Argomento: 
Data: 
20 Luglio 2010
Descrizione breve: 
Lo SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, mette in luce le condizioni economico industriali del Mezzogiorno italiano.
Contenuto nascosto: 
Svimez 2010/00_Comunicato_Stampa.pdf Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it Roma,20 luglio 2010 SVIMEZ, PIANO DA 38 MILIARDI DI EURO PER LE GRANDI INFRASTRUTTURE Nel 2009 il Pil torna ai livelli di dieci anni fa – Giù tutti i settori 2,4 milioni via dal Sud in venti anni – 26mila pendolari in meno per la crisi Al 24% il tasso di disoccupazione effettivo al Sud Il 44% delle famiglie non può sostenere una spesa extra di 750 euro La fotografia dell’economia del Mezzogiorno nel Rapporto SVIMEZ Un Mezzogiorno in recessione, colpito duramente dalla crisi nel settore industriale, che da otto anni consecutivi cresce meno del Centro-Nord, cosa mai avvenuta dal dopoguerra a oggi, il cui Pil del 2009 è tornato ai livelli di dieci anni fa. Un’area periferica in cui gli emigrati precari, colpiti dalla crisi, privi di tutele, a parte la CIG, iniziano a rientrare, ma già pensano a ripartire, dove il tasso di disoccupa- zione paradossalmente cresce di più al Nord che al Sud, dove 6 milioni 830mila persone sono a rischio povertà. Mentre serve un nuovo progetto Paese per il Sud, che parta dal rilancio delle infrastrutture, con piano di 38 miliardi di euro, per co- involgere quale nuova “frontiera” i settori più innovativi: questa la fotografia che emerge dal Rapporto SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno 2010 in presentazio- ne a Roma martedì 20 luglio. Nel 2009 il Pil del Sud è calato del 4,5%, un valore molto più negativo del -1,5% del 2008, leggermente inferiore al dato del Centro-Nord (-5,2%). Il Pil per abitan- te è pari a 17.317 euro, il 58,8% del Centro-Nord (29.449 euro). A livello regionale l’Abruzzo mostra nel 2009 una diminuzione del Pil particolar- mente elevata (-5,9%), seguito dalla Campania (-5,4%), e Puglia e Basilicata a pari merito (-5%). Tutte negative le altre regioni meridionali, come le settentrionali, a ecce- zione della Valle d’Aosta. La perdita più contenuta in Sicilia (-3,1%). A livello settoriale nel 2009 anche l’agricoltura meridionale è stata investita dalla crisi, con un crollo del valore aggiunto del 5%, contro il -1,9% del Centro-Nord. A livello re- gionale il valore aggiunto di Abruzzo, Basilicata, Molise e Puglia, che nel 2008 avevano registrato buone performances, è sceso fortemente, con valori compresi tra -8% e -11%. A fare le spese maggiori della crisi, l’industria, con un crollo del valore aggiunto in- dustriale nel 2009 del 15,8%, mentre le produzioni manifatturiere hanno segnato un calo del 16,6%. A tirare giù l’industria meridionale soprattutto minerali non metallurgici (-26,9%), metalli (23,9%) e macchine e mezzi di trasporto (-20,5%). Sempre per effetto della crisi, per la prima volta dalla fine della guerra il valore aggiun- to del settore dei servizi è calato per due anni consecutivi, segnando nel 2009 – 2,7% (Centro-Nord -2,6%), con effetti molto più pesanti nel commercio (-11% contro -9%). Giù anche turismo e trasporti (-3%) e intermediazione creditizia e immobiliare (-1,7%). Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it Circa 88mila i posti di lavoro persi nel settore al Sud (-1,9% rispetto al 2008), con punte del -3,9% nel commercio, il doppio che al Centro-Nord (-1,7%), concentrate soprattutto nel lavoro autonomo. Due le cause principali dell’andamento recessivo: investimenti che rallentano, fa- miglie che non consumano. Queste ultime infatti hanno ridotto al Sud la spesa del 2,6% contro l’1,6% del Centro-Nord. Mentre gli investimenti industriali sono crolla- ti del 9,6% nel 2009, dopo la flessione (-3,7%) del 2008. L’INDUSTRIA DEL SUD A RISCHIO ESTINZIONE Una situazione senza precedenti: dal 2008 al 2009 l’industria manifatturiera del Sud ha perso oltre 100mila posti di lavoro, di cui 61mila soltanto lo scorso anno. In que- sto modo il gap dell’industria meridionale con il Centro-Nord e il resto dell’Europa si è ulteriormente aggravato. Dal 2004 al 2008 il valore aggiunto industriale al Sud ha perso il 2,4% contro il + 9,7% dei paesi dell’area Euro. Secondo la SVIMEZ per uscire dall’impasse occorre promuovere una nuova politica in- dustriale specifica per il Sud, con risorse adeguate. Uno degli elementi fondamentali dovrebbe essere costituito dalla fiscalità di vantaggio. LA DISOCCUPAZIONE CRESCE DI PIU’ AL CENTRO-NORD Il tasso di occupazione nella media del 2009 è sceso di quasi un punto percentuale ri- spetto al 2008, da 58,7% a 57,5%. Su 380mila posti di lavoro in meno in tutto il Paese, 186 mila sono stati al Centro- Nord (-1,1%). Situazione più pesante nel Mezzogiorno, con 194mila unità in meno (-3%). Se si analizzano gli andamenti trimestrali dell’occupazione, emerge che la crisi è inizia- ta prima al Sud e lì sembra durare più a lungo. Gli occupati al Sud sono quindi tornati ai livelli di dieci anni fa. Dei circa 530mila posti di lavoro persi nell’ultimo anno e mezzo, 335mila sono al Sud. Regioni - Nel 2009 tutte le regioni meridionali sono state interessate da difficoltà occu- pazionali. Perdite più consistenti in Abruzzo (-4,6%, pari a 23.800 posti di lavoro in meno), Campania (-4,1%, pari a 68.700 posti di lavoro in meno) e Puglia (-3,8%, 49.200 unità in meno). In linea con il calo del 3% degli occupati meridionali il Molise (-3,1%, meno 3.600 posti) e la Sardegna (-3%, meno 18.600 posti di lavoro). Cifre più contenute, pur se negative, in Basilicata (-2,7%, pari a 5.200 posti di lavoro), Ca- labria (-1,5%, 9.100 posti) e Sicilia (-1,1%, 15.700 posti di lavoro). Settori - La domanda di lavoro in agricoltura continua a scendere, soprattutto al Sud (-5,8% contro il +0,9% del Centro-Nord). In calo anche l’industria, che segna - 6,3% al Sud e -2,7% nell’altra ripartizione. La dinamica dell’occupazione industriale è Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it sensibilmente negativa in tutte le regioni del Sud, particolarmente in Sicilia (-8,4%), Campania (-7,2%) e Puglia (-7,3%), con l’eccezione della Calabria (+0,4%). Giù anche i servizi, con un calo dell’1,6%, ben più marcato che nell’altra ripartizione (- 0,4%). In valori assoluti, il Sud ha perso nel 2009 25mila unità nel settore agricolo (+4.300 al Centro-Nord), 94mila nell’industria (-145mila nell’altra ripartizione) e 74.300 unità nei servizi (-44.700 nel Centro-Nord). Nel 2009 i disoccupati sono aumentati più al Centro-Nord (+29,9%), quasi 30 volte di più che al Sud (+1,4%). Nella classe di età 15-24 anni la disoccupazione è arrivata al 20,1% al Centro-Nord e al 36% al Sud. Qui crescono anche i disoccupati di lunga du- rata (sono il 6,6% del totale, erano il 6,4% nel 2008). All’Italia spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione giovanile più alto in Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Nel 2009 gli occupati in età 15-24 anni crollano del 13,2%. La laurea paga, ma in ritardo - Nel 2009 il tasso di occupazione dei laureati 25- 34enni è stato del 53% contro il 75% del Centro-Nord. Solo in età adulta, oltre i 40 anni, il tasso di occupazione dei laureati si allinea tra le due ripartizioni: 90,3% al Sud, 92% al Centro-Nord in età 45-54 anni. Inattivi: il Nord che si meridionalizza - Nel 2009 i giovani italiani Neet (Not in edu- cation, employment or training), cioè che non studiano, non lavorano, né lo cercano, sono aumentati del 6,6% rispetto al 2008, sforando quota 2 milioni. Di questi, 1,2 mi- lioni sono al Sud e 850mila al Centro-Nord. Da segnalare che in questo senso il Nord si sta meridionalizzando: qui gli inattivi sono aumentati dell’81% dal 2005 al 2009. Spina nel fianco, le donne: nel 2009 1 ragazza su tre (15-29 anni) al Sud non ha lavo- rato né studiato. Pesa ancora un modello familiare con un unico stipendio in famiglia e il ruolo sociale della donna, confinata tra le mura domestiche. Disoccupati impliciti ed espliciti - Come già rilevato nel Rapporto SVIMEZ dello scorso anno, al Sud continua a crescere la zona grigia della disoccupazione, che rag- gruppa scoraggiati (persone che non cercano lavoro ma si dicono disponibili a lavorare), disoccupati impliciti e lavoratori potenziali. Considerando questa componente, il tasso di disoccupazione effettivo del Sud salirebbe nel 2009 a sfiorare il 23,9% (era stima- to nel 22,5% nel 2008). Con forti differenze regionali: in Campania arriverebbe al 25,2%, in Calabria al 25,3%, in Sicilia addirittura al 27,2%. Cifre diverse anche per il Centro-Nord: in Piemonte arriverebbe a sfiorare il 12% e in Lombardia al 9,5%. Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it IN VENTI ANNI 2,4 MILIONI VIA DAL SUD, A PARTE I PENDOLARI Tra il 1990 e il 2009 circa 2 milioni 385mila persone hanno abbandonato il Mezzo- giorno. La vera America, per i meridionali, resta il Centro-Nord, dove si dirigono 9 emigranti su 10. Solo 1 su dieci si trasferisce all’estero: in valori assoluti, dal 1996 al 2007, parliamo di 242mila persone, di cui oltre 13mila laureati. In testa alle preferenze la Germania, che attrae oltre un terzo degli emigranti verso l’estero, per il 20% laureati; seguono Svizzera e Regno Unito. Nel 2009 114mila persone si sono trasferite dal Sud al Nord, 8mila in meno rispetto al 2008. In crescita invece i trasferimenti in direzione opposta, da Nord a Sud, arrivati nel 2009 a 55mila unità (erano 50mila l’anno precedente). Riguardo alla provenienza, in testa per partenze la Campania (38mila nel 2007), se- guita da Sicilia (26.200) e Puglia (21.300). La regione più attrattiva per il Mezzo- giorno resta la Lombardia, che ha attratto nel 2007 quasi un migrante su quattro, pari a quasi 29mila persone, seguita dall’Emilia Romagna, con 22mila unità in più. In A- bruzzo e Molise la prima regione di destinazione resta il Lazio, mentre per la Campania è l’Emilia Romagna. I migranti sono soprattutto uomini, anche se il Lazio è una regione che attrae più donne. Riguardo al titolo di studio, i laureati sono il 17,5%, e la regione che ne attrae di più è il Lazio (25%). L’emigrante tipo ha 31 anni in media: i più giovani, under 30, si dirigono in Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, mentre l’età media di chi si trasferisce nel Lazio è di 33,8 anni. Pendolari e crisi - La crisi ha colpito duro i pendolari, generalmente giovani, laureati e precari. Nel 2009 sono stati 147mila, in calo del 14,8% rispetto al 2008, pari a 26mila unità. Oltre 60mila sono campani, 36.500 i pugliesi, 35mila i siciliani. A se- guire, abruzzesi (19mila), calabresi (16.800), lucani (14mila) e molisani (8.300). È un’emigrazione diversa dagli anni 60: il trolley e il pc al posto della valigia di cartone, molti con la laurea in tasca, e moltissime donne. I posti di lavoro disponibili nel Mezzo- giorno sono in numero assai inferiore a quello degli occupati; il sistema produttivo ar- retrato non è in grado di richiedere e assorbire il personale ad alta qualificazione che sfornano le Università e non solo. Sono giovani e con un livello di studio medio-alto: il 75% ha meno di 45 anni e quasi il 50% svolge professioni di livello elevato. Oltre il 26% è laureato e quasi il 43% lavora da meno di tre anni. Non lasciano la residenza generalmente perché non lo giustifiche- rebbe né il costo della vita nelle aree urbane né un contratto di lavoro a tempo. Sono so- prattutto maschi (76%), singles (50%), dipendenti (90%) full time in una fase transitoria della loro vita, come l’ingresso o l’assestamento nel mercato del lavoro. A livello regionale, l’identikit del pendolare cambia leggermente: l’84% dei pendolari in Trentino Alto Adige opera nei servizi, mentre chi vuole lavorare nell’industria si dirige in Emilia Romagna, Umbria o va all’estero (22%). Il Lazio assorbe molti laureati, men- Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it tre Veneto, Friuli e Marche molti pendolari privi di titolo di studio o con licenza ele- mentare. La maggior parte dei pendolari in Valle d’Aosta è donna e svolge lavoro di- pendente, mentre chi va all’estero è soprattutto uomo (89%). I lavoratori autonomi pre- feriscono Lazio e Marche. I pendolari part time si concentrano in Umbria (13,8%). Senza tutele - Incrociando i dati della Cassa integrazione e delle forze lavoro risulta che su 186 posti di lavoro persi al Nord, gli interventi di CIG hanno interessato 438mila persone, mentre al Sud su oltre 200mila occupati in meno le misure utilizzate sono state di appena 96mila unità. In altri termini, al Nord per ogni persona che perde il lavoro, 2 sono protette; al Sud è l’opposto, solo un lavoratore su 3 ottiene la CIG. Gli effetti sociali sono devastanti: molti lavoratori precari, perso il lavoro, al Sud, non sono stati minimamente tutelati. QUASI UN MERIDIONALE SU 2 IN TILT PER SPESA EXTRA DI 750 EURO In base agli ultimi dati disponibili (2007) il 14% delle famiglie meridionali vive con meno di 1.000 euro al mese, un dato quasi tre volte superiore all’altra ripartizione (5,5%). Un unico stipendio e più familiari a carico - Nel 47% delle famiglie meridionali vi è un unico stipendio, addirittura il 54% in Sicilia. Hanno inoltre a carico tre o più fa- miliari il 12% delle famiglie meridionali, un dato quattro volte superiore al Centro- Nord (3,7%), che arriva al 16,5% in Campania. Il rischio resta anche con due stipendi - A rischio povertà a causa di un reddito trop- po basso quasi un meridionale su 3, contro 1 su 10 al Centro-Nord. In valori assoluti, al Sud, si tratta di 6 milioni 838mila persone, fra cui 889mila lavoratori dipendenti e 760mila pensionati. Riguardo al titolo di studio, oltre 1 milione 100mila ha un li- vello medio-alto, con 122mila laureati. Da segnalare che non sempre, al Sud, uno stipendio in più oltre a quello base modi- fica la situazione: in quasi una famiglia su 4 (23,9%) con due redditi il rischio ri- mane. Una famiglia meridionale su 5 non ha soldi per andare dal medico - Ben il 44% delle famiglie meridionali, quasi una famiglia su due, non ha potuto sostenere una spesa imprevista di 750 euro (26% al Centro-Nord). La povertà morde particolarmente nelle piccole scelte quotidiane: nel 2008 nel 30% del- le famiglie al Sud sono mancati i soldi per vestiti necessari e nel 16,7% dei casi si sono pagate in ritardo bollette di luce, acqua e gas. Otto famiglie su cento hanno tirato la cinghia rinunciando ad alimentari necessari (il 12% in Basilicata), il 21% non ha avuto soldi per il riscaldamento (27,5% in Sicilia) e il 20% per andare dal medico (il 25,3% in Campania e il 24,8% in Sicilia). Nel 2008 è arrivato con difficoltà a fi- ne mese oltre una famiglia su 4 (25,9%) contro il 13,2% del Centro-Nord. Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it BANCHE, CREDITO E BANCA SUD Nel 2009 il numero di banche operative nel Mezzogiorno è passato da 222 a 215; di queste, tra le 151 aventi sede nell’area, 17 facevano parte di gruppi del Centro-Nord. Nel 2009 gli sportelli bancari presenti al Sud erano 7.196, 100 in meno rispetto al 2008. 4.133 facevano parte di banche con sede legale al Sud, e di queste 2.737 appartene- vano a gruppi del Centro-Nord. Colpendo l’industria, la crisi ha inferto un duro colpo anche all’accesso al credito delle imprese del settore, già critico al Sud per motivi strutturali (maggiori rischi, minor nu- mero di aziende, prevalenza di aziende di piccole dimensioni e attive nei settori tradi- zionali, ecc). A livello settoriale le imprese manifatturiere hanno subito un tracollo nell’erogazione dei prestiti, con un calo, nel Nord Ovest, del 10%, a marzo 2010, rispetto a marzo 2009. Dimezzata invece nello stesso periodo la riduzione al Sud: -5,39%. Resta il grande problema dell’accesso al credito: nel 2009 i prestiti bancari alle imprese meridionali sono cresciuti dello 0,4%, in forte rallentamento rispetto al 2008 (+4,6%), mentre sono diminuiti del 4% al Centro-Nord. A livello dimensionale al Sud le piccole imprese hanno tenuto, mentre le altre sono cresciute dello 0,5%. A livello settoriale, in- vece, le contrazioni più forti hanno interessato l’industria manifatturiera (-7,2% al Sud, - 9,9% al Centro-Nord). In crescita rispetto al 2008 anche le sofferenze, aumentate nelle imprese del Sud di un punto percentuale (da 2,2% a 3,2%), più o meno come per le aziende del Centro-Nord (da 1,5% a 2,4%). La Banca del Sud - L’impianto della legge è sbilanciato verso la raccolta, e la fisca- lità di vantaggio introdotta è rivolta ai risparmiatori, mentre la banca senza misure di incentivo ad hoc non avrebbe alcuna convenienza a investire nell’area. Possibili cor- rettivi potrebbero venire ad esempio dall’introduzione della detassazione degli utili per progetti di investimento delle pmi meridionali, oppure dall’emissione di bond ga- rantiti dallo Stato, come per i finanziamenti alle infrastrutture. Ciò non toglie che i progetti di investimento dovrebbero essere sottoposti a una severa selezione, così da evitare distorsioni. La Banca potrebbe inoltre stipulare convenzioni con i Confidi più strutturati, per accelerare il progetto di concentrazione del settore. CONTINUA IL CALO DELLA SPESA PUBBLICA AL SUD La quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto capitale è stimata nel 2009 (o 2008??) al 34,8%, una percentuale ben più bassa del 41,1% del 2001 e lontanissi- ma dall’obiettivo del 45%, che ormai appare come una chimera. Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it Le spese correnti dei Comuni tra il 2007 e il 2009 sono cresciute, a livello na- zionale, del 5,3%. Ma l’incremento maggiore si è avuto al Sud, +9,1%, a fronte del 3,4% al Nord e del 5,3% al Centro. Non solo, ma mentre crescevano le spese, le entra- te aumentavano dell’1,8% a livello nazionale, aumento che deriva da una riduzione dell’ 1,9% al Nord, e da incrementi del 2,3% al Centro e dell’1,1% al Sud. Infine, i trasferimenti erariali, anche in seguito alla progressiva abolizione dell’Ici sulla prima casa, sono cresciuti nel triennio del 28,5% a livello nazionale, con un andamento molto diversificato tra le diverse ripartizioni territoriali: +13,9% nel Mezzogiorno, +39,8% al Nord, +31,2% al Centro. Ciò è anche la conseguenza del fatto che l’abolizione dell’Ici ha ridotto nel triennio le entrate tributarie del 26,5%, che significa - 26,1% al Nord, -37,3% al Centro, -14,3% al Sud. DAI RIFIUTI AI TRIBUNALI: I DATI DEL DIVARIO NORD – SUD Circa due terzi dei rifiuti urbani al Sud nel Sud sono finiti in discarica, contro il 28,5% del Centro-Nord. La raccolta differenziata arriva nel Centro-Nord al 45,5%, in linea con l’obiettivo del 45% fissato dalla normativa, mentre il Mezzogiorno è fermo al 14,7%. Agli uffici delle Asl al Sud 57 persone su 100 rimangono in fila più di 20 minuti contro le 44 del Centro-Nord; situazione ancora più grave alle Poste, dove addirittura un meri- dionale su due resta in fila più di 20 minuti, 29 su cento nell’altra ripartizione. Servizio elettrico ancora intermittente, con frequenza di interruzioni 2 volte superiore al Centro- Nord. Per non parlare dei tribunali: la sentenza di primo grado arriva nel Mezzogiorno dopo 1.108 giorni, oltre un anno in più rispetto al Centro-Nord (805 giorni). LA GREEN ECONOMY VOLANO PER L’ECONOMIA DEL SUD Energia e imprese: un settore che non conosce crisi – Dal 2000 al 2008 la potenza degli impianti e l’elettricità prodotta con le rinnovabili al Sud è cresciuta in modo rilevante. Nel periodo in questione la potenza è cresciuta del 108% nel Mezzogiorno e l’elettricità prodotta del 151%, staccando di 3 e 4 volte il dato nazionale (rispettivamen- te 31% e 15%). Quote ancora più grandi a livello regionale: la Sardegna e la Puglia au- mentano la produzione di 5 volte, la Sicilia addirittura di 10. A scoraggiare però l’attrazione di altre industrie al Sud, locali o multinazionali, è la bassa qualità delle in- frastrutture presenti, la rete elettrica arretrata e le interruzioni di servizio elettrico. Ricerca e sviluppo: Pil, occupati e brevetti – La situazione non è delle migliori: in ba- se agli ultimi dati disponibili (2007) il Sud spende solo lo 0,87% del Pil in R&S contro l’1,28% del Centro-Nord, pure distante dal parametro del 3% stabilito dalla “Strategia di Lisbona” per il 2010. Anche la percentuale di occupati nel settore la dice lunga sulla scarsa capacità innovativa delle imprese meridionali: solo 1,86 ogni 1.000 abitanti con- tro il 4,4 del Centro-Nord. Debole anche l’attività brevettuale: solo 11 brevetti regi- strati per milione di abitanti contro gli 88 dell’altra ripartizione. Punto dolente, i finanziamenti. I contributi statali non superano i 500mila euro a pro- getto e gli imprenditori privati disposti a rischiare capitali in settori innovativi sono Via di Porta Pinciana, 6 • 00187 Roma • Tel. 06 478501 • Fax 06 47850850 •: svimez@svimez.it troppo pochi. Fra i pochi, al Mezzogiorno vanno solo le briciole: dal 2000 al 2008 gli investimenti privati realizzati facendo ricorso al venture capital e al private equity hanno interessato il Sud solo per il 3% del totale. LE RICETTE SVIMEZ PER IL SUD Come uscire dalla crisi – La “frontiera Sud” rende più che mai urgente la realizzazio- ne di grandi infrastrutture dei trasporti, condizione necessaria e imprescindibile per il rilancio dell’economia meridionale. La SVIMEZ stima un costo di 49 miliardi di euro, di cui 11 miliardi già disponibili e quasi 38 da reperire, da dedicare al poten- ziamento dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria e della Statale “Jonica”; la realizza- zione di nuove tratte interne alla Sicilia; l’estensione dell’Alta Capacità (se non dell’Alta Velocità) nel tratto ferroviario Salerno-ReggioCalabria-Palermo-Catania (a completamento del Corridoio I Berlino- Palermo); il nuovo asse ferroviario Napoli- Bari; infine, il Ponte sullo Stretto. Forme di finanza di progetto e di partenariato pubbli- co-privato gli strumenti più adatti al reperimento delle risorse. La proposta: Conferenza delle Regioni e Agenzia, i nuovi soggetti per il Sud - La programmazione degli interventi strategici per il rilancio del Sud andrebbe affidata a una Conferenza delle Regioni meridionali, quale luogo di coordinamento tra le Regioni, in stretta relazione con la Presidenza del Consiglio. I due soggetti costituirebbero una sorta di “Consiglio per la coesione nazionale” deputato a impegnarsi in pochi grandi progetti strategici prioritari. Accanto, un’Agenzia indipendente di natura tecnica, di supporto operativo alle decisioni del Consiglio, e destinata alla progettazione. Per informazioni: Ufficio stampa Elisa Costanzo: 06/47850239 – 328/1430500 Svimez 2010/01_Direttore_Testo.pdf 1 Presentazione del “Rapporto SVIMEZ 2010” di Riccardo Padovani (Direttore SVIMEZ) I dati e le analisi presentati nel Rapporto SVIMEZ di quest’anno documentano il processo di deterioramento in atto nel Mezzogiorno, a livello di capitale fisso, sociale e produttivo. Nel Paese, indebolito nel suo insieme, sembra prevalere un atteggiamento di contrapposizione tra aree deboli e aree forti, che se da un lato delinea il rischio di un ulteriore allargamento del divario, dall’altro condiziona anche le possibilità di ripresa dell’intera economia italiana. Il Rapporto SVIMEZ 2010 vuole, invece, richiamare l’attenzione sull’urgenza di un profondo processo di ristrutturazione dell’apparato produttivo meridionale, che deve essere accompagnato da più efficaci politiche di sviluppo che pongano le condizioni per cogliere le sfide e le opportunità nel “nuovo” scenario che si aprirà all’uscita dalla crisi. In questa ottica, un approccio “storico”, tanto più quest’anno che precede la celebrazione dei 150 anni dell’Unità nazionale, può aiutare a recuperare l’abitudine, persa da troppo tempo, a sviluppare un’analisi di sistema nella quale il Mezzogiorno sia parte di un disegno complessivo di interesse nazionale. Dobbiamo tornare a ragionare sul se e su come da Sud possa proporsi, in analogia a quanto avvenne negli anni della Ricostruzione post-bellica, una fondamentale azione di rigenerazione dell’economia e della società italiana. Questo si traduce per noi nel concetto di Mezzogiorno come “frontiera” del Paese, verso il Mediterraneo e verso le opportunità offerte dai nuovi settori di sviluppo legati all’innovazione, alle competenze, all’economia verde; un nuovo “progetto Paese”, in grado di valorizzare le tante energie inutilizzate, soprattutto nelle sue aree deboli. 1. Il Mezzogiorno nella crisi: effetti economici ed effetti sociali La grave recessione che ha colpito l’economia mondiale si è abbattuta pesantemente sull’economia del Mezzogiorno, provata da un decennio di forte 2 rallentamento e da un allargamento del divario di sviluppo col resto del Paese (Fig.1). Dall’inizio degli anni duemila fino all’arrivo della crisi, il Mezzogiorno ha registrato ritmi di crescita dimezzati rispetto al Centro-Nord. Con la recessione del 2008 e del 2009 il PIL meridionale è ritornato, in valore assoluto, ai livelli di dieci anni prima. In base a valutazioni di preconsuntivo elaborate dalla SVIMEZ (Fig.2), nel 2009 il prodotto interno lordo (a prezzi concatenati) si è ridotto nel Mezzogiorno del 4,5%, con una caduta molto più ampia di quella registrata nell’anno precedente (-1,5%), inferiore – ma solo per effetto di una diversa composizione dei settori dell’economia – di poco più di mezzo punto a quella nel resto del Paese (-5,2%). La crisi del biennio 2008-2009 è l’unica, tra quelle vissute negli ultimi decenni, in cui il PIL si sia contratto per due anni consecutivi: il prodotto a prezzi concatenati tra il 2007 e il 2009 si è ridotto complessivamente del 5,7% nel Mezzogiorno e del 4,9% nel resto del Paese. Ciò sfata l’ipotesi di un Mezzogiorno che subisce meno gli effetti del ciclo, specie quello internazionale, in quanto meno aperto agli scambi con l’estero, e in cui i settori anticiclici, come quelli dei servizi, hanno un ruolo congiunturale determinante. Al contrario, la maggiore debolezza dell’economia meridionale la rende particolarmente vulnerabile non solo agli shock diretti provenienti dalla domanda estera, ma anche ai suoi effetti indiretti, tramite la domanda proveniente dal Centro-Nord. La recessione attuale, aggiunta alla bassa crescita, comporta che il prodotto del Mezzogiorno risulti nel 2009 ancora inferiore dello 0,3% al livello raggiunto dall’inizio del decennio. Nel resto del Paese, la migliore dinamica di sviluppo realizzata nello stesso periodo ha portato ad una crescita cumulata nel decennio del 2%, un valore esiguo ma comunque positivo. In tutti i comparti in cui sono disaggregati i conti regionali (Fig.3), la flessione produttiva del Sud è stata maggiore di quella del Centro-Nord. Soltanto la diversa composizione settoriale – con un peso strutturalmente maggiore dei servizi, meno colpiti dalla crisi – ha determinato al Sud un risultato meno negativo nell’anno. Tra le componenti della domanda (Fig.4), la caduta nell’acquisto di beni capitali è la prima causa anche nel 2009 della recessione del PIL: gli investimenti fissi lordi del Mezzogiorno sono diminuiti del 9,6%, dopo la flessione del 3,7% già registrata l’anno precedente. Nel Centro-Nord la flessione è stata più ampia (-13,0%), come nel 2008. 3 Assai più grave (Fig.5) è stata, invece, al Sud la contrazione dei consumi. In particolare, la spesa finale delle famiglie nel 2009 si è ridotta nel Mezzogiorno del 2,6%, un punto in più che nel resto del Paese. La contrazione dell’occupazione (Fig.6) è stata nel 2009 nelle regioni meridionali di intensità tripla (-3%) rispetto al -1,1% del Centro-Nord. In termini assoluti ciò vuol dire 194 mila occupati in meno nel Mezzogiorno, che si aggiungono ai 34 mila posti persi nel precedente anno. Una riduzione dello stock di occupazione impiegata (Fig.7) che ha determinato tra il 2007 e il 2009 un calo di circa due punti del tasso di occupazione: dal 46,5% al 44,7%, valore distante di quasi venti punti dal resto del Paese (64,5%). Solo un ulteriore e deciso incremento dello “scoraggiamento” a cercare lavoro ha limitato gli effetti di tali andamenti sul tasso di disoccupazione. 2. La crisi e il rischio della scomparsa del Sud industriale La perdita di occupazione registrata per effetto della crisi economica risulta di estrema gravità nel comparto industriale italiano (Fig.8). In particolare, la riduzione della manodopera industriale nel Mezzogiorno sta assumendo dimensioni mai sperimentate: nel corso del 2009 si sono persi 61 mila posti di lavoro dell’industria in senso stretto (-7% a fronte del -3,7% nel Centro-Nord). Nel complesso del biennio di crisi 2008-2009, la perdita occupazionale supera le 100 mila unità (-12%), andando così a ridurre ulteriormente il tasso di industrializzazione di un’area che presentava già livelli assai inferiori al resto del Paese. Va ricordato, a riguardo, che ancora nel 2007 vi erano al Sud, secondo i dati dell’Archivio ASIA, appena 35 addetti manifatturieri ogni 1.000 abitanti a fronte dei 105 del Centro-Nord. I dati sul valore aggiunto industriale confermano la lettura di una crisi che viene da lontano e che mostra elementi di debolezza strutturali che rischiano di andare oltre il ciclo congiunturale. Nel biennio 2008-2009 (Fig.9), l’output industriale è complessivamente diminuito di poco meno di venti punti percentuali nel Sud e di quasi diciotto nel Centro- Nord. Relativamente a ciò, vi sono due considerazioni che preme evidenziare. La prima è che dal 2004, anno a partire dal quale la dinamica nazionale era tendenzialmente tornata ad essere positiva, e fino al 2007, la variazione cumulata del prodotto 4 dell’industria è risultata pari al 5,9% nel Mezzogiorno ed al 4,6% nel resto del Paese. Ciò implica che, in assenza di una consistente accelerazione del ritmo di crescita del prodotto industriale nella fase post-crisi, il recupero dei livelli di produzione del 2007 richiederà un arco temporale prossimo, in entrambi i casi, al decennio. In secondo luogo, diversamente da quanto di solito avveniva in fasi recessive indotte dall’estero, la crisi avviatasi dalla seconda metà del 2008 pare aver colpito con intensità maggiore l’industria del Sud. Generalmente, infatti, dato il maggior grado di apertura dell’industria del Nord, quest’ultima era coinvolta in misura più ampia da una contrazione del commercio mondiale. Il venir meno, nella fase ciclica recente, di questo elemento può indicare la presenza, nel Sud, di uno shock (fortemente) asimmetrico. La caduta di output industriale (Fig.10) registrata nelle regioni meridionali nel 2009 è, con l’eccezione di Germania e Finlandia, quella di entità più ampia, sia rispetto ai paesi di più antica industrializzazione (Francia, Regno Unito) che, soprattutto, nei confronti dei nuovi competitors presenti nella stessa Europa a 27, quali ad esempio la Polonia. La particolare intensità con cui la recessione industriale ha colpito il Mezzogiorno nel 2009 fa seguito, infatti, ad un già forte ampliamento del gap di crescita con il resto del Paese – e, soprattutto, con gli altri paesi europei – nella fase antecedente la crisi, caratterizzata dall’acuirsi delle differenze in termini di produttività a causa della sostanziale inadeguatezza che i processi di riorganizzazione della struttura produttiva – comparativamente lenti nell’intero Paese – hanno mostrato al Sud. Nel complesso del periodo 2004-2008, la variazione cumulata del prodotto industriale è risultata nel Mezzogiorno negativa (-2,4%), a fronte di un aumento del 2,8% nel Centro- Nord e in presenza di incrementi medi complessivi del 9,7% per l’Area dell’Euro e del 9,8% per l’Ue a 27 paesi. Nel complesso, dalle analisi sui fattori determinanti la competitività e sulla dinamica dell’export (Fig.11) sviluppate nel Rapporto, emerge un quadro in cui l’Italia perde terreno rispetto agli altri paesi dell’Area dell’Euro e – al suo interno – le regioni più in ritardo subiscono un ulteriore peggioramento della loro posizione relativa. Un processo di polarizzazione degli squilibri che contrasta nettamente con la convergenza riscontrabile in Spagna e soprattutto in Germania, finanche nel pieno della crisi. 5 Le cronache di questi mesi e settimane sugli stabilimenti FIAT di Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, alquanto complesse e diverse tra loro, sono emblematiche. E mostrano che, al di là di singole scelte aziendali, a pesare sono i decenni di mancate strategie di politica industriale. 3. L’urgenza di una strategia di politica industriale per il Sud La mancanza di indirizzi chiari di politica industriale impedisce di affrontare i problemi posti dalla globalizzazione e dall’irruzione delle economie emergenti sui mercati dei prodotti manifatturieri, e penalizza in maggiore misura le regioni in ritardo. Proprio per queste aree, ci sarebbe stato bisogno di definire e perseguire specifiche politiche ancorate ad un disegno strategico di politica industriale, che ormai manca dalla metà degli anni ’70. Dopo di allora si è assistito in Italia a un progressivo indebolimento della politica industriale tout court, verso la quale è cresciuta, ormai da molti anni, un’avversione spesso di marca ideologica. Le politiche di riequilibrio territoriale, in particolare, sono state travolte dalla convinzione di un basso rendimento economico e sociale delle risorse pubbliche impiegate nel Sud. Dopo la scomparsa di importanti strumenti, tra i quali, in primo luogo, la legge 488/1992, ma anche altri ad essa collegati, finalizzati in particolare al sostegno delle R&S e all’innovazione, nel 2009, sono infatti rimasti non operativi (Fig.12) tutti gli interventi di incentivazione, anche quelli per i quali era prevista nell’anno l’attivazione, come le Zone franche urbane, i nuovi contratti di programma e i contratti di sviluppo, ancora in attesa di una regolamentazione. In assenza di rifinanziamenti, le risorse disponibili per i crediti di imposta per l’occupazione si sono esaurite già nell’ottobre 2008, mentre le agevolazioni concesse per i crediti di imposta a favore degli investimenti hanno assorbito l’intero stanziamento complessivo del 2007-2013. La riduzione del volume complessivo degli aiuti di Stato (Fig.13) per l’industria e i servizi, rispetto al PIL, ha riguardato invero nel triennio 2006-2008 tutte le maggiori economie europee. A ben vedere, però, una dinamica sostanzialmente omogenea sta portando a risultati sensibilmente differenziati. Il dato dell’Italia, in particolare, è divenuto notevolmente inferiore alla media (0,35% del PIL, contro lo 0,54% dell’Ue a 6 27), ed è comunque al di sotto degli altri principali paesi europei (escluso solamente il Regno Unito): 0,63% del PIL in Germania e 0,5% in Francia e Spagna. Dal punto di vista normativo, la “legge sviluppo” (L. 99/2009) ha delegato il Governo a riformare tutto il sistema degli incentivi, compresi quelli destinati alle aree sottoutilizzate, ma i tempi previsti per la presentazione del progetto di riforma sono lunghi. Nel frattempo è opportuno ribadire con forza le ragioni di una politica industriale specifica per il Mezzogiorno. Solo col ripristino di un consistente apporto differenziale di politica industriale regionale – coniugato con un più adeguato accesso del Sud agli interventi della politica industriale nazionale – è possibile, infatti, porre le condizioni per un disegno strategico di sviluppo strutturale. Gli “obiettivi guida” di questa possibile strategia di politica industriale possono sommariamente individuarsi: nella riqualificazione del modello di specializzazione produttiva, attraverso il sostegno alla ricerca e all’innovazione tecnologica e organizzativa e allo sviluppo delle attività a più alta produttività relativa; nell’innalzamento delle dimensioni medie dell’impresa, attraverso il sostegno alla formazione di “reti” di imprese e ad un maggiore accesso al credito; nell’innalzamento del grado di apertura del sistema verso l’estero; nella promozione e nell’arricchimento di “filiere produttive”; nel pieno inserimento delle agglomerazioni di imprese in settori strategici per l’industria nazionale (anche attraverso i “Progetti di innovazione Industriale” di “Industria 2015”); nel rilancio delle politiche di attrazione. Quanto agli strumenti di questa strategia di politica industriale per il Sud, un ruolo centrale dovrà continuare ad essere affidato anche agli interventi di incentivazione. Interventi per i quali – al di là della forma tecnica di erogazione – sarebbe però il momento di aprirsi ad un approccio più “selettivo” rispetto a quello seguito con la legge 488 e ancor più con i crediti di imposta; un approccio, cioè, mirato al perseguimento di obiettivi specifici, che consenta di evitare la dispersione delle risorse tra un novero troppo ampio di finalità e su una platea troppo vasta di imprese. In questa prospettiva, deve rilevarsi che i crediti di imposta – che una posizione oggi largamente prevalente tende a considerare non solo come la tipologia di incentivo più efficace ma pressoché come l’unica praticabile, in ragione della quasi totale automaticità dei criteri di concessione e di erogazione, che può consentire di evitare gli 7 elementi di possibile distorsione derivanti dall’interferenza, a volte anche “impropria”, della macchina amministrativa – sono, invece, a nostro avviso, da considerare una componente importante di un “sistema” di incentivazione, ma non esclusiva, né sostitutiva di una componente di tipo valutativo in grado di indirizzare risorse verso obiettivi di miglioramento strutturale. Un importante elemento della nuova strategia di politica industriale potrebbe essere costituito da una “vera” fiscalità di vantaggio, intesa come fiscalità differenziata a favore delle regioni meridionali nel loro complesso, e non di semplice accentuazione a favore del Sud di misure per il sistema produttivo nazionale. Essa dovrebbe costituire, infatti, una forma strutturale di diversificazione delle convenienze, tale da mettere effettivamente in moto una capacità di attrarre risorse esterne, nazionali ed internazionali, quale quella di cui si sono avvantaggiati altri paesi dell’Area dell’Euro, contribuendo a dare concretezza alla già evocata possibilità per il Mezzogiorno di proporsi quale “frontiera” in una rinnovata strategia di sviluppo del Paese. L’ultima manovra governativa (decreto legge 78/2010) prevede una forma di fiscalità di vantaggio per le Regioni del Mezzogiorno, che con propria legge possono, in relazione all'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) modificare le aliquote, fino ad azzerarle, e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei riguardi delle nuove iniziative produttive. In realtà, é difficile pensare che le Regioni del Mezzogiorno, tanto più dopo i tagli previsti dalla manovra stessa (e, per alcune di esse, con l’obbligo di far ricorso alla leva fiscale per coprire i disavanzi sanitari) abbiano risorse per avviare una concorrenza fiscale nei confronti delle altre aree per attirare nuove iniziative. 4. L’intreccio tra politiche ordinarie e politiche aggiuntive L’assenza di risultati soddisfacenti in termini di crescita e di convergenza del Mezzogiorno ha cause complesse che rimandano in larga parte al generale prolungato ristagno dell’intera economia italiana rispetto al resto d’Europa. Tuttavia, a frenare il processo di sviluppo concorrono problemi di dimensione nazionale, che assumono per il Sud gravità del tutto particolare, tra cui: l’impiego improprio di spesa pubblica ordinaria, il deficit di qualità ed efficienza delle Pubbliche Amministrazioni (regionali e 8 locali, ma anche nazionali), la presenza della criminalità organizzata, il difficile avanzamento della liberalizzazione dei mercati. Sempre più condizionanti, per innescare un processo di convergenza, sono i gravi effetti di un “disegno debole” di politiche generali nazionali che, in campi assai rilevanti per lo sviluppo, hanno costantemente mancato di adattare intensità e strumenti di intervento in funzione dei divari intercorrenti tra la macroarea debole e quella forte del Paese. Nel complesso intrico tra ciò che deve essere “ordinario” e ciò che deve essere “aggiuntivo”, preoccupa tuttavia l’emergere di una posizione che tende a dare priorità all’offerta dei servizi pubblici quale contenuto della “politica regionale” (aggiuntiva). Ora, settori come l’istruzione, la giustizia, la sicurezza sono decisivi per la creazione di “condizioni ambientali” favorevoli allo sviluppo, ma l’azione pubblica in questi settori non è certo mossa da finalità di promozione dello sviluppo dei territori più arretrati, bensì destinata a tutto il territorio nazionale. Non esitiamo a dire che questi comparti dell’azione pubblica costituiscono un presupposto delle politiche regionali, ma non possono sostituire gli elementi – legati all’obiettivo precipuo della crescita economica – che caratterizzano queste ultime. È un tema, quello della decisiva rilevanza delle politiche nazionali per lo sviluppo del Mezzogiorno e per i risultati della politica regionale stessa, che la Banca d’Italia ha di recente proposto con forza al centro della propria riflessione. È quanto ha affermato il Governatore Mario Draghi, con una formula che non si presta a equivoci, nella sua Relazione di apertura del Convegno del novembre scorso dedicato al Mezzogiorno: «ogni qualvolta si disegni un intervento pubblico nell’economia o nella società, occorre avere ben presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre ex ante adeguati correttivi». In definitiva, la politica regionale di sviluppo deve aggiungersi alle politiche generali nazionali, volte a fornire i beni collettivi essenziali e ad assicurare il normale funzionamento dei servizi pubblici. Ed è proprio in quest’ultimo ambito, legato all’azione “ordinaria” della Pubblica Amministrazione, che è venuto a consolidarsi, ed anzi in molti casi a radicalizzarsi, il divario del Sud rispetto al resto del Paese. Dalle analisi del Rapporto – al di là delle ben note ragioni di inefficienza e delle responsabilità politiche delle Amministrazioni meridionali – emerge la persistente 9 mancanza di un modello consolidato di gestione dei servizi pubblici degli Enti territoriali. Una questione che si pone con forza nella prospettiva di un sempre più compiuto processo di federalizzazione, i cui effetti benefici potranno aversi solo a condizione che esso sia correttamente inteso. L’assunto fondamentale da noi proposto è che il federalismo non debba significare separatezza tra territori, ma complementarità nelle responsabilità dei diversi livelli di governo nel quadro di una visione nazionale; non debba significare il disimpegno dello Stato nella regolamentazione e nel finanziamento dei servizi; né interpretare il concetto di sussidiarietà in termini “statici”, cioè soltanto come attribuzione dei poteri al livello più decentrato di governo, bensì in termini “dinamici”, ossia attraverso la costituzione di meccanismi di responsabilità tali da produrre l’intervento del livello di governo “superiore” – e in definitiva dello Stato, come «assicuratore di ultima istanza» – allorché un maggiore decentramento comprometta le ragioni dell’efficacia, o dell’efficienza. Nella fase di attuazione, in ogni caso, occorrerà rilanciare le condizioni economiche (il modello di finanziamento delle funzioni) e i forti elementi di precauzione (sulle disparità strutturali di partenza tra territori), su cui si insiste nel Rapporto. 5. Limiti e fallimenti della politica di coesione Oltre alle cause appena richiamate, al peggior andamento del Mezzogiorno ha concorso, a nostro avviso in misura decisiva, anche una ridotta efficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, mirata all’obiettivo precipuo della crescita economica. La spiegazione va ricercata, in primo luogo, in una dimensione della spesa pubblica in conto capitale complessiva destinata al Mezzogiorno assai inferiore a quanto programmato (Fig.14). Più precisamente, il dato definitivo per il 2008 dell’indicatore anticipatore della spesa in conto capitale, elaborato dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica, conferma la localizzazione nel Mezzogiorno di una quota pari al 34,8% del totale nazionale, in progressivo declino dopo il valore massimo registrato nel 2001 quando essa fu pari al 41,1% della spesa in conto capitale del Paese. Si tratta di un valore non solo ben lontano dal 45% del totale nazionale 10 originariamente fissato (ormai cancellato) in fase di programmazione, ma che, come accade ormai da qualche anno, non eguaglia neppure il “peso naturale” del Mezzogiorno in termini di popolazione e di territorio (38%). I dati relativi alla spesa servono a smentire l’idea, purtroppo assai diffusa anche nell’opinione pubblica, di un Sud inondato da un fiume di pubbliche risorse; ma sta anche ad indicare come la spesa in conto capitale aggiuntiva (comunitaria e nazionale) in tale area sia valsa negli ultimi anni solo a compensare il deficit della spesa ordinaria. Quest’ultima, infatti, è stata pari nel 2007 ad appena il 21,4% del totale nazionale. A deprimere l’efficacia della complessiva politica regionale, nazionale e comunitaria, ha però concorso anche la scarsa qualità degli interventi. Le carenze di fondo, come la SVIMEZ ha più volte segnalato, sono state: la dispersione delle risorse aggiuntive da finalizzare all’accelerazione dello sviluppo sul territorio in una eccessiva molteplicità di interventi, rispondenti troppo spesso a domande localistiche; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui. L’analisi condotta nel Rapporto (Fig.15) sugli “indicatori di contesto chiave”, identificati dal QCS 2000-2006, evidenzia che gli interventi realizzati non hanno modificato sensibilmente le condizioni competitive del territorio (con una quota maggioritaria di indicatori rimasti al di sotto dei valori target individuati a inizio Programmazione). Anche le “variabili di rottura” (Fig.16) del modello tradizionale di dipendenza del Mezzogiorno presentano, tra il 2000 e il 2008, un profilo sostanzialmente piatto. La riflessione sulle criticità identificate con riferimento al ciclo di programmazione 2000-2006 rappresenta, purtroppo, ancora oggi un tema di attualità; l’impostazione del nuovo “Quadro Strategico Nazionale” 2007 -2013 si è mossa, infatti, all’interno di una sostanziale continuità con il precedente periodo di programmazione. Riguardo all’avanzamento degli interventi, si confermano le difficoltà attuative (Fig.17). A tre anni e mezzo dall’approvazione dei Programmi, il livello di attuazione complessivo al febbraio 2010 per l’Obiettivo Convergenza si attesta, in relazione agli impegni e ai pagamenti, rispettivamente, ad appena il 14,6% e il 6,2% del contributo assegnato. Basso è anche l’avanzamento dei Programmi Regionali, che si ferma, in relazione al contributo, al 13,2%, per gli impegni, e al 5,7%, per i pagamenti. 11 Performances leggermente migliori riguardano i Programmi Nazionali, che in relazione al contributo assegnato, fanno registrare il 20% per gli impegni, e il 7,7% per i pagamenti. Ma i maggiori ritardi si sperimentano per i due Programmi Operativi Interregionali. Alla luce delle valutazioni critiche riguardanti il passato ciclo di programmazione, attualmente la principale preoccupazione riguarda non tanto e non solo il raggiungimento dei target di spesa che si richiede per evitare di restituire parte delle risorse comunitarie, ma la necessità di un’immediata ridefinizione e concentrazione delle priorità di intervento, nonché la riqualificazione delle procedure e dei meccanismi di progettazione e di attuazione degli interventi. 6. Il FAS e il depotenziamento della “politica regionale unitaria” Il Quadro Strategico Nazionale (QSN) 2007-2013, delineato con la Finanziaria 2007, voleva rappresentare una sede privilegiata della programmazione unitaria, in grado di ridurre l’eccessiva articolazione tra diversi strumenti finanziari (a livello comunitario, nazionale e regionale). Il Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS) inserito nel “quadro unitario” doveva avere un ruolo “chiave” di strumento generale della politica regionale nazionale. Nel corso del 2008, del 2009, e della prima parte del 2010 (Fig.18), invece, il legislatore, anticipando l’opera di ripartizione del CIPE, è intervenuto con rilevanti utilizzi della dotazione FAS per impieghi sovente senza rapporti con le finalità proprie del Fondo, che erano e che avrebbero dovuto restare finalità – meridionaliste – di “sviluppo” territoriale, verso la “coesione” nazionale. I tagli e le preallocazioni operate sono stati pari a circa 19 miliardi di euro. A ciò si sono però aggiunti numerosi interventi che hanno finito per dirottare risorse del FAS verso indirizzi dispersivi rispetto alla sua missione originaria. La quota delle risorse nazionali del FAS complessivamente dirottata verso altri indirizzi, secondo stime del CNEL, raggiunge circa i 26 miliardi di euro. Questo ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul “Quadro Strategico Nazionale 2007-2013”, indebolendone significativamente la componente nazionale. Il 12 QSN prevedeva, infatti, come richiamato, una programmazione coordinata e contestuale dei fondi nazionali ed europei destinati alle politiche regionali, e costituiva pertanto la sede unitaria per il finanziamento delle priorità individuate a seguito di un lungo negoziato tra Amministrazioni regionali, centrali e comunitarie. Anche nella manovra 2011, con il decreto legge 78/2010, tuttora all’esame del Parlamento, ancora una volta si interviene con una severa decurtazione delle risorse del FAS essenzialmente in funzione di “stabilizzazione finanziaria” dei conti pubblici (il taglio della Missione “Sviluppo e riequilibrio territoriale” del Ministero dello Sviluppo Economico per circa 2,4 miliardi di euro). 7. Necessità di visione strategica, mutamenti istituzionali e riforma delle politiche post 2013 La mancanza di strategicità non deriva, dunque, solo da fattori “interni” alla programmazione degli interventi (come la frammentarietà), ma emerge dalla crisi stessa dell’impianto complessivo del QSN. Il recupero di strategicità della politica regionale passa per una “revisione” – tecnicamente possibile – del quadro di programmazione che concentri gli interventi su poche priorità strategiche tenendo conto del mutato scenario economico e delle accresciute esigenze “cooperative” tra i diversi livelli di governo. Questa rinnovata visione strategica delle politiche di sviluppo per le aree deboli, tuttavia, sarà difficile da perseguire senza un mutamento “istituzionale”, in cui l’interesse complessivo della macroarea possa trovare alta espressione e modalità di relazione e confronto più proficue ed efficaci con l’azione del Governo nazionale. Per la SVIMEZ, il luogo di una rinnovata programmazione degli interventi strategici per il Mezzogiorno non può che essere una “Conferenza delle Regioni meridionali”, in costante rapporto con la Presidenza del Consiglio che (come previsto dal d.l. 78/2010) riacquista una centralità nelle politiche regionali di sviluppo. In sede congiunta – una sorta di “Consiglio per la coesione nazionale” – Conferenza delle Regioni meridionali e Presidenza del Consiglio dovranno assumere impegni vincolanti nella scelta di pochi grandi progetti strategici prioritari, su cui “appostare” risorse nazionali e regionali, frutto del “riordino” degli interventi e del “reintegro” dei fondi nazionali, certe e vincolate sino al completamento del progetto. La 13 Conferenza, poi, sarà il luogo di un coordinamento istituzionale tra Regioni, per ovviare alle criticità emerse, al fine di rendere coerenti gli interventi regionali con il disegno strategico di politica di sviluppo per l’intera macroarea. A questo luogo di coordinamento strategico è necessario affiancare una struttura tecnica, un’Agenzia indipendente che, nell’ambito del QSN e della normativa del quinto comma dell’art. 119 Cost., si occupi della progettazione (su cui in tutti questi anni si sono registrate le maggiori deficienze) e sia di supporto all’attuazione dei grandi interventi prioritari per il Mezzogiorno definiti dalla Conferenza e dal Governo, frutto di una più ampia legittimazione istituzionale e di un impegno politico assai più vincolante della semplice “contrattazione bilaterale” tra Stato e singole Regioni. L’Agenzia, in virtù dell’elevato grado di competenze tecniche e di indipendenza, dovrebbe consentire, oltre alla valutazione e selezione dei progetti attuativi, il loro monitoraggio in itinere ed ex post, facendo venire meno quella sostanziale autovalutazione che ha condizionato fortemente le politiche. Sulle prospettive della politica di coesione per gli anni successivi al 2013, la SVIMEZ ribadisce l’esigenza di mantenere e rafforzare nei prossimi anni una politica di sviluppo europea per i territori e la forte critica ad un approccio euroburocratico che si concentra più sulla correttezza delle procedure che sulla valutazione degli obiettivi perseguiti. In quest’ottica, appare condivisibile l’impianto del Rapporto indipendente, promosso dal Commissario per le politiche regionali e curato da Fabrizio Barca, Agenda for a reformed cohesion policy, che punta alla concentrazione ex ante delle risorse su alcune precise priorità strategiche. Infine, sarà decisivo rafforzare il ruolo delle decisioni del Bilancio europeo nell’indirizzare, monitorare e verificare gli obiettivi di sviluppo e coesione, e gli strumenti (e le risorse) messi in opera dalle Autorità nazionali e territoriali, a partire dal prima richiamato principio dell’addizionalità delle risorse. È da ritenere che la responsabilità europea non possa esaurirsi sul piano della quantità di risorse. I fondi del Bilancio Ue non possono essere visti come trasferimenti “globali” agli Stati, da destinare a compensare situazioni di difficoltà dei cittadini o delle imprese di una certa area geografica; e tantomeno come elemento di sostegno temporaneo della domanda. È invece obiettivo dichiarato nelle norme costitutive dell’Unione quello dello sviluppo, e 14 nella sua realizzazione l’Unione deve impegnarsi non solo destinando risorse, ma anche “validando” le finalità, l’efficacia e le priorità delle azioni proposte dallo Stato membro interessato. Insomma, concludendo, per la SVIMEZ il nuovo modello di governance della coesione implica il rafforzamento della capacità di indirizzo e di controllo da parte dell’Europa. Ciò vuol dire prevedere ex ante la scelta delle (poche) priorità da finanziare, la definizione di obiettivi quantitativi da raggiungere per mantenere le risorse, un sistema di valutazione indipendente, l’aumento della forza e cogenza dell’azione esterna, attraverso un rafforzamento del ruolo della Commissione e del suo sistema di condizionalità. Sono strumenti e proposte che dovrebbero orientare anche il versante nazionale delle politiche di sviluppo. Le proposte avanzate, infatti, mirano non solo ad aumentare la coerenza degli interventi messi in atto da una pluralità di livelli di governo, ma – attraverso un meccanismo più trasparente di responsabilizzazione e semplificazione della filiera decisionale – anche la stessa “sostenibilità” di un impegno aggiuntivo per il superamento dei divari. Svimez 2010/02_Direttore_Slide.pdf Rapporto 2010 sull’economia del Mezzogiorno Roma, 20 luglio 2010 Riccardo PADOVANI direttore della SVIMEZ Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Roma, 20 luglio 2010 Andamento del PIL dal 2001 al 2009 (Variazioni %) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Fig. 1 -6 -5 -4 -3 -2 -1 0 1 2 3 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 Mezzogiorno Centro-Nord Prodotto Interno Lordo (Variazioni % medie annue) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno 2001-2009 20092008 1,4 2,0 -0,3 Cumulata 0,2 0,2 0,0 Media annua Mezzogiorno -1,5 -4,5 Centro-Nord -1,3 -5,2 Italia -1,3 -5,0 Fig. 2 Valore aggiunto nei settori dell’economia nel 2009 (Variazioni %) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Fig. 3 -20 -15 -10 -5 0 Agricoltura, silvicoltura e pesca Industria s.s. Costruzioni e lavori del Genio civile Servizi Totale Mezzogiorno Centro-Nord PIL, Consumi e Investimenti (tassi annui di variazione %) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno -4,9-0,6-13,0-4,1Investimenti fissi lordi 17,31,80,60,8Consumi finali delle AAPP e delle ISP 3,70,4-1,7-0,8Consumi finali delle famiglie 2,00,2-5,2-1,3PIL Centro-Nord -2,3-0,3-9,6-3,7Investimenti fissi lordi 14,71,50,50,7Consumi finali delle AAPP e delle ISP -1,3-0,1-2,6-1,5Consumi finali delle famiglie -0,30,0-4,5-1,5PIL Mezzogiorno CumulataMedia annua 2001-2009 2008 2009 Fig. 4 Consumi delle famiglie per categoria di spesa (Variazioni % medie annue) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno 4,00,4-1,9-2,2Altri beni e servizi 7,60,8-1,6-1,0Altri beni e servizi 4,20,5-0,40,6Abitazioni e spese connesse -8,8-1,0-3,5-1,1Vestiario e calzature -2,3-0,3-3,1-2,3Alimentari, bevande e tabacco 3,70,4-1,7-0,8Spese per consumi finali delle famiglie Centro-Nord -1,9-0,2-2,30,8Abitazioni e spese connesse -10,7-1,2-4,4-0,8Vestiario e calzature -6,4-0,7-4,0-3,5Alimentari, bevande e tabacco -1,3-0,1-2,6-1,5Spese per consumi finali delle famiglie Mezzogiorno CumulataMedia annua 2001-2009 2008 2009 Fig. 5 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Andamento dell’occupazione (variazioni annuali assolute in migliaia di unità e %) Fig. 6 -4 -3 -2 -1 0 1 2 2007 2008 2009 Mezzogiorno Centro-Nord - 1 217 - 34 - 186 - 194 234 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Tasso di occupazione (%) e tasso di attività (%) nel 2009 e nel 2009 Fig. 7 30 40 50 60 70 80 2008 2009 2008 2009 Tasso di occupazione Tasso di attività Mezzogiorno Centro-Nord -8 -6 -4 -2 0 2008 2009 V a l o r i % Mezzogiorno Centro-Nord Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Occupazione industria in senso stretto nel 2008 e nel 2009. Valori assoluti in migliaia di unità e % Fig. 8 - 45,0 - 61,1 - 153,1 - 18,0 TASSO DI INDUSTRIALIZZAZIONE Mezzogiorno 35 Centro-Nord 105 VALORE AGGIUNTO DELL’INDUSTRIA IN SENSO STRETTO VARIAZIONE % CUMULATA Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno -19,75,9Mezzogiorno 2004-2007 2008-2009 Centro-Nord 4,6 -17,9 Fig. 9 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno -10,2-3,1-0,6Regno Unito -20,030,85,5Finlandia -15,525,94,7Slovenia -7,02,90,6Portogallo -1,147,58,1Polonia -10,32,40,5Francia -13,73,20,6Spagna -9,828,15,1Grecia -17,214,12,7Germania -13,39,71,9Euro Zone 2004-2008 -15,02,80,6Centro-Nord Media annua Cumulata 2009 Mezzogiorno -0,5 -2,4 -15,6 Italia 0,4 2,1 -15,1 Ue 27 1,9 9,8 -12,4 Fig. 10 Valore aggiunto industria ss. Variazione %, media annua e cumulata Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Crescita delle esportazioni di merci in alcune regioni dell’Obiettivo Convergenza (variazioni % su valori in euro correnti) -30 -25 -20 -15 -10 -5 0 5 10 15 2003-07 tasso medio annuo 2008 2009 Regioni tedesche Regioni spagnole Regioni italiane Germania Spagna Italia Fig. 11 Misure di agevolazione dell'intervento per le aree sottoutilizzate. Situazione al 30 giugno 2010 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Bandi avviati nel 2009 per attivare interventi di agevolazione per la ricerca e l'innovazione PON "Ricerca e Competitività" 2007-2013 per le regioni della Convergenza Approvazioni ferme dal 2007, in attesa di decreti di attuazione Unificazione dei contratti di programma e dei contratti di localizzazione nei contratti di sviluppo e loro estensione a tutto il territorio nazionale In attesa di attuazione; trasformate in zone a burocrazia zeroZone franche urbane (estese al Centro-Nord) Non operativi per esaurimento risorse dell'intero periodoCrediti di imposta per investimenti (2007-2013) MISURE SITUAZIONE Crediti di imposta per l'occupazione (2008) Non operativi perché vigenti per dipendenti assunti nel 2008 Fig. 12 AIUTI DI STATO NELL’UNIONE EUROPEA, NEL 2008* (in % del PIL) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno 0,290,35Italia 0,390,53Francia 0,400,48Spagna 0,570,63Germania 0,400,50Ue a 15 Stati membri Totale aiuti di Stato Totale aiuti per industria e servizi Ue a 27 0,54 0,42 Fig. 13*al netto degli aiuti alle ferrovie e degli interventi per il settore finanziario QUOTE DEL MEZZOGIORNO SULLA SPESA PUBBLICA IN CONTO CAPITALE DELLA P.A. (%) Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno 34,8 35,2 34,6 2008B 35,4 37,7 34,0 2007A 36,8 43,2 32,9 2006 36,9 45,0 32,3 2005 36,6 47,5 30,7 2004Settori di spesa 2001 2002 2003 Spese d’investimento 35,4 32,6 30,6 Trasferimenti di capitale 49,9 48,7 48,1 Totale 41,1 39,3 37,5 Fig. 14 A: Il dato è provvisorio B: Il dato è il risultato delle stime dell’indicatore anticipatore dei CTP. Confronto tra i valori target e valori 2008 di alcuni indicatori di "contesto chiave" per le regioni Obiettivo 1 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Differenze con ipotesi alta Differenze con ipotesi bassaIndicatori di “contesto chiave” 100,0 26,3 73,7 Valori % 38 10 28 Valori assoluti Valori assoluti Valori % Numero indicatori che sono rimasti al di sotto dei valori target 22 57,9 Numero indicatori che hanno superato i valori target 16 42,1 Totale 38 100,0 Fig. 15 Andamento dell’indice sintetico delle variabili di rottura, del PIL a prezzi costanti (valori concatenati, anno 2000) e tasso di occupazione 15-64 anni per regioni Ob. 1 e non Ob. 1 – Anni 2000 - 2008 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Fig. 16 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Fig. 17 QSN 2007-2013 delle regioni italiane dell’Obiettivo Convergenza FESR: Attuazione finanziaria al 28 febbraio 2010, per Programma Operativo (milioni di euro) Contributo totale Impegni Pagamenti Impegni Pagamenti 2007-2013 (b) (c) (b/a) (%) (c/a) (%) (a) ● Programmi Interregionali Convergenza 2.638,9 97,8 97,8 3,71 3,71 POI Attrattori culturali, naturali e turismo 1.031,1 0,0 0,0 0,00 0,00 POI Energie rinnovabili e risparmio energetico 1.607,8 97,8 97,8 6,08 6,08 ● Programmi Nazionali Convergenza 10.884,4 2.178,6 841,5 20,02 7,73 ● Programmi Regionali Convergenza 22.393,0 2.949,7 1.285,8 13,17 5,74 POR FESR Campania 6.864,8 685,4 261,9 9,98 3,81 POR FESR Puglia 5.238,0 503,4 313,9 9,61 5,99 POR FESR Basilicata 752,2 178,0 113,8 23,66 15,13 POR FESR Calabria 2.998,4 920,0 198,5 30,68 6,62 POR FESR Sicilia 6.539,6 662,9 397,7 10,14 6,08 ● Totale 35.916,3 5.226,1 2.225,1 14,55 6,19 Attuazione finanziaria Programmi Operativi Ripartizione e utilizzo del FAS 2007-2013 Copertura attraverso FAS: -10,505 md Risorse FAS 2000- 2006 non impegnate: +1,2 md Fondo economia reale 9,053 md Fondo Infrastrutture 12,356 md Pre-allocazione e altri investimenti: 1,533 md Quota regionale e interregionale FAS 27,026 md FAS (Cipe 21 dic 2007) 63,273 md FAS (Cipe 18 dic 2008) 53,968 md Quota nazionale FAS 25,409 md Fondo ammortizzatori 4 md Comunicato CNEL del 12 novembre 2009: “.. interventi che hanno di fatto indirizzato oltre 26 miliardi del FAS (circa il 40% delle disponibilità) verso utilizzi non coerenti con la sua missione originaria” Fig. 18 Riccardo PADOVANI direttore della SVIMEZ Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Roma, 20 luglio 2010 Svimez 2010/03_Vicedirettore_Testo.pdf Roma, 20 luglio 2010 Luca BIANCHI vice direttore della SVIMEZ Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno L’IMPATTO SOCIALE DELLA CRISI AL SUD: PAGANO I PIU’ DEBOLI La condizione giovanile Troppi senza “paracadute” Il rischio povertà I GIOVANI: VITTIME SILENZIOSE Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile Variazione % dell’occupazione per le classi giovanili ed adulte: 2008-2009 -10,0% -8,0% -6,0% -4,0% -2,0% 0,0% 2,0% 15-34 anni 35 anni e oltre Totale Mezzogiorno Centro-Nord Si chiudono le porte di accesso al mercato del lavoro Variazioni 2008-2009 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile In calo l’occupazione dei laureati 25-34 anni variazione 2008-2009 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile Tasso di occupazione dei laureati 25-34 . Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile Il divario di competenze in terza media Scarto dal valore medio - Dati INVALSI – Prova nazionale 2009 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile Serve ancora studiare? Tasso di passaggio dalle scuole superiori all'università Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile L’esercito degli invisibili: chi non studia e non lavora Not in education, employment or training di 15-29 anni Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile L’esercito degli invisibili: chi non studia e non lavora Not in education, employment or training di 15-29 anni Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno La condizione giovanile 30,3% 15,0% Incidenza % sulla popolazione della stessa età nel 2009 La fuga dal mercato del lavoro “formale” Inattivi e persone in cerca di occupazione Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno L’assenza di paracadute per troppi +700.000 Tasso di disoccupazione e tasso di disoccupazione corretto nel 2009 - Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno L’assenza di paracadute per troppi Composizione percentuale della disoccupazione corretta Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno L’assenza di paracadute per troppi Mezzogiorno Centro-Nord La diversa copertura degli ammortizzatori Variazione assol. occupati ed occupati equivalenti in CIG Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno L’assenza di paracadute per troppi Le famiglie a rischio povertà . Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il rischio povertà % delle famiglie per classi di reddito Meno di 1000 € mensili Tra 1000 e 1500 € mensili Più di 3000 € mensili Mezzogiorno 14,0 16,8 24,5 Centro-Nord 5,5 11,5 41,9 Condizioni del breadwinner . Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il rischio povertà % delle famiglie Almeno tre persone a carico Non occupato e non pensionato Mezzogiorno 12% 22,1% Centro-Nord 3,7% 10% Indicatori di deprivazione delle famiglie . Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il rischio povertà Indicatori di deprivazione delle famiglie . Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il rischio povertà Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Cambi di residenza: 114.000 -8.000 rispetto al 2008 Pendolari di lungo raggio: 147.000 -26.000 (-15%) rispetto al 2008 I nuovi emigranti: il flusso permane nonostante la crisi Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Nel 2009 i pendolari di lungo raggio laureati sono stati 39.000 (il 26,2% rispetto al 23,9% del 2008). Diminuisce invece nel 2009 la quota di impieghi ad alta qualificazione Studiare Emigrare Gli emigranti laureati sono stati oltre 17.000 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno LA FRONTIERA SUD La sfida è di portare a coerenza l’interesse specifico del Mezzogiorno con quello complessivo del sistema Recuperare, come nella migliore tradizione meridionalista, una visione dello sviluppo nazionale: un Mezzogiorno che esca dalla crisi puntando su uno sviluppo “non residuale” è un vantaggio anche per il Nord Il SUD battistrada di nuove vie per l’internazionalizzazione “attiva” del nostro sistema economico e non solo all’«inseguimento» del modello di sviluppo settentrionale Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno LA FRONTIERA SUD • Il Mediterraneo, “terra” di possibile integrazione • Le nuove vie allo sviluppo: ricerca e innovazione per valorizzare il capitale umano e puntare sulla green economy Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il Mediterraneo, “terra” di possibile integrazione • Il “rovesciamento” delle convenienze logistiche: fine della marginalità del Sud • Il Mediterraneo e l’Europa: da frontiera “ostile” a prossimità “contagiosa” L’attuale condizione è evidentemente figlia della “debolezza” dell’Italia nello scenario continentale: una nuova “missione” sovranazionale per l’Italia Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Il Mediterraneo, “terra” di possibile integrazione anche economica 1.000 1.500 2.000 2.500 3.000 3.500 4.000 4.500 5.000 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 Quote export sul totale Area MED extra UE 6,0Centro-Nord 9,8Mezzogiorno Esportazioni del Mezzogiorno verso area MED extra UE Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Ricerca e innovazione per valorizzare il capitale umano 11,865,69Italia Laureati per discipline scientifiche e tecnologiche (per 1000 abitanti in età 20-29 anni) 2000 2007 Mezzogiorno 3,83 8,03 Centro-Nord 6,89 14,48 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Ricerca e innovazione per valorizzare le potenzialità della green economy 29,8 29,6 38,4 18,3 0 10 20 30 40 50 Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud Quota imprese che investiranno nel 2010 in prodotti e tecnologie green Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti Rompere il persistente isolamento: condizione necessaria per ogni disegno strategico di crescita economica dell’area La Frontiera SUD come “cerniera”, per l’intero Paese, nella “nuova geografia dello sviluppo” post crisi. Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti 38,311,249,5TOTALE 14,7014,7Reti FerroviarieSA-RC-CT-PA, NA-BA Stima dei fabbisogni finanziari (mld €) Costo previsto Copertura finanziaria Fabbisogni da reperire Strade e Autostrade SA-RC, 106 Ionica, PA-AG e ME-SR-Gela, AG-CL, RG-CT 28,7 9,6 19,1 Ponte sullo stretto 6,1 1,6 4,5 Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti Questo progetto rappresenta il primo campo su cui procedere con uno sforzo di concentrazione e riorientamento dei Fondi per lo sviluppo e sperimentare quel necessario mutamento istituzionale che prevede la condivisione di obiettivi strategici tra Governo e Conferenza delle Regioni meridionali vincolando quote significative delle risorse del Fondo infrastrutture strategiche e dei Fondi strutturali nazionali e regionali. Roma, 20 luglio 2010 Luca BIANCHI vice direttore della SVIMEZ Rapporto SVIMEZ 2010 sull'economia del Mezzogiorno Svimez 2010/04_Novacco_Testo.pdf SVIMEZ Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEL “RAPPORTO SVIMEZ 2010 SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO” CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE al dibattito con le Regioni meridionali, col Governo e col Paese di Nino NOVACCO Presidente Emerito della SVIMEZ ROMA, 20 luglio 2010 c/o ABI - Sala della Clemenza di Palazzo Altieri SVIMEZ Cosa fare oggi per il Mezzogiorno e per l’Italia. Considerazioni introduttive al pubblico dibattito promosso dalla SVIMEZ Roma, 20 luglio 2010 1. Il “meridionalismo” politico, ma soprattutto economico, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, si batte da decenni con determinazione contro i divari e contro ogni differenza – storica e fattuale – tra Nord e Sud, cioè tra regioni avanzate ed aree deboli, tra territori industrializzati e no. In tale squilibrata situazione, è certo che occorre tener fermo il “timone” e garantire le scelte di una necessaria ma inesistente “regia” nazionale sul valore prioritario e determinante delle politiche pubbliche finalizzate all’accelerazione dello sviluppo nelle aree deboli del Mezzogiorno, come condizione verso la convergenza e la finalistica coesione, mai rinunciando alla documentata denuncia e contestazione dei limiti sempre più inadeguati della “spesa in conto capitale” da riservare allo sviluppo meridionale, che non sarà mai tale se non vi è lavoro, ed occupazione, ed imprese, e se non si riesce a combattere al Sud disoccupazione ed inoccupazione. Le politiche richiedono di essere sistematicamente valutate con particolare riferimento per un verso alle “grandi opere strategiche” essenziali sia all’unificazione infrastrutturale dell’Italia, sia alla interconnessione territoriale dell’intero Sud, e per altro verso al sistema delle “reti” e alla qualità dei servizi da rendere funzionali sia nelle singole regioni meridionali, sia tra di esse, fino ad oggi assai poco ed assai male interconnesse. I tagli apportati in questi ultimi anni alla spesa in tali campi nel Sud – utilizzando talvolta il FAS come il Bancomat del Governo –, hanno dato luogo ad una situazione che sarebbe non improprio definire di “sacrificio dei territori deboli”. Il fatto poi che siano scomparsi in sede di Governo i riferimenti introdotti dal DPEF 2000-2003 in ordine agli obiettivi di spesa di investimento da garantire nel Mezzogiorno [il 45% della spesa complessiva ed il 30% della spesa ordinaria in conto capitale, come era stato promesso dal DPS di Carlo Azeglio Ciampi e di Fabrizio Barca] sono la controprova del progressivo disimpegno della politica nazionale e di quella degli Enti erogatori nazionali che, salvo eccezioni, tendono a collocarsi addirittura al di sotto del “peso naturale” del Sud (popolazione e superficie dell’area), essenziale da rispettare se non si vuole accentuare il declino relativo del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. SVIMEZ 2 2. È tuttavia venuto forse il momento di dire con chiarezza che altrettanto gravi ed inaccettabili dei divari economici e di investimento, e di formazione di capitale, sono i differenziali territoriali relativi all’esercizio della “gestione del fare e del governare”, cioè dell’amministrare, e quindi le differenze ingiustificate tra “costi unitari” [e più tecnicamente tra “costi standard”, in termini analoghi a quelli di cui si parla a proposito del c.d. “federalismo fiscale”]; e ciò sia in senso “monetario” (spendere di meno per fare la stessa cosa, ottenendo pari o migliori risultati), sia in senso “organizzativo”, impiegando nelle diverse Regioni – e fin nei Comuni – le necessarie “risorse umane”, cioè un adeguato ma non eccessivo numero di addetti, che siano però veri dipendenti produttivi, e non soggetti burocratici lenti, indecisionisti e di fatto poco efficienti, incapaci di garantire – a parità di sforzi e di costi con le realtà più avanzate – i risultati che servono ad un Sud che diventi soggetto di modernità, garantendo così risultati sempre migliori. Mentre è evidente l’artificio dialettico – di fatto antimeridionalista – di chi pretende strumentalmente di ignorare (e comunque tacere) le “differenze strutturali” tra macro-comunità territoriali italiane che si trovano ad un differente livello di sviluppo, resta vero che non si può prescindere dalla doverosa presa in considerazione delle macro-differenze di costi e risultati in situazioni diverse, ed in un clima politico-mediatico in cui le denuncie (anche da parte di noti pubblicisti e di fin fantasiosi professori alla Ricolfi) in ordine alle diversità di costi e ricavi tra territori e/o Amministrazioni viene presentata come “colpa”, cioè come effetto di inefficienze e di incapacità, se non addirittura di imbrogli e ruberie, considerate quasi tipiche del Sud. È chiaro che in questo quadro è importante non lasciare solo alla sistematica e strumentale retorica “leghista”, e tanto meno alle generiche accuse di “cialtroneria” rivolte agli Amministratori regionali meridionali, il diritto di sventolare la bandiera delle “responsabilità dei politici e degli amministratori del Mezzogiorno”. Sarebbe perlomeno necessario evocare queste responsabilità in parallelo alla denuncia delle colpe storiche e strategiche dei Governi nazionali degli ultimi 20 anni, colpe che non potranno non accrescersi nel quadro di un federalismo che, se malinteso, rischia di divenire fattore disgregatore, fonte di aspirazioni a progressive devoluzioni, cioè l’esatto contrario del foedus, cioè del “patto”, che nel disegno di Cattaneo doveva servire a rendere più forte e saldo l’intero Paese. 3. Non hanno purtroppo trovato fino ad oggi una costruttiva soluzione i problemi aperti dai mutamenti costituzionali apportati nel 2001 in Italia alla assai saggia Costituzione “autonomista” del 1948. SVIMEZ 3 Quei mutamenti, ridimensionando il ruolo dello Stato nazionale, in favore (a parole) dei più ampi poteri di Regioni, Province, Aree Metropolitane e Comuni, in uno stravagante intreccio tra poteri propri e poteri condivisi, non hanno certo contribuito a fare chiarezza sulla disponibilità e sull’uso delle risorse, sia umane sia finanziarie. Si tenga presente in proposito quanto, in termini di “materie” – di cui si fece strame di non ben definite “competenze” – prevede oggi la Costituzione nell’art. 117 comma 2, a titolo di “legislazione concorrente” tra Stato e suoi territori. In una tale situazione, quando e come si riuscirà a mettere ordine nel caos e nello “spezzatino” che si è irresponsabilmente creato? E sarà possibile farlo, con un’Amministrazione burocratica tradizionalmente “cartolare”, “formalista”, “lenta” e “pigra” come la nostra? E se è già un rebus quello della identificazione dei costi standard per la sanità, per l’istruzione, per l’assistenza sociale, forse per i trasporti locali e per quant’altro, chi porrà mano a “costi standardizzati” per lo “sviluppo”, per l’“industrializzazione”, per il “capitale sociale”? E ciò anche a prescindere – ovviamente – da quel sempre più spesso evocato “capitale civico” accumulatosi, in secoli di storia e di esperienze, proprio in alcune delle zone più avanzate dell’Italia centro- settentrionale, e la cui assenza nel Mezzogiorno viene ricondotta a colpa odierna dei soli Amministratori del Sud, e non ad effetto dei modi storici dell’unificazione piemontese, ed ai differenziali che lo sviluppo produttivo ed occupazionale ha avuto nelle macro-regioni nazionali sotto tanti profili più deboli, così diverse rispetto ad altre, che godono degli articolati vantaggi del Nord. 4. Dunque, un nodo assai difficile e problematico per il Mezzogiorno è oggi senza dubbio – specie assieme alle iniziative necessarie per lo sviluppo produttivo, determinanti come nel caso FIAT per Pomigliano d’Arco – quello relativo al federalismo. Un groviglio da sciogliere con una certa urgenza, benché l’attuazione del “federalismo fiscale” – fors’anche a causa di incertezze e difficoltà finanziarie – non è affatto detto che proceda nei tempi e nei modi previsti dal Governo, e voluti e pretesi dalla Lega. Le frettolose determinazioni già intervenute in materia di “federalismo demaniale” non possono non rendere evidenti i rischi di una devoluzione del demanio, che testimonierebbe una volontà e comunque un esplicito disinteresse al fatto che si faccia a pezzi il patrimonio storico e condiviso della Nazione, con effetti evidenti sui territori deboli, le cui Amministrazioni versano in SVIMEZ 4 assai più difficili condizioni finanziarie, e che saranno incentivate a “svendere” anche solo per esigenze di bilancio corrente. Ecco perché la sfida dell’autonomia e dell’autogoverno del Mezzogiorno può essere vinta solo se coniugata con l’urgenza di elaborare un disegno nazionale di politiche pubbliche generali, tendenti al superamento del divario, come unica via per rendere sostenibile la solidarietà nazionale, e l’unità stessa del Paese. 5. Difficile situazione, quella del Mezzogiorno. Ma quanto peggio le sue Regioni si troverebbero oggi se a metà degli anni ’40 – e poi dal 1950, promuovendo e difendendo per un quarto di secolo la “Cassa per il Mezzogiorno” e l’intervento speciale e straordinario per il Sud – non fosse nata la SVIMEZ, che si è sforzata [con Morandi e Saraceno, con Menichella e con Giordani, con Cenzato e con tanti altri italiani – da Rossi Doria a La Malfa, da Cifarelli a Compagna, da Annesi a La Cavera (citato quest’ultimo da Emanuele Macaluso in una lectio doctoralis pronunciata a Catania nelle settimane scorse, ricordando anche il meridionalismo di Giorgio Amendola e di Giorgio Napolitano) –, italiani tutti allora e poi sensibili al destino unitario di un’Italia più uniformemente industrializzata ed unita nella disponibilità di dotazioni produttive e civili], la SVIMEZ si è sforzata, dicevo, di essere strumento del progresso di una parte non trascurabile della Nazione e dell’Europa. E quanto più preoccupati dovremmo essere oggi se a contrastare chi nega addirittura l’opportunità di avviare tra pochi mesi le Celebrazioni dei 150 anni dell’Unità – pur non ancora economica – dell’Italia, non ci fosse per un verso il rigore e l’impegno del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e per un altro verso l’impegno che la Chiesa italiana sta mostrando per il necessario progresso del Sud come condizione per la crescita e per la coesione dell’Italia tutta. 6. Il richiamo all’orgoglio dell’appartenenza alla tradizione del “meridionalismo” e al contributo che la SVIMEZ, anche in anni recenti e difficili, ha dato per mantenere alta e viva l’attenzione all’unificazione economica, e produttiva, e sociale, del Paese, occorre sia reso esplicito nella sua attualità ed urgenza. Un certo “meridionalismo meridiano” ha avuto il difetto e la colpa di non cogliere – come si è osservato – il profondo legame tra la modernizzazione del Mezzogiorno e quella del Paese nel suo insieme, ed è stato incapace di elaborare una politica per il Sud che fosse “funzione” dello sviluppo nazionale e internazionale. SVIMEZ 5 In questo senso – anche per mettere in doveroso risalto i contributi analitici offerti dalla SVIMEZ nei propri Rapporti di questi ultimi anni –, occorre inquadrare la questione dello sviluppo del Mezzogiorno nella cornice nazionale e internazionale, individuando le linee di espansione in settori capaci di competere nel nuovo scenario globale. In fondo, è quello che si tentò – con alterne fortune – di fare in passato al Sud con l’industria dell’automobile, dell’acciaio, del petrolio, della chimica, e comunque con stabilimenti produttivi che ancor oggi hanno un peso ed una rilevanza determinante nell’economia meridionale. Le ricette per il Sud, mutuate dalle esperienze internazionali che si richiamavano ad un liberismo “estremista”, si sono rivelate fallimentari; e oggi, dopo la crisi in corso, sono ovunque messe in discussione. E così, anche il localismo, figlio innaturale dello stesso pensiero dominante, è dal canto suo del tutto inadeguato a cogliere i vantaggi competitivi nel mutato scenario dell’economia globale. Ecco perché occorre tornare a riproporre il Mezzogiorno, nel suo insieme, non solo come “problema” nazionale, ma soprattutto come “occasione nazionale”, ben al di là delle contingenti motivazioni politiche – la denuncia SVIMEZ dell’entità cospicua dei movimenti migratori Sud-Nord – che nel luglio dello scorso 2009 ebbero a segnare il ritorno dei problemi meridionali nel dibattito pubblico della stampa e della politica italiana. Solo la diffusione della consapevolezza – che è compito della “cultura”, ma anche della “politica” – di una reale «occasione Mezzogiorno», può trasmettere al Paese l’immagine di un Sud “utile” all’Italia, e non soltanto “tollerato” dal Nord a titolo di una evocata solidarietà nazionale su cui, in realtà – leghe o non leghe – non pare si possa fare sempre affidamento. 7. Lasciate che io confessi che malgrado tutto resto nella mia tristezza, quando penso che oggi noi della SVIMEZ, con il Presidente della Repubblica, con la Confindustria, con la Conferenza Episcopale Italiana, appariamo tutti a diverso titolo paralizzati dalla verbosità e fantasia capziosa dei personaggi maggiori e no del “leghismo” italiano, e dalla sproporzionata influenza che esso esercita sugli equilibri e sul futuro dell’Italia. Come la lotta nazionale contro il cancro mafioso non sarà vinta in Italia senza una condanna morale e civile che non conceda attenuanti e giustificazioni pur indirette al potere delle mafie diffusesi ormai nell’economia e nella società dell’intera Italia, così la posizione della Chiesa italiana resterà non risolutiva senza la formalizzata e pubblicizzata esclusione degli adepti mafiosi e delle loro famiglie dalle Comunità Ecclesiali, e senza che si affermi ovunque il valore morale di un massimo di “pulizia” e di rigore nell’amministrare, e fin nell’accettare come normali gli eccessi di SVIMEZ 6 eccezioni (finti malati, ad esempio, inventati, coinvolti e sfruttati dalle mafie) in determinati territori e campi. Allo stesso modo e titolo, la meritoria battaglia di alcune Confindustrie meridionali contro i comportamenti mafiosi e malavitosi di tante imprese di costruzione, non sarà vittoriosa finché ognuna di esse guarderà prioritariamente al proprio orticello, lasciando che risulti vincente il cinico “realismo” di quelle altre imprese – spesso grandi, se non le maggiori – che accettano (magari riuscendo a nascondersi o camuffarsi) la logica del “compromesso” e la prassi della “convivenza” come fattori di pur anomala competitività, specie nella qualità delle opere relative a grandi ma anche piccoli lavori pubblici, e più in generale nella scadente qualità del mercato degli immobili, urbani e metropolitani, per non parlare delle troppo ampie libertà di una struttura di “Protezione civile” divenuta di fatto una SpA senza regole e vincoli. 8. Senza voler formulare qui ed oggi giudizi né di “politica” né di “politica economica”, determinante sarà lo stato d’animo che il meridionalismo tutto sarà capace di assumere nei confronti delle scelte dei poteri pubblici nazionali a proposito della allocazione territoriale delle risorse, fino a quando esse non divengano trasparentemente e stabilmente corrispondenti – come era sembrato si volesse fare quando è nato il DPS di Ciampi e di Barca – alle esigenze delle Regioni meno avanzate e più deboli. Il progresso di esse è infatti una “condicio sine qua non”, se crediamo essere vero – come anche la Confindustria ha rilevato nel celebrare il proprio Centenario – che “l’Italia non crescerà se non crescerà adeguatamente l’intero Mezzogiorno”. In effetti, l’obiettivo di una “crescita” rapida e competitiva è per l’Italia quello prioritario, ed è obiettivo che non ha altre ragionevoli alternative, ma che è reso difficile ed improbabile anche per l’indebolimento del “Ministero dello Sviluppo Economico”, cui era stata affidata impropriamente la delega per le politiche di sviluppo, in precedenza in carico al Ministero dell’Economia, ed ora, più opportunamente passata al Presidente del Consiglio, e delegata al Ministro degli Affari Regionali. Siamo forse al tornante di una necessaria svolta, nella quale tutto si tiene e conta, comprese, come ho detto all’inizio, le gravissime ed insopportabili inefficienze e fin corruzioni degli Amministratori responsabili e dei Governi locali meridionali, troppo influenzati da storici condizionamenti: familisti, parentali e amicali, oltre a quelli economico-affaristici, professionali, mafiosi e massonici – P2 oppure P3 che sia –, tutti determinanti, perché tutti a vari livelli burocratici ed economici tra loro intrecciati. Una svolta che se non si tradurrà presto nei fatti e nelle politiche, ci vedrà inevitabilmente condannati a negativi destini: dal venir meno del prestigio di cui SVIMEZ 7 il “made in Italy” gode ancora sui mercati (maggiore di quello riconosciuto all’Italia nella politica internazionale), al sicuro declino economico della intera nostra Nazione rispetto ai BRIC; e non solo ad essi, ma a tanti nuovi Paesi emergenti nel Mondo, vicino e lontano. Vi è quindi la necessità – è da molto tempo ormai che si parla di un “Piano per il Mezzogiorno”, come già in recenti anni passati si è addirittura parlato di un “Piano Marshall” per il Sud – di un forte progetto nazionale, e di realizzazioni straordinariamente impegnative anche e proprio per il progresso ambientale e produttivo meridionale, capaci di contrastare la perdurante disunità del sistema Italia. Questa appare ormai forse come la sola speranza nazionale per i prossimi anni, e di essa sarebbe grave – ripeto – voler rendere colpevoli i soli “governatori” del Sud – vecchi e nuovi, e di alterno colore politico –, gravati da tante responsabilità, ma anche da tanti storici problemi irrisolti, e da sistematici “tagli e condizionamenti” alle risorse, che creano insopportabili ma concrete incertezze. 9. A progetti di programmazione di tal fatta, che riprendano gli aspetti positivi di ciò che nel corso degli “anni migliori” dell’intervento straordinario della “Cassa per il Mezzogiorno” (1950-1975) si era saputo fare – sotto la guida di Gabriele Pescatore – ispirandosi alle Authority americane degli anni rooseveltiani dopo la “Grande Crisi” (Tennesse Valley Authority, Columbia River, altre, come più tardi all’esperienza dell’Appalachian Commission), la SVIMEZ sta di fatto lavorando, attraverso l’elaborazione della proposta di una specifica “Agenzia per lo sviluppo del territorio del Mezzogiorno”, e per altro verso grazie ai prospettati servizi di un “Osservatorio economico e sociale del Mezzogiorno” che essa è capace di offrire ed ha offerto – a basso costo – ad una sorta di opportuna “Conferenza delle Regioni meridionali”. Si potrebbero così dare contenuti positivi alle troppo vaghe previsioni dell’art. 119 comma 5 della Costituzione, con cui il legislatore volle nel 2001 annacquare il riferimento di fatto al solo Mezzogiorno, quale esso era contenuto al comma 3 dell’art. 119 della Costituzione autonomista del 1948, che allora venne cancellato. C’è in effetti un ineludibile bisogno – possibilità e necessità insieme – di strutture che assicurino forme di coordinamento efficaci per interventi che siano connessi alla qualità degli ambienti produttivi e ad una efficace “gestione” delle politiche e degli interventi indirizzati a “strategie di localizzazione” che guardino – anche a scala ed in ottica mediterranea – alle potenzialità del Mezzogiorno nel nuovo scenario che si aprirà con la ripresa, dopo la grave crisi internazionale che stiamo ancora attraversando. Del resto, le posizioni di questi ultimi anni – figlie di un pensiero economico variamente declinato in Europa fin nelle forme estreme di antistatalismo SVIMEZ 8 liberista, e nella mitologizzata esaltazione di un localismo senza storia e senza orizzonti – hanno rivelato tutta la loro inadeguatezza. In questo quadro, l’idea che noi della SVIMEZ coltiviamo, e la bussola cui guardiamo, e che riteniamo possa e debba guidare l’Italia, è quella di ripensare al ruolo di organismi – promossi dallo Stato, e comunque gestiti con risorse rese effettivamente disponibili per le Regioni meridionali – operanti nel quadro del tante volte promesso “Piano per il Mezzogiorno”, anche nel campo dei «servizi reali alle piccole e medie imprese». Con tal tipo di Organismi – e con la valorizzazione produttiva degli immobili industriali oggi non più utilizzati nelle ASI e nei “nuclei” industriali per colpa della crisi e del “mal governo” amministrativo di troppi – sarebbe possibile dare un più che efficace supporto – per il futuro prossimo – all’individuazione di localizzazioni, strategie e strumenti per accelerare i processi di sviluppo delle «aree deboli» del Sud, processi senza i quali non ci sarà unità nazionale, e permarranno ancora – troppo a lungo – divari e squilibri, nemici da sempre dello sviluppo competitivo e complessivo dell’Italia. Ci sentiamo impegnati, come SVIMEZ, affinché politiche che non restino solo declamate in improbabili programmi e nei quasi quotidiani comunicati alla stampa e soprattutto alle TV, e strumenti operativi non miopi e non paralizzati dall’assenza di reale operatività dei poteri locali, possano aiutare in concreto il Mezzogiorno, e con esso l’Italia. Nino Novacco Presidente Emerito della SVIMEZ Roma, 20 luglio 2010 Svimez 2010/05_Scheda_Sintesi.pdf SVIMEZ Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno RAPPORTO SVIMEZ 2010 SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO INTRODUZIONE E SINTESI 2 Finito di stampare il 16 luglio 2010 dall’Industria Failli Grafica s.r.l. Via Roma, 202, 00010 Pomezia (Roma) – Tel. 06.9122520 fax 06.9108363 per conto della SVIMEZ “Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno” Via di Porta Pinciana 6, 00187 Roma Tel. 06.47.850.1 • fax 06.47.850.850 • e–mail: svimez@svimez.it 3 Indice 1. IL MEZZOGIORNO NELLA CRISI: INDIETRO DI 10 ANNI p. 5 2. IL DIFFICILE PERCORSO DELL’INDUSTRIA MERIDIONALE E LA NECESSITÀ DEL RILANCIO DI UNA STRATEGIA DI POLITICA INDUSTRIALE PER IL SUD 8 2.1. La crisi e il rischio della scomparsa del Sud industriale 8 2.2. L’urgenza di una strategia di politica industriale per il Sud 11 3. L’IMPATTO SOCIALE DELLA CRISI 15 3.1. I giovani, le vittime silenziose 15 3.2. L’inoccupazione e la povertà: i limiti del welfare italiano 19 4. LE POLITICHE E I FONDI STRUTTURALI: LA NECESSITÀ DI VISIONE STRATEGICA E DI COORDINAMENTO 22 4.1. La spesa pubblica al Sud: superare i luoghi comuni 22 4.2. Limiti e fallimenti della politica di coesione 23 4.3. Il FAS e il depotenziamento della “politica regionale unitaria” 25 4.4. Necessità di visione strategica, mutamenti istituzionali e riforma delle politiche post 2013 27 4 5. POLITICHE GENERALI NAZIONALI, PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E DIVARIO p. 30 5.1. La necessità di politiche generali nazionali differenziate 30 5.2. I “nuovi contenuti”del divario: i servizi pubblici per i cittadini e per le imprese 31 6. IL MEZZOGIORNO NELLA PROSPETTIVA DELL’ATTUAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE 35 6.1. La necessità di un adeguato modello di governance e di finanziamento 35 6.2. Le risorse aggiuntive e gli interventi speciali per il Mezzogiorno 38 7. LA “FRONTIERA” SUD E LE NUOVE “STRADE” DELLO SVILUPPO 40 7.1. La “frontiera” 40 7.2. Il Mediterraneo, “terra”di possibile integrazione 41 7.3. Le nuove vie allo sviluppo: ricerca e innovazione per valorizzare il capitale umano e puntare sulla green economy 43 7.4. Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti: strumento per la crescita e l’integrazione 46 5 Introduzione e sintesi 1. IL MEZZOGIORNO NELLA CRISI: INDIETRO DI 10 ANNI I dati e le analisi presentati nel Rapporto SVIMEZ di quest’anno documentano il processo di deterioramento in atto nel Mezzogiorno, a livello di capitale fisso, sociale e produttivo. Un declino in corso da un decennio, e aggravatosi nella attuale fase di crisi, che ostacola il processo di adeguamento competitivo di tale area ed accresce le condizioni di fragilità delle sue strutture produttive. Il rallentamento e poi il calo degli investimenti produttivi privati è accompagnato da un parallelo indebolimento degli investimenti effettuati dall’Amministrazione pubblica e dalle imprese pubbliche, nazionali e locali, cui si aggiungono in questa fase i consistenti tagli ai Fondi per il Sud. Conseguenti e drammatici i risvolti sociali: calo demografico, migrazione dei giovani laureati, aumento della quota di anziani e di inoccupati, allargamento dei divari sul piano delle tutele del lavoro e forte contrazione nella dotazione dei servizi socio-assistenziali. È in tale difficile quadro che si colloca l’analisi del presente Rapporto che pone in evidenza il processo incompiuto di trasformazione dell’economia meridionale in questi ultimi anni; troppe le debolezze strutturali che affondano le radici nel passato e troppo deboli ancora i segnali di ripresa per far sperare in una rapida fuoriuscita dalla crisi. Nel Paese, indebolito nel suo insieme, sembra prevalere un atteggiamento di contrapposizione tra aree deboli e aree forti, che se da un lato delinea il rischio di un ulteriore allargamento del divario, dall’altro condiziona anche le possibilità di ripresa dell’intera economia italiana. Il Rapporto SVIMEZ 2010 vuole, invece, richiamare l’attenzione sull’urgenza di un profondo processo di ristrutturazione dell’apparato produttivo meridionale, che deve essere accompagnato da più efficaci politiche di sviluppo che pongano le condizioni per cogliere le sfide e le opportunità nel “nuovo” scenario che si aprirà all’uscita dalla crisi. In questa ottica, un approccio “storico”, tanto più quest’anno in cui si celebrano i 150 anni dell’Unità nazionale, può aiutare a recuperare l’abitudine, persa da troppo tempo, a sviluppare un’analisi di sistema nella quale il 6 Mezzogiorno sia parte di un disegno complessivo di interesse nazionale. Dobbiamo tornare a ragionare sul se e su come da Sud possa proporsi, in analogia a quanto avvenne negli anni della Ricostruzione post-bellica, una fondamentale azione di rigenerazione dell’economia e della società italiana. Questo si traduce per noi nel concetto di Mezzogiorno come “frontiera” del Paese, verso il Mediterraneo e verso le opportunità offerte dai nuovi settori di sviluppo legati all’innovazione, alle competenze, all’economia verde. Cogliere tali opportunità richiede però innovazioni istituzionali nel Sud e per il Sud: un’attuazione del federalismo fiscale costituzionalmente orientata; un risveglio di coscienza civile; una nuova strategia di politica economica che, in coerenza con le esigenze di stabilità finanziaria, ponga le basi per un rilancio della crescita dell’intero Paese. A tal fine il Rapporto, nella Parte terza, identifica alcune principali linee di questo nuovo “progetto Paese”, in grado di valorizzare le tante energie inutilizzate soprattutto nelle sue aree deboli. Un progetto che deve basarsi su più coerenti ed efficienti politiche generali nazionali (nel campo della Pubblica Amministrazione, della scuola, del credito, della lotta alla povertà e all’esclusione sociale, del contrasto alla criminalità organizzata), e su di una riformata, ma ancora indispensabile, politica specifica per le aree deboli, in grado di favorire i processi di modernizzazione, presenti anche al Sud, e le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale che torneranno a presentarsi. Il Mezzogiorno nella crisi: effetti economici ed effetti sociali La grave recessione che ha colpito l’economia mondiale si è abbattuta pesantemente sull’economia del Mezzogiorno, provata da un decennio di forte rallentamento e da un allargamento del divario di sviluppo col resto del Paese. Dall’inizio degli anni duemila fino all’arrivo della crisi, il Mezzogiorno ha registrato ritmi di crescita dimezzati rispetto al Centro-Nord. Con la recessione del 2008 e del 2009 il PIL meridionale è ritornato, in valore assoluto, ai livelli di dieci anni prima. Non si era mai verificato, nella storia repubblicana, una così lunga interruzione del processo di crescita e di convergenza con le aree “forti”. In base a valutazioni di preconsuntivo elaborate dalla SVIMEZ, nel 2009 il prodotto interno lordo (a prezzi concatenati) si è ridotto nel Mezzogiorno del 4,5%, con una caduta molto più ampia di quella registrata nell’anno precedente (-1,5%), ma inferiore – solo per effetto di una diversa composizione dei settori dell’economia – di poco più di mezzo punto a quella 7 nel resto del Paese (-5,2%). La crisi del biennio 2008-2009 è l’unica, tra quelle vissute negli ultimi decenni, in cui il PIL si sia contratto per due anni consecutivi: il prodotto a prezzi concatenati tra il 2007 e il 2009 si è ridotto complessivamente del 5,7% nel Mezzogiorno e del 4,9% nel resto del Paese. Ciò sfata l’ipotesi di un Mezzogiorno che subisce meno gli effetti del ciclo, specie quello internazionale, in quanto meno aperto agli scambi con l’estero, e in cui i settori anticiclici, come quelli dei servizi, hanno un ruolo congiunturale determinante. Al contrario, la maggiore debolezza dell’economia meridionale la rende particolarmente vulnerabile non solo agli shock diretti provenienti dalla domanda estera, ma anche ai suoi effetti indiretti, tramite la domanda proveniente dal Centro-Nord. La recessione attuale, aggiunta alla bassa crescita, comporta che il prodotto del Mezzogiorno risulti nel 2009 ancora inferiore del -0,3% al livello raggiunto dall’inizio del decennio. Nel resto del Paese, la migliore dinamica di sviluppo realizzata nello stesso periodo ha portato ad una crescita cumulata nel decennio del 2,1%, un valore esiguo ma comunque positivo. Le differenze tra gli andamenti settoriali tra Mezzogiorno e Centro-Nord sono nel 2009 complessivamente modeste. In tutti i comparti in cui sono disaggregati i conti regionali la flessione produttiva del Sud è stata però maggiore di quella del Centro-Nord. Soltanto la diversa composizione settoriale – con un peso maggiore dei servizi meno colpiti dalla crisi – ha determinato al Sud un risultato meno negativo nell’anno. Tra le componenti della domanda, la caduta nell’acquisto di beni capitali è la prima causa anche nel 2009 della recessione del PIL: gli investimenti fissi lordi del Mezzogiorno sono diminuiti del 9,6%, dopo la flessione già registrata l’anno precedente (-3,7%). Nel Centro-Nord la flessione è stata più ampia (- 13,0%), come nel 2008 (-4,1%). Assai più grave è stata invece al Sud la contrazione dei consumi. In particolare, la spesa finale delle famiglie nel 2009 si è ridotta nel Mezzogiorno del 2,6%, un punto in più che nel resto del Paese. Ma la forza dell’impatto della crisi sulla capacità di spesa delle famiglie emerge con ancora più evidenza dalla dinamica assai negativa nel comparto dei beni essenziali: la spesa alimentare si è ridotta nel 2009 del 4%, valore che fa seguito al -3,5% del 2008. Una chiara indicazione delle difficoltà delle famiglie meridionali a sostenere il livello di spesa, che vanno al di là della congiuntura ma che sembrano ulteriormente aggravarsi nella fase più recente, in conseguenza delle consistenti perdite di posti di lavoro, che al Sud, più che nel resto del Paese, spesso riguardano l’unico percettore di reddito dell’intero nucleo familiare. 8 La contrazione dell’occupazione è stata nel 2009 nelle regioni meridionali di intensità tripla (-3%) rispetto al -1,1% del Centro-Nord. In termini assoluti ciò vuol dire 194 mila occupati in meno nel Mezzogiorno, che si aggiungono ai 35 mila posti persi nel precedente anno. Una riduzione dello stock di occupazione impiegata cha ha determinato tra il 2007 e il 2009 un calo di circa due punti del tasso di occupazione: dal 46,5% al 44,7%, valore distante di quasi venti punti dal resto del Paese (64,5%). Solo un ulteriore e deciso incremento dello “scoraggiamento” a cercare lavoro ha limitato gli effetti di tali andamenti sul tasso di disoccupazione. Nel solo 2009, gli “inattivi” in età lavorativa, cioè coloro che non svolgono un lavoro né lo cercano, sono aumentati al Sud di oltre il 3%. Deve far riflettere il fatto che nel 2009 il tasso di attività sia sceso al Sud al 51,1%: ciò vuol dire che una persona su due in età lavorativa è completamente estranea al mercato del lavoro regolare (non solo non ha una occupazione ma non segue i formali canali di ricerca di lavoro previsti dall’indagine ISTAT). Si tratta di un esercito di oltre sei milioni e mezzo di donne e uomini che partecipa ad un mondo “grigio”, tra l’attività irregolare nell’economia sommersa e la ricerca estemporanea di lavori saltuari, attraverso canali informali se non di carattere clientelare. 2. IL DIFFICILE PERCORSO DELL’INDUSTRIA MERIDIONALE E LA NECESSITÀ DEL RILANCIO DI UNA STRATEGIA DI POLITICA INDUSTRIALE PER IL SUD 2.1. La crisi e il rischio della scomparsa del Sud industriale La perdita di occupazione registrata per effetto della crisi economica risulta di estrema gravità nel comparto industriale italiano. In particolare, la riduzione della manodopera industriale nel Mezzogiorno sta assumendo dimensioni mai sperimentate: nel corso del 2009 si sono persi 61 mila posti di lavoro dell’industria manifatturiera (-7% a fronte del -3,7% nel Centro-Nord). Nel complesso del biennio di crisi 2008-2009, la perdita occupazionale supera le 100 mila unità (-12%), andando così a ridurre ulteriormente il tasso di industrializzazione di un’area che presentava già livelli assai inferiori al resto del Paese. Va ricordato, a riguardo, che ancora nel 2007 vi erano al Sud, secondo i dati dell’Archivio ASIA, appena 35 addetti manifatturieri ogni 1.000 abitanti a fronte dei 105 del Centro-Nord. La crisi si è riflessa con particolare gravità sulle regioni meridionali maggiormente industrializzate: -14% nel 9 biennio in Campania, -13% in Puglia e Basilicata (in quest’ultima regione tra il 2004 e il 2009 si è perso circa un occupato industriale su cinque). I dati sul valore aggiunto industriale confermano la lettura di una crisi che viene da lontano e che mostra elementi di debolezza strutturali che rischiano di andare oltre il ciclo congiunturale. Nel biennio 2008-2009, l’output industriale è complessivamente diminuito di poco meno di venti punti percentuali nel Sud (-19,7%) e di quasi diciotto nel Centro-Nord (-17,9%). Relativamente a ciò, vi sono due considerazioni che preme evidenziare. La prima è che dal 2004, anno a partire dal quale la dinamica nazionale era tendenzialmente tornata ad essere positiva, e fino al 2007, la variazione cumulata del prodotto dell’industria è risultata pari al 5,9% nel Mezzogiorno ed al 4,6% nel resto del Paese. Ciò implica che, in assenza di una consistente accelerazione del ritmo di crescita del prodotto industriale nella fase post-crisi, il recupero dei livelli di produzione del 2007 richiederà un arco temporale prossimo, in entrambi i casi, al decennio. In secondo luogo, diversamente da quanto di solito avveniva in fasi recessive indotte dall’estero, la crisi avviatasi dalla seconda metà del 2008 pare aver colpito con intensità maggiore l’industria del Sud. Generalmente, infatti, dato il maggior grado di apertura dell’industria del Nord, quest’ultima era coinvolta in misura più ampia da una contrazione del commercio mondiale. Il venir meno, nella fase ciclica recente, di questo elemento può indicare la presenza, nel Sud, di uno shock (fortemente) asimmetrico. Nelle aree valutarie uniche, qual è l’Euro-zone, in presenza di una ridotta flessibilità di prezzi e salari unitamente ad una scarsa mobilità dei fattori, gli aggiustamenti in seguito ad uno shock esogeno, perso il cambio, spettano alla politica fiscale. Misure di sostegno della domanda non appaiono tuttavia praticabili in considerazione dell’elevato stock di debito pubblico già accumulato. In assenza, inoltre, di politiche strutturali volte a ridurre in maniera consistente i divari regionali, l’eventualità che gli shock possano generare recessioni, nelle aree deboli, di entità relativamente maggiore, è molto alta – venendo meno, in queste, la tradizionale valvola del mercato interno. Il confronto internazionale sembra avvalorare tale ipotesi. La caduta di output industriale registrata nelle regioni meridionali nel 2009 è, con l’eccezione di Germania e Finlandia, quella di entità più ampia, sia rispetto ai paesi di più antica industrializzazione (Francia, Regno Unito) che, soprattutto, nei confronti dei nuovi competitors presenti nella stessa Europa a 27, quali ad esempio la Polonia. La particolare intensità con cui la recessione industriale ha colpito il Mezzogiorno nel 2009 fa seguito, infatti, ad un già forte ampliamento del gap di crescita con il resto del Paese (e, soprattutto, con gli altri paesi europei) nella 10 fase antecedente la crisi, caratterizzata dall’acuirsi delle differenze in termini di produttività a causa della sostanziale inadeguatezza che i processi di riorganizzazione della struttura produttiva – comparativamente lenti nell’intero Paese – hanno mostrato al Sud. Nel complesso del periodo 2004-2008 la variazione cumulata del prodotto industriale è risultata nel Mezzogiorno negativa (-2,4%), a fronte di un aumento del 2,8% nel Centro-Nord e in presenza di incrementi medi complessivi del 9,7% per l’Area dell’Euro e del 9,8% per l’Ue a 27 paesi. Queste considerazioni paiono rafforzarsi da un’analisi econometrica condotta dalla SVIMEZ su un campione di imprese presenti nelle indagini curate da UNICREDIT. I miglioramenti competitivi sono risultati fortemente circoscritti a una quota limitata di imprese, mentre a livello di sistema sono emerse rilevanti difficoltà ad adeguarsi al nuovo contesto. La diffusione e la rilevanza, in termini di impatto sulla performance del valore aggiunto, di quei fattori “competitività” che nelle regioni del Centro-Nord hanno assunto il ruolo di driver della crescita – innovazione (non incrementale) e internazionalizzazione (specie nelle forme più evolute che vanno oltre il semplice export) – è comparativamente assai debole. Il doppio shock (euro/globalizzazione) di inizio decennio si è abbattuto su una struttura industriale che nel Mezzogiorno permane fortemente polarizzata tra poche, e sempre meno, grandi imprese, quasi sempre di proprietà esterna all’area, e molte piccole imprese locali orientate al mercato interno, con scarsi collegamenti con le unità produttive maggiori localizzate nello stesso Sud. Piccole imprese nelle quali l’innovazione è un’attività residuale, e/o che entrano/escono dal mercato estero a seconda della convenienza relativa. La lettura del pattern seguito dal sistema del Mezzogiorno appare preoccupante se si confrontano le esportazioni meridionali con le altre regioni europee in ritardo di sviluppo. Considerando il quinquennio 2003-2007, sia in Germania che in Spagna le regioni relativamente più arretrate riuscivano a far crescere le proprie esportazioni a tassi - rispettivamente del 14,5 e del 9,4% - molto più elevati delle corrispondenti medie nazionali (8,2 e 6,8%), in Italia invece la convergenza era molto lenta: i tassi medi annui erano del 6,9% nelle regioni in ritardo e del 6,3% nella media nazionale. La crisi economica mondiale ha imposto nel 2008 un brusco rallentamento e nel 2009 una secca flessione delle esportazioni in tutte le regioni considerate. Tuttavia, comparativamente, il colpo più duro è stato subito proprio dalle quattro regioni meridionali dell’Obiettivo Convergenza considerate, che hanno fatto registrare risultati vistosamente peggiori anche rispetto alla propria media nazionale. Nel complesso emerge dunque un quadro 11 in cui l’Italia perde terreno rispetto agli altri paesi dell’Area dell’Euro e – al suo interno – le regioni più in ritardo subiscono un ulteriore peggioramento della loro posizione relativa. Un processo di polarizzazione degli squilibri che contrasta nettamente con la convergenza riscontrabile in Spagna e soprattutto in Germania, finanche nel pieno della crisi. Le cronache di questi mesi e settimane sugli stabilimenti FIAT di Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, alquanto complesse e diverse tra loro, sono emblematiche. Evidenziano il rischio di spiazzamento che la nuova divisione internazionale del lavoro può determinare in aree che non possono essere concorrenziali sul costo del lavoro e che, attraverso la chiusura dei grandi impianti, potrebbero andare incontro a forme di desertificazione del tessuto di piccole industrie ad essi legate. E mostrano che, al di là di singole scelte aziendali, a pesare sono i decenni di mancate strategie di politica industriale. 2.2. L’urgenza di una strategia di politica industriale per il Sud La mancanza di indirizzi chiari di politica industriale impedisce di affrontare i problemi posti dalla globalizzazione e dall’irruzione delle economie emergenti sui mercati dei prodotti manifatturieri, e penalizza in maggiore misura le regioni in ritardo. Proprio per queste aree, ci sarebbe stato bisogno di definire e perseguire specifiche politiche ancorate ad un disegno strategico di politica industriale, che ormai manca dalla metà degli anni ’70, volto a sostenere la modernizzazione e la crescita della struttura produttiva e a rendere possibile il pieno inserimento del Mezzogiorno, da protagonista attivo, in un progetto complessivo di sviluppo del sistema produttivo italiano. Dopo di allora si è assistito in Italia a un progressivo indebolimento della politica industriale tout court, verso la quale è cresciuta, ormai da molti anni, un’avversione spesso di marca ideologica. Le politiche di riequilibrio territoriale, in particolare, sono state travolte dalla convinzione di un basso rendimento economico e sociale delle risorse pubbliche impiegate nel Sud. A partire dalla seconda metà degli anni duemila, è maturato infatti un progressivo ridimensionamento della politica industriale per il Sud, ed in particolare della politica di incentivazione regionale, che ne ha storicamente costituito l’ossatura portante, fino ad arrivare nel 2009 ad un sostanziale azzeramento. La riduzione del volume complessivo degli aiuti di Stato per l’industria e i servizi, rispetto al PIL, ha riguardato invero nel triennio 2006-2008 tutte le maggiori economie europee. A ben vedere, però, una dinamica sostanzialmente 12 omogenea sta portando a risultati sensibilmente differenziati. Il dato dell’Italia, in particolare, è divenuto notevolmente inferiore alla media (0,35% del PIL, contro lo 0,54% dell’Ue a 27), ed è comunque al di sotto degli altri principali paesi europei (escluso solamente il Regno Unito): 0,63% del PIL in Germania e 0,5% in Francia e Spagna. In un momento, poi, in cui gli aiuti specificamente destinati all’obiettivo dello sviluppo regionale sperimentano in termini relativi una ripresa in diversi paesi europei, sorprende che la loro quota sul totale degli aiuti si sia attestata in Italia, nel 2008, su un livello di circa il 18%, meno della metà del valore di Francia (40,8%) e Spagna (39,9%), non caratterizzati peraltro da uno squilibrio territoriale così ampio e persistente come quello presente nel nostro Paese. Al drastico impoverimento, a partire dal 2007, degli interventi di incentivazione della politica regionale per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno, è seguito, nel corso del 2009, il loro sostanziale azzeramento. Dopo la scomparsa di importanti strumenti, tra i quali, in primo luogo, la legge 488/1992, ma anche altri ad essa collegati, finalizzati in particolare al sostegno delle R&S e all’innovazione, nel 2009, sono infatti rimasti non operativi tutti gli interventi di incentivazione, anche quelli per i quali era prevista nell’anno l’attivazione, come le Zone franche urbane, i nuovi contratti di programma e i contratti di sviluppo, ancora in attesa di una regolamentazione. In assenza di rifinanziamenti, le risorse disponibili per i crediti di imposta per l’occupazione si sono esaurite già nell’ottobre 2008, mentre le agevolazioni concesse per i crediti di imposta a favore degli investimenti hanno assorbito l’intero stanziamento complessivo del 2007-2013. Sul versante della programmazione negoziata, nel 2009, il blocco dell’attività di deliberazione ha riguardato anche i contratti di localizzazione (riservati al Sud), cui a partire dal 2003 era stato principalmente affidato il compito di favorire l’attrazione degli investimenti esteri. Anche i contratti di sviluppo, destinati a sostituire, con procedure più snelle, i contratti di programma e i contratti di localizzazione, sono rimasti non operativi, in mancanza del decreto di attuazione del Ministero dello Sviluppo Economico. Lo stesso processo di definizione delle Zone franche urbane è stato caratterizzato da una lunga fase di gestazione, che non ne ha consentito l’avvio neanche nel 2009. La recente manovra del decreto legge 78/2010 ha poi di fatto abolito le Zone franche urbane in favore delle “Zone a burocrazia zero”. Appare improbabile, tuttavia, che tale misura possa contribuire da sola a superare uno dei principali elementi di criticità della capacità attrattiva, concorrendo, cioè, a 13 migliorare quei fattori di inefficienza del sistema istituzionale decisamente più accentuati nelle regioni meridionali che nel resto del Paese. Dal punto di vista normativo, la “legge sviluppo” (L. 99/2009) ha delegato il Governo a riformare tutto il sistema degli incentivi, compresi quelli destinati alle aree sottoutilizzate, ma i tempi previsti per la presentazione del progetto di riforma sono lunghi. Nel frattempo è opportuno ribadire con forza le ragioni di una politica industriale specifica per il Mezzogiorno. Solo col ripristino di un consistente apporto differenziale di politica industriale regionale – coniugato con un più adeguato accesso del Sud agli interventi della politica industriale nazionale – è possibile, infatti, porre le condizioni per un disegno strategico di sviluppo strutturale. Gli “obiettivi guida” di questa possibile strategia di politica industriale possono sommariamente individuarsi: nella riqualificazione del modello di specializzazione produttiva, attraverso il sostegno alla ricerca e all’innovazione tecnologica e organizzativa e allo sviluppo delle attività a più alta produttività relativa; nell’innalzamento delle dimensioni medie dell’impresa, attraverso il sostegno alla formazione di “reti” di imprese e ad un maggiore accesso al credito; nell’innalzamento del grado di apertura del sistema verso l’estero; nella promozione e nell’arricchimento di “filiere produttive”; nel pieno inserimento delle agglomerazioni di imprese in settori strategici per l’industria nazionale (anche attraverso i “Progetti di innovazione Industriale” di “Industria 2015”); nel rilancio delle politiche di attrazione. Non si tratta di un “inventario indistinto” delle ambizioni, ma di una strategia consapevolmente fondata sulla convinzione che il circolo vizioso del sottosviluppo vada aggredito in più punti. Più ingenue debbono al contrario essere considerate quelle impostazioni che, di volta in volta, individuano un solo asse strategico di intervento, per poi scoprire che le forti complementarità tra tutti i fattori vanificano ogni impegno unilaterale. Quanto agli strumenti di questa strategia di politica industriale per il Sud, un ruolo centrale dovrà continuare ad essere affidato anche agli interventi di incentivazione. Interventi per i quali – al di là della forma tecnica di erogazione – sarebbe però il momento di aprirsi ad un approccio più “selettivo” rispetto a quello seguito con la legge 488 e ancor più con i crediti di imposta; un approccio, cioè, mirato al perseguimento di obiettivi specifici, che consenta di evitare la dispersione delle risorse tra un novero troppo ampio di finalità e su una platea troppo vasta di imprese. In questa prospettiva, deve rilevarsi che i crediti di imposta – che una posizione oggi largamente prevalente tende a considerare non solo come la tipologia di incentivo più efficace ma pressoché come l’unica praticabile, in 14 ragione della quasi totale automaticità dei criteri di concessione e di erogazione, che può consentire di evitare gli elementi di possibile distorsione derivanti dall’interferenza, a volte anche “impropria”, della macchina amministrativa – sono, invece, a nostro avviso, da considerare una componente importante di un “sistema” di incentivazione, ma non esclusiva, né sostitutiva di una componente di tipo valutativo in grado di indirizzare risorse verso obiettivi di miglioramento strutturale. Nell’attuale fase di crisi economica, i crediti di imposta possono sicuramente assumere un’importanza anche maggiore rispetto al passato, agendo in funzione anticiclica e contribuendo a mitigare i vincoli finanziari che ostacolano la crescita delle imprese, soprattutto di quelle con bassi livelli di produttività. Ma – come posto in luce, con riferimento al periodo 1998-2005, anche da un recente studio dell’ISAE1 – non sembrano in grado di favorire i processi di innalzamento della competitività del sistema e, in particolare delle imprese più prossime alla frontiera tecnologica Un importante elemento della nuova strategia di politica industriale potrebbe essere costituito da una “vera” fiscalità di vantaggio, intesa come fiscalità differenziata a favore delle regioni meridionali nel loro complesso, e non di semplice accentuazione a favore del Sud di misure per il sistema produttivo nazionale. Essa dovrebbe costituire, infatti, una forma strutturale di diversificazione delle convenienze, tale da mettere effettivamente in moto una capacità di attrarre risorse esterne, nazionali ed internazionali, quale quella di cui si sono avvantaggiati altri paesi dell’Area dell’Euro, contribuendo a dare concretezza alla già evocata possibilità per il Mezzogiorno di proporsi quale “frontiera” in una rinnovata strategia di sviluppo del Paese. L’ultima manovra governativa (decreto legge 78/2010) prevede una forma di fiscalità di vantaggio per le Regioni del Mezzogiorno, che con propria legge possono, in relazione all'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) modificare le aliquote, fino ad azzerarle, e disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni nei riguardi delle nuove iniziative produttive. In realtà, é difficile pensare che le Regioni del Mezzogiorno, tanto più dopo i tagli previsti dalla manovra stessa (e, per alcune di esse, con l’obbligo di far ricorso alla leva fiscale per coprire i disavanzi sanitari) abbiano risorse per avviare una concorrenza fiscale nei confronti delle altre aree per attirare nuove iniziative. 1 Cfr. ISAE, Rapporto ISAE. Politiche pubbliche e redistribuzione, Roma, ottobre 2009; per una valutazione sull’efficacia dei crediti di imposta, si vedano anche: Ministero dello Sviluppo Economico, La valutazione del credito d’imposta: i risultati di un’indagine presso gli imprenditori, Roma, 2005, R. Bruschi, Il credito di imposta per gli investimenti nelle aree svantaggiate: appunti su questioni aperte e prospettive finanziarie, in “Rivista giuridica del Mezzogiorno”, trimestrale della SVIMEZ, n. 4, 2009. 15 Non sembra inoltre che, nella situazione di arretratezza, carenza di infrastrutture, degrado istituzionale, esposizione alla malavita organizzata in cui molte zone delle regioni interessate si trovano, sia sufficiente abolire l’IRAP per compensare i maggiori costi che un investitore sostiene aprendo un’attività. Rimane, quindi, questo il punctum dolens della politica di riequilibrio. Perché è del tutto evidente che una “vera” fiscalità di vantaggio (che non può che essere alimentata da risorse nazionali), fungerebbe da volano anche per le altre misure di correzione del ritardo. 3. L’IMPATTO SOCIALE DELLA CRISI I dati più recenti, che tengono conto degli effetti pesanti sul già disastrato mercato del lavoro meridionale, danno conto da un lato di una progressiva e crescente penalizzazione dei giovani ad elevata scolarizzazione e dall’altro anche di una interruzione del processo di crescita della scolarizzazione, soprattutto universitaria. Emerge, dunque, in tutto il Paese, ma con una particolare accentuazione nel Mezzogiorno, l’esistenza di una vera e propria questione giovanile che si manifesta, a diversi stadi e livelli di intensità, in una riduzione delle iscrizioni all’Università, in una crescita del precariato (prima della crisi) e dell’inoccupazione giovanile (con la crisi dell’ultimo biennio). 3.1. I giovani, le vittime silenziose La crisi occupazionale ha colpito prevalentemente soggetti giovani, con lavori temporanei e sostanzialmente privi di tutele o in fase di entrata sul mercato del lavoro. Tali criticità, rilevabili per l’intero Paese, mostrano un particolare rilievo nel Mezzogiorno, dove la concentrazione dei costi della crisi sulle categorie più deboli determina effetti sociali di particolare gravità. Più della metà delle persone che hanno perso il lavoro nel 2009 (194 mila unità di cui 145 mila uomini e 49 mila donne) era impiegata al Sud, dove invece si concentra circa un quarto dell’occupazione italiana. Tutto il calo dell’occupazione italiana è inoltre concentrato nelle fasce di età giovanile, mentre appare ancora in modesta crescita nella classe di età 35anni e oltre. Il crollo dell’occupazione più giovane è particolarmente forte al Sud dove gli 16 occupati dai 15 ai 34 anni sono diminuiti di ben 175 mila unità (-9%, a fronte del -6% al Centro-Nord ). La crisi al Sud non ha fatto altro che aggravare una tendenza già in atto negli ultimi anni, caratterizzata da un numero sempre minore di ragazzi che riesce ad accedere al mercato del lavoro regolare: tra il 2004 e il 2009 gli occupati con meno di 35 anni si sono ridotti del 15%, a fronte di un incremento delle fasce di età più avanzate. Il confronto con i dati degli altri paesi e regioni europee conferma la peculiare situazione dei giovani italiani, in particolare dei residenti nelle regioni meridionali. Con riferimento alla classe d’età da 15 a 24 anni, emerge al 2008 un divario tra Italia ed Ue a 27 nel tasso di occupazione di 13 punti percentuali (24,4 contro 37,5%). Il divario sale a oltre 20 punti se si considera il Mezzogiorno (17,0%). Scendendo a livello di regioni, Campania, Basilicata, Sicilia e Calabria si collocano tra le ultime 10 nel ranking dei tassi di occupazione giovanile con valori inferiori al 16%. Su livelli inferiori a Sicilia e Calabria vi sono soltanto tre isole francesi dei domini d’oltremare. Il dato più evidente, emerso nel corso dell’ultimo anno, rivela che i costi più elevati della crisi si scaricano soprattutto sulle generazioni che ancora devono trovare un lavoro. Una dinamica che ritarda ulteriormente il processo di crescita individuale dei giovani italiani e meridionali in particolare, procrastinandone ulteriormente oltre all’accesso al lavoro anche le decisioni individuali e sociali. La crisi, dunque, determina una rarefazione delle nuove opportunità di lavoro, mentre fattori inerziali ed ammortizzatori sociali limitano i danni per le occupazioni preesistenti: il dato nazionale vede un calo dello 0,3% di coloro che risultavano già occupati lo scorso anno e un calo del 17% del numero di coloro che risultano neo-occupati (cioè che risultavano senza una occupazione nel 2008): -16% al Sud e -18% al Centro-Nord. In numero assoluto, i “neoccupati” sono scesi in Italia da 1,8 milioni a circa 1,5 milioni. Tra le nuove occupazioni, particolarmente accentuati risultano i cali dei contratti a tempo indeterminato nelle fasce di età giovanile (-25% e -27% rispettivamente per il Mezzogiorno ed il Centro-Nord nella classe 15-34 anni). Complessivamente si è passati al Sud da un flusso di neo-occupati di 15-34 anni nel 2008, già anno di crisi, di 450 mila unità ad un flusso nel 2009 di poco superiore alle 350 mila unità; altrettanto forte è stata la riduzione di coloro che hanno trovato lavoro nel 2009 rilevabile nel Centro-Nord (dei -194 mila complessivi, circa 150 mila nelle classi di età inferiori ai 35 anni), a dimostrazione che anche nelle regioni più sviluppate il sistema economico e sociale è riuscito in parte ad arginare gli 17 effetti della crisi sui già occupati, scaricando però tali effetti sulle possibilità di accesso dei giovani al mercato del lavoro. Questi andamenti hanno effetti economici e sociali particolarmente negativi in quanto aumentano la dipendenza dei giovani dalle famiglie, riducono la crescita demografica e la mobilità sociale, aumentano i fenomeni di marginalizzazione e di povertà. Indicazioni in chiaroscuro provengono anche dal mondo dell’istruzione. Nel corso dell’ultimo quindicennio è avvenuta una vera e propria rivoluzione nel Mezzogiorno. Una rivoluzione che ha avuto al centro il mondo della scuola. Almeno con riferimento all’istruzione primaria e secondaria, il divario tra Nord e Sud è stato colmato. Ed oggi, contrariamente a quanto avveniva ad inizio anni ‘90, la percentuale di ragazzi del Sud che ha conseguito il diploma è addirittura superiore a quella del Nord. Nel 2009, 77 diciannovenni meridionali su 100 erano diplomati, contro i 72 del Nord. Contemporaneamente nella scuola secondaria superiore il problema degli abbandoni mantiene ancora una certa importanza. In particolare, non sembra che al Sud si siano raggiunti risultati tangibili nelle periferie delle grandi aree urbane, a conferma della profonda correlazione tra tale fenomeno e la presenza di situazioni di degrado economico e sociale. Il Mezzogiorno presenta tuttora tassi di abbandono assai più elevati: nei primi due anni di scuola secondaria superiore abbandonano quasi 2 studenti (17%) su 10, il doppio del valore rilevabile al Centro-Nord (11,5%). Segnali contrastanti provengono anche dall’istruzione terziaria. La partecipazione all’istruzione universitaria è aumentata: il tasso di iscrizione, è salito da circa il 33% del 2001 a quasi il 40% nel 2008, con il Mezzogiorno su livelli più elevati del Centro-Nord (43,3% contro 36,5%). Dal 2003, tuttavia, il trend crescente pare essersi fermato. Il tasso di passaggio all’Università – cioè il rapporto tra immatricolati e maturi nell’anno precedente, che dal 2000 al 2004 era aumentato di 10 punti percentuali sia al Centro-Nord che al Mezzogiorno, raggiungendo rispettivamente il 73,4% e il 72,2% – è tornato nel 2008-2009 ai livelli di inizio anni duemila (62,4% nel Sud e 63,4% nel Centro-Nord). Incremento degli abbandoni e declino dei tassi di passaggio all’Università sembrano sottendere un mutamento del rapporto tra l’istruzione, ed in particolare quella universitaria, e il sistema economico. Mentre fino a un recente passato la convinzione della spendibilità di un titolo di studio terziario sul mercato del lavoro, e la legittima aspettativa di retribuzioni di gran lunga migliori per i laureati, avevano favorito l’espansione dei livelli di partecipazione, nella fase di difficoltà degli ultimi anni sembrano emergere segnali di un certo scoraggiamento fra le coorti più giovani a investire 18 nell’istruzione avanzata. La consapevolezza di un’effettiva disuguaglianza delle opportunità, come testimoniato dalla elevata correlazione tra il titolo di studio dei genitori e quello dei figli, con forti ricadute anche sulla possibilità di trovare una occupazione, contribuisce a “ingessare” il sistema economico e sociale meridionale. La progressiva emarginazione dei giovani dai processi formativi e produttivi emerge dalla crescente diffusione dei giovani (15-29 anni) Neet (Not in education, employment or training) che nel 2009 hanno superato i 2 milioni, con un aumento di 126 mila unità pari al 6,6% rispetto all’anno precedente. Il fenomeno Neet è particolarmente diffuso nel Mezzogiorno. In quest’area, con poco più del 40% della popolazione di riferimento, si concentra circa il 60% dei Neet: nel 2009 sono 1,2 milioni, 368 mila in più dello scorso anno . Essi rappresentano il 30% della popolazione tra i 15 ed i 29 anni a fronte del 15% del Centro-Nord. Con una componente femminile più accentuata: una ragazza di 15-29 anni su tre che risiede nel Mezzogiorno non ha svolto nel 2009 né attività di studio, né di formazione, né di lavoro. Anche i giovani che hanno intrapreso la via delle “nuove” emigrazioni non sono indenni dagli effetti della crisi. Ciò che non è riuscito a fare lo sviluppo – far tornare i giovani meridionali offrendo loro opportunità di lavoro – rischia di farlo a suo modo la crisi: è cominciato nel 2009 un piccolo e lento flusso di rientro di emigrati e pendolari di lungo raggio espulsi dal mercato del lavoro del Centro-Nord. Una forma di rientro, dunque, molto lontana da quella auspicata, connessa al vantaggio di usufruire di un sostegno delle famiglie di origine, nel momento in cui viene meno il reddito da lavoro rendendo insostenibile il costo della vita nelle città centro-settentrionali. È un rientro, tuttavia, che si esaurisce nell’attesa di una “ripartenza”, di nuove occasioni di impiego che, verosimilmente, saranno ancora soprattutto al Nord. La flessione, in effetti, ha riguardato soprattutto i pendolari di lungo raggio (cioè coloro che pur risiedendo nel Sud svolgono un’attività lavorativa nel Centro-Nord), perché connessa alla precarietà del lavoro che li caratterizza e che, come si è visto, è significativamente più esposta alla congiuntura. Nel 2009 i trasferimenti di residenza dal Sud al Nord sono stati 114 mila (8 mila in meno rispetto al 2008), mentre lo stock di “emigranti precari” (pendolari di lungo raggio) è sceso a 147 mila unità (-15% rispetto al 2008, quando era di 173 mila unità). Il fenomeno, dunque, persiste in tutta la sua dimensione e rilevanza. Non solo, ma l’effetto più significativo della crisi è stato una ridefinizione della struttura interna alla “nuova” emigrazione, con l’aumento relativo della componente più qualificata: tra i pendolari, l’incidenza dei laureati è aumentata 19 di due punti rispetto al 2008 (raggiungendo, in valore assoluto, le oltre 40 mila unità); ad essi, si aggiungono circa altri 18 mila laureati meridionali che ogni anno spostano la residenza al Centro-Nord (il 93%) o all’estero (7%). È particolarmente preoccupante, non solo la sempre più consolidata perdita di capitale umano prezioso per il Sud, ma, sul piano individuale, il fatto che a fronte di una crescita della “qualità” dell’emigrazione nel 2009 si sia ridotta significativamente la “qualità” delle occupazioni svolte: gli occupati con alta qualificazione sono infatti calati, nel solo 2009, di circa l’8% (sia pur meno delle altre componenti). 3.2. L’inoccupazione e la povertà: i limiti del welfare italiano Questa fase di crisi ha fatto emergere con ancora maggiore evidenza l’asimmetria tra soggetti colpiti e sistema di tutele. I più esposti sono risultati coloro che devono ancora entrare sul mercato del lavoro e i lavoratori con contratto precario e a termine (che sono i primi a subire i ridimensionamenti degli organici); categorie per le quali non esiste un sistema universale di tutela dei redditi e che dunque risultano molto più esposte al rischio povertà. Tale polarizzazione del mercato del lavoro assume nel nostro Paese anche una connotazione territoriale per effetto della concentrazione nelle regioni meridionali di inoccupazione, irregolarità e precarietà. In primo luogo, il sistema di ammortizzatori sociali, incentrato sulla Cassa integrazione guadagni, appare una coperta ancora troppo corta nel Mezzogiorno. Ciò risulta evidente confrontando i dati sulla CIG con quelli sull’occupazione. A fronte dunque di 186 mila posti di lavoro persi, al Nord vi sono stati nell’anno circa 438 mila unità di lavoro virtuali in Cassa integrazione; mentre al Sud la CIG ha riguardato appena 96 mila unità virtuali a fronte di una perdita di occupazione allarmante, di circa 200 mila occupati. In altre parole, mentre al Nord per ogni persona che ha perso il lavoro ve ne sono altre due protette dal sistema di ammortizzatori sociali, nel Sud invece il rapporto è inverso: solo un lavoratore su tre gode delle tutele offerte dall’attuale sistema improntato sulla Cassa integrazione. Una crisi sul fronte del lavoro che, insomma, nel Mezzogiorno, solo in minima parte si riflette sui dati relativi alla crescita della CIG. Ciò vuol dire che molti lavoratori precari e a termine si sono trovati improvvisamente senza lavoro e senza reddito, privi della copertura del sistema di ammortizzatori sociali. Si pone con ancora maggiore forza l’esigenza di una riforma in grado di potenziare l’offerta di aiuti economici e di servizi diretti ai lavorati espulsi 20 dal ciclo produttivo, tramite ammortizzatori sociali rivolti ai singoli individui indipendentemente dal settore, dalla dimensione e dalla tipologia delle imprese. Si tratterebbe di interventi che (proprio perché diretti alla persona e non alle imprese) permetterebbero di intervenire sull’intero mercato del lavoro, in maniera assai più equa di quanto non faccia l’attuale sistema, anche dal punto di vista territoriale. L’Italia si distingue per i ritardi e le incoerenze nel percorso di riforma del Welfare, che ha coinvolto molti paesi dell’Europa occidentale dagli anni ’90 in poi. In particolare, per quanto riguarda i ritardi in materia di lotta alla povertà estrema, l’Italia è tuttora uno dei pochi paesi europei a non avere misure universali di integrazione dei redditi per garantire uno standard di vita essenziale. I principali ammortizzatori sociali riescono a raggiungere una copertura parziale dei fabbisogni e sono essenzialmente orientati ai lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. Il bonus per le famiglie, che costituisce l’unico esempio di strumento calibrato sulle necessità familiari tramite una scala di equivalenza e di impianto universale, è di importo troppo limitato per incidere significativamente sulle condizioni di vita. Se aumentato nell’importo e armonizzato all’imposta personale sui redditi (ovviamente come imposta negativa, a beneficio del contribuente), potrebbe costituire una prima applicazione, limitata ai redditi più bassi, di tassazione familiare dei redditi da più parti sollecitata. L’insufficienza del modello di Welfare italiano, il suo riassetto parziale ed incompleto e l’elevato grado di evasione e di elusione fiscale concorrono a determinare, soprattutto nelle fasi di crisi, profondi squilibri nella distribuzione della ricchezza e nelle condizioni di vita fra le diverse aree del Paese e fra le generazioni. Nel Mezzogiorno, la diversità delle strutture familiari e i minori tassi di occupazione rendono più preoccupante, rispetto al Centro-Nord, il problema della disuguaglianza “interna”, cioè fra famiglie meridionali. Le analisi del Rapporto, sui dati di un’indagine sui redditi del 2007 e le condizioni di vita del 2008, rivelano il persistere di importanti differenze fra le due macroaree del Paese. Dalla distribuzione delle famiglie per classi di reddito monetario emerge che le famiglie con entrate mensili superiori ai 3 mila euro sono circa il 42% nel Centro-Nord e meno di un quarto (24,5%) nel Mezzogiorno. Per contro, il 27,7% delle famiglie meridionali appartiene alla fascia di redditi medio-bassi, fra i 500 e i 1.500 euro al mese a fronte del 16,1% del Centro-Nord. Il 14% delle famiglie del Mezzogiorno vive con meno di 1.000 euro al mese mentre nel Centro-Nord questa condizione riguarda soltanto 21 il 5,5%. Il confronto è particolarmente sfavorevole per le famiglie che comprendono bambini, giovani e altre persone non ancora anziane. La diversa vulnerabilità economica delle famiglie meridionali è strettamente connessa al basso tasso di occupazione. La percentuale di famiglie il cui breadwinner (cioè, il principale percettore di reddito) deve mantenere due o più persone è più che doppia (30,5% rispetto al 14,6% del Centro-Nord). Il rapporto col mercato del lavoro delle famiglie meridionali è complessivamente più fragile rispetto al Centro-Nord: nel 22,1% delle famiglie del Mezzogiorno il principale percettore non è attualmente occupato e non è neanche un ritirato dal lavoro, contro il 10,2% del resto del Paese. Nel 14,5% delle famiglie meridionali è presente almeno un disoccupato (contro il 6,2% di quelle del Centro-Nord). La disparità dei redditi primari è generalmente il fattore che determina gran parte della disuguaglianza nei redditi e nelle condizioni di vita. In presenza di un forte squilibrio nella distribuzione primaria, la redistribuzione operata dal sistema di tasse e benefici non riesce a compensare le disparità in misura sufficiente, sia per mancanza di risorse finanziarie, sia per i ritardi e le incoerenze delle politiche sociali. In base alla nozione di povertà relativa dell’Unione europea, quasi un terzo (32,7%) degli individui residenti nel Mezzogiorno contro l’11,1% di quelli del Centro-Nord sono a rischio di povertà a causa di un reddito troppo basso. Su un totale di 11 milioni e 152 mila persone a rischio di povertà in Italia (18,7% degli individui), 6 milioni e 838 mila risiedono nel Mezzogiorno. La problematicità della situazione meridionale è confermata dagli indicatori non monetari. Nel Mezzogiorno la deprivazione oggettiva raggiunge livelli preoccupanti sia in termini assoluti che relativamente al resto del Paese. Circa il 30% delle famiglie meridionali in almeno un’occasione nel corso dei dodici mesi precedenti non ha avuto soldi per comprare i vestiti necessari, il 20,6% per le spese mediche, l’8,3% per gli alimentari e il 21,7% per il riscaldamento. Si tratta di valori significativamente superiori a quelli registrati nel Centro-Nord. Gli indicatori soggettivi relativi al Mezzogiorno segnalano una diffusa preoccupazione per la gestione ordinaria dei bilanci familiari: il 25,9% delle famiglie meridionali arriva con difficoltà o molta difficoltà alla fine del mese e, nel 44,0% dei casi, ritiene di non poter affrontare una spesa imprevista di 750 euro con le proprie risorse. L’analisi delle strutture familiari può dunque fornire qualche elemento di valutazione anche dei possibili effetti della crisi occupazionale sulla disuguaglianza e sui rischi di povertà. L’insieme degli effetti di impatto implica un aumento del rapporto fra il numero medio di familiari a carico e percettori di 22 reddito per una parte rilevante delle famiglie e tende pertanto ad aggravare sia i rischi di povertà, sia la disuguaglianza ‘interna’ a ciascuna delle due macroaree (e, potenzialmente, anche la disuguaglianza fra Mezzogiorno e Centro-Nord, se l’aggravio dei carichi familiari si manifesta in misura relativamente maggiore per le famiglie meridionali). D’altra parte, i breadwinner delle famiglie meridionali hanno già, relativamente a quelli del Centro-Nord, una più alta probabilità strutturale di dover sopportare maggiori carichi familiari, dati i bassi tassi di occupazione femminili e giovanili (e per di più con redditi generalmente inferiori) e si trovano, per così dire, più vicini alle soglie del rischio di povertà. Nelle due le aree, comunque, la crisi ha fatto aumentare, nel caso di figli che abbiano perso il lavoro, o peggiorare, nel caso di figli che abbiano ritardato l’ingresso nel mercato del lavoro, il peso economico delle responsabilità familiari dei breadwinner. Senza un recupero sostenuto dei tassi di attività femminili e giovanili, soprattutto nel Mezzogiorno, i rischi di povertà sembrano inevitabilmente destinati a crescere nel tempo. 4. LE POLITICHE E I FONDI STRUTTURALI: LA NECESSITÀ DI VISIONE STRATEGICA E DI COORDINAMENTO 4.1. La spesa pubblica al Sud: superare i luoghi comuni L’assenza di risultati soddisfacenti in termini di crescita e di convergenza del Mezzogiorno ha cause complesse che rimandano in larga parte al generale prolungato ristagno dell’economia nazionale rispetto al resto d’Europa. Tuttavia, a frenare il processo di sviluppo concorrono problemi di dimensione nazionale, che assumono per il Sud gravità del tutto particolare, tra cui: l’impiego improprio di spesa pubblica ordinaria, il deficit di qualità ed efficienza delle Pubbliche Amministrazioni, la presenza della criminalità organizzata, il difficile avanzamento della liberalizzazione dei mercati. Ma al peggior andamento del Mezzogiorno ha concorso anche una ridotta efficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, che trova spiegazione, in primo luogo, in una dimensione della spesa pubblica in conto capitale complessiva destinata al Mezzogiorno assai inferiore a quanto programmato. Più precisamente, il dato definitivo per il 2008 dell’indicatore anticipatore della spesa in conto capitale, elaborato dal Dipartimento per lo 23 Sviluppo e la Coesione Economica, conferma la localizzazione nel Mezzogiorno di una quota pari al 34,8% del totale nazionale, in progressivo declino dopo il valore massimo registrato nel 2001 quando essa fu pari al 41,1% della spesa in conto capitale del Paese. Si tratta di un valore non solo ben lontano dal 45% del totale nazionale originariamente fissato in fase di programmazione, ma che, come accade ormai da qualche anno, non eguaglia neppure il “peso naturale” del Mezzogiorno, che può valutarsi nel 38% circa, media tra la sua quota di popolazione (35%) e la quota del suo territorio (40,8%). I dati relativi alla spesa nel Mezzogiorno servono a smentire l’idea, purtroppo assai diffusa anche nella pubblicistica, di un Sud inondato da un fiume di pubbliche risorse; ma sta anche ad indicare come la spesa in conto capitale aggiuntiva (comunitaria e nazionale) in tale area sia valsa negli ultimi anni solo a compensare il deficit della spesa ordinaria. La quota di spesa ordinaria destinata alla formazione di capitale nel Mezzogiorno, infatti, è stata pari nel 2007 ad appena il 21,4% del totale nazionale, inferiore di circa 16 punti al citato peso naturale dell’area, e di quasi 9 punti rispetto all’obiettivo del 30%, a tal titolo indicato nei documenti governativi. È paradossale che il divario crescente registrato tra enunciazioni programmatiche e realtà attuative, invece di determinare un impegno più forte a rispettare gli obiettivi, abbia portato alla cancellazione, nel silenzio diffuso della politica e degli osservatori economici, di tali obiettivi quantitativi negli ultimi due DPEF. 4.2. Limiti e fallimenti della politica di coesione A deprimere l’efficacia della complessiva politica regionale, nazionale e comunitaria, ha concorso anche la scarsa qualità degli interventi. Le carenze di fondo, come la SVIMEZ ha più volte segnalato e, da ultimo, anche nell’Audizione presso la Camera dei Deputati del febbraio scorso, sono state: la dispersione delle risorse aggiuntive da finalizzare all’accelerazione dello sviluppo sul territorio in una eccessiva molteplicità di interventi, rispondenti troppo spesso a domande localistiche; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui. Il Rapporto conclusivo di valutazione della Commissione europea ha altresì posto in evidenza gli effetti limitati dei contributi agli investimenti, caratterizzati da un ampio “dead-weight”, ossia l’utilizzo degli incentivi per iniziative che sarebbero state realizzate in ogni caso, e la mancanza di indirizzi 24 chiari di politica industriale a fronte di processi di globalizzazione che hanno penalizzato in maggiore misura le regioni più arretrate; proprio quelle per cui ci sarebbe stato bisogno di definire e perseguire specifiche politiche di accompagnamento e sostegno alle modificazioni della struttura produttiva. L’analisi condotta nel Rapporto sugli “indicatori di contesto chiave”, identificati dal QCS 2000-2006, evidenzia che gli interventi realizzati non hanno modificato sensibilmente le condizioni competitive del territorio. Dei valori target individuati ad inizio Programmazione, ben il 70% sono rimasti al di sotto delle previsioni nell’ipotesi con esternalità “alta”, e il 58% non hanno raggiunto l’obiettivo nell’ipotesi “bassa”. Anche le variabili di rottura del modello tradizionale di dipendenza del Mezzogiorno presentano un profilo sostanzialmente piatto, tra il 2000 e il 2008, e perfettamente sovrapponibile a quello delle regioni italiane non destinatarie di specifiche risorse pubbliche con finalità di riequilibrio strutturale. La riflessione sulle criticità identificate con riferimento al ciclo di programmazione 2000-2006 rappresenta, purtroppo, ancora oggi un tema di attualità; l’impostazione del nuovo “Quadro Strategico Nazionale” 2007 -2013 si è mossa, infatti, all’interno di una sostanziale continuità con il precedente periodo di programmazione. Appare ancora assente una regia complessiva del processo di attuazione nella direzione del perseguimento degli obiettivi enunciati, che conferma l’esistenza di un disegno “debole” e il rischio di una riproposizione dell’esperienza negativa del ciclo di programmazione 2000- 2006. Riguardo all’avanzamento degli interventi, si confermano le difficoltà attuative. A tre anni e mezzo dall’approvazione dei Programmi, il livello di attuazione complessivo al febbraio 2010 per l’Obiettivo Convergenza si attesta, in relazione agli impegni e ai pagamenti, rispettivamente, ad appena il 14,6% e il 6,2% del contributo assegnato. Basso è l’avanzamento dei Programmi Regionali, che si ferma, in relazione al contributo, al 10%, per gli impegni, e al 3,8%, per i pagamenti. Performances leggermente migliori riguardano i Programmi Nazionali, che in relazione al contributo assegnato, fanno registrare il 20% per gli impegni, e il 7,7% per i pagamenti. Ma i maggiori ritardi si sperimentano per i due Programmi Operativi Interregionali: il POI “Energie rinnovabili e risparmio energetico”, che presenta un livello di impegni e di pagamenti pari al 6% del contributo assegnato, ed in particolare il POI “Attrattori culturali, naturali e turismo”, che non registra né impegni, né spesa. Alla luce delle valutazioni critiche riguardanti il passato ciclo di programmazione, attualmente la principale preoccupazione riguarda non tanto e non solo il raggiungimento dei target di spesa che si richiede per evitare di 25 restituire parte delle risorse comunitarie, ma la necessità di un’immediata ridefinizione e concentrazione delle priorità di intervento, nonché la riqualificazione delle procedure e dei meccanismi di progettazione e di attuazione degli interventi. Tale processo di revisione può avvenire anche all’interno del quadro programmatico esistente, sufficientemente ampio e flessibile da consentire di concentrare risorse ed obiettivi, senza avviare processi di negoziazione lunghi e laboriosi con la Commissione europea e non può che riguardare il complesso dei programmi e delle risorse destinate alle politiche regionali, comunitarie e nazionali, inclusa la quota di “risorse rinvenienti o liberate” a seguito della certificazione dei progetti coerenti, queste ultime, vale la pena ricordare, rappresentano circa 1/3 delle risorse programmate nel ciclo 2000-2006. 4.3. Il FAS e il depotenziamento della “politica regionale unitaria” Il Quadro Strategico Nazionale (QSN) 2007-2013, delineato con la Finanziaria 2007, voleva rappresentare una sede privilegiata della programmazione unitaria, in grado di ridurre l’eccessiva articolazione tra diversi strumenti finanziari (a livello comunitario, nazionale e regionale), che si riteneva avesse limitato la piena attuazione degli obiettivi strategici nella programmazione 2000-2006. Il Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS) inserito nel “quadro unitario” doveva avere un ruolo “chiave” di strumento generale della politica regionale nazionale. È stato infatti istituito nell’intento di assicurare “finanza di lungo termine” alla programmazione unitaria e continuità agli interventi mediante risorse aggiuntive nazionali con un profilo pluriennale di spesa in grado di coprire l’intero ciclo di programmazione delle risorse. Con la costruzione del Quadro Strategico Nazionale si puntava ad un impiego efficiente delle risorse secondo un metodo unitario, coordinato e coerente, in base a parametri di qualità propri delle politiche di coesione in ambito comunitario, in un contesto di piena cooperazione istituzionale tra Stato e Regioni. Il FAS, secondo quanto stabilito dalla legge istitutiva, avrebbe dovuto essere ripartito esclusivamente con apposite delibere CIPE per investimenti pubblici e per incentivi con finalità di riequilibrio economico e sociale, sulla base del criterio generale di destinazione territoriale delle risorse. Nel corso del 2008, del 2009, e della prima parte del 2010, invece, il legislatore, anticipando l’opera di ripartizione del CIPE, è intervenuto con rilevanti utilizzi della dotazione FAS per impieghi sovente senza rapporti con le finalità proprie del 26 Fondo, che erano e che avrebbero dovuto restare finalità – meridionaliste – di “sviluppo” territoriale, verso la “coesione” nazionale. Il volume delle risorse FAS che è stato così mobilitato, prima per il finanziamento di interventi di carattere emergenziale (rifiuti in Campania, risanamento dei bilanci dei Comuni di Roma e Catania, ed altro) e successivamente per misure anticrisi, è stato oggettivamente ingente. I tagli e le preallocazioni operate sono stati pari a circa 19 miliardi di euro (risultanti per 13,7 miliardi dai tagli indicati nella delibera CIPE n. 112/2008, e per i restanti 5,3 miliardi da preallocazioni previste da leggi successive). A ciò si sono però aggiunti numerosi interventi che hanno finito per dirottare risorse del FAS verso indirizzi dispersivi rispetto alla sua missione originaria. Come illustrato nel Rapporto, in considerazione della crisi economica, la legge 2/2009 ha previsto la riprogrammazione e la concentrazione delle risorse nazionali disponibili destinate allo sviluppo delle aree sottoutilizzate su obiettivi prioritari per il rilancio dell’economia italiana. L’intera quota nazionale del FAS 2007-2013 è stata collocata in tre fondi, il primo destinato a opere infrastrutturali (e quindi coerente con la mission originaria), e gli altri due a politiche prevalentemente anticongiunturali: uno è stato utilizzato per il finanziamento degli ammortizzatori, e l’altro – accentrato presso la Presidenza del Consiglio – per far fronte in primo luogo all’emergenza in Abruzzo. L’illusione che la crisi potesse colpire meno l’economia meridionale, poi smentita dai fatti, ha alimentato la colpevole illusione di un Mezzogiorno “protetto”, e quindi ha finito per giustificare arretramenti sul terreno delle politiche di sviluppo. La quota delle risorse nazionali del FAS complessivamente dirottata verso altri indirizzi, secondo stime del CNEL, raggiunge circa 26 miliardi. Questo ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul “Quadro Strategico Nazionale 2007-2013”, indebolendone significativamente la componente nazionale. Il QSN prevedeva, infatti, come richiamato, una programmazione coordinata e contestuale dei fondi nazionali ed europei destinati alle politiche regionali, e costituiva pertanto la sede unitaria per il finanziamento delle priorità individuate a seguito di un lungo negoziato tra Amministrazioni regionali, centrali e comunitarie. L’«unità delle regole e degli obiettivi» del QSN era funzionale all’esigenza di rendere massima la capacità di intervento e l’efficacia dell’impatto: la riduzione delle risorse compromette l’impianto unitario; se definitiva, determina l’abbandono dei programmi per i quali “l’integrazione” delle fonti finanziarie è essenziale; se seguita da un 27 parziale o integrale ripristino determina rallentamenti e rinvii con conseguenza sugli effetti e sull’obsolescenza, economica e tecnica, degli interventi. Le ultime indicazioni di politica economica del Governo sembrano proseguire nell’indebolimento dell’aggiuntività delle risorse. Anche nella manovra 2011, con il decreto legge 78/2010, tuttora all’esame del Parlamento, ancora una volta si interviene con una severa decurtazione delle risorse del FAS essenzialmente in funzione di “stabilizzazione finanziaria” dei conti pubblici: a copertura delle maggiori spese del provvedimento, si registra un taglio della Missione “Sviluppo e riequilibrio territoriale” del Ministero dello Sviluppo Economico per circa 2,4 miliardi di euro con effetti diretti sulla quota FAS assegnata alle Amministrazioni centrali. Nonostante l’urgenza della crisi abbia guidato la scelta di finanziare, con i fondi destinati alle politiche di coesione, politiche generali che hanno obiettivi riferiti a tutto il Paese (ma con ricadute ben diverse a seconda del contesto territoriale), il persistente e più acuto divario tra Nord e Sud impone un tempestivo ripristino dei fondi nazionali destinati alle politiche di sviluppo anche per garantire una piena attuazione dei programmi comunitari nei tempi previsti, concentrando le risorse su finalità infrastrutturali e di sviluppo di lungo periodo. 4.4. Necessità di visione strategica, mutamenti istituzionali e riforma delle politiche post 2013 La mancanza di strategicità non deriva, dunque, solo da fattori “interni” alla programmazione degli interventi (come la frammentarietà), ma emerge dalla crisi stessa dell’impianto complessivo del QSN. I caratteri di unitarietà delle opzioni strategiche tra componente nazionale e comunitaria della politica regionale, e di addizionalità finanziaria e strategica della politica regionale rispetto alla componente ordinaria, sono stati fortemente incrinati dalle decisioni intervenute, come visto, dal 2008. Il recupero di strategicità della politica regionale, da un lato, passa per una “revisione” – tecnicamente possibile – del quadro di programmazione che concentri gli interventi su poche priorità strategiche tenendo conto del mutato scenario economico e delle accresciute esigenze “cooperative” tra i diversi livelli di governo; dall’altro, significa garantire la “certezza” e la “congruità” delle risorse e la “tempestività” nelle erogazioni. Questa rinnovata visione strategica delle politiche di sviluppo per le aree deboli, tuttavia, sarà difficile da perseguire senza un mutamento “istituzionale”, in cui l’interesse complessivo della macroarea possa trovare 28 alta espressione e modalità di relazione e confronto più proficue ed efficaci con l’azione del Governo nazionale. Per la SVIMEZ, il luogo di una rinnovata programmazione degli interventi strategici per il Mezzogiorno non può che essere una “Conferenza delle Regioni meridionali”, in costante rapporto con la Presidenza del Consiglio che, come si vedrà, riacquista una centralità nelle politiche regionali di sviluppo, su cui lo Stato mantiene competenza e responsabilità primarie, nel rispetto di tutte le articolazioni istituzionali della Repubblica. In sede congiunta – una sorta di “Consiglio per la coesione nazionale” – Conferenza delle Regioni meridionali e Presidenza del Consiglio dovranno assumere impegni vincolanti nella scelta di pochi grandi progetti strategici prioritari, su cui “appostare” risorse nazionali e regionali, frutto del “riordino” degli interventi e del “reintegro” dei fondi nazionali, certe e vincolate sino al completamento del progetto. La Conferenza, poi, sarà il luogo di un coordinamento istituzionale tra Regioni, per ovviare alle criticità emerse, al fine di rendere coerenti gli interventi regionali con il disegno strategico di politica di sviluppo per l’intera macroarea. A questo luogo di coordinamento strategico è necessario affiancare una struttura tecnica, un’Agenzia indipendente che, nell’ambito del QSN e della normativa del quinto comma dell’art. 119 Cost., si occupi della progettazione (su cui in tutti questi anni si sono registrate le maggiori deficienze) e sia di supporto all’attuazione dei grandi interventi prioritari per il Mezzogiorno definiti dalla Conferenza e dal Governo, frutto di una più ampia legittimazione istituzionale e di un impegno politico assai più vincolante della semplice “contrattazione bilaterale” tra Stato e singole Regioni, nella prospettiva del perseguimento di un interesse nazionale e macroregionale. L’Agenzia, in virtù dell’elevato grado di competenze tecniche e di indipendenza, dovrebbe consentire, oltre alla valutazione e selezione dei progetti attuativi, il loro monitoraggio in itinere ed ex post, facendo venire meno quel senso di autovalutazione che ha condizionato fortemente le politiche di coesione. L’intero sistema della politica regionale di sviluppo, in verità, necessita di una precisa definizione di sedi e strumenti di valutazione e controllo degli interventi, e della loro necessaria “terzietà” rispetto ai luoghi della programmazione, mediante i quali un rinnovato impegno per la coesione del Paese e dell’Europa possa risultare maggiormente “accettabile” e “responsabile”. Ciò dovrebbe costituire uno dei principali obiettivi della riforma delle politica europea di coesione per il post 2013. 29 Sulle prospettive della politica di coesione per gli anni successivi al 2013, la SVIMEZ ribadisce l’esigenza di mantenere e rafforzare nei prossimi anni una politica di sviluppo europea per i territori e la forte critica ad un approccio euroburocratico che si concentra più sulla correttezza delle procedure che sulla valutazione degli obiettivi perseguiti. In quest’ottica, appare condivisibile l’impianto del Rapporto indipendente, promosso dal Commissario per le politiche regionali e redatto da Fabrizio Barca, Agenda for a reformed cohesion policy, che punta alla concentrazione ex ante delle risorse su alcune precise priorità strategiche. Infine, sarà decisivo rafforzare il ruolo delle decisioni del Bilancio europeo nell’indirizzare, monitorare e verificare gli obiettivi di sviluppo e coesione, e gli strumenti (e le risorse) messi in opera dalle Autorità nazionali e territoriali, a partire dal prima richiamato principio dell’addizionalità delle risorse. È da ritenere che la responsabilità europea non possa esaurirsi insomma sul piano della quantità di risorse. I fondi del Bilancio Ue non possono essere visti come trasferimenti “globali” agli Stati, da destinare a compensare situazioni di difficoltà dei cittadini o delle imprese di una certa area geografica. Tantomeno possono essere visti come elemento di sostegno temporaneo della domanda; redistribuzione e stabilizzazione non rientrano tra gli obiettivi affidati o affidabili - secondo un corretto principio di sussidiarietà - all’Unione. È invece obiettivo dichiarato nelle norme costitutive dell’Unione quello dello sviluppo, e nella sua realizzazione l’Unione deve impegnarsi non solo destinando risorse, ma anche “validando” le finalità, l’efficacia e le priorità delle azioni proposte dallo Stato membro interessato. Insomma, concludendo, per la SVIMEZ il nuovo modello di governance della coesione implica il rafforzamento della capacità di indirizzo e di controllo da parte dell’Europa. Ciò vuol dire prevedere ex ante la scelta delle (poche) priorità da finanziare, la definizione di obiettivi quantitativi da raggiungere per mantenere le risorse, un sistema di valutazione indipendente, l’aumento della forza e cogenza dell’azione esterna, attraverso un rafforzamento del ruolo della Commissione e del suo sistema di condizionalità. Questo nuovo modello di governance dovrebbe prevedere un sistema di indicatori di risultato che siano statisticamente adeguati: un piccolo gruppo di core indicators che assicurino la comparabilità degli effetti delle politiche; e poi indicatori di intervento che costringano gli attuatori a tenere la barra dritta su poche cose, a dimostrare se ci sono progressi. Sono strumenti e proposte che dovrebbero orientare anche il versante nazionale delle politiche di sviluppo. Le proposte avanzate, infatti, mirano non solo ad aumentare la coerenza degli interventi messi in atto da una pluralità di 30 livelli di governo, ma – attraverso un meccanismo più trasparente di responsabilizzazione e semplificazione della filiera decisionale – anche la stessa “sostenibilità” di un impegno aggiuntivo per il superamento dei divari. 5. POLITICHE GENERALI NAZIONALI, PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E DIVARIO 5.1. La necessità di politiche generali nazionali differenziate All’insoddisfacente andamento della spesa aggiuntiva per lo sviluppo del Mezzogiorno si accompagna, come si è osservato, il suo carattere sostitutivo di una debole spesa ordinaria. Sono sempre più condizionanti, a nostro avviso, per innescare un processo di convergenza, i gravi effetti di un “disegno debole” di politiche generali nazionali2 che, in campi assai rilevanti per lo sviluppo, hanno costantemente mancato di adattare intensità e strumenti di intervento in funzione dei divari intercorrenti tra la macroarea debole e quella forte del Paese. Nel complesso intrico tra ciò che deve essere “ordinario” e ciò che deve essere “aggiuntivo”, preoccupa l’emergere di una posizione che tende a dare priorità all’offerta dei servizi pubblici quale contenuto della “politica regionale” (aggiuntiva). Ora, settori come l’istruzione, la giustizia, la sicurezza sono decisivi per la creazione di “condizioni ambientali” favorevoli allo sviluppo, ma l’azione pubblica in questi settori non è certo mossa da finalità di promozione dello sviluppo dei territori più arretrati, bensì destinata a tutto il territorio nazionale. Non esitiamo a dire che questi comparti dell’azione pubblica costituiscono un presupposto delle politiche regionali, ma non possono sostituire gli elementi – legati all’obiettivo precipuo della crescita economica – che caratterizzano queste ultime. Il nesso tra politica regionale ed effetti territoriali delle politiche ordinarie nazionali è sempre più stringente; uno dei limiti di fondo della Nuova Programmazione, del resto, è consistito proprio nella sottovalutazione di questo vincolo “esterno”. Già negli anni ‘80 Salvatore Cafiero, allora Direttore della SVIMEZ, con lucidissima sintesi, esprimeva questo concetto cruciale: «se l’intervento nell’area meridionale – ordinario o straordinario – resta, come è ovvio, 2 Nella distinzione proposta nelle analisi della Banca d’Italia, quelle che utilizzano la spesa in conto capitale “ordinaria” e l’intera spesa corrente delle Amministrazioni Pubbliche, sia di livello centrale che locale. 31 importante, non meno importante è la caratterizzazione meridionalistica che occorrerebbe conferire anche alle politiche [nazionali] i cui obiettivi non sono specificamente meridionalistici»3. È un tema, quello della decisiva rilevanza delle politiche nazionali per lo sviluppo del Mezzogiorno e per i risultati della politica regionale stessa, che la Banca d’Italia ha di recente proposto con forza al centro della propria riflessione sulle politiche pubbliche nel Mezzogiorno4, sottolineando altresì la necessità, che la SVIMEZ condivide e rilancia, di svolgere politiche ordinarie nazionali «di intensità differenziata a seconda della distribuzione territoriale dei problemi da affrontare». È quanto ha affermato il Governatore Mario Draghi, con una formula che non si presta a equivoci, nella sua Relazione di apertura del Convegno del novembre scorso dedicato al Mezzogiorno: «ogni qualvolta si disegni un intervento pubblico nell’economia o nella società, occorre avere ben presenti i divari potenziali di applicazione nei diversi territori e predisporre ex ante adeguati correttivi». A nostro avviso, in definitiva, la politica regionale di sviluppo deve aggiungersi alle politiche generali nazionali, volte a fornire i beni collettivi essenziali e ad assicurare il normale funzionamento dei servizi pubblici. Ed è proprio in quest’ultimo ambito, legato all’azione “ordinaria” della Pubblica Amministrazione, che è venuto a consolidarsi, ed anzi in molti casi a radicalizzarsi, il divario del Sud rispetto al resto del Paese. 5.2. I “nuovi contenuti” del divario: i servizi pubblici per i cittadini e per le imprese La lettura del divario di sviluppo del Mezzogiorno con il resto del Paese, com’è noto, dalla sfera economica in senso stretto (dal PIL pro capite, al tasso di industrializzazione, al tasso di occupazione, alla propensione alle esportazioni, ecc.) si è progressivamente caratterizzata per l’attenzione su “nuovi contenuti”, su una vasta gamma di servizi essenziali a regolamentazione nazionale e locale, e all’efficienza delle Pubbliche Amministrazioni, delineando un quadro che rende ancora più problematica la predisposizione di un’adeguata strategia di interventi per il Sud. In realtà, si pone spesso poca attenzione – e si mostra comunque una sostanziale incapacità di riforma – sulle carenze istituzionali che ritardano, se non ostacolano, il processo di sviluppo nel Mezzogiorno. Le carenze 3 Cfr. S. Cafiero, Tradizione e attualità del meridionalismo, Bologna, il Mulino, Collana della SVIMEZ, 1989, p. 211 4 Banca d’Italia, Mezzogiorno e politiche regionali, Roma, novembre 2009. 32 istituzionali pesano d’altro canto anche sulla fornitura da parte delle Amministrazioni pubbliche di “beni a domanda individuale” (scuola, sanità, giustizia, ecc.), il cui consumo si configura non solo come un diritto costituzionale di cittadinanza ma produce esternalità positive – ossia vantaggi indiretti – per l’intera collettività sotto forma di minore conflittualità sociale, migliore qualità della vita, maggiore produttività del lavoro, ecc. Nel frattempo, il settore pubblico è cresciuto in misura considerevole, anche se non abnorme, drenando risorse e ponendo con ciò le premesse per politiche di bilancio restrittive che contribuiscono a rallentare ulteriormente lo sviluppo dell’economia. In Italia, secondo valutazioni e stime dell’Unioncamere e dell’Istituto Tagliacarne, la Pubblica Amministrazione intesa come settore che fornisce servizi ai cittadini, non destinabili alla vendita, assorbe quasi il 15% dell’occupazione totale e contribuisce all’incirca nella stessa misura alla formazione del prodotto nazionale. Il peso del settore pubblico è ancora più consistente al Sud dove raggiunge il 18,8% dell’occupazione ed il 22,2% del prodotto, a fronte del 12% circa del Centro-Nord. Ma ciò che desta preoccupazione, al Sud, è soprattutto la qualità dell’offerta di beni e servizi pubblici essenziali, come giustizia, sanità, istruzione, trasporti, lavori pubblici, servizi locali, con ricadute rilevanti sulle condizioni di vita dei cittadini e sul funzionamento dell’economia. In alcune aree l’influenza delle attività criminali sulle relazioni economiche e sociali continua a essere pervasiva. Gli stessi processi avviati negli ultimi anni – di liberalizzazione, di privatizzazione, di riforma delle autonomie e dei servizi pubblici locali – anche se potenzialmente positivi hanno finito per costituire occasione di ampliamento dei divari tra le diverse aree del Paese. L’insieme di questi nodi critici contribuisce a limitare l’afflusso nel Mezzogiorno non solo degli investimenti diretti esteri e privati interni ma anche degli investimenti delle grandi società pubbliche e/o ex pubbliche che, ben lungi dalla logica “sociale” che ne aveva guidato l’azione negli anni passati, tendono a limitare la loro presenza nelle regioni meridionali. I conti pubblici territoriali evidenziano profonde differenze nella spesa pro capite a svantaggio del Mezzogiorno nei comparti dell’energia, della sanità, dei trasporti, delle telecomunicazioni, dello smaltimento rifiuti, del ciclo integrato dell’acqua. Sul versante economico, le associazioni delle imprese continuano a lamentare ostacoli e costi connessi a carenze della Pubblica Amministrazione. Tra questi, la capacità di governo del territorio, la semplificazione delle procedure amministrative e i tempi della giustizia amministrativa assumono un particolare rilievo, e vedono l’Italia fortemente svantaggiata nel confronto con gli altri principali paesi. Il Rapporto della Banca Mondiale Doing Business 33 2010, sulla facilità di fare impresa, colloca l’Italia al 78° posto su 183 paesi in una graduatoria che vede al vertice Singapore, Stati Uniti e Regno Unito nei primi cinque posti. A notevole distanza dall’Italia si collocano anche Germania (25°), Francia (31°) e Spagna (62°). Il confronto internazionale non mostra la dimensione effettiva del divario in atto all’interno del Paese. Emerge da varie indagini che i tempi medi per l’avvio di un’attività di impresa sono più bassi di circa la metà nel Centro- Nord ed i costi inferiori del 56%; il tempo medio per la cessazione delle attività è superiore al Sud di quasi il 40% rispetto al resto del Paese mentre il costo è pressoché doppio. L’Indice della Qualità della Vita dell’Impresa, elaborato dalla Confartigianato sulla base di 42 indicatori, evidenzia come le province e le regioni del Mezzogiorno si collochino agli ultimi posti della graduatoria con poche eccezioni. Il valore dell’Indice va dai 682 punti del Nord-Est, ai 632 del Nord-Ovest, ai 584 del Centro ai 469 del Sud ed infine ai 438 delle Isole. Forte è la correlazione tra valore dell’Indice e PIL pro capite. Gli indicatori di efficienza e/o le valutazioni dei cittadini concernenti i servizi pubblici fanno emergere ulteriori carenze e divari ancora di più consistenti. Pochi dati possono sintetizzare questa situazione. L’Italia mostra ancora un forte ritardo sia nel perseguire le priorità ambientali indicate in sede europea, sia nel dotarsi di un sistema organizzativo e impiantistico adeguato alla complessità del ciclo gestionale dei rifiuti urbani. Nel 2008, circa i due terzi dei rifiuti urbani totali sono conferiti in discarica, contro il 28,5% del Nord: quantità inversamente correlate all’andamento della raccolta differenziata. Nel 2008, la media nazionale di raccolta differenziata si attesta al 30,6% della produzione totale dei rifiuti urbani in miglioramento ma distante dall’obiettivo del 45% fissato dalla normativa. L’analisi territoriale evidenzia che le regioni del Nord (45,5%) sono in linea con l’obiettivo 2008, mentre il Centro (22,9%) e, soprattutto, il Mezzogiorno (14,7%) restano ancora molto lontani. L’analisi di un altro gruppo di indicatori riguardanti sia l’efficienza nell’erogazione di alcuni servizi di pubblica di pubblica utilità sia la diffusione delle tecnologie dell’informazione negli Enti locali conferma i divari a sfavore del Mezzogiorno. Solo per gli uffici anagrafici nel Mezzogiorno si rileva una maggiore efficienza. Per gli uffici delle ASL, la situazione meridionale risulta più negativa con circa 57 persone su 100 costrette a file di oltre 20 minuti a fronte delle 44 del Centro-Nord. In netto peggioramento in tutto il Paese è anche la qualità dei servizi offerti dagli uffici postali con un primato negativo del Mezzogiorno (50 persone su 100 sono costrette a file di oltre 20 minuti contro le 29 del Centro-Nord). In forte miglioramento appare, invece, il grado 34 di informatizzazione degli Enti locali in tutto il Paese: la popolazione residente in Comuni con anagrafe collegata al sistema INA SAIA sale in Italia tra il 2000 ed il 2006 dal 25 al 76%; su livelli più elevati il Centro-Nord che passa dal 30 all’82% mentre il Mezzogiorno passa dal 16 al 65%. Nella fornitura di alcuni servizi di rete a livello locale, vanno segnalati al Sud, pur con qualche miglioramento, il malfunzionamento nel servizio elettrico (con una frequenza di interruzioni lunghe di ben due volte superiori) e i problemi nell’erogazione dell’acqua (con irregolarità che riguardano, nel 2009, il 20% delle famiglie meridionali, a fronte del 7% circa nel Centro-Nord). Divari emergono dai confronti internazionali anche nel funzionamento della giustizia con tempi almeno doppi rispetto ai principali paesi europei per la risoluzione delle controversie civili. Tali divari nascondono le rilevanti differenze territoriali che sono in atto. Nel 2007 la durata media dei procedimenti di cognizione in primo grado nei tribunali italiani era pari a 904 giorni come media di una durata di 1.108 giorni nel Mezzogiorno e di 805 al Centro-Nord. Peggiore al Sud è anche la qualità dei servizi socio-assistenziali. Le persone molto soddisfatte dei servizi ospedalieri sono il 30,8% nel Mezzogiorno, a fronte del 44,7% del Centro-Nord. Il tasso di emigrazione ospedaliera, riferito ai casi di ricovero per interventi chirurgici acuti, è pari a circa il 10% del totale dei residenti ricoverati nel Mezzogiorno, a fronte di valori intorno al 5% delle regioni del Centro-Nord. L’obiettivo europeo, che prevedeva di erogare servizi per l’infanzia ad almeno il 33% dei bambini aventi meno di tre anni, è ancora lontano per l’Italia: era nel 2006 all’11,7% come media di un 15,9% del Centro-Nord e di un 4,3% del Mezzogiorno. I Comuni che hanno attivato servizi per l’infanzia erano, nel 2006, il 25,1% nel Mezzogiorno a fronte del 52,7% della media delle regioni centro-settentrionali. Questi «nuovi contenuti» del divario svelano, insomma, una condizione in cui, ancora oggi, per il cittadino meridionale sono a rischio (o gravemente carenti) alcuni diritti fondamentali. Si tratta di carenze, dunque, imputabili non solo alle Amministrazioni locali ma anche allo Stato, che si riflettono sulla vita dei cittadini e sono tuttavia determinanti ai fini dell’attrazione e della economicità delle iniziative imprenditoriali. 35 6. IL MEZZOGIORNO NELLA PROSPETTIVA DELL’ATTUAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE 6.1. La necessità di un adeguato modello di governance e di finanziamento Dalle analisi del Rapporto emerge la persistente mancanza di un modello consolidato di gestione dei servizi pubblici degli Enti territoriali, dall’avvio del processo di decentramento amministrativo degli anni ‘90 e a quasi dieci anni dall’entrata in vigore della riforma del Titolo V della Costituzione. La questione del modello di governance si pone con forza nella prospettiva di un sempre più compiuto processo di federalizzazione. L’assunto fondamentale da noi proposto è che il federalismo, se correttamente inteso, significhi non separatezza, ma complementarità nelle competenze dei diversi livelli di governo; significhi non il disimpegno dello Stato nella regolamentazione e nel finanziamento dei servizi, che trova il suo risvolto nel ricorso abnorme a logiche e strumenti “emergenziali” di fronte a prevedibili fallimenti; significhi non interpretare il concetto di sussidiarietà in termini “statici”, cioè soltanto come attribuzione dei poteri al livello più decentrato di governo, bensì in termini “dinamici”, ossia attraverso la costituzione di meccanismi di responsabilità tali da produrre l’intervento del livello di governo “superiore” – e in definitiva dello Stato, come «assicuratore di ultima istanza» – allorché un maggiore decentramento comprometta le ragioni dell’efficacia, o dell’efficienza (come peraltro previsto dalla Costituzione, che all’art. 118, comma 1, individua nell’adeguatezza e nella sussidiarietà limiti al principio di differenziazione, e all’art. 120, comma 2, prevede interventi sostitutivi ove siano compromessi i livelli essenziali delle prestazioni). Quest’ultimo aspetto merita un approfondimento importante, perché l’impianto essenziale della legge delega 42/2009 è centrato sulla distinzione tra funzioni riconducibili, o non riconducibili, ai livelli essenziali delle prestazioni (LEP). L’indicazione contenuta nell’art. 6, comma 3, della legge, secondo cui tra le spese “riconducibili” al vincolo riferito ai livelli essenziali delle prestazioni “sono comprese quelle per la sanità, l’assistenza e, per quanto riguarda l’istruzione, le spese per lo svolgimento delle funzioni amministrative attribuite alle Regioni dalle norme vigenti”, è da intendersi come esemplificativa e non come una elencazione esclusiva e esauriente. È difficile immaginare che servizi come lo smaltimento dei rifiuti urbani, le forniture idriche, l’assistenza alla famiglia, non costituiscano diritti del cittadino per i quali devono essere costituzionalmente garantiti livelli essenziali di prestazioni. 36 Se ovviamente alcune caratteristiche del sistema degli Enti territoriali meridionali concorrono a spiegare i ritardi economici e sociali delle collettività che in essi risiedono, si pone con ogni evidenza il problema della complessità dell’analisi sull’efficacia della spesa pubblica e sull’efficienza nella gestione dei servizi. Tutta la discussione sull’attuazione del federalismo fiscale, del resto, dovrebbe riguardare in primo luogo questi aspetti cruciali, anche per dare credibilità e “consenso” ad una vasta opera di ridefinizione della macchina pubblica, qual è il federalismo fiscale. Allo stesso modo, posto che la Costituzione impegna lo Stato, per competenza esclusiva, a garantire un livello di prestazioni che assicuri a tutti i cittadini, sull’intero territorio nazionale, quei diritti civili e sociali che ne consentano la pari dignità (non di rado oggi negata agli abitanti delle regioni meridionali), è necessario spostare l’accento dalle questioni della finanza a quelle, assai più concrete, di “chi ha diritto a che cosa”. Occorre passare da una mera discussione ragionieristica sui “costi standard” ad una eminentemente politica – e costituzionalmente orientata – sugli “standard dei servizi”: non ha senso dire “quale costo?”, o peggio, “quale spesa?”, senza avere stabilito, anzitutto, “che cosa” – senza avere determinato, cioè, la quantità delle prestazioni che si ritenga essenziale. Da questo punto di vista, ci troviamo di fronte ad un punto di svolta decisivo. Nella fase di attuazione della legge delega 42/2009 si impone la necessità di stabilire un modello di finanziamento basato sulla determinazione dei fabbisogni finanziari, determinati sulla base dei “costi standard”, dei diversi servizi in cui si articolano i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti – secondo una griglia che, seppur di difficile compilazione, assicuri un facile riscontro dei “vizi” e della “virtù” di una gestione che miri, oltre che all’efficienza, anche all’efficacia dell’azione pubblica. Del resto, la questione del passaggio dal sistema della spesa storica al costo standard, che è posta al centro del progetto di riforma, è cruciale per il Sud: in larga misura, è dal modo in cui verrà definito il costo (e quindi il “giusto prezzo”) dei servizi e delle prestazioni pubbliche, che dipenderà l’entità dei trasferimenti perequativi. La direzione del cambiamento che è proposto nella legge delega, è apprezzabile in quanto conduca verso un federalismo più efficiente e allo stesso tempo più sostenibile; tuttavia, da questo punto di vista, è bene non cadere in facilonerie da propagandisti. Preoccupa la persistente mancanza di elementi utili a definire la suddetta nozione di “costo standard”. I parametri rilevanti sono, infatti, ancora tutti da individuare e, per farlo, il legislatore dovrebbe considerare numerosi altri fattori, come le diversità strutturali (ad esempio, il 37 peso dei fattori di scala, della struttura della popolazione e della struttura del territorio), le caratteristiche economiche (quali il peso delle attività produttive) e i differenziali di reddito pro capite tra le diverse aree territoriali5, che tanto possono incidere, in determinati campi in particolare, sulla funzione dei costi. Se non si considerano, nel determinare quest’ultima, le effettive situazioni di partenza, si rischia di definire come “inefficienza” il fatto che l’Ente opera su un tratto diverso e “peggiore” della curva della funzione dei costi senza che ciò implichi necessariamente un “vizio”. Ciò vale per la generalità dei servizi e costituisce oggi il rischio più grave, nel dibattito che si va conducendo sulle questioni della stima dei costi standard, che non può avere come riferimento né la spesa storica di una o più Regioni, perché in tal modo si trascurerebbero del tutto le diversità strutturali degli Enti e dei territori (di cui s’è detto sopra); né il costo medio del servizio, perché non è detto che un identico ammontare di spesa media pro capite tra i vari Enti produca lo stesso livello di output (di servizi). Naturalmente, tutto ciò non significa negare le specifiche ragioni di inefficienza che nel Mezzogiorno sussistono con ogni evidenza. Ciò che conta, tuttavia, è richiamare la necessità di un percorso di definizione dei costi che rinvii ad elementi di flessibilità e alla capacità dell’Ente di adattare nel tempo la situazione in cui si trova ai vincoli che siano introdotti e alla concreta possibilità di un percorso “virtuoso” da intraprendere. Le analisi svolte dalla SVIMEZ, dunque, ci portano a fare presenti alcuni elementi di preoccupazione riferiti ad aspetti a nostro avviso notevoli: le scelte concernenti i livelli di erogazione e le modalità del reperimento delle risorse necessarie eccessivamente affidate, specie per le funzioni “autonome”, alla responsabilità e all’autonomia finanziaria delle Regioni (col rischio che si comprometta la norma costituzionale che prescrive di “finanziare integralmente” le funzioni pubbliche attribuite agli Enti). Il timore per il possibile ampliamento dei divari nell’offerta di beni e servizi discende principalmente da due ragioni: la prima deriva dalla constatazione che il dibattito sulla diversa efficienza, efficacia e qualità dei servizi offerti nelle regioni italiane, specie dei servizi e delle funzioni non “essenziali”, sembra dare scarso rilievo alla diversa dotazione di risorse ed infrastrutture che caratterizza e condiziona l’attuale erogazione di tali servizi; la seconda dipende dal 5 Questi fattori, nella legge delega, non sono affatto ipotizzati, sicché la partita di un federalismo sostenibile appare ancora tutta da giocare, sia sul lato dell’offerta (come il livello del servizio da fornire, la presenza di economie di scala o di esternalità di produzione), sia sul lato della domanda (come la dimensione, la densità e le caratteristiche della popolazione in ogni territorio). 38 meccanismo prescelto per finanziare le funzioni “autonome”, in generale, e dalle modalità di erogazione del fondo di perequazione, in particolare. A questo ultimo riguardo, occorre ricordare che la soluzione indicata per il finanziamento di queste funzioni – molto importanti non solo per il miglioramento delle condizioni di vita ma anche per lo sviluppo economico dei territori – al fine di un incremento delle prestazioni, è quella di un aumento della pressione fiscale regionale. Questa strada appare, tuttavia, difficile da percorrere nelle Regioni a più bassa capacità fiscale. A meno di compromettere ogni capacità di autogoverno del territorio che miri ad un rilancio degli investimenti nella prospettiva di innescare autonomi processi di sviluppo: l’unica strada, questa, per ridurre il grado “dipendenza” e i trasferimenti dall’esterno senza inficiare i diritti di cittadinanza che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini. 6.2. Le risorse aggiuntive e gli interventi speciali per il Mezzogiorno Le questioni che legano il destino del Mezzogiorno alla complessa fase di attuazione del federalismo fiscale vanno necessariamente al di là del finanziamento delle “funzioni normali” degli Enti territoriali, e trovano una “chiave di volta” nello stabilire i modi di utilizzo delle “risorse aggiuntive” e di effettuazione degli “interventi speciali” di cui al quinto comma dell’art. 119 della Costituzione. La norma costituzionale, sul punto, opera un’espressa e netta distinzione tra il finanziamento delle funzioni ordinarie, e l’aggiuntività di interventi destinati dallo Stato a determinati Enti, vincolati al perseguimento di specifiche finalità – «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale», «rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona» - e, più in generale, per «provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni». L’attuazione del comma quinto dell’art. 119 della Costituzione, può e deve costituire l’occasione, proprio nel rispetto delle norme costituzionali che prevedono una pluralità di livelli di governo, ma affidano allo Stato la competenza in materia, per ridare “disegno” politico all’intervento per il Mezzogiorno, con la ricerca di un nuovo assetto istituzionale, finanziario e contabile del quale si avverte sempre più l’esigenza, di fronte all’indebolimento delle strutture, alla scarsa trasparenza e alla dispersione nell’utilizzo dei fondi, al venir meno di una politica per il riequilibrio territoriale. Rimangono da chiarire alcuni punti cruciali, su cui i principi e i criteri direttivi della delega non fanno piena luce: i limiti di intervento dello Stato in materie di competenza delle Regioni; il contenuto specifico degli obiettivi che ne giustificano l’intervento; la differenza tra questi interventi e quelli destinati, 39 in via ordinaria, alla realizzazione di livelli essenziali di spesa in conto capitale; la distinzione tra le due diverse modalità di intervento, risorse aggiuntive e interventi speciali, previste dalla norma costituzionale; il problema della quantificazione dei trasferimenti erariali attualmente presenti nel Bilancio dello Stato attribuibili a tale funzione. Il ruolo che svolgerà lo Stato, al compimento del processo di federalizzazione, è un enigma che la SVIMEZ, confortata dal giudizio di autorevoli giuristi, ha provato a risolvere nel senso di un intervento quantitativamente meno esteso ma qualitativamente molto più rilevante che nel passato: nel nuovo assetto di poteri lo Stato centrale è chiamato a svolgere una funzione di garanzia dei diritti e di salvaguardia del sistema, estremamente importante per la tenuta complessiva del Paese. Questa funzione trova compiuta espressione nel contenuto del comma 5 dell’art. 119 che prevede l’intervento dello Stato, attraverso la destinazione di apposite risorse, per finalità generali di promozione dello sviluppo e della coesione e di rimozione degli squilibri economici sociali, anche in materie di competenza delle Regioni, come precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 451/2006. È evidente che, dopo la riforma del 2001, gli interventi aggiuntivi a favore del Mezzogiorno si collocano in questo ambito. Le decisioni che hanno prodotto il dirottamento delle fonti di finanziamento del QSN, unitamente alla tendenza culturale a considerare i servizi essenziali (tra cui, per dire, la sanità) tra i contenuti di una politica di sviluppo, a cui si è diffusamente accennato, introducono un preoccupante elemento di incertezza. Per questa via, a nostro avviso a torto, le Regioni meridionali in difficoltà finanziaria hanno sostenuto – essendo i FAS destinati allo sviluppo e la sanità tra i servizi che possono contribuire ad innalzarlo – la legittimità dell’utilizzo di tali fondi aggiuntivi per ripianare i deficit sanitari, come peraltro previsto dalla legge finanziaria per il 2010. È evidente che tale approccio stride, se non contrasta, con l’impianto costituzionale dell’art. 119, comma 5, della Costituzione, che deve orientare la fase di attuazione del federalismo fiscale. Nell’incertezza del quadro di riferimento, tuttavia, è da accogliere con favore il passaggio (previsto dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78, “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”) al Presidente del Consiglio delle competenze in materia di programmazione economica e finanziaria, coordinamento e verifica degli interventi relativamente alle politiche di sviluppo e coesione. Le norme sono ancora lontane dal disegnare un nuovo assetto organico, ma è da valutare positivamente l’individuazione della Presidenza del Consiglio, in sostituzione di un Ministero 40 di settore, come organo di Governo delle politiche per lo sviluppo, che per loro natura dovrebbero avere carattere intersettoriale; in modo analogo va letta la delega affidata, in base al decreto legge citato, al Ministro per gli Affari Regionali. La politica regionale di sviluppo, tanto più se opera con risorse aggiuntive e interventi speciali, deve essere ancorata a una forte visione d’insieme, che solo luoghi istituzionali in cui emergano interessi che vadano al di là dei singoli livelli regionali possono assicurare. Una visione d’insieme che declini lo sviluppo del Mezzogiorno come funzione della crescita complessiva del Paese, e nella prospettiva di un grande progetto per il Sud – “utile” all’intera economia italiana – richieda alla Nazione uno sforzo collettivo – controllabile, valutabile, sanzionabile – aggiuntivo e speciale. 7. LA “FRONTIERA” SUD E LE NUOVE VIE DELLO SVILUPPO 7.1. La “frontiera” L’intero sistema produttivo nazionale necessita di “invertire” il declino. Una politica che miri a sostenere e rafforzare l’esistente è del tutto insufficiente. Occorre procedere a sostanziali modifiche del modello di specializzazione, come del resto stanno facendo altre economie in vista della ripresa. Qui deve tornare in gioco, da protagonista attivo, il Mezzogiorno. Il punto da cui partire, per impostare un disegno strategico, è che il quadro competitivo dopo la crisi dovrà essere ancora più aperto ai processi di internazionalizzazione. Se il Sud non ha goduto dei nuovi vantaggi competitivi in atto nella fase di globalizzazione che ha preceduto la crisi, occorre trovare una strada che consenta una crescita comparabile con le performances di tutte le altre aree deboli. Ecco perché quest’anno la SVIMEZ rilancia con forza il concetto di “frontiera”, che evidentemente richiama un’opportunità più ampia, per il Paese e per l’Europa, di un investimento in grado di valorizzare le tante energie inutilizzate e di favorire i processi di modernizzazione, presenti anche al Sud. Ma occorre aver presente che gli spazi per un serio rilancio dell’economia meridionale non sembrano particolarmente ampi in assenza di scelte che coinvolgano la strategia di rilancio del “sistema Italia” nel suo complesso. 41 La sfida è di portare a coerenza l’interesse specifico del Mezzogiorno con quello complessivo del sistema, recuperando dalla migliore lezione del passato un’impostazione meridionalista che si ponga il problema della modernizzazione nazionale, e dei vantaggi anche per il Nord di un Mezzogiorno che esca dalla crisi puntando su uno sviluppo “non residuale”: dunque, non solo sull’«inseguimento» del modello di sviluppo settentrionale italiano ed europeo, facendo da battistrada su una via nuova per l’internazionalizzazione “attiva” del nostro sistema economico. 7.2. Il Mediterraneo, “terra”di possibile integrazione Nella grave penuria di opzioni strategiche, il richiamo al ruolo del Mezzogiorno nella ritrovata centralità globale del Mediterraneo (che si rafforzerà nella “nuova geografia” dello sviluppo del dopo crisi) non è certo una novità, ma altrettanto certamente non è riuscito a trovare il modo, in tutti questi anni, di uscire dalla suggestione e dalla retorica. Il Mediterraneo è luogo di complessità, conflitti endemici, instabilità politica, radicate ingiustizie sociali, profonde disuguaglianze tra standard di vita delle diverse aree, diversi sistemi di regole istituzionali, che rendono difficoltosa l’elaborazione di una strategia politica comune. Per lungo tempo, del resto, l’Europa ha preferito volgere lo sguardo verso Est con l’allargamento, avvertendo il Sud come frontiera “ostile”, foriera di immigrazione clandestina e fondamentalismo religioso – relegando il nostro Mezzogiorno ad una condizione di marginalità, da “periferia dell’impero”. La centralità del Mediterraneo nello scenario globale dell’economia e degli scambi internazionali, com’è noto, è essenzialmente dovuta al ruolo crescente dei paesi dell’Estremo Oriente che con impressionante velocità (che finora ha suscitato soprattutto la preoccupazione delle nostre piccole imprese e dei distretti) irrompono nei traffici, negli investimenti e nelle strategie di sviluppo del mercato globale. Un fenomeno che, vista la scala di due protagonisti come India e Cina, è destinato a consolidarsi e crescere (specie se intanto si realizza il raddoppio del Canale di Suez), e a rappresentare l’aspetto più dinamico e progressivo della globalizzazione da cui il sistema Italia e la stessa Europa, non solo il Mezzogiorno, possono trarre maggiore vantaggio. Tuttavia, l’occasione può essere colta solo da un’imponente azione politica da parte dell’Europa che, al di là di saltuari e incostanti afflati verso il Mare nostrum, non è stata in grado di mettere in campo strategie che andassero nella direzione di una maggiore concertazione regionale, al fine di allargare le possibilità di integrazione economica a più settori, e di favorire una prossimità 42 “contagiosa” negli standard di vita e dei diritti civili e sociali. Questa condizione è evidentemente figlia della “debolezza” dell’Italia nello scenario continentale e della miopia di leader politici che hanno troppo a lungo guardato oltralpe. Il suo superamento, invece, dovrebbe rappresentare la costante “missione” politica del nostro Paese su scala sovranazionale. È possibile infatti immaginare percorsi di collaborazione e integrazione guardando al rafforzamento di filiere produttive, al terreno della ricerca e della formazione, alla condivisione di politiche di marketing regionale e globale, che permettano allo stesso tempo di migliorare gli standard di prodotto e di stemperare competizioni penalizzanti (ad esempio, sul costo del lavoro), con ricadute positive in termini di benessere delle popolazioni e di vantaggi per l’Italia e il Mezzogiorno, che possono trovare ulteriori sbocchi alle proprie esportazioni. Su scala più ampia, il radicale “rovesciamento” delle convenienze logistiche può mettere fine ad una storica emarginazione dal centro dei traffici mondiali del Sud dell’Europa ed, in particolare, del suo fulcro mediterraneo. Una prospettiva di questo genere, per la dimensione e la rapidità con la quale si materializza, può ben convivere e compensare l’effetto dell’allargamento dell’Unione Europea ad Est che tanto avvantaggia altri sistemi nazionali. Il recupero del Sud non è dunque il frutto di un afflato romantico, ma è funzionale a un disegno sovranazionale per rendere coerente lo sviluppo dell’Europa nelle sue due articolazioni: quella mediterranea e quella nord-orientale. Il Mezzogiorno diventa per questa via la più rilevante opportunità di rilancio per tutta l’economia italiana; per la prima volta nella storia moderna (rispetto al passato quando fu necessario anche esportare milioni di persone dalle campagne meridionali per alimentare lo sviluppo nazionale), anche come “luogo fisico”, godendo per la sua collocazione di una «rendita logistica» essenziale per gli insediamenti produttivi votati all’integrazione. La prospettiva Mediterranea non si esaurisce, dunque, nella realizzazione della Zona di Libero Scambio tra le due sponde, che peraltro sconta incomprensibili ritardi che penalizzano l’economia meridionale e le spontanee dinamiche di integrazione della “mesoregione”, comunque in atto. Infatti, interrogandosi sulle possibilità di maggiore integrazione economica, è utile ricordare che negli ultimi 15 anni il dato delle esportazioni meridionali mostra come in termini aggregati aumenti il peso di quelle verso il Mediterraneo, sino a sfiorare il 30% del totale extra Ue (pur con un comprensibile arretramento congiunturale nel 2009). Si tratta di economie in continua espansione che, non solo non fanno registrare arretramenti nella crisi (in particolare per la “sponda Sud”, benché ciò sia dovuto alla minore 43 “apertura” dei loro mercati), ma vengono da un periodo di forte crescita e per le quali si prevedono ritmi di ripresa sostenuti nel 2011, intorno al 5% (compresa l’area balcanica e la Turchia). Eppure, per mettere effettivamente a frutto questo che oggi è un puro vantaggio potenziale, è urgente varare politiche ed azioni che possano riattivare processi accumulazione e dinamismo economico, concentrando risorse su alcuni grandi progetti nella direzione di una ristrutturazione profonda e urgente dell’economia meridionale. Nel quadro competitivo attuale, la principale leva strategica per il perseguimento di un nuovo modello di specializzazione produttiva del Mezzogiorno è data dagli investimenti in ricerca e innovazione, per la valorizzazione del capitale umano e per presidiare i settori avanzati dell’economia, legati anche allo sfruttamento tecnologico e sostenibile delle risorse naturali e ambientali. 7.3. Le nuove vie allo sviluppo: ricerca e innovazione per valorizzare il capitale umano e puntare sulla green economy Il deciso rafforzamento dell’attività di ricerca, sviluppo ed innovazione tecnologica rappresenta una delle principali leve strategiche da attivare per accrescere i livelli di competitività dei territori, necessaria anche per favorire – in questa particolare fase di crisi – la ristrutturazione e l’allargamento della matrice produttiva verso quei settori in grado di competere nel nuovo scenario internazionale che si determinerà con la ripresa. Com’è noto, l’Italia presenta, nel confronto con altri paesi sviluppati, forti ritardi nel processo di adeguamento delle risorse umane e strumentali necessarie per sostenere il pieno dispiegamento del proprio potenziale competitivo, ancora caratterizzato da carenze significative in termini di partecipazione delle imprese alle attività di R&S, di disponibilità di risorse umane ad alta qualificazione, di sviluppo di strumenti finanziari adeguati, di integrazione e valorizzazione delle attività di ricerca, di iniziative volte a favorire il trasferimento tecnologico nel tessuto socio-economico e produttivo. Si tratta di debolezze strutturali che nel Mezzogiorno si vanno ad innestare in un contesto di maggiore arretratezza e polverizzazione del tessuto imprenditoriale, di insufficiente attrattività dell’offerta universitaria e delle strutture di ricerca, acuendone le criticità. Il rapporto tra spesa in R&S e PIL è risultato in Italia nel 2007 pari all’1,18%, nettamente inferiore alla soglia del 2% (media dei principali paesi europei) e ancora molto distante dall’obiettivo del 3% fissato per il 2010 dalla 44 «Strategia di Lisbona». Il sistema meridionale della ricerca e sviluppo ha conosciuto un sensibile rafforzamento negli ultimi anni, tuttavia il rapporto tra spesa in R&S e PIL è ancora inferiore al punto percentuale e molto scarsa la domanda di innovazione tecnologica delle imprese. La politica, a fronte di ciò, ha ampi margini di manovra; nella consapevolezza, però, che sono necessarie ingenti risorse. È importante fornire un sostegno alle imprese del Mezzogiorno, mettendo in campo politiche “attive”, che non si limitino cioè ad incontrare la “domanda”, ma in qualche modo la facciano emergere, favorendo la crescita qualitativa delle piccole imprese, che tocchi anche aspetti relativi alle capacità organizzative, manageriali e di allestimento di investimenti complessi. Occorre promuovere rapporti di collaborazione tra imprese e centri di ricerca pubblici e privati (reti, laboratori, centri di competenza, distretti tecnologici, spin-off della ricerca, ecc.), allo scopo ultimo non solo di sostenere competitività e crescita economica della regione ma, come diremo subito, di mettere a disposizione del sistema produttivo quello straordinario capitale umano formato dalle Università, che molto spesso rischia invece di risultare scarsamente spendibile per lo sviluppo. Insomma, il rafforzamento dell’attività di ricerca, sviluppo ed innovazione tecnologica è una strada – non l’unica, s’intende – che il Mezzogiorno deve adottare con determinazione, sapendo però che, in un contesto di risorse limitate e di netta prevalenza delle PMI, è necessario individuare i settori e le tecnologie maggiormente “pervasivi”, ovvero quelli il cui sviluppo, con un investimento iniziale accessibile anche per imprese di piccole e medie dimensioni, abbia le più ampie ricadute positive anche su altri settori e su diversi ambiti produttivi: sia attivando, rivitalizzando, innovando linee produttive di beni e servizi anche in settori tradizionali, sia sostenendo lo sviluppo di settori e produzioni che vadano oltre la specificità del sistema imprenditoriale locale. Del resto, le politiche dell’innovazione possono rappresentare lo strumento di penetrazione in settori non tradizionali: per le imprese, da impegnare nella cd. new economy, attraverso i Poli di innovazione e gli spin-off della ricerca pubblica; e per le amministrazioni pubbliche, al fine di sperimentare nuove politiche di gestione e valorizzazione del territorio, ovviamente di carattere ambientale ma anche con riguardo al patrimonio culturale latamente inteso; e, non da ultimo, per la qualità della vita dei cittadini, con la possibilità di accesso a nuovi e più avanzati servizi. Le tipologie di interventi che possono rappresentare un ponte tra Università, Enti di ricerca e imprese e su cui è possibile fare leva per 45 incentivare i processi di trasferimento tecnologico pubblico-privato sono, in definitiva, molteplici. E al Sud possono agire positivamente su due fronti: da un lato, nel breve e medio periodo, per mettere a disposizione del sistema produttivo il capitale umano formato dalle Università e, dall’altro, in un periodo più lungo, per incrementare la competitività dell’area, favorendo un circolo virtuoso di aumento della domanda di innovazione e di capitale umano qualificato. Infatti, uno dei punti di forza principali, per il Mezzogiorno, è costituito proprio dal forte potenziale di capitale umano. Notevoli, come visto, sono i progressi compiuti nel tasso di scolarizzazione secondaria e nell’istruzione terziaria. L’impegno pubblico in formazione e i risultati ottenuti, tuttavia, rischiano di essere vanificati da un’insufficiente capacità del sistema produttivo di assorbire queste preziose risorse umane, che in mancanza di opportunità di lavoro, come visto, sono destinate inevitabilmente alla emigrazione, specie dei giovani maggiormente qualificati. In quest’ottica, la prospettiva della green economy, in particolare nei settori energetico e agro-ambientale, e la valorizzazione del patrimonio storico- paesaggistico meridionale possono essere oggetto di una ben più decisa considerazione, come specifico elemento catalizzatore della catena di connessione ricerca-innovazione-produzione, in grado di dare piena espressione alle potenzialità del sistema universitario e di ricerca e al patrimonio territoriale del Mezzogiorno. È un campo in cui sperimentare una base economica più solida, che possa sostenere concretamente il tessuto produttivo locale, fornire lavoro anche nel breve periodo alle risorse umane già presenti e attrarre nuovi capitali e (almeno “trattenere”) risorse umane, in una prospettiva di sviluppo durevole. Per garantire queste condizioni, la tradizionale prospettiva legata ai prodotti tipici e al turismo deve essere certamente contemplata, in quanto risorse gravemente sottoutilizzate. Ma accanto all’“industria” turistica (ancora in gran parte da costruire), nuova linfa vitale all’economia del Sud deve essere garantita da due settori economici dalle prospettive di sviluppo per nulla aleatorie: il settore delle energie rinnovabili e il settore del recupero edilizio. Si tratta di due settori per alcuni versi assai distanti: il primo è relativamente nuovo e in espansione; il secondo appartiene a una delle più sviluppate filiere economiche degli ultimi decenni. Per entrambi, però, è possibile ipotizzare lo sviluppo di quelle tecnologie “pervasive” che sono alla base anche del lancio di numerosi spin-off del sistema universitario. Il settore delle energie rinnovabili è in espansione planetaria e presenta grazie alle agevolazioni nazionali e alle felici condizioni ambientali del 46 Mezzogiorno una potenzialità locale notevole. In pochi anni di convinte politiche regionali la Puglia è divenuta la prima regione italiana per produzione energetica da fonti rinnovabili, superando le più industrializzate Lombardia e Veneto. Molte altre regioni del Sud offrono condizioni climatiche altrettanto favorevoli per l’utilizzo dell’energia solare e in parte anche per quella eolica. Più della Puglia, regioni come la Calabria e la Basilicata, per la ben diffusa biomassa forestale, presentano condizioni favorevoli al recupero energetico da biomasse. Nel breve medio periodo, inoltre, il rilancio della filiera edilizia del recupero trova rispondenza nella necessità di favorire l’efficienza energetica, di salvaguardare dai rischi geologici e dall’incuria il patrimonio edilizio storico e di frenare il disordinato e insostenibile consumo di suolo. Il consumo di questa preziosa risorsa e l’aumento della dispersione insediativa cui esso si accompagna, producono gravi danni al patrimonio paesaggistico e all’attrattività turistica, rendendo nel contempo sempre più onerosa la fornitura e la gestione delle reti di urbanizzazione e dei servizi pubblici. La rivitalizzazione delle aree interne, e un’accorta politica di integrazione e messa in coerenza dell’insieme di incentivi e disincentivi al recupero e alla rivitalizzazione dei tessuti insediativi storici attraverso investimenti, appare, oltreché una necessaria politica preventiva di riduzione del danno conseguente all’avverarsi dei rischi geologici, una intelligente prospettiva di tutela e uso del patrimonio insediativo storico. Infine, ritorna il tema della “frontiera”: il Mezzogiorno rappresenta l’area del Paese che ha più interesse ad una modifica del modello di sviluppo nazionale, che ponga al centro il tema della sostenibilità anche come strumento per la realizzazione di una maggiore equità intergenerazionale, e perfino “storica”: il Sud è stata l’area in cui si sono avuti i minori vantaggi del processo di industrializzazione del secolo scorso e al tempo stesso è stata l’area in cui si sono scaricati i costi ambientali più elevati dell’inquinamento dell’industria pesante e, per effetto di una peggiore gestione del territorio, le scorie di una industrializzazione a volte senza regole. 7.4. Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti: strumento per la crescita e l’integrazione In conclusione la SVIMEZ vorrebbe lanciare l’idea di un vasto programma a partire dal 2010: completare e rafforzare le grandi infrastrutture dei trasporti. È questa una condizione fondamentale da soddisfare, in assenza 47 della quale, sarebbe sostanzialmente ozioso attardarsi a riflettere su un possibile sviluppo del Mezzogiorno. Per assumere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa e Mediterraneo (utile dunque all’intero Paese), il Sud deve diventare un punto di giunzione fondamentale che investa l’intero sistema infrastrutturale nazionale. Di fronte ad una posizione così favorevole nei rapporti tra Europa e Mediterraneo, infatti, un serio limite allo sviluppo dell’area è costituito dalla carenza e dalla scarsa integrazione sistemica delle infrastrutture per la mobilità delle merci e delle persone. Ed è in buona misura anche a causa di tale carenza che nello scorso decennio il Mezzogiorno ha potuto sfruttare meno del resto del Paese, e di altre aree europee, i vantaggi competitivi offerti dal processo di globalizzazione dei mercati, con una conseguente perdita di competitività del proprio sistema economico. La “frontiera Sud” rende più che mai urgente la realizzazione di grandi infrastrutture strategiche, non solo per la loro valenza economico-territoriale rispetto a qualsiasi progetto di sviluppo produttivo del Mezzogiorno, ma anche per la loro capacità di mobilitare risorse e impieghi tali da contribuire in misura rilevante all’uscita dalla crisi. È questo il momento per aprire al mercato la realizzazione di quelle infrastrutture potenzialmente in grado di acquisire risorse finanziarie attraverso la gestione dei relativi servizi. Forme di finanza di progetto e di partenariato pubblico-privato sono gli strumenti più idonei a impostare un programma di priorità infrastrutturali, da completare o da attuare ex novo, capaci di generare rientri accettabili per pianificare in modo equilibrato la loro realizzazione. Una prima selezione di opere prioritarie per il completamento del sistema dei trasporti nel Mezzogiorno, operata dalla SVIMEZ, dovrebbe comportare un costo di circa 46 miliardi di euro, con una copertura attuale di poco più di 11 miliardi e un fabbisogno finanziario da reperire di quasi 35 miliardi di euro. Si tratta di opere cruciali, tra cui il potenziamento della capacità di servizio dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria e della Statale “Jonica”; la realizzazione di nuove tratte interne alla Sicilia; l’estensione dell’Alta Capacità (se non dell’Alta Velocità) nel tratto ferroviario Salerno- ReggioCalabria-Palermo-Catania (a completamento del Corridoio I Berlino- Palermo); il nuovo asse ferroviario Napoli-Bari; infine, il Ponte sullo Stretto. Alcune di queste opere sono già in corso di esecuzione e dotate di parziale copertura finanziaria o da finanziare in misura totale, altre non ancora esaminate dal CIPE. Si tratta di importi consistenti ma tuttavia contenuti se confrontati con gli impegni finanziari rilevabili per il resto del Paese (si ricorda che, nel caso delle sole opere della Legge Obiettivo già approvate dal CIPE nel 48 2009, oltre il 70% interessa il Nord). La realizzazione di tali opere, peraltro, potrebbe avvalersi di un non trascurabile contributo della componente privata; infatti, per tutte le opere esaminate l’ampiezza della domanda dei propri bacini d’utenza potrebbe generare, per i servizi resi, flussi di rientri di una certa consistenza. Per invertire con decisione la tendenza al progressivo definanziamento degli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, che ha caratterizzato gli ultimi tre decenni, occorre avviare al più presto un percorso di analisi e approfondimento per verificare la fattibilità finanziaria e tecnica per una realizzazione basata anche su rientri da tariffa. È evidente, infine, che la realizzabilità di un programma di tale portata richiede una forte condivisione istituzionale e politica tra tutti i livelli di governo. Potrebbe rappresentare, infatti, un primo campo su cui procedere con il più volte richiamato sforzo di concentrazione e riorientamento dei Fondi per lo sviluppo e su cui sperimentare quel necessario mutamento istituzionale che prevede la condivisione di obiettivi strategici tra Governo e Conferenza delle Regioni meridionali; obiettivi a cui vincolare quote significative delle risorse del Fondo infrastrutture strategiche e dei Fondi strutturali nazionali e regionali. Svimez 2010/06_Sintesi.pdf “RAPPORTO SVIMEZ 2010 SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO” SINTESI Roma, 20 luglio 2010 2 LE DINAMICHE ECONOMICHE GENERALI E SETTORIALI LE POLITICHE INDUSTRIALI LE POLITICHE DI COESIONE E L’EUROPA FEDERALISMO E LE POLITICHE DI FINANZA PUBBLICA LE POLITICHE INFRASTRUTTURALI E AREE URBANE LE POLITICHE CREDITIZIE LE POLITICHE PER LA P.A. LE POLITICHE PER IL SUD, COMPETITIVITA’ E INTERNAZIONALIZZAZIONE POPOLAZIONE, SCUOLA E MERCATO DEL LAVORO, MIGRAZIONI POLITICHE CONTRO LA CRIMINALITA’ MEDITERRANEO E TURISMO POVERTA’ GREEN ECONOMY E R&S 3 LE POLITICHE ECONOMICHE GENERALI E SETTORIALI 2009: la crisi continua – Come il 2008, anche il 2009 è stato un anno di crisi per l’economia mondiale. La recessione in corso nelle principali economie del mondo continua ad essere la più profonda dal dopoguerra. La crisi è stata più marcata nei paesi dove maggiore è la quota della produzione manifatturiera, come Giappone ed Europa, soprattutto Germania. Nel 2009 le economie Ue hanno registrato una flessione del Pil del 4,1% rispetto al +0,6% del 2008. Numerosi Paesi hanno messo in atto interventi a sostegno dell’economia, cosa che ha comportato nell’area Euro un aumento del debito pari al +6,3%, a fronte del +2% del 2008. Tra le principali economie industrializzate, quella italiana è la più colpita dalla crisi: -5%, vicino alla Germania e Regno Unito (-4,9%), decisamente maggiore della Spagna (-3,6%) e della Francia (-2,2%). La crisi si è fatta sentire sulla domanda estera prima e interna poi, con una riduzione del redditi e dei consumi, una caduta negli acquisti di beni soprattutto durevoli e una forte flessione negli investimenti (-12%, il valore più negativo dal 1970). E nel Mezzogiorno? Pil e Mezzogiorno - In base a valutazioni SVIMEZ nel 2009 il Pil ha segnato nel Mezzogiorno una riduzione del 4,5%, un valore molto più negativo del -1,5% del 2008, leggermente inferiore al dato del Centro-Nord (-5,2%). Ormai da otto anni consecutivi il Sud cresce meno del Centro- Nord, cosa che non è mai successa dal dopoguerra a oggi. Rispetto agli altri periodi recenti di crisi (1992-93, con l’uscita della lira dallo Sme; 2002- 2004, con il crollo della new economy) quella del biennio 2008-2009 è l’unica in cui il Pil si è contratto per due anni consecutivi. Nel 2009 il prodotto del Mezzogiorno risultava ancora inferiore dello 0,3% rispetto al livello del 2000. Pil per abitante e divari storici - Una misura efficace del divario Nord-Sud la dà il Pil per abitante: nel 2009 nel Mezzogiorno è stato 17.317 euro, circa il 58,8% del Centro- Nord (29.449 euro), con un leggero recupero rispetto all’anno precedente (58,2%) e di oltre 2 punti percentuali dal 2000, dovuto però solo alla riduzione relativa della popolazione. A livello regionale l’Abruzzo mostra una diminuzione del Pil particolarmente elevata (- 5,9%), seguito dalla Campania (-5,4%) e Puglia e Basilicata a pari merito (-5%). Tutte negative anche le altre regioni meridionali, come le settentrionali, a eccezione della Valle d’Aosta. La perdita più contenuta in Sicilia (-3,1%). L’economia per settori Agricoltura – Diversamente dai precedenti periodi di recessione, nel 2009 anche l’agricoltura meridionale è stata investita dalla crisi. Questo quadro difficile è reso ancora più complesso dai cambiamenti in atto nelle politiche di sostegno al settore previste dalla nuova PAC, che viene esposto sempre di più alle forze di mercato. Nel 2009 il valore aggiunto del settore primario nel suo complesso si è ridotto in valori correnti dell’11,5% in Italia e del 9% nel Mezzogiorno rispetto al 2008. Riguardo all’agricoltura in senso stretto, la contrazione valutata a prezzi costanti è stata del -5% al Sud e del -1,9% al Centro-Nord. Giù anche produzione (soprattutto colture legnose e cereali) e consumi, rispettivamente -3,9% e -2,2%, con valori decisamente più bassi del Centro- 4 Nord (-1,8%). A livello regionale il valore aggiunto di Abruzzo, Basilicata, Molise e Puglia, che nel 2008 avevano registrato buone performances, è sceso fortemente, con valori compresi tra -8% e -11%. Nel 2009 sono continuati i processi di ristrutturazione del settore, con la chiusura di piccole aziende e la diminuzione di 17.600 lavoratori, soprattutto autonomi. Dal 2001 al 2009 il Sud agricolo ha perso 115mila posti di lavoro. In calo la produttività (-1,7% contro -1,2% del Centro-Nord) e gli investimenti, -12% rispetto al 2008. Il Sud è biologico – Il 67% della superficie agricola biologica utilizzata si trova nel Mezzogiorno, con Sicilia, Basilicata e Puglia in testa. Nel 2008 Sicilia e Puglia avevano aumentato le superfici rispettivamente del 24,7% e del 27,8%. Su quasi 29mila operatori del settore nel Mezzogiorno, la maggior parte è attiva in Sicilia, Calabria, Puglia. Purtroppo il vantaggio climatico e ambientale meridionale del settore è a rischio per le carenze sul fronte dell’organizzazione della filiera (produzione-trasformazione-distribuzione). Meno del 20% degli agriturismi italiani si trova nel Mezzogiorno: in testa Campania (809), leader in Italia per la presenza di fattorie didattiche, e Sardegna (757), pur cresciute nel 2008 del 4,4% rispetto al 2007. Ma, a differenza del Centro-Nord, qui l’agriturismo è soprattutto e quasi esclusivamente ristorazione. Riguardo ai prodotti di qualità, su 226 marchi italiani DOP e IGP il 43%, pari a 77, è meridionale, soprattutto oli e prodotti ortofrutticoli. Molto carenti però le promozioni dei prodotti a marchio, così come i biocombustibili. Industria - La crisi in atto ha colpito duramente, a livello nazionale e non solo, il settore industriale, soprattutto il manifatturiero. Cali della domanda interna ed estera hanno pesato in modo determinante, soprattutto per quanto riguarda i beni durevoli, intermedi, strumentali e gli investimenti fissi lordi. L’intensità della crisi si è fatta sentire ancora di più al Sud, con un crollo del valore aggiunto industriale nel 2009 del 15,6%, a fronte del -15,2% nazionale. Segno negativo per tutti i prodotti industriali. Giù soprattutto il manifatturiero, che è arrivato nel 2009 a - 16,6%. A tirare giù l’industria del Sud, come nell’altra ripartizione, soprattutto i minerali non metalliferi (-26,9%), i metalli (-23,9%) e macchine e mezzi di trasporto (-20,5%). Non va meglio sul fronte dell’export: nel 2009 il manifatturiero del Sud ha perso il 29% contro il 20% del Centro-Nord. Da segnalare i crolli delle esportazioni nei metalli (- 40,4%), nel chimico-farmaceutico (-35%), nei macchinari elettrici e mezzi di trasporto (- 30%), ancora più negativi dei risultati dell’altra ripartizione (-28%, -13%, -21%). A fare le spese della situazione critica anche la produttività, scesa del 6,6% al Sud e del 7,8% nel Centro-Nord. Nel 2009 il gap tra le due aree si è mantenuto intorno ai 25 punti percentuali. Nel 2009 si sono persi 319mila posti di lavoro al Centro-Nord e 87mila al Sud. In altri termini, degli occupati persi nel settore dal 2004 al 2009, il 70% al Sud e l’87% al Centro-Nord del totale si è concentrato nello scorso anno. Nel manifatturiero gli occupati sono scesi nel 2009 al Sud del 10% contro l’8% del Centro-Nord. Particolarmente colpito il tessile e calzaturiero (-13% al Sud, -10,8% al Centro-Nord) e la produzione di metalli (-11,8% al Sud, -9,6% al Centro-Nord). Riguardo agli investimenti fissi lordi, sono crollati nel 2009 al Sud del 18,8%, al Centro-Nord del 19,2%. Il quadro pre-crisi: Sud uguale al Nord - In base a un’analisi SVIMEZ sulla sopravvivenza delle aziende negli anni pre-crisi 2002-2007 si è notato che le principali dinamiche imprenditoriali nell’area non sono troppo diverse dagli andamenti nelle altre ripartizioni: a 5 cinque anni dall’insediamento al Sud sopravvive il 53% rispetto al 57% del Nord-Ovest; negli anni le dimensioni d’impresa crescono, addirittura di quattro volte in Basilicata rispetto al raddoppio di Piemonte e Lombardia; al Sud il rapporto tra addetti guadagnati e persi nelle imprese sopravviventi al 2007 è uguale a quello medio nazionale (30%). Edilizia - La crisi non ha risparmiato il settore edile: rispetto all’anno precedente, nel 2009 il Sud ha segnato un crollo del valore aggiunto del 9,4% (che arriva al -16,7% nel periodo 2001-2009), degli investimenti dell’8,5% e del 3,8% degli occupati pari a 23mila posti di lavoro. Particolarmente colpita l’occupazione dipendente, - 28.500 posti, a fronte di una crescita di 5.600 nuove unità autonome. Le misure varate dal Governo a sostegno delle spese di manutenzione e ristrutturazione hanno contribuito a far emergere quote di sommerso, che restano però alte: delle 180mila unità totali “in nero”, il 63%, oltre 110 mila, è al Sud. Sul fronte delle opere pubbliche, i bandi di gara al Sud nel 2009 sono scesi per numero del 21,7%, con punte particolarmente negative in Basilicata (-63%) e Molise (-60%), per importo del 13,5% (-70% in Basilicata e – 66% in Molise). Servizi e terziario - Sempre per effetto della crisi, per la prima volta dalla fine della guerra il valore aggiunto del settore dei servizi è calato per due anni consecutivi, segnando nel 2009 – 2,7% (Centro-Nord -2,6%), con effetti molto più pesanti nel commercio (-11% contro -9%). Giù anche turismo e trasporti (-3%) e intermediazione creditizia e immobiliare (-1,7%). Circa 88mila i posti di lavoro persi nel settore al Sud (- 1,9% rispetto al 2008), con punte del -3,9% nel commercio, il doppio che al Centro-Nord (-1,7%), concentrate soprattutto nel lavoro autonomo. Il terziario, specialmente nei servizi alle imprese e alle famiglie, è il settore che ha più recuperato dal 2002 il divario di produttività con il Centro-Nord, ma resta poco competitivo. Tale divario di produttività, pari al 15,5%, nel 2009 portava il costo del lavoro al Sud a superare del 12% il centro-Nord nonostante i salari fossero più bassi del 5%. Il terziario al Sud è soprattutto di tipo tradizionale (commercio al dettaglio, istruzione, sanità) mentre è molto ridotto il suo peso nei servizi alle imprese (assicurazioni, trasporto aereo, immobiliare). Nel 2009 i dipendenti pubblici al Sud sono stati 58 su mille abitanti, contro il 54 del Centro-Nord. La percentuale più alta però non è nel Mezzogiorno, ma in Trentino-Alto Adige e nel Lazio (72%). Cosa dice la SVIMEZ – Nel periodo 2000-2008 il Mezzogiorno è cresciuto la metà del Centro-Nord. Dal dopoguerra non si era mai verificato una così lunga interruzione del processo di crescita tra le due aree. La forte contrapposizione tra Nord e Sud oggi rischia di allargare il divario e ostacola la ripresa economica nazionale. Di qui la proposta di un “progetto Paese” per valorizzare le aree deboli con politiche nazionali più efficienti e politiche specifiche riformate, che passi attraverso il concetto di Mezzogiorno come “frontiera” verso il Mediterraneo e le nuove opportunità di sviluppo che vengono soprattutto dai settori innovativi. 6 LE POLITICHE INDUSTRIALI L’azzeramento delle politiche di riequilibrio - Nel corso del 2009 si è passati dalla crisi della politica industriale regionale a un suo sostanziale azzeramento. Perché sono rimasti non operativi tutti gli interventi di incentivazione che si sarebbero dovuti attivare: le zone franche urbane, i nuovi contratti di programma, i contratti di localizzazione, i contratti di sviluppo. Mentre si sono definitivamente esaurite le risorse finanziarie per i crediti d’imposta a favore dell’occupazione e dei nuovi investimenti. Gli effetti della crisi economica – La crisi inevitabilmente alimenta soprattutto una politica industriale difensiva; un esempio in tal senso sono le misure di incentivazione dei consumi attuate dal Governo, che recuperano una selettività settoriale sepolta da un ventennio di strategie comunitarie. A fare le spese di una crescente avversione per le politiche di incentivazione è stata, ancor più della politica industriale, la politica di riequilibrio territoriale, che ha finito per pagare pesantemente l’inevitabile contrazione delle risorse disponibili. Gli aiuti di Stato in Europa e in Italia – Nel 2008 gli aiuti di Stato hanno rappresentato nell’Ue a 27 lo 0,5% del Pil. Ma le situazioni nei diversi Paesi non sono uniformi: in Germania il livello degli aiuti è il doppio rispetto all’Italia, e anche Francia e Spagna gli riservano una maggiore attenzione. Nel nostro Paese le misure orizzontali rappresentano l’85% del totale e la maggior quantità di aiuti è destinata al sostegno delle piccole e medie imprese. Troppo poco in Italia è stato finalizzato al superamento degli squilibri territoriali, appena il 18,3%, contro il 22,8% della Germania, il 40,8% della Francia, il 39,9% della Spagna e, addirittura, il 25,8% della Ue a 27. I recenti interventi in Italia – L’anno scorso il Governo ha varato la “legge sviluppo” 99/2009 anche allo scopo di riordinare tutte le misure di incentivazione esistenti, ma difficilmente potrà essere operativa per la metà di agosto 2010. Ha poi approvato la direttiva “Small Business Act” che tra le altre prevede misure per favorire l’accesso al credito delle piccole e medie imprese, incentivando in particolare la finanza innovativa. Sono stati a questo proposito estesi, in funzione anticrisi, sia gli interventi del Fondo di garanzia che la moratoria sul debito. E’ stato creato un Fondo pubblico privato di private equity, la cui società di gestione del risparmio è stata costituita a marzo di quest’anno e a settembre farà i primi investimenti. Il contratto di rete d’impresa - Con il consolidamento del “contratto di rete d’impresa”, per poter accedere alle procedure di programmazione negoziata con le pubbliche amministrazioni, agli interventi di garanzia per l’accesso al credito e alle misure per l’internazionalizzazione e l’innovazione, si favoriscono le aggregazioni tra imprese. Ma, a differenza dei distretti, il legame tra le stesse non è necessariamente di natura territoriale né settoriale. Progetti di innovazione industriale – La legge sviluppo estende i progetti di innovazione industriale anche alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, all’industria aerospaziale e all’osservazione della terra e dell’ambiente. Diversi bandi debbono ancora essere avviati. Si è invece conclusa la fase di valutazione del progetto per le nuove tecnologie 7 per il made in Italy: stanziati 280 milioni, 104 progetti ammessi al finanziamento, che attivano investimenti complessivi per 638 milioni. Incentivi a sostegno della domanda – Gli incentivi al consumo varati dal Governo nel 2010 hanno avuto al Sud una ricaduta notevolmente inferiore rispetto al resto del Paese: le Regioni meridionali, infatti, al 10 maggio di quest’anno, avevano assorbito il 20% dei finanziamenti erogati. Sempre meno incentivi al Mezzogiorno - Nel 2009 sono significativamente calate le agevolazioni nazionali, gestite cioè dall’Amministrazione centrale: siamo attorno ai 4 miliardi e mezzo, un valore nettamente inferiore alla media dei precedenti sei anni, quando oscillava attorno ai 6 miliardi e 200 milioni l’anno, per un totale di 37 miliardi e 200 milioni nell’intero periodo. Di questi incentivi circa la metà sono stati destinati al superamento degli squilibri territoriali, 18 miliardi e 400 milioni. Ma soprattutto al Sud il calo del 2009 è ancor più evidente che nel resto del Paese: su 4 miliardi e mezzo, poco più di un miliardo e mezzo è andato al Mezzogiorno. Il peso delle aree meridionali sul totale degli incentivi, che era di circa il 70% fino al 2006 e attorno al 56% fino al 2008, nel 2009 è drasticamente calato al 34%. Contratti di Programma e di localizzazione, crediti di imposta, Zone franche – Le risorse disponibili per i crediti d’imposta per l’occupazione, pari a 200 milioni per ciascuno degli anni 2008, 2009 e 2010, si sono già esaurite nell’ottobre del 2008. Così come le risorse per i crediti d’imposta a favore degli investimenti, pari a 4 miliardi e mezzo: nel 2008 l’intero stanziamento del periodo 2007 – 2013 era già stato interamente assorbito. L’estensione dei Contratti di programma all’intero territorio nazionale rischia in prospettiva di danneggiare il Sud, al quale prima erano riservati. Nel 2009 c’è stato altresì il blocco dei contratti di localizzazione che non si sono rivelati un efficace strumento di attrazione degli investimenti. Si attende l’avvio operativo dei nuovi Contratti di Sviluppo. Per di più la manovra del Governo di quest’estate ha trasformato le Zone franche urbane in zone a burocrazia zero. Cosa dice la Svimez - “La particolare intensità con cui la recessione industriale ha colpito il Mezzogiorno nel 2009 segue un già forte ampliamento del gap di crescita con il resto del Paese. Le cronache di questi mesi e settimane sugli stabilimenti FIAT di Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, alquanto complesse e diverse tra loro, sono emblematiche. C’è stato un progressivo ridimensionamento della politica industriale per il Sud, in particolare della politica di incentivazione regionale, che ne ha storicamente costituito l’ossatura portante, fino ad arrivare nel 2009 ad un sostanziale azzeramento. Solo col ripristino di un consistente apporto differenziale di politica industriale regionale, coniugato con un più adeguato accesso del Sud agli interventi della politica industriale nazionale, è possibile porre le condizioni per un disegno strategico di sviluppo strutturale. Gli “obiettivi guida” di questa possibile strategia sono: la riqualificazione del modello di specializzazione produttiva, attraverso il sostegno alla ricerca e all’innovazione tecnologica e organizzativa e allo sviluppo delle attività a più alta produttività relativa; l’innalzamento delle dimensioni medie dell’impresa, attraverso il sostegno alla formazione di “reti” di imprese e a un maggiore accesso al credito; una maggiore apertura del sistema verso l’estero; la promozione e l’arricchimento di “filiere produttive”; il pieno inserimento delle agglomerazioni di imprese in settori strategici per l’industria nazionale; il rilancio delle politiche di attrazione”. 8 LE POLITICHE DI COESIONE Bilancio complessivo Fondi strutturali 2000/2006 – La ventesima relazione annuale sull’esecuzione dei Fondi strutturali della Commissione Europea certifica che il 2008 è stato un anno positivo per l’attuazione del bilancio comunitario: risultano, infatti, impegnati 211,92 miliardi ed erogati 192,42, pari rispettivamente al 100% e al 90,8% delle risorse stanziate nei Paesi Ue. Le migliori performance le hanno avute la Finlandia, la Lettonia, la Lituania, Malta, l’Austria e l’Estonia, mentre i dati più bassi di avanzamento finanziario riguardano la Danimarca, Lussemburgo e Cipro, che hanno erogato tra l’82,4% e l’83,6% del contributo assegnato. L’Italia è cinque punti percentuali sotto la media dell’Unione Europea, con un livello di pagamenti che si aggira attorno all’85%. Grazie alla proroga al 30 giugno 2009 per il completamento della programmazione 2000 – 2006, la regola del disimpegno automatico non è stata applicata all’annualità 2008. Nei Paesi Obiettivo 1 gli investimenti sono stati prevalentemente concentrati sulle infrastrutture di base, 41,4%, in particolare su quelle di trasporto, sul sostegno alle piccole e medie industrie e all’artigianato per il 33,3%, sulle risorse umane per il 23,2%. I risultati in Italia – All’Italia per il periodo 2000/2006 sono stati assegnati 28,8 miliardi di contributi comunitari per le politiche di coesione, che, grazie alle risorse nazionali di cofinanziamento, hanno più che raddoppiato lo stanziamento. Per cui il totale dei finanziamenti ha raggiunto 63,3 miliardi, di cui 45,9 destinati alle Regioni obiettivo 1. Nel corso dell’anno scorso, grazie alla proroga, sono state completate fisicamente e finanziariamente le iniziative programmate a partire dal 2000. I dati a fine 2009 della Ragioneria dello Stato mettono in evidenza come, per tutti gli obiettivi, gli impegni siano in eccesso rispetto alla dotazione finanziaria, mentre i livelli di pagamento siano differenziati: in termini assoluti su 45,9 miliardi programmati, ne sono stati impegnati 57 e spesi 48. I fondi e gli Assi - Per quel che riguarda i pagamenti, la quota più alta rispetto ai contributi l’ha registrata il Feoga, specializzato in agricoltura, la più bassa lo Sfop, fondo dedicato alla pesca, per il quale il livello di spesa è pari al 92% del contributo. Se la valutazione viene fatta per Assi, le risorse finalizzate alle “Reti e nodi di servizio” sono state impegnate per il 123,6% ed erogate per il 105,9% del contributo, mentre per gli Assi “Risorse culturali” e “Sistemi locali di sviluppo” si sono raggiunti livelli di pagamento rispettivamente dell’86% e dell’89,6% del contributo. I Programmi operativi - La media dei PON (Programmi operativi nazionali) è al 120,7% per gli impegni e al 105% per i pagamenti. Livelli di impegno inferiori al contributo assegnato si sono registrati solo per i PON “Assistenza tecnica” e “Pesca”. Mentre per le erogazioni solo quattro PON hanno speso meno del contributo assegnato: quelli per la “Pesca”, la “Scuola per lo sviluppo”, l’“Assistenza tecnica” e la “Sicurezza”. La media dei POR (Programmi operativi regionali) si attesta su un livello di pagamenti del 104,6% del contributo, con il valore più alto in Puglia, dove raggiunge il 112,7% e quello più basso in Campania, dove è al 101% di quanto assegnato. Quanto hanno influito i progetti coerenti – Secondo il Rapporto 2008 del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo, il valore dei “progetti coerenti” è calcolato in 20,4 miliardi, corrispondenti al 44,5% della dotazione finanziaria. Particolarmente rilevante l’incidenza dei 9 progetti coerenti, meglio noti come “progetti sponda”, su alcuni Assi strategici, come quello delle “Reti e nodi di servizio”, che li ha utilizzati per l’85,7% del totale. E’ perciò evidente che a fine 2009 il livello complessivo della capacità di spesa delle risorse assegnate con la programmazione 2000/2006 è stato elevato proprio grazie ai progetti coerenti. Le valutazioni dell’Ue – Nel Rapporto della Commissione Europea del 19 aprile di quest’anno emerge che in Italia le risorse del Fesr del ciclo 2000/2006 hanno dato un contributo significativo alla crescita delle aree Obiettivo 1. Rendendo più attrattivi i territori meridionali e migliorando l’armatura infrastrutturale e la capacità della pubblica amministrazione, anche se non si sono potute contrastare le cause profonde del ritardo di sviluppo. Ciò soprattutto perché sono stati privilegiati progetti di ridotto importo unitario, frammentati, non inseriti in una complessiva strategia di sviluppo e perché c’è stata una quasi totale assenza di progetti interregionali. La programmazione 2007/2013 – A circa tre anni dall’approvazione del Quadro Strategico Nazionale 2007/2013, il disegno di una cornice programmatica unitaria per la politica regionale, finanziata con risorse nazionali, del Fas e comunitarie, è in crisi. Ciò a seguito delle decisioni intervenute nel corso del 2008 e del 2009 relative alla manovra finanziaria per fronteggiare la grave crisi economica internazionale. Complessivamente il Quadro Strategico Nazionale prevedeva di attivare 60,3 miliardi di risorse europee e 64,4 del Fas, per un totale di 125 miliardi. Ma i 64,4 miliardi inizialmente assegnati al Fondo Aree Sotto Utilizzate sono stati via via ridotti e spostati su obiettivi che nulla hanno a che vedere con le politiche di sviluppo e coesione. Quanto è stato destinato al Sud – Sul totale delle risorse dei Fondi Strutturali stanziate per la programmazione 2007/2013, alle Regioni della Convergenza, è stato destinato il 78,5% del totale, comprendendo anche le aree interessate dai fenomeni di transizione. Per il 60% questa somma è stata finalizzata a investimenti nell’energia e nell’ambiente, al sostegno della competitività dei sistemi produttivi e dell’occupazione, alle reti, alla ricerca e innovazione. I Programmi operativi regionali (POR) che hanno avuto più soldi sono il POR FESR Campania e Sicilia, che assorbono rispettivamente il 15,9% e il 15,1% del contributo dato alle regioni della Convergenza. A che punto è la programmazione 2007/2013 – I maggiori ritardi riguardano proprio quei programmi destinati a favorire interventi interregionali e una maggiore cooperazione tra le Regioni, come due Programmi operativi interregionali (POI): quello per le “Energie rinnovabili e risparmio energetico”, che presenta un livello di impegni e di pagamenti pari al 6,08% di quanto assegnato, e quello “Attrattori culturali, naturali e turismo” che addirittura non registra né impegni né spesa. Un avanzamento superiore alla media degli impegni e della spesa dell’obiettivo Convergenza si riscontra per tutti i Programmi operativi nazionali (PON). Per i Programmi operativi regionali, invece, le migliori performances le hanno il POR FESR Basilicata, con un livello di impegni e pagamenti rispettivamente del 23,66% e del 15,13% del contributo, e il POR FESR Calabria, con il 30,6% di impegni e il 6,62 di pagamenti. Peggio vanno quelli della Campania e della Puglia, con un livello di impegno per entrambe le Regioni inferiore al 10% e di spesa rispettivamente al 3.81% e al 5,99% dei contributi assegnati. Grazie a una recente modifica al Regolamento sui Fondi strutturali che prevede una riduzione della soglia minima di spesa da realizzare entro il 31 dicembre 2010, si limitano notevolmente i rischi di perdere risorse comunitarie a fine anno. 10 Cosa dice la Svimez - “Al peggior andamento del Mezzogiorno ha concorso una ridotta efficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, conseguente a una dimensione della spesa pubblica per investimenti assai inferiore a quanto programmato. A deprimere l’efficacia ha concorso anche la scarsa qualità degli interventi. Le carenze di fondo sono state: la dispersione delle risorse aggiuntive da finalizzare all’accelerazione dello sviluppo sul territorio in una eccessiva molteplicità di interventi, rispondenti troppo spesso a domande localistiche; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui. E l’impostazione del nuovo “Quadro Strategico Nazionale” 2007 -2013 si è mossa in continuità con il precedente periodo di programmazione: c’è il rischio di una riproposizione dell’esperienza negativa del ciclo di programmazione 2000- 2006. Non solo, ma riguardo all’avanzamento degli interventi, si confermano le difficoltà attuative”. 11 FEDERALISMO E POLITICHE DI FINANZA PUBBLICA Gli effetti della crisi finanziaria – L’andamento dei conti pubblici nel 2009 è stato pesantemente condizionato dagli effetti della crisi economica e finanziaria mondiale. Tali conseguenze sono state particolarmente rilevanti sugli stanziamenti di bilancio a favore delle aree sotto utilizzate, perché ai tagli già decisi nel 2008 se ne sono aggiunti altri nel 2009. La Svimez ha stimato tali riduzioni in 1 miliardo e 963 milioni nel 2008 e in 4 miliardi e 284 milioni nel 2009. Tuttavia il tasso di utilizzazione delle risorse del Fas è migliorato l’anno scorso rispetto al 2008, passando dal 26,6% al 36,3%: un livello comunque ancora troppo basso, se si pensa che nel 2004 aveva raggiunto il 73,3%. Andamento insoddisfacente anche per i pagamenti effettuati sul conto corrente di tesoreria che gestisce, nell’ambito del Fondo di Rotazione delle politiche comunitarie, le risorse statali destinate al cofinanziamento nazionale degli interventi comunitari. Legge delega sul federalismo fiscale - Il nostro Paese ha bisogno di un sistema federale credibile, che si può ottenere solo attraverso la commistione e non la separatezza delle competenze. Il modello di riferimento è quello degli Usa, dove i poteri del governo federale e degli States sono distinti, ma non separati. Se si guarda, invece, ai potenziali effetti del federalismo fiscale per i Comuni, ai quali sono demandate in gran parte materie come l’assistenza, l’istruzione, i trasporti pubblici locali, si notano subito le difficoltà di attuazione. La situazione attuale è sotto gli occhi di tutti: a fronte di una maggior pressione fiscale subita dai meridionali, il livello dei servizi al Sud è peggiore. E i trasferimenti erariali, invece di venire incontro alle esigenze dei più deboli, premiano i più forti. Spesa storica e costi standard - La legge delega prevede che il fabbisogno delle funzioni di Comuni e Province sia finanziato considerando l’80% delle spese come fondamentali e l’altro 20% come non fondamentali. In particolare per i Comuni sono fondamentali le funzioni di gestione, amministrazione e controllo, quelle di polizia, l’istruzione pubblica, la viabilità e i trasporti, la gestione del territorio, quelle in campo sociale. Tutto ciò è attualmente finanziato col criterio della spesa storica. Il passaggio dalla spesa storica ai costi standard è al centro della nuova legge sul federalismo fiscale. Perché è dal modo in cui si definisce il giusto prezzo dei servizi che dipende l’entità dei trasferimenti. Qualità dei servizi al Nord e al Sud – Secondo la Banca d’Italia, la qualità di alcuni servizi pubblici essenziali, come istruzione, sanità e giustizia, che normalmente non rientrano nella sfera di competenza delle politiche territoriali, è generalmente scarsa nelle aree meridionali. In tale ottica il Quadro Strategico Nazionale 2007/2013 ha riconosciuto un ruolo strategico al rafforzamento dell’offerta di servizi collettivi, confermando un sistema di premialità a favore delle Regioni meridionali che conseguiranno gli obiettivi fissati per il miglioramento di tali prestazioni, in particolare in quattro ambiti: istruzione, cura per bimbi e anziani, gestione dei rifiuti, servizi idrico. Federalismo demaniale – L’obiettivo del federalismo demaniale, il primo dei decreti attuativi approvati dal Governo, è rendere più efficiente e redditizia la gestione del patrimonio, anche dismettendo gli immobili non più strumentali all’esercizio delle funzioni, e, al tempo stesso, favorire il decentramento delle funzioni pubbliche agli enti territoriali, che 12 possono così procacciarsi nuove entrate sfruttando economicamente il patrimonio immobiliare trasferito. Naturalmente ci sono anche dei rischi: gli enti territoriali potrebbero essere incentivati ad adottare comportamenti opportunistici scegliendo solo quei beni che hanno immediate prospettive di valorizzazione. Inoltre le attuali difficoltà economiche dei Comuni e la prevista riduzione dei trasferimenti statali potrebbero spingere quelli più deboli a concedere varianti allo strumento urbanistico pur di rendere edificabili nuove aree e procacciarsi così maggiori risorse. La grande disomogeneità nella distribuzione territoriale e la ridotta dimensione dei valori finanziari in gioco rischiano di rendere l’intera operazione scarsamente utile nella direzione del federalismo fiscale. Spesa pubblica al Sud e al Nord – La spesa pubblica, intesa come spesa delle amministrazioni centrali e territoriali, al netto di quella per interessi, è più bassa nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord. Non hanno consistenza le affermazioni anche di fonte autorevole che accreditano il Sud di un volume di spesa pubblica elevato. I dati disaggregati per livello di governo relativi alle spese correnti evidenziano un divario molto più marcato per gli enti locali meridionali, che presentano livelli di spesa pro capite inferiori a quelli del Centro Nord del 14%. Si conferma la tendenza alla riduzione della quota di spesa in conto capitale nel Mezzogiorno, attestata al 34,8% dopo che nel 2001 aveva raggiunto il 41,1%: lontano e praticamente irraggiungibile resta l’obiettivo del 45%. Quanto ha pesato il taglio al Fas – I tagli al Fas hanno notevolmente influito sul livello di spesa pubblica al Sud. Infatti, fino al 2007 non si sono avuti scostamenti significativi tra previsioni di spesa iniziali e finali. A partire da quell’anno, però, la situazione è cambiata: già nel 2007, infatti, le previsioni definitive sono state minori rispetto a quelle iniziali di 1 miliardo e 100 milioni, poi saliti a 1 miliardo e 968 milioni nel 2008 e addirittura a 4 miliardi e 284 milioni nel 2009. Riducendo così drasticamente l’ammontare delle risorse di competenza del Fondo Aree Sotto Utilizzate. Attualmente il tasso di utilizzo delle risorse del Fas è al 36,3% del totale a fronte del 26,6% del 2008, un livello più elevato ma ancora nettamente inferiore a quello degli anni precedenti. Cofinanziamento interventi comunitari – Le risorse destinate al cofinanziamento degli interventi dei fondi strutturali comunitari, che si sommano a quelle del Fas, hanno avuto anch’esse un trend discendente di utilizzo: nel 2004 si è raggiunto il picco con circa 5 miliardi erogati, tra il 2006 e il 2008 ci si è attestati tra i 4,8 e i 4,9 miliardi, nel 2009 si è scesi a 3,2 miliardi: ciò significa che solo il 17% delle somme spendibili su questo capitolo è stato erogato. La Finanza comunale – Le spese correnti dei Comuni tra il 2007 e il 2009 sono cresciute, a livello nazionale, del 5,3%. Ma l’incremento maggiore si è avuto al Sud, +9,1%, a fronte del 3,4% al Nord e del 5,3% al Centro. Non solo, ma mentre crescevano le spese, le entrate aumentavano dell’1,8% a livello nazionale, aumento che deriva da una riduzione dell’ 1,9% al Nord, e da incrementi del 2,3% al Centro e dell’1,1% al Sud. Infine, i trasferimenti erariali, anche in seguito alla progressiva abolizione dell’Ici sulla prima casa, sono cresciuti nel triennio del 28,5% a livello nazionale, con un andamento molto diversificato tra le diverse ripartizioni territoriali: +13,9% nel Mezzogiorno, +39,8% al Nord, +31,2% al Centro. Ciò è anche la conseguenza del fatto che l’abolizione dell’Ici ha 13 ridotto nel triennio le entrate tributarie del 26,5%, che significa -26,1% al Nord, -37,3% al Centro, -14,3% al Sud. Cosa dice la Svimez - “La quota delle risorse nazionali del FAS dirottata verso altri indirizzi raggiunge circa 26 miliardi. Ciò ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul “Quadro Strategico Nazionale 2007-2013”, indebolendone significativamente la componente nazionale. E le ultime indicazioni di politica economica del Governo sembrano proseguire nell’indebolimento dell’aggiuntività delle risorse. La SVIMEZ propone l’istituzione di una “Conferenza delle Regioni meridionali”, in costante rapporto con la Presidenza del Consiglio, che in sede congiunta, una sorta di “Consiglio per la coesione nazionale”, possano assumere impegni vincolanti nella scelta di pochi grandi progetti strategici prioritari, su cui appostare risorse nazionali e regionali, frutto del riordino degli interventi e del reintegro dei fondi nazionali. A questo coordinamento strategico è necessario affiancare una struttura tecnica, un’Agenzia indipendente che si occupi della progettazione e sia di supporto all’attuazione dei grandi interventi prioritari per il Mezzogiorno definiti dalla Conferenza e dal Governo.” 14 POLITICHE INFRASTRUTTURALI ED AREE URBANE Il Sud piattaforma logistica del Mediterraneo – Grazie alla posizione geografica e alla dotazione di porti e aeroporti il Sud può svolgere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa, Mediterraneo e Paesi del Far East lungo la rotta del canale di Suez. La piattaforma sub – mediterranea, con i suoi oltre 250 milioni di abitanti, è una fonte di interscambio da valorizzare e la creazione di un’area di libero scambio tra l’Europa e i paesi del Mediterraneo va in questa direzione. La spesa per infrastrutture – Tra il 2007 e il 2010 la caduta degli investimenti infrastrutturali è stata pari all’8,8%. Eppure, proprio i grandi programmi di sviluppo infrastrutturale sono il principale strumento capace di generale la crescita economica. Per rilanciare gli investimenti in quest’ambito bisogna sviluppare il finanziamento privato e sfruttare tutte le opportunità che ancora ci sono di finanziamento pubblico. Al Sud è determinante la leva pubblica. Le scelte del Cipe – Il Cipe a metà maggio 2010 ha definitivamente assegnato 7 miliardi e mezzo degli 11 miliardi e 300 milioni di risorse pubbliche programmate, di cui 6 destinati alle grandi opere e 1 e mezzo a quelle medio piccole, e ha anche approvato convenzioni autostradali per quasi 6 miliardi sui 18 previsti. Ma l’attivazione effettiva di queste risorse a tutt’oggi è piuttosto scarsa, con solo 1 miliardo e 300 milioni impiegabili a breve termine, grazie ai cantieri già aperti. Peraltro la produttività dei cantieri meridionali è ancora molto critica, in particolare per responsabilità della Pubblica Amministrazione che non sa programmare, progettare finanziare e gestire, e ciò incide notevolmente sui tentativi di reperimento di risorse private. Concentrare le risorse su obiettivi strategici – Il recupero del gap infrastrutturale meridionale passa attraverso la riduzione della frammentazione delle risorse. In quanto la progressiva erosione dei fondi del Fas spinge verso una concentrazione su poche ma significative priorità. La programmazione 2007/2013, mettendo insieme le risorse del Fas e quelle dei fondi strutturali, si basa su una spesa infrastrutturale attivabile al Sud di 35 miliardi e 600 milioni, di cui 18,6 a valere sul Fondo Aree Sotto Utilizzate e 17 sui fondi strutturali. Ma finora i primi segnali sull’attuazione del nuovo ciclo di programmazione non sono confortanti: a parte le incertezze sui Piani di Attuazione Regionali (Par), la programmazione comunitaria cammina troppo lentamente, per cui a febbraio 2010 i Programmi Operativi Regionali (Por) avevano impegnato appena il 13,2% dei fondi e speso solo il 5,7%. Le reti ferroviarie – Nel 2009 solo una persona su 5 al Sud ha utilizzato il treno per i propri spostamenti, contro una su 3 del Centro Nord. La dotazione di reti ferroviarie ad Alta Velocità è e sempre più sarà quasi interamente concentrata al Centro Nord, mentre al Sud sono previsti progetti importanti, ma di livello tecnologico e di prestazione inferiore, sia sulla Napoli – Bari che sulla Salerno Reggio Calabria e sulla rete siciliana. Per di più dal polo di Napoli, snodo decisivo nei collegamenti tra Nord e Sud, partono e arrivano, esclusa l’AV, 35 treni al giorno da e per Roma, che si riducono a un terzo nel percorso fino e da Reggio Calabria e addirittura a un settimo se si raggiunge o si viene dalla Sicilia. Peraltro la rete ferroviaria meridionale, fatta eccezione per la dorsale tirrenica e una parte di quella jonica, è costituita da linee 15 complementari secondarie. E ancora oggi deve fare i conti con una rete che al 51,6% non è elettrificata e spesso è a binario unico. Le reti stradali – La rete stradale meridionale è formata prevalentemente da assi viari non autostradali. Un elevato indice di diffusione autostradale c’è in Abruzzo e in Campania, mentre è fortemente deficitaria in Calabria, Puglia, Molise e Basilicata. La Sardegna è del tutto priva di tratte autostradali. Peraltro la mancata tariffazione di gran parte delle autostrade al Sud si è rivelata incoerente con le esigenze di sviluppo e di funzionalità della rete. I porti – 178 dei 263 porti italiani sono localizzati al Sud. Ma le infrastrutture a servizio degli scali meridionali non sono adeguate, soprattutto per quel che riguarda la capacità di movimentazione delle aree di stoccaggio. Nel 2009 la portualità italiana ha registrato una brusca caduta dei volumi di traffico. Gli aeroporti – Il Sud ha una buona dotazione aeroportuale: tra i 45 scali italiani, 17 sono nel Mezzogiorno. Gli aeroporti meridionali hanno collegamenti stradali ma sono privi di collegamenti ferroviari. Centri intermodali – La distribuzione sul territorio italiano delle piattaforme logistiche e dei centri intermodali riflette la forte concentrazione delle attività produttive al Nord. Non a caso l’indice di dotazione è pari al 39,9 al Sud a fronte del 135,7 del Centro Nord. Caratteristiche delle aree urbane al Sud – Le aree urbane del Mezzogiorno sono caratterizzate da una scarsa interrelazione tra le città, da una difficile, a volte addirittura fallimentare, gestione dell’ambiente urbano, da un’insufficienza dei servizi pubblici essenziali. Peraltro il Sud appare fortemente svantaggiato rispetto al Nord in particolare per gli investimenti in ferrovie di interesse urbano. Le grandi città del Sud sono ben lontane dagli standard europei di sostenibilità urbana e segnano il passo nelle politiche ambientali. Ciò vale soprattutto per le grandi conurbazioni, come Napoli – Caserta, Palermo e Catania, mentre segnali positivi vengono da alcune città di media dimensione come Cagliari e Salerno. In particolare il capoluogo campano è afflitto da un grave problema di congestione urbana, da un affollamento abitativo eccessivo, e da una scarsa dotazione di strutture ricettive di tipo alberghiero che non consente di far fronte in modo adeguato alla crescente domanda turistica. Cosa dice la Svimez - “Un grande progetto sulle infrastrutture dei trasporti è uno strumento per la crescita e l’integrazione, già a partire dal 2010. Per assumere un ruolo di cerniera negli scambi commerciali tra Europa e Mediterraneo, il Sud deve diventare un punto di giunzione fondamentale che investa l’intero sistema infrastrutturale nazionale. La “frontiera Sud” rende urgente la realizzazione di grandi infrastrutture strategiche, non solo per la loro valenza economico-territoriale rispetto a qualsiasi progetto di sviluppo produttivo del Mezzogiorno, ma anche per la loro capacità di mobilitare risorse e impieghi tali da contribuire in misura rilevante all’uscita dalla crisi. Forme di finanza di progetto e di partenariato pubblico-privato sono gli strumenti più idonei a impostare un programma di priorità infrastrutturali. Una prima selezione di opere prioritarie per il completamento del sistema dei trasporti nel Mezzogiorno dovrebbe comportare un costo di circa 46 miliardi, con una copertura attuale di poco più di 11 miliardi e un fabbisogno finanziario da reperire di quasi 35 miliardi. Si tratta di opere cruciali, alcune già in corso di esecuzione e dotate di parziale copertura finanziaria o da finanziare in misura totale, altre non ancora esaminate 16 dal CIPE. Si tratta di importi consistenti ma tuttavia contenuti se confrontati con gli impegni finanziari rilevabili per il resto del Paese. La realizzazione di tali opere potrebbe avvalersi di un non trascurabile contributo della componente privata. Potrebbe essere un primo campo su cui procedere con lo sforzo di concentrazione e riorientamento dei Fondi per lo sviluppo.” 17 LE POLITICHE DELLA P.A. Qualità dei servizi pubblici al Sud – La qualità dei servizi pubblici al Sud, come giustizia, sanità, istruzione, trasporti, servizi locali, è decisamente inferiore rispetto al resto del Paese. E i processi avviati di liberalizzazione, privatizzazione e riforma delle autonomie e dei servizi pubblici locali hanno ampliato invece di ridurre i divari tra le due Italie. Peraltro il tentativo di ridisegnare lo Stato in senso federalista ha reso evidente l’incapacità di molti enti locali a gestire in modo efficiente funzioni di grande rilevanza. L’effetto è sotto gli occhi di tutti: scarsa vivibilità ambientale, poca sicurezza, mancanza di adeguati standard di istruzione, servizi sanitari non idonei. Il peso delle carenze istituzionali – Le carenze istituzionali pesano in modo considerevole sulla fornitura da parte delle amministrazioni pubbliche di servizi primari, come scuola, sanità e giustizia. Al Sud questo fenomeno è più diffuso, sia per il rapporto di sudditanza del dirigente pubblico al potere politico, sia per gli alti costi connessi agli adempimenti amministrativi: basti pensare che le Conferenze dei servizi sorte proprio per ridurre tale complessità, si sono spesso trasformate in un ostacolo insuperabile. I numeri della P.A. meridionale – Attualmente la Pubblica Amministrazione italiana assorbe quasi il 15% dell’occupazione totale. Ma il peso degli occupati nella P.A. è molto più consistente al Sud: 18,8% contro il 12,2% del Centro Nord. Soprattutto in Calabria, dove raggiunge il 21,2%, in Sicilia 20% e in Campania 19,5%. La scarsa attrattività del Mezzogiorno - L’insieme di questi nodi critici contribuisce a limitare l’afflusso al Sud non solo degli investimenti diretti esteri e privati interni ma anche di quelli delle grandi società pubbliche o ex pubbliche. Ciò perché la potenzialità attrattiva di un territorio non è soltanto la conseguenza di aree attrezzate con infrastrutture specifiche al servizio di un insediamento industriale, ma dipende anche da una serie di fattori di contesto come la capacità di governo del territorio, la semplificazione amministrativa, i tempi della giustizia. La gestione dei rifiuti urbani – Le Regioni del Nord sono in linea con l’obiettivo posto per la raccolta differenziata dei rifiuti, 45,5%, quelle del Centro sono ancora lontane, attestate al 22,9%, quelle meridionali sono ferme ad appena il 14,7%. Servizi pubblici al cittadino – Migliorano i tempi d’attesa negli uffici comunali preposti all’anagrafe al Sud mentre resta negativa la situazione nelle Asl, dove i tempi di attesa per gli utenti sono molto più lunghi rispetto al Centro Nord. L’aspetto più preoccupante è quello della giustizia civile, dove la durata di un processo civile al Sud è attorno ai 1.108 giorni contro gli 805 del Centro Nord. Persiste un forte divario sui servizi ospedalieri e ciò spinge circa il 10% del totale dei residenti ricoverati per interventi chirurgici acuti nei nosocomi del Sud ad andare al Nord. 18 Cosa dice la Svimez - “La lettura del divario di sviluppo del Mezzogiorno con il resto del Paese si è progressivamente caratterizzata su una vasta gamma di servizi essenziali a regolamentazione nazionale e locale, e sull’efficienza delle Pubbliche Amministrazioni. Si pone spesso poca attenzione sulle carenze istituzionali che ritardano, se non ostacolano, il processo di sviluppo nel Mezzogiorno: eppure la scarsa qualità al Sud dell’offerta di beni e servizi pubblici essenziali, come giustizia, sanità, istruzione, trasporti, lavori pubblici, servizi locali, ha ricadute rilevanti sulle condizioni di vita dei cittadini e sul funzionamento dell’economia. Gli stessi processi avviati negli ultimi anni, di liberalizzazione, privatizzazione, riforma delle autonomie e dei servizi pubblici locali, anche se potenzialmente positivi hanno finito per costituire occasione di ampliamento dei divari tra le diverse aree del Paese. L’insieme di questi nodi critici contribuisce a limitare l’afflusso nel Mezzogiorno non solo degli investimenti diretti esteri e privati interni ma anche degli investimenti delle grandi società pubbliche e/o ex pubbliche”. 19 LE POLITICHE CREDITIZIE Credito e Mezzogiorno - Dai primi anni ‘90, la crescente integrazione economica internazionale ha spinto le banche italiane a introdurre forti processi di ristrutturazione per consentire di agire in un contesto diventato molto più competitivo. Nonostante questo, la dimensione del mercato bancario italiano è ancora sotto la media europea e tale criticità si fa sentire soprattutto al Sud. Lo prova, ad esempio, la riduzione del numero di banche meridionali nell’area e la penetrazione di istituti del Centro-Nord: nel 1990 esistevano al Sud 100 banche indipendenti con sede legale nell’area e 16 gruppi bancari con sede nell’altra ripartizione; nel 2004 erano rimaste solo 21 aziende di credito, tutte appartenenti a gruppi settentrionali. Banche e sportelli - Nel 2009 il numero di banche operative nel Mezzogiorno è passato da 222 a 215; di queste, tra le 151 aventi sede nell’area, 17 facevano parte di gruppi del Centro-Nord. L’Italia è il paese con il più alto numero di sportelli per abitante in Europa dopo la Spagna, ma la loro diffusione è disomogenea e legata al diverso peso economico regionale (presenza di imprese, densità di popolazione, PIL). Nel 2009 gli sportelli bancari presenti al Sud erano 7.196, 100 in meno rispetto al 2008. 4.133 facevano parte di banche con sede legale al Sud, e di queste 2.737 appartenevano a gruppi del Centro-Nord. Dal 2000 al 2006 la quota di sportelli di grandi banche è passata al Sud da 58% al 66%, le medie sono scese dal 21% all’11%, le piccole e BCC sono rimaste pressoché stabili, dal 20,2% al 21,9%: Imprese e accesso al credito – Colpendo l’industria, la crisi ha inferto un duro colpo anche all’accesso al credito delle imprese del settore, già critico al Sud per motivi strutturali (maggiori rischi, minor numero di aziende, prevalenza di aziende di piccole dimensioni e attive nei settori tradizionali, ecc). Tra le due ripartizioni, però, ne ha fatto le spese soprattutto il Nord-Ovest, con un crollo dei prestiti erogati che al febbraio 2010 arrivava a -5,5% rispetto all’anno precedente, mentre nello stesso periodo il Sud segnava +0,4%. A livello settoriale le imprese manifatturiere hanno subito un tracollo nell’erogazione dei prestiti, con un calo, nel Nord Ovest, del 10%, a marzo 2010, rispetto a marzo 2009. Dimezzata invece nello stesso periodo la riduzione al Sud: -5,39%. Da segnalare però che mentre il Nord Ovest ha iniziato a perdere colpi dal marzo 2009, per stretto effetto della crisi, al Sud, invece, le dinamiche negative erano già presenti dal dicembre 2008, quindi più legati a fattori di contesto che alla crisi congiunturale. Riguardo alle dimensioni, a marzo 2010 le piccole imprese del Sud (meno di 20 addetti) hanno registrato contrazioni dello 0,5% rispetto all’anno precedente, mentre per quelle di dimensione superiore la disponibilità di credito è cresciuta dello 0,85%. Situazione capovolta al Centro-Nord, con un calo del 4,5% per le imprese over 20 addetti, e una flessione dello 0,8% per le under 20. Nel 2009 i prestiti bancari alle imprese meridionali sono cresciuti dello 0,4%, in forte rallentamento rispetto al 2008 (+4,6%), mentre sono diminuiti del 4% al Centro-Nord. A livello dimensionale al Sud le piccole imprese hanno tenuto, mentre le altre sono cresciute dello 0,5%. A livello settoriale, invece, le contrazioni più forti hanno interessato l’industria 20 manifatturiera (-7,2% al Sud, - 9,9% al Centro-Nord). Tengono, invece, le imprese di costruzioni (+1,2% al Sud). A dicembre 2009 i tassi di interesse sui prestiti a breve termine alle imprese del Sud sono scesi al 6,4%, oltre due punti in meno rispetto al 2008. Andamento simile nell’altra ripartizione, ora al 5% (dal 7,4% del 2008). Nel 2009 il divario del costo del credito nelle due aree si è mantenuto stabile, a 1,4%. In crescita rispetto al 2008 anche le sofferenze, aumentate nelle imprese del Sud di un punto percentuale (da 2,2% a 3,2%), più o meno come per le aziende del Centro-Nord (da 1,5% a 2,4%). In base a un altro indicatore, però, che misura il grado di peggioramento del sistema nel 2007-2009 in piena crisi, a livello di sofferenze le imprese del Sud segnano +54%, mentre quelle del Centro-Nord arrivano al 142%. La riduzione del gap di rischiosità delle imprese delle due ripartizioni, passato dal 2% del 2007 all’1,2% del 2009, dimostra non un aumento della disponibilità di credito al Sud, ma un peggioramento del rapporto banche-imprese al Centro-Nord. Famiglie - Nel 2009 i prestiti concessi alle famiglie del Mezzogiorno sono cresciuti quasi del 6%, a fronte del 5% dell’altra ripartizione, mentre si sono contratti notevolmente soprattutto i prestiti per l’acquisto di abitazioni, al Sud -17%. In crescita anche le sofferenze, passate da +1,1% del 2008 a +1,5% del 2009. Sul fronte dei risparmi, per famiglie e imprese, nel complesso tengono depositi e obbligazioni (+4,7% al Sud, +6,7% al Centro-Nord). Giù i titoli di stato (-32% al Sud, -20% nell’altra ripartizione) e le gestioni patrimoniali (-14,5% e -29%, rispettivamente). Il Governo e la Banca del Mezzogiorno – Gli interventi nazionali del Governo a sostegno degli istituti di credito per favorire l’accesso al credito delle imprese si sono mossi prevalentemente nella direzione di rafforzare il Fondo di garanzia per le pmi e le funzioni della Cassa Depositi e Prestiti. Accanto a questi interventi che non rivestono specificità territoriali, va segnalato il progetto di costituire la Banca del Mezzogiorno, originato dal decreto legge 112/2008, che vuole invece essere uno strumento specifico di sostegno al credito e allo sviluppo delle regioni meridionali. Secondo la SVIMEZ, occorrerebbe analizzare meglio la capacità della Banca di finanziare progetti in grado di avviare lo sviluppo dell’area. Se infatti seguisse esclusivamente logiche di massimizzazione del profitto non potrebbe garantire di stornare i risparmi raccolti nell’area alle imprese meridionali, dati i maggiori rischi legati alla clientela, la fragilità del sistema, la minore qualità della domanda di credito. L’impianto della legge è sbilanciato verso la raccolta, e la fiscalità di vantaggio introdotta è rivolta ai risparmiatori, mentre la banca senza misure di incentivo ad hoc non avrebbe alcuna convenienza a investire nell’area. Possibili correttivi potrebbero venire ad esempio dall’introduzione della detassazione degli utili per progetti di investimento delle pmi meridionali, oppure dall’emissione di bond garantiti dallo Stato, come per i finanziamenti alle infrastrutture. Ciò non toglie che i progetti di investimento dovrebbero essere sottoposti a una severa selezione, così da evitare distorsioni. La Banca potrebbe inoltre stipulare convenzioni con i Confidi più strutturati, per accelerare il progetto di concentrazione del settore. Da definire meglio inoltre i rapporti con Banche di Credito Cooperativo e Poste Italiane: le prime già svolgono funzioni creditizie, ma le seconde non hanno esperienza in questo settore ed un loro coinvolgimento potrebbe avere delle implicazioni sulla concorrenza del mercato del credito, data la capillare distribuzione degli uffici postali sul territorio. 21 LE POLITICHE PER IL SUD, COMPETITIVITA’ E INTERNAZIONALIZZAZIONE Mezzogiorno parte più vulnerabile del sistema economico – Nel 2009 le esportazioni dal Sud hanno subito una flessione molto pesante, pari al 29,4%. Non solo, ma la quota del Mezzogiorno sul totale dell’export italiano è bruscamente diminuita, attestandosi su un valore di poco superiore all’8%. Ancora più bassa è la quota meridionale nelle partecipazioni produttive italiane all’estero, pari al 3% in termini di addetti. L’aspetto più preoccupante è la scarsa capacità dei territori del Sud di attrarre investimenti stranieri: appena il 5% sul totale degli addetti nelle partecipazioni estere in Italia. Quali settori risentono della crisi dell’export - L’impatto della crisi si è fatto sentire in tutti i settori, pur se con intensità diversa: oltre un terzo della caduta è attribuibile ai derivati del petrolio. I mezzi di trasporto e la metallurgia hanno risentito pesantemente del contesto economico, mentre l’industria alimentare ha fatto registrare un piccolo incremento delle proprie quote sui mercati esteri. Le specificità regionali dell’export meridionale – Il calo più brusco nel 2009 lo hanno avuto le esportazioni dalla Sicilia e dalla Sardegna, essenzialmente per la caduta dei prezzi dei derivati del petrolio. La Campania ha recuperato, a sua volta, il primo posto nella graduatoria delle Regioni esportatrici del Sud. Il Mezzogiorno detiene una quota relativamente elevata dei traffici di perfezionamento attivo, sui quali è previsto dalla normativa europea un trattamento agevolato, trattandosi di merci importate solo temporaneamente nel territorio comunitario per essere trasformate o lavorate prima di essere riesportate. Il fenomeno è concentrato in particolare in alcune Regioni, in prima fila la Campania, soprattutto per le operazioni svolte nel polo aeronautico napoletano e per l’industria agro alimentare del distretto nocerino – sarnese. Gli assi di sviluppo al Sud – Il Quadro Comunitario di Sostegno 2000 – 2006 ha tradotto in sei assi di intervento prioritario alcune aree che presentano rilevanti potenzialità di sviluppo, ma, al tempo stesso, evidenti carenze: risorse naturali, risorse culturali, risorse umane, sistemi locali di sviluppo, città, reti e nodi di servizio. Risorse naturali: negli ultimi anni sono diminuite dell’8,8% le famiglie con problemi di erogazione dell’acqua, scendendo dal 30% al 20%. La raccolta differenziata dei rifiuti è cresciuta dal 2,2% al 14,1%. Risorse culturali: Campania, Molise e Sicilia sono le Regioni meridionali che hanno maggiormente valorizzato le risorse culturali. Risorse umane: è aumentata la quota di famiglie povere al Sud, raggiungendo il 27,5% del totale. Ed è cresciuto l’abbandono scolastico nel primo anno di scuola secondaria dal 10,5% al 13,5%. Sistemi locali di sviluppo: prosegue la perdita di produttività in molti dei settori economici del Mezzogiorno. Città: è aumentato il verde pubblico e c’è una maggiore diffusione di asili nido. Reti e nodi di servizio: è cresciuta del 13,5% la quota di piccole imprese che dispone di personal computer. Gli assi di sviluppo a livello regionale – L’Abruzzo è la Regione con valori più simili alla media italiana. La Campania è ancora carente in tutti gli assi, va un po’ meglio solo nel settore delle risorse culturali, così come la Puglia. La Basilicata si conferma come Regione meridionale che ha standard superiori alla media. La Calabria associa a valori sistematicamente più bassi una struttura socio economica molto squilibrata, così come la 22 Sicilia. La Sardegna ha, invece, un andamento più regolare, ma al di sotto delle medie di riferimento. In definitiva, i risultati sono ancora complessivamente deludenti. I tagli al Fas cominciati nel 2008 – Il rapido deterioramento del quadro macro economico nazionale ha orientato la scelta del Governo di impiegare le risorse del Fondo per le Aree Sotto Utilizzate per interventi prioritari destinati al rilancio dell’economia. Nel secondo semestre del 2008 le risorse del Fas apparivano, peraltro, inutilizzate in percentuale elevata. Di qui la decisione di impiegarle sistematicamente in funzione anticiclica, anche al di fuori delle aree destinatarie delle politiche di coesione. Nel corso del 2008 numerosi interventi hanno previsto l’utilizzo del Fas a copertura di oneri correnti. A fine dicembre 2008 una delibera del Cipe ha rideterminato per il periodo di programmazione 2007 – 2013 le risorse Fas stanziate dalla Finanziaria 2007 per un totale di 64 miliardi e 379 milioni in 52 miliardi e 768 milioni. La riduzione totale è stata di 12 miliardi e 900 milioni. I tagli al Fas proseguiti nel 2009 e nel 2010 – Nel corso dei primi mesi del 2009 c’è stata una piccola reintegrazione della dotazione del Fondo Aree Sotto Utilizzate per un miliardo e 200 milioni. La successiva delibera del Cipe ha quantificato in 27 miliardi e 27 milioni le risorse del Fas da assegnare alle Regioni e Province autonome, e in 25 miliardi e 409 milioni quelle da destinare alle amministrazioni centrali. Il Fas di competenza nazionale è stato a sua volta ripartito in tre fondi settoriali: al Fondo sociale per l’occupazione sono stati dati 4 miliardi, al Fondo infrastrutture 5, al Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia reale 9. Quest’ultimo non è vincolato, come gli altri due Fondi, alla realizzazione di politiche di sviluppo e coesione, e perciò è stato utilizzato per 7 miliardi e 122 milioni per interventi diversi: per esempio, il finanziamento del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese e l’incremento del Fondo conti dormienti destinato all’indennizzo dei risparmiatori vittime di frodi finanziare. Invece i 27 miliardi del Fas di competenza regionale sono stati ripartiti tra le due macro aree ma non rispettando, però, il vincolo territoriale: in quanto al Mezzogiorno sono andati 21 miliardi e 800 milioni, al Centro Nord 5 miliardi e 195 milioni. Risorse Fas per coprire i buchi della sanità - A fine marzo 2010 il ministero della Salute ha previsto che le risorse Fas possano essere utilizzate per il ripiano dei disavanzi sanitari di alcune Regioni: 1 miliardo per la Calabria, 420 milioni per il Lazio, 67 per il Molise, 500 per la Campania. Cosa dice la Svimez - “Serve un profondo processo di ristrutturazione dell’apparato produttivo meridionale, che deve essere accompagnato da più efficaci politiche di sviluppo che pongano le condizioni per cogliere le sfide e le opportunità nel “nuovo” scenario che si aprirà all’uscita dalla crisi. Bisogna puntare su un Mezzogiorno come “frontiera” del Paese, verso il Mediterraneo. Una specifica politica per le aree deboli, pur se riformata, è ancora indispensabile, al fine di favorire i processi di modernizzazione, presenti anche al Sud, e le nuove opportunità del contesto competitivo internazionale che torneranno a presentarsi”. 23 POVERTA’ Nel 2010, anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale, secondo Unione Europea e Lisbona 2010, molti paesi del Vecchio Continente sono tornati a fare i conti con un fenomeno in crescita e mai completamente debellato, difficilmente definibile con un unico indicatore comune dal punto di vista statistico. Il nostro Paese, inoltre, è uno dei pochi a essere privo di interventi di integrazione dei redditi, salvo la cassa integrazione, il principale ammortizzatore sociale a cui si è ampiamente ricorso, dove possibile, durante la crisi. Da 500 a 1.000 euro al mese – In base agli ultimi dati disponibili (2007) il 14% delle famiglie meridionali vive con meno di 1.000 euro al mese, un dato quasi tre volte superiore all’altra ripartizione (5,5%). Nemmeno una famiglia su 4 al Sud guadagna più di 3mila euro al mese, mentre al Centro-Nord la percentuale è del 42%. I più ricchi in Abruzzo (28,4%) e Puglia (28,1%), i più poveri in Sicilia (solo il 19%). A livello regionale, ad avere un reddito massimo di 12mila euro l’anno sono oltre il 17% delle famiglie calabresi e lucane, oltre il 16% delle molisane e siciliane, oltre il 14% le campane, quasi l’11% delle pugliesi. Vivono poi con meno di 500 euro al mese oltre il 3% delle famiglie meridionali, contro lo 0,9% del Centro-Nord. In testa alla classifica la Calabria, con 4 famiglie su 100, seguita da Campania e Sicilia (3,7%), Basilicata (3,1%), Molise (2,9%), Puglia (2,2%), Sardegna (1,5%), Abruzzo (1,4%). Fatto pari a 1 il reddito medio nazionale, il Sud si ferma al 77%, contro il 112% del centro-Nord, con punte del 71% in Calabria e Sicilia, che arrivano a poco più della metà nelle coppie senza figli calabresi, con la moglie under 64 anni, e tra gli autonomi. Da notare che al Sud i pensionati sono più ricchi dei lavoratori autonomi (82% contro il 68%), con punte basse in Calabria (76 contro 58), Sicilia (80 contro 65), Campania (82 contro 64). Studiare, in più, paga sempre: i laureati al Sud arrivano a un reddito pari all’89% del nazionale, 10 punti in più di chi ha solo la licenza elementare. In valori assoluti, nel 2007 il reddito mediano è stato al Centro Nord di 21.066 euro, al Sud quasi 6.500 euro in meno, 14.500, con forti differenze regionali: i più ricchi in Sardegna (17.101 euro) e Abruzzo (16.820), i più poveri in Calabria (13.350 euro). Un unico stipendio e più familiari a carico - Nel 47% delle famiglie meridionali vi è un unico stipendio, addirittura il 54% in Sicilia. Hanno inoltre a carico tre o più familiari il 12% delle famiglie meridionali, un dato quattro volte superiore al Centro-Nord (3,7%), che arriva al 16,5% in Campania. In oltre il 30% delle famiglie meridionali con un unico percettore di reddito un solo stipendio deve sfamare almeno 2 familiari a carico, in oltre il 17% dei casi più di tre. Anche la disoccupazione si fa sentire particolarmente: nelle famiglie del Sud è presente un disoccupato nel 12% dei casi, più del doppio dell’altra ripartizione (5,7%), con la punta del 15% in Calabria. Il 4,4% delle famiglie sarde ha due o più disoccupati a carico. Riguardo al titolo di studio, in oltre il 32% delle famiglie meridionali lo stipendio principale è portato a casa da chi è in possesso di licenza elementare, o nessuno, una quota superiore di quasi 8 punti rispetto al Centro-Nord, mentre solo nel 10,6% delle famiglie meridionali è laureato. 24 Il rischio resta anche con due stipendi - A rischio povertà a causa di un reddito troppo basso quasi un meridionale su 3, contro 1 su 10 al Centro-Nord. In valori assoluti, al Sud, si tratta di 6 milioni 838mila persone, fra cui 889mila lavoratori dipendenti e 760mila pensionati. Riguardo al titolo di studio, oltre 1 milione 100mila ha un livello medio-alto, con 122mila laureati. Quasi 2,5 milioni ha un’età compresa tra i 25 e i 49 anni. A livello di composizione familiare le più colpite dal rischio sono i single con figli a carico, ben il 47,5% del totale, e il 42% degli anziani soli. Anche i monoreddito non se la passano bene: il 46% delle famiglie meridionali è a rischio povertà contro il 24% del Centro-Nord. Da segnalare che non sempre, al Sud, uno stipendio in più oltre a quello base modifica la situazione: in quasi una famiglia su 4 (23,9%) con due redditi il rischio rimane. Se è poi presente anche un disoccupato, il rischio aumenta: al Sud il 48% delle famiglie con un disoccupato è a rischio, contro meno della metà nell’altra ripartizione (23,2%). Quando non si possono comprare vestiti, riscaldamento, medicine – La povertà morde particolarmente nelle piccole scelte quotidiane: nel 2008 nel 30% delle famiglie al Sud sono mancati i soldi per vestiti necessari e nel 16,7% dei casi si sono pagate in ritardo bollette di luce, acqua e gas. Otto famiglie su cento hanno tirato la cinghia rinunciando ad alimentari necessari (il 12% in Basilicata), il 21% non ha avuto soldi per il riscaldamento (27,5% in Sicilia) e il 20% per andare dal medico (il 25,3% in Campania e il 24,8% in Sicilia). Nel 2008 è arrivato con difficoltà a fine mese oltre una famiglia su 4 (25,9%) contro il 13,2% del Centro-Nord. Ben il 44% delle famiglie meridionali, quasi una famiglia su due, non ha potuto sostenere una spesa imprevista di 750 euro (26% al Centro-Nord). Crisi, welfare e povertà – Nel 2009 in Italia hanno perso il lavoro per la crisi 380mila persone. Di queste, 194mila al Sud (145mila uomini e 49mila donne). Su 194mila, ben 125mila erano giovani tra i 15 e i 29 anni. La dinamica aggrava un contesto in cui il tasso di attività femminile e giovanile è già bassissimo. Incrociando i dati della Cassa integrazione e delle forze lavoro risulta che su 186 posti di lavoro persi al Nord, gli interventi di CIG hanno interessato 438mila persone, mentre al Sud su oltre 200mila occupati in meno le misure utilizzate sono state di appena 96mila unità. In altri termini, al Nord per ogni persona che perde il lavoro, 2 sono protette; al Sud è l’opposto, solo un lavoratore su 3 ottiene la CIG. La bomba sociale è devastante: molti lavoratori precari, perso il lavoro, al Sud, non sono stati minimamente tutelati. Cosa dice la SVIMEZ – La crisi ha evidenziato la distanza tra soggetti tutelati e lavoratori precari privi di garanzie, una polarizzazione che si riflette anche a livello territoriale, tra Nord e Sud, dove sono numerose le famiglie monoreddito. Senza un recupero dei tassi di attività giovanili e femminili il rischio di povertà è destinato a crescere nel tempo. Serve una riforma del welfare che introduca misure individuali e soggettive a tutela dei lavoratori espulsi dal ciclo produttivo, indipendentemente dal settore, dimensione e tipologia di imprese. Il bonus famiglie varato dal Governo va nella giusta direzione, ma è di importo troppo limitato per incidere sulle condizioni di vita; avrebbe bisogno di più risorse e di misure di armonizzazione all’imposta personale sui redditi. In questo senso la riforma del welfare, oltre a un elemento di equità generazionale, consisterebbe di attuare la più importante politica meridionalistica. 25 POPOLAZIONE, SCUOLA E MERCATO DEL LAVORO, MIGRAZIONI Sessanta milioni di italiani – Alla fine del 2009 la popolazione italiana residente ha consolidato il superamento della soglia dei 60 milioni di abitanti, concentrati per quasi il 66% al Centro- Nord. Il Mezzogiorno a fine 2009 ha superato i 20,8 milioni. Resta un’area più giovane, con un’età media di 41 anni rispetto ai 44 del Centro-Nord. Natalità e mortalità – Nel 2008 il numero medio di figli per donna è stato 1,34 nel Mezzogiorno e 1,42 nel Centro-Nord. È dal 2006 che le donne del Centro-Nord fanno più figli delle donne del Sud. Tra le regioni a più bassa fertilità la Sardegna, il Molise e la Basilicata. Da notare che al Centro-Nord più di un nato su 5 nel 2008 ha la madre straniera, mentre nel Sud soltanto 1 su 20. L’età media della maternità è stata nel 2008 di 32 anni al Centro-Nord contro i 30,7 del Sud. Nel 2009 il Centro-Nord ha registrato un tasso di natalità leggermente superiore a quello del Sud: 9,5‰ contro 9,4‰. Campania e Sicilia hanno mantenuto natalità elevate, intorno al 10 per mille, come Valle d’Aosta, Lombardia e Trentino Alto Adige. Per quanto riguarda la mortalità, la media meridionale nel 2009 è stata dell’9,2‰, mentre al Centro-Nord il 10,1‰. Nel 2009 soltanto due regioni meridionali su otto, Campania e Puglia, hanno evidenziato un incremento naturale positivo. La speranza media di vita nel 2009 è stata per le donne di 83,6 anni nel Mezzogiorno e 84,4 anni al Centro-Nord. Le donne più longeve nelle Marche, con 85,4 anni, le meno longeve in Campania e Calabria (83). Per gli uomini la speranza media è al Centro-Nord di 79,2 anni, al Sud di 78,3. Gli uomini più longevi nelle Marche (80 anni), i meno in Campania (77). Figli e matrimoni – Resiste al Sud la tendenza a contrarre matrimonio a un’età media relativamente più giovane rispetto al Centro-Nord. L’età media degli sposi meridionali nel 2008 è stata di 32 anni per gli uomini e di 29 anni per le donne, in aumento rispetto a dieci anni prima, quando sia gli uomini che le donne si sposavano mediamente prima dei trent’anni. Al Sud 3 matrimoni su 4 sono ancora celebrati secondo rito religioso ed è minoritaria rispetto al Centro-Nord la percentuale di matrimoni con un coniuge straniero. Mercato del lavoro: il Sud torna indietro di dieci anni – Nel 2009 gli occupati in Italia sono stati 23 milioni e 25mila unità, 380mila in meno rispetto al 2008. Il tasso di occupazione nella media del 2009 è sceso di quasi un punto percentuale rispetto al 2008, da 58,7% a 57,5%. Su 380mila posti di lavoro in meno in tutto il Paese, 186 mila sono stati al Centro-Nord (- 1,1%). Situazione più pesante nel Mezzogiorno, con 194mila unità in meno (-3%). Se si analizzano gli andamenti trimestrali dell’occupazione, emerge che la crisi è iniziata prima al Sud e lì sembra durare più a lungo. Gli occupati al Sud sono quindi tornati ai livelli di dieci anni fa. Dei circa 530mila posti di lavoro persi nell’ultimo anno e mezzo, 335mila sono al Sud. Crescono gli inattivi, più dei disoccupati – Dopo una riduzione di 110mila unità nel 2008, nel 2009 gli inattivi in età lavorativa sono cresciuti di 329mila unità (+2,3%), in termini assoluti un incremento superiore a quello registrato dai disoccupati. 26 Mercato del lavoro regionale – Nel 2009 tutte le regioni meridionali sono state interessate da difficoltà occupazionali. Perdite più consistenti in Abruzzo (-4,6%, pari a 23.800 posti di lavoro in meno), Campania (-4,1%, pari a 68.700 posti di lavoro in meno) e Puglia (- 3,8%, 49.200 unità in meno). In linea con il calo del 3% degli occupati meridionali il Molise (-3,1%, meno 3.600 posti) e la Sardegna (-3%, meno 18.600 posti di lavoro). Cifre più contenute, pur se negative, in Basilicata (-2,7%, pari a 5.200 posti di lavoro), Calabria (- 1,5%, 9.100 posti) e Sicilia (-1,1%, 15.700 posti di lavoro). Occupati e settori – La domanda di lavoro in agricoltura continua a scendere, soprattutto al Sud (-5,8% contro il +0,9% del Centro-Nord). In calo anche l’industria, che segna -6,3% al Sud e -2,7% nell’altra ripartizione. La dinamica dell’occupazione industriale è sensibilmente negativa in tutte le regioni del Sud, particolarmente in Sicilia (-8,4%), Campania (-7,2%) e Puglia (-7,3%), con l’eccezione della Calabria (+0,4%). Giù anche i servizi, con un calo dell’1,6%, ben più marcato che nell’altra ripartizione (-0,4%). In valori assoluti, il Sud ha perso nel 2009 25mila unità nel settore agricolo (+4.300 al Centro- Nord), 94mila nell’industria (-145mila nell’altra ripartizione) e 74.300 unità nei servizi (- 44.700 nel Centro-Nord). Occupati e contratti – Nel Sud nel 2009 i dipendenti sono calati del 2,9%, pari a 138mila unità, gli autonomi del 3,2% (-55mila occupati). In Italia gli atipici nel 2009 sono scesi del 4,1%, ma nel Sud il calo è stato più forte, pari a -5,6%, cioè 82mila unità. In picchiata tra gli atipici i contratti a termine, -7%, mentre i contratti part time scendono del 3,7%, pari a 30mila unità in meno. Da segnalare che nel Sud il contratto atipico viene spesso usato non come tipologia più flessibile nell’accesso al primo lavoro, ma in sostituzione di contratti standard, trasformandosi così da strumento di flessibilità in trappola di precarietà. In forte calo al Sud anche le collaborazioni coordinate continuative (-11,7%, pari a 10mila unità). Disoccupati, giovani, impliciti e non – Nel 2009 il tasso di disoccupazione nazionale è salito al 7,8% rispetto al 6,7% del 2008: 12,5% al Sud, 5,9% al Centro-Nord. I disoccupati sono aumentati più al Centro-Nord (+29,9%) che al Sud (+1,4%). In testa alla non invidiabile classifica, la Sicilia (13,9%), seguita dalla Sardegna (13,3%) e dalla Campania (12,9%). In valori assoluti i disoccupati sono aumentati di 12.500 unità nel Mezzogiorno, di cui 10.400 in Puglia (+6,2%). Nella classe di età 15-24 anni nel 2009 la disoccupazione è arrivata in Italia al 25,4%, quattro punti in più del 2008. A livello territoriale, arriva al 20,1% al Centro-Nord (+5,6% rispetto al 2008) e al 36% al Sud (dal 33,6% del 2008).Qui crescono anche i disoccupati di lunga durata (sono il 6,6%del totale, erano il 6,4% nel 2008). All’Italia spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione giovanile più alto in Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Dal 2004 al 2009 il Sud ha perso 143mila unità, pari a -2,2%, percentuale che sale a -15,2% nella classe di età 15-35 anni. Nel solo 2009 gli occupati al Sud dai 15 ai 24 anni crollano del -13,2%, -7,7% dai 25 ai 31 anni, mentre si mantengono stabili dai 45 ai 54 anni (+0,2%) e addirittura crescono in età avanzata, over 55, + 3,6%. Cali più contenuti dell’occupazione giovanile al Nord (-10,8% tra 15 e 24 anni, -5,8% tra 25 e 34). Da confronto con dati Ue 2008 emerge il divario nel tasso di 27 occupazione di 13 punti percentuali (24,4% contro 37,5%) che sale al 20 se si considera il Mezzogiorno (17%). Disoccupati impliciti ed espliciti - Inoltre il tasso di disoccupazione rileva una realtà in parte alterata. Nel 2009 la disoccupazione è aumentata 30 volte di più al Centro-Nord rispetto al Sud, +29,9% a fronte di +1,4%. Come già rilevato nel Rapporto SVIMEZ dello scorso anno, al Sud continua a crescere la zona grigia della disoccupazione, che raggruppa scoraggiati (persone che non cercano lavoro ma si dicono disponibili a lavorare), disoccupati impliciti e lavoratori potenziali. Considerando questa componente, il tasso di disoccupazione effettivo del Sud salirebbe nel 2009 a sfiorare il 23,9% (era stimato nel 22,5% nel 2008). Con forti differenze regionali: in Campania arriverebbe al 25,2%, in Calabria al 25,3%, in Sicilia addirittura al 27,2%. Cifre diverse anche per il Centro-Nord: in Piemonte arriverebbe a sfiorare il 12% e in Lombardia al 9,5%. Migrazioni – Caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni. Oltre a questa mobilità unidirezionale, altrettanto tipicamente italiano è la presenza, accanto a trasferimenti permanenti di residenza anagrafica, di trasferimenti “temporanei”, i cosiddetti pendolari di lungo raggio, che fisicamente lavorano e vivono per buona parte della settimana al Centro-Nord, ma che mantengono casa e famiglia al Sud. Migranti, pendolari e crisi – Nel 2009 114mila persone si sono trasferite dal Sud al Nord, 8mila in meno rispetto al 2008. In crescita invece i trasferimenti in direzione opposta, da Nord a Sud, arrivati nel 2009 a 55mila unità (erano 50mila l’anno precedente). Tra il 1990 e il 2009 circa 2 milioni 385mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno. La vera America, per i meridionali, resta il Centro-Nord, dove si dirigono 9 emigranti su 10. Solo 1 su dieci si trasferisce all’estero: in valori assoluti, dal 1996 al 2007, parliamo di 242mila persone, di cui oltre 13mila laureati. In testa alle preferenze la Germania, che attrae oltre un terzo degli emigranti verso l’estero, per il 20% laureati; seguono Svizzera e Regno Unito. Riguardo alla provenienza, in testa per partenze la Campania (38mila nel 2007), seguita da Sicilia (26.200) e Puglia (21.300). La regione più attrattiva per il Mezzogiorno resta la Lombardia, che ha attratto nel 2007 quasi un migrante su quattro, pari a quasi 29mila persone, seguita dall’Emilia Romagna, con 22mila unità in più. In Abruzzo e Molise la prima regione di destinazione resta il Lazio, mentre per la Campania è l’Emilia Romagna. I migranti sono soprattutto uomini, anche se il Lazio è una regione che attrae più donne. Riguardo al titolo di studio, i laureati sono il 17,5%, e la regione che ne attrae di più è il Lazio (25%). L’emigrante tipo ha 31 anni in media: i più giovani, under 30, si dirigono in Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, mentre l’età media di chi si trasferisce nel Lazio è di 33,8 anni. A livello di aree urbane, dal 2001 al 2007 Roma ha intercettato 43mila meridionali, Milano 32mila, Bologna 21mila, Reggio Emilia 9mila, Bergamo 8mila, Verona e Firenze 7mila. 28 A trasferirsi al Centro Nord sono soprattutto napoletani (quasi 75mila), palermitani (21mila) e baresi (oltre 10mila). Perdite forti anche a Caserta (quasi 10mila) e Foggia (oltre 7mila). Taranto perde circa 8.500 persone, Torre del Greco 13mila, Nola e Aversa 8mila. Riguardo al titolo di studio, la Campania perde nel periodo in questione 18mila laureati (quasi 8mila a Napoli) e la Puglia 15mila (2.200 a Bari, quasi 2mila a Taranto). La crisi ha colpito duro i pendolari, generalmente giovani, laureati e precari. Nel 2009 sono stati 147mila, in calo del 14,8% rispetto al 2008, pari a 26mila unità. Oltre 60mila sono campani, 36.500 i pugliesi, 35mila i siciliani. A seguire, abruzzesi (19mila), calabresi (16.800), lucani (14mila) e molisani (8.300). È un’emigrazione diversa dagli anni 60: il trolley e il pc al posto della valigia di cartone, molti con la laurea in tasca, e moltissime donne. I posti di lavoro disponibili nel Mezzogiorno sono in numero assai inferiore a quello degli occupati; il sistema produttivo arretrato non è in grado di richiedere e assorbire il personale ad alta qualificazione che sfornano le Università e non solo. Sono giovani e con un livello di studio medio-alto: il 75% ha meno di 45 anni e quasi il 50% svolge professioni di livello elevato. Oltre il 26% è laureato e quasi il 43% lavora da meno di tre anni. Non lasciano la residenza generalmente perché non lo giustificherebbe né il costo della vita nelle aree urbane né un contratto di lavoro a tempo. Sono soprattutto maschi (76%), singles (50%), dipendenti (90%) full time in una fase transitoria della loro vita, come l’ingresso o l’assestamento nel mercato del lavoro. A livello regionale, l’identikit del pendolare cambia leggermente: l’84% dei pendolari in Trentino Alto Adige opera nei servizi, mentre chi vuole lavorare nell’industria si dirige in Emilia Romagna, Umbria o va all’estero (22%). Il Lazio assorbe molti laureati, mentre Veneto, Friuli e Marche molti pendolari privi di titolo di studio o con licenza elementare. La maggior parte dei pendolari in Valle d’Aosta è donna e svolge lavoro dipendente, mentre chi va all’estero è soprattutto uomo (89%). I lavoratori autonomi preferiscono Lazio e Marche. I pendolari part time si concentrano in Umbria (13,8%). Scuole, atenei e abbandoni scolastici – Negli anni 2000 il Mezzogiorno ha aumentato di 8 punti il tasso di scolarizzazione superiore, dall’86 al 94%, arrivando a superare il Centro-Nord, stabile al 92%. Nel 2009 77 diciannovenni meridionali su 100 erano diplomati, contro i 72 del Centro-Nord. Resta comunque lontano per entrambi l’obiettivo di Lisbona 2010, con l’85% di diplomati in rapporto alla popolazione. I tassi di abbandono scolastico rimangono più alti al Sud: 13 su 100 lasciano dopo il primo anno di scuola superiore contro il 10 del Centro-Nord. A pesare, le condizioni di degrado sociale e familiare. Università – Dal 2000 al 2008 il tasso di passaggio all’università al Sud, come al Nord, è rimasto stabile (dal 62,6 al 62,4): prima ha toccato picchi di oltre il 72% nel 2002, poi è sceso gradualmente, tornando ai livelli di dieci anni fa. Tra il 2000 e il 2005 i laureati sono raddoppiati, passando al Sud da 54mila a 113mila. In forte crescita anche i laureati in materie scientifiche, saliti al Sud dal 4,2 per mille abitanti del 2000 a 8,2 del 2008. Non solo numeri: studio e qualità – Nonostante i buoni risultati conseguiti, pesa al Sud il divario di qualità della formazione. In base a elaborazioni su dati della Prova nazionale svolta nel 2009 all’esame di stato di terza media emerge che i ragazzi del Nord che hanno competenze superiori in italiano sono il 28% contro il 25,7% del Sud, e in matematica il 29 18,7% contro il 16,2%. Da segnalare che in Molise i dati sono superiori alla media nazionale (rispettivamente 28,5% e 18,3% a fronte di dati medi del 27% e 17,5%). Chi lavora, chi cerca il lavoro e chi no. Anche al Nord – Nel 2009 i giovani italiani Neet (Not in education, employment or training), cioè che non studiano, non lavorano, né lo cercano, sono aumentati del 6,6% rispetto al 2008, sforando quota 2 milioni. Di questi, 1,2 milioni sono al Sud e 850mila al Centro-Nord. Da segnalare che in questo senso il Nord si sta meridionalizzando: qui gli inattivi sono aumentati dell’81% dal 2005 al 2009. Spina nel fianco, le donne: nel 2009 1 ragazza su tre (15-29 anni) al Sud non ha lavorato né studiato. Pesa ancora un modello familiare con un unico stipendio in famiglia e il ruolo sociale della donna, confinata tra le mura domestiche. Dal 2004 al 2009 il Sud ha perso 143mila occupati, pari a -2,2%, percentuale che sale a - 15,2% nella classe di età 15-35 anni. Nel solo 2009 gli occupati al Sud dai 15 ai 24 anni crollano del 13,2%, -7,7% dai 25 ai 34 anni, mentre si mantengono stabili dai 45 ai 54 anni (+0,2%) e addirittura crescono in età avanzata, over 55, + 3,6%. Cali più contenuti dell’occupazione giovanile al Nord (-10,8% tra 15 e 24 anni, -5,8% tra 25 e 31). Dal confronto con dati Ue 2008 emerge il divario nel tasso di occupazione di 13 punti percentuali (24,4% contro 37,5%) che sale al 20 se si considera il Mezzogiorno (17%). Resta forte, anche nel 2009, la differenza nel tasso di attività tra le due ripartizioni: 40,8% al Sud contro 52,8% al Centro-Nord. Stacco ancora più forte nelle classi di età più giovani: al Nord il tasso è dell’84% in età 25-31 contro il 60% del Sud. In altri termini, nel 2009 al Centro-Nord sono attivi 84 giovani su 100 in età 25-34 anni, mentre al Sud solo 60. Divario forte anche nel tasso di disoccupazione: 12,5% al Sud, più del doppio del Centro- Nord (5,9%). A livello di classi di età al Sud rimangono percentuali a due cifre fino ai 44 anni. Il tasso di disoccupazione è del 36% nei 15-24enni, 18% tra 25 e 34 anni, ancora del 10% tra i 35 e 44 anni (mentre al Centro-Nord è del 4,8%). Giovani, welfare e crisi - L’impatto della crisi si è fatto sentire su tutti i lavoratori, indipendentemente dal titolo di studio. La differenza dei tassi di occupazione tra le due ripartizioni resta nell’ordine dei 20-30 punti percentuali nelle varie classi di età. Critica la situazione al Sud soprattutto degli occupati con titolo alto. Nel 2009 il tasso di occupazione di laureati 25-34enni è stato del 53% contro il 75% del Centro-Nord. Solo in età adulta, oltre i 40 anni, il tasso di occupazione dei laureati si allinea tra le due ripartizioni: 90,3% al Sud, 92% al Centro-Nord in età 45-54 anni. Cosa dice la SVIMEZ – Nel Mezzogiorno le debolezze della rete formativa italiana si associano ad un contesto produttivo debole e ad un sistema sociale sostanzialmente bloccato, impedendo così ai progressi quantitativi realizzati nei tassi di istruzione di tradursi in sviluppo economico e civile. Le misure di policy volte ad incrementare l’offerta di competenze da parte dei nuovi entranti sul mercato del lavoro hanno finito per incrementare in questi anni il livello di educational mismatch, tra qualità dell’offerta di lavoro e competenze richieste dalle imprese. La crisi si sta scaricando sulle generazioni ancora in cerca di lavoro, che in questo modo ritardano molte decisioni individuali e sociali legate alla crescita personale. Permane un profondo senso di scoraggiamento tra i giovani, che spiega, da un lato, la sfiducia verso la possibilità di iscriversi all’Università per trovare un lavoro adeguato dopo la laurea, dall’altro i rientri di emigranti e pendolari dal Centro-Nord, che ritornano sconfitti, in attesa di ripartire. 30 LE POLITICHE CONTRO LA CRIMINALITA’ Criminalità organizzata e crisi – I numerosi arresti di esponenti mafiosi compiuti nel periodo più recente hanno forse portato a un eccesso di ottimismo, quasi che la criminalità organizzata stesse per essere definitivamente sconfitta. In realtà, i pur brillanti risultati hanno aperto una fase di transizione alla ricerca di nuove leadership, che non ha al momento determinato un indebolimento nel controllo della mafia sul territorio. La Mafia Spa è un settore che non conosce crisi. Le organizzazioni criminali, veloci e attente ad adeguare il proprio core business ai cambiamenti esterni, oltre ad essere radicate nei territori meridionali d’origine, si vanno sempre più diffondendo in numerose altre regioni italiane, in cui attuano attività economiche diverse. Quello della presenza mafiosa è l’unico divario territoriale Sud-Nord che nel tempo si sta colmando. Non a caso, la crisi ha portato le organizzazioni criminali a potenziare la pratica dei prestiti alle aziende a tassi usurari. Il giro d’affari nel 2009 è stato di 56 miliardi di euro. In base a dati Svimez, 500mila sono i commercianti colpiti da truffe, 200mila da usura, 160mila da racket, 90mila da furti e 15mila da contrabbando. Al vertice del bilancio mafioso resta il traffico di stupefacenti (60 miliardi di euro), le ecomafie (16) e l’usura (15). Gli arresti eccellenti e le misure restrittive messe in atto dal Governo contro la criminalità hanno dato uno scossone, ma non hanno determinato il crollo. In questo periodo di transizione si stanno inserendo nuove professionalità mafiose e continua la pratica del consenso e della mediazione per condizionare appalti e opere pubbliche. Cosa Nostra - La mafia siciliana, dopo gli arresti eccellenti degli ultimi anni, sta vivendo una fase di assestamento e riorganizzazione interna che trasmette all’esterno un atteggiamento meno violento e più mimetico. Essa sta però mostrando una grande capacità di mantenere intatta la sua vitalità e pericolosità. L’andamento del reati in Sicilia dal 2007 al 2009 rileva una flessione generale, nei reati associativi (da 25 a 7), nell’usura (da 22 a 12), nel riciclaggio (49 episodi segnalati). In calo anche le denunce per estorsione, danneggiamento, incendio. La ‘ndrangheta - Radicata in Calabria, ma ormai presente in tutto il mondo, è ormai diventata leader nel traffico mondiale di droghe, ma forte anche nella gestione degli appalti. Da segnalare nel 2009, rispetto al 2007, accanto a una generale flessione delle denunce dei reati in Calabria, la crescita di usura e riciclaggio. Forte la sua presenza in Lombardia, con la gestione di attività operanti nel settore dell’edilizia, delle forniture alimentari, dell’abbigliamento e della ristorazione. Sacra Corona Unita - Fortemente ridimensionata dall’azione di contrasto operata dalle Forze dell’ordine negli ultimi anni, la “Sacra Corona Unita” resta concentrata nel traffico di stupefacenti, estorsioni, speculazione edilizia, usura. La camorra - “Specializzata” in traffico di stupefacenti, estorsioni, racket, gioco d’azzardo e usura, negli ultimi anni la camorra ha visto crescere il core business soprattutto nell’offerta di servizi alle imprese, approfittando anche della domanda di abbattimento dei costi da parte di imprese legali. Con lo smaltimento illegale dei rifiuti, le fatturazioni “truccate”, l’espulsione di imprese “non gradite” nella gestione di impianti, la camorra influenza in modo determinante l’economia campana. 31 Agricoltura e criminalità – La presenza delle cosche nel settore agricolo investe l’intera filiera, con più di 150 reati al giorno, sei ogni ora, un agricoltore colpito su tre. Da segnalare, tra truffe, usura, abigeato, danneggiamenti alle colture, l’imposizione del pizzo “indiretto”: non più una riscossione in denaro, ma l’obbligo di utilizzare determinate imprese di pulizie, ditte di trasporto, di imballaggio, non solo al Sud, ma anche per tutte le imprese che vogliono esportare prodotti agricoli nell’area. In testa, le imprese di trasporto, pressoché totalmente in mano alla camorra, che provocano uno strangolamento dei prezzi per il produttore agricolo, e un aumento per il consumatore finale totalmente immotivato. I beni confiscati – Con la legge 50/2010 è stata istituita l’Agenzia nazionale dei Beni confiscati alla mafia, con l’obiettivo di superare le criticità nella gestione dei patrimoni sequestrati e di semplificare le procedure di assegnazione. Su 8.933 beni immobili confiscati dal 1992 al luglio 2009, i destinati sono 5.407, pari al 60,5% del totale, di cui l’86% agli Enti locali per finalità sociali. Sul totale, ben 7.559, pari all’83%, si trovano nel Mezzogiorno: il 46% in Sicilia (4.075), il 15% in Campania (1.323), il 14% in Calabria (1.300), l’8% in Puglia (722). Le aziende confiscate sono, al giugno 2009, 1.185, di cui solo il 32% è stato destinato (388), con punte del 68% nel Lazio e del 23% in Campania e Calabria. La maggior parte delle confische in Sicilia (452), seguita da Campania (227) e Lombardia (164). Le difficoltà a cui vanno incontro le aziende sequestrate sono la scarsa fiducia di cui godono presso gli istituti bancari e un carico burocratico aggiuntivo. Dei beni consegnati ai Comuni, il 52% è inutilizzato, per ipoteche, occupazioni abusive, carenza di risorse per la riconversione. 32 MEDITERRANEO E TURISMO Crisi, Mediterraneo e Mezzogiorno – L’impatto della crisi finanziaria iniziato nel 2008 si è avuto soprattutto sulle maggiori economie mondiali. Nel Rapporto dello scorso anno avevamo rilevato la maggiore tenuta dei paesi mediterranei, attraverso l’esame degli andamenti borsistici e del Pil. La tendenza si conferma anche quest’anno: a differenza dell’Unione e dell’area balcanica, il Pil dei paesi mediterranei nel 2009 registra tutti segni positivi, dal +0,7% di Israele a +2% di Algeria, +2,8% di Albania e Giordania, + 4,7% dell’Egitto, +5,2% del Marocco, fino al +9% del Libano. Segni positivi anche in base alle proiezioni per il 2010 e 2011, con valori nell’area compresi tra il 3 e il 6%. Sud ed export – Nel 2009 il calo dell’export si è fatto sentire pesantemente anche verso i paesi mediterranei, con -17,2% rispetto all’anno precedente, dato che crolla del 31,8% nel Mezzogiorno. La pesante ricaduta dello scorso anno arriva dopo un decennio di incrementi a due cifre, fino al +30,9% registrato nel 2008, a testimonianza di un trend di relazioni commerciali importanti: a livello nazionale, infatti 1 euro su 3 delle nostre esportazioni viene venduto nel Mediterraneo, mentre il Mezzogiorno vende nel Mediterraneo non Ue circa il 10% dell’export totale, contro il 6% del Centro-Nord. Negli ultimi 15 anni, dal 1994 al 2009, l’integrazione di scambi commerciali con i paesi Med, a livello nazionale, è quasi raddoppiata: le esportazioni con la Libia sono passate dallo 0,4 al 0,8%, con la Turchia dall’1 all’1,9%, con la Tunisia dallo 0,5% al 0,9%; le importazioni con l’Algeria sono salite dallo 0,9 al 2%, con la Libia dal 2 al 3,4%, con la Turchia dallo 0,6 all’1,5%. Prodotti alimentari – Analizzando nello specifico gli scambi commerciali tra Italia e Mediterraneo nel 2009 di cinque prodotti alimentari (pomodori, olive e olio, cereali e riso, agrumi, pesci e crostacei) risultano invece relazioni molto ridotte: le importazioni di agrumi dal Medio Oriente del 3,9%, di riso e cereali dal Nord Africa per il 3,3% e di olive e olio del 15%. L’analisi porta alla conclusione che iniziative di rete tra associazioni di categoria, enti locali, università, anche tra le due sponde del Mediterraneo, potrebbero aiutare a migliorare la salvaguardia dei prodotti e la penetrazione di nuovi mercati. Il caso del Distretto della Pesca, nato a Mazara del Vallo nel 2005 e composto da 118 imprese che interagiscono nella trasformazione e commercializzazione dei prodotti, e dell’Osservatorio della Pesca nel Mediterraneo, a cui aderiscono anche molti paesi nordafricani e mediorientali, vanno in questa direzione di sviluppo economico attraverso dialogo e partecipazione. Il fatto che siano state introdotte tra gli aderenti al distretto tecniche di prelievo del prodotto meno invasive verso l’ambiente e rapporti di collaborazione che permettono ai pescherecci italiani di pescare nelle acque tunisine senza timore di sequestri apre nuove prospettive di crescita, in cui il Mezzogiorno può svolgere un ruolo prezioso. Il meccanismo potrebbe portare anche a sviluppare le esportazioni fuori dal Mediterraneo, dove si fatica a vendere gli stessi prodotti in assenza di una massa critica sufficiente. Turismo e Mediterraneo – Negli ultimi anni i Paesi mediterranei della Riva Sud hanno sviluppato una notevole attrazione turistica. Sugli oltre 1,1 miliardi di presenze nell’area nel 2008, il 62% ha visitato la Riva Nord, mentre il 38% quella Sud, con un aumento in 33 quest’area di 13 punti percentuali rispetto al 2000. La destinazione preferita nell’area, dopo la Spagna, è l’Egitto. Il gap diventa ancora più forte sul fronte dei turisti stranieri: su 100 visitatori nel Mediterraneo, solo il 10% va nel Mezzogiorno, contro il 40% della Spagna. Il Mezzogiorno non riesce ad esercitare sui turisti italiani e stranieri una forte capacità attrattiva, a causa di critiche difficoltà strutturali. Il turismo è soprattutto domestico, di prossimità. Nonostante le condizioni climatiche consentano di estendere la stagione a dodici mesi l’anno, di fatto oltre il 70% delle presenze si concentra nel periodo giugno-settembre. Se si confronta la situazione del Mezzogiorno rispetto alle regioni mediterranee di alcuni paesi della Riva Nord (Spagna, Francia, Grecia e Croazia) per i quali sono disponibili dati sufficientemente omogenei, si rileva come, nonostante un capitale turistico di grande pregio, certamente non inferiore a quello degli altri paesi mediterranei, l’area meridionale attrae solo il 19,2% delle presenze complessive delle regioni considerate. La quota scende addirittura al 10,1% per le presenze straniere, rispetto al 39,6% della Spagna mediterranea, al 23,9% della Grecia e al 14,7% della Croazia, che ha meno della metà di superficie territoriale rispetto al Mezzogiorno. La concorrenza con gli altri paesi mediterranei va combattuta non tanto con la predisposizione di progetti locali definiti teoricamente dalle istituzioni, che poi non trovano riscontro reale nell’attività degli operatori. Occorrerebbe, invece, finalmente, realizzare un grande progetto Southern Italy, recuperando un’idea di qualche anno fa, naufragata per la scarsa collaborazione tra le Regioni. La strategia di questo progetto non deve essere vista come la costruzione e valorizzazione di un marchio, ma come un quadro di riferimento e come una cabina di regia con la quale coordinare l’insieme delle attività turistiche, in modo che non si sovrappongano e possano determinare reciproco valore aggiunto. Cosa dice la SVIMEZ – Nella ritrovata centralità globale del Mediterraneo, ponte e cerniera tra i paesi del Far East in espansione e le economie occidentali, il Mezzogiorno rappresenta un luogo dove è possibile pensare una nuova integrazione economica e politica, fatta di percorsi di rafforzamento delle filiere produttive, condivisione di politiche comuni nel campo della ricerca, della formazione, del marketing di prodotto. Serve quindi una rinnovata azione politica in questa direzione, che veda l’Italia non più figlia debole dello scenario internazionale, ma paese di “frontiera”, che guidi come avanguardia il Mezzogiorno verso la crescita. 34 GREEN ECONOMY, INNOVAZIONE, RICERCA E SVILUPPO Green economy, fondi strutturali e Mezzogiorno – Energie rinnovabili ed efficienza energetica sono grandi opportunità per rilanciare la crescita, specie nel Mezzogiorno, grazie soprattutto a processi di riconversione industriale e alla produzione di nuovi beni in settori innovativi. Il ciclo di programmazione 2007-2013 destina alle energie rinnovabili, cuore della green economy, al settore dei trasporti e dei rifiuti poco più di 13 miliardi di euro, di cui circa 10 alle regioni della Convergenza: 7,4 ai trasporti, 2,8 all’energia e fonti rinnovabili, 617 milioni di euro ai rifiuti. In particolare, dei 4,7 miliardi di euro previsti dai POR delle Regioni Convergenza per i trasporti, 1,7 miliardi vanno alla Sicilia (403 milioni per trasporto urbano, 446 per ferrovie, 339 per i porti), 1,1 a Puglia e Campania, 482 milioni alla Calabria (di cui 104 di ferrovie e 126 di strade), 204 alla Sardegna, 146 alla Basilicata, 36 al Molise e 12 all’Abruzzo. Energia e imprese: un settore che non conosce crisi – Dal 2000 al 2008 la potenza degli impianti e l’elettricità prodotta con le rinnovabili al Sud è cresciuta in modo sbalorditivo. Nel periodo in questione la potenza è cresciuta del 108% nel Mezzogiorno e l’elettricità prodotta del 151%, staccando di 3 e 4 volte il dato nazionale (rispettivamente 31% e 15%). Quote ancora più grandi a livello regionale: la Sardegna e la Puglia aumentano la produzione di 5 volte, la Sicilia addirittura di 10. A scoraggiare però l’attrazione di altre industrie al Sud, locali o multinazionali, è la bassa qualità delle infrastrutture presenti, la rete elettrica arretrata e le interruzioni di servizio elettrico. Il caso dell’eolico off shore – A parte la terraferma, le migliori potenzialità di utilizzo dell’energia eolica vengono dai venti del mare. Il Mediterraneo, e il Mezzogiorno, godono di condizioni favorevoli soprattutto in Sardegna, Sicilia, Calabria e Puglia, con possibilità per l’intero Paese di arrivare a raggiungere il 10% della produzione elettrica totale dall’eolico (terrestre più off shore). Da segnalare il progetto di una centrale nel golfo di Manfredonia, una nelle acque di Lamezia Terme e un parco eolico al largo del Molise. Ricerca e sviluppo: Pil, occupati e brevetti – La situazione non è delle migliori: in base agli ultimi dati disponibili (2007) il Sud spende solo lo 0,87% del Pil in R&S contro l’1,28% del Centro-Nord, pure distante dal parametro del 3% stabilito dalla “Strategia di Lisbona” per il 2010. Anche la percentuale di occupati nel settore la dice lunga sulla scarsa capacità innovativa delle imprese meridionali: solo 1,86 ogni 1.000 abitanti contro il 4,4 del Centro- Nord. Debole anche l’attività brevettuale: solo 11 brevetti registrati per milione di abitanti contro gli 88 dell’altra ripartizione. Riguardo alle nuove tecnologie, nel 2009 la banda larga era diffusa nel 78% delle imprese meridionali, contro l’84% del Centro-Nord; il 49% delle imprese meridionali ha un proprio sito web, contro il 61% dell’altra ripartizione, mentre gli addetti che usano il pc sono al Sud solo il 22%, ben 11 punti in meno del Centro-Nord. Anche nella diffusione di internet nelle famiglie permane una differenza di 7 punti percentuali tra le due ripartizioni: 42% nel Mezzogiorno, 49% nel Centro-Nord. Laboratori pubblico-privati – Sono strutture in cui ricercatori e imprese industriali lavorano in stretta collaborazione, spaziando dall’ICT alla certificazione di nuove specie 35 vegetali. Nel Sud sono 26, concentrati in Campania (11), Puglia (7), Sicilia (4), Sardegna (3), Calabria (1). Tra il 2006 e il 2007 il MIUR li ha finanziati per oltre 211 milioni di euro, ma le erogazioni si sono fermate neanche al 15% dei contributi totali, pari a 31 milioni di euro. La più virtuosa la Campania, con oltre il 21% di contributi erogati, seguita dalla Sicilia (20%). Seguono la Sardegna, con l’8,4% delle risorse erogate, e la Puglia (7,5%). In Calabria l’unico laboratorio, attivo nell’ICT, finanziato con oltre 5 milioni di euro, non ha utilizzato alcun contributo. Distretti tecnologici – Nascono come evoluzione dei laboratori, frutto di progetti di sviluppo MIUR-Regioni: nel Mezzogiorno sono attivi 10 distretti tecnologici, 2 in Puglia e Calabria, 1 in Sicilia, Campania, Sardegna, Abruzzo, Molise, Basilicata. Il MIUR li ha finanziati con oltre 81 milioni di euro, ma lo scorso anno era stato erogato solo il 24% dei contributi. Con casi clamorosi: il distretto agroalimentare molisano, finanziato con oltre 1,4 miliardi di euro e il logistico calabrese (quasi 12 miliardi) non hanno utilizzato nemmeno un euro. Spin off: numeri, regioni, settori – Un fenomeno giovane, ma in crescita. L’89% delle aziende italiane nate su progetti innovativi ideati e studiati nelle Università, gli spin off, ha visto la luce tra il 2000 e il 2009. Delle 806 aziende attive in Italia a fine 2009 il 23% si trova al Sud, contro il 77% dell’altra ripartizione. A livello regionale, in testa l’Emilia Romagna, con 113 spin off, seguita da Lombardia (99) e Toscana (89). Il Mezzogiorno ospita 187 aziende, concentrate in Puglia (47, pari al 5,8% nazionale) e Sardegna (45). A seguire la Calabria (27), la Campania e la Sicilia (25), l’Abruzzo (11), la Basilicata (4). Fanalino di coda il Molise (3). A livello settoriale prevale l’ICT in entrambe le ripartizioni (218 aziende al Centro-Nord e 49 al Sud), seguito da energia e ambiente (92 e 40), life sciences, cioè biotecno-logie e farmaceutica (93 e 27), elettronica (60 e 21) e biomedicale (41 e 17). In termini relativi però il Sud supera il Nord riguardo ai settori dell’energia e ambiente, dell’elettronica, del biomedicale, delle nanotecnologie e dei beni culturali. Punto dolente, i finanziamenti. I contributi statali non superano i 500mila euro a progetto e gli imprenditori privati disposti a rischiare capitali in settori innovativi sono troppo pochi. Fra i pochi, al Mezzogiorno vanno solo le briciole: dal 2000 al 2008 gli investimenti privati realizzati facendo ricorso al venture capital e al private equity hanno interessato il Sud solo per il 3% del totale. Cosa dice la SVIMEZ – Il Mezzogiorno è l’area del Paese che ha più interesse a modificare il modello di sviluppo industriale nazionale. Il settore delle energie rinnovabili e del recupero edilizio, oltre alla valorizzazione del patrimonio paesaggistico meridionale, possono offrire importanti opportunità di crescita. Da un lato possono mettere a frutto i tanti giovani laureati altamente qualificati che non riescono ad essere assorbiti dal contesto produttivo; dall’altro, possono incrementare la competitività dell’area, elevando e stimolando la domanda di innovazione. Va in questo senso la proposta di promuovere rapporti di collaborazione tra imprese e centri di ricerca pubblici e privati, avendo cura di puntare soprattutto sui settori che permettano, a fronte di investimenti iniziali accessibili, ricadute positive su altri ambiti produttivi. Svimez 2010/07_Messaggio_Napolitano.PDF ' ì ' PI{OF. ADRIANQ GTANNOLA FI{ÉSIDENTE ASSOCI,AZIONE PER LO SVILUI'PO DELL'INDUSTRIA NEL MIIZZOCIORI.IO _ SVIMEZ VIA DI POITîA PINCIANA, 6 00187 ROMA TBLEGRAMMA LA PRESENÎAZIONE DELL'ANNUALE I{A}PORTO DELLA SVIMEZ SULL'ECONOMIA DEL IvIEZZOGIORNO FORNISCE UNA IMPORTANTII OCCASIONE DI AFPROFONDIMENî'O E DI CONIIRONTO, P,qRTICOLARIvÍENI'E UTILE IN UNA FASE ECONO'MICA COMPLESSA COME QUELLA ATTUALE. I,A CRISI CFIE FTA COLPITO I]UTTE LE AIIE;E DEL tsAESE NON HA RISPAI{MIATO LE SITUA2:IONI (iIA' DI I'ROFONDA D1FFICOLTA DEL MEZZOGIORNO CIIE RISCFIIANO DI IUSULI'AR}IE AGGRAVATE ANCHB IN PROSPETTTVA. L'OBMTTIVO DI IUDURR-E GLI EFFE"fTI DELLA CRISI FINA}IZIARI,A NEI. BREVE PERIODO E DIVBNUTO PRIOTUTARIO; IN PRESENZA DL tIN INI'I,UDIBILH VTNCOI.O DI CONTENIMEN'IO DEL DISAVANZO PUBBI,ICO SI E OPETLATC) UNO SITOSTAIvIENTO DI RISORSE DI C'uI I.IANNO SOFFERTO LE POLffICHE DI SVILUfPO COMÉ È ouuosrnn'ro DALLE RICADUTE sut euADRo STRATEGICO NAZIONALE 2007-20i3 AL QUALE soNo STATE SOîrRA1-[E INGENù DOTAZIOM E CHE REGIS'I'RA, A META DEL I5ERIOI}O DI PROGRAMMAZIONE, CRAVI IUTARDI. I RTSUI,TATI COMPLESSIVAÀ4ÉN'I'E INSUT-FICIEN'N DELLE POLI'I'ICI{E SEGUTTE IN PASSATO E I."{ PRESENUA DT SIQNIFICATTVE INEFFICIENZE RENDONO NECESSAR]O UN RIPENSAMENI'O E POSSONO AbíCFIE SPINGERE AI) UNA PROFONDA MODIFICA DELLE MODAI-ITA E t]tsLLO STESSO TMPIAN'TO STITATEGTCO DEGLI TNTEI{\GNTI DI SVÍLUPPO. MA E' UN FATTO CIIE IL MEZZOGIORNO PUO CONTRTBUIR-E, ATTRAVERSO LA PIÉNTA MESSA A FRU'TTO DELLE SUE RISORSE, ALLA RIPRSSA DI UN Pru' SOSTENUTO E STABILE fII.OCESSO TJI CR-ESCI'I'A DELL'ECONOMTA E DELLA SOCIEÎÀ. ITALTAhIA FONDAI'O ANCI{E SIJ UNA STRATEGTA DI LEALE E CON/INTA COLLABORAZIONE TRA LE REGIONI E LO STATO, II, RAfPORTO DELI,A SVII\,TEZ OTTFRE UN APPORTO MPORTANTE SIA ALL'ANALISI DEGLI ANDAMENTT FIU Iì-ECENTI, SIA ALL'APITITOFONDMENTO DEI PRINCIIIALI NODI DA AFFI(ONTAT! COME L'ATTUAZIONE DEL "FEDEIIALISMO FISCALE'" I-E P{}I-ITICFIE DI coEsIoNE DErr,L'LNIQNE EUROPEA, LA QUAUTA DEI SEI1VIZI PUBBLICI, LA FORMAZIONE ED ACCESSO AL LAVORO DEI CIOVAhI, TL RUQLO DEL SISTEMA ÈANCARIO. SONO CERTO C}IE IL DISATTITO SUL IìA}PORTO C}T.h, TN]ZIA OCCI, E LA CONT$JUAZIONE DEL LAVORO DI APPROFONDMENTO CONDOTTO DALLA SVR411Z CoNCOITRERANNo A RAFFoRZARE LA COI'{SAPEVA;LETJA DEL LEGAIVIE IbÍSCINDIBILE ÎI:LA' SV NUPPO D EI. MjEZLOGIORNO E COMPLE S SIVO RIIA}I C lO, DELL' EC ON OMIA TI'ALIANA. coN QLIESTE RtFL,EssIoNI INVro A LEI ED A Tul*fr r PARTECIPAI\TI ]L MIO SENTII'O AUGU}UO PER UNPROFICUO SVOLCIN{ENI'O DEl LAVORI- CIQRGIO NAPOLTTAÌ'IO {\., ,l(,"*r î | : 7 ) Ì ^ r ; , ti [,Pt.e.ro ur.l, h*g"C'ú?'"t A \-, k î-e- u, /4 tr-./\. (lf "rq +'Ls-ls zgltB 9?d vIZNf(lI:i lHd lt',10t53flF zerdE69F9B6[88 ' 'E :9 I tJ I f lZ, ; 79 151 SVIMEZ: Rapporto 2010 sull'economia del Mezzogiorno