazione territoriale delle strutture di 1° livello e potenziamento di quelle di 2° livello; e, conseguentemente, di accentuare il divario esistente tra PMI 3 Anche se il riferimento è ai Confidi artigiani, è bene ricordare che essi rappresentano oltre un quarto del complesso delle strutture di garanzia (251 aderenti Fedart Fidi a fronte di 919 Confidi iscritti nella sezione separata dell’elenco degli intermediari finanziari, ex art. 155 TUB, al 31 maggio 2008), il che li rende rappresentativi per numerosità dell’intero sistema. 30 operanti al Nord e al Sud del Paese nell’accesso al credito. La debolezza strutturale dei Confidi meridionali e le difficoltà che essi incontrano nell’adeguarsi al nuovo quadro normativo e regolamentare devono dunque richiamare l’attenzione del policy maker sulla necessità di implementare e rendere realmente efficaci politiche di incentivazione tese ad accelerare lo sviluppo ed il consolidamento dei consorzi di garanzia collettiva, attraverso misure capaci di favorire concretamente i processi di fusione e trasformazione in intermediari vigilati. Solo attraverso l’avvio di un rafforzamento strutturale ed operativo i Confidi saranno infatti in grado di affrontare le sfide e cogliere le opportunità offerte da Basilea II. Tuttavia, la capacità di procedere autonomamente sulla via del consolidamento e della crescita si è dimostrata debole perché deboli sono le condizioni di partenza nel Mezzogiorno. Se si vuole escludere per il sistema dei Confidi operante al Sud non solo il rischio di non assolvere adeguatamente al loro ruolo ma addirittura a quello di depotenziare il loro tradizionale ruolo di agevolazione delle PMI nell’accesso all’indebitamento bancario, e soprattutto se si intende rafforzarne il ruolo, rendendoli protagonisti dell’atteso ed auspicato processo di internazionalizzazione del tessuto produttivo meridionale, occorre, da un lato, proseguire nelle misure di accrescimento patrimoniale dei Confidi – già avviate con le leggi finanziarie per il 2007 ed il 2008 – e, dall’altro, riacquisire il pieno sostegno pubblico dello Stato e delle Regioni. In particolare, il sostegno regionale – attraverso forme di intervento diretto (incremento dei fondi di garanzia ai singoli Confidi) ed indiretto (fondi pubblici di cogaranzia e controgaranzia) – deve realizzarsi senza pregiudicare l’autonomia gestionale delle organizzazioni, da cui unicamente discende il successo delle PMI nel territorio, e soprattutto perseguendo una logica di sistema in grado di indirizzare e coordinare tutti gli attori coinvolti (imprese, banche, associazioni di categoria (Confidi, agenzie di sviluppo). Un esempio di successo in tal senso proviene ancora una volta dal Nord-Est, dove la tumultuosa crescita della capacità imprenditoriale in Veneto trova in parte radici proprio nel forte sostegno offerto dall’Amministrazione regionale4. Non sembra pertanto impossibile immaginare, anche per il Mezzogiorno d’Italia, una rinnovata attenzione della politica regionale e nazionale al sostegno al credito. Questa potrebbe consentire, nelle forme che il legislatore vorrà definire, anche ai Confidi meridionali di superare i limiti dimensionali e organizzativi che attualmente li caratterizzano e di beneficiare in tal modo tutto il tessuto imprenditoriale meridionale. 4 Sempre a tale riguardo, sono da segnalare tre casi esemplari di processi di concentrazione dei Confidi, verificatisi nel Nord, che hanno dato vita di recente ad importanti realtà in grado di porsi come precursori di un modello evolutivo possibile ed auspicale: la nascita, nel 2006, di una nuova società, i Confidi Province Lombarde (dall’aggregazione dei Confidi di Legnano e dei Confidi Province Lombarde), che rappresenta ben il 60% dei finanziamenti concessi nell’anno dal sistema dei Confidi confindustriali lombardi; la conclusione, nel settembre 2006, del lungo processo di fusione di cooperative di garanzia che ha portato alla nascita del COGART CNA Piemonte, operante su tutto il territorio della regione, con identiche regole e strumenti operativi; la fusione dei Confidi di Udine e Pordenone, nel Friuli Venezia Giulia, ufficializzata nel gennaio 2008. 31 9. I TRASPORTI NEL SUD: UN “NON SISTEMA” L’ampia analisi sin qui condotta ha messo in evidenza come il Mezzogiorno stia affrontando le sfide della crescente integrazione internazionale senza aver risolto alcuni deficit strutturali che ne depotenziano fortemente le capacità competitive. Alcune di tali criticità, seppur ampiamente richiamate nella letteratura sul mancato sviluppo del Sud e ritualmente citate nei documenti di programmazione, non hanno trovato sino ad oggi una corispondente attenzione nelle scelte concrete di politica economica. In tale quadro il caso più evidente è quello delle infrastrutturazione di trasporto. Una insufficiente spesa e una inadeguata programmazione degli interventi ha determinato nei decenni nel Mezzogiorno l’attuale situazione che nel Rapporto si sintetizza con la definizione di un “non sistema dei trasporti”. La diffusa carenza di collegamenti sia per la mobilità interregionale che per la logistica territoriale e la sostanziale assenza di nodi di scambio tra le principali modalità di trasporto determina per l’appunto un “non sistema”, in grado di condizionare pesantemente le prospettive di sviluppo, soprattutto se si pensa al nostro Paese, e al Mezzogiorno in particolare, come “nodo” di traffici in posizione centrale rispetto ai flussi commerciali tra i principali mercati europei ed i paesi dell’Estremo Oriente. Di fronte ad una situazione di sempre più fitti scambi tra sistemi “a rete”, il Mezzogiorno si presenta ancora oggi periferico e diviso, non tanto per i vincoli geomorfologici, ma per l’insufficienza delle dotazioni e per la scarsa accessibilità delle infrastrutture esistenti. La perifericità del Mezzogiorno L’applicazione al Mezzogiorno di un indice di perifericità predisposto dall’Eurostat, pone in luce per la macro-area meridionale nel suo complesso una situazione di forte svantaggio rispetto alla maggior parte dei territori europei, anche appartenenti ai paesi di recente adesione all’Ue. Tale condizione di elevate perifericità, non compensata da un’adeguata accessibilità mediante diverse modalità di trasporto, influenza l’accesso ai servizi, le possibilità di sviluppo economico, le condizioni di vita. L’“isolamento” geografico ed economico e gli elevati costi di trasporto hanno molteplici implicazioni: per la “dispersione” di risorse esterne, quali gli investimenti nazionali ed esteri che scelgono nuove, più convenienti allocazioni; per la mancata valorizzazione delle risorse “immobili” interne al territorio; per gli ostacoli, oggettivi, alla “libera” circolazione delle persone; per l’emarginazione del sistema produttivo meridionale, escluso dai mercati e dagli stimoli della concorrenza interna e internazionale. 32 E’ stato correttamente osservato5 che “la perifericità geografica precede la perifericità economica” e che domanda e offerta di infrastrutture sono legate da una forte interdipendenza: da un lato, l’assenza, la scarsità o l’inaccessibilità delle infrastrutture di trasporto e per la logistica (si pensi agli interporti o ai terminali intermodali) sono un vincolo rilevante allo sviluppo economico e alla domanda di infrastrutturazione; dall’altro, sono le stesse dinamiche di sviluppo che agiscono da stimolo ad ulteriore crescita che genera domanda di infrastrutturazione. In Italia, le politiche dei trasporti non hanno inciso in modo determinante sulle condizioni di marginalità dei territori meridionali; hanno anzi finito per determinare un vero e proprio “paradosso della perifericità” per cui le aree geograficamente periferiche sono quelle che hanno subìto in misura più elevata gli effetti di politiche dei trasporti “orientate al mercato”. Si è teso nel nostro Paese a sviluppare reti ed interconnessioni nelle zone a più intensa domanda di infrastrutture (quelle ad elevato tasso di sviluppo) ignorando che la carenza di infrastrutture rappresenta spesso un limite invalicabile al dispiegarsi della produttività dei fattori. Di fronte ad una situazione di evidente squilibrio infrastrutturale, la spesa in conto capitale per il Mezzogiorno è rimasta negli ultimi sette anni sostanzialmente invariata e le risorse europee, che avrebbero dovuto rappresentare un sostegno effettivamente “addizionale” hanno, di fatto, sostituito la spesa ordinaria per infrastrutture (che si è ridotta, complessivamente, di circa il 20%). Il divario tra le due aree del Paese si è così consolidato. Lo stato di avanzamento del programma della Legge Obiettivo, quale risulta dalle delibere Cipe, segnala che gran parte degli impegni finanziari riguarda opere localizzate nel Centro-Nord: l’80,3%, per un ammontare di 70,9 miliardi di euro; il valore della spesa per il Mezzogiorno risulta, invece, al di sotto dei 18 miliardi (il 19,7%). Una scelta che ha implicazioni significative sui collegamenti e sulla mobilità dei territori meridionali: gran parte delle opere deliberate dal CIPE sono infatti infrastrutture di trasporto6. La bassa accessibilità dei sistemi produttivi del Sud L’adeguatezza delle infrastrutture e dei servizi di trasporto va riferita alla domanda che proviene dalle diverse economie territoriali del Paese, e in particolare dalla macroarea meridionale. A tal fine, nel Rapporto SVIMEZ 2008 è sembrato utile procedere a una verifica dell’accessibilità dei Sistemi locali del lavoro, sulla scorta degli indici appositamente costruiti dall’ISFORT. Si tratta di indicatori particolarmente efficaci, in quanto mettono a sistema le dotazioni infrastrutturali, le distanze e le relazioni tra i nodi infrastrutturali di accesso alle reti di trasporto, con la 5 Cfr. Rapporto Annuale ISTAT 2007, p. 153. 6 Dal punto di vista delle risorse, le opere relative a strade e ferrovie rappresentano, in valore, oltre l’80% del totale degli impegni finanziari necessari per completare le opere deliberate dal CIPE. Se si aggiungono anche le metropolitane, tale percentuale sale al 90%.� 33 concentrazione degli operatori economici che quelle reti utilizzano, offrendo una rappresentazione dell’“interazione dinamica” tra tessuto produttivo e rete logistica. Da tale analisi emerge con chiarezza una netta divisione del territorio nazionale, con un Nord che presenta elevati livelli di accessibilità, diffusi territorialmente e tali comunque da configurare un sistema dei trasporti fortemente connesso, e un Sud nel quale dominano bassi livelli di accessibilità, espressione della già ricordata insufficiente dotazione infrastrutturale e scarsa integrazione sistemica, in altre parole un “non sistema dei trasporti”. Se si pone a confronto la situazione relativa all’accessibilità dei territori italiani con quella – precedentemente richiamata – relativa al diverso grado di perifericità degli stessi rispetto ai baricentri economici dell’Unione europea, si può notare una perfetta sovrapposizione delle aree più periferiche, del nostro Paese con quelle che presentano il più basso grado di accessibilità. In sostanza, le dotazioni di infrastrutture di trasporto e il loro grado di integrazione sistemica risultano del tutto insufficienti a correggere significativamente l’handicap costituito dalla maggiore “distanza” geografica e dalle più difficili condizioni geomorfologiche del territorio meridionale. In particolare, l’accessibilità è massima nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, dove l’indice utilizzato raggiunge in entrambi i casi un valore dell’80%, superiore rispetto alla media nazionale; valore che si mantiene su livelli elevati anche nelle aree portuali del Tirreno e dell’Adriatico settentrionali. Nel Centro, l’accessibilità è relativamente più contenuta, con la significativa eccezione dell’area urbana di Roma. Per i Sistemi locali del Mezzogiorno, elevati livelli di accessibilità si rilevano solo nelle aree urbane di Napoli, Bari e Catania; le criticità più forti, invece, si registrano per la Sardegna, la Calabria, la Basilicata e per gran parte della Sicilia. Una maggiore accessibilità attiva e passiva del territorio meridionale si tradurrebbe anche in un’immediata riduzione del costo di trasporto, con rilevanti effetti sia sulle singole imprese che sul complessivo livello di competitività del sistema produttivo della macroarea. La facilità di accesso potrebbe aprire nuovi mercati ed accrescere la possibilità di sviluppare quelli esistenti; rendere più competitivi i prodotti della zona di origine, riducendone i prezzi e promuovendone il consumo; consentire, nel contempo, di importare prodotti esterni all’area, prima inaccessibili perché gravati da elevati costi di trasporto; aprire ai mercati anche aree prima escluse, attivando nuove relazioni tra settori, operatori e aziende e superando dipendenze a carattere esclusivo da imprese fornitrici e clienti. Il perseguimento di tale obiettivo richiede un assai rilevante incremento delle dotazioni infrastrutturali, mediante nuovi investimenti, anche di grande portata, sulle diverse scale territoriali: collegamenti verso il Centro-Nord, verso l’Europa, e verso il Sud del Mediterraneo; connessioni interne tra le diverse regioni e province meridionali. Proprio al tema delle prospettive di sviluppo connesse alla crescente integrazione del Sud verso il Mediterraneo viene dedicato quest’anno uno specifico approfondimento. 34 10. LA MESOREGIONE MEDITERRANEA: OPPORTUNITÀ CONCRETA PER IL MEZZOGIORNO Nel corso degli ultimi quindici anni, in seguito alla liberalizzazione degli scambi e alla formazione di un nuovo assetto geo-economico del commercio internazionale, il bacino del Mediterraneo ha riguadagnato una nuova centralità. Dal 1995 al 2007 la domanda di traffico marittimo di container nell’area è cresciuta in media del 9% all’anno, un saggio particolarmente elevato, che secondo recenti previsioni dovrebbe confermarsi almeno sino al 2015. A tale crescita della centralità economica si è però contrapposto un progressivo indebolimento dell’opzione mediterranea in termini politici, soprattutto da parte dell’Unione europea. Dopo gli entusiasmi nati dalla Dichiarazione di Barcellona del 1995 nella quale l’Unione europea lanciava con i paesi mediterranei il Partenariato Euro Mediterraneo, l’attenzione si è ridotta per lasciare spazio al tema dell’allargamento dell’Unione ad Est. La relazione tra Europa e Mediterraneo è stata di fatto ridotta a Politica Europea di Vicinato, nella quale l’obiettivo previsto a Barcellona di creare entro il 2010 un’area di libero scambio sembra sfumato, o limitato ad agevolazione commerciale, non a prospettiva di qualificate relazioni politiche. Eppure come si diceva i cambiamenti geo-economici sembrano confermare le ipotesi di una nuova centralità mediterranea, già oggi in termini di flussi commerciali, ma in prospettiva anche in termini di rilevanza dei mercati. Nel più ampio fenomeno della crescita degli scambi commerciali, il Mediterraneo sta, inoltre, assumendo un ruolo centrale non solo come “terminale” dei flussi di import ed export tra l’Europa e il resto del Mondo, ma anche come area di scambio autonoma, alimentata dalla crescita economica che sta interessando i paesi della Sponda Sud-Orientale. Il pieno sfruttamento di queste opportunità presuppone una “strategia integrata”, che investa tutte le articolazioni infrastrutturali del Paese (valichi alpini, reti ferroviarie, stradali, di collegamento ai terminali portuali) per far fronte all’emergere di una concorrenza mediterranea sempre più vasta e agguerrita. Sotto questo profilo, l’andamento della portualità del Mezzogiorno, pur confermando alcune potenzialità, al tempo stesso evidenzia alcune difficoltà. Dopo il picco del 56,5% del 2003, la quota di container transitata nei porti meridionali sul totale dei porti italiani si è, infatti, progressivamente ridotta fino a segnare il 54,2% nel 2007. Fa eccezione a tale quadro il porto di Gioia Tauro - la più importante realtà portuale italiana – che nel 2007 ha fatto registrare un aumento dei traffici container del 19,1%, il miglior risultato tra i principali porti nazionali e del Sud-Europa. Il vero gap strutturale che non si riesce a colmare è la mancanza di una vera ed efficace capacità di azione, che non consente di assumere ed attuare le decisioni 35 necessarie per sfruttare le occasioni di sviluppo e quella che potrebbe e dovrebbe essere una leadership geo-economica e strutturale difficilmente contendibile. Su tutte queste criticità domina una carente strategia programmatica nonostante la ridondanza dei provvedimenti (Piano generale dei trasporti e della logistica, 2000; Programma di grandi opere strategiche della Legge Obiettivo, 2001; il Patto per la logistica ed il connesso Piano per la logistica, 2005; Piano della Mobilità, 2007). Sono in corso di definizione ulteriori Piani regionali, senza contare parti di programmazioni rilevanti, attivate dalla politica di sviluppo regionale nazionale e comunitaria, che non raramente risultano poco raccordate alle programmazioni di livello generale. Né sembra emergere una pianificazione specificamente dedicata alla portualità, in grado di promuovere uno sviluppo del settore secondo logiche di sistema ed interventi coerenti ed integrati. Rilevante è anche il problema della qualità infrastrutturale, che deve essere orientata non solo ad aumentare la capacità di attrazione dei flussi, ma anche a favorire lo scambio modale e le interconnessioni con le reti (strada e ferrovia), risolvere le situazioni di saturazione e di congestione delle infrastrutture e del territorio in cui sono ubicate, e sviluppare la retro-portualità. Quanto agli aspetti economici, va sottolineato che, pur partendo da situazioni di arretratezza e basso reddito, i paesi del sud-est del Mediterraneo presentano significative performances in termini di sviluppo della produzione e degli scambi commerciali. Il tasso di crescita relativo al 2006 che nel Mediterraneo europeo si ferma al 3% medio, con ritmi più lenti per i paesi più ricchi, nell’area extra Ue si colloca tra il 5 e il 6% nella zona balcanica, arrivando al 16% in Montenegro, anche in forza di una notevole quota di aiuti internazionali. Nella fascia nordafricana, con una crescita dell’8% e un’inflazione contenuta al 3%, Marocco, Tunisia e Egitto trainano lo sviluppo della subregione. Più legati ai settori tradizionali dell’economia, anche perché devono permettere una sussistenza alla loro popolazione che per alcune fasce non è garantita, i paesi non europei della regione mediterranea puntano molto al contributo dei processi di internazionalizzazione nel promuovere accelerazioni del tasso di crescita. In alcuni aree, in particolare quelle dei Balcani, hanno puntato molto su politiche di attrazione di capitali internazionali. La naturale opportunità a commerciare è sfruttata in modi diversi dai diversi paesi e potrebbe essere maggiormente promossa per tutti. In particolare, potrebbero fortemente rafforzarsi nel prossimo futuro gli scambi commerciali di prodotti alimentari. Il diffondersi del benessere e il conseguente incremento della domanda di beni alimentari potrebbe costituire una favorevole prospettiva anche per l’export del sistema economico meridionale, dotato di una spiccata specializzazione in tale comparto. Se la costruzione di una regione mediterranea con una fisionomia istituzionale in grado di darle riconoscibilità e ruolo è una prospettiva difficile ma auspicabile, esiste un ruolo da giocare per il Mezzogiorno italiano. Per la sua posizione geografica la parte meridionale della penisola italiana è naturalmente terra centrale nel dialogo 36 mediterraneo. Oltre a essere il prodotto di una contaminazione secolare avvenuta nel cuore del Mediterraneo, il Mezzogiorno è oggi sempre più vivo nelle relazioni commerciali col resto della regione mediterranea. Se le esportazioni delle regioni meridionali sono aumentate del 43% nel periodo 2000-2007, la dinamica verso le nazioni mediterranee non appartenenti all’Unione europea vede un incremento che supera il 79%, per un valore complessivo superiore ai 4 miliardi di euro. Oltre ad una legittimazione economica che sta crescendo ogni anno verso la strada dell’integrazione, non mancano,come detto, difficoltà di natura politica. Le scelte degli ultimi anni in termine di opzioni strategiche dell’Unione europea, hanno privilegiato, con l’allargamento verso Est, l’asse orizzontale Ovest/Est, rispetto a quello Nord/Sud. Anche nelle politiche di infrastrutturazione strategiche, l’asse Berlino-Palermo, elemento decisivo per il collegamento del Mediterraneo con i mercati centro–europei è, ben lungi dal compimento. Le scelte politiche dei prossimi anni saranno decisive per definire la “perificità”del Mezzogiorno, ultima pendice dell’Europa o porta di accesso verso il Mediterraneo. L’opzione mediterranea è strategica non solo per il Mezzogiorno ma per l’intera Unione europea. Lo sviluppo dell’area favorirebbe lo sviluppo dell’intera area sud-orientale, di molti paesi già membri dell’Unione dell’allargamento e di altri che potrebbero entrarvi, come la Croazia, il Montenegro, la Turchia. L’impegno mediterraneo favorirebbe, inoltre, i rapporti con l’intero continente africano nei confronti del quale l’Europa rischia di perdere quella posizione di privilegio che ancora occupa. Proprio nella prospettiva di una rinnovata centralità del Mediterraneo, elemento fondamentale dovrebbe essere il rafforzamento dei legami intra-Mediterranei, attraverso lo sviluppo di stabili relazioni internazionali, da realizzare attraverso una nuova “Istituzione” Mediterranea. Al momento manca un soggetto istituzionale meridionale in grado di rappresentare il Sud e allo stesso tempo di promuovere tali processi. Potrebbe esistere uno spazio per un tavolo Stato-Regioni dedicato alla promozione del dialogo per la costruzione del quadro comune mesoregionale, che potrebbe vertere su ambiti specifici di speciale competenza per il Sud. Il primo ambito è quello della logistica per sfruttare l’opportunità della crescita delle merci che transitano sul Mediterraneo, per effetto dello sviluppo commerciale della Cina e dell’India. Altro aspetto rilevante è quello della formazione; le Università del Sud dovrebbero divenire centri di attrazione di capitale umano proveniente dall’intero Mediterraneo, così da passare da terra di emigrazione a terra di immigrazione di cervelli. Altri ambiti potrebbero riguardare il superamento del digital divide e la promozione delle reti di telecomunicazione, l’agricoltura, il turismo, l’energia. Ma cogliere le opportunità mediterranee richiede scelte coerenti di livello nazionale e sopranazionale. L’indebolimento della politica euro-mediterranea ha di fatto implicato, più in generale, uno spostamento della strategia dell’Unione da un ottica Nord/Sud, cui erano particolarmente interessate le aree periferiche quali il Mezzogiorno, verso una direttrice Ovest/Est che dà centralità alla Germania e rischia di aumentare le perifericità delle regioni mediterranee. I paesi mediterranei dell’Unione 37 europea si trovano così in una condizione in parte contraddittoria: da un lato condividono il percorso dell’Unione che non impedisce iniziative di collaborazione tra paese e paese, dall’altro guardano alla possibilità di costruire relazioni privilegiate non solo verso Nord (o più recentemente verso Est), ma anche verso Sud. Accanto al Partenariato Euro Mediterraneo da più parti si è evocato quindi l’opportunità di creare iniziative che rafforzassero un quadro di cooperazione intermediterraneo. Va in questa direzione la proposta del Presidente francese Sarkozy di creare una Unione Mediterranea. L’idea è di creare con tutti i paesi mediterranei non solo un’area di libero scambio, ma istituzioni politiche e giuridiche comuni. A tale proposta ha fatto seguito quella del Governo spagnolo, che ha proposta una prospettiva di Unione Euromediterranea, che allargherebbe alla dimensione mediterranea l’orizzonte dell’attuale Ue. Le due proposte rivelano l’esistenza di un interesse intorno alla costruzione di un quadro formale che rafforzi le relazioni mediterranee, che appare, invece, sostanzialmente mancare in un Italia con la testa rivolta al di sopra delle Alpi. 38 Finito di stampare il 15 luglio 2008 dall’Industria Grafica Failli Fausto s.r.l. Via A. Meucci 25, Via Tiburtina Km. 18,300 – 00012 Guidonia Montecelio (Roma) per conto della SVIMEZ “Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno” Via di Porta Pinciana 6, 00187 Roma Tel. 06.47.850.1 • fax 06.47.850.850 • e–mail: svimez@svimez.it SVIMEZ/05_Testo.pdf “RAPPORTO SVIMEZ 2008 SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO” SINTESI Roma, 18 luglio 2008 INDICE p. 1. L’economia (rif. Cap. I) 1 2. L'agricoltura (rif. Cap. II) 10 3. L'industria (rif. Cap. II) 13 4. Il terziario (rif. Cap. II) 15 5. La popolazione (rif. Cap. III) 18 6. Il mercato del lavoro (rif. Cap. III) 23 7. Migrazioni e pendolarismo (rif. Cap. IV) 29 8. Spesa pubblica in conto capitale nel periodo 1996-2007 (rif. Cap. V) 33 9. Gli squilibri nelle dotazioni infrastrutturali (rif. Cap. VII) 36 10. Le infrastrutture per la mobilità (rif. Cap. XIV) 41 11. Il Mezzogiorno nel contesto europeo (rif. Cap. X) 47 12. L’ICT e Internet (rif. Cap. X) 55 13. Sicurezza e lotta alla criminalità nel Mezzogiorno (rif. Cap. XI) 58 14. Il rischio povertà nel Mezzogiorno (rif. Cap. XII) 64 15. La questione urbana (rif. Cap. XIII) 70 16. Logistica e ruolo del Mezzogiorno nel Mediterraneo (rif. Cap. XVIII) 76 1 1. L’economia L’andamento produttivo Nel 2007 l’economia italiana ha registrato un rallentamento della fase espansiva mostrata nell’anno precedente. Il PIL è aumentato dell’1,5% (1,8% nel 2006), quasi mezzo punto in più rispetto alla media del periodo 2001-2007 (1,1%) (v. Tab. 1). Il prodotto interno lordo del Mezzogiorno è aumentato dello 0,7% in media all’anno, un punto in meno che nel Centro-Nord (1,7%), con un calo rispetto all’aumento del 2006 (1,1%, il più elevato registrato dal 2001). Sono sei anni consecutivi che il Mezzogiorno cresce meno del resto del Paese. Dal 2002 al 2007, il PIL è aumentato nel Centro-Nord del 6,4% cumulativamente, mentre al Sud la crescita è stata poco meno di un terzo (2,4%). In termini di valore aggiunto, calcolato ai prezzi base concatenati all’anno di riferimento 2000, il Mezzogiorno ha registrato un incremento dello 0,7% rispetto al 2006, inferiore a quello dell’anno precedente (1%) ed anche a quello del Centro-Nord, dove si è avuto un aumento dell’1,9%, lievemente inferiore al 2% del 2006. L’unico settore che nel 2007 ha contribuito negativamente all’aumento del valore aggiunto nel Mezzogiorno è stato, per il terzo anno consecutivo, quello agricolo, che è calato del 2,2%, a fronte di un aumento nel resto del Paese dell’1,5%. La crescita del settore dell’industria in senso stretto, positiva per entrambe le aree, è stata nel Mezzogiorno più sostenuta (1,9%) di quella del Centro-Nord (0,7%), specie se paragonata alla dinamica negativa registrata nella media del periodo 2001-2007 (- 0,1%). Una crescita nel Sud è segnalata nel 2007 anche per il settore delle costruzioni (1%), dopo la flessione dell’anno precedente (-0,2%). Lo sviluppo del settore nel Centro-Nord è stato più elevato (1,9%). Nel 2007 l’andamento produttivo del settore dei servizi è stato positivo in entrambe le ripartizioni, ma nel Mezzogiorno esso registra una crescita modesta (0,6%), pari a meno della metà di quella dell’anno precedente (1,5%), e a poco più di un quarto di quella nel Centro-Nord (2,3%), che ha mantenuto lo stesso ritmo dell’anno precedente. Nell’ambito delle attività terziarie, il settore del commercio ha registrato nell’anno una dinamica stagnante (-0,1%), dopo la crescita dell’1% registrata nel 2006. Il settore ha risentito della bassa dinamica della domanda interna a cui si sono sovrapposti processi di ristrutturazione, che continuano a favorire la crescita della grande distribuzione. Una forte riduzione del tasso di crescita è segnalata nel settore dell’intermediazione finanziaria e immobiliare, 0,6% rispetto al 4,1% dello scorso anno, a fronte del 2,7% nel Centro-Nord, con un lieve rallentamento rispetto all’anno precedente (3%). Nel Mezzogiorno, il maggiore incremento nel 2007 si è avuto nel settore degli alberghi, ristorazione, trasporti e comunicazioni, cresciuto dell’1,6% (1,5% nel 2006), sebbene con una dinamica pari a circa la metà di quella registrata nel resto del Paese (3%). Un andamento positivo si è registrato anche nel settore composito dei servizi alle imprese e alle famiglie (0,4%), che ha risentito contemporaneamente della ripresa della produzione manifatturiera ma anche della bassa dinamica dei redditi delle famiglie; nel Centro-Nord la dinamica di questo settore è stata più elevata (1,4%), anche a seguito del buon andamento del settore informatico. 2 Unità di lavoro e produttività La crescita dell’input di lavoro, misurato nella contabilità nazionale dalle unità standard di lavoro, registrata in Italia nel 2007 (1%) ha riguardato il Centro-Nord ma non il Mezzogiorno. In tale ripartizione la variazione dell’input di lavoro è stata nell’anno lievemente negativa (-0,1%), consolidando i livelli consentiti con la forte crescita dell’1,3% del 2006, dopo tre anni consecutivi di flessione. Nel Centro-Nord, invece, l’aumento è stato dell’1,4%, in parziale decelerazione rispetto a quello particolarmente rilevante del 2006 (1,8%). Nel 2007 la crescita del valore aggiunto per occupato è stata bassa, sia nel Centro-Nord che nel Mezzogiorno, segnale delle difficoltà nel competere sui mercati: infatti essa si tramuta in costi unitari relativamente più elevati rispetto ai paesi concorrenti. Nel complesso, nel 2007 la produttività è cresciuta nel settore agricolo, sia nel Mezzogiorno (1%) sia, soprattutto, nel Centro-Nord (4,2%). La produttività è, invece, diminuita nella stessa misura (-0,3%) nell’industria, in entrambe le ripartizioni, per un calo severo della produttività nel settore edile (-1,1% nel Mezzogiorno e -0,7% nel Centro-Nord), mentre il prodotto per addetto nell’industria in senso stretto è rimasto stagnante. La produttività nei servizi è cresciuta di più nel Mezzogiorno (0,8%), − dove ha beneficiato dell’incremento del 2,3% realizzato nel commercio − che nel Centro- Nord (0,5%). Nel complesso, vi è stato un lieve recupero delle differenze di produttività da parte del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. Il livello del prodotto per addetto a prezzi concatenati, che risultava essere pari all’80,4% del Centro-Nord nel 2006, è aumentato nel 2007 all’80,6%. Il confronto settoriale mostra come il Mezzogiorno stia recuperando in termini di produttività prevalentemente nel settore dei servizi, e soprattutto in quello del commercio, mentre il divario è aumentato nell’agricoltura e, lievemente, nelle costruzioni, rimanendo pressoché costante nell’industria in senso stretto. Il PIL per abitante Nel 2007 il prodotto per abitante nel Mezzogiorno è risultato pari a 17.483 euro (v. Tab. 3). In termini relativi, tale valore equivale al 57,5% del prodotto pro capite del Centro-Nord, pari a 30.381 euro. Il divario si è di nuovo lievemente allargato nel 2007 rispetto al 2006 (di 0,2 punti percentuali), risentendo del rallentamento della crescita più forte nel Mezzogiorno. In termini monetari la differenza tra i livelli di reddito medio pro capite tra le due aree rimane ancora elevata (quasi 13.000 euro), indicando l’esistenza di differenze profonde nella produttività dei fattori nelle due ripartizioni. Consumi e investimenti Nel 2007 la crescita dei consumi finali interni è risultata nel Centro-Nord pari all’1,6% con un incremento più che doppio rispetto a quello del Mezzogiorno (0,7%) (v. Tab. 4). Parte della differenza è attribuibile alla spesa delle Amministrazioni pubbliche, che è aumentata nelle due le ripartizioni, dopo la diminuzione per entrambe nel 2006, con un incremento nel Centro-Nord (1,6%) molto più elevato di quello del 3 Sud (0,6%). La crescita della spesa finale delle famiglie è risultata nel Mezzogiorno (0,8%) la metà di quella registrata nel resto del Paese (1,5%). Il rallentamento che ha caratterizzato la dinamica degli investimenti nel 2007 è stato maggiore nel Mezzogiorno (0,5%, a fronte del 2,4% del 2006) che nel Centro- Nord (1,5%, rispetto al 2,5% del 2006) (v. Tab. 5). Nel Sud gli andamenti della componente delle costruzioni e di quella relativa a macchinari e mezzi di trasporto sono stati divergenti: la prima è cresciuta nel 2007 dell’1,9%, accelerando lievemente rispetto l’anno precedente (1,7%), ma a un tasso comunque inferiore a quello medio del periodo 2001-2007 (2,5%); gli investimenti in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto si sono invece ridotti dell’1,5%, dopo la crescita eccezionale del 7,6% registrata nel 2006. Se quindi è continuato al Sud il ciclo positivo degli investimenti in edilizia, il peggioramento delle prospettive della domanda ha invece ridotto gli acquisti di macchinari e mezzi di trasporto, che hanno risentito anche di un effetto “di rimbalzo” della forte crescita dell’anno precedente. Nel resto del Paese, la divergenza fra le dinamiche delle diverse componenti è meno ampia: gli investimenti in costruzioni sono cresciuti del 2,4%, rispetto all’1,5% registrato l’anno precedente, mentre quelli in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto sono aumentati dello 0,6%, solo un quarto dell’incremento del 2006 (2,3%) e ad un tasso inferiore a quello del periodo 2001-2007 (0,9%). Le esportazioni di merci La dinamica delle esportazioni nelle due ripartizioni è risultata differenziata: le esportazioni del Mezzogiorno sono cresciute nel 2007 dell’11,8%, quelle del resto del Paese del 7,7% (v. Tab. 6). Le esportazioni sono aumentate soprattutto verso i paesi extra Ue, con una crescita per il Mezzogiorno (13,8%) superiore a quella registrata nel Centro-Nord (10,6%). Verso i paesi dell’Ue, le esportazioni sono aumentate nel Sud del 10,6%, quasi il doppio dell’incremento del Centro-Nord (5,8%). Le esportazioni hanno presentato nel 2007 una dinamica crescente in tutte le regioni del Sud. Particolarmente positivi sono stati i risultati in Calabria (30,1%), Basilicata (21,7%), specialmente grazie alle vendite di prodotti manufatti (in particolare autoveicoli) e Sicilia (19,8%), soprattutto per i prodotti petroliferi. Ottimo anche il risultato dell’Abruzzo (11,8%) – che segna una crescita nei mercati Ue (16,8%) contro una riduzione del 2% nei paesi extra Ue – e quello della Campania (10,9%) che diversamente dal 2006 rafforza la crescita verso i paesi extra Ue (20,4%). Per le altre regioni meridionali i risultati sono positivi ma mostrano una crescita minore. Nel complesso, la quota delle esportazioni del Mezzogiorno sul totale nazionale è risultata, nel 2007, essere pari all’11,7%, con un lieve incremento rispetto al 2006 (11,1%). La crescita delle esportazioni nel Sud, pur partendo da una quota sul totale nazionale che sottorappresenta il potenziale economico dell’area, suggerisce che il ciclo internazionale solleciti anche l’economia di queste regioni. Vi sono quindi le possibilità che l’industria meridionale non assista solo da spettatrice alla fase di ripresa della domanda internazionale ma ne sfrutti le potenzialità, in modo da evitare un ulteriore allargamento del gap di crescita con il resto dell’Italia. 4 L’andamento dell’economia nelle regioni Nel 2007 la crescita del prodotto interno lordo si riduce in entrambe le aree, rallentando, nel Centro-Nord, dal 2,1% del 2006 al 1,7% del 2007, e, nel Mezzogiorno, dall’1,1% allo 0,7% (v. Tab. 7). Le regioni del Sud rimangono, in cinque casi su otto, con tassi di crescita inferiori al valore medio nazionale (1,5%); solo tre regioni meridionali raggiungono tassi di crescita tra l’1,5% e il 2%, valore massimo segnato dalla Puglia. La Calabria è l’unica regione del Paese che registra una riduzione del tasso di crescita del PIL (-1%). La Sicilia sembra essere approdata ad una fase di stagnazione, essendo il tasso di crescita del 2007 pari a 0,1%, dopo lo 0,2% nell’anno precedente. Anche la Campania non ha espanso in modo significativo il prodotto, crescendo nell’ultimo biennio al di sotto dell’1%, con un valore dello 0,5% nel 2007 (0,3% nel 2006). Nella media del periodo 2001-2007, le variazioni positive sono state molto modeste in tutte le regioni del Mezzogiorno, con l’eccezione, da un lato, della Sardegna che realizza il risultato migliore dell’area, con un tasso medio annuo dell’1,5%, anche superiore al dato nazionale; e, dall’altro, dell’Abruzzo, la cui crescita risulta – unico caso a scala nazionale – per il complesso del periodo nulla. Tutte le regioni del Mezzogiorno hanno continuato a mostrare negli anni dal 2000 al 2007 un livello di prodotto pro capite nettamente inferiore a quello medio italiano, mentre nel Centro-Nord questo avviene solo per l’Umbria (v, Tab. 8). In particolare, anche la Puglia, che nel 2007 ha registrato la maggiore performance produttiva, ha un reddito pro capite pari solo al 67,1% di quello medio del Paese; la regione con le performances peggiori, ovvero la Calabria, è pari al 64,3%; un livello prossimo a quello delle due più grandi regioni meridionali, la Campania (63,9%) e la Sicilia (64,9%). 5 Tab. 1. Tassi annui di variazione del PIL e della domanda interna media annua cumu- lata PIL 2,2 0,4 -0,3 0,6 0,3 1,1 0,7 0,7 5,0 Domanda interna 0,8 0,2 1,5 0,9 -0,2 1,2 0,7 0,7 5,3 Domanda interna al netto delle scorte e oggetti di valore 1,8 0,1 1,4 1,0 0,3 0,7 0,7 0,8 6,1 Consumi finali interni 1,4 0,6 1,0 0,6 0,7 0,3 0,7 0,8 5,6 Spese per consumi finali delle famiglie 0,4 -0,3 0,7 0,4 0,6 0,7 0,8 0,5 3,3 Spese per consumi finali delle AAPP e delle ISP 4,1 2,8 1,8 1,0 0,9 -0,5 0,6 1,5 11,2 Investimenti fissi lordi 3,5 -2,0 2,9 2,6 -1,6 2,4 0,5 1,2 8,4 PIL 1,7 0,5 0,1 1,8 0,6 2,1 1,7 1,2 8,8 Domanda interna 1,7 1,5 0,2 1,6 1,1 2,1 1,5 1,4 10,1 Domanda interna al netto delle scorte e oggetti di valore 1,5 1,6 0,1 1,7 1,3 1,7 1,5 1,3 9,8 Consumi finali interni 1,2 0,5 0,9 1,5 1,2 1,5 1,6 1,2 8,7 Spese per consumi finali delle famiglie 0,5 0,0 0,6 1,1 0,8 1,4 1,5 0,8 6,1 Spese per consumi finali delle AAPP e delle ISP 3,8 2,2 2,0 3,0 2,5 1,7 1,6 2,4 18,2 Investimenti fissi lordi 2,4 5,8 -2,6 2,1 1,5 2,5 1,5 1,9 13,8 PIL 1,8 0,5 0,0 1,5 0,6 1,8 1,5 1,1 7,9 Domanda interna 1,5 1,1 0,6 1,4 0,7 1,8 1,2 1,2 8,7 Domanda interna al netto delle scorte e oggetti di valore 1,6 1,2 0,5 1,5 1,0 1,4 1,3 1,2 8,7 Consumi finali interni 1,3 0,5 0,9 1,2 1,0 1,1 1,3 1,1 7,8 Spese per consumi finali delle famiglie 0,5 -0,1 0,6 0,9 0,8 1,2 1,3 0,7 5,3 Spese per consumi finali delle AAPP e delle ISP 3,9 2,5 1,9 2,3 1,9 0,9 1,3 2,1 15,6 Investimenti fissi lordi 2,7 3,7 -1,2 2,3 0,7 2,5 1,2 1,7 12,4 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Aggregati 2001 2002 2003 2001-2007 Mezzogiorno Centro-Nord Italia 2004 2005 2006 2007 6 Tab. 2. Variazioni % del prodotto, dell'occupazione e della produttività Agricoltura, silvicoltura e pesca -3,0 -0,2 1,9 0,5 -4,8 -0,7 -0,13 0,00 Industria 0,1 1,5 0,0 1,2 0,1 0,3 0,03 0,43 In senso stretto 0,3 1,3 0,4 1,2 -0,1 0,2 0,04 0,32 Costruzioni e lavori del Genio civile -0,2 2,1 -0,6 1,4 0,4 0,7 -0,01 0,11 Servizi 1,5 2,3 1,7 2,2 -0,2 0,1 1,12 1,59 - Commercio, riparazioni autoveicoli e di beni personali e della casa 1,0 1,3 1,7 1,9 -0,7 -0,6 0,11 0,16 - Alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni 1,5 1,9 1,3 1,2 0,2 0,7 0,17 0,23 - Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari 4,1 3,0 4,3 3,7 -0,2 -0,7 0,93 0,80 - Altre attività di servizi -0,4 2,2 0,8 2,0 -1,2 0,1 -0,11 0,38 Totale settori extragricoli 1,2 2,1 1,3 1,9 -0,1 0,2 1,16 2,03 Totale 1,0 2,0 1,3 1,8 -0,3 0,2 1,05 2,03 Agricoltura, silvicoltura e pesca -2,2 1,5 -3,1 -2,6 1,0 4,2 -0,09 0,03 Industria 1,6 0,9 1,9 1,2 -0,3 -0,3 0,33 0,26 In senso stretto 1,9 0,7 1,8 0,8 0,1 -0,1 0,27 0,16 Costruzioni e lavori del Genio civile 1,0 1,9 2,1 2,6 -1,1 -0,7 0,07 0,09 Servizi 0,6 2,3 -0,3 1,7 0,8 0,5 0,41 1,56 - Commercio, riparazioni autoveicoli e di beni personali e della casa -0,1 1,8 -2,3 0,8 2,3 0,9 -0,01 0,22 - Alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni 1,6 3,0 1,1 1,9 0,4 1,1 0,18 0,36 - Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari 0,6 2,7 1,2 3,5 -0,6 -0,8 0,14 0,73 - Altre attività di servizi 0,4 1,4 -0,4 1,0 0,8 0,4 0,10 0,25 Totale settori extragricoli 0,8 1,9 0,3 1,6 0,5 0,3 0,74 1,83 Totale 0,7 1,9 -0,1 1,4 0,7 0,5 0,66 1,86 (a) Valore aggiunto al costo dei fattori al lordo dei servizi bancari imputati. (b) Unità di lavoro. (c) Valore aggiunto per unità di lavoro. (d) Variazioni assolute del valore aggiunto settoriale tra l'anno t e l'anno t-1 in % del valore aggiunto complessivo dell'anno t-1 . Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Contributo dei settori alla variazione del prodotto complessivo (d) Mezzo- giorno Centro- Nord 2006 2007 Settori di attività Prodotto (a) Occupazione (b) Produttività (c) Mezzo- giorno Centro- Nord Mezzo- giorno Centro- Nord Mezzo- giorno Centro- Nord Tab. 3. Prodotto per abitante del Mezzogiorno e sue componenti (indici: Centro-Nord = 100) 2000 13.962,7 56,3 82,1 82,1 68,6 2001 14.721,8 56,8 81,9 81,9 69,3 2002 15.260,2 57,0 81,5 81,4 69,9 2003 15.621,5 57,1 82,1 82,1 69,6 2004 16.082,0 57,0 82,3 82,2 69,2 2005 16.501,1 57,6 83,0 82,4 69,4 2006 17.019,4 57,7 83,0 81,9 69,6 2007 17.482,8 57,5 83,2 82,3 69,2 (a) Calcolato su valori a prezzi correnti (b) Calcolato su valori concatenati - anno di riferimento 2000 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Anni per unità di lavoro euro correnti (a) (a) (b) Unità di lavoro per abitante Prodotto per abitante Prodotto 7 Tab. 4. Tassi annui di variazione % dei consumi finali interni media annua cumu- lata Spese per consumi finali delle famiglie 0,4 -0,3 0,7 0,4 0,6 0,7 0,8 0,5 3,3 Alimentari, bevande e tabacco -1,7 0,6 1,3 -0,6 0,8 0,6 0,0 0,1 1,0 Vestiario e calzature -0,4 -1,2 -1,5 -2,4 -1,2 0,6 1,0 -0,7 -5,1 Abitazioni e spese connesse -0,2 -1,0 1,0 1,5 1,3 -0,6 0,1 0,3 2,2 Altri beni e servizi 2,0 -0,1 0,7 0,9 0,4 1,6 1,6 1,0 7,4 Spese per consumi finali delle AAPP e delle ISP 4,1 2,8 1,8 1,0 0,9 -0,5 0,6 1,5 11,2 Totale 1,4 0,6 1,0 0,6 0,7 0,3 0,7 0,8 5,6 Spese per consumi finali delle famiglie 0,5 0,0 0,6 1,1 0,8 1,4 1,5 0,8 6,1 Alimentari, bevande e tabacco -0,6 0,1 0,3 0,0 1,5 1,7 0,4 0,5 3,5 Vestiario e calzature 0,2 -1,3 -1,5 -2,5 -0,6 2,1 1,4 -0,3 -2,3 Abitazioni e spese connesse -0,1 0,4 1,1 1,1 1,0 0,0 0,4 0,6 4,0 Altri beni e servizi 1,3 -0,1 0,8 2,0 0,7 2,1 2,6 1,3 9,6 Spese per consumi finali delle AAPP e delle ISP 3,8 2,2 2,0 3,0 2,5 1,7 1,6 2,4 18,2 Totale 1,2 0,5 0,9 1,5 1,2 1,5 1,6 1,2 8,7 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Categorie 2001 2002 2003 2001-2007 Mezzogiorno Centro-Nord 2004 2005 2006 2007 Tab. 5. Tassi di variazione % degli investimenti fissi lordi per branca proprietaria e branca produttrice media annua cumu- lata PER BRANCA PROPRIETARIA Agricoltura, silvicoltura e pesca -9,0 1,2 8,7 7,0 -1,1 -3,5 -5,7 -0,5 -3,5 Industria -2,9 -6,1 5,0 -7,1 -3,3 -2,8 1,0 -2,4 -15,6 - In senso stretto -4,7 -6,3 1,6 -2,0 -3,9 -0,8 0,9 -2,2 -14,5 -Costruzioni e opere del Genio civile 5,8 -5,4 20,6 -26,5 -0,2 -12,7 1,9 -3,4 -21,3 Servizi 7,2 -0,6 1,8 6,0 -1,1 4,4 0,7 2,6 19,6 - Commercio, riparazioni, alberghi e rist, trasp e comunicaz. 16,3 3,2 0,5 8,4 -2,3 7,1 1,9 4,9 39,5 - Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immob. 1,4 -1,6 4,2 7,0 1,6 6,7 0,6 2,8 21,3 - Altre attività di servizi 7,9 -3,5 -0,8 1,1 -4,8 -4,0 -0,9 -0,8 -5,4 PER BRANCA PRODUTTRICE Costruzioni e lavori del Genio civile 6,3 3,0 0,9 3,4 0,7 1,7 1,9 2,5 19,2 Macchine, attrezzature, mezzi di trasporto e altri prodotti 0,7 -7,5 5,5 1,7 -4,5 7,6 -1,5 0,2 1,1 Totale 3,5 -2,0 2,9 2,6 -1,6 2,4 0,5 1,2 8,4 PER BRANCA PROPRIETARIA Agricoltura, silvicoltura e pesca 2,4 8,6 1,9 7,6 -1,4 -4,4 2,9 2,4 18,2 Industria 3,2 3,5 -7,0 -1,6 -0,6 3,2 0,6 0,1 0,8 - In senso stretto 0,9 3,1 -5,4 -1,3 -1,1 4,2 -0,1 0,0 0,0 -Costruzioni e opere del Genio civile 23,2 7,0 -18,2 -3,7 2,8 -4,6 6,2 1,1 8,2 Servizi 2,0 6,8 -0,5 3,6 2,6 2,6 1,8 2,7 20,3 - Commercio, riparazioni, alberghi e rist, trasp e comunicaz. 2,0 10,1 -0,4 6,6 -0,5 -1,3 6,3 3,2 24,7 - Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immob. 1,7 5,1 -0,1 0,8 7,3 6,5 -1,3 2,8 21,4 - Altre attività di servizi 2,7 4,4 -1,7 4,1 -2,0 0,7 1,3 1,3 9,7 PER BRANCA PRODUTTRICE Costruzioni e lavori del Genio civile 3,6 7,0 3,0 1,7 0,4 1,5 2,4 2,8 21,1 Macchine, attrezzature, mezzi di trasporto e altri prodotti 1,5 4,7 -7,4 2,5 2,5 2,3 0,6 0,9 6,6 Totale 2,4 5,8 -2,6 2,1 1,5 2,5 1,5 1,9 13,8 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Branche 2001 2002 2003 2001-2007 Mezzogiorno Centro-Nord 2004 2005 2006 2007 8 Tab. 6. Esportazioni nel 2007 nelle regioni italiane Ue extra Ue Totale 2005 2006 2007 Piemonte 36.963,6 4,0 9,9 5,9 68,6 68,4 67,2 Valle d'Aosta 869,5 66,5 23,6 47,6 57,4 56,0 63,2 Lombardia 101.295,7 7,3 10,6 8,6 60,1 60,0 59,3 Trentino A.A. 4.685,6 6,1 17,5 11,3 49,2 54,3 51,7 Veneto 6.145,9 7,2 10,2 8,0 74,0 72,7 72,1 Friuli V.G. 47.525,2 -1,4 9,1 2,7 61,6 61,5 59,1 Liguria 12.331,1 11,2 11,5 11,3 61,6 61,1 61,1 Emilia Romagna 45.898,3 10,5 11,6 11,0 58,1 58,7 58,5 Toscana 26.264,8 5,2 8,7 6,9 53,0 52,1 51,3 Umbria 3.612,9 11,6 10,9 11,3 54,2 54,3 54,4 Marche 12.344,7 5,7 9,2 6,8 65,5 67,5 66,7 Lazio 13.165,2 2,3 14,5 7,6 58,0 56,5 53,7 Abruzzo 7.315,6 16,8 -2,0 11,8 74,1 73,3 76,6 Molise 628,4 1,8 3,3 2,4 60,5 59,9 59,5 Campania 9.303,1 4,6 20,4 10,9 59,0 60,5 57,1 Puglia 7.122,0 3,3 4,1 3,5 67,6 66,5 66,4 Basilicata 2.096,0 19,4 30,5 21,7 85,0 79,1 77,6 Calabria 427,9 0,8 70,9 30,1 59,6 58,3 45,2 Sicilia 9.523,4 16,0 23,6 19,8 45,5 49,3 47,7 Sardegna 4.683,3 12,8 2,7 8,0 55,8 52,2 54,6 Centro-Nord 311.102,6 5,8 10,6 7,7 60,7 60,7 59,6 - Nord-Ovest 151.459,9 6,9 10,6 8,3 59,3 62,2 61,4 - Nord-Est 104.255,0 4,4 10,7 6,9 64,7 60,7 59,3 - Centro 55.387,6 5,0 10,3 7,3 56,9 56,7 55,5 Mezzogiorno 41.099,7 10,6 13,8 11,8 61,2 61,3 60,7 Italia (a) 352.202,2 6,3 10,9 8,1 60,8 60,8 59,7 (a) Escluse le esportazioni non localizzabili territorialmente. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Regioni Milioni di euro Variazioni rispetto al 2006 Quota % delle esportazioni Paesi verso l'Ue Tab. 7. Prodotto interno lordo ai prezzi di mercato nelle regioni italiane (tassi medi annui di variazione % calcolati su valori concatenati-anno di riferimento 2000) Piemonte 0,9 -0,3 0,1 2,3 -0,3 1,5 0,7 0,7 Valle d'Aosta 1,8 1,1 1,2 1,5 -0,5 1,6 1,7 1,2 Lombardia 2,3 1,1 0,2 0,9 1,3 2,3 1,3 1,3 Trentino Alto Adige -1,1 -0,7 0,6 1,4 0,9 1,7 1,7 0,6 Veneto 0,9 -1,1 1,4 2,7 -0,2 2,2 1,8 1,1 Friuli Venezia Giulia 3,1 -0,4 -2,2 0,2 2,4 2,8 1,0 1,0 Liguria 2,2 -1,9 -0,4 1,0 1,0 2,9 2,1 1,0 Emilia-Romagna 1,2 -0,2 -0,5 0,2 0,2 2,0 2,1 0,7 Toscana 2,2 0,7 0,5 0,6 -0,1 2,3 1,1 1,0 Umbria 3,0 -0,9 -0,3 2,1 0,9 2,5 3,2 1,5 Marche 2,1 2,1 -0,3 1,7 1,3 2,3 1,8 1,6 Lazio 2,1 2,7 -0,6 5,2 0,9 1,6 3,1 2,1 Abruzzo 0,9 0,2 -2,1 -2,6 1,0 1,5 0,9 0,0 Molise 0,9 0,6 -1,8 1,6 0,2 1,3 1,7 0,6 Campania 3,1 2,1 -0,6 0,8 -1,6 0,3 0,5 0,6 Puglia 1,7 -0,5 -1,0 1,4 0,6 1,8 2,0 0,8 Basilicata -0,5 0,8 -1,5 1,3 -0,3 1,7 1,5 0,4 Calabria 2,8 -0,2 1,3 1,9 -3,1 2,4 -1,0 0,6 Sicilia 2,4 -0,3 -0,2 0,0 2,4 0,2 0,1 0,6 Sardegna 1,8 -0,5 2,7 0,9 2,5 2,0 1,3 1,5 Centro - Nord 1,7 0,5 0,1 1,8 0,6 2,1 1,7 1,2 - Nord-Ovest 1,9 0,5 0,1 1,3 0,9 2,2 1,2 1,1 - Nord-Est 1,1 -0,6 0,2 1,3 0,3 2,1 1,8 0,9 - Centro 2,2 1,8 -0,2 3,1 0,6 1,9 2,3 1,7 Mezzogiorno 2,2 0,4 -0,3 0,6 0,3 1,1 0,7 0,7 Italia 1,8 0,5 0,0 1,5 0,6 1,8 1,5 1,1 Fonte: Elaborazoni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Regioni 2001 2002 2003 2001-20072004 2005 2006 2007 9 Tab. 8. Prodotto interno lordo pro capite nelle regioni italiane 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Piemonte 28.188,5 111,7 110,6 110,0 110,3 110,2 109,4 109,3 108,9 Valle d'Aosta 33.929,8 129,5 128,1 128,8 130,1 131,5 131,0 130,8 131,1 Lombardia 33.185,4 131,2 131,3 131,7 131,4 129,9 128,4 128,5 128,2 Trentino Alto Adige 32.042,6 130,0 126,3 124,6 124,7 124,9 124,8 124,1 123,8 Veneto 30.231,4 118,8 117,5 115,2 116,3 117,1 116,7 116,6 116,8 Friuli Venezia Giulia 29.191,8 110,4 111,6 111,2 109,7 109,4 111,8 113,2 112,8 Liguria 27.210,9 101,7 103,0 101,3 102,0 102,0 102,5 103,8 105,1 Emilia-Romagna 31.773,5 128,4 126,8 125,2 124,0 122,5 122,6 122,2 122,8 Toscana 28.257,7 108,8 109,8 109,9 110,2 109,5 109,2 109,6 109,2 Umbria 25.036,7 96,1 96,9 94,7 93,9 94,4 94,3 94,9 96,7 Marche 26.056,1 99,9 100,4 101,3 100,4 100,1 100,1 100,5 100,7 Lazio 30.571,6 115,2 115,4 118,0 117,4 120,3 120,7 118,4 118,1 Abruzzo 21.195,5 86,9 86,1 85,4 83,9 80,7 82,3 82,2 81,9 Molise 19.603,5 73,2 72,9 72,6 71,6 72,3 74,2 74,8 75,7 Campania 16.547,9 63,1 64,1 65,2 64,8 65,0 64,8 64,3 63,9 Puglia 17.355,8 66,1 66,2 66,0 65,9 65,6 65,7 66,3 67,1 Basilicata 18.654,1 70,1 69,0 69,4 69,1 69,7 70,1 71,1 72,1 Calabria 16.652,1 62,2 62,7 62,8 63,7 64,7 64,7 65,8 64,3 Sicilia 16.789,3 64,4 64,7 64,7 64,9 64,6 65,9 65,5 64,9 Sardegna 20.391,0 75,8 77,0 76,0 77,5 77,7 78,2 78,8 78,8 Centro - Nord 30.380,9 118,7 118,4 118,2 118,1 118,0 117,6 117,4 117,4 - Nord-Ovest 31.187,3 122,6 122,4 122,3 122,4 121,5 120,4 120,6 120,5 - Nord-Est 30.861,5 122,4 121,1 119,4 119,2 119,0 119,1 119,0 119,2 - Centro 28.822,7 109,7 110,2 111,4 111,0 112,1 112,2 111,4 111,4 Mezzogiorno 17.482,8 66,8 67,2 67,3 67,4 67,2 67,7 67,8 67,5 Italia 25.882,1 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 (a) Calcolati su valori a prezzi correnti. Fonte: Elaborazoni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Regioni 2007 (euro) Indici: Italia = 100 (a) 10 2. L’agricoltura Nel 2007 è continuato il trend congiunturale negativo che ha caratterizzato l’agricoltura meridionale a partire dal 2005. Rispetto al 2006, il settore primario del Mezzogiorno ha mostrato una flessione del 2,5% nella produzione e del 2,2% nel valore aggiunto (Tab. 1), facendo rilevare una situazione molto diversa da quella del resto del Paese dove, in termini reali, la produzione è cresciuta dell’1%, più di quanto non siano cresciuti i consumi intermedi (0,3%), con un conseguente aumento del valore aggiunto dell’1,5%. Questo andamento è il risultato di diversi fattori, riconducibili, sia all’attuazione della riforma Fishler e al processo di disaccoppiamento che ha avuto inizio nel 2005, sia ad aspetti specifici, produttivi e di mercato, legati ai comparti produttivi caratteristici dell’agricoltura meridionale. In ogni caso, nell’ultimo biennio si è registrata una perdita di valore aggiunto agricolo, per il Mezzogiorno, di circa il 5%, a fronte di un incremento dell’1,2% per il Centro-Nord. La flessione del settore primario meridionale nel suo complesso è il risultato di dinamiche differenziate a livello regionale. In particolare, un andamento molto negativo ha caratterizzato la Puglia e la Calabria: nella prima la produzione e il valore aggiunto hanno subito, tra il 2006 e il 2007, riduzioni dell’ordine dell’8%; nel caso della Calabria, queste riduzioni sono state relativamente più contenute (-3,9% per la produzione e -4,6% per il valore aggiunto), in ogni modo decisamente più intense che per la media della ripartizione. Una riduzione del valore aggiunto più contenuta di quella media del Mezzogiorno, compresa tra l’1,3% e l’1,5%, è rilevabile, invece, per l’Abruzzo, il Molise e la Sicilia. Nel caso di Abruzzo e Sicilia, la produzione ha accusato una flessione relativamente più marcata (-3,9% e -1,9%, rispettivamente), per effetto soprattutto di una contrazione dei consumi intermedi; mentre, è all’incremento di questi ultimi che appare legata la riduzione del valore aggiunto che si registra in Molise. Basilicata, Campania e Sardegna sono le sole regioni del Mezzogiorno in cui sia la produzione, sia il valore aggiunto hanno sperimentato nel 2007 andamenti positivi, con incrementi medi del 2,4%. Se le differenze tra regioni, ed in particolare la performance molto negativa della Calabria e della Puglia, evidenziano problematiche congiunturali legate a specifiche colture e sistemi produttivi, la natura strutturale del “malessere” dell’agricoltura meridionale è messa in luce dall’insoddisfacente andamento del processo di accumulazione. Nel 2007 gli investimenti in valori correnti nell’agricoltura del Mezzogiorno ammontano a 3.564 milioni di euro, in netta flessione rispetto ai due anni precedenti (-2,3%). Dopo il triennio 2002-2005 caratterizzato da tassi di crescita positivi dell’aggregato, a partire dal 2006 si registra nel Mezzogiorno un processo di disinvestimento, che sembra acuirsi nel 2007, anno in cui si assiste, al contrario, ad una ripresa nel Centro-Nord (+5,4%). Nel 2007 il valore della produzione agricola (PLV) meridionale è stato pari a 16.200 milioni di euro; in termini reali, questo aggregato ha subito, rispetto al 2006, una riduzione pari al 2,5%. L’andamento della PLV appare tuttavia significativamente diversificato tra i diversi comparti del settore primario. In termini reali, le colture legnose sono quelle che fanno registrare la contrazione più importante (-10,1%); le foraggere mostrano un decremento meno marcato (-2,4%), mentre le colture erbacee fanno registrare solo una leggera cedenza (-0,4%). Nel caso degli allevamenti zootecnici e dei “servizi annessi” si registrano, invece, degli incrementi, rispettivamente di circa il 11 3% e l’1%. A livello regionale, la maggiore riduzione del valore delle colture legnose si è registrata in Puglia e in Calabria, dove i decrementi, a prezzi costanti, sono stati pari rispettivamente a -15,4% e -16,6%. Riduzioni minori si sono avute in Sicilia (-8%) e in Basilicata (-4%). Campania e Sardegna, al contrario, hanno mostrato andamenti positivi (rispettivamente +4% e +0,4%). Il peso del Mezzogiorno sulle importazioni ed esportazioni italiane è, per il 2007, pari nel primo caso al 19% e nel secondo caso al 27,4% circa (Tab. 2). A livello regionale, la Puglia, la Campania e la Sicilia conservano il ruolo di aree strategiche per le esportazioni del Mezzogiorno. Per quanto riguarda, invece, le importazioni, alle regioni menzionate vanno aggiunte la Sardegna e l’Abruzzo. Il 2007, anche per il settore agricolo, ha segnato un andamento positivo delle esportazioni rispetto all’anno precedente. Come mostra la Tab. 2, l’aumento, pari al 10% a livello italiano, è stato leggermente più contenuto per il Mezzogiorno, dove si è attestato sul 9% circa, a fronte del 10% del Centro-Nord. Molto diversificate sono le situazioni a livello regionale. Dal lato delle esportazioni, l’Abruzzo e, in particolar modo, la Calabria (-18,9% rispetto al 2006) hanno ridotto il proprio peso sull’export complessivo dell’area meridionale. Situazione positiva, invece, si rileva per le altre regioni, con tassi di crescita che vanno dall’11,1% della Basilicata al 32,7% del Molise; fa eccezione la sola Sicilia, che ha mostrato una sostanziale stabilità rispetto all’anno precedente. Tab. 1. Produzione, consumi intermedi e valore aggiunto dell'agricoltura a prezzi di base dal 2000 al 2007 Aggregati 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Produzione 16.153,0 15.745,5 15.089,8 15.285,4 16.673,3 16.191,2 15.710,4 15.310,0 Consumi intermedi 5.370,9 5.440,6 5.105,6 5.206,3 5.243,0 5.157,0 5.111,5 5.039,1 Valore aggiunto 11.506,5 10.856,5 10.546,3 10.672,9 11.982,5 11.497,7 11.155,2 10.915,4 Produzione 28.886,6 28.763,9 28.390,5 26.601,1 29.339,4 28.348,7 28.056,7 28.348,1 Consumi intermedi 11.577,1 11.425,8 11.576,3 11.299,4 11.739,6 11.535,6 11.329,3 11.368,3 Valore aggiunto 18.250,2 18.169,4 17.585,2 16.059,6 18.248,3 17.391,3 17.350,4 17.606,5 Produzione 45.039,6 44.509,4 43.481,1 41.895,7 46.019,7 44.546,5 43.764,0 43.647,3 Consumi intermedi 16.948,0 16.866,5 16.680,5 16.505,4 16.981,0 16.691,1 16.440,1 16.404,7 Valore aggiunto 28.091,6 29.025,9 28.131,8 26.755,9 30.253,4 28.911,6 28.508,3 28.507,2 Produzione -2,5 -4,2 1,3 9,1 -2,9 -3,0 -2,5 Consumi intermedi 1,3 -6,2 2,0 0,7 -1,6 -0,9 -1,4 Valore aggiunto -5,6 -2,9 1,2 12,3 -4,0 -3,0 -2,2 Produzione -0,4 -1,3 -6,3 10,3 -3,4 -1,0 1,0 Consumi intermedi -1,3 1,3 -2,4 3,9 -1,7 -1,8 0,3 Valore aggiunto -0,4 -3,2 -8,7 13,6 -4,7 -0,2 1,5 Produzione -1,2 -2,3 -3,6 9,8 -3,2 -1,8 -0,3 Consumi intermedi -0,5 -1,1 -1,0 2,9 -1,7 -1,5 -0,2 Valore aggiunto 3,3 -3,1 -4,9 13,1 -4,4 -1,4 0,0 (a) L'utilizzo degli indici a catena comporta la perdita di additività delle componenti concatenate espresse in termini monetari. Infatti la somma dei valori concatenati delle componenti di un aggregato non è uguale al valore concatenato dell'aggregato stesso. Il concatenamento attraverso gli indici di tipo Laspeyres garantisce tuttavia la proprietà di additività per l'anno di riferimento e per l'anno seguente. Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Valori concatenati, anno di riferimento 2000 (milioni di euro) (a) Mezzogiorno Centro-Nord Italia Mezzogiorno Centro-Nord Italia Variazioni percentuali annue 12 Tab. 2. Scambi con l'estero di prodotti dell'agricoltura per regione (Anno 2007) Milioni di euro % Milioni di Euro % Import Export Abruzzo 212 2,1 34 0,7 25,2 -2,6 Molise 13 0,1 1 0,0 -13,5 32,7 Campania 695 6,9 297 6,1 1,1 13,8 Puglia 579 5,7 575 11,9 24,8 17,1 Basilicata 34 0,3 19 0,4 16,8 11,1 Calabria 81 0,8 57 1,2 -18,0 -18,9 Sicilia 187 1,8 336 6,9 4,7 0,0 Sardegna 121 1,2 8 0,2 11,8 98,4 Mezzogiorno 1.921 19,0 1.328 27,4 9,8 9,2 Centro-Nord 8.211 81,0 3.518 72,6 0,2 10,3 Italia 10.132 100,0 4.847 100,0 1,9 10,0 Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Regioni Import Export Var. % 2006-07 13 3. L’industria 1. A livello territoriale, nel 2007, l’evoluzione del prodotto industriale, rispetto all’anno precedente, è risultata disomogenea. Nell’area meridionale si è passati dal modesto incremento osservato nel 2006, +0,3%, all’1,9% del 2007. Nello stesso arco temporale il Centro-Nord ha sperimentato un percorso inverso: lo 0,7% registrato nel 2007 si confronta con l’1,3% dell’anno precedente. Sebbene il risultato di prodotto conseguito nel 2007 dall’industria meridionale rappresenti un indubbio miglioramento rispetto all’anno precedente, il ritardo complessivamente accumulato nell’ultimo sessennio sia nei confronti dei principali paesi europei (Germania, Francia e Spagna) come, soprattutto, verso i nuovi competitor presenti nella stessa Europa a 27 - quali Slovenia, Polonia, Turchia - appare notevole. Nel periodo 2001-2007 la variazione cumulata del prodotto industriale è risultata sostanzialmente stazionaria nel Meridione (-0,5%) ad anche nel Centro-Nord (-0,7%). Nello stesso arco temporale, l’output industriale è complessivamente aumentato del 15,2% nell’Euro-zone, del 17,5% in Germania e del 13,8% in Spagna; i nuovi competitors summenzionati hanno fatto registrare incrementi totali in tutti i casi superiori ai 40 punti percentuali. 2. Nel corso del 2007, l’export meridionale di merci è cresciuto, complessivamente, dell’11,8%; al netto dei prodotti energetici il progresso realizzato è risultato pari al 9,7%, due punti percentuali in più di quanto verificatosi nel Centro-Nord. In linea generale, nel 2007 il contributo maggiore alla crescita delle esportazioni meridionali, analogamente a quanto avvenuto dal 2003, è stato offerto da tre settori: autoveicoli (+14,4%), altri mezzi di trasporto (+45,1%), macchine ed apparecchi meccanici (+19,7%) che appartengono alla c.d. macro-branca “di scala”. Nel 2007, oltre a questi tre settori va segnalata la performance assai positiva delle altre industrie manifatturiere: +33,8%, che fa seguito al buon risultato conseguito anche nel 2006 (+22,4%). Nel Centro-Nord, invece, il trend espansivo si è diffuso su un numero maggiore di settori. In particolare, diverse produzioni tipiche del made in Italy (ad esempo: legno e prodotti in legno, mobili) hanno offerto, diversamente da quanto avvenuto nel Sud, un sostegno apprezzabile all’export totale centrosettentrionale dopo una prima fase, a cavallo del nuovo millennio, di difficoltà. Nel 2007, a sintesi degli andamenti riscontrati, per ogni euro esportato dal sistema industriale meridionale 60 centesimi provenivano dai soli settori di scala, macro-branca quasi prevalentemente composta, è bene ricordare, da grandi imprese a proprietà esterna all’area. Di converso, il raggruppamento costituito dalle produzioni tradizionali, in cui sono essenzialmente ricomprese le attività del made in Italy, ha progressivamente perso peso, passando da una quota del 29,3% nel 2003 al 19,6% del 2007. 3. Nel 2007, l’evoluzione della produttività apparente del lavoro del settore industriale nel suo complesso, misurata dal valore aggiunto per unità di lavoro, è stata pressoché stazionaria in entrambe le macro-aree. Essa, precisamente, è aumentata di appena lo 0,1% nel Mezzogiorno ed è diminuita dello stesso valore nel resto del Paese. Il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) dell’industria manifatturiera meridionale ha segnato nel 2007 un incremento del 3,1%, di sei decimi di punto percentuale maggiore di quello riscontrato nella ripartizione centro-settentrionale Nel 14 medio periodo, il mancato sviluppo della produttività pesa sulla competitività delle imprese manifatturiere sia del Centro-Nord che, in misura maggiore, del Mezzogiorno. Tra il 2002 ed il 2007, il costo unitario del lavoro è, in ogni anno, aumentato in entrambe le due macro-aree mentre nell’industria dei principali competitor europei vi è stata una variazione di segno opposto. La quota dei profitti lordi sul valore aggiunto dell’industria manifatturiera nel 2007 è aumentata, rispetto all’anno precedente, in entrambe le ripartizioni: dal 26,8% al 27,6% nel Mezzogiorno, e dal 29,5% al 30,1% nel Centro-Nord. In termini relativi, la quota dei profitti lordi dell’industria manifatturiera meridionale, posta uguale a 100 quella del Centro-Nord, è risultata, nel 2007, pari a 91,6. Il miglioramento osservato, nel 2007, in entrambe le ripartizioni nella profittabilità è da attribuire ad una accelerazione nei prezzi praticati dalle imprese. Tab. 1. Variazioni percentuali rispetto all'anno precedente, variazione media annua e cumulata, del valore aggiunto dell'industria in senso stretto (a) Media Cumu- annua lata Mezzogiorno 0,2 2,6 -4,8 -1,8 1,4 0,3 1,9 -0,1 -0,5 Centro-Nord -0,3 -0,8 -2,3 1,3 -0,7 1,3 0,7 -0,1 -0,7 Italia -0,2 -0,3 -2,7 0,9 -0,4 1,2 0,8 -0,1 -0,7 Mezzogiorno 0,4 0,3 -5,0 -2,4 1,9 0,3 2,0 -0,4 -2,6 Centro-Nord -0,4 -1,4 -2,3 1,2 -0,8 1,3 0,9 -0,2 -1,5 Italia -0,3 -1,1 -2,7 0,7 -0,4 1,2 1,0 -0,2 -1,7 EU 27 0,9 0,0 0,5 2,9 0,9 3,4 3,2 1,7 12,3 Euro zone 2,9 0,0 0,2 2,7 1,0 3,5 4,1 2,0 15,2 Germania 1,1 -1,4 0,4 4,7 1,2 5,3 5,3 2,3 17,5 Grecia 8,0 3,5 5,2 -2,8 8,3 2,2 -1,5 3,2 24,6 Spagna 3,3 0,0 1,8 1,0 1,6 2,6 2,7 1,9 13,8 Francia 2,1 0,5 1,8 1,1 1,4 0,8 1,6 1,3 9,7 Polonia -0,8 -0,5 7,8 10,5 3,5 10,0 7,7 5,4 44,3 Portogallo 1,8 -0,5 0,2 0,6 -1,2 2,1 3,0 0,8 6,0 Slovenia 3,6 4,9 4,9 4,1 3,7 8,2 7,6 5,3 43,3 Finlandia 4,9 3,6 2,6 4,9 3,6 10,5 5,4 5,1 41,3 Regno Unito -1,5 -2,0 -0,3 0,8 -1,9 0,0 0,4 -0,6 -4,4 Turchia -7,3 2,7 7,8 11,3 8,6 8,3 5,5 5,1 41,9 Fonte: Per l'Italia, ISTAT per gli anni dal 2000 al 2007. Per il Mezzogiorno ed il Centro-Nord, elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT per il 2001-2006; valutazioni SVIMEZ per il 2007. Per i paesi europei: EUROSTAT. 2001-2007 Industria in senso stretto Di cui: manifatturiera Industria in senso stretto 2004 2005 2006 2007Ripartizioni e Paesi 2001 2002 2002 15 4. Il terziario Il prodotto Nel 2007, a scala nazionale, il valore aggiunto del settore terziario ha registrato una crescita dell’1,5% rispetto al 2006, 0,3 punti in meno dell’incremento dell’anno precedente e otto decimi di punto in più rispetto al settore industriale. L’aumento è stato particolarmente elevato nel settore composto da alberghi, ristoranti, trasporti e comunicazioni (2,7%), favorito da un lieve incremento della domanda complessiva di beni e servizi per il turismo, a sua volta riconducibile all’aumento di flussi turistici dall’estero. Di particolare rilievo è stata anche la crescita del settore dell’intermediazione monetaria e finanziaria e delle attività immobiliari (2,3%). Nel settore dei servizi destinati alle imprese e alle famiglie la dinamica (1,1%) è stata inferiore a quella media dell’intera economia. Le differenze territoriali negli andamenti delle attività terziarie sono risultate nel 2007 particolarmente rilevanti: nel Mezzogiorno, esse sono infatti cresciute solo dello 0,6%, circa un quarto dell’incremento registrato nel Centro-Nord (2,3%) e inferiore a quella – pur contenuta - registrata nella stessa area nella media del periodo 2000-2007 (0,8%, contro l’1,7% nel Centro-Nord). La differenza più consistente tra le due macroaree si riscontra nel settore dell’intermediazione monetaria e finanziaria, dove la crescita del Centro-Nord è superiore di oltre due punti percentuali rispetto a quella registrata nel Mezzogiorno (rispettivamente, 2,7% e 0,6%). Tale diversità può riflettere le differenze negli andamenti del reddito delle famiglie, nonché la diversa crescita dell’attività produttiva. I redditi da lavoro dipendente a prezzi correnti sono cresciuti nel Centro-Nord di oltre il 50% in più di quelli del Mezzogiorno (rispettivamente 3,9% e 2,4%). Nel Mezzogiorno è il settore del commercio a presentare il peggiore risultato in termini di crescita nell’ambito del comparto terziario, con una lieve riduzione (-0,1%), in controtendenza rispetto all’incremento dell’1,8% nel Centro-Nord (dopo l’1,3% del 2006). Tale aumento è imputabile in gran parte al settore della media e grande distribuzione, maggiormente diffusa in queste regioni. Anche il settore degli alberghi e ristoranti evidenzia differenze consistenti tra le due aree: nel Mezzogiorno il tasso di crescita del 2007 (1,6%) è solo marginalmente più elevato rispetto all’anno precedente; il Centro-Nord ha invece accresciuto considerevolmente il prodotto, con un incremento del 3,0% nel 2007 a fronte dell’1,9% nell’anno precedente, grazie ad una maggiore intensità dei flussi turistici che riflette anche la maggiore competitività del settore di queste aree rispetto al Mezzogiorno. Le “altre attività di servizi” hanno mostrato nel Mezzogiorno un tendenziale miglioramento (0,4%), superando la contrazione del 2006 (-0,4%); nel Centro-Nord, invece, la crescita – pur confermandosi nettamente maggiore che al Sud – è risultata in decelerazione rispetto all’anno precedente (1,4% a fronte del 2,2% del 2006). Questa differenza nella crescita dei settori terziari nelle due ripartizioni si riflette anche nella composizione settoriale. Infatti, al forte aumento del processo di terziarizzazione nelle regioni del Centro-Nord corrisponde una riduzione di quello manifatturiero; nel Mezzogiorno, al contrario, si registra un rallentamento nei settori dei servizi, mentre la crescita del manifatturiero è più elevata che nel resto del Paese. Il differenziale negativo della crescita dei servizi nel Mezzogiorno registrato nel 2007 può 16 essere imputato a diverse cause: da un lato, una spesa per consumi da parte delle famiglie che è cresciuta nell’anno dello 0,8%, la metà di quanto è aumentata nel resto del Paese, con un indebolimento specie dei consumi alimentari e in generi non durevoli, diminuiti dello 0,2%; dall’altro, un basso livello dell’attività produttiva, che non incentiva la domanda di servizi per le imprese. Infine, il costo del lavoro per unità di prodotto cresce più nei servizi del Mezzogiorno che nel resto del Paese, rendendo gli stessi meno competitivi. Questo, d’altronde, può essere la spia di processi di ristrutturazione incompleti, specie nel comparto distributivo e bancario, che d’altronde la bassa domanda rende più onerosi e complessi. L’occupazione Nel 2007 l’occupazione nel settore terziario, misurata in termini di unità di lavoro, è cresciuta dell’1,1% nel complesso del Paese, ed anche in questo caso con ritmi diseguali tra le due ripartizioni: +1,7% nel Centro-Nord e -0,3% nel Mezzogiorno, dove si è registrata una perdita di 12 mila unità di lavoro. La differenza è in parte connessa con la diversa intensità di sviluppo dell’occupazione dipendente e indipendente nelle due aree, che a sua volta risente delle difformità strutturali delle due economie. Tra i dipendenti l’andamento è positivo solo nel Centro-Nord, con un aumento del 2,5% rispetto al 2006, mentre nel Mezzogiorno si è avuta una riduzione dello 0,2%, particolarmente elevata nel settore del commercio (-3,5%). La minore domanda ha quindi innestato un processo di scrematura dal mercato delle unità marginali, rafforzando i già presenti processi di concentrazione e aumento dimensionale. Riguardo agli indipendenti, in entrambe le ripartizioni si è assistito ad una riduzione delle unità di lavoro. Nel Mezzogiorno, come anche nel Centro-Nord, fanno eccezione i settori degli alberghi e ristoranti e quello dell’intermediazione finanziaria che seguono un sia pur modesto processo di crescita. A seguito degli andamenti del valore aggiunto e dell’occupazione, nel 2007 la produttività del settore terziario nel Mezzogiorno è cresciuta dello 0,8%, superiore a quella registrata nel Centro-Nord (0,5%). L’aumento nettamente più elevato si è avuto, per entrambe le aree, nel commercio (2,3% nel Sud e 0,9% al Nord), grazie al rafforzarsi della rete della grande distribuzione. 17 Tab. 2. Tassi di variazione delle unità di lavoro totali per ramo di attività economica Servizi 2,2 2,1 0,0 -0,2 -0,3 1,7 -0,3 0,8 - Commercio , riparazioni autoveicoli e di beni personali e della casa 1,5 1,6 -1,0 -2,2 -1,1 1,7 -2,3 -0,3 - Alberghi e ristoranti, trasporti e comunicaziioni 2,0 4,1 1,7 1,2 1,1 1,3 1,1 1,8 - Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immob. 4,4 5,5 1,3 0,5 0,5 4,3 1,2 2,5 - Altre attività di servizi 1,9 0,5 -0,5 0,0 -0,8 0,8 -0,4 0,2 Totale settori extragricoli 2,6 1,9 0,3 0,0 -0,1 1,4 -0,1 0,9 Totale economia 2,5 1,3 -0,2 -0,1 -0,2 1,4 -0,4 0,6 Servizi 2,2 1,7 1,5 1,0 0,6 2,2 1,7 1,6 - Commercio , riparazioni autoveicoli e di beni personali e della casa 1,7 0,4 2,0 0,3 -0,7 1,9 0,8 0,9 - Alberghi e ristoranti, trasporti e comunicaziioni 1,4 1,6 2,3 0,9 0,9 1,2 1,9 1,5 - Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immob. 4,2 4,9 2,6 2,0 1,3 3,7 3,5 3,2 - Altre attività di servizi 1,8 0,8 0,2 1,0 0,9 2,0 1,0 1,1 Totale settori extragricoli 2,5 1,8 1,6 1,1 1,0 2,1 1,7 1,7 Totale economia 2,4 1,5 1,2 1,1 0,7 2,0 1,5 1,5 Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Settori 2001 2002 2003 2007 Media 2001-07 Mezzogiorno Centro-nord 2004 2005 2006 Tab. 1. Tassi annui di variazione del valore aggiunto ai prezzi base nei servizi e nel totale economia (tassi medi annui di variazione % calcolati su valori concatenati. anno di riferimento 2000) Servizi 2,7 0,1 -0,4 0,4 0,5 1,5 0,6 0,8 - Commercio , riparazioni autoveicoli e di beni personali e della casa 2,7 -5,2 -3,2 -1,3 -3,2 1,0 -0,1 -1,3 - Alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni 3,4 -0,2 -0,6 0,4 3,9 1,5 1,6 1,4 - Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immob. 2,1 2,9 -0,3 -0,5 -0,1 4,1 0,6 1,2 - Altre attività di servizi 2,8 0,5 0,7 1,9 1,2 -0,4 0,4 1,0 Totale settori extragricoli 2,4 0,7 -1,0 0,2 0,9 1,2 0,8 0,7 Totale economia 2,0 0,5 -0,9 0,7 0,7 1,0 0,7 0,7 Servizi 2,4 1,2 0,7 2,0 1,3 2,3 2,3 1,7 - Commercio , riparazioni autoveicoli e di beni personali e della casa 2,0 -1,3 -1,9 3,2 0,8 1,3 1,8 0,8 - Alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni 4,1 1,1 0,9 1,5 2,9 1,9 3,0 2,2 - Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immob. 2,5 2,6 2,0 1,1 1,3 3,0 2,7 2,2 - Altre attività di servizi 1,3 1,1 0,3 2,7 0,4 2,2 1,4 1,3 Totale settori extragricoli 1,9 0,7 0,0 1,8 0,8 2,1 1,9 1,3 Totale economia 1,8 0,6 -0,2 2,0 0,7 2,0 1,9 1,3 Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. 2007 Mezzogiorno Centro-Nord Media 2001-072004 2005 2006Settori 2001 2002 2003 18 5. La popolazione 1. Alla fine del 2007 la popolazione italiana ammontava a 59,5 milioni di abitanti di cui 38,7 milioni residenti nelle regioni del Centro-Nord e poco meno di 21 milioni nel Mezzogiorno (v. Tab. 1). Rispetto all’anno precedente il Paese nel suo complesso è cresciuto di circa 400 mila unità: aumento che si è concentrato prevalentemente nelle regioni centro-settentrionali. Il Centro-Nord infatti ha visto aumentare la sua popolazione di circa 330 mila unità, un valore leggermente inferiore a quello di due anni prima (384 mila), ma in ogni caso significativo, pari alla consistenza demografica di una città come Bari. Il Mezzogiorno, viceversa, pur crescendo poco (63 mila unità), ha tuttavia recuperato rispetto al 2005, quando aveva fatto registrare un decremento di circa 4 mila unità. Il Centro-Nord grazie a una sostenuta dinamica migratoria estera e interna, continua a far registrare considerevoli ritmi di incremento. Il Mezzogiorno, invece, non riesce ad intercettare in misura adeguata i flussi migratori esteri né a esercitare una adeguata forza di contenimento dei flussi migratori verso il Nord, in presenza per altro di una fecondità in costante calo soprattutto nelle sue regioni più grandi e, in passato, più prolifiche. Significativo, a questo proposito, è l’entità della popolazione straniera residente nelle due ripartizioni. Nel Mezzogiorno al 1° gennaio 2007 risiedevano poco meno di 350 mila stranieri, pari all’1,6% della popolazione meridionale: uno stock 7,5 volte inferiore a quello residente nelle regioni centro-settentrionali, dove gli stranieri residenti assommavano a 2,6 milioni e costituivano il 7% circa della popolazione. Proprio alla diversa dinamica migratoria va imputata la differenza nel tasso di incremento tra Centro-Nord e Mezzogiorno nel 2007, con quello centro-settentrionale che è risultato circa tre volte più alto di quello meridionale (8,6‰ contro 3‰), e che si colloca tra i più alti tassi di accrescimento dei paesi dell’Unione Europea a 27. Gli effetti della crescita demografica indotti dalla componente esogena sono chiaramente visibili sulla struttura per età della popolazione delle due ripartizioni. Al Centro-Nord una presenza straniera più numerosa e stabile, ma soprattutto giovane, ha determinato un complessivo effetto di “ringiovanimento” della piramide delle età, particolarmente evidente nella fascia d’età prescolare, tra 0 e 4 anni, e in quella lavorativa compresa tra 20 e 49 anni. Nel caso della popolazione al di sotto dei 5 anni, l’aumento delle nascite di bambini stranieri, dovuto alla più intensa fecondità delle donne straniere (doppia rispetto a quella della popolazione centro-settentrionale nel 2006), ha prodotto un apprezzabile ampliamento della base della piramide delle età, talché al di sotto della classe d’età prescolare l’incidenza dei bambini stranieri è oggi pari al 13% circa, una quota quasi doppia rispetto agli stranieri residenti nel Centro- Nord. 2. L’andamento della natalità riflette i mutamenti dei comportamenti riproduttivi intervenuti, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, nel Mezzogiorno e nel Centro- Nord. A fronte di una relativa costanza del tasso di mortalità (attestatosi all'8,7‰ negli ultimi due anni), il Mezzogiorno ha conosciuto una progressiva contrazione delle nascite in rapporto alla popolazione, talché il contributo della componente endogena alla crescita nel 2007 è sceso sotto l’1‰ (v. Tab. 2). Nel Centro-Nord l’aumento della fecondità, indotto dalla ripresa delle nascite da parte delle donne italiane e dal contributo riproduttivo di quelle straniere, ha portato lo scorso anno la natalità della ripartizione ad attestarsi sullo stesso livello di quella meridionale, vale a dire al 9,5‰. 19 Ciononostante, la dinamica naturale che ne è risultata è stata ancora una volta negativa (-0,3‰), a causa di un più alto livello della mortalità, pari al 9,7‰. Nel Mezzogiorno soltanto Campania e Puglia evidenziano allo tempo stesso una natalità più alta e una mortalità più bassa del livello medio dell’area, con ritmi di crescita naturale superiori: considerevolmente più alto nel caso della Campania, dove l’incremento è risultato pari al 2,6‰; solo di poco superiore alla media dell’area, nel caso pugliese (1,1‰). La Sicilia, pur avendo una natalità (pari al 9,8‰) più alta di quella pugliese, ha conosciuto un incremento naturale inferiore a quello del Mezzogiorno (lo 0,5‰), a causa di una mortalità (pari al 9,3‰) superiore alla media. Il resto delle regioni, infine, da tempo non fornisce più alcun contributo alla crescita naturale del Sud, sia perché si trova a fronteggiare saldi naturali negativi (è il caso di Abruzzo, Molise e Sardegna), sia perché mostra una crescita prossima allo zero (è il caso della Calabria). Al Centro-Nord, in regioni come la Lombardia, la Valle d’Aosta, il Veneto, il Lazio e il Trentino Alto Adige l’aumento della natalità e la diminuzione della mortalità (indotta da un lato da una sostanziale stabilità dei decessi, e dall’altra dalla crescita della popolazione residente in conseguenza dei flussi migratori), ha fatto registrare incrementi naturali positivi in molti casi superiori a quello medio del Sud. 3. Nel 2007 il Mezzogiorno ha perso circa 52 mila residenti a favore delle regioni del Centro-Nord, ad un ritmo di 2,5 abitanti ogni mille. Quasi la metà delle perdite migratorie dell’intera area è imputabile alla sola Campania (-25,2 mila) che, con un tasso migratorio interno negativo (-4,3‰) quasi doppio rispetto a quello medio del Mezzogiorno, ha perso una quota di residenti superiore al guadagno migratorio dell’intero Nord-Est (+23,7 mila). Puglia e Sicilia evidenziano un saldo migratorio all’incirca simile - rispettivamente 9,9‰ e 9,2‰ - ma entrambe presentano tassi migratori interni inferiori alla media (-2,4‰ e -1,8‰). Calabria e Basilicata presentano un tasso negativo interno superiore a quello medio (rispettivamente -3,9‰ e -3,7‰). Le uniche regioni in cui aumentano i residenti sono: l’Abruzzo, con un 2,4 mila residenti in più, la Sardegna, con circa 300 nuovi residenti, e il Molise, il cui guadagno migratorio è inferiore al centinaio di unità. Per quanto riguarda l’interscambio di popolazione con l’estero, nel 2007 Abruzzo e Calabria hanno intercettato circa un quinto del saldo migratorio con l’estero del Mezzogiorno, pari a 23,3 mila nuovi iscritti al netto dei cancellati, esibendo un tasso migratorio positivo quasi doppio rispetto a quello medio del Sud: rispettivamente il 7,1‰ e il 7,0‰ contro il 3,7‰. Campania e Sicilia, le due regioni più grandi, pur accogliendo oltre un terzo degli immigrati stranieri nel Mezzogiorno con l’estero (circa 35 mila), mostrano tassi inferiori a quello medio (rispettivamente 3,2‰ e 3,3‰). La crescita del Centro-Nord si basa ormai esclusivamente sui guadagni di popolazione che derivano dal positivo andamento della bilancia migratoria. Nel 2007 nei comuni centro-settentrionali si sono iscritti quasi 342 mila nuovi residenti al netto dei cancellati, pari a circa 9 iscritti ogni mille abitanti. Il 37% si è indirizzato verso i comuni del Nord-Ovest mentre il restante 63% si è diviso equamente tra i comuni del Nord-Est e quelli del Centro. Oltre il 90% dei nuovi residenti nel Centro-Nord (pari a circa 312 mila individui) proveniva dall’estero. La componente interna dell’interscambio migratorio del Centro-Nord nel 2007 ha fatto registrare un modesto incremento, in valori assoluti, del quale si sono avvantaggiate le regioni del Nord-Est, che continuano a esercitare una forza di attrazione sui flussi migratori meridionali 20 superiore a quella delle regioni centrali e nord-occidentali, tale da far registrare ritmi di incremento migratorio interno pari a circa il doppio di quello medio del Centro-Nord. Totale di cui: stranieri (b) Mezzogiorno 20.760 20.756 20.819 342 -4 63 Centro-Nord 37.992 38.376 38.706 2.597 384 331 Italia 58.752 59.131 59.525 2.939 380 394 % sul totale della popolazione Mezzogiorno 35,3 35,1 35,0 1,6 -0,2 3,0 Centro-Nord 64,7 64,9 65,0 6,7 10,1 8,6 Italia 100,0 100,0 100,0 4,9 6,5 6,7 (a) Stima. (b) 2006. Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Tab. 1. Ammontare della popolazione italiana residente, variazioni 2005-2007, distribuzione percentuale e tasso di variazione medio annuo, per ripartizione Ripartizioni territoriali Popolazione residente a fine anno Variazione totale 2005 2006 2007 (a) 2005-06 2006-07 (migliaia di unità) Distribuzione percentuale Variazione media annua (per 1.000 ab.) 21 2005 2006 2007 (a) 2005 2006 2007 (a) 2005 2006 2007 (a) Piemonte 8,6 8,7 8,7 11,1 10,7 10,6 -2,5 -2,0 -1,9 Valle d'Aosta 9,4 9,5 9,9 10,6 9,8 9,8 -1,2 -0,3 0,1 Lombardia 9,8 10,0 10,0 9,1 8,8 8,8 0,7 1,2 1,2 Liguria 7,5 7,5 7,5 13,3 12,8 12,8 -5,8 -5,3 -5,3 Trentino Alto Adige 10,9 10,7 10,6 8,4 8,3 8,1 2,5 2,4 2,5 Veneto 9,8 9,8 9,9 9,1 8,7 8,9 0,7 1,1 1,0 Friuli Venezia Giulia 8,4 8,5 8,6 11,5 11,2 10,9 -3,1 -2,7 -2,3 Emilia Romagna 9,2 9,3 9,6 11,1 10,7 10,7 -1,9 -1,4 -1,1 Toscana 8,7 8,8 8,9 11,3 10,8 11,0 -2,6 -2,0 -2,1 Umbria 9,0 9,0 8,9 11,5 10,9 10,5 -2,5 -1,9 -1,6 Marche 8,8 9,0 8,9 10,2 10,1 10,1 -1,4 -1,1 -1,2 Lazio 9,6 9,5 9,8 9,4 9,0 8,8 0,2 0,5 1,0 Abruzzo 8,6 8,7 8,7 10,4 10,0 10,3 -1,8 -1,3 -1,6 Molise 7,9 8,0 7,8 11,1 11,0 10,3 -3,2 -3,0 -2,5 Campania 10,8 10,8 10,7 8,4 8,1 8,1 2,4 2,7 2,6 Puglia 9,5 9,4 9,1 8,2 8,1 8,0 1,3 1,3 1,1 Basilicata 8,2 8,3 8,1 9,6 9,4 9,5 -1,4 -1,1 -1,4 Calabria 9,1 9,1 9,0 9,0 8,8 8,7 0,1 0,3 0,3 Sicilia 10,1 10,0 9,8 9,4 9,2 9,3 0,7 0,8 0,5 Sardegna 8,0 8,0 8,1 8,5 8,3 8,4 -0,5 -0,3 -0,3 Mezzogiorno 9,7 9,7 9,5 8,9 8,7 8,7 1,1 1,0 0,8 Centro-Nord 9,5 9,5 9,5 10,2 9,9 9,7 -0,7 -0,4 -0,3 - Nord-Est 9,5 9,5 9,7 10,0 9,7 9,7 -0,4 -0,2 0,0 - Nord-Ovest 9,2 9,4 9,4 10,1 9,8 9,7 -0,9 -0,4 -0,3 - Centro 9,2 9,2 9,3 10,3 9,9 9,8 -1,0 -0,7 -0,5 Italia 9,5 9,5 9,5 9,7 9,4 9,4 -0,1 0,1 0,1 (a) Stima. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Tab. 2. Natalità, mortalità e incremento naturale della popolazione italiana residente, per regione. Anni 2005- 2007 (valori per 1.000 ab.) Regioni Natalità Mortalità Incremento naturale Tab. 3. Iscrizioni e cancellazioni anagrafiche (a) per trasferimento di residenza interno o estero. Anni 2006 e 2007 2006 2007 2007 2006 2007 2007 2006 2007 2007 2006 2007 2007 Abruzzo 2,2 2,4 1,8 4,1 9,3 7,1 0,4 2,6 1,9 6,7 14,3 10,9 Molise -0,2 0,0 0,1 0,6 1,3 4,0 -0,2 -0,1 -0,3 0,3 1,2 3,8 Campania -25,5 -25,2 -4,3 7,5 18,5 3,2 1,7 17,1 3,0 -16,2 11,6 2,0 Puglia -9,8 -9,9 -2,4 3,7 11,4 2,8 -0,8 -0,8 -0,2 -6,9 0,8 0,2 Basilicata -2,1 -2,2 -3,7 0,2 1,8 3,0 -0,1 -0,1 -0,1 -2,0 -0,5 -0,8 Calabria -7,8 -7,9 -3,9 0,6 14,0 7,0 0,0 0,0 0,0 -7,2 6,2 3,1 Sicilia -7,5 -9,2 -1,8 4,0 16,6 3,3 -0,5 -0,5 -0,1 -4,0 7,0 1,4 Sardegna 1,7 0,3 0,2 1,7 4,3 2,6 1,0 0,5 0,3 4,3 5,1 3,1 Mezzogiorno -49,8 -51,6 -2,5 22,8 77,1 3,7 2,1 18,7 0,9 -24,9 45,7 2,2 Centro-Nord 71,4 46,1 1,2 198,9 312,3 8,1 131,0 -16,7 -0,4 401,4 341,7 8,9 - Nord-Est 30,1 23,7 2,1 64,7 89,2 8,0 -7,8 -7,6 -0,7 87,1 105,4 9,4 - Nord-Ovest 21,8 9,1 0,6 79,5 127,3 8,1 -12,5 -9,7 -0,6 88,9 126,6 8,1 - Centro 20,6 13,3 1,2 57,2 95,7 8,3 149,7 0,6 0,1 227,5 109,7 9,5 Italia 17,7 -5,5 -0,1 218,1 389,4 6,6 129,7 2,1 0,0 365,4 387,4 6,6 (a) Dati relativi al bilancio anagrafico della popolazione residente. (b) Saldo tra iscrizioni e cancellazioni anagrafiche dovute ad operazioni di rettifica anagrafica. Fonte : Elaborazioni Svimez su dati ISTAT. Tasso migratorio netto totale (per 1.000 ab.) (c) Il saldo migratorio interno non risulta nullo a causa dallo sfasamento temporale delle registrazioni anagrafiche tra comune di cancellazione e comune di iscrizione. Tasso migratorio con l'estero (per 1.000 ab.) Saldo migratorio per altro motivo (b) (migliaia di unità) Tasso migratorio per altro motivo (b) (per 1.000 ab.) Saldo totale (migliaia di unità)Regioni Saldo migratorio interno (migliaia di unità) Tasso migratorio interno (per 1.000 ab.) Saldo migratorio estero (migliaia di unità) 22 Fig. 1. Piramide delle età della popolazione italiana e straniera residente nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord al 1° gennaio 2007 Mezzogiorno 1,0 0,8 0,6 0,4 0,2 0,0 0,2 0,4 0,6 0,8 1,0 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 e più MaschiFemmine StranieriStraniere Centro-Nord 1,0 0,8 0,6 0,4 0,2 0,0 0,2 0,4 0,6 0,8 1,0 0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 e più Maschi Femmine Straniere Stranieri Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. 23 6. Il mercato del lavoro La situazione del mercato del lavoro in Italia nel 2007 presenta luci ed ombre: un sensibile rallentamento nella crescita dell’occupazione si accompagna a un’ulteriore flessione della disoccupazione. Riguardo all’occupazione, il dato medio relativo al 2007 evidenzia andamenti dissimili tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Nel Centro-Nord gli occupati aumentano di 234 mila unità (+1,4%), mentre nel Mezzogiorno resta stabile sui livelli del 2006. Nelle regioni meridionali la stagnazione dell’occupazione segue un anno di lieve ripresa, interrompendo il recupero della flessione registrata nella prima parte degli anni 2000 (v. Tab. 1). Nello stesso periodo nel Centro-Nord l’occupazione è aumentata di circa un milione e mezzo di unità, in forza soprattutto della regolarizzazione dei lavoratori immigrati. Molto più mobili e flessibili della popolazione residente, infatti, gli immigrati hanno cercato di integrarsi dove la disoccupazione era più bassa. Nel Mezzogiorno, invece, la stagnazione della domanda di lavoro si è combinata con un’ulteriore contrazione dell’offerta determinando una flessione del tasso di partecipazione al mercato del lavoro di quasi un punto. Mentre cresce dell’1,0% nel Centro-Nord, nel 2007 nelle regioni meridionali la forza di lavoro si è ridotta per il quinto anno consecutivo (-1,4%). La riduzione della forza di lavoro al Sud (circa 420 mila unità in meno rispetto al 2002, pari al -1,1% all’anno) sembra sottendere un diffuso effetto di “scoraggiamento” che spinge soprattutto i giovani e le donne anche di età più elevata a non partecipare più alla ricerca di lavoro, o prolungando gli studi o rifugiandosi nel lavoro sommerso, o scegliendo la strada dell’emigrazione verso il Centro-Nord. Se analizziamo l’andamento dell’occupazione nelle diverse regioni meridionali, emergono profonde differenze sia nel risultato medio dell’anno, sia nell’andamento all’interno dei quattro trimestri. Con riferimento al 2007, vanno segnalati per il secondo anno consecutivo i risultati molto positivi del Molise (2,5%) e della Puglia (2,2%). Saldi positivi si rilevano anche in Sardegna (0,9%) e Abruzzo (0,8%); non così per le altre regioni. La contrazione dell’occupazione è particolarmente accentuata in Calabria (- 2,0%) e intorno al punto percentuale per le altre regioni. In Campania (-0,7%), per il secondo anno consecutivo, l’aumento dell’occupazione industriale (2,4%) viene annullato dalla flessione nei servizi (-0,9%) (v. Tab. 2). I risultati positivi di Puglia e Molise sono dovuti all’incremento dell’occupazione nei servizi (4,0%, pari a circa 31 mila occupati in più), cui si aggiunge (solo per il Molise) il trend particolarmente favorevole dell’occupazione agricola. Nel 2007 la crescita dell’occupazione a livello nazionale riflette andamenti positivi nelle due componenti tipiche e atipiche. Nel complesso gli “atipici” registrano un incremento di 128 mila unità, pari al 2,7% (6,8% nel 2006); le posizioni dipendenti a tempo determinato full time aumentano di 19 mila unità (+1,1%; +9,3% nel 2006), mentre i lavoratori a tempo parziale aumentano di 109 mila unità (+3,6%; +5,4% nel 2006) (v. Tab. 4). In entrambe le ripartizioni tali componenti evidenziano un ruolo significativo nella dinamica dell’occupazione. Nel Mezzogiorno l’incremento delle forme contrattuali non standard (17 mila unità, pari all’1,2%) compensa l’analoga flessione dell’occupazione tipica (-0,3%). Nell’ambito degli atipici, i contratti a termine full time 24 subiscono una lieve flessione, mentre aumentano decisamente per il secondo anno consecutivo i lavoratori con contratti a tempo parziale (27 mila unità pari al 3,7%). Le riforme succedutesi negli ultimi anni hanno certamente reso più facile l’ingresso nel mercato del lavoro (come dimostrato dal sensibile calo della disoccupazione giovanile), ma hanno determinato un forte aumento della flessibilità che nelle aree territoriali meno sviluppate e per le fasce deboli del mercato del lavoro (giovani e donne) si è trasformata spesso in precarietà. L’analisi per classi d’età evidenzia una correlazione inversa tra età e stabilità dell’occupazione. La quota dei rapporti a termine passa dal 48,5% tra i giovanissimi in età 15-19 anni al 7,5% per le persone con oltre 35 anni ed è maggiore nel Centro-Nord (55,6%) rispetto al Mezzogiorno (33,7%) (Tab. 4). La presenza di maggiori opportunità di lavoro al Centro-Nord, infatti, determina una maggiore partecipazione al mercato del lavoro dei giovanissimi, che tuttavia accettano occupazioni a termine in attesa di trovare una collocazione definitiva. Nel Mezzogiorno, viceversa, la carenza di opportunità diminuisce la partecipazione, orientando i giovani ad un prolungamento più o meno forzato del periodo di istruzione. Nella classe d’età tra i 15 ed i 19 anni infatti il tasso di occupazione nel complesso molto basso (7,6%) è pari al 5,7% nel Mezzogiorno ed al 9% al Centro-Nord. L’elevata propensione verso i rapporti a termine trova ulteriore conferma se si considerano i giovani occupati nel 2007 che non avevano un’occupazione nell’anno precedente. A livello nazionale fra gli under 20 la quota dei rapporti a termine sul totale si attesta al 54,4%, per poi scendere gradualmente con il passaggio a classi di età più elevata fino al 37,3% per le persone con 35 anni ed oltre. Per le persone che hanno trovato occupazione nell’ultimo anno la modalità del rapporto a termine rimane prevalente e si attesta per il complesso della popolazione al 45,5% (41% al Mezzogiorno e 48% al Centro-Nord). Interessante notare che al Sud si registra una più alta quota di occupati a termine over 35 e a conferma di un anomalo utilizzo della flessibilità. Un altro indicatore della più elevata precarietà del lavoro nelle regioni meridionali si ricava dalla maggiore consistenza dei flussi in entrata e in uscita. Sul totale nazionale degli occupati la quota del Mezzogiorno era pari al 26,9%, mentre quella sugli occupati che hanno trovato un’occupazione nel corso dell’anno sale al 41,6%. Il ritardo con cui nel Mezzogiorno si accede al mercato del lavoro è dimostrato anche dai tassi di occupazione per classi d’età e titolo di studio. Per la classe d’età da 15 a 24 anni il tasso di occupazione è al Mezzogiorno del 17,2% a fronte del 30,3% del Centro-Nord (v. Tab. 2 ). Il divario con le regioni del Nord è particolarmente elevato per i diplomi biennali, triennali e quinquennali. I dati sembrano evidenziare che la presenza di opportunità di lavoro rende possibile trovare un’occupazione per quasi il 70% dei giovani laureati triennali del Centro-Nord a fronte del 33% del Mezzogiorno. Divari consistenti si rilevano anche per la laurea. In generale i tassi di occupazione per i giovani di 25-34 anni sono pari al 78,5% per i diplomati ed all’80% per i laureati nel Centro-Nord; invece nel Mezzogiorno tra i giovani della stessa età poco più del 50% dei diplomati e dei laureati è occupato. Nell’area il titolo di studio elevato viene pienamente valorizzato solo al di sopra dei 35 anni, quando i laureati del Sud raggiungono un tasso di occupazione superiore all’ 80%, mentre con l’avanzare dell’età il divario si accresce per i titoli di studio meno elevati. 25 Con la componente implicita il tasso di disoccupazione nel Sud è il 28% I dati relativi al 2007 danno conferma di un mercato del lavoro che si va sempre più spaccando in due parti, con un Centro-Nord che aumenta l’occupazione di oltre 230 mila unità e il Mezzogiorno che invece risulta a crescita zero. Parallelamente a questi dati, si conferma il paradosso di una disoccupazione che cala più al Sud che al Nord. Le persone in cerca di occupazione sono infatti diminuite nel 2007 di 67 mila unità nel Centro-Nord (circa un quarto della crescita dell’occupazione) e di ben 101 mila unità al Sud. Viene da chiedersi: dato che queste 100 mila persone che fino ad un anno fa cercavano lavoro non risulta che l’abbiano trovato, che fine hanno fatto? Nel corso del scorso anno è cresciuto moltissimo il numero di coloro che possiamo considerare ai margini della partecipazione tra le “non forze di lavoro”. Nel 2007, infatti, le componenti di coloro che secondo l’ISTAT “cercano lavoro non attivamente” e che “non cercano lavoro ma sono disponibili a lavorare” sono aumentate nel Sud di ben 248 mila unità. Dunque quella che potremmo definire una inoccupazione involontaria nel Mezzogiorno aumenta, e anche significativamente invece che diminuire (+147 mila unità, sintesi di -109 mila disoccupati espliciti e +248 mila disoccupati impliciti). Nel medesimo periodo nel Centro-Nord la crescita dell’occupazione determina un contemporaneo calo della disoccupazione e delle non forze lavoro (v. Tab. 5). A questo punto, che senso ha parlare di un tasso di disoccupazione al Sud dell’11,3% nel 2007, inferiore di circa 1,2 punti rispetto al 2006 e di ben 8 punti rispetto al 2000, a fronte di un tasso di occupazione che lo scorso anno si è ridotto di un decimo di punto e che dal 2001 è rimasto stazionario (46,6%)? In valori assoluti ciò equivale ad una riduzione in sei anni al Sud di 635 mila unità, ma di questi disoccupati “scomparsi” meno della la metà (285 mila) ha trovato un’occupazione, mentre i restanti 350 mila hanno smesso di dichiararsi in cerca di occupazione e non hanno svolto azioni codificate di ricerca di lavoro . Se più correttamente aggiungessimo ai disoccupati ufficiali questa componente di disoccupazione implicita, il tasso di disoccupazione aumenterebbe al Sud di oltre 15 punti ed al Centro-Nord di meno di 3 punti percentuali. Un tasso di disoccupazione corretta che tenga conto anche di coloro che cercano lavoro non attivamente e di coloro che pur non cercando sono disponibili a lavorare salirebbe quindi al 28,2% al Sud, rispetto all’11% ufficiale, e al 6,9% rispetto al 4% ufficiale nel Centro-Nord. Peraltro un tasso così ricalcolato farebbe recuperare anche la correlazione tra andamento dell’occupazione e della disoccupazione al Sud persasi negli ultimi anni. Basti vedere come la ripresa occupazionale del 2006 si riflette in una contrazione del tasso di disoccupazione, cui fa seguito una ripresa nel 2007. Pur essendo considerato essenziale anche a livello comunitario, occorre prendere atto che al Sud l’indicatore ufficiale della disoccupazione non funziona e non può essere usato per dimostrare successi che in realtà nascondono ulteriori fallimenti. E’ come rallegrarsi perché diminuiscono i malati, quando i pazienti sono tutti deceduti. 26 Tab. 1. Occupati, disoccupati e forze di lavoro nel 2007 e variazioni medie annue Media 2007 (migliaia di unità) Occupati 6.516 0,3 1,6 0,0 1,6 2,4 1,7 -0,4 -0,4 -0,3 1,6 0,0 Persone in cerca di occupazione 808 3,3 6,1 0,3 -3,5 -7,8 -5,0 -1,7 -8,6 -6,0 -14,8 -11,2 Forze di lavoro 7.324 0,9 2,4 0,0 0,6 0,5 0,5 -0,6 -1,7 -1,2 -0,7 -1,4 Occupati 16.706 0,2 0,8 1,8 1,8 1,6 1,3 2,3 1,2 1,1 2,0 1,4 Persone in cerca di occupazione 698 -1,3 -3,0 -6,9 -11,1 -11,8 -4,2 0,9 2,4 -0,5 -6,9 -8,6 Forze di lavoro 17.404 0,1 0,5 1,1 0,9 0,8 1,0 2,2 1,2 1,0 1,6 1,0 Occupati 23.222 0,3 1,0 1,2 1,7 1,9 1,4 1,5 0,7 0,7 1,9 1,0 Persone in cerca di occupazione 1.506 1,2 1,9 -2,8 -6,7 -9,4 -4,7 -0,7 -4,3 -3,7 -11,4 -10,0 Forze di lavoro 24.728 0,4 1,1 0,8 0,8 0,7 0,9 1,3 0,3 0,4 0,9 0,3 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Indagine continua sulle forze di lavoro. Mezzogiorno Centro-Nord Italia 2005 2006 2007Aggregati Variazioni % rispetto all'anno precedente 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 Tab. 2. Variazione degli occupati, dei disoccupati e delle forze di lavoro nel 2007 (valori in migliaia di unità) Var. ass. Var. % Var. ass. Var. % Var. ass. Var. % Piemonte 11,1 0,6 4,4 5,7 15,5 0,8 Valle d'Aosta 1,1 1,9 0,1 7,9 1,2 2,1 Lombardia 32,1 0,8 -11,3 -6,9 20,8 0,5 Trentino Alto Adige 5,8 1,3 -0,3 -2,1 5,5 1,2 Veneto 17,4 0,8 -15,2 -17,1 2,2 0,1 Friuli Venezia Giulia 3,1 0,6 -0,5 -2,6 2,6 0,5 Liguria 12,4 1,9 1,0 3,1 13,4 2,0 Emilia-Romagna 35,3 1,8 -9,6 -14,3 25,7 1,3 Toscana 4,2 0,3 -8,7 -11,1 -4,5 -0,3 Umbria 12,2 3,4 -1,5 -7,9 10,7 2,9 Marche 6,6 1,0 -2,3 -7,6 4,3 0,6 Lazio 93,0 4,4 -22,2 -12,8 70,8 3,1 Abruzzo 3,9 0,8 -1,5 -4,4 2,4 0,4 Molise 2,8 2,5 -2,2 -18,3 0,6 0,5 Campania -11,7 -0,7 -38,4 -15,0 -50,0 -2,5 Puglia 27,6 2,2 -22,6 -12,3 5,0 0,4 Basilicata -2,1 -1,0 -2,6 -11,2 -4,7 -2,1 Calabria -12,4 -2,0 -14,6 -16,0 -26,9 -3,8 Sicilia -14,2 -0,9 -13,0 -5,5 -27,2 -1,6 Sardegna 5,4 0,9 -6,5 -8,8 -1,1 -0,2 Mezzogiorno -0,6 0,0 -101,4 -11,2 -101,9 -1,4 Centro-Nord 234,2 1,4 -66,0 -8,6 168,2 1,0 - Nord-Ovest 56,6 0,8 -5,7 -2,1 50,9 0,7 - Nord-Est 61,6 1,2 -25,5 -13,6 36,1 0,7 - Centro 115,9 2,5 -34,8 -11,5 81,2 1,6 Italia 233,6 1,0 -167,4 -10,0 66,2 0,3 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Indagine continua sulle forze di lavoro. Occupati Disoccupati Forze di lavoroRegioni 27 Tab. 3. Andamento tendenziale degli occupati per posizione, carattere dell'occupazione e tipologia di orario nel 2007 Variazioni assolute (in migliaia di unità) Ass. % 2006 2007 Ass. % 2006 2007 Ass. % 2006 2007 Totale occupati 0 0,0 100,0 100,0 234 1,4 100,0 100,0 234 1,0 100,0 100,0 - tempo pieno -27 -0,5 88,7 88,3 151 1,1 85,9 85,7 125 0,6 86,7 86,4 - tempo parziale 27 3,7 11,3 11,7 82 3,6 14,1 14,3 109 3,6 13,3 13,6 Autonomi 4 0,2 26,7 26,7 -22 -0,5 26,3 25,8 -19 -0,3 26,4 26,1 Imprenditori 2 1,8 5,5 5,6 -30 -12,1 5,8 5,1 -29 -8,3 5,7 5,2 Liberi professionisti 4 1,5 15,7 15,9 31 3,8 19,3 20,1 36 3,2 18,2 18,9 Lavoratori in proprio -4 -0,4 65,4 65,0 -19 -0,8 58,2 58,0 -24 -0,7 60,3 60,0 Soci di cooperativa 1 4,4 0,8 0,8 8 30,2 0,6 0,8 8 21,2 0,6 0,8 Coadiuvanti familiari -3 -2,8 6,5 6,3 0 -0,1 7,2 7,2 -3 -0,8 7,0 7,0 Co.co.co 3 3,3 4,9 5,1 -15 -4,6 7,4 7,1 -12 -2,9 6,7 6,5 Prestatori d'opera occasionali 2 8,3 1,2 1,3 3 4,8 1,7 1,8 5 5,5 1,5 1,6 - tempo pieno 8 0,5 88,3 88,4 -4 -0,1 87,4 87,0 4 0,1 87,7 87,4 - tempo parziale -5 -2,6 11,7 11,6 -17 -3,1 12,6 13,0 -22 -2,9 12,3 12,6 Dipendenti -3 -0,1 73,3 73,3 255 2,1 73,7 74,2 252 1,5 73,6 73,9 permanenti 5 0,1 82,1 82,3 201 1,9 88,7 88,5 206 1,4 86,9 86,8 - tempo pieno -25 -0,7 90,8 90,0 126 1,3 86,5 86,1 101 0,8 87,6 87,1 - tempo parziale 30 8,3 9,2 10,0 74 5,1 13,5 13,9 104 5,8 12,4 12,9 a termine -8 -1,0 17,9 17,7 55 4,0 11,3 11,5 47 2,1 13,1 13,2 - tempo pieno -11 -1,6 79,6 79,2 29 2,8 78,0 77,1 19 1,1 78,6 77,9 - tempo parziale 2 1,2 20,4 20,8 26 8,5 22,0 22,9 28 5,8 21,4 22,1 Tipici -17 -0,3 78,2 78,0 122 0,9 79,5 79,1 105 0,6 79,1 78,8 Atipici 17 1,2 21,8 22,0 112 3,3 20,5 20,9 129 2,7 20,9 21,2 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Indagine continua sulle forze di lavoro. Carattere dell'occupazione e tipologia di orario Mezzogiorno Centro-Nord Italia Incidenza % Incidenza % Incidenza %Var. 2006-07 Var. 2006-07 Var. 2006-07 Tab. 4. Occupati per condizione nell'anno precedente, ripartizione territoriale ed età. Anno 2007 (composizione %) Occupati a termine ed occasionali Dipendenti a tempo indeterminato Autonomi Totale Occupati a termine ed occasionali Dipendenti a tempo indeterminato Autonomi Totale Occupati a termine ed occasionali Dipendenti a tempo indeterminato Autonomi Totale 15-19 anni Mezzogiorno 21,5 65,9 12,6 100,0 40,0 51,8 8,1 100,0 33,7 56,6 9,6 100,0 Centro-Nord 45,4 48,6 6,0 100,0 61,7 30,5 7,8 100,0 55,6 37,2 7,1 100,0 Totale 38,0 53,9 8,0 100,0 54,4 37,7 7,9 100,0 48,5 43,6 8,0 100,0 20-29 anni Mezzogiorno 21,5 59,5 18,9 100,0 45,2 40,3 14,5 100,0 28,2 54,1 17,7 100,0 Centro-Nord 21,3 65,1 13,5 100,0 59,2 30,4 10,4 100,0 27,8 59,2 13,0 100,0 Totale 21,4 63,7 14,9 100,0 53,6 34,4 12,0 100,0 27,9 57,8 14,4 100,0 30-34 anni Mezzogiorno 12,4 62,2 25,4 100,0 40,0 39,7 20,3 100,0 16,2 59,1 24,7 100,0 Centro-Nord 9,7 70,5 19,8 100,0 43,4 39,7 16,9 100,0 11,8 68,6 19,7 100,0 Totale 10,4 68,4 21,3 100,0 41,8 39,7 18,4 100,0 12,9 66,0 21,0 100,0 35 anni e oltre Mezzogiorno 8,8 64,0 27,2 100,0 37,6 36,9 25,5 100,0 10,9 62,0 27,1 100,0 Centro-Nord 5,0 68,0 27,0 100,0 37,1 37,6 25,3 100,0 6,2 66,9 27,0 100,0 Totale 6,1 66,9 27,1 100,0 37,3 37,3 25,4 100,0 7,5 65,5 27,0 100,0 15 anni e oltre Mezzogiorno 11,0 63,1 25,8 100,0 41,0 39,5 19,5 100,0 14,7 60,3 25,1 100,0 Centro-Nord 8,1 67,9 24,0 100,0 48,8 34,4 16,8 100,0 10,8 65,7 23,5 100,0 Totale 8,9 66,6 24,5 100,0 45,5 36,5 17,9 100,0 11,9 64,2 24,0 100,0 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Indagine continua sulle forze di lavoro. Età e ripartizioni Occupati un anno prima Non occupati un anno prima Totale 28 Tab. 5. Occupati, disoccupati impliciti e espliciti e tasso di disoccupazione corretto - 2004 6.431 1.135 1.422 2.557 28,4 2005 6.411 1.067 1.484 2.551 28,5 2006 6.516 909 1.501 2.410 27,0 2007 6.516 808 1.749 2.557 28,2 Var. 2006-07 -1 -101 248 147 Var. 2004-07 85 -328 328 0 2004 15.973 639 825 1.464 8,4 2005 16.152 630 821 1.452 8,2 2006 16.472 577 764 1.341 7,5 2007 16.706 530 698 1.229 6,9 Var. 2006-07 234 -47 -66 -113 Var. 2004-07 733 -109 -127 -235 (a) Risultante dalla somma di coloro che, pur appartenendo alle "non forze di lavoro", dichiarano di cercare lavoro non attivamente e di coloro che non cercano lavoro ma sono disponibili a lavorare . Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Indagine continua sulle forze di lavoro. Anni Occupati Disoccupazione esplicita Disoccupazione implicita (a) Mezzogiorno Centro-Nord Disoccupazione corretta Tasso di disoccupazione corretto 15-24 anni 18,2 13,3 32,9 22,2 15,3 17,2 25-34 35,5 50,3 56,6 56,2 54,6 52,8 35-44 37,0 55,5 62,2 70,5 85,2 61,7 45-54 34,7 56,2 70,3 74,9 92,6 60,7 55-64 20,0 33,4 36,0 51,2 69,2 33,8 Totale 15-64 27,6 41,3 55,6 54,2 70,6 46,5 15-24 anni 19,3 18,6 68,6 40,4 31,9 30,3 25-34 59,8 79,4 83,8 81,7 78,5 80,1 35-44 64,4 79,7 84,8 88,0 90,6 84,2 45-54 57,4 75,6 79,2 86,7 92,9 79,4 55-64 20,7 30,7 32,2 48,1 64,0 33,7 Totale 15-64 34,1 59,0 73,8 74,1 80,7 65,4 Fonte: Vedi Tab. 1. classi di età - Media 2007 (valori percentuali) Totale Centro-Nord Mezzogiorno Tab. 6. Tasso di occupazione per titolo di studio, ripartizione geografica e classe Classi di età Licenza elementare Licenza media Diploma 2-3 anni Diploma 4-5 anni Laurea breve, laurea, dottorato 29 7. Migrazioni e pendolarismo In base ai dati ISTAT, nel biennio 2004-2005 i trasferimenti di residenza dal Sud al Centro-Nord si sono attestati intorno alle 120 mila unità, per poi continuare a crescere, seppur lievemente, nel successivo biennio 2006-2007. Mentre i trasferimenti dal Centro-Nord al Mezzogiorno negli ultimi venti anni sono rimasti sostanzialmente stabili – nell’ordine delle 65 mila unità e segnati da rientri di persone in età pensionabile o giovani al termine del ciclo di studi – tra il 1997 e il 2007 oltre 600 mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno. Ma la cosa più rilevante è che la gran parte di coloro che si sposta è costituito da forza lavoro giovane e ad elevata scolarità. Tale fuoriuscita di capitale umano ha pesanti conseguenze sulle potenzialità di sviluppo dell’area. Nel 2000 in tutte le regioni meridionali il migrante-tipo apparteneva mediamente in un caso su cinque alla classe di età 25-29 anni; in Puglia e Sardegna addirittura in un caso su quattro. Nel 2005 il fenomeno ha registrato ancora la prevalenza dei 25-29enni, ma in Abruzzo, Molise e Basilicata si è assistito a una crescita di migranti appartenenti alla classe superiore (30-34 anni). La nuova fase migratoria, riflettendo i profondi mutamenti intervenuti nella società meridionale, si caratterizza per la presenza rilevante di giovani con un più elevato grado di scolarizzazione. Nel 2005, infatti, oltre la metà (52,2%) di coloro che hanno lasciato il Mezzogiorno per una regione del Centro-Nord, aveva un titolo di studio medio-alto (diploma superiore il 35,8% e laurea il 16,4%). Nel 2007 gli occupati residenti nel Mezzogiorno con un posto di lavoro nelle regioni centro-settentrionali o in paesi esteri sono stati 150.000, pari al 2,3% degli occupati residenti nell’area, dato sostanzialmente in linea con quello del 2006. Per quanto riguarda i pendolari, l’incidenza di coloro che lavorano fuori regione sul totale degli occupati è particolarmente elevata in Molise e Basilicata, dove si attesta intorno al 3,5%, mentre è più contenuta nelle Isole e, in particolare, in Sardegna (1,2%). Gli spostamenti dalle regioni meridionali verso quelle del Centro-Nord sono solo in minima parte compensati da movimenti in direzione contraria. Ad eccezione dell’Abruzzo, dove i movimenti pendolari in ingresso più che compensano quelli in uscita, il saldo tra afflussi e deflussi è negativo in tutte le regioni meridionali ed assume maggiore consistenza nelle regioni più grandi e popolose, Campania, Puglia e Sicilia. Le regioni che presentano un più consistente grado di attrazione di lavoratori residenti altrove, sono la Lombardia, l’Emilia-Romagna e il Lazio, con afflussi pari rispettivamente a 97.000, 68.000 e 61.000 unità. La Lombardia assorbe pendolari che provengono principalmente da altre regioni settentrionali, sebbene oltre un quarto provenga dal Mezzogiorno. In Emilia Romagna i meridionali contano per oltre un terzo del totale dei lavoratori da fuori regione, mentre nel Lazio la quota dei meridionali è circa dell’80%. Dal punto di vista sociale i pendolari di lungo raggio sono prevalentemente maschi, giovani (circa il 60% ha meno di 35 anni mentre oltre l’80% ne ha meno di 45), single o figli che ancora vivono in famiglia, dipendenti a termine e collaboratori, prevalentemente impiegati a tempo pieno. Svolgono professioni di livello elevato in quasi il 50% dei casi, mentre un altro 40% svolge mansioni di livello intermedio. La propensione al pendolarismo, crescente con il livello professionale, è incentivata dalle 30 maggiori retribuzioni e dalle migliori condizioni di lavoro che generalmente si associano a livelli professionali più elevati. In definitiva, il pendolarismo di lunga distanza sembra garantire opportunità di occupazione a giovani che hanno completato e/o stanno completando un lungo periodo d’istruzione, ma che non trovano opportunità nelle regioni di residenza o cominciano ad orientarsi per lavorare fuori. Dal punto di vista settoriale in termini assoluti prevalgono i servizi, ma relativamente più importante è il settore industriale e l’edilizia. Sempre in termini assoluti, le regioni di destinazione più importanti sono Lombardia, Lazio ed Emilia Romagna, con valori relativi significativi in regioni più piccole caratterizzate da bassi tassi di disoccupazione, come il Trentino A.A., il Friuli V.G. e le Marche. Tab. 1. Iscrizioni e cancellazioni anagrafiche (a) per trasferimento di residenza interno o estero. Anni 2006 e 2007 2006 2007 2007 2006 2007 2007 2006 2007 2007 2006 2007 2007 Abruzzo 2,2 2,4 1,8 4,1 9,3 7,1 0,4 2,6 1,9 6,7 14,3 10,9 Molise -0,2 0,0 0,1 0,6 1,3 4,0 -0,2 -0,1 -0,3 0,3 1,2 3,8 Campania -25,5 -25,2 -4,3 7,5 18,5 3,2 1,7 17,1 3,0 -16,2 11,6 2,0 Puglia -9,8 -9,9 -2,4 3,7 11,4 2,8 -0,8 -0,8 -0,2 -6,9 0,8 0,2 Basilicata -2,1 -2,2 -3,7 0,2 1,8 3,0 -0,1 -0,1 -0,1 -2,0 -0,5 -0,8 Calabria -7,8 -7,9 -3,9 0,6 14,0 7,0 0,0 0,0 0,0 -7,2 6,2 3,1 Sicilia -7,5 -9,2 -1,8 4,0 16,6 3,3 -0,5 -0,5 -0,1 -4,0 7,0 1,4 Sardegna 1,7 0,3 0,2 1,7 4,3 2,6 1,0 0,5 0,3 4,3 5,1 3,1 Mezzogiorno -49,8 -51,6 -2,5 22,8 77,1 3,7 2,1 18,7 0,9 -24,9 45,7 2,2 Centro-Nord 71,4 46,1 1,2 198,9 312,3 8,1 131,0 -16,7 -0,4 401,4 341,7 8,9 - Nord-Est 30,1 23,7 2,1 64,7 89,2 8,0 -7,8 -7,6 -0,7 87,1 105,4 9,4 - Nord-Ovest 21,8 9,1 0,6 79,5 127,3 8,1 -12,5 -9,7 -0,6 88,9 126,6 8,1 - Centro 20,6 13,3 1,2 57,2 95,7 8,3 149,7 0,6 0,1 227,5 109,7 9,5 Italia 17,7 -5,5 -0,1 218,1 389,4 6,6 129,7 2,1 0,0 365,4 387,4 6,6 (a) Dati relativi al bilancio anagrafico della popolazione residente. (b) Saldo tra iscrizioni e cancellazioni anagrafiche dovute ad operazioni di rettifica anagrafica. Fonte : Elaborazioni Svimez su dati ISTAT. Tasso migratorio netto totale (per 1.000 ab.) (c) Il saldo migratorio interno non risulta nullo a causa dallo sfasamento temporale delle registrazioni anagrafiche tra comune di cancellazione e comune di iscrizione. Tasso migratorio con l'estero (per 1.000 ab.) Saldo migratorio per altro motivo (b) (migliaia di unità) Tasso migratorio per altro motivo (b) (per 1.000 ab.) Saldo totale (migliaia di unità)Regioni Saldo migratorio interno (migliaia di unità) Tasso migratorio interno (per 1.000 ab.) Saldo migratorio estero (migliaia di unità) Fig. 1. Trasferimenti di residenza tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord dal 1990 al 2005 (unità) Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. -100.000 -80.000 -60.000 -40.000 -20.000 0 20.000 40.000 60.000 80.000 100.000 120.000 140.000 160.000 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Anni Un ità Immigrazioni Emigrazioni Saldo 31 Tab. 5. Pendolari residenti nel Mezzogiorno che lavorano nel Centro-Nord in base alle caratteristiche individuali, familiari e del lavoro svolto. Anno 2007 Caratteristiche Valori assoluti (x 1000) Composi- zioni % Incidenza % sul totale dell'occupazione Sesso Maschi 115 76,4 2,7 Femmine 35 23,6 1,6 Classe di età 15-24 anni 24 16,1 5,4 25-34 anni 64 42,7 4,1 35-44 anni 34 22,6 1,7 45-54 anni 20 13,4 1,2 55 e più 8 5,1 0,9 Titolo di studio Nessuno, elementare 10 6,8 1,6 Licenza media 36 24,0 1,6 Superiori 65 43,5 2,5 Laurea + post laurea 39 25,7 3,9 Stato civile Celibe/nubile 85 56,5 4,6 Coniugato/a 61 40,7 1,4 Altro 4 2,8 1,1 Ruolo nel nucleo Persona singole 19 12,5 3,3 Caponucleo o partner 64 42,5 1,4 Figlio 68 44,9 4,9 Settore di attività Agricoltura 2 1,2 0,4 Industria in senso stretto 22 14,4 2,4 Costruzioni 25 16,6 3,9 Servizi 102 67,8 2,3 Job tenure Meno di un anno 49 32,4 5,6 1 a 3 anni 29 19,5 4,0 3 a 5 anni 25 16,8 2,7 5 anni e più 47 31,4 1,2 Livello professionale Alta 70 46,6 3,1 Media 59 39,2 2,0 Bassa 21 14,2 1,6 Posizione nella professione Indipendenti 13 8,7 0,8 - Collaboratori 5 3,2 4,3 - Altri indipendenti 8 5,6 0,5 Dipendenti 137 91,3 2,9 - A termine 47 31,1 5,5 - Permanenti 91 60,2 2,3 Tipologia di orario A tempo pieno 142 94,6 2,5 A tempo parziale 8 5,4 1,1 Totale 150 100,0 2,3 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Indagine continua sulle forze di lavoro . 32 Fig. 2. Pendolari dalle regioni del Mezzogiorno verso il Centro-Nord e quota sull'occupazione regionale Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Indagine continua sulle forze di lavoro. 15 4 50 27 7 13 28 8 2,9 3,4 2,9 2,1 1,2 3,5 2,1 1,9 0 10 20 30 40 50 60 Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna 0 1 2 3 4 5 6 valori assoluti (migliaia di unità) % su occupazione regionale Dal Mezzogiorno 150 mila pendolari verso il Centro-Nord pari al 2,3% degli occupati. 33 8. Spesa pubblica in conto capitale nel periodo 1996-2007 La spesa complessiva in conto capitale del Paese, mostra nel 2007 una leggera ripresa rispetto all’anno precedente, passando da 61,8 miliardi di euro in valori costanti 2007, a 63,2 miliardi, in linea con la crescita economica realizzata nell’anno: l’incidenza sul PIL infatti è rimasta invariata al 4,1%, percentuale confermata per il terzo anno consecutivo: sia in valore assoluto che in termini relativi la spesa del 2007 rimane inferiore a quella realizzata nel 2003. In tale contesto la quota di spesa in conto capitale effettuata nel Mezzogiorno, che aveva accennato ad una ripresa nel 2006, è nuovamente diminuita e rappresenta con il 35,3% del totale la quota più bassa registrata a partire dal 1998. Appare ormai rituale ricordare che questa percentuale, che eguaglia quella relativa al peso demografico del Mezzogiorno, è sensibilmente più bassa della percentuale posta come obiettivo da raggiungere nei documenti governativi. A questo riguardo va sottolineato che l’obiettivo fissato negli anni passati nel 45% del totale era stato portato l’anno scorso, nel Quadro Finanziario Unico, al 43% da raggiungere nel 2015 e quest’anno, per la stessa scadenza, si indica il 42,6%: di fronte all’insuccesso delle politiche si abbassa l’obiettivo. La riduzione della quota del Mezzogiorno è l’effetto della diminuzione in valore assoluto della spesa in conto capitale effettuata in tale area, passata tra il 2006 e il 2007 da 22,7 a 22,3 miliardi di euro in valori costanti 2007, a fronte dell’aumento registrato nel Centro-Nord, da 39,1 a 40,9 miliardi di euro. Responsabile di tale andamento è la spesa ordinaria, diminuita da 11,8 a 10,2 miliardi di euro, che si conferma l’elemento di debolezza dell’attività di investimento nel Mezzogiorno: la sua incidenza sulla spesa ordinaria complessiva del Paese è scesa nel 2007 al 21,4%, allontanandosi ancor più dall’obiettivo del 30% indicato nei documenti governativi; obiettivo fissato già in misura inferiore rispetto ad una equa distribuzione territoriale della spesa in conto capitale quale sarebbe quella corrispondente al peso del Mezzogiorno in termini di valore medio tra popolazione e superficie (38%) o almeno in termini di sola popolazione (35%). In questa situazione la spesa aggiuntiva ha avuto una funzione sostitutiva della spesa ordinaria, ma questo aspetto è rimasto nascosto: l’accento è stato posto, invece, prevalentemente se non esclusivamente, sul suo ammontare, quale annuncio di un impegno del Governo del momento per lo sviluppo del Mezzogiorno. Si è quindi osservato che tali risorse erano sprecate, visti i risultati negativi in termini di riduzione del divario, senza considerare appunto che esse erano utilizzate per effettuare gli interventi che nel Centro-Nord trovano finanziamento nelle risorse ordinarie e non per dotare il Mezzogiorno di infrastrutture tali da equipararlo al resto del Paese e farlo uscire dalla situazione di sottosviluppo. A questo riguardo ha rilievo analizzare la distribuzione della spesa in conto capitale tra investimenti e trasferimenti, utilizzando nuovamente i dati dei Conti Pubblici Territoriali, considerati questa volta al netto delle voci “Partecipazioni azionarie e conferimenti” e “Concessioni di credito e anticipazioni”. Da tali dati risulta che la spesa per investimenti nel Mezzogiorno si è ridotta nel 2007 rispetto all’anno precedente, sia in valore assoluto, passando in valori costanti da 11,4 miliardi di euro a 11,1 miliardi, che in percentuale sull’Italia, dal 32,9% al 32,1%. Quanto al peso degli investimenti in infrastrutture sul totale della spesa in conto capitale del Mezzogiorno, pari al 55,9% nel 2006 e al 56% nel 2007, ancora deboli sono gli effetti delle decisioni 34 del CIPE che hanno spostato risorse dai trasferimenti alle infrastrutture. La spesa per trasferimenti nel Mezzogiorno, pur in continua diminuzione a partire dal 2002, infatti, rappresenta una quota elevata, il 40,4% della spesa complessiva del Paese. Tab. 1. Spesa della P.A. in conto capitale complessiva (a) nel periodo 1998-2007, nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord (miliardi di euro 2007) (b) 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Mezzogiorno 11,6 11,7 11,4 9,3 13,0 13,4 11,3 11,3 11,8 10,2 Centro-Nord 29,3 31,6 30,7 32,6 36,5 38,0 36,9 36,2 36,2 37,5 Italia 40,9 43,3 42,1 41,9 49,6 51,5 48,1 47,5 48,0 47,7 - in % del PIL 3,0 3,1 3,0 2,9 3,4 3,5 3,3 3,2 3,2 3,1 - Mezzogiorno in % dell'Italia 28,4 27,0 27,0 22,2 26,3 26,1 23,4 23,9 24,5 21,4 Mezzogiorno 8,4 9,9 10,5 15,1 11,2 10,4 11,0 10,7 10,9 12,1 Centro-Nord 3,0 3,2 3,5 3,4 2,2 2,7 3,0 3,0 2,9 3,4 Italia 11,4 13,0 14,0 18,5 13,5 13,1 14,0 13,7 13,8 15,5 - in % del PIL 0,8 0,9 1,0 1,3 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9 1,0 - Mezzogiorno in % dell'Italia 73,9 75,7 75,2 81,8 83,3 79,2 78,8 78,0 79,3 78,1 Mezzogiorno 20,0 21,6 21,9 24,4 24,3 23,8 22,3 22,1 22,7 22,3 Centro-Nord 32,2 34,7 34,2 36,0 38,8 40,8 39,8 39,2 39,1 40,9 Italia 52,3 56,3 56,1 60,4 63,1 64,5 62,1 61,3 61,8 63,2 - in % del PIL 3,9 4,1 3,9 4,2 4,3 4,4 4,2 4,1 4,1 4,1 - Mezzogiorno in % dell'Italia 38,3 38,3 39,0 40,4 38,5 36,8 35,9 36,0 36,8 35,3 (a) Spesa in c/capitale del Conto consolidato P.A. al netto di eurotassa, cartolarizzazioni, sentenza IVA, debito ex ISPA, ecc.; gli apporti al capitale di Ferrovie Spa per omogeneità di confronto sono stati aggiunti anche negli anni precedenti al 2001. (b) La spesa a prezzi costanti è stata calcolata applicando ai valori correnti il deflatore del PIL. (c) Comprensiva delle erogazioni del FAS e di quelle della programmazione comunitaria e del relativo cofinanziamento nazionale. Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati DPS - Quadro Finanziario Unico. Spesa ordinaria Spesa per le aree sottoutilizzate (c) Spesa complessiva 35 Tab. 2. Spesa della P.A. in conto capitale per investimenti e trasferimenti (a) nel periodo 2000-2007, nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord (miliardi di euro 2007) (b) 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Mezzogiorno 11,0 12,6 11,5 10,9 11,9 11,6 11,4 11,1 Centro-Nord 21,1 23,0 23,7 24,8 27,1 24,4 23,4 23,6 Italia 32,1 35,6 35,1 35,8 39,1 36,0 34,8 34,7 - Mezzogiorno in % dell'Italia 34,3 35,4 32,6 30,6 30,6 32,2 32,9 32,1 Mezzogiorno 11,1 11,5 12,1 11,3 10,1 9,1 9,0 8,7 Centro-Nord 12,8 11,6 12,8 12,1 11,1 11,1 11,9 12,8 Italia 23,9 23,1 24,8 23,4 21,3 20,2 20,9 21,5 - Mezzogiorno in % dell'Italia 46,5 50,0 48,7 48,2 47,6 45,1 43,1 40,4 Mezzogiorno 22,1 24,1 23,5 22,2 22,1 20,7 20,4 19,8 Centro-Nord 33,8 34,5 36,4 37,0 38,3 35,5 35,3 36,4 Italia 56,0 58,7 59,9 59,2 60,3 56,2 55,7 56,2 - Mezzogiorno in % dell'Italia 39,5 41,1 39,3 37,5 36,6 36,8 36,7 35,3 (a) Comprensiva delle erogazioni del FAS e di quelle della programmazione comunitaria e del relativo cofinanziamento nazionale. Sono escluse le voci "Partecipazioni azionarie e conferimenti" e "Concessioni di crediti ed anticipazioni". (b) La spesa a prezzi costanti è stata calcolata applicando ai valori correnti il deflatore del PIL. Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati DPS - CPT. Spesa per investimenti Spesa per trasferimenti Spesa complessiva 36 9. Gli squilibri nelle dotazioni infrastrutturali Le infrastrutture per la mobilità Secondo l’indice sintetico di dotazione di infrastrutture per la mobilità, ottenuto mettendo “a sistema” dotazioni di base (reti: strade, ferrovie), con la capacità di movimentazione e di servizio (rappresentata dagli indici relativi ai nodi di scambio: porti, aeroporti, centri intermodali) il valore del Mezzogiorno, posta l’Italia pari a 100, risulta pari a 49,4, meno della metà di quello ricavabile con riferimento al Centro-Nord (115,7). Dall’analisi quantitativa della viabilità stradale emerge che, nel complesso, il Mezzogiorno è in linea con la media nazionale, come risultante, però, di una dotazione deficitaria delle rete autostradale (l’indice è pari a 78,6 rispetto a 114,8 del Centro- Nord), e di una assai maggiore dotazione di strade di interesse nazionale (ex statali), con un indice pari a 158, circa il doppio rispetto al Centro-Nord. E’ comunque evidente che quest’ultima compensa solo quantitativamente la carenza di autostrade, che rappresentano in tutti i paesi la componente più funzionale, più sicura, più servita da connessioni e raccordi, essenziale per i collegamenti sulle scale territoriali nazionali ed internazionali. Acqua La dotazione di reti idriche di adduzione è particolarmente carente nel Mezzogiorno; il livello dell’indice (posta l’Italia = 100) è pari a poco più di un terzo di quello del Centro-Nord (58,9 contro 141,9). Per quanto riguarda le reti di distribuzione, la distanza del Mezzogiorno dal resto del Paese è meno marcata, ma pur sempre assai rilevante: 72,2, rispetto al 128,4 del Centro-Nord. L’indice sintetico di dotazione di reti idriche pone complessivamente il Mezzogiorno ad un livello (65,6) pari a poco meno della metà di quello rilevabile per il Centro-Nord (135,2). I prelievi idrici per uso potabile ammontano a livello nazionale a 8,7 miliardi di metri cubi, di cui circa il 35% interessa il Mezzogiorno, una distribuzione territoriale sostanzialmente analoga a quella della popolazione residente. La potabilizzazione risulta nel complesso limitata al 31% dell’acqua prelevata, ed è praticata più nel Nord (33,8%) che nel Sud (26,1%). In Italia il 30,1% dell’acqua – che nel complesso alimenta la rete di distribuzione a partire dai serbatoi di raccolta – non raggiunge le utenze finali. Nel Mezzogiorno, dove lo stato di efficienza delle infrastrutture è particolarmente critico, le perdite ammontano in media al 37,4% del totale dell’acqua immessa in rete, a fronte di una quota assai più modesta (26,6%) nel resto del Paese. La dispersione delle risorse idriche raggiunge livelli particolarmente elevati in Puglia (46,3%), Sardegna (43,2%) e Abruzzo (38,6%). Nel Mezzogiorno assume, inoltre, un particolare rilievo la forte irregolarità nell’erogazione del servizio, con il 21,8% delle famiglie residenti che nel 2007 hanno lamentato un’irregolare fornitura di acqua potabile, contro il 9,2% del Centro-Nord; livelli particolarmente elevati si hanno in Calabria (30,6%) e Sicilia (30,1%). 37 Ambiente Il ciclo completo di depurazione dell’acqua interessa a livello nazionale poco più della metà della popolazione (55,4%), quota che nel Mezzogiorno sale al 61,9% e nel Centro-Nord si limita ad un più modesto 51,8%. Tra le regioni meridionali, elevati livelli di copertura del servizio si rilevano in Puglia (95,6%) e Sardegna (84,6%); condizioni particolarmente critiche si rilevano, invece, in Sicilia e Calabria, nelle quali la depurazione completa interessa, rispettivamente, solo il 27,8% ed il 41,9% della popolazione. La popolazione che risulta priva del servizio di depurazione rappresenta il 3,2% del totale a scala nazionale, ma arriva al 5,1% nel Mezzogiorno e, al suo interno, raggiunge un massimo in Campania (11,5%) e Calabria (7%). Quanto al ciclo dei rifiuti, si rileva per l’area meridionale una situazione particolarmente critica, essendo prevalente il ricorso allo smaltimento indifferenziato in discarica (l’indice medio è pari a 116,4 rispetto al 90,8 del Centro-Nord). L’apparente relativo minor ricorso allo smaltimento in discarica in Campania (43,3) che si rileva dalla tabella è in larga misura da attribuire alla quota rilevante di rifiuti provenienti dagli impianti di trattamento meccanico-biologico, stoccati, in attesa di essere avviati allo smaltimento in siti non solo regionali. Decisamente modesta appare nel Mezzogiorno il ricorso a pratiche più efficienti di smaltimento, quali l’incenerimento, il compostaggio e la termovalorizzazione. L’indice risulta nel Sud (46,1) pari ad un terzo di quello del resto del Paese (130,1). Energia La dotazione di reti di distribuzione di energia elettrica presenta nel Mezzogiorno un deficit, rispetto al Centro-Nord, di oltre il 30% ed è ancora più accentuato nelle reti di distribuzione di energia a bassa-media tensione (l’indice è pari a 75,6, contro 116,9 del Centro-Nord). Meno diffusa risulta al Sud anche la rete secondaria di distribuzione di gas, con un indice medio di dotazione pari a meno della metà di quello nazionale (44,6) e ad appena un terzo di quello delle regioni centro-settentrionali (138,2). La sintesi della dotazione di infrastrutture energetiche (distribuzione di energia elettrica e del gas) indica per tutto il Mezzogiorno una valore molto distante (67,3) dalla media nazionale e, a livello regionale, solo la Campania si colloca al di sopra di essa (123,2). Situazioni particolarmente deficitarie si rilevano in Sardegna (32,3), Calabria (56,0), Basilicata (49,2) e Molise (37,4). 38 TAB. 1 - Indici sintetici di dotazione infrastrutturale per la mobilità (numeri indici: Italia = 100,0) Nodi di scambio Reti Regioni Porti Aeroporti Centri intermodali Indice sintetico (a) Strade Ferrovie Indice sintetico Indice Sintetico Abruzzo 22,6 53,2 1,2 11,4 122,3 65,7 89,7 45,1 Molise 43,3 37,2 0,8 10,9 110,5 41,2 67,5 36,8 Campania 33,7 24,2 1,5 10,6 134,4 169,9 151,1 62,3 Puglia 207,6 81,3 1,4 28,4 100,4 82,0 90,7 61,6 Basilicata 0,0 31,3 0,7 1,0 92,7 34,8 56,8 14,5 Calabria 46,4 116,6 0,6 15,1 122,0 82,4 100,3 53,3 Sicilia 34,8 99,6 0,8 13,8 95,3 57,4 73,9 42,3 Sardegna 77,8 239,3 1,0 26,5 71,0 4,6 18,1 20,5 Mezzogiorno 71,3 80,5 1,1 18,3 101,6 64,7 81,1 49,4 - Sud 83,5 55,0 1,2 17,6 113,9 87,1 99,6 55,9 - Isole 45,5 134,3 0,8 17,1 83,5 31,8 51,6 35,7 Centro-Nord 115,7 110,7 156,1 126,0 98,9 124,3 110,9 115,7 - Nord-Ovest 48,6 112,0 357,9 124,9 106,1 134,1 119,3 121,1 - Nord-Est 284,7 88,2 20,7 80,4 89,9 105,1 97,2 91,2 - Centro 41,8 131,0 10,9 39,1 101,3 135,1 117,0 81,2 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 (a) Calcolato su dotazioni di base, capacità di movimentazione e di servizio. Alle regioni prive di dotazione viene attribuito il valore dell’area di appartenenza, ponderato dalla dotazione di reti. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Tab. 2. Dotazione di reti idriche rispetto alla popolazione (numeri indici: Italia = 100,0) Rete idrica Ripartizioni territoriali Adduzione Distribuzione Indice sintetico Mezzogiorno 58,9 72,2 65,6 Centro-Nord 141,9 128,4 135,2 Italia 100,0 100,0 100,0 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati del Comitato per la Vigilanza sull’uso delle risorse idriche. 39 Tab. 3. Volumi di acqua per uso potabile per regione - Anno 2005 (valori assoluti e indici di servizio) Acqua (milioni di metri cubi) Indici di servizio (%) Regioni Prelevata (A) Potabilizzata (B) Immessa (C) Erogata (D) Potabiliz- zazione (B/A) Erogazione (D/C) Dispersione [(C-D)/C] Abruzzo 293,2 14,8 197,5 116,8 5,1 59,1 40,9 Molise 165,2 25,4 42,9 26,3 15,3 61,4 38,6 Campania 960,3 40,0 731,3 462,2 4,2 63,2 36,8 Puglia 174,5 100,3 458,0 245,8 57,5 53,7 46,3 Basilicata 307,3 256,0 92,7 61,2 83,3 66,1 33,9 Calabria 346,9 51,7 239,4 169,3 14,9 70,7 29,3 Sicilia 553,8 161,7 560,8 385,4 29,2 68,7 31,3 Sardegna 249,0 145,8 232,7 132,2 58,5 56,8 43,2 Mezzogiorno 3.050,2 795,6 2.555,1 1.599,2 26,1 62,6 37,4 - Sud 2.247,4 488,1 1.761,7 1.081,6 21,7 61,4 38,6 - Isole 802,8 307,4 793,4 517,6 38,3 65,2 34,8 Centro-Nord 5.655,6 1.913,8 5.244,2 3.851,4 33,8 73,4 26,6 - Nord-Ovest 2.402,7 1.068,0 2.284,1 1.750,4 44,5 76,6 23,4 - Nord-Est 1.601,9 538,2 1.426,4 1.045,5 33,6 73,3 26,7 - Centro 1.651,1 307,6 1.533,7 1.055,5 18,6 68,8 31,2 Italia 8.705,8 2.709,3 7.799,4 5.450,6 31,1 69,9 30,1 Fonte: ISTAT, Sistema delle indagini sulle acque, 2006. Tab. 4. Acqua erogata per abitante e irregolarità nella distribuzione dell'acqua Acqua erogata (a) (litri/ab. per giorno) Regioni Valori assoluti In % del Centro-Nord Irregolarità nella distribuzione dell'acqua (b) Abruzzo 245 88,3 17,4 Molise 225 80,8 12,8 Campania 219 78,7 18,1 Puglia 165 59,6 17,1 Basilicata 282 101,6 15,3 Calabria 231 83,3 30,6 Sicilia 210 75,8 30,5 Sardegna 219 78,8 15,1 Mezzogiorno 211 76,0 21,8 - Sud 210 75,7 19,3 - Isole 213 76,5 26,7 Centro-Nord 278 100,0 9,2 - Nord-Ovest 308 111,0 9,0 - Nord-Est 258 92,8 6,5 - Centro 255 92,0 12,1 Italia 254 91,5 13,2 (a) Acqua effettivamente consumata per i diversi tipi di utilizzo nel 2005. (b)% di famiglie che denunciano irregolarità nell'erogazione dell'acqua nel 2007. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. 40 Tab. 5. Depurazione e trattamento dei rifiuti (valori percentuali e numeri indici rispetto alla popolazione) Distribuzione della popolazione per livello di depurazione (%) Gestione dei rifiuti (indici Italia = 100,0) Regioni Quota di popolazione priva di fognatura (%) Completa Parziale Assente Totale Discarica rifiuti Trattamento rifiuti (a) Abruzzo 0,0 51,9 45,5 2,6 100,0 235,5 92,0 Molise 0,0 76,0 23,0 0,9 100,0 574,1 91,2 Campania 0,3 62,1 26,2 11,5 100,0 43,3 47,5 Puglia 3,6 95,6 0,8 0,0 100,0 60,6 26,0 Basilicata 0,0 51,6 44,9 3,5 100,0 347,9 61,0 Calabria 0,0 41,9 51,1 7,0 100,0 113,8 90,1 Sicilia 3,0 37,8 55,4 3,8 100,0 147,5 17,0 Sardegna 0,0 84,6 15,0 0,5 100,0 151,2 75,2 Mezzogiorno 1,5 61,9 31,5 5,1 100,0 116,4 46,1 - Sud 1,2 67,8 24,9 6,1 100,0 101,2 53,1 - Isole 2,3 49,4 45,3 3,0 100,0 148,4 31,4 Centro-Nord 0,1 51,8 45,9 2,2 100,0 90,8 130,1 - Nord-Ovest 0,0 68,5 29,1 2,4 100,0 80,5 121,0 - Nord-Est 0,3 49,3 50,0 0,5 100,0 145,5 142,4 - Centro 0,0 31,4 64,9 3,7 100,0 51,5 130,4 Italia 0,6 55,4 40,8 3,2 100,0 100,0 100,0 (a) Incenerimento, compostaggio, bio-stabilizzazione e termo-valorizzazione. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Tab. 6. Dotazione di infrastrutture energetiche rispetto al territorio (numeri indici: Italia = 100,0) Rete elettrica Regioni Media tensione Alta tensione Totale Rete secondaria di trasporto del gas Indice sintetico Abruzzo 64,4 65,9 65,2 91,3 73,9 Molise 27,1 38,2 32,4 46,8 37,4 Campania 132,0 143,4 137,5 94,1 123,2 Puglia 22,2 159,5 88,1 59,8 80,5 Basilicata 36,9 87,3 61,1 23,5 49,2 Calabria 25,0 112,4 67,0 30,7 56,0 Sicilia 157,8 27,7 95,3 45,2 76,9 Sardegna 60,6 36,2 48,9 0,0 32,3 Mezzogiorno 75,6 81,8 78,6 44,6 67,3 Centro-Nord 116,9 112,5 114,8 138,2 122,5 - Nord-Ovest 178,1 126,9 153,5 173,4 159,5 - Nord-Est 126,1 79,4 103,7 147,2 117,6 - Centro 46,2 133,4 88,1 93,7 91,1 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT 41 10. Le infrastrutture per la mobilità L’imponente dimensione dei processi di globalizzazione, con la crescente unificazione e integrazione dei mercati, individuano le infrastrutture di trasporto – e ancor più – il “sistema” dei trasporti come condizione necessaria allo sviluppo e alla crescita equilibrata di una macroarea. Di fronte ad un quadro di scambi sempre più fitti tra sistemi “a rete” – di produzione, di commercializzazione, di servizi, articolati sul piano territoriale e sul piano funzionale – il Mezzogiorno si presenta ancora oggi periferico e diviso, non solo rispetto al “cuore” del sistema produttivo nazionale, delle grandi aree produttive dell’Europa continentale e della “nuova” Unione a 27, ma anche rispetto alle opportunità del Mediterraneo e dei traffici provenienti dall’Oriente. L’analisi condotta evidenzia come le infrastrutture esistenti siano non solo insufficienti a soddisfare la domanda attuale dei territori meridionali, ma anche non in grado di fornire un servizio adeguato alla vita civile e produttiva, in termini di accessibilità, di potenzialità di collegamento interregionali e tra province e a sostegno della logistica dei Sistemi produttivi locali. Ne emerge una situazione che configura un evidente “non sistema” dei trasporti, caratterizzato da carenza di collegamenti per la mobilità interregionale e per la logistica territoriale e dall’assenza di nodi di scambio tra le principali modalità di trasporto. Una situazione in grado di condizionare – ove non si pongano in essere interventi che possano facilmente condurre ad un suo strutturale miglioramento – ogni ragionevole prospettiva di sviluppo, soprattutto se si pensa al nostro Paese, e al Mezzogiorno in particolare, come “porta di accesso” ai mercati europei dei traffici commerciali dell’Est asiatico, attraverso la rotta del Canale di Suez ed il Mediterraneo. 1. Strade e ferrovie Dal 1970 al 2005, la rete autostradale del nostro Paese è aumentata del 67%, mentre nella media dell’UE a 15 l’incremento è di circa il 150%. In particolare, la Germania unita ha più che raddoppiato la propria rete, la Francia l’ha aumentata di 6 volte e la Spagna di più di 28 volte. Nello stesso arco di tempo, la domanda di mobilità stradale ha avuto una crescita vorticosa: in Italia, il trasporto merci è cresciuto del 275% e nell’UE a 15 del 215%; il traffico automobilistico privato è aumentato, rispettivamente, del 197% e del 162%. Come conseguenza di questo sviluppo delle dotazioni decisamente inadeguato e assai più contenuto che negli altri principali paesi europei, la rete autostradale del nostro Paese ha sostanzialmente esaurito la sua capacità di offerta ed è diventata sempre più esposta alla congestione e al blocco1. La dotazione di reti ferroviarie del nostro Paese risulta tuttora più bassa della media europea e resta confermata la limitata capacità di trasferire su rotaia una quota significativa di mobilità stradale, che rappresenterebbe un rimedio essenziale ai pesanti squilibri modali e all’impatto ambientale: il trasporto passeggeri del nostro Paese si 1 Secondo le stime dell’ultima revisione del Libro Bianco sui trasporti della Commissione Europea, i costi della congestione ammontano mediamente all’1% del PIL dell’UE, una percentuale che per l’Italia rappresenta un onere (in gran parte sommerso) pari a circa 14-15 miliardi di euro all’anno. 42 concentra per il 91% su strada e solo per il 5% su ferrovia (in Germania e in Francia è l’8%), mentre nel trasporto interno delle merci l’86% viaggia su strada e il 9% su rotaia (in Germania e in Francia è il 14%). Con riferimento alla dotazione stradale, il Mezzogiorno è sostanzialmente allineato ai valori medi nazionali, ma con una componente autostradale, fondamentale per i collegamenti nazionali ed internazionali, più modesta (78,6% della media nazionale, a fronte di 114,8% del Centro-Nord). Le regioni continentali del Sud registrano in complesso uno svantaggio relativamente minore rispetto al resto del Paese (l’indice, posta l’Italia= 100, è pari a 92,3). Tale situazione è però dovuta all’elevata concentrazione di autostrade in due sole regioni (Campania e Abruzzo), mentre: tutte le altre si trovano ben al di sotto della media nazionale, con livelli particolarmente bassi per alcune come la Basilicata (l’indice è pari a 13,4) e il Molise (37,4). La Sardegna è tuttora priva di tratte autostradali. Con riferimento allo sviluppo ferroviario il Mezzogiorno rimane su livelli nettamente più bassi rispetto al resto del Paese, associando, per di più, alla minore dotazione quantitativa una più modesta qualità. L’inadeguatezza funzionale della rete ferroviaria nel Mezzogiorno appare evidente se si considera che le linee non elettrificate (quasi totalmente a binario unico) coprono una quota della rete dell’area pari al 42,4%, rispetto al 23% del Centro-Nord). Salendo nella scala qualitativa della dotazione ferroviaria, le linee a binario singolo elettrificato del Mezzogiorno si situano (indice 92,4) poco sotto la media nazionale, ma alcune regioni presentano valori nettamente superiori (Sicilia, Campania, Basilicata e Abruzzo) e altre invece significativamente inferiori (Molise, Puglia e Calabria). Considerando la dotazione sintetica quantitativa ponderata sulla qualità tecnologica delle reti (si veda l’indice sintetico riportato nella sesta colonna di Tab. 6), l’indice della rete totale del Mezzogiorno è pari a 64,7 (Italia= 100) e scende notevolmente in Sardegna (4,6), Basilicata (34,8) e Molise (41,2). 2. Nodi di scambio: stazioni ferroviarie, porti, centri intermodali e aeroporti Un’ulteriore elemento di dotazione infrastrutturale è individuabile nei punti di accesso alla rete ferroviaria, cioè le stazioni (v. Tab. 6) per le quali, in rapporto al territorio, il Mezzogiorno presenta un indice di dotazione pari a 92,0, mentre per il Centro-Nord è pari a 104,3. Valori nettamente superiori al dato nazionale si rilevano in Abruzzo, Campania e Calabria. La dotazione di infrastrutture portuali nel Mezzogiorno è superiore a quella del Centro-Nord, sia nel numero dei porti (192,7% della media nazionale, contro 49,4), sia nella superficie degli accosti (136,9 contro 79,8). Ma se si passa a valutare la dimensione operativa, si può agevolmente constatare un netto ridimensionamento della preminenza meridionale nella portualità: la Campania, ad esempio, che presenta un indice superiore alla media nazionale, è particolarmente carente negli accosti (che nel caso della Basilicata risultano quasi inesistenti). Per Sardegna, Sicilia, Calabria e Puglia si conferma, invece – anche se su livelli inferiori a quelli rilevabili con riferimento al numero dei porti – una notevole capacità di attracco dei porti. 43 Per ovviare alla limitata capacità di movimentazione e lavorazione delle merci nei porti, la disponibilità dei centri intermodali, specie se collegati alle infrastrutture portuali, può essere determinante per cogliere le opportunità di sviluppo logistico del Mezzogiorno nel Mediterraneo. Purtroppo, proprio questa fondamentale categoria infrastrutturale risulta estremamente carente nell’area: complessivamente, l’indice di dotazione risulta pari a 37,8 rispetto alla media nazionale, con valori relativamente più elevati in Sicilia (60,0) e Sardegna (73,1), mentre altre due regioni (Molise e Basilicata) sono del tutto prive di tali infrastrutture. Una situazione di ancor più grave carenza si rileva nella “capacità di movimentazione” dei mezzi utilizzati nel trasporto di merci (container, semirimorchi e casse mobili); in quest’ambito, la dotazione del Mezzogiorno non va oltre un indice pari a 1,0 (un centesimo della media nazionale) mentre le singole regioni meridionali non superano il valore di 1,4 (in Campania). Un’ultima tipologia fondamentale tra i nodi di scambio è quella aeroportuale, soprattutto per la logistica delle persone, ma anche per quella delle merci. In quest’ambito il Mezzogiorno presenta un’accettabile dotazione di infrastrutture, sia nel numero di strutture (104,0), sia nel numero di piste (102,1) e relative superfici (95,6), nonostante due regioni meridionali (Molise e Basilicata) siano completamente sprovviste di aeroporti. Sono soprattutto le Isole, insieme a Calabria e Puglia, a presentare le maggiori dotazioni a livello regionale, mentre le dotazioni di minore entità si rilevano in Campania (le cui infrastrutture dovrebbero riferirsi ad un bacino d’utenza comprendente anche Molise e Basilicata), la cui infrastrutturazione per le tre categorie fin qui considerate è pari o inferiore ad un quinto di quella nazionale. Le dotazioni potenzialmente significative per capacità di servizio – le aree di sedime ed i parcheggi – presentano indici molto bassi nel Mezzogiorno (rispettivamente 78,0 e 65,5 rispetto alla media nazionale. Le infrastrutture aeroportuali del Mezzogiorno risultano carenti anche nella disponibilità di collegamenti con le altre modalità, cioè nella capacità di sviluppare l’integrazione logistica e lo scambio modale. Tutti gli aeroporti del Mezzogiorno hanno, infatti, collegamenti stradali, ma sono del tutto privi di collegamenti ferroviari. Ciò rappresenta un vero handicap nelle potenzialità di sfruttamento a fini turistici di questo patrimonio infrastrutturale. Questo vale, in parte, anche per i flussi di merci, soprattutto per quelle a più elevato valore aggiunto, che sono quelle che meglio si prestano alle caratteristiche proprie del trasporto aereo. 44 Tab. 1. Dotazione di infrastrutture stradali rispetto al territorio (numeri indici: Italia = 100) Regioni e ripartizioni territoriali Comunali Provinciali e regionali Di interesse nazionale (ex statali) Autostrade Autostrade a tre corsie Indice sintetico (a) Abruzzo 124,0 116,0 129,4 150,6 8,7 122,3 Molise 108,0 113,6 179,8 37,4 - 110,5 Campania 138,4 117,8 137,7 149,8 159,4 134,4 Puglia 107,1 81,4 116,6 74,5 - 100,4 Basilicata 90,3 99,8 141,9 13,4 - 92,7 Calabria 127,6 109,1 131,2 90,1 - 122,0 Sicilia 86,5 100,3 209,7 113,2 - 95,3 Sardegna 75,7 43,7 179,8 - - 71,0 Mezzogiorno 102,8 91,1 158,0 78,6 35,0 101,6 - Sud 117,4 103,4 132,7 92,3 50,1 113,9 - Isole 81,3 72,9 195,2 58,5 - 83,5 Centro-Nord 98,1 106,2 60,0 114,8 130,8 98,9 - Nord-Ovest 103,8 117,5 47,8 149,6 154,0 106,1 - Nord-Est 89,2 92,4 73,1 107,0 129,7 89,9 - Centro 101,8 109,5 58,2 88,4 93,4 101,3 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 (a) Basato sulla ponderazione delle principali categorie elementari in funzione della loro capacità di servizio. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati conto nazionale Trasporti, ANAS. Tab. 2. Dotazione di infrastrutture ferroviarie rispetto al territorio (numeri indici: Italia = 100) Rete FS Elettrificata Non elettrificata Regioni e ripartizioni territoriali Totale A binario doppio A binario semplice A binario doppio A binario semplice Indice sintetico rete FS (a) Indice sintetico rete totale (b) Abruzzo 88,6 51,2 118,2 - 113,2 65,7 69,4 Molise 113,3 23,2 62,5 - 290,0 41,2 60,0 Campania 142,9 185,9 113,4 - 112,1 169,9 165,5 Puglia 79,1 82,9 80,2 - 73,3 82,0 81,4 Basilicata 67,5 11,0 125,9 - 91,2 34,8 39,0 Calabria 105,0 76,9 88,4 - 161,3 82,4 88,3 Sicilia 100,1 29,3 160,9 - 141,6 57,4 63,7 Sardegna 33,1 - - 599,2 107,6 4,6 12,8 Mezzogiorno 85,8 55,3 92,4 117,3 122,1 64,7 69,1 - Sud 98,2 82,7 98,8 - 120,1 87,1 89,6 - Isole 67,7 15,1 83,1 289,8 125,2 31,8 39,1 Centro-Nord 109,8 130,8 105,2 88,0 84,7 124,3 121,3 - Nord-Ovest 129,7 131,7 150,8 - 107,5 134,1 132,0 - Nord-Est 91,4 110,5 90,7 - 65,8 105,1 102,0 - Centro 109,5 151,6 75,4 268,9 82,2 135,1 131,2 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 (a) Indice sintetico basato sulla ponderazione delle diverse categorie elementari in funzione della loro capacità di servizio. (b) Indice sintetico comprendente la rete ferroviaria in concessione e gestione commissariale governativa. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. 45 Tab. 3. Dotazione di stazioni ferroviarie rispetto al territorio e capacità di servizio rispetto alla popolazione (numeri indici: Italia = 100) Dotazione Capacità di servizio Regioni Totale stazioni (2005) Stazioni presenziate (2005) Totale stazioni (2005) Stazioni presenziate (2005) Abruzzo 115,5 120,9 164,5 172,1 Molise 74,7 39,5 226,3 119,8 Campania 114,7 90,0 74,7 58,6 Puglia 66,2 98,6 48,4 72,0 Basilicata 76,1 35,3 166,9 77,6 Calabria 110,7 47,7 169,2 72,9 Sicilia 79,8 111,2 79,4 110,8 Sardegna 84,8 89,8 79,5 84,1 Mezzogiorno 92,0 87,0 90,8 85,9 - Sud 97,2 78,0 96,2 77,2 - Isole 81,0 106,2 79,5 104,2 Centro-Nord 104,3 107,0 105,0 107,8 - Nord-Ovest 120,9 148,1 114,3 140,0 - Nord-Est 94,4 87,7 94,0 87,4 - Centro 93,6 75,9 103,2 83,7 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Tab. 4. Dotazione di infrastrutture portuali rispetto alla popolazione (numeri indici: Italia = 100) Regioni Porti (n.) Accosti (lunghezza) Piazzali (superficie) Magazzini (capacità) Abruzzo 95,8 146,2 22,6 16,1 Molise 97,4 102,4 63,7 0,0 Campania 107,9 68,5 29,5 40,4 Puglia 176,5 142,7 303,9 20,6 Basilicata 52,6 2,4 0,0 0,0 Calabria 202,7 125,6 66,8 2,1 Sicilia 286,5 174,2 42,3 12,8 Sardegna 377,5 310,5 109,6 3,0 Mezzogiorno 192,7 136,9 95,6 19,9 - Sud 137,5 103,3 113,0 24,3 - Isole 309,1 208,0 59,0 10,4 Centro-Nord 49,4 79,8 102,4 143,8 - Nord-Ovest 16,1 46,8 44,7 56,4 - Nord-Est 42,2 122,6 249,8 362,2 - Centro 102,1 83,2 36,9 49,3 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati Ministero Infrastrutture e Trasporti. 46 Tab. 5. Dotazione di infrastrutture intermodali rispetto alla popolazione (numeri indici: Italia = 100) Centri intermodali Regioni n. Superficie Capacità di movimentazione Disponibilità di binari Abruzzo 47,5 3,1 1,2 11,6 Molise 0,0 0,0 0,0 0,0 Campania 21,0 3,5 1,4 18,0 Puglia 29,7 15,2 1,2 21,8 Basilicata 0,0 0,0 0,0 0,0 Calabria 29,5 7,5 0,6 7,2 Sicilia 60,0 17,0 0,6 50,0 Sardegna 73,1 8,4 0,9 89,5 Mezzogiorno 37,8 9,7 1,0 29,9 - Sud 25,7 7,2 1,1 15,8 - Isole 63,2 14,9 0,7 59,7 Centro-Nord 135,3 151,2 156,1 139,7 - Nord-Ovest 156,8 193,0 359,2 173,3 - Nord-Est 125,1 187,1 19,3 146,2 - Centro 115,6 59,3 10,5 87,6 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Tab. 6. Dotazione di infrastrutture aeroportuali rispetto alla popolazione (numeri indici: Italia = 100) Regioni Aeroporti (n.) Piste (n.) Superficie piste (mq) Aree di sedime (mq) Aree di parcheggio (mq) Abruzzo 91,9 73,8 74,2 63,0 32,5 Molise 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 Campania 20,7 16,6 18,1 24,0 30,2 Puglia 117,8 118,3 110,2 125,1 52,8 Basilicata 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 Calabria 179,5 192,2 167,1 141,3 66,7 Sicilia 119,5 134,4 127,5 69,7 72,1 Sardegna 289,7 232,7 217,6 154,2 260,9 Mezzogiorno 104,0 102,1 95,6 78,0 65,5 - Sud 76,6 75,2 69,9 71,9 40,2 - Isole 161,7 158,8 149,8 90,7 119,0 Centro-Nord 97,8 98,9 102,4 112,0 118,9 - Nord-Ovest 77,1 80,5 84,8 98,9 138,8 - Nord-Est 118,6 103,9 99,0 94,7 77,5 - Centro 105,9 119,1 129,9 147,1 132,0 Italia 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. 47 11. Il Mezzogiorno nel contesto europeo I risultati economici dell’economia meridionale negli ultimi sette anni evidenziano non solo l’arresto di quello che, a fine anni ’90, sembrava un timido processo di convergenza, ma addirittura che il divario ha ripreso ad allargarsi sia nei confronti del resto del Paese, sia rispetto alle altre aree deboli dell’Unione. Dal confronto della dinamica nel periodo 2000-2007 del prodotto interno lordo pro capite (espresso in parità di potere d’acquisto) del Mezzogiorno con quella dei paesi deboli dell’UE27, emerge un quadro sconsolante. Il tasso di crescita dell’economia meridionale (2,0% m.a.) è stato meno della metà di quello della Spagna (4,9%), poco più di un terzo di quello dell’Irlanda (5,5%) e meno di un terzo di quello della Grecia (6,2% m.a.). Nel corso dell’ultimo settennio (2000-2007), il prodotto per abitante della Spagna, soprattutto per effetto del contributo di crescita offerto dalle aree deboli, ha superato il livello della Ue a 27 ed è superiore a quello del Mezzogiorno (68,8% della media Ue27) di quasi 36 punti percentuali; anche la Grecia (98,6%) ha superato il Sud, e, tra i Nuovi Stati membri, nel 2007, la Slovacchia ha raggiunto il livello di sviluppo del nostro Mezzogiorno, mentre Estonia, Repubblica Ceca e Slovenia lo hanno già superato. Anche i dati relativi alle performance di tutte le 267 regioni dell’Europa confermano la specialità in negativo delle regioni del Sud. Le aree comprese nell’Obiettivo “Convergenza” sono cresciute tra il 2000 e il 2005 ad un tasso del 4,8% medio annuo, a fronte del 3,7% medio dell’area. Analizzando nel dettaglio i singoli paesi, la Germania fa registrare un tasso di crescita del PIL nelle regioni “Convergenza” pari al 3%, a fronte del 2,8% delle regioni “Competitività”. Il processo di convergenza è ancora più evidente in Spagna dove le regioni deboli fanno segnare un +6,5% (quasi 5 volte la crescita delle regioni “Convergenza” italiane) superiore di quasi un punto al già sostenuto tasso di crescita delle regioni “Competitività” (+5,8%). Se si considerano le regioni “Convergenza” e quelle in phasing-out, cioè quelle che nel precedente Ciclo di programmazione erano Obiettivo 1, anche la Grecia evidenzia tassi di crescita più sostenuti nelle regioni in ritardo. In Italia, invece, nel periodo 2000-05 il tasso di crescita medio annuo del PIL delle regioni italiane rientranti nell’obiettivo “Convergenza” è stato inferiore a quello rilevabile nelle regioni “Competitività e Occupazione”: 1,5% contro 1,7%. Gli indicatori di competitività regionali A fronte di tali performance negative si è cercato di approfondire quali possono essere i fattori che determinano la mancata convergenza delle regioni meridionali. L’analisi condotta mira a costruire una geografia delle regioni europee, costruita sulla base di tre dimensioni: il benessere economico, la situazione di partecipazione ed equilibrio del mercato del lavoro, il livello di sviluppo delle risorse umane e della ricerca scientifica. Sulla base di queste tre dimensioni si costruito un indicatore denominato «indice di competitività», con il quale si tenta di esprimere una valutazione di sintesi sulla situazione di vantaggio/svantaggio competitivo delle diverse regioni europee. Tale risultato, seppure abbia un’ovvia relazione con aspetti più strutturali dell’economia come il PIL per abitante, integra tali indicazioni con una valutazione 48 degli strumenti soft che un’economia ha a disposizione per fronteggiare le sfide competitive del mercato globale. Secondo l’indicatore relativo all’occupabilità le regioni del Mezzogiorno tendono a collocarsi su valori inferiori a quelli rilevabili in base al reddito pro capite. Contribuisce a peggiorare sensibilmente la posizione delle regioni meridionali, ad esempio, il tasso di occupazione femminile che in Sicilia, Puglia, Campania, Calabria non raggiunge il 30%, in assoluto il più basso valore riscontrabile in Europa; distante di quasi 10 punti dai valori riscontrabili nelle regioni più deboli della Grecia e della Spagna e di quasi 20 dalle regioni appartenenti ai Paesi dell’Est Europa. Il gap con le altre regioni, anche meno sviluppate, dell’Europa risulta particolarmente rilevante nel campo della formazione del capitale umano e della ricerca. Emerge, in particolare, che la quota dei laureati nelle discipline scientifiche sulla popolazione adulta è pari ad appena il 10,4% in Sardegna, al 10,5% in Puglia, al 10,8% in Sicilia. Solo alcune regioni della Romania e del Portogallo hanno indici più bassi. Se confrontiamo le regioni del Sud con quelle dei paesi della Ue a 15 emerge un quadro sconsolante. Il valore più basso in Spagna si rileva nella regione della Extremadura con il 21%. Va sottolineato che anche le regioni del Centro-Nord rimangono sotto i valori medi della Ue. Pesa, infine, per le stesse prospettive di crescita del Sud, la scarsità di risorse dedicate alla ricerca e sviluppo, sia in termini di spesa in percentuale del PIL sia in termini di addetti al settore per 1.000 abitanti. Rispetto ad un valore medio nella Ue a 27 pari al 1,8%, le regioni del Mezzogiorno si collocano tutte sotto l’1%, con la sola eccezione della Campania con l’1,2%; i valori minimi si registrano in Calabria con una spesa in R&S pari ad appena lo 0,4% del PIL. Vanno sottolineati i livelli particolarmente elevati nell’indicatore di capitale umano e ricerca scientifica fatti segnare da alcune regioni rientranti nell’Obiettivo Convergenza (e quindi caratterizzate da bassi livelli del PIL pro capite) della Germania, della Slovenia, della Repubblica Ceca, regioni che hanno fatto segnare nella fase più recente tassi di crescita particolarmente significativi, a dimostrazione della capacità di attivazione di processi di sviluppo degli investimenti nel capitale umano e nella innovazione. In base all’indice sintetico di potenzialità competitive predisposto dalla SVIMEZ per tutte le 271 regioni della Ue a 27 sono state costruite diverse classi. Le regioni italiane dell’attuale Obiettivo “Convergenza” restano su valori inferiori al 70% della media europea denotando una sostanziale staticità se non segnali di declino. Se si considerano le 80 regioni NUTS2 dell’Obiettivo “Convergenza”, emerge come l’indicatore sintetico di competitività calcolato collochi le regioni meridionali dal 36° posto in giù in un gruppo composto soltanto da regioni di paesi nuovi entranti, più 3 regioni del Portogallo e 3 della Grecia. L’analisi condotta sembra contrastare con le indicazioni emergenti dall’indicatore utilizzato dalla Ue, di una progressiva uscita di alcune regioni meridionali dalla situazione di debolezza strutturale. L’utilizzazione di un indicatore più complesso, proprio nel caso delle regioni del Sud Italia, determina un abbassamento dei livelli relativi e il recupero di una sostanziale omogeneità del Mezzogiorno, con la sola eccezione dell’Abruzzo. In particolare la posizione delle regioni del Sud risulta particolarmente deficitaria proprio con riferimento agli indicatori di occupabilità e soprattutto di conoscenza e occupazione. 49 Tab. 1. Livelli e dinamica del PIL pro capite al 2007 PIL pro capite PPA (a) N.I. UE27=100 Rango al 2007 Rango al 2000 Guadagni e/o perdite 2000-07 Var. % 2006-07 Tasso medio annuo di crescita 2000-2007 Austria 31.784 128,4 4 4 0 5,9 3,3 Belgio 29.560 119,4 8 8 0 4,9 3,0 Germania 28.355 114,6 11 9 -2 5,6 3,3 Danimarca 30.862 124,7 5 5 0 4,3 3,0 Spagna 25.910 104,7 13 14 1 4,9 4,9 Finlandia 29.433 118,9 9 10 1 6,9 4,0 Francia 27.549 111,3 12 13 1 4,6 3,3 Grecia 24.393 98,6 15 16 1 6,5 6,2 Irlanda 36.299 146,7 2 6 4 6,0 5,5 Italia 25.208 101,8 14 12 -2 3,7 1,8 - Centro-Nord 29.590 119,5 7 2 -5 3,7 1,6 - Mezzogiorno 17.028 68,8 22 20 -2 3,3 2,0 Lussemburgo 70.253 283,8 1 1 0 7,0 6,1 Olanda 32.638 131,9 3 3 0 6,2 3,5 Portogallo 18.316 74,0 20 19 -1 4,5 3,0 Svezia 30.709 124,1 6 7 1 4,7 3,5 Regno Unito 29.318 118,4 10 11 1 5,6 4,0 Cipro 22.770 92,0 16 15 -1 5,3 4,3 Repubblica Ceca 20.163 81,5 18 21 3 9,0 6,4 Estonia 17.765 71,8 21 25 4 10,4 11,1 Ungheria 15.933 64,4 24 22 -2 4,2 5,9 Lituania 14.868 60,1 25 26 1 12,5 10,3 Lettonia 14.419 58,3 26 27 1 14,1 10,9 Malta 19.205 77,6 19 17 -2 6,2 2,7 Polonia 13.523 54,6 27 24 -3 9,6 5,7 Slovenia 22.426 90,6 17 18 1 8,5 5,9 Slovacchia 17.004 68,7 23 23 0 13,4 8,6 Romania 10.006 40,4 28 29 1 9,4 10,7 Bulgaria 9.441 38,1 29 28 -1 9,2 8,6 UE27 24.752 100,0 - - - 5,2 3,9 UE25 25.695 103,8 - - - 5,1 3,7 UE15 27.583 111,4 - - - 4,6 3,4 USA 38.597 155,9 - - - 4,1 3,5 Giappone 28.259 114,2 - - - 5,0 3,5 (a) Parità di potere di acquisto. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati SVIMEZ, ISTAT ed EUROSTAT. Paesi 50 Tab. 2. Tasso medio annuo di crescita del PIL in PPA e del PIL pro capite in PPA delle regioni NUTS2 per obiettivo dei Fondi strutturali 2007-13 e Paese. Anni 2000-05 Tasso medio annuo di crescita del PIL in PPA Tasso medio annuo di crescita del PIL per abitante in PPA Obiettivo Convergenza Phasing-out Phasing- in Obiettivo Competitività e occupazione Totale Obiettivo Convergenza Phasing- out Phasing- in Obiettivo Competitività e occupazione Totale Austria - 3,8 - 3,2 3,2 - 3,6 - 2,6 2,6 Belgio - 2,5 - 3,0 3,0 - 2,3 - 2,5 2,5 Germania 3,0 2,4 - 2,8 2,8 3,9 2,4 - 2,5 2,7 Danimarca - - - 2,8 2,8 - - - 2,5 2,5 Spagna 6,5 6,5 5,9 5,8 6,0 5,5 5,1 4,0 4,0 4,5 Finlandia - - 3,0 3,2 3,2 - - 3,6 2,8 2,9 Francia 5,1 - - 3,3 3,4 3,7 - - 2,7 2,7 Grecia 4,9 7,5 4,4 - 6,5 4,7 7,0 4,3 - 6,2 Irlanda - - 7,6 7,0 7,2 - - 5,4 5,3 5,3 Italia 1,5 0,8 1,8 1,7 1,7 1,4 0,9 1,6 0,9 1,1 Lussemburgo - - - 6,2 6,2 - - - 5,0 5,0 Olanda - - - 3,3 3,3 - - - 2,8 2,8 Portogallo 3,0 4,8 5,2 3,3 3,2 2,5 3,0 4,8 2,4 2,6 Svezia - - - 3,2 3,2 - - - 2,8 2,8 Regno Unito 4,4 5,1 3,9 4,2 4,2 4,1 5,0 3,9 3,7 3,7 Cipro - - 6,0 - 6,0 - - 4,2 - 4,2 Repubblica Ceca 5,3 - - 6,5 5,6 5,4 - - 6,7 5,6 Estonia 10,3 - - - 10,3 10,7 - - - 10,7 Ungheria 4,6 - 7,5 - 5,9 5,0 - 7,4 - 6,2 Lituania 9,2 - - - 9,2 9,8 - - - 9,8 Lettonia 9,2 - - - 9,2 9,9 - - - 9,9 Malta 2,4 - - - 2,4 1,7 - - - 1,7 Polonia 4,5 - - - 4,5 4,6 - - - 4,6 Slovenia 5,5 - - - 5,5 5,4 - - - 5,4 Slovacchia 6,5 - - 9,3 7,3 6,5 - - 9,9 7,3 Romania 9,2 - - - 9,2 10,0 - - - 10,0 Bulgaria 7,2 - - - 7,2 8,4 - - - 8,4 UE27 4,8 5,3 5,5 3,3 3,7 5,0 4,8 4,5 2,7 3,4 UE25 4,4 5,3 5,5 3,3 3,6 4,4 4,8 4,5 2,7 3,2 UE15 3,7 5,3 5,1 3,3 3,5 3,4 4,8 3,9 2,7 2,9 (a) Parità di potere d'acquisto a valori correnti. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati EUROSTAT. Paesi 51 Fig. 1. Regioni NUTS2 secondo le classi dell'indice sintetico di benessere economico Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati SVIMEZ, ISTAT ed EUROSTAT. 52 Fig. 2. Regioni NUTS2 secondo le classi dell'indice sintetico di occupabilità Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati SVIMEZ, ISTAT ed EUROSTAT. 53 Fig. 3. Regioni NUTS2 secondo le classi dell'indice sintetico di formazione e ricerca Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati SVIMEZ, ISTAT ed EUROSTAT. 54 Fig. 4. Regioni NUTS2 secondo le classi dell'indice sintetico di competitività economica Fonte : Elaborazioni SVIMEZ su dati SVIMEZ, ISTAT ed EUROSTAT. 55 12. L’ICT e internet Secondo indagini condotte a livello europeo sull’utilizzo di Internet nelle famiglie, l’Italia detiene l'ultimo posto della classifica, con percentuali di diffusione inferiori al 40%. Nel nostro Paese, inoltre, il fenomeno è esclusivo appannaggio delle giovani generazioni, soprattutto di sesso maschile, mentre la percentuale di donne con figli che utilizzano internet è ferma al 30%, in vistosa crescita rispetto al 2005 (+15%), ma molto lontana dalla media europea (60% circa) e dalle nazioni più informatizzate, i cui valori superano il 90%. Secondo uno studio dell'AICA condotto su Italia, Francia e Spagna, i tecnici italiani sono più vecchi di due anni rispetto ai colleghi francesi e di ben 3 anni rispetto agli spagnoli. Tecnici che fanno fatica ad aggiornarsi con continuità: la partecipazione italiana alla formazione continua è di 6,1 contro una media europea del 9,6, che arriva a 32,1 in Svezia. Negli ultimi anni il divario tecnologico Nord-Sud si è accentuato: possiedono un personal computer poco più del 50% delle famiglie del Centro-Nord e il 43% delle famiglie meridionali; l'accesso ad internet è presente nel 32,6% delle famiglie meridionali e in quasi il 42% di quelle centro-settentrionali; la connessione a banda larga riguarda il 17,9% delle famiglie del Sud contro il 24,8% di quelle del Nord. È importante notare la differenza nell'utilizzo di internet, che tra Nord e Sud è di oltre 10 punti percentuali (38,5% al Nord e 27,9% nel Mezzogiorno). Il luogo dove maggiormente si utilizza internet è la propria casa, seguito dal posto di lavoro e di studio. Anche in questo caso vi sono forti differenze tra Nord e Sud imputabili, probabilmente, alla mancanza di connessione in banda larga e, quando invece presente, al suo elevato costo di accesso. Il digital divide rimane anche nel campo della formazione. Sul totale della popolazione di età superiore ai 3 anni che usa il computer, ha frequentato corsi di informatica il 30,9% nelle regioni centrosettentrionali e solo l'11% in quelle meridionali. Riguardo all’informatizzazione delle aziende, dalle analisi emerge che si trovano Pc in oltre il 97% delle imprese con più di 10 addetti nel Nord, nel 95% nel Centro e nel 96% nel Mezzogiorno, ma lo utilizzano soltanto una minoranza: il 44% degli addetti al Centro-Nord e il 30,8% al Sud. Inoltre le imprese che hanno un proprio sito web nel Mezzogiorno sono solo il 48,5%, a fronte di una media superiore al 60% nel Centro-Nord. Sono poco meno del 27% quelle che nel Mezzogiorno hanno una rete intranet, contro quasi il 34% del Centro-Nord. Sempre nel Mezzogiorno sono solo il 9,4% le imprese che utilizzano sistemi ERP1 (16% circa nel Centro-Nord); quelle che utilizzano applicazioni CRM2 1 Secondo le stime dell’ultima revisione del Libro Bianco sui trasporti della Commissione Europea, i costi della congestione ammontano mediamente all’1% del PIL dell’UE, una percentuale che per l’Italia rappresenta un onere (in gran parte sommerso) pari a circa 14-15 miliardi di euro all’anno. 2 CRM - Customer Relationship Management. Qualsiasi applicazione software realizzata per gestire i rapporti tra azienda fornitrice e clienti potenziali o attivi, con una duplice finalità: acquisire nuovi clienti e soddisfare i clienti già acquisiti. Gli scopi di un software CRM non sono quelli di gestire i rapporti coi clienti in termini di flussi esecutivi di operazioni materiali documentate (vendita, fatturazione, resi, incassi, ecc.) per i quali si utilizzano da decenni i software gestionali classici (prodotti back-end), 56 sono il 21% al Sud e superiori al 25% nel Nord. Le imprese comunque hanno bisogno di personale specializzato in ICT e lamentano, soprattutto al Nord Est, la carenza di candidati, mentre pesa nel Mezzogiorno la mancanza di esperienza. Secondo una ricerca della NetConsulting per Microsoft, nelle aziende il principale ostacolo allo sviluppo era costituito dal basso livello di competenze interne (circa il 70% dei casi). Per questo più del 28% delle imprese del Centro-Nord e del 18% del Mezzogiorno ha fatto ricorso ad altre aziende per reperire personale già formato. Il digital divide Nord-Sud si fa sentire che nella pubblica amministrazione. Meno di un quinto dei Comuni italiani ha organizzato attività formative nel campo informatico; nel Mezzogiorno solo il 5% dei dipendenti è stato coinvolto in corsi di questo tipo. Riguardo alle dotazioni informatiche, oltre ai pc, nella PA sono diffusi i GIS e i CAD3, deputati a gestire dati georeferenziati, che cioè possono e devono essere visualizzati su una mappa del territorio (per i Piani Territoriali, il Catasto, i dati riguardanti sorgenti, pozzi, tombini, condutture ecc.). Passando al tipo di collegamento, invece, la banda larga è presente in poco meno del 59% dei Comuni (53,6% nel Mezzogiorno). Le Regioni meridionali con il minor numero di propri dipendenti connessi ad internet sono la Campania e la Sicilia. La circoscrizione che utilizza maggiormente internet è invece il Nord-Est ( 71,6% dei dipendenti). Tutte le Amministrazioni forniscono on line servizi informativi, più dell'80% offre modulistica; ma sul fronte della piena interattività resta ancora molto da fare: viene garantita solo dal 3% dei Comuni, da poco meno dell'11% delle Province e dal 54,5% delle Regioni. I pagamenti on-line, prassi comune e consolidata in tutte le nazioni europee, sono possibili in Italia nel 9,4% dei Comuni e nel 31,8% delle Regioni; nel Mezzogiorno solo il 7,5% dei Comuni e due Regioni sono abilitati al servizio. Tab. 1. Utilizzo del pc, di internet e luogo principale del suo utilizzo Ripartizioni territoriali Persone di 3 anni e più che usano un computer Personedi 6 anni e più che usano internet Casa Lavoro Mezzogiorno 33,9 27,9 19,9 8,9 Centro-Nord 44,1 38,5 28,8 16,6 Italia 40,5 34,8 25,6 13,9 Fonte: ISTAT. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione: disponibilità nelle famiglie e utilizzo degli individui. Roma 2007 piuttosto gestire proprio tutti quei rapporti che precedono e seguono l'atto di vendita formale di un bene o servizio (prodotti front-end). 3 GIS - Sistemi Informativi Geografici. Permette l'acquisizione, la registrazione, l'analisi, la visualizzazione e la restituzione di informazioni e dati georeferenziati. CAD - Computer Aided Design. Progettazione assistita dal computer; indica genericamente programmi software per il disegno tecnico vettoriale in 2 e/o 3 dimensioni. 57 Tab. 2. Persone di 6 anni e più che usano il personal computer e Internet per modalità di acquisizione delle abilità di utilizzo di Ripartizioni territoriali Studio individuale Studio attraverso pratica Colleghi, parenti, amici Corsi di formazione su iniziativa del datore di lavoro A scuola o all'università Mezzogiorno 41,5 76,3 62,9 19,7 35,0 Centro-Nord 44,8 75,9 63,5 12,8 33,7 Italia 42,4 76,2 63,1 17,7 34,6 Mezzogiorno 40,5 76,7 64,7 15,3 27,3 Centro-Nord 47,4 76,7 66,0 11,7 29,1 Italia 42,4 76,7 65,1 14,3 27,8 Fonte: ISTAT. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione: disponibilità nelle famiglie e utilizzo degli individui. Roma 2007 Personal computer Internet Tab. 3. Imprese informatizzate con almeno 10 addetti che utilizzano tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ICT) di base e avanzate Imprese con E-mail Imprese con Internet Imprese con Lan Imprese con sito Web Imprese con Intranet Imprese che utilizzano sistemi ERP Imprese che utilizzano applicazioni CRM Mezzogiorno 94,6 96,6 58,6 48,5 26,7 9,4 21,1 Nord-ovest 97,3 98,0 62,5 62,6 35,2 16,6 23,5 Nord-est 97,1 98,2 62,9 62,9 33,1 16,6 25,2 Centro 95,8 97,1 61,8 57,9 32,6 14,5 25,2 Italia 96,4 97,6 61,7 59,0 32,4 14,8 23,8 Fonte: ISTAT. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle imprese - Anno 2007. Tecnologie dell'informazione e della comunicazione di base Tecnologie dell'informazione e della comunicazione avanzate Circoscrizioni e ripartizioni territoriali 58 13. Sicurezza e lotta alla criminalità nel Mezzogiorno 1. L’andamento della delittuosità Negli ultimi anni si è registrata, nel nostro Paese, una ripresa della delittuosità, che ha interrotto la fase decrescente che aveva caratterizzato il periodo dal 1998 al 2001. Con riferimento, in particolare, al 2006, ultimo anno per il quale sono al momento disponibili dati completi ufficiali sulle denunce fatte all’Autorità giudiziaria dalle Forze dell’ordine (v. Tab. 1), si rileva, rispetto al 2005, un incremento del totale dei reati pari al 6,2% nel Mezzogiorno (dopo il 4,6% dell’anno precedente) e al 7,9% nel Centro- Nord (dopo il 7,5%). Ancora una volta, come già negli anni precedenti, l’andamento nel Mezzogiorno è stato più favorevole - o, meglio, meno sfavorevole - di quello del Centro-Nord; un risultato che ha ulteriormente consolidato la situazione di relativa minore diffusione della delittuosità rilevabile – con riferimento al complesso dei reati e, quindi, prescindendo dalla loro tipologia – nell’area meridionale, dove, nel 2006, si sono contati 36,7 delitti per 1.000 abitanti, rispetto ai 52,6 nel resto del Paese (nel 2005 erano stati rispettivamente 34,6 e 49,2). Nel 2006 sono sensibilmente cresciuti i delitti appartenenti alla “criminalità violenta” e più nel Mezzogiorno (12,4%) che nel Centro-Nord (9,9%); nell’area meridionale il numero di tali reati, rapportato alla popolazione, risulta comunque decisamente inferiore (7 ogni mille abitanti contro i circa 10 nel Nord). All’interno di questo gruppo, gli omicidi consumati (esclusi quelli imputabili alla mafia), in costante diminuzione negli ultimi anni, hanno registrato nel 2006 ancora una riduzione nel Mezzogiorno, pari a –5,9% (da 238 a 224), mentre nel Centro-Nord si è avuta una crescita del 13,4% (da 254 a 288). Una tendenza analoga si riscontra per gli omicidi tentati, con una flessione del 6,9% nel Sud e un aumento del 4,5% nel Nord. Aumenti maggiori nel Mezzogiorno si rilevano per le percosse (11,7%), per i danneggiamenti con incendio (ben il 32,8% in più) e per le lesioni dolose (24,2%). Per le violenze sessuali, un reato drammaticamente in crescita da molti anni, che ha contribuito notevolmente ad accrescere il senso di insicurezza della popolazione, in particolare di quella femminile, si rileva che a livello nazionale le denunce nel 2006 sono state 4.513 a fronte delle 4.020 dell’anno precedente, con un incremento del 12,3%. Nel Mezzogiorno le denunce per violenza sessuale sono aumentate dell’8,5%, un incremento inferiore a quello del Centro-Nord (13,7%), che contrasta, però, con la flessione, sia pur lieve, registrata nell’area nel 2005. Per quanto riguarda la “criminalità diffusa”, un’altra tipologia di reato che incide in misura notevole sulla percezione di insicurezza, ed anche sul totale dei delitti, nel 2006 si è avuto nel Mezzogiorno un aumento complessivo dell’8,3% (5,8% nel Centro- Nord), con un balzo notevole (28,7%) per le rapine commesse in negozi, strade e abitazioni e, soprattutto, per le truffe informatiche (55,8%), un reato che sta crescendo a ritmi elevatissimi da alcuni anni. E’ da rilevare che per quest’ultimo reato i casi verificatisi nel Mezzogiorno sono, in rapporto alla popolazione, più numerosi di quelli rilevabili nel resto del Paese: 23 ogni 10 mila abitanti contro 19. I reati ascrivibili alla “criminalità organizzata” hanno registrato una lieve crescita in ambedue le ripartizioni del Paese e, a conferma che gli “interessi” delle organizzazioni criminali sono sparsi in tutto il territorio nazionale, in rapporto alla 59 popolazione residente essi sono solo di poco più numerosi nel Mezzogiorno: 96 per 100.000 abitanti contro 88,7 nel Centro-Nord. Nel 2006 nel Mezzogiorno sono stati commessi 106 omicidi per motivi di mafia e 38 sono quelli tentati; rispetto all’anno precedente se ne sono avuti, rispettivamente, 2 e 1 in meno. Nel corso del tempo il numero di omicidi legati alle varie mafie si è fortemente ridimensionato, a dimostrazione di un cambio di strategia da parte delle associazioni criminali volto ad una minore visibilità; si consideri che nel 1990 gli omicidi mafiosi nel Mezzogiorno furono ben 506, scesi poi a 230 nel 1995 e a 141 nel 2000. Scendendo al dettaglio regionale, si rileva che – con riferimento al complesso dei reati - la maggiore diffusione relativa di fatti delittuosi si ha in Liguria, con 67 reati ogni 1.000 abitanti, seguita da Lazio (59), Emilia-Romagna (58), Piemonte (55) e Lombardia (55). Tutte le regioni meridionali si collocano sensibilmente al di sotto dei suddetti valori, con punte più elevate (comprese tra il 35 e il 39 per mille) nelle quattro regioni in cui è radicata la presenza della criminalità organizzata, e in Abruzzo, che risente soprattutto dell’elevato numero di furti in abitazioni ed esercizi commerciali. Nel 2006 in Campania sono stati commessi complessivamente 140 omicidi volontari, il 42% di tutti quelli avvenuti nel Mezzogiorno ed oltre un quinto del totale nazionale; rispetto all’anno precedente ce ne sono stati 12 in più, pari al +9,4%. Altri 156 omicidi si sono verificati nelle rimanenti regioni “a rischio”: 33 in Puglia, 61 in Calabria e 62 in Sicilia, tutte in diminuzione rispetto all’anno prima e pari, rispettivamente, a -5,7%, -11,6% e –11,4%. La Campania risulta la regione di gran lunga più colpita anche per quanto riguarda le rapine, con oltre 17 mila casi (il 67% del totale Mezzogiorno e oltre un terzo dell’intero Paese), in aumento dell’8,5% sull’anno precedente. A distanza seguono la Lombardia con 8.134 rapine (+17,2%), il Lazio e la Sicilia con poco meno di 4.800 rapine, in aumento rispettivamente del 17,1% e del 22,2% rispetto al 2005. L’incremento della criminalità negli ultimi anni trova un suo evidente riscontro nell’aumento della percezione di insicurezza dei cittadini. Come si vede dalla Tab. 3, infatti, la quota delle famiglie che avvertono molto o abbastanza il rischio criminalità nella zona in cui vivono, che era gradualmente scesa dal 32,5% nel 1999 al 27,4% nel 2003, è salita al 29,2% nel 2005, al 31,3% nel 2006 e al 34,6% nel 2007. I dati riferiti alle due grandi ripartizioni evidenziano che nei primi anni duemila il rischio criminalità era percepito in misura pressochè analoga; negli anni successivi esso si è accresciuto più al Nord che nel Sud: la quota di famiglie “insicure” è infatti salita, nel 2007, rispettivamente al 35,0% e al 33,8%, rispettando, così, la differenza territoriale prima evidenziata nella diffusione relativa dei reati. A livello regionale, si rileva che in Campania, con riferimento all’anno 2007, ben il 54% delle famiglie hanno dichiarato di avvertire molto o abbastanza presente il rischio criminalità nella zona in cui abitano; si tratta di una quota che si pone nettamente al di sopra della media nazionale e di quella del Mezzogiorno. Nell’ambito meridionale, seguono la Puglia con una quota del 35,5%, la Sicilia con il 27,7%, e l’Abruzzo, che, da regione tra le più tranquille, ha visto aumentare notevolmente negli ultimi due anni la percezione di insicurezza, giungendo ad un livello (23,8%, dal 13,1% del 2005) superiore a quello della Calabria (22,6%). Dai giudizi espressi dalle famiglie, il Molise e la Basilicata, con valori rispettivamente del 12,0% e del 9,7%, risultano nettamente le regioni più tranquille. 60 Nell’ambito del Centro-Nord vanno segnalati i casi della Lombardia e del Lazio, non solo per l’elevata percezione di insicurezza – la denuncia rispettivamente il 41,4% e il 46,3% delle famiglie – ma anche perchè essa ha registrato una fortissima impennata rispetto ad appena due anni prima, il 2005: di 10 punti in Lombardia e di circa 15 nel Lazio. 2. La lotta alle organizzazioni mafiose Nell’ambito della lotta alle organizzazioni mafiose, uno degli strumenti ritenuti più efficaci è la confisca dei beni mafiosi, regolata dalla legge 109 del 1996; essa, però, continua ad essere caratterizzata da ritardi e difficoltà: tra il provvedimento di sequestro e la confisca definitiva, infatti, trascorrono mediamente 10 anni. In Italia, dal 1983 al 31 dicembre 2007, sono stati confiscati alle organizzazioni mafiose 8.017 immobili e, di questi, solo poco più della metà (4.205) sono stati destinati a riutilizzo per finalità sociali. Larga parte delle confische ha ovviamente riguardato il Mezzogiorno (6.792 immobili) ed in particolare la Sicilia, che assomma poco meno della metà delle confische. La regione siciliana è anche quella in cui si rileva la quota più elevata di case e terreni inutilizzati o ancora nella disponibilità dei mafiosi: ben 2.226 su 3.683, pari al 60%. A notevole distanza seguono, per numero di immobili confiscati, la Campania (1.237) e la Calabria (1.173) che, rispetto alla regione siciliana, mostrano una minore quota di beni destinati: rispettivamente il 37,2% e il 33,7%. Per quanto riguarda le aziende, ne sono state confiscate alla mafia 987, di cui 730 già destinate e 257, pari al 26%, ancora gestite dall’Agenzia del Demanio; si tratta di una quota decisamente inferiore a quella rilevata per gli immobili. Nel Mezzogiorno le aziende confiscate sono 709, di cui 514 già destinate; la Sicilia e la Campania assorbono circa l’80% delle confische e delle aziende destinate a riutilizzo. 3. Il costo per lo sviluppo dei ritardi nella giustizia civile Gli imprenditori italiani, per avere giustizia in una causa civile, devono attendere in media 1.765 giorni (4 anni, 10 mesi e 5 giorni) tra primo e secondo grado di giudizio, mentre per una procedura fallimentare l’attesa arriva, in media, a 3.140 giorni (8 anni, 7 mesi e 10 giorni). Gli oneri che le imprese subiscono a causa della lentezza della giustizia sono stimati da Confartigianato nell’ordine dei 2,3 miliardi di euro/anno (v. Tab. 2). La durata media più elevata si ha in Basilicata, con 3.391 giorni (9 anni e 4 mesi); seguita dalla Liguria (2.910), dalla Puglia (2.596) e dalle Marche (2.277). I tempi più brevi si riscontrano, invece, nel Trentino Alto-Adige (970 giorni). I tempi si allungano considerevolmente in tutte le regioni, nei procedimenti fallimentari, raggiungendo i valori massimi in Calabria (5.784 giorni, pari a 15 anni e 10 mesi) e in Sicilia (5.611); ma tutte le regioni meridionali presentano tempi assai più lunghi rispetto al resto delle regioni italiane. Il costo dei ritardi della giustizia civile è stimato per il Mezzogiorno in 8.762 milioni di euro, pari al 37,6% del totale nazionale, una quota elevata se si considera la più modesta dimensione dell’apparato produttivo meridionale. In termini di rapporto costo/impresa, infatti, il valore per il Mezzogiorno risulta pari a 434 euro, a fronte dei 61 359 per il Centro-Nord. I maggiori costi si rilevano per il Lazio (593 euro), segue la Campania (590), Basilicata (541) e Puglia (482). In sette anni, dal 1997 al 2004, la durata media delle procedure fallimentari è aumentata mediamente di due anni. Anche nel caso della durata dei procedimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza (v. Tab. 3) si osservano tempi lunghi, con una rilevante articolazione nelle diverse aree del Paese. Si conferma la maggiore lentezza della giustizia nel Mezzogiorno, dove la durata media dei procedimenti, nel primo grado di giudizio, è di 895 giorni, circa un anno in più rispetto al Centro-Nord (562 giorni). Anche in questo caso le differenze tra gli estremi della graduatoria sono insostenibili, perchè si va dai 3 anni e 10 mesi a Taranto agli 8 mesi necessari, mediamente, per lo stesso procedimento a Torino. Il differenziale territoriale a sfavore del Mezzogiorno si conferma nei procedimenti in appello, anche se le distanze tra rispetto al Nord sono meno rilevanti (710 giorni contro 513). Tra i 10 distretti più “lenti”, ben 7 interessano il Mezzogiorno e assai rilevanti appaiono le distanze medie tra i distretti “meno virtuosi” e quelli più rapidi: a Reggio Calabria occorrono mediamente 3 anni 10 mesi e 5 giorni, a Trento sono sufficienti 3 mesi e 10 giorni. 62 Tab. 1. Delitti denunciati all'Autorità giudiziaria dalle forze dell'ordine nel 2006, per tipologia di delitti N. Per 100.000 ab. Var. % su 2005 N. Per 100.000 ab. Var. % su 2005 N. Per 100.000 ab. Var. % su 2005 CRIMINALITA' DIFFUSA 465.582 2.242,7 8,3 1.294.971 3.408,6 5,8 1.760.553 2996,6 6,5 Furti 386.185 1.860,2 3,9 1.199.016 3.156,0 5,9 1.585.201 2698,1 5,4 Rapine meno gravi (a) 19.606 94,4 28,7 16.645 43,8 23,3 36.251 61,7 26,2 Ricettazione 11.886 57,3 -3,0 18.156 47,8 -2,1 30.042 51,1 -2,4 Truffe e frodi informatiche 47.905 230,8 55,8 61.154 161,0 2,3 109.059 185,6 20,5 CRIMINALITA' VIOLENTA 148.385 714,9 12,4 362.970 955,3 9,9 511.355 870,4 10,6 Danneggiamenti 81.900 394,5 9,9 262.353 690,6 13,7 344.253 585,9 12,8 Danneggiamento seguito da incendio 7.181 34,6 32,8 2.923 7,7 -16,7 10.104 17,2 13,3 Estorsioni 3.071 14,8 3,9 2.329 6,1 -10,6 5.400 9,2 -2,9 Lesioni dolose 22.767 109,7 24,2 36.376 95,7 -5,0 59.143 100,7 4,4 Minacce 26.952 129,8 9,0 44.904 118,2 7,2 71.856 122,3 7,9 Omicidi volontari consumati (b) 224 1,2 -5,9 288 0,7 13,4 512 0,9 4,1 Omicidio preteritenzionale 18 0,1 28,6 20 0,1 -16,7 38 0,1 0,0 Percosse 4.344 20,9 11,7 9.465 24,9 1,5 13.809 23,5 4,5 Sequestri di persona per motivi sessuali 74 0,4 -14,0 228 0,6 12,3 302 0,5 4,5 Tentato omicidio (b) 676 3,3 -6,9 749 2,0 4,5 1.425 2,4 -1,2 Violenze sessuali 1.178 5,7 8,5 3.335 8,8 13,7 4.513 7,7 12,3 CRIMINALITA' ORGANIZZATA 19.931 96,0 0,6 33.696 88,7 0,7 53.627 91,3 0,7 Associazione per delinquere 492 2,4 -24,7 582 1,5 -2,8 1.074 1,8 -14,2 Associazione per delinquere di tipo mafioso 107 0,5 -23,6 21 0,1 61,5 128 0,2 -16,3 Attentati 267 1,3 16,6 351 0,9 13,6 618 1,1 14,9 Contrabbando 756 3,6 21,2 394 1,0 -8,8 1.150 2,0 8,9 Incendi 6.517 31,4 3,0 6.142 16,2 -1,3 12.659 21,5 0,9 Omicidio di tipo mafioso 106 0,5 -1,9 3 0,0 200,0 109 0,2 0,0 Rapine gravi (c) 945 4,6 1,2 2.549 6,7 2,9 3.494 5,9 2,5 Sequestri di persona a scopo estorsivo 117 0,6 -35,0 161 0,4 -14,4 278 0,5 -24,5 Sfruttamento prostituzione e pornografia 406 2,0 11,8 1.362 3,6 -0,4 1.768 3,0 2,2 Stupefacenti 10.180 49,0 -0,4 22.126 58,2 1,3 32.306 55,0 0,8 Tentati omicidi di tipo mafioso 38 0,2 -2,6 5 0,0 0,0 43 0,1 -2,3 REATI ECONOMICI 5.636 27,1 -4,1 6.959 18,3 -9,4 12.595 21,4 -7,1 Contraffazione di marchi e prodotti industriali 758 3,7 -4,2 1.428 3,8 -18,0 2.186 3,7 -13,7 Delitti informatici 699 3,4 68,4 1.695 4,5 28,9 2.394 4,1 38,4 Riciclaggio e impiego di denaro 504 2,4 2,9 689 1,8 -7,4 1.193 2,0 -3,3 Usura 196 0,9 -6,2 157 0,4 -14,7 353 0,6 -10,2 Violazione alla proprietà intellettuale 3.479 16,8 -12,4 2.990 7,9 -19,2 6.469 11,0 -15,7 ALTRI DELITTI 122.748 591,3 -5,5 310.612 817,6 16,7 433.360 737,6 9,4 TOTALE 762.313 3.672,0 6,2 2.009.177 5.288,5 7,9 2.771.490 4717,3 7,5 (a) Rapine in esercizi commerciali, in pubblica via, in abitazione. (b) Esclusi quelli di tipo mafioso. (c) Rapine in banca, uffici postali, rappresentanti di preziosi, trasporto valori, automezzi pesanti. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e Ministero dell'Interno. Tipologia di delitto Mezzogiorno Centro-Nord Italia 63 Tab. 2. Tempi e costi della giustizia civile Regioni Durata procedimento civile I e II grado (giorni) Durata fallimento (giorni) Costo recupero crediti (milioni €) Costo connessi al fallimento (milioni €) Costo ritardi giustizia civile (milioni €) Numero Imprese Costo/impresa (€) Piemonte 1.087 2.352 25,3 124,0 149,3 464.917 321 Valle d'Aosta 1.023 2.212 0,4 1,4 1,9 14.786 125 Lombardia 1.527 2.151 171,7 162,3 334,1 953.178 350 Trentino-Alto Adige 970 1.567 2,2 5,4 7,5 109.879 69 Veneto 1.701 2.527 40,4 100,7 141,1 510.916 276 Friuli-Venezia Giulia 1.247 2.481 5,3 32,9 38,2 116.358 329 Liguria 2.910 3.287 32,9 25,7 58,6 166.678 352 Emilia-Romagna 1.876 3.036 55,7 109,7 165,5 475.410 348 Toscana 1.794 3.323 52,5 116,2 168,7 413.950 407 Umbria 1.786 3.275 14,5 13,9 28,5 94.297 302 Marche 2.277 3.081 41,5 40,7 82,2 177.464 463 Lazio 1.683 2.834 188,9 139,6 328,6 553.983 593 Abruzzo 1.621 4.151 28,3 33,7 62,0 149.489 415 Molise 1.586 4.963 6,1 1,8 8,0 36.856 217 Campania 1.910 3.502 211,8 108,9 320,7 543.970 590 Puglia 2.596 4.598 129,8 62,7 192,6 399.236 482 Basilicata 3.391 4.217 30,5 3,7 34,2 63.154 541 Calabria 1.827 5.784 48,2 16,1 64,3 182.035 353 Sicilia 1.974 5.611 110,8 38,7 149,5 473.816 315 Sardegna 1.773 3.447 17,9 27,0 44,9 172.652 260 Italia 1.765 3.140 1.157,1 1.174,2 2.331,3 6.073.024 384 Fonte: Elaborazioni Ufficio Studi Confartigianato su dati ISTAT e Infocamere. Tab. 3. Durata dei procedimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza per fasi del processo (valori medi in giorni), per Distretto di Corte di Appello. Anno 2005 Distretti di Corte d’Appello Primo grado Distretti di Corte d’Appello Grado di Appello Taranto (sez.) 1.385 Reggio Calabria 1.400 Catanzaro 1.250 Napoli 1.385 Messina 1.218 Bologna 1.089 Napoli 1.097 Messina 948 Reggio Calabria 973 Catanzaro 943 Bari 937 Roma 794 Ancona 926 Caltanissetta 790 Caltanissetta 904 L’Aquila 783 Potenza 858 Perugia 697 Salerno 842 Venezia 681 Venezia 780 Palermo 647 Catania 777 Campobasso 627 Palermo 760 Firenze 617 L’Aquila 750 Salerno 581 Perugia 743 Catania 547 Lecce 711 Trieste 540 Bologna 680 Cagliari 523 Cagliari 672 Ancona 505 Sassari (sez.) 669 Potenza 505 Trieste 651 Genova 480 Roma 609 Taranto (sez.) 467 Genova 606 Bari 457 Firenze 586 Lecce 392 Campobasso 524 Milano 387 Brescia 520 Sassari (sez.) 364 Bolzano (sez.) 518 Brescia 284 Milano 382 Torino 273 Trento 313 Bolzano (sez.) 214 Torino 241 Trento 110 Mezzogiorno 895 Mezzogiorno 710 Centro-Nord 562 Centro-Nord 513 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT, Sistema Informativo territoriale sulla Giustizia. 64 14. Il rischio povertà nel Mezzogiorno Le regioni meridionali,oltre a presentare un minor livello di benessere, mostrano anche un più alto grado di disuguaglianza distributiva rispetto alle regioni del Centro- Nord. In particolare, Campania, Calabria e Sicilia risultano in fondo alla classifica, insieme ai paesi più diseguali d’Europa (Grecia, Portogallo, Lituania e Lettonia). Una sperequata distribuzione del reddito espone molte famiglie al rischio povertà, soprattutto in conseguenza di congiunture negative quale quella che caratterizza il nostro Paese nella fase più recente. L’esistenza a livello nazionale di una “questione salariale” si acuisce fortemente nel Mezzogiorno, dove ormai anche famiglie in cui è presente un percettore di reddito, in passato estranee al rischio di cadere in povertà, evidenziano disagio nel far fronte a bisogni di carattere ordinario. Significativo appare il fatto che nel Mezzogiorno oltre la metà delle famiglie monoreddito (51,6%) risultano esposte al rischio di povertà, rispetto al 28,6% nel Centro-Nord. La distribuzione per classi di reddito monetario fornisce una prima idea dell’ordine di grandezza delle differenze (Tab. 1). Cominciando dai livelli più alti, due quinti delle famiglie del Centro-Nord (40,2%) e circa un quinto di quelle del Mezzogiorno (21,7%) ha entrate superiori ai 3 mila euro mensili. Nello stesso tempo, il 33,5% delle famiglie meridionali e il 18,4% di quelle del Centro-Nord ha un reddito compreso fra i 500 e i 1.500 euro al mese. Infine, in fondo alla scala dei redditi, risulta che il 22,7% delle famiglie siciliane ha percepito nel 2005 meno di mille euro al mese, così come il 19,1% delle famiglie calabresi, il 18,0% di quelle residenti in Basilicata e il 17% circa di quelle pugliesi, campane e molisane. In Abruzzo e Sardegna, la percentuale di famiglie che si trovano in questa condizione è compresa fra l’11 e il 12%. Nel resto d’Italia, ha meno di mille euro al mese il 7,3% delle famiglie. Fra le famiglie a basso reddito, una piccola minoranza ha redditi infimi: il 4,2% delle famiglie del Mezzogiorno e l’1,4% di quelle del Centro-Nord hanno percepito nel 2005 meno di 500 euro al mese. Al di là degli indicatori monetari la condizione di disagio e vulnerabilità delle regioni meridionali può cogliersi con riferimento ad alcune indicazioni concrete. Il 10% delle famiglie del Mezzogiorno, più del doppio delle famiglie del Centro- Nord, dichiara di non potersi permettere un pasto adeguato almeno tre volte alla settimana. Il 20,9% delle famiglie del Mezzogiorno afferma, inoltre, di non potersi permettere di riscaldare adeguatamente l’abitazione, rispetto al 5,4% del Centro-Nord. Nel Mezzogiorno, il 19,3% delle famiglie ha avuto periodi (anche una volta soltanto nell’anno) in cui non aveva soldi sufficienti per l’acquisto di medicinali (il 6,1% delle famiglie al Centro-Nord). Il 28,6% delle famiglie non ha potuto acquistare i vestiti di cui necessitava, l’8,2% delle famiglie con figli in età scolare non aveva soldi per la scuola, il 12,8% delle famiglie non aveva sempre denaro sufficiente per i trasporti e il 24,3% ha dichiarato di non avere avuto abbastanza soldi per pagare le tasse. Le famiglie residenti in Sicilia, Campania e Calabria sono fra le regioni del Mezzogiorno quelle con le percentuali di disagio più elevate (Fig. 1). Il ritardo nei pagamenti delle utenze, delle rate del mutuo, dell’affitto o dei debiti contratti con il credito al consumo rappresenta una condizione di forte disagio economico delle famiglie. Nel Mezzogiorno le famiglie in disagio risultano, tranne nel caso del pagamento del mutuo, quasi il doppio di quelle del Centro-Nord. Le condizioni oggettive di deprivazione delle famiglie trovano conferma negli indicatori soggettivi 65 relativi alla percezione delle famiglie delle difficoltà ad arrivare a fine mese, nel sostenere una spesa imprevista, nel risparmiare o nel riuscire ad avere una settimana di ferie in un anno (Fig. 2). Le minori opportunità di occupazione sono uno dei fattori determinanti del rischio di povertà. Il 51,1% dei disoccupati nel Mezzogiorno è esposto al rischio di povertà rispetto al 26,2% nel Centro-Nord, così come risultano più elevati i rischi per gli altri inoccupati (casalinghe, studenti, inabili al lavoro, “in altra condizione“), compresi in parte i ritirati dal lavoro. Accanto alla quantità un ruolo importante ricopre la qualità del lavoro. Se la flessibilità nel mercato del lavoro consente solo di trasferire una parte della disoccupazione in lavori precari o a bassa retribuzione, l’esposizione al rischio di povertà rimane comunque elevata. Un altro rilevante fattore di rischio è costituito dalla scarsa formazione del capitale umano: nel Mezzogiorno il 40,6% di chi possiede un’istruzione elementare o nessun titolo risulta esposto al rischio di povertà, rispetto al 18,1% del Centro-Nord. In quest’ultima area, il 7,5% di chi ha conseguito un diploma di scuola superiore si trova in condizione di basso reddito, mentre nel Mezzogiorno quasi un terzo (31,5%) dei diplomati non ha redditi sufficienti. Neanche il conseguimento della laurea garantisce comunque di raggiungere sempre livelli di reddito adeguati: il 9,4% dei laureati residenti nel Mezzogiorno e il 4% di quelli del Centro-Nord sono esposti al rischio di povertà (Tab. 2). 66 Fig. 1. Indici di concentrazione di Gini nei paesi europei e nelle regioni italiane - Anno 2005 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. 0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 Lettonia Portogallo Lituania Calabria Sicilia Campania Grecia Ungheria Romania Polonia Estonia Puglia Regno Unito Italia Islanda Irlanda Spagna Molise Sardegna Norvegia Cipro Abruzzo Slovacchia Malta Lussemburgo Belgio Basilicata Germania Francia Paesi Bassi Finlandia Rep. Ceca Austria Svezia Slovenia Danimarca Bulgaria Indice di concentrazione (Gini) 0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 Lettonia Portogallo Lituania Calabria Sicilia Campania Grecia Ungheria Romania Polonia Estonia Puglia Regno Unito Italia Islanda Irlanda Spagna Molise Sardegna Norvegia Cipro Abruzzo Slovacchia Malta Lussemburgo Belgio Basilicata Germania Francia Paesi Bassi Finlandia Rep. Ceca Austria Svezia Slovenia Danimarca Bulgaria Indice di concentrazione (Gini) 67 Regioni Meno di 6.000 6.000 - 12.000 12.000 - 18.000 18.000 - 24.000 24.000 - 36.000 Più di 36.000 Totale Abruzzo 2,4 8,8 19,0 15,4 23,3 31,0 100,0 Molise 2,5 14,8 16,2 17,6 25,2 23,7 100,0 Campania 4,6 13,0 16,3 19,9 22,7 23,5 100,0 Puglia 3,8 12,9 19,4 20,6 23,0 20,3 100,0 Basilicata 4,0 14,0 21,1 18,8 24,9 17,2 100,0 Calabria 4,1 15,0 23,3 18,0 20,0 19,6 100,0 Sicilia 5,0 17,7 23,7 16,0 19,2 18,4 100,0 Sardegna 3,2 8,7 15,7 15,3 31,2 26,0 100,0 Mezzogiorno 4,2 13,8 19,7 18,1 22,5 21,7 100,0 Centro-Nord 1,4 5,9 12,5 14,9 25,0 40,2 100,0 Italia 2,3 8,4 14,8 16,0 24,2 34,3 100,0 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Tab. 1. Distribuzione delle famiglie per classi di reddito netto familiare (inclusi i fitti imputati). Anno 2005 Fig. 2. Indicatori di deprivazione materiale delle famiglie per aree. Anno 2006 (valori percentuali) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. 4,5 5,4 28,9 6,1 11,2 1,9 4,3 5,7 10 20,9 59,4 19,3 28,6 8,2 12,8 24,3 0 10 20 30 40 50 60 70 Alimentazione Riscaldare la casa Una settimana di ferie Medicine Vestiti necessari Scuola Trasporti Tasse Centro-Nord Mezzogiorno 68 Fig. 3. Famiglie che dichiarano di avere arretrati per tipo di spesa, per condizione economica percepita e per aree. Anno 2006 (valori percentuali) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. 10,8 1 6,6 10,8 11,3 22,3 60,5 21 0,8 15,2 18,4 21,6 41,3 77,8 0 20 40 60 80 100 Affitto ARRETRATI Mutuo Bollette Debiti diversi dal mutuo Arriva a fine mese con molta difficoltà DIFFICOLTA' ECONOMICHE Non può sostenere una spesa imprevista (600 €) Non è riuscita a risparmiare Centro-Nord Mezzogiorno 69 Mezzogiorno Centro-Nord Italia ETA' Fino a 15 anni 41,1 13,5 24,5 16-24 anni 41,7 11,7 24,8 25-49 anni 33,2 9,3 17,6 50-64 anni 27,7 8,4 14,8 65 anni o più 32,1 16,9 21,7 TITOLO DI STUDIO Nessuno, elementare 40,6 18,1 26,7 Media inferiore 38,8 11,2 20,5 Media superiore 25,3 7,5 13,6 Laurea 9,4 4,0 5,7 CONDIZIONE Dipendenti 19,6 4,6 8,8 Autonomi 34,7 10,5 17,7 Disoccupati 51,1 26,2 40,8 Altri non occupati 40,6 18,4 28,8 Ritirati dal lavoro 27,9 12,7 16,7 SETTORE Pubblico 9,0 1,6 4,3 Privato 29,6 7,3 13,2 TIPO DI CONTRATTO A termine 34,8 13,7 22,6 Non ha scadenza 15,9 3,3 6,6 ORARIO DI LAVORO 30 o più 23,1 5,7 10,6 meno di 30 28,7 9,5 15,4 LAVORO IN PASSATO si 33,1 14,5 20,3 no 44,7 21,6 34,8 Totale 34,4 11,5 19,6 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Tab. 2. Esposizione al rischio di povertà per macroaree e per caratteristiche degli individui. Anno 2005 (valori percentuali) 70 15. La questione urbana Dei 162 Sistemi locali selezionati dall’ISTAT, solo 41 possiedono sia le caratteristiche morfologiche che funzionali “urbane” e sono indicati pertanto come vere e proprie “regioni metropolitane”. Di questi 41, solo 14 sono presenti nel Mezzogiorno. Si tratta di Caserta, Salerno e Napoli in Campania; la sola Pescara in Abruzzo; Lecce e Bari in Puglia; Paola e Catanzaro in Calabria; Palermo, Messina e Catania in Sicilia; Cagliari e Sassari in Sardegna. Aspetti demografici e socio-economici Nel Mezzogiorno i saldi migratori dei sistemi urbani risultano molto deboli e divengono in alcuni casi nettamente negativi per le “regioni metropolitane”. Nel Centro- Nord, con la sola eccezione di Genova tutte le aree metropolitane presentano nel 2007 un saldo migratorio totale positivo. Il saldo migratorio totale risulta nel 2007 in tutte le delle aree metropolitane del Sud negativo: dal -0,5 per mille di Catania al -6,7 per mille di Napoli (v. Tab. 1). Quest’ultima, se si guarda al saldo complessivo della popolazione, è l’area metropolitana italiana – con la sola eccezione di Genova - in maggiore decrescita demografica, e ciò nonostante abbia il tasso di natalità più alto di tutte le altre aree urbane. Le performances economiche delle città meridionali mostrano una complessiva debolezza. Esse registrano una certa vitalità imprenditoriale ma in settori tradizionali (commercio, alberghi, ristoranti, costruzioni). I tassi di attività delle aree urbane del Sud si discostano di pochi decimali dal valore medio della ripartizione e evidenziano una condizione di maggiore difficoltà nelle province interessate dalla conurbazione Napoli- Caserta (v. Tab. 2). Rete di città I sistemi territoriali del Mezzogiorno denotano scarsa interrelazione reciproca e mobilità tra le diverse città. La ripartizione con la più elevata quota percentuale di spostamenti delle persone per lavoro sul totale della popolazione è infatti il Nord–Est (70,1%) mentre l’Italia meridionale peninsulare si ferma al 52,7% e registra invece la percentuale più elevata di spostamenti per motivi di studio (47,3%), spesso un primo passo verso il trasferimento delle risorse umane più qualificate verso il Nord (v. Tab. 3). Il medesimo indicatore, calcolato rispetto alla popolazione residente, mostra la Lombardia e l’Emilia Romagna come le regioni dove gli spostamenti per motivi di lavoro sono relativamente più alti (rispettivamente 36,8% e 36,7%) (v. Tab. 4). La Campania, al contrario, registra la più alta percentuale di spostamenti per motivi di studio (20,9%) e la più bassa per motivi di lavoro (20,1%). Gli andamenti dei dati comunali confermano l’interdipendenza tra città e territori regionali. Nei 13 comuni italiani di maggiore dimensione, ovvero quelli che contano una popolazione di oltre 250 mila persone residenti (Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia, Verona, Messina), il 46,7% (4.252.009 unità) della popolazione residente effettua spostamenti quotidiani verso il luogo abituale di studio o di lavoro (47% è il valore nazionale). 71 I valori percentuali massimi si rilevano a Verona (50,3%, pari a 127.465 unità) e a Milano (50,2%, pari a 630.556 unità), quelli minimi a Napoli (38,4%, pari a 385.957 unità) e Catania (40,5%, pari a 126.952 unità). La condizione ambientale Dall’insieme dei dati raccolti dall’APAT (Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici) sulla qualità ambientale nelle aree metropolitane italiane emerge una situazione complessiva difficile per quelle del Mezzogiorno. Le aree urbane meridionali si collocano agli ultimi posti (segnalando spesso un progressivo peggioramento rispetto ai dati degli anni precedenti) nei giudizi sintetici e nelle classifiche nazionali e in riferimento a significativi indicatori che rinviano spesso a un problema di arretratezza del sistema di servizi pubblici locali. Alcuni di questi servizi, specie quelli che richiedono un elevato livello di efficienza e la presenza di un tessuto di aziende altamente specializzate, denunciano uno stato di grave arretratezza dei sistemi urbani meridionali. Tra questi, la raccolta differenziata dei rifiuti segna uno dei punti più bassi delle performances ambientali delle aree urbane meridionali e dell’intero Mezzogiorno. All’ultimo posto tra le grandi città italiane per percentuale di raccolta differenziata si colloca Messina, che con Napoli, Reggio Calabria, Foggia, Taranto, Catania presentano percentuali inferiori al 10%, rispetto a una media nazionale del 17%, ben lontana, peraltro, dall’obiettivo del 40% fissato con la legge Finanziaria per il 2007. I grandi centri del Sud mostrano solo in alcuni casi performances accettabili, come nel caso della qualità dell’aria; il più delle volte anche grazie a condizioni di vantaggio date dal contesto ambientale costiero o rurale o dal progressivo abbandono di attività industriali urbane o periurbane. Con riferimento alla presenza di impianti industriali dal forte impatto ambientale nelle aree urbane, la situazione appare poco confortante o in alcuni casi decisamente grave. Se nelle città del Nord le progressive dismissioni hanno generalmente lasciato spazio a forti investimenti immobiliari e allo sviluppo di attività terziarie, direzionali e di ricerca, nel Sud la mancanza di una robusta azione di riqualificazione urbana e funzionale lascia sul campo, insieme, opportunità di sviluppo mancate e condizioni e rischi ambientali gravi. Particolarmente significativa in questo senso è la condizione dei Comuni di Napoli e Taranto, dove permangono, rispettivamente, 11 (43 nell’intera provincia) e 8 stabilimenti a rischio di incidente rilevante, prossimi o interclusi nel tessuto urbano. Significativi progressi sono stati realizzati da molte città meridionali nelle dotazioni di verde pubblico pro capite. In particolare, Napoli evidenzia un progresso quantitativamente significativo, +451,3% tra il 2000 e il 2006, pur nel contesto della densità insediativa massima tra i 24 capoluoghi esaminati, pari a 8.315 abitanti per Kmq . 72 IL CASO DI NAPOLI Negli ultimi mesi si sono verificati una serie di eventi che hanno caratterizzato in modo drammaticamente negativo l’immagine di Napoli in Italia e nel mondo. La risposta istituzionale è giunta a colpi di commissariamenti (per i rifiuti, per il traffico, per l’emergenza Rom), inserendosi in una tradizione che paradossalmente nelle grandi città trasforma le emergenze commissariali in una pratica ordinaria. Tale pratica denuncia l’inefficacia del sistema di governance istituzionale e costituisce in tal senso l’indicatore di un problema molto più vasto, che incide fortemente sulla capacità di governare un area metropolitana difficile come quella di Napoli. Nella conurbazione napoletana infatti si sovrappongono una altissima densità di popolazione, la presenza di rischi ambientali di natura idrogeologica, un’alta concentrazione di siti industriali a rischio di incidente rilevante, una diffusa presenza della criminalità organizzata, circostanze che fanno della più grande area metropolitana del Mezzogiorno un’area unica per rischi e criticità. Emerge un forte problema di governance: solo agendo su tutti e tre i termini di riferimento - istituzioni, economia e territorio - si può essere in grado di restituire alle grandi aree urbane il livello di coesione e competitività che le politiche comunitarie sollecitano da tempo. L’esame di alcuni indicatori permette però di gettare una nuova luce sul capoluogo campano. Secondo il Rapporto APAT 2007 sulla Qualità dell’ambiente urbano, ad esempio, Napoli produce una quantità di rifiuti pro capite sotto la media delle altre città italiane con più di 150.000 abitanti (604 Kg di rifiuti urbani contro 622). Il problema vero sta nella mancata funzionalità del sistema dei servizi: la raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani è ferma all’8,9%, in lieve diminuzione rispetto alle rilevazioni precedenti. Con riferimento al verde pubblico, poi, Napoli registra la migliore performance tra tutte le città metropolitane; nel periodo 2000-2006 il verde pubblico pro capite è cresciuto infatti del 451%, attestandosi sulla soglia dei 28,5 mq/abitante. A differenza di quanto rilevato in tutte le altre grandi città del Mezzogiorno, tra il 2000 e il 2006 a Napoli non si sono registrate interruzioni e razionamenti dell’erogazione dell’acqua. Eppure la percezione nelle famiglie del problema della sporcizia nelle strade è passata dal 39,4% del 2002 al 52,8% del campione intervistato nel 2007, con uno stacco di quasi venti punti percentuali dalla media italiana. Altra spina nel fianco il tasso di attività femminile, che nella provincia di Napoli è non solo più basso della media nazionale, ma anche dei valori medi delle altre Regioni del Mezzogiorno. Considerando che nelle altre città campane si registra una maggiore capacità di generare valore aggiunto, i dati sul PIL pro capite elaborati dalla SVIMEZ mostrano invece per Napoli un’inversione di marcia. In questa situazione è evidente che l’emergenza più generale è quella di contrasto alla periferizzazione della città, alla difficoltà di accesso ai servizi, al degrado del tessuto sociale. Da alcuni anni il Comune di Napoli ha attivato un servizio speciale periferie, con il compito di attuare il programma di riqualificazione del 1995. L’intera cintura urbana che comprende Scampia, San Pietro a Patierno, Barra, Ponticelli, Poggioreale, Secondigliano e Pianura è stata individuata come area di svantaggio che comprende 73 oltre un terzo della superficie comunale e che appare difficilmente aggredibile con le sole risorse attivabili attraverso le Zone franche urbane. La “città” studiata dagli economisti dello sviluppo e dai sociologi   presenta oggi al suo interno due tendenze contrapposte. Da un lato è, potenzialmente il luogo dove si concentrano le funzioni direzionali, le economie di scala del terziario, i mercati e le risorse umane più qualificate e dove quindi si possono moltiplicare gli effetti positivi dello sviluppo. Dall’altro lato, presenta anche le condizioni per moltiplicare il degrado in caso di sviluppo insufficiente e per accumulare diseconomie da congestione e da sottosviluppo superabili solo immaginando soluzioni innovative”. Anche per Napoli, dunque, come per le altre città europee, il cammino è segnato dall’intensità che possono assumere le forze positive rispetto al lavoro contrario che può essere svolto dalle seconde: si tratta di zone che non possono vivere in bilico tra crescita e arretramento, pena una prospettiva di instabilità, o peggio, tale da rendere sempre più difficile il loro governo. Tab. 1 . Indicatori demografici delle città italiane nel 2007(a) (valori per 1000 abitanti) e variazione assoluta della popolazione 2005-07 Aree metropolitane Crescita naturale Saldo migratorio interno Saldo migratorio esterno Saldo migratorio per altro motivo Saldo migratorio totale Crescita totale Popolazione 2005-07 (var. ass.) Napoli 4,0 -8,4 1,2 0,5 -6,7 -2,7 -13,5 Bari 1,8 -3,2 1,3 -0,9 -2,8 -1,0 -0,5 Palermo 2,7 -3,1 0,9 -0,7 -2,8 -0,1 -2,1 Catania 2,1 -0,1 0,5 -0,9 -0,5 1,6 3,2 Torino -0,3 -2,6 4,8 0,4 2,7 2,4 7,8 Genova -5,5 -2,5 4,1 -1,9 -0,4 -5,9 10,9 Milano 1,2 -5,0 6,5 -0,8 0,7 1,9 103,9 Verona 1,9 2,4 8,3 -0,5 10,2 12,1 13,2 Venezia -0,9 -0,5 5,9 -0,6 4,8 3,9 4,0 Bologna -2,4 3,2 4,7 -0,9 7,0 4,7 -9,2 Firenze -2,4 -2,4 6,5 -0,7 3,4 1,0 0,4 Roma 1,3 0,2 5,7 42,6 48,4 49,8 196,1 Mezzogiorno 1,0 -2,4 1,1 0,1 -1,2 -0,2 -12,9 Centro-Nord -0,5 1,9 5,2 3,4 10,5 10,1 327,1 - Nord-Ovest -0,5 1,3 5,1 -0,7 5,6 5,1 122,5 - Nord-Est -0,2 2,7 5,8 -0,7 7,8 7,6 8,1 - Centro -0,7 1,8 5,0 13,1 19,9 19,2 196,5 Italia 0,0 0,4 3,8 2,3 6,4 6,4 314,2 (a) Dati al 1° gennaio. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. 74 Tab. 2. Tassi di attività per sesso, nelle province della Campania e nelle regioni meridionali - Anno 2001 Regioni e province Maschi Femmine Totale Abruzzo 58,2 35,4 46,4 Molise 57,2 33,4 44,9 Campania 57,9 30,8 43,8 - Caserta 57,1 30,5 43,3 - Benevento 54,6 34,6 44,2 - Napoli 58,7 29,7 43,6 - Avellino 56,7 32,0 44,0 - Salerno 57,5 32,3 44,5 Puglia 58,5 30,2 43,7 Basilicata 57,6 33,8 45,4 Calabria 54,4 31,7 42,7 Sud 57,5 31,4 44,0 Isole 57,8 31,3 44,0 Nord-Ovest 62,5 41,0 51,3 Nord-Est 63,3 42,4 52,5 Centro 60,2 39,3 49,2 Italia 60,5 37,6 48,6 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT, Censimento 2001. Tab. 3. Composizione percentuale della popolazione residente che si sposta giornalmente per motivo dello spostamento nelle ripartizioni italiane Unità % Unità % Unità % Sud 2.724.778 47,3 3.039.793 52,7 5.764.571 100,0 Isole 1.247.537 46,7 1.424.842 53,3 2.672.379 100,0 Nord-Ovest 2.300.304 30,3 5.300.725 69,7 7.601.029 100,0 Nord-Est 1.632.664 29,9 3.825.226 70,1 5.457.890 100,0 Centro 1.792.121 34,0 3.476.371 66,0 5.268.492 100,0 Italia 9.697.404 36,2 17.066.957 63,8 26.764.361 100,0 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT, Censimento 2001. Circoscrizioni territoriali Studio Lavoro Totale 75 Tab. 4. Percentuale della popolazione residente che si sposta giornalmente per motivo dello spostamento Regioni Studio Lavoro Totale Piemonte 14,7 34,8 49,5 Valle d'Aosta 14,2 36,1 50,3 Lombardia 16,1 36,8 52,9 Trentino-Alto Adige 17,1 35,5 52,6 Veneto 16,1 35,8 52,0 Friuli-Venezia Giulia 14,2 34,5 48,6 Liguria 13,3 29,9 43,2 Emilia-Romagna 14,4 36,7 51,1 Toscana 14,9 33,5 48,3 Umbria 15,6 31,7 47,3 Marche 15,6 33,7 49,3 Lazio 17,9 30,3 48,2 Abruzzo 17,3 28,6 45,9 Molise 17,0 25,8 42,8 Campania 20,9 20,1 41,0 Puglia 19,1 22,3 41,5 Basilicata 18,1 24,2 42,3 Calabria 18,9 20,3 39,3 Sicilia 19,2 20,4 39,6 Sardegna 17,9 25,1 43,1 Italia 17,0 29,9 47,0 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT, Censimento 2001. 76 16. Logistica e ruolo del Mezzogiorno nel Mediterraneo Nel più ampio fenomeno della crescita degli scambi commerciali, il Mediterraneo sta assumendo un ruolo centrale non solo come “terminale” dei flussi di import ed export tra l’Europa e l’Estremo Oriente, ma anche come area di scambio autonoma, alimentata dalla crescita economica che sta interessando i paesi della Sponda Sud-Orientale. Grande importanza stanno acquisendo le partnerships commerciali dell’Europa e dell’Italia, in particolare, con i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. La dimensione degli scambi ha ormai assunto proporzioni tali da essere pienamente confrontabile con quella consolidata con altre aree economiche mondiali, come il Nord America, verso le quali l’economia europea è tradizionalmente orientata. Il pieno sfruttamento di queste opportunità presuppone una “strategia integrata”, che investa tutte le articolazioni infrastrutturali del Paese a partire dai valichi alpini, e da questi alle reti ferroviarie, prima ancora che stradali, di collegamento ai terminali portuali ed alle connesse strutture di movimentazione e lavorazione. Poter disporre di un adeguato apparato di infrastrutture logistiche per l’Italia è necessario non solo per far fronte alla tradizionale concorrenza dei paesi del Nord Europa, quanto anche all’emergente concorrenza dei paesi mediterranei La scelta di molti tra i paesi del Mediterraneo Sud Orientale di intensificare i propri investimenti nello sviluppo della portualità, delle aree retroportuali e degli interporti risponde ad una precisa strategia di sviluppo economico che dovrebbe consentire a questi paesi una più rapida uscita della loro condizione di sottosviluppo. I segnali più evidenti della crescita infrastrutturale e logistica della Sponda Sud- Orientale del Mediterraneo sono percepibili dalla dinamica dei traffici marittimi containerizzati, che presentano ritmi di sviluppo ben più significativi di quelli, già rilevanti, dei paesi del Sud Europa. Nel periodo 2001-2005, nei principali porti del Mediterraneo i traffici container sono cresciuti ad un tasso medio annuo del 10,1%, passando da 19,1 a 28,3 milioni di TEU. Sotto questo profilo, particolarmente preoccupante è l’andamento della portualità del Mezzogiorno, nella quale si concentra ancora la maggior parte del traffico container nazionale, che presenta evidenti segnali di cedimento. Dopo il picco del 56,5% del 2003, la quota di container transitata nei porti meridionali sul totale dei porti italiani si è, infatti, progressivamente ridotta fino a segnare il 54,2% nel 2007. Nell’ultimo anno, peraltro, tale tendenza di medio periodo sembra essersi invertita, Gioia Tauro che rappresenta la più importante realtà portuale italiana ha fatto registrare un aumento dei traffici container del 19,1%, un risultato migliore di qualsiasi altro porto, tra quelli principali a livello nazionale e del Sud-Europa. Rispetto a queste sfide /opportunità emerge una assai modesta capacità di reazione del nostro Paese alle aggressioni competitive degli altri sistemi portuali del Sud-Europa e della riva Sud del Mediterraneo. È purtroppo la grande distanza che separa la consapevolezza dei limiti e delle opportunità da una vera ed efficace capacità di azione, il vero gap strutturale che non si riesce a colmare, che non consente di assumere ed attuare le decisioni necessarie per sfruttare le occasioni di sviluppo e quella che dovrebbe essere una leadership geo- economica e strutturale difficilmente contendibile. Rilevante è anche il problema della qualità infrastrutturale, che deve essere orientata non solo ad aumentare la capacità di attrazione dei flussi, ma anche alla 77 razionalizzazione dell’esistente, cioè a favorire lo scambio modale e le interconnessioni con le reti (strada e ferrovia), risolvere le situazioni di saturazione e di congestione delle infrastrutture e del territorio in cui sono ubicate e sviluppare la retro-portualità. Ciò al fine di poter sfruttare le evidenti e rilevanti possibilità di “lavorazione” dei transiti, sia nelle aree portuali sia nel raccordo con gli interporti di terra. Per la sua posizione geografica e per le sue tradizioni il Mezzogiorno può giocare un ruolo importante nella costruzione di una regione mediterranea con una fisionomia istituzionale in grado di darle riconoscibilità. Oltre a essere il prodotto di una contaminazione secolare avvenuta nel cuore del Mediterraneo, il Mezzogiorno è oggi sempre più vivo nelle relazioni commerciali col resto della regione mediterranea. Se le esportazioni delle regioni meridionali sono aumentate del 43% nel periodo 2000-2007, a fronte di un aumento nazionale nello stesso periodo che si è attestato al 35%, la dinamica verso le nazioni mediterranee non appartenenti all’Unione Europea vede un incremento che supera il 79%, per un valore complessivo superiore ai 4 miliardi di Euro. La prospettiva mediterranea deve tuttavia confrontarsi con consistenti difficoltà di natura politico-istituzionale. La prima è quella delle scelte della politica estera, nazionale ed europea. Le scelte degli ultimi anni in termine di opzioni strategiche dell’Unione europea, hanno privilegiato, con l’allargamento verso Est, l’asse orizzontale Ovest/Est, rispetto a quello Nord/Sud. Anche nelle politiche di infrastrutturazione strategiche, l’asse Berlino-Palermo, elemento decisivo per il collegamento del Mediterraneo con i mercati centro–europei è, ben lungi dal compimento. Le scelte politiche dei prossimi anni saranno decisive per definire la “perificità”del Mezzogiorno, ultima pendice dell’Europa o porta di accesso verso il Mediterraneo. IL CASO DI GIOIA TAURO Gioia Tauro rappresenta un caso esemplare di come nel Mezzogiorno si è potuto dar vita in tempi relativamente rapidi ad una grande opera che in tempi altrettanto rapidi è riuscita a raggiungere una posizione di rilievo a livello mondiale. Nel 2007 con 3,5 milioni di TEU raggiunge il suo record storico e, con una crescita del traffico container del 19,1% rispetto all’anno precedente, è risultato il più dinamico tra i principali porti italiani e del Sud Europa. Si consolida così un primato dopo la flessione del biennio precedente. Il traffico container nel Mediterraneo dovrebbe aumentare fino al 2015 ad un tasso medio annuo del 10%, quasi un raddoppio del volume attuale. Gioia Tauro, quale principale porta di accesso nazionale ai mercati del Centro-Nord e dell’Europa Centro- Settentrionale, non può non intercettare una quota consistente di tale offerta. Una parte significativa dell’incremento previsto dei flussi commerciali sarà gestito con operazioni di transhipment, il porto, infatti, almeno nel breve non dovrebbe mutare la propria specializzazione. Una quota di container via via crescente si prevede che sarà instradata lungo un corridoio di transito che da Gioia Tauro raggiunge i mercati dell’Europa Centrale, oppure i porti del Nord Europa per essere reimbarcati alla volta della Costa Est del Nord America. 78 Accanto alla movimentazione, solo mare o anche via terra, si dovrebbero accrescere le attività volte alla manipolazione delle merci per le fasi di lavorazione finale prima di raggiungere i mercati di consumo. Ciò potrà consentire al porto di Gioia Tauro di assumere le caratteristiche proprie di un polo logistico integrato in grado di offrire rilevanti opportunità di crescita all’economia del Mezzogiorno. Le condizioni per Gioia Tauro di assumere le caratteristiche di moderno porto gatway e più in generale di affermarsi come piastra logistica nazionale sono assicurate da un’ampia disponibilità di aree nel retroporto, da una rete di collegamenti consolidata via mare e via terra e dalla vicinanza dell’aeroporto di Lamezia Terme. Questi vantaggi competitivi potranno essere sfruttati se si realizzerà il potenziamento dell’assetto logistico dell’intera area (interporto, intermodalità, qualità della rete) e l’ottimizzazione delle reti di collegamento con i sistemi intermodali sia ferroviario sia autostradale. Già oggi, pur in presenza dei vincoli derivanti dalle attuali carenze nelle dotazioni infrastrutturali, sono in atto importanti iniziative che vanno oltre la mera funzione di transhipment del porto. A Gioia Tauro, è insediato un centro logistico per l’industria automobilistica gestito dalla società “ICO BLG Automobile Logistics Italia” costituita come joint venture tra la BLG Italia, controllata dal gruppo BLG Logistics di Brema, e la società ICO, controllata dal gruppo giapponese NYK. L’attività del centro riguarda la distribuzione delle autovetture in Italia - in un prossimo futuro anche verso i paesi rivieraschi del Mediterraneo e dei Balcani - e la fornitura di servizi relativi al lavaggio, ceratura e deceratura delle autovetture, l’installazione di parti accessorie e piccoli interventi di verniciatura. A questa prima fase dovrebbe far seguito lo sviluppo di servizi ad alto valore aggiunto quali il disassemblaggio parziale e totale e, infine, la distribuzione di parti di ricambio. Un assetto fortemente orientato alla logistica emerge dal Piano di Sviluppo Strategico per l’Area Ampia di Gioia Tauro. Il piano, che testimonia di un nuovo livello di pianificazione nazionale verso quest’area strategica, fornisce un quadro sintetico delle priorità di sviluppo per il porto e il retroporto indicando le opportunità da cogliere e i molteplici ostacoli da rimuovere. In proposito si sta avviando ad essere molto più che una semplice opportunità l’insediamento di un rigassificatore ed una piastra del freddo legata al processo della rigassificazione. LA GRANDE REGIONE MEDITERRANEA, IL MEZZOGIORNO E L’EUROPA Negli ultimi dieci anni è stato intenso il dibattito intorno alla regione mediterranea. Dopo gli entusiasmi nati dalla Dichiarazione di Barcellona del 1995, con cui l’Unione Europea lanciava con i paesi mediterranei il Partenariato Euro Mediterraneo (PEM), l’attenzione si è rivolta al tema dell’allargamento a Est. La relazione tra Europa e Mediterraneo è stata di fatto ridotta a Politica Europea di Vicinato (PEV), nella quale l’obiettivo previsto a Barcellona di creare entro il 2010 un’area di libero scambio sembra sfumato. Recentemente i governi francese e spagnolo hanno rilanciato l’idea di un’Unione mediterranea. Si tratta di proposte che manifestano l’importanza del tema, ma le misure politiche stentano ancora ad avviarsi. Dal punto di vista economico, i paesi che si affacciano sul Mediterraneo vivono condizioni piuttosto differenziate. I membri mediterranei dell’Unione Europea appartengono tutti alla fascia dei paesi ad alto reddito pro capite e si attestano, con 79 l’eccezione della Francia, al di sotto della media dell’area dell’Euro. In base ai dati forniti dalla Banca Mondiale il reddito medio dell’area Euro era nel 2006 di 34.307 dollari. Il dato più basso tra i membri dell’UE che si affacciano al Mediterraneo è quello della Slovenia, con 18.660 dollari annui. Intorno ai 30.000 dollari, tutti gli altri, con Francia e Italia al di sopra e Grecia e Spagna attestate intorno ai 27.000. Il Mezzogiorno, pur con un livello di redditi inferiore di circa il 40 % alla media Euro, si colloca assai al di sopra degli altri paesi della regione mediterranea. La fascia nordafricana e mediorientale ha una media complessiva di 2.507 dollari annui, con la punta massima della Libia oltre i 7000 dollari, in ragione delle sue ricchezze minerarie ed energetiche distribuite su una popolazione relativamente scarsa, e quella inferiore dell’Egitto (1.360) che con risorse naturale molto più scarse deve nutrire oltre 74 milioni di persone. Non differiscono di molto gli altri paesi della regione, con la Turchia, che presenta un livello di 5.400 dollari annui e la zona balcanica, dove anche la Croazia non raggiunge i 10.000 dollari l’anno. Fa eccezione a questa condizione lo stato di Israele, che supera i 20.000 dollari, a cui corrisponde in stridente contrasto il dato dei “territori palestinesi occupati”, Cisgiordania e Striscia di Gaza, in cui i quasi quattro milioni di persone dispongono di soli 930 dollari l’anno. Per la sua posizione geografica, la parte meridionale della penisola italiana è terra centrale nel dialogo mediterraneo. Se le esportazioni delle regioni meridionali sono aumentate del 43% nel periodo 2000-2007, a fronte di un aumento nazionale del 35%, la dinamica verso le nazioni mediterranee non appartenenti all’Unione Europea vede un incremento che supera il 79%, per un valore complessivo superiore ai 4 miliardi di Euro. Rispetto alle merci del meridione italiano destinate ai paesi extra UE, l’area mediterranea assorbe il 26%. Destinatari principali sono la Turchia, la Libia e la Tunisia. Ma in generale con tutti i paesi della regione si assiste ad un aumento degli scambi commerciali del Mezzogiorno italiano. Dal punto di vista delle infrastrutture, però, negli ultimi anni le scelte strategiche dell’Unione europea hanno privilegiato l’asse orizzontale Ovest/Est rispetto a quello Nord/Sud; per questo l’asse Berlino-Palermo, elemento decisivo per il collegamento del Mediterraneo con i mercati centro–europei è ben lungi dal compimento. Le scelte politiche dei prossimi anni saranno decisive per definire la “perificità”del Mezzogiorno. Proprio nella prospettiva di una rinnovata centralità del Mediterraneo, elemento fondamentale dovrebbe essere il rafforzamento dei legami intro-Mediterranei, attraverso lo sviluppo di stabili relazioni internazionali, da realizzare attraverso una nuova “Istituzione” Mediterranea. Al momento manca un soggetto istituzionale meridionale in grado di rappresentare il Sud e allo stesso tempo di promuovere tali processi. Potrebbe esistere uno spazio per un tavolo Stato-Regioni dedicato alla promozione del dialogo per la costruzione del quadro comune mesoregionale, che potrebbe vertere su ambiti specifici di speciale competenza per il Sud e funzionali al quadro Mediterraneo. 80 TAB. 1. Traffico container nei porti italiani (migliaia di TEU, s.d.i.) Anni Porti 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Variazione % 2006-07 Gioia Tauro 3.009 3.149 3.261 3.161 2.938 3.500 19,1 Genova 1.531 1.606 1.619 1.625 1.657 1.855 11,9 La Spezia 975 1.007 1.040 1.024 1.137 1.190 4,7 Taranto 472 658 763 717 892 756 -15,2 Livorno 520 541 639 659 658 752 14,3 Cagliari 74 314 501 660 687 700 1,9 Napoli 444 433 348 374 445 450 1,1 Salerno 375 417 412 419 359 385 7,2 Venezia 262 284 291 290 317 329 3,8 Trieste 185 120 175 198 220 266 20,9 Savona 55 54 90 220 231 243 5,2 Ravenna 161 160 169 169 162 190 17,3 Ancona 94 76 65 64 76 107 40,8 Palermo 11 15 24 28 27 32 18,5 Catania 13 14 12 15 14 16 14,3 Monfalcone 1 0 2 1 1 1 0,0 Civitavecchia 21 25 36 45 33 n.d. n.d. Trapani 17 13 10 0 9 n.d. n.d. Mar. Carrara 10 9 8 7 4 n.d. n.d. Brindisi 1 2 4 2 3 n.d. n.d. Bari 12 24 20 10 n.d. n.d. n.d. TOTALE 8.243 8.921 9.493 9.688 9.878 10.772 9,1 MEZZOGIORNO 4.428 5.039 5.355 5.386 5.374 5.839 8,7 - Quota % su Totale 53,7 56,5 56,4 55,6 54,4 54,2 CENTRO-NORD 3.815 3.882 4.138 4.302 4.504 4.933 9,5 - Quota % su Totale 46,3 43,5 43,6 44,4 45,6 45,8 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati Confetra. 81 TAB. 2. Indici sintetici di dotazione di nodi di scambio e di reti per la mobilità logistica e la movimentazione dei flussi (numeri indici: Italia = 100,0) Regioni Nodi di scambio(a) Reti(b) Indice sintetico Abruzzo 11,4 89,7 45,1 Molise 10,9 67,5 36,8 Campania 10,6 151,1 62,3 Puglia 28,4 90,7 61,6 Basilicata 1,0 56,8 14,5 Calabria 15,1 100,3 53,3 Sicilia 13,8 73,9 42,3 Sardegna 26,5 18,1 20,5 Mezzogiorno 18,3 81,1 49,4 - Sud 17,6 99,6 55,9 - Isole 17,1 51,6 35,7 Centro-Nord 126,0 110,9 115,7 - Nord-Ovest 124,9 119,3 121,1 - Nord-Est 80,4 97,2 91,2 - Centro 39,1 117,0 81,2 Italia 100,0 100,0 100,0 (a) Calcolato su dotazioni di base, capacità di movimentazione e di servizio. Alle regioni prive di dotazione viene attribuito il valore dell’area di appartenenza, ponderato dalla dotazione di reti. (b) Calcolato sulla dotazione delle varie tipologie di strade e di reti ferroviarie. Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. Tab. 3. Esportazioni del Mezzogiorno verso i Paesi extra Ue Valori assoluti Variazione 2007 2000-2007 Turchia 916.511 5,7 48,5 Marocco 254.295 1,6 240,3 Algeria 219.697 1,4 269,2 Tunisia 687.877 4,3 34,9 Libia 797.768 4,9 86,1 Egitto 361.011 2,2 167,5 Libano 291.692 1,8 70,1 Siria 323.235 2,0 296,8 Israele 330.808 2,0 30,6 Terr. Palestinese 74 0,0 -2,6 Giordania 14.404 0,1 8,3 Mediterraneo 4.197.373 26,0 79,0 Totale extra UE 16.169.021 100,0 43,9 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT. % su totale extra UEPaesi SVIMEZ/06_Schede regioni.pdf REGIONE ABRUZZO INDICATORI STRUTTURALI 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Abruzzo 0,2 -2,1 -2,6 1,0 1,5 0,9 Mezzogiorno 0,4 -0,3 0,6 0,3 1,1 0,7 Centro-Nord 0,5 0,1 1,8 0,6 2,1 1,7 Italia 0,5 0,0 1,5 0,6 1,8 1,5 Abruzzo 19.361,7 19.454,6 19.311,2 20.049,9 20.640,1 21.195,5 Mezzogiorno 15.260,2 15.621,5 16.082,0 16.501,1 17.019,4 17.482,8 Centro-Nord 26.781,6 27.365,8 28.216,4 28.656,9 29.475,1 30.380,9 Italia 22.660,7 23.181,3 23.919,5 24.372,1 25.109,3 25.882,1 Abruzzo 72,3 71,1 68,4 70,0 70,0 69,8 Mezzogiorno 57,0 57,1 57,0 57,6 57,7 57,5 Centro-Nord 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 POPOLAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Popolazione residente (migliaia di unità) 1.310,0 1.321,9 0,9 Tasso di incremento naturale (per 1.000 ab.) -1,3 -1,6 Tasso di natalità (per 1.000 ab.) 8,7 8,7 Tasso di mortalità (per 1.000 ab.) 10,0 10,3 Saldo migratorio Abruzzo (migliaia di unità) 6,7 14,3 Saldo migratorio Mezzogiorno (migliaia di unità) -24,9 45,7 MIGRAZIONI Media 2006 2007 2000-05 Saldo migratorio interno (migliaia di unità) -0,2 2,2 2,4 Mezzogiorno (migliaia di unità) -66,5 -49,8 -51,6 Principali regioni di destinazione (%) Lazio (33,9) e Lombardia (15,6) Caratteristiche migranti più di 14 anni (2005) - Diploma di scuola superiore (%) 39,7 - Laurea (%) 22,1 PENDOLARI 2007 Pendolari di lungo raggio verso il Centro-Nord (unità) 15.000 % sull'occupazione regionale 2,9 Pendolari totali (unità) 201.000 MERCATO DEL LAVORO 2006 2007 Tasso di disoccupazione (%) 6,5 6,2 Tasso di disoccupazione maschile (%) 4,6 3,9 Tasso di disoccupazione femminile (%) 9,5 9,8 Persone in cerca di occupazione (unità) 35.000 33.000 Tasso di occupazione (15-64 anni) totale (%) 57,6 57,8 Tasso di occupazione (15-64 anni) maschile (%) 70,4 71,4 Tasso di occupazione (15-64 anni) femminile (%) 44,7 44,1 Irregolari (unità) 61.000 60.000 Tasso di irregolarità (%) 11,8 11,6 Segue: REGIONE ABRUZZO INFRASTRUTTURE (Indici Nazionali=100; ultimo anno disponibile) Abruzzo Mezzogiorno Centro-Nord Porti 22,6 71,3 115,7 Aeroporti 53,2 80,5 110,7 Centri intermodali 1,2 1,1 156,1 Strade 122,3 101,6 98,9 Ferrovie 65,7 64,7 124,3 Rete elettrica 65,2 78,6 114,8 POVERTA' (dati 2005) Abruzzo Mezzogiorno Centro-Nord Percentuale di famiglie con reddito < 12.000 euro 11,2 18,0 7,3 Famiglie con più di tre persone a carico (%) 7,9 13,9 4,1 Spesa media per abitazione (euro) 275 245 348 Rapporto spesa/reddito 12,3 12,8 14,0 Percentuale affittuari 12,5 19,1 17,8 Abitazione sprovvista di: Gabinetto interno (%) 0,0 0,3 0,4 Vasca/doccia (%) 0,6 1,3 0,5 Acqua calda (%) 0,5 0,9 0,5 INTERNAZIONALIZZAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Esportazioni (milioni di euro) Abruzzo 6.545,5 7.315,6 11,8 Mezzogiorno 36.763,9 41.099,7 11,8 Centro-Nord 288.994,1 311.102,6 7,7 2005 2006 Numero imprese a partecipazione estera (unità) 63 65 Valori percentuali (Italia=100) 0,9 0,9 Numero di addetti alle imprese a partecipazione estera (unità) 19.482 19.809 Valori percentuali (Italia=100) 2,2 2,3 Investimenti diretti esteri (migliaia di euro) 98.161 Valori percentuali (Italia=100) 0,06 Grado di multinazionalità 5,7 TURISMO 2006 2007 Var. 2006-07 Presenze turistiche totali 7.449,6 7.360,3 -1,2 Presenze turistiche straniere 994,9 986,8 -0,8 CRIMINALITA' 2006 2007 Percentuale famiglie con senso di rischio 17,1 23,8 2006 Var. 2005-06 Reati denunciati 50.590 3,2 Omicidi volontari 6 -40,0 Rapine 482 15,6 Estorsioni 128 -17,4 RISORSE UMANE E INNOVAZIONE Abruzzo Ue 27 Occupati nei settori ICT (% sul totale occupati) 12,3 15,5 Spesa in R & S (% del PIL) 1,1 1,8 Popolazione con laurea (%) 14,6 22,7 Dotazione nelle amministrazioni locali Italia Personal computer per 100 dipendenti 80,9 74,7 Comuni dotati di rete locali - LAN (%) 85,1 90,9 PIL (variazione %) PIL per abitante (valori assoluti a prezzi correnti) PIL per abitante in % del Centro-Nord REGIONE MOLISE INDICATORI STRUTTURALI 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Molise 0,6 -1,8 1,6 0,2 1,3 1,7 Mezzogiorno 0,4 -0,3 0,6 0,3 1,1 0,7 Centro-Nord 0,5 0,1 1,8 0,6 2,1 1,7 Italia 0,5 0,0 1,5 0,6 1,8 1,5 Molise 16.460,3 16.607,7 17.297,4 18.075,1 18.789,7 19.603,5 Mezzogiorno 15.260,2 15.621,5 16.082,0 16.501,1 17.019,4 17.482,8 Centro-Nord 26.781,6 27.365,8 28.216,4 28.656,9 29.475,1 30.380,9 Italia 22.660,7 23.181,3 23.919,5 24.372,1 25.109,3 25.882,1 Molise 61,5 60,7 61,3 63,1 63,7 64,5 Mezzogiorno 57,0 57,1 57,0 57,6 57,7 57,5 Centro-Nord 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 POPOLAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Popolazione residente (migliaia di unità) 320,1 320,5 0,1 Tasso di incremento naturale (per 1.000 ab.) -3,0 -2,5 Tasso di natalità (per 1.000 ab.) 8,0 7,8 Tasso di mortalità (per 1.000 ab.) 11,0 10,3 Saldo migratorio Abruzzo (migliaia di unità) 0,3 1,2 Saldo migratorio Mezzogiorno (migliaia di unità) -24,9 45,7 MIGRAZIONI Media 2006 2007 2000-05 Saldo migratorio interno (migliaia di unità) -0,5 -0,2 0,0 Mezzogiorno (migliaia di unità) -66,5 -49,8 -51,6 Principali regioni di destinazione (%) Lazio (35,0) ed Emilia Romagna (18,2) Caratteristiche migranti più di 14 anni (2005) - Diploma di scuola superiore (%) 34,6 - Laurea (%) 27,3 PENDOLARI 2007 Pendolari di lungo raggio verso il Centro-Nord (unità) 4.000 % sull'occupazione regionale 3,4 Pendolari totali (unità) 43.000 MERCATO DEL LAVORO 2006 2007 Tasso di disoccupazione (%) 10,0 8,1 Tasso di disoccupazione maschile (%) 7,2 6,4 Tasso di disoccupazione femminile (%) 14,5 10,9 Persone in cerca di occupazione (unità) 12.000 10.000 Tasso di occupazione (15-64 anni) totale (%) 52,3 53,6 Tasso di occupazione (15-64 anni) maschile (%) 66,4 66,5 Tasso di occupazione (15-64 anni) femminile (%) 38,1 40,4 Irregolari (unità) 22.000 21.000 Tasso di irregolarità (%) 18,0 17,0 Segue: REGIONE MOLISE INFRASTRUTTURE (Indici Nazionali=100) Molise Mezzogiorno Centro-Nord Porti 43,3 71,3 115,7 Aeroporti 37,2 80,5 110,7 Centri intermodali 0,8 1,1 156,1 Strade 110,5 101,6 98,9 Ferrovie 41,2 64,7 124,3 Rete elettrica 32,4 78,6 114,8 POVERTA' (dati 2005) Molise Mezzogiorno Centro-Nord Percentuale di famiglie con reddito < 12.000 euro 17,3 18,0 7,3 Famiglie con più di tre persone a carico (%) 7,6 13,9 4,1 Spesa media per abitazione (euro) 240 245 348 Rapporto spesa/reddito 12,1 12,8 14,0 Percentuale affittuari 11,1 19,1 17,8 Abitazione sprovvista di: Gabinetto interno (%) 0,0 0,3 0,4 Vasca/doccia (%) 0,6 1,3 0,5 Acqua calda (%) 0,3 0,9 0,5 INTERNAZIONALIZZAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Esportazioni (milioni di euro) Molise 613,8 628,4 2,4 Mezzogiorno 36.763,9 41.099,7 11,8 Centro-Nord 288.994,1 311.102,6 7,7 2005 2006 Numero imprese a partecipazione estera (unità) 7 5 Valori percentuali (Italia=100) 0,1 0,1 Numero di addetti alle imprese a partecipazione estera (unità) 351 222 Valori percentuali (Italia=100) 0,0 0,0 Investimenti diretti esteri (migliaia di euro) 21.313 Valori percentuali (Italia=100) 0,01 Grado di multinazionalità 0,6 TURISMO 2006 2007 Var. 2006-07 Presenze turistiche totali 742,5 654,2 -11,9 Presenze turistiche straniere 59,7 75,4 26,3 CRIMINALITA' 2006 2007 Percentuale famiglie con senso di rischio 6,6 12,0 2006 Var. 2005-06 Reati denunciati 8.518 13,3 Omicidi volontari 4 -20,0 Rapine 39 -9,3 Estorsioni 29 -19,4 RISORSE UMANE E INNOVAZIONE Molise Ue 27 Occupati nei settori ICT (% sul totale occupati) 11,4 15,5 Spesa in R & S (% del PIL) 0,4 1,8 Popolazione con laurea (%) 13,4 22,7 Dotazione nelle amministrazioni locali Italia Personal computer per 100 dipendenti 86,8 74,7 Comuni dotati di rete locali - LAN (%) 78,6 90,9 PIL (variazione %) PIL per abitante (valori assoluti a prezzi correnti) PIL per abitante in % del Centro-Nord REGIONE CAMPANIA INDICATORI STRUTTURALI 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Campania 2,1 -0,6 0,8 -1,6 0,3 0,5 Mezzogiorno 0,4 -0,3 0,6 0,3 1,1 0,7 Centro-Nord 0,5 0,1 1,8 0,6 2,1 1,7 Italia 0,5 0,0 1,5 0,6 1,8 1,5 Campania 14.764,0 15.025,8 15.542,1 15.796,4 16.154,0 16.547,9 Mezzogiorno 15.260,2 15.621,5 16.082,0 16.501,1 17.019,4 17.482,8 Centro-Nord 26.781,6 27.365,8 28.216,4 28.656,9 29.475,1 30.380,9 Italia 22.660,7 23.181,3 23.919,5 24.372,1 25.109,3 25.882,1 Campania 55,1 54,9 55,1 55,1 54,8 54,5 Mezzogiorno 57,0 57,1 57,0 57,6 57,7 57,5 Centro-Nord 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 POPOLAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Popolazione residente (migliaia di unità) 5.790,2 5.816,6 0,5 Tasso di incremento naturale (per 1.000 ab.) 2,7 2,6 Tasso di natalità (per 1.000 ab.) 10,8 10,7 Tasso di mortalità (per 1.000 ab.) 8,1 8,1 Saldo migratorio Abruzzo (migliaia di unità) -16,2 11,6 Saldo migratorio Mezzogiorno (migliaia di unità) -24,9 45,7 MIGRAZIONI Media 2006 2007 2000-05 Saldo migratorio interno (migliaia di unità) -24,9 -25,5 -25,2 Mezzogiorno (migliaia di unità) -66,5 -49,8 -51,6 Principali regioni di destinazione (%) Emilia Romagna (20,7) e Lazio (20,5) Caratteristiche migranti più di 14 anni (2005) - Diploma di scuola superiore (%) 36,5 - Laurea (%) 14,2 PENDOLARI 2007 % su (A) Pendolari di lungo raggio verso il Centro-Nord (unità) (A) 50.000 % sull'occupazione regionale 2,9 Pendolari totali (unità) 629.000 Pendolari di età 25-44 anni 32.000 63,9 In possesso di titolo di studio medio-alto 34.000 68,4 Impiegati nel settore dei servizi 31.000 62,3 Con professionalità alta 23.000 46,4 Dipendenti con contratto a termine 13.000 27,1 MERCATO DEL LAVORO 2006 2007 Tasso di disoccupazione (%) 12,9 11,2 Tasso di disoccupazione maschile (%) 10,3 9,5 Tasso di disoccupazione femminile (%) 17,9 14,6 Persone in cerca di occupazione (unità) 256.000 217.000 Tasso di occupazione (15-64 anni) totale (%) 44,1 43,7 Tasso di occupazione (15-64 anni) maschile (%) 60,1 59,9 Tasso di occupazione (15-64 anni) femminile (%) 28,5 27,9 Irregolari (unità) 373.000 344.000 Tasso di irregolarità (%) 20,7 19,0 Segue: REGIONE CAMPANIA INFRASTRUTTURE (Indici Nazionali=100) Campania Mezzogiorno Centro-Nord Porti 33,7 71,3 115,7 Aeroporti 24,2 80,5 110,7 Centri intermodali 1,5 1,1 156,1 Strade 134,4 101,6 98,9 Ferrovie 169,9 64,7 124,3 Rete elettrica 137,5 78,6 114,8 POVERTA' (dati 2005) Campania Mezzogiorno Centro-Nord Percentuale di famiglie con reddito < 12.000 euro 17,6 18,0 7,3 Famiglie con più di tre persone a carico (%) 18,5 13,9 4,1 Spesa media per abitazione (euro) 267 245 348 Rapporto spesa/reddito 13,6 12,8 14,0 Percentuale affittuari 27,7 19,1 17,8 Abitazione sprovvista di: Gabinetto interno (%) 0,5 0,3 0,4 Vasca/doccia (%) 1,1 1,3 0,5 Acqua calda (%) 0,7 0,9 0,5 INTERNAZIONALIZZAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Esportazioni (milioni di euro) Campania 8.392,0 9.303,1 10,9 Mezzogiorno 36.763,9 41.099,7 11,8 Centro-Nord 288.994,1 311.102,6 7,7 2005 2006 Numero imprese a partecipazione estera (unità) 89 101 Valori percentuali (Italia=100) 1,3 1,4 Numero di addetti alle imprese a partecipazione estera (unità) 11.326 9.472 Valori percentuali (Italia=100) 1,3 1,1 Investimenti diretti esteri (migliaia di euro) 245.991 Valori percentuali (Italia=100) 0,16 Grado di multinazionalità 1,1 TURISMO 2006 2007 Var. 2006-07 Presenze turistiche totali 19.145,9 19.774,7 3,3 Presenze turistiche straniere 8.155,8 8.373,4 2,7 CRIMINALITA' 2006 2007 Percentuale famiglie con senso di rischio 51,3 53,9 2006 Var. 2005-06 Reati denunciati 229.375 6,9 Omicidi volontari 140 9,4 Rapine 17.144 8,5 Estorsioni 1.102 15,3 RISORSE UMANE E INNOVAZIONE Campania Ue 27 Occupati nei settori ICT (% sul totale occupati) 11,0 15,5 Spesa in R & S (% del PIL) 1,1 1,8 Popolazione con laurea (%) 11,2 22,7 Dotazione nelle amministrazioni locali Italia Personal computer per 100 dipendenti 52,5 74,7 Comuni dotati di rete locali - LAN (%) 89,3 90,9 PIL (variazione %) PIL per abitante (valori assoluti a prezzi correnti) PIL per abitante in % del Centro-Nord REGIONE PUGLIA INDICATORI STRUTTURALI 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Puglia -0,5 -1,0 1,4 0,6 1,8 2,0 Mezzogiorno 0,4 -0,3 0,6 0,3 1,1 0,7 Centro-Nord 0,5 0,1 1,8 0,6 2,1 1,7 Italia 0,5 0,0 1,5 0,6 1,8 1,5 Puglia 14.962,2 15.284,0 15.702,1 16.022,6 16.656,6 17.355,8 Mezzogiorno 15.260,2 15.621,5 16.082,0 16.501,1 17.019,4 17.482,8 Centro-Nord 26.781,6 27.365,8 28.216,4 28.656,9 29.475,1 30.380,9 Italia 22.660,7 23.181,3 23.919,5 24.372,1 25.109,3 25.882,1 Puglia 55,9 55,9 55,6 55,9 56,5 57,1 Mezzogiorno 57,0 57,1 57,0 57,6 57,7 57,5 Centro-Nord 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 POPOLAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Popolazione residente (migliaia di unità) 4.069,9 4.075,0 0,1 Tasso di incremento naturale (per 1.000 ab.) 1,3 1,1 Tasso di natalità (per 1.000 ab.) 9,4 9,1 Tasso di mortalità (per 1.000 ab.) 8,1 8,0 Saldo migratorio Abruzzo (migliaia di unità) -6,9 0,8 Saldo migratorio Mezzogiorno (migliaia di unità) -24,9 45,7 MIGRAZIONI Media 2006 2007 2000-05 Saldo migratorio interno (migliaia di unità) -12,3 -9,8 -9,9 Mezzogiorno (migliaia di unità) -66,5 -49,8 -51,6 Principali regioni di destinazione (%) Caratteristiche migranti più di 14 anni (2005) - Diploma di scuola superiore (%) 37,3 - Laurea (%) 19,2 PENDOLARI 2007 % su (A) Pendolari di lungo raggio verso il Centro-Nord (unità) (A) 27.000 % sull'occupazione regionale 2,1 Pendolari totali (unità) 391.000 Pendolari di età 25-44 anni 17.000 63,9 In possesso di titolo di studio medio-alto 17.000 61,8 Impiegati nel settore dei servizi 18.000 68,8 Con professionalità alta 13.000 49,8 Dipendenti con contratto a termine 9.000 35,2 MERCATO DEL LAVORO 2006 2007 Tasso di disoccupazione (%) 12,8 11,2 Tasso di disoccupazione maschile (%) 10,3 9,0 Tasso di disoccupazione femminile (%) 17,7 15,5 Persone in cerca di occupazione (unità) 184.000 161.000 Tasso di occupazione (15-64 anni) totale (%) 45,7 46,7 Tasso di occupazione (15-64 anni) maschile (%) 63,4 63,7 Tasso di occupazione (15-64 anni) femminile (%) 28,5 30,0 Irregolari (unità) 217.000 225.000 Tasso di irregolarità (%) 16,2 16,4 Segue: REGIONE PUGLIA INFRASTRUTTURE (Indici Nazionali=100) Puglia Mezzogiorno Centro-Nord Porti 207,6 71,3 115,7 Aeroporti 81,3 80,5 110,7 Centri intermodali 1,4 1,1 156,1 Strade 100,4 101,6 98,9 Ferrovie 82,0 64,7 124,3 Rete elettrica 88,1 78,6 114,8 POVERTA' (dati 2005) Puglia Mezzogiorno Centro-Nord Percentuale di famiglie con reddito < 12.000 euro 16,7 18,0 7,3 Famiglie con più di tre persone a carico (%) 13,9 13,9 4,1 Spesa media per abitazione (euro) 252 245 348 Rapporto spesa/reddito 13,2 12,8 14,0 Percentuale affittuari 19,7 19,1 17,8 Abitazione sprovvista di: Gabinetto interno (%) 0,2 0,3 0,4 Vasca/doccia (%) 2,0 1,3 0,5 Acqua calda (%) 0,7 0,9 0,5 INTERNAZIONALIZZAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Esportazioni (milioni di euro) Puglia 6.877,9 7.122,0 3,5 Mezzogiorno 36.763,9 41.099,7 11,8 Centro-Nord 288.994,1 311.102,6 7,7 2005 2006 Numero imprese a partecipazione estera (unità) 47 41 Valori percentuali (Italia=100) 0,7 0,6 Numero di addetti alle imprese a partecipazione estera (unità) 6.898 6.977 Valori percentuali (Italia=100) 0,8 0,8 Investimenti diretti esteri (migliaia di euro) 247.269 Valori percentuali (Italia=100) 0,16 Grado di multinazionalità 0,9 TURISMO 2006 2007 Var. 2006-07 Presenze turistiche totali 10.320,8 10.605,3 2,8 Presenze turistiche straniere 1.497,4 1.548,4 3,4 CRIMINALITA' 2006 2007 Percentuale famiglie con senso di rischio 34,2 35,5 2006 Var. 2005-06 Reati denunciati 146.252 2,8 Omicidi volontari 33 -5,7 Rapine 2.005 -14,8 Estorsioni 571 -10,1 RISORSE UMANE E INNOVAZIONE Puglia Ue 27 Occupati nei settori ICT (% sul totale occupati) 9,4 15,5 Spesa in R & S (% del PIL) 0,6 1,8 Popolazione con laurea (%) 10,5 22,7 Dotazione nelle amministrazioni locali Italia Personal computer per 100 dipendenti 74,6 74,7 Comuni dotati di rete locali - LAN (%) 94,3 90,9 PIL (variazione %) PIL per abitante (valori assoluti a prezzi correnti) PIL per abitante in % del Centro-Nord Lombardia (24,7) ed Emilia Romagna(23,8) REGIONE BASILICATA INDICATORI STRUTTURALI 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Basilicata 0,8 -1,5 1,3 -0,3 1,7 1,5 Mezzogiorno 0,4 -0,3 0,6 0,3 1,1 0,7 Centro-Nord 0,5 0,1 1,8 0,6 2,1 1,7 Italia 0,5 0,0 1,5 0,6 1,8 1,5 Basilicata 15.731,6 16.011,5 16.672,9 17.094,3 17.857,7 18.654,1 Mezzogiorno 15.260,2 15.621,5 16.082,0 16.501,1 17.019,4 17.482,8 Centro-Nord 26.781,6 27.365,8 28.216,4 28.656,9 29.475,1 30.380,9 Italia 22.660,7 23.181,3 23.919,5 24.372,1 25.109,3 25.882,1 Basilicata 58,7 58,5 59,1 59,7 60,6 61,4 Mezzogiorno 57,0 57,1 57,0 57,6 57,7 57,5 Centro-Nord 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 POPOLAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Popolazione residente (migliaia di unità) 591,3 590,0 -0,2 Tasso di incremento naturale (per 1.000 ab.) -1,1 -1,4 Tasso di natalità (per 1.000 ab.) 8,3 8,1 Tasso di mortalità (per 1.000 ab.) 9,4 9,5 Saldo migratorio Abruzzo (migliaia di unità) -2,0 -0,5 Saldo migratorio Mezzogiorno (migliaia di unità) -24,9 45,7 MIGRAZIONI Media 2006 2007 2000-05 Saldo migratorio interno (migliaia di unità) -2,0 -2,1 -2,2 Mezzogiorno (migliaia di unità) -66,5 -49,8 -51,6 Principali regioni di destinazione (%) Caratteristiche migranti più di 14 anni (2005) - Diploma di scuola superiore (%) 38,1 - Laurea (%) 20,2 PENDOLARI 2007 Pendolari di lungo raggio verso il Centro-Nord (unità) 7.000 % sull'occupazione regionale 3,5 Pendolari totali (unità) 64.000 MERCATO DEL LAVORO 2006 2007 Tasso di disoccupazione (%) 10,5 9,5 Tasso di disoccupazione maschile (%) 7,9 6,3 Tasso di disoccupazione femminile (%) 15,2 15,3 Persone in cerca di occupazione (unità) 23.000 21.000 Tasso di occupazione (15-64 anni) totale (%) 50,3 49,6 Tasso di occupazione (15-64 anni) maschile (%) 66,2 64,9 Tasso di occupazione (15-64 anni) femminile (%) 34,3 34,1 Irregolari (unità) 46.000 43.000 Tasso di irregolarità (%) 20,6 19,2 Segue: REGIONE BASILICATA INFRASTRUTTURE (Indici Nazionali=100) Basilicata Mezzogiorno Centro-Nord Porti 0,0 71,3 115,7 Aeroporti 31,3 80,5 110,7 Centri intermodali 0,7 1,1 156,1 Strade 92,7 101,6 98,9 Ferrovie 34,8 64,7 124,3 Rete elettrica 61,1 78,6 114,8 POVERTA' (dati 2005) Basilicata Mezzogiorno Centro-Nord Percentuale di famiglie con reddito < 12.000 euro 18,0 18,0 7,3 Famiglie con più di tre persone a carico (%) 9,6 13,9 4,1 Spesa media per abitazione (euro) 239 245 348 Rapporto spesa/reddito 13,1 12,8 14,0 Percentuale affittuari 14,9 19,1 17,8 Abitazione sprovvista di: Gabinetto interno (%) 0,1 0,3 0,4 Vasca/doccia (%) 0,7 1,3 0,5 Acqua calda (%) 1,3 0,9 0,5 INTERNAZIONALIZZAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Esportazioni (milioni di euro) Basilicata 1.721,6 2.096,0 21,7 Mezzogiorno 36.763,9 41.099,7 11,8 Centro-Nord 288.994,1 311.102,6 7,7 2005 2006 Numero imprese a partecipazione estera (unità) 21 18 Valori percentuali (Italia=100) 0,3 0,3 Numero di addetti alle imprese a partecipazione estera (unità) 6.093 1.107 Valori percentuali (Italia=100) 0,7 0,1 Investimenti diretti esteri (migliaia di euro) 246.100 Valori percentuali (Italia=100) 0,16 Grado di multinazionalità 5,3 TURISMO 2006 2007 Var. 2006-07 Presenze turistiche totali 1.743,7 1.856,8 6,5 Presenze turistiche straniere 174,1 188,7 8,4 CRIMINALITA' 2006 2007 Percentuale famiglie con senso di rischio 11,2 9,7 2006 Var. 2005-06 Reati denunciati 12.720 13,4 Omicidi volontari 4 -20,0 Rapine 40 -32,2 Estorsioni 41 -26,8 RISORSE UMANE E INNOVAZIONE Basilicata Ue 27 Occupati nei settori ICT (% sul totale occupati) 10,0 15,5 Spesa in R & S (% del PIL) 0,5 1,8 Popolazione con laurea (%) 11,4 22,7 Dotazione nelle amministrazioni locali Italia Personal computer per 100 dipendenti 80,3 74,7 Comuni dotati di rete locali - LAN (%) 96,2 90,9 PIL (variazione %) PIL per abitante (valori assoluti a prezzi correnti) PIL per abitante in % del Centro-Nord Lombardia (24,3) ed Emilia Romagna(22,3) REGIONE CALABRIA INDICATORI STRUTTURALI 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Calabria -0,2 1,3 1,9 -3,1 2,4 -1,0 Mezzogiorno 0,4 -0,3 0,6 0,3 1,1 0,7 Centro-Nord 0,5 0,1 1,8 0,6 2,1 1,7 Italia 0,5 0,0 1,5 0,6 1,8 1,5 Calabria 14.226,9 14.773,2 15.464,5 15.780,4 16.518,0 16.652,1 Mezzogiorno 15.260,2 15.621,5 16.082,0 16.501,1 17.019,4 17.482,8 Centro-Nord 26.781,6 27.365,8 28.216,4 28.656,9 29.475,1 30.380,9 Italia 22.660,7 23.181,3 23.919,5 24.372,1 25.109,3 25.882,1 Calabria 53,1 54,0 54,8 55,1 56,0 54,8 Mezzogiorno 57,0 57,1 57,0 57,6 57,7 57,5 Centro-Nord 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 POPOLAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Popolazione residente (migliaia di unità) 1.998,0 2.004,7 0,3 Tasso di incremento naturale (per 1.000 ab.) 0,3 0,3 Tasso di natalità (per 1.000 ab.) 9,1 9,0 Tasso di mortalità (per 1.000 ab.) 8,8 8,7 Saldo migratorio Abruzzo (migliaia di unità) -7,2 6,2 Saldo migratorio Mezzogiorno (migliaia di unità) -24,9 45,7 MIGRAZIONI Media 2006 2007 2000-05 Saldo migratorio interno (migliaia di unità) -9,2 -7,8 -7,9 Mezzogiorno (migliaia di unità) -66,5 -49,8 -51,6 Principali regioni di destinazione (%) Caratteristiche migranti più di 14 anni (2005) - Diploma di scuola superiore (%) 34,5 - Laurea (%) 21,6 PENDOLARI 2007 Pendolari di lungo raggio verso il Centro-Nord (unità) 13.000 % sull'occupazione regionale 2,1 Pendolari totali (unità) 187.000 MERCATO DEL LAVORO 2006 2007 Tasso di disoccupazione (%) 12,9 11,2 Tasso di disoccupazione maschile (%) 11,2 9,4 Tasso di disoccupazione femminile (%) 15,9 14,5 Persone in cerca di occupazione (unità) 91.000 76.000 Tasso di occupazione (15-64 anni) totale (%) 45,6 44,9 Tasso di occupazione (15-64 anni) maschile (%) 59,5 58,9 Tasso di occupazione (15-64 anni) femminile (%) 31,8 31,0 Irregolari (unità) 181.000 171.000 Tasso di irregolarità (%) 27,2 26,0 Segue: REGIONE CALABRIA INFRASTRUTTURE (Indici Nazionali=100) Calabria Mezzogiorno Centro-Nord Porti 46,4 71,3 115,7 Aeroporti 116,6 80,5 110,7 Centri intermodali 0,6 1,1 156,1 Strade 122,0 101,6 98,9 Ferrovie 82,4 64,7 124,3 Rete elettrica 67,0 78,6 114,8 POVERTA' (dati 2005) Calabria Mezzogiorno Centro-Nord Percentuale di famiglie con reddito < 12.000 euro 19,1 18,0 7,3 Famiglie con più di tre persone a carico (%) 11,1 13,9 4,1 Spesa media per abitazione (euro) 228 245 348 Rapporto spesa/reddito 12,0 12,8 14,0 Percentuale affittuari 14,5 19,1 17,8 Abitazione sprovvista di: Gabinetto interno (%) 0,4 0,3 0,4 Vasca/doccia (%) 1,5 1,3 0,5 Acqua calda (%) 1,2 0,9 0,5 INTERNAZIONALIZZAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Esportazioni (milioni di euro) Calabria 329,0 427,9 30,1 Mezzogiorno 36.763,9 41.099,7 11,8 Centro-Nord 288.994,1 311.102,6 7,7 2005 2006 Numero imprese a partecipazione estera (unità) 16 15 Valori percentuali (Italia=100) 0,2 0,2 Numero di addetti alle imprese a partecipazione estera (unità) 1.280 1.267 Valori percentuali (Italia=100) 0,1 0,1 Investimenti diretti esteri (migliaia di euro) 29.963 Valori percentuali (Italia=100) 0,02 Grado di multinazionalità 0,4 TURISMO 2006 2007 Var. 2006-07 Presenze turistiche totali 8.155,1 8.687,4 6,5 Presenze turistiche straniere 1.479,2 1.520,4 2,8 CRIMINALITA' 2006 2007 Percentuale famiglie con senso di rischio 26,6 22,2 2006 Var. 2005-06 Reati denunciati 73.529 4,7 Omicidi volontari 61 -11,6 Rapine 655 -14,7 Estorsioni 393 12,0 RISORSE UMANE E INNOVAZIONE Calabria Ue 27 Occupati nei settori ICT (% sul totale occupati) 11,7 15,5 Spesa in R & S (% del PIL) 0,4 1,8 Popolazione con laurea (%) 12,3 22,7 Dotazione nelle amministrazioni locali Italia Personal computer per 100 dipendenti 68,9 74,7 Comuni dotati di rete locali - LAN (%) 77,5 90,9 PIL (variazione %) PIL per abitante (valori assoluti a prezzi correnti) PIL per abitante in % del Centro-Nord Lombardia (29,3) ed Emilia Romagna(16,8) REGIONE SICILIA INDICATORI STRUTTURALI 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Sicilia -0,3 -0,2 0,0 2,4 0,2 0,1 Mezzogiorno 0,4 -0,3 0,6 0,3 1,1 0,7 Centro-Nord 0,5 0,1 1,8 0,6 2,1 1,7 Italia 0,5 0,0 1,5 0,6 1,8 1,5 Sicilia 14.662,2 15.053,9 15.451,1 16.054,2 16.439,9 16.789,3 Mezzogiorno 15.260,2 15.621,5 16.082,0 16.501,1 17.019,4 17.482,8 Centro-Nord 26.781,6 27.365,8 28.216,4 28.656,9 29.475,1 30.380,9 Italia 22.660,7 23.181,3 23.919,5 24.372,1 25.109,3 25.882,1 Sicilia 54,7 55,0 54,8 56,0 55,8 55,3 Mezzogiorno 57,0 57,1 57,0 57,6 57,7 57,5 Centro-Nord 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 POPOLAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Popolazione residente (migliaia di unità) 5.016,9 5.026,1 0,2 Tasso di incremento naturale (per 1.000 ab.) 0,8 0,5 Tasso di natalità (per 1.000 ab.) 10,0 9,8 Tasso di mortalità (per 1.000 ab.) 9,2 9,3 Saldo migratorio Abruzzo (migliaia di unità) -4,0 7,0 Saldo migratorio Mezzogiorno (migliaia di unità) -24,9 45,7 MIGRAZIONI Media 2006 2007 2000-05 Saldo migratorio interno (migliaia di unità) -15,6 -7,5 -9,2 Mezzogiorno (migliaia di unità) -66,5 -49,8 -51,6 Principali regioni di destinazione (%) Caratteristiche migranti più di 14 anni (2005) - Diploma di scuola superiore (%) 33,5 - Laurea (%) 12,2 PENDOLARI 2007 % su (A) Pendolari di lungo raggio verso il Centro-Nord (unità) (A) 28.000 % sull'occupazione regionale 1,9 Pendolari totali (unità) 370.000 Pendolari di età 25-44 anni 21.000 73,4 In possesso di titolo di studio medio-alto 22.000 75,0 Impiegati nel settore dei servizi 21.000 72,9 Con professionalità alta 15.000 51,7 Dipendenti con contratto a termine 10.000 34,4 MERCATO DEL LAVORO 2006 2007 Tasso di disoccupazione (%) 13,5 13,0 Tasso di disoccupazione maschile (%) 11,2 10,6 Tasso di disoccupazione femminile (%) 17,8 17,3 Persone in cerca di occupazione (unità) 235.000 222.000 Tasso di occupazione (15-64 anni) totale (%) 45,0 44,6 Tasso di occupazione (15-64 anni) maschile (%) 61,1 60,7 Tasso di occupazione (15-64 anni) femminile (%) 29,6 29,0 Irregolari (unità) 340.000 317.000 Tasso di irregolarità (%) 22,0 20,5 Segue: REGIONE SICILIA INFRASTRUTTURE (Indici Nazionali=100) Sicilia Mezzogiorno Centro-Nord Porti 34,8 71,3 115,7 Aeroporti 99,6 80,5 110,7 Centri intermodali 0,8 1,1 156,1 Strade 95,3 101,6 98,9 Ferrovie 57,4 64,7 124,3 Rete elettrica 95,3 78,6 114,8 POVERTA' (dati 2005) Sicilia Mezzogiorno Centro-Nord Percentuale di famiglie con reddito < 12.000 euro 22,7 18,0 7,3 Famiglie con più di tre persone a carico (%) 14,7 13,9 4,1 Spesa media per abitazione (euro) 217 245 348 Rapporto spesa/reddito 12,4 12,8 14,0 Percentuale affittuari 16,6 19,1 17,8 Abitazione sprovvista di: Gabinetto interno (%) 0,0 0,3 0,4 Vasca/doccia (%) 1,4 1,3 0,5 Acqua calda (%) 1,5 0,9 0,5 INTERNAZIONALIZZAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Esportazioni (milioni di euro) Sicilia 7.947,9 9.523,4 19,8 Mezzogiorno 36.763,9 41.099,7 11,8 Centro-Nord 288.994,1 311.102,6 7,7 2005 2006 Numero imprese a partecipazione estera (unità) 45 47 Valori percentuali (Italia=100) 0,6 0,7 Numero di addetti alle imprese a partecipazione estera (unità) 2.138 2.151 Valori percentuali (Italia=100) 0,2 0,3 Investimenti diretti esteri (migliaia di euro) 30.135 Valori percentuali (Italia=100) 0,02 Grado di multinazionalità 0,3 TURISMO 2006 2007 Var. 2006-07 Presenze turistiche totali 14.574,5 14.590,7 0,1 Presenze turistiche straniere 5.705,5 5.920,1 3,8 CRIMINALITA' 2006 2007 Percentuale famiglie con senso di rischio 24,9 27,7 2006 Var. 2005-06 Reati denunciati 186.223 9,9 Omicidi volontari 62 -11,4 Rapine 4.745 22,2 Estorsioni 585 -12,4 RISORSE UMANE E INNOVAZIONE Sicilia Ue 27 Occupati nei settori ICT (% sul totale occupati) 10,9 15,5 Spesa in R & S (% del PIL) 0,8 1,8 Popolazione con laurea (%) 10,8 22,7 Dotazione nelle amministrazioni locali Italia Personal computer per 100 dipendenti 51,8 74,7 Comuni dotati di rete locali - LAN (%) 90,4 90,9 PIL (variazione %) PIL per abitante (valori assoluti a prezzi correnti) PIL per abitante in % del Centro-Nord Lombardia (30,1) ed Emilia Romagna(17,1) REGIONE SARDEGNA INDICATORI STRUTTURALI 2002 2003 2004 2005 2006 2007 Sardegna -0,5 2,7 0,9 2,5 2,0 1,3 Mezzogiorno 0,4 -0,3 0,6 0,3 1,1 0,7 Centro-Nord 0,5 0,1 1,8 0,6 2,1 1,7 Italia 0,5 0,0 1,5 0,6 1,8 1,5 Sardegna 17.226,5 17.975,7 18.596,4 19.062,9 19.794,4 20.391,0 Mezzogiorno 15.260,2 15.621,5 16.082,0 16.501,1 17.019,4 17.482,8 Centro-Nord 26.781,6 27.365,8 28.216,4 28.656,9 29.475,1 30.380,9 Italia 22.660,7 23.181,3 23.919,5 24.372,1 25.109,3 25.882,1 Sardegna 64,3 65,7 65,9 66,5 67,2 67,1 Mezzogiorno 57,0 57,1 57,0 57,6 57,7 57,5 Centro-Nord 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 POPOLAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Popolazione residente (migliaia di unità) 1.659,4 1.664,0 0,3 Tasso di incremento naturale (per 1.000 ab.) -0,3 -0,3 Tasso di natalità (per 1.000 ab.) 8,0 8,1 Tasso di mortalità (per 1.000 ab.) 8,3 8,4 Saldo migratorio Abruzzo (migliaia di unità) 4,3 5,1 Saldo migratorio Mezzogiorno (migliaia di unità) -24,9 45,7 MIGRAZIONI Media 2006 2007 2000-05 Saldo migratorio interno (migliaia di unità) -1,8 1,7 0,3 Mezzogiorno (migliaia di unità) -66,5 -49,8 -51,6 Principali regioni di destinazione (%) Lombardia (24,6) e Lazio (15,5) Caratteristiche migranti più di 14 anni (2005) - Diploma di scuola superiore (%) 34,6 - Laurea (%) 13,9 PENDOLARI 2007 Pendolari di lungo raggio verso il Centro-Nord (unità) 8.000 % sull'occupazione regionale 1,2 Pendolari totali (unità) 204.000 MERCATO DEL LAVORO 2006 2007 Tasso di disoccupazione (%) 10,8 9,9 Tasso di disoccupazione maschile (%) 8,5 7,2 Tasso di disoccupazione femminile (%) 14,6 14,2 Persone in cerca di occupazione (unità) 74.000 67.000 Tasso di occupazione (15-64 anni) totale (%) 52,3 52,8 Tasso di occupazione (15-64 anni) maschile (%) 66,2 66,4 Tasso di occupazione (15-64 anni) femminile (%) 38,2 39,0 Irregolari (unità) 131.000 123.000 Tasso di irregolarità (%) 21,4 19,8 Segue: REGIONE SARDEGNA INFRASTRUTTURE (Indici Nazionali=100) Sardegna Mezzogiorno Centro-Nord Porti 77,8 71,3 115,7 Aeroporti 239,3 80,5 110,7 Centri intermodali 1,0 1,1 156,1 Strade 71,0 101,6 98,9 Ferrovie 4,6 64,7 124,3 Rete elettrica 48,9 78,6 114,8 POVERTA' (dati 2005) Sardegna Mezzogiorno Centro-Nord Percentuale di famiglie con reddito < 12.000 euro 11,9 18,0 7,3 Famiglie con più di tre persone a carico (%) 7,4 13,9 4,1 Spesa media per abitazione (euro) 248 245 348 Rapporto spesa/reddito 11,7 12,8 14,0 Percentuale affittuari 11,9 19,1 17,8 Abitazione sprovvista di: Gabinetto interno (%) 0,8 0,3 0,4 Vasca/doccia (%) 0,3 1,3 0,5 Acqua calda (%) 0,6 0,9 0,5 INTERNAZIONALIZZAZIONE 2006 2007 Var. 2006-07 Esportazioni (milioni di euro) Sardegna 4.336,1 4.683,3 8,0 Mezzogiorno 36.763,9 41.099,7 11,8 Centro-Nord 288.994,1 311.102,6 7,7 2005 2006 Numero imprese a partecipazione estera (unità) 28 26 Valori percentuali (Italia=100) 0,4 0,4 Numero di addetti alle imprese a partecipazione estera (unità) 6.194 5.890 Valori percentuali (Italia=100) 0,7 0,7 Investimenti diretti esteri (migliaia di euro) 97.674 Valori percentuali (Italia=100) 0,06 Grado di multinazionalità 1,8 TURISMO 2006 2007 Var. 2006-07 Presenze turistiche totali 10.530,9 11.851,2 12,5 Presenze turistiche straniere 3.241,8 3.859,4 19,1 CRIMINALITA' 2006 2007 Percentuale famiglie con senso di rischio 15,5 18,6 2006 Var. 2005-06 Reati denunciati 55.106 3,3 Omicidi volontari 20 -16,7 Rapine 524 12,9 Estorsioni 119 21,4 RISORSE UMANE E INNOVAZIONE Sardegna Ue 27 Occupati nei settori ICT (% sul totale occupati) 9,3 15,5 Spesa in R & S (% del PIL) 0,7 1,8 Popolazione con laurea (%) 10,4 22,7 Dotazione nelle amministrazioni locali Italia Personal computer per 100 dipendenti 97,7 74,7 Comuni dotati di rete locali - LAN (%) 94,4 90,9 PIL (variazione %) PIL per abitante (valori assoluti a prezzi correnti) PIL per abitante in % del Centro-Nord
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