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Roma,20 luglio 2010
SVIMEZ, PIANO DA 38 MILIARDI DI EURO
PER LE GRANDI INFRASTRUTTURE
Nel 2009 il Pil torna ai livelli di dieci anni fa – Giù tutti i settori
2,4 milioni via dal Sud in venti anni – 26mila pendolari in meno per la crisi
Al 24% il tasso di disoccupazione effettivo al Sud
Il 44% delle famiglie non può sostenere una spesa extra di 750 euro
La fotografia dell’economia del Mezzogiorno nel Rapporto SVIMEZ
Un Mezzogiorno in recessione, colpito duramente dalla crisi nel settore industriale,
che da otto anni consecutivi cresce meno del Centro-Nord, cosa mai avvenuta dal
dopoguerra a oggi, il cui Pil del 2009 è tornato ai livelli di dieci anni fa. Un’area
periferica in cui gli emigrati precari, colpiti dalla crisi, privi di tutele, a parte la
CIG, iniziano a rientrare, ma già pensano a ripartire, dove il tasso di disoccupa-
zione paradossalmente cresce di più al Nord che al Sud, dove 6 milioni 830mila
persone sono a rischio povertà. Mentre serve un nuovo progetto Paese per il Sud,
che parta dal rilancio delle infrastrutture, con piano di 38 miliardi di euro, per co-
involgere quale nuova “frontiera” i settori più innovativi: questa la fotografia che
emerge dal Rapporto SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno 2010 in presentazio-
ne a Roma martedì 20 luglio.
Nel 2009 il Pil del Sud è calato del 4,5%, un valore molto più negativo del -1,5%
del 2008, leggermente inferiore al dato del Centro-Nord (-5,2%). Il Pil per abitan-
te è pari a 17.317 euro, il 58,8% del Centro-Nord (29.449 euro).
A livello regionale l’Abruzzo mostra nel 2009 una diminuzione del Pil particolar-
mente elevata (-5,9%), seguito dalla Campania (-5,4%), e Puglia e Basilicata a pari
merito (-5%). Tutte negative le altre regioni meridionali, come le settentrionali, a ecce-
zione della Valle d’Aosta. La perdita più contenuta in Sicilia (-3,1%).
A livello settoriale nel 2009 anche l’agricoltura meridionale è stata investita dalla crisi,
con un crollo del valore aggiunto del 5%, contro il -1,9% del Centro-Nord. A livello re-
gionale il valore aggiunto di Abruzzo, Basilicata, Molise e Puglia, che nel 2008 avevano
registrato buone performances, è sceso fortemente, con valori compresi tra -8% e -11%.
A fare le spese maggiori della crisi, l’industria, con un crollo del valore aggiunto in-
dustriale nel 2009 del 15,8%, mentre le produzioni manifatturiere hanno segnato un
calo del 16,6%. A tirare giù l’industria meridionale soprattutto minerali non metallurgici
(-26,9%), metalli (23,9%) e macchine e mezzi di trasporto (-20,5%).
Sempre per effetto della crisi, per la prima volta dalla fine della guerra il valore aggiun-
to del settore dei servizi è calato per due anni consecutivi, segnando nel 2009 – 2,7%
(Centro-Nord -2,6%), con effetti molto più pesanti nel commercio (-11% contro -9%).
Giù anche turismo e trasporti (-3%) e intermediazione creditizia e immobiliare (-1,7%).
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Circa 88mila i posti di lavoro persi nel settore al Sud (-1,9% rispetto al 2008), con punte
del -3,9% nel commercio, il doppio che al Centro-Nord (-1,7%), concentrate soprattutto
nel lavoro autonomo.
Due le cause principali dell’andamento recessivo: investimenti che rallentano, fa-
miglie che non consumano. Queste ultime infatti hanno ridotto al Sud la spesa del
2,6% contro l’1,6% del Centro-Nord. Mentre gli investimenti industriali sono crolla-
ti del 9,6% nel 2009, dopo la flessione (-3,7%) del 2008.
L’INDUSTRIA DEL SUD A RISCHIO ESTINZIONE
Una situazione senza precedenti: dal 2008 al 2009 l’industria manifatturiera del Sud
ha perso oltre 100mila posti di lavoro, di cui 61mila soltanto lo scorso anno. In que-
sto modo il gap dell’industria meridionale con il Centro-Nord e il resto dell’Europa si è
ulteriormente aggravato. Dal 2004 al 2008 il valore aggiunto industriale al Sud ha perso
il 2,4% contro il + 9,7% dei paesi dell’area Euro.
Secondo la SVIMEZ per uscire dall’impasse occorre promuovere una nuova politica in-
dustriale specifica per il Sud, con risorse adeguate. Uno degli elementi fondamentali
dovrebbe essere costituito dalla fiscalità di vantaggio.
LA DISOCCUPAZIONE CRESCE DI PIU’ AL CENTRO-NORD
Il tasso di occupazione nella media del 2009 è sceso di quasi un punto percentuale ri-
spetto al 2008, da 58,7% a 57,5%.
Su 380mila posti di lavoro in meno in tutto il Paese, 186 mila sono stati al Centro-
Nord (-1,1%). Situazione più pesante nel Mezzogiorno, con 194mila unità in meno
(-3%).
Se si analizzano gli andamenti trimestrali dell’occupazione, emerge che la crisi è inizia-
ta prima al Sud e lì sembra durare più a lungo. Gli occupati al Sud sono quindi
tornati ai livelli di dieci anni fa. Dei circa 530mila posti di lavoro persi nell’ultimo
anno e mezzo, 335mila sono al Sud.
Regioni - Nel 2009 tutte le regioni meridionali sono state interessate da difficoltà occu-
pazionali. Perdite più consistenti in Abruzzo (-4,6%, pari a 23.800 posti di lavoro in
meno), Campania (-4,1%, pari a 68.700 posti di lavoro in meno) e Puglia (-3,8%,
49.200 unità in meno). In linea con il calo del 3% degli occupati meridionali il Molise
(-3,1%, meno 3.600 posti) e la Sardegna (-3%, meno 18.600 posti di lavoro). Cifre
più contenute, pur se negative, in Basilicata (-2,7%, pari a 5.200 posti di lavoro), Ca-
labria (-1,5%, 9.100 posti) e Sicilia (-1,1%, 15.700 posti di lavoro).
Settori - La domanda di lavoro in agricoltura continua a scendere, soprattutto al
Sud (-5,8% contro il +0,9% del Centro-Nord). In calo anche l’industria, che segna -
6,3% al Sud e -2,7% nell’altra ripartizione. La dinamica dell’occupazione industriale è
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sensibilmente negativa in tutte le regioni del Sud, particolarmente in Sicilia (-8,4%),
Campania (-7,2%) e Puglia (-7,3%), con l’eccezione della Calabria (+0,4%).
Giù anche i servizi, con un calo dell’1,6%, ben più marcato che nell’altra ripartizione (-
0,4%).
In valori assoluti, il Sud ha perso nel 2009 25mila unità nel settore agricolo (+4.300 al
Centro-Nord), 94mila nell’industria (-145mila nell’altra ripartizione) e 74.300 unità nei
servizi (-44.700 nel Centro-Nord).
Nel 2009 i disoccupati sono aumentati più al Centro-Nord (+29,9%), quasi 30 volte
di più che al Sud (+1,4%). Nella classe di età 15-24 anni la disoccupazione è arrivata
al 20,1% al Centro-Nord e al 36% al Sud. Qui crescono anche i disoccupati di lunga du-
rata (sono il 6,6% del totale, erano il 6,4% nel 2008).
All’Italia spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione giovanile più alto
in Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Nel 2009 gli occupati in
età 15-24 anni crollano del 13,2%.
La laurea paga, ma in ritardo - Nel 2009 il tasso di occupazione dei laureati 25-
34enni è stato del 53% contro il 75% del Centro-Nord. Solo in età adulta, oltre i 40
anni, il tasso di occupazione dei laureati si allinea tra le due ripartizioni: 90,3% al
Sud, 92% al Centro-Nord in età 45-54 anni.
Inattivi: il Nord che si meridionalizza - Nel 2009 i giovani italiani Neet (Not in edu-
cation, employment or training), cioè che non studiano, non lavorano, né lo cercano,
sono aumentati del 6,6% rispetto al 2008, sforando quota 2 milioni. Di questi, 1,2 mi-
lioni sono al Sud e 850mila al Centro-Nord. Da segnalare che in questo senso il Nord si
sta meridionalizzando: qui gli inattivi sono aumentati dell’81% dal 2005 al 2009.
Spina nel fianco, le donne: nel 2009 1 ragazza su tre (15-29 anni) al Sud non ha lavo-
rato né studiato. Pesa ancora un modello familiare con un unico stipendio in famiglia e
il ruolo sociale della donna, confinata tra le mura domestiche.
Disoccupati impliciti ed espliciti - Come già rilevato nel Rapporto SVIMEZ dello
scorso anno, al Sud continua a crescere la zona grigia della disoccupazione, che rag-
gruppa scoraggiati (persone che non cercano lavoro ma si dicono disponibili a lavorare),
disoccupati impliciti e lavoratori potenziali. Considerando questa componente, il tasso
di disoccupazione effettivo del Sud salirebbe nel 2009 a sfiorare il 23,9% (era stima-
to nel 22,5% nel 2008). Con forti differenze regionali: in Campania arriverebbe al
25,2%, in Calabria al 25,3%, in Sicilia addirittura al 27,2%. Cifre diverse anche per il
Centro-Nord: in Piemonte arriverebbe a sfiorare il 12% e in Lombardia al 9,5%.
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IN VENTI ANNI 2,4 MILIONI VIA DAL SUD, A PARTE I PENDOLARI
Tra il 1990 e il 2009 circa 2 milioni 385mila persone hanno abbandonato il Mezzo-
giorno. La vera America, per i meridionali, resta il Centro-Nord, dove si dirigono 9
emigranti su 10. Solo 1 su dieci si trasferisce all’estero: in valori assoluti, dal 1996 al
2007, parliamo di 242mila persone, di cui oltre 13mila laureati. In testa alle preferenze
la Germania, che attrae oltre un terzo degli emigranti verso l’estero, per il 20%
laureati; seguono Svizzera e Regno Unito.
Nel 2009 114mila persone si sono trasferite dal Sud al Nord, 8mila in meno rispetto
al 2008. In crescita invece i trasferimenti in direzione opposta, da Nord a Sud, arrivati
nel 2009 a 55mila unità (erano 50mila l’anno precedente).
Riguardo alla provenienza, in testa per partenze la Campania (38mila nel 2007), se-
guita da Sicilia (26.200) e Puglia (21.300). La regione più attrattiva per il Mezzo-
giorno resta la Lombardia, che ha attratto nel 2007 quasi un migrante su quattro, pari a
quasi 29mila persone, seguita dall’Emilia Romagna, con 22mila unità in più. In A-
bruzzo e Molise la prima regione di destinazione resta il Lazio, mentre per la Campania
è l’Emilia Romagna.
I migranti sono soprattutto uomini, anche se il Lazio è una regione che attrae più donne.
Riguardo al titolo di studio, i laureati sono il 17,5%, e la regione che ne attrae di più è il
Lazio (25%).
L’emigrante tipo ha 31 anni in media: i più giovani, under 30, si dirigono in Trentino
Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, mentre l’età media di chi si trasferisce nel Lazio è di
33,8 anni.
Pendolari e crisi - La crisi ha colpito duro i pendolari, generalmente giovani, laureati
e precari. Nel 2009 sono stati 147mila, in calo del 14,8% rispetto al 2008, pari a
26mila unità. Oltre 60mila sono campani, 36.500 i pugliesi, 35mila i siciliani. A se-
guire, abruzzesi (19mila), calabresi (16.800), lucani (14mila) e molisani (8.300).
È un’emigrazione diversa dagli anni 60: il trolley e il pc al posto della valigia di cartone,
molti con la laurea in tasca, e moltissime donne. I posti di lavoro disponibili nel Mezzo-
giorno sono in numero assai inferiore a quello degli occupati; il sistema produttivo ar-
retrato non è in grado di richiedere e assorbire il personale ad alta qualificazione che
sfornano le Università e non solo.
Sono giovani e con un livello di studio medio-alto: il 75% ha meno di 45 anni e quasi il
50% svolge professioni di livello elevato. Oltre il 26% è laureato e quasi il 43% lavora
da meno di tre anni. Non lasciano la residenza generalmente perché non lo giustifiche-
rebbe né il costo della vita nelle aree urbane né un contratto di lavoro a tempo. Sono so-
prattutto maschi (76%), singles (50%), dipendenti (90%) full time in una fase transitoria
della loro vita, come l’ingresso o l’assestamento nel mercato del lavoro.
A livello regionale, l’identikit del pendolare cambia leggermente: l’84% dei pendolari in
Trentino Alto Adige opera nei servizi, mentre chi vuole lavorare nell’industria si dirige
in Emilia Romagna, Umbria o va all’estero (22%). Il Lazio assorbe molti laureati, men-
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tre Veneto, Friuli e Marche molti pendolari privi di titolo di studio o con licenza ele-
mentare. La maggior parte dei pendolari in Valle d’Aosta è donna e svolge lavoro di-
pendente, mentre chi va all’estero è soprattutto uomo (89%). I lavoratori autonomi pre-
feriscono Lazio e Marche. I pendolari part time si concentrano in Umbria (13,8%).
Senza tutele - Incrociando i dati della Cassa integrazione e delle forze lavoro risulta che
su 186 posti di lavoro persi al Nord, gli interventi di CIG hanno interessato 438mila
persone, mentre al Sud su oltre 200mila occupati in meno le misure utilizzate sono state
di appena 96mila unità.
In altri termini, al Nord per ogni persona che perde il lavoro, 2 sono protette; al Sud
è l’opposto, solo un lavoratore su 3 ottiene la CIG. Gli effetti sociali sono devastanti:
molti lavoratori precari, perso il lavoro, al Sud, non sono stati minimamente tutelati.
QUASI UN MERIDIONALE SU 2 IN TILT PER SPESA EXTRA DI 750 EURO
In base agli ultimi dati disponibili (2007) il 14% delle famiglie meridionali vive con
meno di 1.000 euro al mese, un dato quasi tre volte superiore all’altra ripartizione
(5,5%).
Un unico stipendio e più familiari a carico - Nel 47% delle famiglie meridionali vi è
un unico stipendio, addirittura il 54% in Sicilia. Hanno inoltre a carico tre o più fa-
miliari il 12% delle famiglie meridionali, un dato quattro volte superiore al Centro-
Nord (3,7%), che arriva al 16,5% in Campania.
Il rischio resta anche con due stipendi - A rischio povertà a causa di un reddito trop-
po basso quasi un meridionale su 3, contro 1 su 10 al Centro-Nord. In valori assoluti,
al Sud, si tratta di 6 milioni 838mila persone, fra cui 889mila lavoratori dipendenti
e 760mila pensionati. Riguardo al titolo di studio, oltre 1 milione 100mila ha un li-
vello medio-alto, con 122mila laureati.
Da segnalare che non sempre, al Sud, uno stipendio in più oltre a quello base modi-
fica la situazione: in quasi una famiglia su 4 (23,9%) con due redditi il rischio ri-
mane.
Una famiglia meridionale su 5 non ha soldi per andare dal medico - Ben il 44%
delle famiglie meridionali, quasi una famiglia su due, non ha potuto sostenere una
spesa imprevista di 750 euro (26% al Centro-Nord).
La povertà morde particolarmente nelle piccole scelte quotidiane: nel 2008 nel 30% del-
le famiglie al Sud sono mancati i soldi per vestiti necessari e nel 16,7% dei casi si sono
pagate in ritardo bollette di luce, acqua e gas. Otto famiglie su cento hanno tirato la
cinghia rinunciando ad alimentari necessari (il 12% in Basilicata), il 21% non ha
avuto soldi per il riscaldamento (27,5% in Sicilia) e il 20% per andare dal medico
(il 25,3% in Campania e il 24,8% in Sicilia). Nel 2008 è arrivato con difficoltà a fi-
ne mese oltre una famiglia su 4 (25,9%) contro il 13,2% del Centro-Nord.
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BANCHE, CREDITO E BANCA SUD
Nel 2009 il numero di banche operative nel Mezzogiorno è passato da 222 a 215; di
queste, tra le 151 aventi sede nell’area, 17 facevano parte di gruppi del Centro-Nord.
Nel 2009 gli sportelli bancari presenti al Sud erano 7.196, 100 in meno rispetto al 2008.
4.133 facevano parte di banche con sede legale al Sud, e di queste 2.737 appartene-
vano a gruppi del Centro-Nord.
Colpendo l’industria, la crisi ha inferto un duro colpo anche all’accesso al credito delle
imprese del settore, già critico al Sud per motivi strutturali (maggiori rischi, minor nu-
mero di aziende, prevalenza di aziende di piccole dimensioni e attive nei settori tradi-
zionali, ecc).
A livello settoriale le imprese manifatturiere hanno subito un tracollo nell’erogazione
dei prestiti, con un calo, nel Nord Ovest, del 10%, a marzo 2010, rispetto a marzo 2009.
Dimezzata invece nello stesso periodo la riduzione al Sud: -5,39%.
Resta il grande problema dell’accesso al credito: nel 2009 i prestiti bancari alle imprese
meridionali sono cresciuti dello 0,4%, in forte rallentamento rispetto al 2008 (+4,6%),
mentre sono diminuiti del 4% al Centro-Nord. A livello dimensionale al Sud le piccole
imprese hanno tenuto, mentre le altre sono cresciute dello 0,5%. A livello settoriale, in-
vece, le contrazioni più forti hanno interessato l’industria manifatturiera (-7,2% al Sud, -
9,9% al Centro-Nord).
In crescita rispetto al 2008 anche le sofferenze, aumentate nelle imprese del Sud di un
punto percentuale (da 2,2% a 3,2%), più o meno come per le aziende del Centro-Nord
(da 1,5% a 2,4%).
La Banca del Sud - L’impianto della legge è sbilanciato verso la raccolta, e la fisca-
lità di vantaggio introdotta è rivolta ai risparmiatori, mentre la banca senza misure
di incentivo ad hoc non avrebbe alcuna convenienza a investire nell’area. Possibili cor-
rettivi potrebbero venire ad esempio dall’introduzione della detassazione degli utili
per progetti di investimento delle pmi meridionali, oppure dall’emissione di bond ga-
rantiti dallo Stato, come per i finanziamenti alle infrastrutture.
Ciò non toglie che i progetti di investimento dovrebbero essere sottoposti a una severa
selezione, così da evitare distorsioni. La Banca potrebbe inoltre stipulare convenzioni
con i Confidi più strutturati, per accelerare il progetto di concentrazione del settore.
CONTINUA IL CALO DELLA SPESA PUBBLICA AL SUD
La quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto capitale è stimata nel 2009 (o
2008??) al 34,8%, una percentuale ben più bassa del 41,1% del 2001 e lontanissi-
ma dall’obiettivo del 45%, che ormai appare come una chimera.
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Le spese correnti dei Comuni tra il 2007 e il 2009 sono cresciute, a livello na-
zionale, del 5,3%. Ma l’incremento maggiore si è avuto al Sud, +9,1%, a fronte del
3,4% al Nord e del 5,3% al Centro. Non solo, ma mentre crescevano le spese, le entra-
te aumentavano dell’1,8% a livello nazionale, aumento che deriva da una riduzione
dell’ 1,9% al Nord, e da incrementi del 2,3% al Centro e dell’1,1% al Sud. Infine, i
trasferimenti erariali, anche in seguito alla progressiva abolizione dell’Ici sulla prima
casa, sono cresciuti nel triennio del 28,5% a livello nazionale, con un andamento
molto diversificato tra le diverse ripartizioni territoriali: +13,9% nel Mezzogiorno,
+39,8% al Nord, +31,2% al Centro. Ciò è anche la conseguenza del fatto che
l’abolizione dell’Ici ha ridotto nel triennio le entrate tributarie del 26,5%, che significa -
26,1% al Nord, -37,3% al Centro, -14,3% al Sud.
DAI RIFIUTI AI TRIBUNALI: I DATI DEL DIVARIO NORD – SUD
Circa due terzi dei rifiuti urbani al Sud nel Sud sono finiti in discarica, contro il 28,5%
del Centro-Nord. La raccolta differenziata arriva nel Centro-Nord al 45,5%, in linea con
l’obiettivo del 45% fissato dalla normativa, mentre il Mezzogiorno è fermo al 14,7%.
Agli uffici delle Asl al Sud 57 persone su 100 rimangono in fila più di 20 minuti contro
le 44 del Centro-Nord; situazione ancora più grave alle Poste, dove addirittura un meri-
dionale su due resta in fila più di 20 minuti, 29 su cento nell’altra ripartizione. Servizio
elettrico ancora intermittente, con frequenza di interruzioni 2 volte superiore al Centro-
Nord. Per non parlare dei tribunali: la sentenza di primo grado arriva nel Mezzogiorno
dopo 1.108 giorni, oltre un anno in più rispetto al Centro-Nord (805 giorni).
LA GREEN ECONOMY VOLANO PER L’ECONOMIA DEL SUD
Energia e imprese: un settore che non conosce crisi – Dal 2000 al 2008 la potenza
degli impianti e l’elettricità prodotta con le rinnovabili al Sud è cresciuta in modo
rilevante. Nel periodo in questione la potenza è cresciuta del 108% nel Mezzogiorno e
l’elettricità prodotta del 151%, staccando di 3 e 4 volte il dato nazionale (rispettivamen-
te 31% e 15%). Quote ancora più grandi a livello regionale: la Sardegna e la Puglia au-
mentano la produzione di 5 volte, la Sicilia addirittura di 10. A scoraggiare però
l’attrazione di altre industrie al Sud, locali o multinazionali, è la bassa qualità delle in-
frastrutture presenti, la rete elettrica arretrata e le interruzioni di servizio elettrico.
Ricerca e sviluppo: Pil, occupati e brevetti – La situazione non è delle migliori: in ba-
se agli ultimi dati disponibili (2007) il Sud spende solo lo 0,87% del Pil in R&S contro
l’1,28% del Centro-Nord, pure distante dal parametro del 3% stabilito dalla “Strategia
di Lisbona” per il 2010. Anche la percentuale di occupati nel settore la dice lunga sulla
scarsa capacità innovativa delle imprese meridionali: solo 1,86 ogni 1.000 abitanti con-
tro il 4,4 del Centro-Nord. Debole anche l’attività brevettuale: solo 11 brevetti regi-
strati per milione di abitanti contro gli 88 dell’altra ripartizione.
Punto dolente, i finanziamenti. I contributi statali non superano i 500mila euro a pro-
getto e gli imprenditori privati disposti a rischiare capitali in settori innovativi sono
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troppo pochi. Fra i pochi, al Mezzogiorno vanno solo le briciole: dal 2000 al 2008 gli
investimenti privati realizzati facendo ricorso al venture capital e al private equity
hanno interessato il Sud solo per il 3% del totale.
LE RICETTE SVIMEZ PER IL SUD
Come uscire dalla crisi – La “frontiera Sud” rende più che mai urgente la realizzazio-
ne di grandi infrastrutture dei trasporti, condizione necessaria e imprescindibile per
il rilancio dell’economia meridionale. La SVIMEZ stima un costo di 49 miliardi di
euro, di cui 11 miliardi già disponibili e quasi 38 da reperire, da dedicare al poten-
ziamento dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria e della Statale “Jonica”; la realizza-
zione di nuove tratte interne alla Sicilia; l’estensione dell’Alta Capacità (se non
dell’Alta Velocità) nel tratto ferroviario Salerno-ReggioCalabria-Palermo-Catania (a
completamento del Corridoio I Berlino- Palermo); il nuovo asse ferroviario Napoli-
Bari; infine, il Ponte sullo Stretto. Forme di finanza di progetto e di partenariato pubbli-
co-privato gli strumenti più adatti al reperimento delle risorse.
La proposta: Conferenza delle Regioni e Agenzia, i nuovi soggetti per il Sud - La
programmazione degli interventi strategici per il rilancio del Sud andrebbe affidata a
una Conferenza delle Regioni meridionali, quale luogo di coordinamento tra le Regioni,
in stretta relazione con la Presidenza del Consiglio. I due soggetti costituirebbero una
sorta di “Consiglio per la coesione nazionale” deputato a impegnarsi in pochi grandi
progetti strategici prioritari. Accanto, un’Agenzia indipendente di natura tecnica, di
supporto operativo alle decisioni del Consiglio, e destinata alla progettazione.
Per informazioni: Ufficio stampa Elisa Costanzo: 06/47850239 – 328/1430500
Svimez 2010/01_Direttore_Testo.pdf
1
Presentazione del “Rapporto SVIMEZ 2010”
di Riccardo Padovani (Direttore SVIMEZ)
I dati e le analisi presentati nel Rapporto SVIMEZ di quest’anno documentano il
processo di deterioramento in atto nel Mezzogiorno, a livello di capitale fisso, sociale e
produttivo. Nel Paese, indebolito nel suo insieme, sembra prevalere un atteggiamento di
contrapposizione tra aree deboli e aree forti, che se da un lato delinea il rischio di un
ulteriore allargamento del divario, dall’altro condiziona anche le possibilità di ripresa
dell’intera economia italiana.
Il Rapporto SVIMEZ 2010 vuole, invece, richiamare l’attenzione sull’urgenza di
un profondo processo di ristrutturazione dell’apparato produttivo meridionale, che deve
essere accompagnato da più efficaci politiche di sviluppo che pongano le condizioni per
cogliere le sfide e le opportunità nel “nuovo” scenario che si aprirà all’uscita dalla crisi.
In questa ottica, un approccio “storico”, tanto più quest’anno che precede la
celebrazione dei 150 anni dell’Unità nazionale, può aiutare a recuperare l’abitudine,
persa da troppo tempo, a sviluppare un’analisi di sistema nella quale il Mezzogiorno sia
parte di un disegno complessivo di interesse nazionale. Dobbiamo tornare a ragionare
sul se e su come da Sud possa proporsi, in analogia a quanto avvenne negli anni della
Ricostruzione post-bellica, una fondamentale azione di rigenerazione dell’economia e
della società italiana.
Questo si traduce per noi nel concetto di Mezzogiorno come “frontiera” del
Paese, verso il Mediterraneo e verso le opportunità offerte dai nuovi settori di sviluppo
legati all’innovazione, alle competenze, all’economia verde; un nuovo “progetto Paese”,
in grado di valorizzare le tante energie inutilizzate, soprattutto nelle sue aree deboli.
1. Il Mezzogiorno nella crisi: effetti economici ed effetti sociali
La grave recessione che ha colpito l’economia mondiale si è abbattuta
pesantemente sull’economia del Mezzogiorno, provata da un decennio di forte
2
rallentamento e da un allargamento del divario di sviluppo col resto del Paese (Fig.1).
Dall’inizio degli anni duemila fino all’arrivo della crisi, il Mezzogiorno ha registrato
ritmi di crescita dimezzati rispetto al Centro-Nord. Con la recessione del 2008 e del
2009 il PIL meridionale è ritornato, in valore assoluto, ai livelli di dieci anni prima.
In base a valutazioni di preconsuntivo elaborate dalla SVIMEZ (Fig.2), nel 2009
il prodotto interno lordo (a prezzi concatenati) si è ridotto nel Mezzogiorno del 4,5%,
con una caduta molto più ampia di quella registrata nell’anno precedente (-1,5%),
inferiore – ma solo per effetto di una diversa composizione dei settori dell’economia –
di poco più di mezzo punto a quella nel resto del Paese (-5,2%). La crisi del biennio
2008-2009 è l’unica, tra quelle vissute negli ultimi decenni, in cui il PIL si sia contratto
per due anni consecutivi: il prodotto a prezzi concatenati tra il 2007 e il 2009 si è ridotto
complessivamente del 5,7% nel Mezzogiorno e del 4,9% nel resto del Paese.
Ciò sfata l’ipotesi di un Mezzogiorno che subisce meno gli effetti del ciclo,
specie quello internazionale, in quanto meno aperto agli scambi con l’estero, e in cui i
settori anticiclici, come quelli dei servizi, hanno un ruolo congiunturale determinante.
Al contrario, la maggiore debolezza dell’economia meridionale la rende particolarmente
vulnerabile non solo agli shock diretti provenienti dalla domanda estera, ma anche ai
suoi effetti indiretti, tramite la domanda proveniente dal Centro-Nord.
La recessione attuale, aggiunta alla bassa crescita, comporta che il prodotto del
Mezzogiorno risulti nel 2009 ancora inferiore dello 0,3% al livello raggiunto dall’inizio
del decennio. Nel resto del Paese, la migliore dinamica di sviluppo realizzata nello
stesso periodo ha portato ad una crescita cumulata nel decennio del 2%, un valore
esiguo ma comunque positivo.
In tutti i comparti in cui sono disaggregati i conti regionali (Fig.3), la flessione
produttiva del Sud è stata maggiore di quella del Centro-Nord. Soltanto la diversa
composizione settoriale – con un peso strutturalmente maggiore dei servizi, meno
colpiti dalla crisi – ha determinato al Sud un risultato meno negativo nell’anno.
Tra le componenti della domanda (Fig.4), la caduta nell’acquisto di beni capitali
è la prima causa anche nel 2009 della recessione del PIL: gli investimenti fissi lordi del
Mezzogiorno sono diminuiti del 9,6%, dopo la flessione del 3,7% già registrata l’anno
precedente. Nel Centro-Nord la flessione è stata più ampia (-13,0%), come nel 2008.
3
Assai più grave (Fig.5) è stata, invece, al Sud la contrazione dei consumi. In
particolare, la spesa finale delle famiglie nel 2009 si è ridotta nel Mezzogiorno del
2,6%, un punto in più che nel resto del Paese.
La contrazione dell’occupazione (Fig.6) è stata nel 2009 nelle regioni
meridionali di intensità tripla (-3%) rispetto al -1,1% del Centro-Nord. In termini
assoluti ciò vuol dire 194 mila occupati in meno nel Mezzogiorno, che si aggiungono ai
34 mila posti persi nel precedente anno. Una riduzione dello stock di occupazione
impiegata (Fig.7) che ha determinato tra il 2007 e il 2009 un calo di circa due punti del
tasso di occupazione: dal 46,5% al 44,7%, valore distante di quasi venti punti dal resto
del Paese (64,5%). Solo un ulteriore e deciso incremento dello “scoraggiamento” a
cercare lavoro ha limitato gli effetti di tali andamenti sul tasso di disoccupazione.
2. La crisi e il rischio della scomparsa del Sud industriale
La perdita di occupazione registrata per effetto della crisi economica risulta di
estrema gravità nel comparto industriale italiano (Fig.8). In particolare, la riduzione
della manodopera industriale nel Mezzogiorno sta assumendo dimensioni mai
sperimentate: nel corso del 2009 si sono persi 61 mila posti di lavoro dell’industria in
senso stretto (-7% a fronte del -3,7% nel Centro-Nord). Nel complesso del biennio di
crisi 2008-2009, la perdita occupazionale supera le 100 mila unità (-12%), andando così
a ridurre ulteriormente il tasso di industrializzazione di un’area che presentava già
livelli assai inferiori al resto del Paese. Va ricordato, a riguardo, che ancora nel 2007 vi
erano al Sud, secondo i dati dell’Archivio ASIA, appena 35 addetti manifatturieri ogni
1.000 abitanti a fronte dei 105 del Centro-Nord.
I dati sul valore aggiunto industriale confermano la lettura di una crisi che viene
da lontano e che mostra elementi di debolezza strutturali che rischiano di andare oltre il
ciclo congiunturale.
Nel biennio 2008-2009 (Fig.9), l’output industriale è complessivamente
diminuito di poco meno di venti punti percentuali nel Sud e di quasi diciotto nel Centro-
Nord. Relativamente a ciò, vi sono due considerazioni che preme evidenziare. La prima
è che dal 2004, anno a partire dal quale la dinamica nazionale era tendenzialmente
tornata ad essere positiva, e fino al 2007, la variazione cumulata del prodotto
4
dell’industria è risultata pari al 5,9% nel Mezzogiorno ed al 4,6% nel resto del Paese.
Ciò implica che, in assenza di una consistente accelerazione del ritmo di crescita del
prodotto industriale nella fase post-crisi, il recupero dei livelli di produzione del 2007
richiederà un arco temporale prossimo, in entrambi i casi, al decennio.
In secondo luogo, diversamente da quanto di solito avveniva in fasi recessive
indotte dall’estero, la crisi avviatasi dalla seconda metà del 2008 pare aver colpito con
intensità maggiore l’industria del Sud. Generalmente, infatti, dato il maggior grado di
apertura dell’industria del Nord, quest’ultima era coinvolta in misura più ampia da una
contrazione del commercio mondiale. Il venir meno, nella fase ciclica recente, di questo
elemento può indicare la presenza, nel Sud, di uno shock (fortemente) asimmetrico.
La caduta di output industriale (Fig.10) registrata nelle regioni meridionali nel
2009 è, con l’eccezione di Germania e Finlandia, quella di entità più ampia, sia rispetto
ai paesi di più antica industrializzazione (Francia, Regno Unito) che, soprattutto, nei
confronti dei nuovi competitors presenti nella stessa Europa a 27, quali ad esempio la
Polonia.
La particolare intensità con cui la recessione industriale ha colpito il
Mezzogiorno nel 2009 fa seguito, infatti, ad un già forte ampliamento del gap di
crescita con il resto del Paese – e, soprattutto, con gli altri paesi europei – nella fase
antecedente la crisi, caratterizzata dall’acuirsi delle differenze in termini di produttività
a causa della sostanziale inadeguatezza che i processi di riorganizzazione della struttura
produttiva – comparativamente lenti nell’intero Paese – hanno mostrato al Sud. Nel
complesso del periodo 2004-2008, la variazione cumulata del prodotto industriale è
risultata nel Mezzogiorno negativa (-2,4%), a fronte di un aumento del 2,8% nel Centro-
Nord e in presenza di incrementi medi complessivi del 9,7% per l’Area dell’Euro e del
9,8% per l’Ue a 27 paesi.
Nel complesso, dalle analisi sui fattori determinanti la competitività e sulla
dinamica dell’export (Fig.11) sviluppate nel Rapporto, emerge un quadro in cui l’Italia
perde terreno rispetto agli altri paesi dell’Area dell’Euro e – al suo interno – le regioni
più in ritardo subiscono un ulteriore peggioramento della loro posizione relativa. Un
processo di polarizzazione degli squilibri che contrasta nettamente con la convergenza
riscontrabile in Spagna e soprattutto in Germania, finanche nel pieno della crisi.
5
Le cronache di questi mesi e settimane sugli stabilimenti FIAT di Termini
Imerese e Pomigliano d’Arco, alquanto complesse e diverse tra loro, sono
emblematiche. E mostrano che, al di là di singole scelte aziendali, a pesare sono i
decenni di mancate strategie di politica industriale.
3. L’urgenza di una strategia di politica industriale per il Sud
La mancanza di indirizzi chiari di politica industriale impedisce di affrontare i
problemi posti dalla globalizzazione e dall’irruzione delle economie emergenti sui
mercati dei prodotti manifatturieri, e penalizza in maggiore misura le regioni in ritardo.
Proprio per queste aree, ci sarebbe stato bisogno di definire e perseguire specifiche
politiche ancorate ad un disegno strategico di politica industriale, che ormai manca dalla
metà degli anni ’70. Dopo di allora si è assistito in Italia a un progressivo indebolimento
della politica industriale tout court, verso la quale è cresciuta, ormai da molti anni,
un’avversione spesso di marca ideologica.
Le politiche di riequilibrio territoriale, in particolare, sono state travolte dalla
convinzione di un basso rendimento economico e sociale delle risorse pubbliche
impiegate nel Sud.
Dopo la scomparsa di importanti strumenti, tra i quali, in primo luogo, la legge
488/1992, ma anche altri ad essa collegati, finalizzati in particolare al sostegno delle
R&S e all’innovazione, nel 2009, sono infatti rimasti non operativi (Fig.12) tutti gli
interventi di incentivazione, anche quelli per i quali era prevista nell’anno l’attivazione,
come le Zone franche urbane, i nuovi contratti di programma e i contratti di sviluppo,
ancora in attesa di una regolamentazione. In assenza di rifinanziamenti, le risorse
disponibili per i crediti di imposta per l’occupazione si sono esaurite già nell’ottobre
2008, mentre le agevolazioni concesse per i crediti di imposta a favore degli
investimenti hanno assorbito l’intero stanziamento complessivo del 2007-2013.
La riduzione del volume complessivo degli aiuti di Stato (Fig.13) per l’industria
e i servizi, rispetto al PIL, ha riguardato invero nel triennio 2006-2008 tutte le maggiori
economie europee. A ben vedere, però, una dinamica sostanzialmente omogenea sta
portando a risultati sensibilmente differenziati. Il dato dell’Italia, in particolare, è
divenuto notevolmente inferiore alla media (0,35% del PIL, contro lo 0,54% dell’Ue a
6
27), ed è comunque al di sotto degli altri principali paesi europei (escluso solamente il
Regno Unito): 0,63% del PIL in Germania e 0,5% in Francia e Spagna.
Dal punto di vista normativo, la “legge sviluppo” (L. 99/2009) ha delegato il
Governo a riformare tutto il sistema degli incentivi, compresi quelli destinati alle aree
sottoutilizzate, ma i tempi previsti per la presentazione del progetto di riforma sono
lunghi. Nel frattempo è opportuno ribadire con forza le ragioni di una politica
industriale specifica per il Mezzogiorno.
Solo col ripristino di un consistente apporto differenziale di politica industriale
regionale – coniugato con un più adeguato accesso del Sud agli interventi della politica
industriale nazionale – è possibile, infatti, porre le condizioni per un disegno strategico
di sviluppo strutturale.
Gli “obiettivi guida” di questa possibile strategia di politica industriale possono
sommariamente individuarsi: nella riqualificazione del modello di specializzazione
produttiva, attraverso il sostegno alla ricerca e all’innovazione tecnologica e
organizzativa e allo sviluppo delle attività a più alta produttività relativa;
nell’innalzamento delle dimensioni medie dell’impresa, attraverso il sostegno alla
formazione di “reti” di imprese e ad un maggiore accesso al credito; nell’innalzamento
del grado di apertura del sistema verso l’estero; nella promozione e nell’arricchimento
di “filiere produttive”; nel pieno inserimento delle agglomerazioni di imprese in settori
strategici per l’industria nazionale (anche attraverso i “Progetti di innovazione
Industriale” di “Industria 2015”); nel rilancio delle politiche di attrazione.
Quanto agli strumenti di questa strategia di politica industriale per il Sud, un
ruolo centrale dovrà continuare ad essere affidato anche agli interventi di
incentivazione. Interventi per i quali – al di là della forma tecnica di erogazione –
sarebbe però il momento di aprirsi ad un approccio più “selettivo” rispetto a quello
seguito con la legge 488 e ancor più con i crediti di imposta; un approccio, cioè, mirato
al perseguimento di obiettivi specifici, che consenta di evitare la dispersione delle
risorse tra un novero troppo ampio di finalità e su una platea troppo vasta di imprese.
In questa prospettiva, deve rilevarsi che i crediti di imposta – che una posizione
oggi largamente prevalente tende a considerare non solo come la tipologia di incentivo
più efficace ma pressoché come l’unica praticabile, in ragione della quasi totale
automaticità dei criteri di concessione e di erogazione, che può consentire di evitare gli
7
elementi di possibile distorsione derivanti dall’interferenza, a volte anche “impropria”,
della macchina amministrativa – sono, invece, a nostro avviso, da considerare una
componente importante di un “sistema” di incentivazione, ma non esclusiva, né
sostitutiva di una componente di tipo valutativo in grado di indirizzare risorse verso
obiettivi di miglioramento strutturale.
Un importante elemento della nuova strategia di politica industriale potrebbe
essere costituito da una “vera” fiscalità di vantaggio, intesa come fiscalità differenziata
a favore delle regioni meridionali nel loro complesso, e non di semplice accentuazione a
favore del Sud di misure per il sistema produttivo nazionale. Essa dovrebbe costituire,
infatti, una forma strutturale di diversificazione delle convenienze, tale da mettere
effettivamente in moto una capacità di attrarre risorse esterne, nazionali ed
internazionali, quale quella di cui si sono avvantaggiati altri paesi dell’Area dell’Euro,
contribuendo a dare concretezza alla già evocata possibilità per il Mezzogiorno di
proporsi quale “frontiera” in una rinnovata strategia di sviluppo del Paese.
L’ultima manovra governativa (decreto legge 78/2010) prevede una forma di
fiscalità di vantaggio per le Regioni del Mezzogiorno, che con propria legge possono, in
relazione all'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) modificare le aliquote,
fino ad azzerarle, e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei riguardi delle nuove
iniziative produttive. In realtà, é difficile pensare che le Regioni del Mezzogiorno, tanto
più dopo i tagli previsti dalla manovra stessa (e, per alcune di esse, con l’obbligo di far
ricorso alla leva fiscale per coprire i disavanzi sanitari) abbiano risorse per avviare una
concorrenza fiscale nei confronti delle altre aree per attirare nuove iniziative.
4. L’intreccio tra politiche ordinarie e politiche aggiuntive
L’assenza di risultati soddisfacenti in termini di crescita e di convergenza del
Mezzogiorno ha cause complesse che rimandano in larga parte al generale prolungato
ristagno dell’intera economia italiana rispetto al resto d’Europa. Tuttavia, a frenare il
processo di sviluppo concorrono problemi di dimensione nazionale, che assumono per il
Sud gravità del tutto particolare, tra cui: l’impiego improprio di spesa pubblica
ordinaria, il deficit di qualità ed efficienza delle Pubbliche Amministrazioni (regionali e
8
locali, ma anche nazionali), la presenza della criminalità organizzata, il difficile
avanzamento della liberalizzazione dei mercati.
Sempre più condizionanti, per innescare un processo di convergenza, sono i
gravi effetti di un “disegno debole” di politiche generali nazionali che, in campi assai
rilevanti per lo sviluppo, hanno costantemente mancato di adattare intensità e strumenti
di intervento in funzione dei divari intercorrenti tra la macroarea debole e quella forte
del Paese.
Nel complesso intrico tra ciò che deve essere “ordinario” e ciò che deve essere
“aggiuntivo”, preoccupa tuttavia l’emergere di una posizione che tende a dare priorità
all’offerta dei servizi pubblici quale contenuto della “politica regionale” (aggiuntiva).
Ora, settori come l’istruzione, la giustizia, la sicurezza sono decisivi per la creazione di
“condizioni ambientali” favorevoli allo sviluppo, ma l’azione pubblica in questi settori
non è certo mossa da finalità di promozione dello sviluppo dei territori più arretrati,
bensì destinata a tutto il territorio nazionale. Non esitiamo a dire che questi comparti
dell’azione pubblica costituiscono un presupposto delle politiche regionali, ma non
possono sostituire gli elementi – legati all’obiettivo precipuo della crescita economica –
che caratterizzano queste ultime.
È un tema, quello della decisiva rilevanza delle politiche nazionali per lo
sviluppo del Mezzogiorno e per i risultati della politica regionale stessa, che la Banca
d’Italia ha di recente proposto con forza al centro della propria riflessione. È quanto ha
affermato il Governatore Mario Draghi, con una formula che non si presta a equivoci,
nella sua Relazione di apertura del Convegno del novembre scorso dedicato al
Mezzogiorno: «ogni qualvolta si disegni un intervento pubblico nell’economia o nella
società, occorre avere ben presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori
e predisporre ex ante adeguati correttivi».
In definitiva, la politica regionale di sviluppo deve aggiungersi alle politiche
generali nazionali, volte a fornire i beni collettivi essenziali e ad assicurare il normale
funzionamento dei servizi pubblici. Ed è proprio in quest’ultimo ambito, legato
all’azione “ordinaria” della Pubblica Amministrazione, che è venuto a consolidarsi, ed
anzi in molti casi a radicalizzarsi, il divario del Sud rispetto al resto del Paese.
Dalle analisi del Rapporto – al di là delle ben note ragioni di inefficienza e delle
responsabilità politiche delle Amministrazioni meridionali – emerge la persistente
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mancanza di un modello consolidato di gestione dei servizi pubblici degli Enti
territoriali. Una questione che si pone con forza nella prospettiva di un sempre più
compiuto processo di federalizzazione, i cui effetti benefici potranno aversi solo a
condizione che esso sia correttamente inteso.
L’assunto fondamentale da noi proposto è che il federalismo non debba
significare separatezza tra territori, ma complementarità nelle responsabilità dei diversi
livelli di governo nel quadro di una visione nazionale; non debba significare il
disimpegno dello Stato nella regolamentazione e nel finanziamento dei servizi; né
interpretare il concetto di sussidiarietà in termini “statici”, cioè soltanto come
attribuzione dei poteri al livello più decentrato di governo, bensì in termini “dinamici”,
ossia attraverso la costituzione di meccanismi di responsabilità tali da produrre
l’intervento del livello di governo “superiore” – e in definitiva dello Stato, come
«assicuratore di ultima istanza» – allorché un maggiore decentramento comprometta le
ragioni dell’efficacia, o dell’efficienza.
Nella fase di attuazione, in ogni caso, occorrerà rilanciare le condizioni
economiche (il modello di finanziamento delle funzioni) e i forti elementi di
precauzione (sulle disparità strutturali di partenza tra territori), su cui si insiste nel
Rapporto.
5. Limiti e fallimenti della politica di coesione
Oltre alle cause appena richiamate, al peggior andamento del Mezzogiorno ha
concorso, a nostro avviso in misura decisiva, anche una ridotta efficacia della politica
regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, mirata all’obiettivo precipuo della
crescita economica. La spiegazione va ricercata, in primo luogo, in una dimensione
della spesa pubblica in conto capitale complessiva destinata al Mezzogiorno assai
inferiore a quanto programmato (Fig.14). Più precisamente, il dato definitivo per il 2008
dell’indicatore anticipatore della spesa in conto capitale, elaborato dal Dipartimento per
lo Sviluppo e la Coesione Economica, conferma la localizzazione nel Mezzogiorno di
una quota pari al 34,8% del totale nazionale, in progressivo declino dopo il valore
massimo registrato nel 2001 quando essa fu pari al 41,1% della spesa in conto capitale
del Paese. Si tratta di un valore non solo ben lontano dal 45% del totale nazionale
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originariamente fissato (ormai cancellato) in fase di programmazione, ma che, come
accade ormai da qualche anno, non eguaglia neppure il “peso naturale” del
Mezzogiorno in termini di popolazione e di territorio (38%). I dati relativi alla spesa
servono a smentire l’idea, purtroppo assai diffusa anche nell’opinione pubblica, di un
Sud inondato da un fiume di pubbliche risorse; ma sta anche ad indicare come la spesa
in conto capitale aggiuntiva (comunitaria e nazionale) in tale area sia valsa negli ultimi
anni solo a compensare il deficit della spesa ordinaria. Quest’ultima, infatti, è stata pari
nel 2007 ad appena il 21,4% del totale nazionale.
A deprimere l’efficacia della complessiva politica regionale, nazionale e
comunitaria, ha però concorso anche la scarsa qualità degli interventi. Le carenze di
fondo, come la SVIMEZ ha più volte segnalato, sono state: la dispersione delle risorse
aggiuntive da finalizzare all’accelerazione dello sviluppo sul territorio in una eccessiva
molteplicità di interventi, rispondenti troppo spesso a domande localistiche; le lentezze
e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione degli interventi
stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui.
L’analisi condotta nel Rapporto (Fig.15) sugli “indicatori di contesto chiave”,
identificati dal QCS 2000-2006, evidenzia che gli interventi realizzati non hanno
modificato sensibilmente le condizioni competitive del territorio (con una quota
maggioritaria di indicatori rimasti al di sotto dei valori target individuati a inizio
Programmazione). Anche le “variabili di rottura” (Fig.16) del modello tradizionale di
dipendenza del Mezzogiorno presentano, tra il 2000 e il 2008, un profilo
sostanzialmente piatto.
La riflessione sulle criticità identificate con riferimento al ciclo di
programmazione 2000-2006 rappresenta, purtroppo, ancora oggi un tema di attualità;
l’impostazione del nuovo “Quadro Strategico Nazionale” 2007 -2013 si è mossa, infatti,
all’interno di una sostanziale continuità con il precedente periodo di programmazione.
Riguardo all’avanzamento degli interventi, si confermano le difficoltà attuative
(Fig.17). A tre anni e mezzo dall’approvazione dei Programmi, il livello di attuazione
complessivo al febbraio 2010 per l’Obiettivo Convergenza si attesta, in relazione agli
impegni e ai pagamenti, rispettivamente, ad appena il 14,6% e il 6,2% del contributo
assegnato. Basso è anche l’avanzamento dei Programmi Regionali, che si ferma, in
relazione al contributo, al 13,2%, per gli impegni, e al 5,7%, per i pagamenti.
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Performances leggermente migliori riguardano i Programmi Nazionali, che in relazione
al contributo assegnato, fanno registrare il 20% per gli impegni, e il 7,7% per i
pagamenti. Ma i maggiori ritardi si sperimentano per i due Programmi Operativi
Interregionali.
Alla luce delle valutazioni critiche riguardanti il passato ciclo di
programmazione, attualmente la principale preoccupazione riguarda non tanto e non
solo il raggiungimento dei target di spesa che si richiede per evitare di restituire parte
delle risorse comunitarie, ma la necessità di un’immediata ridefinizione e
concentrazione delle priorità di intervento, nonché la riqualificazione delle procedure e
dei meccanismi di progettazione e di attuazione degli interventi.
6. Il FAS e il depotenziamento della “politica regionale unitaria”
Il Quadro Strategico Nazionale (QSN) 2007-2013, delineato con la Finanziaria
2007, voleva rappresentare una sede privilegiata della programmazione unitaria, in
grado di ridurre l’eccessiva articolazione tra diversi strumenti finanziari (a livello
comunitario, nazionale e regionale).
Il Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS) inserito nel “quadro unitario” doveva
avere un ruolo “chiave” di strumento generale della politica regionale nazionale. Nel
corso del 2008, del 2009, e della prima parte del 2010 (Fig.18), invece, il legislatore,
anticipando l’opera di ripartizione del CIPE, è intervenuto con rilevanti utilizzi della
dotazione FAS per impieghi sovente senza rapporti con le finalità proprie del Fondo,
che erano e che avrebbero dovuto restare finalità – meridionaliste – di “sviluppo”
territoriale, verso la “coesione” nazionale.
I tagli e le preallocazioni operate sono stati pari a circa 19 miliardi di euro. A ciò
si sono però aggiunti numerosi interventi che hanno finito per dirottare risorse del FAS
verso indirizzi dispersivi rispetto alla sua missione originaria.
La quota delle risorse nazionali del FAS complessivamente dirottata verso altri
indirizzi, secondo stime del CNEL, raggiunge circa i 26 miliardi di euro. Questo ha
implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi previsti dalla
legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul “Quadro Strategico
Nazionale 2007-2013”, indebolendone significativamente la componente nazionale. Il
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QSN prevedeva, infatti, come richiamato, una programmazione coordinata e contestuale
dei fondi nazionali ed europei destinati alle politiche regionali, e costituiva pertanto la
sede unitaria per il finanziamento delle priorità individuate a seguito di un lungo
negoziato tra Amministrazioni regionali, centrali e comunitarie.
Anche nella manovra 2011, con il decreto legge 78/2010, tuttora all’esame del
Parlamento, ancora una volta si interviene con una severa decurtazione delle risorse del
FAS essenzialmente in funzione di “stabilizzazione finanziaria” dei conti pubblici (il
taglio della Missione “Sviluppo e riequilibrio territoriale” del Ministero dello Sviluppo
Economico per circa 2,4 miliardi di euro).
7. Necessità di visione strategica, mutamenti istituzionali e riforma delle
politiche post 2013
La mancanza di strategicità non deriva, dunque, solo da fattori “interni” alla
programmazione degli interventi (come la frammentarietà), ma emerge dalla crisi stessa
dell’impianto complessivo del QSN. Il recupero di strategicità della politica regionale
passa per una “revisione” – tecnicamente possibile – del quadro di programmazione che
concentri gli interventi su poche priorità strategiche tenendo conto del mutato scenario
economico e delle accresciute esigenze “cooperative” tra i diversi livelli di governo.
Questa rinnovata visione strategica delle politiche di sviluppo per le aree deboli,
tuttavia, sarà difficile da perseguire senza un mutamento “istituzionale”, in cui
l’interesse complessivo della macroarea possa trovare alta espressione e modalità di
relazione e confronto più proficue ed efficaci con l’azione del Governo nazionale.
Per la SVIMEZ, il luogo di una rinnovata programmazione degli interventi
strategici per il Mezzogiorno non può che essere una “Conferenza delle Regioni
meridionali”, in costante rapporto con la Presidenza del Consiglio che (come previsto
dal d.l. 78/2010) riacquista una centralità nelle politiche regionali di sviluppo.
In sede congiunta – una sorta di “Consiglio per la coesione nazionale” –
Conferenza delle Regioni meridionali e Presidenza del Consiglio dovranno assumere
impegni vincolanti nella scelta di pochi grandi progetti strategici prioritari, su cui
“appostare” risorse nazionali e regionali, frutto del “riordino” degli interventi e del
“reintegro” dei fondi nazionali, certe e vincolate sino al completamento del progetto. La
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Conferenza, poi, sarà il luogo di un coordinamento istituzionale tra Regioni, per ovviare
alle criticità emerse, al fine di rendere coerenti gli interventi regionali con il disegno
strategico di politica di sviluppo per l’intera macroarea.
A questo luogo di coordinamento strategico è necessario affiancare una struttura
tecnica, un’Agenzia indipendente che, nell’ambito del QSN e della normativa del quinto
comma dell’art. 119 Cost., si occupi della progettazione (su cui in tutti questi anni si
sono registrate le maggiori deficienze) e sia di supporto all’attuazione dei grandi
interventi prioritari per il Mezzogiorno definiti dalla Conferenza e dal Governo, frutto di
una più ampia legittimazione istituzionale e di un impegno politico assai più vincolante
della semplice “contrattazione bilaterale” tra Stato e singole Regioni.
L’Agenzia, in virtù dell’elevato grado di competenze tecniche e di indipendenza,
dovrebbe consentire, oltre alla valutazione e selezione dei progetti attuativi, il loro
monitoraggio in itinere ed ex post, facendo venire meno quella sostanziale
autovalutazione che ha condizionato fortemente le politiche.
Sulle prospettive della politica di coesione per gli anni successivi al 2013, la
SVIMEZ ribadisce l’esigenza di mantenere e rafforzare nei prossimi anni una politica di
sviluppo europea per i territori e la forte critica ad un approccio euroburocratico che si
concentra più sulla correttezza delle procedure che sulla valutazione degli obiettivi
perseguiti.
In quest’ottica, appare condivisibile l’impianto del Rapporto indipendente,
promosso dal Commissario per le politiche regionali e curato da Fabrizio Barca, Agenda
for a reformed cohesion policy, che punta alla concentrazione ex ante delle risorse su
alcune precise priorità strategiche.
Infine, sarà decisivo rafforzare il ruolo delle decisioni del Bilancio europeo
nell’indirizzare, monitorare e verificare gli obiettivi di sviluppo e coesione, e gli
strumenti (e le risorse) messi in opera dalle Autorità nazionali e territoriali, a partire dal
prima richiamato principio dell’addizionalità delle risorse. È da ritenere che la
responsabilità europea non possa esaurirsi sul piano della quantità di risorse. I fondi del
Bilancio Ue non possono essere visti come trasferimenti “globali” agli Stati, da
destinare a compensare situazioni di difficoltà dei cittadini o delle imprese di una certa
area geografica; e tantomeno come elemento di sostegno temporaneo della domanda. È
invece obiettivo dichiarato nelle norme costitutive dell’Unione quello dello sviluppo, e
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nella sua realizzazione l’Unione deve impegnarsi non solo destinando risorse, ma anche
“validando” le finalità, l’efficacia e le priorità delle azioni proposte dallo Stato membro
interessato.
Insomma, concludendo, per la SVIMEZ il nuovo modello di governance della
coesione implica il rafforzamento della capacità di indirizzo e di controllo da parte
dell’Europa. Ciò vuol dire prevedere ex ante la scelta delle (poche) priorità da
finanziare, la definizione di obiettivi quantitativi da raggiungere per mantenere le
risorse, un sistema di valutazione indipendente, l’aumento della forza e cogenza
dell’azione esterna, attraverso un rafforzamento del ruolo della Commissione e del suo
sistema di condizionalità.
Sono strumenti e proposte che dovrebbero orientare anche il versante nazionale
delle politiche di sviluppo. Le proposte avanzate, infatti, mirano non solo ad aumentare
la coerenza degli interventi messi in atto da una pluralità di livelli di governo, ma –
attraverso un meccanismo più trasparente di responsabilizzazione e semplificazione
della filiera decisionale – anche la stessa “sostenibilità” di un impegno aggiuntivo per il
superamento dei divari.
Svimez 2010/02_Direttore_Slide.pdf
Rapporto
2010
sull’economia
del Mezzogiorno
Roma, 20 luglio 2010
Riccardo PADOVANI
direttore della SVIMEZ
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Roma, 20 luglio 2010
Andamento del PIL dal 2001 al 2009 (Variazioni %)
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Fig. 1
-6
-5
-4
-3
-2
-1
0
1
2
3
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009
Mezzogiorno Centro-Nord
Prodotto Interno Lordo (Variazioni % medie annue)
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
2001-2009
20092008
1,4
2,0
-0,3
Cumulata
0,2
0,2
0,0
Media
annua
Mezzogiorno -1,5 -4,5
Centro-Nord -1,3 -5,2
Italia -1,3 -5,0
Fig. 2
Valore aggiunto nei settori dell’economia nel 2009 (Variazioni %)
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Fig. 3
-20
-15
-10
-5
0
Agricoltura, silvicoltura
e pesca Industria s.s.
Costruzioni e lavori del
Genio civile Servizi Totale
Mezzogiorno Centro-Nord
PIL, Consumi e Investimenti (tassi annui di variazione %)
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
-4,9-0,6-13,0-4,1Investimenti fissi lordi
17,31,80,60,8Consumi finali delle AAPP e delle ISP
3,70,4-1,7-0,8Consumi finali delle famiglie
2,00,2-5,2-1,3PIL
Centro-Nord
-2,3-0,3-9,6-3,7Investimenti fissi lordi
14,71,50,50,7Consumi finali delle AAPP e delle ISP
-1,3-0,1-2,6-1,5Consumi finali delle famiglie
-0,30,0-4,5-1,5PIL
Mezzogiorno
CumulataMedia annua
2001-2009
2008 2009
Fig. 4
Consumi delle famiglie per categoria di spesa (Variazioni % medie annue)
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
4,00,4-1,9-2,2Altri beni e servizi
7,60,8-1,6-1,0Altri beni e servizi
4,20,5-0,40,6Abitazioni e spese connesse
-8,8-1,0-3,5-1,1Vestiario e calzature
-2,3-0,3-3,1-2,3Alimentari, bevande e tabacco
3,70,4-1,7-0,8Spese per consumi finali delle famiglie
Centro-Nord
-1,9-0,2-2,30,8Abitazioni e spese connesse
-10,7-1,2-4,4-0,8Vestiario e calzature
-6,4-0,7-4,0-3,5Alimentari, bevande e tabacco
-1,3-0,1-2,6-1,5Spese per consumi finali delle famiglie
Mezzogiorno
CumulataMedia annua
2001-2009
2008 2009
Fig. 5
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Andamento dell’occupazione (variazioni annuali assolute in migliaia di unità e %)
Fig. 6
-4
-3
-2
-1
0
1
2
2007 2008 2009
Mezzogiorno Centro-Nord
- 1
217
- 34
- 186
- 194
234
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Tasso di occupazione (%) e tasso di attività (%) nel 2009 e nel 2009
Fig. 7
30
40
50
60
70
80
2008 2009 2008 2009
Tasso di occupazione Tasso di attività
Mezzogiorno Centro-Nord
-8
-6
-4
-2
0
2008 2009
V
a
l
o
r
i
%
Mezzogiorno Centro-Nord
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Occupazione industria in senso stretto nel 2008 e nel 2009.
Valori assoluti in migliaia di unità e %
Fig. 8
- 45,0
- 61,1
- 153,1
- 18,0
TASSO DI INDUSTRIALIZZAZIONE
Mezzogiorno 35
Centro-Nord 105
VALORE AGGIUNTO DELL’INDUSTRIA IN SENSO STRETTO
VARIAZIONE % CUMULATA
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
-19,75,9Mezzogiorno
2004-2007 2008-2009
Centro-Nord 4,6 -17,9
Fig. 9
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
-10,2-3,1-0,6Regno Unito
-20,030,85,5Finlandia
-15,525,94,7Slovenia
-7,02,90,6Portogallo
-1,147,58,1Polonia
-10,32,40,5Francia
-13,73,20,6Spagna
-9,828,15,1Grecia
-17,214,12,7Germania
-13,39,71,9Euro Zone
2004-2008
-15,02,80,6Centro-Nord
Media annua Cumulata
2009
Mezzogiorno -0,5 -2,4 -15,6
Italia 0,4 2,1 -15,1
Ue 27 1,9 9,8 -12,4
Fig. 10
Valore
aggiunto
industria ss.
Variazione %,
media annua e
cumulata
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Crescita delle esportazioni di merci in alcune regioni dell’Obiettivo Convergenza
(variazioni % su valori in euro correnti)
-30
-25
-20
-15
-10
-5
0
5
10
15
2003-07 tasso medio annuo 2008 2009
Regioni tedesche Regioni spagnole Regioni italiane Germania Spagna Italia
Fig. 11
Misure di agevolazione dell'intervento per le aree sottoutilizzate.
Situazione al 30 giugno 2010
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Bandi avviati nel 2009 per attivare
interventi di agevolazione per la
ricerca e l'innovazione
PON "Ricerca e Competitività" 2007-2013 per
le regioni della Convergenza
Approvazioni ferme dal 2007, in attesa
di decreti di attuazione
Unificazione dei contratti di programma e dei
contratti di localizzazione nei contratti di
sviluppo e loro estensione a tutto il territorio
nazionale
In attesa di attuazione; trasformate in
zone a burocrazia zeroZone franche urbane (estese al Centro-Nord)
Non operativi per esaurimento risorse
dell'intero periodoCrediti di imposta per investimenti (2007-2013)
MISURE SITUAZIONE
Crediti di imposta per l'occupazione (2008) Non operativi perché vigenti per dipendenti assunti nel 2008
Fig. 12
AIUTI DI STATO NELL’UNIONE EUROPEA, NEL 2008*
(in % del PIL)
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
0,290,35Italia
0,390,53Francia
0,400,48Spagna
0,570,63Germania
0,400,50Ue a 15
Stati membri Totale aiuti di Stato Totale aiuti per industria e
servizi
Ue a 27 0,54 0,42
Fig. 13*al netto degli aiuti alle ferrovie e degli interventi per il settore finanziario
QUOTE DEL MEZZOGIORNO SULLA SPESA PUBBLICA IN
CONTO CAPITALE DELLA P.A. (%)
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
34,8
35,2
34,6
2008B
35,4
37,7
34,0
2007A
36,8
43,2
32,9
2006
36,9
45,0
32,3
2005
36,6
47,5
30,7
2004Settori di spesa 2001 2002 2003
Spese
d’investimento 35,4 32,6 30,6
Trasferimenti
di capitale 49,9 48,7 48,1
Totale 41,1 39,3 37,5
Fig. 14
A: Il dato è provvisorio
B: Il dato è il risultato delle stime dell’indicatore anticipatore dei CTP.
Confronto tra i valori target e valori 2008 di alcuni indicatori
di "contesto chiave" per le regioni Obiettivo 1
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Differenze con ipotesi
alta
Differenze con ipotesi
bassaIndicatori di
“contesto chiave”
100,0
26,3
73,7
Valori %
38
10
28
Valori
assoluti
Valori
assoluti Valori %
Numero indicatori che
sono rimasti al di sotto dei
valori target
22 57,9
Numero indicatori che
hanno superato i valori
target
16 42,1
Totale 38 100,0
Fig. 15
Andamento dell’indice sintetico delle variabili di rottura, del PIL a prezzi costanti
(valori concatenati, anno 2000) e tasso di occupazione 15-64 anni
per regioni Ob. 1 e non Ob. 1 – Anni 2000 - 2008
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Fig. 16
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Fig. 17
QSN 2007-2013 delle regioni italiane dell’Obiettivo Convergenza FESR:
Attuazione finanziaria al 28 febbraio 2010, per Programma Operativo (milioni di euro)
Contributo
totale Impegni Pagamenti Impegni Pagamenti
2007-2013 (b) (c) (b/a) (%) (c/a) (%)
(a)
● Programmi Interregionali Convergenza 2.638,9 97,8 97,8 3,71 3,71
POI Attrattori culturali, naturali e turismo 1.031,1 0,0 0,0 0,00 0,00
POI Energie rinnovabili e risparmio energetico 1.607,8 97,8 97,8 6,08 6,08
● Programmi Nazionali Convergenza 10.884,4 2.178,6 841,5 20,02 7,73
● Programmi Regionali Convergenza 22.393,0 2.949,7 1.285,8 13,17 5,74
POR FESR Campania 6.864,8 685,4 261,9 9,98 3,81
POR FESR Puglia 5.238,0 503,4 313,9 9,61 5,99
POR FESR Basilicata 752,2 178,0 113,8 23,66 15,13
POR FESR Calabria 2.998,4 920,0 198,5 30,68 6,62
POR FESR Sicilia 6.539,6 662,9 397,7 10,14 6,08
● Totale 35.916,3 5.226,1 2.225,1 14,55 6,19
Attuazione finanziaria
Programmi Operativi
Ripartizione e utilizzo del FAS 2007-2013
Copertura
attraverso FAS:
-10,505 md
Risorse FAS 2000-
2006 non
impegnate:
+1,2 md
Fondo economia reale
9,053 md
Fondo Infrastrutture
12,356 md
Pre-allocazione e
altri investimenti:
1,533 md
Quota regionale e
interregionale FAS
27,026 md
FAS (Cipe 21 dic 2007) 63,273 md
FAS (Cipe 18 dic 2008) 53,968 md
Quota nazionale FAS
25,409 md
Fondo
ammortizzatori
4 md
Comunicato CNEL del 12 novembre 2009:
“.. interventi che hanno di fatto indirizzato oltre 26 miliardi del FAS (circa il 40%
delle disponibilità) verso utilizzi non coerenti con la sua missione originaria”
Fig. 18
Riccardo PADOVANI
direttore della SVIMEZ
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Roma, 20 luglio 2010
Svimez 2010/03_Vicedirettore_Testo.pdf
Roma, 20 luglio 2010
Luca BIANCHI
vice direttore della SVIMEZ
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
L’IMPATTO SOCIALE
DELLA CRISI AL SUD:
PAGANO I PIU’ DEBOLI
La condizione giovanile
Troppi senza “paracadute”
Il rischio povertà
I GIOVANI: VITTIME SILENZIOSE
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
La condizione
giovanile
Variazione % dell’occupazione per le classi giovanili ed adulte: 2008-2009
-10,0%
-8,0%
-6,0%
-4,0%
-2,0%
0,0%
2,0%
15-34 anni 35 anni e oltre Totale
Mezzogiorno Centro-Nord
Si chiudono le porte di accesso al mercato del lavoro
Variazioni 2008-2009
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
La condizione
giovanile
In calo l’occupazione dei laureati 25-34 anni
variazione 2008-2009
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
La condizione
giovanile
Tasso di occupazione dei laureati 25-34
.
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
La condizione
giovanile
Il divario di competenze in terza media
Scarto dal valore medio - Dati INVALSI – Prova nazionale 2009
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
La condizione
giovanile
Serve ancora studiare?
Tasso di passaggio dalle scuole superiori all'università
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
La condizione
giovanile
L’esercito degli invisibili: chi non studia e non lavora
Not in education, employment or training di 15-29 anni
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
La condizione
giovanile
L’esercito degli invisibili: chi non studia e non lavora
Not in education, employment or training di 15-29 anni
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
La condizione
giovanile
30,3%
15,0%
Incidenza % sulla popolazione
della stessa età nel 2009
La fuga dal mercato del lavoro “formale”
Inattivi e persone in cerca di occupazione
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
L’assenza di
paracadute per troppi
+700.000
Tasso di disoccupazione e tasso di disoccupazione corretto nel 2009
-
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
L’assenza di
paracadute per troppi
Composizione percentuale della disoccupazione corretta
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
L’assenza di
paracadute per troppi
Mezzogiorno
Centro-Nord
La diversa copertura degli ammortizzatori
Variazione assol. occupati ed occupati equivalenti in CIG
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
L’assenza di
paracadute per troppi
Le famiglie a rischio povertà
.
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Il rischio povertà
% delle famiglie per classi di reddito
Meno di
1000 €
mensili
Tra 1000 e
1500 €
mensili
Più di 3000 €
mensili
Mezzogiorno 14,0 16,8 24,5
Centro-Nord 5,5 11,5 41,9
Condizioni del breadwinner
.
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Il rischio povertà
% delle famiglie
Almeno tre
persone a
carico
Non occupato e
non pensionato
Mezzogiorno 12% 22,1%
Centro-Nord 3,7% 10%
Indicatori di deprivazione delle famiglie
.
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Il rischio povertà
Indicatori di deprivazione delle famiglie
.
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Il rischio povertà
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Cambi di residenza: 114.000
-8.000 rispetto al 2008
Pendolari di lungo raggio: 147.000
-26.000 (-15%) rispetto al 2008
I nuovi emigranti: il flusso permane nonostante la crisi
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Nel 2009 i pendolari di lungo raggio
laureati sono stati 39.000 (il 26,2%
rispetto al 23,9% del 2008).
Diminuisce invece nel 2009 la quota
di impieghi ad alta qualificazione
Studiare Emigrare
Gli emigranti laureati
sono stati oltre 17.000
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
LA FRONTIERA SUD
La sfida è di portare a coerenza l’interesse specifico del
Mezzogiorno con quello complessivo del sistema
Recuperare, come nella migliore tradizione meridionalista,
una visione dello sviluppo nazionale:
un Mezzogiorno che esca dalla crisi puntando su uno
sviluppo “non residuale” è un vantaggio anche per il Nord
Il SUD battistrada di nuove vie per l’internazionalizzazione
“attiva” del nostro sistema economico e non solo
all’«inseguimento» del modello di sviluppo settentrionale
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
LA FRONTIERA SUD
• Il Mediterraneo, “terra” di possibile
integrazione
• Le nuove vie allo sviluppo: ricerca e
innovazione per valorizzare il capitale
umano e puntare sulla green economy
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Il Mediterraneo, “terra” di possibile integrazione
• Il “rovesciamento” delle convenienze logistiche:
fine della marginalità del Sud
• Il Mediterraneo e l’Europa:
da frontiera “ostile” a prossimità “contagiosa”
L’attuale condizione è evidentemente figlia della
“debolezza” dell’Italia nello scenario continentale:
una nuova “missione” sovranazionale per l’Italia
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Il Mediterraneo, “terra” di possibile integrazione
anche economica
1.000
1.500
2.000
2.500
3.000
3.500
4.000
4.500
5.000
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009
Quote export sul totale
Area MED extra UE
6,0Centro-Nord
9,8Mezzogiorno
Esportazioni del Mezzogiorno verso area MED extra UE
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Ricerca e innovazione per valorizzare il capitale umano
11,865,69Italia
Laureati per discipline
scientifiche e tecnologiche
(per 1000 abitanti in età 20-29 anni)
2000 2007
Mezzogiorno 3,83 8,03
Centro-Nord 6,89 14,48
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Ricerca e innovazione per valorizzare le potenzialità
della green economy
29,8
29,6
38,4
18,3
0 10 20 30 40 50
Nord-Ovest
Nord-Est
Centro
Sud
Quota imprese che investiranno nel 2010 in prodotti e tecnologie green
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti
Rompere il persistente isolamento:
condizione necessaria per ogni disegno strategico di
crescita economica dell’area
La Frontiera SUD come “cerniera”, per l’intero Paese,
nella “nuova geografia dello sviluppo” post crisi.
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti
38,311,249,5TOTALE
14,7014,7Reti FerroviarieSA-RC-CT-PA, NA-BA
Stima dei fabbisogni finanziari (mld €)
Costo
previsto
Copertura
finanziaria
Fabbisogni
da reperire
Strade e Autostrade
SA-RC, 106 Ionica, PA-AG e
ME-SR-Gela, AG-CL, RG-CT
28,7 9,6 19,1
Ponte sullo stretto 6,1 1,6 4,5
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti
Questo progetto rappresenta il
primo campo su cui procedere con
uno sforzo di concentrazione e
riorientamento dei Fondi per lo
sviluppo e sperimentare quel
necessario mutamento istituzionale
che prevede la condivisione di
obiettivi strategici tra Governo e
Conferenza delle Regioni
meridionali vincolando quote
significative delle risorse del Fondo
infrastrutture strategiche e dei
Fondi strutturali nazionali e
regionali.
Roma, 20 luglio 2010
Luca BIANCHI
vice direttore della SVIMEZ
Rapporto SVIMEZ 2010
sull'economia del Mezzogiorno
Svimez 2010/04_Novacco_Testo.pdf
SVIMEZ
Associazione per lo sviluppo
dell’industria nel Mezzogiorno
IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE
DEL
“RAPPORTO SVIMEZ 2010
SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO”
CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
al dibattito con le Regioni meridionali,
col Governo e col Paese
di
Nino NOVACCO
Presidente Emerito della SVIMEZ
ROMA, 20 luglio 2010
c/o ABI - Sala della Clemenza di Palazzo Altieri
SVIMEZ
Cosa fare oggi per il Mezzogiorno e per l’Italia.
Considerazioni introduttive al pubblico dibattito promosso dalla SVIMEZ
Roma, 20 luglio 2010
1. Il “meridionalismo” politico, ma soprattutto economico, della SVIMEZ, Associazione per lo
sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, si batte da decenni con determinazione contro i divari e
contro ogni differenza – storica e fattuale – tra Nord e Sud, cioè tra regioni avanzate ed aree deboli,
tra territori industrializzati e no.
In tale squilibrata situazione, è certo che occorre tener fermo il “timone” e garantire le scelte di
una necessaria ma inesistente “regia” nazionale sul valore prioritario e determinante delle politiche
pubbliche finalizzate all’accelerazione dello sviluppo nelle aree deboli del Mezzogiorno, come
condizione verso la convergenza e la finalistica coesione, mai rinunciando alla documentata
denuncia e contestazione dei limiti sempre più inadeguati della “spesa in conto capitale” da
riservare allo sviluppo meridionale, che non sarà mai tale se non vi è lavoro, ed occupazione, ed
imprese, e se non si riesce a combattere al Sud disoccupazione ed inoccupazione. Le politiche
richiedono di essere sistematicamente valutate con particolare riferimento per un verso alle “grandi
opere strategiche” essenziali sia all’unificazione infrastrutturale dell’Italia, sia alla interconnessione
territoriale dell’intero Sud, e per altro verso al sistema delle “reti” e alla qualità dei servizi da
rendere funzionali sia nelle singole regioni meridionali, sia tra di esse, fino ad oggi assai poco ed
assai male interconnesse.
I tagli apportati in questi ultimi anni alla spesa in tali campi nel Sud – utilizzando talvolta il
FAS come il Bancomat del Governo –, hanno dato luogo ad una situazione che sarebbe non
improprio definire di “sacrificio dei territori deboli”. Il fatto poi che siano scomparsi in sede di
Governo i riferimenti introdotti dal DPEF 2000-2003 in ordine agli obiettivi di spesa di
investimento da garantire nel Mezzogiorno [il 45% della spesa complessiva ed il 30% della spesa
ordinaria in conto capitale, come era stato promesso dal DPS di Carlo Azeglio Ciampi e di Fabrizio
Barca] sono la controprova del progressivo disimpegno della politica nazionale e di quella degli
Enti erogatori nazionali che, salvo eccezioni, tendono a collocarsi addirittura al di sotto del “peso
naturale” del Sud (popolazione e superficie dell’area), essenziale da rispettare se non si vuole
accentuare il declino relativo del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese.
SVIMEZ
2
2. È tuttavia venuto forse il momento di dire con chiarezza che altrettanto gravi ed inaccettabili dei
divari economici e di investimento, e di formazione di capitale, sono i differenziali territoriali
relativi all’esercizio della “gestione del fare e del governare”, cioè dell’amministrare, e quindi le
differenze ingiustificate tra “costi unitari” [e più tecnicamente tra “costi standard”, in termini
analoghi a quelli di cui si parla a proposito del c.d. “federalismo fiscale”]; e ciò sia in senso
“monetario” (spendere di meno per fare la stessa cosa, ottenendo pari o migliori risultati), sia in
senso “organizzativo”, impiegando nelle diverse Regioni – e fin nei Comuni – le necessarie “risorse
umane”, cioè un adeguato ma non eccessivo numero di addetti, che siano però veri dipendenti
produttivi, e non soggetti burocratici lenti, indecisionisti e di fatto poco efficienti, incapaci di
garantire – a parità di sforzi e di costi con le realtà più avanzate – i risultati che servono ad un Sud
che diventi soggetto di modernità, garantendo così risultati sempre migliori.
Mentre è evidente l’artificio dialettico – di fatto antimeridionalista – di chi pretende
strumentalmente di ignorare (e comunque tacere) le “differenze strutturali” tra macro-comunità
territoriali italiane che si trovano ad un differente livello di sviluppo, resta vero che non si può
prescindere dalla doverosa presa in considerazione delle macro-differenze di costi e risultati in
situazioni diverse, ed in un clima politico-mediatico in cui le denuncie (anche da parte di noti
pubblicisti e di fin fantasiosi professori alla Ricolfi) in ordine alle diversità di costi e ricavi tra
territori e/o Amministrazioni viene presentata come “colpa”, cioè come effetto di inefficienze e di
incapacità, se non addirittura di imbrogli e ruberie, considerate quasi tipiche del Sud.
È chiaro che in questo quadro è importante non lasciare solo alla sistematica e strumentale
retorica “leghista”, e tanto meno alle generiche accuse di “cialtroneria” rivolte agli Amministratori
regionali meridionali, il diritto di sventolare la bandiera delle “responsabilità dei politici e degli
amministratori del Mezzogiorno”. Sarebbe perlomeno necessario evocare queste responsabilità in
parallelo alla denuncia delle colpe storiche e strategiche dei Governi nazionali degli ultimi 20 anni,
colpe che non potranno non accrescersi nel quadro di un federalismo che, se malinteso, rischia di
divenire fattore disgregatore, fonte di aspirazioni a progressive devoluzioni, cioè l’esatto contrario
del foedus, cioè del “patto”, che nel disegno di Cattaneo doveva servire a rendere più forte e saldo
l’intero Paese.
3. Non hanno purtroppo trovato fino ad oggi una costruttiva soluzione i problemi aperti dai
mutamenti costituzionali apportati nel 2001 in Italia alla assai saggia Costituzione “autonomista”
del 1948.
SVIMEZ
3
Quei mutamenti, ridimensionando il ruolo dello Stato nazionale, in favore (a parole) dei più
ampi poteri di Regioni, Province, Aree Metropolitane e Comuni, in uno stravagante intreccio tra
poteri propri e poteri condivisi, non hanno certo contribuito a fare chiarezza sulla disponibilità e
sull’uso delle risorse, sia umane sia finanziarie.
Si tenga presente in proposito quanto, in termini di “materie” – di cui si fece strame di non ben
definite “competenze” – prevede oggi la Costituzione nell’art. 117 comma 2, a titolo di
“legislazione concorrente” tra Stato e suoi territori.
In una tale situazione, quando e come si riuscirà a mettere ordine nel caos e nello “spezzatino”
che si è irresponsabilmente creato? E sarà possibile farlo, con un’Amministrazione burocratica
tradizionalmente “cartolare”, “formalista”, “lenta” e “pigra” come la nostra?
E se è già un rebus quello della identificazione dei costi standard per la sanità, per l’istruzione,
per l’assistenza sociale, forse per i trasporti locali e per quant’altro, chi porrà mano a “costi
standardizzati” per lo “sviluppo”, per l’“industrializzazione”, per il “capitale sociale”? E ciò anche
a prescindere – ovviamente – da quel sempre più spesso evocato “capitale civico” accumulatosi, in
secoli di storia e di esperienze, proprio in alcune delle zone più avanzate dell’Italia centro-
settentrionale, e la cui assenza nel Mezzogiorno viene ricondotta a colpa odierna dei soli
Amministratori del Sud, e non ad effetto dei modi storici dell’unificazione piemontese, ed ai
differenziali che lo sviluppo produttivo ed occupazionale ha avuto nelle macro-regioni nazionali
sotto tanti profili più deboli, così diverse rispetto ad altre, che godono degli articolati vantaggi del
Nord.
4. Dunque, un nodo assai difficile e problematico per il Mezzogiorno è oggi senza dubbio – specie
assieme alle iniziative necessarie per lo sviluppo produttivo, determinanti come nel caso FIAT per
Pomigliano d’Arco – quello relativo al federalismo. Un groviglio da sciogliere con una certa
urgenza, benché l’attuazione del “federalismo fiscale” – fors’anche a causa di incertezze e difficoltà
finanziarie – non è affatto detto che proceda nei tempi e nei modi previsti dal Governo, e voluti e
pretesi dalla Lega.
Le frettolose determinazioni già intervenute in materia di “federalismo demaniale” non
possono non rendere evidenti i rischi di una devoluzione del demanio, che testimonierebbe una
volontà e comunque un esplicito disinteresse al fatto che si faccia a pezzi il patrimonio storico e
condiviso della Nazione, con effetti evidenti sui territori deboli, le cui Amministrazioni versano in
SVIMEZ
4
assai più difficili condizioni finanziarie, e che saranno incentivate a “svendere” anche solo per
esigenze di bilancio corrente.
Ecco perché la sfida dell’autonomia e dell’autogoverno del Mezzogiorno può essere vinta solo
se coniugata con l’urgenza di elaborare un disegno nazionale di politiche pubbliche generali,
tendenti al superamento del divario, come unica via per rendere sostenibile la solidarietà nazionale,
e l’unità stessa del Paese.
5. Difficile situazione, quella del Mezzogiorno. Ma quanto peggio le sue Regioni si troverebbero
oggi se a metà degli anni ’40 – e poi dal 1950, promuovendo e difendendo per un quarto di secolo la
“Cassa per il Mezzogiorno” e l’intervento speciale e straordinario per il Sud – non fosse nata la
SVIMEZ, che si è sforzata [con Morandi e Saraceno, con Menichella e con Giordani, con Cenzato e
con tanti altri italiani – da Rossi Doria a La Malfa, da Cifarelli a Compagna, da Annesi a La Cavera
(citato quest’ultimo da Emanuele Macaluso in una lectio doctoralis pronunciata a Catania nelle
settimane scorse, ricordando anche il meridionalismo di Giorgio Amendola e di Giorgio
Napolitano) –, italiani tutti allora e poi sensibili al destino unitario di un’Italia più uniformemente
industrializzata ed unita nella disponibilità di dotazioni produttive e civili], la SVIMEZ si è sforzata,
dicevo, di essere strumento del progresso di una parte non trascurabile della Nazione e dell’Europa.
E quanto più preoccupati dovremmo essere oggi se a contrastare chi nega addirittura
l’opportunità di avviare tra pochi mesi le Celebrazioni dei 150 anni dell’Unità – pur non ancora
economica – dell’Italia, non ci fosse per un verso il rigore e l’impegno del Presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano, e per un altro verso l’impegno che la Chiesa italiana sta mostrando
per il necessario progresso del Sud come condizione per la crescita e per la coesione dell’Italia
tutta.
6. Il richiamo all’orgoglio dell’appartenenza alla tradizione del “meridionalismo” e al contributo
che la SVIMEZ, anche in anni recenti e difficili, ha dato per mantenere alta e viva l’attenzione
all’unificazione economica, e produttiva, e sociale, del Paese, occorre sia reso esplicito nella sua
attualità ed urgenza. Un certo “meridionalismo meridiano” ha avuto il difetto e la colpa di non
cogliere – come si è osservato – il profondo legame tra la modernizzazione del Mezzogiorno e
quella del Paese nel suo insieme, ed è stato incapace di elaborare una politica per il Sud che fosse
“funzione” dello sviluppo nazionale e internazionale.
SVIMEZ
5
In questo senso – anche per mettere in doveroso risalto i contributi analitici offerti dalla
SVIMEZ nei propri Rapporti di questi ultimi anni –, occorre inquadrare la questione dello sviluppo
del Mezzogiorno nella cornice nazionale e internazionale, individuando le linee di espansione in
settori capaci di competere nel nuovo scenario globale. In fondo, è quello che si tentò – con alterne
fortune – di fare in passato al Sud con l’industria dell’automobile, dell’acciaio, del petrolio, della
chimica, e comunque con stabilimenti produttivi che ancor oggi hanno un peso ed una rilevanza
determinante nell’economia meridionale.
Le ricette per il Sud, mutuate dalle esperienze internazionali che si richiamavano ad un
liberismo “estremista”, si sono rivelate fallimentari; e oggi, dopo la crisi in corso, sono ovunque
messe in discussione. E così, anche il localismo, figlio innaturale dello stesso pensiero dominante, è
dal canto suo del tutto inadeguato a cogliere i vantaggi competitivi nel mutato scenario
dell’economia globale. Ecco perché occorre tornare a riproporre il Mezzogiorno, nel suo insieme,
non solo come “problema” nazionale, ma soprattutto come “occasione nazionale”, ben al di là delle
contingenti motivazioni politiche – la denuncia SVIMEZ dell’entità cospicua dei movimenti
migratori Sud-Nord – che nel luglio dello scorso 2009 ebbero a segnare il ritorno dei problemi
meridionali nel dibattito pubblico della stampa e della politica italiana.
Solo la diffusione della consapevolezza – che è compito della “cultura”, ma anche della
“politica” – di una reale «occasione Mezzogiorno», può trasmettere al Paese l’immagine di un Sud
“utile” all’Italia, e non soltanto “tollerato” dal Nord a titolo di una evocata solidarietà nazionale su
cui, in realtà – leghe o non leghe – non pare si possa fare sempre affidamento.
7. Lasciate che io confessi che malgrado tutto resto nella mia tristezza, quando penso che oggi noi
della SVIMEZ, con il Presidente della Repubblica, con la Confindustria, con la Conferenza
Episcopale Italiana, appariamo tutti a diverso titolo paralizzati dalla verbosità e fantasia capziosa
dei personaggi maggiori e no del “leghismo” italiano, e dalla sproporzionata influenza che esso
esercita sugli equilibri e sul futuro dell’Italia.
Come la lotta nazionale contro il cancro mafioso non sarà vinta in Italia senza una condanna
morale e civile che non conceda attenuanti e giustificazioni pur indirette al potere delle mafie
diffusesi ormai nell’economia e nella società dell’intera Italia, così la posizione della Chiesa italiana
resterà non risolutiva senza la formalizzata e pubblicizzata esclusione degli adepti mafiosi e delle
loro famiglie dalle Comunità Ecclesiali, e senza che si affermi ovunque il valore morale di un
massimo di “pulizia” e di rigore nell’amministrare, e fin nell’accettare come normali gli eccessi di
SVIMEZ
6
eccezioni (finti malati, ad esempio, inventati, coinvolti e sfruttati dalle mafie) in determinati territori
e campi.
Allo stesso modo e titolo, la meritoria battaglia di alcune Confindustrie meridionali contro i
comportamenti mafiosi e malavitosi di tante imprese di costruzione, non sarà vittoriosa finché
ognuna di esse guarderà prioritariamente al proprio orticello, lasciando che risulti vincente il cinico
“realismo” di quelle altre imprese – spesso grandi, se non le maggiori – che accettano (magari
riuscendo a nascondersi o camuffarsi) la logica del “compromesso” e la prassi della “convivenza”
come fattori di pur anomala competitività, specie nella qualità delle opere relative a grandi ma
anche piccoli lavori pubblici, e più in generale nella scadente qualità del mercato degli immobili,
urbani e metropolitani, per non parlare delle troppo ampie libertà di una struttura di “Protezione
civile” divenuta di fatto una SpA senza regole e vincoli.
8. Senza voler formulare qui ed oggi giudizi né di “politica” né di “politica economica”,
determinante sarà lo stato d’animo che il meridionalismo tutto sarà capace di assumere nei confronti
delle scelte dei poteri pubblici nazionali a proposito della allocazione territoriale delle risorse, fino a
quando esse non divengano trasparentemente e stabilmente corrispondenti – come era sembrato si
volesse fare quando è nato il DPS di Ciampi e di Barca – alle esigenze delle Regioni meno avanzate
e più deboli. Il progresso di esse è infatti una “condicio sine qua non”, se crediamo essere vero –
come anche la Confindustria ha rilevato nel celebrare il proprio Centenario – che “l’Italia non
crescerà se non crescerà adeguatamente l’intero Mezzogiorno”. In effetti, l’obiettivo di una
“crescita” rapida e competitiva è per l’Italia quello prioritario, ed è obiettivo che non ha altre
ragionevoli alternative, ma che è reso difficile ed improbabile anche per l’indebolimento del
“Ministero dello Sviluppo Economico”, cui era stata affidata impropriamente la delega per le
politiche di sviluppo, in precedenza in carico al Ministero dell’Economia, ed ora, più
opportunamente passata al Presidente del Consiglio, e delegata al Ministro degli Affari Regionali.
Siamo forse al tornante di una necessaria svolta, nella quale tutto si tiene e conta, comprese,
come ho detto all’inizio, le gravissime ed insopportabili inefficienze e fin corruzioni degli
Amministratori responsabili e dei Governi locali meridionali, troppo influenzati da storici
condizionamenti: familisti, parentali e amicali, oltre a quelli economico-affaristici, professionali,
mafiosi e massonici – P2 oppure P3 che sia –, tutti determinanti, perché tutti a vari livelli
burocratici ed economici tra loro intrecciati. Una svolta che se non si tradurrà presto nei fatti e nelle
politiche, ci vedrà inevitabilmente condannati a negativi destini: dal venir meno del prestigio di cui
SVIMEZ
7
il “made in Italy” gode ancora sui mercati (maggiore di quello riconosciuto all’Italia nella politica
internazionale), al sicuro declino economico della intera nostra Nazione rispetto ai BRIC; e non solo
ad essi, ma a tanti nuovi Paesi emergenti nel Mondo, vicino e lontano.
Vi è quindi la necessità – è da molto tempo ormai che si parla di un “Piano per il Mezzogiorno”,
come già in recenti anni passati si è addirittura parlato di un “Piano Marshall” per il Sud – di un
forte progetto nazionale, e di realizzazioni straordinariamente impegnative anche e proprio per il
progresso ambientale e produttivo meridionale, capaci di contrastare la perdurante disunità del
sistema Italia. Questa appare ormai forse come la sola speranza nazionale per i prossimi anni, e di
essa sarebbe grave – ripeto – voler rendere colpevoli i soli “governatori” del Sud – vecchi e nuovi, e
di alterno colore politico –, gravati da tante responsabilità, ma anche da tanti storici problemi
irrisolti, e da sistematici “tagli e condizionamenti” alle risorse, che creano insopportabili ma
concrete incertezze.
9. A progetti di programmazione di tal fatta, che riprendano gli aspetti positivi di ciò che nel corso
degli “anni migliori” dell’intervento straordinario della “Cassa per il Mezzogiorno” (1950-1975) si
era saputo fare – sotto la guida di Gabriele Pescatore – ispirandosi alle Authority americane degli
anni rooseveltiani dopo la “Grande Crisi” (Tennesse Valley Authority, Columbia River, altre, come
più tardi all’esperienza dell’Appalachian Commission), la SVIMEZ sta di fatto lavorando,
attraverso l’elaborazione della proposta di una specifica “Agenzia per lo sviluppo del territorio del
Mezzogiorno”, e per altro verso grazie ai prospettati servizi di un “Osservatorio economico e
sociale del Mezzogiorno” che essa è capace di offrire ed ha offerto – a basso costo – ad una sorta di
opportuna “Conferenza delle Regioni meridionali”. Si potrebbero così dare contenuti positivi alle
troppo vaghe previsioni dell’art. 119 comma 5 della Costituzione, con cui il legislatore volle nel
2001 annacquare il riferimento di fatto al solo Mezzogiorno, quale esso era contenuto al comma 3
dell’art. 119 della Costituzione autonomista del 1948, che allora venne cancellato.
C’è in effetti un ineludibile bisogno – possibilità e necessità insieme – di strutture che
assicurino forme di coordinamento efficaci per interventi che siano connessi alla qualità degli
ambienti produttivi e ad una efficace “gestione” delle politiche e degli interventi indirizzati a
“strategie di localizzazione” che guardino – anche a scala ed in ottica mediterranea – alle
potenzialità del Mezzogiorno nel nuovo scenario che si aprirà con la ripresa, dopo la grave crisi
internazionale che stiamo ancora attraversando. Del resto, le posizioni di questi ultimi anni – figlie
di un pensiero economico variamente declinato in Europa fin nelle forme estreme di antistatalismo
SVIMEZ
8
liberista, e nella mitologizzata esaltazione di un localismo senza storia e senza orizzonti – hanno
rivelato tutta la loro inadeguatezza.
In questo quadro, l’idea che noi della SVIMEZ coltiviamo, e la bussola cui guardiamo, e che
riteniamo possa e debba guidare l’Italia, è quella di ripensare al ruolo di organismi – promossi dallo
Stato, e comunque gestiti con risorse rese effettivamente disponibili per le Regioni meridionali –
operanti nel quadro del tante volte promesso “Piano per il Mezzogiorno”, anche nel campo dei
«servizi reali alle piccole e medie imprese». Con tal tipo di Organismi – e con la valorizzazione
produttiva degli immobili industriali oggi non più utilizzati nelle ASI e nei “nuclei” industriali per
colpa della crisi e del “mal governo” amministrativo di troppi – sarebbe possibile dare un più che
efficace supporto – per il futuro prossimo – all’individuazione di localizzazioni, strategie e
strumenti per accelerare i processi di sviluppo delle «aree deboli» del Sud, processi senza i quali
non ci sarà unità nazionale, e permarranno ancora – troppo a lungo – divari e squilibri, nemici da
sempre dello sviluppo competitivo e complessivo dell’Italia.
Ci sentiamo impegnati, come SVIMEZ, affinché politiche che non restino solo declamate in
improbabili programmi e nei quasi quotidiani comunicati alla stampa e soprattutto alle TV, e
strumenti operativi non miopi e non paralizzati dall’assenza di reale operatività dei poteri locali,
possano aiutare in concreto il Mezzogiorno, e con esso l’Italia.
Nino Novacco
Presidente Emerito
della SVIMEZ
Roma, 20 luglio 2010
Svimez 2010/05_Scheda_Sintesi.pdf
SVIMEZ
Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno
RAPPORTO SVIMEZ 2010
SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO
INTRODUZIONE E SINTESI
2
Finito di stampare il 16 luglio 2010 dall’Industria Failli Grafica s.r.l.
Via Roma, 202, 00010 Pomezia (Roma) – Tel. 06.9122520 fax 06.9108363
per conto della SVIMEZ
“Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno”
Via di Porta Pinciana 6, 00187 Roma
Tel. 06.47.850.1 • fax 06.47.850.850 • e–mail: svimez@svimez.it
3
Indice
1. IL MEZZOGIORNO NELLA CRISI: INDIETRO DI 10 ANNI p. 5
2. IL DIFFICILE PERCORSO DELL’INDUSTRIA MERIDIONALE E LA
NECESSITÀ DEL RILANCIO DI UNA STRATEGIA DI POLITICA
INDUSTRIALE PER IL SUD
8
2.1. La crisi e il rischio della scomparsa del Sud
industriale
8
2.2. L’urgenza di una strategia di politica industriale per il
Sud
11
3. L’IMPATTO SOCIALE DELLA CRISI 15
3.1. I giovani, le vittime silenziose 15
3.2. L’inoccupazione e la povertà: i limiti del welfare
italiano
19
4. LE POLITICHE E I FONDI STRUTTURALI: LA NECESSITÀ DI
VISIONE STRATEGICA E DI COORDINAMENTO
22
4.1. La spesa pubblica al Sud: superare i luoghi
comuni
22
4.2. Limiti e fallimenti della politica di coesione 23
4.3. Il FAS e il depotenziamento della “politica
regionale unitaria”
25
4.4. Necessità di visione strategica, mutamenti
istituzionali e riforma delle politiche post 2013
27
4
5. POLITICHE GENERALI NAZIONALI, PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE E DIVARIO
p. 30
5.1. La necessità di politiche generali nazionali
differenziate
30
5.2. I “nuovi contenuti”del divario: i servizi pubblici
per i cittadini e per le imprese
31
6. IL MEZZOGIORNO NELLA PROSPETTIVA DELL’ATTUAZIONE
DEL FEDERALISMO FISCALE
35
6.1. La necessità di un adeguato modello di governance
e di finanziamento
35
6.2. Le risorse aggiuntive e gli interventi speciali per il
Mezzogiorno
38
7. LA “FRONTIERA” SUD E LE NUOVE “STRADE” DELLO
SVILUPPO
40
7.1. La “frontiera” 40
7.2. Il Mediterraneo, “terra”di possibile integrazione 41
7.3. Le nuove vie allo sviluppo: ricerca e innovazione
per valorizzare il capitale umano e puntare sulla
green economy
43
7.4. Un grande progetto sulle infrastrutture dei
trasporti: strumento per la crescita e l’integrazione
46
5
Introduzione e sintesi
1. IL MEZZOGIORNO NELLA CRISI: INDIETRO DI 10 ANNI
I dati e le analisi presentati nel Rapporto SVIMEZ di quest’anno
documentano il processo di deterioramento in atto nel Mezzogiorno, a livello di
capitale fisso, sociale e produttivo. Un declino in corso da un decennio, e
aggravatosi nella attuale fase di crisi, che ostacola il processo di adeguamento
competitivo di tale area ed accresce le condizioni di fragilità delle sue strutture
produttive. Il rallentamento e poi il calo degli investimenti produttivi privati è
accompagnato da un parallelo indebolimento degli investimenti effettuati
dall’Amministrazione pubblica e dalle imprese pubbliche, nazionali e locali, cui
si aggiungono in questa fase i consistenti tagli ai Fondi per il Sud. Conseguenti
e drammatici i risvolti sociali: calo demografico, migrazione dei giovani
laureati, aumento della quota di anziani e di inoccupati, allargamento dei divari
sul piano delle tutele del lavoro e forte contrazione nella dotazione dei servizi
socio-assistenziali.
È in tale difficile quadro che si colloca l’analisi del presente Rapporto
che pone in evidenza il processo incompiuto di trasformazione dell’economia
meridionale in questi ultimi anni; troppe le debolezze strutturali che affondano
le radici nel passato e troppo deboli ancora i segnali di ripresa per far sperare in
una rapida fuoriuscita dalla crisi.
Nel Paese, indebolito nel suo insieme, sembra prevalere un
atteggiamento di contrapposizione tra aree deboli e aree forti, che se da un lato
delinea il rischio di un ulteriore allargamento del divario, dall’altro condiziona
anche le possibilità di ripresa dell’intera economia italiana.
Il Rapporto SVIMEZ 2010 vuole, invece, richiamare l’attenzione
sull’urgenza di un profondo processo di ristrutturazione dell’apparato
produttivo meridionale, che deve essere accompagnato da più efficaci politiche
di sviluppo che pongano le condizioni per cogliere le sfide e le opportunità nel
“nuovo” scenario che si aprirà all’uscita dalla crisi.
In questa ottica, un approccio “storico”, tanto più quest’anno in cui si
celebrano i 150 anni dell’Unità nazionale, può aiutare a recuperare l’abitudine,
persa da troppo tempo, a sviluppare un’analisi di sistema nella quale il
6
Mezzogiorno sia parte di un disegno complessivo di interesse nazionale.
Dobbiamo tornare a ragionare sul se e su come da Sud possa proporsi, in
analogia a quanto avvenne negli anni della Ricostruzione post-bellica, una
fondamentale azione di rigenerazione dell’economia e della società italiana.
Questo si traduce per noi nel concetto di Mezzogiorno come “frontiera”
del Paese, verso il Mediterraneo e verso le opportunità offerte dai nuovi settori
di sviluppo legati all’innovazione, alle competenze, all’economia verde.
Cogliere tali opportunità richiede però innovazioni istituzionali nel Sud e per il
Sud: un’attuazione del federalismo fiscale costituzionalmente orientata; un
risveglio di coscienza civile; una nuova strategia di politica economica che, in
coerenza con le esigenze di stabilità finanziaria, ponga le basi per un rilancio
della crescita dell’intero Paese.
A tal fine il Rapporto, nella Parte terza, identifica alcune principali linee
di questo nuovo “progetto Paese”, in grado di valorizzare le tante energie
inutilizzate soprattutto nelle sue aree deboli. Un progetto che deve basarsi su
più coerenti ed efficienti politiche generali nazionali (nel campo della Pubblica
Amministrazione, della scuola, del credito, della lotta alla povertà e
all’esclusione sociale, del contrasto alla criminalità organizzata), e su di una
riformata, ma ancora indispensabile, politica specifica per le aree deboli, in
grado di favorire i processi di modernizzazione, presenti anche al Sud, e le
nuove opportunità del contesto competitivo internazionale che torneranno a
presentarsi.
Il Mezzogiorno nella crisi: effetti economici ed effetti sociali
La grave recessione che ha colpito l’economia mondiale si è abbattuta
pesantemente sull’economia del Mezzogiorno, provata da un decennio di forte
rallentamento e da un allargamento del divario di sviluppo col resto del Paese.
Dall’inizio degli anni duemila fino all’arrivo della crisi, il Mezzogiorno ha
registrato ritmi di crescita dimezzati rispetto al Centro-Nord. Con la recessione
del 2008 e del 2009 il PIL meridionale è ritornato, in valore assoluto, ai livelli
di dieci anni prima. Non si era mai verificato, nella storia repubblicana, una così
lunga interruzione del processo di crescita e di convergenza con le aree “forti”.
In base a valutazioni di preconsuntivo elaborate dalla SVIMEZ, nel
2009 il prodotto interno lordo (a prezzi concatenati) si è ridotto nel
Mezzogiorno del 4,5%, con una caduta molto più ampia di quella registrata
nell’anno precedente (-1,5%), ma inferiore – solo per effetto di una diversa
composizione dei settori dell’economia – di poco più di mezzo punto a quella
7
nel resto del Paese (-5,2%). La crisi del biennio 2008-2009 è l’unica, tra quelle
vissute negli ultimi decenni, in cui il PIL si sia contratto per due anni
consecutivi: il prodotto a prezzi concatenati tra il 2007 e il 2009 si è ridotto
complessivamente del 5,7% nel Mezzogiorno e del 4,9% nel resto del Paese.
Ciò sfata l’ipotesi di un Mezzogiorno che subisce meno gli effetti del
ciclo, specie quello internazionale, in quanto meno aperto agli scambi con
l’estero, e in cui i settori anticiclici, come quelli dei servizi, hanno un ruolo
congiunturale determinante. Al contrario, la maggiore debolezza dell’economia
meridionale la rende particolarmente vulnerabile non solo agli shock diretti
provenienti dalla domanda estera, ma anche ai suoi effetti indiretti, tramite la
domanda proveniente dal Centro-Nord.
La recessione attuale, aggiunta alla bassa crescita, comporta che il
prodotto del Mezzogiorno risulti nel 2009 ancora inferiore del -0,3% al livello
raggiunto dall’inizio del decennio. Nel resto del Paese, la migliore dinamica di
sviluppo realizzata nello stesso periodo ha portato ad una crescita cumulata nel
decennio del 2,1%, un valore esiguo ma comunque positivo.
Le differenze tra gli andamenti settoriali tra Mezzogiorno e Centro-Nord
sono nel 2009 complessivamente modeste. In tutti i comparti in cui sono
disaggregati i conti regionali la flessione produttiva del Sud è stata però
maggiore di quella del Centro-Nord. Soltanto la diversa composizione settoriale
– con un peso maggiore dei servizi meno colpiti dalla crisi – ha determinato al
Sud un risultato meno negativo nell’anno.
Tra le componenti della domanda, la caduta nell’acquisto di beni capitali
è la prima causa anche nel 2009 della recessione del PIL: gli investimenti fissi
lordi del Mezzogiorno sono diminuiti del 9,6%, dopo la flessione già registrata
l’anno precedente (-3,7%). Nel Centro-Nord la flessione è stata più ampia (-
13,0%), come nel 2008 (-4,1%).
Assai più grave è stata invece al Sud la contrazione dei consumi. In
particolare, la spesa finale delle famiglie nel 2009 si è ridotta nel Mezzogiorno
del 2,6%, un punto in più che nel resto del Paese. Ma la forza dell’impatto della
crisi sulla capacità di spesa delle famiglie emerge con ancora più evidenza dalla
dinamica assai negativa nel comparto dei beni essenziali: la spesa alimentare si
è ridotta nel 2009 del 4%, valore che fa seguito al -3,5% del 2008. Una chiara
indicazione delle difficoltà delle famiglie meridionali a sostenere il livello di
spesa, che vanno al di là della congiuntura ma che sembrano ulteriormente
aggravarsi nella fase più recente, in conseguenza delle consistenti perdite di
posti di lavoro, che al Sud, più che nel resto del Paese, spesso riguardano
l’unico percettore di reddito dell’intero nucleo familiare.
8
La contrazione dell’occupazione è stata nel 2009 nelle regioni
meridionali di intensità tripla (-3%) rispetto al -1,1% del Centro-Nord. In
termini assoluti ciò vuol dire 194 mila occupati in meno nel Mezzogiorno, che
si aggiungono ai 35 mila posti persi nel precedente anno. Una riduzione dello
stock di occupazione impiegata cha ha determinato tra il 2007 e il 2009 un calo
di circa due punti del tasso di occupazione: dal 46,5% al 44,7%, valore distante
di quasi venti punti dal resto del Paese (64,5%). Solo un ulteriore e deciso
incremento dello “scoraggiamento” a cercare lavoro ha limitato gli effetti di tali
andamenti sul tasso di disoccupazione. Nel solo 2009, gli “inattivi” in età
lavorativa, cioè coloro che non svolgono un lavoro né lo cercano, sono
aumentati al Sud di oltre il 3%. Deve far riflettere il fatto che nel 2009 il tasso
di attività sia sceso al Sud al 51,1%: ciò vuol dire che una persona su due in età
lavorativa è completamente estranea al mercato del lavoro regolare (non solo
non ha una occupazione ma non segue i formali canali di ricerca di lavoro
previsti dall’indagine ISTAT). Si tratta di un esercito di oltre sei milioni e
mezzo di donne e uomini che partecipa ad un mondo “grigio”, tra l’attività
irregolare nell’economia sommersa e la ricerca estemporanea di lavori saltuari,
attraverso canali informali se non di carattere clientelare.
2. IL DIFFICILE PERCORSO DELL’INDUSTRIA MERIDIONALE E LA NECESSITÀ
DEL RILANCIO DI UNA STRATEGIA DI POLITICA INDUSTRIALE PER IL SUD
2.1. La crisi e il rischio della scomparsa del Sud industriale
La perdita di occupazione registrata per effetto della crisi economica
risulta di estrema gravità nel comparto industriale italiano. In particolare, la
riduzione della manodopera industriale nel Mezzogiorno sta assumendo
dimensioni mai sperimentate: nel corso del 2009 si sono persi 61 mila posti di
lavoro dell’industria manifatturiera (-7% a fronte del -3,7% nel Centro-Nord).
Nel complesso del biennio di crisi 2008-2009, la perdita occupazionale supera
le 100 mila unità (-12%), andando così a ridurre ulteriormente il tasso di
industrializzazione di un’area che presentava già livelli assai inferiori al resto
del Paese. Va ricordato, a riguardo, che ancora nel 2007 vi erano al Sud,
secondo i dati dell’Archivio ASIA, appena 35 addetti manifatturieri ogni 1.000
abitanti a fronte dei 105 del Centro-Nord. La crisi si è riflessa con particolare
gravità sulle regioni meridionali maggiormente industrializzate: -14% nel
9
biennio in Campania, -13% in Puglia e Basilicata (in quest’ultima regione tra il
2004 e il 2009 si è perso circa un occupato industriale su cinque).
I dati sul valore aggiunto industriale confermano la lettura di una crisi
che viene da lontano e che mostra elementi di debolezza strutturali che
rischiano di andare oltre il ciclo congiunturale.
Nel biennio 2008-2009, l’output industriale è complessivamente
diminuito di poco meno di venti punti percentuali nel Sud (-19,7%) e di quasi
diciotto nel Centro-Nord (-17,9%). Relativamente a ciò, vi sono due
considerazioni che preme evidenziare. La prima è che dal 2004, anno a partire
dal quale la dinamica nazionale era tendenzialmente tornata ad essere positiva,
e fino al 2007, la variazione cumulata del prodotto dell’industria è risultata pari
al 5,9% nel Mezzogiorno ed al 4,6% nel resto del Paese. Ciò implica che, in
assenza di una consistente accelerazione del ritmo di crescita del prodotto
industriale nella fase post-crisi, il recupero dei livelli di produzione del 2007
richiederà un arco temporale prossimo, in entrambi i casi, al decennio.
In secondo luogo, diversamente da quanto di solito avveniva in fasi
recessive indotte dall’estero, la crisi avviatasi dalla seconda metà del 2008 pare
aver colpito con intensità maggiore l’industria del Sud. Generalmente, infatti,
dato il maggior grado di apertura dell’industria del Nord, quest’ultima era
coinvolta in misura più ampia da una contrazione del commercio mondiale. Il
venir meno, nella fase ciclica recente, di questo elemento può indicare la
presenza, nel Sud, di uno shock (fortemente) asimmetrico. Nelle aree valutarie
uniche, qual è l’Euro-zone, in presenza di una ridotta flessibilità di prezzi e
salari unitamente ad una scarsa mobilità dei fattori, gli aggiustamenti in seguito
ad uno shock esogeno, perso il cambio, spettano alla politica fiscale. Misure di
sostegno della domanda non appaiono tuttavia praticabili in considerazione
dell’elevato stock di debito pubblico già accumulato. In assenza, inoltre, di
politiche strutturali volte a ridurre in maniera consistente i divari regionali,
l’eventualità che gli shock possano generare recessioni, nelle aree deboli, di
entità relativamente maggiore, è molto alta – venendo meno, in queste, la
tradizionale valvola del mercato interno. Il confronto internazionale sembra
avvalorare tale ipotesi. La caduta di output industriale registrata nelle regioni
meridionali nel 2009 è, con l’eccezione di Germania e Finlandia, quella di
entità più ampia, sia rispetto ai paesi di più antica industrializzazione (Francia,
Regno Unito) che, soprattutto, nei confronti dei nuovi competitors presenti nella
stessa Europa a 27, quali ad esempio la Polonia.
La particolare intensità con cui la recessione industriale ha colpito il
Mezzogiorno nel 2009 fa seguito, infatti, ad un già forte ampliamento del gap
di crescita con il resto del Paese (e, soprattutto, con gli altri paesi europei) nella
10
fase antecedente la crisi, caratterizzata dall’acuirsi delle differenze in termini di
produttività a causa della sostanziale inadeguatezza che i processi di
riorganizzazione della struttura produttiva – comparativamente lenti nell’intero
Paese – hanno mostrato al Sud. Nel complesso del periodo 2004-2008 la
variazione cumulata del prodotto industriale è risultata nel Mezzogiorno
negativa (-2,4%), a fronte di un aumento del 2,8% nel Centro-Nord e in
presenza di incrementi medi complessivi del 9,7% per l’Area dell’Euro e del
9,8% per l’Ue a 27 paesi.
Queste considerazioni paiono rafforzarsi da un’analisi econometrica
condotta dalla SVIMEZ su un campione di imprese presenti nelle indagini
curate da UNICREDIT. I miglioramenti competitivi sono risultati fortemente
circoscritti a una quota limitata di imprese, mentre a livello di sistema sono
emerse rilevanti difficoltà ad adeguarsi al nuovo contesto. La diffusione e la
rilevanza, in termini di impatto sulla performance del valore aggiunto, di quei
fattori “competitività” che nelle regioni del Centro-Nord hanno assunto il ruolo
di driver della crescita – innovazione (non incrementale) e
internazionalizzazione (specie nelle forme più evolute che vanno oltre il
semplice export) – è comparativamente assai debole. Il doppio shock
(euro/globalizzazione) di inizio decennio si è abbattuto su una struttura
industriale che nel Mezzogiorno permane fortemente polarizzata tra poche, e
sempre meno, grandi imprese, quasi sempre di proprietà esterna all’area, e
molte piccole imprese locali orientate al mercato interno, con scarsi
collegamenti con le unità produttive maggiori localizzate nello stesso Sud.
Piccole imprese nelle quali l’innovazione è un’attività residuale, e/o che
entrano/escono dal mercato estero a seconda della convenienza relativa.
La lettura del pattern seguito dal sistema del Mezzogiorno appare
preoccupante se si confrontano le esportazioni meridionali con le altre regioni
europee in ritardo di sviluppo. Considerando il quinquennio 2003-2007, sia in
Germania che in Spagna le regioni relativamente più arretrate riuscivano a far
crescere le proprie esportazioni a tassi - rispettivamente del 14,5 e del 9,4% -
molto più elevati delle corrispondenti medie nazionali (8,2 e 6,8%), in Italia
invece la convergenza era molto lenta: i tassi medi annui erano del 6,9% nelle
regioni in ritardo e del 6,3% nella media nazionale.
La crisi economica mondiale ha imposto nel 2008 un brusco
rallentamento e nel 2009 una secca flessione delle esportazioni in tutte le
regioni considerate. Tuttavia, comparativamente, il colpo più duro è stato subito
proprio dalle quattro regioni meridionali dell’Obiettivo Convergenza
considerate, che hanno fatto registrare risultati vistosamente peggiori anche
rispetto alla propria media nazionale. Nel complesso emerge dunque un quadro
11
in cui l’Italia perde terreno rispetto agli altri paesi dell’Area dell’Euro e – al suo
interno – le regioni più in ritardo subiscono un ulteriore peggioramento della
loro posizione relativa. Un processo di polarizzazione degli squilibri che
contrasta nettamente con la convergenza riscontrabile in Spagna e soprattutto in
Germania, finanche nel pieno della crisi.
Le cronache di questi mesi e settimane sugli stabilimenti FIAT di
Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, alquanto complesse e diverse tra loro,
sono emblematiche. Evidenziano il rischio di spiazzamento che la nuova
divisione internazionale del lavoro può determinare in aree che non possono
essere concorrenziali sul costo del lavoro e che, attraverso la chiusura dei
grandi impianti, potrebbero andare incontro a forme di desertificazione del
tessuto di piccole industrie ad essi legate. E mostrano che, al di là di singole
scelte aziendali, a pesare sono i decenni di mancate strategie di politica
industriale.
2.2. L’urgenza di una strategia di politica industriale per il Sud
La mancanza di indirizzi chiari di politica industriale impedisce di
affrontare i problemi posti dalla globalizzazione e dall’irruzione delle economie
emergenti sui mercati dei prodotti manifatturieri, e penalizza in maggiore
misura le regioni in ritardo. Proprio per queste aree, ci sarebbe stato bisogno di
definire e perseguire specifiche politiche ancorate ad un disegno strategico di
politica industriale, che ormai manca dalla metà degli anni ’70, volto a
sostenere la modernizzazione e la crescita della struttura produttiva e a rendere
possibile il pieno inserimento del Mezzogiorno, da protagonista attivo, in un
progetto complessivo di sviluppo del sistema produttivo italiano. Dopo di allora
si è assistito in Italia a un progressivo indebolimento della politica industriale
tout court, verso la quale è cresciuta, ormai da molti anni, un’avversione spesso
di marca ideologica.
Le politiche di riequilibrio territoriale, in particolare, sono state travolte
dalla convinzione di un basso rendimento economico e sociale delle risorse
pubbliche impiegate nel Sud. A partire dalla seconda metà degli anni duemila, è
maturato infatti un progressivo ridimensionamento della politica industriale per
il Sud, ed in particolare della politica di incentivazione regionale, che ne ha
storicamente costituito l’ossatura portante, fino ad arrivare nel 2009 ad un
sostanziale azzeramento.
La riduzione del volume complessivo degli aiuti di Stato per l’industria
e i servizi, rispetto al PIL, ha riguardato invero nel triennio 2006-2008 tutte le
maggiori economie europee. A ben vedere, però, una dinamica sostanzialmente
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omogenea sta portando a risultati sensibilmente differenziati. Il dato dell’Italia,
in particolare, è divenuto notevolmente inferiore alla media (0,35% del PIL,
contro lo 0,54% dell’Ue a 27), ed è comunque al di sotto degli altri principali
paesi europei (escluso solamente il Regno Unito): 0,63% del PIL in Germania e
0,5% in Francia e Spagna. In un momento, poi, in cui gli aiuti specificamente
destinati all’obiettivo dello sviluppo regionale sperimentano in termini relativi
una ripresa in diversi paesi europei, sorprende che la loro quota sul totale degli
aiuti si sia attestata in Italia, nel 2008, su un livello di circa il 18%, meno della
metà del valore di Francia (40,8%) e Spagna (39,9%), non caratterizzati peraltro
da uno squilibrio territoriale così ampio e persistente come quello presente nel
nostro Paese.
Al drastico impoverimento, a partire dal 2007, degli interventi di
incentivazione della politica regionale per lo sviluppo dell’industria del
Mezzogiorno, è seguito, nel corso del 2009, il loro sostanziale azzeramento.
Dopo la scomparsa di importanti strumenti, tra i quali, in primo luogo, la legge
488/1992, ma anche altri ad essa collegati, finalizzati in particolare al sostegno
delle R&S e all’innovazione, nel 2009, sono infatti rimasti non operativi tutti gli
interventi di incentivazione, anche quelli per i quali era prevista nell’anno
l’attivazione, come le Zone franche urbane, i nuovi contratti di programma e i
contratti di sviluppo, ancora in attesa di una regolamentazione. In assenza di
rifinanziamenti, le risorse disponibili per i crediti di imposta per l’occupazione
si sono esaurite già nell’ottobre 2008, mentre le agevolazioni concesse per i
crediti di imposta a favore degli investimenti hanno assorbito l’intero
stanziamento complessivo del 2007-2013.
Sul versante della programmazione negoziata, nel 2009, il blocco
dell’attività di deliberazione ha riguardato anche i contratti di localizzazione
(riservati al Sud), cui a partire dal 2003 era stato principalmente affidato il
compito di favorire l’attrazione degli investimenti esteri. Anche i contratti di
sviluppo, destinati a sostituire, con procedure più snelle, i contratti di
programma e i contratti di localizzazione, sono rimasti non operativi, in
mancanza del decreto di attuazione del Ministero dello Sviluppo Economico.
Lo stesso processo di definizione delle Zone franche urbane è stato
caratterizzato da una lunga fase di gestazione, che non ne ha consentito l’avvio
neanche nel 2009.
La recente manovra del decreto legge 78/2010 ha poi di fatto abolito le
Zone franche urbane in favore delle “Zone a burocrazia zero”. Appare
improbabile, tuttavia, che tale misura possa contribuire da sola a superare uno
dei principali elementi di criticità della capacità attrattiva, concorrendo, cioè, a
13
migliorare quei fattori di inefficienza del sistema istituzionale decisamente più
accentuati nelle regioni meridionali che nel resto del Paese.
Dal punto di vista normativo, la “legge sviluppo” (L. 99/2009) ha
delegato il Governo a riformare tutto il sistema degli incentivi, compresi quelli
destinati alle aree sottoutilizzate, ma i tempi previsti per la presentazione del
progetto di riforma sono lunghi. Nel frattempo è opportuno ribadire con forza le
ragioni di una politica industriale specifica per il Mezzogiorno.
Solo col ripristino di un consistente apporto differenziale di politica
industriale regionale – coniugato con un più adeguato accesso del Sud agli
interventi della politica industriale nazionale – è possibile, infatti, porre le
condizioni per un disegno strategico di sviluppo strutturale.
Gli “obiettivi guida” di questa possibile strategia di politica industriale
possono sommariamente individuarsi: nella riqualificazione del modello di
specializzazione produttiva, attraverso il sostegno alla ricerca e all’innovazione
tecnologica e organizzativa e allo sviluppo delle attività a più alta produttività
relativa; nell’innalzamento delle dimensioni medie dell’impresa, attraverso il
sostegno alla formazione di “reti” di imprese e ad un maggiore accesso al
credito; nell’innalzamento del grado di apertura del sistema verso l’estero; nella
promozione e nell’arricchimento di “filiere produttive”; nel pieno inserimento
delle agglomerazioni di imprese in settori strategici per l’industria nazionale
(anche attraverso i “Progetti di innovazione Industriale” di “Industria 2015”);
nel rilancio delle politiche di attrazione.
Non si tratta di un “inventario indistinto” delle ambizioni, ma di una
strategia consapevolmente fondata sulla convinzione che il circolo vizioso del
sottosviluppo vada aggredito in più punti. Più ingenue debbono al contrario
essere considerate quelle impostazioni che, di volta in volta, individuano un
solo asse strategico di intervento, per poi scoprire che le forti complementarità
tra tutti i fattori vanificano ogni impegno unilaterale.
Quanto agli strumenti di questa strategia di politica industriale per il
Sud, un ruolo centrale dovrà continuare ad essere affidato anche agli interventi
di incentivazione. Interventi per i quali – al di là della forma tecnica di
erogazione – sarebbe però il momento di aprirsi ad un approccio più “selettivo”
rispetto a quello seguito con la legge 488 e ancor più con i crediti di imposta; un
approccio, cioè, mirato al perseguimento di obiettivi specifici, che consenta di
evitare la dispersione delle risorse tra un novero troppo ampio di finalità e su
una platea troppo vasta di imprese.
In questa prospettiva, deve rilevarsi che i crediti di imposta – che una
posizione oggi largamente prevalente tende a considerare non solo come la
tipologia di incentivo più efficace ma pressoché come l’unica praticabile, in
14
ragione della quasi totale automaticità dei criteri di concessione e di erogazione,
che può consentire di evitare gli elementi di possibile distorsione derivanti
dall’interferenza, a volte anche “impropria”, della macchina amministrativa –
sono, invece, a nostro avviso, da considerare una componente importante di un
“sistema” di incentivazione, ma non esclusiva, né sostitutiva di una componente
di tipo valutativo in grado di indirizzare risorse verso obiettivi di miglioramento
strutturale. Nell’attuale fase di crisi economica, i crediti di imposta possono
sicuramente assumere un’importanza anche maggiore rispetto al passato,
agendo in funzione anticiclica e contribuendo a mitigare i vincoli finanziari che
ostacolano la crescita delle imprese, soprattutto di quelle con bassi livelli di
produttività. Ma – come posto in luce, con riferimento al periodo 1998-2005,
anche da un recente studio dell’ISAE1 – non sembrano in grado di favorire i
processi di innalzamento della competitività del sistema e, in particolare delle
imprese più prossime alla frontiera tecnologica
Un importante elemento della nuova strategia di politica industriale
potrebbe essere costituito da una “vera” fiscalità di vantaggio, intesa come
fiscalità differenziata a favore delle regioni meridionali nel loro complesso, e
non di semplice accentuazione a favore del Sud di misure per il sistema
produttivo nazionale. Essa dovrebbe costituire, infatti, una forma strutturale di
diversificazione delle convenienze, tale da mettere effettivamente in moto una
capacità di attrarre risorse esterne, nazionali ed internazionali, quale quella di
cui si sono avvantaggiati altri paesi dell’Area dell’Euro, contribuendo a dare
concretezza alla già evocata possibilità per il Mezzogiorno di proporsi quale
“frontiera” in una rinnovata strategia di sviluppo del Paese.
L’ultima manovra governativa (decreto legge 78/2010) prevede una
forma di fiscalità di vantaggio per le Regioni del Mezzogiorno, che con propria
legge possono, in relazione all'imposta regionale sulle attività produttive
(IRAP) modificare le aliquote, fino ad azzerarle, e disporre esenzioni, detrazioni
e deduzioni nei riguardi delle nuove iniziative produttive. In realtà, é difficile
pensare che le Regioni del Mezzogiorno, tanto più dopo i tagli previsti dalla
manovra stessa (e, per alcune di esse, con l’obbligo di far ricorso alla leva
fiscale per coprire i disavanzi sanitari) abbiano risorse per avviare una
concorrenza fiscale nei confronti delle altre aree per attirare nuove iniziative.
1
Cfr. ISAE, Rapporto ISAE. Politiche pubbliche e redistribuzione, Roma, ottobre 2009; per una
valutazione sull’efficacia dei crediti di imposta, si vedano anche: Ministero dello Sviluppo
Economico, La valutazione del credito d’imposta: i risultati di un’indagine presso gli
imprenditori, Roma, 2005, R. Bruschi, Il credito di imposta per gli investimenti nelle aree
svantaggiate: appunti su questioni aperte e prospettive finanziarie, in “Rivista giuridica del
Mezzogiorno”, trimestrale della SVIMEZ, n. 4, 2009.
15
Non sembra inoltre che, nella situazione di arretratezza, carenza di
infrastrutture, degrado istituzionale, esposizione alla malavita organizzata in cui
molte zone delle regioni interessate si trovano, sia sufficiente abolire l’IRAP
per compensare i maggiori costi che un investitore sostiene aprendo un’attività.
Rimane, quindi, questo il punctum dolens della politica di riequilibrio. Perché è
del tutto evidente che una “vera” fiscalità di vantaggio (che non può che essere
alimentata da risorse nazionali), fungerebbe da volano anche per le altre misure
di correzione del ritardo.
3. L’IMPATTO SOCIALE DELLA CRISI
I dati più recenti, che tengono conto degli effetti pesanti sul già
disastrato mercato del lavoro meridionale, danno conto da un lato di una
progressiva e crescente penalizzazione dei giovani ad elevata scolarizzazione e
dall’altro anche di una interruzione del processo di crescita della
scolarizzazione, soprattutto universitaria. Emerge, dunque, in tutto il Paese, ma
con una particolare accentuazione nel Mezzogiorno, l’esistenza di una vera e
propria questione giovanile che si manifesta, a diversi stadi e livelli di intensità,
in una riduzione delle iscrizioni all’Università, in una crescita del precariato
(prima della crisi) e dell’inoccupazione giovanile (con la crisi dell’ultimo
biennio).
3.1. I giovani, le vittime silenziose
La crisi occupazionale ha colpito prevalentemente soggetti giovani, con
lavori temporanei e sostanzialmente privi di tutele o in fase di entrata sul
mercato del lavoro. Tali criticità, rilevabili per l’intero Paese, mostrano un
particolare rilievo nel Mezzogiorno, dove la concentrazione dei costi della crisi
sulle categorie più deboli determina effetti sociali di particolare gravità.
Più della metà delle persone che hanno perso il lavoro nel 2009 (194
mila unità di cui 145 mila uomini e 49 mila donne) era impiegata al Sud, dove
invece si concentra circa un quarto dell’occupazione italiana. Tutto il calo
dell’occupazione italiana è inoltre concentrato nelle fasce di età giovanile,
mentre appare ancora in modesta crescita nella classe di età 35anni e oltre. Il
crollo dell’occupazione più giovane è particolarmente forte al Sud dove gli
16
occupati dai 15 ai 34 anni sono diminuiti di ben 175 mila unità (-9%, a fronte
del -6% al Centro-Nord ).
La crisi al Sud non ha fatto altro che aggravare una tendenza già in atto
negli ultimi anni, caratterizzata da un numero sempre minore di ragazzi che
riesce ad accedere al mercato del lavoro regolare: tra il 2004 e il 2009 gli
occupati con meno di 35 anni si sono ridotti del 15%, a fronte di un incremento
delle fasce di età più avanzate.
Il confronto con i dati degli altri paesi e regioni europee conferma la
peculiare situazione dei giovani italiani, in particolare dei residenti nelle regioni
meridionali. Con riferimento alla classe d’età da 15 a 24 anni, emerge al 2008
un divario tra Italia ed Ue a 27 nel tasso di occupazione di 13 punti percentuali
(24,4 contro 37,5%). Il divario sale a oltre 20 punti se si considera il
Mezzogiorno (17,0%). Scendendo a livello di regioni, Campania, Basilicata,
Sicilia e Calabria si collocano tra le ultime 10 nel ranking dei tassi di
occupazione giovanile con valori inferiori al 16%. Su livelli inferiori a Sicilia e
Calabria vi sono soltanto tre isole francesi dei domini d’oltremare.
Il dato più evidente, emerso nel corso dell’ultimo anno, rivela che i costi
più elevati della crisi si scaricano soprattutto sulle generazioni che ancora
devono trovare un lavoro. Una dinamica che ritarda ulteriormente il processo di
crescita individuale dei giovani italiani e meridionali in particolare,
procrastinandone ulteriormente oltre all’accesso al lavoro anche le decisioni
individuali e sociali.
La crisi, dunque, determina una rarefazione delle nuove opportunità di
lavoro, mentre fattori inerziali ed ammortizzatori sociali limitano i danni per le
occupazioni preesistenti: il dato nazionale vede un calo dello 0,3% di coloro
che risultavano già occupati lo scorso anno e un calo del 17% del numero di
coloro che risultano neo-occupati (cioè che risultavano senza una occupazione
nel 2008): -16% al Sud e -18% al Centro-Nord. In numero assoluto, i
“neoccupati” sono scesi in Italia da 1,8 milioni a circa 1,5 milioni. Tra le nuove
occupazioni, particolarmente accentuati risultano i cali dei contratti a tempo
indeterminato nelle fasce di età giovanile (-25% e -27% rispettivamente per il
Mezzogiorno ed il Centro-Nord nella classe 15-34 anni). Complessivamente si
è passati al Sud da un flusso di neo-occupati di 15-34 anni nel 2008, già anno di
crisi, di 450 mila unità ad un flusso nel 2009 di poco superiore alle 350 mila
unità; altrettanto forte è stata la riduzione di coloro che hanno trovato lavoro nel
2009 rilevabile nel Centro-Nord (dei -194 mila complessivi, circa 150 mila
nelle classi di età inferiori ai 35 anni), a dimostrazione che anche nelle regioni
più sviluppate il sistema economico e sociale è riuscito in parte ad arginare gli
17
effetti della crisi sui già occupati, scaricando però tali effetti sulle possibilità di
accesso dei giovani al mercato del lavoro.
Questi andamenti hanno effetti economici e sociali particolarmente
negativi in quanto aumentano la dipendenza dei giovani dalle famiglie,
riducono la crescita demografica e la mobilità sociale, aumentano i fenomeni di
marginalizzazione e di povertà.
Indicazioni in chiaroscuro provengono anche dal mondo dell’istruzione.
Nel corso dell’ultimo quindicennio è avvenuta una vera e propria rivoluzione
nel Mezzogiorno. Una rivoluzione che ha avuto al centro il mondo della scuola.
Almeno con riferimento all’istruzione primaria e secondaria, il divario tra Nord
e Sud è stato colmato. Ed oggi, contrariamente a quanto avveniva ad inizio anni
‘90, la percentuale di ragazzi del Sud che ha conseguito il diploma è addirittura
superiore a quella del Nord. Nel 2009, 77 diciannovenni meridionali su 100
erano diplomati, contro i 72 del Nord. Contemporaneamente nella scuola
secondaria superiore il problema degli abbandoni mantiene ancora una certa
importanza. In particolare, non sembra che al Sud si siano raggiunti risultati
tangibili nelle periferie delle grandi aree urbane, a conferma della profonda
correlazione tra tale fenomeno e la presenza di situazioni di degrado economico
e sociale. Il Mezzogiorno presenta tuttora tassi di abbandono assai più elevati:
nei primi due anni di scuola secondaria superiore abbandonano quasi 2 studenti
(17%) su 10, il doppio del valore rilevabile al Centro-Nord (11,5%).
Segnali contrastanti provengono anche dall’istruzione terziaria. La
partecipazione all’istruzione universitaria è aumentata: il tasso di iscrizione, è
salito da circa il 33% del 2001 a quasi il 40% nel 2008, con il Mezzogiorno su
livelli più elevati del Centro-Nord (43,3% contro 36,5%). Dal 2003, tuttavia, il
trend crescente pare essersi fermato.
Il tasso di passaggio all’Università – cioè il rapporto tra immatricolati e
maturi nell’anno precedente, che dal 2000 al 2004 era aumentato di 10 punti
percentuali sia al Centro-Nord che al Mezzogiorno, raggiungendo
rispettivamente il 73,4% e il 72,2% – è tornato nel 2008-2009 ai livelli di inizio
anni duemila (62,4% nel Sud e 63,4% nel Centro-Nord).
Incremento degli abbandoni e declino dei tassi di passaggio
all’Università sembrano sottendere un mutamento del rapporto tra l’istruzione,
ed in particolare quella universitaria, e il sistema economico. Mentre fino a un
recente passato la convinzione della spendibilità di un titolo di studio terziario
sul mercato del lavoro, e la legittima aspettativa di retribuzioni di gran lunga
migliori per i laureati, avevano favorito l’espansione dei livelli di
partecipazione, nella fase di difficoltà degli ultimi anni sembrano emergere
segnali di un certo scoraggiamento fra le coorti più giovani a investire
18
nell’istruzione avanzata. La consapevolezza di un’effettiva disuguaglianza delle
opportunità, come testimoniato dalla elevata correlazione tra il titolo di studio
dei genitori e quello dei figli, con forti ricadute anche sulla possibilità di trovare
una occupazione, contribuisce a “ingessare” il sistema economico e sociale
meridionale.
La progressiva emarginazione dei giovani dai processi formativi e
produttivi emerge dalla crescente diffusione dei giovani (15-29 anni) Neet (Not
in education, employment or training) che nel 2009 hanno superato i 2 milioni,
con un aumento di 126 mila unità pari al 6,6% rispetto all’anno precedente. Il
fenomeno Neet è particolarmente diffuso nel Mezzogiorno. In quest’area, con
poco più del 40% della popolazione di riferimento, si concentra circa il 60% dei
Neet: nel 2009 sono 1,2 milioni, 368 mila in più dello scorso anno . Essi
rappresentano il 30% della popolazione tra i 15 ed i 29 anni a fronte del 15%
del Centro-Nord. Con una componente femminile più accentuata: una ragazza
di 15-29 anni su tre che risiede nel Mezzogiorno non ha svolto nel 2009 né
attività di studio, né di formazione, né di lavoro.
Anche i giovani che hanno intrapreso la via delle “nuove” emigrazioni
non sono indenni dagli effetti della crisi. Ciò che non è riuscito a fare lo
sviluppo – far tornare i giovani meridionali offrendo loro opportunità di lavoro
– rischia di farlo a suo modo la crisi: è cominciato nel 2009 un piccolo e lento
flusso di rientro di emigrati e pendolari di lungo raggio espulsi dal mercato del
lavoro del Centro-Nord. Una forma di rientro, dunque, molto lontana da quella
auspicata, connessa al vantaggio di usufruire di un sostegno delle famiglie di
origine, nel momento in cui viene meno il reddito da lavoro rendendo
insostenibile il costo della vita nelle città centro-settentrionali. È un rientro,
tuttavia, che si esaurisce nell’attesa di una “ripartenza”, di nuove occasioni di
impiego che, verosimilmente, saranno ancora soprattutto al Nord.
La flessione, in effetti, ha riguardato soprattutto i pendolari di lungo
raggio (cioè coloro che pur risiedendo nel Sud svolgono un’attività lavorativa
nel Centro-Nord), perché connessa alla precarietà del lavoro che li caratterizza e
che, come si è visto, è significativamente più esposta alla congiuntura. Nel 2009
i trasferimenti di residenza dal Sud al Nord sono stati 114 mila (8 mila in meno
rispetto al 2008), mentre lo stock di “emigranti precari” (pendolari di lungo
raggio) è sceso a 147 mila unità (-15% rispetto al 2008, quando era di 173 mila
unità).
Il fenomeno, dunque, persiste in tutta la sua dimensione e rilevanza. Non
solo, ma l’effetto più significativo della crisi è stato una ridefinizione della
struttura interna alla “nuova” emigrazione, con l’aumento relativo della
componente più qualificata: tra i pendolari, l’incidenza dei laureati è aumentata
19
di due punti rispetto al 2008 (raggiungendo, in valore assoluto, le oltre 40 mila
unità); ad essi, si aggiungono circa altri 18 mila laureati meridionali che ogni
anno spostano la residenza al Centro-Nord (il 93%) o all’estero (7%).
È particolarmente preoccupante, non solo la sempre più consolidata
perdita di capitale umano prezioso per il Sud, ma, sul piano individuale, il fatto
che a fronte di una crescita della “qualità” dell’emigrazione nel 2009 si sia
ridotta significativamente la “qualità” delle occupazioni svolte: gli occupati con
alta qualificazione sono infatti calati, nel solo 2009, di circa l’8% (sia pur meno
delle altre componenti).
3.2. L’inoccupazione e la povertà: i limiti del welfare italiano
Questa fase di crisi ha fatto emergere con ancora maggiore evidenza
l’asimmetria tra soggetti colpiti e sistema di tutele. I più esposti sono risultati
coloro che devono ancora entrare sul mercato del lavoro e i lavoratori con
contratto precario e a termine (che sono i primi a subire i ridimensionamenti
degli organici); categorie per le quali non esiste un sistema universale di tutela
dei redditi e che dunque risultano molto più esposte al rischio povertà. Tale
polarizzazione del mercato del lavoro assume nel nostro Paese anche una
connotazione territoriale per effetto della concentrazione nelle regioni
meridionali di inoccupazione, irregolarità e precarietà.
In primo luogo, il sistema di ammortizzatori sociali, incentrato sulla
Cassa integrazione guadagni, appare una coperta ancora troppo corta nel
Mezzogiorno. Ciò risulta evidente confrontando i dati sulla CIG con quelli
sull’occupazione.
A fronte dunque di 186 mila posti di lavoro persi, al Nord vi sono stati
nell’anno circa 438 mila unità di lavoro virtuali in Cassa integrazione; mentre al
Sud la CIG ha riguardato appena 96 mila unità virtuali a fronte di una perdita di
occupazione allarmante, di circa 200 mila occupati. In altre parole, mentre al
Nord per ogni persona che ha perso il lavoro ve ne sono altre due protette dal
sistema di ammortizzatori sociali, nel Sud invece il rapporto è inverso: solo un
lavoratore su tre gode delle tutele offerte dall’attuale sistema improntato sulla
Cassa integrazione.
Una crisi sul fronte del lavoro che, insomma, nel Mezzogiorno, solo in
minima parte si riflette sui dati relativi alla crescita della CIG. Ciò vuol dire che
molti lavoratori precari e a termine si sono trovati improvvisamente senza
lavoro e senza reddito, privi della copertura del sistema di ammortizzatori
sociali. Si pone con ancora maggiore forza l’esigenza di una riforma in grado
di potenziare l’offerta di aiuti economici e di servizi diretti ai lavorati espulsi
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dal ciclo produttivo, tramite ammortizzatori sociali rivolti ai singoli individui
indipendentemente dal settore, dalla dimensione e dalla tipologia delle imprese.
Si tratterebbe di interventi che (proprio perché diretti alla persona e non alle
imprese) permetterebbero di intervenire sull’intero mercato del lavoro, in
maniera assai più equa di quanto non faccia l’attuale sistema, anche dal punto di
vista territoriale.
L’Italia si distingue per i ritardi e le incoerenze nel percorso di riforma
del Welfare, che ha coinvolto molti paesi dell’Europa occidentale dagli anni ’90
in poi. In particolare, per quanto riguarda i ritardi in materia di lotta alla povertà
estrema, l’Italia è tuttora uno dei pochi paesi europei a non avere misure
universali di integrazione dei redditi per garantire uno standard di vita
essenziale. I principali ammortizzatori sociali riescono a raggiungere una
copertura parziale dei fabbisogni e sono essenzialmente orientati ai lavoratori
dipendenti a tempo indeterminato.
Il bonus per le famiglie, che costituisce l’unico esempio di strumento
calibrato sulle necessità familiari tramite una scala di equivalenza e di impianto
universale, è di importo troppo limitato per incidere significativamente sulle
condizioni di vita. Se aumentato nell’importo e armonizzato all’imposta
personale sui redditi (ovviamente come imposta negativa, a beneficio del
contribuente), potrebbe costituire una prima applicazione, limitata ai redditi più
bassi, di tassazione familiare dei redditi da più parti sollecitata.
L’insufficienza del modello di Welfare italiano, il suo riassetto parziale
ed incompleto e l’elevato grado di evasione e di elusione fiscale concorrono a
determinare, soprattutto nelle fasi di crisi, profondi squilibri nella distribuzione
della ricchezza e nelle condizioni di vita fra le diverse aree del Paese e fra le
generazioni.
Nel Mezzogiorno, la diversità delle strutture familiari e i minori tassi di
occupazione rendono più preoccupante, rispetto al Centro-Nord, il problema
della disuguaglianza “interna”, cioè fra famiglie meridionali.
Le analisi del Rapporto, sui dati di un’indagine sui redditi del 2007 e le
condizioni di vita del 2008, rivelano il persistere di importanti differenze fra le
due macroaree del Paese. Dalla distribuzione delle famiglie per classi di reddito
monetario emerge che le famiglie con entrate mensili superiori ai 3 mila euro
sono circa il 42% nel Centro-Nord e meno di un quarto (24,5%) nel
Mezzogiorno. Per contro, il 27,7% delle famiglie meridionali appartiene alla
fascia di redditi medio-bassi, fra i 500 e i 1.500 euro al mese a fronte del 16,1%
del Centro-Nord. Il 14% delle famiglie del Mezzogiorno vive con meno di
1.000 euro al mese mentre nel Centro-Nord questa condizione riguarda soltanto
21
il 5,5%. Il confronto è particolarmente sfavorevole per le famiglie che
comprendono bambini, giovani e altre persone non ancora anziane.
La diversa vulnerabilità economica delle famiglie meridionali è
strettamente connessa al basso tasso di occupazione. La percentuale di famiglie
il cui breadwinner (cioè, il principale percettore di reddito) deve mantenere due
o più persone è più che doppia (30,5% rispetto al 14,6% del Centro-Nord). Il
rapporto col mercato del lavoro delle famiglie meridionali è complessivamente
più fragile rispetto al Centro-Nord: nel 22,1% delle famiglie del Mezzogiorno il
principale percettore non è attualmente occupato e non è neanche un ritirato dal
lavoro, contro il 10,2% del resto del Paese. Nel 14,5% delle famiglie
meridionali è presente almeno un disoccupato (contro il 6,2% di quelle del
Centro-Nord).
La disparità dei redditi primari è generalmente il fattore che determina
gran parte della disuguaglianza nei redditi e nelle condizioni di vita. In presenza
di un forte squilibrio nella distribuzione primaria, la redistribuzione operata dal
sistema di tasse e benefici non riesce a compensare le disparità in misura
sufficiente, sia per mancanza di risorse finanziarie, sia per i ritardi e le
incoerenze delle politiche sociali.
In base alla nozione di povertà relativa dell’Unione europea, quasi un
terzo (32,7%) degli individui residenti nel Mezzogiorno contro l’11,1% di
quelli del Centro-Nord sono a rischio di povertà a causa di un reddito troppo
basso. Su un totale di 11 milioni e 152 mila persone a rischio di povertà in Italia
(18,7% degli individui), 6 milioni e 838 mila risiedono nel Mezzogiorno.
La problematicità della situazione meridionale è confermata dagli
indicatori non monetari. Nel Mezzogiorno la deprivazione oggettiva raggiunge
livelli preoccupanti sia in termini assoluti che relativamente al resto del Paese.
Circa il 30% delle famiglie meridionali in almeno un’occasione nel corso dei
dodici mesi precedenti non ha avuto soldi per comprare i vestiti necessari, il
20,6% per le spese mediche, l’8,3% per gli alimentari e il 21,7% per il
riscaldamento. Si tratta di valori significativamente superiori a quelli registrati
nel Centro-Nord. Gli indicatori soggettivi relativi al Mezzogiorno segnalano
una diffusa preoccupazione per la gestione ordinaria dei bilanci familiari: il
25,9% delle famiglie meridionali arriva con difficoltà o molta difficoltà alla fine
del mese e, nel 44,0% dei casi, ritiene di non poter affrontare una spesa
imprevista di 750 euro con le proprie risorse.
L’analisi delle strutture familiari può dunque fornire qualche elemento
di valutazione anche dei possibili effetti della crisi occupazionale sulla
disuguaglianza e sui rischi di povertà. L’insieme degli effetti di impatto implica
un aumento del rapporto fra il numero medio di familiari a carico e percettori di
22
reddito per una parte rilevante delle famiglie e tende pertanto ad aggravare sia i
rischi di povertà, sia la disuguaglianza ‘interna’ a ciascuna delle due macroaree
(e, potenzialmente, anche la disuguaglianza fra Mezzogiorno e Centro-Nord, se
l’aggravio dei carichi familiari si manifesta in misura relativamente maggiore
per le famiglie meridionali). D’altra parte, i breadwinner delle famiglie
meridionali hanno già, relativamente a quelli del Centro-Nord, una più alta
probabilità strutturale di dover sopportare maggiori carichi familiari, dati i
bassi tassi di occupazione femminili e giovanili (e per di più con redditi
generalmente inferiori) e si trovano, per così dire, più vicini alle soglie del
rischio di povertà.
Nelle due le aree, comunque, la crisi ha fatto aumentare, nel caso di figli
che abbiano perso il lavoro, o peggiorare, nel caso di figli che abbiano ritardato
l’ingresso nel mercato del lavoro, il peso economico delle responsabilità
familiari dei breadwinner. Senza un recupero sostenuto dei tassi di attività
femminili e giovanili, soprattutto nel Mezzogiorno, i rischi di povertà sembrano
inevitabilmente destinati a crescere nel tempo.
4. LE POLITICHE E I FONDI STRUTTURALI: LA NECESSITÀ DI VISIONE
STRATEGICA E DI COORDINAMENTO
4.1. La spesa pubblica al Sud: superare i luoghi comuni
L’assenza di risultati soddisfacenti in termini di crescita e di
convergenza del Mezzogiorno ha cause complesse che rimandano in larga parte
al generale prolungato ristagno dell’economia nazionale rispetto al resto
d’Europa. Tuttavia, a frenare il processo di sviluppo concorrono problemi di
dimensione nazionale, che assumono per il Sud gravità del tutto particolare, tra
cui: l’impiego improprio di spesa pubblica ordinaria, il deficit di qualità ed
efficienza delle Pubbliche Amministrazioni, la presenza della criminalità
organizzata, il difficile avanzamento della liberalizzazione dei mercati.
Ma al peggior andamento del Mezzogiorno ha concorso anche una
ridotta efficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria,
che trova spiegazione, in primo luogo, in una dimensione della spesa pubblica
in conto capitale complessiva destinata al Mezzogiorno assai inferiore a quanto
programmato. Più precisamente, il dato definitivo per il 2008 dell’indicatore
anticipatore della spesa in conto capitale, elaborato dal Dipartimento per lo
23
Sviluppo e la Coesione Economica, conferma la localizzazione nel
Mezzogiorno di una quota pari al 34,8% del totale nazionale, in progressivo
declino dopo il valore massimo registrato nel 2001 quando essa fu pari al 41,1%
della spesa in conto capitale del Paese. Si tratta di un valore non solo ben
lontano dal 45% del totale nazionale originariamente fissato in fase di
programmazione, ma che, come accade ormai da qualche anno, non eguaglia
neppure il “peso naturale” del Mezzogiorno, che può valutarsi nel 38% circa,
media tra la sua quota di popolazione (35%) e la quota del suo territorio
(40,8%). I dati relativi alla spesa nel Mezzogiorno servono a smentire l’idea,
purtroppo assai diffusa anche nella pubblicistica, di un Sud inondato da un
fiume di pubbliche risorse; ma sta anche ad indicare come la spesa in conto
capitale aggiuntiva (comunitaria e nazionale) in tale area sia valsa negli ultimi
anni solo a compensare il deficit della spesa ordinaria.
La quota di spesa ordinaria destinata alla formazione di capitale nel
Mezzogiorno, infatti, è stata pari nel 2007 ad appena il 21,4% del totale
nazionale, inferiore di circa 16 punti al citato peso naturale dell’area, e di quasi
9 punti rispetto all’obiettivo del 30%, a tal titolo indicato nei documenti
governativi.
È paradossale che il divario crescente registrato tra enunciazioni
programmatiche e realtà attuative, invece di determinare un impegno più forte a
rispettare gli obiettivi, abbia portato alla cancellazione, nel silenzio diffuso della
politica e degli osservatori economici, di tali obiettivi quantitativi negli ultimi
due DPEF.
4.2. Limiti e fallimenti della politica di coesione
A deprimere l’efficacia della complessiva politica regionale, nazionale e
comunitaria, ha concorso anche la scarsa qualità degli interventi. Le carenze di
fondo, come la SVIMEZ ha più volte segnalato e, da ultimo, anche
nell’Audizione presso la Camera dei Deputati del febbraio scorso, sono state: la
dispersione delle risorse aggiuntive da finalizzare all’accelerazione dello
sviluppo sul territorio in una eccessiva molteplicità di interventi, rispondenti
troppo spesso a domande localistiche; le lentezze e gli scoordinamenti nella
concezione, progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi
spesso nella formazione di residui.
Il Rapporto conclusivo di valutazione della Commissione europea ha
altresì posto in evidenza gli effetti limitati dei contributi agli investimenti,
caratterizzati da un ampio “dead-weight”, ossia l’utilizzo degli incentivi per
iniziative che sarebbero state realizzate in ogni caso, e la mancanza di indirizzi
24
chiari di politica industriale a fronte di processi di globalizzazione che hanno
penalizzato in maggiore misura le regioni più arretrate; proprio quelle per cui ci
sarebbe stato bisogno di definire e perseguire specifiche politiche di
accompagnamento e sostegno alle modificazioni della struttura produttiva.
L’analisi condotta nel Rapporto sugli “indicatori di contesto chiave”,
identificati dal QCS 2000-2006, evidenzia che gli interventi realizzati non
hanno modificato sensibilmente le condizioni competitive del territorio. Dei
valori target individuati ad inizio Programmazione, ben il 70% sono rimasti al
di sotto delle previsioni nell’ipotesi con esternalità “alta”, e il 58% non hanno
raggiunto l’obiettivo nell’ipotesi “bassa”. Anche le variabili di rottura del
modello tradizionale di dipendenza del Mezzogiorno presentano un profilo
sostanzialmente piatto, tra il 2000 e il 2008, e perfettamente sovrapponibile a
quello delle regioni italiane non destinatarie di specifiche risorse pubbliche con
finalità di riequilibrio strutturale.
La riflessione sulle criticità identificate con riferimento al ciclo di
programmazione 2000-2006 rappresenta, purtroppo, ancora oggi un tema di
attualità; l’impostazione del nuovo “Quadro Strategico Nazionale” 2007 -2013
si è mossa, infatti, all’interno di una sostanziale continuità con il precedente
periodo di programmazione. Appare ancora assente una regia complessiva del
processo di attuazione nella direzione del perseguimento degli obiettivi
enunciati, che conferma l’esistenza di un disegno “debole” e il rischio di una
riproposizione dell’esperienza negativa del ciclo di programmazione 2000-
2006.
Riguardo all’avanzamento degli interventi, si confermano le difficoltà
attuative. A tre anni e mezzo dall’approvazione dei Programmi, il livello di
attuazione complessivo al febbraio 2010 per l’Obiettivo Convergenza si attesta,
in relazione agli impegni e ai pagamenti, rispettivamente, ad appena il 14,6% e
il 6,2% del contributo assegnato. Basso è l’avanzamento dei Programmi
Regionali, che si ferma, in relazione al contributo, al 10%, per gli impegni, e al
3,8%, per i pagamenti. Performances leggermente migliori riguardano i
Programmi Nazionali, che in relazione al contributo assegnato, fanno registrare
il 20% per gli impegni, e il 7,7% per i pagamenti. Ma i maggiori ritardi si
sperimentano per i due Programmi Operativi Interregionali: il POI “Energie
rinnovabili e risparmio energetico”, che presenta un livello di impegni e di
pagamenti pari al 6% del contributo assegnato, ed in particolare il POI
“Attrattori culturali, naturali e turismo”, che non registra né impegni, né spesa.
Alla luce delle valutazioni critiche riguardanti il passato ciclo di
programmazione, attualmente la principale preoccupazione riguarda non tanto e
non solo il raggiungimento dei target di spesa che si richiede per evitare di
25
restituire parte delle risorse comunitarie, ma la necessità di un’immediata
ridefinizione e concentrazione delle priorità di intervento, nonché la
riqualificazione delle procedure e dei meccanismi di progettazione e di
attuazione degli interventi.
Tale processo di revisione può avvenire anche all’interno del quadro
programmatico esistente, sufficientemente ampio e flessibile da consentire di
concentrare risorse ed obiettivi, senza avviare processi di negoziazione lunghi e
laboriosi con la Commissione europea e non può che riguardare il complesso
dei programmi e delle risorse destinate alle politiche regionali, comunitarie e
nazionali, inclusa la quota di “risorse rinvenienti o liberate” a seguito della
certificazione dei progetti coerenti, queste ultime, vale la pena ricordare,
rappresentano circa 1/3 delle risorse programmate nel ciclo 2000-2006.
4.3. Il FAS e il depotenziamento della “politica regionale unitaria”
Il Quadro Strategico Nazionale (QSN) 2007-2013, delineato con la
Finanziaria 2007, voleva rappresentare una sede privilegiata della
programmazione unitaria, in grado di ridurre l’eccessiva articolazione tra
diversi strumenti finanziari (a livello comunitario, nazionale e regionale), che
si riteneva avesse limitato la piena attuazione degli obiettivi strategici nella
programmazione 2000-2006.
Il Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS) inserito nel “quadro unitario”
doveva avere un ruolo “chiave” di strumento generale della politica regionale
nazionale. È stato infatti istituito nell’intento di assicurare “finanza di lungo
termine” alla programmazione unitaria e continuità agli interventi mediante
risorse aggiuntive nazionali con un profilo pluriennale di spesa in grado di
coprire l’intero ciclo di programmazione delle risorse. Con la costruzione del
Quadro Strategico Nazionale si puntava ad un impiego efficiente delle risorse
secondo un metodo unitario, coordinato e coerente, in base a parametri di
qualità propri delle politiche di coesione in ambito comunitario, in un contesto
di piena cooperazione istituzionale tra Stato e Regioni.
Il FAS, secondo quanto stabilito dalla legge istitutiva, avrebbe dovuto
essere ripartito esclusivamente con apposite delibere CIPE per investimenti
pubblici e per incentivi con finalità di riequilibrio economico e sociale, sulla
base del criterio generale di destinazione territoriale delle risorse. Nel corso del
2008, del 2009, e della prima parte del 2010, invece, il legislatore, anticipando
l’opera di ripartizione del CIPE, è intervenuto con rilevanti utilizzi della
dotazione FAS per impieghi sovente senza rapporti con le finalità proprie del
26
Fondo, che erano e che avrebbero dovuto restare finalità – meridionaliste – di
“sviluppo” territoriale, verso la “coesione” nazionale.
Il volume delle risorse FAS che è stato così mobilitato, prima per il
finanziamento di interventi di carattere emergenziale (rifiuti in Campania,
risanamento dei bilanci dei Comuni di Roma e Catania, ed altro) e
successivamente per misure anticrisi, è stato oggettivamente ingente. I tagli e le
preallocazioni operate sono stati pari a circa 19 miliardi di euro (risultanti per
13,7 miliardi dai tagli indicati nella delibera CIPE n. 112/2008, e per i restanti
5,3 miliardi da preallocazioni previste da leggi successive). A ciò si sono però
aggiunti numerosi interventi che hanno finito per dirottare risorse del FAS
verso indirizzi dispersivi rispetto alla sua missione originaria.
Come illustrato nel Rapporto, in considerazione della crisi economica,
la legge 2/2009 ha previsto la riprogrammazione e la concentrazione delle
risorse nazionali disponibili destinate allo sviluppo delle aree sottoutilizzate su
obiettivi prioritari per il rilancio dell’economia italiana. L’intera quota
nazionale del FAS 2007-2013 è stata collocata in tre fondi, il primo destinato a
opere infrastrutturali (e quindi coerente con la mission originaria), e gli altri due
a politiche prevalentemente anticongiunturali: uno è stato utilizzato per il
finanziamento degli ammortizzatori, e l’altro – accentrato presso la Presidenza
del Consiglio – per far fronte in primo luogo all’emergenza in Abruzzo.
L’illusione che la crisi potesse colpire meno l’economia meridionale, poi
smentita dai fatti, ha alimentato la colpevole illusione di un Mezzogiorno
“protetto”, e quindi ha finito per giustificare arretramenti sul terreno delle
politiche di sviluppo.
La quota delle risorse nazionali del FAS complessivamente dirottata
verso altri indirizzi, secondo stime del CNEL, raggiunge circa 26 miliardi.
Questo ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi
previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul
“Quadro Strategico Nazionale 2007-2013”, indebolendone significativamente la
componente nazionale. Il QSN prevedeva, infatti, come richiamato, una
programmazione coordinata e contestuale dei fondi nazionali ed europei
destinati alle politiche regionali, e costituiva pertanto la sede unitaria per il
finanziamento delle priorità individuate a seguito di un lungo negoziato tra
Amministrazioni regionali, centrali e comunitarie. L’«unità delle regole e degli
obiettivi» del QSN era funzionale all’esigenza di rendere massima la capacità di
intervento e l’efficacia dell’impatto: la riduzione delle risorse compromette
l’impianto unitario; se definitiva, determina l’abbandono dei programmi per i
quali “l’integrazione” delle fonti finanziarie è essenziale; se seguita da un
27
parziale o integrale ripristino determina rallentamenti e rinvii con conseguenza
sugli effetti e sull’obsolescenza, economica e tecnica, degli interventi.
Le ultime indicazioni di politica economica del Governo sembrano
proseguire nell’indebolimento dell’aggiuntività delle risorse. Anche nella
manovra 2011, con il decreto legge 78/2010, tuttora all’esame del Parlamento,
ancora una volta si interviene con una severa decurtazione delle risorse del
FAS essenzialmente in funzione di “stabilizzazione finanziaria” dei conti
pubblici: a copertura delle maggiori spese del provvedimento, si registra un
taglio della Missione “Sviluppo e riequilibrio territoriale” del Ministero dello
Sviluppo Economico per circa 2,4 miliardi di euro con effetti diretti sulla quota
FAS assegnata alle Amministrazioni centrali.
Nonostante l’urgenza della crisi abbia guidato la scelta di finanziare, con
i fondi destinati alle politiche di coesione, politiche generali che hanno
obiettivi riferiti a tutto il Paese (ma con ricadute ben diverse a seconda del
contesto territoriale), il persistente e più acuto divario tra Nord e Sud impone
un tempestivo ripristino dei fondi nazionali destinati alle politiche di sviluppo
anche per garantire una piena attuazione dei programmi comunitari nei tempi
previsti, concentrando le risorse su finalità infrastrutturali e di sviluppo di
lungo periodo.
4.4. Necessità di visione strategica, mutamenti istituzionali e riforma delle
politiche post 2013
La mancanza di strategicità non deriva, dunque, solo da fattori “interni”
alla programmazione degli interventi (come la frammentarietà), ma emerge
dalla crisi stessa dell’impianto complessivo del QSN. I caratteri di unitarietà
delle opzioni strategiche tra componente nazionale e comunitaria della politica
regionale, e di addizionalità finanziaria e strategica della politica regionale
rispetto alla componente ordinaria, sono stati fortemente incrinati dalle
decisioni intervenute, come visto, dal 2008.
Il recupero di strategicità della politica regionale, da un lato, passa per
una “revisione” – tecnicamente possibile – del quadro di programmazione che
concentri gli interventi su poche priorità strategiche tenendo conto del mutato
scenario economico e delle accresciute esigenze “cooperative” tra i diversi
livelli di governo; dall’altro, significa garantire la “certezza” e la “congruità”
delle risorse e la “tempestività” nelle erogazioni.
Questa rinnovata visione strategica delle politiche di sviluppo per le aree
deboli, tuttavia, sarà difficile da perseguire senza un mutamento
“istituzionale”, in cui l’interesse complessivo della macroarea possa trovare
28
alta espressione e modalità di relazione e confronto più proficue ed efficaci
con l’azione del Governo nazionale.
Per la SVIMEZ, il luogo di una rinnovata programmazione degli
interventi strategici per il Mezzogiorno non può che essere una “Conferenza
delle Regioni meridionali”, in costante rapporto con la Presidenza del
Consiglio che, come si vedrà, riacquista una centralità nelle politiche regionali
di sviluppo, su cui lo Stato mantiene competenza e responsabilità primarie, nel
rispetto di tutte le articolazioni istituzionali della Repubblica.
In sede congiunta – una sorta di “Consiglio per la coesione nazionale” –
Conferenza delle Regioni meridionali e Presidenza del Consiglio dovranno
assumere impegni vincolanti nella scelta di pochi grandi progetti strategici
prioritari, su cui “appostare” risorse nazionali e regionali, frutto del “riordino”
degli interventi e del “reintegro” dei fondi nazionali, certe e vincolate sino al
completamento del progetto. La Conferenza, poi, sarà il luogo di un
coordinamento istituzionale tra Regioni, per ovviare alle criticità emerse, al
fine di rendere coerenti gli interventi regionali con il disegno strategico di
politica di sviluppo per l’intera macroarea.
A questo luogo di coordinamento strategico è necessario affiancare una
struttura tecnica, un’Agenzia indipendente che, nell’ambito del QSN e della
normativa del quinto comma dell’art. 119 Cost., si occupi della progettazione
(su cui in tutti questi anni si sono registrate le maggiori deficienze) e sia di
supporto all’attuazione dei grandi interventi prioritari per il Mezzogiorno
definiti dalla Conferenza e dal Governo, frutto di una più ampia legittimazione
istituzionale e di un impegno politico assai più vincolante della semplice
“contrattazione bilaterale” tra Stato e singole Regioni, nella prospettiva del
perseguimento di un interesse nazionale e macroregionale.
L’Agenzia, in virtù dell’elevato grado di competenze tecniche e di
indipendenza, dovrebbe consentire, oltre alla valutazione e selezione dei
progetti attuativi, il loro monitoraggio in itinere ed ex post, facendo venire
meno quel senso di autovalutazione che ha condizionato fortemente le
politiche di coesione.
L’intero sistema della politica regionale di sviluppo, in verità, necessita
di una precisa definizione di sedi e strumenti di valutazione e controllo degli
interventi, e della loro necessaria “terzietà” rispetto ai luoghi della
programmazione, mediante i quali un rinnovato impegno per la coesione del
Paese e dell’Europa possa risultare maggiormente “accettabile” e
“responsabile”. Ciò dovrebbe costituire uno dei principali obiettivi della
riforma delle politica europea di coesione per il post 2013.
29
Sulle prospettive della politica di coesione per gli anni successivi al
2013, la SVIMEZ ribadisce l’esigenza di mantenere e rafforzare nei prossimi
anni una politica di sviluppo europea per i territori e la forte critica ad un
approccio euroburocratico che si concentra più sulla correttezza delle
procedure che sulla valutazione degli obiettivi perseguiti.
In quest’ottica, appare condivisibile l’impianto del Rapporto
indipendente, promosso dal Commissario per le politiche regionali e redatto da
Fabrizio Barca, Agenda for a reformed cohesion policy, che punta alla
concentrazione ex ante delle risorse su alcune precise priorità strategiche.
Infine, sarà decisivo rafforzare il ruolo delle decisioni del Bilancio
europeo nell’indirizzare, monitorare e verificare gli obiettivi di sviluppo e
coesione, e gli strumenti (e le risorse) messi in opera dalle Autorità nazionali e
territoriali, a partire dal prima richiamato principio dell’addizionalità delle
risorse. È da ritenere che la responsabilità europea non possa esaurirsi
insomma sul piano della quantità di risorse. I fondi del Bilancio Ue non
possono essere visti come trasferimenti “globali” agli Stati, da destinare a
compensare situazioni di difficoltà dei cittadini o delle imprese di una certa
area geografica. Tantomeno possono essere visti come elemento di sostegno
temporaneo della domanda; redistribuzione e stabilizzazione non rientrano tra
gli obiettivi affidati o affidabili - secondo un corretto principio di sussidiarietà
- all’Unione. È invece obiettivo dichiarato nelle norme costitutive dell’Unione
quello dello sviluppo, e nella sua realizzazione l’Unione deve impegnarsi non
solo destinando risorse, ma anche “validando” le finalità, l’efficacia e le
priorità delle azioni proposte dallo Stato membro interessato.
Insomma, concludendo, per la SVIMEZ il nuovo modello di governance
della coesione implica il rafforzamento della capacità di indirizzo e di
controllo da parte dell’Europa. Ciò vuol dire prevedere ex ante la scelta delle
(poche) priorità da finanziare, la definizione di obiettivi quantitativi da
raggiungere per mantenere le risorse, un sistema di valutazione indipendente,
l’aumento della forza e cogenza dell’azione esterna, attraverso un
rafforzamento del ruolo della Commissione e del suo sistema di condizionalità.
Questo nuovo modello di governance dovrebbe prevedere un sistema di
indicatori di risultato che siano statisticamente adeguati: un piccolo gruppo di
core indicators che assicurino la comparabilità degli effetti delle politiche; e
poi indicatori di intervento che costringano gli attuatori a tenere la barra dritta
su poche cose, a dimostrare se ci sono progressi.
Sono strumenti e proposte che dovrebbero orientare anche il versante
nazionale delle politiche di sviluppo. Le proposte avanzate, infatti, mirano non
solo ad aumentare la coerenza degli interventi messi in atto da una pluralità di
30
livelli di governo, ma – attraverso un meccanismo più trasparente di
responsabilizzazione e semplificazione della filiera decisionale – anche la
stessa “sostenibilità” di un impegno aggiuntivo per il superamento dei divari.
5. POLITICHE GENERALI NAZIONALI, PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E
DIVARIO
5.1. La necessità di politiche generali nazionali differenziate
All’insoddisfacente andamento della spesa aggiuntiva per lo sviluppo
del Mezzogiorno si accompagna, come si è osservato, il suo carattere sostitutivo
di una debole spesa ordinaria. Sono sempre più condizionanti, a nostro avviso,
per innescare un processo di convergenza, i gravi effetti di un “disegno debole”
di politiche generali nazionali2 che, in campi assai rilevanti per lo sviluppo,
hanno costantemente mancato di adattare intensità e strumenti di intervento in
funzione dei divari intercorrenti tra la macroarea debole e quella forte del Paese.
Nel complesso intrico tra ciò che deve essere “ordinario” e ciò che deve
essere “aggiuntivo”, preoccupa l’emergere di una posizione che tende a dare
priorità all’offerta dei servizi pubblici quale contenuto della “politica regionale”
(aggiuntiva). Ora, settori come l’istruzione, la giustizia, la sicurezza sono
decisivi per la creazione di “condizioni ambientali” favorevoli allo sviluppo, ma
l’azione pubblica in questi settori non è certo mossa da finalità di promozione
dello sviluppo dei territori più arretrati, bensì destinata a tutto il territorio
nazionale. Non esitiamo a dire che questi comparti dell’azione pubblica
costituiscono un presupposto delle politiche regionali, ma non possono
sostituire gli elementi – legati all’obiettivo precipuo della crescita economica –
che caratterizzano queste ultime. Il nesso tra politica regionale ed effetti
territoriali delle politiche ordinarie nazionali è sempre più stringente; uno dei
limiti di fondo della Nuova Programmazione, del resto, è consistito proprio
nella sottovalutazione di questo vincolo “esterno”.
Già negli anni ‘80 Salvatore Cafiero, allora Direttore della SVIMEZ,
con lucidissima sintesi, esprimeva questo concetto cruciale: «se l’intervento
nell’area meridionale – ordinario o straordinario – resta, come è ovvio,
2
Nella distinzione proposta nelle analisi della Banca d’Italia, quelle che utilizzano la spesa in
conto capitale “ordinaria” e l’intera spesa corrente delle Amministrazioni Pubbliche, sia di
livello centrale che locale.
31
importante, non meno importante è la caratterizzazione meridionalistica che
occorrerebbe conferire anche alle politiche [nazionali] i cui obiettivi non sono
specificamente meridionalistici»3.
È un tema, quello della decisiva rilevanza delle politiche nazionali per lo
sviluppo del Mezzogiorno e per i risultati della politica regionale stessa, che la
Banca d’Italia ha di recente proposto con forza al centro della propria
riflessione sulle politiche pubbliche nel Mezzogiorno4, sottolineando altresì la
necessità, che la SVIMEZ condivide e rilancia, di svolgere politiche ordinarie
nazionali «di intensità differenziata a seconda della distribuzione territoriale dei
problemi da affrontare». È quanto ha affermato il Governatore Mario Draghi,
con una formula che non si presta a equivoci, nella sua Relazione di apertura
del Convegno del novembre scorso dedicato al Mezzogiorno: «ogni qualvolta si
disegni un intervento pubblico nell’economia o nella società, occorre avere ben
presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre ex
ante adeguati correttivi».
A nostro avviso, in definitiva, la politica regionale di sviluppo deve
aggiungersi alle politiche generali nazionali, volte a fornire i beni collettivi
essenziali e ad assicurare il normale funzionamento dei servizi pubblici. Ed è
proprio in quest’ultimo ambito, legato all’azione “ordinaria” della Pubblica
Amministrazione, che è venuto a consolidarsi, ed anzi in molti casi a
radicalizzarsi, il divario del Sud rispetto al resto del Paese.
5.2. I “nuovi contenuti” del divario: i servizi pubblici per i cittadini e per le
imprese
La lettura del divario di sviluppo del Mezzogiorno con il resto del
Paese, com’è noto, dalla sfera economica in senso stretto (dal PIL pro capite, al
tasso di industrializzazione, al tasso di occupazione, alla propensione alle
esportazioni, ecc.) si è progressivamente caratterizzata per l’attenzione su
“nuovi contenuti”, su una vasta gamma di servizi essenziali a regolamentazione
nazionale e locale, e all’efficienza delle Pubbliche Amministrazioni, delineando
un quadro che rende ancora più problematica la predisposizione di un’adeguata
strategia di interventi per il Sud.
In realtà, si pone spesso poca attenzione – e si mostra comunque una
sostanziale incapacità di riforma – sulle carenze istituzionali che ritardano, se
non ostacolano, il processo di sviluppo nel Mezzogiorno. Le carenze
3
Cfr. S. Cafiero, Tradizione e attualità del meridionalismo, Bologna, il Mulino, Collana della
SVIMEZ, 1989, p. 211
4
Banca d’Italia, Mezzogiorno e politiche regionali, Roma, novembre 2009.
32
istituzionali pesano d’altro canto anche sulla fornitura da parte delle
Amministrazioni pubbliche di “beni a domanda individuale” (scuola, sanità,
giustizia, ecc.), il cui consumo si configura non solo come un diritto
costituzionale di cittadinanza ma produce esternalità positive – ossia vantaggi
indiretti – per l’intera collettività sotto forma di minore conflittualità sociale,
migliore qualità della vita, maggiore produttività del lavoro, ecc.
Nel frattempo, il settore pubblico è cresciuto in misura considerevole,
anche se non abnorme, drenando risorse e ponendo con ciò le premesse per
politiche di bilancio restrittive che contribuiscono a rallentare ulteriormente lo
sviluppo dell’economia. In Italia, secondo valutazioni e stime dell’Unioncamere
e dell’Istituto Tagliacarne, la Pubblica Amministrazione intesa come settore
che fornisce servizi ai cittadini, non destinabili alla vendita, assorbe quasi il
15% dell’occupazione totale e contribuisce all’incirca nella stessa misura alla
formazione del prodotto nazionale. Il peso del settore pubblico è ancora più
consistente al Sud dove raggiunge il 18,8% dell’occupazione ed il 22,2% del
prodotto, a fronte del 12% circa del Centro-Nord.
Ma ciò che desta preoccupazione, al Sud, è soprattutto la qualità
dell’offerta di beni e servizi pubblici essenziali, come giustizia, sanità,
istruzione, trasporti, lavori pubblici, servizi locali, con ricadute rilevanti sulle
condizioni di vita dei cittadini e sul funzionamento dell’economia. In alcune
aree l’influenza delle attività criminali sulle relazioni economiche e sociali
continua a essere pervasiva. Gli stessi processi avviati negli ultimi anni – di
liberalizzazione, di privatizzazione, di riforma delle autonomie e dei servizi
pubblici locali – anche se potenzialmente positivi hanno finito per costituire
occasione di ampliamento dei divari tra le diverse aree del Paese.
L’insieme di questi nodi critici contribuisce a limitare l’afflusso nel
Mezzogiorno non solo degli investimenti diretti esteri e privati interni ma anche
degli investimenti delle grandi società pubbliche e/o ex pubbliche che, ben
lungi dalla logica “sociale” che ne aveva guidato l’azione negli anni passati,
tendono a limitare la loro presenza nelle regioni meridionali. I conti pubblici
territoriali evidenziano profonde differenze nella spesa pro capite a svantaggio
del Mezzogiorno nei comparti dell’energia, della sanità, dei trasporti, delle
telecomunicazioni, dello smaltimento rifiuti, del ciclo integrato dell’acqua.
Sul versante economico, le associazioni delle imprese continuano a
lamentare ostacoli e costi connessi a carenze della Pubblica Amministrazione.
Tra questi, la capacità di governo del territorio, la semplificazione delle
procedure amministrative e i tempi della giustizia amministrativa assumono un
particolare rilievo, e vedono l’Italia fortemente svantaggiata nel confronto con
gli altri principali paesi. Il Rapporto della Banca Mondiale Doing Business
33
2010, sulla facilità di fare impresa, colloca l’Italia al 78° posto su 183 paesi in
una graduatoria che vede al vertice Singapore, Stati Uniti e Regno Unito nei
primi cinque posti. A notevole distanza dall’Italia si collocano anche Germania
(25°), Francia (31°) e Spagna (62°).
Il confronto internazionale non mostra la dimensione effettiva del
divario in atto all’interno del Paese. Emerge da varie indagini che i tempi medi
per l’avvio di un’attività di impresa sono più bassi di circa la metà nel Centro-
Nord ed i costi inferiori del 56%; il tempo medio per la cessazione delle attività
è superiore al Sud di quasi il 40% rispetto al resto del Paese mentre il costo è
pressoché doppio. L’Indice della Qualità della Vita dell’Impresa, elaborato
dalla Confartigianato sulla base di 42 indicatori, evidenzia come le province e
le regioni del Mezzogiorno si collochino agli ultimi posti della graduatoria con
poche eccezioni. Il valore dell’Indice va dai 682 punti del Nord-Est, ai 632 del
Nord-Ovest, ai 584 del Centro ai 469 del Sud ed infine ai 438 delle Isole. Forte
è la correlazione tra valore dell’Indice e PIL pro capite.
Gli indicatori di efficienza e/o le valutazioni dei cittadini concernenti i
servizi pubblici fanno emergere ulteriori carenze e divari ancora di più
consistenti. Pochi dati possono sintetizzare questa situazione.
L’Italia mostra ancora un forte ritardo sia nel perseguire le priorità
ambientali indicate in sede europea, sia nel dotarsi di un sistema organizzativo e
impiantistico adeguato alla complessità del ciclo gestionale dei rifiuti urbani.
Nel 2008, circa i due terzi dei rifiuti urbani totali sono conferiti in discarica,
contro il 28,5% del Nord: quantità inversamente correlate all’andamento della
raccolta differenziata. Nel 2008, la media nazionale di raccolta differenziata si
attesta al 30,6% della produzione totale dei rifiuti urbani in miglioramento ma
distante dall’obiettivo del 45% fissato dalla normativa. L’analisi territoriale
evidenzia che le regioni del Nord (45,5%) sono in linea con l’obiettivo 2008,
mentre il Centro (22,9%) e, soprattutto, il Mezzogiorno (14,7%) restano ancora
molto lontani.
L’analisi di un altro gruppo di indicatori riguardanti sia l’efficienza
nell’erogazione di alcuni servizi di pubblica di pubblica utilità sia la diffusione
delle tecnologie dell’informazione negli Enti locali conferma i divari a sfavore
del Mezzogiorno. Solo per gli uffici anagrafici nel Mezzogiorno si rileva una
maggiore efficienza. Per gli uffici delle ASL, la situazione meridionale risulta
più negativa con circa 57 persone su 100 costrette a file di oltre 20 minuti a
fronte delle 44 del Centro-Nord. In netto peggioramento in tutto il Paese è
anche la qualità dei servizi offerti dagli uffici postali con un primato negativo
del Mezzogiorno (50 persone su 100 sono costrette a file di oltre 20 minuti
contro le 29 del Centro-Nord). In forte miglioramento appare, invece, il grado
34
di informatizzazione degli Enti locali in tutto il Paese: la popolazione residente
in Comuni con anagrafe collegata al sistema INA SAIA sale in Italia tra il 2000
ed il 2006 dal 25 al 76%; su livelli più elevati il Centro-Nord che passa dal 30
all’82% mentre il Mezzogiorno passa dal 16 al 65%.
Nella fornitura di alcuni servizi di rete a livello locale, vanno segnalati
al Sud, pur con qualche miglioramento, il malfunzionamento nel servizio
elettrico (con una frequenza di interruzioni lunghe di ben due volte superiori) e
i problemi nell’erogazione dell’acqua (con irregolarità che riguardano, nel
2009, il 20% delle famiglie meridionali, a fronte del 7% circa nel Centro-Nord).
Divari emergono dai confronti internazionali anche nel funzionamento
della giustizia con tempi almeno doppi rispetto ai principali paesi europei per la
risoluzione delle controversie civili. Tali divari nascondono le rilevanti
differenze territoriali che sono in atto. Nel 2007 la durata media dei
procedimenti di cognizione in primo grado nei tribunali italiani era pari a 904
giorni come media di una durata di 1.108 giorni nel Mezzogiorno e di 805 al
Centro-Nord.
Peggiore al Sud è anche la qualità dei servizi socio-assistenziali. Le
persone molto soddisfatte dei servizi ospedalieri sono il 30,8% nel
Mezzogiorno, a fronte del 44,7% del Centro-Nord. Il tasso di emigrazione
ospedaliera, riferito ai casi di ricovero per interventi chirurgici acuti, è pari a
circa il 10% del totale dei residenti ricoverati nel Mezzogiorno, a fronte di
valori intorno al 5% delle regioni del Centro-Nord. L’obiettivo europeo, che
prevedeva di erogare servizi per l’infanzia ad almeno il 33% dei bambini aventi
meno di tre anni, è ancora lontano per l’Italia: era nel 2006 all’11,7% come
media di un 15,9% del Centro-Nord e di un 4,3% del Mezzogiorno. I Comuni
che hanno attivato servizi per l’infanzia erano, nel 2006, il 25,1% nel
Mezzogiorno a fronte del 52,7% della media delle regioni centro-settentrionali.
Questi «nuovi contenuti» del divario svelano, insomma, una condizione
in cui, ancora oggi, per il cittadino meridionale sono a rischio (o gravemente
carenti) alcuni diritti fondamentali. Si tratta di carenze, dunque, imputabili non
solo alle Amministrazioni locali ma anche allo Stato, che si riflettono sulla vita
dei cittadini e sono tuttavia determinanti ai fini dell’attrazione e della
economicità delle iniziative imprenditoriali.
35
6. IL MEZZOGIORNO NELLA PROSPETTIVA DELL’ATTUAZIONE DEL
FEDERALISMO FISCALE
6.1. La necessità di un adeguato modello di governance e di finanziamento
Dalle analisi del Rapporto emerge la persistente mancanza di un
modello consolidato di gestione dei servizi pubblici degli Enti territoriali,
dall’avvio del processo di decentramento amministrativo degli anni ‘90 e a
quasi dieci anni dall’entrata in vigore della riforma del Titolo V della
Costituzione. La questione del modello di governance si pone con forza nella
prospettiva di un sempre più compiuto processo di federalizzazione.
L’assunto fondamentale da noi proposto è che il federalismo, se
correttamente inteso, significhi non separatezza, ma complementarità nelle
competenze dei diversi livelli di governo; significhi non il disimpegno dello
Stato nella regolamentazione e nel finanziamento dei servizi, che trova il suo
risvolto nel ricorso abnorme a logiche e strumenti “emergenziali” di fronte a
prevedibili fallimenti; significhi non interpretare il concetto di sussidiarietà in
termini “statici”, cioè soltanto come attribuzione dei poteri al livello più
decentrato di governo, bensì in termini “dinamici”, ossia attraverso la
costituzione di meccanismi di responsabilità tali da produrre l’intervento del
livello di governo “superiore” – e in definitiva dello Stato, come «assicuratore
di ultima istanza» – allorché un maggiore decentramento comprometta le
ragioni dell’efficacia, o dell’efficienza (come peraltro previsto dalla
Costituzione, che all’art. 118, comma 1, individua nell’adeguatezza e nella
sussidiarietà limiti al principio di differenziazione, e all’art. 120, comma 2,
prevede interventi sostitutivi ove siano compromessi i livelli essenziali delle
prestazioni).
Quest’ultimo aspetto merita un approfondimento importante, perché
l’impianto essenziale della legge delega 42/2009 è centrato sulla distinzione tra
funzioni riconducibili, o non riconducibili, ai livelli essenziali delle prestazioni
(LEP). L’indicazione contenuta nell’art. 6, comma 3, della legge, secondo cui
tra le spese “riconducibili” al vincolo riferito ai livelli essenziali delle
prestazioni “sono comprese quelle per la sanità, l’assistenza e, per quanto
riguarda l’istruzione, le spese per lo svolgimento delle funzioni amministrative
attribuite alle Regioni dalle norme vigenti”, è da intendersi come
esemplificativa e non come una elencazione esclusiva e esauriente. È difficile
immaginare che servizi come lo smaltimento dei rifiuti urbani, le forniture
idriche, l’assistenza alla famiglia, non costituiscano diritti del cittadino per i
quali devono essere costituzionalmente garantiti livelli essenziali di prestazioni.
36
Se ovviamente alcune caratteristiche del sistema degli Enti territoriali
meridionali concorrono a spiegare i ritardi economici e sociali delle collettività
che in essi risiedono, si pone con ogni evidenza il problema della complessità
dell’analisi sull’efficacia della spesa pubblica e sull’efficienza nella gestione dei
servizi. Tutta la discussione sull’attuazione del federalismo fiscale, del resto,
dovrebbe riguardare in primo luogo questi aspetti cruciali, anche per dare
credibilità e “consenso” ad una vasta opera di ridefinizione della macchina
pubblica, qual è il federalismo fiscale.
Allo stesso modo, posto che la Costituzione impegna lo Stato, per
competenza esclusiva, a garantire un livello di prestazioni che assicuri a tutti i
cittadini, sull’intero territorio nazionale, quei diritti civili e sociali che ne
consentano la pari dignità (non di rado oggi negata agli abitanti delle regioni
meridionali), è necessario spostare l’accento dalle questioni della finanza a
quelle, assai più concrete, di “chi ha diritto a che cosa”. Occorre passare da una
mera discussione ragionieristica sui “costi standard” ad una eminentemente
politica – e costituzionalmente orientata – sugli “standard dei servizi”: non ha
senso dire “quale costo?”, o peggio, “quale spesa?”, senza avere stabilito,
anzitutto, “che cosa” – senza avere determinato, cioè, la quantità delle
prestazioni che si ritenga essenziale.
Da questo punto di vista, ci troviamo di fronte ad un punto di svolta
decisivo. Nella fase di attuazione della legge delega 42/2009 si impone la
necessità di stabilire un modello di finanziamento basato sulla determinazione
dei fabbisogni finanziari, determinati sulla base dei “costi standard”, dei diversi
servizi in cui si articolano i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti – secondo una griglia che, seppur di difficile compilazione, assicuri un
facile riscontro dei “vizi” e della “virtù” di una gestione che miri, oltre che
all’efficienza, anche all’efficacia dell’azione pubblica.
Del resto, la questione del passaggio dal sistema della spesa storica al
costo standard, che è posta al centro del progetto di riforma, è cruciale per il
Sud: in larga misura, è dal modo in cui verrà definito il costo (e quindi il
“giusto prezzo”) dei servizi e delle prestazioni pubbliche, che dipenderà l’entità
dei trasferimenti perequativi.
La direzione del cambiamento che è proposto nella legge delega, è
apprezzabile in quanto conduca verso un federalismo più efficiente e allo stesso
tempo più sostenibile; tuttavia, da questo punto di vista, è bene non cadere in
facilonerie da propagandisti. Preoccupa la persistente mancanza di elementi
utili a definire la suddetta nozione di “costo standard”. I parametri rilevanti
sono, infatti, ancora tutti da individuare e, per farlo, il legislatore dovrebbe
considerare numerosi altri fattori, come le diversità strutturali (ad esempio, il
37
peso dei fattori di scala, della struttura della popolazione e della struttura del
territorio), le caratteristiche economiche (quali il peso delle attività produttive)
e i differenziali di reddito pro capite tra le diverse aree territoriali5, che tanto
possono incidere, in determinati campi in particolare, sulla funzione dei costi.
Se non si considerano, nel determinare quest’ultima, le effettive situazioni di
partenza, si rischia di definire come “inefficienza” il fatto che l’Ente opera su
un tratto diverso e “peggiore” della curva della funzione dei costi senza che ciò
implichi necessariamente un “vizio”. Ciò vale per la generalità dei servizi e
costituisce oggi il rischio più grave, nel dibattito che si va conducendo sulle
questioni della stima dei costi standard, che non può avere come riferimento né
la spesa storica di una o più Regioni, perché in tal modo si trascurerebbero del
tutto le diversità strutturali degli Enti e dei territori (di cui s’è detto sopra); né il
costo medio del servizio, perché non è detto che un identico ammontare di
spesa media pro capite tra i vari Enti produca lo stesso livello di output (di
servizi).
Naturalmente, tutto ciò non significa negare le specifiche ragioni di
inefficienza che nel Mezzogiorno sussistono con ogni evidenza. Ciò che conta,
tuttavia, è richiamare la necessità di un percorso di definizione dei costi che
rinvii ad elementi di flessibilità e alla capacità dell’Ente di adattare nel tempo la
situazione in cui si trova ai vincoli che siano introdotti e alla concreta
possibilità di un percorso “virtuoso” da intraprendere.
Le analisi svolte dalla SVIMEZ, dunque, ci portano a fare presenti
alcuni elementi di preoccupazione riferiti ad aspetti a nostro avviso notevoli: le
scelte concernenti i livelli di erogazione e le modalità del reperimento delle
risorse necessarie eccessivamente affidate, specie per le funzioni “autonome”,
alla responsabilità e all’autonomia finanziaria delle Regioni (col rischio che si
comprometta la norma costituzionale che prescrive di “finanziare
integralmente” le funzioni pubbliche attribuite agli Enti). Il timore per il
possibile ampliamento dei divari nell’offerta di beni e servizi discende
principalmente da due ragioni: la prima deriva dalla constatazione che il
dibattito sulla diversa efficienza, efficacia e qualità dei servizi offerti nelle
regioni italiane, specie dei servizi e delle funzioni non “essenziali”, sembra dare
scarso rilievo alla diversa dotazione di risorse ed infrastrutture che caratterizza e
condiziona l’attuale erogazione di tali servizi; la seconda dipende dal
5
Questi fattori, nella legge delega, non sono affatto ipotizzati, sicché la partita di un
federalismo sostenibile appare ancora tutta da giocare, sia sul lato dell’offerta (come il livello
del servizio da fornire, la presenza di economie di scala o di esternalità di produzione), sia sul
lato della domanda (come la dimensione, la densità e le caratteristiche della popolazione in
ogni territorio).
38
meccanismo prescelto per finanziare le funzioni “autonome”, in generale, e
dalle modalità di erogazione del fondo di perequazione, in particolare. A questo
ultimo riguardo, occorre ricordare che la soluzione indicata per il finanziamento
di queste funzioni – molto importanti non solo per il miglioramento delle
condizioni di vita ma anche per lo sviluppo economico dei territori – al fine di
un incremento delle prestazioni, è quella di un aumento della pressione fiscale
regionale. Questa strada appare, tuttavia, difficile da percorrere nelle Regioni a
più bassa capacità fiscale. A meno di compromettere ogni capacità di
autogoverno del territorio che miri ad un rilancio degli investimenti nella
prospettiva di innescare autonomi processi di sviluppo: l’unica strada, questa,
per ridurre il grado “dipendenza” e i trasferimenti dall’esterno senza inficiare i
diritti di cittadinanza che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini.
6.2. Le risorse aggiuntive e gli interventi speciali per il Mezzogiorno
Le questioni che legano il destino del Mezzogiorno alla complessa fase
di attuazione del federalismo fiscale vanno necessariamente al di là del
finanziamento delle “funzioni normali” degli Enti territoriali, e trovano una
“chiave di volta” nello stabilire i modi di utilizzo delle “risorse aggiuntive” e di
effettuazione degli “interventi speciali” di cui al quinto comma dell’art. 119
della Costituzione. La norma costituzionale, sul punto, opera un’espressa e
netta distinzione tra il finanziamento delle funzioni ordinarie, e l’aggiuntività di
interventi destinati dallo Stato a determinati Enti, vincolati al perseguimento di
specifiche finalità – «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la
solidarietà sociale», «rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire
l’effettivo esercizio dei diritti della persona» - e, più in generale, per
«provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni».
L’attuazione del comma quinto dell’art. 119 della Costituzione, può e
deve costituire l’occasione, proprio nel rispetto delle norme costituzionali che
prevedono una pluralità di livelli di governo, ma affidano allo Stato la
competenza in materia, per ridare “disegno” politico all’intervento per il
Mezzogiorno, con la ricerca di un nuovo assetto istituzionale, finanziario e
contabile del quale si avverte sempre più l’esigenza, di fronte all’indebolimento
delle strutture, alla scarsa trasparenza e alla dispersione nell’utilizzo dei fondi,
al venir meno di una politica per il riequilibrio territoriale.
Rimangono da chiarire alcuni punti cruciali, su cui i principi e i criteri
direttivi della delega non fanno piena luce: i limiti di intervento dello Stato in
materie di competenza delle Regioni; il contenuto specifico degli obiettivi che
ne giustificano l’intervento; la differenza tra questi interventi e quelli destinati,
39
in via ordinaria, alla realizzazione di livelli essenziali di spesa in conto capitale;
la distinzione tra le due diverse modalità di intervento, risorse aggiuntive e
interventi speciali, previste dalla norma costituzionale; il problema della
quantificazione dei trasferimenti erariali attualmente presenti nel Bilancio dello
Stato attribuibili a tale funzione.
Il ruolo che svolgerà lo Stato, al compimento del processo di
federalizzazione, è un enigma che la SVIMEZ, confortata dal giudizio di
autorevoli giuristi, ha provato a risolvere nel senso di un intervento
quantitativamente meno esteso ma qualitativamente molto più rilevante che nel
passato: nel nuovo assetto di poteri lo Stato centrale è chiamato a svolgere una
funzione di garanzia dei diritti e di salvaguardia del sistema, estremamente
importante per la tenuta complessiva del Paese.
Questa funzione trova compiuta espressione nel contenuto del comma 5
dell’art. 119 che prevede l’intervento dello Stato, attraverso la destinazione di
apposite risorse, per finalità generali di promozione dello sviluppo e della
coesione e di rimozione degli squilibri economici sociali, anche in materie di
competenza delle Regioni, come precisato dalla Corte Costituzionale nella
sentenza 451/2006. È evidente che, dopo la riforma del 2001, gli interventi
aggiuntivi a favore del Mezzogiorno si collocano in questo ambito.
Le decisioni che hanno prodotto il dirottamento delle fonti di
finanziamento del QSN, unitamente alla tendenza culturale a considerare i
servizi essenziali (tra cui, per dire, la sanità) tra i contenuti di una politica di
sviluppo, a cui si è diffusamente accennato, introducono un preoccupante
elemento di incertezza. Per questa via, a nostro avviso a torto, le Regioni
meridionali in difficoltà finanziaria hanno sostenuto – essendo i FAS destinati
allo sviluppo e la sanità tra i servizi che possono contribuire ad innalzarlo – la
legittimità dell’utilizzo di tali fondi aggiuntivi per ripianare i deficit sanitari,
come peraltro previsto dalla legge finanziaria per il 2010. È evidente che tale
approccio stride, se non contrasta, con l’impianto costituzionale dell’art. 119,
comma 5, della Costituzione, che deve orientare la fase di attuazione del
federalismo fiscale.
Nell’incertezza del quadro di riferimento, tuttavia, è da accogliere con
favore il passaggio (previsto dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78, “Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”) al
Presidente del Consiglio delle competenze in materia di programmazione
economica e finanziaria, coordinamento e verifica degli interventi relativamente
alle politiche di sviluppo e coesione. Le norme sono ancora lontane dal
disegnare un nuovo assetto organico, ma è da valutare positivamente
l’individuazione della Presidenza del Consiglio, in sostituzione di un Ministero
40
di settore, come organo di Governo delle politiche per lo sviluppo, che per loro
natura dovrebbero avere carattere intersettoriale; in modo analogo va letta la
delega affidata, in base al decreto legge citato, al Ministro per gli Affari
Regionali.
La politica regionale di sviluppo, tanto più se opera con risorse
aggiuntive e interventi speciali, deve essere ancorata a una forte visione
d’insieme, che solo luoghi istituzionali in cui emergano interessi che vadano al
di là dei singoli livelli regionali possono assicurare. Una visione d’insieme che
declini lo sviluppo del Mezzogiorno come funzione della crescita complessiva
del Paese, e nella prospettiva di un grande progetto per il Sud – “utile” all’intera
economia italiana – richieda alla Nazione uno sforzo collettivo – controllabile,
valutabile, sanzionabile – aggiuntivo e speciale.
7. LA “FRONTIERA” SUD E LE NUOVE VIE DELLO SVILUPPO
7.1. La “frontiera”
L’intero sistema produttivo nazionale necessita di “invertire” il declino.
Una politica che miri a sostenere e rafforzare l’esistente è del tutto insufficiente.
Occorre procedere a sostanziali modifiche del modello di specializzazione,
come del resto stanno facendo altre economie in vista della ripresa. Qui deve
tornare in gioco, da protagonista attivo, il Mezzogiorno. Il punto da cui partire,
per impostare un disegno strategico, è che il quadro competitivo dopo la crisi
dovrà essere ancora più aperto ai processi di internazionalizzazione. Se il Sud
non ha goduto dei nuovi vantaggi competitivi in atto nella fase di
globalizzazione che ha preceduto la crisi, occorre trovare una strada che
consenta una crescita comparabile con le performances di tutte le altre aree
deboli.
Ecco perché quest’anno la SVIMEZ rilancia con forza il concetto di
“frontiera”, che evidentemente richiama un’opportunità più ampia, per il Paese
e per l’Europa, di un investimento in grado di valorizzare le tante energie
inutilizzate e di favorire i processi di modernizzazione, presenti anche al Sud.
Ma occorre aver presente che gli spazi per un serio rilancio dell’economia
meridionale non sembrano particolarmente ampi in assenza di scelte che
coinvolgano la strategia di rilancio del “sistema Italia” nel suo complesso.
41
La sfida è di portare a coerenza l’interesse specifico del Mezzogiorno
con quello complessivo del sistema, recuperando dalla migliore lezione del
passato un’impostazione meridionalista che si ponga il problema della
modernizzazione nazionale, e dei vantaggi anche per il Nord di un Mezzogiorno
che esca dalla crisi puntando su uno sviluppo “non residuale”: dunque, non solo
sull’«inseguimento» del modello di sviluppo settentrionale italiano ed europeo,
facendo da battistrada su una via nuova per l’internazionalizzazione “attiva” del
nostro sistema economico.
7.2. Il Mediterraneo, “terra”di possibile integrazione
Nella grave penuria di opzioni strategiche, il richiamo al ruolo del
Mezzogiorno nella ritrovata centralità globale del Mediterraneo (che si
rafforzerà nella “nuova geografia” dello sviluppo del dopo crisi) non è certo una
novità, ma altrettanto certamente non è riuscito a trovare il modo, in tutti questi
anni, di uscire dalla suggestione e dalla retorica.
Il Mediterraneo è luogo di complessità, conflitti endemici, instabilità
politica, radicate ingiustizie sociali, profonde disuguaglianze tra standard di vita
delle diverse aree, diversi sistemi di regole istituzionali, che rendono
difficoltosa l’elaborazione di una strategia politica comune. Per lungo tempo,
del resto, l’Europa ha preferito volgere lo sguardo verso Est con l’allargamento,
avvertendo il Sud come frontiera “ostile”, foriera di immigrazione clandestina e
fondamentalismo religioso – relegando il nostro Mezzogiorno ad una
condizione di marginalità, da “periferia dell’impero”.
La centralità del Mediterraneo nello scenario globale dell’economia e
degli scambi internazionali, com’è noto, è essenzialmente dovuta al ruolo
crescente dei paesi dell’Estremo Oriente che con impressionante velocità (che
finora ha suscitato soprattutto la preoccupazione delle nostre piccole imprese e
dei distretti) irrompono nei traffici, negli investimenti e nelle strategie di
sviluppo del mercato globale. Un fenomeno che, vista la scala di due
protagonisti come India e Cina, è destinato a consolidarsi e crescere (specie se
intanto si realizza il raddoppio del Canale di Suez), e a rappresentare l’aspetto
più dinamico e progressivo della globalizzazione da cui il sistema Italia e la
stessa Europa, non solo il Mezzogiorno, possono trarre maggiore vantaggio.
Tuttavia, l’occasione può essere colta solo da un’imponente azione
politica da parte dell’Europa che, al di là di saltuari e incostanti afflati verso il
Mare nostrum, non è stata in grado di mettere in campo strategie che andassero
nella direzione di una maggiore concertazione regionale, al fine di allargare le
possibilità di integrazione economica a più settori, e di favorire una prossimità
42
“contagiosa” negli standard di vita e dei diritti civili e sociali. Questa
condizione è evidentemente figlia della “debolezza” dell’Italia nello scenario
continentale e della miopia di leader politici che hanno troppo a lungo guardato
oltralpe. Il suo superamento, invece, dovrebbe rappresentare la costante
“missione” politica del nostro Paese su scala sovranazionale.
È possibile infatti immaginare percorsi di collaborazione e integrazione
guardando al rafforzamento di filiere produttive, al terreno della ricerca e della
formazione, alla condivisione di politiche di marketing regionale e globale, che
permettano allo stesso tempo di migliorare gli standard di prodotto e di
stemperare competizioni penalizzanti (ad esempio, sul costo del lavoro), con
ricadute positive in termini di benessere delle popolazioni e di vantaggi per
l’Italia e il Mezzogiorno, che possono trovare ulteriori sbocchi alle proprie
esportazioni.
Su scala più ampia, il radicale “rovesciamento” delle convenienze
logistiche può mettere fine ad una storica emarginazione dal centro dei traffici
mondiali del Sud dell’Europa ed, in particolare, del suo fulcro mediterraneo.
Una prospettiva di questo genere, per la dimensione e la rapidità con la quale si
materializza, può ben convivere e compensare l’effetto dell’allargamento
dell’Unione Europea ad Est che tanto avvantaggia altri sistemi nazionali. Il
recupero del Sud non è dunque il frutto di un afflato romantico, ma è funzionale
a un disegno sovranazionale per rendere coerente lo sviluppo dell’Europa nelle
sue due articolazioni: quella mediterranea e quella nord-orientale.
Il Mezzogiorno diventa per questa via la più rilevante opportunità di
rilancio per tutta l’economia italiana; per la prima volta nella storia moderna
(rispetto al passato quando fu necessario anche esportare milioni di persone
dalle campagne meridionali per alimentare lo sviluppo nazionale), anche come
“luogo fisico”, godendo per la sua collocazione di una «rendita logistica»
essenziale per gli insediamenti produttivi votati all’integrazione.
La prospettiva Mediterranea non si esaurisce, dunque, nella
realizzazione della Zona di Libero Scambio tra le due sponde, che peraltro
sconta incomprensibili ritardi che penalizzano l’economia meridionale e le
spontanee dinamiche di integrazione della “mesoregione”, comunque in atto.
Infatti, interrogandosi sulle possibilità di maggiore integrazione
economica, è utile ricordare che negli ultimi 15 anni il dato delle esportazioni
meridionali mostra come in termini aggregati aumenti il peso di quelle verso il
Mediterraneo, sino a sfiorare il 30% del totale extra Ue (pur con un
comprensibile arretramento congiunturale nel 2009). Si tratta di economie in
continua espansione che, non solo non fanno registrare arretramenti nella crisi
(in particolare per la “sponda Sud”, benché ciò sia dovuto alla minore
43
“apertura” dei loro mercati), ma vengono da un periodo di forte crescita e per le
quali si prevedono ritmi di ripresa sostenuti nel 2011, intorno al 5% (compresa
l’area balcanica e la Turchia).
Eppure, per mettere effettivamente a frutto questo che oggi è un puro
vantaggio potenziale, è urgente varare politiche ed azioni che possano riattivare
processi accumulazione e dinamismo economico, concentrando risorse su
alcuni grandi progetti nella direzione di una ristrutturazione profonda e urgente
dell’economia meridionale.
Nel quadro competitivo attuale, la principale leva strategica per il
perseguimento di un nuovo modello di specializzazione produttiva del
Mezzogiorno è data dagli investimenti in ricerca e innovazione, per la
valorizzazione del capitale umano e per presidiare i settori avanzati
dell’economia, legati anche allo sfruttamento tecnologico e sostenibile delle
risorse naturali e ambientali.
7.3. Le nuove vie allo sviluppo: ricerca e innovazione per valorizzare il
capitale umano e puntare sulla green economy
Il deciso rafforzamento dell’attività di ricerca, sviluppo ed innovazione
tecnologica rappresenta una delle principali leve strategiche da attivare per
accrescere i livelli di competitività dei territori, necessaria anche per favorire –
in questa particolare fase di crisi – la ristrutturazione e l’allargamento della
matrice produttiva verso quei settori in grado di competere nel nuovo scenario
internazionale che si determinerà con la ripresa.
Com’è noto, l’Italia presenta, nel confronto con altri paesi sviluppati,
forti ritardi nel processo di adeguamento delle risorse umane e strumentali
necessarie per sostenere il pieno dispiegamento del proprio potenziale
competitivo, ancora caratterizzato da carenze significative in termini di
partecipazione delle imprese alle attività di R&S, di disponibilità di risorse
umane ad alta qualificazione, di sviluppo di strumenti finanziari adeguati, di
integrazione e valorizzazione delle attività di ricerca, di iniziative volte a
favorire il trasferimento tecnologico nel tessuto socio-economico e produttivo.
Si tratta di debolezze strutturali che nel Mezzogiorno si vanno ad innestare in
un contesto di maggiore arretratezza e polverizzazione del tessuto
imprenditoriale, di insufficiente attrattività dell’offerta universitaria e delle
strutture di ricerca, acuendone le criticità.
Il rapporto tra spesa in R&S e PIL è risultato in Italia nel 2007 pari
all’1,18%, nettamente inferiore alla soglia del 2% (media dei principali paesi
europei) e ancora molto distante dall’obiettivo del 3% fissato per il 2010 dalla
44
«Strategia di Lisbona». Il sistema meridionale della ricerca e sviluppo ha
conosciuto un sensibile rafforzamento negli ultimi anni, tuttavia il rapporto tra
spesa in R&S e PIL è ancora inferiore al punto percentuale e molto scarsa la
domanda di innovazione tecnologica delle imprese. La politica, a fronte di ciò,
ha ampi margini di manovra; nella consapevolezza, però, che sono necessarie
ingenti risorse.
È importante fornire un sostegno alle imprese del Mezzogiorno,
mettendo in campo politiche “attive”, che non si limitino cioè ad incontrare la
“domanda”, ma in qualche modo la facciano emergere, favorendo la crescita
qualitativa delle piccole imprese, che tocchi anche aspetti relativi alle capacità
organizzative, manageriali e di allestimento di investimenti complessi. Occorre
promuovere rapporti di collaborazione tra imprese e centri di ricerca pubblici e
privati (reti, laboratori, centri di competenza, distretti tecnologici, spin-off della
ricerca, ecc.), allo scopo ultimo non solo di sostenere competitività e crescita
economica della regione ma, come diremo subito, di mettere a disposizione del
sistema produttivo quello straordinario capitale umano formato dalle
Università, che molto spesso rischia invece di risultare scarsamente spendibile
per lo sviluppo.
Insomma, il rafforzamento dell’attività di ricerca, sviluppo ed
innovazione tecnologica è una strada – non l’unica, s’intende – che il
Mezzogiorno deve adottare con determinazione, sapendo però che, in un
contesto di risorse limitate e di netta prevalenza delle PMI, è necessario
individuare i settori e le tecnologie maggiormente “pervasivi”, ovvero quelli il
cui sviluppo, con un investimento iniziale accessibile anche per imprese di
piccole e medie dimensioni, abbia le più ampie ricadute positive anche su altri
settori e su diversi ambiti produttivi: sia attivando, rivitalizzando, innovando
linee produttive di beni e servizi anche in settori tradizionali, sia sostenendo lo
sviluppo di settori e produzioni che vadano oltre la specificità del sistema
imprenditoriale locale.
Del resto, le politiche dell’innovazione possono rappresentare lo
strumento di penetrazione in settori non tradizionali: per le imprese, da
impegnare nella cd. new economy, attraverso i Poli di innovazione e gli spin-off
della ricerca pubblica; e per le amministrazioni pubbliche, al fine di
sperimentare nuove politiche di gestione e valorizzazione del territorio,
ovviamente di carattere ambientale ma anche con riguardo al patrimonio
culturale latamente inteso; e, non da ultimo, per la qualità della vita dei
cittadini, con la possibilità di accesso a nuovi e più avanzati servizi.
Le tipologie di interventi che possono rappresentare un ponte tra
Università, Enti di ricerca e imprese e su cui è possibile fare leva per
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incentivare i processi di trasferimento tecnologico pubblico-privato sono, in
definitiva, molteplici. E al Sud possono agire positivamente su due fronti: da un
lato, nel breve e medio periodo, per mettere a disposizione del sistema
produttivo il capitale umano formato dalle Università e, dall’altro, in un periodo
più lungo, per incrementare la competitività dell’area, favorendo un circolo
virtuoso di aumento della domanda di innovazione e di capitale umano
qualificato.
Infatti, uno dei punti di forza principali, per il Mezzogiorno, è costituito
proprio dal forte potenziale di capitale umano. Notevoli, come visto, sono i
progressi compiuti nel tasso di scolarizzazione secondaria e nell’istruzione
terziaria. L’impegno pubblico in formazione e i risultati ottenuti, tuttavia,
rischiano di essere vanificati da un’insufficiente capacità del sistema produttivo
di assorbire queste preziose risorse umane, che in mancanza di opportunità di
lavoro, come visto, sono destinate inevitabilmente alla emigrazione, specie dei
giovani maggiormente qualificati.
In quest’ottica, la prospettiva della green economy, in particolare nei
settori energetico e agro-ambientale, e la valorizzazione del patrimonio storico-
paesaggistico meridionale possono essere oggetto di una ben più decisa
considerazione, come specifico elemento catalizzatore della catena di
connessione ricerca-innovazione-produzione, in grado di dare piena espressione
alle potenzialità del sistema universitario e di ricerca e al patrimonio territoriale
del Mezzogiorno. È un campo in cui sperimentare una base economica più
solida, che possa sostenere concretamente il tessuto produttivo locale, fornire
lavoro anche nel breve periodo alle risorse umane già presenti e attrarre nuovi
capitali e (almeno “trattenere”) risorse umane, in una prospettiva di sviluppo
durevole.
Per garantire queste condizioni, la tradizionale prospettiva legata ai
prodotti tipici e al turismo deve essere certamente contemplata, in quanto
risorse gravemente sottoutilizzate. Ma accanto all’“industria” turistica (ancora
in gran parte da costruire), nuova linfa vitale all’economia del Sud deve essere
garantita da due settori economici dalle prospettive di sviluppo per nulla
aleatorie: il settore delle energie rinnovabili e il settore del recupero edilizio. Si
tratta di due settori per alcuni versi assai distanti: il primo è relativamente
nuovo e in espansione; il secondo appartiene a una delle più sviluppate filiere
economiche degli ultimi decenni. Per entrambi, però, è possibile ipotizzare lo
sviluppo di quelle tecnologie “pervasive” che sono alla base anche del lancio di
numerosi spin-off del sistema universitario.
Il settore delle energie rinnovabili è in espansione planetaria e presenta
grazie alle agevolazioni nazionali e alle felici condizioni ambientali del
46
Mezzogiorno una potenzialità locale notevole. In pochi anni di convinte
politiche regionali la Puglia è divenuta la prima regione italiana per produzione
energetica da fonti rinnovabili, superando le più industrializzate Lombardia e
Veneto. Molte altre regioni del Sud offrono condizioni climatiche altrettanto
favorevoli per l’utilizzo dell’energia solare e in parte anche per quella eolica.
Più della Puglia, regioni come la Calabria e la Basilicata, per la ben diffusa
biomassa forestale, presentano condizioni favorevoli al recupero energetico da
biomasse.
Nel breve medio periodo, inoltre, il rilancio della filiera edilizia del
recupero trova rispondenza nella necessità di favorire l’efficienza energetica, di
salvaguardare dai rischi geologici e dall’incuria il patrimonio edilizio storico e
di frenare il disordinato e insostenibile consumo di suolo. Il consumo di questa
preziosa risorsa e l’aumento della dispersione insediativa cui esso si
accompagna, producono gravi danni al patrimonio paesaggistico e
all’attrattività turistica, rendendo nel contempo sempre più onerosa la fornitura
e la gestione delle reti di urbanizzazione e dei servizi pubblici. La
rivitalizzazione delle aree interne, e un’accorta politica di integrazione e messa
in coerenza dell’insieme di incentivi e disincentivi al recupero e alla
rivitalizzazione dei tessuti insediativi storici attraverso investimenti, appare,
oltreché una necessaria politica preventiva di riduzione del danno conseguente
all’avverarsi dei rischi geologici, una intelligente prospettiva di tutela e uso del
patrimonio insediativo storico.
Infine, ritorna il tema della “frontiera”: il Mezzogiorno rappresenta
l’area del Paese che ha più interesse ad una modifica del modello di sviluppo
nazionale, che ponga al centro il tema della sostenibilità anche come strumento
per la realizzazione di una maggiore equità intergenerazionale, e perfino
“storica”: il Sud è stata l’area in cui si sono avuti i minori vantaggi del processo
di industrializzazione del secolo scorso e al tempo stesso è stata l’area in cui si
sono scaricati i costi ambientali più elevati dell’inquinamento dell’industria
pesante e, per effetto di una peggiore gestione del territorio, le scorie di una
industrializzazione a volte senza regole.
7.4. Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti: strumento per la
crescita e l’integrazione
In conclusione la SVIMEZ vorrebbe lanciare l’idea di un vasto
programma a partire dal 2010: completare e rafforzare le grandi infrastrutture
dei trasporti. È questa una condizione fondamentale da soddisfare, in assenza
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della quale, sarebbe sostanzialmente ozioso attardarsi a riflettere su un possibile
sviluppo del Mezzogiorno.
Per assumere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa
e Mediterraneo (utile dunque all’intero Paese), il Sud deve diventare un punto
di giunzione fondamentale che investa l’intero sistema infrastrutturale
nazionale. Di fronte ad una posizione così favorevole nei rapporti tra Europa e
Mediterraneo, infatti, un serio limite allo sviluppo dell’area è costituito dalla
carenza e dalla scarsa integrazione sistemica delle infrastrutture per la mobilità
delle merci e delle persone. Ed è in buona misura anche a causa di tale carenza
che nello scorso decennio il Mezzogiorno ha potuto sfruttare meno del resto del
Paese, e di altre aree europee, i vantaggi competitivi offerti dal processo di
globalizzazione dei mercati, con una conseguente perdita di competitività del
proprio sistema economico.
La “frontiera Sud” rende più che mai urgente la realizzazione di grandi
infrastrutture strategiche, non solo per la loro valenza economico-territoriale
rispetto a qualsiasi progetto di sviluppo produttivo del Mezzogiorno, ma anche
per la loro capacità di mobilitare risorse e impieghi tali da contribuire in misura
rilevante all’uscita dalla crisi. È questo il momento per aprire al mercato la
realizzazione di quelle infrastrutture potenzialmente in grado di acquisire
risorse finanziarie attraverso la gestione dei relativi servizi. Forme di finanza di
progetto e di partenariato pubblico-privato sono gli strumenti più idonei a
impostare un programma di priorità infrastrutturali, da completare o da attuare
ex novo, capaci di generare rientri accettabili per pianificare in modo equilibrato
la loro realizzazione.
Una prima selezione di opere prioritarie per il completamento del
sistema dei trasporti nel Mezzogiorno, operata dalla SVIMEZ, dovrebbe
comportare un costo di circa 46 miliardi di euro, con una copertura attuale di
poco più di 11 miliardi e un fabbisogno finanziario da reperire di quasi 35
miliardi di euro. Si tratta di opere cruciali, tra cui il potenziamento della
capacità di servizio dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria e della Statale
“Jonica”; la realizzazione di nuove tratte interne alla Sicilia; l’estensione
dell’Alta Capacità (se non dell’Alta Velocità) nel tratto ferroviario Salerno-
ReggioCalabria-Palermo-Catania (a completamento del Corridoio I Berlino-
Palermo); il nuovo asse ferroviario Napoli-Bari; infine, il Ponte sullo Stretto.
Alcune di queste opere sono già in corso di esecuzione e dotate di
parziale copertura finanziaria o da finanziare in misura totale, altre non ancora
esaminate dal CIPE. Si tratta di importi consistenti ma tuttavia contenuti se
confrontati con gli impegni finanziari rilevabili per il resto del Paese (si ricorda
che, nel caso delle sole opere della Legge Obiettivo già approvate dal CIPE nel
48
2009, oltre il 70% interessa il Nord). La realizzazione di tali opere, peraltro,
potrebbe avvalersi di un non trascurabile contributo della componente privata;
infatti, per tutte le opere esaminate l’ampiezza della domanda dei propri bacini
d’utenza potrebbe generare, per i servizi resi, flussi di rientri di una certa
consistenza.
Per invertire con decisione la tendenza al progressivo definanziamento
degli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, che ha caratterizzato gli
ultimi tre decenni, occorre avviare al più presto un percorso di analisi e
approfondimento per verificare la fattibilità finanziaria e tecnica per una
realizzazione basata anche su rientri da tariffa.
È evidente, infine, che la realizzabilità di un programma di tale portata
richiede una forte condivisione istituzionale e politica tra tutti i livelli di
governo. Potrebbe rappresentare, infatti, un primo campo su cui procedere con
il più volte richiamato sforzo di concentrazione e riorientamento dei Fondi per
lo sviluppo e su cui sperimentare quel necessario mutamento istituzionale che
prevede la condivisione di obiettivi strategici tra Governo e Conferenza delle
Regioni meridionali; obiettivi a cui vincolare quote significative delle risorse
del Fondo infrastrutture strategiche e dei Fondi strutturali nazionali e regionali.
Svimez 2010/06_Sintesi.pdf
“RAPPORTO SVIMEZ 2010
SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO”
SINTESI
Roma, 20 luglio 2010
2
LE DINAMICHE ECONOMICHE GENERALI E SETTORIALI
LE POLITICHE INDUSTRIALI
LE POLITICHE DI COESIONE E L’EUROPA
FEDERALISMO E LE POLITICHE DI FINANZA PUBBLICA
LE POLITICHE INFRASTRUTTURALI E AREE URBANE
LE POLITICHE CREDITIZIE
LE POLITICHE PER LA P.A.
LE POLITICHE PER IL SUD, COMPETITIVITA’ E INTERNAZIONALIZZAZIONE
POPOLAZIONE, SCUOLA E MERCATO DEL LAVORO, MIGRAZIONI
POLITICHE CONTRO LA CRIMINALITA’
MEDITERRANEO E TURISMO
POVERTA’
GREEN ECONOMY E R&S
3
LE POLITICHE ECONOMICHE GENERALI E SETTORIALI
2009: la crisi continua – Come il 2008, anche il 2009 è stato un anno di crisi per l’economia
mondiale. La recessione in corso nelle principali economie del mondo continua ad essere la
più profonda dal dopoguerra. La crisi è stata più marcata nei paesi dove maggiore è la quota
della produzione manifatturiera, come Giappone ed Europa, soprattutto Germania.
Nel 2009 le economie Ue hanno registrato una flessione del Pil del 4,1% rispetto al +0,6% del
2008. Numerosi Paesi hanno messo in atto interventi a sostegno dell’economia, cosa che ha
comportato nell’area Euro un aumento del debito pari al +6,3%, a fronte del +2% del 2008.
Tra le principali economie industrializzate, quella italiana è la più colpita dalla crisi: -5%,
vicino alla Germania e Regno Unito (-4,9%), decisamente maggiore della Spagna (-3,6%) e
della Francia (-2,2%).
La crisi si è fatta sentire sulla domanda estera prima e interna poi, con una riduzione del
redditi e dei consumi, una caduta negli acquisti di beni soprattutto durevoli e una forte
flessione negli investimenti (-12%, il valore più negativo dal 1970). E nel Mezzogiorno?
Pil e Mezzogiorno - In base a valutazioni SVIMEZ nel 2009 il Pil ha segnato nel
Mezzogiorno una riduzione del 4,5%, un valore molto più negativo del -1,5% del 2008,
leggermente inferiore al dato del Centro-Nord (-5,2%). Ormai da otto anni consecutivi il
Sud cresce meno del Centro- Nord, cosa che non è mai successa dal dopoguerra a oggi.
Rispetto agli altri periodi recenti di crisi (1992-93, con l’uscita della lira dallo Sme; 2002-
2004, con il crollo della new economy) quella del biennio 2008-2009 è l’unica in cui il Pil si è
contratto per due anni consecutivi. Nel 2009 il prodotto del Mezzogiorno risultava ancora
inferiore dello 0,3% rispetto al livello del 2000.
Pil per abitante e divari storici - Una misura efficace del divario Nord-Sud la dà il Pil per
abitante: nel 2009 nel Mezzogiorno è stato 17.317 euro, circa il 58,8% del Centro- Nord
(29.449 euro), con un leggero recupero rispetto all’anno precedente (58,2%) e di oltre 2 punti
percentuali dal 2000, dovuto però solo alla riduzione relativa della popolazione. A livello
regionale l’Abruzzo mostra una diminuzione del Pil particolarmente elevata (- 5,9%), seguito
dalla Campania (-5,4%) e Puglia e Basilicata a pari merito (-5%). Tutte negative anche le altre
regioni meridionali, come le settentrionali, a eccezione della Valle d’Aosta. La perdita più
contenuta in Sicilia (-3,1%).
L’economia per settori
Agricoltura – Diversamente dai precedenti periodi di recessione, nel 2009 anche l’agricoltura
meridionale è stata investita dalla crisi. Questo quadro difficile è reso ancora più complesso
dai cambiamenti in atto nelle politiche di sostegno al settore previste dalla nuova PAC, che
viene esposto sempre di più alle forze di mercato.
Nel 2009 il valore aggiunto del settore primario nel suo complesso si è ridotto in valori
correnti dell’11,5% in Italia e del 9% nel Mezzogiorno rispetto al 2008. Riguardo
all’agricoltura in senso stretto, la contrazione valutata a prezzi costanti è stata del -5% al Sud
e del -1,9% al Centro-Nord. Giù anche produzione (soprattutto colture legnose e cereali) e
consumi, rispettivamente -3,9% e -2,2%, con valori decisamente più bassi del Centro-
4
Nord (-1,8%). A livello regionale il valore aggiunto di Abruzzo, Basilicata, Molise e Puglia,
che nel 2008 avevano registrato buone performances, è sceso fortemente, con valori compresi
tra -8% e -11%.
Nel 2009 sono continuati i processi di ristrutturazione del settore, con la chiusura di piccole
aziende e la diminuzione di 17.600 lavoratori, soprattutto autonomi. Dal 2001 al 2009 il
Sud agricolo ha perso 115mila posti di lavoro. In calo la produttività (-1,7% contro -1,2%
del Centro-Nord) e gli investimenti, -12% rispetto al 2008.
Il Sud è biologico – Il 67% della superficie agricola biologica utilizzata si trova nel
Mezzogiorno, con Sicilia, Basilicata e Puglia in testa. Nel 2008 Sicilia e Puglia avevano
aumentato le superfici rispettivamente del 24,7% e del 27,8%. Su quasi 29mila operatori del
settore nel Mezzogiorno, la maggior parte è attiva in Sicilia, Calabria, Puglia. Purtroppo il
vantaggio climatico e ambientale meridionale del settore è a rischio per le carenze sul fronte
dell’organizzazione della filiera (produzione-trasformazione-distribuzione).
Meno del 20% degli agriturismi italiani si trova nel Mezzogiorno: in testa Campania
(809), leader in Italia per la presenza di fattorie didattiche, e Sardegna (757), pur cresciute
nel 2008 del 4,4% rispetto al 2007. Ma, a differenza del Centro-Nord, qui l’agriturismo è
soprattutto e quasi esclusivamente ristorazione.
Riguardo ai prodotti di qualità, su 226 marchi italiani DOP e IGP il 43%, pari a 77, è
meridionale, soprattutto oli e prodotti ortofrutticoli. Molto carenti però le promozioni dei
prodotti a marchio, così come i biocombustibili.
Industria - La crisi in atto ha colpito duramente, a livello nazionale e non solo, il settore
industriale, soprattutto il manifatturiero. Cali della domanda interna ed estera hanno pesato in
modo determinante, soprattutto per quanto riguarda i beni durevoli, intermedi, strumentali e
gli investimenti fissi lordi.
L’intensità della crisi si è fatta sentire ancora di più al Sud, con un crollo del valore
aggiunto industriale nel 2009 del 15,6%, a fronte del -15,2% nazionale. Segno negativo
per tutti i prodotti industriali. Giù soprattutto il manifatturiero, che è arrivato nel 2009 a -
16,6%. A tirare giù l’industria del Sud, come nell’altra ripartizione, soprattutto i minerali non
metalliferi (-26,9%), i metalli (-23,9%) e macchine e mezzi di trasporto (-20,5%).
Non va meglio sul fronte dell’export: nel 2009 il manifatturiero del Sud ha perso il 29%
contro il 20% del Centro-Nord. Da segnalare i crolli delle esportazioni nei metalli (-
40,4%), nel chimico-farmaceutico (-35%), nei macchinari elettrici e mezzi di trasporto (-
30%), ancora più negativi dei risultati dell’altra ripartizione (-28%, -13%, -21%).
A fare le spese della situazione critica anche la produttività, scesa del 6,6% al Sud e del
7,8% nel Centro-Nord. Nel 2009 il gap tra le due aree si è mantenuto intorno ai 25 punti
percentuali.
Nel 2009 si sono persi 319mila posti di lavoro al Centro-Nord e 87mila al Sud. In altri
termini, degli occupati persi nel settore dal 2004 al 2009, il 70% al Sud e l’87% al
Centro-Nord del totale si è concentrato nello scorso anno. Nel manifatturiero gli occupati
sono scesi nel 2009 al Sud del 10% contro l’8% del Centro-Nord. Particolarmente colpito il
tessile e calzaturiero
(-13% al Sud, -10,8% al Centro-Nord) e la produzione di metalli (-11,8% al Sud, -9,6% al
Centro-Nord). Riguardo agli investimenti fissi lordi, sono crollati nel 2009 al Sud del 18,8%,
al Centro-Nord del 19,2%.
Il quadro pre-crisi: Sud uguale al Nord - In base a un’analisi SVIMEZ sulla sopravvivenza
delle aziende negli anni pre-crisi 2002-2007 si è notato che le principali dinamiche
imprenditoriali nell’area non sono troppo diverse dagli andamenti nelle altre ripartizioni: a
5
cinque anni dall’insediamento al Sud sopravvive il 53% rispetto al 57% del Nord-Ovest;
negli anni le dimensioni d’impresa crescono, addirittura di quattro volte in Basilicata
rispetto al raddoppio di Piemonte e Lombardia; al Sud il rapporto tra addetti guadagnati e
persi nelle imprese sopravviventi al 2007 è uguale a quello medio nazionale (30%).
Edilizia - La crisi non ha risparmiato il settore edile: rispetto all’anno precedente, nel
2009 il Sud ha segnato un crollo del valore aggiunto del 9,4% (che arriva al -16,7% nel
periodo 2001-2009), degli investimenti dell’8,5% e del 3,8% degli occupati pari a 23mila
posti di lavoro. Particolarmente colpita l’occupazione dipendente, - 28.500 posti, a fronte di
una crescita di 5.600 nuove unità autonome.
Le misure varate dal Governo a sostegno delle spese di manutenzione e ristrutturazione hanno
contribuito a far emergere quote di sommerso, che restano però alte: delle 180mila unità
totali “in nero”, il 63%, oltre 110 mila, è al Sud.
Sul fronte delle opere pubbliche, i bandi di gara al Sud nel 2009 sono scesi per numero del
21,7%, con punte particolarmente negative in Basilicata (-63%) e Molise (-60%), per importo
del 13,5% (-70% in Basilicata e – 66% in Molise).
Servizi e terziario - Sempre per effetto della crisi, per la prima volta dalla fine della
guerra il valore aggiunto del settore dei servizi è calato per due anni consecutivi,
segnando nel 2009 – 2,7% (Centro-Nord -2,6%), con effetti molto più pesanti nel
commercio (-11% contro -9%). Giù anche turismo e trasporti (-3%) e intermediazione
creditizia e immobiliare (-1,7%). Circa 88mila i posti di lavoro persi nel settore al Sud (-
1,9% rispetto al 2008), con punte del -3,9% nel commercio, il doppio che al Centro-Nord
(-1,7%), concentrate soprattutto nel lavoro autonomo.
Il terziario, specialmente nei servizi alle imprese e alle famiglie, è il settore che ha più
recuperato dal 2002 il divario di produttività con il Centro-Nord, ma resta poco competitivo.
Tale divario di produttività, pari al 15,5%, nel 2009 portava il costo del lavoro al Sud a
superare del 12% il centro-Nord nonostante i salari fossero più bassi del 5%.
Il terziario al Sud è soprattutto di tipo tradizionale (commercio al dettaglio, istruzione, sanità)
mentre è molto ridotto il suo peso nei servizi alle imprese (assicurazioni, trasporto aereo,
immobiliare).
Nel 2009 i dipendenti pubblici al Sud sono stati 58 su mille abitanti, contro il 54 del
Centro-Nord. La percentuale più alta però non è nel Mezzogiorno, ma in Trentino-Alto
Adige e nel Lazio (72%).
Cosa dice la SVIMEZ – Nel periodo 2000-2008 il Mezzogiorno è cresciuto la metà del
Centro-Nord. Dal dopoguerra non si era mai verificato una così lunga interruzione del
processo di crescita tra le due aree. La forte contrapposizione tra Nord e Sud oggi rischia di
allargare il divario e ostacola la ripresa economica nazionale.
Di qui la proposta di un “progetto Paese” per valorizzare le aree deboli con politiche
nazionali più efficienti e politiche specifiche riformate, che passi attraverso il concetto di
Mezzogiorno come “frontiera” verso il Mediterraneo e le nuove opportunità di sviluppo che
vengono soprattutto dai settori innovativi.
6
LE POLITICHE INDUSTRIALI
L’azzeramento delle politiche di riequilibrio - Nel corso del 2009 si è passati dalla crisi
della politica industriale regionale a un suo sostanziale azzeramento. Perché sono rimasti
non operativi tutti gli interventi di incentivazione che si sarebbero dovuti attivare: le zone
franche urbane, i nuovi contratti di programma, i contratti di localizzazione, i contratti
di sviluppo. Mentre si sono definitivamente esaurite le risorse finanziarie per i crediti
d’imposta a favore dell’occupazione e dei nuovi investimenti.
Gli effetti della crisi economica – La crisi inevitabilmente alimenta soprattutto una politica
industriale difensiva; un esempio in tal senso sono le misure di incentivazione dei consumi
attuate dal Governo, che recuperano una selettività settoriale sepolta da un ventennio di
strategie comunitarie. A fare le spese di una crescente avversione per le politiche di
incentivazione è stata, ancor più della politica industriale, la politica di riequilibrio territoriale,
che ha finito per pagare pesantemente l’inevitabile contrazione delle risorse disponibili.
Gli aiuti di Stato in Europa e in Italia – Nel 2008 gli aiuti di Stato hanno rappresentato
nell’Ue a 27 lo 0,5% del Pil. Ma le situazioni nei diversi Paesi non sono uniformi: in
Germania il livello degli aiuti è il doppio rispetto all’Italia, e anche Francia e Spagna gli
riservano una maggiore attenzione. Nel nostro Paese le misure orizzontali rappresentano
l’85% del totale e la maggior quantità di aiuti è destinata al sostegno delle piccole e medie
imprese. Troppo poco in Italia è stato finalizzato al superamento degli squilibri
territoriali, appena il 18,3%, contro il 22,8% della Germania, il 40,8% della Francia, il
39,9% della Spagna e, addirittura, il 25,8% della Ue a 27.
I recenti interventi in Italia – L’anno scorso il Governo ha varato la “legge sviluppo”
99/2009 anche allo scopo di riordinare tutte le misure di incentivazione esistenti, ma
difficilmente potrà essere operativa per la metà di agosto 2010. Ha poi approvato la direttiva
“Small Business Act” che tra le altre prevede misure per favorire l’accesso al credito delle
piccole e medie imprese, incentivando in particolare la finanza innovativa. Sono stati a questo
proposito estesi, in funzione anticrisi, sia gli interventi del Fondo di garanzia che la moratoria
sul debito. E’ stato creato un Fondo pubblico privato di private equity, la cui società di
gestione del risparmio è stata costituita a marzo di quest’anno e a settembre farà i primi
investimenti.
Il contratto di rete d’impresa - Con il consolidamento del “contratto di rete d’impresa”, per
poter accedere alle procedure di programmazione negoziata con le pubbliche amministrazioni,
agli interventi di garanzia per l’accesso al credito e alle misure per l’internazionalizzazione e
l’innovazione, si favoriscono le aggregazioni tra imprese. Ma, a differenza dei distretti, il
legame tra le stesse non è necessariamente di natura territoriale né settoriale.
Progetti di innovazione industriale – La legge sviluppo estende i progetti di innovazione
industriale anche alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, all’industria
aerospaziale e all’osservazione della terra e dell’ambiente. Diversi bandi debbono ancora
essere avviati. Si è invece conclusa la fase di valutazione del progetto per le nuove tecnologie
7
per il made in Italy: stanziati 280 milioni, 104 progetti ammessi al finanziamento, che attivano
investimenti complessivi per 638 milioni.
Incentivi a sostegno della domanda – Gli incentivi al consumo varati dal Governo nel
2010 hanno avuto al Sud una ricaduta notevolmente inferiore rispetto al resto del Paese: le
Regioni meridionali, infatti, al 10 maggio di quest’anno, avevano assorbito il 20% dei
finanziamenti erogati.
Sempre meno incentivi al Mezzogiorno - Nel 2009 sono significativamente calate le
agevolazioni nazionali, gestite cioè dall’Amministrazione centrale: siamo attorno ai 4
miliardi e mezzo, un valore nettamente inferiore alla media dei precedenti sei anni, quando
oscillava attorno ai 6 miliardi e 200 milioni l’anno, per un totale di 37 miliardi e 200 milioni
nell’intero periodo. Di questi incentivi circa la metà sono stati destinati al superamento
degli squilibri territoriali, 18 miliardi e 400 milioni. Ma soprattutto al Sud il calo del 2009
è ancor più evidente che nel resto del Paese: su 4 miliardi e mezzo, poco più di un miliardo e
mezzo è andato al Mezzogiorno. Il peso delle aree meridionali sul totale degli incentivi, che
era di circa il 70% fino al 2006 e attorno al 56% fino al 2008, nel 2009 è drasticamente
calato al 34%.
Contratti di Programma e di localizzazione, crediti di imposta, Zone franche – Le
risorse disponibili per i crediti d’imposta per l’occupazione, pari a 200 milioni per ciascuno
degli anni 2008, 2009 e 2010, si sono già esaurite nell’ottobre del 2008. Così come le risorse
per i crediti d’imposta a favore degli investimenti, pari a 4 miliardi e mezzo: nel 2008 l’intero
stanziamento del periodo 2007 – 2013 era già stato interamente assorbito. L’estensione dei
Contratti di programma all’intero territorio nazionale rischia in prospettiva di danneggiare il
Sud, al quale prima erano riservati. Nel 2009 c’è stato altresì il blocco dei contratti di
localizzazione che non si sono rivelati un efficace strumento di attrazione degli investimenti.
Si attende l’avvio operativo dei nuovi Contratti di Sviluppo. Per di più la manovra del
Governo di quest’estate ha trasformato le Zone franche urbane in zone a burocrazia zero.
Cosa dice la Svimez - “La particolare intensità con cui la recessione industriale ha colpito il
Mezzogiorno nel 2009 segue un già forte ampliamento del gap di crescita con il resto del
Paese. Le cronache di questi mesi e settimane sugli stabilimenti FIAT di Termini Imerese e
Pomigliano d’Arco, alquanto complesse e diverse tra loro, sono emblematiche. C’è stato un
progressivo ridimensionamento della politica industriale per il Sud, in particolare della
politica di incentivazione regionale, che ne ha storicamente costituito l’ossatura portante,
fino ad arrivare nel 2009 ad un sostanziale azzeramento. Solo col ripristino di un consistente
apporto differenziale di politica industriale regionale, coniugato con un più adeguato accesso
del Sud agli interventi della politica industriale nazionale, è possibile porre le condizioni per
un disegno strategico di sviluppo strutturale. Gli “obiettivi guida” di questa possibile
strategia sono: la riqualificazione del modello di specializzazione produttiva, attraverso il
sostegno alla ricerca e all’innovazione tecnologica e organizzativa e allo sviluppo delle
attività a più alta produttività relativa; l’innalzamento delle dimensioni medie dell’impresa,
attraverso il sostegno alla formazione di “reti” di imprese e a un maggiore accesso al
credito; una maggiore apertura del sistema verso l’estero; la promozione e l’arricchimento di
“filiere produttive”; il pieno inserimento delle agglomerazioni di imprese in settori strategici
per l’industria nazionale; il rilancio delle politiche di attrazione”.
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LE POLITICHE DI COESIONE
Bilancio complessivo Fondi strutturali 2000/2006 – La ventesima relazione annuale
sull’esecuzione dei Fondi strutturali della Commissione Europea certifica che il 2008 è stato
un anno positivo per l’attuazione del bilancio comunitario: risultano, infatti, impegnati 211,92
miliardi ed erogati 192,42, pari rispettivamente al 100% e al 90,8% delle risorse stanziate nei
Paesi Ue. Le migliori performance le hanno avute la Finlandia, la Lettonia, la Lituania, Malta,
l’Austria e l’Estonia, mentre i dati più bassi di avanzamento finanziario riguardano la
Danimarca, Lussemburgo e Cipro, che hanno erogato tra l’82,4% e l’83,6% del contributo
assegnato. L’Italia è cinque punti percentuali sotto la media dell’Unione Europea, con un
livello di pagamenti che si aggira attorno all’85%. Grazie alla proroga al 30 giugno 2009 per
il completamento della programmazione 2000 – 2006, la regola del disimpegno automatico
non è stata applicata all’annualità 2008. Nei Paesi Obiettivo 1 gli investimenti sono stati
prevalentemente concentrati sulle infrastrutture di base, 41,4%, in particolare su quelle di
trasporto, sul sostegno alle piccole e medie industrie e all’artigianato per il 33,3%, sulle
risorse umane per il 23,2%.
I risultati in Italia – All’Italia per il periodo 2000/2006 sono stati assegnati 28,8 miliardi di
contributi comunitari per le politiche di coesione, che, grazie alle risorse nazionali di
cofinanziamento, hanno più che raddoppiato lo stanziamento. Per cui il totale dei
finanziamenti ha raggiunto 63,3 miliardi, di cui 45,9 destinati alle Regioni obiettivo 1. Nel
corso dell’anno scorso, grazie alla proroga, sono state completate fisicamente e
finanziariamente le iniziative programmate a partire dal 2000. I dati a fine 2009 della
Ragioneria dello Stato mettono in evidenza come, per tutti gli obiettivi, gli impegni siano in
eccesso rispetto alla dotazione finanziaria, mentre i livelli di pagamento siano differenziati: in
termini assoluti su 45,9 miliardi programmati, ne sono stati impegnati 57 e spesi 48.
I fondi e gli Assi - Per quel che riguarda i pagamenti, la quota più alta rispetto ai contributi
l’ha registrata il Feoga, specializzato in agricoltura, la più bassa lo Sfop, fondo dedicato alla
pesca, per il quale il livello di spesa è pari al 92% del contributo. Se la valutazione viene fatta
per Assi, le risorse finalizzate alle “Reti e nodi di servizio” sono state impegnate per il
123,6% ed erogate per il 105,9% del contributo, mentre per gli Assi “Risorse culturali” e
“Sistemi locali di sviluppo” si sono raggiunti livelli di pagamento rispettivamente dell’86% e
dell’89,6% del contributo.
I Programmi operativi - La media dei PON (Programmi operativi nazionali) è al 120,7% per
gli impegni e al 105% per i pagamenti. Livelli di impegno inferiori al contributo assegnato si
sono registrati solo per i PON “Assistenza tecnica” e “Pesca”. Mentre per le erogazioni solo
quattro PON hanno speso meno del contributo assegnato: quelli per la “Pesca”, la “Scuola per
lo sviluppo”, l’“Assistenza tecnica” e la “Sicurezza”. La media dei POR (Programmi operativi
regionali) si attesta su un livello di pagamenti del 104,6% del contributo, con il valore più alto
in Puglia, dove raggiunge il 112,7% e quello più basso in Campania, dove è al 101% di
quanto assegnato.
Quanto hanno influito i progetti coerenti – Secondo il Rapporto 2008 del Dipartimento per
le Politiche di Sviluppo, il valore dei “progetti coerenti” è calcolato in 20,4 miliardi,
corrispondenti al 44,5% della dotazione finanziaria. Particolarmente rilevante l’incidenza dei
9
progetti coerenti, meglio noti come “progetti sponda”, su alcuni Assi strategici, come quello
delle “Reti e nodi di servizio”, che li ha utilizzati per l’85,7% del totale. E’ perciò evidente
che a fine 2009 il livello complessivo della capacità di spesa delle risorse assegnate con la
programmazione 2000/2006 è stato elevato proprio grazie ai progetti coerenti.
Le valutazioni dell’Ue – Nel Rapporto della Commissione Europea del 19 aprile di
quest’anno emerge che in Italia le risorse del Fesr del ciclo 2000/2006 hanno dato un
contributo significativo alla crescita delle aree Obiettivo 1. Rendendo più attrattivi i territori
meridionali e migliorando l’armatura infrastrutturale e la capacità della pubblica
amministrazione, anche se non si sono potute contrastare le cause profonde del ritardo di
sviluppo. Ciò soprattutto perché sono stati privilegiati progetti di ridotto importo unitario,
frammentati, non inseriti in una complessiva strategia di sviluppo e perché c’è stata una quasi
totale assenza di progetti interregionali.
La programmazione 2007/2013 – A circa tre anni dall’approvazione del Quadro Strategico
Nazionale 2007/2013, il disegno di una cornice programmatica unitaria per la politica
regionale, finanziata con risorse nazionali, del Fas e comunitarie, è in crisi. Ciò a seguito delle
decisioni intervenute nel corso del 2008 e del 2009 relative alla manovra finanziaria per
fronteggiare la grave crisi economica internazionale. Complessivamente il Quadro Strategico
Nazionale prevedeva di attivare 60,3 miliardi di risorse europee e 64,4 del Fas, per un totale
di 125 miliardi. Ma i 64,4 miliardi inizialmente assegnati al Fondo Aree Sotto Utilizzate sono
stati via via ridotti e spostati su obiettivi che nulla hanno a che vedere con le politiche di
sviluppo e coesione.
Quanto è stato destinato al Sud – Sul totale delle risorse dei Fondi Strutturali stanziate per
la programmazione 2007/2013, alle Regioni della Convergenza, è stato destinato il 78,5% del
totale, comprendendo anche le aree interessate dai fenomeni di transizione. Per il 60% questa
somma è stata finalizzata a investimenti nell’energia e nell’ambiente, al sostegno della
competitività dei sistemi produttivi e dell’occupazione, alle reti, alla ricerca e innovazione. I
Programmi operativi regionali (POR) che hanno avuto più soldi sono il POR FESR Campania
e Sicilia, che assorbono rispettivamente il 15,9% e il 15,1% del contributo dato alle regioni
della Convergenza.
A che punto è la programmazione 2007/2013 – I maggiori ritardi riguardano proprio quei
programmi destinati a favorire interventi interregionali e una maggiore cooperazione tra le
Regioni, come due Programmi operativi interregionali (POI): quello per le “Energie
rinnovabili e risparmio energetico”, che presenta un livello di impegni e di pagamenti pari al
6,08% di quanto assegnato, e quello “Attrattori culturali, naturali e turismo” che addirittura
non registra né impegni né spesa. Un avanzamento superiore alla media degli impegni e della
spesa dell’obiettivo Convergenza si riscontra per tutti i Programmi operativi nazionali (PON).
Per i Programmi operativi regionali, invece, le migliori performances le hanno il POR FESR
Basilicata, con un livello di impegni e pagamenti rispettivamente del 23,66% e del 15,13%
del contributo, e il POR FESR Calabria, con il 30,6% di impegni e il 6,62 di pagamenti.
Peggio vanno quelli della Campania e della Puglia, con un livello di impegno per entrambe le
Regioni inferiore al 10% e di spesa rispettivamente al 3.81% e al 5,99% dei contributi
assegnati. Grazie a una recente modifica al Regolamento sui Fondi strutturali che prevede una
riduzione della soglia minima di spesa da realizzare entro il 31 dicembre 2010, si limitano
notevolmente i rischi di perdere risorse comunitarie a fine anno.
10
Cosa dice la Svimez - “Al peggior andamento del Mezzogiorno ha concorso una ridotta
efficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, conseguente a una
dimensione della spesa pubblica per investimenti assai inferiore a quanto programmato. A
deprimere l’efficacia ha concorso anche la scarsa qualità degli interventi. Le carenze di
fondo sono state: la dispersione delle risorse aggiuntive da finalizzare all’accelerazione dello
sviluppo sul territorio in una eccessiva molteplicità di interventi, rispondenti troppo spesso a
domande localistiche; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e
realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui. E
l’impostazione del nuovo “Quadro Strategico Nazionale” 2007 -2013 si è mossa in continuità
con il precedente periodo di programmazione: c’è il rischio di una riproposizione
dell’esperienza negativa del ciclo di programmazione 2000- 2006. Non solo, ma riguardo
all’avanzamento degli interventi, si confermano le difficoltà attuative”.
11
FEDERALISMO E POLITICHE DI FINANZA PUBBLICA
Gli effetti della crisi finanziaria – L’andamento dei conti pubblici nel 2009 è stato
pesantemente condizionato dagli effetti della crisi economica e finanziaria mondiale. Tali
conseguenze sono state particolarmente rilevanti sugli stanziamenti di bilancio a favore
delle aree sotto utilizzate, perché ai tagli già decisi nel 2008 se ne sono aggiunti altri nel
2009. La Svimez ha stimato tali riduzioni in 1 miliardo e 963 milioni nel 2008 e in 4
miliardi e 284 milioni nel 2009. Tuttavia il tasso di utilizzazione delle risorse del Fas è
migliorato l’anno scorso rispetto al 2008, passando dal 26,6% al 36,3%: un livello
comunque ancora troppo basso, se si pensa che nel 2004 aveva raggiunto il 73,3%.
Andamento insoddisfacente anche per i pagamenti effettuati sul conto corrente di tesoreria
che gestisce, nell’ambito del Fondo di Rotazione delle politiche comunitarie, le risorse statali
destinate al cofinanziamento nazionale degli interventi comunitari.
Legge delega sul federalismo fiscale - Il nostro Paese ha bisogno di un sistema federale
credibile, che si può ottenere solo attraverso la commistione e non la separatezza delle
competenze. Il modello di riferimento è quello degli Usa, dove i poteri del governo federale e
degli States sono distinti, ma non separati. Se si guarda, invece, ai potenziali effetti del
federalismo fiscale per i Comuni, ai quali sono demandate in gran parte materie come
l’assistenza, l’istruzione, i trasporti pubblici locali, si notano subito le difficoltà di attuazione.
La situazione attuale è sotto gli occhi di tutti: a fronte di una maggior pressione fiscale
subita dai meridionali, il livello dei servizi al Sud è peggiore. E i trasferimenti erariali,
invece di venire incontro alle esigenze dei più deboli, premiano i più forti.
Spesa storica e costi standard - La legge delega prevede che il fabbisogno delle funzioni di
Comuni e Province sia finanziato considerando l’80% delle spese come fondamentali e l’altro
20% come non fondamentali. In particolare per i Comuni sono fondamentali le funzioni di
gestione, amministrazione e controllo, quelle di polizia, l’istruzione pubblica, la viabilità e i
trasporti, la gestione del territorio, quelle in campo sociale. Tutto ciò è attualmente finanziato
col criterio della spesa storica. Il passaggio dalla spesa storica ai costi standard è al centro
della nuova legge sul federalismo fiscale. Perché è dal modo in cui si definisce il giusto
prezzo dei servizi che dipende l’entità dei trasferimenti.
Qualità dei servizi al Nord e al Sud – Secondo la Banca d’Italia, la qualità di alcuni servizi
pubblici essenziali, come istruzione, sanità e giustizia, che normalmente non rientrano nella
sfera di competenza delle politiche territoriali, è generalmente scarsa nelle aree meridionali.
In tale ottica il Quadro Strategico Nazionale 2007/2013 ha riconosciuto un ruolo strategico al
rafforzamento dell’offerta di servizi collettivi, confermando un sistema di premialità a favore
delle Regioni meridionali che conseguiranno gli obiettivi fissati per il miglioramento di tali
prestazioni, in particolare in quattro ambiti: istruzione, cura per bimbi e anziani, gestione dei
rifiuti, servizi idrico.
Federalismo demaniale – L’obiettivo del federalismo demaniale, il primo dei decreti
attuativi approvati dal Governo, è rendere più efficiente e redditizia la gestione del
patrimonio, anche dismettendo gli immobili non più strumentali all’esercizio delle funzioni, e,
al tempo stesso, favorire il decentramento delle funzioni pubbliche agli enti territoriali, che
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possono così procacciarsi nuove entrate sfruttando economicamente il patrimonio
immobiliare trasferito. Naturalmente ci sono anche dei rischi: gli enti territoriali potrebbero
essere incentivati ad adottare comportamenti opportunistici scegliendo solo quei beni che
hanno immediate prospettive di valorizzazione. Inoltre le attuali difficoltà economiche dei
Comuni e la prevista riduzione dei trasferimenti statali potrebbero spingere quelli più deboli a
concedere varianti allo strumento urbanistico pur di rendere edificabili nuove aree e
procacciarsi così maggiori risorse. La grande disomogeneità nella distribuzione territoriale e
la ridotta dimensione dei valori finanziari in gioco rischiano di rendere l’intera operazione
scarsamente utile nella direzione del federalismo fiscale.
Spesa pubblica al Sud e al Nord – La spesa pubblica, intesa come spesa delle
amministrazioni centrali e territoriali, al netto di quella per interessi, è più bassa nel
Mezzogiorno rispetto al Centro Nord. Non hanno consistenza le affermazioni anche di fonte
autorevole che accreditano il Sud di un volume di spesa pubblica elevato. I dati disaggregati
per livello di governo relativi alle spese correnti evidenziano un divario molto più marcato per
gli enti locali meridionali, che presentano livelli di spesa pro capite inferiori a quelli del
Centro Nord del 14%. Si conferma la tendenza alla riduzione della quota di spesa in
conto capitale nel Mezzogiorno, attestata al 34,8% dopo che nel 2001 aveva raggiunto il
41,1%: lontano e praticamente irraggiungibile resta l’obiettivo del 45%.
Quanto ha pesato il taglio al Fas – I tagli al Fas hanno notevolmente influito sul livello di
spesa pubblica al Sud. Infatti, fino al 2007 non si sono avuti scostamenti significativi tra
previsioni di spesa iniziali e finali. A partire da quell’anno, però, la situazione è cambiata: già
nel 2007, infatti, le previsioni definitive sono state minori rispetto a quelle iniziali di 1
miliardo e 100 milioni, poi saliti a 1 miliardo e 968 milioni nel 2008 e addirittura a 4 miliardi
e 284 milioni nel 2009. Riducendo così drasticamente l’ammontare delle risorse di
competenza del Fondo Aree Sotto Utilizzate. Attualmente il tasso di utilizzo delle risorse del
Fas è al 36,3% del totale a fronte del 26,6% del 2008, un livello più elevato ma ancora
nettamente inferiore a quello degli anni precedenti.
Cofinanziamento interventi comunitari – Le risorse destinate al cofinanziamento degli
interventi dei fondi strutturali comunitari, che si sommano a quelle del Fas, hanno avuto
anch’esse un trend discendente di utilizzo: nel 2004 si è raggiunto il picco con circa 5
miliardi erogati, tra il 2006 e il 2008 ci si è attestati tra i 4,8 e i 4,9 miliardi, nel 2009 si è
scesi a 3,2 miliardi: ciò significa che solo il 17% delle somme spendibili su questo
capitolo è stato erogato.
La Finanza comunale – Le spese correnti dei Comuni tra il 2007 e il 2009 sono cresciute,
a livello nazionale, del 5,3%. Ma l’incremento maggiore si è avuto al Sud, +9,1%, a
fronte del 3,4% al Nord e del 5,3% al Centro. Non solo, ma mentre crescevano le spese, le
entrate aumentavano dell’1,8% a livello nazionale, aumento che deriva da una riduzione
dell’ 1,9% al Nord, e da incrementi del 2,3% al Centro e dell’1,1% al Sud. Infine, i
trasferimenti erariali, anche in seguito alla progressiva abolizione dell’Ici sulla prima casa,
sono cresciuti nel triennio del 28,5% a livello nazionale, con un andamento molto
diversificato tra le diverse ripartizioni territoriali: +13,9% nel Mezzogiorno, +39,8% al
Nord, +31,2% al Centro. Ciò è anche la conseguenza del fatto che l’abolizione dell’Ici ha
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ridotto nel triennio le entrate tributarie del 26,5%, che significa -26,1% al Nord, -37,3% al
Centro, -14,3% al Sud.
Cosa dice la Svimez - “La quota delle risorse nazionali del FAS dirottata verso altri indirizzi
raggiunge circa 26 miliardi. Ciò ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli
interventi previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul
“Quadro Strategico Nazionale 2007-2013”, indebolendone significativamente la componente
nazionale. E le ultime indicazioni di politica economica del Governo sembrano proseguire
nell’indebolimento dell’aggiuntività delle risorse. La SVIMEZ propone l’istituzione di una
“Conferenza delle Regioni meridionali”, in costante rapporto con la Presidenza del
Consiglio, che in sede congiunta, una sorta di “Consiglio per la coesione nazionale”,
possano assumere impegni vincolanti nella scelta di pochi grandi progetti strategici
prioritari, su cui appostare risorse nazionali e regionali, frutto del riordino degli interventi e
del reintegro dei fondi nazionali. A questo coordinamento strategico è necessario affiancare
una struttura tecnica, un’Agenzia indipendente che si occupi della progettazione e sia di
supporto all’attuazione dei grandi interventi prioritari per il Mezzogiorno
definiti dalla Conferenza e dal Governo.”
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POLITICHE INFRASTRUTTURALI ED AREE URBANE
Il Sud piattaforma logistica del Mediterraneo – Grazie alla posizione geografica e alla
dotazione di porti e aeroporti il Sud può svolgere un ruolo di cerniera negli scambi
commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del Far East lungo la rotta del canale di Suez.
La piattaforma sub – mediterranea, con i suoi oltre 250 milioni di abitanti, è una fonte di
interscambio da valorizzare e la creazione di un’area di libero scambio tra l’Europa e i paesi
del Mediterraneo va in questa direzione.
La spesa per infrastrutture – Tra il 2007 e il 2010 la caduta degli investimenti
infrastrutturali è stata pari all’8,8%. Eppure, proprio i grandi programmi di sviluppo
infrastrutturale sono il principale strumento capace di generale la crescita economica. Per
rilanciare gli investimenti in quest’ambito bisogna sviluppare il finanziamento privato e
sfruttare tutte le opportunità che ancora ci sono di finanziamento pubblico. Al Sud è
determinante la leva pubblica.
Le scelte del Cipe – Il Cipe a metà maggio 2010 ha definitivamente assegnato 7 miliardi e
mezzo degli 11 miliardi e 300 milioni di risorse pubbliche programmate, di cui 6 destinati alle
grandi opere e 1 e mezzo a quelle medio piccole, e ha anche approvato convenzioni
autostradali per quasi 6 miliardi sui 18 previsti. Ma l’attivazione effettiva di queste risorse a
tutt’oggi è piuttosto scarsa, con solo 1 miliardo e 300 milioni impiegabili a breve termine,
grazie ai cantieri già aperti. Peraltro la produttività dei cantieri meridionali è ancora molto
critica, in particolare per responsabilità della Pubblica Amministrazione che non sa
programmare, progettare finanziare e gestire, e ciò incide notevolmente sui tentativi di
reperimento di risorse private.
Concentrare le risorse su obiettivi strategici – Il recupero del gap infrastrutturale
meridionale passa attraverso la riduzione della frammentazione delle risorse. In quanto la
progressiva erosione dei fondi del Fas spinge verso una concentrazione su poche ma
significative priorità. La programmazione 2007/2013, mettendo insieme le risorse del Fas e
quelle dei fondi strutturali, si basa su una spesa infrastrutturale attivabile al Sud di 35 miliardi
e 600 milioni, di cui 18,6 a valere sul Fondo Aree Sotto Utilizzate e 17 sui fondi strutturali.
Ma finora i primi segnali sull’attuazione del nuovo ciclo di programmazione non sono
confortanti: a parte le incertezze sui Piani di Attuazione Regionali (Par), la programmazione
comunitaria cammina troppo lentamente, per cui a febbraio 2010 i Programmi Operativi
Regionali (Por) avevano impegnato appena il 13,2% dei fondi e speso solo il 5,7%.
Le reti ferroviarie – Nel 2009 solo una persona su 5 al Sud ha utilizzato il treno per i propri
spostamenti, contro una su 3 del Centro Nord. La dotazione di reti ferroviarie ad Alta Velocità
è e sempre più sarà quasi interamente concentrata al Centro Nord, mentre al Sud sono previsti
progetti importanti, ma di livello tecnologico e di prestazione inferiore, sia sulla Napoli – Bari
che sulla Salerno Reggio Calabria e sulla rete siciliana. Per di più dal polo di Napoli, snodo
decisivo nei collegamenti tra Nord e Sud, partono e arrivano, esclusa l’AV, 35 treni al giorno
da e per Roma, che si riducono a un terzo nel percorso fino e da Reggio Calabria e addirittura
a un settimo se si raggiunge o si viene dalla Sicilia. Peraltro la rete ferroviaria meridionale,
fatta eccezione per la dorsale tirrenica e una parte di quella jonica, è costituita da linee
15
complementari secondarie. E ancora oggi deve fare i conti con una rete che al 51,6% non è
elettrificata e spesso è a binario unico.
Le reti stradali – La rete stradale meridionale è formata prevalentemente da assi viari non
autostradali. Un elevato indice di diffusione autostradale c’è in Abruzzo e in Campania,
mentre è fortemente deficitaria in Calabria, Puglia, Molise e Basilicata. La Sardegna è del
tutto priva di tratte autostradali. Peraltro la mancata tariffazione di gran parte delle autostrade
al Sud si è rivelata incoerente con le esigenze di sviluppo e di funzionalità della rete.
I porti – 178 dei 263 porti italiani sono localizzati al Sud. Ma le infrastrutture a servizio degli
scali meridionali non sono adeguate, soprattutto per quel che riguarda la capacità di
movimentazione delle aree di stoccaggio. Nel 2009 la portualità italiana ha registrato una
brusca caduta dei volumi di traffico.
Gli aeroporti – Il Sud ha una buona dotazione aeroportuale: tra i 45 scali italiani, 17 sono nel
Mezzogiorno. Gli aeroporti meridionali hanno collegamenti stradali ma sono privi di
collegamenti ferroviari.
Centri intermodali – La distribuzione sul territorio italiano delle piattaforme logistiche e dei
centri intermodali riflette la forte concentrazione delle attività produttive al Nord. Non a caso
l’indice di dotazione è pari al 39,9 al Sud a fronte del 135,7 del Centro Nord.
Caratteristiche delle aree urbane al Sud – Le aree urbane del Mezzogiorno sono
caratterizzate da una scarsa interrelazione tra le città, da una difficile, a volte addirittura
fallimentare, gestione dell’ambiente urbano, da un’insufficienza dei servizi pubblici
essenziali. Peraltro il Sud appare fortemente svantaggiato rispetto al Nord in particolare per
gli investimenti in ferrovie di interesse urbano. Le grandi città del Sud sono ben lontane dagli
standard europei di sostenibilità urbana e segnano il passo nelle politiche ambientali. Ciò vale
soprattutto per le grandi conurbazioni, come Napoli – Caserta, Palermo e Catania, mentre
segnali positivi vengono da alcune città di media dimensione come Cagliari e Salerno. In
particolare il capoluogo campano è afflitto da un grave problema di congestione urbana, da un
affollamento abitativo eccessivo, e da una scarsa dotazione di strutture ricettive di tipo
alberghiero che non consente di far fronte in modo adeguato alla crescente domanda turistica.
Cosa dice la Svimez - “Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti è uno strumento
per la crescita e l’integrazione, già a partire dal 2010. Per assumere un ruolo di cerniera
negli scambi commerciali tra Europa e Mediterraneo, il Sud deve diventare un punto di
giunzione fondamentale che investa l’intero sistema infrastrutturale nazionale. La “frontiera
Sud” rende urgente la realizzazione di grandi infrastrutture strategiche, non solo per la loro
valenza economico-territoriale rispetto a qualsiasi progetto di sviluppo produttivo del
Mezzogiorno, ma anche per la loro capacità di mobilitare risorse e impieghi tali da
contribuire in misura rilevante all’uscita dalla crisi. Forme di finanza di progetto e di
partenariato pubblico-privato sono gli strumenti più idonei a impostare un programma di
priorità infrastrutturali. Una prima selezione di opere prioritarie per il completamento del
sistema dei trasporti nel Mezzogiorno dovrebbe comportare un costo di circa 46 miliardi, con
una copertura attuale di poco più di 11 miliardi e un fabbisogno finanziario da reperire di
quasi 35 miliardi. Si tratta di opere cruciali, alcune già in corso di esecuzione e dotate di
parziale copertura finanziaria o da finanziare in misura totale, altre non ancora esaminate
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dal CIPE. Si tratta di importi consistenti ma tuttavia contenuti se confrontati con gli impegni
finanziari rilevabili per il resto del Paese. La realizzazione di tali opere potrebbe avvalersi di
un non trascurabile contributo della componente privata. Potrebbe essere un primo campo su
cui procedere con lo sforzo di concentrazione e riorientamento dei Fondi per lo sviluppo.”
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LE POLITICHE DELLA P.A.
Qualità dei servizi pubblici al Sud – La qualità dei servizi pubblici al Sud, come giustizia,
sanità, istruzione, trasporti, servizi locali, è decisamente inferiore rispetto al resto del Paese. E
i processi avviati di liberalizzazione, privatizzazione e riforma delle autonomie e dei servizi
pubblici locali hanno ampliato invece di ridurre i divari tra le due Italie. Peraltro il tentativo di
ridisegnare lo Stato in senso federalista ha reso evidente l’incapacità di molti enti locali a
gestire in modo efficiente funzioni di grande rilevanza. L’effetto è sotto gli occhi di tutti:
scarsa vivibilità ambientale, poca sicurezza, mancanza di adeguati standard di istruzione,
servizi sanitari non idonei.
Il peso delle carenze istituzionali – Le carenze istituzionali pesano in modo considerevole
sulla fornitura da parte delle amministrazioni pubbliche di servizi primari, come scuola, sanità
e giustizia. Al Sud questo fenomeno è più diffuso, sia per il rapporto di sudditanza del
dirigente pubblico al potere politico, sia per gli alti costi connessi agli adempimenti
amministrativi: basti pensare che le Conferenze dei servizi sorte proprio per ridurre tale
complessità, si sono spesso trasformate in un ostacolo insuperabile.
I numeri della P.A. meridionale – Attualmente la Pubblica Amministrazione italiana
assorbe quasi il 15% dell’occupazione totale. Ma il peso degli occupati nella P.A. è molto più
consistente al Sud: 18,8% contro il 12,2% del Centro Nord. Soprattutto in Calabria, dove
raggiunge il 21,2%, in Sicilia 20% e in Campania 19,5%.
La scarsa attrattività del Mezzogiorno - L’insieme di questi nodi critici contribuisce a
limitare l’afflusso al Sud non solo degli investimenti diretti esteri e privati interni ma anche di
quelli delle grandi società pubbliche o ex pubbliche. Ciò perché la potenzialità attrattiva di un
territorio non è soltanto la conseguenza di aree attrezzate con infrastrutture specifiche al
servizio di un insediamento industriale, ma dipende anche da una serie di fattori di contesto
come la capacità di governo del territorio, la semplificazione amministrativa, i tempi della
giustizia.
La gestione dei rifiuti urbani – Le Regioni del Nord sono in linea con l’obiettivo posto per
la raccolta differenziata dei rifiuti, 45,5%, quelle del Centro sono ancora lontane, attestate al
22,9%, quelle meridionali sono ferme ad appena il 14,7%.
Servizi pubblici al cittadino – Migliorano i tempi d’attesa negli uffici comunali preposti
all’anagrafe al Sud mentre resta negativa la situazione nelle Asl, dove i tempi di attesa per gli
utenti sono molto più lunghi rispetto al Centro Nord. L’aspetto più preoccupante è quello
della giustizia civile, dove la durata di un processo civile al Sud è attorno ai 1.108 giorni
contro gli 805 del Centro Nord. Persiste un forte divario sui servizi ospedalieri e ciò spinge
circa il 10% del totale dei residenti ricoverati per interventi chirurgici acuti nei nosocomi del
Sud ad andare al Nord.
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Cosa dice la Svimez - “La lettura del divario di sviluppo del Mezzogiorno con il resto del
Paese si è progressivamente caratterizzata su una vasta gamma di servizi essenziali a
regolamentazione nazionale e locale, e sull’efficienza delle Pubbliche Amministrazioni. Si
pone spesso poca attenzione sulle carenze istituzionali che ritardano, se non ostacolano, il
processo di sviluppo nel Mezzogiorno: eppure la scarsa qualità al Sud dell’offerta di beni e
servizi pubblici essenziali, come giustizia, sanità, istruzione, trasporti, lavori pubblici, servizi
locali, ha ricadute rilevanti sulle
condizioni di vita dei cittadini e sul funzionamento dell’economia. Gli stessi processi avviati
negli ultimi anni, di liberalizzazione, privatizzazione, riforma delle autonomie e dei servizi
pubblici locali, anche se potenzialmente positivi hanno finito per costituire occasione di
ampliamento dei divari tra le diverse aree del Paese. L’insieme di questi nodi critici
contribuisce a limitare l’afflusso nel Mezzogiorno non solo degli investimenti diretti esteri e
privati interni ma anche degli investimenti delle grandi società pubbliche e/o ex pubbliche”.
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LE POLITICHE CREDITIZIE
Credito e Mezzogiorno - Dai primi anni ‘90, la crescente integrazione economica
internazionale ha spinto le banche italiane a introdurre forti processi di ristrutturazione per
consentire di agire in un contesto diventato molto più competitivo. Nonostante questo, la
dimensione del mercato bancario italiano è ancora sotto la media europea e tale criticità si fa
sentire soprattutto al Sud. Lo prova, ad esempio, la riduzione del numero di banche
meridionali nell’area e la penetrazione di istituti del Centro-Nord: nel 1990 esistevano al Sud
100 banche indipendenti con sede legale nell’area e 16 gruppi bancari con sede nell’altra
ripartizione; nel 2004 erano rimaste solo 21 aziende di credito, tutte appartenenti a gruppi
settentrionali.
Banche e sportelli - Nel 2009 il numero di banche operative nel Mezzogiorno è passato
da 222 a 215; di queste, tra le 151 aventi sede nell’area, 17 facevano parte di gruppi del
Centro-Nord.
L’Italia è il paese con il più alto numero di sportelli per abitante in Europa dopo la Spagna,
ma la loro diffusione è disomogenea e legata al diverso peso economico regionale (presenza
di imprese, densità di popolazione, PIL). Nel 2009 gli sportelli bancari presenti al Sud
erano 7.196, 100 in meno rispetto al 2008. 4.133 facevano parte di banche con sede legale al
Sud, e di queste 2.737 appartenevano a gruppi del Centro-Nord.
Dal 2000 al 2006 la quota di sportelli di grandi banche è passata al Sud da 58% al 66%, le
medie sono scese dal 21% all’11%, le piccole e BCC sono rimaste pressoché stabili, dal
20,2% al 21,9%:
Imprese e accesso al credito – Colpendo l’industria, la crisi ha inferto un duro colpo anche
all’accesso al credito delle imprese del settore, già critico al Sud per motivi strutturali
(maggiori rischi, minor numero di aziende, prevalenza di aziende di piccole dimensioni e
attive nei settori tradizionali, ecc). Tra le due ripartizioni, però, ne ha fatto le spese soprattutto
il Nord-Ovest, con un crollo dei prestiti erogati che al febbraio 2010 arrivava a -5,5%
rispetto all’anno precedente, mentre nello stesso periodo il Sud segnava +0,4%. A livello
settoriale le imprese manifatturiere hanno subito un tracollo nell’erogazione dei prestiti, con
un calo, nel Nord Ovest, del 10%, a marzo 2010, rispetto a marzo 2009. Dimezzata invece
nello stesso periodo la riduzione al Sud: -5,39%. Da segnalare però che mentre il Nord Ovest
ha iniziato a perdere colpi dal marzo 2009, per stretto effetto della crisi, al Sud, invece, le
dinamiche negative erano già presenti dal dicembre 2008, quindi più legati a fattori di
contesto che alla crisi congiunturale.
Riguardo alle dimensioni, a marzo 2010 le piccole imprese del Sud (meno di 20 addetti)
hanno registrato contrazioni dello 0,5% rispetto all’anno precedente, mentre per quelle di
dimensione superiore la disponibilità di credito è cresciuta dello 0,85%. Situazione capovolta
al Centro-Nord, con un calo del 4,5% per le imprese over 20 addetti, e una flessione dello
0,8% per le under 20.
Nel 2009 i prestiti bancari alle imprese meridionali sono cresciuti dello 0,4%, in forte
rallentamento rispetto al 2008 (+4,6%), mentre sono diminuiti del 4% al Centro-Nord. A
livello dimensionale al Sud le piccole imprese hanno tenuto, mentre le altre sono cresciute
dello 0,5%. A livello settoriale, invece, le contrazioni più forti hanno interessato l’industria
20
manifatturiera (-7,2% al Sud, - 9,9% al Centro-Nord). Tengono, invece, le imprese di
costruzioni (+1,2% al Sud).
A dicembre 2009 i tassi di interesse sui prestiti a breve termine alle imprese del Sud sono
scesi al 6,4%, oltre due punti in meno rispetto al 2008. Andamento simile nell’altra
ripartizione, ora al 5% (dal 7,4% del 2008). Nel 2009 il divario del costo del credito nelle
due aree si è mantenuto stabile, a 1,4%.
In crescita rispetto al 2008 anche le sofferenze, aumentate nelle imprese del Sud di un punto
percentuale (da 2,2% a 3,2%), più o meno come per le aziende del Centro-Nord (da 1,5% a
2,4%). In base a un altro indicatore, però, che misura il grado di peggioramento del
sistema nel 2007-2009 in piena crisi, a livello di sofferenze le imprese del Sud segnano
+54%, mentre quelle del Centro-Nord arrivano al 142%.
La riduzione del gap di rischiosità delle imprese delle due ripartizioni, passato dal 2% del
2007 all’1,2% del 2009, dimostra non un aumento della disponibilità di credito al Sud, ma un
peggioramento del rapporto banche-imprese al Centro-Nord.
Famiglie - Nel 2009 i prestiti concessi alle famiglie del Mezzogiorno sono cresciuti quasi
del 6%, a fronte del 5% dell’altra ripartizione, mentre si sono contratti notevolmente
soprattutto i prestiti per l’acquisto di abitazioni, al Sud -17%. In crescita anche le
sofferenze, passate da +1,1% del 2008 a +1,5% del 2009.
Sul fronte dei risparmi, per famiglie e imprese, nel complesso tengono depositi e obbligazioni
(+4,7% al Sud, +6,7% al Centro-Nord). Giù i titoli di stato (-32% al Sud, -20% nell’altra
ripartizione) e le gestioni patrimoniali (-14,5% e -29%, rispettivamente).
Il Governo e la Banca del Mezzogiorno – Gli interventi nazionali del Governo a sostegno
degli istituti di credito per favorire l’accesso al credito delle imprese si sono mossi
prevalentemente nella direzione di rafforzare il Fondo di garanzia per le pmi e le funzioni
della Cassa Depositi e Prestiti.
Accanto a questi interventi che non rivestono specificità territoriali, va segnalato il progetto di
costituire la Banca del Mezzogiorno, originato dal decreto legge 112/2008, che vuole invece
essere uno strumento specifico di sostegno al credito e allo sviluppo delle regioni meridionali.
Secondo la SVIMEZ, occorrerebbe analizzare meglio la capacità della Banca di finanziare
progetti in grado di avviare lo sviluppo dell’area. Se infatti seguisse esclusivamente logiche di
massimizzazione del profitto non potrebbe garantire di stornare i risparmi raccolti nell’area
alle imprese meridionali, dati i maggiori rischi legati alla clientela, la fragilità del sistema, la
minore qualità della domanda di credito. L’impianto della legge è sbilanciato verso la
raccolta, e la fiscalità di vantaggio introdotta è rivolta ai risparmiatori, mentre la banca
senza misure di incentivo ad hoc non avrebbe alcuna convenienza a investire nell’area.
Possibili correttivi potrebbero venire ad esempio dall’introduzione della detassazione degli
utili per progetti di investimento delle pmi meridionali, oppure dall’emissione di bond
garantiti dallo Stato, come per i finanziamenti alle infrastrutture.
Ciò non toglie che i progetti di investimento dovrebbero essere sottoposti a una severa
selezione, così da evitare distorsioni. La Banca potrebbe inoltre stipulare convenzioni con i
Confidi più strutturati, per accelerare il progetto di concentrazione del settore.
Da definire meglio inoltre i rapporti con Banche di Credito Cooperativo e Poste Italiane: le
prime già svolgono funzioni creditizie, ma le seconde non hanno esperienza in questo settore
ed un loro coinvolgimento potrebbe avere delle implicazioni sulla concorrenza del mercato
del credito, data la capillare distribuzione degli uffici postali sul territorio.
21
LE POLITICHE PER IL SUD, COMPETITIVITA’ E INTERNAZIONALIZZAZIONE
Mezzogiorno parte più vulnerabile del sistema economico – Nel 2009 le esportazioni dal
Sud hanno subito una flessione molto pesante, pari al 29,4%. Non solo, ma la quota del
Mezzogiorno sul totale dell’export italiano è bruscamente diminuita, attestandosi su un valore
di poco superiore all’8%. Ancora più bassa è la quota meridionale nelle partecipazioni
produttive italiane all’estero, pari al 3% in termini di addetti. L’aspetto più preoccupante è la
scarsa capacità dei territori del Sud di attrarre investimenti stranieri: appena il 5% sul totale
degli addetti nelle partecipazioni estere in Italia.
Quali settori risentono della crisi dell’export - L’impatto della crisi si è fatto sentire in tutti
i settori, pur se con intensità diversa: oltre un terzo della caduta è attribuibile ai derivati del
petrolio. I mezzi di trasporto e la metallurgia hanno risentito pesantemente del contesto
economico, mentre l’industria alimentare ha fatto registrare un piccolo incremento delle
proprie quote sui mercati esteri.
Le specificità regionali dell’export meridionale – Il calo più brusco nel 2009 lo hanno
avuto le esportazioni dalla Sicilia e dalla Sardegna, essenzialmente per la caduta dei prezzi dei
derivati del petrolio. La Campania ha recuperato, a sua volta, il primo posto nella graduatoria
delle Regioni esportatrici del Sud. Il Mezzogiorno detiene una quota relativamente elevata dei
traffici di perfezionamento attivo, sui quali è previsto dalla normativa europea un trattamento
agevolato, trattandosi di merci importate solo temporaneamente nel territorio comunitario per
essere trasformate o lavorate prima di essere riesportate. Il fenomeno è concentrato in
particolare in alcune Regioni, in prima fila la Campania, soprattutto per le operazioni svolte
nel polo aeronautico napoletano e per l’industria agro alimentare del distretto nocerino –
sarnese.
Gli assi di sviluppo al Sud – Il Quadro Comunitario di Sostegno 2000 – 2006 ha tradotto in
sei assi di intervento prioritario alcune aree che presentano rilevanti potenzialità di sviluppo,
ma, al tempo stesso, evidenti carenze: risorse naturali, risorse culturali, risorse umane, sistemi
locali di sviluppo, città, reti e nodi di servizio. Risorse naturali: negli ultimi anni sono
diminuite dell’8,8% le famiglie con problemi di erogazione dell’acqua, scendendo dal 30% al
20%. La raccolta differenziata dei rifiuti è cresciuta dal 2,2% al 14,1%. Risorse culturali:
Campania, Molise e Sicilia sono le Regioni meridionali che hanno maggiormente valorizzato
le risorse culturali. Risorse umane: è aumentata la quota di famiglie povere al Sud,
raggiungendo il 27,5% del totale. Ed è cresciuto l’abbandono scolastico nel primo anno di
scuola secondaria dal 10,5% al 13,5%. Sistemi locali di sviluppo: prosegue la perdita di
produttività in molti dei settori economici del Mezzogiorno. Città: è aumentato il verde
pubblico e c’è una maggiore diffusione di asili nido. Reti e nodi di servizio: è cresciuta del
13,5% la quota di piccole imprese che dispone di personal computer.
Gli assi di sviluppo a livello regionale – L’Abruzzo è la Regione con valori più simili alla
media italiana. La Campania è ancora carente in tutti gli assi, va un po’ meglio solo nel
settore delle risorse culturali, così come la Puglia. La Basilicata si conferma come Regione
meridionale che ha standard superiori alla media. La Calabria associa a valori
sistematicamente più bassi una struttura socio economica molto squilibrata, così come la
22
Sicilia. La Sardegna ha, invece, un andamento più regolare, ma al di sotto delle medie di
riferimento. In definitiva, i risultati sono ancora complessivamente deludenti.
I tagli al Fas cominciati nel 2008 – Il rapido deterioramento del quadro macro economico
nazionale ha orientato la scelta del Governo di impiegare le risorse del Fondo per le Aree
Sotto Utilizzate per interventi prioritari destinati al rilancio dell’economia. Nel secondo
semestre del 2008 le risorse del Fas apparivano, peraltro, inutilizzate in percentuale elevata.
Di qui la decisione di impiegarle sistematicamente in funzione anticiclica, anche al di fuori
delle aree destinatarie delle politiche di coesione. Nel corso del 2008 numerosi interventi
hanno previsto l’utilizzo del Fas a copertura di oneri correnti. A fine dicembre 2008 una
delibera del Cipe ha rideterminato per il periodo di programmazione 2007 – 2013 le risorse
Fas stanziate dalla Finanziaria 2007 per un totale di 64 miliardi e 379 milioni in 52 miliardi e
768 milioni. La riduzione totale è stata di 12 miliardi e 900 milioni.
I tagli al Fas proseguiti nel 2009 e nel 2010 – Nel corso dei primi mesi del 2009 c’è stata
una piccola reintegrazione della dotazione del Fondo Aree Sotto Utilizzate per un miliardo e
200 milioni. La successiva delibera del Cipe ha quantificato in 27 miliardi e 27 milioni le
risorse del Fas da assegnare alle Regioni e Province autonome, e in 25 miliardi e 409 milioni
quelle da destinare alle amministrazioni centrali. Il Fas di competenza nazionale è stato a sua
volta ripartito in tre fondi settoriali: al Fondo sociale per l’occupazione sono stati dati 4
miliardi, al Fondo infrastrutture 5, al Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia
reale 9. Quest’ultimo non è vincolato, come gli altri due Fondi, alla realizzazione di politiche
di sviluppo e coesione, e perciò è stato utilizzato per 7 miliardi e 122 milioni per interventi
diversi: per esempio, il finanziamento del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese e
l’incremento del Fondo conti dormienti destinato all’indennizzo dei risparmiatori vittime di
frodi finanziare. Invece i 27 miliardi del Fas di competenza regionale sono stati ripartiti tra le
due macro aree ma non rispettando, però, il vincolo territoriale: in quanto al Mezzogiorno
sono andati 21 miliardi e 800 milioni, al Centro Nord 5 miliardi e 195 milioni.
Risorse Fas per coprire i buchi della sanità - A fine marzo 2010 il ministero della Salute ha
previsto che le risorse Fas possano essere utilizzate per il ripiano dei disavanzi sanitari di
alcune Regioni: 1 miliardo per la Calabria, 420 milioni per il Lazio, 67 per il Molise, 500 per
la Campania.
Cosa dice la Svimez - “Serve un profondo processo di ristrutturazione dell’apparato
produttivo meridionale, che deve essere accompagnato da più efficaci politiche di sviluppo
che pongano le condizioni per cogliere le sfide e le opportunità nel “nuovo” scenario che si
aprirà all’uscita dalla crisi. Bisogna puntare su un Mezzogiorno come “frontiera” del Paese,
verso il Mediterraneo. Una specifica politica per le aree deboli, pur se riformata, è ancora
indispensabile, al fine di favorire i processi di modernizzazione, presenti anche al Sud, e le
nuove opportunità del contesto competitivo internazionale che torneranno a presentarsi”.
23
POVERTA’
Nel 2010, anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale, secondo Unione
Europea e Lisbona 2010, molti paesi del Vecchio Continente sono tornati a fare i conti con un
fenomeno in crescita e mai completamente debellato, difficilmente definibile con un unico
indicatore comune dal punto di vista statistico. Il nostro Paese, inoltre, è uno dei pochi a
essere privo di interventi di integrazione dei redditi, salvo la cassa integrazione, il principale
ammortizzatore sociale a cui si è ampiamente ricorso, dove possibile, durante la crisi.
Da 500 a 1.000 euro al mese – In base agli ultimi dati disponibili (2007) il 14% delle
famiglie meridionali vive con meno di 1.000 euro al mese, un dato quasi tre volte superiore
all’altra ripartizione (5,5%). Nemmeno una famiglia su 4 al Sud guadagna più di 3mila
euro al mese, mentre al Centro-Nord la percentuale è del 42%. I più ricchi in Abruzzo
(28,4%) e Puglia (28,1%), i più poveri in Sicilia (solo il 19%). A livello regionale, ad avere un
reddito massimo di 12mila euro l’anno sono oltre il 17% delle famiglie calabresi e lucane,
oltre il 16% delle molisane e siciliane, oltre il 14% le campane, quasi l’11% delle pugliesi.
Vivono poi con meno di 500 euro al mese oltre il 3% delle famiglie meridionali, contro lo
0,9% del Centro-Nord. In testa alla classifica la Calabria, con 4 famiglie su 100, seguita da
Campania e Sicilia (3,7%), Basilicata (3,1%), Molise (2,9%), Puglia (2,2%), Sardegna
(1,5%), Abruzzo (1,4%).
Fatto pari a 1 il reddito medio nazionale, il Sud si ferma al 77%, contro il 112% del
centro-Nord, con punte del 71% in Calabria e Sicilia, che arrivano a poco più della metà
nelle coppie senza figli calabresi, con la moglie under 64 anni, e tra gli autonomi. Da notare
che al Sud i pensionati sono più ricchi dei lavoratori autonomi (82% contro il 68%), con
punte basse in Calabria (76 contro 58), Sicilia (80 contro 65), Campania (82 contro 64).
Studiare, in più, paga sempre: i laureati al Sud arrivano a un reddito pari all’89% del
nazionale, 10 punti in più di chi ha solo la licenza elementare.
In valori assoluti, nel 2007 il reddito mediano è stato al Centro Nord di 21.066 euro, al
Sud quasi 6.500 euro in meno, 14.500, con forti differenze regionali: i più ricchi in Sardegna
(17.101 euro) e Abruzzo (16.820), i più poveri in Calabria (13.350 euro).
Un unico stipendio e più familiari a carico - Nel 47% delle famiglie meridionali vi è un
unico stipendio, addirittura il 54% in Sicilia. Hanno inoltre a carico tre o più familiari il
12% delle famiglie meridionali, un dato quattro volte superiore al Centro-Nord (3,7%), che
arriva al 16,5% in Campania. In oltre il 30% delle famiglie meridionali con un unico
percettore di reddito un solo stipendio deve sfamare almeno 2 familiari a carico, in oltre il
17% dei casi più di tre.
Anche la disoccupazione si fa sentire particolarmente: nelle famiglie del Sud è presente un
disoccupato nel 12% dei casi, più del doppio dell’altra ripartizione (5,7%), con la punta del
15% in Calabria. Il 4,4% delle famiglie sarde ha due o più disoccupati a carico.
Riguardo al titolo di studio, in oltre il 32% delle famiglie meridionali lo stipendio
principale è portato a casa da chi è in possesso di licenza elementare, o nessuno, una
quota superiore di quasi 8 punti rispetto al Centro-Nord, mentre solo nel 10,6% delle
famiglie meridionali è laureato.
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Il rischio resta anche con due stipendi - A rischio povertà a causa di un reddito troppo
basso quasi un meridionale su 3, contro 1 su 10 al Centro-Nord. In valori assoluti, al Sud, si
tratta di 6 milioni 838mila persone, fra cui 889mila lavoratori dipendenti e 760mila
pensionati. Riguardo al titolo di studio, oltre 1 milione 100mila ha un livello medio-alto,
con 122mila laureati. Quasi 2,5 milioni ha un’età compresa tra i 25 e i 49 anni. A livello di
composizione familiare le più colpite dal rischio sono i single con figli a carico, ben il
47,5% del totale, e il 42% degli anziani soli. Anche i monoreddito non se la passano bene: il
46% delle famiglie meridionali è a rischio povertà contro il 24% del Centro-Nord. Da
segnalare che non sempre, al Sud, uno stipendio in più oltre a quello base modifica la
situazione: in quasi una famiglia su 4 (23,9%) con due redditi il rischio rimane. Se è poi
presente anche un disoccupato, il rischio aumenta: al Sud il 48% delle famiglie con un
disoccupato è a rischio, contro meno della metà nell’altra ripartizione (23,2%).
Quando non si possono comprare vestiti, riscaldamento, medicine – La povertà morde
particolarmente nelle piccole scelte quotidiane: nel 2008 nel 30% delle famiglie al Sud sono
mancati i soldi per vestiti necessari e nel 16,7% dei casi si sono pagate in ritardo bollette di
luce, acqua e gas. Otto famiglie su cento hanno tirato la cinghia rinunciando ad
alimentari necessari (il 12% in Basilicata), il 21% non ha avuto soldi per il
riscaldamento (27,5% in Sicilia) e il 20% per andare dal medico (il 25,3% in Campania
e il 24,8% in Sicilia). Nel 2008 è arrivato con difficoltà a fine mese oltre una famiglia su 4
(25,9%) contro il 13,2% del Centro-Nord. Ben il 44% delle famiglie meridionali, quasi
una famiglia su due, non ha potuto sostenere una spesa imprevista di 750 euro (26% al
Centro-Nord).
Crisi, welfare e povertà – Nel 2009 in Italia hanno perso il lavoro per la crisi 380mila
persone. Di queste, 194mila al Sud (145mila uomini e 49mila donne). Su 194mila, ben
125mila erano giovani tra i 15 e i 29 anni. La dinamica aggrava un contesto in cui il tasso di
attività femminile e giovanile è già bassissimo.
Incrociando i dati della Cassa integrazione e delle forze lavoro risulta che su 186 posti di
lavoro persi al Nord, gli interventi di CIG hanno interessato 438mila persone, mentre al Sud
su oltre 200mila occupati in meno le misure utilizzate sono state di appena 96mila unità.
In altri termini, al Nord per ogni persona che perde il lavoro, 2 sono protette; al Sud è
l’opposto, solo un lavoratore su 3 ottiene la CIG. La bomba sociale è devastante: molti
lavoratori precari, perso il lavoro, al Sud, non sono stati minimamente tutelati.
Cosa dice la SVIMEZ – La crisi ha evidenziato la distanza tra soggetti tutelati e lavoratori
precari privi di garanzie, una polarizzazione che si riflette anche a livello territoriale, tra
Nord e Sud, dove sono numerose le famiglie monoreddito. Senza un recupero dei tassi di
attività giovanili e femminili il rischio di povertà è destinato a crescere nel tempo.
Serve una riforma del welfare che introduca misure individuali e soggettive a tutela dei
lavoratori espulsi dal ciclo produttivo, indipendentemente dal settore, dimensione e tipologia
di imprese. Il bonus famiglie varato dal Governo va nella giusta direzione, ma è di importo
troppo limitato per incidere sulle condizioni di vita; avrebbe bisogno di più risorse e di
misure di armonizzazione all’imposta personale sui redditi. In questo senso la riforma del
welfare, oltre a un elemento di equità generazionale, consisterebbe di attuare la più
importante politica meridionalistica.
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POPOLAZIONE, SCUOLA E MERCATO DEL LAVORO, MIGRAZIONI
Sessanta milioni di italiani – Alla fine del 2009 la popolazione italiana residente ha
consolidato il superamento della soglia dei 60 milioni di abitanti, concentrati per quasi il 66%
al Centro- Nord. Il Mezzogiorno a fine 2009 ha superato i 20,8 milioni. Resta un’area più
giovane, con un’età media di 41 anni rispetto ai 44 del Centro-Nord.
Natalità e mortalità – Nel 2008 il numero medio di figli per donna è stato 1,34 nel
Mezzogiorno e 1,42 nel Centro-Nord. È dal 2006 che le donne del Centro-Nord fanno più
figli delle donne del Sud. Tra le regioni a più bassa fertilità la Sardegna, il Molise e la
Basilicata. Da notare che al Centro-Nord più di un nato su 5 nel 2008 ha la madre straniera,
mentre nel Sud soltanto 1 su 20.
L’età media della maternità è stata nel 2008 di 32 anni al Centro-Nord contro i 30,7 del
Sud.
Nel 2009 il Centro-Nord ha registrato un tasso di natalità leggermente superiore a quello del
Sud: 9,5‰ contro 9,4‰. Campania e Sicilia hanno mantenuto natalità elevate, intorno al 10
per mille, come Valle d’Aosta, Lombardia e Trentino Alto Adige.
Per quanto riguarda la mortalità, la media meridionale nel 2009 è stata dell’9,2‰, mentre al
Centro-Nord il 10,1‰. Nel 2009 soltanto due regioni meridionali su otto, Campania e Puglia,
hanno evidenziato un incremento naturale positivo. La speranza media di vita nel 2009 è
stata per le donne di 83,6 anni nel Mezzogiorno e 84,4 anni al Centro-Nord. Le donne più
longeve nelle Marche, con 85,4 anni, le meno longeve in Campania e Calabria (83). Per gli
uomini la speranza media è al Centro-Nord di 79,2 anni, al Sud di 78,3. Gli uomini più
longevi nelle Marche (80 anni), i meno in Campania (77).
Figli e matrimoni – Resiste al Sud la tendenza a contrarre matrimonio a un’età media
relativamente più giovane rispetto al Centro-Nord. L’età media degli sposi meridionali nel
2008 è stata di 32 anni per gli uomini e di 29 anni per le donne, in aumento rispetto a dieci
anni prima, quando sia gli uomini che le donne si sposavano mediamente prima dei trent’anni.
Al Sud 3 matrimoni su 4 sono ancora celebrati secondo rito religioso ed è minoritaria rispetto
al Centro-Nord la percentuale di matrimoni con un coniuge straniero.
Mercato del lavoro: il Sud torna indietro di dieci anni – Nel 2009 gli occupati in Italia
sono stati 23 milioni e 25mila unità, 380mila in meno rispetto al 2008. Il tasso di occupazione
nella media del 2009 è sceso di quasi un punto percentuale rispetto al 2008, da 58,7% a
57,5%.
Su 380mila posti di lavoro in meno in tutto il Paese, 186 mila sono stati al Centro-Nord (-
1,1%). Situazione più pesante nel Mezzogiorno, con 194mila unità in meno (-3%).
Se si analizzano gli andamenti trimestrali dell’occupazione, emerge che la crisi è iniziata
prima al Sud e lì sembra durare più a lungo. Gli occupati al Sud sono quindi tornati ai livelli
di dieci anni fa. Dei circa 530mila posti di lavoro persi nell’ultimo anno e mezzo, 335mila
sono al Sud.
Crescono gli inattivi, più dei disoccupati – Dopo una riduzione di 110mila unità nel 2008,
nel 2009 gli inattivi in età lavorativa sono cresciuti di 329mila unità (+2,3%), in termini
assoluti un incremento superiore a quello registrato dai disoccupati.
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Mercato del lavoro regionale – Nel 2009 tutte le regioni meridionali sono state interessate
da difficoltà occupazionali. Perdite più consistenti in Abruzzo (-4,6%, pari a 23.800 posti di
lavoro in meno), Campania (-4,1%, pari a 68.700 posti di lavoro in meno) e Puglia (-
3,8%, 49.200 unità in meno). In linea con il calo del 3% degli occupati meridionali il Molise
(-3,1%, meno 3.600 posti) e la Sardegna (-3%, meno 18.600 posti di lavoro). Cifre più
contenute, pur se negative, in Basilicata (-2,7%, pari a 5.200 posti di lavoro), Calabria (-
1,5%, 9.100 posti) e Sicilia (-1,1%, 15.700 posti di lavoro).
Occupati e settori – La domanda di lavoro in agricoltura continua a scendere,
soprattutto al Sud (-5,8% contro il +0,9% del Centro-Nord). In calo anche l’industria, che
segna -6,3% al Sud e -2,7% nell’altra ripartizione. La dinamica dell’occupazione industriale
è sensibilmente negativa in tutte le regioni del Sud, particolarmente in Sicilia (-8,4%),
Campania (-7,2%) e Puglia (-7,3%), con l’eccezione della Calabria (+0,4%).
Giù anche i servizi, con un calo dell’1,6%, ben più marcato che nell’altra ripartizione (-0,4%).
In valori assoluti, il Sud ha perso nel 2009 25mila unità nel settore agricolo (+4.300 al Centro-
Nord), 94mila nell’industria (-145mila nell’altra ripartizione) e 74.300 unità nei servizi (-
44.700 nel Centro-Nord).
Occupati e contratti – Nel Sud nel 2009 i dipendenti sono calati del 2,9%, pari a 138mila
unità, gli autonomi del 3,2% (-55mila occupati). In Italia gli atipici nel 2009 sono scesi del
4,1%, ma nel Sud il calo è stato più forte, pari a -5,6%, cioè 82mila unità. In picchiata tra gli
atipici i contratti a termine, -7%, mentre i contratti part time scendono del 3,7%, pari a 30mila
unità in meno.
Da segnalare che nel Sud il contratto atipico viene spesso usato non come tipologia più
flessibile nell’accesso al primo lavoro, ma in sostituzione di contratti standard, trasformandosi
così da strumento di flessibilità in trappola di precarietà.
In forte calo al Sud anche le collaborazioni coordinate continuative (-11,7%, pari a 10mila
unità).
Disoccupati, giovani, impliciti e non – Nel 2009 il tasso di disoccupazione nazionale è
salito al 7,8% rispetto al 6,7% del 2008: 12,5% al Sud, 5,9% al Centro-Nord. I
disoccupati sono aumentati più al Centro-Nord (+29,9%) che al Sud (+1,4%). In testa
alla non invidiabile classifica, la Sicilia (13,9%), seguita dalla Sardegna (13,3%) e dalla
Campania (12,9%). In valori assoluti i disoccupati sono aumentati di 12.500 unità nel
Mezzogiorno, di cui 10.400 in Puglia (+6,2%).
Nella classe di età 15-24 anni nel 2009 la disoccupazione è arrivata in Italia al 25,4%, quattro
punti in più del 2008. A livello territoriale, arriva al 20,1% al Centro-Nord (+5,6% rispetto al
2008) e al 36% al Sud (dal 33,6% del 2008).Qui crescono anche i disoccupati di lunga durata
(sono il 6,6%del totale, erano il 6,4% nel 2008).
All’Italia spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione giovanile più alto in
Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Dal 2004 al 2009 il Sud ha perso
143mila unità, pari a -2,2%, percentuale che sale a -15,2% nella classe di età 15-35 anni. Nel
solo 2009 gli occupati al Sud dai 15 ai 24 anni crollano del -13,2%, -7,7% dai 25 ai 31
anni, mentre si mantengono stabili dai 45 ai 54 anni (+0,2%) e addirittura crescono in età
avanzata, over 55, + 3,6%. Cali più contenuti dell’occupazione giovanile al Nord (-10,8% tra
15 e 24 anni, -5,8% tra 25 e 34). Da confronto con dati Ue 2008 emerge il divario nel tasso di
27
occupazione di 13 punti percentuali (24,4% contro 37,5%) che sale al 20 se si considera il
Mezzogiorno (17%).
Disoccupati impliciti ed espliciti - Inoltre il tasso di disoccupazione rileva una realtà in parte
alterata. Nel 2009 la disoccupazione è aumentata 30 volte di più al Centro-Nord rispetto
al Sud, +29,9% a fronte di +1,4%. Come già rilevato nel Rapporto SVIMEZ dello scorso
anno, al Sud continua a crescere la zona grigia della disoccupazione, che raggruppa
scoraggiati (persone che non cercano lavoro ma si dicono disponibili a lavorare), disoccupati
impliciti e lavoratori potenziali. Considerando questa componente, il tasso di disoccupazione
effettivo del Sud salirebbe nel 2009 a sfiorare il 23,9% (era stimato nel 22,5% nel 2008).
Con forti differenze regionali: in Campania arriverebbe al 25,2%, in Calabria al 25,3%, in
Sicilia addirittura al 27,2%. Cifre diverse anche per il Centro-Nord: in Piemonte arriverebbe a
sfiorare il 12% e in Lombardia al 9,5%.
Migrazioni – Caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese spaccato in
due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo interno
corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con pensionati,
stranieri o individui provenienti da altre regioni. Oltre a questa mobilità unidirezionale,
altrettanto tipicamente italiano è la presenza, accanto a trasferimenti permanenti di residenza
anagrafica, di trasferimenti “temporanei”, i cosiddetti pendolari di lungo raggio, che
fisicamente lavorano e vivono per buona parte della settimana al Centro-Nord, ma che
mantengono casa e famiglia al Sud.
Migranti, pendolari e crisi – Nel 2009 114mila persone si sono trasferite dal Sud al Nord,
8mila in meno rispetto al 2008. In crescita invece i trasferimenti in direzione opposta, da
Nord a Sud, arrivati nel 2009 a 55mila unità (erano 50mila l’anno precedente).
Tra il 1990 e il 2009 circa 2 milioni 385mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno.
La vera America, per i meridionali, resta il Centro-Nord, dove si dirigono 9 emigranti su
10. Solo 1 su dieci si trasferisce all’estero: in valori assoluti, dal 1996 al 2007, parliamo di
242mila persone, di cui oltre 13mila laureati. In testa alle preferenze la Germania, che
attrae oltre un terzo degli emigranti verso l’estero, per il 20% laureati; seguono Svizzera
e Regno Unito.
Riguardo alla provenienza, in testa per partenze la Campania (38mila nel 2007), seguita
da Sicilia (26.200) e Puglia (21.300). La regione più attrattiva per il Mezzogiorno resta la
Lombardia, che ha attratto nel 2007 quasi un migrante su quattro, pari a quasi 29mila
persone, seguita dall’Emilia Romagna, con 22mila unità in più. In Abruzzo e Molise la
prima regione di destinazione resta il Lazio, mentre per la Campania è l’Emilia Romagna.
I migranti sono soprattutto uomini, anche se il Lazio è una regione che attrae più donne.
Riguardo al titolo di studio, i laureati sono il 17,5%, e la regione che ne attrae di più è il Lazio
(25%).
L’emigrante tipo ha 31 anni in media: i più giovani, under 30, si dirigono in Trentino Alto
Adige e Friuli Venezia Giulia, mentre l’età media di chi si trasferisce nel Lazio è di 33,8 anni.
A livello di aree urbane, dal 2001 al 2007 Roma ha intercettato 43mila meridionali, Milano
32mila, Bologna 21mila, Reggio Emilia 9mila, Bergamo 8mila, Verona e Firenze 7mila.
28
A trasferirsi al Centro Nord sono soprattutto napoletani (quasi 75mila), palermitani (21mila) e
baresi (oltre 10mila). Perdite forti anche a Caserta (quasi 10mila) e Foggia (oltre 7mila).
Taranto perde circa 8.500 persone, Torre del Greco 13mila, Nola e Aversa 8mila.
Riguardo al titolo di studio, la Campania perde nel periodo in questione 18mila laureati (quasi
8mila a Napoli) e la Puglia 15mila (2.200 a Bari, quasi 2mila a Taranto).
La crisi ha colpito duro i pendolari, generalmente giovani, laureati e precari. Nel 2009 sono
stati 147mila, in calo del 14,8% rispetto al 2008, pari a 26mila unità. Oltre 60mila sono
campani, 36.500 i pugliesi, 35mila i siciliani. A seguire, abruzzesi (19mila), calabresi
(16.800), lucani (14mila) e molisani (8.300).
È un’emigrazione diversa dagli anni 60: il trolley e il pc al posto della valigia di cartone, molti
con la laurea in tasca, e moltissime donne. I posti di lavoro disponibili nel Mezzogiorno sono
in numero assai inferiore a quello degli occupati; il sistema produttivo arretrato non è in
grado di richiedere e assorbire il personale ad alta qualificazione che sfornano le Università e
non solo.
Sono giovani e con un livello di studio medio-alto: il 75% ha meno di 45 anni e quasi il 50%
svolge professioni di livello elevato. Oltre il 26% è laureato e quasi il 43% lavora da meno di
tre anni. Non lasciano la residenza generalmente perché non lo giustificherebbe né il costo
della vita nelle aree urbane né un contratto di lavoro a tempo. Sono soprattutto maschi (76%),
singles (50%), dipendenti (90%) full time in una fase transitoria della loro vita, come
l’ingresso o l’assestamento nel mercato del lavoro.
A livello regionale, l’identikit del pendolare cambia leggermente: l’84% dei pendolari in
Trentino Alto Adige opera nei servizi, mentre chi vuole lavorare nell’industria si dirige in
Emilia Romagna, Umbria o va all’estero (22%). Il Lazio assorbe molti laureati, mentre
Veneto, Friuli e Marche molti pendolari privi di titolo di studio o con licenza elementare. La
maggior parte dei pendolari in Valle d’Aosta è donna e svolge lavoro dipendente, mentre chi
va all’estero è soprattutto uomo (89%). I lavoratori autonomi preferiscono Lazio e Marche. I
pendolari part time si concentrano in Umbria (13,8%).
Scuole, atenei e abbandoni scolastici – Negli anni 2000 il Mezzogiorno ha aumentato di 8
punti il tasso di scolarizzazione superiore, dall’86 al 94%, arrivando a superare il
Centro-Nord, stabile al 92%. Nel 2009 77 diciannovenni meridionali su 100 erano diplomati,
contro i 72 del Centro-Nord. Resta comunque lontano per entrambi l’obiettivo di Lisbona
2010, con l’85% di diplomati in rapporto alla popolazione.
I tassi di abbandono scolastico rimangono più alti al Sud: 13 su 100 lasciano dopo il primo
anno di scuola superiore contro il 10 del Centro-Nord. A pesare, le condizioni di degrado
sociale e familiare.
Università – Dal 2000 al 2008 il tasso di passaggio all’università al Sud, come al Nord, è
rimasto stabile (dal 62,6 al 62,4): prima ha toccato picchi di oltre il 72% nel 2002, poi è sceso
gradualmente, tornando ai livelli di dieci anni fa. Tra il 2000 e il 2005 i laureati sono
raddoppiati, passando al Sud da 54mila a 113mila. In forte crescita anche i laureati in materie
scientifiche, saliti al Sud dal 4,2 per mille abitanti del 2000 a 8,2 del 2008.
Non solo numeri: studio e qualità – Nonostante i buoni risultati conseguiti, pesa al Sud il
divario di qualità della formazione. In base a elaborazioni su dati della Prova nazionale svolta
nel 2009 all’esame di stato di terza media emerge che i ragazzi del Nord che hanno
competenze superiori in italiano sono il 28% contro il 25,7% del Sud, e in matematica il
29
18,7% contro il 16,2%. Da segnalare che in Molise i dati sono superiori alla media
nazionale (rispettivamente 28,5% e 18,3% a fronte di dati medi del 27% e 17,5%).
Chi lavora, chi cerca il lavoro e chi no. Anche al Nord – Nel 2009 i giovani italiani Neet
(Not in education, employment or training), cioè che non studiano, non lavorano, né lo
cercano, sono aumentati del 6,6% rispetto al 2008, sforando quota 2 milioni. Di questi, 1,2
milioni sono al Sud e 850mila al Centro-Nord. Da segnalare che in questo senso il Nord si sta
meridionalizzando: qui gli inattivi sono aumentati dell’81% dal 2005 al 2009.
Spina nel fianco, le donne: nel 2009 1 ragazza su tre (15-29 anni) al Sud non ha lavorato né
studiato. Pesa ancora un modello familiare con un unico stipendio in famiglia e il ruolo
sociale della donna, confinata tra le mura domestiche.
Dal 2004 al 2009 il Sud ha perso 143mila occupati, pari a -2,2%, percentuale che sale a -
15,2% nella classe di età 15-35 anni. Nel solo 2009 gli occupati al Sud dai 15 ai 24 anni
crollano del 13,2%, -7,7% dai 25 ai 34 anni, mentre si mantengono stabili dai 45 ai 54
anni (+0,2%) e addirittura crescono in età avanzata, over 55, + 3,6%. Cali più contenuti
dell’occupazione giovanile al Nord (-10,8% tra 15 e 24 anni, -5,8% tra 25 e 31). Dal
confronto con dati Ue 2008 emerge il divario nel tasso di occupazione di 13 punti percentuali
(24,4% contro 37,5%) che sale al 20 se si considera il Mezzogiorno (17%).
Resta forte, anche nel 2009, la differenza nel tasso di attività tra le due ripartizioni: 40,8% al
Sud contro 52,8% al Centro-Nord. Stacco ancora più forte nelle classi di età più giovani: al
Nord il tasso è dell’84% in età 25-31 contro il 60% del Sud. In altri termini, nel 2009 al
Centro-Nord sono attivi 84 giovani su 100 in età 25-34 anni, mentre al Sud solo 60.
Divario forte anche nel tasso di disoccupazione: 12,5% al Sud, più del doppio del Centro-
Nord (5,9%). A livello di classi di età al Sud rimangono percentuali a due cifre fino ai 44
anni. Il tasso di disoccupazione è del 36% nei 15-24enni, 18% tra 25 e 34 anni, ancora del
10% tra i 35 e 44 anni (mentre al Centro-Nord è del 4,8%).
Giovani, welfare e crisi - L’impatto della crisi si è fatto sentire su tutti i lavoratori,
indipendentemente dal titolo di studio. La differenza dei tassi di occupazione tra le due
ripartizioni resta nell’ordine dei 20-30 punti percentuali nelle varie classi di età. Critica la
situazione al Sud soprattutto degli occupati con titolo alto. Nel 2009 il tasso di occupazione
di laureati 25-34enni è stato del 53% contro il 75% del Centro-Nord. Solo in età adulta,
oltre i 40 anni, il tasso di occupazione dei laureati si allinea tra le due ripartizioni: 90,3%
al Sud, 92% al Centro-Nord in età 45-54 anni.
Cosa dice la SVIMEZ – Nel Mezzogiorno le debolezze della rete formativa italiana si
associano ad un contesto produttivo debole e ad un sistema sociale sostanzialmente bloccato,
impedendo così ai progressi quantitativi realizzati nei tassi di istruzione di tradursi in
sviluppo economico e civile. Le misure di policy volte ad incrementare l’offerta di competenze
da parte dei nuovi entranti sul mercato del lavoro hanno finito per incrementare in questi
anni il livello di educational mismatch, tra qualità dell’offerta di lavoro e competenze
richieste dalle imprese. La crisi si sta scaricando sulle generazioni ancora in cerca di lavoro,
che in questo modo ritardano molte decisioni individuali e sociali legate alla crescita
personale. Permane un profondo senso di scoraggiamento tra i giovani, che spiega, da un
lato, la sfiducia verso la possibilità di iscriversi all’Università per trovare un lavoro
adeguato dopo la laurea, dall’altro i rientri di emigranti e pendolari dal Centro-Nord, che
ritornano sconfitti, in attesa di ripartire.
30
LE POLITICHE CONTRO LA CRIMINALITA’
Criminalità organizzata e crisi – I numerosi arresti di esponenti mafiosi compiuti nel
periodo più recente hanno forse portato a un eccesso di ottimismo, quasi che la criminalità
organizzata stesse per essere definitivamente sconfitta. In realtà, i pur brillanti risultati hanno
aperto una fase di transizione alla ricerca di nuove leadership, che non ha al momento
determinato un indebolimento nel controllo della mafia sul territorio.
La Mafia Spa è un settore che non conosce crisi. Le organizzazioni criminali, veloci e attente
ad adeguare il proprio core business ai cambiamenti esterni, oltre ad essere radicate nei
territori meridionali d’origine, si vanno sempre più diffondendo in numerose altre regioni
italiane, in cui attuano attività economiche diverse. Quello della presenza mafiosa è l’unico
divario territoriale Sud-Nord che nel tempo si sta colmando.
Non a caso, la crisi ha portato le organizzazioni criminali a potenziare la pratica dei prestiti
alle aziende a tassi usurari. Il giro d’affari nel 2009 è stato di 56 miliardi di euro. In base a
dati Svimez, 500mila sono i commercianti colpiti da truffe, 200mila da usura, 160mila da
racket, 90mila da furti e 15mila da contrabbando. Al vertice del bilancio mafioso resta il
traffico di stupefacenti (60 miliardi di euro), le ecomafie (16) e l’usura (15).
Gli arresti eccellenti e le misure restrittive messe in atto dal Governo contro la criminalità
hanno dato uno scossone, ma non hanno determinato il crollo. In questo periodo di transizione
si stanno inserendo nuove professionalità mafiose e continua la pratica del consenso e della
mediazione per condizionare appalti e opere pubbliche.
Cosa Nostra - La mafia siciliana, dopo gli arresti eccellenti degli ultimi anni, sta vivendo una
fase di assestamento e riorganizzazione interna che trasmette all’esterno un atteggiamento
meno violento e più mimetico. Essa sta però mostrando una grande capacità di mantenere
intatta la sua vitalità e pericolosità. L’andamento del reati in Sicilia dal 2007 al 2009 rileva
una flessione generale, nei reati associativi (da 25 a 7), nell’usura (da 22 a 12), nel riciclaggio
(49 episodi segnalati). In calo anche le denunce per estorsione, danneggiamento, incendio.
La ‘ndrangheta - Radicata in Calabria, ma ormai presente in tutto il mondo, è ormai
diventata leader nel traffico mondiale di droghe, ma forte anche nella gestione degli appalti.
Da segnalare nel 2009, rispetto al 2007, accanto a una generale flessione delle denunce dei
reati in Calabria, la crescita di usura e riciclaggio. Forte la sua presenza in Lombardia, con la
gestione di attività operanti nel settore dell’edilizia, delle forniture alimentari,
dell’abbigliamento e della ristorazione.
Sacra Corona Unita - Fortemente ridimensionata dall’azione di contrasto operata dalle Forze
dell’ordine negli ultimi anni, la “Sacra Corona Unita” resta concentrata nel traffico di
stupefacenti, estorsioni, speculazione edilizia, usura.
La camorra - “Specializzata” in traffico di stupefacenti, estorsioni, racket, gioco d’azzardo e
usura, negli ultimi anni la camorra ha visto crescere il core business soprattutto nell’offerta di
servizi alle imprese, approfittando anche della domanda di abbattimento dei costi da parte di
imprese legali. Con lo smaltimento illegale dei rifiuti, le fatturazioni “truccate”, l’espulsione
di imprese “non gradite” nella gestione di impianti, la camorra influenza in modo
determinante l’economia campana.
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Agricoltura e criminalità – La presenza delle cosche nel settore agricolo investe l’intera
filiera, con più di 150 reati al giorno, sei ogni ora, un agricoltore colpito su tre. Da segnalare,
tra truffe, usura, abigeato, danneggiamenti alle colture, l’imposizione del pizzo “indiretto”:
non più una riscossione in denaro, ma l’obbligo di utilizzare determinate imprese di pulizie,
ditte di trasporto, di imballaggio, non solo al Sud, ma anche per tutte le imprese che vogliono
esportare prodotti agricoli nell’area. In testa, le imprese di trasporto, pressoché totalmente in
mano alla camorra, che provocano uno strangolamento dei prezzi per il produttore agricolo, e
un aumento per il consumatore finale totalmente immotivato.
I beni confiscati – Con la legge 50/2010 è stata istituita l’Agenzia nazionale dei Beni
confiscati alla mafia, con l’obiettivo di superare le criticità nella gestione dei patrimoni
sequestrati e di semplificare le procedure di assegnazione.
Su 8.933 beni immobili confiscati dal 1992 al luglio 2009, i destinati sono 5.407, pari al
60,5% del totale, di cui l’86% agli Enti locali per finalità sociali.
Sul totale, ben 7.559, pari all’83%, si trovano nel Mezzogiorno: il 46% in Sicilia (4.075), il
15% in Campania (1.323), il 14% in Calabria (1.300), l’8% in Puglia (722).
Le aziende confiscate sono, al giugno 2009, 1.185, di cui solo il 32% è stato destinato (388),
con punte del 68% nel Lazio e del 23% in Campania e Calabria. La maggior parte delle
confische in Sicilia (452), seguita da Campania (227) e Lombardia (164). Le difficoltà a cui
vanno incontro le aziende sequestrate sono la scarsa fiducia di cui godono presso gli istituti
bancari e un carico burocratico aggiuntivo.
Dei beni consegnati ai Comuni, il 52% è inutilizzato, per ipoteche, occupazioni abusive,
carenza di risorse per la riconversione.
32
MEDITERRANEO E TURISMO
Crisi, Mediterraneo e Mezzogiorno – L’impatto della crisi finanziaria iniziato nel 2008 si è
avuto soprattutto sulle maggiori economie mondiali. Nel Rapporto dello scorso anno avevamo
rilevato la maggiore tenuta dei paesi mediterranei, attraverso l’esame degli andamenti
borsistici e del Pil.
La tendenza si conferma anche quest’anno: a differenza dell’Unione e dell’area balcanica,
il Pil dei paesi mediterranei nel 2009 registra tutti segni positivi, dal +0,7% di Israele a
+2% di Algeria, +2,8% di Albania e Giordania, + 4,7% dell’Egitto, +5,2% del Marocco, fino
al +9% del Libano. Segni positivi anche in base alle proiezioni per il 2010 e 2011, con
valori nell’area compresi tra il 3 e il 6%.
Sud ed export – Nel 2009 il calo dell’export si è fatto sentire pesantemente anche verso i
paesi mediterranei, con -17,2% rispetto all’anno precedente, dato che crolla del 31,8% nel
Mezzogiorno. La pesante ricaduta dello scorso anno arriva dopo un decennio di incrementi a
due cifre, fino al +30,9% registrato nel 2008, a testimonianza di un trend di relazioni
commerciali importanti: a livello nazionale, infatti 1 euro su 3 delle nostre esportazioni viene
venduto nel Mediterraneo, mentre il Mezzogiorno vende nel Mediterraneo non Ue circa il
10% dell’export totale, contro il 6% del Centro-Nord. Negli ultimi 15 anni, dal 1994 al
2009, l’integrazione di scambi commerciali con i paesi Med, a livello nazionale, è quasi
raddoppiata: le esportazioni con la Libia sono passate dallo 0,4 al 0,8%, con la Turchia dall’1
all’1,9%, con la Tunisia dallo 0,5% al 0,9%; le importazioni con l’Algeria sono salite dallo
0,9 al 2%, con la Libia dal 2 al 3,4%, con la Turchia dallo 0,6 all’1,5%.
Prodotti alimentari – Analizzando nello specifico gli scambi commerciali tra Italia e
Mediterraneo nel 2009 di cinque prodotti alimentari (pomodori, olive e olio, cereali e riso,
agrumi, pesci e crostacei) risultano invece relazioni molto ridotte: le importazioni di agrumi
dal Medio Oriente del 3,9%, di riso e cereali dal Nord Africa per il 3,3% e di olive e olio del
15%.
L’analisi porta alla conclusione che iniziative di rete tra associazioni di categoria, enti locali,
università, anche tra le due sponde del Mediterraneo, potrebbero aiutare a migliorare la
salvaguardia dei prodotti e la penetrazione di nuovi mercati. Il caso del Distretto della Pesca,
nato a Mazara del Vallo nel 2005 e composto da 118 imprese che interagiscono nella
trasformazione e commercializzazione dei prodotti, e dell’Osservatorio della Pesca nel
Mediterraneo, a cui aderiscono anche molti paesi nordafricani e mediorientali, vanno in
questa direzione di sviluppo economico attraverso dialogo e partecipazione. Il fatto che siano
state introdotte tra gli aderenti al distretto tecniche di prelievo del prodotto meno invasive
verso l’ambiente e rapporti di collaborazione che permettono ai pescherecci italiani di pescare
nelle acque tunisine senza timore di sequestri apre nuove prospettive di crescita, in cui il
Mezzogiorno può svolgere un ruolo prezioso. Il meccanismo potrebbe portare anche a
sviluppare le esportazioni fuori dal Mediterraneo, dove si fatica a vendere gli stessi prodotti in
assenza di una massa critica sufficiente.
Turismo e Mediterraneo – Negli ultimi anni i Paesi mediterranei della Riva Sud hanno
sviluppato una notevole attrazione turistica. Sugli oltre 1,1 miliardi di presenze nell’area
nel 2008, il 62% ha visitato la Riva Nord, mentre il 38% quella Sud, con un aumento in
33
quest’area di 13 punti percentuali rispetto al 2000. La destinazione preferita nell’area, dopo la
Spagna, è l’Egitto.
Il gap diventa ancora più forte sul fronte dei turisti stranieri: su 100 visitatori nel
Mediterraneo, solo il 10% va nel Mezzogiorno, contro il 40% della Spagna. Il Mezzogiorno
non riesce ad esercitare sui turisti italiani e stranieri una forte capacità attrattiva, a causa di
critiche difficoltà strutturali. Il turismo è soprattutto domestico, di prossimità. Nonostante le
condizioni climatiche consentano di estendere la stagione a dodici mesi l’anno, di fatto oltre il
70% delle presenze si concentra nel periodo giugno-settembre.
Se si confronta la situazione del Mezzogiorno rispetto alle regioni mediterranee di alcuni
paesi della Riva Nord (Spagna, Francia, Grecia e Croazia) per i quali sono disponibili dati
sufficientemente omogenei, si rileva come, nonostante un capitale turistico di grande pregio,
certamente non inferiore a quello degli altri paesi mediterranei, l’area meridionale attrae solo
il 19,2% delle presenze complessive delle regioni considerate. La quota scende addirittura al
10,1% per le presenze straniere, rispetto al 39,6% della Spagna mediterranea, al 23,9% della
Grecia e al 14,7% della Croazia, che ha meno della metà di superficie territoriale rispetto al
Mezzogiorno.
La concorrenza con gli altri paesi mediterranei va combattuta non tanto con la predisposizione
di progetti locali definiti teoricamente dalle istituzioni, che poi non trovano riscontro reale
nell’attività degli operatori. Occorrerebbe, invece, finalmente, realizzare un grande progetto
Southern Italy, recuperando un’idea di qualche anno fa, naufragata per la scarsa
collaborazione tra le Regioni. La strategia di questo progetto non deve essere vista come la
costruzione e valorizzazione di un marchio, ma come un quadro di riferimento e come una
cabina di regia con la quale coordinare l’insieme delle attività turistiche, in modo che non si
sovrappongano e possano determinare reciproco valore aggiunto.
Cosa dice la SVIMEZ – Nella ritrovata centralità globale del Mediterraneo, ponte e
cerniera tra i paesi del Far East in espansione e le economie occidentali, il Mezzogiorno
rappresenta un luogo dove è possibile pensare una nuova integrazione economica e politica,
fatta di percorsi di rafforzamento delle filiere produttive, condivisione di politiche comuni nel
campo della ricerca, della formazione, del marketing di prodotto.
Serve quindi una rinnovata azione politica in questa direzione, che veda l’Italia non più figlia
debole dello scenario internazionale, ma paese di “frontiera”, che guidi come avanguardia il
Mezzogiorno verso la crescita.
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GREEN ECONOMY, INNOVAZIONE, RICERCA E SVILUPPO
Green economy, fondi strutturali e Mezzogiorno – Energie rinnovabili ed efficienza
energetica sono grandi opportunità per rilanciare la crescita, specie nel Mezzogiorno, grazie
soprattutto a processi di riconversione industriale e alla produzione di nuovi beni in settori
innovativi. Il ciclo di programmazione 2007-2013 destina alle energie rinnovabili, cuore della
green economy, al settore dei trasporti e dei rifiuti poco più di 13 miliardi di euro, di cui circa
10 alle regioni della Convergenza: 7,4 ai trasporti, 2,8 all’energia e fonti rinnovabili, 617
milioni di euro ai rifiuti. In particolare, dei 4,7 miliardi di euro previsti dai POR delle Regioni
Convergenza per i trasporti, 1,7 miliardi vanno alla Sicilia (403 milioni per trasporto urbano,
446 per ferrovie, 339 per i porti), 1,1 a Puglia e Campania, 482 milioni alla Calabria (di cui
104 di ferrovie e 126 di strade), 204 alla Sardegna, 146 alla Basilicata, 36 al Molise e 12
all’Abruzzo.
Energia e imprese: un settore che non conosce crisi – Dal 2000 al 2008 la potenza degli
impianti e l’elettricità prodotta con le rinnovabili al Sud è cresciuta in modo
sbalorditivo. Nel periodo in questione la potenza è cresciuta del 108% nel Mezzogiorno e
l’elettricità prodotta del 151%, staccando di 3 e 4 volte il dato nazionale (rispettivamente 31%
e 15%). Quote ancora più grandi a livello regionale: la Sardegna e la Puglia aumentano la
produzione di 5 volte, la Sicilia addirittura di 10. A scoraggiare però l’attrazione di altre
industrie al Sud, locali o multinazionali, è la bassa qualità delle infrastrutture presenti, la rete
elettrica arretrata e le interruzioni di servizio elettrico.
Il caso dell’eolico off shore – A parte la terraferma, le migliori potenzialità di utilizzo
dell’energia eolica vengono dai venti del mare. Il Mediterraneo, e il Mezzogiorno, godono di
condizioni favorevoli soprattutto in Sardegna, Sicilia, Calabria e Puglia, con possibilità per
l’intero Paese di arrivare a raggiungere il 10% della produzione elettrica totale dall’eolico
(terrestre più off shore). Da segnalare il progetto di una centrale nel golfo di Manfredonia, una
nelle acque di Lamezia Terme e un parco eolico al largo del Molise.
Ricerca e sviluppo: Pil, occupati e brevetti – La situazione non è delle migliori: in base agli
ultimi dati disponibili (2007) il Sud spende solo lo 0,87% del Pil in R&S contro l’1,28% del
Centro-Nord, pure distante dal parametro del 3% stabilito dalla “Strategia di Lisbona” per il
2010. Anche la percentuale di occupati nel settore la dice lunga sulla scarsa capacità
innovativa delle imprese meridionali: solo 1,86 ogni 1.000 abitanti contro il 4,4 del Centro-
Nord. Debole anche l’attività brevettuale: solo 11 brevetti registrati per milione di abitanti
contro gli 88 dell’altra ripartizione.
Riguardo alle nuove tecnologie, nel 2009 la banda larga era diffusa nel 78% delle imprese
meridionali, contro l’84% del Centro-Nord; il 49% delle imprese meridionali ha un proprio
sito web, contro il 61% dell’altra ripartizione, mentre gli addetti che usano il pc sono al Sud
solo il 22%, ben 11 punti in meno del Centro-Nord. Anche nella diffusione di internet nelle
famiglie permane una differenza di 7 punti percentuali tra le due ripartizioni: 42% nel
Mezzogiorno, 49% nel Centro-Nord.
Laboratori pubblico-privati – Sono strutture in cui ricercatori e imprese industriali
lavorano in stretta collaborazione, spaziando dall’ICT alla certificazione di nuove specie
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vegetali. Nel Sud sono 26, concentrati in Campania (11), Puglia (7), Sicilia (4), Sardegna
(3), Calabria (1). Tra il 2006 e il 2007 il MIUR li ha finanziati per oltre 211 milioni di euro,
ma le erogazioni si sono fermate neanche al 15% dei contributi totali, pari a 31 milioni di
euro. La più virtuosa la Campania, con oltre il 21% di contributi erogati, seguita dalla Sicilia
(20%). Seguono la Sardegna, con l’8,4% delle risorse erogate, e la Puglia (7,5%). In Calabria
l’unico laboratorio, attivo nell’ICT, finanziato con oltre 5 milioni di euro, non ha utilizzato
alcun contributo.
Distretti tecnologici – Nascono come evoluzione dei laboratori, frutto di progetti di sviluppo
MIUR-Regioni: nel Mezzogiorno sono attivi 10 distretti tecnologici, 2 in Puglia e Calabria, 1
in Sicilia, Campania, Sardegna, Abruzzo, Molise, Basilicata. Il MIUR li ha finanziati con
oltre 81 milioni di euro, ma lo scorso anno era stato erogato solo il 24% dei contributi. Con
casi clamorosi: il distretto agroalimentare molisano, finanziato con oltre 1,4 miliardi di euro e
il logistico calabrese (quasi 12 miliardi) non hanno utilizzato nemmeno un euro.
Spin off: numeri, regioni, settori – Un fenomeno giovane, ma in crescita. L’89% delle
aziende italiane nate su progetti innovativi ideati e studiati nelle Università, gli spin off, ha
visto la luce tra il 2000 e il 2009. Delle 806 aziende attive in Italia a fine 2009 il 23% si
trova al Sud, contro il 77% dell’altra ripartizione. A livello regionale, in testa l’Emilia
Romagna, con 113 spin off, seguita da Lombardia (99) e Toscana (89).
Il Mezzogiorno ospita 187 aziende, concentrate in Puglia (47, pari al 5,8% nazionale) e
Sardegna (45). A seguire la Calabria (27), la Campania e la Sicilia (25), l’Abruzzo (11), la
Basilicata (4). Fanalino di coda il Molise (3).
A livello settoriale prevale l’ICT in entrambe le ripartizioni (218 aziende al Centro-Nord e
49 al Sud), seguito da energia e ambiente (92 e 40), life sciences, cioè biotecno-logie e
farmaceutica (93 e 27), elettronica (60 e 21) e biomedicale (41 e 17).
In termini relativi però il Sud supera il Nord riguardo ai settori dell’energia e ambiente,
dell’elettronica, del biomedicale, delle nanotecnologie e dei beni culturali.
Punto dolente, i finanziamenti. I contributi statali non superano i 500mila euro a progetto e
gli imprenditori privati disposti a rischiare capitali in settori innovativi sono troppo pochi. Fra
i pochi, al Mezzogiorno vanno solo le briciole: dal 2000 al 2008 gli investimenti privati
realizzati facendo ricorso al venture capital e al private equity hanno interessato il Sud solo
per il 3% del totale.
Cosa dice la SVIMEZ – Il Mezzogiorno è l’area del Paese che ha più interesse a modificare
il modello di sviluppo industriale nazionale. Il settore delle energie rinnovabili e del recupero
edilizio, oltre alla valorizzazione del patrimonio paesaggistico meridionale, possono offrire
importanti opportunità di crescita. Da un lato possono mettere a frutto i tanti giovani laureati
altamente qualificati che non riescono ad essere assorbiti dal contesto produttivo; dall’altro,
possono incrementare la competitività dell’area, elevando e stimolando la domanda di
innovazione. Va in questo senso la proposta di promuovere rapporti di collaborazione tra
imprese e centri di ricerca pubblici e privati, avendo cura di puntare soprattutto sui settori
che permettano, a fronte di investimenti iniziali accessibili, ricadute positive su altri ambiti
produttivi.
Svimez 2010/07_Messaggio_Napolitano.PDF
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PI{OF. ADRIANQ GTANNOLA
FI{ÉSIDENTE ASSOCI,AZIONE
PER LO SVILUI'PO DELL'INDUSTRIA
NEL MIIZZOCIORI.IO _ SVIMEZ
VIA DI POITîA PINCIANA, 6
00187 ROMA
TBLEGRAMMA
LA PRESENÎAZIONE DELL'ANNUALE I{A}PORTO DELLA SVIMEZ SULL'ECONOMIA DEL
IvIEZZOGIORNO FORNISCE UNA IMPORTANTII OCCASIONE DI AFPROFONDIMENî'O E DI
CONIIRONTO, P,qRTICOLARIvÍENI'E UTILE IN UNA FASE ECONO'MICA COMPLESSA COME
QUELLA ATTUALE.
I,A CRISI CFIE FTA COLPITO I]UTTE LE AIIE;E DEL tsAESE NON HA RISPAI{MIATO LE
SITUA2:IONI (iIA' DI I'ROFONDA D1FFICOLTA DEL MEZZOGIORNO CIIE RISCFIIANO DI
IUSULI'AR}IE AGGRAVATE ANCHB IN PROSPETTTVA. L'OBMTTIVO DI IUDURR-E GLI EFFE"fTI
DELLA CRISI FINA}IZIARI,A NEI. BREVE PERIODO E DIVBNUTO PRIOTUTARIO; IN PRESENZA DL
tIN INI'I,UDIBILH VTNCOI.O DI CONTENIMEN'IO DEL DISAVANZO PUBBI,ICO SI E OPETLATC)
UNO SITOSTAIvIENTO DI RISORSE DI C'uI I.IANNO SOFFERTO LE POLffICHE DI SVILUfPO COMÉ
È ouuosrnn'ro DALLE RICADUTE sut euADRo STRATEGICO NAZIONALE 2007-20i3 AL
QUALE soNo STATE SOîrRA1-[E INGENù DOTAZIOM E CHE REGIS'I'RA, A META DEL
I5ERIOI}O DI PROGRAMMAZIONE, CRAVI IUTARDI.
I RTSUI,TATI COMPLESSIVAÀ4ÉN'I'E INSUT-FICIEN'N DELLE POLI'I'ICI{E SEGUTTE IN
PASSATO E I."{ PRESENUA DT SIQNIFICATTVE INEFFICIENZE RENDONO NECESSAR]O UN
RIPENSAMENI'O E POSSONO AbíCFIE SPINGERE AI) UNA PROFONDA MODIFICA DELLE
MODAI-ITA E t]tsLLO STESSO TMPIAN'TO STITATEGTCO DEGLI TNTEI{\GNTI DI SVÍLUPPO. MA E'
UN FATTO CIIE IL MEZZOGIORNO PUO CONTRTBUIR-E, ATTRAVERSO LA PIÉNTA MESSA A
FRU'TTO DELLE SUE RISORSE, ALLA RIPRSSA DI UN Pru' SOSTENUTO E STABILE fII.OCESSO TJI
CR-ESCI'I'A DELL'ECONOMTA E DELLA SOCIEÎÀ. ITALTAhIA FONDAI'O ANCI{E SIJ UNA
STRATEGTA DI LEALE E CON/INTA COLLABORAZIONE TRA LE REGIONI E LO STATO,
II, RAfPORTO DELI,A SVII\,TEZ OTTFRE UN APPORTO MPORTANTE SIA ALL'ANALISI
DEGLI ANDAMENTT FIU Iì-ECENTI, SIA ALL'APITITOFONDMENTO DEI PRINCIIIALI NODI DA
AFFI(ONTAT! COME L'ATTUAZIONE DEL "FEDEIIALISMO FISCALE'" I-E P{}I-ITICFIE DI
coEsIoNE DErr,L'LNIQNE EUROPEA, LA QUAUTA DEI SEI1VIZI PUBBLICI, LA FORMAZIONE ED
ACCESSO AL LAVORO DEI CIOVAhI, TL RUQLO DEL SISTEMA ÈANCARIO.
SONO CERTO C}IE IL DISATTITO SUL IìA}PORTO C}T.h, TN]ZIA OCCI, E LA
CONT$JUAZIONE DEL LAVORO DI APPROFONDMENTO CONDOTTO DALLA SVR411Z
CoNCOITRERANNo A RAFFoRZARE LA COI'{SAPEVA;LETJA DEL LEGAIVIE IbÍSCINDIBILE ÎI:LA'
SV NUPPO D EI. MjEZLOGIORNO E COMPLE S SIVO RIIA}I C lO, DELL' EC ON OMIA TI'ALIANA.
coN QLIESTE RtFL,EssIoNI INVro A LEI ED A Tul*fr r PARTECIPAI\TI ]L MIO SENTII'O
AUGU}UO PER UNPROFICUO SVOLCIN{ENI'O DEl LAVORI-
CIQRGIO NAPOLTTAÌ'IO
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ti [,Pt.e.ro ur.l, h*g"C'ú?'"t
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SVIMEZ: Rapporto 2010 sull'economia del Mezzogiorno