Argomento:
Data:
16 Luglio 2009
Descrizione breve:
Lo SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, mette in luce le condizioni economico industriali del tanto dibattuto Mezzogiorno italiano.
Contenuto nascosto:
Svimez 2009/00_Comunicato stampa.pdf
Roma,16 luglio 2009
SVIMEZ, LA CRISI COLPISCE SOPRATTUTTO AL SUD
Un Mezzogiorno in recessione, colpito particolarmente dalla crisi nel
settore industriale, che da sette anni consecutivi cresce meno del Centro-
Nord, cosa mai avvenuta dal dopoguerra a oggi. Un’area periferica da cui si
continua a emigrare, dove crescono gli anziani ma non arrivano gli stranieri,
dove esistono le realtà economiche eccellenti ma non si trasformano in siste-
ma né si intercettano stabilmente investitori e turisti stranieri: questa la foto-
grafia che emerge dal Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 2009 in pre-
sentazione a Roma giovedì 16 luglio.
Nel 2008 il Pil del Sud è calato dell’1,1%, con una minima percentuale
di differenza rispetto al Centro-Nord (-1%). Il PIL per abitante è pari a
17.971 euro, il 59% del Centro-Nord (30.681 euro), con una riduzione però del
divario di oltre 2 punti percentuali dal 2000, dovuta solo alla riduzione relativa
della popolazione.
Un altro indicatore rende l’idea della situazione stagnante: nel 1951 nel Mez-
zogiorno veniva prodotto il 23,9% del Pil nazionale. Sessant’anni dopo, nel
2008, la quota è rimasta sostanzialmente immutata (23,8%). Dal 1951 al 2008
il Sud è cresciuto circa agli stessi ritmi del Centro-Nord, ma non è riuscito e non
riesce a recuperare il gap di sviluppo.
A livello regionale la Campania mostra nel 2008 una diminuzione del Pil
particolarmente elevata (-2,8%), mentre le altre regioni meridionali presentano
perdite più contenute. Meno colpita dalla crisi la Puglia (-0,2%).
A livello settoriale l’agricoltura meridionale ha tenuto molto più di industria e
servizi e ha invertito il trend negativo iniziato nel 2005. In particolare, molto posi-
tiva è stata la performance della Basilicata, con una crescita del prodotto agricolo
nel 2008 rispetto al 2007 di ben il 24%.
A fare le spese maggiori della crisi l’industria, con un calo del valore ag-
giunto industriale nel 2008 del 3,8%, mentre le produzioni manifatturiere hanno
segnato un calo di oltre il 6%. A tirare giù l’industria meridionale soprattutto mac-
chine e mezzi di trasporto (-10,5%), settore dei metalli e chimico-farmaceutico (-
7,1%). In controtendenza invece il settore energetico.
Perdita più contenuta nel settore dei servizi, dove, dopo quattro anni di forte
crescita, nel 2008 il Pil è sceso dello 0,3%, con un calo quasi del 3% nel com-
parto commercio.
Due le cause principali dell’andamento recessivo: investimenti che rallen-
tano, famiglie che non consumano. Queste ultime infatti hanno ridotto al Sud la
spesa dell’1,4% contro il calo dello 0,9% del Centro-Nord. Mentre gli investi-
menti industriali sono scesi del 2,1% annuo dal 2001 al 2008, tre volte tanto ri-
spetto al Centro-Nord (-0,6%), anche a seguito della riduzione o abolizione di al-
cune agevolazioni (credito d’imposta, legge 488).
IL MEZZOGIORNO CENERENTOLA D’EUROPA
Il quadro diventa sconsolante se confrontato con le dinamiche economiche
degli altri paesi europei. In dieci anni, dal 1995 al 2005, le regioni meridionali
sono sprofondate nella classifica europea, situandosi in posizione comprese tra
165 e 200 su un totale di 208.
Un processo in decisa controtendenza con le altre aree deboli Ue, che
sono cresciute mediamente del 3% annuo dal 1999 al 2005, mentre il Sud si è
fermato a +0,3%.
LA DISOCCUPAZIONE CRESCE DI PIU’ AL CENTRO-NORD
Nel 2008 il tasso di occupazione meridionale è sceso al 46,1%. Gli occu-
pati sono cresciuti al Centro-Nord di 217 mila unità, mentre sono scesi di 34
mila nel Mezzogiorno.
A livello regionale, risultati positivi per il terzo anno consecutivo per Mo-
lise (1,6%), Puglia (0,3%) e Abruzzo (3,2%). Crollano gli occupati soprattut-
to in Campania (-2,2%) e Calabria (-1,2%), mentre flessioni più contenute si
rilevano nelle Isole (-0,6% e –0,3% in Sicilia e Sardegna).
A livello di settori la domanda di lavoro in agricoltura continua a scen-
dere soprattutto al Sud (-2,8% contro il -1,5% del Centro-Nord). In calo anche
l’industria, che segna -2,4% al Sud (dopo il +2,9% del 2007) e -1,1% nell’altra
ripartizione. La dinamica dell’occupazione industriale è sensibilmente negativa
in tutte le regioni del Sud, con l’eccezione del Molise, dove cresce del 4% per
il forte boom del settore delle costruzioni (+16,4%) e della Sicilia, dove flette
soltanto dello 0,7% perché l’incremento delle costruzioni (2,7%) compensa in
larga parte la flessione dell’industria in senso stretto (-4,2%).
Positivo solo il terziario, che registra comunque un rallentamento rispetto
agli scorsi anni: +0,2% al Sud (era crescita zero nel 2007) e +0,7% al Centro-Nord
(+1,5% nel 2007).
Nel 2008 i disoccupati sono aumentati più al Centro-Nord (+15,3%)
che al Sud (+9,8%). Nella classe di età 15-24 anni la disoccupazione è arrivata al
14,5% al Centro-Nord e al 33,6% al Sud. Qui crescono anche i disoccupati di lun-
ga durata (sono il 6,4% del totale, erano il 5,9% nel 2007).
All’Italia spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione gio-
vanile più alto in Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Nel
2008 solo il 17% dei giovani meridionali in età 15-24anni lavora, contro il 30%
del Centro-Nord.
Al Sud cresce la zona grigia della disoccupazione, che raggruppa scorag-
giati e lavoratori potenziali: 95mila persone in più l’anno scorso. Dal 2004 al
2008 infatti i disoccupati impliciti e gli scoraggiati sono aumentati di 424mila uni-
tà. Considerando anche questa componente, il tasso di disoccupazione effettivo
del Sud salirebbe a oltre il 22%.
IN CALO IL SOMMERSO, MA AL SUD E’ IN NERO 1 LAVORATORE SU 5
Cala il lavoro nero nel 2008, con 22mila unità irregolari in meno, per effet-
to anche della campagna di regolarizzazione dei lavoratori stranieri, soprattutto
nel settore edile. Qui ad esempio nel Sud il tasso di irregolarità è sceso dal
29,7% del 2001 al 18,6% del 2008.
Nel 2008 in Italia i lavoratori in nero sono stimati in 2 milioni 943 mi-
la, l’11,8% del totale. I settori di maggiore diffusione sono l’agricoltura e i servi-
zi. Nel 2008 al Sud è irregolare 1 lavoratore su 5, pari in valori assoluti a 1 mi-
lione 300mila persone, con tassi di irregolarità del 12,8% nell’industria e del 19%
nelle costruzioni.
A livello territoriale la regione più “nera” è la Calabria, con il 26% di
manodopera irregolare, che sale a quasi il 50% in agricoltura e al 40% nelle co-
struzioni. A seguire, la Basilicata (20,3%), con un forte peso del settore industria-
le, Sicilia (19,8%), Sardegna (19,5%) e Puglia (17,4%).
Il più alto numero di lavoratori in nero in valori assoluti spetta alla Cam-
pania (329mila persone), che dal 2000 ha però perso il 19,4% (79mila unità).
IN DIECI ANNI 700MILA VIA DAL SUD, A PARTE I PENDOLARI
Caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese spac-
cato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo
interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla
con pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni.
I posti di lavoro del Mezzogiorno sono in numero assai inferiore a quello
degli occupati. Ed è la carenza di domanda di figure professionali di livello me-
dio-alto a costituire la principale spinta all’emigrazione.
Tra il 1997 e il 2008 circa 700mila persone hanno abbandonato il Mez-
zogiorno. Nel 2008 il Mezzogiorno ha perso oltre 122mila residenti a favore delle
regioni del Centro-Nord a fronte di un rientro di circa 60 mila persone. Riguardo
alla provenienza, oltre l’87% delle partenze ha origine in tre regioni: Campa-
nia, Puglia, Sicilia. L’emorragia più forte in Campania (-25 mila), a seguire
Puglia e Sicilia rispettivamente con 12,2 mila e 11,6 mila unità in meno.
Nel 2008 sono stati 173.000 gli occupati residenti nel Mezzogiorno ma
con un posto di lavoro al Centro-Nord o all’estero, 23 mila in più del 2007
(+15,3%). Sono i pendolari di lungo raggio, cittadini a termine che rientrano a ca-
sa nel week end o un paio di volte al mese. Giovani e con un livello di studio me-
dio-alto: l’80% ha meno di 45 anni e quasi il 50% svolge professioni di livello e-
levato. Il 24% è laureato. Non lasciano la residenza generalmente perché non lo
giustificherebbe né il costo della vita nelle aree urbane né un contratto di lavoro a
tempo. Spesso sono maschi, singles, dipendenti full time in una fase transitoria
della loro vita, come l’ingresso o l’assestamento nel mercato del lavoro.
Le regioni che attraggono maggiormente i pendolari sono Lombardia,
Emilia-Romagna e Lazio. Da segnalare però la crescita dei pendolari meridio-
nali verso altre province del Mezzogiorno, pur lontane dal luogo d’origine:
60mila nel 2008 (erano24mila nel 2007).
Una curiosità: la crisi ha colpito anche i pendolari meridionali. Se infat-
ti il movimento Sud-Nord è cresciuto nei primi sei mesi del 2008, con l’aggravarsi
del quadro economico 20mila persone sono rientrate al Sud, soprattutto donne.
Rispetto ai primi anni 2000 sono cresciuti i giovani meridionali trasferiti al
Centro-Nord dopo il diploma che si sono laureati lì e lì lavorano, mentre sono ca-
lati i laureati negli atenei meridionali in partenza dopo la laurea in cerca di lavoro.
In vistosa crescita le partenze dei laureati “eccellenti”: nel 2004 partiva il
25% dei laureati meridionali con il massimo dei voti; tre anni più tardi la
percentuale è balzata a quasi il 38%.
La mobilità geografica Sud-Nord permette una mobilità sociale. I laureati
meridionali che si spostano dopo la laurea al Centro-Nord vanno incontro a
contratti meno stabili rispetto a chi rimane, ma a uno stipendio più alto. Il
50% dei giovani immobili al Sud non arriva a 1000 euro al mese, mentre il 63% di
chi è partito dopo la laurea guadagna tra 1000 e 1500 euro e oltre il 16% più di
1500 euro.
UN SUD IN CUI NON MANCANO AREE DI DINAMISMO
In base a una serie di indicatori la SVIMEZ ha analizzato i 325 distretti del
Mezzogiorno dividendoli in sette tipologie diverse da cui emerge un Sud forte-
mente differenziato.
- aree delle opportunità consolidate: qui la popolazione è in crescita, gli abitanti
hanno un livello di studio elevato, il tasso di occupazione è in linea con la media
nazionale o addirittura superiore al Centro-Nord (come a Olbia e alla Maddalena,
52%), il tasso di disoccupazione basso (7%), il livello di reddito (19.400 euro pro
capite) è superiore alla media del Mezzogiorno (14.500). Fanno parte di questo
gruppo sette sistemi locali dell’Abruzzo (tra cui Avezzano, Celano, Giulianova e
Teramo) e alcune importanti realtà turistiche della Sardegna (Arzachena, La Mad-
dalena, Olbia, Santa Teresa Gallura e San Teodoro) e di altre regioni (Capri e Li-
pari).
- aree urbane: qui viene prodotto il 60% del Pil meridionale, ma si spazia dalle
zone con un terziario molto forte e un’occupazione in forte crescita (Benevento,
Avellino, Bari, Monopoli, Putignano, Lecce, Alghero, Sassari, Macomer, Nuoro,
Cagliari e Oristano) ad altre concentrate nel manifatturiero, che arrancano, con
una crescita senza occupazione (Caserta, Nola, Taranto, Gioia Tauro, Porto Em-
pedocle e Gela) ad altre in piena crisi. In quest’ultimo caso i tassi di attività e oc-
cupazione sono più bassi, la disoccupazione più alta (Foggia, Brindisi, Catanzaro,
Reggio Calabria, Vibo Valentia, Trapani, Palermo, Messina, Agrigento, Caltanis-
setta, Enna, Catania e Siracusa).
- aree delle opportunità distrettuali e industriali: Qui prevalgono attività manifattu-
riere piccole e medie ma anche realtà industriali più forti non sostenute da un ter-
ziario avanzato. Sono zone da cui si emigra, che sembrano offrire opportunità di
lavoro non qualificato, come denota il tasso di attività superiore alla media meri-
dionale unito alla diffusione di titoli di studio medio-bassi. Fanno parte di questo
comparto i distretti di Pineto, Penne, Solofra, Altamura e Calangianus, Atessa,
Termoli, Grottaminarda, Melfi e Pisticci.
- aree delle opportunità turistiche: sono zone di significative potenzialità turistiche
che non riescono però a sfociare in livelli di reddito e occupazione superiori alla
media. Qui troviamo ad esempio Sant’Agata dei Goti, Amalfi, Maiori, Telese
Terme, Sapri, San Giovanni Rotondo, Barletta e Gallipoli, Diamante, Praia a Ma-
re, Scalea, Soverato, Castelvetrano, Taormina, Capo d’Orlando, Acireale.
- aree dinamiche: sono le aree di eccellenza, in crescita, più ricche, con una forte
capacità attrattiva, a vocazione soprattutto turistica (Forio, Ischia, Sorrento, Ostu-
ni, Tropea, Cefalù, Castelsardo, Bosa, Orosei e Muravera).
- aree della crisi: poche aziende, scarsa offerta di lavoro e reddito modesto. Si
concentrano soprattutto in Puglia, Calabria e Sicilia.
- aree marginali:la struttura produttiva è debolissima e il reddito medio pro capite
il più basso d’Italia (8.600 euro). Sono le aree più interne e periferiche, scarsa-
mente abitate, della Sicilia, Calabria, Campania, Sardegna.
BANCHE, PIU’ DIFFICILE L’ACCESSO AL CREDITO PER LE AZIENDE
Tra il 1990 e il 2001 il numero di banche presenti nell’area si è ridotto
del 46% contro il 20% del Centro-Nord. Il numero di banche meridionali indi-
pendenti, sia Spa che Banche popolari, è crollato da 100 del 1990 a 16 del 2004;
negli stessi anni le banche di credito cooperativo (BCC) si sono più che dimez-
zate (da 213 a 111). Mentre resta forte la dipendenza del sistema bancario
meridionale dal Centro-Nord: nel periodo in questione le banche appartenenti
a gruppi dell’altra ripartizione sono salite da 0 a 21, con una forte diffusione in
Basilicata, Calabria e Sardegna
Resta il grande problema dell’accesso al credito: al Sud dal 2004 al
2006 il 9,3% delle imprese ha lamentato difficoltà, contro il 3,8% del Nord.
Dal 2007 al 2008 inoltre il tasso di crescita annua dei prestiti alle imprese è crolla-
to al Sud dal 14,9% al 7,9% contro il calo più contenuto a livello nazionale (da
12,4% a 10,2%).
CONTINUA IL CALO DELLA SPESA PUBBLICA AL SUD
La spesa pubblica pro capite nel Mezzogiorno è stata nel 2008 pari a
10.490 euro, inferiore rispetto ai 12.300 euro pro capite del Centro Nord . Per
di più, nel Mezzogiorno, c’è una tendenza all’incremento delle spese correnti che
invece si riducono nel Centro Nord e a una diminuzione di quelle per investimen-
ti, che invece aumentano in misura doppia nelle zone più sviluppate del Paese.
La quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto capitale è stimata nel 2008
al 34,9%, una percentuale ben più bassa del 41,1% del 2001 e lontanissima
dall’obiettivo del 45%, che ormai appare come una chimera. Ha inciso su tale
riduzione il ridimensionamento dei trasferimenti di capitale per agevolazioni alle
imprese, che non è stato sostituito, come nei programmi, da un maggior impegno
per la dotazione di infrastrutture.
STRADE, FERROVIE, PORTI, AEROPORTI, ACQUA, RIFIUTI
Fra tutte le regioni del Sud le autostrade a tre corsie sono presenti solo in
Campania e in misura minore in Abruzzo, mentre la Sardegna è tuttora priva di
autostrade.
Solo il 7,8% delle linee ad alta velocità, cioè il tratto campano Roma-
Napoli, entrato in funzione nel 2005, risulta localizzato nel Mezzogiorno. La si-
tuazione più critica in Sardegna, dove mancano completamente linee elettrifi-
cate.
L’offerta di servizi ferroviari è particolarmente modesta al Sud, dove le per-
correnze dei treni (treni-km) sono soltanto il 17% del totale per le merci e il
23% per i passeggeri, un valore non diverso dalla situazione di dieci anni fa.
La maggior parte dei porti è di piccola dimensione e orientata al transito
passeggeri. Nel Mezzogiorno l’indice di dotazione dei centri intermodali è pa-
ri ad appena un ventesimo del totale nazionale.
Il livello degli aeroporti nelle regioni meridionali (per numero di strutture,
piste e dimensioni) è accettabile, pur mancando scali in Molise e Basilicata. La
criticità più forte è data ancora una volta dalla carenza di collegamenti. Nessun
aeroporto del Mezzogiorno, ad eccezione di Palermo, ad esempio è collegato
con una stazione ferroviaria.
A livello nazionale circa 1/3 dell’acqua immessa in acquedotto viene disper-
sa. Nel Mezzogiorno la situazione si fa ancora più critica, con il 37% dell’acqua
sprecata. In testa alla poco invidiabile classifica la Puglia, con oltre il 46% di di-
spersione, seguita da Sardegna (43%) e Abruzzo (41%). Praticamente in Puglia su
308 metri cubi d’acqua pro capite (dati 2005) immessi nelle tubature solo 165 ar-
rivano a destinazione, in Sardegna su 385 ne arrivano 219, in Abruzzo 415 su
245.
Se a livello nazionale solo il 3,2% della popolazione non dispone di acque
depurate, la percentuale sale al Sud, arrivando al 7% in Calabria e addirittura
all’11,5% in Campania. In Sicilia il 3% della popolazione è priva di fognatu-
re, il 3,6% in Puglia, mentre tale servizio è presente in tutte le altre regioni.
Interessante notare che la diffusione delle fonti rinnovabili vede il Sud in
testa rispetto al Centro-Nord, con punte eccezionali in Molise, Calabria, Basili-
cata e Puglia.
Rifiuti – In dieci anni, dal 1997 al 2008 la produzione di rifiuti urbani è cre-
sciuta nelle regioni meridionali di 1,5 milioni di tonnellate, raggiungendo quota
10,6. A produrre più rifiuti Calabria (+35%, media nazionale +22%), Abruzzo e
Puglia (+27%). Nel 2007 ogni cittadino del Sud ha prodotto in media 508 kg di
rifiuti (Sicilia 536, Molise 414).
Differenziata – A fronte di una media nazionale del 27,5% (con il Nord a
42,4%), il Sud resta lontano anni luce, fermo all’11,6%. Ma non tutto: la Sardegna
è al 27,8%, con punte superiori al 50% nel Medio Campidano e nell’Ogliastra. An-
che l’Abruzzo non è da meno, con Teramo che realizza il 30%.
Ma il problema vero sono i costi, dovuti a una cattiva gestione del ciclo: la rac-
colta e il trasporto dell’indifferenziato costa al Sud 80 euro a tonnellata contro
i 65 del Centro-Nord. Il trattamento e smaltimento spazia dai 45 euro a tonnellata
della Calabria ai 99 della Campania.
Situazione ancora peggiore per la differenziata: al Centro-Nord, dove si recu-
perano maggiori quantità di materiali, il costo medio è di 124 euro a tonnellata,
al Sud poco meno del doppio, 220 euro.
LOGISTICA
Nel 2008 nel Mezzogiorno i volumi di traffico container sono scesi di
quasi il 4% a fronte della crescita del 3% del Centro-Nord. A trainare il se-
gno meno Cagliari (-53,2%) e Salerno (-14%). I porti meridionali perdono inol-
tre competitività per la mancanza di una adeguata integrazione tra traffico portua-
le e terrestre. Ad esempio infatti soltanto il 2% dei container al Sud viene in-
stradato via ferrovia, rispetto al 18% del Centro-Nord (il 14% a Livorno, il
18% a Ravenna, il 23% a La Spezia e appena l’1,4% a Gioia Tauro). Nono-
stante la diversa dotazione portuale Nord-Sud, il 48% del totale di container è
movimentato nel Centro-Nord e il 52% nel Sud, con un trend che vede il Sud dal
2002 perdere quote di traffico.
Per informazioni: Ufficio stampa Elisa Costanzo: 06/47850239 – 328/1430500
Svimez 2009/01_Direttore_testo.pdf
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Introduzione e sintesi
di Riccardo Padovani∗
1. IL MEZZOGIORNO PRIMA, DENTRO E OLTRE LA CRISI
La presentazione del Rapporto di quest’anno interviene in una fase in cui la crisi
internazionale si sta ripercuotendo sull’economia nazionale con una forza anche
maggiore di quella che solo pochi mesi era stata prevista. Il calo degli ordini, della
produzione industriale, degli investimenti e dell’occupazione configurano una
recessione pesante con impatti significativi che tenderanno a trasferirsi dal sistema
economico al tessuto sociale nazionale.
E’ in tale quadro che va collocata l’analisi del presente Rapporto che ha cercato
di mettere in evidenza il processo incompiuto di trasformazione dell’economia
meridionale in questi ultimi anni; processo sul quale continuano ad incidere debolezze
strutturali che affondano le radici nel passato e, al tempo stesso, alcuni importanti
elementi di mutamento dell’economia e della società meridionali.
L’attuale mix di crisi economica e delegittimazione politica che il Sud sta
attraversando pone ad alto rischio la possibilità di completare la transizione verso una
economia più competitiva e allo stesso tempo indebolisce qualsiasi prospettiva di
ripresa del sistema nazionale.
Occorre invece essere consapevoli che un progetto nazionale per la crescita del
Mezzogiorno e per la valorizzazione delle sue potenzialità dipenderà in larga parte dal
sostegno che una rinnovata azione pubblica (europea, nazionale e delle Regioni) saprà
fornire al sistema delle imprese e alle famiglie, sia attraverso le politiche
anticongiunturali sia attraverso politiche strutturali di crescita e coesione nel campo
delle infrastrutture, dell’innovazione e ricerca e per lo sviluppo dell’industria.
A tal fine il Rapporto identifica alcune linee di intervento che possono servire ad
accompagnare i processi di modernizzazione in atto: lo sviluppo delle reti
infrastrutturali, tecnologiche, formative e bancarie; una politica industriale specifica per
∗
Le “linee” del “Rapporto SVIMEZ 2009” sono state predisposte dal Direttore dott. Riccardo Padovani e
dal Vice Direttore dott. Luca Bianchi. Il loro contenuto è stato esposto dal dott. Riccardo Padovani e nel
successivo intervento dal dott. Luca Bianchi.
2
il Sud; il rafforzamento della qualità del territorio intesa come gestione dell’ambiente e
delle risorse naturali, vivibilità delle aree urbane, contrasto alla criminalità; l’avvio delle
grandi riforme strutturali, della Pubblica Amministrazione e del Welfare in primo
luogo, utili per tutto il Paese e indispensabili per riavviare la crescita del Mezzogiorno.
Il Mezzogiorno nella recessione
Le stime della SVIMEZ (v. Fig. 1) mostrano come già nel 2008 l’economia
meridionale abbia registrato una recessione, sia pur di poco, più grave che nel Centro-
Nord: -1,1% contro il -1,0% del resto del Paese; recessione che, in base agli indicatori
congiunturali territoriali relativi alla prima parte del 2009, ha conosciuto al Sud una
ulteriore forte intensificazione. Una prospettiva critica che incide su un’area già con
elevata disoccupazione e con diffuse situazioni di povertà e che dunque rischia di
determinare effetti pesanti sia in termini economici che sociali. Ma soprattutto vi è un
fatto nuovo rispetto al passato. Nelle fasi congiunturali negative determinate, come in
questo caso, da fattori esogeni, il Mezzogiorno, proprio per effetto della sua minore
apertura internazionale, tendeva a risentire meno del rallentamento dell’economia
mondiale. Questa volta invece è proprio nel Sud che la crisi rischia di mordere
maggiormente, con effetti fortemente negativi sulla dinamica dei consumi, degli
investimenti e dell’occupazione. Questo perché l’economia meridionale somma
all’inversione ciclica debolezze strutturali che affondano le loro radici nel tempo e che
si aggravano nell’attuale fase congiunturale.
Dal 2002 ad oggi (v. Fig. 2) le regioni del Sud sono sempre cresciute meno di
quelle del resto del Paese: nel periodo 2001-2008 l’incremento annuo del prodotto (a
prezzi concatenati) del Mezzogiorno (0,6%) è risultato pari a poco più della metà di
quello del Centro-Nord (1,0%). Non si era mai registrato dal dopoguerra un periodo di
sette anni in cui lo sviluppo del Sud fosse costantemente inferiore a quello del Centro-
Nord.
Il divario (v. Fig. 3) in termini di prodotto per abitante, che è la misura
comunemente utilizzata per valutare le differenze di sviluppo economico fra aree, è
invece lievemente diminuito a causa dei flussi migratori meridionali ed esteri in
direzione del Nord. Il Pil pro capite del Mezzogiorno è risultato essere nel 2008 pari al
3
58,6% di quello del Centro Nord, con un recupero rispetto all’anno precedente (58,2%),
quasi due punti percentuali in più rispetto al livello del 2000 (56,9%). Si conferma
dunque il giudizio dato lo scorso anno di una leggera convergenza raggiunta per via
patologica, cioè non con maggiore crescita ma con perdita relativa di popolazione
Il Mezzogiorno cenerentola d’Europa
La mancanza di convergenza delle regioni in ritardo di sviluppo con quelle più
ricche che si verifica in Italia nell’ultimo decennio è in controtendenza con quanto
avviene nel resto dell’Europa (v. Fig. 4).
Gli anni duemila sono stati infatti caratterizzati a livello continentale da un
significativo recupero delle aree europee dell’Obiettivo 1, che si sono sviluppate ad un
tasso superiore a quello della media dell’UE a 27: nel periodo 1999-2005 il tasso di
crescita medio annuo delle regioni dell’Obiettivo 1 è risultato del 3% circa, mentre
quello medio dell’Unione è stato dell’1,9%. Le aree Obiettivo 1 del Mezzogiorno non
hanno però seguito questo andamento: la crescita del Pil pro capite è stata nel periodo
non solo lievemente minore di quella italiana (0,6% rispetto allo 0,7%), ma soprattutto
molto inferiore a quella delle restanti regioni Obiettivo 1 dell’Europa.
Il confronto con il complesso delle aree in ritardo di sviluppo in Europa è
sempre sfavorevole alle regioni meridionali: tra il 1995 e il 2005 la quota italiana della
popolazione europea che viveva in regioni con un Pil pro capite inferiore all’85% della
media UE è passata dal 50,7 al 69,8%.
L’interruzione nel processo di adeguamento competitivo
L’economia meridionale risente particolarmente del fatto di essere stata colta
dalla crisi in una fase di particolare fragilità, mentre si stavano avviando, su tutto il
territorio nazionale, processi di aggiustamento sia dal lato delle imprese, per aumentare
la produttività e profittabilità a fronte della accresciuta pressione competitiva
internazionale, sia dal lato del bilancio pubblico, volti alla riduzione del debito. Tali
processi sono risultati ( e appaiono ancora tutt’oggi) meno intensi nel Mezzogiorno;
area che soffre in misura assai più accentuata delle note debolezze strutturali,
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riguardanti il modello di specializzazione produttiva e la capacità innovativa, che
caratterizzano il sistema nazionale nel confronto con i principali paesi sviluppati.
Le analisi del Rapporto mostrano come le imprese meridionali sembrino essere
state maggiormente colpite dall’intensificarsi della concorrenza internazionale,
verosimilmente per motivi di composizione settoriale (nel Mezzogiorno pesano meno
che al Centro-Nord i settori che hanno “tenuto” meglio, quali ad esempio le industrie
meccaniche fornitrici di beni capitali), per una minore presenza nei mercati emergenti, e
per una dimensione media delle imprese inferiore a quella del Centro-Nord.
In questo contesto, la compressione in atto del processo di accumulazione al Sud
(v. Fig. 5) può ridurre drasticamente le potenzialità competitive dell’area, anche in
presenza di una ripresa della domanda interna e internazionale. Dall’inizio del decennio
alla fine del 2008 gli investimenti fissi lordi sono cresciuti al Sud del 9,3%, quasi due
punti percentuali in meno che nel Centro-Nord (11,0%). Se si analizza solo il settore
dell’industria in senso stretto (v. Fig. 6), gli investimenti sono crollati cumulativamente
nel 2001-2008 del 15,7%, a fronte di una flessione cumulata del 5,1% nel resto del
Paese. All’interno di una simile dinamica, va sottolineato il dato non favorevole del
2008, quando gli investimenti fissi lordi del Mezzogiorno sono diminuiti del 2,8% (-
3,0% nel Centro-Nord), dopo una crescita dell’1,1% l’anno precedente, e, in particolare,
quelli industriali hanno fatto segnare un -6,5%.
Va sottolineato che è proprio il meccanismo di accumulazione (in realtà non solo
di capitale fisico ma anche umano e tecnologico) che guida il recupero di produttività e
quindi di capacità competitiva.
Se si analizza (v. Fig. 7) l’andamento del divario economico Sud/Nord nel più
lungo periodo, è possibile verificare che un significativo processo di convergenza si è
realizzato soltanto nel periodo compreso tra il 1951 e il 1973, periodo in cui il processo
di accumulazione è stato nel Mezzogiorno elevato e sempre superiore a quello registrato
nel Centro-Nord, sostenendo la dinamica della produttività: sono gli anni nei quali un
rapido aumento del prodotto per addetto ha riflesso il diffondersi di una struttura
industriale caratterizzata da un’elevata produttività in un’economia prevalentemente
agricola (v. Fig. 8). Tra il 1951 e il 1973 il rapporto tra Investimenti e Pil al Sud è circa
raddoppiato, dal 17% al 33%, raggiungendo un livello superiore di oltre 10 punti a
quello rilevabile nel Nord. Dagli anni immediatamente successivi alla prima crisi da
5
petrolio esso si indebolisce progressivamente, crollando nel 1995 ai livelli di 50 anni
prima e riallineandosi a quello del Centro-Nord.
Simili dinamiche riflettono non solo i cambiamenti nel contesto competitivo e
istituzionale ma anche la diversa efficacia delle politiche pubbliche. Come si avrà modo
di riprendere nel seguito, una riflessione sulla struttura e i contenuti delle politiche di
sviluppo e coesione nel nostro Paese, non può dunque prescindere da una maggiore
finalizzazione degli interventi pubblici alla capacità di accrescere le convenienze per gli
investimenti produttivi.
Nel 2008 (v. Fig. 9) ha contribuito alla flessione della domanda interna anche
una contrazione della dinamica dei consumi in tutto il Paese. In particolare, i consumi
delle famiglie hanno fatto segnare una significativa riduzione (-0,9% al Nord e -1,4%
nel Sud), con una estensione specialmente nel Sud delle difficoltà dal comparto dei beni
durevoli a quelli non durevoli: i consumi alimentari sono calati nel 2008 del 2,7% nel
Sud, oltre mezzo punto più che nel Nord, spia di difficoltà a mantenere lo standard di
vita che cominciano ad investire strati sempre più ampi della popolazione.
Alla base del progressivo impoverimento del Mezzogiorno c’è la brusca
contrazione dell’occupazione (v. Fig. 10), registratasi già nel corso del 2008 e poi
aggravatasi significativamente nel 2009. La sequenza nei trimestri è preoccupante:-
1,0% nel terzo trimestre 2008, - 1,9% nel quarto trimestre, poi riconfermato nel primo
del 2009; tra gennaio 2009 e gennaio 2008 si sono persi al Sud 114 mila posti di lavoro.
Nel solo comparto industriale meridionale, che più sta soffrendo la fase di crisi,
l’occupazione si è ridotta di 57 mila unità (-6,6% a fronte del -0,6% al Centro-Nord).
Ciò vuol dire che molti lavoratori, spesso precari e a termine e quindi privi della
copertura del sistema di ammortizzatori sociali, si sono trovati improvvisamente senza
lavoro e senza reddito. Simili dinamiche, in un area dove lavora appena il 44% della
popolazione in età di lavoro, e le donne che lavorano sono meno di 3 su 10,
costituiscono una situazione di potenziale emergenza sociale, trascurata dalla politica
nazionale, che richiede risposte assai più incisive.
6
Migrazioni e calo demografico
L’insufficiente dotazione di capitale fisso sociale e produttivo nel Mezzogiorno
(v. Fig. 11), oltre a lasciare più di una persona su dieci senza lavoro, spinge ogni anno
circa 120 mila persone ad abbandonare il Sud per cercare di realizzare le proprie
aspettative professionali nel resto del Paese; si tratta perlopiù di giovani individui con
un buon livello di scolarizzazione. Questo a fronte di un rientro nell’area di circa 65
mila persone all’anno. Ciò non mancherà di condizionare negativamente, più che in
passato, anche l’evoluzione della demografia del Mezzogiorno (v. Fig. 12). In una fase
di forte calo della natalità, la fuoriuscita delle giovani coorti in età riproduttiva innesca,
infatti, un processo che in poco più di un ventennio si prevede porterà al declino
demografico; il Sud, dagli attuali 20,8 milioni di abitanti diminuirà ai 19,3 milioni, e
vedrà crescere considerevolmente il peso delle classi anziane e vecchie: una persona su
tre avrà più di 65 anni e una su dieci più di 80 anni. Soltanto poco più di un meridionale
su 3 (il 36,7%) avrà meno di 40 anni, e i giovani sotto i vent’anni scenderanno al 17%.
Nel Mezzogiorno, tra il 2008 e il 2030 la forza lavoro subirà una contrazione di circa
2,2 milioni di unità. Questa difficile transizione demografica porterà il Sud ad affrontare
i problemi propri di un’economia matura senza aver ancora superato la condizione di
ritardo nello sviluppo. Ciò avrà forti implicazioni, come si avrà modo di sottolineare
nell’analisi sul sistema di Welfare, nella gestione di un’assistenza sociale che dovrà
fronteggiare costi crescenti con insufficienti flussi di ricchezza. Del resto una
popolazione invecchiata esprimi modelli di consumo che tendono a deprimere la
dinamica della domanda interna aggregata, con inevitabili riflessi negativi sul sistema
produttivo domestico.
2. NECESSITÀ DI UNA RIFORMA INTERNA DELLA POLITICA PER IL SUD
L’interruzione di un sia pur minima tendenza alla convergenza tra aree deboli e
aree forti del nostro Paese costituisce, come visto, un’anomalia nel panorama europeo e
richiede una profonda riflessione.
La analisi contenute nel Rapporto mostrano, sulla base di una valutazione
econometrica, che la politica di coesione comunitaria ha contribuito positivamente ai
7
processi di crescita e di convergenza nell’Unione europea e che tale contributo è
valutabile per il complesso delle regioni Obiettivo 1, destinatarie di tali risorse, in circa
mezzo punto all’anno di crescita aggiuntiva, nel periodo 1994-2006. Un esercizio
similare condotto dalla Banca d’Italia con riferimento alle sole regioni Obiettivo 1 del
Sud ha valutato invece tale contributo in circa 0,25 decimi di punto, a conferma di una
minore efficacia delle politiche nel Mezzogiorno.
8
2.1. La spesa pubblica
La minore efficacia della politica di coesione nel nostro Paese si colloca in un
contesto caratterizzato da un progressivo indebolimento del processo di accumulazione
di capitale pubblico, indebolimento che si è manifestato con effetti particolarmente
marcati nel Mezzogiorno dove la spesa complessiva della Pubblica Amministrazione,
anche escludendo gli Enti previdenziali, risulta più bassa che nel resto del Paese. Questo
dato smentisce l’opinione diffusa di un eccesso di spesa nell’area.
Il fenomeno riguarda sia le spese correnti che quelle in conto capitale. Per le
spese correnti, la differenza negativa rispetto al livello pro capite del Centro-Nord è pari
nel 2007 all’1,7%; per quelle in conto capitale, al 2,6%.
La quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto capitale del Paese (v. Fig. 13) è
scesa progressivamente nel corso di questo decennio, dal 41,1% del 2001 al 36,8% del
2006, al 35,4% nel 2007; il valore stimato per il 2008, diminuito al 34,9%, è inferiore al
peso demografico dell’area ed è ben lontano dall’obiettivo del 40/45% indicato fino
all’anno scorso nei documenti governativi. Si sarebbe in tal modo ormai del tutto
annullata l’aggiuntività delle risorse destinate allo sviluppo del Mezzogiorno. Poiché
quest’anno il Dipartimento per le Politiche di sviluppo e Coesione non ha potuto
rendere disponibile il dato relativo alla spesa ordinaria, il riferimento è a quello
contenuto nel Rapporto dell’anno scorso, che indicava per il 2007 una quota di spesa
ordinaria destinata alla formazione di capitale nel Mezzogiorno sul totale nazionale pari
ad appena il 21,4%, inferiore cioè di circa 16 punti al peso naturale dell’area (valutabile
nel 38% circa) e di quasi 9 punti rispetto all’obiettivo del 30% indicato, per questa
componente, nei documenti governativi.
L’effetto negativo sulla dotazione di capitale nel Mezzogiorno, conseguente al
basso livello di spesa in conto capitale effettuato dalle Amministrazioni Pubbliche, è
ampliato per effetto di una ridotta attività di investimento delle imprese pubbliche
nazionali e locali, che danno invece un forte contributo all’accumulazione di capitale
nel Centro-Nord. Per le imprese pubbliche locali (v. Fig. 14), la quota di spesa
localizzata nel Mezzogiorno, pari a meno del 20% della spesa complessiva a livello
nazionale, risente, da una parte, della debolezza degli Enti locali meridionali e,
dall’altra, delle minori capacità manageriali, espressione della debolezza del sistema
9
produttivo dell’area. Siamo ben lontani dalla realtà delle imprese locali del Centro-
Nord, tra le quali vi sono vere e proprie holding, con società quotate in borsa che
competono a livello nazionale e internazionale.
Nel caso delle imprese pubbliche nazionali (v. Fig. 15), invece, la
concentrazione degli interventi nel Nord risponde al criterio, nell’ambito di una gestione
privatistica, di privilegiare gli investimenti con maggiore ritorno economico, localizzati
nelle aree già sviluppate dove ampia è la domanda da soddisfare, piuttosto che quelli in
aree non sviluppate dove dovrebbero svolgere una funzione di stimolo allo sviluppo.
Spetterebbe allo Stato, che ne è azionista, di perseguire un’azione redistributiva tra le
aree del Paese al momento della approvazione del contratto di programma con queste
imprese, impedendo così che, ad esempio, le Ferrovie dello Stato destinino appena il
21% degli investimenti al Sud.
2.2. La politica di coesione
Il ciclo di programmazione dei Fondi strutturali 2000-2006 è giunto a
completamento, essendo scaduto il termine utile per l’erogazione dei contributi
assegnati, fissato al 30 giugno scorso. Al febbraio 2009, per l’Obiettivo 1 si stimava
necessario erogare circa 2,7 miliardi di euro per conseguire il risultato del completo
assorbimento del contributo programmato, pari a 45,9 miliardi.
Il risultato del pieno utilizzo delle risorse comunitarie, tuttavia, non è un dato del
tutto significativo.
I target di spesa dell’Obiettivo 1, infatti, sono stati finora raggiunti grazie anche
ad un ampio ricorso ai “progetti coerenti”, progetti che avevano già copertura in altre
risorse nazionali o regionali, presenti in tutti gli Assi prioritari di sviluppo (v. Fig. 16).
Alla fine del 2008, il valore dei “progetti coerenti” è calcolato pari a 20,4 miliardi di
euro, corrispondente al 44,5% del valore della dotazione finanziaria del QCS 2000-2006
ed al 34,7% del valore dei progetti identificati. L’uso dei progetti coerenti nella
programmazione appena conclusa, risulta particolarmente elevato in alcuni Assi
strategici per lo sviluppo regionale, riguardanti le infrastrutture, in particolare di
trasporto, come ad esempio “Reti e nodi di servizio”, per il quale la quota risulta
10
superiore ai tre quarti del valore della dotazione dell’Asse ed oltrepassa il 60% del
valore dei progetti identificati.
L’elevato ricorso ai progetti coerenti, costituisce una manifestazione di alcuni
importanti limiti del passato ciclo di programmazione ormai largamente riconosciuti: la
mancata concentrazione degli interventi su un numero selezionato di ambiti, con la
dispersione delle risorse aggiuntive finalizzate alla accelerazione dello sviluppo in una
eccessiva molteplicità di progetti; le lentezze e gli scoordinamenti nella concezione,
progettazione e realizzazione degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di
residui.
Ciò è frutto in buona parte dell’impianto strategico ed istituzionale stesso della
programmazione 2000-2006, che è stato, già in passato, oggetto di critiche in relazione
alla numerosità dei livelli di governo coinvolti ed alle difficoltà del loro coordinamento
e all’eccessiva enfasi attribuita nella impostazione e nella realizzazione della politica ai
fattori di contesto e ai soggetti locali.
La presa d’atto della scarsa efficacia della programmazione 2000-2006 ai fini
dello sviluppo del Mezzogiorno sta chiaramente ad indicare la necessità di una svolta,
sia per quanto riguarda le modalità di programmazione e la focalizzazione della spesa,
sia per quanto riguarda la realizzazione degli interventi. Rispetto al percorso sin qui
seguito, parrebbe necessario procedere ad un più forte processo di “riforma interna”
della programmazione, che, pur evitando di determinare “rotture” traumatiche che
rischierebbero di ritardare la spesa e far perdere le risorse, ponga più stringenti vincoli
alla frammentazione, alla dispersione territoriale, e a quell’eccesso di localismi che ha
non marginalmente condizionato i risultati delle politiche.
L’impostazione del nuovo Quadro Strategico Nazionale 2007-2013 si è invece
mossa all’interno di una sostanziale continuità con il precedente ciclo di
programmazione. La struttura dei Programmi risulta, inoltre, caratterizzata da una
maggiore flessibilità, ma anche indeterminatezza: sono stati identificati indicatori e
target da raggiungere, ma sono solo accennati i contenuti operativi della
programmazione e delle linee di intervento; queste ultime, peraltro, contengono scarse
indicazioni in merito agli strumenti ed ai percorsi di realizzazione, così da determinare
una insufficiente definizione dei contenuti e una frattura tra programmazione strategica
ed operativa. Appare assente una regia complessiva del processo di attuazione nella
11
direzione del perseguimento degli obiettivi enunciati; mentre la scelta dei tempi e delle
modalità di realizzazione della strategia viene rimandata e demandata alle decisioni di
attuazione delle singole Amministrazioni.
In definitiva, sebbene le premesse programmatiche avessero potuto essere
almeno in parte diverse, l’attuale periodo di programmazione 2007-2013.
Il QSN 2007-2013 dovrebbe rappresentare, per altro, la cornice programmatica
per la “politica regionale unitaria”, finanziata con le risorse nazionali del FAS e con
quelle comunitarie dei Fondi strutturali. Tuttavia, come si avrà modo di riprendere, il
disegno di programmazione unitario è stato depotenziato da decisioni governative
intervenute nel corso del 2008 e nei primi mesi del 2009.
Rispetto al passato, un’accresciuta importanza, anche in virtù della
“contaminazione” degli obiettivi di riequilibrio territoriale con le priorità della Strategia
di Lisbona e Goteborg, viene riconosciuta nel QSN all’economia della conoscenza ed
alla innovazione, al capitale umano, alla valorizzazione ambientale ed alle energie
pulite, quali fattori di crescita dei territori con condizioni di arretratezza socio-
economica. Vengono inoltre introdotti gli “Obiettivi di servizio”. Con essi si registra un
esperimento di “transizione” delle finalità e del campo di intervento della politica
regionale; quest’ultima passa, infatti, dalla fissazione di obiettivi di riequilibrio, e quindi
dalla compensazione di uno svantaggio iniziale, alla definizione di uno standard
minimo di servizio, quale condizione irrinunciabile di cittadinanza, nei campi
dell’istruzione, della cura per l’infanzia e per gli anziani, e del miglioramento del
servizio idrico e della gestione dei rifiuti urbani. In tal senso si prefigura un nuovo, e a
nostro avviso rischioso, percorso che fa carico alla politica regionale di intervenire in un
ambito di spettanza della politica nazionale ordinaria, e che potrebbe condurre a
ridimensionare il ruolo delle infrastrutture, del capitale produttivo e dell’impresa.
Per evitare che nel ciclo 2007-2013 si ripetano le criticità emerse con riferimento
al precedente periodo 2000-2006, un mutamento di rotta è possibile e auspicabile dando
luogo ad una più effettiva e stabile cooperazione tra le Regioni del Sud, e ad un più
forte coordinamento fra esse e l’azione dell’Amministrazione Centrale, in una
prospettiva strategica riferita ai bisogni collettivi del Mezzogiorno. Dovrebbe inoltre
essere riconosciuta priorità politica di livello nazionale al governo, alla valorizzazione
ed alla sorveglianza di un bacino finanziario significativo come quello dei Fondi
12
strutturali, con un vincolo territoriale vigilato dalla Commissione europea, e che, quindi,
in caso di mancato impiego, non sia destinabile ad altri utilizzi.
Va evidenziato, al riguardo, che la flessibilità della programmazione attuale
consente di focalizzare le scelte e di selezionare i “progetti cruciali” senza interventi
della Commissione europea. E’ possibile, pertanto, e necessario, identificare, dare
evidenza e visibilità, nell’ambito di obiettivi chiave di grande rilevanza, ad alcuni
specifici progetti, in particolare a quelli legati a infrastrutture e innovazione delle
imprese, che possano rappresentare e tradurre in maniera chiara le priorità strategiche
indicate nei Programmi operativi, regionali e nazionali; ed avviarne immediatamente la
realizzazione con un calendario stringente, da sottoporre a stretta sorveglianza. E’
importante, però, che su tale percorso – a ormai soli cinque anni dalla fine dell’attuale
ciclo di programmazione – abbia a focalizzarsi l’attenzione della politica (Governo e
Parlamento) e della opinione pubblica, assicurando il più ampio coinvolgimento e
supporto per il suo successo.
2.3. Le politiche per il Sud nella crisi
In Italia il finanziamento degli interventi anticrisi è stato assicurato
principalmente da interventi di riallocazione e rimodulazione di risorse pluriennali
destinate in larga misura a interventi infrastrutturali. Infatti, gran parte delle maggiori
spese sono state compensate mediante tagli, riprogrammazioni e riallocazioni delle
risorse nazionali finalizzate soprattutto allo sviluppo del Mezzogiorno, presenti nel
Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS).
Il FAS, secondo quanto stabilito dalla legge istitutiva, avrebbe dovuto essere
ripartito esclusivamente con apposite delibere CIPE per investimenti pubblici e per
incentivi con finalità di riequilibrio economico e sociale sulla base del criterio generale
di destinazione territoriale delle risorse. Nel corso del 2008 e nei primi sei mesi del
2009, invece, il legislatore, anticipando l’opera di ripartizione del Cipe, è intervenuto
con rilevanti utilizzi della dotazione FAS per impieghi sovente non coerenti con le
finalità proprie del Fondo.
Questo ha determinato “preallocazioni” delle risorse FAS verso specifiche
destinazioni che, prima delle deliberazioni CIPE, hanno ridotto in misura considerevole
13
l’entità dei fondi da ripartire per le aree sottoutilizzate ed esteso anche al Centro-Nord la
possibilità di finanziamento sistematico su fonti vincolate alle politiche di coesione.
Il volume delle risorse FAS mobilitato, prima per il finanziamento di interventi
di carattere emergenziale (rifiuti, risanamento bilanci Comuni Roma e Catania, ecc..) e,
successivamente, per misure anticrisi, è ingente: partendo dalle risorse appostate dal
Bilancio pluriennale 2008-2010 sul Fondo Aree Sottoutilizzate e da quelle previste per
finanziare impegni con un profilo pluriennale di spesa anche per gli anni 2011-2012, a
maggio 2009 risultavano utilizzi del FAS per oltre 18 miliardi di euro a valere sulle
risorse stanziate per il periodo 2008-2012.
Questo ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi
previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma anche sul Quadro
Strategico Nazionale 2007-2013, indebolendone significativamente la componente
nazionale. Il Quadro Strategico Nazionale prevedeva, infatti, come richiamato, una
programmazione coordinata e contestuale dei fondi nazionali ed europei destinati alle
politiche regionali, e costituiva pertanto la sede unitaria per il finanziamento delle
priorità individuate a seguito di un lungo negoziato tra Amministrazioni regionali,
centrali e comunitarie.
Con i successivi decreti anticrisi, una percentuale significativa delle risorse FAS
è stata stanziata su altri fondi: il Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia
reale, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con una dotazione di circa 9
miliardi; il Fondo infrastrutture, nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo
economico, con una dotazione prima di circa 7 miliardi poi integrata di altri 5 miliardi;
il Fondo sociale per l’occupazione e la formazione, presso il Ministero del lavoro, della
salute e delle politiche sociali, cui sono stati destinati circa 4 miliardi del FAS.
Tali fondi, pur formalmente vincolati per legge per l’85% in favore delle regioni
del Mezzogiorno e per il 15% in favore delle aree sottoutilizzate delle regioni del
Centro-Nord), di fatto sono stati successivamente utilizzati per finalità specifiche non
condizionate a particolari destinazioni territoriali. Esemplare è il caso del Fondo sociale
per l’occupazione e la formazione, nel quale confluiscono, in modo non distinto, oltre
alle risorse FAS destinate alle aree sottoutilizzate, anche le risorse del Fondo per
l’occupazione nonché tutti gli stanziamenti per il finanziamento degli ammortizzatori
14
sociali, concessi in deroga alla normativa vigente, e quelli destinati in via ordinaria dal
CIPE alla formazione.
L’area meridionale si trova pertanto a competere, in termini di capacità di
assorbimento, con le aree a più alto tasso di sviluppo del Paese che riescono ad attivare
una più efficiente programmazione di spesa e più elevati livelli di progettualità, anche in
una non favorevole situazione congiunturale.
La concentrazione e riprogrammazione delle risorse FAS a fini strategici e su
infrastrutture prioritarie, nel quadro di una più generale “riforma interna” della politica
regionale, di cui si è prima affermata la necessità, viene così limitata e “spiazzata” da
impieghi verso aree a più intenso e rapido tiraggio di risorse.
Emerge, dunque, con evidenza, una configurazione di “non neutralità” delle crisi
che rischia di dare luogo ad una tendenza alla redistribuzione delle risorse a favore
delle aree più forti; tendenza che potrebbe perdurare anche oltre la fase congiunturale, in
considerazione dell’ampiezza dei processi di ristrutturazione che si richiederanno per il
superamento delle difficoltà strutturali indotte da una crisi di carattere internazionale ed
esogena quale quella in corso.
Da questo punto di vista, l’attuale situazione appare confrontabile con quella
degli anni successivi alla crisi petrolifera del 1973, che pose fine alla fase di più intensa
convergenza tra il Sud e il Nord e alla quale fece seguito un lungo periodo di
progressivo indebolimento dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Nella sua
introduzione al secondo “Rapporto sull’economia del Mezzogiorno”, del 1975, l’allora
Presidente della SVIMEZ Pasquale Saraceno aveva prontamente denunciato tale rischio
(v. Fig. 17).
“Quando, come quest’anno – rilevava Saraceno – non vi è alcun surplus
dell’economia da distribuire tra varie alternative di utilizzazione, ma anzi è
l’impoverimento generale che occorre distribuire, la forza organizzativa di pressione e
di lotta in difesa degli interessi immediatamente minacciati, tende naturalmente a
prevalere … Le regioni settentrionali sembrano di fatto reclamare a sé la parte più
rilevante delle risorse da destinare alla ristrutturazione, e quindi anche al futuro
sviluppo, dell’industria italiana … Non sarebbe certo sorprendente … che il grande
obiettivo dell’unificazione economica del Paese sia di fatto travolto da una successione
di decisioni condizionate dall’evolversi della congiuntura”. E, di fronte a un simile
15
rischio, egli ammoniva: “Oggi meno che mai il Mezzogiorno può essere considerato un
problema residuo, da affrontare solo se e dopo che si sia risolto quello del rilancio
dell’economia. Il Mezzogiorno è … un problema di politica generale, che deve trovar
posto nelle strategie della ripresa”*.
Oggi come allora conserva la sua validità l’indicazione della necessità di una
politica di sviluppo nazionale unitaria che, tenendo conto anche delle urgenti esigenze
di ristrutturazione dei sistemi produttivi a più alto tasso di sviluppo, sia però in grado di
conciliare la necessità di risanamento e riconversione degli uni con il mantenimento di
una azione costante ed efficace per la riduzione del divario strutturale di sviluppo tra
Sud e Nord.
*
Cfr. SVIMEZ, Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 1975, Collana Documenti SVIMEZ, pp. 11, 13,
15.
Svimez 2009/02_Direttore_slide.pdf
Rapporto
2009
sull’economia
del Mezzogiorno
Roma, 16 luglio 2009
Riccardo PADOVANI
direttore della SVIMEZ
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
Roma, 16 luglio 2009
2,9
0,9
1,8
CRESCITA DEL PIL
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
-1,00,9
-1,1
2008
2007 Fig. 1
7,9
Mezzogiorno
Centro-Nord
5,0
TASSI ANNUI DI VARIAZIONE % DEL PIL
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
2001 - 2008
Cumulata
Mezzogiorno Centro-Nord
0,5
0,4
2002
0,0
-0,3
2003
1,8
0,5
2004
0,8
0,4
2005
2,1
1,7
2006
0,9
2007
1,8
-1,1
2008
-1,0
1,7
2,3
2001
Fig. 2
Tassi medi annui di variazione % di PIL,
popolazione e PIL pro capite (2001-2008)
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
Mezzogiorno Centro-Nord
PIL 0,6 1,0
Popolazione 0,2 0,9
PIL pro capite 0,4 0,1
Fig. 3
PIL pro capite nelle aree “deboli” e nelle aree “forti” Ue
Tassi medi annui di crescita (%) 1999-2005
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
REGIONI
NON Obiettivo 1
REGIONI
Obiettivo 1
ITALIA 0,7 0,6
GERMANIA 0,8 1,8
SPAGNA 1,8 2,4
UE a 27 1,3 3,0
Fig. 4
2,4
5,8
-2,6
2,3 1,2
11,0
Mezzogiorno
Centro-Nord
3,5
-2,1
2,9 2,3
-0,3
9,32001 2002 2003 2004 2005
TASSI ANNUI DI VARIAZIONE % DEGLI INVESTIMENTI FISSI LORDI TOTALI
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
2001 - 2008
4,5
2006
2,4
Cumulata
Mezzogiorno Centro-Nord
1,1
2007
2,3
-2,8
2008
-3,0
Fig. 5
0,8
2,8
-5,5
-1,2 -1,9
-5,1
Mezzogiorno
Centro-Nord
-4,8
-6,5
1,4
-2,4 -6,2
-15,7
2001 2002 2003 2004 2005
TASSI ANNUI DI VARIAZIONE % DEGLI INVESTIMENTI FISSI LORDI INDUSTRIALI
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
2001 - 2008
10,0
2006
3,9
Cumulata
Mezzogiorno Centro-Nord-0,5
2007
2,0
-6,7
2008
-5,6
Fig. 6
ANDAMENTO DEL PIL PRO CAPITE DAL 1951 AL 2008
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
0
5.000
10.000
15.000
20.000
25.000
30.000
35.000
1
9
5
1
1
9
5
4
1
9
5
7
1
9
6
0
1
9
6
3
1
9
6
6
1
9
6
9
1
9
7
2
1
9
7
5
1
9
7
8
1
9
8
1
1
9
8
4
1
9
8
7
1
9
9
0
1
9
9
3
1
9
9
6
1
9
9
9
2
0
0
2
2
0
0
5
2
0
0
8
E
u
r
o
2
0
0
8
50,0
52,0
54,0
56,0
58,0
60,0
62,0
M
e
z
z
o
g
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o
r
n
o
i
n
%
d
e
l
C
e
n
t
r
o
-
N
o
r
d
Centro-Nord Mezzogiorno Mezzogiorno in % del Centro-Nord
Fig. 7
TASSO DI ACCUMULAZIONE NEL MEZZOGIORNO E NEL CENTRO-NORD
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
10,0
15,0
20,0
25,0
30,0
35,0
40,0
1
9
5
1
1
9
5
4
1
9
5
7
1
9
6
0
1
9
6
3
1
9
6
6
1
9
6
9
1
9
7
2
1
9
7
5
1
9
7
8
1
9
8
1
1
9
8
4
1
9
8
7
1
9
9
0
1
9
9
3
1
9
9
6
1
9
9
9
2
0
0
2
2
0
0
5
2
0
0
8
I
n
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s
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m
e
n
t
i
i
n
%
P
I
L
Tasso di accum. Centro-Nord Tasso di accum. MezzogiornoCentro-Nord Mezzogiorno
Fig. 8
CONSUMI DELLE FAMIGLIE E CONSUMI ALIMENTARI
Variazioni percentuali nel 2008
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
Mezzogiorno Centro-Nord
TOTALE -1,4 -0,9
- Alimentari -2,7 -2,1
Fig. 9
ANDAMENTO CONGIUNTURALE DELL’OCCUPAZIONE
TASSI DI VARIAZIONE % TENDENZIALI E VARIAZIONI ASSOLUTE
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
-90-114-0,5-1,8I trimestre 09
150-1260,9-1,9IV trimestre 08
165-641,0-1,0III trimestre 08
Valori percentuali Valori assoluti(migliaia di unità)
Mezzogiorno Centro-Nord Mezzogiorno Centro-Nord
I trimestre 08 -0,2 2,1 -15 339
II trimestre 08 1,0 1,3 69 214
Fig. 10
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
65.000 Rientri
56.000 Temporanei
120.000 Trasferimenti
173.000 Temporanei
I TRASFERIMENTI DI RESIDENZA E IL PENDOLARISMO
Fig. 11
STRUTTURA PER ETA’ E SESSO DELLA POPOLAZIONE RESIDENTE NEL MEZZOGIORNO
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
Anno 2007 Anno 2037
Fig. 12
QUOTA DEL MEZZOGIORNO SULLA SPESA IN CONTO
CAPITALE DELLA P.A.
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008
Spese d’investimento 35,4 32,6 30,6 30,7 32,3 32,9 34,0 35,0
Trasferimenti capitale 49,9 48,7 48,1 47,5 45,0 43,2 37,7 34,8
TOTALE 41,1 39,3 37,5 36,6 36,9 36,8 35,4 34,9
Fig. 13
SPESA IN CONTO CAPITALE DELLE IMPRESE
PUBBLICHE LOCALI
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
10,910,79,57,67,46,87,1Centro-Nord
19,716,719,323,319,119,218,8
Mezzogiorno in % Italia
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007
Valori assoluti (miliardi di euro)
Mezzogiorno 1,6 1,6 1,8 2,3 2,3 2,1 2,7
Fig. 14
SPESA IN CONTO CAPITALE DELLE IMPRESE
PUBBLICHE NAZIONALI
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
18,027,820,528,513,312,58,8Centro-Nord
23,615,526,331,623,523,326,4
Mezzogiorno in % Italia
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007
Valori assoluti (miliardi di euro)
Mezzogiorno 3,2 3,8 4,1 13,2 7,3 5,1 5,6
Fig. 15
QCS 2000-2006: PROGETTI COERENTI
Situazione al 31-12-2008
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
64,085,78.377Reti e nodi di
servizio
2,52,623Assistenza tecnica
Assi Valori assoluti(milioni di Euro)
In % della dotazione
finanziaria
In % dei progetti
identificati
Risorse naturali 4.173 54,5 38,9
Risorse culturali 794 31,5 26,6
Risorse umane 1.542 18,6 15,8
Sistemi locali di
sviluppo 4.092 27,7 22,4
Città 1.433 70,2 44,6
TOTALE QCS 20.434 44,5 34,7
Fig. 16
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
Pasquale Saraceno, Introduzione al “Rapporto SVIMEZ sul Mezzogiorno 1975”
“Quando, come quest’anno, non vi è alcun surplus dell’economia da
distribuire tra varie alternative di utilizzazione, ma anzi è l’impoverimento
generale che occorre distribuire, la forza organizzativa di pressione e di lotta in
difesa degli interessi immediatamente minacciati, tende naturalmente a prevalere
….. Le regioni settentrionali sembrano di fatto reclamare a sé la parte più
rilevante delle risorse da destinare alla ristrutturazione, e quindi anche al futuro
sviluppo, dell’industria italiana ….. Non sarebbe certo sorprendente….. che il
grande obiettivo dell’unificazione economica del Paese sia di fatto travolto da
una successione di decisioni condizionate dall’evolversi della congiuntura.”
[Di fronte a un simile rischio] “Oggi meno che mai il Mezzogiorno può essere
considerato un problema residuo, da affrontare solo se e dopo che si sia risolto
quello del rilancio dell’economia. Il Mezzogiorno è … un problema di politica
generale, che deve trovar posto nelle strategie della ripresa ”.
Fig. 17
Riccardo PADOVANI
direttore della SVIMEZ
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
Roma, 16 luglio 2009
Svimez 2009/03_Vicedirettore_testo.pdf
Rapporto
2009
sull’economia
del Mezzogiorno
Roma, 16 luglio 2009
Roma, 16 luglio 2009
Luca BIANCHI
vice direttore della SVIMEZ
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
LE RIFORME STRUTTURALI
UNA PRIORITA’ DELL’AZIONE
PER IL MEZZOGIORNO
LE RETI FORMATIVE
LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
IL SISTEMA DI WELFARE
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
LA RETE FORMATIVA
Iscritti all’università per 100 diplomati nel Mezzogiorno
62,8
72,2
70,6
64,5
58
60
62
64
66
68
70
72
74
2000 2002 2004 2007
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
Aumenta la
dipendenza dalle
famiglie
Riduce la crescita
demografica e la
mobilità sociale
Aumenta il legame
tra istruzione dei
genitori e risultati
dei figli
Tasso di iscrizione
in diminuzione
Scoraggiamento ad
investire
nell’istruzione
superiore
Consapevolezza di
una effettiva
disuguaglianza
sociale
LA RETE FORMATIVA
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
La mobilità per motivi di studio
72.000 si
iscrivono
nel Sud
Iscrizioni all’università
1%
24.000 si
iscrivono
al Nord
(2 su 3
trovano lavoro
al Nord)
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
72.000 nel Sud
46.000 lavorano
15.000 vanno al Nord
31.000 restano al Sud
La mobilità per motivi di studio
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
33.000 disoccupati 26.000 lavorano al
Nord
37.000 lavorano al Sud
La mobilità dei 96.000 laureati del Sud
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
41,5% dei laureati
meridionali che, dopo
tre anni, lavorano
emigrano al Nord
+10% rispetto al 2001
Il 40% con votazione di 110
Studiare Emigrare
La mobilità dei laureati del Sud
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
20.000 rientri nel
secondo
semestre del
2008 (soprattutto
donne)
173.000 Trasferimenti
+15,3% rispetto al 2007
80% meno di 45 anni
24% laureato
I nuovi emigranti: il pendolarismo
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
IMPATTO SULLA QUALITA’ DELLA VITA DEI
CITTADINI E SULLE CONDIZIONI DEL
“FARE IMPRESA” NEL SUD
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
INEFFICIENZE
IRREGOLARITA’ DISTRIBUZIONE ACQUA
21,8% 9%
30% in Sicilia e Calabria
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
INEFFICIENZE
ATTESA > 20 min ALLO SPORTELLO
POSTEASL
53% 40%45% 25%
POSTEASL
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
INEFFICIENZE
SANITA’
Insoddisfazione
servizi ospedalieri
Mobilità per ricoveri
ospedalieri
Sud Nord
Sud Nord
10% 5% 82% 54%
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
INEFFICIENZE
GESTIONE RIFIUTI
0%
10%
20%
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
100%
Mezzogiorno Centro Nord
Discarica Incenerimento Recupero Compostaggio
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
INEFFICIENZE
SISTEMA GIUDIZIARIO:
DURATA MEDIA PROCEDIMENTI
DI COGNIZIONE ED ESECUTIVI
Di cui cause di lavoro1°grado
1200
gg
750
gg
1000
gg
500
gg
2300
gg
1000
gg
Esecutivi
Sud Nord
Sud Nord
Sud Nord
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
INEFFICIENZE
OPERE PUBBLICHE:
PROGETTAZIONE E AGGIUDICAZIONE OPERE
Approvazione e
aggiudicazione
Progettazione
1000
gg
380
gg
272
gg
93
gg
S
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Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
UN WELFARE PIU’ EQUO TRA LE
GENERAZIONI E I TERRITORI
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
WELFARE
I PENSIONATI GIOVANI
IL 46,8% DEI 50-69ENNI VA IN PENSIONE PER
RAGGIUNTI LIMITI DI ETA’
IL 35% PER MANCANZA DI INTERESSE
IL 3% PER INCENTIVI ECONOMICI
L’ETA’ MEDIA DI PENSIONAMENTO E’
56,3 ANNI CON 34,4 ANNI DI CONTRIBUTI AL NORD
58,3 ANNI CON 33,1 ANNI DI CONTRIBUTI AL SUD
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
WELFARE
SPESA PER PRESTAZIONI SOCIALI E PER PENSIONI
0 1000 2000 3000 4000 5000 6000 7000 8000
Mezzogiorno
Grecia
Italia
UE25
Centro-Nord
Germania
Francia
Prestazioni sociali Pensioni
Welfare pro-capite
7200 € al Nord
5700 € al Sud
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
WELFARE
LIVELLO LOCALE
1Campania
Bambini in asilo nido x
100 bambini
Emilia 24
Toscana 17
ITALIA 9
Mezzogiorno 4
Calabria 1
Welfare locale pro-capite
Nord 127
Sud 54
Spesa pro-capite area
famiglia-infanzia
Nord 130
Sud 48
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
WELFARE
LIVELLO LOCALE
% Anziani
assistiti
Spesa per
anziano
Mezzogiorno 2,1 1.390
Centro-Nord 2,6 1.650
% Disabili
assistiti
Spesa per
disabile
Mezzogiorno 5,7 2.727
Centro-Nord 8,9 4.579
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
WELFARE
AMMORTIZZATORI SOCIALI
Occupati senza tutela
Italia 2 milioni
Mezzogiorno 650mila
550mila1,1 milioniMezzogiorno
Disoccupati
Irregolari e disoccupati
Irregolari
30% della forza lavoro al Sud è senza tutele;
il 50% considerando anche gli autonomi
Rapporto SVIMEZ 2009
sull'economia del Mezzogiorno
REDDITO DI ULTIMA ISTANZA
IPOTESI DI COSTO
1.938.310.680974milaItalia
930.389.126443milaMezzogiorno
213.214.175133milaCentro
794.707.379398milaNord
Costo stimato
(€)
Famiglie povere e stima sul costo di una
integrazione del reddito
Famiglie
povere
Svimez 2009/04_Novacco_testo.pdf
SVIMEZ
1
INTRODUZIONE AL DIBATTITO
SULLE POLITICHE STRUTTURALI
PER LO SVLUPPO E PER LA COESIONE NAZIONALE
a cura di Nino Novacco, Presidente SVIMEZ
La SVIMEZ sollecita
un franco confronto nazionale di politica economica,
ed impegni strutturali
sul futuro del Mezzogiorno e dell’Italia.
Roma, 16 luglio 2009
SVIMEZ
1
La SVIMEZ sollecita un franco confronto nazionale di politica economica,
ed impegni strutturali sul futuro del Mezzogiorno e dell’Italia.
Intervento introduttivo di Nino NOVACCO, Presidente SVIMEZ
1. Ancora una volta − e di sicuro peggio che altre volte, per la natura mondiale della crisi
in atto − i dati della congiuntura economica e sociale italiana non sono rosei, né per l’intero
Paese rispetto al mercato europeo e globale, né, a livello delle nostre storiche macro-
regioni, per la vasta area del Mezzogiorno, la cui crescita la SVIMEZ ha documentato
essere stata anche nell’ultimo anno inferiore a quella del Centro-Nord.
Il Sud è un’area ampia ed articolata, composta da 8 Regioni e 41 Province, con 21
milioni di abitanti (il 35,6 % dell’Italia), e con una superficie di 124.000 Kmq (il 46,1 %
dell’Italia), sia con una poco articolata struttura industriale ed occupazionale nelle
manifatture, sia con un più debole PIL (solo il 23,9 % di quello dell’Italia), sia con un PIL
pro-capite (di oltre 15.000 Euro) che certo è assai più elevato di quelli attuali di Paesi
(africani, asiatici e latino-americani marginali) che una volta si chiamavano “in via di
sviluppo”. Ma non è certo con tali Paesi che dobbiamo prioritariamente confrontarci, visto
che siamo parte integrante dell’Italia e dell’Europa, ed è rispetto ad esse che siamo
quotidianamente impegnati a competere.
Anche se il PIL pro-capite del Mezzogiorno viene paragonato con quello del Centro-
Nord − cioè con la realtà politica ed economica di quella parte fondamentale ed avanzata
dell’Italia e dell’Ue di cui anche il Sud è componente −, esso presenta sistematici scarti; e
sono tali divari che dobbiamo contrastare.
Nella graduatoria nazionale, la Regione del Mezzogiorno mediamente più ricca
(l’Abruzzo, con 18.915 Euro pro-capite) presenta un ampio distacco di quasi 3.800 Euro
con la Regione (l’Umbria, che ha 22.734 Euro pro-capite) che è la meno avanzata
dell’Italia Centrale, mentre il distacco tra il valore del PIL pro-capite di quella meno
prospera regione centro-settentrionale è superiore di oltre 8.500 Euro al dato pro-capite
della più povera regione meridionale. E ciò mentre il distacco del PIL pro-capite tra la più
ricca regione del Nord-Italia e la più povera del nostro Sud è di quasi 37.000 Euro.
SVIMEZ
2
Anche volendo esprimere i divari rispetto non alle Regioni, ma alle macro-aree del
Paese, il Sud ha un PIL pro-capite medio di 15.280 Euro, contro i 27.515 Euro medi del
Centro-Nord (oltre 12.000 Euro di scarto), con un differenziale percentuale sul proprio
valore dell’80%. Ed anche rispetto alla media nazionale il Sud presenta uno scarto di PIL
pro-capite medio (7.800 Euro circa) che è pari al 50 % del proprio valore.
2. I citati incontestabili divari interni sono figli della geografia e della storia, e riflettono
la circostanza che un Paese geograficamente lungo e stretto come l’Italia non può non
risultare influenzato − nella dinamica delle sue 20 Regioni − dalla prossimità o dalla
lontananza di esse dalle aree più avanzate e forti del Continente Europeo, e dal fatto che i
fattori cumulativi della crescita giocano sempre a favore delle aree in cui lo sviluppo −
manifatturiero ed occupazionale − si è reso possibile prima che altrove, come è avvenuto
storicamente per l’Inghilterra e la Germania rispetto all’Italia.
Quando poi né il mercato né le politiche nazionali sono capaci per qualsivoglia
ragione di garantire una strategica distribuzione nei territori delle realizzazioni e degli
interventi di politica economica capaci di correggere od attenuare gli squilibri strutturali
che si siano consolidati nel tempo, si può essere certi che risultati di “convergenza” e di
tendenziale “coesione” saranno non solo improbabili, ma sicuramente impossibili.
Ma questa condizione non è ragionevole possa valere per uno Stato-Nazione come
l’Italia, che − Leghe nordiste, ed estremistici localismi a parte − si vuole sia e rimanga
struttura unitaria, nel senso che in esso tutti i cittadini debbono avere gli stessi diritti, e
comunque analoghe opportunità, ovunque essi risiedano, al Nord o al Sud. Ed è questa la
ragione per cui − con questo mio intervento − sollecito un approfondito confronto di
strategie e di riflessione politica per lo sviluppo nazionale, ed insieme impegni strutturali
sul futuro del Mezzogiorno, condizione per lo sviluppo dell’Italia tutta, come la Banca
d’Italia ha più volte sottolineato.
3. Dopo il periodo (1950-1975 circa) di politica “straordinaria” per il Sud − anni
caratterizzati dall’operatività di un organismo speciale quale seppe essere per quasi cinque
lustri la “Cassa per il Mezzogiorno” −, in Italia dopo gli anni ’70 si è tornati, anche per le
pressioni esercitate dalle allora neonate Regioni, ad una politica “ordinaria”, affidata ad
Amministrazioni pubbliche centrali e locali che non avevano esperienze in materia di
interventi intersettoriali di lunga durata, e che tendevano e tendono tutt’oggi ad operare
SVIMEZ
3
non in base ad un disegno di geografia volontaria, finalizzata allo sviluppo e capace di
concorrere a determinarlo, ma sulla base della domanda dell’economia e dei mercati
esistenti; e che per questo erano e sono attenti soprattutto alle esigenze di ordinaria crescita
ed integrazione di un sistema produttivo cui era sufficiente che lo Stato ed i poteri pubblici
accompagnassero la crescita che già c’era, e che risulta da tutti riconoscibile soprattutto in
talune aree più avanzate del Centro-Nord; per contro sembrava e sembra non interessare
nessuno il fatto che i poteri pubblici non fossero e non siano capaci di consentire e di
favorire la crescita delle aree più arretrate del Sud, obiettivo evidentemente non
considerato prioritario.
4. L’Europa economica si avviò nel 1957 tra 6 Paesi; ma solo l’Italia era tra essi
caratterizzata dalla sistematicità dell’arretratezza − corposa ed unitaria, seppur certo
articolata − dell’intero proprio Mezzogiorno. Dalle politiche europee siamo perciò stati
condizionati nei successivi ampliamenti [a 9 Stati; a 10; a 12; a 15; a 25; a 27], dato che la
Comunità ha sempre privilegiato la logica di accompagnare lo sviluppo delle aree
avanzate e forti − e non è stata capace di rendere determinanti le scelte della politica
“regionale” prima, e delle politiche di “coesione”: dopo il MEC, quelle della CEE e quelle
dell’UE.
La logica para-federalista delle Istituzioni europee,
[che − malgrado l’impegno del “Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale” (FESR) e del “Fondo
Sociale Europeo” (FSE) − si è parametrata alla dimensione delle Regioni NUTS 2, fissando
arbitrariamente come soglia di uno sviluppo giudicato accettabile per tutti il fantasioso valore del 75%
del PIL pro-capite medio della Comunità, frattanto ridimensionatosi con l’adesione all’Ue di Paesi
assai più poveri del nostro],
quella logica non è riuscita a costruire approcci e a darsi ottiche capaci di contrastare i
divari territoriali continentali, nessuno dei quali presentava peraltro, come si è detto,
caratteristiche analoghe a quelle del sistematico dualismo italiano.
La realtà del Mezzogiorno italiano ne è risultata anche per ciò penalizzata, come è
avvenuto in occasione della istituzione in Europa del “Fondo per la coesione” − da cui il
Mezzogiorno è stato purtroppo capziosamente escluso, senza adeguate resistenze italiane
−, mentre il solo elemento innovativo che è possibile ritrovare nella politica europea è
proprio l’originale disegno geografico dei “corridoi” continentali, con i quali le politiche
nazionali avrebbero potuto e dovuto collegarsi, per costruire reti e snodi e circuiti regionali
ed interregionali efficienti, la cui esistenza e funzionalità avrebbe dovuto essere (ed è un
SVIMEZ
4
vincolo che ancor oggi permane, ed è valido anche per il futuro) la premessa ad ogni
sviluppo produttivo, nelle industrie, nei servizi, nel turismo; non attraverso opere singolari
pur valide qua o la, ma attraverso una pluralità di opere capaci di costruire le maglie di un
sistema infrastrutturale comparabile a quello che ha reso altrove conveniente nel tempo la
localizzazione di imprese produttive valide e concorrenziali.
5. Dopo l’abbandono a metà degli anni ’70 dell’impegno di Gabriele Pescatore e della
Sua squadra tecnica (Piero Grassini, Celentani Ungaro, Giulio Leone, Francesco Curato,
per non dir d’altri) e con la cessazione formale nel 1993 della pur necessaria ed utile
straordinarietà della “Cassa”, vi fu intorno al passaggio di Secolo il tentativo di fare
politica nazionale di sviluppo e di coesione attraverso la troppo dispersiva e localistica
“nuova politica economica” dei troppi progetti del DPS,
[che pur ha avuto non pochi meriti metodologici e statistico-strumentali, ma che non ha saputo tenere
fermi quei parametri politico-tecnici minimi (correttamente richiamati dal prof. Gianfranco Viesti nel
suo recente libro “Mezzogiorno a tradimento”, Laterza 2009), che avrebbero reso possibile conseguire
obiettivi di convergenza e di pur lontana unificazione tra Centro-Nord e Mezzogiorno].
Ma fu tentativo che non poteva non provocare esiti deludenti, per l’assenza di un
unitario disegno strutturale macro-regionale per l’insieme del Sud, e per la disarticolazione
delle realizzazioni nei territori, con opere e approcci definiti dall’Ue “programmatici”, ma
in effetti assai dispersivi, e settorialmente spesso poco determinanti.
Eppure proprio le direttrici europee dei grandi “corridoi” definiti dall’Ue avrebbero
potuto risultare determinanti.
Il corridoio verticale (il n. 1) da Berlino a Palermo, che vuol dire una apertura storica verso i Paesi del
Nord Africa, e forse verso una ipotesi di tunnel sotto il Canale di Sicilia; e quello orizzontale (il
corridoio n. 5) che va dalla Spagna, a Lione in Francia, e fin verso Budapest e la Russia, che vuol dire
una apertura determinante verso l’Est ed il Nord-Est dell’Europa; e quello meridionale (il corridoio n.
8) disegnato per collegare l’Italia all’Albania e alla Bulgaria (e viceversa), che vuol dire una
importante apertura, anche petrolifera, con i Balcani ed in direzione (non necessariamente politica)
della Turchia e del Medio Oriente anche islamico.
Con opportuni innesti a quei corridoi noi avremmo dovuto saper rendere operativa
la trama e il tessuto dello sviluppo; sviluppo certo impossibile senza efficaci ed efficienti
infrastrutture e servizi a rete, servizi alcuni dei quali già oggi positivamente funzionanti, a
partire dalla complessa realtà dell’”Interporto di Nola” – col CIS e col “Vulcano buono”,
nel retroterra napoletano, che sarà presto intensamente collegato per ferrovia col Porto di
Napoli, ed è già oggi collegato con quotidiani treni merci e porta-container con Gioia
Tauro e con Milano Segrate, ma anche con un rinnovato e reso sperabilmente attraente
“fronte del porto” di Napoli, come noi della SVIMEZ avevamo ipotizzato con Paolo
SVIMEZ
5
Baratta e con l’Unione industriali guidata da Giovanni Lettieri(∗), che ha evocato una
“legge speciale” per Napoli, non negata ad altre città; o almeno − direi io − un “progetto
speciale” di valorizzazione di quella straordinaria città.
Quelle direttrici avrebbero potuto e potrebbero costituire la base forte dei contenuti
programmatici e realizzativi del capitale fisso − infrastrutturale e sociale − da rendere
operativo come condizione per la penetrazione e la diffusione dello sviluppo produttivo
nell’intero Mezzogiorno, senza per questo sacrificare le impegnative realizzazioni del
Brennero e degli altri molteplici trafori (la “groviera alpina”, come ebbe a definirla
Francesco Compagna), compresa la nuova direttrice trans-europea dalla Liguria
all’Olanda.
6. È personale convincimento di chi parla, rivolgendosi a quanti nel Paese hanno
responsabilità determinanti nelle scelte strategiche relative alle condizioni dell’economia in
un’area determinata
[ed essi sono forse in troppi, e talvolta con poteri ed orientamenti conflittuali. Chi decide? il Consiglio
dei Ministri?; il Presidente del Consiglio?; un decisivo Sottosegretario alla Presidenza come Gianni
Letta od uno come Bertolaso?; il Ministro del Tesoro?; il Ministro dei Trasporti?; il Ministro
dell’Economia?; il Ministro per le Regioni?; od organi come un rivitalizzato DPS, meglio collocato
nel Governo?; o un più determinato CIPE?],
è mio convincimento che, a parte ogni altra definita priorità organizzativa o gestionale −
quale l’immondizia nel Napoletano, quale il terremoto in Abruzzo o quale il G8 all’Aquila
−, il futuro dell’economia italiana sarà quello che nel più prossimo domani saremo capaci
di adottare, con un disegno strategico e con opere di area vasta, che abbiano caratteristiche
almeno comparabili con le troppe altre scelte extraeconomiche che vengono ogni giorno
definite prioritarie, o rispetto alle quali ci si impegna a definire scadenze: entro pochi
mesi; entro l’anno; entro la Legislatura; entro la prossima futura riunione internazionale…
Ed invece proprio le necessarie ed urgenti strategie della “coesione nazionale”
meriterebbero l’impegnativo sforzo di un progetto (o almeno di un disegno) relativo
all’intero Mezzogiorno, che sia accompagnato da numeri e da importi, qui sì incidendo se
necessario sulle risorse dei cittadini e dei territori, con un effetto di redistribuzione che non
sarà possibile rinviare all’infinito; perché lo sviluppo produttivo non investirà l’intero Sud
fino a quando anche in esso non vi saranno funzionali reti di infrastrutture e di attività −
(∗)
Si vedano in proposito gli Atti del Seminario del 16 aprile 2007 a Napoli., nei “Quaderni del Centro Studi”
dal titolo: “Scelte strategiche per lo sviluppo delle grandi aree urbane del Mezzogiorno”.
SVIMEZ
6
dai trasporti, all’acqua, all’energia, al turismo −, e snodi urbani, ed agglomerati, ed
articolati centri commerciali e produttivi, comparabili a quelli frequenti nel Centro-Nord, e
per altri versi in tanta parte della restante Europa, con i quali non è possibile confrontarsi a
parole, o magari limitandoci ad invidiare gli altri, ed il reddito e l’occupazione produttiva
che essi hanno, e le opportunità che essi offrono, con “costi del lavoro” non altrettanto
gravati da imposte quanto al Sud, che meriterebbe − per lo storico ritardo della sua
economia e produttività − un trattamento di speciale favore da parte dello Stato.
I dati che l’ISTAT ha pubblicato nel luglio 2008 nel proprio “Atlante statistico
territoriale delle infrastrutture” sono − con largamente generalizzata sistematicità −
impressionanti; essi denunciano scarti Nord/Sud che
[nelle autostrade, nei trasporti ferroviari, aerei e fin marittimi, come nell’energia, nel turismo, nella
ricerca e sviluppo e nello stesso sistema bancario e in quello dell’innovazione e delle tecnologie della
comunicazione, per non dire delle tante infrastrutture civili e sociali],
sono alla base della mancata convenienza delle imprese esterne, italiane e straniere, ad
insediarsi nel Mezzogiorno, dove esse vedono quasi solo gli spezzoni di uno “specchio
rotto”, e non un’immagine coerente di opportunità da utilizzare.
7. Non sono certo così ingenuo da non capire che la riflessione sul futuro dell’Italia che
stò qui sviluppando può non essere gradita a chi, in questa fase storica ma soprattutto
politica dominata dall’immagine e dai media, sembra privilegiare non i problemi macro-
economici dello sviluppo, ma quelli organizzativi ed informatici della società (ordinamenti,
funzionamento della giustizia, efficienza burocratica), che ovviamente hanno pur essi una
loro concreta rilevanza, ma soprattutto per gli interessi reali già presenti ed attivi nel Paese,
o per quelli che sono considerati gli urgenti e più sentiti interessi dalla maggioranza degli
elettori e dei partiti di governo. Il fatto è che non pare ragionevole accettare che i problemi
dei rapporti tra i poteri costituzionali (come tra giudici istruttori e magistrati giudicanti, ad
esempio, o in materia di intercettazioni telefoniche, o di proliferanti “ronde” urbane o di
sicurezza privata, con inevitabili implicazioni ostili agli immigrati stranieri), vengano
considerati, a 150 anni dal compimento dell’Unificazione politica dell’Italia, prioritari
rispetto a quelli della tendenziale eguaglianza dei cittadini che vivono nei territori
nazionali.
Troppo ci si riempie oggi la bocca con esaltate esigenze di riforme, e di
modernizzazione, e di garanzie dei più privati diritti personali, correndo peraltro il rischio
SVIMEZ
7
di cambiare i valori stessi che stanno iscritti nella prima parte della Costituzione del 1948,
sulla base di una visione non equilibrata del “federalismo”, i cui fautori estremisti di
Lombardia e dintorni (contro le cui tesi la SVIMEZ si è dovuta per anni impegnare, non
senza un qualche successo) non si fermeranno certo all’attualmente definito testo sul
“federalismo fiscale”, che di per sé, senza un serio ulteriore tira e molla, non garantirà di
sicuro il Sud, ma torneranno a premere per nuove, fantasiose ed antiunitarie devoluzioni.
Ed occorre con franchezza dire e ricordare a tutti che intorno alla “questione” del
Mezzogiorno e degli squilibri Nord-Sud, su cui già dal tardo ‘800 il meridionalismo
classico attirava l’attenzione degli uomini di Stato italiani, vi è oggi un clamoroso silenzio,
ed una sistematica assenza di attenzione e di interlocuzione propositiva, anche da parte
della stampa e della cultura, quasi più attente ad una non comparabile “questione
settentrionale”, di tutt’altra natura e portata rispetto alla “questione meridionale”, su cui un
primo gruppo di istituzioni culturali italiane ha portato con doverosa modestia – assieme
alla SVIMEZ – la propria attenzione, sottoscrivendo − da una comune ottica
meridionalista − un messaggio al Paese.
8. Se si escludono i prima richiamati positivi brevi lustri del c.d. “intervento
straordinario” per il Mezzogiorno degli anni a metà del ‘900, è un fatto che anche le
“Leggi speciali regionali” emanate a cavallo tra XIX° e XX° Secolo, o anche opere di
eccezionale singolare valore − quali la trasformazione del Fucino e poi delle Paludi
Pontine, o quali le città costruite dal Regime fascista, o più tardi la creazione del sistema
autostradale italiano − prescindevano sovente da una sistematica logica di riequilibrio,
spesso essendosi trattato di opere puntuali (come avvenne per tanti stabilimenti meridionali
della chimica, ad esempio), e per ciò stesso senza implicazioni straordinarie, oppure
essendosi trattato di reti “monche”, che al meglio sono partite da Milano per fermarsi a
Napoli (se non ad Eboli, come scriveva Carlo Levi). E siamo − oggi, nel 2009 − ancora
fermi alla finta “Autostrada” dell’ANAS che dovrà collegare la Campania con la Calabria,
e ad un assai incompleto disegno ferroviario di Alta Velocità e Capacità, che invece − nella
logica (anche siciliana) del Corridoio 1 da Berlino a Palermo, e del Corridoio 8 da Napoli
a Bari e Brindisi e Taranto, e verso i Balcani − dovrebbe oggi trovarsi assai oltre gli attuali
programmi, ed oltre le troppo lente programmazioni, per non dire della rilevabile assenza
di compiute realizzazioni, come il circuito autostradale della Sicilia.
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8
Anche con riferimento ad uno dei tanti esercizi propagandistici che i Governi sanno
fare − si pensi all’impegno che ha riempito per alcuni anni la bocca dei governanti di
centro-sinistra, ed all’impropria invidia degli Amministratori del Centro-Nord e di non
pochi dei suoi economisti, in ordine agli oltre 100 miliardi di Euro, nazionali e dell’Ue, da
destinare al Mezzogiorno nell’arco del settennio 2007-2013, forse ultimo periodo di
concreto impegno di risorse europee per l’Italia −, ben poco di concreto è successo in
ordine sia all’obbligo morale e tecnico di avviare le realizzazioni, sia a quello di destinare
comunque al Sud l’85% dei Fondi FAS e simili. Ed ancora oggi il Governo gioca a
dirottare dal Sud risorse mai seriamente assegnate, e mai rese né disponibili né certe, con la
assai debole scusante che gli Amministratori del Mezzogiorno non sanno spendere, o
spendono male, per cui tanto vale non assegnare loro le pur dovute risorse.
9. Quando alcuni anni fa mi presi l’ardire di graficizzare davanti al Parlamento i decenni
necessari a far muovere determinatamente l’Italia verso la convergenza e l’unificazione
economica ed industriale, apparvi a molti quasi un provocatore; e quando ricordai al
“Ministro del Programma” del Governo di centro-sinistra di allora il senso e la strategia
riequilibratrice nazionale dello “Schema Vanoni”, lo vidi sorridere se non irridere, quasi
avessi raccontato una barzelletta.
E quando dissi poi che sarei stato contento di un risultato di coesione Nord/Sud da
raggiungere entro i prossimi 50 anni − e per questo proposi ai soci SVIMEZ di fissare al
2050 la durata ulteriore della piccola nostra Associazione − il solo risultato concreto parve
essere quello di ridurre al lumicino, assieme al numero dei nostri Associati, il contributo
che lo Stato assegnava alle nostre attività di analisi e di ricerca macro-economica e
strategica, di cui il Rapporto oggi presentato è ricorrente e valida testimonianza..
SPES CONTRA SPEM, dicemmo nel 2004 ricordando il prof. Pasquale Saraceno,
meridionalista valtellinese. Ripeto quel convincimento, segnalando a tanti acidi critici del
Sud che non abbiamo mai chiesto soldi e risorse, ma esposto meditati suggerimenti, quali:
• dar vita in Italia ad un apposito “Comitato interministeriale per lo sviluppo e la
coesione”;
• assicurare poteri di indirizzo e controllo di una appositamente innovata “Commissione
parlamentare bicamerale per lo sviluppo e la coesione”;
• accrescere i poteri di coordinamento “centrale” e di stimolo del Presidente del
Consiglio dei Ministri, rispetto a competenze settoriali, regionali e localistiche;
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• assicurare “certezze” in ordine alle risorse pluriennali − e strutturali, e strategiche, e
speciali − da destinare alla coesione e all’unificazione, nello spirito dell’art. 119
comma 5 della vigente Costituzione, da cui pure il richiamo al Sud era stato
cancellato dal centro-sinistra alla Bassanini, in omaggio alla esaltata ordinarietà
degli interventi nell’intero Paese.
L’anno scorso, nel luglio 2008, ho qui ripetuto a nome della SVIMEZ i citati
suggerimenti, aggiungendo l’invito alle Istituzioni ad organizzare una autorevole
“Conferenza Nazionale sul Mezzogiorno”, che certo non potevamo essere noi − piccoli e
privati − a promuovere formalmente, ma che peraltro ci appare ancor oggi strumento
necessario a dare la giusta dimensione all’impegno nazionale ed a quello degli
Amministratori regionali e locali del Sud. È in effetti ad essi che spetta − con la
responsabilità di programmare e di spender bene − il determinante impegno a contrastare
ogni inefficienza ed ogni spreco − come quelli che sono stati in qualche modo consentiti ai
danni dell’Europa per carenza di seri, costanti ed onesti controlli da parte delle nostre
Pubbliche Amministrazioni specie locali − e di combattere ogni forma impropria di
“intermediazione” ed ogni illegalità e collusione mafiosa, che scoraggia anche imprenditori
ed imprese, e che costituisce assai grave ostacolo all’immagine positiva che il Meridione,
come l’Italia, in generale, merita.
Ma anche la riflessione a favore di un futuro migliore dell’Italia tutta − Nord e Sud −
sembra essere recepita dal sistema nazionale come una operazione non unitaria e non
prioritaria, cui cinicamente si adeguano tutti i partiti, al Nord sempre più “federalisti” alla
Bossi − considerato vincente e desideroso di stravincere in quei territori −, ed al Sud al
limite di crescenti illusioni “localiste”, trasversali od interne a partiti vecchi e nuovi ed a
loro esponenti, in Sicilia addirittura con tentazioni “para-separatistiche”, evocando fin
Antonio Canepa ed il suo Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia del
dopoguerra.
Ma la risposta all’arretratezza strutturale del Sud non sarà mai figlia solo dei partiti e
della politica locale − che pur certo contano, specie se vogliono restare meridionalisti ed
unitariamente nazionali − ma sono altro dalle strategie macro-economiche, e dai mercati
concorrenziali, su cui la battaglia economica del Sud va unitariamente condotta, qui sì
contestando il Nord, divenuto insieme piagnone e prepotente.
E ciò, a mio preoccupato giudizio, è ben più che scoraggiante, perché rischia di
togliere fondamento ad ogni possibile prospettiva di realistico “meridionalismo”, ed
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10
insieme di doveroso impegno di “unificazione economica nazionale”. Ed invece è su ciò
che vorrei si discutesse, se è vero che anche la Chiesa Cattolica italiana sembra prendere
coscienza della necessità − dopo quello del 1989 − di un nuovo documento “meridionale”
che sia finalmente non solo “sociale”, ma attento ed aperto alla “coesione economica”
anche dei territori, la cui condizione − ed il cui livello di sviluppo strutturale ed
infrastrutturale, che risulta poco attraente per i capitali esteri ed esterni − vincola le
legittime opportunità ed i diritti stessi degli uomini e dei cittadini, che nei territori dello
Stato dovrebbero poter vivere con pari opportunità e dignità.
Su ciò ho combattuto per quasi sessant’anni quella che io mi permetto di giudicare la
mia “buona battaglia”; ma temo di non essere ormai in grado di poter fare assai di più. Ed
alla mia età me ne scuso, sperando che sia altri − o meglio la politica cui sono stato vicino,
quella alta e nobile, nazionale e mai localistica − a saper fare quel che serve all’Italia.
Roma, 16 luglio 2009
Nino Novacco
Presidente SVIMEZ
Svimez 2009/05_Scheda_sintesi.pdf
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SVIMEZ
Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno
RAPPORTO SVIMEZ 2009
SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO
INTRODUZIONE E SINTESI
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Indice
1. Il Mezzogiorno prima, dentro e oltre la crisi p. 5
2. Necessità di una riforma interna della politica per il Sud p. 10
2.1. La spesa pubblica p. 11
2.2. La politica di coesione p. 13
2.3. Le politiche per il Sud nella crisi p. 16
3. Perché serve una politica industriale per il Sud p. 19
3.1. La difficile integrazione dell’industria del Sud p. 19
3.2. Le ragioni di una politica regionale p. 22
4. Le reti per lo sviluppo e lo sviluppo delle reti p. 25
4.1. Il completamento del sistema dei trasporti p. 25
4.2. Completare le reti formative e di transizione tra
scuola e lavoro per fermare la fuga dei cervelli
p. 28
4.3. Credito e reti bancarie p. 30
5. Le riforme della Pubblica Amministrazione e del
Welfare: una priorità per la crescita del Sud
p. 34
5.1. Una Pubblica Amministrazione al servizio dello
sviluppo
p. 34
5.2. Un Welfare più equo tra le generazioni e i territori p. 37
5
Introduzione e sintesi
1. IL MEZZOGIORNO PRIMA, DENTRO E OLTRE LA CRISI
La stesura del Rapporto di quest’anno interviene in una fase in cui la
crisi internazionale si sta ripercuotendo sull’economia nazionale con una forza
anche maggiore di quella che solo pochi mesi era stata prevista. Il calo degli
ordini, della produzione industriale, degli investimenti e dell’occupazione
configurano una recessione pesante con impatti significativi che tenderanno a
trasferirsi dal sistema economico al tessuto sociale nazionale.
E’ in tale quadro che va collocata l’analisi del presente Rapporto che ha
cercato di mettere in evidenza il processo incompiuto di trasformazione
dell’economia meridionale in questi ultimi anni; processo sul quale continuano
ad incidere debolezze strutturali che affondano le radici nel passato e, al tempo
stesso, alcuni importanti elementi di mutamento dell’economia e della società
meridionali.
L’attuale mix di crisi economica e delegittimazione politica che il Sud
sta attraversando pone ad alto rischio la possibilità di completare la transizione
verso una economia più competitiva e allo stesso tempo indebolisce qualsiasi
prospettiva di ripresa del sistema nazionale.
Occorre invece essere consapevoli che un progetto nazionale per la
crescita del Mezzogiorno e per la valorizzazione delle sue potenzialità
dipenderà in larga parte dal sostegno che una rinnovata azione pubblica
(europea, nazionale e delle Regioni) saprà fornire al sistema delle imprese e alle
famiglie, sia attraverso le politiche anticongiunturali sia attraverso politiche
strutturali di crescita e coesione nel campo delle infrastrutture, dell’innovazione
e ricerca e per lo sviluppo dell’industria.
A tal fine il Rapporto identifica alcune linee di intervento che possono
servire ad accompagnare i processi di modernizzazione in atto: lo sviluppo delle
reti infrastrutturali, tecnologiche, formative e bancarie; una politica industriale
specifica per il Sud; il rafforzamento della qualità del territorio intesa come
gestione dell’ambiente e delle risorse naturali, vivibilità delle aree urbane,
contrasto alla criminalità; l’avvio delle grandi riforme strutturali, della Pubblica
6
Amministrazione e del Welfare in primo luogo, utili per tutto il Paese e
indispensabili per riavviare la crescita del Mezzogiorno.
Il Mezzogiorno nella recessione
La recessione economica che dalla fine del 2008 ha interessato
l’economia nazionale con crescente intensità si sta riflettendo con particolare
intensità nelle regioni del Mezzogiorno. Le prospettive per i prossimi mesi,
nonostante qualche timido segnale di miglioramento soprattutto nel clima di
fiducia di imprese e cittadini, appaiono particolarmente gravi per il nostro
Paese e in particolare per le sue zone deboli. La diffusa percezione di una crisi
che avrebbe riguardato soprattutto le aree più industrializzate del Paese, perché
più aperte alla competizione internazionale, è purtroppo smentita dai dati
relativi sia alla seconda metà del 2008 sia alla prima parte del 2009. L’impatto
della crisi internazionale, infatti, si sta riflettendo con particolare intensità sul
mercato del lavoro meridionale, con brusche riduzioni dell’occupazione e
contemporanei incrementi del tasso di disoccupazione e conseguente
contrazione dei redditi da lavoro delle famiglie. Tali dinamiche si riflettono in
una ulteriore contrazione della domanda interna che va ad aggravare la
tendenza recessiva.
Le stime della SVIMEZ mostrano come già nel 2008 l’economia
meridionale abbia registrato una recessione, sia pur di poco, più grave che nel
Centro-Nord: -1,1% contro il -1,0% del resto del Paese; recessione che, in base
agli indicatori congiunturali territoriali relativi alla prima parte del 2009, ha
conosciuto al Sud una ulteriore forte intensificazione. Una prospettiva critica
che incide su un’area già con elevata disoccupazione e con diffuse situazioni di
povertà e che dunque rischia di determinare effetti pesanti sia in termini
economici che sociali. Ma soprattutto vi è un fatto nuovo rispetto al passato.
Nelle fasi congiunturali negative determinate, come in questo caso, da fattori
esogeni, il Mezzogiorno, proprio per effetto della sua minore apertura
internazionale, tendeva a risentire meno del rallentamento dell’economia
mondiale. Questa volta invece è proprio nel Sud che la crisi rischia di mordere
maggiormente, con effetti fortemente negativi sulla dinamica dei consumi, degli
investimenti e dell’occupazione. Questo perché l’economia meridionale somma
all’inversione ciclica debolezze strutturali che affondano le loro radici nel
tempo e che si aggravano nell’attuale fase congiunturale.
Dal 2002 ad oggi le regioni del Sud sono sempre cresciute meno di
quelle del resto del Paese: nel periodo 2001-2008 l’incremento annuo del
prodotto (a prezzi concatenati) del Mezzogiorno (0,6%) è risultato pari a poco
7
più della metà di quello del Centro-Nord (1,0%). Non si era mai registrato dal
dopoguerra un periodo di sette anni in cui lo sviluppo del Sud fosse
costantemente inferiore a quello del Centro-Nord.
Il divario in termini di prodotto per abitante, che è la misura
comunemente utilizzata per valutare le differenze di sviluppo economico fra
aree, è invece lievemente diminuito a causa dei flussi migratori meridionali ed
esteri in direzione del Nord. Il Pil pro capite del Mezzogiorno è risultato essere
nel 2008 pari al 58,6% di quello del Centro Nord, con un recupero rispetto
all’anno precedente (58,2%), quasi due punti percentuali in più rispetto al
livello del 2000 (56,9%). Si conferma dunque il giudizio dato lo scorso anno di
una leggera convergenza raggiunta per via patologica, cioè non con maggiore
crescita ma con perdita relativa di popolazione
Il Mezzogiorno cenerentola d’Europa
La mancanza di convergenza delle regioni in ritardo di sviluppo con
quelle più ricche che si verifica in Italia nell’ultimo decennio è in
controtendenza con quanto avviene nel resto dell’Europa.
Gli anni duemila sono stati infatti caratterizzati a livello continentale da
un significativo recupero delle aree europee dell’Obiettivo 1, che si sono
sviluppate ad un tasso superiore a quello della media dell’UE a 27: nel periodo
1999-2005 il tasso di crescita medio annuo delle regioni dell’Obiettivo 1 è
risultato del 3% circa, mentre quello medio dell’Unione è stato dell’1,9%. Le
aree Obiettivo 1 del Mezzogiorno non hanno però seguito questo andamento: la
crescita del Pil pro capite è stata nel periodo non solo lievemente minore di
quella italiana (0,6% rispetto allo 0,7%), ma soprattutto molto inferiore a quella
delle restanti regioni Obiettivo 1 dell’Europa.
Il confronto con il complesso delle aree in ritardo di sviluppo in Europa
è sempre sfavorevole alle regioni meridionali: tra il 1995 e il 2005 la quota
italiana della popolazione europea che viveva in regioni con un Pil pro capite
inferiore all’85% della media UE è passata dal 50,7 al 69,8%. Se si ordinano le
208 regioni europee rispetto al PIL pro capite si nota che le 8 regioni
meridionali si situavano nel 1995 tra il 112° e il 192° posto; nel 2005, esse si
collocavano tra la 165a e la 200a posizione.
L’interruzione nel processo di adeguamento competitivo
L’economia meridionale risente particolarmente del fatto di essere stata
colta dalla crisi in una fase di particolare fragilità, mentre si stavano avviando,
8
su tutto il territorio nazionale, processi di aggiustamento sia dal lato delle
imprese, per aumentare la produttività e profittabilità a fronte della accresciuta
pressione competitiva internazionale, sia dal lato del bilancio pubblico, volti
alla riduzione del debito. Tali processi sono risultati ( e appaiono ancora
tutt’oggi) meno intensi nel Mezzogiorno; area che soffre in misura assai più
accentuata delle note debolezze strutturali, riguardanti il modello di
specializzazione produttiva e la capacità innovativa, che caratterizzano il
sistema nazionale nel confronto con i principali paesi sviluppati.
Le analisi del Rapporto mostrano come le imprese meridionali sembrino
essere state maggiormente colpite dall’intensificarsi della concorrenza
internazionale, verosimilmente per motivi di composizione settoriale (nel
Mezzogiorno pesano meno che al Centro-Nord i settori che hanno “tenuto”
meglio, quali ad esempio le industrie meccaniche fornitrici di beni capitali), per
una minore presenza nei mercati emergenti, e per una dimensione media delle
imprese inferiore a quella del Centro-Nord.
In questo contesto, la compressione in atto del processo di
accumulazione al Sud può ridurre drasticamente le potenzialità competitive
dell’area, anche in presenza di una ripresa della domanda interna e
internazionale. Dall’inizio del decennio alla fine del 2008 gli investimenti fissi
lordi sono cresciuti al Sud del 9,3%, quasi due punti percentuali in meno che
nel Centro-Nord (11,0%). Se si analizza solo il settore dell’industria in senso
stretto (che conta nel Mezzogiorno un terzo delle unità locali localizzate nel
Paese), gli investimenti sono crollati cumulativamente nel 2001-2008 del
15,7%, a fronte di una flessione cumulata del 5,1% nel resto del Paese.
All’interno di una simile dinamica, va sottolineato il dato non favorevole del
2008, quando gli investimenti fissi lordi del Mezzogiorno sono diminuiti del
2,8% (-3,0% nel Centro-Nord), dopo una crescita dell’1,1% l’anno precedente,
e, in particolare, quelli industriali hanno fatto segnare un -6,5%.
Va sottolineato che è proprio il meccanismo di accumulazione (in realtà
non solo di capitale fisico ma anche umano e tecnologico) che guida il recupero
di produttività e quindi di capacità competitiva.
Se si analizza l’andamento del divario economico Sud/Nord nel più
lungo periodo, è possibile verificare che un significativo processo di
convergenza si è realizzato soltanto nel periodo compreso tra il 1951 e il 1973,
periodo in cui il processo di accumulazione è stato nel Mezzogiorno elevato e
sempre superiore a quello registrato nel Centro-Nord. Tra il 1951 e il 1973 il
rapporto tra Investimenti e Pil al Sud è circa raddoppiato dal 17% al 33%,
raggiungendo un livello superiore di oltre 10 punti a quello rilevabile nel Nord.
9
Dall’anno successivo esso si indebolisce, crollando nel 1995 ai livelli di 50 anni
prima e riallineandosi a quello del Centro-Nord.
Simili dinamiche riflettono non solo i cambiamenti nel contesto
competitivo e istituzionale ma anche la diversa efficacia delle politiche
pubbliche. Come vedremo nel paragrafo seguente, una riflessione sulla struttura
e i contenuti delle politiche di sviluppo e coesione nel nostro Paese, non può
dunque prescindere da una maggiore finalizzazione degli interventi pubblici
alla capacità di accrescere le convenienze per gli investimenti produttivi.
Nel 2008 ha contribuito alla flessione della domanda interna anche una
contrazione della dinamica dei consumi in tutto il Paese. In particolare, i
consumi delle famiglie hanno fatto segnare una significativa contrazione (-0,9%
al Nord e -1,4% nel Sud), con una estensione specialmente nel Sud delle
difficoltà dal comparto dei beni durevoli a quelli non durevoli: i consumi
alimentari sono calati nel 2008 del 2,7% nel Sud, un punto circa più che nel
Nord, spia di difficoltà a mantenere lo standard di vita che cominciano ad
investire strati sempre più ampi della popolazione.
Alla base del progressivo impoverimento del Mezzogiorno c’è la brusca
contrazione dell’occupazione, registratasi già nel corso del 2008 e poi
aggravatasi significativamente nel 2009. La sequenza nei trimestri è
preoccupante:-1,0% nel terzo trimestre 2008, - 1,9% nel quarto trimestre, poi
riconfermato nel primo del 2009; tra gennaio 2009 e gennaio 2008 si sono persi
al Sud 114 mila posti di lavoro. Nel solo comparto industriale meridionale, che
più sta soffrendo la fase di crisi, l’occupazione si è ridotta di 57 mila unità (-
6,6% a fronte del -0,6% al Centro-Nord). Ciò vuol dire che molti lavoratori,
spesso precari e a termine e quindi, come si vedrà meglio in seguito, privi della
copertura del sistema di ammortizzatori sociali, si sono trovati
improvvisamente senza lavoro e senza reddito. Simili dinamiche, in un area
dove lavora appena il 44% della popolazione in età di lavoro, e le donne che
lavorano sono meno di 3 su 10, costituiscono una situazione di potenziale
emergenza sociale, trascurata dalla politica nazionale, che richiede risposte
assai più incisive.
Migrazioni e calo demografico
L’insufficiente dotazione di capitale fisso sociale e produttivo nel
Mezzogiorno, oltre a lasciare più di una persona su dieci senza lavoro, spinge
ogni anno circa 300 mila persone ad abbandonare il Sud per cercare di
realizzare le proprie aspettative professionali nel resto del Paese. Di questi circa
120 mila abbandonano definitivamente il luogo di origine; si tratta perlopiù di
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giovani individui con un buon livello di scolarizzazione. Ciò non mancherà di
condizionare negativamente, più che in passato, anche l’evoluzione della
demografia del Mezzogiorno. In una fase di forte calo della natalità, la
fuoriuscita delle giovani coorti in età riproduttiva innesca, infatti, un processo
che in poco più di un ventennio si prevede porterà al declino demografico; il
Sud, dagli attuali 20,8 milioni di abitanti diminuirà ai 19,3 milioni, e vedrà
crescere considerevolmente il peso delle classi anziane e vecchie: una persona
su tre avrà più di 65 anni e una su dieci più di 80 anni. Questa difficile
transizione demografica porterà il Sud ad affrontare i problemi propri di
un’economia matura senza aver ancora superato la condizione di ritardo nello
sviluppo. Ciò avrà forti implicazioni, come si avrà modo di sottolineare
nell’analisi sul sistema di Welfare, nella gestione di un’assistenza sociale che
dovrà fronteggiare costi crescenti con insufficienti flussi di ricchezza. Del resto
una popolazione invecchiata esprimi modelli di consumo che tendono a
deprimere la dinamica della domanda interna aggregata, con inevitabili riflessi
negativi sul sistema produttivo domestico.
2. NECESSITÀ DI UNA RIFORMA INTERNA DELLA POLITICA PER IL SUD
L’interruzione di un sia pur minima tendenza alla convergenza tra aree
deboli e aree forti del nostro Paese costituisce, come visto, un’anomalia nel
panorama europeo e richiede una profonda riflessione.
La analisi contenute nel Rapporto mostrano, sulla base di una
valutazione econometrica, che la politica di coesione comunitaria ha contribuito
positivamente ai processi di crescita e di convergenza nell’Unione europea e
che tale contributo è valutabile per il complesso delle regioni Obiettivo 1,
destinatarie di tali risorse, in circa mezzo punto all’anno di crescita aggiuntiva.
Un esercizio similare condotto dalla Banca d’Italia con riferimento alle sole
regioni Obiettivo 1 del Sud ha valutato invece tale contributo in circa 0,25
decimi di punto, a conferma di una minore efficacia delle politiche nel
Mezzogiorno.
Un simile risultato, che non è certamente riconducibile soltanto a difetti
interni alla politica regionale, ma anche ai limiti delle politiche generali
nazionali, richiede una valutazione più ampia delle caratteristiche e dei limiti
della politica di sviluppo nei suoi aspetti quantitativi ma anche nelle carenze
nella qualità degli interventi.
11
2.1. La spesa pubblica
La minore efficacia della politica di coesione nel nostro Paese si colloca
in un contesto caratterizzato da un progressivo indebolimento del processo di
accumulazione di capitale pubblico, indebolimento che si è manifestato con
effetti particolarmente marcati nel Mezzogiorno dove la spesa complessiva
della Pubblica Amministrazione, anche escludendo gli Enti previdenziali,
risulta più bassa che nel resto del Paese. Questo dato smentisce l’opinione
diffusa di un eccesso di spesa nell’area, opinione influenzata da annunci di
rilevanti risorse destinate al Sud che poi, espresse su base annuale e nel loro
ammontare effettivamente disponibile dopo i tagli cui sono sottoposte, risultano
notevolmente più contenute. Il fenomeno riguarda sia le spese correnti che
quelle in conto capitale. Per le spese correnti, la differenza negativa rispetto al
livello pro capite del Centro-Nord è pari nel 2007 all’1,7%; per quelle in conto
capitale, al 2,6%, nonostante che esse comprendano anche le spese effettuate a
valere sulle risorse aggiuntive di origine nazionale e comunitaria destinate
specificatamente allo sviluppo di tale area.
La quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto capitale del Paese è scesa
ulteriormente, negli ultimi anni, dal 41,1% del 2001 al 36,8% del 2006, al
35,4% nel 2007; il valore stimato per il 2008, diminuito al 34,9%, è inferiore al
suo peso demografico ed è ben lontano dall’obiettivo del 40/45% indicato fino
all’anno scorso nei documenti governativi. Si sarebbe in tal modo del tutto
annullata l’aggiuntività delle risorse destinate allo sviluppo del Mezzogiorno
che, al contrario, sarebbero state utilizzate per compensare la insufficiente spesa
ordinaria in interventi di “normale amministrazione”. Poiché quest’anno il
Dipartimento per le Politiche di sviluppo e Coesione non ha potuto rendere
disponibile il dato relativo alla spesa ordinaria, il riferimento è a quello
contenuto nel Rapporto dell’anno scorso, che indicava per il 2007 una quota di
spesa ordinaria destinata alla formazione di capitale nel Mezzogiorno sul totale
nazionale pari ad appena il 21,4%, inferiore cioè di circa 16 punti al peso
naturale dell’area (valutabile nel 38% circa) e di quasi 9 punti rispetto
all’obiettivo del 30% indicato, per questa componente, nei documenti
governativi.
L’effetto negativo sulla dotazione di capitale nel Mezzogiorno,
conseguente al basso livello di spesa in conto capitale effettuato dalle
Amministrazioni Pubbliche, è ampliato per effetto di una ridotta attività di
investimento delle imprese pubbliche nazionali e locali, che danno invece un
forte contributo all’accumulazione di capitale nel Centro-Nord. Per le imprese
pubbliche locali, la quota di spesa localizzata nel Mezzogiorno, poco meno del
12
20% della spesa complessiva a livello nazionale, risente, da una parte, della
debolezza degli Enti locali meridionali e, dall’altra, delle minori capacità
manageriali, espressione della debolezza del sistema produttivo dell’area.
Siamo ben lontani dalla realtà delle imprese locali del Centro-Nord, tra le quali
vi sono vere e proprie holding, con società quotate in borsa che competono a
livello nazionale e internazionale.
Nel caso delle imprese pubbliche nazionali, invece, la concentrazione
degli interventi nel Nord risponde al criterio, nell’ambito di una gestione
privatistica, di privilegiare gli investimenti con maggiore ritorno economico,
localizzati nelle aree già sviluppate dove ampia è la domanda da soddisfare,
piuttosto che quelli in aree non sviluppate dove dovrebbero svolgere una
funzione di stimolo allo sviluppo: spetterebbe allo Stato, che ne è azionista, di
perseguire un’azione redistributiva tra le aree del Paese al momento della
approvazione del contratto di programma con queste imprese, impedendo così
che, ad esempio, le Ferrovie dello Stato destinino appena il 21% degli
investimenti al Sud.
La funzione sostitutiva svolta dalle risorse aggiuntive ha inciso anche
sulla qualità degli interventi volti a rispondere ad una domanda locale, al di
fuori di una seria programmazione e senza una precisa finalizzazione. Vanno
poi considerati i limiti della capacità di progettazione sia per quel che riguarda
la capacità di individuare interventi di maggiore complessità ed impatto sul
territorio, sia come capacità di programmare e approntare un parco progetti tale
da utilizzare tempestivamente e totalmente le risorse disponibili. Il basso livello
di spesa in conto capitale del Mezzogiorno risente infatti della modesta capacità
di spesa espressa dalle Amministrazioni pubbliche nell’area. E’ quanto
mostrano i dati relativi all’utilizzo delle risorse del Fondo per le aree
sottoutilizzate nel 2008: nonostante i tagli agli stanziamenti intervenuti nel
corso dell’anno e l’accantonamento disposto dalla Finanziaria per il 2007, le
risorse assegnate con trasferimento di fondi alle Amministrazioni responsabili
dell’attuazione degli interventi sono diminuite del 40% rispetto al 2007 e
l’incidenza delle assegnazioni sulle disponibilità dell’anno è stata pari al 26%.
La risposta a questi dati però non può essere quella di proseguire nei tagli alle
risorse del FAS; ma piuttosto quella di intervenire sui fattori che limitano la
capacità di spesa per investimenti nel Mezzogiorno.
13
2.2. La politica di coesione
Il ciclo di programmazione dei Fondi strutturali 2000-2006 è giunto a
completamento, essendo scaduto il termine utile per l’erogazione dei contributi
assegnati, fissato al 30 giugno scorso. Al febbraio 2009, per l’Obiettivo 1 si
stimava necessario erogare circa 2,7 miliardi di euro per conseguire il risultato
del completo assorbimento del contributo programmato, pari a 45,9 miliardi.
Il risultato del pieno utilizzo delle risorse comunitarie, che, peraltro,
sulla base dei dati disponibili potrebbe essere a rischio con riferimento ad alcuni
programmi rilevanti, come ad esempio il POR Campania, tuttavia, non è un
dato del tutto significativo.
I target di spesa dell’Obiettivo 1, infatti, sono stati finora raggiunti
grazie anche ad un ampio ricorso ai “progetti coerenti”, progetti che avevano
già copertura in altre risorse nazionali o regionali, presenti in tutti gli Assi
prioritari di sviluppo. Alla fine del 2008, il valore dei “progetti coerenti” è
calcolato pari a 20,4 miliardi di euro, corrispondente al 44,5% del valore della
dotazione finanziaria del QCS 2000-2006 ed al 34,7% del valore dei progetti
identificati. L’uso dei progetti coerenti nella programmazione appena conclusa,
risulta particolarmente elevato in alcuni Assi strategici per lo sviluppo
regionale, riguardanti le infrastrutture, in particolare di trasporto, come ad
esempio “Reti e nodi di servizio”, per il quale la quota risulta superiore ai tre
quarti del valore della dotazione dell’Asse ed oltrepassa il 60% del valore dei
progetti identificati. Sono stati, inoltre, contabilizzati progetti coerenti per circa
un quarto del valore dell’Asse “Sistemi locali di sviluppo”, riguardante
l’incentivazione delle imprese, altra componente fondamentale della politica di
sviluppo regionale.
Una quota di progetti coerenti così elevata non appare fisiologica e
conferma la non aggiuntività di una parte sostanziale del ciclo di
programmazione che si è appena concluso: la spesa in conto capitale aggiuntiva
(comunitaria e nazionale) nelle regioni del Mezzogiorno è stata cioè in
significativa misura diretta a compensare il deficit di spesa ordinaria.
L’elevato ricorso ai progetti coerenti, costituisce una manifestazione di
alcuni importanti limiti del passato ciclo di programmazione ormai largamente
riconosciuti: la mancata concentrazione degli interventi su un numero
selezionato di ambiti, con la dispersione delle risorse aggiuntive finalizzate alla
accelerazione dello sviluppo in una eccessiva molteplicità di progetti; le
lentezze e gli scoordinamenti nella concezione, progettazione e realizzazione
degli interventi stessi, tradottisi spesso nella formazione di residui.
14
Ciò è frutto in buona parte dell’impianto strategico ed istituzionale
stesso della programmazione 2000-2006, che è stato, già in passato, oggetto di
critiche in relazione alla numerosità dei livelli di governo coinvolti ed alle
difficoltà del loro coordinamento, alla mancata individuazione di interventi che
rivestano un ruolo cruciale per lo sviluppo delle aree, all’eccessiva enfasi
attribuita nella impostazione e nella realizzazione della politica ai fattori di
contesto e ai soggetti locali.
La presa d’atto della scarsa efficacia della programmazione 2000-2006
ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno sta chiaramente ad indicare la necessità
di una svolta sia per quanto riguarda le modalità di programmazione e la
focalizzazione della spesa, sia per quanto riguarda la realizzazione degli
interventi. Rispetto al percorso sin qui seguito parrebbe necessario procedere ad
un più forte processo di “riforma interna” della programmazione, che, pur
evitando di determinare “rotture” traumatiche che rischierebbero di ritardare la
spesa e far perdere le risorse, ponga più stringenti vincoli alla frammentazione,
alla dispersione territoriale, e a quell’eccesso di localismi che ha non
marginalmente condizionato i risultati delle politiche.
L’impostazione del nuovo Quadro Strategico Nazionale 2007-2013 si è
invece mossa all’interno di una sostanziale continuità con il precedente ciclo di
programmazione. La struttura dei Programmi risulta, inoltre, caratterizzata da
una maggiore flessibilità, ma anche indeterminatezza: sono stati identificati
indicatori e target da raggiungere, ma sono solo accennati i contenuti operativi
della programmazione e delle linee di intervento; queste ultime, peraltro,
contengono scarse indicazioni in merito agli strumenti ed ai percorsi di
realizzazione, così da determinare una insufficiente definizione dei contenuti e
una frattura tra programmazione strategica ed operativa. Appare assente una
regia complessiva del processo di attuazione nella direzione del perseguimento
degli obiettivi enunciati; mentre la scelta dei tempi e delle modalità di
realizzazione della strategia viene rimandata e demandata alle decisioni di
attuazione delle singole Amministrazioni, in un contesto tuttora caratterizzato
da moltiplicazioni di livelli di governo e luoghi di decisione, non coordinati tra
loro.
In definitiva, sebbene le premesse programmatiche avessero potuto
essere almeno in parte diverse, l’attuale periodo di programmazione 2007-2013
- che, a due anni e mezzo dal suo avvio, vede le Amministrazioni occupate nella
costruzione di complesse archittetture istituzionali ed organizzative, in attività
propedeutiche all’individuazione e selezione dei progetti, con poche procedure
o bandi avviati – conferma l’esistenza di un disegno di sviluppo “debole” e il
15
rischio di una riproposizione dell’esperienza negativa del ciclo di
programmazione 2000-2006.
Il QSN 2007-2013 dovrebbe per altro rappresentare la cornice
programmatica per la “politica regionale unitaria”, finanziata con le risorse
nazionali del FAS e con quelle comunitarie dei Fondi strutturali; novità salutata
con apprezzamento ed interesse proprio in relazione all’ampiezza delle
disponibilità finanziarie ed al potenziale di coordinamento attivabile tra le
diverse componenti di policy che possono incidere sui divari territoriali.
Tuttavia, come si avrà modo di riprendere, il disegno di programmazione
unitario è stato depotenziato da decisioni governative intervenute nel corso del
2008 e nei primi mesi del 2009.
Rispetto al passato, un’accresciuta importanza, anche in virtù della
“contaminazione” degli obiettivi di riequilibrio territoriale con le priorità della
Strategia di Lisbona e Goteborg, viene riconosciuta nel QSN all’economia della
conoscenza ed alla innovazione, al capitale umano, alla valorizzazione
ambientale ed alle energie pulite, quali fattori di crescita dei territori con
condizioni di arretratezza socio-economica. Vengono inoltre introdotti gli
“Obiettivi di servizio”. Con essi si registra un esperimento di “transizione” delle
finalità e del campo di intervento della politica regionale; quest’ultima passa,
infatti, dalla fissazione di obiettivi di riequilibrio, e quindi dalla compensazione
di uno svantaggio iniziale, alla definizione di uno standard minimo di servizio,
quale condizione irrinunciabile di cittadinanza. In tal senso si prefigura un
nuovo, e a nostro avviso rischioso, percorso che fa carico alla politica regionale
di intervenire in un ambito di spettanza della politica nazionale ordinaria, e che
potrebbe condurre a ridimensionare il ruolo delle infrastrutture, del capitale
produttivo e dell’impresa.
Per evitare che nel ciclo 2007-2013 si ripetano le criticità emerse con
riferimento al precedente periodo 2000-2006, è necessario prevedere, affrontare
e risolvere i nodi decisionali e procedurali che rallentano l’avvio e la
realizzazione dei progetti.
Un mutamento di rotta è possibile e auspicabile, dando luogo ad una più
effettiva e stabile cooperazione tra le Regioni del Sud, e ad un più forte
coordinamento fra esse e l’azione dell’Amministrazione Centrale, in una
prospettiva strategica riferita ai bisogni collettivi del Mezzogiorno. Dovrebbe
inoltre essere riconosciuta priorità politica di livello nazionale al governo, alla
valorizzazione ed alla sorveglianza di un bacino finanziario significativo come
quello dei Fondi strutturali, con un vincolo territoriale vigilato dalla
Commissione europea, e che, quindi, in caso di mancato impiego, non sia
destinabile ad altri utilizzi.
16
Va evidenziato, infine, che la flessibilità della programmazione attuale
consente di focalizzare le scelte e di selezionare i “progetti cruciali” senza
interventi della Commissione europea. E’ possibile, pertanto, e necessario,
identificare, dare evidenza e visibilità, nell’ambito di obiettivi chiave di grande
rilevanza, ad alcuni specifici progetti, in particolare a quelli legati a
infrastrutture, innovazione delle imprese e capitale umano, che possano
rappresentare e tradurre in maniera chiara le priorità strategiche indicate nei
Programmi operativi, regionali e nazionali; ed avviarne immediatamente la
realizzazione con un calendario stringente, da sottoporre a stretta sorveglianza.
E’ importante, però, che su tale percorso – a ormai soli cinque anni dalla fine
dell’attuale ciclo di programmazione – abbia a focalizzarsi l’attenzione della
politica (Governo e Parlamento) e della opinione pubblica, assicurando il più
ampio coinvolgimento e supporto per il suo successo.
2.3. Le politiche per il Sud nella crisi
In Italia il finanziamento degli interventi anticrisi è stato assicurato
principalmente da interventi di riallocazione e rimodulazione di risorse
pluriennali destinate in larga misura a interventi infrastrutturali. Infatti, gran
parte delle maggiori spese sono state compensate mediante tagli,
riprogrammazioni e riallocazioni delle risorse nazionali finalizzate soprattutto
allo sviluppo del Mezzogiorno, presenti nel Fondo per le aree sottoutilizzate
(FAS).
Il FAS, secondo quanto stabilito dalla legge istitutiva, avrebbe dovuto
essere ripartito esclusivamente con apposite delibere CIPE per investimenti
pubblici e per incentivi con finalità di riequilibrio economico e sociale sulla
base del criterio generale di destinazione territoriale delle risorse. Nel corso del
2008 e nei primi sei mesi del 2009, invece, il legislatore, anticipando l’opera di
ripartizione del Cipe, è intervenuto con rilevanti utilizzi della dotazione FAS
per impieghi sovente non coerenti con le finalità proprie del Fondo.
Questo ha determinato “preallocazioni” delle risorse FAS verso
specifiche destinazioni che, prima delle deliberazioni CIPE, hanno ridotto in
misura considerevole l’entità dei fondi da ripartire per le aree sottoutilizzate ed
esteso anche al Centro-Nord la possibilità di finanziamento sistematico su fonti
vincolate alle politiche di coesione.
Il volume delle risorse FAS mobilitato prima per il finanziamento di
interventi di carattere emergenziale (emergenza rifiuti, risanamento bilanci
Comuni Roma e Catania, ecc..) e, successivamente, per misure anticrisi è
ingente: partendo dalle risorse appostate dal Bilancio pluriennale 2008-2010
17
sul Fondo Aree Sottoutilizzate e di quelle previste per finanziare impegni con
un profilo pluriennale di spesa anche per gli anni 2011-2012, a maggio 2009
risultavano utilizzi del FAS per oltre 18 miliardi di euro a valere sulle risorse
stanziate per il periodo 2008-2012.
Questo ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli
interventi previsti dalla legislazione nazionale per le aree sottoutilizzate, ma
anche sul Quadro Strategico Nazionale 2007-2013, indebolendone
significativamente la componente nazionale. Il Quadro Strategico Nazionale
prevedeva, infatti, come richiamato, una programmazione coordinata e
contestuale dei fondi nazionali ed europei destinati alle politiche regionali, e
costituiva pertanto la sede unitaria per il finanziamento delle priorità
individuate a seguito di un lungo negoziato tra Amministrazioni regionali,
centrali e comunitarie.
Con i decreti anticrisi, una percentuale significativa delle risorse FAS è
stata stanziata su altri fondi: il Fondo strategico per il Paese a sostegno
dell’economia reale, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri con una
dotazione di circa 9 miliardi; il Fondo infrastrutture, nello stato di previsione
del Ministero dello sviluppo economico, con una dotazione prima di circa 7
miliardi poi integrata di altri 5 miliardi; il Fondo sociale per l’occupazione e la
formazione, presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali,
cui sono stati destinati circa 4 miliardi del FAS.
Tali fondi, pur formalmente vincolati per legge (il DL 185 prevede che
nell’attribuzione delle risorse FAS ai tre fondi debba essere rispettato il vincolo
di destinazione dell’85% in favore delle regioni del Mezzogiorno e del 15% in
favore delle aree sottoutilizzate delle regioni del Centro-Nord), di fatto sono
stati successivamente utilizzati per finalità specifiche non condizionate a
particolari destinazioni territoriali. Esemplare è il caso del Fondo sociale per
l’occupazione e la formazione, nel quale confluiscono, in modo non distinto,
oltre alle risorse FAS destinate alle aree sottoutilizzate, anche le risorse del
Fondo per l’occupazione nonché tutti gli stanziamenti per il finanziamento degli
ammortizzatori sociali, concessi in deroga alla normativa vigente, e quelli
destinati in via ordinaria dal CIPE alla formazione.
L’area meridionale si trova pertanto a competere, in termini di capacità
di assorbimento, con le aree a più alto tasso di sviluppo del Paese che riescono
ad attivare una più efficiente programmazione di spesa e più elevati livelli di
progettualità, anche in una non favorevole situazione congiunturale.
La concentrazione e riprogrammazione delle risorse FAS a fini strategici
e su infrastrutture prioritarie, di cui si è precedentemente affermata
18
l’opportunità, viene così limitata e “spiazzata” da impieghi verso aree a più
intenso e rapido tiraggio di risorse.
Anche qualora la riprogrammazione e la concentrazione dei fondi su
poche priorità condivise attivasse più efficienti meccanismi di concertazione,
migliorando la specializzazione tecnica e organizzativa dell’intero processo
realizzativo delle opere, le frequenti riallocazioni dei fondi stanziati su un
orizzonte pluriennale di spesa per tali opere verso aree “forti” ad elevato
assorbimento, determinerebbe dannosi “stop and go” della programmazione.
Emerge, dunque, con evidenza, una configurazione di “non neutralità”
delle crisi che rischia di dare luogo ad una tendenza alla redistribuzione delle
risorse a favore delle aree più forti; tendenza che potrebbe perdurare anche
oltre la fase congiunturale, in considerazione dell’ampiezza dei processi di
ristrutturazione che si richiedono per il superamento delle difficoltà strutturali
indotte da una crisi di carattere internazionale ed esogena quale quella in corso.
Da questo punto di vista, l’attuale situazione appare confrontabile con
quella degli anni successivi alla crisi petrolifera del 1973, che pose fine alla fase
di più intensa convergenza tra il Sud e il Nord e alla quale fece seguito un lungo
periodo di progressivo indebolimento dell’intervento straordinario nel
Mezzogiorno. Nella sua introduzione al secondo “Rapporto sull’economia del
Mezzogiorno”, del 1975, Pasquale Saraceno aveva prontamente denunciato tale
rischio.
“Quando, come quest’anno – rilevava Saraceno – non vi è alcun surplus
dell’economia da distribuire tra varie alternative di utilizzazione, ma anzi è
l’impoverimento generale che occorre distribuire, la forza organizzativa di
pressione e di lotta in difesa degli interessi immediatamente minacciati, tende
naturalmente a prevalere … Le regioni settentrionali sembrano di fatto
reclamare a sé la parte più rilevante delle risorse da destinare alla
ristrutturazione, e quindi anche al futuro sviluppo, dell’industria italiana …
Non sarebbe certo sorprendente per chi non ignori la storia italiana degli
ultimi venti anni, che il grande obiettivo dell’unificazione economica del Paese
sia di fatto travolto da una successione di decisioni condizionate dall’evolversi
della congiuntura”1.
Oggi come allora, quindi, conserva la sua validità l’indicazione della
necessità di una politica di sviluppo nazionale unitaria che, tenendo conto anche
delle urgenti esigenze di ristrutturazione dei sistemi produttivi a più alto tasso di
sviluppo, sia però in grado di conciliare la necessità di risanamento e
1
Cfr. SVIMEZ, Rapporto sull’economia del Mezzogiorno 1975, Collana Documenti SVIMEZ,
pp. 11, 13.
19
riconversione degli uni con il mantenimento di una azione continua e costante
per la riduzione del divario strutturale di sviluppo tra Sud e Nord.
3. PERCHÉ SERVE UNA POLITICA INDUSTRIALE PER IL SUD
3.1. La difficile integrazione dell’industria del Sud
Con la nuova fase di integrazione dell’economia mondiale, avviatasi
all’inizio degli anni duemila, i limiti impliciti nel modello – unico tra i
principali paesi sviluppati – dell’industria italiana sono divenuti più stringenti.
A partire da tale fase si sono avviati processi di adattamento del sistema alle
nuove condizioni competitive che hanno riguardato però in misura diversa le
due macroaree del Paese.
Nelle regioni centro-settentrionali, a partire dalla metà degli anni
duemila sono emersi, in maniera via via più evidente fino alla recente crisi
globale, alcuni segnali di discontinuità con il modello precedente. Accanto a
fenomeni di aggiustamento intra-settoriale – non nuovi, essendo la storia di
larga parte dell’industria nazionale fatta di un continuo upgrading qualitativo –
vi sono stati anche mutamenti di natura inter-settoriale. Una parte minoritaria,
ma significativa del comparto manifatturiero del Centro-Nord ha avviato un
processo di transizione – una “metamorfosi” – verso una struttura
maggiormente simile a quella da tempo prevalente nei paesi capitalistici
avanzati.
L’industria meridionale ha seguito invece un percorso differente. In
primo luogo, come pongono in luce le analisi del Rapporto, basate sull’ultima
“Indagine sulle imprese manifatturiere italiane” (d’ora in avanti Indagine)
realizzata con riferimento al triennio 2004-2006 da Unicredit sui bilanci di un
campione di imprese di piccola e media dimensione (PMI) – ovvero con un
numero di addetti compreso tra le 11 e le 250 unità – le difficoltà incontrate da
quest’ultime, assolutamente prevalenti nel Mezzogiorno, hanno spinto a
privilegiare strategie difensive incentrate sulle convenienze derivanti da un
utilizzo più che flessibile del lavoro e, per le micro-imprese (11-20 addetti),
dalla prossimità con l’economia informale. Nonostante i miglioramenti
conseguiti dalle PMI meridionali sul versante finanziario, la performance
reddituale delle PMI meridionali negli ultimi anni è stata condizionata da una
dinamica della produttività negativa (-1,0%) nella media del triennio 2004-2006
a fronte di una’evoluzione positiva nel resto del Paese (+4,1%). Solamente una
20
dinamica del costo del lavoro per addetto che, nello stesso periodo, è risultata
nel Sud lievemente negativa (-0,4%, che si raffronta al +1,2% nel Centro-Nord)
ha evitato un peggioramento ancora più marcato degli indicatori di
profittabilità. Ciò conferma il ruolo chiave giocato dal contenimento del costo
del lavoro nel garantire la competitività di larga parte delle imprese dell’area a
scapito, però, di quegli adeguamenti competitivi più strutturali - identificabili in
primis nel rafforzamento della componente extra-produttiva dell’organizzazione
produttiva - necessari per fronteggiare durevolmente il nuovo contesto
concorrenziale.
Ma è sul versante estero che il differente pattern seguito dai due sistemi
industriali è divenuto più manifesto. I vantaggi comparati dell’economia
meridionale, così come sono “rivelati” dai dati di export, evidenziano un
costante e significativo aumento di peso dei settori caratterizzati dalla presenza
di forte economie di scala, macro-branca quasi prevalentemente composta da
grandi imprese a proprietà esterna all’area. L’incidenza dell’export delle
produzioni di scala sulle vendite all’estero complessive dell’area meridionale è
passata dal 49,8% degli anni 2001-2003 ad oltre il 61% registrato nel 2008. Di
converso, il raggruppamento costituito dalle produzioni tradizionali, in cui sono
essenzialmente ricomprese le attività del made in Italy, ha perso, nello stesso
periodo, quasi dieci punti percentuali: dal 29,3% al 19,6%; fenomeno che non si
è invece sostanzialmente verificato nel Centro-Nord, dove la quota di export dei
beni tradizionali ha perso nel corso di questo decennio meno di due punti
percentuali e rappresenta tuttora circa un quarto di tutte le vendite all’estero.
Nel Mezzogiorno, l’accresciuta incidenza dei settori di scala ha
garantito, nella fase ciclica recente, la sostanziale tenuta della quota
complessiva di export dell’area, di poco inferiore al 12% del totale nazionale.
Nel Rapporto vengono presentati i risultati di un semplice esercizio volto a
valutare l’intensità del legame tra il “grado di multinazionalità” (calcolato come
rapporto tra il numero degli addetti nelle imprese a partecipazione estera e il
numero degli addetti nelle unità locali) delle varie branche dell’industria del
Mezzogiorno e la loro propensione ad esportare: la correlazione positiva tra le
due variabili è piuttosto evidente. Settori come la chimica, i mezzi di trasporto,
la gomma-plastica, che vantano i più elevati valori di propensione a esportare,
sono anche caratterizzati da una presenza molto rilevante di stabilimenti a
partecipazione estera. Per contro, in quasi tutti i settori tradizionali dei beni di
consumo per la persona e per la casa, entrambe le variabili tendono ad assumere
valori relativamente bassi.
Alla luce di quest’ultima considerazione, la modesta presenza delle
multinazionali nell’intero sistema economico del Mezzogiorno - nettamente
21
inferiore rispetto a quanto si ravvisa nel resto del Paese – appare dunque
fortemente penalizzante per la macro-area. In base agli ultimi dati disponibili, il
Mezzogiorno si caratterizza complessivamente (industria e servizi) per un grado
di multinazionalità molto basso, dell’1,2%, a fronte del 5,1% medio nazionale.
Con riferimento agli IDE in uscita, e cioè agli investimenti delle imprese
all’estero, il divario tra le due ripartizioni risulta maggiore. Va sottolineato al
riguardo che la presenza produttiva sui mercati esteri con partecipazioni
azionarie è la forma più matura e impegnativa di internazionalizzazione; essa
non soltanto implica rilevanti innovazioni organizzative, ma anche l’impegno di
competenze professionali e risorse finanziarie che spesso superano le capacità
delle imprese di dimensioni minori. Non sorprende dunque che la capacità delle
imprese del Mezzogiorno di adottare questa forma di internazionalizzazione
risulti particolarmente bassa. L’indicatore più rilevante a questo proposito, dato
dal rapporto tra gli addetti nelle imprese estere partecipate e quelli nelle regioni
di origine degli investitori, presenta nel Sud un valore di appena l’1,0%, a
fronte del 6,7% medio italiano. Tra i paesi di destinazione delle partecipazioni
si notano in primo luogo quelli verso cui si dirigono normalmente investimenti
attratti da costi di produzione più bassi, e in particolare l’Europa centro-
orientale (Romania, Albania, Polonia e Bulgaria), la Tunisia (unico paese del
bacino Sud del Mediterraneo) e la Cina. Relativamente minore appare
l’importanza dei paesi più sviluppati, come gli Stati Uniti e la Francia, nei quali
invece l’acquisizione di partecipazioni produttive è motivata da strategie
competitive di rafforzamento del potere di mercato delle imprese investitrici.
All’interno di questo quadro, caratterizzato da una crescente
divaricazione tra i due sistemi industriali, si segnala per altro l’emergere nel
Mezzogiorno di alcuni segnali positivi, anch’essi presumibilmente indotti dalla
pressione competitiva estera.
Un primo elemento di interesse è costituito dalla crescita dei traffici di
“perfezionamento attivo” nel Sud (importazioni temporanee di merci e
successive ri-esportazioni), la cui quota sul totale nazionale è risultata, nel
2008, del 17%, valore di gran lunga più elevato rispetto a quello registrato
dall’area per le altre forme di internazionalizzazione (IDE ed export). Sebbene
sotto il profilo qualitativo questa tipologia di internazionalizzazione non sia
direttamente confrontabile con altre proprie di sistemi economici ad uno stadio
più evoluto, ciò può comunque rappresentare una concreta possibilità di inserire
il Mezzogiorno nelle filiere trans-nazionali in cui si è ri-organizzata la
produzione su scala mondiale, con indubbi effetti positivi per un’area che
proprio nella modesta integrazione con l’estero trova un formidabile vincolo
allo sviluppo. Un secondo elemento da sottolineare è relativo alla forte crescita
22
nell’ultimo decennio del peso delle merci meridionali esportate verso i paesi
dell’Africa del Nord, ben al di sopra di quanto registrato a livello mondiale.
L’export verso i paesi dell’Africa settentrionale appare inoltre risentire in
misura limitata di fattori prettamente congiunturali. Nel 2008 il valore delle
esportazioni del Sud verso i paesi mediterranei è aumentato di quasi il 40%.
Ormai circa un terzo delle esportazioni meridionali che escono dall’Unione
europea vanno verso i paesi mediterranei. La prospettiva di una stabile crescita
economica del Mediterraneo può rappresentare un importante mercato di
sbocco per le imprese meridionali. Il Mezzogiorno potrebbe trovare dunque
nella tanto invocata “prospettiva mediterranea” non solo una condizione per lo
sviluppo della produttività in termini di piattaforma logistica ma anche di vera e
propria integrazione economica.
3.2. Le ragioni di una politica regionale
Le perduranti difficoltà sperimentate nel corso degli anni duemila dalle
piccole e medie imprese del Mezzogiorno, nel reggere i ritmi imposti da
un’intensificazione della competizione sui mercati nazionali e internazionali,
spingono a riproporre le ragioni di una “politica industriale regionale” in grado
di affrontare i fattori strutturali endogeni che sono alla base di tali difficoltà,
attenuando le asimmetrie territoriali e i divari regionali.
Nella fase più recente si è assistito, di contro, ad un indebolimento della
politica regionale, in un quadro caratterizzato da un rapido depotenziamento, a
scala nazionale, degli interventi destinati alla riduzione degli squilibri
territoriali, componente in precedenza di grande rilievo; nel periodo 2000-2007
le agevolazioni concesse per quest’ultima finalità avevano, infatti, rappresentato
il 56% del totale delle agevolazioni (nazionali e regionali) concesse in Italia.
A partire dal 2006 si è manifestata una progressiva crisi degli interventi
di incentivazione della politica regionale per lo sviluppo dell’industria del Sud.
Innanzitutto, alcuni di essi sono venuti meno. La legge 488/1992 e gli
interventi per la ricerca e l’innovazione che ad essa si riconducevano (i
“Pacchetti integrati di agevolazioni”) sono stati definitivamente archiviati, e al
loro posto non è stata prevista alcuna altra misura che - sia per finalità, sia per
entità di risorse pubbliche da destinarvi - potesse essere paragonabile. La crisi
ha riguardato, inoltre, nel 2007, l’inoperatività di tutti gli strumenti di politica
regionale, inoperatività che nel caso dei contratti di programma e delle “Zone
franche urbane” è proseguita nel 2008. A ciò, a partire dalla metà del 2008, si
sono aggiunte anche difficoltà di natura finanziaria, che hanno determinato per i
crediti di imposta a favore degli investimenti e per quelli a favore
23
dell’occupazione (specificamente destinati alle aree sottoutilizzate del
Mezzogiorno) un accesso limitato a pochi mesi, a causa dell’esaurimento delle
risorse disponibili.
Un ulteriore elemento che in prospettiva rischia di indebolire
grandemente l’efficacia della politica di incentivazione regionale è
rappresentato dall’estensione al Centro-Nord di alcuni strumenti inizialmente
destinati al solo Mezzogiorno, intervenuta tra la fine del 2007 e il 2008. E’
prevedibile che in conseguenza di simili estensioni territoriali abbia a
determinarsi, in un quadro di scarse risorse finanziarie, una crescente
concorrenza da parte delle regioni centro-settentrionali nell’assorbimento degli
incentivi. La trasformazione di una politica specifica per il Sud, adeguata alle
peculiari caratteristiche del suo sistema industriale, in una politica
indifferenziata ed omogenea nel Paese è destinata ad acuire le asimmetrie
territoriali.
Le richiamate estensioni al Centro-Nord hanno riguardato le “Zone
franche urbane” e i contratti di programma. Per questi ultimi, in particolare, al
rischio di un maggiore assorbimento di risorse da parte del Nord si aggiunge
quello di una erosione della capacità di compensazione degli svantaggi
localizzativi del Sud. Alcuni primi dati sulle domande presentate nel 2008 per
accedere ai contratti di programma sembrano avvalorare tali timori. La quota
degli investimenti del Centro-Nord per i quali sono state richieste le
agevolazioni è risultata del 37%, a fronte di una quota del 15% rilevata nel
periodo 2000-2007 per gli investimenti agevolati.
Nella fase attuale desta particolare preoccupazione quanto maturato sul
versante delle politiche di incentivazione della ricerca e dell’innovazione
tecnologica, sia per la sostituzione di misure di politica regionale con interventi
della politica industriale nazionale sia per la forte diminuzione delle risorse
inizialmente previste per il Sud e di recente destinate a finanziare necessità di
rilievo nazionale.
Nel Mezzogiorno, gli investimenti in R&S continuano a dipendere
molto più che nel Centro-Nord dalle politiche pubbliche, sia di incentivazione
del settore privato, sia di investimento diretto delle Università e degli Enti di
ricerca pubblici. Sin qui, peraltro, le politiche non hanno dato i risultati sperati.
I principali indicatori mostrano che il divario tra il Mezzogiorno e le altre
regioni italiane tende a ridursi, ma con eccessiva lentezza. Una vera svolta non
c’è stata, anche a causa della non eccessiva ampiezza delle risorse messe in
campo.
Tra il 2000 e il 2007, sul complesso delle agevolazioni, quelle destinate
alla ricerca e all’innovazione hanno rappresentato comunque nel Centro-Nord il
24
35% e il 15% nel Mezzogiorno. Tali quote sono cresciute sensibilmente negli
ultimi due-tre anni in entrambe le aree, in presenza di un ridimensionamento
dell’insieme delle agevolazioni. Tuttavia, nel Mezzogiorno il trend in crescita è
risultato meno marcato e, soprattutto, si è interrotto bruscamente nel 2008, in
concomitanza con la transizione dai vecchi strumenti di incentivazione del
periodo di programmazione 2000-2006 ai nuovi strumenti dell’attuale ciclo
2007-2013. In effetti, mentre il Centro-Nord ha fatto registrare un buon accesso
al credito d’imposta per la ricerca e lo sviluppo e al Progetto di Innovazione
Industriale “Mobilità sostenibile”, il Mezzogiorno è riuscito a catturare
solamente una quota residuale delle nuove risorse concesse, a fronte di un
inaridimento delle incentivazioni della politica regionale. Considerato che il
problema dell’accesso delle imprese meridionali agli interventi di politica
nazionale è un problema ritornante che affonda le sue radici nella qualità, prima
ancora che la dimensione, delle imprese meridionali, i dati menzionati
spingono, come già rilevato, a riproporre le ragioni di una “politica industriale
regionale”.
Invero, di recente, come richiamato, è stata avanzata la tesi che un
apporto differenziale di politica regionale sarebbe corretto destinarlo al
Mezzogiorno soprattutto per il potenziamento delle politiche nazionali di
cittadinanza (sanità, istruzione, giustizia). E’ difficile contestare la validità di
questa tesi in ciò che dice in positivo: basti pensare a quanto sarebbe importante
poter contare, per una seria riforma della sanità, su un investimento di risorse
nelle aree di maggiore inefficienza, in attesa di poterne, a regime, risparmiare.
Ma, in negativo, essa sembra prospettare almeno un ridimensionamento del
ruolo delle infrastrutture, dell’impresa e del capitale produttivo. E i rischi di
fallimento di una politica regionale che ignori questi fattori possono essere
molto elevati. Il problema che bisogna affrontare, infatti, è come far maturare il
tessuto imprenditoriale meridionale. Che ciò possa avvenire senz’altro con il
miglioramento delle condizioni del contesto civile è desiderabile, ma non
dimostrato. Del resto, come non vedere che è la stessa diffusione di un sistema
industriale forte a costituire per la società civile un indispensabile elemento di
contesto? Ancora una volta, vale ricordare che il circolo vizioso dello sviluppo
va spezzato in più punti, accantonando formule ideologiche che attribuiscono
un primato assoluto ora a un fattore ora all’altro. Non si comprende, inoltre, ad
esempio, come l’inutilità degli incentivi nel Sud da molti sostenuta a causa
della loro bassa efficacia, non valga per il Centro-Nord, se è vero, come si è
richiamato, che nel 2008 è stata prevista l’estensione dei contratti di programma
in tutte le regioni del Paese.
25
Una considerazione analoga può valere anche con riferimento
all’azzeramento del PAN FAS “Ricerca e competitività”, destinato in gran parte
alle regioni del Mezzogiorno, e al trasferimento delle relative risorse (7,2
miliardi di euro) al “Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia
reale”. Tale decisione è destinata a determinare un indubbio depotenziamento
degli interventi per la ricerca e l’innovazione nel Sud, e in particolare, nelle
regioni meridionali che non rientrano nell’Obiettivo Convergenza (Abruzzo,
Molise e Sardegna).
4. LE RETI PER LO SVILUPPO E LO SVILUPPO DELLE RETI
Lo sviluppo delle “reti” di infrastrutture, materiali ed immateriali, non
solo con la creazione di nuove dotazioni ma soprattutto con il completamento e
il rafforzamento della connessione tra le dotazioni già esistenti, in diversi casi
tutt’altro che irrilevanti, costituisce un obiettivo centrale per incrementare la
competitività e la crescita dei territori.
Un simile approccio, applicabile a vari ambiti – dal sistema dei trasporti,
alla logistica, al capitale umano, alla ricerca e l’innovazione e al sistema
creditizio – consiste nell’identificare alcune direttrici prioritarie di intervento e
nel cercare di verificare se le dotazioni esistenti in tali ambiti abbiano un
elevato grado di interconnessione tra di esse.
4.1. Il completamento del sistema dei trasporti
Di fronte ad una situazione di scambi sempre più fitti tra sistemi “a
rete”, il Mezzogiorno, si presenta ancora oggi come un’area periferica e
scarsamente connessa, non tanto e non solo per i vincoli geomorfologici, ma,
soprattutto, per l’insufficienza delle dotazioni, per la loro scarsa qualità e per la
scarsa accessibilità delle infrastrutture esistenti.
Integrando l’analisi quantitativa sullo stock infrastrutturale regionale,
con indicatori che diano conto dei livelli prestazionali delle infrastrutture e dei
livelli di servizio delle componenti di trasporto, le criticità del sistema dei
trasporti emergono in tutta la loro evidenza.
L’analisi delle prestazioni della rete stradale primaria è stata effettuata
nel Rapporto assumendo quale indicatore dei livelli di servizio, su una
molteplicità di relazioni tra capoluoghi di Regione, i tempi medi di viaggio per
un’autovettura di media cilindrata, ovvero la velocità “commerciale”. Si è
26
osservato che la velocità media delle relazioni fra città del Mezzogiorno è pari
ad 83 km/h, a fronte di un valore di 92 km/h relativo alle relazioni fra città del
Nord Italia. Tale differenza di circa 10 km/h si rileva non solo sulle direttrici
Sud-Sud e Nord-Nord, ma anche sulle direttrici Nord-Sud.
Le linee ferroviarie non offrono standard adeguati alle odierne esigenze
(passeggeri e merci) a causa di criticità localizzate di tracciato, d’impianto e di
esercizio. Se l’offerta di trasporto ferroviario è di poco inferiore al livello medio
nazionale in termini di estensione della rete, le potenzialità di servizio del
comparto si ridimensionano molto se si tiene conto di alcuni parametri
“qualitativi”, come la lunghezza delle tratte elettrificate (appena il 26% della
rete a fronte del 50% nel Centro-Nord), le velocità di spostamento in treno, il
numero ed il tipo di treni operativi.
Quanto alla presenza di linee ferroviarie ad Alta Velocità, solo il 7,8%
del totale dell’estesa nazionale è presente nel Mezzogiorno (nel tratto campano
della linea Roma-Napoli entrata in funzione nel 2005). Tale divario è destinato
ad ampliarsi nei prossimi anni. La rete AV che dovrebbe entrare in funzione
entro il 2015 nel nostro Paese comprende per ora solo tratte nel Centro-Nord:
la Firenze- Bologna e la Novara-Milano (la cui apertura dovrebbe avvenire nel
2009). Altre tratte di fondamentale importanza per il Mezzogiorno, come la
Napoli-Bari, sono in corso di definizione o hanno probabilità assai remote di
realizzazione, come la Napoli-Reggio Calabria.
Uno dei punti di forza del sistema infrastrutturale meridionale è
costituito dai porti, che costituiscono il segmento di innesco di una strategia
volta a cogliere le opportunità offerte dalla riconquistata centralità del
Mediterraneo nei traffici internazionali e a migliorare la competitività dei
territori. Nel Mezzogiorno la dotazione di infrastrutture portuali è molto elevata
ed anche superiore a quella del Centro-Nord, sia nel numero dei porti (l’indice
di dotazione, posta l’Italia pari a 100, è di 185,9 contro 50,9), sia nel numero
(153,2, contro 69,6) e nella superficie degli accosti (150,5, contro 71,1). Anche
in questo settore permangono, tuttavia, deficit consistenti, con una dotazione
funzionale dei porti meridionali (magazzini, binari ferroviari, silos, piazzali
dedicati alle merci) inferiore nella media a quella dei porti del Centro-Nord.
Ciò che riduce drasticamente l’operatività del sistema portuale
meridionale è soprattutto la rarefatta presenza dei centri intermodali all’esterno
delle aree portuali ma ad esse funzionalmente collegati. L’indice di dotazione di
infrastrutture intermodali delle regioni meridionali (posta l’Italia pari a 100)
risulta, come numero, pari a 39,9; alla generale carenza nella dotazione si
accompagna una assai ridotta dimensione degli impianti: l’indice del
Mezzogiorno risulta pari al 6,6% di quello medio nazionale. Quanto alla
27
“capacità di movimentazione” dei mezzi utilizzati nel trasporto merci
(container, semirimorchi e casse mobili), la dotazione del Mezzogiorno non va
oltre un centesimo della media nazionale.
Proprio la dotazione portuale logistica rappresenta una condizione
essenziale per cogliere le prospettive che, superata l’attuale fase recessiva
mondiale, potrebbero determinarsi con la ripresa del commercio mondiale e
quindi dei traffici dal Far East che transitano nel Mediterraneo.
Le azioni da porre in essere per sfruttare questo vantaggio dovrebbero
coinvolgere non solo il territorio meridionale ma l’intero Paese, ed il suo assetto
economico e infrastrutturale, a partire dai valichi alpini e da questi alle reti
ferroviarie, prima ancora che stradali, di collegamento ai terminali portuali ed
alle connesse strutture di movimentazione e lavorazione delle merci. In tale
ottica vanno definiti alcuni assi prioritari di intervento sui quali concentrare le
risorse nazionali e comunitarie. Emerge, in particolare, per il Mezzogiorno, la
necessità di favorire lo sviluppo dell’alta capacità e alta velocità (AC/AV)
ferroviaria e, in questo contesto, l’urgenza della realizzazione delle grandi reti
di comunicazione con il Centro Europa: il corridoio I (Berlino – Palermo) e il
Corridoio VIII (Bari e altri porti del Sud – Paesi balcanici). La realizzazione del
Corridoio I contribuirebbe, almeno per la parte meridionale del tragitto, ad
estendere la rete AV/AC da Salerno sino a Palermo, rimuovendo quelle
strozzature nella rete ferroviaria che impediscono ora il transito “normale” di
container High Cube (lo standard ora prevalente nel commercio marittimo) da e
per il Porto di Gioia Tauro.
A fronte di una situazione di evidente squilibrio territoriale nella
dotazione di infrastrutture, si rileva come nel nostro Paese i margini di
espansione degli investimenti infrastrutturali siano notevolmente limitati, tanto
per la finanza pubblica quanto per quella privata. Peraltro la manovra anticiclica
del Governo, come sottolineato anche in precedenza, ha determinato una
riallocazione della spesa per investimenti già programmata per le finalità di
riequilibrio economico-territoriale a vantaggio di obiettivi diversi, quali il
riassetto dei conti pubblici, il finanziamento di interventi congiunturali di natura
corrente, e solo in parte ancora a sostegno di programmi di spesa per
investimenti, compresi quelli infrastrutturali, ma senza più salvaguardare i
vincoli localizzativi posti sulle risorse originarie.
Quanto alla Legge Obiettivo, il più importante programma
infrastrutturale del Paese negli ultimi anni, si segnala che a fine 2008 un parte
decisamente minoritaria delle opere approvate dal CIPE risulta localizzata nel
Mezzogiorno: il 28,6% per un ammontare di circa 33 miliardi di euro. Tra le
varie tipologie infrastrutturali, la quota del Mezzogiorno per opere ferroviarie è
28
appena del 7,5% , quelle stradale del 37,5% e quella per porti e interporti del
28,6%: una distribuzione degli interventi che non prefigura alcun riequilibrio
modale nel sistema dei trasporti.
E’ del tutto evidente che impegni di tale portata non possono consentire
il perseguimento di alcun obiettivo di convergenza tra le due parti del Paese.
In un quadro ancora complessivamente improntato per il Mezzogiorno
ad una sostanziale debolezza nella dotazione di infrastrutture logistiche, è
peraltro d’obbligo sottolineare l’importanza che per l’area assume la presenza
di alcuni centri logistici di elevata eccellenza, a scala europea e non solo
nazionale. È il caso, tra i porti, di Gioia Tauro che, da porto Hub container di
transhipment, contende con successo il primato dei traffici marittimi
containerizzati ai porti spagnoli di Algesiras e Valencia.
Tra gli interporti, si ricorda il Distretto di Nola, che sorge nelle
vicinanze della più grande realtà metropolitana del Sud, Napoli, e in prossimità
dei grandi assi viari (autostrada e direttrice ferrovia principale tirrenica) che
collegano il Nord Europa con il Mezzogiorno e il Mediterraneo; esso è, inoltre,
in posizione baricentrica nel corridoio trasversale tra le regioni tirreniche e
quelle adriatiche. All’interno del distretto il CIS rappresenta il più importante
polo di distribuzione commerciale d’Europa, nel quale operano oltre 300
aziende che occupano circa 3.500 addetti. Il terminal intermodale, cuore
dell’Interporto, dispone di una stazione ferroviaria interna altamente
automatizzata, con tredici coppie di binari elettrificati, inserita nella rete
ferroviaria nazionale e in grado di collegarsi via ferro sia con i porti del Sud
Italia sia con il Nord Italia, e di qui - grazie al network dell’operatore
ferroviario RTC - con il Centro-Nord Europa (Monaco, Amburgo, Oslo).
L’Interporto Campano è, inoltre, pienamente integrato con i principali porti del
Mezzogiorno.
4.2. Completare le reti formative e di transizione tra scuola e lavoro per
fermare la fuga dei cervelli
L’Italia è il Paese con il più elevato divario tra tasso medio di
disoccupazione e tasso di disoccupazione giovanile; tale divario nel
Mezzogiorno raggiunge livelli elevatissimi, che portano ad identificare una vera
e propria questione giovanile.
La crisi in atto, ha sostenuto il prof. Mario Monti in un articolo dal titolo
“Una speranza per i giovani”2, rischia di penalizzare ulteriormente le
prospettive delle giovani generazioni. Le politiche adottate, anche sul mercato
2
Il Corriere della Sera, 8 febbraio 2009.
29
del lavoro, sono tutte orientate alla conservazione dei posti di lavoro e dei
settori produttivi esistenti, rendendo ancora più difficile e, quando avviene,
ancora più precario, l’inserimento nel mercato del lavoro dei nostri giovani.
Tale situazione di crescente difficoltà – che rischia nei prossimi mesi di
bloccare l’accesso al lavoro di una generazione di giovani, soprattutto
meridionali e molto spesso con un ricco bagaglio formativo – si inserisce nel
nostro Paese, oltre che in un sistema di Welfare, che come vedremo in seguito è
molto squilibrato, anche in un sistema formativo ancora debole e incapace di
offrire una reale uguaglianza nelle opportunità.
Le debolezze della rete formativa italiana riguardano sia la presenza di
standard qualitativi inferiori agli altri grandi paesi sviluppati, sia un inadeguato
sistema di transizione scuola-lavoro. Nel Mezzogiorno tali debolezze si
associano ad un contesto produttivo debole e ad un sistema sociale
sostanzialmente bloccato, impedendo così ai progressi quantitativi realizzati nei
tassi di istruzione di tradursi in sviluppo economico e civile.
Le misure di policy volte ad incrementare l’offerta di competenze da
parte dei nuovi entranti sul mercato del lavoro, in quanto non accompagnate da
un’adeguata evoluzione del tessuto produttivo, hanno finito per incrementare in
questi anni il livello di educational mismatch, tra qualità dell’offerta di lavoro e
competenze richieste dalle imprese.
Rappresenta un importante segnale di allarme il fatto che, dopo una
lunga fase di crescita ininterrotta, il tasso d’iscrizione all’Università al Sud
negli ultimi anni abbia cominciato a declinare. Infatti, se fino a un recente
passato la convinzione della spendibilità di un titolo di studio terziario sul
mercato del lavoro ha favorito l’espansione dei livelli di partecipazione come
fattore produttivo, oltre che come elemento umano, sembra emergere nella fase
attuale un certo scoraggiamento fra le coorti più giovani a investire
nell’istruzione superiore. La consapevolezza di un’effettiva disuguaglianza
delle opportunità potrebbe ridurre quella mobilità intergenerazionale, che
invece negli ultimi decenni ha portato a aumentare notevolmente il tasso di
scolarizzazione in linea con quanto si riscontra nei maggiori paesi europei.
Questo circolo vizioso ha effetti economici e sociali particolarmente
negativi, in quanto aumenta la dipendenza dei giovani dalle famiglie, riduce la
crescita demografica e la mobilità sociale. Dai risultati di alcune recenti
indagini sembra emergere che, in generale, è forte il legame tra istruzione dei
genitori e risultati scolastici dei figli. Questa è la più grave ingiustizia, con
effetti rilevanti sul medio-lungo periodo.
Studiare serve soprattutto ad emigrare, in particolare per coloro che, non
provenendo da famiglie agiate non possono godere di quel sistema di relazioni
30
informali che rappresenta ancora nel Sud uno dei principali canali di accesso al
mercato del lavoro.
I dati riportati nel Rapporto consentono di verificare un ulteriore
incremento della tendenza ad emigrare al Nord dei laureati del Mezzogiorno. Il
primo momento della fuoriuscita è connesso alla scelta di studio: mentre rimane
irrisoria la quota di giovani del Centro-Nord che scelgono di studiare in una
regione del Sud (meno dell’1%), circa un meridionale su quattro che si iscrive
all’Università lo fa in un Ateneo del Centro-Nord. Dunque, nonostante
l’incremento registrato negli ultimi anni di Universita e soprattutto di corsi di
laurea nel Sud, non si indebolisce il flusso in uscita né tantomeno aumenta la
capacità di attrarre giovani dal Centro-Nord.
Il secondo momento di fuga dal Sud avviene al momento di trovare una
occupazione. Tra i laureati meridionali che a tre anni dalla laurea si dichiarano
occupati, nel 2007 ben il 41,5% (26.000 su 62.576) lavora in una regione del
Centro-Nord, una percentuale più elevata di due punti percentuali rispetto a
quella rilevata nell’indagine ISTAT precedente, relativa al 2004, e di ben dieci
punti percentuali rispetto all’indagine del 2001. Per completare il quadro sulla
mobilità, è interessante notare che circa il 40% dei laureati meridionali che
hanno trovato lavoro al Nord si è laureato con una votazione pari a 110 o 110 e
lode, a conferma di una forte selezione da parte del mercato del lavoro
settentrionale.
In conclusione, la mobilità dei laureati meridionali appare garantire,
soprattutto ai più bravi, migliori probabilità di trovare un’occupazione e un
lavoro meglio remunerato di quanto non sarebbe possibile ottenere nel
Mezzogiorno. In questo senso la mobilità geografica se, da un lato, deprime le
prospettive di crescita dell’intera economia meridionale, dall’altro, appare un
mezzo per consentire una valorizzazione del merito e quindi una maggiore
mobilità sociale. Il mancato superamento dei vincoli costituiti da un apparato
produttivo debole e da un sistema sociale bloccato, nonostante i progressi nella
formazione scolastica universitaria, condanna il Mezzogiorno al ruolo di
fornitore di risorse umane qualificate al resto del Paese e i suoi migliori giovani
a cercare altrove le modalità per mettere a frutto le proprie competenze e a
realizzare i propri sogni.
4.3. Credito e reti bancarie
Qualsiasi ipotesi di rilancio del sistema produttivo del Mezzogiorno non
può prescindere dal potenziamento del canale creditizio. Anzi, la dipendenza
dal credito – assicurato da un’articolata rete di sportelli sul territorio – del
31
processo di accumulazione delle imprese minori nelle aree deboli, è
significativamente maggiore di quanto non lo sia per le attività imprenditoriali
operanti delle regioni più sviluppate.
Se questo è il dato di partenza, va detto che il processo di
trasformazione iniziato negli anni ’90 nel nostro sistema bancario, e che ha
imposto un confronto competitivo via via più incisivo ed articolato, ha sortito
effetti problematici sulle dimensioni e sull’assetto del settore nel Sud.
L’ondata di fusioni e acquisizioni, realizzate per raggiungere dimensioni
maggiori, sfruttare i vantaggi derivanti dalle economie di scala, perseguire
superiori condizioni di efficienza gestionale, si è tradotta in una riduzione del
numero di aziende di credito operanti sul mercato ed in una significativa
espansione della rete degli sportelli, tale da allineare la densità bancaria alla
media europea. Gli sportelli italiani sono divenuti più “leggeri” in termini di
dipendenti e di impieghi per dipendente rispetto alla media europea, un aspetto
che risulta strettamente correlato alle modalità con cui la rete degli sportelli si
rapporta al sistema produttivo e alle famiglie per ciò che concerne impieghi e
raccolta.
Dal punto di vista territoriale, la trasformazione del sistema bancario
italiano ha sconvolto gli assetti proprietari delle banche meridionali; queste, nel
corso degli anni ‘90, investite dal repentino e drastico deterioramento del
quadro macroeconomico, subiscono un drastico ridimensionamento che segna
la liquidazione di un autonomo sistema bancario. La quota di sportelli facenti
capo a banche meridionali indipendenti passa dal 66% nel 1990 a meno di un
terzo del totale.
Complessivamente, con il consolidamento cresce la quota di sportelli
localizzati nel Nord-Est e nel Centro Italia a spese di un corrispondente calo nel
Nord-Ovest e nel Mezzogiorno.
Inoltre, la maggiore diffusione di sportelli bancari sul territorio non si
traduce necessariamente in una più elevata attenzione al cliente e al valore della
prossimità. In particolare per i grandi gruppi che hanno fatto proprio il modello
della “banca-rete”, è del tutto evidente come l’esigenza di migliorare
l’efficienza allocativa si traduca in una strategia di razionalizzazione dei
processi lavorativi presso le filiali con una standardizzazione delle attività di
vendita, l’adozione di modelli quantitativi di valutazione del rischio e un
accentramento di funzioni decisionali presso le sedi centrali, pregiudicando il
concetto di prossimità e personalizzazione del servizio.
Lo svuotamento della prossimità fisica, mediante standardizzazione dei
servizi, si ripercuote negativamente con particolare intensità sulla (piccola e
media) clientela meridionale. Essa, proprio in conseguenza delle fusioni ed
32
acquisizioni “esterne” delle banche locali, subisce più intensamente le
conseguenze dell’aumento della distanza funzionale e del progressivo
impoverimento di contenuti nel rapporto banchiere-affidato. Ne consegue che
soprattutto al Sud il consistente aumento del numero degli sportelli si rivela
funzionale alla ottimizzazione di una rete di distribuzione di un prodotto non
differenziato e, ancor di più, alla espansione della raccolta del risparmio locale
che per la banca “esterna” rappresenta il principale “valore” delle acquisizioni
meridionali.
Diversamente, per le banche di minori dimensioni la persistenza della
prossimità territoriale non si esaurisce in una mera vicinanza geografica tra
sportello e cliente, bensì alimenta una vicinanza di “intelligenza”, grazie alla
quale la decisione di affidare o meno un cliente è presa in condizione di
prossimità fisica e soprattutto informativa con il cliente stesso, attingendo al
patrimonio di informazioni qualitative e non standardizzate che derivano da una
relazione quotidiana e ripetuta. E sono infatti proprio le banche di dimensione
minore, gestite in forma cooperativa, a forte radicamento territoriale, a
presentare una performance comparativamente migliore rispetto a quella esibita
dalle banche “a rete” dei grandi gruppi esterni al Mezzogiorno.
Gli effetti di questo processo di “consolidamento” e “razionalizzazione”
del sistema bancario si rivelano particolarmente pesanti per il sistema
produttivo meridionale nel quale il modello della banca locale di dimensione
regionale in grado di sviluppare forti relazioni con le imprese affidate, di fatto,
finisce con l’essere sempre più minoritario; basti pensare all’esiguo peso, in
termini di sportelli, delle banche minori e delle banche di credito cooperativo
rispetto a quella delle grandi banche.
Gli effetti più vistosi del consolidamento di questo sistema bancario nel
Mezzogiorno si traducono in una drastica riduzione del numero di imprese
affidate, in particolare di quelle di dimensioni minori, per loro natura opache,
cioè in grado di produrre un flusso informativo più eterogeneo e impalpabile
rispetto alla clientela medio-grande ed alle stesse imprese minori non
meridionali. Per le banche operanti nel Mezzogiorno diviene quindi più
problematico applicare criteri di valutazione che investono di più sulle
informazioni intangibili (soft information) rispetto all’utilizzo di procedure
standardizzate proprie della “banca-rete”, che risulta relativamente più
verticalizzata proprio al Sud.
Se, da una lato, la “rete creditizia” risulta quantitativamente accresciuta
nelle regioni meridionali, dall’altro, essa si rivela relativamente più fragile ed
inadeguata funzionalmente ad accompagnare lo sviluppo di tante imprese
minori – quando non “minime” – che dominano l’economia del Mezzogiorno.
33
Certo, almeno in una prospettiva di medio termine, i processi del
consolidamento che hanno stravolto il sistema bancario meridionale sono del
tutto irreversibili. Tuttavia, occorrerebbe individuare forme di controllo e di
promozione tali da rendere l’articolazione della rete bancaria cosi delineata
molto più incisiva e vantaggiosa per i sistemi produttivi locali.
Qui entra in campo necessariamente il regolatore pubblico, il quale
dovrebbe articolare e portare avanti una strategia utile a conseguire questi
obiettivi. Per governare i rischi della banca rete viene in mente quanto da anni
la Vigilanza statunitense si ripromette di conseguire a salvaguardia delle
comunità locali attraverso la regolazione contenuta nel cosiddetto Community
Reinvestment Act. Le autorità Federali si fanno carico di “controllare” i
fenomeni di penalizzazione delle comunità locali indotti proprio dai processi di
consolidamento. E’ davvero singolare che in un sistema dualistico quale quello
italiano, nel quale il consolidamento si è realizzato in forme così rapide e
drastiche, questi aspetti non siano considerati dalle autorità Monetarie come
compiti e responsabilità primarie.
Potrebbe essere auspicabile, allora, la promozione da parte delle Regioni
meridionali – singolarmente o ancor meglio tra loro coordinate – di un’azione
volta alla realizzazione di un “osservatorio attivo” capace di dettare (e non di
imporre) linee guida di comportamento e di realizzazione di performance nei
confronti del sistema bancario, che potrebbero essere ben accette anche ai
grandi gruppi bancari operanti secondo il modelli della “banca-rete”, i quali nel
rapporto con le istituzioni pubbliche meridionali trovano una clientela tutt’altro
che marginale.
Quanto al superstite sistema creditizio locale, assumono un rilievo
strategico quelle componenti bancarie che, sebbene minoritarie, possono avere
un ruolo significativo per l’imprenditoria meridionale, ossia le banche a
dimensione regionale e quelle organizzate in forma cooperativa: il loro
radicamento aiuta a mitigare le difficoltà di accesso al credito anche in
condizioni difficili come quelle attuali.
A tale riguardo, l’azione dovrebbe essere quella di promuovere, più che
un’ espansione, un significativo irrobustimento di una “rete” di banche locali, le
quali potrebbero coordinarsi rispetto a problemi ed opportunità interessanti per
tutte, con l’ausilio e la consulenza critica di operatori specializzati nel mettere a
sistema unità operative indipendenti che di norma insistono su territori diversi
ma limitrofi. Rafforzare la rete delle banche locali è un importante snodo, la
premessa essenziale, per avviare un nuovo e più fisiologico rapporto con la
clientela (contenendo i rischi e ampliando le opportunità).
34
L’altro versante sul quale la politica economica, anche a livello locale,
è chiamata a misurarsi, attiene ai profili di rischio delle imprese meridionali A
tal fine, occorre tornare a sottolineare con preoccupazione i gravi ritardi e,
quindi, la urgente e assoluta necessità di una rapida riforma del sistema dei
Consorzi di Garanzia Collettiva Fidi meridionali. Anche in tal caso non si vede
come ciò possa avvenire se non attraverso una azione pubblica in grado di
responsabilizzare e di “trascinare” coerentemente gli operatori privati.
Concentrazione, rafforzamento patrimoniale, crescita operativa e professionale
sono alcuni dei tratti essenziali da perseguire. La riforma dei Confidi può
costituire uno strumento a disposizione delle imprese associate nel rapporto con
le banche, per l’accesso al credito a condizioni mediamente più favorevoli di
quelle altrimenti ottenibili da un’impresa non associata.
In definitiva, è cruciale limitare i danni al sistema produttivo che
possono derivare dalla “banca-rete” quando – come nel caso del Sud – si è alla
periferia, e cioè, funzionalmente distanti dal cuore del sistema. A questo scopo
le autonomie locali (specie quelle Regionali) dovrebbero assumersi
responsabilità del tutto alla portata dei loro attuali poteri. E’ necessario pensare
ad una regia, senza farsi illusioni su automatici processi di coordinamento, ma
confidando invece sul fatto che vi è un’aspettativa proprio in questo senso da
parte di tanti operatori, sia sul versante bancario che su quello dell’impresa.
Essi da tempo attendono e meritano da parte delle Istituzioni un coerente e
significativo segnale di attenzione.
5. LE RIFORME DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E DEL WELFARE: UNA
PRIORITÀ PER LA CRESCITA DEL SUD
5.1. Una Pubblica Amministrazione al servizio dello sviluppo
La necessità di rilanciare gli interventi di politica nazionale e regionale
di sviluppo riporta inevitabilmente al nodo critico irrisolto e mai affrontato in
modo sistemico della riforma della Pubblica Amministrazione.
Una riforma efficiente della P.A permetterebbe, come accaduto nelle
esperienze straniere di maggior successo, di rimettere in circolo riserve di
produttività compresse da dispositivi normativi e dal conformismo dei
comportamenti burocratici. Sino ad ora nel nostro Paese i tentativi di intervento
hanno mostrato una sostanziale inefficacia.
35
In assenza di un approccio sistemico di rinnovamento della Pubblica
Amministrazione, i processi di riforma settoriali avviati negli anni novanta del
secolo scorso sembrano aver determinato un ulteriore ampliamento dei divari
tra le diverse aree del Paese. Le stesse politiche di coesione, peraltro, sono
rimaste condizionate dall’acutezza dei nodi critici che volevano aggredire, dai
ritardi strutturali della società e dell’economia meridionale.
Al tempo stesso, si trascina irrisolta al Sud ancor più che al Nord la
questione dei rapporti tra poteri politici e poteri amministrativi; da qui la
continuità di un rapporto di sudditanza del dirigente pubblico al potere politico.
Le esperienze straniere di maggiore successo attribuiscono al dirigente pubblico
una autorità e responsabilità nell’applicare una dettagliata procedura di
pianificazione strategica ed operativa, favoriscono la maggiore trasparenza nei
processi decisionali, consentendo di meglio tracciare i confini tra ciò che
appartiene al potere politico e ciò che appartiene al potere amministrativo.
Le informazioni raccolte da una serie di indagini condotte da Istat,
Banca d’Italia, DPS ed Autorità di settore, danno conto che i risultati di una
inefficace azione della Pubblica Amministrazione si riflettono con particolare
gravità nel Mezzogiorno.
La percentuale di famiglie che denunciano irregolarità nella
distribuzione dell’acqua è pari al 21,8% nel Sud (supera il 30% in Calabria e
Sicilia), contro il 9% nel Centro-Nord; il grado di insoddisfazione del servizio
elettrico è nel Sud circa tre volte superiore al Centro-Nord; nei servizi
ospedalieri, la quota di ricoveri in ospedali di altra ripartizione risulta nel
Mezzogiorno pari a 6 volte a quella del Centro Nord. In tema di raccolta rifiuti,
la quota di rifiuti inviata in discarica è ancora all’83% nel Mezzogiorno, contro
circa il 70 ed il 30% nel Centro e nel Nord. La raccolta differenziata nel
Mezzogiorno è pari ad un terzo di quella del Centro-Nord. I collegamenti di
trasporto pubblico urbano sono inferiori di quasi il 34%.
Una pluralità di inefficienze che riducono la qualità della vita nel Sud e
sono il riflesso di uno Stato che nel Sud è debole proprio nell’erogazione dei
servizi che dovrebbe essere fondamentali.
La cartina al tornasole della debolezza delle politiche degli ultimi dieci
anni è rappresentato dal fatto che “fare impresa” nel Sud, nonostante gli ingenti
fondi nazionali ed europei spesi in queste regioni, è diventato più sempre
difficile.
I più recenti studi delle grandi organizzazioni internazionali hanno posto
in evidenza come il peso elevato degli oneri burocratici per le imprese siano un
fattore di ostacolo rilevante alla concorrenza e alla crescita del sistema
economico. Su tali temi è l’intero sistema Paese che presenta posizioni
36
decisamente sfavorevoli a livello internazionale. Ad esempio, in base
all’indicatore di “Doing Business” elaborato dalla Banca Mondiale e che si basa
sulle procedure necessarie in fasi significative della vita d’impresa (l’avvio di
una attività, la concessione di licenze edilizie, la soluzione di controversie, etc),
l’Italia si colloca al 65° posto.
Si tratta di condizioni che divengono in media nel Mezzogiorno ancora
più difficili. L’indice di semplificazione/regolazione elaborato dal Formez, che
valuta il livello di semplificazione amministrativa (grado di funzionamento
dello Sportello unico, qualità delle normative in temi di impianti produttivi e
aree ecologicamente attrezzate, qualità delle politiche di semplificazione
amministrative a favore delle imprese), presenta per le regioni del Sud un
valore peggiore di circa il 30%. Un significativo divario si rileva anche con
riguardo ai tempi necessari per aprire una impresa, calcolati in circa 19 giorni
per le regioni del Mezzogiorno continentale e in 15 nelle Isole, valori superiori
rispetto alle circoscrizioni del Centro-Nord e in particolare alle regioni nord-
occidentali, dove sono necessari meno di 9 giorni.
Un approfondimento a parte merita il tema dell’efficienza del sistema
giudiziario. Esso rappresenta una condizione fondamentale per il buon
funzionamento del sistema economico. I tempi lunghi di risoluzione delle
controversie civili generano ogni anno costi insopportabili che minano le
condizioni di sopravvivenza delle imprese di minori dimensioni. La durata
media dei procedimenti di cognizione di primo grado è nel Mezzogiorno di
1.200 giorni per il totale dei procedimenti e di circa 1.000 per le cause di
lavoro, contro, rispettivamente, 750 e 500 giorni nel Centro-Nord. Differenze
altrettanto rilevanti si rilevano per quanto riguardano i procedimenti esecutivi.
In questo caso si raggiunge nelle regioni del Sud una durata media dei
procedimenti esecutivi immobiliari di oltre 2.300 giorni contro meno di 1.000
giorni nelle regioni del Centro-Nord (che già sono moltissimi rispetto alle
medie europee).
Pesano come un macigno sulle prospettive di realizzare significativi
avanzamenti nelle dotazioni dei territori meridionali le difficoltà, presenti
nell’intero Paese, nel realizzare le opere pubbliche. In questo ambito, alle
difficoltà di carattere decisionale e programmatico delle Regioni e dello Stato
centrale si sommano tempi di realizzazione delle opere che potremmo definire
biblici.
I dati dell’ultima Relazione dell’Autorità per la Vigilanza sui Contratti
Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture Infrastrutturali evidenziano che per opere
di entità superiore ai 5 meuro, i tempi di realizzazione sono di circa 10 anni;
sotto i 5 meuro, sono di almeno 4 anni.
37
Se si considerano i dati relativi ai territori, emergono particolari criticità
del Mezzogiorno, specialmente nella fase di progettazione e aggiudicazione
delle opere. La fase di progettazione oscilla tra gli oltre 1.000 giorni della
Sicilia e i 380 giorni della Lombardia; tra l’approvazione del progetto e la
pubblicazione del bando passano ulteriori 272 giorni in Sicilia, 207 in
Campanile a fronte di 93 giorni in Lombardia.
I dati complessivi riportati nella Relazione citata mostrano una durata
complessiva delle fasi amministrative necessarie solo a “decidere” di circa 900
giorni; si tratta del periodo che passa tra la data di incarico per la progettazione
esterna e la data dell’aggiudicazione definitiva. Questi 900 giorni però
nascondono grandi variabilità territoriali: si passa, infatti, dai 583 giorni della
Lombardia ai 1.120 della Campania, fino ai 1.582 della Sicilia. Ciò vuol dire 4
anni solo per cominciare una opera pubblica.
5.2. Un Welfare più equo tra le generazioni e i territori
Nella metà degli anni ’80, in uno dei Suoi ultimi scritti, l’economista
Federico Caffè sosteneva , con riferimento al dibattito già allora in corso sulla
crisi dei sistemi di Welfare europei, che da parti di molti si confondeva “un
tramonto con una non ancora raggiunta pienezza di un nuovo giorno”. Con ciò
stava ad indicare che il problema era proprio la mancata realizzazione di molti
degli obiettivi che uno Stato sociale si dovrebbe proporre, e non certo il suo
declino. Tali riflessioni di circa vent’anni fa sembrano adattarsi perfettamente
alla fase attuale, che sta ponendo in particolare evidenza i limiti dell’attuale
sistema che presenta una composizione squilibrata e soprattutto non in grado di
coprire in maniera universale i bisogni della popolazione. Tali incompletezze
rendono il nostro sistema di Welfare iniquo in particolare verso le fasce più
deboli della società, i poveri, i giovani e il Mezzogiorno.
In termini di spesa complessiva per la protezione sociale rapportata al
PIL, l’Italia non si discosta di molto dalla media europea: nel 2006 era al 26,6%
a fronte del 27% della UE a 25. L’anomalia italiana sta nella quota molto
elevata della spesa previdenziale destinata alla popolazione in età avanzata
(58,8% della spesa sociale complessivamente erogata, a fronte di valori inferiori
al 50% della quasi totalità dei paesi europei). Proprio per effetto della
concentrazione delle pensioni nel Centro-Nord, la spesa del Welfare che riceve
ogni abitante è pari a 7.200 euro al Nord e a 5.700 euro al Sud, con un divario a
sfavore del cittadino del Sud di circa 1.500 euro.
Gli interventi di riforma sin qui adottati, troppo timidi nel modificare lo
status quo, hanno solo parzialmente contenuto la tendenza espansiva del deficit
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della parte più rilevante della spesa sociale, la spesa previdenziale. Nonostante
le diverse riforme del sistema previdenziale, l’età media di pensionamento
permane nel nostro Paese, e soprattutto nel Centro-Nord, piuttosto bassa: 56,3
anni al Nord e 58,3 anni al Sud, in entrambe le aree con circa 35 anni di
contributi versati.
Rimane ancora debole la seconda gamba del Welfare italiano, quella che
dovrebbe favorire, attraverso servizi e trasferimenti, l’inclusione sociale e
l’ampliamento delle opportunità.
Queste carenze relative al livello nazionale sottendono squilibri rilevanti
a livello territoriale delle due circoscrizioni. In particolare, divari si evidenziano
nei servizi socio-assistenziali a favore di minori ed anziani: la percentuale di
bambini accolti in asilo nido, pubblici o privati convenzionati, è al 4,5% nel
Mezzogiorno, rispetto al 15,0% nel Centro-Nord mentre è ancora all’1,8% nel
Mezzogiorno.
Con riferimento agli ammortizzatori sociali in senso stretto, nonostante i
recenti correttivi introdotti dal Governo, il diritto a prestazioni di entità e durata
significative resta limitato ai soli lavoratori dipendenti – cui ora si aggiunge una
piccola porzione di parasubordinati –, restando in ciò fondamentalmente legato
ad un approccio tradizionale di protezione del lavoratore contro il rischio di
disoccupazione che tutela solamente chi ha già avuto una occupazione a
carattere subordinato, solitamente per un periodo non marginale di tempo,
escludendo oltre ai lavoratori autonomi anche i dipendenti con storie lavorative
frammentate e di breve durata.
E’ evidente come un sistema siffatto comporti il razionamento di quelle
aree territoriali dove minore è il peso del settore industriale e delle imprese
medio-grandi e dove maggiore è, per converso, la quota di occupazione precaria
ed irregolare. In base a valutazioni svolte dalla SVIMEZ, il numero degli
occupati esclusi da ogni tutela è in Italia valutabile in circa 2 milioni e di questi
circa 650 mila sono nel Mezzogiorno. Se a questi aggiungiamo nel Sud i
disoccupati e i lavoratori in nero, circa il 50% della forza lavoro del
Mezzogiorno è outsider rispetto al sistema di ammortizzatori. Ciò pone con
forza l’esigenza di una riforma in grado di potenziare l’offerta di aiuti
economici e di servizi diretti ai lavoratori espulsi dal ciclo produttivo, tramite
ammortizzatori sociali rivolti ai singoli individui indipendentemente dal settore,
dalla dimensione e dalla tipologia delle imprese.
Tra le carenze del sistema italiano, spicca in particolare l’assenza di
prestazioni di carattere universale per la povertà e l’inoccupazione. La
SVIMEZ, utilizzando il modello MICROREG dell’IRPET, ha condotto una
simulazione per valutare, in base ai dati ISTAT sulle famiglie che vivono al di
39
sotto della soglia di povertà assoluta, il costo che comporterebbe l’introduzione
di una forma di sussidio universale al reddito in grado di riportare il reddito
familiare al di sopra di tale soglia. In base a tale stima, il numero di famiglie in
condizioni di povertà assoluta è pari a livello nazionale a circa 1 milione, di cui
398 mila nel Nord, 133 mila nel Centro e 443 mila nel Mezzogiorno.
L’esercizio condotto ha valutato in circa 2 miliardi di euro all’anno il costo di
un intervento universale in grado di far uscire tutte le famiglie dalla condizione
di povertà, assicurando il differenziale tra il reddito percepito e la soglia
definita dall’ISTAT. Tale costo sarebbe destinato per circa il 48% alle famiglie
meridionali (930 milioni di euro), per il 41% a quelle del Nord (795 milioni di
euro) e per il restante 11% al Centro (213 milioni di euro).
Il costo di tale intervento, che renderebbe il nostro sistema di protezione
sociale più omogeneo al modello prevalente negli altri paesi europei, se
confrontato con quello di misure recenti come l’abolizione dell’ICI sulla prima
casa, non appare incompatibile con gli equilibri di finanza pubblica. Nel breve
e medio periodo – naturalmente con modalità e tempi da stabilire con metodi
concertativi – le risorse necessarie potrebbero derivare da un modesto
contenimento della spesa pensionistica. In tale quadro, occorrerebbe procedere
ad una accelerazione del passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo
e ad un innalzamento dell’età media di fruizione delle pensioni. Quest’ultimo
obiettivo non può non comprendere forme più efficaci di scoraggiamento del
ricorso al pensionamento anticipato, che costituisce una delle principali fonti
della crescita previdenziale negli ultimi anni e che risulta concentrato
soprattutto nelle regioni più ricche. La rimodulazione delle componenti del
Welfare a favore delle fasce oggi escluse, oltre a determinare una maggiore
equità del sistema di protezione nel suo complesso, avrebbe quindi
indiscutibilmente anche l’effetto di un riequilibrio della sua allocazione tra le
due grandi aree del Paese.
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Finito di stampare il 15 luglio 2009 dall’Industria Failli Grafica s.r.l.
Via Roma, 202, 00010 Pomezia (Roma) – Tel. 06.9122520 fax 06.9108363
per conto della SVIMEZ
“Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno”
Via di Porta Pinciana 6, 00187 Roma
Tel. 06.47.850.1 • fax 06.47.850.850 • e–mail: svimez@svimez.it
Svimez 2009/06_sintesi.pdf
“RAPPORTO SVIMEZ 2009
SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO”
SINTESI
Roma, 16 luglio 2009
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
3
.
LE DINAMICHE ECONOMICHE GENERALI E SETTORIALI
LE POLITICHE INDUSTRIALI
LE POLITICHE DI COESIONE E L’EUROPA
LE POLITICHE DI FINANZA PUBBLICA
LE POLITICHE INFRASTRUTTURALI
LE POLITICHE CREDITIZIE
LE POLITICHE PER LA P.A.
LE POLITICHE PER IL SUD
POPOLAZIONE, SCUOLA E MERCATO DEL LAVORO, MIGRAZIONI
POLITICHE PER LO STATO SOCIALE
POLITICHE CONTRO LA CRIMINALITA’
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
4
LE POLITICHE ECONOMICHE GENERALI E SETTORIALI
2008 anno di crisi - Il 2008 è stato un anno di crisi per l’economia mondiale e la
recessione in corso nelle principali economie del mondo continua ad essere la più
profonda dal dopoguerra. La crisi è stata più marcata nei paesi dove maggiore è la quota
della produzione manifatturiera, come Giappone ed Europa.
Nel 2008 le economie Ue hanno registrato una crescita del Pil dello 0,8%, rispetto al
+2,7% del 2007. La crisi è diventata recessione solo per pochi paesi, tra cui l’Italia (-
1%), il Lussemburgo ( -0,9%) e l’Irlanda (-2,3%).
La crisi si è fatta sentire sulla domanda estera prima e interna poi, con una caduta negli
acquisti di beni capitali e una flessione negli investimenti. E nel Mezzogiorno?
Pil e Mezzogiorno - In base a valutazioni SVIMEZ nel 2008 il Pil ha segnato nel
Mezzogiorno -1,1%. Ormai da sette anni consecutivi il Sud cresce meno del Centro-
Nord, cosa che non è mai successa dal dopoguerra a oggi. Il divario in termini di
prodotto per abitante è invece lievemente diminuito, a causa dei flussi migratori
nazionali ed esteri in direzione del Nord, arrivando 58,6% di quello del Centro Nord. A
livello regionale la Campania mostra una diminuzione del Pil particolarmente elevata (-
2,8%), mentre le altre regioni meridionali presentano perdite più contenute. Meno
colpita dalla crisi la Puglia (-0,2%).
Pil per abitante e divari storici - Una misura efficace del divario Nord-Sud la dà il Pil
per abitante: nel 2008 nel Mezzogiorno è stato 17.971 euro, circa il 59% del Centro-
Nord (30.681 euro), con una riduzione però del divario di oltre 2 punti percentuali dal
2000, dovuta solo alla riduzione relativa della popolazione.
Un altro indicatore storico rende l’idea della situazione stagnante: nel 1951 nel
Mezzogiorno veniva prodotto il 23,9% del Pil nazionale. Sessant’anni dopo, nel
2008, la quota è rimasta sostanzialmente immutata (23,8%). Dal 1951 al 2008 il Sud
è cresciuto circa agli stessi ritmi del Centro-Nord, ma non è riuscito e non riesce a
recuperare il gap di sviluppo.
Nella ricostruzione della SVIMEZ l’intervento pubblico straordinario, cioè ad hoc per il
Sud, è stato in media pari allo 0,7% del Pil negli anni cinquanta e sessanta, e allo 0,9%
negli anni settanta. Successivamente è sceso allo 0,65% negli anni 1981-1986,
riportandosi poi fino al 1993 allo 0,75% e poi allo 0,8% negli anni recenti.
Tra i fattori responsabili del mancato sviluppo l’andamento della produttività, troppo
ridotto, anche perché legato, oltre che al capitale, a elementi di contesto fortemente
deficitari nel Sud , come il capitale umano, la R&S, le infrastrutture e il capitale sociale.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
5
Oltre al gap Nord-Sud Italia, cresce anche la distanza tra il Sud e l’Europa, soprattutto
per effetto della scarsa competitività (fig 13). Il Sud infatti è cresciuto molto meno delle
altre regioni Obiettivo 1 in Europa.
L’economia per settori
Agricoltura - Nel 2008 l’agricoltura meridionale ha tenuto molto più degli altri settori e
ha invertito il trend negativo iniziato nel 2005. In particolare, molto positiva è stata la
performance della Basilicata, con una crescita del Pil nel 2008 rispetto al 2007 di ben il
24%. Bene anche Abruzzo, Molise e Puglia, più contenuta la Sicilia (2,9%), segno meno
in Campania (-1,8%) e Calabria (-0,8%).
Aziende agricole - Nonostante gli sforzi e i progressi degli ultimi anni le criticità
strutturali di fondo restano: la dimensione media delle aziende nel Mezzogiorno è di 6
ettari, contro i quasi 10 del Centro-Nord. Nel Sud l’occupazione agricola è soprattutto
dipendente e tende ad aumentare, a differenza del Centro-Nord. Dal 2001 al 2008 la
crescita della produttività agricola meridionale è stata la metà di quella del Centro-Nord
(+8,9% contro +17%). A pesare ulteriormente sulla poca competitività è il costo del
lavoro per unità di prodotto, che nel Sud è superiore del 38% a quello del Centro-
Nord
Export - Crescono però le esportazioni: nel 2008 +9,7% al Sud, più del triplo del
Centro-Nord, con un vero e proprio boom verso i mercati extra Ue (+36%). Le regioni
più forti Molise (+105%) e Basilicata (+98%), mentre scendono fortemente Calabria (-
18%) e Sardegna (-60%).
Industria - La crisi in atto ha colpito a livello nazionale e non solo soprattutto il
comparto industriale. Cali della domanda interna ed estera hanno pesato in modo
determinante, soprattutto per quanto riguarda i beni durevoli e gli investimenti fissi
lordi.
La recessione si è fatta sentire in modo particolare al Sud, con un calo del Pil
industriale nel 2008 del 3,8%, mentre le produzioni manifatturiere hanno segnato
un calo di oltre il 6%. A tirare giù l’industria meridionale soprattutto macchine e
mezzi di trasporto (-10,5%), settore dei metalli e chimico-farmaceutico (-7,1%). In
controtendenza invece il settore energetico, che ha segnato un rialzo dell’8,7% a causa
soprattutto del calo del prezzo delle materie prime. Più vario il panorama delle
esportazioni: a fronte di un calo di quasi il 6% per l’automotive, il chimico-farmaceutico
ha segnato un incremento superiore al 15%.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
6
Occupazione industriale - Sull’industria meridionale pesa soprattutto la scarsa
produttività (il divario con il centro-Nord è di oltre 22 punti percentuali) e le ridotte
dimensioni delle imprese.
Immediato il contraccolpo sull’occupazione: 23mila lavoratori del comparto auto
hanno perso il lavoro al Sud nel 2008. Dal 2004 al 2008 il settore manifatturiero ha
espulso quasi 33mila lavoratori.
Giù anche gli investimenti: -2,1% annuo dal 2001 al 2008, tre volte tanto rispetto al
Centro-Nord (-0,6%), anche a seguito della riduzione o abolizione di alcune
agevolazioni (credito d’imposta, legge 488).
Imprese cooperative - Un caso a parte è costituito dalle imprese cooperative, che nel
Sud dal 1971 al 2001 sono aumentate di oltre otto volte, con un vero e proprio boom
in Campania (+1.432%) e Sicilia (+1.297%). Una curiosità: nonostante nel Sud nel
periodo in questione il numero medio di addetti si sia dimezzato (erano in media 21 nel
1971, 9 nel 2001), il 20% delle imprese totali è classificato come media (classe 10-49
addetti) e ben 58 su 450 hanno più di 250 addetti. A parte il Molise, dove ben l’80%
delle imprese con più di 250 addetti sono cooperative, le imprese di grandi
dimensioni sono superiori al 20% anche in Basilicata e Calabria: dati che
fotografano un fenomeno in controtendenza rispetto al sistema economico nazionale (il
96% delle imprese al Sud ha meno di 9 addetti, il 94% al Centro-Nord). Contrariamente
a quanto si pensa, le imprese cooperative sono diffuse più nel Sud che nel resto del paese
(53.130 su un totale di 111.800), concentrate nel settore agroalimentare, nelle
costruzioni e nell’edilizia abitativa, con una prevalenza del settore terziario (soprattutto
servizi alle persone, istruzione, sanità). Nel Mezzogiorno sono più diffuse le cooperative
agricole, nel Centro-Nord quelle attive nei servizi alle imprese e alla persona).
Edilizia - La crisi non ha risparmiato il settore edile: dopo la forte crescita degli ultimi
otto anni (quasi +16%), nel 2008 il Sud ha segnato un calo degli investimenti del 2%
rispetto all’anno precedente. Dal 2003 al 2007 inoltre i bandi di gara per opere
pubbliche sono scesi del 27% a livello nazionale, con punte particolarmente negative in
Basilicata (-43,5%), Calabria (-31%) e Puglia (-30%).
Sul fronte occupazione il Mezzogiorno ha registrato una flessione dell’1,2%, pari a
7mila lavoratori in meno, il doppio del Centro-Nord, di cui quasi 5mila lavoratori
autonomi.
La vera piaga del settore edile è data però soprattutto dal sommerso: secondo stime
SVIMEZ i lavoratori in nero occupati nel settore sarebbero 180mila, di cui il 63%
(110mila) concentrati al Sud.
Servizi e terziario - Sempre per effetto della crisi, per la prima volta dal 2000 il Pil del
settore dei servizi è calato. Al Sud, dopo quattro anni di forte crescita, nel 2008 il Pil
è sceso dello 0,3%, con un calo quasi del 3% nel comparto commercio.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
7
La crescita degli occupati nel settore è stata molto contenuta e al Sud ha segnato + 0,2%,
pari a 10mila nuovi posti di lavoro. Più in particolare si segnala il calo dell’1,4% degli
occupati nel settore del commercio a fronte della creazione di nuovi posti di lavoro
nel comparto assicurativo, immobiliare e finanziario (+1,4%).
Turismo - Nel 2007 nel Mezzogiorno gli arrivi e le presenze di turisti stranieri sono
aumentati del 6 e del 5% rispetto all’anno precedente, a fronte del 4% e del 2,1% del
Centro-Nord. Sono state Sardegna e Puglia a trainare la crescita, con un salto in avanti
rispettivamente del 12,5% e dell’11,2%, più contenuti i dati campani (+3,3%) e siculi
(+0,2%), in flessione Abruzzo (-1%) e Molise (-12,2%).
Nonostante questo, il Mezzogiorno non riesce ad esercitare sui turisti italiani e stranieri
una forte capacità attrattiva, a causa di critiche difficoltà strutturali.
Il turismo al Sud è soprattutto domestico, di prossimità: circa il 60% dei vacanzieri
infatti proviene dalle diverse regioni meridionali, più il Lazio.
Nonostante le condizioni climatiche consentano di estendere la stagione a dodici mesi
l’anno, di fatto oltre il 70% delle presenze si concentra nel periodo giugno-
settembre. Ad esempio nel febbraio 2007 gli stranieri che hanno scelto di trascorrere un
periodo di ferie nel Mezzogiorno sono stati l’1,4% sul totale annuo, contro il 4,5% del
Centro-Nord; nello stesso periodo i turisti italiani al Sud sono stati meno della metà
rispetto al dato del Centro-Nord (2,1% contro 4,5%).
Nonostante la ricchezza del patrimonio ambientale e artistico, il Sud viene inoltre
percepito essenzialmente come una località balneare, mentre il turismo d’affari e
congressuale, spesso sviluppato nei mesi invernali, è praticamente assente.
Punti critici nell’attrazione dei turisti sono dati dalla scarsità di servizi e trasporti:
pochi aeroporti poco collegati con voli low cost e città europee; trasporti pubblici
carenti; rete ferroviaria a binario unico e sistema autostradale sottodotato.
Città e aree urbane – Mentre al Centro-Nord le grandi città attraggono importanti
attività terziarie, al Sud non riescono a trainare uno sviluppo diffuso e limitrofo, ma sono
espressione di un radicato disagio sociale, inadeguate a fornire efficienti livelli di
servizio ai cittadini per le funzioni essenziali come acqua, rifiuti, assistenza socio-
sanitaria.
Lo dimostra anche il fatto che nel 2008 la popolazione delle aree urbane del Centro-
Nord è cresciuta in valori compresi tra il +3 e il +6% a seconda delle ripartizioni, mentre
le città al Sud hanno perso 13mila unità (-0,3%). Se Milano ha visto aumentare la
popolazione del 2 per mille e Torino addirittura del 12, Napoli ha perso 4 residenti su
mille.
Nel complesso la situazione resta difficile: grandi aree urbane sull’orlo della crisi,
Napoli, Palermo e Catania, aree urbane intermedie poco collegate tra loro non sempre in
grado di fornire servizi adeguati agli abitanti, come Paola.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
8
Paradossalmente, il Sud è più legato con il Nord che con se stesso, come dimostrano i
dati sulle migrazioni e sul pendolarismo Sud-Nord.
Non mancano esperienze positive, come Salerno, Pescara, Bari e le realtà intermedie di
Sassari e Cagliari.
Cosa dice la SVIMEZ – A differenza del passato, nel Sud oggi la crisi rischia di
mordere maggiormente con effetti fortemente negativi sui consumi, investimenti e
occupazione. L’economia meridionale risente particolarmente del fatto di essere stata
colta dalla crisi in una fase di particolare fragilità, mentre si stavano avviando processi
di aggiustamento sia dal lato delle imprese che del bilancio pubblico.
Questo perché l’economia meridionale somma all’inversione ciclica debolezze
strutturali che affondano le loro radici nel tempo. La leggera convergenza con il
Centro-Nord viene raggiunta per via patologica, non con maggiore crescita, ma con
perdita di popolazione. Tale dinamica è in controtendenza con quanto avviene nelle
aree deboli nel resto dell’Europa.
Le analisi del Rapporto mostrano come le imprese meridionali sembrino essere state
maggiormente colpite dall’intensificarsi della concorrenza internazionale,
verosimilmente per motivi di composizione settoriale (nel Mezzogiorno pesano meno che
al Centro-Nord i settori che hanno “tenuto” meglio, quali ad esempio le industrie
meccaniche fornitrici di beni capitali), per una minore presenza nei mercati emergenti,
e per una dimensione media delle imprese inferiore a quella del Centro-Nord.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
9
LE POLITICHE INDUSTRIALI
Crisi economica e politiche di settore – L’inatteso deterioramento dei saldi di finanza
pubblica conseguente alla crisi economica e finanziaria ha spinto il Governo a dirottare
altrove parte delle risorse disponibili in precedenza che erano state programmate per la
politica industriale. Ciò, peraltro, è avvenuto mentre prosegue la flessione delle
agevolazioni nel Sud. Il sostegno del Governo è stato indirizzato soprattutto verso il
settore del credito, potenziando il Fondo di Garanzia per le piccole imprese e i Confidi,
aiutando la ricapitalizzazione delle banche attraverso i Tremonti bond, immettendo
liquidità a basso costo grazie a parte dei fondi della Cassa Depositi e Prestiti, ampliando
le forme di garanzia e le modalità di intervento della Sace.
Le norme agevolative varate –La definitiva archiviazione della legge 488 sugli
incentivi alle imprese ha cambiato radicalmente il ventaglio agevolativo. Si è puntato,
invece, soprattutto su due programmi di incentivazione: i Progetti di Innovazione
Industriale e il Credito d’Imposta per ricerca e sviluppo. Ai primi il Governo
precedente aveva destinato quasi un miliardo nel triennio 2007 – 2009. A inizio 2008 era
stato già avviato l’iter per il finanziamento dei primi cinque Progetti di Innovazione. Ma
per entrambi il Mezzogiorno è riuscito a catturare quote di risorse del 4,9% e dell’8,1%,
decisamente trascurabili.
Progetti di Innovazione Industriale – Per il progetto “Mobilità sostenibile” sono state
presentate 50 domande, che hanno coinvolto 420 imprese e 225 organismi di ricerca. Di
cui solo il 12% sono localizzate nel Mezzogiorno. I progetti ammessi sono stati la metà,
che riguardano 250 imprese e 100 organismi di ricerca. Il totale dei contributi sfiora i
180 milioni.
Per il progetto “Efficienza energetica” sono state presentate 86 richieste, che
coinvolgono circa 500 imprese, di cui poco più del 20% ubicate nelle aree meridionali.
Ammessi al finanziamento 30 progetti che riguardano 234 imprese e 160 enti di ricerca.
Il totale dei contributi è di 200 milioni.
Per il progetto “Nuove tecnologie per il Made in Italy” il bando stanzia 190 milioni:
sono stati presentati 429 progetti che hanno coinvolto più di 3mila imprese e mille centri
di ricerca. Non c’è ancora la graduatoria degli ammessi.
Per gli ultimi due progetti “Tecnologie innovative per i beni culturali” e “Nuove
tecnologie della vita”, siamo ancora alle battute iniziali.
Crediti d’Imposta per ricerca e sviluppo – La misura è rimasta inattuata per l’intero
2007, in attesa dell’autorizzazione della Commissione Europea. Nel corso del 2008
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
10
sono state concesse agevolazioni per oltre 700 milioni, di cui più del 94% a imprese
del Centro Nord. Successivamente, con l’aggravarsi della crisi economica, il Credito
d’imposta è stato esteso ai settori del tessile e della moda.
Sud e politica industriale – In Italia nel 2007 c’è stato un crollo rispetto all’anno
precedente sia del numero di domande per agevolazioni, che ha sfiorato il 76%, sia degli
importi, diminuiti da 6 miliardi e mezzo a 1 miliardo e mezzo. Le cause sono molteplici,
ma soprattutto la non operatività di numerosi strumenti di incentivazione, le difficoltà
connesse al nuovo ciclo di programmazione dei fondi comunitari, i ritardi nell’avvio dei
nuovi interventi. A livello territoriale c’è stata una forte differenziazione tra Centro
Nord, dove le agevolazioni si sono ridotte del 27% rispetto all’anno prima, e
Mezzogiorno, dove il calo è stato dell’86,5%. Il motivo è stato il sostanziale
azzeramento degli interventi per ridurre gli squilibri territoriali. In definitiva nelle aree
meridionali il 90% delle agevolazioni nel corso del 2007 si è concentrato nella ricerca e
sviluppo e nella nuova imprenditorialità.
Nuovo pacchetto di agevolazioni al Mezzogiorno
Crediti d’imposta per investimenti - Sono destinati esclusivamente al Mezzogiorno.
Sono diventati operativi nel 2008. Gli stanziamenti complessivi per il periodo 2008 –
2015 sono 4 miliardi e 477 milioni. Sono state presentate 35.490 domande, quelle
agevolate sono 23.687, per 11 miliardi e 481 milioni di investimenti. Le agevolazioni
concesse pari a 4 miliardi e 475 milioni hanno esaurito, già a settembre 2008, l’intero
stanziamento fino al 2015. Non sono stati rifinanziati.
Crediti d’imposta per nuova occupazione – Si tratta di un bonus fiscale per i datori di
lavoro che nel corso del 2008 hanno assunto dipendenti a tempo indeterminato nel
Mezzogiorno. L’anno scorso i crediti fruiti sono stati pari a 84,8 milioni, di cui solo 20
milioni nell’industria. Le Regioni dove sono stati maggiormente utilizzati sono Sicilia,
Campania e Puglia. Sarebbe stato auspicabile prolungare la durata dell’intervento,
limitato al solo 2008. Grazie a questa misura è stimato un aumento di posti di lavoro
tra 40mila e 50mila.
Zone Franche Urbane – Sono state introdotte con la Finanziaria 2007 per il solo
Mezzogiorno, poi, in seguito ai rilievi mossi da Bruxelles, sono state estese anche al
Centro Nord con la Finanziaria 2008. Hanno una dotazione di risorse molto limitata,
appena 50 milioni per gli anni 2008 e 2009. A seguito di un’istruttoria durante la quale
sono giunte 64 proposte, il Cipe ne ha scelte 22, di cui 18 al Sud. Ma non riescono
ancora a decollare finché non giunge la definitiva approvazione da parte della
Comunità Europea e non vengono approvati i decreti di attuazione.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
11
Contratti di Programma – Sono stati modificati rispetto al passato, puntando su
progetti di più ampio respiro e sulla promozione di investimenti non esclusivamente
produttivi, ma anche infrastrutturali, di formazione e di ricerca. Si tratta ora di uno
strumento non più limitato alle aree sotto utilizzate ma esteso in tutt’Italia. Con i
Contratti di Programma possono essere attivati più regimi di aiuto, nazionali e a finalità
regionale. Il Cipe ha affidato a Invitalia la gestione di questo strumento agevolativo.
L’anno scorso sono state presentate 36 proposte di Contratti di Programma: 24 per il
settore manifatturiero e 12 per il comparto agro industriale, che prevedono investimenti
complessivi per circa 5,2 miliardi, di cui 3,2 nelle aree meridionali. A fine 2008 nessuna
di questa proposte aveva ultimato l’iter procedurale.
Contratti di Localizzazione – Hanno il compito di attrarre gli investimenti esteri.
Riguardano solo le Regioni meridionali. Sono gestiti da Invitalia, che svolge attività di
promozione, stipula e realizzazione di detti contratti. Finora ne sono stati stipulati 10,
per circa 480 milioni di investimenti e 206 milioni di agevolazioni.
Contratti di sviluppo - Sono uno strumento agevolativo più snello destinato a sostituire
i Contratti di Programma e di Localizzazione. Non sono ancora decollati: dovrebbero
essere finanziati ricorrendo al Fondo strategico a sostegno dell’economia reale presso la
Presidenza del Consiglio, che ha una dotazione di 9 miliardi, ma non si sa quanto di
questo ammontare sarà destinato a tale strumento. Sarebbe auspicabile che in sede di
attuazione questo nuovo strumento fosse limitato solo al Sud.
Ricerca e innovazione – Il ritardo in questo settore è un problema che riguarda l’Italia
nel suo complesso, ma soprattutto il Mezzogiorno, dove gli investimenti in ricerca e
sviluppo dipendono molto più che altrove dalle politiche pubbliche. Basta guardare il
rapporto tra la spesa complessiva in ricerca e sviluppo e il Pil nel Centro Nord e al Sud:
nelle aree meridionali è circa il 30% meno rispetto al resto del Paese. Lo stesso vale
per il numero di addetti al settore: 4 ricercatori su mille abitanti al Centro Nord,
1,8 nel Mezzogiorno. Peraltro nelle aree meridionali negli anni 2000-2007 l’80% delle
agevolazioni per ricerca e sviluppo è concentrato in 2 interventi: il Fondo per le
Agevolazioni alla ricerca e il Pia Innovazione, che hanno indirizzato verso quest’area 2
miliardi ciascuno. Il Quadro Strategico Nazionale 2007 – 2013 attribuisce grande rilievo
alle politiche di sostegno a ricerca e innovazione, dichiarandole una delle 10 priorità di
intervento.
PMI - L’ultima “Indagine sulle imprese manifatturiere italiane” realizzata sui bilanci di
un campione di imprese di piccola e media dimensione (PMI) negli anni 2004-2006,
assolutamente prevalenti nel Sud, ha evidenziato l’importanza di strategie difensive
basate su un utilizzo più che flessibile del lavoro e/o dalla prossimità con l’economia
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
12
informale. Ciò è dovuto alla negativa produttività media (-1,0%) delle PMI meridionali,
a fronte di una’evoluzione positiva nel resto del paese (+4,1%).
L’internazionalizzazione – L’economia meridionale ha un minor grado di apertura ai
mercati internazionali e ciò limita sia l’efficienza che l’innovazione. Le esportazioni
meridionali hanno scontato un commercio internazionale in fase di forte rallentamento
ma ancora in crescita, perché le stime sono precedenti all’insorgere della crisi economica
– finanziaria nell’ultima parte del 2008: eppure già in questo contesto il peso del Sud sui
dati nazionali relativi all’internazionalizzazione commerciale e produttiva delle imprese
è inferiore alle sue dimensioni demografiche ed economiche. Il contributo del
Mezzogiorno all’export italiano è, infatti, del 12% per le merci e del 7% per i
servizi. La quota di produzione meridionale destinata all’estero è meno della metà della
media nazionale. Lo svantaggio dei servizi rispetto alle merci esiste nonostante il
potenziale turistico del Sud ed è la conseguenza dello scarso sviluppo di un terziario
avanzato. Il Mezzogiorno contribuisce solo per lo 0,5% all’export mondiale, al pari di
Paesi come il Portogallo e la Slovacchia, la cui popolazione è comunque inferiore a
quella meridionale.
Cosa esporta il Mezzogiorno – Il Sud esporta soprattutto derivati del petrolio: ciò
spiega la crescita dell’export meridionale del 3,2% nel secondo semestre del 2008
rispetto a una contrazione dello 0,6% del resto del Paese. L’export meridionale è
sempre più concentrato in settori come l’acciaio, la chimica, il petrolio, i mezzi di
trasporto. Che le esportazioni del Mezzogiorno siano condizionate soprattutto dalla
produzione petrolifera, lo dimostrano i dati regionali, con la Sicilia e la Sardegna che
sono le prime, mentre Campania e Puglia perdono terreno per quel che riguarda le merci.
Ma in particolare la Campania lo riguadagna con l’export dei servizi, puntando
sull’attrattività turistica che ha e sul fatto che le maggiori imprese del terziario si
collocano nelle grandi aree metropolitane, e quindi segnatamente a Napoli.
Gli investimenti esteri in Italia - Se il rapporto tra numero di addetti nelle imprese a
partecipazione straniera e numero di addetti nelle unità locali è, nella media nazionale,
attorno al 5,1%, nel Sud tale rapporto scende all’1,2% e solo in Sardegna tocca
l’1,7%. Ciò testimonia la modesta presenza delle multinazionali nel sistema economico
meridionale, dovuta a un contesto nel quale mancano politiche adeguate a creare le
condizioni istituzionali e infrastrutturali più adatte, senza le quali difficilmente si
riescono ad attrarre capitali esteri.
Gli investimenti italiani all’estero – Sono aumentate le partecipazioni all’estero di
imprese meridionali, con capitali provenienti da alcune Regioni del Sud: innanzitutto la
Basilicata che supera addirittura il dato nazionale, ma anche la Campania, la Puglia e
l’Abruzzo. Ma sono comunque decisamente al di sotto della media nazionale. Il primo
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
13
gennaio 2007 le aziende manifatturiere straniere partecipate da investitori meridionali
superavano di poco le 200. Gli investimenti meridionali si dirigono in particolare
verso l’Europa centro orientale, attratti dai più bassi costi di produzione.
Sistemi locali del lavoro – In base a una serie di indicatori la SVIMEZ ha analizzato i
325 distretti del Mezzogiorno dividendoli in sette tipologie diverse da cui emerge un Sud
fortemente differenziato al suo interno.
- aree delle opportunità consolidate: qui la popolazione è in crescita, gli abitanti hanno
un livello di studio elevato, il tasso di occupazione è in linea con la media nazionale o
addirittura superiore al Centro-Nord (come a Olbia e alla Maddalena, 52%), il tasso di
disoccupazione basso (7%), il livello di reddito (19.400 euro pro capite) è superiore alla
media del Mezzogiorno (14.500). Fanno parte di questo gruppo sette sistemi locali
dell’Abruzzo (tra cui Avezzano, Celano, Giulianova e Teramo) e alcune importanti
realtà turistiche della Sardegna (Arzachena, La Maddalena, Olbia, Santa Teresa Gallura
e San Teodoro) e di altre regioni (Capri e Lipari).
- aree urbane: qui viene prodotto il 60% del Pil meridionale, ma si spazia dalle zone con
un terziario molto forte e un’occupazione in forte crescita (Benevento, Avellino, Bari,
Monopoli, Putignano, Lecce, Alghero, Sassari, Macomer, Nuoro, Cagliari e Oristano) ad
altre concentrate nel manifatturiero, che arrancano, con una crescita senza occupazione
(Caserta, Nola, Taranto, Gioia Tauro, Porto Empedocle e Gela) ad altre in piena crisi. In
quest’ultimo caso i tassi di attività e occupazione sono più bassi, la disoccupazione più
alta (Foggia, Brindisi, Catanzaro, Reggio Calabria, Vibo Valentia, Trapani, Palermo,
Messina, Agrigento, Caltanissetta, Enna, Catania e Siracusa).
- aree delle opportunità distrettuali e industriali: Qui prevalgono attività manifatturiere
piccole e medie ma anche realtà industriali più forti non sostenute da un terziario
avanzato. Sono zone da cui si emigra, che sembrano offrire opportunità di lavoro non
qualificato, come denota il tasso di attività superiore alla media meridionale unito alla
diffusione di titoli di studio medio-bassi. Fanno parte di questo comparto i distretti di
Pineto, Penne, Solofra, Altamura e Calangianus, Atessa, Termoli, Grottaminarda, Melfi
e Pisticci.
- aree delle opportunità turistiche: sono zone di significative potenzialità turistiche che
non riescono però a sfociare in livelli di reddito e occupazione superiori alla media. Qui
troviamo ad esempio Sant’Agata dei Goti, Amalfi, Maiori, Telese Terme, Sapri, San
Giovanni Rotondo, Barletta e Gallipoli, Diamante, Praia a Mare, Scalea, Soverato,
Castelvetrano, Taormina, Capo d’Orlando, Acireale.
- aree dinamiche: sono le aree di eccellenza, in crescita, più ricche, con una forte
capacità attrattiva, a vocazione soprattutto turistica (Forio, Ischia, Sorrento, Ostuni,
Tropea, Cefalù, Castelsardo, Bosa, Orosei e Muravera).
- aree della crisi: poche aziende, scarsa offerta di lavoro e reddito modesto. Si
concentrano soprattutto in Puglia, Calabria e Sicilia.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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- aree marginali:la struttura produttiva è debolissima e il reddito medio pro capite il più
basso d’Italia (8.600 euro). Sono le aree più interne e periferiche, scarsamente abitate,
della Sicilia, Calabria, Campania, Sardegna.
Il Mediterraneo – L’impatto della crisi finanziaria si è avuto soprattutto sulle maggiori
economie mondiali, come dimostrano le minori perdite registrate dalle Borse di
numerosi Paesi terzi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, i quali stanno anche
registrando una contrazione del Pil inferiore rispetto a quella delle nazioni più
industrializzate. Oggi la parte principale dell’export meridionale è concentrata in
Turchia, Libia, Tunisia ed Egitto, sebbene l’export verso il Mediterraneo si attesti a poco
meno di 6 miliardi, pur crescendo considerevolmente, mentre quello del Centro Nord
verso la stessa area sfiora i 25 miliardi. Il Sud, approfittando della stabile crescita
economica di aree geograficamente prossime, può diventare l’interlocutore
privilegiato di numerosi Paesi nord africani e asiatici che si affacciano sul
Mediterraneo, sia attraverso il potenziamento della logistica sia attraverso
maggiori relazioni economiche.
Cosa dice la Svimez – In base ad analisi SVIMEZ, settori come la chimica, i mezzi di
trasporto, la gomma-plastica, che vantano i più elevati valori di propensione a
esportare, sono anche caratterizzati da una presenza molto rilevante di stabilimenti a
partecipazione estera. Per contro, in quasi tutti i settori tradizionali dei beni di consumo
per la persona e per la casa, entrambe le variabili tendono ad assumere valori
relativamente bassi.
Dunque la modesta presenza delle multinazionali nell’intero sistema economico del
Mezzogiorno appare fortemente penalizzante.
Va comunque segnalato che la crescita dei traffici di “perfezionamento attivo” nel Sud
(importazioni temporanee di merci e successive ri-esportazioni), può comunque
rappresentare una concreta possibilità di inserire il Mezzogiorno nelle filiere trans-
nazionali in cui si è ri-organizzata la produzione su scala mondiale. Visto che ormai
circa un terzo delle esportazioni meridionali che escono dall’Unione Europea vanno
verso i paesi mediterranei, il Mezzogiorno potrebbe trovare nella “prospettiva
mediterranea” non solo una condizione per lo sviluppo della produttività in termini di
piattaforma logistica ma anche di vera e propria integrazione economica.
Le perduranti difficoltà sperimentate nel corso degli anni duemila dalle piccole e medie
imprese del Mezzogiorno spingono a riproporre le ragioni di una “politica industriale
regionale” in grado di affrontare i fattori strutturali endogeni alla base di tali difficoltà.
Nel Mezzogiorno, gli investimenti in R&S continuano a dipendere molto più che nel
Centro-Nord dalle politiche pubbliche, che finora non hanno dato i risultati sperati.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
15
Il problema che bisogna affrontare è come far maturare il tessuto
imprenditoriale meridionale. Che ciò possa avvenire senz’altro con il miglioramento
delle condizioni del contesto civile è desiderabile, ma non dimostrato. Ancora una volta
vale ricordare che il circolo vizioso dello sviluppo va spezzato in più punti,
accantonando formule ideologiche che attribuiscono un primato assoluto ora a un
fattore ora all’altro. Non si comprende, inoltre, ad esempio, come l’inutilità degli
incentivi nel Sud da molti sostenuta a causa della loro bassa efficacia non valga per il
Centro-Nord, se è vero che nel 2008 è stata prevista l’estensione dei contratti di
programma in tutte le regioni del Paese.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
16
LE POLITICHE DI COESIONE E L’EUROPA
Fondi strutturali 2000-2006 – L’ultima relazione annuale sull’esecuzione dei Fondi
strutturali nei 25 Stati membri dell’UE, relativa al 2007, certifica che alla fine dell’anno
erano stati impegnati quasi 224 miliardi ed erogati poco meno di 190, pari al 100% e
all’84,6% delle risorse stanziate. Le migliori performance le hanno avute Irlanda e
Austria, che hanno rispettivamente raggiunto un livello di spesa pari al 91,5% e al
91,1%. Mentre la peggiore l’hanno avuta i Paesi Bassi, fermi al 66,2% del contributo.
L’Italia ha registrato un livello di spesa attorno all’80,6% del contributo assegnato, più
basso della media UE. Gli investimenti sono stati concentrati sulle infrastrutture di base,
per oltre il 41%, delle risorse disponibili, di cui più della metà per quelle di trasporto. La
regola del disimpegno automatico si stima abbia fatto perdere risorse per circa 140
milioni.
Lo stato di attuazione del ciclo 2000-2006 in Italia – Nel periodo di programmazione
2000 – 2006 al nostro Paese sono stati assegnati 28,8 miliardi di contributi comunitari a
prezzi 2004, che, con le risorse nazionali di cofinanziamento, si sono raddoppiati, per cui
il totale dei fondi disponibili ha raggiunto 63,3 miliardi, di cui 45,9 destinati alle Regioni
dell’Obiettivo 1. Il 31 dicembre 2008 avrebbe dovuto essere la data limite per
l’erogazione di detti finanziamenti, ma, in seguito alla grave crisi economica
internazionale, tale scadenza è stata prorogata al 30 giugno di quest’anno. I dati di
monitoraggio della Ragioneria dello Stato mettono in evidenza che a fine 2008 erano
state impegnate anche più risorse di quelle disponibili, per un “overbooking” di progetti.
Mentre la spesa effettiva nelle aree Obiettivo 1 era attestata in media al 93,6%. A fine
febbraio 2009 gli impegni sfioravano il 120%, pari a circa 55 miliardi a fronte di circa
46 programmati. Ma i pagamenti superavano di poco il 94%, attestandosi al 94,1%, che
in cifra fissa equivale a 43,2 miliardi. Nello specifico, le erogazioni dei contributi del
Fondo europeo di sviluppo regionale sono pari al 94,8%, con una significativa
concentrazione nell’Asse Reti e nodi di servizio, dove è stata completata la spesa per la
realizzazione dei progetti. Mentre per i Programmi Operativi nazionali (Pon) la media
degli impegni e dei pagamenti è pari rispettivamente al 117% e al 98,2%: dei Pon solo
quello Trasporti ha completato le erogazioni. Infine i Programmi Operativi Regionali
(Por): il livello medio della spesa è fermo al 92,3%, con alcune realtà, come la
Campania, dove è inchiodato all’86,8%.
L’utilizzo dei progetti sponda o coerenti – Nel ciclo 2000-2006 è stato fatto ampio
ricorso ai progetti sponda, quelli originariamente finanziati con fondi di diversa
provenienza ma utilizzati successivamente nell’ambito della programmazione
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
17
comunitaria proprio perché coerenti con essa, allo scopo di rispettare i tempi molto rigidi
imposti dai regolamenti di Bruxelles. Alla fine del 2008 il loro valore era pari al 44,5%
dell’intera dotazione finanziaria del QCS. Ciò pone seri interrogativi sull’effettiva
aggiuntività di una parte del ciclo di programmazione appena concluso.
I progetti finanziati con i Fondi strutturali 2000-2006 – A fine 2008 erano stati
finanziati oltre 269mila progetti per un valore di quasi 59 miliardi, il 73% dei quali
completati. Per oltre la metà si tratta di infrastrutture, il 20% delle quali riguarda reti di
trasporto. Di questa somma complessiva, un po’ meno del 30%, pari a 17 miliardi, è
stata destinata alle imprese.
Il nuovo ciclo di programmazione 2007 – 2013 – Le decisioni del Governo intervenute
nel 2008 hanno ridimensionato gli impegni finanziari della politica regionale, ma solo
per la parte che riguarda le risorse nazionali del Fas e non sulla fetta di risorse stanziate
dall’UE. Nel nuovo ciclo, accanto ai Pon e ai Por, compaiono anche i Programmi
Operativi Interregionali (POIn), finalizzati a 3 obiettivi: la Competitività, che riguarda le
Regioni sotto sviluppate del Centro Nord e tre regioni del Mezzogiorno (Abruzzo,
Molise e Sardegna), la Convergenza, che comprende le rimanenti regioni meridionali,
compresa la Basilicata in regime transitorio, la Cooperazione, sia trasfrontaliera che
transazionale e interregionale.
La novità più importante riguarda il raggiungimento, attraverso questi progetti,
degli Obiettivi di servizio, per loro natura trasversali: significa offrire migliori
servizi collettivi in termini di qualità della vita, convenienza a investire, pari
opportunità. Tali Obiettivi sono: maggior livello di istruzione, aumento dei servizi per
l’infanzia e di quelli socio sanitari per anziani e non auto sufficienti, migliorare
l’approvvigionamento dell’acqua e la gestione dei rifiuti urbani. Su queste basi ciascuna
Regione ha fissato target quantitativi da raggiungere entro il 2013, e il Cipe ha stanziato
3 miliardi del Fas come premialità a quelle che li conseguiranno.
Le risorse del nuovo QCS – Complessivamente tra risorse comunitarie, nazionali di
cofinanziamento e Fas la previsione nel luglio 2007 era di mobilitare circa 125 miliardi
entro il 2013. Ma i 64 miliardi inizialmente stanziati ricorrendo al Fas sono stati ridotti
(come spieghiamo nel precedente capitolo) per destinarne parte alle politiche anti crisi.
Mentre i poco meno di 29 miliardi a valori indicizzati assegnati all’Italia come risorse
della politica regionale comunitaria sono rimasti inalterati e di questi 21,6 vanno al Sud:
nelle Regioni Convergenza questi contributi saranno destinati per quasi il 60% a
investimenti nell’energia e nell’ambiente, per migliorare la competitività, le reti e i
collegamenti, la ricerca e innovazione. I Programmi che possono fare affidamento sulla
maggiore quantità di risorse sono i Por Campania e Sicilia, che assorbono
rispettivamente il 15,9% e il 15,1% del contributo.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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PON RICERCA – Il programma, finanziato con fondi Fesr, ha uno stanziamento di 6,2
miliardi, di cui 3,2 assegnati al Ministero della Ricerca e circa 3 a quello dello Sviluppo
Economico. Agisce attraverso due Assi: modificare il tessuto produttivo delle Regioni
meridionali e potenziare l’innovazione e lo sviluppo delle imprese. I target fissati sono:
aumentare la spesa privata in ricerca sul Pil allo 0,39%, la percentuale di progetti
all’Ufficio Brevetti al 43,2 per milione di abitante, gli addetti al settore dall’1,6 per
mille al 2,66 per mille abitanti.
Le modifiche in seguito alla crisi economica – Tra le iniziative intraprese dalla
Commissione europea per fronteggiare la crisi oltre allo slittamento al 30 giugno di
quest’anno del termine per ammettere le spese del vecchio ciclo di programmazione,
sono previste alcune altre che riguardano l’attuale QSN: immediata disponibilità a
livello comunitario di circa 19 miliardi dell’Fse nel biennio 2009 – 2010, anche in
mancanza di cofinanziamento nazionale, aiuti alle imprese che si ristrutturano,
promozione di forme di auto imprenditoria e auto impiego, destinazione di 2,65 miliardi
provenienti dal Fondo sociale di spettanza delle Regioni italiane agli ammortizzatori in
deroga per i lavoratori esclusi dall’ordinaria Cig.
Cosa dice la Svimez – La presa d’atto della scarsa efficacia della programmazione
2000-2006 ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno sta chiaramente ad indicare la
necessità di una svolta sia per quanto riguarda le modalità di programmazione e la
focalizzazione della spesa, sia per quanto riguarda la realizzazione degli interventi.
Rispetto al percorso sin qui seguito parrebbe necessario procedere ad un più forte
processo di “riforma interna” della programmazione, che, pur evitando di determinare
“rotture” traumatiche che rischierebbero di ritardare la spesa e far perdere le risorse,
ponga più stringenti vincoli alla frammentazione, alla dispersione territoriale, e a
quell’eccesso di localismi che ha non marginalmente condizionato i risultati delle
politiche.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
19
LE POLITICHE DI FINANZA PUBBLICA
Gli effetti della crisi finanziaria – Sugli andamenti della finanza pubblica nel 2008
hanno giocato i primi effetti della grave crisi finanziaria. Le entrate delle pubbliche
amministrazioni sono cresciute di appena l’1%, per effetto di una flessione del Pil
rispetto al 2007 dell’1% e delle misure di riduzione del carico fiscale, dall’abolizione
dell’Ici sulla prima casa alla parziale detassazione degli straordinari e dei premi di
produttività, decise dal Governo. La spesa corrente è aumentata del 4,5% al netto
degli interessi sul debito, con un’incidenza sul Prodotto lordo che ha raggiunto il
livello record del 40,4%, mentre quella in conto capitale si è ridotta del 6,1%.
Finanza e spesa pubblica – La legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale è destinata a
incidere notevolmente sugli assetti finanziari delle amministrazioni pubbliche. Ma pone
alcune questioni di non facile soluzione, in particolare per il Mezzogiorno: soprattutto la
definizione dei costi standard e l’attuazione degli interventi per il riequilibrio territoriale.
Attualmente il Sud ha un livello di spesa pubblica pro capite più basso rispetto al
Centro Nord, anche non considerando la spesa previdenziale che è più elevata
laddove ci sono maggiore occupazione e retribuzioni più alte: non è esatto, quindi,
sostenere che vi sia un eccesso di spesa nel Mezzogiorno.
Federalismo fiscale – La definitiva approvazione della legge delega sul federalismo
fiscale dovrà ora essere seguita da alcune decisive misure attuative: innanzitutto, entro
un mese dal suo varo, deve essere istituita una Commissione paritetica consultiva
composta da tecnici dello Stato e degli Enti territoriali. Successivamente, entro due anni,
dovranno essere predisposti i decreti delegati, ma già entro 12 mesi dovrà essere emesso
un primo decreto per definire i principi fondamentali in materia di bilanci pubblici. La
transizione al nuovo regime avverrà in un quinquennio, attraverso la convergenza
dalla spesa storica ai costi standard: punti essenziali saranno la quantificazione di
tali costi e la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni.
Le prestazioni essenziali – Non tutte le funzioni saranno finanziate integralmente ma
solo le prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali, la sanità, l’assistenza, i compiti
amministrativi relativi all’istruzione, per garantire le quali si farà ricorso, a un
intervento perequativo dello Stato. Per la sanità il parametro c’è già ed è costituito dai
Lea (Livelli essenziali di assistenza).
I costi standard – Sarà introdotto un meccanismo di calcolo in base al quale si
sostituisce la spesa storica con una modalità di finanziamento oggettiva basata sui costi
di produzione. Ma è auspicabile che, nel determinarli, si tenga conto, a parità di
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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efficienza di Enti diversi, degli effetti che tali costi subiscono per effetto dei
differenti contesti ambientali e sociali.
Spesa pubblica al Sud – La spesa pubblica pro capite nel Mezzogiorno è stata nel 2007
pari a 10.490 euro, inferiore rispetto ai 12.300 euro pro capite del Centro Nord . Rispetto
al 2006 si è registrato nel Mezzogiorno un incremento delle spese correnti, che
invece si riducono nel Centro Nord, e una diminuzione di quelle per investimenti,
che invece aumentano in misura doppia nelle zone più sviluppate del Paese.
Focus su spese in conto capitale – La quota del Mezzogiorno sulla spesa in conto
capitale è stimata nel 2008 al 34,9%, una percentuale ben più bassa del 41,1% del
2001 e lontanissima dall’obiettivo del 45%, che ormai appare come una chimera.
Ha inciso su tale riduzione il ridimensionamento dei trasferimenti di capitale per
agevolazioni alle imprese, che non è stato sostituito, come nei programmi, da un
maggior impegno per la dotazione di infrastrutture. Nell’intero Settore Pubblico
Allargato, compresi cioè gli investimenti delle imprese pubbliche nazionali e locali, la
percentuale di spesa è ancor più bassa e si collocava nel 2007 al 32,1%.
Le risorse per le aree sottoutilizzate nel 2008 – Nella Finanziaria 2008 le risorse di
competenza per le aree sottoutilizzate sono pari a 13 miliardi e 646 milioni di euro. Tale
ammontare si riferisce per 8,557 milioni di euro agli stanziamenti per il cofinanziamento
delle politiche comunitarie, pressocchè raddoppiati rispetto all’anno precedente per far
fronte all’ingente quantità di pagamenti da effettuare entro fine anno al fine di non
perdere i fondi di Agenda Duemila. Modesto, invece, l’aumento delle risorse del Fondo
per le Aree Sottoutilizzate (FAS) che hanno raggiunto l’importo di 4.543 milioni di euro.
L’utilizzo delle risorse del FAS – Le risorse di competenza assegnate dalla Finanziaria
al FAS (4.543 milioni di euro) hanno subito nel corso dell’anno importanti tagli, per un
ammontare di 1.581 milioni di euro. Le risorse complessivamente disponibili,
comprensive dei residui passivi all’inizio dell’anno e al netto dell’accantonamento
disposto dalla Finanziaria 2007, sono state pari a 6.720 milioni: solo il 26% di questo
ammontare, corrispondente in valore assoluto a 1.752 milioni di euro, è stato trasferito,
su loro richiesta, alle amministrazioni responsabili degli interventi per essere da queste
utilizzati.
La finanza regionale – La situazione delle regioni a statuto ordinario mostra che,
nonostante le Regioni meridionali ricevano finanziamenti aggiuntivi, le loro entrate
pro capite sono inferiori del 6-5% rispetto alle corrispondenti regioni del Centro-
Nord. Analogamente più basse, del 2,4%, risultano le spese pro capite. La parte più
consistente della spesa regionale è costituita dalla sanità che rappresenta il 70% del
totale. Essa presenta nel 2008, sempre in riferimento alle Regioni a statuto ordinario, un
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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livello più basso del 3,7% nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord. Su tale livello
incide il sistema di finanziamento della sanità, che attribuisce minori risorse, in
riferimento alla popolazione effettiva, alle Regioni meridionali con una minore
incidenza della popolazione anziana.
La finanza locale - Gli Enti territoriali sono massicciamente coinvolti nella crisi
economica mondiale, in quanto in particolare il “Patto di stabilità” interno ha effetti pro
ciclici e non certo anti ciclici. Nei Comuni meridionali l’aumento delle entrate tributarie
è stato più del doppio rispetto al resto d’Italia, perché le aliquote Ici e le addizionali Irpef
applicate sono state più alte; questo fino a quando non è stata abolita l’Ici sulla prima
casa, che ha provocato una riduzione drastica delle entrate fiscali. La differenza di
comportamento tra i Comuni del Centro Nord e del Sud sta nel fatto che i primi
hanno reagito ai vincoli posti dal Patto di stabilità nel corso del 2008 riducendo sia
le spese correnti che le entrate tributarie, mentre i secondi hanno aumentato
entrambe, al fine di recuperare servizi adeguati per i cittadini.
Cosa pensa la Svimez - E’ difficile sostenere che il Mezzogiorno goda di un eccesso di
risorse o che spenda troppo;occorre piuttosto valutare la capacità ed efficacia di tale
spesa. Anzi, le Regioni meridionali hanno un livello di spesa pubblica, sia corrente che
in conto capitale, inferiore alle altre nonostante i finanziamenti aggiuntivi ad esse
destinati, che in realtà diventano così sostitutivi e servono a coprire le ordinarie
esigenze di dotazione di capitale e di sostegno agli investimenti.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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LE POLITICHE INFRASTRUTTURALI
La spesa per infrastrutture – Nel 2008 la spesa per investimenti pubblici ha registrato
una brusca caduta, pari al 2,8%. Tale diminuzione riguarda sia le amministrazioni
centrali che quelle locali. Ciò è la conseguenza sia della manovra correttiva precedente
all’esplosione della crisi, sia del sostanzioso taglio di risorse del Fas.
Gli investimenti nel Sud – Nel periodo compreso tra il 2000 e il 2008 la quota di spesa
in conto capitale della Pubblica Amministrazione nelle aree meridionali è
progressivamente calata al di sotto del 35%, dieci punti in meno del target prefissato del
45%. Ancor di più è diminuita se si guarda al Settore Pubblico Allargato, dove oggi tale
quota è attestata al 32%. In particolare, per quel che riguarda gli investimenti
infrastrutturali del Settore Pubblico Allargato sono cresciuti al Centro Nord
dell’17,8% e al Sud del 6,9%.
I SETTORI
Autostrade - La rete stradale nel Mezzogiorno presenta un indice di diffusione in linea
con la media nazionale, ma è costituita prevalentemente da strade con caratteristiche
non autostradali. Ad esempio fra tutte le regioni del Sud le autostrade a tre corsie
sono presenti solo in Campania e in misura minore in Abruzzo, mentre la
Sardegna è tuttora priva di autostrade. La mobilità stradale è dunque garantita nel
Mezzogiorno soprattutto da strade comunali, provinciali o regionali, generalmente a una
corsia.
Circa il 40% della rete autostradale meridionale non è sottoposta a pedaggio, una scelta
che comporta bassi livelli di servizio ed efficienza.
Ferrovie - Al Sud la dotazione è minore e la qualità modesta. Ad esempio solo il 7,8%
delle linee ad alta velocità, cioè il tratto campano Roma-Napoli, entrato in funzione nel
2005, risulta localizzato nel Mezzogiorno. A parte la Campania, molte regioni
dispongono di reti a binario doppio in misura minima (l’indice rispetto all’Italia è pari a
29 in Sicilia, 23 in Molise, 11 in Basilicata). La situazione più critica in Sardegna,
dove mancano completamente linee elettrificate.
L’offerta di servizi ferroviari è particolarmente modesta al Sud, dove le percorrenze
dei treni (treni-km)sono soltanto il 17% del totale per le merci e il 23% per i
passeggeri, un valore non diverso dalla situazione di dieci anni fa.
Porti - Nel Mezzogiorno i porti sono numerosi, concentrati soprattutto in Calabria,
Sicilia e Sardegna. Resta tuttavia elevato il deficit funzionale (magazzini, silos, binari
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
23
ferroviari). La maggior parte dei porti è di piccola dimensione e orientata al
transito passeggeri. I porti hub del Mezzogiorno praticano soprattutto il transhipment,
cioè la movimentazione di merci e container, per il cabotaggio interno e mediterraneo.
Ciò che limita maggiormente il potenziale sviluppo dei porti è la carenza dei centri
intermodali. Nel Mezzogiorno l’indice di dotazione è pari ad appena un ventesimo
del totale nazionale.
Aeroporti - Il livello degli aeroporti nelle regioni meridionali (per numero di strutture,
piste e dimensioni) è accettabile, pur mancando scali in Molise e Basilicata. La criticità
più forte è data ancora una volta dalla carenza di collegamenti. Nessun aeroporto del
Mezzogiorno, ad eccezione di Palermo, ad esempio è collegato con una stazione
ferroviaria.
Acqua - A livello nazionale circa 1/3 dell’acqua immessa in acquedotto viene
dispersa. Nel Mezzogiorno la situazione si fa ancora più critica, con il 37%
dell’acqua sprecata. In testa alla poco invidiabile classifica la Puglia, con oltre il
46% di dispersione, seguita da Sardegna (43%) e Abruzzo (41%). Praticamente in
Puglia su 308 metri cubi d’acqua pro capite (dati 2005) immessi nelle tubature solo
165 arrivano a destinazione, in Sardegna su 385 ne arrivano 219, in Abruzzo 415
su 245.
Se a livello nazionale solo il 3,2% della popolazione non dispone di acque depurate,
la percentuale sale al Sud, arrivando al 7% in Calabria e addirittura all’11,5% in
Campania. In Sicilia il 3% della popolazione è priva di fognature, il 3,6% in
Puglia, mentre tale servizio è presente in tutte le altre regioni.
La presenza di un apparato produttivo meno sviluppato non ha influito positivamente
sullo stato delle acque meridionali, che presentano in Sicilia e Puglia livelli di qualità
preoccupanti. Né si può chiamare in causa la mancanza di depuratori, dato che negli
ultimi anni le regioni hanno fatto grossi passi in avanti nelle dotazioni.
Energia - La dotazione di reti di energia elettrica è al Sud molto carente: su un indice
nazionale di 100, ad esempio, le reti a media tensione in Puglia sono ferme a 22, ad alta
tensione in Sardegna a 36. Sempre in Sardegna manca totalmente una rete
secondaria di trasporto del gas.
Le interruzioni di energia elettrica sono ancora molto diffuse in Sicilia (il doppio
della media nazionale), Campania e Calabria.
Interessante notare che la diffusione delle fonti rinnovabili vede il Sud in testa
rispetto al Centro-Nord, con punte eccezionali in Molise, Calabria, Basilicata e Puglia.
Ambiente – La gestione del ciclo delle risorse naturali al Sud nasconde una realtà molto
variegata e curiosa, al di là dei luoghi comuni.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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Rifiuti – In dieci anni, dal 1997 al 2008 la produzione di rifiuti urbani è cresciuta nelle
regioni meridionali di 1,5 milioni di tonnellate, raggiungendo quota 10,6. A produrre più
rifiuti Calabria (+35%, media nazionale +22%), Abruzzo e Puglia (+27%). Nel 2007 ogni
cittadino del Sud ha prodotto in media 508 kg di rifiuti (Sicilia 536, Molise 414). La
crescita è stata legata al reddito e ai consumi.
Differenziata – A fronte di una media nazionale del 27,5% (con il Nord a 42,4%), il Sud
resta lontano anni luce, fermo all’11,6%. Ma non tutto: la Sardegna è al 27,8%, con punte
superiori al 50% nel Medio Campidano e nell’Ogliastra. Anche l’Abruzzo non è da
meno, con Teramo che realizza il 30%.
A livello settoriale al Sud si raccoglie il 13% sul totale nazionale di organico (18 kg
all’anno su 49 di media), il 15% di carta (41 kg contro 61), il 16% di vetro, il 14% di
plastica.
Ma il problema vero sono i costi, dovuti a una cattiva gestione del ciclo: la raccolta e il
trasporto dell’indifferenziato costa al Sud 80 euro a tonnellata contro i 65 del
Centro-Nord. Il trattamento e smaltimento spazia dai 45 euro a tonnellata della Calabria
ai 99 della Campania.
Situazione ancora peggiore per la differenziata: al Centro-Nord, dove si recuperano
maggiori quantità di materiali, il costo medio è di 124 euro a tonnellata, al Sud poco
meno del doppio, 220 euro.
Inoltre se dal 2003 al 2006 a livello nazionale la quantità di rifiuti speciali smaltita a
discarica è passata da 19,7 a 18,2 milioni di tonnellate, il Sud ha registrato una crescita di
quasi un punto percentuale, da 4,3 a 5,2 milioni di tonnellate.
Impianti – Dei 47 impianti di incenerimento italiani solo 7 sono nel Sud, concentrati in
Sardegna e Campania. Al Sud fa da padrone lo smaltimento in discarica, con circa l’85%
dei rifiuti.
Sismi, frane ed erosioni – I 5.581 comuni italiani a rischio idrogeologico secondo il
Ministero dell’Ambiente si concentrano in alcune regioni: Valle d’Aosta, Umbria,
Calabria, Toscana e Marche, con valori compresi tra il 100 e il 98% di sismicità.
A guidare la poco invidiabile classifica la Calabria, con il 100% dei 409 comuni
coinvolti, seguita dalla Basilicata (94%), Molise (89%) e Campania (86%). Il 70% dei
comuni siciliani è a rischio per le frane e sono molto colpiti dal fenomeno anche
Campania e Calabria.
Quanto alle erosioni, la situazione è critica in Basilicata, con il 73% dei km di spiaggia
colpiti dal fenomeno, seguita da Puglia (48%) e Calabria (34%).
Logistica - Gli scambi commerciali tra Est asiatico ed Europa si sviluppano via mare
soprattutto attraverso il canale di Suez ed il Mediterraneo. Dalla metà degli anni ’90 al
2007 la domanda di traffico marittimo di container nel Mediterraneo è cresciuta in
media del 9% all’anno. Grazie alla sua posizione geografica il Mezzogiorno ha un
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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vantaggio di circa 6-7 giorni di percorrenza rispetto ai principali porti del Nord Europa
(Francia, Belgio, Paesi Bassi e Germania) per raggiungere i mercati mitteleuropei. Nei
porti del Nord Europa nel 2008 la crisi si è fatta sentire di meno che nell’Europa del Sud
(+2,1%, contro appena lo 0,4%).
Nel 2008 nel Mezzogiorno i volumi di traffico container sono scesi di quasi il 4% a
fronte della crescita del 3% del Centro-Nord. A trainare il segno meno Cagliari (-
53,2%) e Salerno (-14%). I porti meridionali perdono inoltre competitività per la
mancanza di una adeguata integrazione tra traffico portuale e terrestre. Ad esempio
infatti soltanto il 2% dei container al Sud viene instradato via ferrovia, rispetto al
18% del Centro-Nord (il 14% a Livorno, il 18% a Ravenna, il 23% a La Spezia e
appena l’1,4% a Gioia Tauro). Nonostante la diversa dotazione portuale Nord-Sud, il
48% del totale di container è movimentato nel Centro-Nord e il 52% nel Sud, con un
trend che vede il Sud dal 2002 perdere quote di traffico.
Un’eccezione - L’interporto di Nola, considerato come un polo dell’intermodalità e
della logistica fra i più importanti d’Italia e d’Europa. Nato nel 1986, in posizione
centrale tra Tirreno e Adriatico, oggi è dotato di una pluralità di servizi e infrastrutture.
Al suo interno il CIS rappresenta il più importante polo di distribuzione commerciale
d’Europa, con oltre 300 aziende e 3.500 addetti. Il terminal intermodale è il cuore
dell’Interporto, con una stazione ferroviaria interna altamente automatizzata dotata di 13
coppie di binari elettrificati. In questo modo l’Interporto è collegato con la rete
ferroviaria nazionale, i porti del Sud e Nord Italia, e il Centro-Nord Europa
Internet e la banda larga - La diffusione della banda larga in Italia è cresciuta molto
dal 2002 al 2007: la popolazione servita era il 63% nel 2002, cinque anni dopo è salita
al 94%. In base agli ultimi dati disponibili (2005) in Italia sono presenti 7,7 milioni di
km di cavi ottici, di cui 2,1 nel Mezzogiorno. Nel 2009 possiedono un personal
computer poco più del 53% delle famiglie del Centro-Nord e il 45% delle famiglie
meridionali, con un trend crescente rispetto al 2007, più marcato nelle regioni del Nord;
l'accesso ad internet è presente nel 35,2% nelle famiglie meridionali e in quasi il 45,2%
nelle famiglie centro-settentrionali. Le regioni meridionali dove si è registrato il
maggior incremento di accessi alla banda larga sono Basilicata, Puglia e Calabria.
Legge Obiettivo e Infrastrutture – Quanto alla Legge Obiettivo, il più importante
programma infrastrutturale del Paese negli ultimi anni, si segnala che a fine 2008 un
parte decisamente minoritaria delle opere approvate dal CIPE risulta localizzata nel
Mezzogiorno: il 28,6% per un ammontare di circa 33 miliardi di euro. Tra le varie
tipologie infrastrutturali, la quota del Mezzogiorno per opere ferroviarie è appena del
7,5% , quelle stradale del 37,5% e quella per porti e interporti del 28,6%: una
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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distribuzione degli interventi che non prefigura alcun riequilibrio modale nel sistema dei
trasporti.
.
Accordi di Programma Quadro – Nel periodo 2000 – 2008 gli Accordi di Programma
Quadro delle Intese Istituzionali di Programma hanno riguardato 20.660 progetti, per un
costo di 85 miliardi. Di questi oltre il 60% dei progetti e quasi il 76% dei costi sono
relativi a infrastrutture e ben più della metà di entrambi ha per oggetto interventi nel
Sud.
QCS 2000 – 2006 – L’altro rilevante capitolo di spesa indirizzato alle infrastrutture è
quello dei Fondi strutturali comunitari, in particolare sull’ Asse “Reti e nodi di
servizio”, per il quale il livello di impegno ha superato il 127% delle risorse disponibili
e anche la spesa ha oltrepassato il 100%, attestandosi al 108,1%. Con un evidente
avanzamento del Pon Trasporti, che da solo raggiunge il 122% degli impegni e il
112,1% delle erogazioni. A fine 2008 erano stati conclusi più di 20mila progetti
infrastrutturali, di cui oltre 16mila nel Mezzogiorno.
QCS 2007 – 2013 – Il Programma infrastrutturale 2009 – 2012 si basa su tre grandi
capitoli di spesa: la Legge Obiettivo, le reti transeuropee e il Pon reti e mobilità.
Complessivamente sono stati programmati 133 miliardi, di cui 70,5 già finanziati. I
progetti TEN prioritari sono: TEN 1, l’asse ferroviario Berlino – Verona – Bologna –
Napoli- Messina – Palermo; il TEN 6, l’asse ferroviario Lione – Torino – Trieste,
Lubiana – Budapest – Ucraina; il TEN 21, le Autostrade del Mare, il TEN 24, l’asse
ferroviario Genova – Basilea – Duisburg – Rotterdam. Per la realizzazione di numerosi
interventi infrastrutturali si farà ricorso al “project financing”. La proposta del ministro
Tremonti di bond europei per il finanziamento delle infrastrutture potrebbe essere utile,
così come l’introduzione di un trattamento contabile più favorevole per le spese in
infrastrutture. Al Pon reti e mobilità è stato assegnato 1 miliardo e 375 milioni.
Manovre anticicliche negli altri Paesi – In Belgio c’è stata una contenuta
accelerazione degli investimenti infrastrutturali; in Germania sono stati accelerati quelli
nelle reti di trasporto. In Spagna si è deciso di puntare sulle opere locali. In Francia è
stata accelerata la spesa e sono stati attivati nuovi crediti. In Austria sono previsti
modesti investimenti aggiuntivi. In Svezia l’investimento infrastrutturale con finalità
anti cicliche è molto modesto. In Gran Bretagna sono stati accelerati gli interventi già
programmati. Negli Usa sono state stanziati 70 miliardi di euro aggiuntivi per le
infrastrutture. In Cina saranno investiti poco più di 200 miliardi per realizzare strade,
ferrovie ed aeroporti. In Italia un importante contributo a una manovra anti ciclica sulle
infrastrutture lo potrebbe fornire la realizzazione di opere pubbliche piccole e medie, a
condizione che si decida di puntare su quelle immediatamente cantierabili. Nel decreto
anti crisi è esplicitamente prevista la nomina di commissari straordinari, scelti dal
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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Presidente del Consiglio, ai quali attribuire poteri di vigilanza e anche poteri sostitutivi.
Nello stesso provvedimento sono stati drasticamente ridotti i termini per eventuali
ricorsi giurisdizionali. Per gli interventi di particolare complessità si potrebbe ricorrere a
un Commissario Delegato per lo stato di emergenza socio- economico- ambientale,
com’è avvenuto, con buoni risultati, per il Passante di Mestre.
Cosa pensa la SVIMEZ - Bisogna puntare su ben individuate priorità: sarebbe
opportuno riorientare la spesa per le infrastrutture su poche e significative priorità,
sugli interventi immediatamente realizzabili e di indubbia efficacia, su progetti che
possano avere una sicura valenza meridionalistica. Le criticità del nostro sistema
logistico-infrastrutturale sono date dalla congestione nel Centro-Nord e
dall’isolamento geo-economico nel Mezzogiorno. Occorre sfruttare il vantaggio
geografico del Mezzogiorno nelle rotte tra Far East ed Europa con una strategia
integrata che investa tutte le articolazioni del Paese (valichi alpini, reti ferroviarie,
stradali, collegamenti ai porti e alle strutture di movimentazione e lavorazione delle
merci). La concorrenza mediterranea dovrebbe indurre a sviluppare nel Sud nuove
opportunità di sviluppo, come dimostra il caso eccellente dell’interporto di Nola.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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LE POLITICHE CREDITIZIE
Credito e Mezzogiorno - Dai primi anni ‘90, la crescente integrazione economica
internazionale ha spinto le banche italiane a muoversi in un contesto più competitivo. Lo
prova la crescita delle fusioni, 552 dal 1990 al 2001. Nonostante questo, la dimensione
del mercato bancario italiano è ancora sotto la media europea e tale criticità si fa sentire
soprattutto al Sud.
Banche - Tra il 1990 e il 2001 il numero di banche presenti nell’area si è ridotto del
46% contro il 20% del Centro-Nord. Il numero di banche meridionali indipendenti,
sia Spa che Banche popolari, è crollato da 100 del 1990 a 16 del 2004; negli stessi
anni le banche di credito cooperativo (BCC) si sono più che dimezzate (da 213 a 111).
Mentre resta forte la dipendenza del sistema bancario meridionale dal Centro-Nord: nel
periodo in questione le banche appartenenti a gruppi dell’altra ripartizione sono
salite da 0 a 21, con una forte diffusione in Basilicata, Calabria e Sardegna. Nel 2008 il
numero di banche operative nel Mezzogiorno è diminuito di 5 unità, portandosi a 223.
Tra le 151 banche con sede amministrativa in una delle regioni meridionali 17 facevano
parte di gruppi del Centro-Nord (Tab. 3).
Sportelli - L’Italia è il paese con il più alto numero di sportelli per abitante in Europa
dopo la Spagna, ma la loro diffusione è disomogenea e legata al diverso peso economico
regionale (presenza di imprese, densità di popolazione, PIL): per esempio, dal 2001 al
2006 il numero di comuni con sportelli bancari è cresciuto in Lombardia del 21%
mentre è calato del 15% in Sardegna, del 9% in Calabria e Sicilia e del 5 in
Basilicata. Da segnalare che mentre sono state le banche nazionali più grandi a ridurre
sportelli e personale (-20% in Italia), sono quelle minori e di credito cooperativo a essere
più dinamiche. Nel periodo in questione infatti nel Mezzogiorno le banche di medie
dimensioni hanno dimezzato gli sportelli (da 21% a 11%), mentre sono state soprattutto
le banche di piccole dimensioni a crescere. Il numero degli sportelli di strutture di questa
tipologia è passato nel Sud dall’11,8% al 12,7% e nelle isole dal 4,4% al 7,6%. In
crescita anche il numero di sportelli delle banche di credito cooperativo, passate
nelle due ripartizioni rispettivamente da 8,4% a 9,2% e da 5,8% a 6,5%.
Gli sportelli bancari nel Sud sono saliti di 136 unità (1,9%); dal 2000 al 2008 il numero
di terminali POS presso gli esercizi commerciali per ogni 1.000 abitanti è passato da 5 a
15, restando su livelli più contenuti della media del Centro-Nord (25,1). Sulla stessa
linea la diffusione delle carte di credito, passate dal 2000 al 2008 da 176 a 430 ogni
1.000 abitanti, lontani sempre dai livelli del Centro-Nord (796).
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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Accesso al credito - Resta poi il grande problema dell’accesso al credito: al Sud dal
2004 al 2006 il 9,3% delle imprese ha lamentato difficoltà, contro il 3,8% del Nord.
Dal 2007 al 2008 inoltre il tasso di crescita annua dei prestiti alle imprese è crollato
al Sud dal 14,9% al 7,9% contro il calo più contenuto a livello nazionale (da 12,4% a
10,2%). A farne le spese le aziende con un numero di addetti inferiore a 20: dal 2007 al
2008 i prestiti a breve termine a piccole imprese meridionali sono crollati da 6,9 a 2,4%,
mentre nello stesso periodo le aziende del Centro-Nord hanno registrato una dinamica
più positiva (da 2,6 a 3,1%).
Famiglie - Nel 2008 i prestiti bancari alle famiglie del Mezzogiorno sono cresciuti
quasi del 7%, in rallentamento rispetto all’anno precedente. Il calo è stato più forte nel
comparto dei mutui. Crescita ancora più ridotta per i prestiti alle imprese (+5,4%, erano
il doppio nel 2007), che sono stati più contenuti specialmente per le aziende di piccole
dimensioni.
Il clima di incertezza generale ha spinto a una crescita del risparmio, più forte al
Centro-Nord (12,6%) che nel Mezzogiorno, dove i depositi delle famiglie sono
aumentati del 7,7%. Le famiglie hanno privilegiato forme di investimento tradizionali e
a basso profilo di rischio (titoli di Stato e obbligazioni societarie)
Cosa dice la SVIMEZ - La “rete creditizia” meridionale risulta quantitativamente ma
si rivela relativamente più fragile ed inadeguata funzionalmente ad accompagnare lo
sviluppo delle imprese.
Occorrerebbe individuare forme di controllo e di promozione tali da rendere la rete
bancaria molto più incisiva e vantaggiosa per i sistemi produttivi locali.
Qui entra in campo necessariamente il regolatore pubblico. Per governare i rischi della
banca rete viene in mente quanto da anni la Vigilanza statunitense si ripromette di
conseguire a salvaguardia delle comunità locali attraverso la regolazione contenuta nel
cosiddetto Community Reinvestment Act.
Potrebbe essere auspicabile la promozione da parte delle Regioni meridionali di un
“osservatorio attivo” capace di dettare (e non di imporre) linee guida di
comportamento nei confronti del sistema bancario. L’azione dovrebbe essere anche
quella di promuovere un significativo irrobustimento di una “rete” di banche locali,
premessa essenziale per avviare un nuovo e più fisiologico rapporto con la clientela.
La riforma dei Confidi può costituire uno strumento a disposizione delle imprese
associate nel rapporto con le banche, per l’accesso al credito a condizioni mediamente
più favorevoli di quelle altrimenti ottenibili da un’impresa non associata.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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LE POLITICHE DELLA P.A.
Qualità dei servizi pubblici al Sud – La qualità dei servizi pubblici essenziali, come
giustizia, sanità, istruzione, trasporti, lavori pubblici, servizi locali, è al Sud molto bassa
e inferiore al resto del Paese. Ciò ha rilevanti ricadute sulle condizioni di vita dei
cittadini e sul funzionamento dell’economia, limitando fortemente sia gli investimenti
stranieri che quelli delle grandi società pubbliche. In alcune zone ciò è aggravato
dall’influenza della criminalità organizzata. Per di più le liberalizzazioni, le
privatizzazioni, la riforma dei servizi pubblici locali e i processi di decentramento hanno
finito per ampliare il divario tra Settentrione e Mezzogiorno. Una forbice, quella tra le
due Italie, che non è solo connessa a vincoli di bilancio, ma a vere e proprie
inefficienze di organizzazione e gestione dei flussi finanziari.
I ritardi della P.A. – La riforma della Pubblica Amministrazione ha avuto come
obiettivo la rottura di una prassi burocratica vincolata più alla legalità formale che alla
cultura del risultato, e perciò stesso tesa a privilegiare gli interessi dei cittadini
beneficiari. Ma non è riuscita a recidere i nodi gordiani che rendono la nostra P.A. più
costosa e meno efficiente, appesantendo così la competitività del Sistema Paese. In
particolare è rimasta irrisolta la questione dei rapporti tra poteri politici e
amministrativi, i cui confini sono ancora troppo labili e indefiniti, mantenendo in
vita, in particolare nelle aree meridionali, un rapporto di sudditanza del dirigente
pubblico, il quale è penalizzato nella sua autonomia e, per di più, mortificato dalla
mancata incentivazione di ogni forma di meritocrazia. Mentre nelle esperienze straniere
è la dirigenza pubblica ad assumere un ruolo centrale nella formulazione dei programmi.
La gestione dei rifiuti – Forti divari territoriali permangono nella gestione dei rifiuti
solidi urbani tra le diverse aree del Paese. In base ai dati 2007, degli oltre 623 kg per
abitante raccolti, il 56,5% va in discarica, il 21,3% è destinato a impianti di recupero, il
16,4% è incenerito, il 5,9% è avviato a impianti di compostaggio. Ma, mentre al Nord
l’incenerimento rappresenta il 31,7% del totale, il recupero il 30,8% e il compostaggio
l’8,4%, al Sud si ricorre quasi esclusivamente alle discariche, dove finisce l’83,3%
dei rifiuti raccolti. Ciò vuol dire che la raccolta differenziata, che avrebbe dovuto
raggiungere il target del 40%, si attesta in Italia su un ben più contenuto 27,5%, che al
Sud cala addirittura all’11,6%.
Servizi alle imprese – I fattori di localizzazione capaci di attrarre nuove imprese non
sono costituiti solo dalle aree attrezzate, dai distretti industriali e dai sistemi locali di
sviluppo, in quanto è necessario che soprattutto i Governi locali siano capaci di mettere
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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in campo una serie di interventi in campo amministrativo, nella realizzazione delle
infrastrutture, nell’erogazione dei servizi reali, nell’attuazione di politiche del lavoro.
Passi avanti significativi sono stati lo Sportello Unico delle Attività Produttive, i Centri
per l’Impiego, l’adozione di strumenti di marketing territoriale e di aiuti
all’internazionalizzazione attraverso Sprint. Ma l’indice del buon governo, misurato su
questi parametri, è diverso dal Centro Nord al Sud, dove è più basso del 30%.
Capitalismo municipale al Nord e al Sud - Il ritardo delle Regioni meridionali non
riguarda solo la quantità e qualità dei servizi pubblici offerti, ma anche le imprese
municipali, che sono ulteriormente aumentate in tutt’Italia, anche se quelle al Sud hanno
un numero di dipendenti mediamente superiore, un fatturato più contenuto e un valore
aggiunto per addetto più basso. Non solo, ma, analizzando i bilanci, si vede che mentre
quelle del Centro Nord fanno utili in media di oltre mezzo milione quelle meridionali
accusano perdite pari a più di 260mila euro: ciò deriva dall’inefficienza di tali
aziende e dalla eccessiva commistione tra politica a gestione.
Tempi opere pubbliche - L’armatura infrastrutturale dell’Italia è decisamente inferiore
rispetto agli altri partners europei. Il divario, invece di diminuire nel corso degli anni, si
è allargato, ed è ancora maggiore se si considerano le Regioni meridionali. Sui ritardi
nella realizzazione delle opere pubbliche incide una molteplicità di fattori, che, in
particolare al Sud, va dalla revoca di lavori non avviati a opere completate nel doppio
del tempo previsto, a lavori consegnati ma non collaudati, alla modesta capacità di
progettazione delle pubbliche amministrazioni, ai ritardi nei pagamenti da parte dei
committenti, all’elevata diffusione del contenzioso. Per progettare e affidare i lavori
di un’infrastruttura sono necessari in Italia 900 giorni, risultanti dalla media di
diversi valori regionali: dai 583 in Lombardia e 693 in Emilia ai 1.100 giorni della
Campania e 1.582 della Sicilia.
Nuove tecnologie e servizi all’utenza – Negli Enti locali si sono andate via via
diffondendo importanti innovazione tecnologiche. Ma, nonostante questi progressi, al
Sud i tempi di attesa a una Asl sono ancora molto elevati, con circa il 53% degli utenti
(40% al Nord) costretto a una fila di oltre 20 minuti, così come i servizi offerti dagli
uffici postali sono ulteriormente peggiorati, per cui 45 persone su 100 restano in fila più
di 20 minuti. Disparità territoriali più modeste tra Nord e Sud riguardano l’erogazione di
elettricità e gas, solo per l’acqua i problemi di distribuzione nelle aree meridionali sono
ancora oggi non completamente risolti.
Servizi socio assistenziali – Permane una diffusa critica dei cittadini per la qualità di
alcuni servizi socio assistenziali, in particolare i ricoveri ospedalieri: nel Mezzogiorno
neppure il 19% dei malati è soddisfatto, a fronte del 45% del Centro-Nord, e lo si
vede dal dato relativo al tasso di emigrazione dai nosocomi del Sud verso quelli del
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
32
Nord, pari al 10,7%. Per di più le cure domiciliari riguardano il 3,9% degli assistiti nel
Settentrione e appena l’1,8% nelle aree meridionali. Lo stesso vale per i bimbi accolti in
asili nido, che in Italia sono poco più dell’11% del totale, nel Centro-Nord il 15% e
calano fortemente al Sud ad appena il 4,5%.
Cosa dice la Svimez - La necessità di rilanciare gli interventi di politica nazionale e
regionale di sviluppo riporta inevitabilmente al nodo critico irrisolto e mai affrontato in
modo sistemico della riforma della Pubblica Amministrazione.
Come accaduto nelle esperienze straniere di maggior successo, essa permetterebbe di
rimettere in circolo riserve di produttività compresse da dispositivi normativi e dal
conformismo dei comportamenti burocratici. Sino ad ora nel nostro Paese i tentativi di
intervento hanno mostrato una sostanziale inefficacia.
Al tempo stesso, si trascina irrisolta al Sud ancor più che al Nord la questione dei
rapporti tra poteri politici e poteri amministrativi; da qui la continuità di un rapporto di
sudditanza del dirigente pubblico al potere politico
Le informazioni raccolte da una serie di indagini condotte da Istat, Banca d’Italia, DPS
ed Autorità di settore, danno conto che i risultati di una inefficace azione della Pubblica
Amministrazione si riflettono con particolare gravità nel Mezzogiorno.
Una pluralità di inefficienze che riducono la qualità della vita nel Sud e sono il riflesso
di uno Stato che nel Sud è debole proprio nell’erogazione dei servizi che dovrebbe
essere fondamentali
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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POLITICHE PER IL SUD
I tagli al Fas – Il finanziamento delle misure anti crisi economica in Italia è stato
garantito spostando su quest’obiettivo risorse già presenti nel bilancio alle quali era
stata data inizialmente una diversa finalità. In particolare ricorrendo a quelle
destinate alle aree meridionali attraverso il Fondo Aree Sotto Utilizzate, che sono
state spostate su obiettivi oggi considerati prioritari per rilanciare l’economia, dalle
grandi opere pubbliche, perché i cantieri hanno una funzione anticiclica, agli interventi
per attutire l’impatto della perdita di posti di lavoro.
La modifica dei meccanismi di stanziamento e di spesa dei fondi finalizzati alle politiche
di riequilibrio e di coesione è avvenuta in tre modi; sia recuperando risorse relative al
periodo 2000 – 2006 assegnate dal Cipe ma non ancora impegnate, che sono stati
revocate ai beneficiari e riassegnati al FAS; sia creando un nuovo Fondo per il
finanziamento delle infrastrutture di livello nazionale la cui dotazione è costituita da
risorse provenienti dal FAS; sia, infine, attraverso una ricognizione prima e una
riprogrammazione poi, effettuata dal Cipe, di quelle risorse non ancora impegnate
reperite dai vecchi progetti sponda o coerenti, quelli cioè in un primo momento
finanziati con fondi nazionali e successivamente inseriti nei programmi comunitari.
Come cambia il QSN – Queste modifiche negli stanziamenti delle risorse del Fas
effettuate nel corso del 2008 e nei primi mesi del 2009, hanno comportato una
ridefinizione del Quadro Strategico Nazionale 2007 – 2013 approvato dalla
Commissione Europea a metà luglio 2007. All’inizio dello scorso anno il FAS poteva
contare su 64 miliardi e 379 milioni, stanziati con la Finanziaria 2007 e poi rimodulati
con quella del 2008, di cui l’85% destinato alle aree meridionali e il restante 15% alle
zone sotto utilizzate del Centro Nord. Come anche in passato, la previsione era di un
basso impiego delle risorse nel biennio 2007 – 2008, con una successiva accelerazione
della spesa a partire dal 2010.
Le nuove destinazioni dei fondi Fas - Una cospicua parte dei fondi Fas, nel corso del
2008 e dei primi mesi del 2009, è stata destinata, con leggi e con delibere Cipe, alla
copertura finanziaria di altre esigenze della finanza pubblica ritenute prioritarie.
E’ il caso dei provvedimenti per arginare la crisi finanziaria internazionale presi dal
Governo nel secondo semestre dell’anno scorso, in sintonia con le decisioni degli altri
partners europei. Misure che avevano lo scopo di stabilizzare il sistema del credito,
sostenere l’economia reale messa a dura prova, rilanciare gli investimenti e contrastare
la crescente disoccupazione.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
34
Una quota consistente di risorse del FAS è stata concentrata in altri Fondi: il Fondo
sociale per l’occupazione e la formazione, che agisce anche come forma di sostegno al
reddito, il Fondo Infrastrutture, il Fondo per la Competitività poi confluito nel Fondo
Strategico a sostegno dell’economia reale presso la Presidenza del Consiglio.
Cosa comportano i tagli al Fas - I tagli effettuati alla risorse inizialmente destinate al
Fas hanno sottratto risorse al Sud destinandole ad altri scopi e hanno comportato
una dequalificazione della spesa pubblica, in quanto in numerosi casi stanziamenti che
erano in precedenza finalizzati a investimenti sono stati trasferiti a un Fondo che serve,
invece, a coprire spese correnti. Per di più ogni euro di spesa corrente fatto con le risorse
del FAS provoca, contabilmente, un taglio sul Fondo pari ad almeno il triplo, a causa
dell’accelerazione dell’utilizzo dei soldi che, destinati alla spesa corrente, hanno effetti
immediati.
Il volume delle risorse FAS mobilitato prima per il finanziamento di interventi di
carattere emergenziale (emergenza rifiuti, risanamento bilanci Comuni Roma e Catania,
ecc..) e, successivamente, per misure anticrisi è ingente: partendo dalle risorse
appostate dal Bilancio pluriennale 2008-2010 sul Fondo Aree Sottoutilizzate e di
quelle previste per finanziare impegni con un profilo pluriennale di spesa anche per
gli anni 2011-2012, a maggio 2009 risultavano utilizzi del FAS per oltre 18
miliardi di euro a valere sulle risorse stanziate per il periodo 2008-2012.
Le risorse rimaste al Sud - In seguito ai tagli di risorse del FAS, a marzo 2009 la
dotazione del Fondo Aree Sotto Utilizzata per il periodo 2007 – 2013 era diminuita
a circa 53 miliardi e mezzo. Il Cipe, il 6 marzo di quest’anno, dopo aver preso atto di
una destinazione al Fondo infrastrutture di circa 7 miliardi ha ripartito la somma di 45
miliardi, destinando 27 miliardi circa alle Amministrazioni regionali e ripartendo la
quota restante paria a circa 18 miliardi tra i tre fondi: il Fondo sociale per l’occupazione
e la formazione, il Fondo Infrastrutture, il Fondo Strategico a sostegno dell’economia
reale.
Tali fondi, pur formalmente vincolati per legge (il DL 185 prevede che nell’attribuzione
delle risorse FAS ai tre fondi debba essere rispettato il vincolo di destinazione dell’85%
in favore delle regioni del Mezzogiorno e del 15% in favore delle aree sottoutilizzate
delle regioni del Centro-Nord), di fatto sono stati successivamente utilizzati per finalità
specifiche non condizionate a particolari destinazioni territoriali. Esemplare è il caso del
Fondo sociale per l’occupazione e la formazione, nel quale confluiscono, in modo non
distinto, oltre alle risorse FAS destinate alle aree sottoutilizzate, anche le risorse del
Fondo per l’occupazione nonché tutti gli stanziamenti per il finanziamento degli
ammortizzatori sociali, concessi in deroga alla normativa vigente, e quelli destinati in
via ordinaria dal CIPE alla formazione
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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Cosa dice la Svimez – Con i decreti anticrisi, una percentuale significativa delle risorse
FAS è stata stanziata su altri fondi. L’area meridionale si trova pertanto a competere,
in termini di capacità di assorbimento, con le aree a più alto tasso di sviluppo del Paese
che riescono ad attivare una più efficiente programmazione di spesa e più elevati livelli
di progettualità.
Emerge con evidenza, una configurazione di “non neutralità” delle crisi che rischia di
dare luogo ad una tendenza alla redistribuzione delle risorse a favore delle aree più
forti che potrebbe perdurare anche oltre la fase congiunturale.
Da questo punto di vista sono assolutamente attuali le parole di Pasquale Saraceno nel
lontano 1975:
“Quando, come quest’anno non vi è alcun surplus dell’economia da distribuire tra varie alternative di
utilizzazione, ma anzi è l’impoverimento generale che occorre distribuire, la forza organizzativa di
pressione e di lotta in difesa degli interessi immediatamente minacciati, tende naturalmente a prevalere …
Le regioni settentrionali sembrano di fatto reclamare a sé la parte più rilevante delle risorse da destinare
alla ristrutturazione, e quindi anche al futuro sviluppo, dell’industria italiana … Non sarebbe certo
sorprendente per chi non ignori la storia italiana degli ultimi venti anni, che il grande obiettivo
dell’unificazione economica del Paese sia di fatto travolto da una successione di decisioni condizionate
dall’evolversi della congiuntura”.
Oggi come allora conserva la sua validità l’indicazione della necessità di una politica di
sviluppo nazionale unitaria in grado di conciliare la necessità di risanamento e
riconversione dei sistemi produttivi a più alto tasso di sviluppo con il mantenimento di
una azione costante per la riduzione del divario di sviluppo tra Sud e Nord.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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POPOLAZIONE, SCUOLA E MERCATO DEL LAVORO, MIGRAZIONI
Sessanta milioni di italiani – Alla fine del 2008 la popolazione italiana residente ha
raggiunto la soglia dei 60 milioni di abitanti, concentrati per quasi il 66% al Centro-
Nord. Il Mezzogiorno a fine 2008 ha superato i 20,8 milioni.
Avanti i vecchi e gli stranieri non basteranno - Nel 2030 il Mezzogiorno avrà una
popolazione ridotta e invecchiata. Al Sud il flusso di immigrati non basterà a
compensare il calo degli attivi meridionali: qui tra il 2008 e il 2030 infatti la forza lavoro
perderà circa 2,2 milioni di persone, a fronte di 150 mila nuovi stranieri. Oggi i giovani
sotto i 20 anni sono il 21,5% della popolazione e gli over 65 il 18%. Tra trent’anni i
giovani sotto 20anni scenderanno al 17%, e avrà meno di 40 al Sud il 36% della
popolazione (oggi è quasi il 50%); gli ultrasessantacinquenni cresceranno del 65% e la
quota degli ultraottantenni raddoppierà dall’attuale 5% al 10%. Conseguenze: un deficit
di forza lavoro locale e una necessaria modifica degli stili di consumo e della gestione
del welfare.
Natalità e mortalità - Nel 2008 il Centro-Nord ha registrato un tasso di natalità
leggermente superiore a quello del Sud: 9,7‰ contro 9,6‰. Per quanto riguarda la
mortalità, la media meridionale è dell’8,9‰, mentre al Centro-Nord il 10,1‰.
Nel 2008 soltanto tre regioni meridionali su otto (Campania, Puglia e Sicilia) hanno
evidenziato un incremento naturale positivo.
Figli e matrimoni – Resiste al Sud la tendenza a contrarre matrimonio a un’età media
relativamente più giovane rispetto al Centro-Nord. L’età media degli sposi meridionali
nel 2007 è stata di 31,9 anni per gli uomini e di 28,8 anni per le donne (rispettivamente
33,5 nel Centro e 30,4 nel Nord), in aumento rispetto a dieci anni prima, quando sia gli
uomini che le donne si sposavano mediamente prima dei trent’anni.
Di conseguenza, anche il numero di figli è sceso, arrivando nel 2007 a poco più di 1
figlio a testa (1,3), a un’età media pari a 30,7 anni. La quota più consistente di nascite va
attribuita a donne tra i 30 e i 50 anni, che sempre più raramente partoriscono un secondo
e un terzo figlio.
Il peso degli stranieri - La popolazione italiana continua a crescere grazie agli stranieri
presenti nel nostro Paese. Nel 2002 erano 1,2 milioni; all’inizio del 2008 sono diventati
3,4 milioni.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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Quasi il 90% dei residenti, pari a circa 3 milioni, si concentra nelle regioni del Centro-
Nord, mentre al Sud sono poco meno di 430 mila unità e mediamente più vecchi di un
paio d’anni (33 contro 31).
Secondo stime Istat gli stranieri in Italia nel 2030 saranno 8 milioni e cresceranno nel
Centro-Nord del 145%, al Sud del 75%.
Mercato del lavoro – Nel 2008 il divario dell’Italia con l’Unione europea sul fronte
occupazione si è ulteriormente ampliato, con una distanza di 11 punti per il tasso di
occupazione complessivo e poco al di sotto dei 13 punti per quello femminile. A pesare
maggiormente il Mezzogiorno, dove il tasso di occupazione è sceso al 46,1%.
Gli occupati infatti crescono al Centro-Nord di 217 mila unità, mentre scendono di 34
mila nel Mezzogiorno.
Gli stranieri nuovi occupati nel 2008 sono stati 249 mila, 223 mila al Centro-Nord e 26
mila nel Mezzogiorno.
Mercato del lavoro regionale - Risultati positivi per il terzo anno consecutivo per
Molise (1,6%), Puglia (0,3%) e Abruzzo (3,2%). Crollano gli occupati soprattutto in
Campania (-2,2%) e Calabria (-1,2%), mentre flessioni più contenute si rilevano nelle
Isole (-0,6% e –0,3% in Sicilia e Sardegna). In Campania tiene solo l’agricoltura
(+4,3%), mentre cala l’occupazione nell’industria (-2,8%) e nei servizi (-1,4%).
Occupati e settori – La domanda di lavoro in agricoltura continua a scendere,
soprattutto al Sud (-2,8% contro il -1,5% del Centro-Nord). In calo anche l’industria, che
segna -2,4% al Sud (dopo il +2,9% del 2007) e -1,1% nell’altra ripartizione. La
dinamica dell’occupazione industriale è sensibilmente negativa in tutte le regioni del
Sud, con l’eccezione del Molise, dove cresce del 4% per il forte boom del settore
delle costruzioni (+16,4%) e della Sicilia, dove flette soltanto dello 0,7% perché
l’incremento delle costruzioni (2,7%) compensa in larga parte la flessione
dell’industria in senso stretto (-4,2%).
Positivo solo il terziario, che registra comunque un rallentamento rispetto agli scorsi
anni: +0,2% al Sud (era crescita zero nel 2007) e +0,7% (+1,5% nel 2007).
Occupati e contratti – A livello contrattuale in Italia gli atipici crescono di 200mila
unità, di cui 26mila al Sud. Tra gli atipici aumentano i part-time e al Sud i part-time in
crescita sono soprattutto “maschili”.
Nel 2008 la quota nazionale di neoassunti con contratto a termine è del 47%, ma nel Sud
è in discesa (da 43% a 41%).
Da segnalare che nel Sud il contratto atipico viene spesso usato non come tipologia più
flessibile nell’accesso al primo lavoro, ma in sostituzione di contratti standard,
trasformandosi così da strumento di flessibilità in trappola di precarietà.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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Disoccupati – Nel 2008 il tasso di disoccupazione nazionale è salito al 6,7% rispetto al
6,1% del 2007. I disoccupati sono aumentati più al Centro-Nord (+15,3%) che al Sud
(+9,8%). Nella classe di età 15-24 anni la disoccupazione è arrivata al 14,5% al Centro-
Nord e al 33,6% al Sud. Qui crescono anche i disoccupati di lunga durata (sono il 6,4%
del totale, erano il 5,9% nel 2007).
All’Italia spetta il non invidiabile primato del tasso di disoccupazione giovanile più alto
in Europa, di cui è responsabile soprattutto il Mezzogiorno. Nel 2008 solo il 17% dei
giovani meridionali in età 15-24anni lavora, contro il 30% del Centro-Nord. Viceversa,
il tasso di disoccupazione nella classe 25-34 anni è al Sud del 16,6% contro il 5,5%
dell’altra ripartizione.
Al Sud, cresce la zona grigia della disoccupazione, che raggruppa scoraggiati e
lavoratori potenziali: 95mila persone in più nel solo Mezzogiorno l’anno scorso. Dal
2004 al 2008 infatti i disoccupati impliciti e gli scoraggiati sono aumentati di 424mila
unità. Considerando anche questa componente, il tasso di disoccupazione effettivo del
Sud salirebbe a oltre il 22%.
Sommerso – Cala il lavoro nero nel 2008, con 22mila unità irregolari in meno, per
effetto anche della campagna di regolarizzazione dei lavoratori stranieri, soprattutto nel
settore edile. Qui ad esempio nel Sud il tasso di irregolarità è sceso dal 29,7% del 2001
al 18,6% del 2008.
Nel 2008 in Italia i lavoratori in nero sono stimati in 2 milioni 943 mila, l’11,8% del
totale. Ma non tutti sono lavoratori in nero “totali”: poco più di un terzo è rappresentato
da secondi lavori, il 12% circa da stranieri, e solo il 55% circa da unità di lavoro
irregolari in senso stretto. I settori di maggiore diffusione sono l’agricoltura e i servizi.
Se al Centro-Nord il lavoro nero è una forma per integrare un primo reddito o per gli
stranieri per inserirsi nel mercato del lavoro, al Sud è spesso invece una consuetudine
diffusa riservata ai residenti. Nel 2008 al Sud è irregolare 1 lavoratore su 5, pari in
valori assoluti a 1 milione 300mila persone.
Nel settore industriale al Sud circa 1 lavoratore su 8 (12,8%) è in nero, con tasso di
irregolarità del 19% nelle costruzioni.
A livello territoriale la regione più “nera” è la Calabria, con il 26% di manodopera
irregolare, che sale a quasi il 50% in agricoltura e al 40% nelle costruzioni. A seguire,
la Basilicata (20,3%), con un forte peso del settore industriale, Sicilia (19,8%), Sardegna
(19,5%) e Puglia (17,4%).
Il più alto numero di lavoratori in nero in valori assoluti spetta alla Campania (329mila
persone), che dal 2000 ha però perso il 19,4% (79mila unità).
Migrazioni – Caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese
spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo
interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
39
pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni. Le campagne meridionali si
spopolano, ma non a vantaggio delle vicine aree urbane.
I posti di lavoro del Mezzogiorno sono in numero assai inferiore a quello degli occupati.
Ed è la carenza di domanda di figure professionali di livello medio-alto a costituire la
principale spinta all’emigrazione.
Tra il 1997 e il 2008 circa 700mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno.
Nel 2008 il Mezzogiorno ha perso oltre 122mila residenti a favore delle regioni del
Centro-Nord a fronte di un rientro di circa 60 mila persone. Riguardo alla provenienza,
oltre l’87% delle partenze ha origine in tre regioni: Campania, Puglia, Sicilia.
L’emorragia più forte in Campania (-25 mila), a seguire Puglia e Sicilia
rispettivamente con 12,2 mila e 11,6 mila unità in meno.
In controtendenza invece Abruzzo e Sardegna, che nel 2008 hanno attratto flussi
migratori dall’interno intercettato flussi esterni di una certa consistenza.
Nel 2008 sono stati 173.000 gli occupati residenti nel Mezzogiorno ma con un posto
di lavoro al Centro-Nord o all’estero, 23 mila in più del 2007 (+15,3%). Sono i
pendolari di lungo raggio, cittadini a termine che rientrano a casa nel week end o un paio
di volte al mese. Sono giovani e con un livello di studio medio-alto: l’80% ha meno di
45 anni e quasi il 50% svolge professioni di livello elevato. Il 24% è laureato. Non
lasciano la residenza generalmente perché non lo giustificherebbe né il costo della vita
nelle aree urbane né un contratto di lavoro a tempo. Spesso sono maschi, singles,
dipendenti full time in una fase transitoria della loro vita, come l’ingresso o
l’assestamento nel mercato del lavoro.
Le regioni che attraggono maggiormente i pendolari sono Lombardia, Emilia-Romagna
e Lazio.
Da segnalare però la crescita dei pendolari meridionali verso altre province del
Mezzogiorno, pur lontane dal luogo d’origine: 60mila nel 2008 (erano24mila nel
2007).
In calo i lavoratori meridionali all’estero: -4%, arrivando nel 2008 a 11mila 700 persone.
Una curiosità: la crisi ha colpito anche i pendolari meridionali. Se infatti il
movimento Sud-Nord è cresciuto nei primi sei mesi del 2008, con l’aggravarsi del
quadro economico 20mila persone sono rientrate al Sud, soprattutto donne.
Laurea, mobilità e lavoro – La mobilità geografica Sud-Nord permette una mobilità
sociale. I laureati meridionali che si spostano dopo la laurea al Centro-Nord vanno
incontro a contratti meno stabili rispetto a chi rimane, ma a uno stipendio più alto. Il
50% dei giovani immobili al Sud non arriva a 1000 euro al mese, mentre il 63% di chi è
partito dopo la laurea guadagna tra 1000 e 1500 euro e oltre il 16% più di 1500 euro.
Chi resta al Sud o rientra dopo aver studiato al Nord trova però lavoro prima di chi si
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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sposta dopo la laurea. Tra chi parte dopo aver conseguito la laurea al Sud e chi dopo il
diploma, alla fine in termini di contratto, occupazione e retribuzione i più avvantaggiati
sono i secondi.
Dal 1992 al 2004 i laureati meridionali che hanno studiato al Nord e lì sono rimasti sono
arrivati a toccare il 67% del totale.
In base a dati Istat, nel 2004 (gli ultimi disponibili) 24.700 meridionali sono andati a
studiare al Centro-Nord a fronte di un dato inverso davvero irrisorio (meno dell’1% del
totale). Il 95,7% dei laureati settentrionali, infatti, lavora nel luogo in cui ha studiato.
Riguardo all’occupazione, nel 2007 su 96mila laureati meridionali 33mila erano
disoccupati (il 78% residente al Sud), e dei 62mila occupati, 26mila lavoravano al
Centro-Nord.
Rispetto ai primi anni 2000 sono cresciuti i giovani meridionali trasferiti al Centro-Nord
dopo il diploma che si sono laureati lì e lì lavorano, mentre sono calati i laureati negli
atenei meridionali in partenza dopo la laurea in cerca di lavoro. In vistosa crescita le
partenze dei laureati “eccellenti”: nel 2004 partiva il 25% dei laureati meridionali
con il massimo dei voti; tre anni più tardi la percentuale è balzata a quasi il 38%.
Riguardo al tipo di studi, i più mobili sono i laureati in architettura, seguiti dai laureati in
materie scientifiche.
Ma quanto paga la scelta di un ateneo piuttosto che un altro? Dipende dalla distanza
temporale tra la fine degli studi e il primo lavoro. Per i laureati meridionali che hanno
trovato lavoro a un anno dalla laurea la scelta del tipo e della sede dell’Università è stato
determinante, mentre al Centro-Nord la maggiore domanda di lavoro non spinge a
selezionare i giovani in base all’ateneo di provenienza. A tre anni dalla laurea, invece, la
scelta dell’ateneo è indifferente.
Scuole, atenei e abbandoni scolastici – Negli ultimi anni è cresciuta l’età di ingresso
nel mondo del lavoro anche per effetto di una più diffusa scolarizzazione. Nonostante
ciò, la scuola italiana non consente di rimuovere gli ostacoli alla mobilità sociale, e
soprattutto nel Sud i figli tendono a ereditare il destino dei padri.
Mentre sia a Nord che a Sud la partecipazione alla scuola materna ed elementare è
pressoché totale, nel 2008 il tasso di scolarità meridionale relativo alla scuola secondaria
ha superato il Centro-Nord (95,4% contro 91,2%).
Tuttavia è proprio in questa classe che si registrano gli abbandoni scolastici, soprattutto
al primo anno di corso (il 13% al Sud contro il 9,6% del Centro-Nord). Nonostante una
leggera tendenza alla riduzione, dati simili allontano il raggiungimento del target di
Lisbona del 15% di abbandoni scolastici precoci ( l’Italia è ferma al 19,8%, ma il Sud è
quasi al 24%).
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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Il Sud recupera invece nella scuola secondaria superiore: è lontano il target del diploma
all’85% dei giovani 20-24enni entro il 2010, ma dal 2000 al 2008 il Sud è passato dal 67
a oltre il 72% di giovani diplomati.
Recupero anche a livello universitario: dal 2000 al 2008 i laureati meridionali sono più
che raddoppiati, da 54 a 118mila. Notevole e positivo la crescita di laureati in materie
scientifiche: dal 2000 al 2006 il Sud è passato dal 3,8% all’8,4%. Nota dolente i fuori
corso: il 92% dei laureati meridionali non riesce a laurearsi entro i termini e quasi il 50%
lo fa a oltre 4 anni dal termine regolare previsto.
Rappresenta un importante segnale di allarme il fatto che, dopo una lunga fase di
crescita ininterrotta, il tasso d’iscrizione all’Università al Sud negli ultimi anni abbia
comincia a declinare. Se fino a un recente passato la convinzione della spendibilità di un
titolo di studio terziario sul mercato del lavoro ha favorito l’espansione dei livelli di
partecipazione come fattore produttivo, oltre che come elemento umano, sembra
emergere nella fase attuale un certo scoraggiamento fra le coorti più giovani a investire
nell’istruzione superiore.
Studio e qualità – Dai dati PISA emerge un quadro deludente per la scuola italiana e
soprattutto meridionale. I 15enni con difficoltà di lettura nel 2006 sono stati al Sud ben il
37% e addirittura il 46% ha dichiarato scarse competenze in matematica.
I dati del monitoraggio nazionale dell’INVALSI confermano il deficit di competenze
degli studenti della scuola secondaria superiore del Sud, mentre per quanto riguarda la
scuola elementare meridionale evidenziano un livello qualitativo al sud superiore alla
media nazionale.
Rendimento dell’investimento formativo – Ma quanto ripaga studiare? Quanto rende
l’istruzione? Il titolo di studio riesce a ripagare in termini di più facile accesso al mondo
del lavoro e di uno stipendio più alto, ma soltanto dopo un lasso di tempo. Il fattore
tempo è infatti soprattutto al Sud dove il rendimento è massimo tra i 40 e i 64 anni
raggiungendo il valore di 180. Mentre la laurea dai 25 ai 39 anni permette uno stipendio
più pesante del 20% al Sud, oltre i 40 anni essa permette un incremento del 40%.
Cosa dice la SVIMEZ – Nel Mezzogiorno le debolezze della rete formativa italiana si
associano ad un contesto produttivo debole e ad un sistema sociale sostanzialmente
bloccato, impedendo così ai progressi quantitativi realizzati nei tassi di istruzione di
tradursi in sviluppo economico e civile.
Le misure di policy volte ad incrementare l’offerta di competenze da parte dei nuovi
entranti sul mercato del lavoro hanno finito per incrementare in questi anni il livello di
educational mismatch, tra qualità dell’offerta di lavoro e competenze richieste dalle
imprese.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
42
La mobilità dei laureati meridionali se da un lato deprime le prospettive di crescita
dell’intera economia meridionale, dall’altro appare un mezzo per consentire una
valorizzazione del merito e quindi una maggiore mobilità sociale.
Il mancato superamento dei vincoli costituiti da un apparato produttivo debole e da un
sistema sociale bloccato, nonostante i progressi nella formazione scolastica
universitaria, condanna il Mezzogiorno al ruolo di fornitore di risorse umane
qualificate al resto del Paese e i suoi migliori giovani a cercare altrove le modalità per
mettere a frutto le proprie competenze e realizzare i propri sogni.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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POLITICHE PER LO STATO SOCIALE
Spesa per protezione sociale – Lo Stato sociale è inadeguato nei confronti di alcuni
bisogni essenziali, come le politiche di sostegno alla famiglia, le nuove forme di povertà,
l’aumento dei rischi per i futuri anziani, e, invece, assicura un’elevata protezione del
reddito agli occupati regolari. La quota di Pil destinata alla protezione sociale nei 25
Paesi dell’Unione Europea è pari mediamente al 27%, in Italia è solo lievemente più
contenuta, 26,6%, ma comunque lontana da nazioni come la Francia che destina a
quest’obiettivo il 31,1% del Prodotto lordo, la Svezia il 30,7%, il Belgio il 30,1%.
Divari Nord Sud nella spesa sociale - Nel Mezzogiorno l’incidenza della spesa sociale
sul Pil è largamente superiore alla media europea, collocandosi al 33,3%, mentre al
Centro Nord è attestata al 24,7%. Ma se valutiamo, più correttamente la spesa in termini
pro capite risulta un deficit consistente di spesa nelle regioni del Sud: nel Centro-Nord
essa è infatti pari a 7.200 euro per abitante a fronte dei 5.600 euro del Mezzogiorno.
L’anomalia del sistema del welfare italiano è soprattutto nella sua composizione,
troppo sbilanciata verso i trattamenti previdenziali, ai quali destina circa il 20% in
più degli altri partners europei: per le pensioni il livello di spesa pro capite è più
elevato al Nord, dove è pari a circa 1,3 volte rispetto alla media dei 25 Paesi dell’Ue,
mentre al Sud è al di sotto di tale media.
La spesa per la disoccupazione nella Ue –Per quel che riguarda la spesa per le
politiche di sostegno al reddito nei casi di disoccupazione o di corsi di formazione per il
reinserimento nel mercato del lavoro, restano forti differenze tra i vari Stati: la media
dell’Ue è del 5,6% del totale ma varia tra il 12% di Belgio e Spagna e il 2% dell’Italia,
anche se nel Sud tale quota è superiore di due volte alla media nazionale perché in
quest’area vi è la maggior quantità di persone in cerca di occupazione.
Il sistema pensionistico – La riorganizzazione e razionalizzazione della spesa sociale
passa attraverso la realizzazione di politiche di welfare to work, puntando sempre più su
un’inclusione attiva nel mercato del lavoro. Ma tale obiettivo è condizionato dal sistema
previdenziale, in particolare per quel che riguarda la sua sostenibilità finanziaria. Oggi
l’Italia è tra i partners Ue quello con la maggiore incidenza degli oneri previdenziali sul
totale delle prestazioni sociali. Peraltro la spesa per le pensioni è fortemente
sperequata sotto il profilo territoriale, in quanto il 68,6% è erogato al Centro Nord,
che assorbe il 72,4% delle risorse, mentre ai pensionati meridionali va il 31,3%, che
equivale a una quota di risorse del 27,6%.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
44
Pensionati assistenziali – Le pensioni assistenziali includono tutte quelle prestazioni
previdenziali non legate alla contribuzione che hanno il compito di garantire un reddito
minimo alle persone. La percentuale di pensionati assistenziali nelle aree meridionali
supera di circa 12 punti quella del resto del Paese, perché il reddito pro capite dei
beneficiari è al Sud inferiore del 20% rispetto a quelli residenti nel resto d’Italia. Se si
eccettuano le pensioni assistenziali, per tutti gli altri assegni previdenziali prevalgono i
percettori nel Centro Nord rispetto a quelli nel Mezzogiorno. Non solo, ma
complessivamente al Sud i pensionati di vecchiaia che hanno versato i contributi e
percepiscono meno di 1.000 euro al mese, sono il 50%; il 40% nel Centro-Nord
Pensioni minime e maggiorazione sociale – Il trattamento minimo è un’integrazione
erogata dallo Stato ai pensionati il cui assegno è inferiore al minimo vitale. La
maggiorazione sociale è, invece, condizionata oltre che dal reddito, anche dall’età
perché bisogna avere almeno 70 anni o avere particolari inabilità. Su un totale di 16
milioni di pensionati, circa 1,3 milioni (590 mila al Sud) sono i titolari di pensioni con
maggiorazione sociale, mentre sono 4,3 milioni (1,5 milioni al Sud) i pensionati che
ricevono un’integrazione al minimo.
Le pensioni sociali sono circa 800 mila, di cui 400 mila al Sud. I valori reddituali medi
annui delle pensioni sociali è 8 mila euro al Centro-Nord e 7,5 mila nel Mezzogiorno.
In Italia è il 27% dei soggetti in pensione a non riuscire a raggiungere la soglia del
minimo vitale, la maggiore parte dei quali risiede al Sud.
Welfare locale – I Comuni del Nord gestiscono più della metà delle risorse sociali a
livello locale, quelli del Mezzogiorno solo il 20%. Oltre l’80% delle risorse per il
welfare locale è destinato a famiglia e minori, in particolare al Sud, e ad anziani e
disabili. Ma anche in questo caso permangono notevoli differenze territoriali, perché la
spesa per le famiglie e i minori varia tra i 130 euro pro capite del Nord e i 48,6 del
Mezzogiorno, con una media nazionale attestata a 95 euro. Più delle metà di questi
finanziamenti va a sostenere il funzionamento degli asili nido e dei servizi per l’infanzia.
Lo stesso avviene se si analizza la spesa pro capite per gli anziani: in media in Italia è
116,7 euro ma al Nord supera i 150, al Sud si ferma a 66,3 euro. Una differenza ancor
più marcata esiste per i fondi ai disabili, con 3.500 euro pro capite al Nord, 2.300 al
Centro e appena 806 nelle aree meridionali: in questa cifra i maggiori esborsi sono quelli
per l’assistenza domiciliare, molto più diffusa al Nord che al Sud.
Ammortizzatori sociali – La disoccupazione, in seguito alla grave crisi economica, sta
aumentando vertiginosamente. Nel primo trimestre di quest’anno ha raggiunto i 2
milioni di persone. E contestualmente è cresciuto in modo esponenziale anche il ricorso
alla Cassa integrazione guadagni, che agli inizi del 2009 riguardava circa 400mila
lavoratori. Le risorse messe a disposizione dal Governo per fronteggiare questa difficile
fase sono 32 miliardi nel biennio 2009 – 2010, di cui 8 per i trattamenti in deroga. E per
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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la prima volta la misura è stata estesa ad apprendisti e collaboratori a progetto. Questo
strumento, però, non garantisce una copertura adeguata a tutti i lavoratori: dei
circa 1.700mila disoccupati, di cui 890mila nel Mezzogiorno, possono usufruire dei
sussidi solo quanti abbiano precedenti esperienze lavorative, che sono 1.200mila di cui
560mila al Sud. Ma da questo numero vanno poi sottratti i disoccupati da oltre un anno
che non possono più goderne, che sono in tutto circa 460mila, di cui 250mila nelle aree
meridionali. Ciò significa che solo la metà dei disoccupati, circa 850mila di cui
350mila nel Sud, potrà avere un sussidio: di questi il 60% nel Centro Nord e il 40%
al Sud. Su un totale di 14 milioni e 700mila lavoratori dipendenti e parasubordinati nel
nostro Paese, di cui 4 milioni al Sud, finora 3 milioni e 200mila, di cui 950mila nel
Mezzogiorno, erano esclusi da queste forme di tutela. Dopo l’intervento del Governo si
è ampliata la platea dei beneficiari: il numero degli esclusi si ridurrebbe a circa 2
milioni, di cui 650mila nelle aree meridionali, in base a una stima prudenziale, o
addirittura a 1 milione e 600mila, di cui mezzo milione al Sud, in base a previsioni più
ottimistiche. Un fatto è certo: non è il Nord a subire maggiormente l’impatto della crisi,
se solo si considera il fatto che in Regioni come la Campania e la Sicilia lavora poco più
del 40% della popolazione e le donne in attività sono meno di 3 su 10.
L’andamento della Cig – Nel periodo da gennaio a giugno del 2009 i lavoratori a cassa
integrazione sono stati circa 415mila, di cui 330mila al Centro Nord e 85mila al Sud.
L’accordo sugli ammortizzatori sociali raggiunto tra Governo e Regioni è stato
finanziato in larga misura con risorse delle Regioni meridionali: infatti, su 8 miliardi
complessivi, 2,6 sono a carico dell’Fse e 4 del Fas.
Manca un reddito minimo di inserimento – Manca in Italia una forma di reddito
minimo di inserimento finalizzato al sostegno delle famiglie a più basso tenore di vita.
Eppure i più recenti dati Eurostat collocano il nostro Paese al terz’ultimo posto in
Europa quanto a livelli di povertà, peggio di noi solo Grecia e Lettonia. Una povertà
che è in gran parte meridionale, dove l’incidenza è doppia rispetto alla media
nazionale e addirittura cinque volte superiore a quella del Nord . La Comunità
Europea ha invitato i Paesi membri a dotarsi di una forma di reddito minimo che
garantisca anche ai poveri una vita adeguata. Oggi siamo l’unica nazione, insieme alla
Grecia, a non averlo, anche se ci sono stati vari tentativi di introdurre il reddito minimo
di inserimento e il reddito di ultima istanza.
Le misure di sostegno al reddito – Il Governo ha cancellato l’Ici sulla prima casa e ha
introdotto il bonus famiglie e la social card. Il costo dell’abolizione dell’imposta
comunale sugli immobili è stato di oltre 2 miliardi per le casse dello Stato, con un
beneficio ai proprietari di circa 60 euro al Sud, 129 al Centro e 88 al Nord. Il bonus
famiglie riguarda 6 milioni di nuclei, costa 2,1 miliardi, consiste in un trasferimento una
tantum di una somma variabile tra i 200 e i 1.000 euro a seconda del reddito e della
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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dimensione familiare. La misura avvantaggia le famiglie più povere ed è il Sud a trarne i
maggiori vantaggi: nelle aree meridionali, infatti, risiede il 48% dei beneficiari, contro il
36% del Nord . La social card è un buono acquisto pari a 40 euro mensili destinato ai
cittadini con basso reddito che abbiano almeno 65 anni e ai genitori con figli di età
inferiore a 3 anni. Per averlo bisogna documentare un reddito inferiore a 6mila euro, non
più di una casa e una sola autovettura. Costo stimato 490 milioni. I beneficiari sono
potenzialmente un milione, in gran parte anziani. L’intervento per il 52% è destinato al
Sud, per il 32% al Nord, per il 16% al Centro.
Se consideriamo che dal prossimo anno certamente verrà meno il bonus famiglia
mentre rimarranno gli effetti della detrazione ICI (non si sa ancora bene se verrà
continuata l’esperienza della social card) l’impatto complessivo della manovra sarà
più favorevole alle regioni del Centro-Nord piuttosto che a quelle del Sud.
I pensionati giovani – Bisogna porre grande attenzione sull’età di pensionamento e sui
motivi che influenzano la decisione di abbandonare il lavoro. L’età prevista è
sensibilmente più elevata al Sud, dove la metà degli occupati tra 50 e 59 anni prevede di
terminare il lavoro a 65 anni e anche oltre: ciò perché nel Mezzogiorno più difficilmente
si riescono ad ottenere requisiti contributivi sufficienti per garantirsi una pensione
adeguata. Tendenzialmente l’età di pensionamento coincide con quella in cui si
maturano i diritti anagrafici e contributivi per percepire una pensione di anzianità o di
vecchiaia. Coloro che decidono di prolungare l’attività lavorativa sono prevalente
uomini che svolgono un lavoro da dirigente o quadro o che siano imprenditori. Molte
persone sarebbero altresì pronte a ritardare l’età di pensionamento se potessero
usufruire di bonus o di maggiori flessibilità nell’orario o di forme di part time.
Cosa dice la Svimez - In Italia è ancora irrisolto il problema di come finanziare
maggiori aiuti economici ai lavoratori espulsi dal processo produttivo e ad assicurare
un minimo di sussistenza ai più poveri. La SVIMEZ, utilizzando il modello MICROREG
dell’IRPET, ha condotto una simulazione per valutar, il costo dell’introduzione di una
forma di reddito di ultima istanza in grado di riportare il reddito familiare al di sopra
della soglia di povertà assoluta. L’esercizio condotto ha valutato in circa 2 miliardi di
euro il costo di un intervento universale in grado di far uscire tutte le famiglie dalla
condizione di povertà, assicurando il differenziale tra il reddito percepito e la soglia
definita dall’ISTAT. Il costo di tale intervento, che renderebbe il nostro sistema di
protezione sociale più omogeneo al modello prevalente negli altri Paesi europei, se
confrontato con quello di misure recenti come l’abolizione dell’ICI sulla prima casa,
non appare incompatibile con gli equilibri di finanza pubblica. Nel medio lungo periodo
è, però, indispensabile ridurre la spesa previdenziale, attraverso lo scoraggiamento
delle varie forme di pensionamento anticipato.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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LE POLITICHE CONTRO LA CRIMINALITA’
Criminalità e insicurezza – In rapporto alla popolazione residente, nel Mezzogiorno il
numero dei reati denunciati (38,8 per mille abitanti) è decisamente inferiore a quello del
Centro-Nord (55,0). In sintonia con tali dati, sono le famiglie settentrionali a
dichiarare di sentirsi più insicure di quelle meridionali: nel 2008 sono state il 37,5%
rispetto al 35,2%. In entrambe le aree il peggioramento della percezione di insicurezza,
visibile dai grafici 1995-2008, è stato forte: nel 2000 al Centro-Nord non si sentivano
sicure quasi 1 famiglia su 3 (31,5%), mentre al Sud il dato era del 28,7%. A livello
regionale le differenze sono molto elevate: più a rischio i nuclei campani (53,6%, la
percentuale più alta a livello nazionale) e pugliesi (36,5%), mentre si sentono più sicure
le famiglie molisane (16,7%) e lucane (11,8%).
Criminalità organizzata e globalizzazione - Le organizzazioni criminali, veloci e
attente ad adeguare il proprio core business ai cambiamenti esterni, hanno saputo
cogliere le opportunità offerte dalla globalizzazione e oggi, oltre ad essere radicate nei
territori meridionali d’origine, sono sempre più diffuse con attività economiche diverse,
in numerose altre regioni italiane e straniere.
La ‘ndrangheta - Radicata in Calabria, ma ormai presente in tutto il mondo, è ormai
diventata leader nel traffico mondiale di droghe (soprattutto cocaina), ma forte anche
nelle estorsioni, usura e traffico di armi. In Italia, la ‘ndrangheta ha notevoli interessi
anche Milano, Brescia, Roma e in Piemonte. Nel 2007 secondo l’Eurispes il suo
fatturato è stato di 44 miliardi di euro, pari al 2,9% del Pil italiano.
Cosa Nostra - La mafia siciliana, dopo gli arresti eccellenti degli ultimi anni, sta
vivendo una fase di assestamento e riorganizzazione interna. Essa sta però mostrando
una grande capacità di mantenere intatta la sua vitalità e pericolosità. Sono i mercati
ortofrutticoli, le sale da gioco e soprattutto la grande distribuzione alimentare le
nuove frontiere del business mafioso; attività che si aggiungono a quelle tradizionali
dell’estorsione e dell’inserimento nei pubblici appalti. L’esistenza di numerose attività
criminali si è segnalata anche a Modena e a Genova.
La camorra - “Specializzata” in traffico di stupefacenti, estorsioni, racket, gioco
d’azzardo e usura, negli ultimi anni la camorra ha visto crescere il core business
soprattutto nell’offerta di servizi alle imprese, approfittando anche della domanda di
abbattimento dei costi da parte di imprese legali. Con lo smaltimento illegale dei rifiuti,
le fatturazioni “truccate”, l’espulsione di imprese “non gradite” nella gestione di
impianti, la camorra influenza in modo determinante l’economia campana.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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Sacra Corona Unita - Fortemente ridimensionata dall’azione di contrasto operata dalle
Forze dell’ordine negli ultimi anni, la “Sacra Corona Unita” resta concentrata nel
traffico di stupefacenti, armi e clandestini. Fuori regione è operativa soprattutto in
Lombardia e nella vicina Basilicata.
Criminalità, crisi e terremoto – La crisi economica sembra essere un vantaggio per la
criminalità organizzata, che può disporre di ingenti risorse provenienti dalle sue attività
illecite, mentre colpisce pesantemente famiglie e imprese, che diventano così più
vulnerabili alle pressioni criminali. Il rilancio dell’intervento statale nell’economia, ad
esempio nella ricostruzione post terremoto dell’Abruzzo, potrebbe convogliare gli
interessi delle imprese mafiose attive nell’edilizia, che già in Umbria dopo il sisma del
1996 diedero prova di un’intensa attività nella gestione degli appalti. A ciò si sta
rispondendo con l’assicurazione di una maggiore vigilanza nella spesa pubblica.
Il contrasto alla criminalità organizzata
I beni confiscati - Dal 1982 (anno in cui fu istituita la legge Rognoni-La Torre) ad oggi
sono stati 8.446 gli immobili confiscati in Italia; di questi, il 40% risulta ancora in
gestione al Demanio, l’8% è stato destinato ma non consegnato e solo il restante 52%,
pari a 4.372 immobili, destinato e consegnato. Il 47% del totale degli immobili
confiscati si concentra in Sicilia, dove però ben 2.243 beni (il 57% del totale) è ancora
in mano al Demanio. Riguardo alle regioni del Centro-Nord, i beni confiscati sono
102 in Piemonte, 610 in Lombardia e 328 nel Lazio. Tra il 2007 e il 2008 si è assistito
ad una forte accelerazione (+70% a livello nazionale) del numero di immobili destinati
ai differenti enti per il loro riutilizzo; l’aumento più vistoso si rileva in Calabria (197%),
seguita dalla Campania (112%) e dalla Lombardia (191%). Per quanto riguarda le
aziende, le confische operate dalle forze dell’ordine ammontano a 1.139, di cui 935 (pari
all’82%) risulta già destinato, a testimonianza degli importanti passi avanti compiuti
soprattutto negli ultimi anni. Va però segnalato che solo meno della metà delle aziende
consegnate risulta realmente utilizzata e che delle 204 aziende che sono ancora in carico
dell’Agenzia del Demanio solo il 10% ha ancora personale e porta avanti una attività
produttiva.
Criminalità e governi locali –Per realizzare una maggiore trasparenza e controllabilità
delle procedure degli appalti pubblici si sono istituite le cosiddette “Stazioni Uniche
Appaltanti”, la prima in Sicilia nel 2005, la seconda in Calabria nel 2009. L’esperienza
siciliana non sembra aver prodotto per ora risultati eclatanti, anche in relazione alle
notevoli risorse economiche destinate al suo funzionamento. Per la Calabria, al momento
si può solo dire che dalla lettura del dispositivo legislativo che ha istituito la Stazione
Unica si ha l’impressione che si possano evitare alcuni degli errori commessi in Sicilia.
Sintesi Rapporto SVIMEZ 2009
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In merito alle due Regioni va anche ricordato la decisione di costituirsi parte civile in
tutti i processi di mafia per fatti accaduti sul loro territorio.
Vanno anche ricordate alcune altre iniziative tese ad ostacolare le azioni criminose della
criminalità organizzata, come la decisione di Confindustria di espellere gli imprenditori
che non denunciano le richieste estorsive della mafia; il “Codice antimafia” adottato da
Italcementi; il protocollo d’intesa per lo “Sviluppo locale in sicurezza e legalità”, tra il
prefetto di Napoli e il presidente dell’Unione degli industriali napoletani; l’istituzione di
una Commissione, decisa dalla Regione Sicilia, per redigere una serie di norme
vincolanti per le pubbliche amministrazioni per impedire ogni forma di infiltrazione
mafiosa.
Criminalità e società civile – L’eterogeneo insieme di forze della società civile,
comunemente indicate con il termine di “movimento antimafia” ha avuto ruolo decisivo
per la promulgazione di quei provvedimenti normativi che oggi costituiscono i capisaldi
nella lotta alla mafia. Le tre esperienze più significative sono costituite da “Addio Pizzo”
di Palermo, “Ammazzateci tutti” di Locri e da “Libera”, che ha il grande merito di essere
stata determinante nella istituzione della legge sul riutilizzo a fini sociali dei patrimoni
mafiosi. Le tre organizzazioni, che si sono ormai estese in tutto il territorio nazionale,
attraverso le loro campagne di sensibilizzazione sono riuscite ad interrompere quel muro
di silenzio che caratterizzava l’atteggiamento comune nei confronti della mafia e ad
innescare un processo di ribellione al racket.
Politiche per la Sicurezza – Il bilancio del primo biennio di attività del Programma
Operativo Nazionale “Sicurezza per lo Sviluppo ” 2007-2013 appare decisamente
positivo per l’Asse 1, che riguarda un ambito di intervento di diretta competenza delle
forze dell’ordine, mentre un preoccupante ritardo si rileva per l’Asse 2, finalizzato alla
diffusione di migliori condizioni di legalità e giustizia a cittadini e imprese. Per l’Asse 1,
infatti, sono stati approvati progetti per un importo di 394,1 milioni di euro, pari al 60%
della dotazione (573,2 milioni); per l’Asse 2 si sono invece spesi 64,6 milioni di euro,
pari ad appena il 12% della dotazione (538,5 milioni). Desta preoccupazione, in
particolare, che non figurano progetti approvati in merito ad interventi di grande rilievo,
come quello sull’impatto migratorio e sulla trasparenza della pubblica amministrazione.
Svimez 2009/07_Messaggio_Napolitano.pdf
Il Presidente della Repubblica
Messaggio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
alla presentazione del “Rapporto SVIMEZ 2009 sull’economia del Mezzogiorno”
Roma, 16 luglio 2009
I rapporti della SVIMEZ sull'economia del Mezzogiorno offrono, ogni anno, un quadro
accurato di informazioni e valutazioni che fornisce la base per una analisi critica degli andamenti
recenti, aperta ad una riflessione sulle prospettive dell'economia meridionale nei suoi rapporti con
l'economia nazionale ed internazionale.
Nell'attuale situazione di crisi economica e finanziaria, che spinge a dare priorità agli
interventi che possono mitigarne gli effetti sulle famiglie e sulle imprese, il lavoro della SVIMEZ
ci aiuta anche a comprendere la necessità di una analisi non limitata all'immediato. La crisi
economica rafforza il convincimento che una prospettiva di stabile ripresa del processo di sviluppo
debba essere fondata sul superamento degli squilibri territoriali, necessario per utilizzare
pienamente tutte le potenzialità del nostro Paese. Il fatto che le politiche di riequilibrio territoriale
messe in atto in passato abbiano conseguito risultati insufficienti rende certamente indispensabile un
forte impegno di efficienza e di innovazione da parte delle istituzioni meridionali; ma questo
impegno non sarebbe sufficiente senza il supporto di una strategia di politica economica nazionale
mirata al superamento dei divari in termini di dotazione di infrastrutture, di investimento in capitale
umano, di rendimento delle amministrazioni pubbliche e di qualità dei servizi pubblici.
In un contesto nel quale la crisi economica rende più difficile il bilanciamento tra i diversi
obbiettivi, cresce l'incertezza sulle risorse disponibili, e insieme con essa, l'incertezza del quadro di
riferimento delle politiche per il Mezzogiorno.
Occorre reagire accrescendo la consapevolezza, nelle Istituzioni ed in tutta la società
italiana, del carattere prioritario e della portata strategica dell'obiettivo del superamento dei divari
tra Nord e Sud. Il lavoro della SVIMEZ offre un contributo importante allo sviluppo di un
confronto nazionale, aperto ed approfondito, su questi temi; confronto che la stessa SVIMEZ ed
altre istituzioni culturali meridionaliste ritengono, fondatamente, indispensabile.
Con queste riflessioni auguri il migliore svolgimento ai vostri lavori.
Giorgio Napolitano
SVIMEZ: Rapporto 2009 sull'economia del Mezzogiorno