A cura del
CNOS-FAP
Educazione della persona nei CFP
Una bussola per orientarsi
tra buone pratiche e modelli di vita
Anno 2008
Il presente volume non è commerciabile ed è destinato ad uso esclusivamente interno della
Federazione CNOS-FAP.
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PRESENTAZIONE
Il volume, in linea con il progetto educativo da sempre perseguito dalla realtà
salesiana, si prefigge lo scopo di fornire mediante una raccolta di progetti, espe-
rienze e riflessioni presenti all’interno o all’esterno della Federazione CNOS-FAP
un aiuto pratico e di rapida consultazione per quanti operano in campo educativo,
facilitandoli nella ricerca di buone pratiche da poter trasferire all’interno del loro
contesto operativo e della propria esperienza lavorativa, proprio come una bussola
che possa guidare lungo il “sentiero educativo” meno tortuoso.
Il lavoro è il frutto di una ricerca che si è articolata nel tempo in varie fasi.
In un primo momento è stata messa in atto dal CNOS-FAP un’attività di studio
per l’elaborazione dei criteri di selezione in base ai quali individuare le iniziative
candidabili, svolgendo contestualmente una azione di coinvolgimento di testimoni
privilegiati e una ricerca con la raccolta di buone pratiche reperite attraverso una
indagine bibliografica e visitando canali di ricerca Internet e appositi siti Web. Si
è proceduto quindi al termine di questa prima fase all’individuazione di progetti,
iniziative e attività che intervenissero nel campo oggetto del volume.
Nella seconda fase, svolta dall’ISRE (Istituto Superiore Internazionale Salesiano
di Ricerca Educativa) con il coordinamento del Professor Arleo, si è dato luogo alla
sistematizzazione dei progetti con il loro progressivo inserimento in aree tematiche.
La terza e ultima fase si è concretizzata in una azione svolta dal CNOS-FAP
attraverso un intervento mirato a valutare la trasferibilità delle singole esperienze
mediante una attenta catalogazione in schede di agile visione. È stato in questo
momento dei lavori che si è ritenuto valido inserire i materiali del volume di Teresio
Bosco “I cristiani e il lavoro” (ELLEDICI, 2006) che, attraverso un approfondi-
mento storico dedicato alla Dottrina Sociale della Chiesa, ad alcuni Santi e a figure
luminose del nostro tempo ci mostra quanto siano legate la santità cristiana e il
lavoro impegnate all’unisono per il miglioramento delle condizioni culturali morali
e sociali dei popoli.
A conclusione dei lavori, è stato predisposto un CD ROM contenente tutti gli
strumenti oggetto della prima parte del volume.
Coerente alla sua ideazione e nella volontà di presentare nuove metodologie, il
lavoro si candida a proporre nelle edizioni future altri progetti e strumenti operativi
che possano essere in costante aggiornamento con l’evolversi dei tempi, come un
cantiere sempre aperto che in continuo laborioso movimento è incessantemente
volto a soddisfare le esigenze di coloro che sono i destinatari ultimi del nostro
impegno educativo: I Giovani.
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Grazie a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del presente
volume.
Un ringraziamento particolare va a Teresio Bosco e alla ELLEDICI Edizioni
per averci permesso di utilizzare i materiali provenienti dal testo citato.
Mario Tonini
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INTRODUZIONE
Il volume si presenta articolato in due parti.
La prima parte presenta 71 esperienze che, distribuite in quattro dimensioni
(educazione alla convivenza civile, educazione professionale, educazione religiosa,
educazione salesiana), potranno supportare nell’azione educativa quanti sono impe-
gnati in attività formative, aiutandoli ad osservare, valorizzare ed eventualmente
trasferire le nuove risorse che possono scaturire da queste numerose e spesso in-
novative buone pratiche educative. Le 71 esperienze sono integralmente riportate
nel CD ROM allegato al volume.
La seconda parte, tratta dal libro di Teresio Bosco “I Cristiani e il lavoro”
(ELLEDICI, Torino, 2006) pone l’attenzione sulla vita di alcuni Santi, Beati o
figure di particolare rilievo sociale contestualizzandoli nel loro periodo storico e
sottolineando il loro vivere inteso come modello nella cultura del lavoro. La parte
finale del volume grazie anche al pensiero di tre grandi Papi chiarisce, attraverso la
Dottrina Sociale della Chiesa, la posizione della Stessa su tematiche come quella
della dignità del lavoro umano, dei diritti dei lavoratori, del rapporto tra capitale e
lavoro.
Parte prima
PER ORIENTARSI TRA LE “BUONE PRATICHE”
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PREMESSA
Le dimensioni educative riportate nella
nostra “bussola per orientarsi tra le buone
pratiche” sono 4.
1. DIMENSIONE CIVICA
(O EDUCAZIONE ALLA CONVIVENZA CIVILE)
– cittadinanza democratica e della convivenza civile - in vista della elaborazione
di specifiche proposte di itinerari formativi;
– cultura della cittadinanza attiva - con particolare riguardo alle iniziative a favore
dei giovani, per il consolidamento della governance e della cittadinanza europea;
– cultura della legalità - intesa come educazione ai principi fondamentali della
convivenza civile, che si realizza nel rispetto per l’altro, per la giustizia, per le
pubbliche strutture;
– cultura della solidarietà - con particolare attenzione all’accoglienza dell’altro
sia extracomunitario, sia con problemi di disagio, forme di condivisione con i
genitori delle scelte educative e sviluppo di una cultura del consumo critico, ecc.
Al momento della stampa questa tematica è stata riformulata come “disciplina”
ospitata all’interno dell’area storico-geografica e storico-sociale dal Decreto-Legge
1° settembre 2008, n. 137 coordinato con la legge di conversione n. 169 del 30 ot-
tobre 2008 che introduce azioni di sensibilizzazione e di formazione del personale
finalizzate all’acquisizione nel primo e nel secondo ciclo di istruzione delle cono-
scenze e delle competenze relative a “Cittadinanza e Costituzione”.
2. DIMENSIONE PROFESSIONALE
– con particolare riferimento alla cultura del lavoro e alla educazione alla cultura
del lavoro.
3. DIMENSIONE RELIGIOSA
– in vista della elaborazione di specifiche proposte di insegnamento della reli-
gione cattolica e di percorsi di educazione religiosa.
4. DIMENSIONE SALESIANA
– con particolare riferimento alle migliori prassi proprie del sistema preventivo
di Don Bosco.
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Nelle 4 dimensioni, così come sottolineato,
sono raccolte buone pratiche educative. Con
questo termine, all’interno del nostro contesto, si
vuole intendere progetti, iniziative, azioni ed
esperienze innovative che possano contribuire a
migliorare quanto già viene promosso dalla Fe-
derazione CNOS-FAP in materia di “educazione
alla persona”.
I progetti raccolti nel dossier e presentati in questa “Bussola”
forniscono approcci e strutture di riferimento per migliorare le
!capacità progettuali all’interno delle Comunità educative.
La buona pratica diventa, così, un modello utile a sviluppare
quella capacità di imparare dalle pratiche formative messe in atto
oltre che dalle teorie educative di riferimento.
Questa Bussola propone un repertorio di esperienze e di stra-
tegie documentate che sono state oggetto analisi, sperimenta-
zione e riflessione da parte di chi opera nel settore dell’istruzione
e della formazione professionale.
Tra i criteri di selezione dei progetti o delle proposte, è stato utilizzato princi-
palmente quello della trasferibilità, ossia della possibilità dell’iniziativa di essere
trasferita e applicata in luoghi e situazioni diversi da quelli in cui è stata realizzata.
Complessivamente sono stati individuati numerosi progetti e/o esperienze edu-
cative significative e in questa bussola antologica ne presentiamo 71. Le risorse
educative presenti nella bussola risultano così suddivise:
– educazione alla convivenza civile: 34
– educazione professionale: 12
– educazione religiosa: 15
– educazione salesiana: 10
Al fine di avere una più agevole consultazione dei progetti si è provveduto ad
una ulteriore ripartizione che vede due indici di riferimento:
– Progetti strutturati
– Altro (strumenti operativi, suggerimenti, riflessioni, spunti).
Questa prima classificazione di ordine più generale introduce ad una cataloga-
zione dei progetti attraverso schede di sintesi.
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Capitolo 1
Progetti nell’area dell’Educazione alla Convivenza Civile:
esperienze, riflessioni e suggerimenti operativi
I progetti raccolti sotto la dimensione dell’educa-
zione alla convivenza civile possono essere utilizzati
come strumenti e buone pratiche per ampliare una
cultura della solidarietà.
Gli educatori e i formatori possono integrare
alcune delle risorse presentate nei progetti finalizzan-
dole agli obiettivi del proprio Centro. Parole e con-
cetti come cittadinanza attiva, equità, bene pubblico, diritti politici-economici-
sociali, attraverso l’ausilio di esperienze concrete all’interno di associazioni di
volontariato, centri formativi e culturali diventano strumenti nelle mani di tutti
i formatori che operano in contesti educativi simili e vogliano prendere spunto per
lavorare insieme ai giovani su questi temi essenziali.
Attraverso i progetti i formatori potranno sviluppare dei confronti aperti sulle
modalità comunicative più attive per uno sviluppo di competenze e capacità coope-
rative. Ogni progetto presentato ha, al proprio interno, alcune metodologie di
lavoro di gruppo facilmente implementabili in altri contesti educativi diversi da
quelli originari.
Tema sentito in quest’area è quello della solida-
rietà come si evince dal progetto “Volontariato ed
educazione alla solidarietà” (20). Questo progetto,
che si presenta sotto forma di dispense educative,
promuove una riflessione, non solo teorica, sulle di-
namiche della solidarietà. Domande come “chi è il cittadino solidale?” e suggeri-
menti sul ruolo del volontariato fanno da sfondo ad un progetto che implementa
metodologie interessanti per ogni educatore che voglia affrontare i temi proposti.
Altra tematica fondamentale, presente in alcuni progetti di quest’area, è quello
dell’educazione interculturale. Anche questo tema è affrontato sia sul piano concet-
tuale, sia su quello concreto e operativo. Segnaliamo la presenza di diversi progetti
sotto il filone tematico dell’intercultura, ognuno con una specifica identità metodo-
logica da approfondire e ed eventualmente da recuperare e utilizzare. I progetti
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strettamente correlati a questo filone di lavoro sono: “Identità, multiculturalità,
interdipendenza e globalizzazione” (n. 11); “Accoglienza stranieri” (n. 1); “Preve-
nire i conflitti interculturali” (n. 15); “Multilingue e multiculture” (n. 31); “Educa-
zione interculturale” (n. 26); “Cultura dell’incontro” (n. 24), “L’Islam in Occidente”
(n. 30).
I progetti dell’educazione alla convivenza civile non tralasciano, inoltre, di
considerare la dimensione affettiva della relazionalità e presentano, in questo
senso, una serie di interessanti attività educative sulle rappresentazioni giovanili
dell’amicizia. Si prendono a spunto, ad esempio, alcuni veicoli comunicativi capaci
di influire sull’immaginario giovanile (canzoni, arti letterarie, tv) e sulle loro inter-
pretazioni della socialità tra e con gli altri. Il formatore, attraverso una lettura dei
progetti, potrà implementare alcuni brevi percorsi didattici su questi modelli e/o
integrare alcune risorse educative nel proprio processo formativo d’aula o fuori
dall’aula.
Altro scopo fondamentale dei progetti presenti
in questa dimensione è quello di portare gli educatori
e i formatori, nonché tutte le figure responsabili di
attività educative, a sviluppare insieme ai giovani,
dei percorsi di crescita per l’individuazione delle
radici della violenza all’interno di sé e delle esperienze relazionali.
Dai progetti emerge una tensione alla speranza che generi negli altri fiducia e
incoraggia lo sviluppo di una cittadinanza responsabile, orientata al bene comune.
Uno dei progetti che interpreta queste esigenze è “Tempo dell’educazione e tempo
della cooperazione” (n. 17). Il progetto, infatti, attraverso un approccio interdisci-
plinare e la cooperazione di istituti scolastici, non solo italiani, propone alcune
finalità che qui richiamiamo brevemente, ma che definiscono chiaramente l’orien-
tamento educativo dell’intero progetto. Ecco, dunque, le finalità del progetto:
– aiutare i giovani a individuare e contrastare le radici della violenza nella pro-
pria vita incoraggiandoli a rispettare se stessi, la vita in genere e ad ispirare
speranza negli altri;
– promuovere lo sviluppo di cittadini responsabili con capacità di decidere sul
“bene comune” in una civiltà globale;
– educare alla democrazia ed alla partecipazione;
– coinvolgere indistintamente, secondo criteri di pari opportunità, ragazzi e
ragazze;
– sperimentare attraverso percorsi, confronti ed esperienze individuali e collet-
tive – direttamente ed indirettamente – la vita cooperativa;
– coltivare un nuovo legame tra giovani-scuola-società civile, lavorando per una
società interattiva e globale;
– consentire l’apprendimento dell’uso creativo delle nuove tecnologie;
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– favorire la progettazione di gemellaggi e di visite di perfezionamento presso
realtà nazionali ed estere.
Tra le metodologie adottate e interessanti per l’educazione alla convivenza
civile vi è quella della “Revisione di vita” (Rdv) di Cardijn basata su tre passaggi
fondamentali: vedere-valutare e agire. Questa metodologia è particolarmente effi-
cace per creare una predisposizione tra i giovani all’osservazione accurata della
propria esperienza di vita e ad una maggiore e più vera condivisione sociale delle
attese, delle paure, dei progetti che ogni persona porta con sé. Si potrà approfondire
questa metodologia osservando, in particolar modo, il lavoro “Responsabilità di
tutti... protagonismo dei giovani” (n. 33).
L’educazione alla democrazia come partecipazione passa anche attraverso
l’uso creativo e critico delle nuove tecnologie ed è a questo ambito che alcuni pro-
getti danno rilievo. Si avrà modo, osservando i progetti, di leggere alcune espe-
rienze caratterizzanti e coerenti con questi obiettivi. Sono presenti, infatti, alcuni
progetti di carattere collaborativo che hanno portato e portano le Scuole e i Centri
a confrontarsi con esperienze internazionali attraverso un partenariato multilingue.
In questa dimensione educativa non mancano progetti orientati ad una rifles-
sione sul senso della pace e ad una costruzione attiva di una cultura di pace. In
questi progetti, inoltre, si affrontano antinomie e contrad-
dizioni come giustizia/ingiustizia, pace/guerra, violenza/
nonviolenza che vengono affrontate nell’ottica della rela-
zionalità. Si pone un forte accento sui dati pedagogici di
una cultura della pace fondata imprescindibilmente sul
valore della persona e sul suo ruolo sociale. Strettamente
correlati al tema della pace troviamo ulteriori lavori: “E se
scoppiasse la pace?” (n. 25), “Manifestare la pace” (n. 13),
“Educazione alla pace” (n. 9).
Una caratteristica di questi progetti è quella di approfondire il tema della pace
con estrema profondità facendo emergere percorsi educativi replicabili in diversi
contesti formativi e soprattutto stimolando nuovi e più proficui orientamenti a uno
dei temi più importanti di questa dimensione educativa.
Rientrano in quest’area anche progetti finalizzati ad
una maggiore consapevolezza dei giovani circa i temi
della legalità. “Parole che uniscono e parole che divi-
dono” (n. 14) è uno dei titoli più significativi dei progetti
che si occupano di cultura della legalità. Questi progetti
forniscono alcune opportunità di riflessione e alcuni
strumenti chiave di lavoro per gli educatori. Il tema
della legalità incrocia quello della solidarietà sociale
proponendo, in ogni progetto presentato, un ricco voca-
bolario educativo a disposizione di ogni formatore.
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Intolleranza religiosa e/o culturale e individualismo materialistico rappresen-
tano altri due temi presenti in questa dimensione educativa. “Non di solo rito...
le religioni nei luoghi di socializzazione” (n. 32), ad esempio, è una proposta
che nella sua applicazione mostra modelli di approccio per un lavoro educativo
sulla convivenza delle fedi e dei riti in differenti ambienti sociali. Ci pare, per la
concretezza degli approcci, che questo esempio dia l’idea di come si possano
muovere, su questi temi, le diverse agenzie educative.
Una delle pagine più tragiche del
novecento è poi il terreno di lavoro e
approfondimento proposto in “Roma-
Auschwitz. Mai più” (n. 34). L’espe-
rienza evidenzia come attraverso un per-
corso tematico si siano incoraggiati ra-
gazze e ragazzi ad un lavoro analitico e
critico su un tema così forte, capace, tra
l’altro, di prepararli realisticamente ad
una visita a Auschwitz (campo simbolo di quella tragedia) ma anche di assicurarne
la memoria storica. Una memoria storica, quella presentata, che passa attraverso le
immagini e le parole raccolte nell’esperienza progettuale. Rientra sotto questo capi-
tolo della storia anche “Il progetto della memoria” (n. 27) particolarmente attento
ad analizzare la “resistenza di Roma” nei nove mesi di occupazione tedesca.
Rientra ancora all’interno dello stesso filone tematico “Io ci sono stato. I giorni
della memoria” (n. 29) che, partendo da quelle stesse pagine della storia, si spinge
verso obiettivi quali quelli di seguito presentati:
– diffusione del valore dell’uguaglianza tra tutte le componenti etnico, culturali e
religiose di una società, riconoscendo ad esse pari dignità;
– sensibilizzazione al tema della Memoria storica e del suo rapporto con il
presente;
– sviluppo dello studio della storia inteso come individua-
zione e consapevolezza dei valori umani, civili e morali del-
l’umanità;
– creazione di figure di studenti-formatori sui temi di inte-
ressi.
Un’ulteriore occasione educativa per comprendere questo momento storico è
il lavoro “Berlino città della memoria” (n. 22), un percorso carico di significato e
volto a conseguire i seguenti obiettivi:
– favorire la conoscenza degli aspetti significativi della storia e della cultura
tedesca, con particolare riferimento alla Berlino del ‘900;
– sensibilizzare le ragazze e i ragazzi al valore di una comune cultura europea;
– incrementare lo sviluppo di una conoscenza interculturale basata sugli scambi
culturali tra giovani di paesi europei.
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Nei diversi progetti è facile individuare alcune stra-
tegie educative particolarmente efficaci per quanti sono
impegnati, come educatori e formatori, in attività volte a
far sviluppare competenze e conoscenze profonde sul
tema dell’accoglienza, del rispetto e dell’integrazione
tra popoli di religioni e culture diverse. La scoperta
degli approcci, la diversità dei metodi e alcune soluzioni
didattiche adottate, potranno sostenere una scelta consapevole circa i temi e le ini-
ziative da sperimentare all’interno di contesti educativi diversi da quelli originari.
I progetti di educazione alla convivenza civile portano all’attenzione altre
tematiche di valore pedagogico e formativo come quello sulla pena di morte e il
diritto alla vita. Danno voce a questo tema, ad esempio, il progetto “Caro amico ti
scrivo...” (n.3) il cui obiettivo è costruire una relazione e un contatto epistolare con i
condannati a morte di diversi luoghi del mondo, nonché fornire suggerimenti per la
visione di alcune pellicole cinematografiche a tema e per la lettura critica di alcune
testimonianze. Si tratta di un progetto che vede coinvolte diverse discipline, al fine
di analizzare punti di vista e prospettive diverse su un tema essenziale come questo.
1. TESTIMONI PRIVILEGIATI ASCOLTATI
Attilio BONDONE - CONFAP
Cecilia DALL’OGLIO - FOCSIV
Debora SANGUINATO e Luca CRISTALDI - VIS
Carlo NANNI - UPS
Luciano CORRADINI - UCIIM
2. FONTI WEB UTILIZZATE
http://gold.bdp.it/goldtrain/index.php?id_cnt=Gold Train
Progetto biennale (2004-2006) per il trasferimento delle buone pratiche in scuole
diverse da quelle che le hanno prodotte, promosso dalla Fondazione per la Scuola
della Compagnia di San Paolo, ideato e sviluppato in collaborazione con INDIRE -
Istituto Nazionale di Documentazione per l’Innovazione e la Ricerca Educativa e
Gruppo CLAS
http://gold.indire.it/nazionale/index.php
GOLD, Banca dati Internet delle esperienze più innovative ed interessanti realiz-
zate nelle scuole italiane di ogni ordine e grado
http://scuoleonline.gioventudigitale.net
Elenco delle scuole on line di Roma
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www.annaliistruzione.it
Sito Internet della rivista “Annali dell’Istruzione”
www.aulaintercultural.org
Portale dell’educazione interculturale
www.centroastalli.it
Sperimentazione di un itinerario per studenti delle scuole medie superiori, denomi-
nato “Incontri”, promossa dalla Fondazione Centro Astalli che propone di avvici-
narsi alle cinque religioni monoteistiche attraverso un sussidio didattico e l’in-
contro in classe con un animatore della Fondazione e con un fedele di una delle
grandi religioni del mondo
www.convivenzacivile.it
Sito che raccoglie i frutti del lavoro di un gruppo di ricerca dell’Ufficio Scolastico
Regionale per l’Emilia-Romagna ed è strutturato per raccogliere i contributi prove-
nienti dalle scuole sul tema dell’educazione alla convivenza civile
www.educhiamociallalegalita.it
Progetto triennale di comunicazione ed educazione “Educhiamoci alla Legalità ed
alla Solidarietà” promosso dall’Assessorato alle politiche sociali della Provincia di
Frosinone in collaborazione con l’Assessorato all’istruzione, formazione e diritto
allo studio della Regione Lazio. Finalità ultima del progetto è quella di favorire
l’approfondimento di tematiche educative e sociali per contribuire alla formazione
di una corretta cultura civica
www.fivol.it
Fondazione Italiana per il Volontariato
www.focsiv.it
Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario
www.fondazionescuola.it/attivita/elaborazioneprogetti.asp
Il programma Scuole in Rete del La Fondazione per la Scuola persegue l’obiettivo
di facilitare il trasferimento di e delle relative metodologie, assistendo le scuole
perché possano acquisirle, adattarle e utilizzarle
www.indire.it/intercultura/scaffale/esperienze2.php
Progetto “Scuole multiculturali e multilingue”, promosso nel 2000 dal Ministero
della Pubblica Istruzione in collaborazione con INDIRE con la finalità di costituire
un complesso di ambienti e funzionalità telematici che consenta di documentare,
informare e interagire con l’intero universo dell’educazione interculturale
www.la scuola.it/webapp/servlet/NavigationServlet?pAction=showDetailRivista&
pRivista=1100595122437
Sito della rivista “Nuova Secondaria”
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www.paceediritti.it
Progetto avviato dall’Assemblea legislativa dell’Emilia Romagna in collaborazione
con l’Assessorato politiche sociali, immigrazione, progetto giovani, cooperazione
internazionale ed il Servizio Controllo di Gestione e Sistemi Statistici della Giunta
regionale che ha lo scopo di offrire al mondo associativo ed istituzionale regionale
nuove occasioni di conoscenza, confronto, informazione
www.pubblica.istruzione.it
Ministero della Pubblica Istruzione
www.scuoledipace.it/interno.asp?codiceprogetto=8
Scuole di Pace, Progetto promosso dal Coordinamento Nazionale degli Enti Locali
per la pace e i diritti umani e dalla Tavola della pace. In questa sezione si trovano
tutti i progetti di pace realizzati dalle scuole che hanno aderito al programma “La
mia Scuola per la Pace”
www.volint.it
Volontariato Internazionale per lo Sviluppo
3. MAPPA DEI CONCETTI E DELLE PAROLE CHIAVE
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4. SCHEDE DEI PROGETTI
Come accennato nell’introduzione, attraverso schede di sintesi, presentiamo le
“buone pratiche” suddivise in “progetti strutturati” e “altro”.
4.1. Strutturati
Titolo 1) Accoglienza stranieri
Autore ITIS “Amedeo Avogadro” di Torino
Promotore
Partner
Altri soggetti CTP di zona
Data 2001-02
Destinatari Studenti stranieri che si inseriscono nell’ambiente scolastico
Finalità Accertare il livello delle competenze linguistiche e disciplinari in ingresso,
favorire l’integrazione dello studente straniero all’interno del contesto scola-
stico, promovendo un’educazione interculturale fondata su solidarietà e rispetto
reciproco.
Contenuti Conoscenza della lingua italiana, interculturalità, integrazione
Tempi Anno scolastico
Risorse Tutor senior (un docente che si fa carico della prima accoglienza), tutor di
classe (un docente che segue lo studente nel suo percorso formativo succes-
sivo all’ingresso), tutor junior (uno studente straniero già frequentante della
stessa area linguistica del nuovo), insegnanti di lingua
Finanziamenti per i docenti e i tutor
Metodologia Corso di lingua, interventi individualizzati
Contatto Tel. 011.81.53.611 - E-mail: vicepre@tin.it - Sito: http://www.itisavogadro.it
Titolo 2) Adotta un diritto umano umano
Autore ITIS “A. Einstein” di Roma
Promotore
Partner Altre scuole del territorio e una scuola africana
Altri soggetti Enti territoriali
Data 2004-06
Destinatari Studenti di scuola superiore
Finalità Favorire la riflessione sui diritti umani, in particolare sulla solidarietà, attra-
verso contatti con ragazzi di scuole straniere (nel progetto è stata coinvolta
una scuola del Camerun)
Contenuti Diritti umani, solidarietà
Tempi 2 anni
Risorse Docenti, rete di scuole, famiglie
Posta elettronica, sito, libri, cd, video e altro materiale multimediale, borsa di
studio
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Metodologia Conferenze, manifestazioni benefiche, convegni, realizzazione di un sito,
utilizzo della posta elettronica
Contatto Tel. 06.61.47.920 - E-mail: presidenza@itiseinstein.roma.it
Titolo 3) Caro amico ti scrivo
Autore IPIA “V. Bonifazi” di Civitanova Marche (MC)
Promotore
Partner
Altri soggetti Comunità di Sant’Egidio
Data 2002-03
Destinatari Studenti scuola superiore
Finalità Riflettere sulla pena di morte e più in generale sui diritti umani
Contenuti Diritto alla vita, pena di morte
Tempi 1 anno
Risorse Docenti
Film, testi
Metodologia Contatti epistolari con persone recluse in penitenziari nel braccio della
morte, visione film, studio di Paesi che ricorrono alla pena di morte, letture
sul tema
Contatto Tel. 0733.89.22.08 - E-mail: ipct@cvm.datacenter.it -
Sito: http://www.scuoledipace.it/scuola.asp?codice=35&caso=2
Titolo 4) Diversamente: comunicare è conoscere
Autore IPIA “Filippo Corridoni” di Corridonia (MC)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2005-06
Destinatari Studenti
Finalità Aiutare i ragazzi perché: scoprano l’identità e le differenze proprie di ogni
uomo, di ogni cultura e tradizione religiosa; guardino al pluralismo come
valore indispensabile per la convivenza civile dove colui che è “diverso”
viene riconosciuto come ricchezza e risorsa; difendano le “pari opportunità”
da dare a tutti i popoli
Contenuti Pluralismo, multietnicità, solidarietà, integrazione, volontariato,
Tempi Anno scolastico
Risorse Docenti, esperti, membri di associazioni, volontari
PC, internet, film, cd musicali, videocamera
Metodologia Discussioni guidate, sondaggi, interviste, visione di film, ricerche e approfon-
dimenti. Privilegiato il metodo della peer education
Contatto Tel. 0733.43.44.55 - E-mail: ipsiafc@tin.it -
Sito: http://www.scuoledipace.it/scuola.asp?codice=125&caso=2
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Titolo 5) Educare alla solidarietà - Scoprire il volontariato
Autore IPSSAR di San Benedetto del Tronto (AP)
Promotore
Partner
Altri soggetti Associazioni di volontariato
Data 2004-05
Destinatari Studenti delle classi quarte e quinte
Finalità Favorire l’adesione a forme di associazionismo; far sperimentare il metodo
induttivo; favorire la capacità di ascoltare e confrontarsi con l’opinione altrui;
favorire l’acquisizione di conoscenze sulle associazioni che operano sul terri-
torio; favorire un clima di classe solidale e cooperativo
Contenuti Volontariato
Tempi
Risorse Insegnanti, associazioni
Metodologia Interattiva e partecipativa (giochi di ruolo, audiovisivi, animazioni, ecc.);
stage nelle associazioni di volontariato del territorio; riflessioni guidate
Contatto Tel. 0735.58.70.44
Titolo 6) Educazione al senso civico e legale
Autore IPSSAR di San Benedetto del Tronto (AP)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2004-05
Destinatari Studenti
Finalità Sollecitare la partecipazione alla vita sociale della propria collettività; svilup-
pare adeguato senso di responsabilità; educare a conoscere, capire e rispettare
i compagni del proprio e dell’altro sesso; incentivare l’interiorizzazione dei
valori riconosciuti per tradurli in comportamenti; abituare alla cura e al decoro
della persona come forma di rispetto dovuta a sé e agli altri
Contenuti Educazione al senso civico e legale
Tempi
Risorse Docenti, esperti
Audiovisivi, articoli, statuto disciplinare dello studente, regolamento della
scuola
Metodologia Lettura e analisi di articoli e regolamenti, consultazione di materiali audio-
visivi, incontri con esperti (avvocati, operatori dei tribunali, psicologi)
Contatto Tel. 0735.58.70.44
Titolo 7) Educazione alla cittadinanza
Autore Ufficio Scolastico Regionale Emilia Romagna
Promotore
21
Partner
Altri soggetti Scuole
Data
Destinatari Studenti
Finalità Sollecitare una riflessione critica sul problema delle regole e della insoffe-
renza adolescenziale per esse e l’acquisizione consapevole e critica di alcune
regole personali e di gruppo
Contenuti Importanza delle regole della convivenza civile
Tempi
Risorse Docenti
Metodologia Riflessioni guidate, interdisciplinarità
Contatto Sito: www.convivenzacivile.it/categorie04.asp?id=25
Titolo 8) Educazione alla cittadinanza. Progetto provinciale
Autore Liceo Classico - Scientifico “Gandini-Verri” di Lodi
Promotore
Partner Liceo Scientifico “Novello”, ITIS “Volta”, IPSSCT “Einaudi”, IIS “Cesaris”,
IC “Cazzulani”, IC “Gavazzano”, IC “Mulazzano”, IC “Zelo Buon Pers.”
Altri soggetti
Data 2005
Destinatari Docenti
Finalità Istituire una rete provinciale di scuole che si impegni, in collaborazione con
le istituzioni e le agenzie del territorio, nel: ricercare una comune analisi per
la conoscenza, l’approfondimento e la gestione dei diritti umani previsti dalle
carte internazionali; sviluppare un concetto condiviso di comunità per la dif-
fusione della cultura della cittadinanza; costruire un curricolo sui nuclei fon-
danti dell’educazione alla cittadinanza (metodo, organizzazione e didattica);
costruire un curricolo verticale sulla pluralità della cittadinanza; declinare
momenti di formazione che sviluppino questi aspetti; creare le condizioni per
intraprendere iniziative di partecipazione; favorire la partecipazione attiva di
studenti e genitori alla vita delle istituzioni
Contenuti Diritti e doveri della convivenza civile
Tempi
Risorse Un responsabile di progetto, advisor, formatori, esperti, direttore di corso
Piattaforma INDIRE
Metodologia Conferenze, ricerca-azione
Contatto Sito: www.liceogandini.it
Titolo 9) Educazione alla pace
Autore Istituto Tecnico Nautico/Aeronautico “Elia” - Istituto Professionale di Stato
per l’Industria “C. Onesti” - Ancona
Promotore
Partner Centro Servizi Volontariato di Ancona - ITC “Benincasa” di Ancona
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Altri soggetti
Data 2004-05
Destinatari Studenti delle scuole superiori
Finalità Aiutare gli allievi a riflettere sui concetti di pace, responsabilità, solidarietà,
legalità internazionale e guidarli alla scoperta delle proprie attitudini
Contenuti Educazione alla cittadinanza attiva
Tempi 5 anni
Risorse Docenti, psicologi, esperti, Polizia Municipale
Metodologia Il progetto si articola in una serie di sotto-progetti che implicano molteplici
attività da svolgere nel quinquennio: orientamento, patentino, quotidiano in
classe, simulazioni, ecc.
Contatto Tel. 071.203.444/.537 - E-mail: int.elia@interbusiness.it
Sito: http://www.scuoledipace.it/scuola.asp?codice=192&caso=2
Titolo 10) Educhiamoci alla legalità e alla solidarietà
Autore Provincia di Frosinone
Promotore Assessorato alle politiche sociali della provincia di Frosinone in collabora-
zione con l’Assessorato alla istruzione, formazione e diritto allo studio della
regione Lazio
Partner
Altri soggetti Scuole del territorio
Data
Destinatari Ragazzi delle scuole elementari, medie e superiori
Finalità Educare le giovani generazioni al rispetto dei diritti umani
Contenuti Diritti umani
Tempi Tre anni
Risorse Docenti
Cartelloni, pennarelli, cartoncini
Metodologia Giochi, questionari, confronti assembleari
Contatto Sito: http://www.educhiamociallalegalità.it/home.html
Titolo 11) I.M.I.G - Identità - Multiculturalità - Interdipendenza - Globalizzazione
Autore Istituto Professionale di Stato per i Servizi Sociali, Commerciali e Turistici
“P. Giordani” di Parma
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2000-01
Destinatari Allievi dal I al V superiore
Finalità Favorire la presa di coscienza e la responsabilizzazione nei riguardi di pregiu-
dizi, stereotipi, atteggiamenti etnocentrici; far conoscere le dinamiche dei mo-
vimenti migratori internazionali; far conoscere i principali aspetti geografici e
socio-culturali del territorio in cui si vive, del continente europeo e del mondo
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Contenuti Pregiudizi e stereotipi, caratteristiche fisiche, politiche e socioculturali del-
l’Europa, globalizzazione, ecologia
Tempi 16-18 ore
Risorse Coordinatore, docenti, collaboratori ATA; Euro 500
Metodologia Lezioni interattive
Contatto Sito: www.ipsgiordani.it
Titolo 12) L’Europa per noi europei, l’Europa per gli altri
Autore Liceo Scientifico “A. Antonelli” di Novara
Promotore
Partner
Altri soggetti Compagnia di San Paolo (finanziatore € 15.000)
Data 2003-04
Destinatari Studenti
Finalità Aumentare negli studenti la conoscenza del processo di integrazione europea
in atto nel nostro paese, e favorire la riflessione sul significato concreto del-
l’Unione Europea
Contenuti Integrazione
Tempi 20 ore
Risorse Docenti, personale ATA e amministrativo, relatori esterni
Testi scolastici sulle tematiche affrontate (molti dei quali appositamente
acquistati), computer con connessione internet, aule, biblioteca, palestra (per
la realizzazione delle conferenze)
Metodologia Lezioni frontali, conferenze, interviste, lavoro di gruppo, ricerche bibliogra-
fiche
Contatto Tel. 0321.46.54.80 - 0321.45.83.81
Titolo 13) Manifestare la Pace
Autore ITC “D. Bramante” di Pesaro (PU)
Promotore
Partner
Altri soggetti Regione Marche, Provincia PU, Bottega del mondo, Associazione KEITA,
Scuola media del territorio, Biblioteca del territorio
Data 2003-04
Destinatari Studenti
Finalità Far conoscere l’educazione alla pace e ai diritti umani che è l’educazione
civica del futuro e che crea le basi per la formazione di cittadini responsabili,
consapevoli dei propri diritti e doveri; educare gli alunni all’intercultura e alla
convivenza; favorire la solidarietà e la maturazione del senso di responsabilità
personale
Contenuti Pace, intercultura, diritti umani, convivenza civile
Tempi
Risorse Docenti
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Metodologia Produzione di eventi che sensibilizzano sulla pace, lavoro in rete con altre
scuole, commento di poesie sulla pace, educazione reciproca tra allievi di
diversi livelli di scolarità
Contatto Tel. 0721.45.45.38/.42 - E-mail: itc.bramante@provincia.ps.it
Titolo 14) Parole che uniscono, parole che dividono. Progetto di educazione alla
legalità
Autore IPSIA “Europa”di Roma
Promotore Comune di Roma, Assessorato alla Sicurezza
Partner
Altri soggetti
Data 2003
Destinatari Allievi istituto superiore
Finalità Dare luogo all’elaborazione di un dizionario di circa trenta parole-chiave
utilizzate nel linguaggio comune e tali da far riflettere e sensibilizzare su
fenomeni come quelli del razzismo, dell’emarginazione, della discriminazione
Contenuti Educazione alla legalità, al rispetto
Tempi 3 mesi
Risorse Docenti
PC, Internet, Dizionari
Metodologia Lavori di gruppo, ricerche, riflessioni guidate
Contatto Sito: www.ipsiaeuropa.roma.it
Titolo 15) Prevenire i conflitti interculturali educando alla solidarietà
Autore IPSSAR San Benedetto del Tronto
Promotore
Partner
Altri soggetti GRIS (Gruppo Ricerca Informazione Socioreligiosa)
Data 2004-05
Destinatari Studenti IV e V superiore
Finalità Ricercare una comune analisi antropologica e culturale per la conoscenza, l’ap-
profondimento e la gestione dei diritti umani previste dalle Carte internazionali;
creare le condizioni operative per iniziative e forme di partecipazione dove gli stu-
denti siano protagonisti di modelli di cittadinanza, di solidarietà agita, contestua-
lizzata in azioni concrete sul tessuto sociale (territoriale, nazionale, internazionale);
favorire l’acquisizione del concetto di comunità (scolastica, familiare, sociale,
nazionale e di appartenenza) per la diffusione della cultura della cittadinanza
Contenuti Educazione alla cittadinanza attiva
Tempi
Risorse Docenti e personale ATA
Proiettore, computer portatile, telecamera, macchina fotografica, questionario
Metodologia Ricerche, sondaggi, questionari, convegno, esperienze di solidarietà agita
Contatto Tel. 0735.58.70.44
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Titolo 16) Studenti e docenti in formazione. Percorsi di formazione per attivare
politiche di partecipazione
Autore Angela M. Pazzi del Liceo delle Scienze Sociali e Liceo socio-psico-pedago-
gico “Fazzini Mercantini” - Grottammare (AP)
Promotore
Partner Società cooperativa ONLUS Nuova Ricerca, Agenzia RES
Altri soggetti Assessorato alla PI della Provincia di AP
Data 2004-06
Destinatari Studenti
Finalità Incrementare la conoscenza, sia nella scuola, che nel territorio di riferimento,
sul tema della partecipazione giovanile e della integrazione degli stranieri; fa-
vorire i contatti tra scuola e soggetti territoriali che operano sui temi dei diritti
sociali; sensibilizzare e formare gruppi di studenti a pratiche di solidarietà
agita; raccogliere ed elaborare strumenti didattici innovativi
Contenuti Dialogo, integrazione
Tempi
Risorse Docenti, esperti
Metodologia Azioni di peer education, ricerca-azione, lavoro di comunità, incontri con
esperti
Contatto Tel. 0735.92.24 - E-mail: angelapazzi@yahoo.it
Titolo 17) Tempo dell’educazione alla cooperazione
Autore Istituto Superiore Elio Vittorini - Grugliasco (Torino) Italia, Lyceè Tecnique
Rabat - Marocco
Promotore
Partner Istituto Superiore Elio Vittorini - Grugliasco (Torino) Italia, Lyceè Tecnique
Rabat - Marocco
Altri soggetti
Data Dicembre 2002
Destinatari Docenti ed allievi/e di quattro scuole di istruzione superiore operanti in quattro
aree caratterizzate da specifici elementi socio-economici, religiosi, di tradi-
zione culturale: nordovest italiano (cultura cristiana), bacino del Mediterraneo
(cultura islamica), estremo oriente (cultura buddista), centro e/o sud America
(cultura dei “nativi”); scuole con tradizione di lavoro e di ricerca all’educa-
zione della persona; scuole con esperienza di “azioni” in contesti multiculturali
e multilinguistici
Finalità Aiutare i giovani a individuare e contrastare le radici della violenza nella pro-
pria vita incoraggiandoli a rispettare se stessi, la vita in genere e ad ispirare
speranza negli altri; educare alla democrazia ed alla partecipazione; garantire
una collaborazione tra istituti scolastici in ambito internazionale e multicultu-
rale; creare un partenariato multilinguistico in rete tra scuole di diversa ma-
trice culturale e religiosa dei Paesi di Asia, Africa, America latina, del Nord e
del Sud del mondo; instaurare una collaborazione in rete tra scuole di diverso
orientamento disciplinare; determinare lo sviluppo di nuove tecnologie del-
l’informazione e della comunicazione
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Contenuti Concetto di democrazia, pari opportunità, cooperazione
Tempi
Risorse Docenti, tutor, formatori
Internet
Metodologia Unità di lavoro basata su brainstorming e riflessioni di gruppo; scambi con
altre culture sulle stesse tematiche. Tra le metodologie adottate e interessanti
per l’educazione alla convivenza civile vi è quella della RDV (Revisione di
vita) di Cardijn basata su tre passaggi fondamentali: vedere-valutare e agire.
Contatto Sito: http://www.indire.it/intercultura/marocco_wave/index.htm
Titolo 18) Viaggio alla scoperta del Governo del mondo tra Istituzioni e cittadi-
nanza attiva
Autore FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario)
Promotore FOCSIV
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari Studenti delle Scuole medie inferiori e superiori. La proposta può essere strut-
turata per studenti di diverso ordine e grado adattando metodologie e conte-
nuti ai destinatari specifici
Finalità Rendere i giovani destinatari del progetto più consapevoli dei loro diritti-
doveri di cittadinanza mondiale; facilitare l’esercizio di pratiche di cittadi-
nanza attiva e di impegno civile; diffondere sensibilità sulla cooperazione
internazionale; favorire l’acquisizione di consapevolezza e senso critico sulle
problematiche globali, il ruolo e le responsabilità dei governi, le possibilità di
impegno dei singoli e della società civile; informare sulle concrete possibilità
di sostenere progetti nel sud del mondo
Contenuto Solidarietà internazionale
Tempi È previsto un ciclo di 3 lezioni tematiche, della durata di 3h ciascuna
Risorse Volontari del FOCSIV
Metodologia Situazioni frontali, momenti interattivi, utilizzo di strumenti audiovisivi e
testimonianze
Contatto Tel. 06.87.77.96 - 06.68.77.867 - E-mail: educazione@focsiv.it -
Sito: www.focsiv.it
Titolo 19) Vivere l’amicizia
Autore Ufficio Scolastico Regionale Emilia Romagna
Promotore Ufficio Scolastico Regionale Emilia Romagna
Partner
Altri soggetti
Data 2005-06
Destinatari Allievi
Finalità Condurre i ragazzi, utilizzando alcuni veicoli comunicativi capaci di influire
sull’immaginario giovanile (canzoni, arti letterarie, TV), lungo un percorso
27
che partendo da un’esplorazione consapevole della rappresentazione del-
l’amicizia che emerge dal loro vissuto, si allarghi ad un’analisi dei modelli
proposti dalla cultura in cui viviamo e li confronti con delle testimonianze
culturali che potranno essere offerte grazie a percorsi disciplinari e inter-
disciplinari
Contenuti Concetto di amicizia
Tempi
Risorse Insegnante
Stereo, cd musicali
Contatto Sito: www.convivenzacivile.it -
Sito: http://www.convivenzacivile.it/categorie04.asp?id=75
Metodologia Riflessioni personali e in gruppo guidate dal docente sul tema dato (amicizia)
Titolo 20) Volontariato ed educazione alla solidarietà
Autore FIVOL (Fondazione Italiana per il Volontariato)
Promotore FIVOL
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari Educatori, insegnanti, allievi
Finalità Incentivare i ragazzi alla riflessione non solo teorica sui riferimenti e sulle
caratteristiche sociali ed etiche della solidarietà e sperimentare delle modalità
comunicative basate sulla cooperazione e sul confronto
Contenuti Concetto di solidarietà, gestione dei rapporti giovane-adulto e tra pari
Tempi Complessivamente il lavoro può essere svolto in quattro/sei ore di attività
Risorse Insegnante
Dispense e dei cartelloni (oppure una lavagna luminosa, in modo da poter
trascrivere i lavori dei sottogruppi su dei lucidi da proiettare a tutta la classe)
Metodologia Percorsi didattici guidati (training)
Contatto Sito: www.fivol.it
4.2. Altri
Titolo 21) Abbiamo riso per una cosa seria
Autore FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario)
Promotore RAI Segretariato Sociale, Regione Lazio, Provincia di Roma, Comune di
Roma, Banca Popolare Etica
Partner
Altri soggetti Altre ONG e Organismi associati
Data 2007
Destinatari
Finalità Raccolta fondi attraverso la vendita di riso
Contenuti Solidarietà
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Tempi 2 giorni
Risorse Volontari
Stand nel territorio nazionale
Metodologia Allestimento banchi di vendita
Contatto Tel. 06.87.77.96 - 06.68.77.867 - E-mail: educazione@foscsiv.it -
Sito: www.focsiv.it
Titolo 22) Berlino città della memoria e della cultura europea
Autore Istituto Professionale “Sisto V” di Roma
Promotore
Partner
Altri soggetti Ambasciata, Associazione COMITES, Scuola di Berlino
Data 2005
Destinatari Studenti di scuola superiore
Finalità Favorire la conoscenza di aspetti significativi della storia e della cultura
tedesca, con particolare riferimento alla Berlino del ‘900; sensibilizzare al
valore di una comune cultura europea; sviluppare scambi culturali tra giovani
di Paesi europei
Contenuti Storia e cultura tedesca del ‘900
Tempi 5 giorni
Risorse Docenti
Metodologia Viaggio, seminario
Contatto Tel. 06.87.13.62.83 - E-mail: preside@sistoquinto.it-
Sito: www.sistoquinto.it
Titolo 23) Cinque passi per un mondo più giusto
Autore FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario)
Promotore FOCSIV, Uffici della CEI, Agenzie delle Nazioni Unite, Programma Alimen-
tare Mondiale (WFP), Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati
(UNHCR), Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), Coopération
Internationale pour le Développement et la Solidarité (CIDSE)
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari Educatori, insegnanti, ragazzi
Finalità Comprendere le cause dell’ingiustizia sociale e riflettere sul concreto impegno
per la lotta alla povertà
Contenuti Giustizia sociale
Tempi
Risorse Kit multimediale (schede, CD, videocassette, videogiochi)
Metodologia 5 percorsi tematici realizzati attraverso un kit didattico multimediale
Contatto Tel. 06.87.77.96 - 06.68.77.867 - E-mail: educazione@foscsiv.it -
Sito: www.focsiv.it
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Titolo 24) Cultura dell’incontro
Autore IPSCT “Battisti” di Trento
Promotore
Partner
Altri soggetti Scuola in Bosnia
Data 2005
Destinatari Studenti di scuola superiore
Finalità Favorire una visione meno stereotipata delle realtà, la capacità di andare oltre
il proprio punto di vista, e una logica di “accoglienza”
Contenuti Intercultura
Tempi 1 settimana
Risorse Formatori, esperti esterni, docenti interni
Supporti logistici e risorse economiche per realizzare il viaggio
Metodologia Interscambio esperienziale con una scuola in Bosnia
Contatto Tel. 0461.91.44.99 - E-mail: ipscttn@tin.it -
Sito: http://www.archivio.vivoscuola.it/didascalieinforma/scuole/ipsctliviabat-
tisti_0106asp
Titolo 25) E se scoppiasse la pace?
Autore Comunità obiettori di coscienza (Salesiani di Torino)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari Adolescenti e preadolescenti
Finalità Riflettere sulla pace e tematiche con questa collegate
Contenuti Non violenza, pace
Tempi
Risorse Educatori
Cineforum
Metodologia Spunti di riflessione (brani letterari, ascolto di musica, giochi di simulazione,
concorsi, cineforum, ecc.)
Contatto Sito: www.pastorale.valdocco.it/SCS/servizio_civile/storia.htm
Titolo 26) Educazione interculturale
Autore Luca Cristaldi (VIS)
Promotore VIS – Volontariato Internazionale per lo Sviluppo
Partner
Altri soggetti Archivio dell’Immigrazione
Data Luglio 2001 (una settimana) – Luglio 2002 (una settimana)
Destinatari Insegnanti e formatori
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Finalità Fornire un quadro generale sullo squilibrio Nord-Sud del mondo; illustrare il
concetto e il significato dell’interculturalità; educare all’accoglienza; educare
all’ascolto; riflettere sul concetto individuale e culturale di identità; riflettere
sul “diverso”; illustrare il ruolo del “Mediatore Culturale”; promuovere l’ita-
liano come seconda lingua con lezioni introduttive; produrre un dossier sul-
l’intercultura
Contenuti Intercultura, lingua italiana, distribuzione delle risorse
Tempi 36 ore di laboratorio
Risorse Tutor: modera, riannoda i fili di tutti gli interventi, cura la logistica (presente
tutta la settimana); Esperto di mondialità: fornisce un quadro generale sulla
mondialità e sui rapporti Nord-Sud del mondo (4 ore); Formatore: presiede
il laboratorio esperienziale sulle competenze relazionali e comunicative del-
l’educazione interculturale (12 ore); Insegnante con esperienza didattica: intro-
duce il tema dell’educazione interculturale; cos’è e quali prospettive ha (2 ore);
Esperto in cooperazione: illustra la cooperazione allo sviluppo e le attività del
VIS (2 ore); Mediatore Culturale: illustra chi è, il suo ruolo, l’importanza della
mediazione culturale (3 ore); Insegnante di italiano L2: fornisce gli elementi
introduttivi di italiano come seconda lingua (3 ore); Esperto in comunicazione:
gestisce una sessione dedicata agli stereotipi e ai pregiudizi sul diverso, attra-
verso l’utilizzo di pubblicità, spot, filmati, materiale multimediale (4 ore)
Metodologia La metodologia utilizzata è quella del laboratorio esperienziale. Esso è basato
sul gioco e sull’impiego di tecniche interattive, e offre molte più occasioni di
una lezione frontale per lavorare con gli studenti sulla dinamica di gruppo.
Dal punto di vista del metodo, un laboratorio non è un corso tematico, né un
seminario di approfondimento. Il tratto saliente che lo caratterizza è l’impiego
di tecniche, di giochi e di esercizi che consentano ai partecipanti di calarsi
fino in fondo nelle situazioni che vogliono esaminare; di immedesimarsi nei
conflitti presi in considerazione; di “mettere in gioco” le proprie esperienze
personali e la propria emotività; e di creare le condizioni per imparare dalle
interazioni e dagli eventi della dinamica di gruppo. Naturalmente, cercare le
risposte ai bisogni formativi degli studenti operando in mezzo a loro è un
lavoro duro, impegnativo, coinvolgente, spesso faticoso, a volte persino dolo-
roso. È un lavoro che si può affrontare solo correndo fino in fondo il rischio
dell’incontro, della relazione e del confronto; solo vivendo con pienezza le
dimensioni dell’attesa, dell’ansia e dell’ascolto, di sé stessi e degli altri. È un
impegno che si può sostenere solo se si è disposti a mettere in crisi le proprie
certezze, accettando senza riserve mentali di rivisitare e di rimettere in discus-
sione la propria storia personale, cioè la propria identità.
Contatto E-mail: l.cristaldi@volint.it
Titolo 27) Il progetto della Memoria
Autore IPSIA “Europa”di Roma
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2005
Destinatari Studenti
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Finalità Educazione alla pace, alla legalità, alla tolleranza e, soprattutto, far compren-
dere che la diversità è un valore non un pericolo
Contenuti Roma occupata
Tempi
Risorse
Metodologia Visite mostre fotografiche, visite Fosse Ardeatine, visione film, contatti con
l’ANPI
Contatto Sito: www.ipsiaeuropa.roma.it
Titolo 28) Incontri. Percorso a schede sul dialogo interreligioso
Autore Fondazione Centro Astalli - ONLUS
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2005
Destinatari Giovani e adulti
Finalità Conoscere i contenuti, la fede, le feste, i comportamenti, i testi, le persone
delle 5 religioni principali
Contenuti 5 religioni principali
Tempi
Risorse Docenti, esperti e testimoni delle dottrine religiose
Sussidi didattici
Metodologia Percorso a schede che può essere utilizzato in auto formazione o in ambito di-
dattico
Contatto Tel. 06.69.92.50.99 - Sito: wwwjrs.net
Titolo 29) Io ci sono stato” I giorni della memoria
Autore Istituto professionale “Sisto V” di Roma
Promotore Istituto professionale “Sisto V” di Roma
Partner
Altri soggetti Istituzioni scolastiche del territorio, ANED, Associazione Amici di Yad
Vashem, Associazione One By One, Centro di Cultura Ebraica di Roma, Pro-
vincia di Roma, Biblioteca Comune di Roma, IV Municipio, Associazione
Italiana Ostelli della Gioventù
Data 2004
Destinatari Studenti di Istituti superiori
Finalità Diffondere il valore dell’uguaglianza tra tutte le componenti – etnico, culturali
e religiose – di una società, riconoscendo ad esse pari dignità; sensibilizzare
al tema della memoria storica e del suo rapporto con il presente; sviluppare
lo studio della storia inteso come individuazione e consapevolezza dei valori
umani, civili e morali dell’umanità; creare figure di studenti-formatori sui
temi di interesse
Contenuti Storia del campo di concentramento Mauthausen
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Tempi 30 ore di formazione; 6 giorni seminario itinerante; 1-2 giorni visita al campo
di concentramento
Risorse Docenti, testimoni
Finanziamenti per il viaggio
Metodologia Visite, incontri con testimoni, seminari di formazione, partecipazione a mani-
festazioni locali
Contatto Sito: www.sistoquinto.it
Titolo 30) L’Islam in occidente
Autore ITIS “Armellini” di Roma
Promotore Comune di Roma, Assessorato alle Politiche educative, formative e giovanili -
Dipartimento XI politiche educative formative
Partner
Altri soggetti Comunità islamica, associazioni di immigrati
Data 2000-01
Destinatari Studenti di Istituti superiori
Finalità Acquisire una metodologia appropriata per quanto riguarda la corretta esplora-
zione del fenomeno religioso, in specie dell’Islam (con particolare attenzione
all’uso corretto delle Fonti, sia per determinarne gli aspetti quantitativi e le mol-
teplici articolazioni, sia per smascherarne le più superficiali generalizzazioni)
Contenuti Religione islamica
Tempi Febbraio-Settembre
Risorse Testi, internet, video cassette, contatto con le fonti
Metodologia Visite, ricerche, riflessioni scritte, produzione di materiali scritti, audiovisivi e
sito web
Contatto Sito: www.itisarmellini.it
Titolo 31) Multilingue e Multiculture
Autore IPSIA “Galileo Galilei” di Frosinone
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2000-01
Destinatari Studenti
Finalità Educare all’interculturalità; promuovere il rispetto per le lingue e delle cul-
ture; favorire il riconoscimento della propria identità culturale attraverso
un’esperienza multipla dell’alterità
Contenuti Educazione all’interculturalità
Tempi 3 giorni
Risorse Docenti, mediatore linguistico
Cd, videocassette, guide multilingue, riviste
Metodologia Lezioni frontali su tematiche attinenti l’intercultura, con il supporto dell’interprete
Contatto Tel. 0775.87.01.19 - E-mail: ipia@galileo.fr.it - Sito: www.galileo.fr.it
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Titolo 32) Non di solo rito... Le religioni nei luoghi di socializzazione
Autore ITIS “Armellini” di Roma
Promotore
Partner
Altri soggetti Comunità Valdese, Comunità Ebraica, Comunità Musulmana, Comunità Bud-
dista
Data Anno scolastico 2004-05
Destinatari Allievi istituto superiore
Finalità Favorire la conoscenza dei luoghi dove gli uomini e le donne dei diversi
gruppi religiosi presenti nel territorio si incontrano, si parlano e interagiscono
nelle forme più varie
Contenuti Dialogo interreligioso
Tempi
Risorse Materiale bibliografico, sussidi multimediali
Metodologia Visite, riflessioni scritte
Contatto Sito: www.itisarmellini.it
Titolo 33) Responsabilità di tutti... protagonismo dei giovani
Autore GIOC (Gioventù Operaia Cristiana)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data Ottobre 2006
Destinatari Allievi delle medie
Finalità Contribuire alla formazione di giovani che nella vita adulta sappiano impe-
gnarsi nei propri ambienti di vita consapevoli che l’esperienza vissuta in età
giovanile non è del tutto persa, ma rielaborata e rivista con i ritmi e le respon-
sabilità della vita adulta
Contenuti Riflessioni sulla propria vita attraverso la metodologia della RDV (Revisione
di vita) di Cardijn basata su tre passaggi fondamentali: vedere-valutare e agire
Tempi Fine settimana
Risorse Responsabile del gruppo
Dispense, registratore, pile, cassette, piantina della città, macchina fotogra-
fica, colla, forbici, immagini, block notes
Metodologia Residenziale, RDV
Contatto Sito: http://www.gioc.org/articolo.asp?idart=615
Titolo 34) Roma – Auschiwitz. Mai più
Autore ITIS “A. Einstein”
Promotore
Partner
Altri soggetti
34
Data Ottobre 2003
Destinatari Studenti di Istituti superiore
Finalità Fornire un’esperienza per testimoniare la volontà di “non dimenticare”, con il
convincimento che la memoria può aiutarci a costruire un mondo migliore e
perché ciò che è accaduto non si ripeta “mai più”
Contenuti Storia del campo di concentramento di Auschiwitz
Tempi 3 giorni
Risorse Supporti logistici ed economici per realizzare il viaggio
Metodologia Visite, riflessioni scritte
Contatto Sito: www.itis-einstein.roma.it
35
Capitolo 2
Educazione professionale:
esperienze, riflessioni e suggerimenti operativi
Terreno di lavoro di questa
dimensione educativa (educazione
professionale) sono le iniziative, le
esperienze e i progetti che condi-
vidono obiettivi di integrazione e avvicinamento tra
situazione educativa classica e mondo del lavoro.
Finalità principali dei progetti individuati sono:
– avvicinare il più possibile i giovani nella for-
mazione professionale e nella scuola alla realtà
lavorativa in cui si troveranno coinvolti dopo il percorso educativo;
– coinvolgere gli allievi in una conoscenza diretta, ma criticamente mediata,
della cultura e della realtà economica che circonda il loro contesto educativo;
– orientare un percorso formativo alla responsabilità e a un’etica del lavoro
partendo dal vissuto sociale e produttivo del proprio territorio.
Si tratta, dunque, di finalità che vedono in prima
istanza la volontà di stabilire una relazione efficace
tra conoscenze teoriche e scolastiche e dimensioni
professionali e operative proprie del mondo del
lavoro.
La promozione di una cultura del mondo del
lavoro a partire dalla scuola è l’obiettivo comune dei
progetti presenti in questa dimensione.
“Laboratorio dell’integrazione tra scuola e mondo del lavoro” (n. 3) è un pro-
getto orientato alla promozione di una cultura professionale capace di partire dal
processo di insegnamento-apprendimento per poi focalizzarsi all’interno del mondo
del lavoro, come terreno su cui osservare l’efficacia dei fondamenti teorico-pratici
appresi. In questo progetto forte è l’attenzione alla cultura d’impresa quale nodo
principale per la diffusione di un sapere non avulso dal contesto lavorativo reale.
L’obiettivo finale è favorire un sviluppo formativo dei ragazzi più integrato al
tessuto lavorativo e costruire una scuola o un Centro di formazione che diventi
cerniera con il mercato del lavoro.
36
L’attività formativa d’au-
la realizzata è proposta nel
progetto “Tutto il resto” (n. 5)
che suggerisce l’uso di un
approccio ludico per arrivare
a sondare, nelle classi, alcuni
punti di vista dei giovani sul
mondo del lavoro. Vengono
suggerite alcune metodologie,
come il quiz o le storie-
esempio, per avvicinare i par-
tecipanti ad una riflessione condivisa sulla profes-
sionalità e il lavoro.
L’esperienza di “Scuola al gusto di yogurt”
(n. 12) è una traccia educativa che ha come obiettivo una riflessione teorica e
un’osservazione pratica circa alcuni fattori chiave con cui l’imprenditore/agri-
coltore, si trova a lavorare: costi produttivi, prodotto di qualità, mercato.
In apertura di questa dimensione troviamo invece il progetto “Alternanza
scuola lavoro” (n. 1) i cui obiettivi, come suggerito dai realizzatori, è quello di
portare i ragazzi a:
– prendere coscienza delle proprie capacità e dei propri limiti;
– collaborare con i lavoratori ed adattarsi al nuovo ambiente, ai nuovi orari ed
ai tempi di lavoro;
– scoprire l’importanza delle linee generali di comportamento che la scuola
ha fornito ed accettarle con maggiore motivazione;
– operare scelte sulle opportunità di studio e di lavoro future con maggiore con-
sapevolezza.
Il progetto può divenire un’opportunità metodologica per avviare attività
programmatiche volte ad un’alternanza reale tra mondo scuola e mondo lavoro.
Altra esperienza proposta è “Evangelizzazione nella FP” (n. 7) che mira a valo-
rizzare l’impegno di promozione verso una responsabilità sociale a partire da un
concetto di scuola integrata con il mondo del lavoro.
Con il progetto “Laboratorio d’impresa” (n. 2) s’intende costruire una opportu-
nità reale di una cultura d’impresa presso i giovani secondo i seguenti obiettivi
educativi:
– favorire lo sviluppo di competenze progettuali (attraverso un processo volto a
fronteggiare e assolvere un compito complesso, verificabile e finalizzato);
– facilitare l’acquisizione delle conoscenze disciplinari attraverso la loro applica-
zione.
37
“Il tempo della vita e il tempo del lavoro”
(n. 10) è il titolo della proposta con cui si
riflette, a partire dalla riconsiderazione critica
del tempo libero e del tempo del lavoro, sulla
condizione del giovane e sul suo rapporto con il
proprio tempo quotidiano. Spunti riflessivi e
domande sul significato profondo del lavoro ac-
compagnano l’iter didattico di questo progetto
che ha come obiettivo ultimo, utilizzando anche
alcuni passi biblici, quello di portare i giovani
ad un rinnovato senso di attenzione ai tempi
della vita. Su questa traccia s’inserisce anche la
traccia di riflessione “Il lavoro” (n. 9) che rin-
forza le tematiche appena indicate e propone
obiettivi educativi volti a lavorare con i ragazzi
affinché possano imparare a:
– considerare la dimensione del lavoro come parte importante della vita;
– scoprire cosa si può fare per rendere il lavoro sempre più umano;
– estendere lo sguardo alla dimensione collettiva del lavoro e gli sforzi dei lavo-
ratori per migliorare la propria situazione.
Su questa linea tematica si affacciano anche gli altri progetti presentati sotto la
dimensione professionale dell’educazione della persona. Non mancano, tra le espe-
rienze, spunti per la revisione critica e l’analisi della realtà della disoccupazione,
nonché una ricerca per meglio comprendere il valore della responsabilità sociale.
1. TESTIMONI PRIVILEGIATI ASCOLTATI
Giacomo GARBERO E Marta QUADRELLI - GIOC
Paolo TARCHI E Pietro SCALZO - CEI
Attilio BONDONE - CONFAP
Sandro DAL PIANO - ENAIP VENETO
2. FONTI WEB UTILIZZATE
http://gold.bdp.it/goldtrain/index.php?id_cnt
Progetto biennale (2004-2006) per il trasferimento delle buone pratiche in scuole
diverse da quelle che le hanno prodotte, promosso dalla Fondazione per la Scuola
della Compagnia di San Paolo, ideato e sviluppato in collaborazione con INDIRE -
Istituto Nazionale di Documentazione per l’Innovazione e la Ricerca Educativa e
Gruppo CLAS
38
http://gold.indire.it/nazionale/index.php
Gold, Banca dati Internet delle esperienze più innovative ed interessanti realizzate
nelle scuole italiane di ogni ordine e grado
http://scuoleonline.gioventudigitale.net
Elenco delle scuole on line di Roma
www.acli.it
Portale delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani
www.fondazionescuola.it/attivita/elaborazioneprogetti.asp
Il programma Scuole in Rete del La Fondazione per la Scuola persegue l’obiettivo
di facilitare il trasferimento di e delle relative metodologie, assistendo le scuole
perché possano acquisirle, adattarle e utilizzarle
www.gioc.org
Sito di Gioventù cristiana operaia
3. MAPPA DEI CONCETTI E DELLE PAROLE CHIAVE
39
4. SCHEDE DEI PROGETTI
Come accennato nell’introduzione, attraverso schede di sintesi, presentiamo le
“buone pratiche” suddivise in “progetti strutturati” e “altro”.
4.1. Strutturati
Titolo 1) Alternanza scuola-lavoro
Autore Istituto Tecnico “Calamandrei” di Sesto Fiorentino
Promotore
Partner
Altri soggetti Aziende, ditte, enti, studi tecnici
Data 2002-03
Destinatari Studenti
Finalità Avvicinare gli studenti alla cultura e alla realtà economico-sociale nella quale
dovranno inserirsi. Incrementare la consapevolezza nell’operare scelte sulle
opportunità di studio e di lavoro futuro
Contenuti Realtà produttive
Tempi 4 settimane
Risorse Docente, aziende
Metodologia Alternanza
Contatto Tel. 055.44.90.703 - Sito: www.itcgcalamandrei.it
Titolo 2) Laboratorio d’impresa “White Eagles – Edizioni musicali S.p.A.”.
Costruzione e gestione di un’impresa in ambiente protetto
Autore Ist.Tec.Commerciale Statale e Liceo Economico Aziendale “Q.Sella” di Torino
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2001-02
Destinatari Studenti
Finalità Favorire l’acquisizione di specifiche competenze tecnico-professionali nella
gestione di impresa, simulando la costituzione di un’azienda nel campo musi-
cale. Più in generale, si intende favorire negli studenti una capacità progettuale
Contenuti Gestione di impresa
Tempi 127 ore di attività curricolare e 29 ore di attività extra-curricolare
Risorse 2 docenti coordinatori, 7 docenti del consiglio di classe, un maestro di musica,
un tecnico audio
Aula informatica, laboratorio multimediale, aula di musica, studio di registra-
zione, aule (per le lezioni e le altre attività didattiche)
Metodologia Laboratori interdisciplinari, learning by doing, apprendimento cooperativo,
giochi di ruolo, brainstorming, problem solving metacognitivo, autogestione
degli allievi
40
Contatto Tel. 011.54.24.70 - E-mail: itcsella@tin.it - Sito: www.quintinosella.it
Titolo 3) Laboratorio dell’integrazione tra scuola e mondo del lavoro.
Costruzione di percorsi formativi per l’incontro tra la scuola e il mondo delle
imprese e per la promozione della cultura del lavoro
Autore Istituto Tecnico”R. Luxemburg” di Torino
Promotore
Partner
Altri soggetti Scuole del territorio, Unione Industriale, le strutture locali di Confesercenti e
Confcooperative, Ufficio dell’Amministrazione provinciale, Assessorato e
l’Ufficio servizi educativi del Comune, Aziende che si sono rese disponibili
ad accogliere i docenti in stage
Data
Destinatari Docenti
Finalità Pervenire alla costruzione di moduli formativi centrati sulla cultura di im-
presa, da inserire nel curriculum scolastico; valorizzare la funzione conosci-
tiva, formativa, ed educativa dell’esperienza di stage, al fine di migliorare
le competenze progettuali dei docenti; produrre materiale multimediale per
favorire la conoscenza reciproca tra la scuola e le aziende; favorire l’incontro
tra domanda e offerta di lavoro
Contenuti Cultura di impresa
Tempi Progettazione: ca. 27 ore - Formazione docenti: ca. 30 ore - Pianificazione
stage: 30 ore - Stage: 3 giorni - Riflessione sull’esperienza: 11 ore - Documenti
finali sul progetto: ca. 50 ore
Risorse Aziende
Metodologia Il progetto prevede l’inserimento dei docenti nelle strutture operative delle
aziende per verificare sul campo i possibili collegamenti tra l’attività scolastica e
la realtà produttiva e come le abilità trasmesse nel processo di insegnamento-
apprendimento siano spendibili nel mondo del lavoro. I docenti, attraverso stage
in azienda,hanno la possibilità di instaurare un dialogo con i responsabili dei vari
settori operativi aziendali per cogliere le aspettative formative richieste e indivi-
duare esperienze specifiche trasversali considerate utili dagli operatori di settore
Contatto Tel. 011.61.92.212 - E-mail: luxemb@arpnet.it
Titolo 4) Simulimpresa
Autore CFP – Università Popolare Trentina
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2006
Destinatari Allievi
Finalità Colmare l’anello mancante tra formazione teorica e formazione pratica inte-
grando le attuali forme di intervento, quali lo stage e l’alternanza scuola-
lavoro. Ricreando l’ambiente aziendale, Simulimpresa propone all’allievo di
mettersi direttamente alla prova con il lavoro per impararne le mansioni
41
(conoscere e utilizzare documenti, gestire rapporti con l’esterno, con banche,
INPS, fornitori, clienti...)
Contenuti Cultura d’impresa
Tempi 700 ore in 3 anni di corso
Risorse Formatori
Metodologia Simulazione, giochi di ruolo,
Contatto Tel. 0461.98.71.80 - E-mail: segretaria@sede.cfp-upt.it - Sito: www.cfp-upt.it
Titolo 5) Tutto il resto
Autore GIOC (Gioventù Operaia Cristiana)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data Aprile 2006
Destinatari Allievi della Formazione Professionale
Finalità Aiutare i ragazzi a riflettere sul loro rapporto con i beni di consumo valutando
alcuni punti di vista dei giovani sul mondo del lavoro
Contenuti Educazione al consumo responsabile
Tempi 2 incontri
Risorse Insegnanti
Questionari in supporto cartaceo
Metodologia Giochi di gruppo, riflessioni guidate, brainstorming
Contatto Sito: http://www.gioc.org/index.asp
4.2. Altri
Titolo 6) Consumattori. Campo estivo
Autore GIOC (Gioventù Operaia Cristiana)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2005
Destinatari Allievi CFP
Finalità Favorire la riflessione sul rapporto con i beni di consumo
Contenuti Educazione al consumo responsabile
Tempi 4 giorni
Risorse
Metodologia Campo estivo, giochi, verifiche
Contatto Tel. 011.54.18.06 - Sito: www.gioc.org
Titolo 7) Evangelizzazione nella FP
Autore GIOC (Gioventù Operaia Cristiana)
42
Promotore Ufficio Piemontese della PSL
Partner
Altri soggetti Enti di FP d’ispirazione cattolica
Data 2004
Destinatari Allievi
Finalità Formare, evangelizzare i giovani e valorizzare l’impegno di promozione
verso una responsabilità sociale a partire da un concetto di scuola integrata
con il mondo del lavoro
Contenuti Cultura del lavoro
Tempi
Risorse Formatori, volontari
Strutture che garantiscano ospitalità per campi estivi-invernali e per week-end
formativi residenziali
Metodologia Campi residenziali, feste, tornei, moduli formativi tematici; metodo pastorale
della “Revisione di Vita”
Contatto Tel. 011.54.18.06 - Sito: www.gioc.cfp
Titolo 8) Guarda dove vai. Campo estivo
Autore GIOC (Gioventù Operaia Cristiana)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data Giugno 2004
Destinatari Allievi CFP
Finalità Offrire ai giovani coinvolti una proposta educativa completa che miri a far
crescere la persona in tutte le sue dimensioni e creare le condizioni per costi-
tuire gruppi di giovani che possano proseguire un cammino educativo e di
evangelizzazione specifico
Contenuti Proposta educativa per un campo estivo
Tempi 1 settimana
Risorse Formatori, educatori
Una struttura in grado di ospitare un campeggio per un gran numero di persone
Metodologia Campo estivo, riflessioni guidate
Contatto Tel. 011.54.18.06 - Sito: www.gioc.org
Titolo 9) Il lavoro
Autore GIOC (Gioventù Operaia Cristiana)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari
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Finalità Favorire l’assunzione della dimensione del lavoro come parte importante
della vita; facilitare la scoperta di cosa si può fare per rendere il lavoro
sempre più umano; aiutare ad allargare lo sguardo alla dimensione collettiva
del lavoro e agli sforzi dei lavoratori per migliorare la propria situazione
Contenuti Cultura del lavoro e stile di vita
Tempi
Risorse Brani e domande per la riflessione
Metodologia Riflessione personale, metodo pastorale “Revisione di vita”
Contatto Tel. 011.54.18.06 - Sito: www.gioc.org
Titolo 10) Il tempo di vita e il tempo di lavoro
Autore GIOC (Gioventù Operaia Cristiana)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari Giovani
Finalità Portare i giovani ad un rinnovato senso di attenzione ai tempi della vita
Contenuti Tipologie contrattuali e stile di vita
Tempi
Risorse Educatore
Testi biblici
Metodologia Spunti, riflessioni e domande, utilizzando anche alcuni passi biblici, sulla
condizione del giovane e sul suo rapporto con il proprio tempo quotidiano
Contatto Tel. 011.54.18.06 - Sito: www.gioc.org/cfp
Titolo 11) La disoccupazione
Autore GIOC (Gioventù Operaia Cristiana)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari Giovani senza occupazione
Finalità Favorire la riflessione sulla vita dei giovani disoccupati; aiutare i ragazzi
disoccupati a vivere questo tempo in modo attivo e attivare azioni di supporto
alla ricerca di lavoro
Contenuti Ricerca attiva del lavoro
Tempi
Risorse
Metodologia Metodo pastorale “Revisione di vita”, corsi brevi di formazione professionale,
corsi di abilità sociali
Contatto Tel. 011.54.18.06 - Sito: www.gioc.org
44
Titolo 12) Scuola al gusto di Yogurt
Autore Istituto di Istruzione “Lorenzo Guetti” di Tione di Trento
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari Studenti
Finalità Far apprendere concetti naturalistici, etici, giuridici, economici
Contenuti Cultura biologica, fenomeni produttivi, scelte dei consumatori
Tempi 2 ore di economia, 2 ore di scienze, un pomeriggio in fattoria
Risorse Docente
Azienda agricola
Metodologia Visita ad una piccola azienda agricola
Contatto Tel. 0465.32.17.35 - Sito: http://www.guetti.tn.it
45
Capitolo 3
Progetti nell’area dell’Educazione religiosa:
esperienze, riflessioni e suggerimenti operativi
Questa dimensione accoglie progetti ed esperienze significative
di educazione religiosa. I progetti individuati e presentati si focaliz-
zano sui nodi centrali del discorso religioso non avulso da alcuni
importanti temi del nostro tempo.
Si può osservare e fare tesoro dei molti spunti didattici
proposti all’interno dei progetti di quest’area partendo, ad
esempio, dalla questione dell’equilibrio ecologico del nostro
pianeta. Nell’unità di apprendimento “Il creato nelle mani del-
l’uomo” (n. 11) troviamo un’analisi approfondita di termini
quali sviluppo sostenibile, consumo responsabile e solidale in
una chiave teologica e vissuto religioso profondo.
“Gli adolescenti chi sono?” (n. 10) è invece un
interessante percorso didattico sull’identità adole-
scenziale che passa attraverso quelle domande che i
ragazzi si pongono soprattutto quando si confrontano
con contesti sociali e personali a loro nuovi e scono-
sciuti. Il passaggio adolescenziale è anche un pas-
saggio dalla centralità delle relazioni famigliari alla
centralità delle relazioni amicali. Nella proposta sono presentate attività personali,
di coppia e di gruppo in grado di portare i giovani ad una più approfondita analisi
del proprio vissuto emozionale, psicologico e sociale. Il lavoro tiene in considera-
zione l’ambito scuola come centro di lavoro e sviluppo delle relazioni amicali, di
socializzazione, ma anche come luogo di cammino spirituale, nonché occasione
relazionale che si afferma con l’incontro e il dialogo.
All’interno di questo spazio, non mancano progetti
che rivisitano, con l’ausilio di nuove metodologie, te-
matiche di alto profilo spirituale. Si propongono obiet-
tivi (talvolta anche molto impegnativi), quali l’educare i
giovani alla santità, ovvero ad un’umanità piena e a im-
magine di Gesù ed essere pienamente uomini e donne.
46
Un esempio è rappresentato dal progetto “Vero su bianco” (n. 7) che
sottolinea e definisce alcuni criteri di base per poter trasformare
l’intenzionalità in progetto educativo, affrontando tematiche quali:
interiorità, silenzio, pensosità, ascolto, preghiera e discernimento
per cogliere l’azione di Dio nel mondo e nella vita di ogni persona.
Gli aspetti della progettazione presi in considera-
zione sono: coerenza degli obiettivi educativi con la realtà e le
esigenze reali delle persone che ne devono fruire; flessibilità del
progetto al cambiamento di alcune dinamiche mantenendo la fi-
nalità del progetto stesso; comunicabilità delle intenzioni portate
avanti con il progetto; risorse che s’intendono
impiegare lungo il cammino; verificabilità del progetto soprat-
tutto in termini qualitativi. Su questi temi s’innestano, poi, le
letture bibliche e alcune testi di musica leggera e sacra, testi che
invitano a riflettere sulle problematiche ancora aperte dei diritti
umani e su altre tappe necessarie ad aprire un dibattito con le
giovani generazioni all’interno delle nostre comunità educative.
Fondamentale, in termini educativi, è la proposta dei
sussidi per la preghiera (“Tutti i prezzi della nostra vita”, n. 6)
coniugati con lo sviluppo dei temi quali quelli del consumo,
del tempo libero e delle relazioni sociali, o ancora la ricerca e
l’approfondimento del messaggio evangelico e biblico veico-
lati attraverso una elaborazione e sperimentazione di nuovi spunti didattici.
A fare da sfondo al “Progetto educativo di Istituto” (n. 4)
vi sono due brani del Vangelo di Matteo: «Le beatitudini nel
discorso della montagna» (Mt 5,1-12) e la «Parabola dei ta-
lenti» (Mt 25,14-30) letture che recano in sé un progetto teso
a valorizzare, all’interno della comunità scolastica, l’educazione all’interiorità,
all’austerità, all’onestà, alla gratuità e al rigore intellettuale. Finalità del progetto è
riproporre una formazione integrale della persona. Non mancano, al suo interno,
un’attenzione alla dimensione creativa, quale nodo centrale per richiamare l’origi-
nalità di ogni persona, in questo caso del giovane. Sono presenti, inoltre, la dimen-
sione storico-politica e quella della laicità, quali basi educative per assumere un
ruolo attivo nella costruzione di una società più coesa intorno ai valori del rispetto
e dell’integrazioni delle diversità culturali e religiose nel territorio Europa.
I temi della pace, della solidarietà e della mondialità
accompagnano la proposta educativa del progetto “L’uomo
secondo il cristianesimo. Pace, solidarietà e mondialità” (n. 3)
il cui obiettivo è presentare alcune forme di impegno contem-
poraneo a favore della pace, della giustizia e della solidarietà.
47
1. TESTIMONI PRIVILEGIATI ASCOLTATI
Zelindo TRENTI - UPS
Roberto ROMIO - LA RIVISTA DI RELIGIONE
Giuseppe TACCONI - UNIVERSITÀ VERONA
Giosuè TOSONI - CEI
Attilio BONDONE - CONFAP
Carlo NANNI - UPS
Vito ORLANDO - UPS
2. FONTI UTILIZZATE
www.acli.it
Portale delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani
www.anir.it
Portale dell’Associazione nazionale degli insegnanti di religione
www.azionecattolica.it
Portale dell’Azione cattolica italiana
www.bologna.chiesacattolica.it/irc
Arcidiocesi di Bologna - Ufficio IRC
www.corsodireligione.it
Sito che offre risorse sulle varie religioni, ma anche sull’etica e la morale
www.elledici.org/periodici/sommario_scuola.php?LOAD_TYPE=INRE&AREA=
periodici.it
Sito della rivista “Insegnare religione”
www.elledici.org/periodici/sommario_scuola.php?LOAD_TYPE=ORARE&AREA=
periodici.it
Sito della rivista “L’ora di religione”
www.emscuola.org
Rassegna sulle esperienze multimediali nella scuola
www.etwinning.net
Azione principale del programma di e-Learning dell’Unione Europea che pro-
muove la collaborazione tra le scuole
www.gioc.org
Sito di Gioventù cristiana operaia
www.orarel.com/home.shtml
Sito dell’ora di religione
48
www.queriniana.it/rivista.asp?id=992
Sito della rivista “Religione e scuola”
www.rivistadireligione.it
Sito della rivista “Rivista di religione”
ACLI, Accogliere il Regno nella fraternità, Roma 2004.
BOSCO T., I cristiani e il lavoro, Elledici, Leumann (TO) 2006.
MOCCIA V. (a cura di), Lavoro formazione Vangelo, La Lucertola, Torino 2000.
OTTAVIANO P., I fondamenti del Cristianesimo, Elledici, Leumann (TO) 2005.
PEDRALI L. (a cura di), È l’ora delle religioni, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 2002.
SAPIENZA P., Via Crucis di Gesù, via Crucis del lavoratore, Acli Sicilia, Catania 2006.
SERVIZIO NAZIONALE PER L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE CATTOLICA, Insegnamento della religione
cattolica: il nuovo profilo, Editrice La Scuola, Brescia 2006.
TACCONI G., L’educazione religiosa negli istituti di istruzione e Formazione Professionale di ispirazione
cristiana, in CENTRO STUDI PER LA SCUOLA CATTOLICA (a cura di), Educazione religiosa. Scuola
cattolica in Italia. Settimo rapporto, La Scuola, Brescia 2005.
TACCONI G., Lo schema di Decreto sul secondo ciclo: l’insegnamento della religione cattolica nel
sistema dell’istruzione e formazione professionale, in “Rassegna CNOS”, anno 21 / n. 2 – 2005.
TONINI M., Educazione religiosa e insegnamento della Religione Cattolica nel sistema di Istruzione e
Formazione Professionale, “Rassegna CNOS”, 3(2003), 40-47.
TONINI M., “Il sistema di Istruzione e formazione professionale” in TRENTI Z. (a cura di), Manuale del-
l’insegnamento di religione. Competenza e professionalità, Elledici, Leumann (TO) 2004, 347-364.
3. MAPPA DEI CONCETTI E DELLE PAROLE CHIAVE
49
4. SCHEDE DEI PROGETTI
Come accennato nell’introduzione, attraverso schede di sintesi, presentiamo le
“buone pratiche” suddivise in “progetti strutturati” e “altro”.
4.1. Strutturati
Titolo 1) I personaggi famosi dell’Antico e del Nuovo Testamento
Autore Helpdesk europeo di eTwinning insieme a insegnanti di diverse nazioni
Promotore
Partner 2 scuole di due Paesi diversi
Altri soggetti
Data
Destinatari Bambini tra i 5 e i 12 anni
Finalità Far familiarizzare con i testi biblici, le vite e i valori dei loro personaggi; favo-
rire la comunicazione efficace sia con i compagni che con i partner all’estero;
incrementare lo sviluppo di competenze interculturali; incrementare l’espres-
sione artistica e la creatività; facilitare la comprensione di base di concetti come
giustizia, verità, compassione, generosità, perdono, lealtà, amore, ecc.
Contenuti Testi biblici, biografie
Tempi 1-3 mesi
Risorse Insegnanti, Coordinatore
PC, Internet, videocamera, scanner, videoconferenza, testi
Metodologia Letture, videoproiezioni, lavori in gruppo, creazione powerpoint, giochi inte-
rattivi, creazione dizionario dei personaggi biblici, spettacoli, composizione
musiche, gite
Contatto Sito: http://www.etwinning.net/ww/it/pub/etwinning/ideas_and_practice/project
_kits/citizenship/kit_for_religious_education.htm
Titolo 2) In ascolto dei giovani nei loro ambienti di vita
Autore GIOC (Gioventù Operaia Cristiana)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2007-09
Destinatari Giovani in generale
Finalità Mettersi in ascolto dei giovani incontrandoli nei luoghi da loro frequentati
abitualmente, raccogliere il loro vissuto (problematiche, vissuto, aspirazioni,
esigenze), proporre occasioni di dibattito
Contenuti I giovani e il loro ambiente
Tempi
Risorse Educatori
Questionari, schede
50
Metodologia Riflessioni di gruppo, somministrazione questionari, interviste, RDV, simula-
zioni, incontri residenziali
Contatto Tel. 011.54.18.06 - Sito: http://www.gioc.org
Titolo 3) L’uomo secondo il cristianesimo. Pace, solidarietà e mondialità
Autore Cosima Tarantino
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2005
Destinatari Allievi di scuola professionale
Finalità Conoscere e interpretare correttamente alcune forme di impegno contempo-
raneo a favore della pace della giustizia e della solidarietà
Contenuti IRC
Tempi 3 mesi
Risorse Insegnanti
Testi, schede
Metodologia Lezioni interattive, ricerche, riflessione metacognitiva, lavori di gruppo, dibat-
titi e confronti, ascolto e lettura di testi, brainstorming, mappe concettuali
Contatto Sito: www.rivistadireligione.it
Titolo 4) Progetto educativo dell’Istituto “Massimiliano Massimo”
Autore Istituto “M. Massimo” di Roma
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari Studenti
Finalità Indicare le linee programmatiche dell’attività educativa dell’Istituto Massimi-
liano Massimo di Roma
Contenuti Tematiche religiose e modello etico
Tempi
Risorse
Metodologia
Contatto Tel. 06.54.39.61 - Sito: http://www.istitutomassimo.com
Titolo 5) Progetto scolastico dell’IRC
Autore Giovanna Di Luciano (ITIS “V Cerulli” di Giulianova)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2004-08
51
Destinatari Studenti di scuola superiore
Finalità Favorire la capacità di misurarsi con le proprie risorse e con le proprie re-
sponsabilità, come “soggetto” capace di autonomia critica e di presenza co-
struttiva nell’ambito del lavoro, delle relazioni umane, della convivenza ci-
vile. Questa finalità si inserisce nel più ampio quadro delle finalità di Istituto:
offrire una preparazione di base che renda lo studente capace di conoscere,
saper essere, saper fare; promuovere in ciascun allievo la capacità d’inseri-
mento nel territorio, intesa quale abilità a cogliere le risorse dello stesso, adat-
tare le proprie risorse alle offerte socio-lavorative, interagire con la realtà che
lo circonda, proponendosi come elemento attivo, portatore di nuove energie e
di idee; condividere un impegno qualitativo con le agenzie formative mirato
alla promozione del benessere individuale e collettivo; progettare percorsi di
lavoro in raccordo con le agenzie formative presenti nel territorio
Contenuti IRC
Tempi 5 anni
Risorse In base agli interessi e agli argomenti ritenuti significativi verranno fatte scelte
e selezionati documenti, testi, quotidiani, film, riviste informative, uscite guidate
Metodologia Analisi di testi, esercizi di rielaborazione e sintesi; lavori di gruppo, indivi-
duali, a coppie; attività di laboratorio di studio; proiezioni di film, immagini,
foto; brainstorming; problem-solving; videoconferenze
Contatto Sito: http://www.iiscerulli.it/home.php?sud=d75e987c2eadbf0537ea230f0b0
dcb8c
Titolo 6) Tutti i prezzi della nostra vita
Autore GIOC (Gioventù Operaia Cristiana)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2006
Destinatari
Finalità Realizzare un’esperienza di preghiera e riflessione su temi quali quelli del
consumo, del tempo libero e delle relazioni sociali, la ricerca e l’approfondi-
mento del messaggio evangelico e biblico
Contenuti Educazione al consumo responsabile, tematiche religiose
Tempi 4 giorni
Risorse Educatori, sacerdote
Struttura di accoglienza, sussidio per la preghiera
Metodologia Residenziale, lavori di gruppo, riflessioni guidate, condivisione esperienze
personali, simulazioni, interventi di esperti, Lectio Divina
Contatto Sito: http://www.gioc.org/articolo.asp?idart=871
Titolo 7) Vero... su bianco
Autore Azione Cattolica
Promotore
52
Partner
Altri soggetti
Data 2005
Destinatari Educatori di giovani (19-30 anni)
Finalità Fornire alcuni criteri di base per aiutare l’educatore a trasformare l’intenzio-
nalità in progetto educativo
Contenuti Tematiche religiose, tematiche sociali, tecniche di animazione
Tempi 1 anno
Risorse Letture bibliche, testi di musica leggera e sacra, scritti che invitano a riflettere
sulle problematiche dei diritti umani
Metodologia Il documento fornisce spunti per la programmazione, la metodologia di lavoro,
il monitoraggio degli obiettivi del percorso e materiali utili per affrontare le
tematiche previste
Contatto Sito: http://www.azionecattolica.it
4.2. Altri
Titolo 8) CFP: luoghi d’incontro fra culture diverse. Quale proposta di fede?
Autore Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro – Regione Conciliare Piemontese
Promotore
Partner
Altri soggetti Esponenti Ufficio Migranti
Data 2006
Destinatari Gruppi tecnici (Pastorale del lavoro)
Finalità Approfondire la tematica del dialogo interreligioso riconoscendo le proprie
radici cristiane in funzione di un accoglimento reciproco tra le diverse fedi
Contenuti Dialogo interreligioso
Tempi 1 giorno
Risorse
Metodologia Lavori di gruppo, riflessioni guidate, interventi di esperti, laboratorio perma-
nente
Contatto Sito: http://www.diocesi.torino.it/vari/update2007.htm
Titolo 9) Dispensa di cultura religiosa
Autore Casa di Carità Arti e Mestieri
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari Allievi del I anno della FP
Finalità Far conoscere l’ente ospitante; favorire la riflessione su di sé e sulla vita
Contenuti Proposta formativa di Casa di Carità
53
Tempi Anno formativo
Risorse Formatori
Dispensa
Metodologia Lezioni frontali, questionari, schede
Contatto Sito: http://www.casadicarita.it
Titolo 10) Gli adolescenti chi sono? Cosa vogliono?
Autore Lucillo Maurizio
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari Studenti
Finalità Fornire un percorso didattico sull’identità adolescenziale che passa attraverso
quelle domande che ragazzi e ragazzi si pongono soprattutto quando si con-
frontano con dei contesti sociali e personali a loro nuovi e sconosciuti
Contenuti Identità dell’adolescente
Tempi
Risorse Insegnanti
Metodologia Attività personali, di coppia e di gruppo in grado di portare i giovani ad una
più approfondita analisi del proprio vissuto emozionale, psicologico e sociale
tenendo in considerazione l’ambito scuola come centro di lavoro e sviluppo
delle relazioni amicali, di socializzazione, ma anche come luogo di cammino
spirituale nonché occasione relazionale che si afferma con l’incontro e il dia-
logo
Contatto Sito: http://www.anir.it/didattica/strumenti/ins_relig.htm
Titolo 11) Il creato nelle mani dell’uomo
Autore Cosima Tarantino
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2006
Destinatari Studenti
Finalità Divulgare la conoscenza biblica sul creato; aiutare a cogliere la visione
cristiana della questione ecologica; favorire l’individuazione del contributo
che le varie religioni danno alla questione ambientale; facilitare l’acquisizione
di alcune regole per uno stile di vita sobrio e responsabile; approfondire
espressioni quali “sviluppo sostenibile”, “consumo responsabile e solidale”,
in chiave teologica e con un vissuto religioso profondo
Contenuti IRC
Tempi 1 anno scolastico
Risorse Insegnanti
54
Metodologia Brainstorming, lavori di gruppo, ricerche, analisi documenti, redazione schede,
comunicazioni in assemblea, lezioni interattive
Contatto Sito: www.rivistadireligione.it
Titolo 12) La legge: libertà nella prospettiva dell’altro
Autore Prof. Maurizio Rossi (ISSR di Mantova)
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data
Destinatari Studenti
Finalità Presentare un dispositivo didattico facilmente spendibile in aula e stimolare
un dibattito sulla struttura e sulla natura dell’IRC
Contenuti IRC
Tempi
Risorse Docenti
Aule, supporti cartacei
Metodologia Lezioni frontali, simulazioni, lavori di gruppo
Contatto
Titolo 13) La storia delle origini
Autore Maurizio Gallo (scuola “Leonardo da Vinci” di Merano)
Promotore
Partner
Altri soggetti Gianfranco Forza (Liceo Pedagogico di Merano) - Studenti (Liceo Pedagogico
di Merano)
Data 2002/2003
Destinatari Alunni V elementare
Finalità Facilitare la conoscenza dei testi biblici
Contenuti Testi biblici
Tempi 1 quadrimestre
Risorse Docenti
Dispensa
Metodologia Lezioni frontali
Contatto Sito: http//www.ipbz.it/CentroRisorse/Visualizzazione.aspx?area=14&sezione
=264&id=514&template=43
Titolo 14) Un esempio di vita cristiana - Perché la sofferenza
Autore Casa di Carità Arti e Mestieri
Promotore
Partner
Altri soggetti
55
Data 2003
Destinatari Apprendisti della FPI
Finalità
Tempi Tematiche religiose
Risorse Formatori
Dispense
Metodologia Lezione frontale
Contatto Sito: www.casadicarità.it
Titolo 15) Una festa speciale
Autore Giuseppe Cursio
Promotore
Partner
Altri soggetti IIS “Paolo Baffi” di Fiumicino
Data 2005
Destinatari Studenti
Finalità Lo studente è incoraggiato ad elaborare - attraverso la forma scritta - un’espe-
rienza di festa vissuta con gli amici, identificando in particolare gli stati d’a-
nimo che ha vissuto e le qualità di alcune persone con le quali ha festeggiato,
così lo studente inizia ad individuare le sue domande fondamentali circa la
cultura e religione ebraica
Contenuto Dialogo interreligioso
Tempi
Risorse Docenti
Metodologia Interviste, giochi, brainstorming
Contatto
57
Capitolo 4
Progetti nell’area dell’Educazione Salesiana:
esperienze, riflessioni e suggerimenti operativi
Sotto la voce Educazione Salesiana sono raccolte
esperienze di alcune nostre comunità educatrici il cui
senso è quello di dare vita ad obiettivi fondamentali
quali:
– dare il primato di Dio e fare spazio alla condivi-
sione dell’esperienza spirituale, così da diventare
“segni trasparenti di Dio” in una società secolariz-
zata;
– organizzare in modo adeguato e coerente il ritmo
della vita comunitaria, le attività e gli orari della
vita religiosa e del servizio educativo pastorale,
salvaguardando lo stile salesiano;
– garantire che i consigli evangelici rendano traspa-
rente la gratuità, l’offerta incondizionata, l’amore
senza misura e senza risparmio;
– vivere la santità come evento che narra in maniera creativa e poetica la
bellezza dell’amore di Dio, una santità realizzata attraverso una presenza viva
tra i giovani e i laici, capace di costruire comunione, promuovere la missione e
diventare luogo di crescita vocazionale.
Quelli appena indicati sono anche alcuni punti
chiave dell’esperienza educativa proposta nel
“Progetto della comunità salesiana” (n. 8) che apre
questa dimensione e identifica alcuni elementi co-
muni tra le diverse esperienze.
“Amatevi come io vi amo” (n. 3) ha come
nodi centrali i seguenti contenuti: una riflessione
sulla nozione e le ambiguità del termine relazione;
un approfondimento teologico sulla relazionalità;
una caratterizzazione di contenuto sulla comu-
nione ecclesiale come forma autentica di rela-
zione; una rappresentazione profonda degli stati di
vita del cristiano.
58
Il “Progetto della comunità formatrice” (n. 7) consiste in una ricerca concreta
sulla dimensione della chiamata di Dio e su una forma di santità condivisa che rin-
novi lo spirito che anima una comunità salesiana. Il progetto si propone quale in-
vito ad una riflessione interna di una comunità e può essere modello per una spinta
all’analisi di quanto, ogni comunità stessa è riuscita a costruire. Non vengono però
tralasciati i punti deboli di una comunità perché molto utili per costruire e svilup-
pare una comunità formatrice veramente responsabile.
Si tratta, in quest’ultima dimensione, di accogliere proposte educative che
danno voce e manifestano una cultura progettuale che guidi le comunità salesiane
di Don Bosco. I progetti ricalcano e rinnovano la missione salesiana, rappresentan-
dola nei differenti contesti d’intervento ad esempio, “Progetto Educativo Pastorale
Salesiano – PEPS” (n. 1).
Parte dalla lettura del “sogno delle due colonne” di Don Bosco l’esperienza
“Un possibile itinerario per lo sviluppo della proposta per giovani/ragazzi” (n. 10)
per aprire un itinerario educativo all’insegna di una proposta di fede, radicata al-
l’interno del forte impegno formativo delle comunità. L’obiettivo è creare un clima
di disponibilità, apertura e accoglienza all’interno di ogni comunità.
Non mancano poi progetti operativi legati a temi chiave quali la povertà eco-
nomica e culturale che generano il fenomeno della dispersione scolastica soprat-
tutto in alcune parti del nostro Paese. A questo ambito
appartiene l’esperienza “Sentirsi a casa” (n. 9), realiz-
zata in sette comunità locali del sud Italia, i cui obiettivi
sono:
– elaborare, sperimentare, verificare e diffondere un
modello di intervento preventivo a favore dei mi-
nori a rischio di dispersione scolastica e di coin-
volgimento in attività criminali;
– contrastare il fenomeno della devianza e dell’esclusione minorile nelle scuole
e nel territorio, promuovendo l’inserimento sociale dei minori.
Al problema crescente della diffusione d’uso di sostanze psicoat-
tive e dopanti e alla possibilità educative di contrastare il feno-
meno è dedicato il lavoro “Drug-stop” (n. 4). I suoi obiettivi ge-
nerali sono:
– elaborare, sperimentare, verificare, diffondere un modello di intervento pre-
ventivo primario a favore di adolescenti a rischio di uso/abuso di sostanze psi-
coattive e dopanti;
– individuare, sostenere, diffondere le buone pratiche legate al tema della pre-
venzione primaria;
– prevenire l’uso di sostanze promovendo una cultura del benessere e della sa-
lute psicofisica.
59
È presente in questa serie di progetti di educazione salesiana “Una comunità a
colori.
Percorsi di integrazione dei minori stranieri” (n. 2) il cui obiettivo è l’integra-
zione reale dei minori stranieri nella realtà comunitaria salesiana. Gli obiettivi di
quest’ultimo progetto sono:
– superare la ghettizzazione e la diffidenza dell’ambiente, delle famiglie e dei
ragazzi italiani, nei confronti dei minori stranieri;
– sostenere quei percorsi di conoscenza che si attuano già nelle scuole, nei centri
aggregativi, nelle parrocchie;
– sostenere la comunità locale nel percorso di empowerment sul problema immi-
grazione;
– creare un clima di “comunità” e di “accoglienza” nei centri partecipanti al
progetto (centri aggregativi, centri diurni, centri giovanili) e nel territorio di
riferimento dove essi operano;
– aiutare la comunità locale a superare la differenza religiosa e culturale in un
clima di reciproco rispetto, non negando le differenze, bensì accogliendole
come risorse per un comune cammino di crescita che favorisca la domanda
di eterno e di trascendente che s’annida in ogni persona;
– abilitare gli operatori (volontari e dipendenti) dei centri che partecipano al pro-
getto ad essere anche per i minori stranieri figure significative e di supporto
educativo.
Meritano infine di essere ricordati a chiusura di questa serie di progetti inseriti
nell’ambito dell’educazione salesiana l’esperienza “Io sono il Signore Dio tuo e
non avrai altro Dio infuori di me” (n. 6), che offre spunti di riflessione quotidiana a
partire dalla conoscenza più approfondita dei Dieci Comandamenti, e il progetto
“In-Tessuti di Vita” (n. 5) utile per dare una traccia omogenea in merito al “Buon-
giorno mattutino”, tipico strumento dell’esperienza salesiana.
1. TESTIMONI PRIVILEGIATI ASCOLTATI
Aldo GIRANDO - UPS
Kosè Manuel PROIESO - UPS
Carlo NANNI - UPS
Vito ORLANDO - UPS
Giancarlo DE NICOLÒ - CENTRO SALESIANO DI PASTORALE GIOVANILE
Don Giuseppe CASTI - CENTRO SALESIANO DI PASTORALE GIOVANILE
Silvio ZANCHETTA - ISPETTORIA SALESIANA NORD EST
Enrico PERETTI - CENTRO SALESIANO DI PASTORALE GIOVANILE
Meinolf VON SPEE - DON BOSCO INTERNATIONAL
Angel MIRANDA - DON BOSCO INTERNATIONAL
60
2. FONTI WEB UTILIZZATE
www.donboscoland.it
Sito del Comitato VIS San Marco, espressione locale del Volontariato Internazionale
per lo Sviluppo
www.sdb.org
Informazioni sulle attività, i luoghi e le iniziative culturali della comunità salesiana
3. MAPPA DEI CONCETTI E DELLE PAROLE CHIAVE
61
4. SCHEDE DEI PROGETTI
Come accennato nell’introduzione, attraverso schede di sintesi, presentiamo le
“buone pratiche” suddivise in “progetti strutturati” e “altro”.
4.1. Strutturati
Titolo 1) Progetto Educativo-Pastorale Salesiano (PEPS)
Autore Dicastero della Pastorale
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2000
Destinatari Coloro che operano nel campo della pastorale giovanile
Finalità Delineare un programma di pastorale giovanile da promuovere a livello
locale, all’interno delle comunità salesiane
Contenuti Pastorale giovanile
Tempi
Risorse
Metodologia
Contatto Sito: www.sdb.org
Titolo 2) Una comunità a colori. Percorsi d’integrazione dei minori stranieri
Autore SCS/CNOS
Promotore
Partner
Altri soggetti Centro Nazionale di Documentazione sull’infanzia e l’adolescenza, Ministero
del Welfare - Ufficio Associazionismo, Enti locali, Ufficio Migranti delle
Caritas di riferimento, Associazioni e gruppi informali di immigrati, Associa-
zioni ed enti del Terzo Settore che si occupano di immigrazione
Data
Destinatari Minori stranieri, con famiglie e non accompagnati, presenti sul territorio
italiano; famiglie italiane e straniere; minori italiani che frequentano i centri
afferenti al progetto
Finalità Superare la ghettizzazione e la diffidenza dell’ambiente, delle famiglie e dei
ragazzi italiani nei confronti dei minori stranieri; sostenere la comunità locale
nel percorso di empowerment sul problema immigrazione; creare un clima di
“comunità” e di “accoglienza” nei centri partecipanti al progetto e nel terri-
torio di riferimento dove essi operano; aiutare la comunità locale a superare la
differenza religiosa e culturale in un clima di reciproco rispetto
Contenuti Fenomeno immigrazione, dinamiche di integrazione, multiculturalità
Tempi 22 mesi
Risorse Educatori professionali, mediatori culturali, studiosi ed esperti del fenomeno
dell’immigrazione, insegnanti, centri aggregativi, centri diurni, centri giovanili
62
Metodologia Interventi di informazione e formazione, feste, convegni, dibattiti, seminari
Contatto Sito: http://www.federazionescs.org
4.2. Altri
Titolo 3) Amatevi come io vi amo
Autore SCS/CNOS
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2001-02
Destinatari
Finalità Organizzare in modo adeguato e coerente, attorno al mistero della comunione
ecclesiale, il ritmo della vita comunitaria, le attività e gli orari della vita reli-
giosa e del servizio educativo pastorale.
Contenuti Riflessioni sulla nozione e le ambiguità del termine relazione; approfondi-
mento teologico sulla relazionalità; caratterizzazione di contenuto sulla comu-
nione ecclesiale come forma autentica di relazione; rappresentazione pro-
fonda degli stati di vita del cristiano
Tempi 9 mesi
Risorse
Metodologia Incontri per definire i calendari, le strategie, le modalità, gli obiettivi delle at-
tività e delle proposte
Contatto Sito: www.sdb.org
Titolo 4) Drug Stop
Autore SCS/CNOS - PGS
Promotore
Partner
Altri soggetti Enti locali e pubblici, Scuole
Data
Destinatari Adolescenti a rischio di uso/abuso di sostanze psicoattive e dopanti
Finalità Elaborare, sperimentare, verificare, diffondere un modello di intervento pre-
ventivo primario a favore di adolescenti a rischio di uso/abuso di sostanze psi-
coattive e dopanti; individuare, sostenere, diffondere le buone pratiche legate
al tema della prevenzione primaria; prevenire l’uso di sostanze promovendo
una cultura del benessere e della salute psicofisica
Contenuti Uso e abuso di sostanze tossiche, competenze di ascolto, tecniche di anima-
zione, abilità sociali, competenze educative, autostima
Tempi 18 mesi
Risorse Educatori, docenti, allenatori, dirigenti
Metodologia Peer education, training, animazione socio-culturale, incontri interattivi
Contatto Sito: http://www.federazionescs.org
63
Titolo 5) In-Tessuti di Vita
Autore Don Massimo Del Ben
Promotore Associazione CNOS-FAP Lombardia
Partner
Altri soggetti
Data Settembre 2008
Destinatari I formatori del CFP
Finalità Per dare una traccia che sia uniforme in merito buongiorno mattutino dei for-
matori
Tempi Anno formativo
Risorse Formatori
Dispense
Metodologia Dialogo, comunicazione diretta
Contatto Sito: www.salesianisesto.org
Titolo 6) Io sono il Signore Dio tuo e non avrai altro Dio fuori di me
Autore CNOS-FAP di Perugia
Promotore
Partner
Altri soggett
Data 2008-09
Destinatari Allievi FP
Finalità Offrire spunti di riflessione quotidiana a partire dai Comandamenti
Tempi Anno formativo
Risorse Educatore
Metodologia Dialogo, comunicazione diretta
Contatto E-mail: segreteria.perugia@cnos-fap.it
Titolo 7) Progetto della comunità formatrice
Autore Comunità formatrice Don Bosco Crocetta
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2003-04
Destinatari Membri della Comunità
Finalità Favorire la dimensione spirituale (Primato di Dio), approfondire le relazioni
fraterne, la cura della salesianità, l’assunzione dello studio come missione
Contenuti Ricerca concreta circa la dimensione della chiamata di Dio e su una forma di
santità condivisa che rinnovi lo spirito che anima una comunità salesiana
Tempi
Risorse
64
Metodologia Riflessioni interne di una comunità da utilizzare come modello per una spinta
all’analisi di quanto, ogni comunità stessa è riuscita a costruire. Non trala-
sciando i punti deboli di una comunità perché molto utili anche quest’ultimi,
per costruire e sviluppare una comunità formatrice veramente responsabile
Contatto Sito: www.sdb.org
Titolo 8) Progetto della Comunità Salesiana
Autore Dicastero della Formazione
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2003-04
Destinatari Una comunità salesiana che anima una scuola (Elementare, Medie e Liceo),
una chiesa pubblica, un oratorio - centro giovanile quotidiano e una casa di
accoglienza e aiuto per immigrati
Finalità Organizzare in modo adeguato e coerente il ritmo della vita comunitaria, le
attività e gli orari della vita religiosa e del servizio educativo pastorale
Contenuti Discernimento sulle 5 parti delle Costituzioni
Tempi Anno formativo
Risorse
Metodologia Incontri per definire i calendari, le strategie, le modalità, gli obiettivi delle
attività e delle proposte
Contatto Sito: www.sdb.org
Titolo 9) Sentirsi a casa
Autore SCS/CNOS
Promotore
Partner
Altri soggetti Enti associati alla Federazione SCS/CNOS, enti partner (pubblici e privati),
agenzie educative, reti sociali informali, centri educativi territoriali
Data
Destinatari Minori a rischio di dispersione scolastica e di coinvolgimento in attività crimi-
nali
Finalità Elaborare, sperimentare, verificare, diffondere un modello di intervento preven-
tivo a favore dei minori a rischio di dispersione scolastica e di coinvolgimento in
attività criminali; contrastare il fenomeno della devianza e dell’esclusione mino-
rile nelle scuole e nel territorio, promuovendo l’inserimento sociale dei minori
Contenuti Indici predittivi e fattori di rischio del disagio, stereotipi e pregiudizi, compe-
tenze d’ascolto
Tempi
Risorse Insegnanti, educatori, catechisti, volontari, famiglie, operatori di strada
Strutture, sito web, questionario, schede
Metodologia Laboratori, formazione RU, incontri
Contatto Sito: http://www.federazionescs.org
65
Titolo 10) Un possibile itinerario per lo sviluppo della proposta per giovani/
ragazzi
Autore Ispettoria Salesiana “San Marco” e “Madre Mazarello”
Promotore
Partner
Altri soggetti
Data 2004-05
Destinatari Giovani
Finalità Educare i giovani “a fare giovane la Chiesa e fare che essi siano Chiesa”.
L’obiettivo è quello di creare un clima di disponibilità, apertura e accoglienza
all’interno di ogni comunità attraverso un itinerario educativo all’insegna di
una proposta di fede
Contenuti Spunti dalla vita di don Bosco, Brani del Vangelo
Tempi 1 anno liturgico
Risorse Testi di riferimento
Metodologia Incontri mensili
Contatto Sito: www.sdb.org
Parte seconda
I CRISTIANI E IL LAVORO
69
PREMESSA
Il lavoro raccolto in questa parte rientra nella dimensione storico-teologica
e può essere utilizzato come strumento per ampliare la conoscenza sulla vita di
alcuni Santi, del loro impegno nel mondo dei lavoratori, e sulla posizione assunta
dalla Chiesa, attraverso la Dottrina Sociale, in merito a tematiche cruciali per
la vita dell’uomo come quella del lavoro.
Gli educatori e i formatori possono prendere spunto per lavorare insieme
ai giovani su questi argomenti e approfondire, a seconda del periodo storico di
riferimento o dell’interesse didattico su una particolare figura, le argomentazioni
proposte.
Il materiale presente è stato tratto in massima parte dal testo di T. Bosco “I Cri-
stiani e il Lavoro” (ELLEDICI, Torino, 2006) e da alcuni siti internet specializzati.
Questa parte del volume si concretizza in tre capitoli e un’appendice di appro-
fondimento. I tre capitoli sono strutturati con modalità similari: un breve accenno
al contesto storico e un successivo approfondimento dedicato alle Figure dei Santi
inseriti nel loro periodo di riferimento.
Nel primo capitolo dopo aver tracciato un quadro storico in merito al periodo
dell’Europa del 400-500 si presenta la luminosa figura di San Benedetto e l’azione
dei suoi monaci.
Nel secondo capitolo si descrive sinteticamente la grave crisi che attraversò
l’Europa e l’Italia nel 1500 e 1600, e si traccia la figura di nove Santi che hanno
dato vita alla cosiddetta “rivoluzione della carità sociale”.
Nel terzo capitolo si affrontano i temi della rivoluzione industriale e della
questione operaia e si presentano ventuno figure di Santi che, inseriti nel loro
tempo, hanno operato per i giovani o a fianco dei poveri della Terra.
Nel quarto capitolo si presenta una breve storia della Dottrina Sociale della
Chiesa attraverso le figure di tre grandi Papi: Leone XIII, Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI.
A chiusura, in appendice, per completezza di informazione si offre il Cap. VI
del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa.
1. FONTI WEB UTILIZZATE
www.afgp.it
www.aicu.it
www.angelamerici.it
70
www.barnabiti.it
wwwcasadicarita.it
www.centroannalenatonelli.it
www.cgfmanet.org
www.clonline.org
www.difrancia.net
www.donlorenzomilani.it
www.donorione.org
www.kolbemission.org
www.lasalle2.org
www.lodovicopavoni.it
www.murialdo.org
www.ora-et-labora.net
www.pddm.it
www.santiebeati.it
www.sanvincenzoitalia.it
www.scolopi.org
www.scuolecanossiane.org
www.sdb.org
www.stimmatini.it
2. MAPPA DEI CONCETTI E DELLE PAROLE CHIAVE
DIMENSIONE
STORICO - TEOLOGICA
71
Capitolo 1
L’Europa tra il 400 e il 500.
Le devastanti invasioni barbariche e
la luminosa figura di San Benedetto
1. NEL 167 I POPOLI GERMANI VARCANO IL DANUBIO
Intorno all’anno 150 dopo Cristo, al di là dei fiumi Elba e Danubio (che i
Romani considerano il limes, cioè il confine del loro Impero), i popoli germani
sono in piena espansione. Sono i Goti, i Vandali, i Burgundi, i Longobardi, gli
Iazidi, i Marcomanni. Intorno al 150 una nuova ondata nordica, il popolo dei
Gepidi, sbarca nell’estuario del fiume Vistola. Spinto a sud forse da un raffredda-
mento del clima, i Gepidi entrano nel territorio dei Goti e dei Burgundi, che a loro
volta emigrano verso est e verso sud, cozzando contro i Vandali, i Longobardi, gli
Iazidi e i Marcomanni. Stretti alle spalle, questi ultimi popoli superano il Danubio
e dilagano verso sud.
Nella primavera del 167 c’è il primo grande scontro: i Marcomanni e i Longo-
bardi sconfiggono novemila soldati romani che sorvegliano il confine con l’Austria
(Norico), mentre gli Iazidi invadono la Dacia e occupano le preziose miniere d’oro
(che i Romani sfruttano da più di cent’anni). Ovunque le popolazioni fuggono, il
panico dilaga per tutte le province di frontiera. Mentre Roma (dov’è imperatore
Marco Aurelio) è devastata dalla peste, i popoli germani saccheggiano le province
romane, e nel 169 irrompono su Aquileia, nella pianura dell’Isonzo. Poiché la
guarnigione della città resiste, saccheggiano e bruciano i dintorni.
A Roma insieme alla peste dilaga il panico. Per formare in qualche modo un
esercito (scrive G. Capitolino in Storia Augusta) Marco Aurelio arruola gli schiavi,
arma i gladiatori, trasforma in soldati i briganti. Per la prima volta nella storia,
l’Impero deve difendersi invece di attaccare, e questo in terra italiana. I popoli in-
vasori vengono chiamati ‘barbari’, cioè gente che parla una lingua incomprensibile.
Da quel 167 le invasioni dei barbari si rinnovano periodicamente e non
cessano più. I Goti (divisi in Visigoti e Ostrogoti) scendono a loro volta a devastare
la Gallia, la Spagna, l’Africa, l’Italia. Sono a loro volta spinti alle spalle da un
nuovo e feroce popolo barbaro: gli Unni di Attila, che verrà chiamato (per le sue
tremende devastazioni) ‘il flagello di Dio’. Gli Ostrogoti si alleano con gli Unni e
insieme devastano la Gallia. Gli imperatori che tentano di arrestare quell’immensa
cascata di popoli sono sterminati insieme ai loro eserciti, da Decio nel 251 a
Valente nel 378.
72
2. ROMA SACCHEGGIATA
Il punto culminante di questo vero ‘tsunami’ della civiltà romana arriva il
24 agosto del 410. I Visigoti, comandati da Alarico, occupano Roma e la saccheg-
giano per tre giorni. Lo choc in tutto il mondo è gravissimo. Girolamo, il grande
sapiente cristiano che per primo ha tradotto la Bibbia dall’ebraico in latino, scrive
nella 127a Lettera: “La città che ha conquistato l’universo è a sua volta conqui-
stata. La fiaccola del mondo si è spenta: L’Impero romano è stato decapitato”.
Si ha la sensazione che sia la fine del mondo. In Roma si verifica quello che si sta
verificando in tutto l’Impero: la città si spopola, passa rapidamente da ottocento-
mila abitanti a duecentomila. I ricchi sono fuggiti il più lontano possibile, in Pale-
stina, in Africa, a Costantinopoli portandosi dietro tutto quello che riescono a
salvare. La gente comune è fuggita nelle campagne, e vive e muore nella miseria.
I popoli barbari vivevano di rapina. I cumuli di rovine che lasciavano erano terri-
ficanti. Nel tempo delle ‘invasioni barbariche’ persero la vita o furono fatte schiave
la maggior parte delle persone colte, che non ebbero discepoli, e quindi non pote-
rono più essere sostituite. La vita regredì ad uno stadio primitivo e selvatico. L’a-
gricoltura deperì, e il commercio fu quasi annientato. Gli agricoltori erano oppressi
da tasse altissime, che le autorità imponevano per pagare i sempre più malcontenti
soldati dell’esercito, e per versare enormi tributi ai vari capi dei barbari perché non
scatenassero il saccheggio. Molti agricoltori finivano per consegnare la loro terra
ai grandi proprietari, in cambio di difesa e di nutrimento per le loro famiglie. Non
pochi diventavano briganti e vivevano di furti e di violenze. Alcuni si ritiravano in
luoghi solitari, dove vivevano come ‘eremiti’, nella preghiera e nella penitenza,
campando di erbe, di radici e di elemosine. A volte alcuni di questi eremiti si
mettevano insieme, vivevano in piccole comunità. Venivano chiamati ‘monaci’ o
‘cenobiti’. Il 4 settembre del 476 fu scritta la parola ‘fine’ per l’Impero Romano
dell’Occidente. A Ravenna (divenuta capitale imperiale) fu deposto l’ultimo impe-
ratore, Romolo Augustolo. Ma a distanza di 4 anni, nella città umbra di Norcia
nacque Benedetto, colui che avrebbe ridato vita a una nuova Italia e a una nuova
Europa. Benedetto e i suoi monaci, con l’esempio e la parola, avrebbero incorag-
giato la gente ad abbandonare la violenza e a tornare ad inginocchiarsi davanti
al Dio della pace, a riaffondare con fiducia l’aratro nei campi, a portare i figli
a scuola.
Figure di riferimento:
– San Benedetto da Norcia (480-560 circa)
73
SAN BENDETTO
Collocazione storica (480-560 circa)
Patronati Patrono d’Europa, degli agricoltori, chimici, ingegneri, moribondi
Si ricorda come Fondatore del monachesimo d’Occidente
La vita in un frammento “Ora et Labora”
Cenni biografici Benedetto nacque a Nursia (oggi Norcia), presso Spoleto, da
famiglia agiata e forse nobile. In Roma, umiliata dai saccheggi
e gravemente spopolata, sopravviveva la grande autorità del Papa,
e attorno a lui vivevano ancora illustri maestri. Benedetto fu man-
dato dalla sua famiglia a Roma, per compiervi gli studi. Ma nel
centro della Cristianità, per la miseria e l’ignoranza, ricomincia-
vano feste pagane e riti pagani, come i Lupercali, una specie di
carnevale squallido e immorale che coinvolgeva gran parte del
popolino, e contro cui si scagliava invano papa Gelasio. Il suo
illustre biografo, san Gregorio Magno, scriverà: “A Roma non
trovò altro che giovani sbandati, rovinati dal vizio. Era ancora
in tempo. Aveva appena messo un piede sulla soglia del mondo:
lo ritrasse immediatamente... Abbandonò la casa e i beni paterni e
partì. Desideroso di piacere a Dio solo se ne andò sapientemente
ignorante e saggiamente incolto”. Entrato nella valle dell’Aniene,
si ferma ad Affile, poi risale ancora la valle fino a Subiaco, 75
chilometri a est di Roma. Passa tre anni in compagnia di un an-
ziano eremita di nome Romano. La fama di questo giovane nobile
che ha lasciato tutto per servire solo Dio nel silenzio e nella peni-
tenza, si espande nei dintorni. Una comunità di monaci che vive a
Vicovaro, sempre nella valle dell’Aniene, lo sollecita a diventare
loro superiore. Benedetto accetta, ma impone loro una rigida vita
di preghiera e di penitenza. Stanchi della sua severità, i monaci
tentano di avvelenarlo, e lui si ritira. A Subiaco, sempre secondo
il racconto di Gregorio Magno, Benedetto fonda dodici piccoli
monasteri in ciascuno dei quali vivono dodici monaci con un loro
abate (‘dodici’, nella Bibbia, è il numero della perfezione del-
l’uomo). Egli rimane la guida spirituale degli abati. Questa fonda-
zione attrae molte persone dalle zone vicine, e anche da Roma.
Nella vita di Benedetto cominciano a verificarsi avvenimenti
straordinari, veri miracoli. È sempre più circondato dalla venera-
zione dei suoi monaci e della gente.
Montecassino
Verso il 530 (ha cinquant’anni) Benedetto lascia Subiaco e va
verso sud. Sceglie di fermarsi sulla montagna sopra Casinum, che
verrà chiamata Montecassino. La nuova località è meno appartata
di Subiaco, più aperta verso la gradi strade di comunicazione
su cui viaggeranno i monaci portando il messaggio di civiltà e
di rinnovamento di Benedetto da Norcia: Ora et Labora, Prega
e Lavora. Sulla montagna sorgeva un tempio pagano dedicato ad
Apollo e a Giove. Benedetto eliminò i resti pagani e costruì il
suo nuovo monastero. I primi monaci cominciarono a disboscare
74
e a dissodare il terreno, regolarono i corsi d’acqua, seminarono.
Appoggiandosi ai muri solidi del tempio, costruirono una piccola
città di monaci. Per anni Montecassino vide crescere contempora-
neamente il monastero e la famiglia spirituale di Benedetto. Molti
giovani della plebe e della nobiltà salivano a mettersi sotto la
guida di Benedetto. Egli fece sorgere anche un monastero femmi-
nile guidato da sua sorella Scolastica. Cinque anni dopo il suo ar-
rivo a Montecassino, l’Italia venne sconvolta da una nuova guerra
che l’avrebbe devastata per 18 anni, la guerra greco-gotica. Dalla
torre di Montecassino, Benedetto vedeva eserciti passare e ripas-
sare nella valle del Liri. I contadini che salivano a ondate verso il
monastero, a domandare rifugio e protezione, raccontavano storie
di desolazione e di morte. In quella guerra apocalittica, Montecas-
sino rimaneva l’unica isola di pace, e Benedetto l’unica autorità
riconosciuta dalla popolazione della zona. Nel monastero, che si
apre a tutti senza alcuna discriminazione, si vive concretamente
l’ideale della solidarietà e dell’uguaglianza sociale. Il monastero
– scrive R. Ferrarotti –, apre le sue porte ai bisognosi, agli affa-
mati, ai perseguitati. Tutti i monasteri benedettini, a imitazione di
Montecassino, diventeranno centri di accoglienza e di ospitalità.
Quando ha circa 60 anni Benedetto, servendosi della sua ormai
lunga esperienza e ispirandosi anche a precedenti regole mona-
stiche, scrive la sua Regola. Essa brilla perché sa (a differenza
delle Regole che esistevano precedentemente) contemperare seve-
rità e mitezza, e diventerà per molti secoli la strada su cui cammi-
neranno i monasteri, che da Montecassino si svilupperanno in
tutta l’Europa. Benedetto morì (come si è scoperto da recenti
ricerche) verso il 560. Di lui, poco prima di diventare papa Bene-
detto XVI, il cardinale Ratzinger disse: “In un tempo di dissi-
pazione e di decadenza, mise insieme le forze dalle quali si formò
un mondo nuovo. Benedetto, come Abramo, diventò padre di
molti popoli”.
La Regola
La Regola di S. Benedetto, tuttora conservata e studiata, è suddi-
visa in un prologo e 73 capitoletti. Traccia dettagliatamente le
norme secondo le quali si deve comportare una comunità di
monaci. I principi che caratterizzano la vita monastica sono tre:
la stabilità (il monaco deve vivere costantemente nello stesso
monastero), l’uguaglianza per tutti nei diritti e nei doveri, l’orario
(che si divide in tre otto: otto ore di preghiera, otto di lavoro e
otto tra cibo e sonno). Il primo impegno del monaco è la preghiera
in comune, il canto dell’ufficio divino distribuito in otto ore della
giornata. All’obbligo della preghiera in comune si accompagna
quello della lettura della Bibbia (lectio divina) e della medita-
zione. Il secondo impegno è il lavoro. Benedetto rivaluta con
forza il valore della fatica e dell’attività umana. Libera il lavoro
dal disprezzo di cui il mondo romano l’aveva circondato affidan-
dolo agli schiavi. Ne fa opera di uomini e di cristiani. “Ora et
labora”, “Prega e lavora” è la vita normale del monaco. Fu pro-
75
prio il lavoro dei monaci che riconquistò le terre abbandonate e
inselvatichite da guerre e devastazioni. I monaci trasformarono
terreni incolti, selve, sterpaglie, paludi in campi e orti, dando vita
a una grande quantità di aziende popolate di monaci-contadini.
I monasteri ebbero così stalle, mulini, magazzini, granai, vigne,
pascoli, boschi per la legna. I monaci furono gli animatori e i
maestri dei nuovi contadini. Alle popolazioni affamate insegna-
rono nuovamente a coltivare e ad allevare, introdussero nuove
colture e nuovi sistemi di pesca. Costruirono strade e ospizi per
i viaggiatori. Il lavoro artigianale praticato nelle officine del mo-
nastero lentamente produsse nuovi strumenti agricoli, tessuti di
panno, pelli conciate, infusi di erbe. Il terzo componente della vita
del monaco è il cibo e il riposo. Il pasto principale è il pranzo,
consumato dopo mezzogiorno. Il cibo è consumato in silenzio,
mentre un monaco legge alla comunità brani della Bibbia e dei
Padri della Chiesa. Il riposo si divide tra quello della notte e
quello di una lunga siesta dopo il pranzo. Nella Regola viene illu-
strata a lungo l’autorità dell’abate. È un’autorità assoluta (come
quella del padre di famiglia di quel tempo), ma temperata dalla
fraternità e dalla dolcezza, che deve manifestarsi verso tutti, ma
specialmente verso gli anziani, i malati e i giovanissimi. L’abate
affida le varie mansioni ai monaci e controlla che tutto il mona-
stero funzioni bene.
Monastero centro di cultura
Dalla caduta dell’Impero romano fino al 1200, i monasteri furono
i centri culturali della cristianità. Nei monasteri nacquero le
scuole per istruire i ragazzini affidati dai genitori alla comunità,
che a loro volta diventavano monaci, e anche per istruire i laici
che volevano imparare. Oltre alle scuole, ogni monastero ebbe
due elementi molto importanti per la cultura: la biblioteca e lo
scriptorium. Nella prima si custodivano i libri che i monaci leg-
gevano e su cui pregavano, e anche i libri salvati dai saccheggi
dei barbari. Nel secondo alcuni monaci specializzati (amanuensi)
ricopiavano i libri prestati dagli altri monasteri. Su pergamena fu-
rono ricopiati libri preziosissimi, salvati dalle distruzioni o donati
da principi che li custodivano nei loro castelli. Essi erano antiche
Bibbie, Messali, ma anche capolavori dell’antichità (come le
opere di Virgilio, di Orazio...) che solo in quel modo riuscirono
ad arrivare fino a noi.
Le ricchezze e le riforme
Col passare dei secoli, i monasteri divennero sempre più ricchi,
per le proprietà sempre più estese che accumulavano sia per il
lavoro dei monaci, sia per le donazioni che ricevevano da re, prin-
cipi e persone che li lasciavano eredi dei loro beni. Gli abati, poco
per volta, invece di seguire Gesù che aveva predicato il distacco
dalle ricchezze, divennero ricchissimi signori. I monaci abbando-
narono la severa disciplina voluta da Benedetto. All’interno stesso
del grande Ordine Benedettino sorsero monaci che si ribellarono a
76
questa “mondanizzazione” dei monasteri, e chiamarono i Bene-
dettini a ‘riformare la loro vita’, tornando alle norme fissate da
Benedetto nella Regola. La prima grande ‘riforma’ iniziò nel
monastero di Cluny, in Francia, nell’anno 910. I monaci tornarono
a una vita ispirata al Vangelo e alla Regola: preghiera, lavoro,
silenzio, povertà, assistenza ai poveri. Ma anche il monastero di
Cluny, col passare degli anni, divenne il centro di numerosi mona-
steri che divennero troppo ricchi e troppo potenti. Duecento anni
dopo sorse un altro riformatore, Bernardo di Clairvaux, che noi
chiamiamo ‘di Chiaravalle’. Egli fondò nel 1115 il monastero di
Clairvaux, e ne fu abate per quarant’anni, fino alla morte. Con i
suoi monaci visse alla lettera la Regola di Benedetto, condusse
una vita severa fondata su preghiera, studio della Bibbia, lavoro
manuale e stretto digiuno. Richiamati dalla sua fama di uomo
di Dio, molti chiesero di diventare suoi discepoli. I monaci di
Clairvaux raggiunsero il numero di 700, e i monasteri fondati
sotto la direzione di Bernardo in luoghi solitari e incolti, alla sua
morte erano 68. Essi furono chiamati ‘Benedettini Cistercensi’.
Il grande fenomeno del Monachesimo è stato così condensato
dallo studioso Ivan Gobry: “I monaci d’Occidente, servendo Dio
con tutto il cuore, hanno servito abbondantemente gli uomini:
praticando la vita spirituale che allontana dall’egoismo hanno pro-
digato a tutti il soccorso della carità; lavorando instancabilmente
hanno fecondato la terra e fatto progredire la tecnica; amanti della
Scrittura, maestra di fede, hanno dato sviluppo (alla scuola), alle
lettere e alle scienze... Non c’è stato nessuno che abbia fatto un
bene maggiore all’Europa”.
77
Capitolo 2
L’Europa e l’Italia tra il 1500 e il 1600.
Dalle corporazioni alla grave crisi del 1500 e 1600
Negli anni che vanno dal 1100 al 1400 si delineano importanti novità nel
mondo del lavoro. Nelle città, dove aumenta considerevolmente il numero degli
abitanti, i lavoratori si riuniscono in associazioni volontarie. Vengono chiamate
confraternite, poste sotto la protezione di un Santo. I confratelli si aiutano, ma
aiutano anche i bisognosi, li assistono se ammalati. Queste associazioni lentamente
si modificano. I tessitori, i panettieri, i fabbri, i calzolai... si uniscono in ‘associa-
zioni di mestiere’, si danno un regolamento, proteggono i segreti del loro mestiere
con giuramento. Noi le chiamiamo corporazioni, ma in quel tempo in Italia si chia-
mavano arti, in Francia guilde, i Inghilterra ghild, in Germania Guiden. In ogni
professione operai, piccoli artigiani, aiutanti, apprendisti, restavano strettamente
sottoposti ai capi che venivano eletti. Questi capi giuravano sulle reliquie di un
Santo di ‘proteggere la corporazione’ con lealtà. Il lavoro notturno e quello festivo
erano vietati. L’orario andava dall’alba al tramonto, più lungo d’estate, più corto
d’inverno.
Nel 1400 le corporazioni decadono. Lo Stato (sempre più impegnato in guerre
costose) le condiziona, le sfrutta imponendo tasse che schiacciano i lavoratori. Nel
1500 si amplia il libero commercio e il libero mercato (è stata scoperta l’America),
decade il senso ‘religioso’ del lavoro. Chi è ricco impone forme di lavoro che
sfruttano i lavoratori per accumulare nuove ricchezze. Nelle città e nelle campagne
si diffonde una nuova povertà, con gente che per campare accetta qualunque
salario. “È noto il caso di Giovanni Boinebroke – scrive A.M. Baggio –: dava da
lavorare agli artigiani locali (nella Francia del Nord) la lana che importava dal-
l’Inghilterra, comprando poi il prodotto finito. Fornire materiale scadente e preten-
dere un prodotto eccellente faceva parte delle sue abitudini. Praticava un’usura
spietata, imponendo il rimborso in prestazioni lavorative anziché in denaro, in
modo tale che gli artigiani del suo giro somigliavano un po’ alla volta più a dei
servi che a dei lavoratori autonomi. I comportamenti alla Boinebroke erano diffusi;
un imprenditore come lui controllava tutta la catena produttiva”. Nel 1500 e
nel 1600 non arriva soltanto lo sfruttamento del lavoro. Con gli scontri continui tra
Francia e Spagna, nell’Europa e specialmente in Italia (le cui regioni sono occu-
pate ora dall’uno ora dall’altro contendente) arrivano tempi oscuri. “Il Cinquecento
e il Seicento sono secoli di guerre continue che portano con sé carestie e pesti-
lenze. L’Europa è attraversata da una fiumana di derelitti, che trascinano un’esi-
78
stenza allucinante. Profughi di vario tipo, disertori, mercenari, reduci dagli eserciti
disciolti, vivandiere, prostitute, storpi e ciechi delle organizzazioni di mendicanti,
disoccupati, gente che fuggiva dai debiti, furfanti veri e propri, falsi monaci e falsi
pellegrini: mille diverse povertà si mischiano con gli artigiani itineranti, i pelle-
grini veri, i lavoratori stagionali, in un flusso continuo e spesso disperato. Per tutti
un incubo comune: la fame. Nella dotta Padova del 1529, ci racconta il bolognese
G.B. Segni, “ogni mattina si ritrovavano per la città 25 e 30 morti di fame sopra i
lettami delle strade. Li poveri non avevano effigie umana”. Non esistono strutture
pubbliche capaci di affrontare i mille bisogni insoddisfatti. È l’iniziativa cristiana
che vi provvede. Quella di Girolamo Emiliani, per esempio, che per molto tempo
aveva servito la Repubblica Veneta, in pace e in guerra. Convertitosi al cristiane-
simo, si diede a raccogliere ed educare gli orfani, lui che molti ne aveva forse pro-
curati combattendo” (A.M. Baggio). O quella di Giuseppe Calasanzio, che vedendo
le bande di ragazzi poveri e abbandonati della città di Roma afferma che “il male
non proviene dall’istruzione ma dall’ignoranza ch’è tenebra, languore e quasi
morte dell’anima”. Questa affermazione – scrive Filippo Hazon – “sul piano sto-
rico è rivoluzionaria, tanto più che fa seguire alle affermazioni i fatti, compiuti con
eroica virtù e fra difficoltà e asprezze senza fine”. Il Calasanzio iniziò la prima
scuola popolare gratuita, e deve essere considerato uno dei massimi riformatori
ed innovatori del sistema scolastico. Accanto a quello di Girolamo Emiliani e del
Calasanzio prendono vita i movimenti prodotti da una eccezionale fioritura di
grandi personaggi le cui attività di assistenza e di educazione a favore della
gioventù, promosse con genuino spirito evangelico, hanno dato vita ad ordini o
congregazioni religiose tuttora fervidamente presenti e ad innovazioni profonde
delle strutture educative”. In questa seconda parte, tra questa “eccezionale fiori-
tura”, scelgo nove “grandi personaggi”, e ne delineo il profilo.
Figure di riferimento:
– Girolamo Miani (Emiliani), santo (1486-1537) Fondatore dei Somaschi
– Angela Merici, santa (1487-1540) Fondatrice delle Orsoline
– Antonio M. Zaccaria, santo(1502-1539) Fondatore dei Barnabiti
– Giuseppe Calasanzio, santo (1557-1648) Fondatore degli Scolopi
– Vincenzo De Paoli, santo (1581-1660) Fondatore delle Figlie della Carità e dei
Preti della Missione
– Giovanni Battista de La Salle, santo (1651-1719) fondatore dei Fratelli delle
Scuole Cristiane
– Maddalena Gabriella di Canossa, santa (1774-1835) Fondatrice delle Canossiane
– Gaspare L. Bertoni, Santo (1777-1853) Fondatore degli Stimmatini
– Ludovico Pavoni, venerabile (1784-1849) Fondatore della Congregazione dei
Figli dell’Immacolata, detti Pavoniani
79
GIROLAMO MIANI (EMILIANI), SANTO
Collocazione storica (1486-1537)
Patronati Patrono degli Orfani
Si ricorda come Fondatore dei Somaschi
La vita in un frammento Dolcissimo Gesù, non vogliate essermi Giudice ma Salvatore
Cenni biografici Guerra in terra veneziana
Quando gli eserciti di Germania e di Francia avanzarono nel 1511
contro la Repubblica di Venezia, a capo del piccolo esercito ve-
neto a Castelnuovo del Friuli era il venticinquenne Girolamo
Miani. Discendente di famiglia nobile, nominato castellano in
luogo del fratello Luca, si comportò valorosamente, ma tradito e
rimasto solo con pochi soldati, fu fatto prigioniero da Mercurio
Bua. In carcere, ripensando alla sua vita e al disordine della sua
condotta, si raccomandò umilmente alla Madonna venerata nel
Santuario di S. Maria Grande di Treviso perché lo aiutasse. La
Vergine gli apparve vestita di bianco, lo liberò e lo accompagnò
sulla via per Treviso. Il libro dei miracoli del Santuario conserva
il racconto dell’evento straordinario.
Una “bottega” per gli orfani
Lasciato il castello, ritornò a Venezia con l’idea di abbandonare
ogni forma di attività politica e darsi completamente a Dio. Ebbe
amorevolmente cura della cognata, vedova di Luca, e dei nipoti,
amministrando senza alcun utile personale il commercio della
lana di loro proprietà e maturando una radicale trasformazione
spirituale. Decisivo fu l’incontro nel 1527 con il vescovo Giam-
pietro Carafa (il futuro Paolo IV), Gaetano Thiene e i primi Tea-
tini, approdati a Venezia dopo essere scampati al sacco di Roma.
Essi lo trascinarono in una travolgente attività per gli altri quando,
durante la gravissima carestia dell’anno seguente, una folla di
contadini affamati si riversò in città. Sfamò, vestì, ospitò il mag-
gior numero possibile di poveri, vagando di notte per assistere
gli infermi e seppellire i cadaveri abbandonati per le calli. In una
baracca allestita dal governo veneziano accolse e soccorse un
mondo cosmopolita di miserabili derelitti provenienti dalla la-
guna, dalla terraferma, dalla Schiavonia: centotre poveri nei quali
il Miani riconobbe e servì Gesù Cristo. Superata l’emergenza,
provvide ai fanciulli orfani mendicanti rilevando una bottega in
prossimità di S. Basilio e poi a S. Rocco. Istituì per loro un’opera
che rinnovava in modo originale l’assistenza veneziana e progettò
la riforma della Chiesa realizzando una comunità modellata sulla
Chiesa dei tempi degli Apostoli. Scelse la povertà assoluta con
una donazione ai nipoti di tutti i suoi beni per seguire Cristo,
rispondendo all’invito: “Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello
che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”. Non fu mai sacer-
dote. Mentre era al servizio degli Incurabili, dal Carafa fu man-
dato a Bergamo per realizzare opere analoghe a quelle veneziane.
Raggiunse la città con un gruppo di orfani nella primavera avan-
80
zata del 1532. Bruciando della carità divina, volle unire a Dio il
maggior numero possibile di cristiani, incominciando dai bambini
orfani, orfane vergini, e prostitute convertite. Nacquero delle
scuola molto religiose, fondate sul lavoro, la devozione e la carità,
in cui si attuava la riforma della Chiesa da tutti invocata. Il lavoro
era uno dei tre pilastri che sorreggevano la formazione dei
ragazzi. Dopo aver appreso i primi rudimenti erano collocati a
padrone con strumento notarile che tutelava l’apprendistato di
un mestiere. Accanto al lavoro, gli orfani imparavano a leggere, a
scrivere e quel minimo di nozioni necessarie per l’inserimento
dignitoso nella vita sociale. L’esempio della santa vita del Miani
fu contagioso: coinvolse sacerdoti e laici a unirsi con lui a Cristo
nella compagnia dei servi dei poveri, denominata dal popolo “i
poveri del Miani”, fondata a Bergamo nel 1532: una confraternita
senza voti, senza un superiore, con una organizzazione capitolare,
in cui la povertà evangelica radicale e il servizio agli orfani rende-
vano visibile la consacrazione a Cristo. Parallelamente fondò una
confraternita femminile per l’assistenza alle orfane e alle conver-
tite. L’amministrazione economica delle opere la demandò a un
gruppo di cittadini, riuniti a modo di religione. Come un incen-
diario diede vita a congregazioni di orfani a Somasca, Milano,
Como, Pavia e Brescia. Da questa compagnia pretridentina avrà
origine nel 1568 la congregazione dei padri Somaschi.
Trasformare un rozzo sasso in un letto
Somasca, un paese sul confine tra Venezia e il ducato di Milano,
divenne per lui e i suoi compagni luogo di pace. Qui trascorse gli
ultimi mesi della sua vita dedicandosi al lavoro nei campi con gli
orfani e i contadini, alla evangelizzazione della gente, alla peni-
tenza flagellandosi e dormendo sopra un sasso rozzamente ridotto
a forma di letto, e alla contemplazione nella solitudine di una
grotta. Contratta una pestilenza mentre assisteva i colpiti dal
male, morì in pochi giorni nella notte tra il 7 e l’8 febbraio 1537.
“Pareva che avesse il paradiso in mano per la sicurezza sua;
faceva diverse esportazioni ai suoi e sempre con la faccia così
allegra e ridente che innamorava e inebriava dell’amore di Cristo
chiunque lo guardava”. La sua preghiera preferita era: “Dolcis-
simo Gesù, non vogliate essermi giudice ma salvatore”. Clemente
XIII lo dichiarò Santo, e Pio XI patrono universale degli orfani e
della gioventù abbandonata.
81
ANGELA MERICI, SANTA
Collocazione storica (1487-1540)
Patronati Patrona di Desenzano sul Garda
Si ricorda come Fondatrice delle Orsoline
La vita in un frammento “Dio è qui”
Cenni biografici Due sorelle, un cuore solo
Mamma e papà, poveri contadini di Desenzano sul Garda, mori-
rono quando lei aveva 15 anni. Le lasciarono poche cose, ma le
regalarono una ricchezza che nessuno le avrebbe mai rapito: una
fede cristiana solida e appagante. Angela fece un solo cuore con
la sua sorella maggiore, e insieme vissero lavorando e pregando.
Un fratello della mamma, molto ricco, le portò nella sua casa a
Salò. Furono meno assillate dal lavoro, e dedicarono tutto il
tempo libero alla preghiera. Andavano a dormire presto alla sera,
per potersi svegliare e pregare mente ancora brillavano le stelle e
l’aurora dipingeva di rosa l’orizzonte. Ma quand’ebbe diciot-
t’anni, Angela vide morire anche la sorella, e quando ne compì
venti la morte si portò via anche lo zio. Che cosa voleva Dio
da lei, in quel mondo che le sembrava sempre più pagano? La
risposta la ebbe in una notte del 1497 (quando lei aveva 23 anni):
come Giacobbe nella Bibbia vide una grande scala luminosa che
congiungeva la terra al cielo. Sulla scala saliva verso l’alto una
turba di ragazze, ciascuna accompagnata da un angelo. Una di
esse era una sua cara amica morta di recente, che si volse a lei e le
disse: “Tu devi fondare una comunità in cui cresceranno gli angeli
che accompagneranno le ragazze verso Dio”. Angela non credette
molto a questo sogno. Era iscritta al Terz’Ordine di san Fran-
cesco, e cercò d’imitare il Santo vivendo in strettissima povertà.
Ma cominciò anche a guardarsi intorno. Scoprì le case delle fa-
miglie poverissime, le filande dove entravano ragazzine giova-
nissime per guadagnarsi il pane. Penetrò in quelle case, entrò in
quelle filande. Portava un piccolo aiuto e una grande fede. Diceva
a tutti: “Dio è qui!”. Non sapeva cosa volesse dire ‘educare le
ragazze’, perché fino a quel tempo nessuno si era preoccupato
di farlo. Lei faceva quello che la sua mamma aveva fatto con lei:
voleva bene, aiutava, insegnava a conoscere Gesù. E siccome
aveva da sola imparato a leggere e anche un poco a scrivere, lo
insegnava a chi le chiedeva di imparare.
La vedova di Brescia
Aveva 40 anni quando una benestante vedova di Brescia, Caterina
Patengola, la pregò di andare ad abitare nella sua casa. Si sentiva
sola perché aveva perduto i figli in guerra (quelle frequenti guerre
che si combattevano per i diritti dell’imperatore, dei principi, dei
papi, e che i poveri pagavano per tutti). Pregavano insieme, e
insieme cominciarono a radunare nella vasta casa bambine e
ragazze povere. Le nutrivano, spiegavano loro il catechismo, inse-
gnavano a leggere e a scrivere, facevano loro imparare un lavoro,
82
le portavano con sé a curare i malati. Si cominciò a parlar bene
di loro nei paesi intorno. I Gonzaga di Mantova invitarono Angela
a far qualcosa di simile nelle loro terre. Francesco II Sforza la
invitò diverse volte a Milano, si consigliò a lungo con lei fino a
chiamarla ‘sua madre spirituale’. La pregò di portare la sua opera
nella sua città.
Pellegrina in Terra Santa
A 48 anni, Angela Merici pellegrinò in Terra Santa accompa-
gnando un suo parente. Pellegrinò anche a Roma, per acquistare
la grande indulgenza del Giubileo. A Roma papa Clemente VII la
volle incontrare, e la esortò a rimanere negli Stati della Chiesa a
iniziare un’opera di educazione per le ragazze. Nessun’altra
donna prima di lei, infatti, si era occupata dell’educazione della
gioventù femminile. Ma negli Stati della Chiesa stava arrivando
le guerra, e Angela tornò alla sua Brescia. Anche lì però giunse la
guerra condotta dall’imperatore Carlo V. Angela dovette salvare
se stessa e le sue giovani dalla soldataglia. Intensificò preghiere e
penitenze per ottenere da Dio la pace. In quel tempo così turbi-
noso, in cui ognuno sembrava pensare solo a salvar la propria
vita, chi avrebbe pensato che stava per nascere una nuova fami-
glia religiosa, destinata a fare un bene grande? Molte giovani e
donne del popolo avevano chiesto di vivere con lei. Angela però
aveva preferito lasciarle nella vita di tutti i giorni, perché ciascuna
si impegnasse dove viveva a istruire le giovani senza istruzione,
a visitare e curare i malati, a soccorrere i poveri. Ma a farle cam-
biare parere intervennero due fattori decisivi. Serafino di Bolo-
gna, suo confessore e direttore spirituale, le diede l’ordine di isti-
tuire una vera famiglia religiosa per l’educazione della ragazze.
Obbedendo, Angela scelse dodici giovani, con cui iniziò a vivere
non proprio insieme, ma radunandosi ogni tanto per decidere le
preghiere e le opere di bene da fare insieme. Due anni dopo – rac-
conta Angela – vide la martire sant’Orsola, che a nome di Dio
la rimproverò della sua lentezza nel realizzare la sua famiglia
spirituale, e la esortò a unirla più strettamente dandole il nome di
Orsoline. Angela Merici aveva ormai 61 anni quando radunò per
la prima volta la sua famiglia religiosa. La radunò in un’ampia
casa situata sulla piazza della Cattedrale, prestatale da una vedova
cristiana. Era il 25 novembre 1535. Arrivarono molte postulanti.
Angela però continuò a chiedere alle sue religiose solo un minimo
di vita comune per pregare insieme (né voti, né abito). Chiese
invece sempre un costante contatto con il prossimo bisognoso.
Ad esse diede una regola molto semplice e il nome di Compagnia
di S. Orsola. Lasciò anche dei Ricordi e un Testamento spirituale
che racchiudono la sua eredità spirituale. Andò incontro a Dio il
27 gennaio 1540.
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ANTONIO M. ZACCARIA, SANTO
Collocazione storica (1502-1539)
Patronati
Si ricorda come Fondatore dei Barnabiti
La vita in un frammento “Intercedete presso Dio perché possa svestirmi delle mie imperfe-
zioni, della pusillanimità e dell’orgoglio”
Cenni biografici Il mantello di seta
Sua madre, ricca e nobile, aveva appena 18 anni quando gli diede
la vita. Il padre era morto durante la gravidanza, e lei addensò sul
suo figliolino tutte le tenerezze e le cure. Lo crebbe innocente,
pio, amante dei poveri. Fu orgogliosa di lui quando, uscendo dalla
Messa, videro una mamma col suo bambino che tremavano dal
freddo, non avevano con sé denari, e Antonio Maria d’impulso li
ricoprì col suo prezioso mantello di seta. Venne presto la guerra.
Cremona fu invasa dai soldati del re di Francia. Ma Antonio
Maria, anche tra i rumori di guerra, compì i suoi studi superiori:
filosofia a Pavia, dottorato in medicina a Padova a 22 anni. La
vita degli studenti era libertina: vino e donne. Antonio Maria
invece condusse vita da monaco: Comunione ogni domenica, voto
di verginità, rinuncia a tutti i suoi beni materiali a favore della
madre. Entrato nel Collego dei Medici di Cremona, cominciò a
curare i malati. Ma si accorse subito che prima dei corpi occor-
reva curare le anime. Vino e vizio rovinavano tante vite. La mi-
seria distruggeva famiglie dove il padre lavorava poco e beveva
molto, dove i figli intristivano senza lavoro né istruzione. Antonio
Maria studiò teologia e a 26 anni fu ordinato sacerdote. Nella
chiesa di S. Vitale, vicina a casa sua, cominciò a radunare fan-
ciulli e a far loro catechismo, innamorandoli di Gesù. Famiglie
nobili gli affidavano i figli, ed egli apriva le loro menti a una fede
soda con omelie semplici e dialoghi vivaci. S. Vitale fu presto
insufficiente a contenere i fedeli che volevano ascoltarlo, con-
fessarsi da lui. Anche gli ospedali e le carceri chiedevano il suo
ministero sacerdotale.
Troppi preti scandalizzavano
Quando fu ordinato sacerdote (1528) mancavano ancora 17 anni
all’apertura del Concilio di Trento, che avrebbe rinnovato la
Chiesa e la vita dei preti. “In quegli anni, troppi infelici sacerdoti
e religiosi scandalizzavano il popolo con ignoranza, lusso, e
vizio” (G. Pettinati). Antonio Maria pensò di combattere quel
male raccogliendo in una fondazione sacerdoti umili, penitenti e
operosi. Aspettava l’occasione per cominciare. L’occasione arrivò
quando la contessa Ludovica Torelli, vedova, decisa a dedicare i
suoi beni all’educazione delle fanciulle abbandonate, lo invitò a
Milano a iniziare la sua fondazione. Era il 1530. Antonio Maria
aveva 28 anni. In Milano la parola di Dio veniva predicata solo
in quaresima. Il catechismo non si faceva mai. Esisteva tuttavia
l’“Oratorio dell’Eterna Sapienza”, che promuoveva la vita cri-
84
stiana tra sacerdoti e laici. Anima dell’Oratorio erano due giovani
milanesi di famiglia nobile: Bartolomeo Ferrari e Giacomo Mo-
rigia. Essi invitarono Antonio Maria a parlare in una riunione
dell’ Oratorio. Egli accettò, ed espose con entusiasmo il suo pro-
getto. Con parole di fuoco accennò ai mali della cristianità, e
disse quanto bene sarebbe venuto alla Chiesa da un’unione di sa-
cerdoti stretti da voti religiosi e totalmente dedicati all’educazione
della gioventù e alla rinascita della fede nella società. Ferrari e
Moriggia furono i primi ad aderire alla sua iniziativa. Antonio
Maria fu il fondatore e loro i confondatori di quello che chiama-
rono “Ordine dei Chierici Regolari di San Paolo”. Il loro centro fu
la casa dove la contessa Torrielli aveva già raccolto molte ragazze
desiderose di crescere nell’istruzione e nell’educazione. In quei
giorni decisivi, Antonio Maria scrisse al suo direttore spirituale:
“Intercedete presso Dio perché possa svestirmi delle mie imperfe-
zioni, della pusillanimità e dell’orgoglio”. Iniziarono una vita di
rigorosa povertà e di totale servizio cristiano. I loro primi obiettivi
furono: l’educazione delle giovani, la predicazione, l’assistenza
ai malati e ai carcerati. Molti chiedevano di entrare nell’Ordine.
Ma solo dopo l’approvazione del papa Clemente VII poterono
ricevere nuovi confratelli e legarsi alla Chiesa con i primi voti
pubblici. Era il 18 febbraio 1533. La crescita dei membri obbligò
a trasferire il centro dell’Ordine in una casa affittata accanto alla
chiesa di S. Caterina. Lì Antonio Maria parlò sovente ai nuovi
arrivati, tracciando le regole fondamentali dell’Ordine e ponendo
a fondamento di tutto una grande devozione a Gesù crocifisso e
a san Paolo.
I padri e le madri di famiglia
Nella stessa chiesa parlò molte volte ai padri e alle madri di fami-
glia per ammaestrarli sui loro doveri. Tra essi costituì una specie
di Terz’Ordine, che impegnò nell’insegnamento del catechismo
ai ragazzi abbandonati, ai malati e ai carcerati. Fu lui a iniziare
la pratica delle Quarantore, un condensato di preghiera e di pre-
dicazione per chi voleva ricominciare a vivere la fede. Nel 1586
(aveva 34 anni) suggerì che Superiore dell’Ordine fosse eletto
padre Moriggia. Egli da quel giorno si dedicò a due imprese deli-
catissime: la selezione di quanti chiedevano di entrare nell’Or-
dine, e la trasformazione della casa della baronessa Torelli in mo-
nastero. Qui egli, tra le ragazze che si erano riunite per “ricevere
un’educazione”, accompagnò la nascita delle Angeliche di San
Paolo. Fu il monastero di cui S. Carlo Borromeo, negli anni suc-
cessivi, si sarebbe servito per riformare tutti i monasteri della
grande archidiocesi. Ma Antonio Maria non poté vedere questi
splendidi frutti. Dio lo chiamò a sé il 5 luglio 1539, a soli 37 anni.
Otto anni dopo, il suo Ordine pose il suo centro nella chiesa di san
Barnaba, ricavandone il nome sotto il quale oggi è conosciuto:
i Barnabiti.
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GIUSEPPE CALASANZIO, SANTO
Collocazione storica (1557-1648)
Patronati Patrono di tutte le scuole popolari cristiane
Si ricorda come Fondatore degli Scolopi
La vita in un frammento “Chi si fa loro maestro e, attraverso la formazione intellettuale,
s’impegna a educarli, soprattutto nella fede e nella pietà, compie
in qualche modo verso i fanciulli l’ufficio stesso del loro angelo
custode, ed è altamente benemerito del loro sviluppo umano e cri-
stiano”
Cenni biografici Peralta, regno di Aragona
Di antica famiglia nobile, suo padre sognava per lui una gloriosa
carriera militare. Giuseppe invece (nato a Peralta del Sal, nel
regno di Aragona) chiese con rispetto di poter studiare diritto e
filosofia alla celebre università di Lerida. E si dimostrò uno
studente saggio. I compagni di università lo elessero ‘principe’
per la sua condotta pia, penitente e innocente. Al termine dei
corsi, sempre con il rispetto dovuto a suo padre, gli chiese il per-
messo di studiare teologia a Valenza, per diventare sacerdote.
A Valencia abitò in una famiglia di conoscenti. Viveva accanto a
lui una splendida ragazza, figlia di quella famiglia. L’entusiasmo
festoso dei vent’anni la fece innamorare perdutamente di Giu-
seppe, studente calmo e bello. Anche Giuseppe aveva vent’anni, e
capì che doveva scegliere: o fidanzarsi con quella cara amica che
lo adorava, o afferrarsi saldamente al suo ideale: diventare sacer-
dote. Dopo aver pregato a lungo, decise per il sacerdozio. Seb-
bene gli costasse molto, lasciò Valencia e andò a terminare i suoi
studi teologici ad Alcalà. Giuseppe fu ordinato sacerdote a 25
anni dal vescovo di Urgel. Era tanta la stima che lo circondava,
che lo stesso Vescovo lo scelse come teologo, giudice e visitatore
(occorreva persuadere i parroci a mettere in pratica le disposizioni
del Concilio di Trento terminato ormai da vent’anni, ma che tro-
vava forti opposizioni). Ovunque la sua azione discreta ma decisa
persuase i parroci a rinnovare la predicazione, a ridare alle chiese
pulizia e bellezza, a celebrare la Messa e i Sacramenti col mas-
simo decoro. Tutto questo fece rifiorire la vita cristiana. Subito
dopo il Vescovo lo nominò suo Vicario generale.
Chiamato dal Cardinale
Ma anche a Roma era giunta la fama di questo sacerdote santo e
attivo, e il cardinale Colonna nel 1592 lo chiamò a far parte della
sua famiglia. Aveva 34 anni quando partì dalla Spagna. A Roma,
mentre si dedicava all’educazione di un nipote del Cardinale,
Giuseppe si guardava intorno e scopriva la povertà materiale e
spirituale della gente. Dopo essere stato pellegrino ad Assisi, sulla
tomba di san Francesco, cominciò la sua battaglia cristiana su due
fronti: soccorrere i poveri e i malati nelle case e negli ospizi;
rianimare l’insegnamento del catechismo ai ragazzi e al popolo.
Camminava un giorno in una piazza e pregava recitando il salmo
86
10 (“A te si abbandona il misero, dell’orfano tu sei il sostegno...”)
quando gli passò davanti una turba vociante di ragazzi laceri e
sporchi. In quel momento, Giuseppe capì che Dio lo chiamava a
fondare scuole gratuite, elementari, che tirassero via dalla strada e
dall’ignoranza i figli del popolo. Fu il primo a pensarle e a realiz-
zarle. Le chiamò fin dal primo momento Scuole Pie. Dopo aver
cercato invano l’aiuto della autorità municipali, dei Domenicani e
dei Gesuiti, iniziò da solo, in due povere stanze vicine alla sacre-
stia di S. Dorotea in Trastevere. Era la fine del 1597. Quando si
seppe che un prete spagnolo aveva aperto per i ragazzini scuole
gratuite, giornaliere, senza distinzioni tra ricchi e poveri, le fami-
glie popolane gli mandarono con entusiasmo i loro figli. Bisognò
trovare locali sempre più ampi. Nel 1612, quando le Scuole Pie si
trasferirono presso la chiesa di S. Pantaleo, gli scolari erano 900.
Gli insegnanti non erano granché: Giuseppe non aveva molti soldi
per stipendiarli. Ma il suo metodo, adottato in ogni Scuola Pia,
dava ugualmente buoni frutti. Innanzitutto si insegnava in italia-
no, non più in latino. Si insegnavano i primi rudimenti del leggere
e dello scrivere, non poesie e discorsi. L’istruzione non era soffo-
cata dall’insegnamento religioso: non si imparavano solo pre-
ghiere, ma anche le parole del mercato, della cucina, del negozio,
dei mestieri. Le classi non erano affollate. Gli orari erano pun-
tuali. Periodicamente si davano esami. Si fornivano a tutti: mensa,
libri, assistenza nel fare i compiti dopo la scuola.
Arrestato, imprigionato, deposto
Dopo aver fatto osservare attentamente le sue scuole, il papa
Clemente VIII gli fornì aiuti economici generosi. Intanto arriva-
rono i primi collaboratori stabili: dietro don Dragonetti, siciliano,
furono quattordici i preti-maestri che arrivarono decisi a dare una
mano a Giuseppe Calasanzio. Nel 1617 papa Paolo V approvò la
nuova famiglia religiosa con il nome di Congregazione Paolina
delle Scuole Pie. Negli anni che seguirono, la Scuole Pie si diffu-
sero rapidamente in Italia e nell’Europa del Nord. Nuovi Papi
trasformarono la Congregazione in Ordine religioso con voti
solenni, invitarono il fondatore a scriverne le Regole, diedero
ai membri l’abito religioso, cambiarono addirittura il nome in
Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie. Ma
alla gente interessavano le ultime due parole, Scuole Pie, e li
chiamò sempre Scolopi. Da vecchio, Giuseppe Calasanzio ebbe
molte opposizioni (le opere di Dio ne hanno sempre tante). Fu
accusato presso i Papi della cose più assurde, fu addirittura arre-
stato, imprigionato, deposto dalla carica di Superiore. Sopportò
tutto con pazienza e spirito di penitenza. Mentre moriva, a 90
anni, si fece leggere la passione del Signore. Oggi egli è santo,
ed è stato proclamato “patrono di tutte le scuole cattoliche”.
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VINCENZO DE PAOLI, SANTO
Collocazione storica (1581-1660)
Patronati Patrono del Madagascar, dei bambini abbandonati, degli orfani,
degli infermieri, degli schiavi, dei forzati, dei prigionieri e delle
Associazioni cattoliche di carità
Si ricorda come Fondatore delle figlie della Carità e dei Preti della Missione
La vita in un frammento “Amiamo Dio, fratelli miei, ma amiamolo a nostre spese, con la
fatica delle nostre braccia, col sudore del nostro volto”
Cenni biografici “Sono un guardiano di porci”
“Non sono che un guardiano di porci e il figlio di un povero con-
tadino”, diceva da vecchio quando qualcuno cercava di baciargli la
mano. Gli occhi gli brillavano tra mille rughe. Aveva un tempera-
mento forte, e il realismo solido e scaltro dei contadini. I suoi geni-
tori furono Giovanni de Paul (che noi abbiamo cambiato in ‘de
Paoli’) e Bertranda de Moras, proprietari di una casupola e di al-
cuni campi a Pouy, in Francia. Da ragazzo fece il pastore. Coperto
di una pelle di montone, alto sui trampoli che si usavano nella sua
regione paludosa, conduceva al pascolo vacche e maiali. Quando
ritornava dal mulino, dove aveva portato a macinare il grano, gli
accadeva di incontrare degli invalidi che vivevano di elemosina.
Apriva il sacco e regalava manciate di farina. Suo padre lo lasciava
fare. Non che fosse un ragazzo diverso dagli altri, Vincenzo. Era
ambizioso, ma davanti ai miserabili sentiva sempre una specie
di pena. A 15 anni fu messo a studiare dai francescani di Dax.
“Ricordo che lì commisi il primo peccato mortale – ricordava Vin-
cenzo. – Mentre ero nell’aula di studio mi fu detto che era venuto
a trovarmi mio padre. Era un contadino mal vestito e zoppicava, e
io mi vergognai di lui e rifiutai di andargli a parlare”. Vincenzo fu
ordinato sacerdote che non aveva ancora vent’anni, e riuscì a re-
carsi a Roma per terminare i suoi studi teologici. Prima di ripartire
per la Francia riuscì a incontrare il Papa Paolo V e a parlargli. A
quel pretino dall’aspetto insignificante (in quel tempo in cui le spie
venivano a sapere ogni cosa) il Papa affidò un messaggio confi-
denziale per il re di Francia Enrico IV. Fu quella l’occasione per
entrare nella Corte. Il re fu contento della riservatezza del messag-
gero, e lo ricompensò con il titolo di ‘elemosiniere della regina’.
Era un titolo senza significato, che serviva solo a ricevere uno
stipendio. Ma Vincenzo lo prese sul serio. Come “elemosiniere” si
presentò alla regina Margherita, e le chiese di portare il suo aiuto
ai malati dell’Ospedale della Carità. Vincenzo sapeva che là erano
ricoverati i malati più miserabili, in stanze sporche e in letti puzzo-
lenti. Ma la realtà che vide superò di gran lunga la sua immagina-
zione. I malati si picchiavano per disputarsi lo scarso cibo. Fu
il primo impatto violento con la miseria che dilagava nella Francia.
Quando San Vincenzo si vergognò
Vincenzo si vergognò di vivere nel lusso della Corte, e chiese
di essere mandato tra i contadini poveri. Nell’autunno del 1613 fu
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nominato parroco di Chatillon, cittadina circondata da grandi
pascoli e stagni. La vita cristiana era nel più totale abbandono. Si
sentì stringere il cuore davanti alla chiesa: era stata trasformata in
una stalla. Ma ciò che lo rattristò di più fu la miseria della gente.
Pochi benestanti, molte famiglie nello squallore. Bambini che mo-
rivano nella fame e nel sudiciume. Vincenzo passò subito ai fatti.
Organizzò una “cooperativa della carità” che non solo aiutava i
bisognosi, ma tentava di farli uscire per sempre dalla miseria: in-
segnava nuove maniere di coltivare la terra, di difendere i raccolti.
Cappellano di seimila galeotti
Dopo cinque anni, Vincenzo è richiamato a Parigi come “educa-
tore dei figli del generale Gondi”. Accetta perché il generale è il
sovrintendente alle navi “galere”, e le “galere” in quel momento
sono una delle più grosse vergogne della Francia. Queste navi da
guerra, che difendono le coste del Mediterraneo dai corsari, sono
lunghe e strette, e sono spinte a volte dalle vele, a volte dalla sola
forza dei remi. Ai remi sono incatenati i ‘galeotti’, cioè i condan-
nati all’ergastolo. Le galere hanno bisogno di seimila galeotti. Se
non ci sono sufficienti ergastolani, vengono incatenati ai remi i
prigionieri di guerra musulmani e anche altri imprigionati per
delitti non gravi. I galeotti sono ammassati nelle prigioni di Mar-
siglia e di Tolone. Da quando salgono sulle navi vivono sporchi e
tormentati dagli insetti, a dorso nudo anche sotto le intemperie,
sotto la frusta dei sorveglianti. Vivono in stato di disperazione, e
se muoiono sono gettati in mare. Vincenzo va a visitare la pri-
gione di Marsiglia e ne esce infuriato. Discute indignato con il
suo “generale”, poi avvicina principi e ministri, parla, supplica,
minaccia perfino. Non riuscendo a capire perché si preoccupi
tanto dei galeotti, gli aumentano lo stipendio, gli danno il titolo di
“cappellano di tutte le galere”. Ma lui non sa che farsene. Vuole
un trattamento più umano per quei poveretti, e in parte riesce
ad ottenerlo. Esige che quelli non condannati all’ergastolo siano
immediatamente liberati, e lo accontentano. Ma poi non gli con-
cedono più nulla. La situazione della gente, nella città e nelle
campagne, era miserabile. Le continue guerre devastavano le
campagne, portando carestia e pestilenza. Per le vie di Parigi si
incontravano turbe di artigiani disoccupati, vecchi, vedove, vaga-
bondi, ragazzi cenciosi. Dovunque si aggiravano bande di rapina-
tori disposti a tutto per sopravvivere. Le autorità si dichiaravano
impotenti.
Da solo contro la miseria
Vincenzo, invece, voleva che quella miseria dilagante finisse. Da
solo poteva ben poco. Decise di radunare gruppi di sacerdoti che
viaggiassero per la campagna come in terra di missione, a risol-
levare i poveri: persuaderli che vivendo ognuno nel proprio
egoismo non sarebbero mai usciti dalla miseria. Occorreva tor-
nare a pregare, a volersi bene, ad aiutarsi a vicenda, a lavorare
i campi rispettando il raccolto degli altri, a ricominciare con
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testarda volontà dopo ogni disastro. I primi ad accettare il suo
invito furono una decina di preti della Piccardia, con buoni risul-
tati. Seguirono molti altri sacerdoti, e la ‘missione’ si estese a
tutta la Francia. Furono chiamati “i preti della Missione”. Con-
temporaneamente alla campagna occorreva pensare a Parigi e alle
città. Vincenzo radunò il fior fiore delle nobili dame, e le mise
al corrente della miseria che regnava nei quartieri poveri e negli
ospedali. Molte di esse non avevano mai visto un ospedale.
Seguendo Vincenzo videro quei luoghi dannati dove mancavano
le norme più elementari di igiene: i malati erano coricati a due o
tre per letto, la fame e la sporcizia uccidevano più della malattie.
Esse si unirono come “Dame della Carità”, e s’impegnarono per
il nutrimento dei malati. Ma non se la sentirono di lavare i panni
sporchi, lavare i pavimenti, pulire i servizi igienici. Allora Vin-
cenzo si rivolse alle ragazze di campagna. La prima che accettò
fu Margherita Naseau, una semplice e mite contadina. Fu la
prima “Figlia della Carità”. Venne a Parigi e si dedicò ai poveri
dal mattino alla sera. “Tutti le volevano bene – scrisse Vincenzo –
perché in lei non c’era niente che non fosse bontà”. La sua vita
fu breve. Morì non ancora trentenne “per aver fatto dormire con
lei una povera ragazza malata di peste, che da sola aveva paura”.
Ma subito dopo Margherita arrivarono tante altre ragazze di cam-
pagna, desiderose di servire i poveri. Vincenzo mise a capo si
questa nuova famiglia la signora Luisa di Marillac, che oggi
veneriamo come santa. Vincenzo parlò loro chiaro e tondo: “Non
voglio che diventiate suore, ma che rimaniate donne cristiane che
vivono insieme per servire i poveri. Avrete come divisa la veste
delle donne popolane, come convento le case dei malati, per cap-
pella la chiesa parrocchiale, per monastero le strade della città,
per penitenza il servizio dei poveri, per velo la modestia dei
vostri occhi e il timor di Dio”. Le “Figlie della Carità” si svilup-
parono in maniera prodigiosa, come i pani e i pesci tra le mani
di Gesù.
I bambini abbandonati alle porte delle chiese
Una piaga faceva sanguinare il cuore di Vincenzo: i bambini
abbandonati. Ogni anno, a Parigi, venivano abbandonati alle porte
delle chiese centinaia di bambini. Morivano. “Da 50 anni – scri-
veva Vincenzo – non ne è rimasto in vita neppure uno”. Dopo una
vivacissima discussione, le Dame della Carità accettarono di
aprire “L’opera dei trovatelli” che ne salvò moltissimi. Quan-
d’ebbe 78 anni, Vincenzo vide come un miracolo tornare in
Francia la pace. Guerra, carestia, pestilenza erano finite. Subito
dopo la salute di Vincenzo crollò. Morì su una seggiola accanto
al fuoco, perché sentiva tanto freddo. Aveva quasi 80 anni. Era il
27 settembre 1660.
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GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE, SANTO
Collocazione storica (1651-1719)
Patronati Patrono di tutti gli insegnanti ed educatori cattolici
Si ricorda come Fondatore dei Fratelli delle scuole Cristiane
La vita in un frammento “Gli alunni hanno poco affetto per il maestro che non è engageant
(che non dà desiderio di entrare in relazione!)”
Cenni biografici Il barbone morto nella stalla
Si era presentato un povero al palazzo della nobildonna De Mail-
lefer di Rouen, ma era stato scacciato dalla sdegnata padrona di
casa. Il cocchiere di palazzo, avendone pietà, lo fece riposare
nella stalla dove però il povero stremato dagli stenti, morì. La
padrona, informata dell’accaduto, indispettita e furiosa, gettò al
cocchiere una tovaglia: “Avvolgetelo con questa e portatelo via!”
Così fu fatto. Ma rientrando in sala da pranzo, Madame de Mail-
lefer trovò la stessa tovaglia accuratamente piegata, accanto al
suo posto. Spaventata e turbata si confidò al padre Barrè, suo
direttore spirituale. “Respingendo quel povero, Voi avete respinto
Gesù – fu la risposta –. La vostra ricchezza vi rende responsabile
davanti alla povertà del prossimo”. Barrè ricordò le molte occa-
sioni in cui avevano parlato della misera condizione di tanti bam-
bini e bambine, ridotti allo sbando e all’emarginazione in Rouen.
Jeanne Maillefer accolse la proposta e vennero aperte scuole,
chiamate “Scuole del Bambino Gesù”, per le fanciulle povere
della città.
Il progetto si diffonde
Madame de Maillefer, originaria di Reims, visto il bene operato
dalle scuole aperte in Rouen, volle trasferire l’iniziativa anche alla
sua città natale e, sempre con l’aiuto di padre Barrè, riuscì a pro-
muovere l’attività dell’Abbè Roland che istituiva anche in Reims
le ‘Scuole del Bambino Gesù’. I tempi erano durissimi, e per pro-
seguire l’opera, l’Abbè Roland è costretto anche ad elemosinare
ed aggravare il proprio stato di salute, morendo, a soli 35 anni,
per un’improvvisa emorragia. Ha appena potuto assistere alla
prima Messa di un carissimo amico, il canonico Giovanni Battista
de la Salle, nipote della Maillefer, lasciandogli, per testamento, la
direzione delle proprie scuole. Sollecitato personalmente dalla zia
e dall’entusiasmo di due giovani collaboratori giunti da Rouen, il
de la Salle si pone con energia nell’opera lasciatagli da Roland.
All’Arcivescovo e agli amministratori della città egli traccia
un quadro realistico: “I genitori, costretti a lavorare a giornata,
lasciando i propri figli in stato di abbandono. Padri e madri sono
costretti a lavorare fuori casa, per poter sopravvivere e provve-
dere alla famiglia. Figli e figlie vivono in strada, inclinandosi
così alla delinquenza e all’immoralità. A questa drammatica
situazione si può ovviare istituendo scuole gratuite ove i ragazzi
possano vivere tutto il giorno accanto a maestri dediti alla loro
educazione, imparando a leggere, scrivere, far di conto e rispet-
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tare la famiglia, la società e la Religione. Rifiutare ciò significa
rendersi corresponsabili della loro rovina”.
La firma di un nobile
Chi sottoscrive quella lettera non è solo un giovane prete, ma è il
primogenito di Louis de la Salle, nobile magistrato alla Corte di
Giustizia della città. A soli 16 anni (dieci prima della propria ordi-
nazione sacerdotale) ha ricevuto in eredità il titolo di Canonico
della Cattedrale, ha compiuto studi accademici brillanti all’Uni-
versità parigina della Sorbona e compiuto la propria formazione
nel Seminario di Saint Sulpice. Le autorità non possono non pren-
dere in considerazione le sue parole, ed assicurano provvedimenti
idonei mentre, diffondendosi la voce, lo stesso re Luigi XIV, con
un decreto del 17 febbraio 1679, prende sotto la sua protezione le
scuole cristiane del Canonico de la Salle. Molti approvano e so-
stengono l’opera del de la Salle, ma c’è anche la categoria dei
maestri cosiddetti scrivani, disponibili ad insegnare a pagamento,
che non sopporta la concorrenza delle scuole gratuite. Il 15 aprile
dello stesso anno, il de la Salle inizia la sua opera, ed in soli sei
mesi vengono aperte cinque scuole per i ragazzi. La difficoltà del-
l’azione educativa nei confronti di giovani fortemente traviati,
pone a dura prova le capacità dei collaboratori del de la Salle. Su
suggerimento di padre Barrè prende, nel 1680, la straordinaria de-
cisione di accoglierli in casa sua, il Palazzo de la Cloche, per po-
terli formare direttamente alla pratica educativa e alla condivi-
sione dell’ideale. Inizia a vivere con loro, perfeziona la loro istru-
zione, diventa il loro animatore e il loro sostegno. La famiglia del
de la Salle però non vede di buon occhio questa iniziativa: la roz-
zezza di questi maestri turba i ritmi della vita e le abitudini di
casa. Jean-Baptiste allora, per non suscitare tensioni, il 24 giugno
1682 lascia per sempre la propria casa e si trasferisce in una po-
vera abitazione nella Parrocchia di Saint Remi. Ancor oggi,
questo giorno viene ricordato dai Fratelli delle Scuole Cristiane
come quello della loro nascita. Mentre i dintorni di Reims sono
nuovamente travolti dalla guerra, a Saint-Remi una ventina di gio-
vani maestri vivono con il de la Salle un primo stile di vita reli-
giosa: preghiera, formazione, dedizione alla scuola intesa come
missione di salvezza tra i giovani. Alcuni tra questi maestri ven-
gono inviati a fondare altre scuole nelle città limitrofe. E final-
mente, nel 1684, la loro famiglia diventa una vera comunità reli-
giosa, emettendo i primi voti di obbedienza. Quattro anni dopo il
de la Salle con tre Fratelli assume la direzione della scuola par-
rocchiale gratuita di Saint Sulpice: 200 ragazzi indisciplinati che
fino a quel momento hanno diviso la giornata tra la filanda e
qualche ora di scuola vissuta in un unico salone rumoroso e disor-
dinato. Il de la Salle divide i giovani per età in tre classi, badando
al loro grado di intelligenza, diminuendo drasticamente le ore da
trascorrere in filanda e proponendo una vita del tutto diversa, or-
ganizzata, finalizzata ad apprendere scrittura, lettura e calcolo, per
giungere alla dimensione di “buon cristiano ed onesto cittadino”,
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e sapere farsi strada nella vita con nuova dignità. La santa Messa,
l’istruzione religiosa, lo studio, il gioco, il modo di vivere insieme
con serenità ed interesse, l’abolizione delle punizioni corporali a
tutto vantaggio della prevenzione, più che delle repressioni e delle
mancanze, costituisce la nuova formula educativa, capace di “toc-
care il cuore” dei giovani e trasformarli.
L’ostilità dei maestri scrivani dura 14 anni
Si scatena la guerra dei maestri scrivani. Durerà quattordici anni,
e porterà al de La Salle amarezze senza fine. Essi non solo si
rendono complici di azioni criminali come l’incendio di alcune
scuole, ma insinuano nel cuore dei collaboratori del de La Salle
il sospetto che, se le cose andassero male, a loro sarebbe spettata
la miseria, diversamente dal loro Superiore, nobile e ricco. Il de
La Salle si accorge di ciò, e per risposta, in occasione di una vio-
lenta carestia, distribuisce alle famiglie più povere dei suoi allievi
tutti i propri beni. La sua scelta radicale imprime nuovo entu-
siasmo nei suoi discepoli. Nel 1692 si stabilisce nel villaggio di
Vaugirard vicino a Parigi e per un decennio si dedica alla forma-
zione dei novizi della sua famiglia religiosa, mentre la Francia è
devastata dalla guerra, dalla pestilenza e dalla carestia. In questo
periodo, pone mano ad opere importanti: Le Regole comuni fis-
sano la fisionomia spirituale dei Fratelli delle Scuole Cristiane.
La Norma delle scuole determina il metodo educativo dei Fratelli.
In essa la figura del maestro-educatore che si dedica al ragazzo-
persona segnerà la rivoluzione totale nella scuole di Francia e
di Europa. Le Meditazioni per il tempo del Ritiro spirituale e in
occasione delle domeniche e delle festività, fanno interiorizzare
ai Fratelli la missione dell’educatore, apostolo e ‘ministro’ di Dio
nell’opera della salvezza dei giovani.
Segni della Provvidenza per il bene della gioventù
Le scuole dei Fratelli si estendono a tutta la Francia. A Parigi, il
de La Salle istituisce la prima scuola professionale per operai e
giovani che non hanno potuto frequentare scuole regolari. Nella
cittadina di Saint-Yon (dove morirà) crea persino una scuola di
arti e mestieri per giovani che la polizia gli porta dalle carceri.
I Fratelli sono tutti laici consacrati e, secondo la tradizione che si
vuole far risalire allo stesso Fondatore, ancor oggi si conservano
tali. Nel 1716, radunati i Fratelli, li pregò di scegliere un Supe-
riore tra di loro. Al nuovo Superiore, Fratel Barthèlemy, il de La
Salle si sottomise umilmente. Muore santamente il 7 aprile 1719,
e santo sarà proclamato nell’anno 1900. Dal 1950 è venerato e
invocato quale patrono di tutti gli insegnanti ed educatori cattolici.
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MADDALENA GABRIELLA DI CANOSSA, SANTA
Collocazione storica (1774-1835)
Patronati
Si ricorda come Fondatrice delle Canossiane
La vita in un frammento “Perché sono nata marchesa, non posso aver l’onore di servire
Gesù nei suoi poveri?”
Cenni biografici In cinque nel castello
La marchesa Maddalena Gabriella unì in sé due dei più nobili
cognomi: i marchesi di Canossa da parte del padre, i conti unghe-
resi Szluha da parte della madre. Non ebbe però mai il tesoro che
ha ogni poverissimo bambino: il sorriso del papà e le coccole
della mamma. Lei infatti a cinque anni perse il padre che morì, e a
sette la madre che se ne andò sposando un altro uomo. Maddalena
Gabriella, il fratello e le sue tre sorelle rimasero nel grande
palazzo di Verona, praticamente orfani, affidati a uno zio tutore.
Una istitutrice francese si dedicava alle sorelline. un sacerdote
dotto e di provata virtù al fratello. A 15 anni fu assalita prima da
una febbre maligna, poi dal vaiolo che lasciava il volto deturpato
da cicatrici. Pregava, indifferente a vivere o a morire. Allo zio-
tutore che si preoccupava delle cicatrici del vaiolo, disse: “Non
abbiate timore: se guarisco non dovrò piacere a nessuno, perché
mi farò monaca”.Guarì e lesse le regole delle Carmelitane. Nei
giorni in cui la sorella maggiore festeggiava il fidanzamento,
Maddalena Gabriella a 17 anni andò a provare la vita delle
Carmelitane. Dopo pochi mesi capì che non era la sua strada. Le
piaceva pregare il Signore insieme alle consorelle, ma poi voleva
andare a servire i suoi fratelli più miseri. Tornò a casa. Lo zio-
tutore le affidò la direzione del castello e delle proprietà. Seria e
matura, essa modificò molti atteggiamenti consueti nelle case
nobiliari. Tra padroni e domestici non dovevano esserci gesti di
superiorità. Poche parole e molti fatti. Onestà e sincerità. Materno
interesse per ogni necessità. E alla sera, tutti uniti nella recita
del Rosario. C’è già tutto lo spirito che Maddalena porterà nella
fondazione delle Figlie della Carità, chiamate Canossiane.
A tu per tu con Napoleone
1797. Maddalena comincia a frequentare l’ospedale, ad interes-
sarsi dei malati e degli orfani che alcuni morenti lasciano. Nel
1802 (ha 28 anni) raccoglie tre orfane. Ne prende cura. L’anno
seguente compra un alloggio presso San Zeno e allarga il numero
delle ragazze in necessità, che cominciano a frequentare la scuola
e a lavorare. Con le sue mani monda i capelli delle ragazzine dai
pidocchi. A chi si meraviglia di questa sua attività “poco nobile”,
risponde vivace: “Perché sono nata marchesa, non posso aver
l’onore di servire Gesù nei suoi poveri?”. Napoleone in quegli
anni fa periodicamente guerra all’Austria. Quando passa da
Verona è ospite nel castello dei Canossa. Prova grande stima per
Maddalena Gabriella. Egli che ha incamerato tutti i beni della
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Chiesa, le fa assegnare il monastero di S. Giuseppe. A chi non è
d’accordo, dice: “Questa donna è utile allo Stato”. Col passare
degli anni, Maddalena si orienta a fondare una Congregazione di
‘serve dei poveri’. Le chiamerà “Figlie della Carità”. Le sorelle e
i parenti, che brillano per la loro nobiltà, ne sono costernati. Ma
lei il 1° aprile 1808 va a vivere, con le ragazze e le maestre della
sua famiglia religiosa, nel monastero di San Giuseppe. Nomina
‘direttrice’ della famiglia Leopoldina Naudet. Con cinque maestre
va a raccogliere le ragazze più povere e sporche, perché vengano
istruite e imparino un lavoro onesto. Un prete le fa notare che
sullo scialle ha dei pidocchi. Lei risponde sorridendo: “Sono le
nostre perle”.
“Da te si fermeranno le carrozze, da me le carrette”
Nel 1810 i fratelli Cavanis hanno fondato a Venezia le Scuole di
Carità per ragazzi, e la chiamano (lei ha 36 anni) a dirigere una
Scuola di Carità per ragazze. Maddalena ci va, e fa ciò che ha già
fatto a Verona: forma le maestre e con amore materno si prende
cura delle ragazze. A Venezia con le maestre cominciò a portare la
divisa delle “Figlie della Carità”: abito marrone, scialle nero,
cuffia nera in testa, medaglia dell’Addolorata al collo. In sogno
vede la Madonna indicarle tre campi per l’attività delle sue Figlie:
una chiesa, un ospedale, una scuola. Nel 1812 Maddalena scrisse
le Regole delle “Figlie”. Nel 1816 ottenne da Pio VII il “Breve di
lode”, e nel 1828 da Leone XII l’approvazione. Ora la sua opera
poteva correre per tutte le regioni dell’Italia. Maddalena però non
ebbe mai fretta né smaniava di avere molte “vocazioni”. Era
molto severa nella scelta. Diceva: “Sarebbe una carità crudele
tenere una figlia che mostra malcontento. La nostra vocazione
domanda temperamenti quieti e teste solidissime”. Leopoldina
Naudet la lascia per dedicarsi all’istruzione delle fanciulle nobili.
Maddalena sorridendo le dice: “Va bene così. Da te si fermeranno
le carrozze, da me le carrette”. Maddalena apre case a Milano,
Bergamo, Trento e inizia le pratiche per molte altre. A Bergamo
dà avvio al Seminario di Formazione delle ‘maestre di cam-
pagna’. Erano ragazze provenienti dai villaggi, dove sarebbero
poi tornate per insegnare nelle scuole elementari, collaborare con
i parroci nell’insegnamento del catechismo e assistere i malati.
Il 23 maggio 1831 Maddalena, con don Francesco Luzzo, apre a
S. Lucia in Venezia il primo Oratorio dei Figli della Carità. Ha
così inizio il ramo maschile da lei voluto per la formazione dei
ragazzi poveri. Viaggiò moltissimo per essere vicina alle sue
Figlie, e fino all’ultimo continuò a dettare Pensieri per loro. “Non
insuperbiamoci del bene che operiamo. Siamo quattro donnicciole
senza lustro, senza lettere. Siamo le ultime venute nella casa del
Signore. Siamo “serve dei poveri” in attesa di meritarci il nome
di ‘serve di Dio’”.
Morì recitando l’Ave Maria. Aveva 61 anni. Era il 10 aprile 1835.
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GASPARE L. BERTONI, SANTO
Collocazione storica (1777-1853)
Patronati
Si ricorda come Fondatore degli Stimmatini
La vita in un frammento “Il mondo presente è un grande ospedale di infermi: tutti si
lamentano e nessuno guarisce sebbene sia pronta la medicina.
Questa è la preghiera, che non si fa o si fa male”
Cenni biografici Il Sacerdozio
A 23 anni ricevette il dono più grande e la sofferenza più acuta. Il
dono fu l’ordinazione sacerdotale. La sofferenza fu la separazione
consensuale e irreparabile di suo papà e di sua mamma. Il padre,
di famiglia nobile e molto ricca, era incapace ad amministrare e
stava dilapidando il patrimonio. La mamma era sprofondata nella
tristezza dopo che il vaiolo le aveva portato via l’unica sua bimba
di tre anni e mezzo, vivace come un uccellino e bella come un
fiore. Da quella tristezza non sarebbe guarita mai più (forse fu una
profonda depressione). Gaspare fu sempre accanto a sua madre,
Brunora Ravelli, con infinita delicatezza. La vide sfiorire rapida-
mente, divenne anche il suo confessore, e le diede gli ultimi Sa-
cramenti poco prima che si spegnesse. Quand’era ancora ragazzo,
Gaspare vedeva per le strade della sua Verona altri ragazzi molto
diversi da lui: abbandonati a se stessi, smunti e malaticci. Vive-
vano in bande per darsi forza a mendicare e a rubare. La scuola
(che lui frequentava) era un privilegio delle famiglie benestanti
che potevano pagarsi un insegnante. Quei ragazzi erano uno degli
effetti perversi delle interminabili guerre tra i francesi di Napo-
leone e gli austriaci dell’Imperatore, che riempivano gli ospedali
di feriti, devastavano le campagne, paralizzavano i commerci dis-
tribuendo miseria a tutti. Seminarista, Gaspare prestava servizio
negli ospedali, faceva catechismo nella parrocchia di S. Paolo.
Quando gli venne affidato un gruppo consistente di preadolescenti
da preparare alla prima Confessione, pensò di rompere la giornata
monotona con allegre iniziative: li portava nei prati a fare clamo-
rose partite, organizzava con loro belle passeggiate ai vari san-
tuari della città, li portava anche a vedere i feriti di guerra negli
ospedali con qualche dono e un po’ d’allegria. Aveva cominciato
ad essere ciò che sarebbe stato per tutta la vita: missionario tra
i ragazzi. Ordinato Sacerdote nel 1800, l’anno dopo assistette
all’avvenimento più strano possibile: la sua Verona fu spezzata da
Napoleone e dagli Austriaci in due città nemiche. L’Adige, che
percorreva la città da nord a sud, divenne il confine di Stato:
mezza città (36 mila abitanti) era dei francesi, l’altra mezza
(20 mila abitanti) degli austriaci. Attraversare un ponte sull’Adige
voleva dire attraversare la frontiera, ‘andare all’estero’, con tutte
le conseguenze immaginabili. Don Gaspare continuò a fare il
‘missionario tra i giovani’ di S. Paolo. Durante la settimana,
seguito da una decina di ragazzi, faceva processione tra le bot-
teghe degli artigiani. Elemosinava un posto per uno di loro. Dopo
96
giorni di giro riusciva a collocarli quasi tutti. La settimana dopo
si ricominciava. Alla domenica si riunivano e giocavano nell’ar-
chivio parrocchiale, nella biblioteca. Quando la sorella del par-
roco non ne poté più, li radunò a casa sua, poco lontano. Nasceva
così il primo “oratorio” di Verona: Messa, catechismo e tanta alle-
gria. Per far sapere ai veronesi che i suoi ragazzi non erano igno-
rantelli, inventò le “mostre di arti e mestieri”. I suoi apprendisti
gli portavano un bel paio di scarpe realizzato da loro, un bel
vestito, una serratura di fattura nuova, il telaio ben disegnato
di una finestra, e lui li esponeva ai veronesi, ottenendo per i suoi
ragazzi nuovi posti di lavoro. Si cominciò a guardare l’oratorio di
S. Paolo con ammirazione, e i parroci vennero a domandare a don
Gaspare di trapiantarlo anche nelle loro parrocchie. Arrivarono
anche i parroci della campagna intorno. Don Gaspare aveva tra i
suoi ragazzi più in gamba un gruppo di ‘aggregati’ che lo aiutava,
e ne fece il manipolo di pronto intervento che chiamò “Coorte
Mariana”. L’inizio di un nuovo oratorio avveniva così: dalla
chiesa parrocchiale usciva in processione marziale la ‘Coorte Ma-
riana’ che percorreva cantando e pregando le vie della parrocchia,
invitando i giovani del quartiere o del paese. Quando la proces-
sione ben ingrossata rientrava in chiesa, don Gaspare prendeva la
parola dal pulpito ed esortava a seguire Gesù sotto la protezione
di Maria. La bella impresa degli Oratori ebbe una brusca frenata
nel maggio 1807, quando un decreto di Napoleone proibì “con-
fraternite, congregazioni, compagnie e tutte le società religiose
laicali”.
La lunga parentesi lontano dai giovani
Il tempo che ebbe libero dalla sempre più limitata attività orato-
riana, don Gaspare lo impiegò negli ospedali, tra feriti e malati.
Scriveva il 6 marzo 1809: “Il mondo presente è un grande ospe-
dale di infermi: tutti si lamentano e nessuno guarisce sebbene sia
pronta la medicina. Questa è la preghiera, che non si fa o si fa
male”. Nel 1810 Napoleone soppresse anche tutti gli ordini reli-
giosi maschili e femminili. Fu un colpo gravissimo per la Chiesa.
Tra gli stessi preti c’era divisione tra chi si schierava con il Papa
(esiliato) e chi aderiva a Napoleone. Più di uno pensava a far car-
riera e ad accumulare denaro. Il Vescovo dovette proibire ai preti
di “andare in maschera, frequentare teatri, commedie e balli”. Il
Seminario era ridotto male. C’erano 143 interni e 25 esterni. Gli
studenti di teologia (vicini al sacerdozio) erano 60. Padre Bre-
sciani avrebbe scritto: “Non si poteva dire che quello era un semi-
nario, ma piuttosto un miscuglio di corruzione e di disordine”.
Nel maggio del 1810 il Vescovo chiamò don Gaspare, e gli affidò
la direzione spirituale del Seminario. Era un’obbedienza molto
pesante, ma don Gaspare (33 anni) chinò il capo e obbedì. Iniziò
con la predicazione degli Esercizi Spirituali. Fece allontanare dal
Vescovo alcuni preti frivoli e mondani. Ogni domenica faceva di
buon mattino una meditazione ai seminaristi, preparandosi con
una notte di preghiera. Lungo la settimana li seguiva uno per uno.
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Non risparmiò fatiche nel lavoro di ricostruzione di quelle anime,
avviandole ad una vita di preghiera e di austerità. Cinque anni
dopo, lo storico Sommacampagna poteva scrivere: “Il Seminario
è un monastero di monaci più che di giovani ecclesiastici”.
Attorno a don Gaspare si era formato poco a poco un gruppo
di suoi ‘figli spirituali’, che vivevano accanto a lui e lo aiutavano
in ogni attività pastorale. Così, nel tempo in cui tutti gli ordini e
le congregazioni erano soppressi, intorno a questo prete santo
nasceva nel silenzio una nuova famiglia religiosa. Dio semina e
fa crescere dove vuole e quando vuole, nonostante i progetti e
i divieti dei piccoli uomini che si credono grandi.
Finisce la lunga parentesi
Dopo la disastrosa campagna di Russia e la sconfitta di Lipsia, nel
marzo 1814 Napoleone abdicò. La lunga parentesi della lonta-
nanza dai ragazzi (1807-1814) per don Gaspare era terminata.
Egli fece risorgere gli Oratori mariani e si gettò nuovamente nel-
l’attività di ‘missionario tra i giovani’. La diffusione degli Oratori
fu rapida. “Non vi è chiesa della nostra città – scrive un anno
dopo – o parrocchiale o sussidiaria che non abbia aperto un
Oratorio ai propri giovani”. I locali e la chiesa delle Stimmate
erano stati requisiti dall’autorità nel 1808. Il 4 novembre 1816,
dopo essere stati usati da un laico cristiano per una scuola desti-
nata ai ragazzi poveri, furono donati a don Gaspare “per dar vita
a una congregazione di preti”. In quel freddissimo inverno, in
quei locali scrostati, nacque tutto: la comunità di religiosi di don
Gaspare; l’opera sociale in cui la comunità si impegnò: una scuola
per i ragazzi poveri della città; l’Oratorio che affiancò la scuola.
Nacque anche il nome dei religiosi di don Gaspare: la gente li
chiamò “i preti delle Stimmate”. La vita era austerissima e si
svolgeva sotto gli occhi di Dio. Per conservarla così, mentre un
tumore dolorosissimo l’abbatteva, don Gaspare scrisse le Regole
della sua famiglia. Dal suo letto di dolore (dove subì diverse
operazioni chirurgiche senza anestetico, perché a quei tempi non
esisteva) don Gaspare divenne il consigliere spirituale della città.
Andavano da lui a confidarsi Vescovi, sacerdoti, gente del popolo
e della nobiltà. Andarono a chiedere il suo consiglio anche tre
fondatori di nuova famiglie religiose: Antonio Rosmini, Nicola
Mazza, Teodora Campostini. Lo scrittore tedesco L. Schior, dopo
esser vissuto qualche tempo a Verona, scrisse: “Don Gaspare
Bertoni, un venerando vegliardo, è l’oracolo della città”.
Purificato da lunghissime sofferenze, don Gaspare andò incontro
a Dio il 12 giugno 1853.
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LUDOVICO PAVONI, VENERABILE
Collocazione storica (1784-1849)
Patronati
Si ricorda come Fondatore della Congregazione dei Figli dell’Immacolata, detti
Pavoniani
La vita in un frammento “Vengono dalla strada (i ragazzi), e la strada non è mai una buona
maestra. Tocca a noi farli buoni”
Cenni biografici 23 anni e un libro
Aveva 23 anni il sacerdote Ludovico Tommaso Maria Pavoni,
quando iniziò a leggere il libro Influenze morali di Pietro Sche-
doni. (Era l’estate del 1807). Quelle pagine avrebbero rovesciato
la sua vita. L’autore, nelle prime pagine, si poneva la domanda:
“perché i giovani delle famiglie povere si abbandonano facil-
mente alla vita indisciplinata e viziosa?”. La risposta limpida che
egli dava nelle pagine seguenti era questa: “perché non esistono
scuole dove si dia loro gratuitamente una buona istruzione e s’in-
segni un buon mestiere”. I nobili, diceva l’autore, dovevano usare
le loro ricchezze per aprire scuole gratuite per i figli dei poveri.
Dove aumentava il numero delle scuole, diminuiva il numero
delle bettole. I tre nomi che il prete Pavoni portava erano il segno
della sua nobiltà. Suo padre era il nobile Alessandro Pavoni, con
ricco palazzo in Brescia, vasti possedimenti e una bella abitazione
di campagna ad Alfianello (Brescia). Sua madre, Lelia, era del-
l’illustre famiglia Poncarali, con palazzo in via Magenta. Con
l’arrivo della Rivoluzione Francese in Italia, portata dal generale
Napoleone Bonaparte, la nobiltà aveva perso molti dei suoi privi-
legi, tra cui il diritto di dare il Sindaco e il Capo Amministrativo
alla città. Ma nonostante lo sbandieramento entusiasta dell’ugua-
glianza, i poveri erano rimasti poveri, e i ricchi avevano consoli-
dato la loro ricchezza. La fiorentissima vita industriale della città
di Brescia comprendeva 53 filatoi, 10 cartiere, 1228 mulini, 2895
telai, 268 fucine per la lavorazione del ferro, 23 fucine per canne
da fucile, 42 tintorie... La massa dei lavoratori aveva orari massa-
cranti: 14, a volte 16 ore di lavoro al giorno. I salari fissati dai
padroni erano così miseri che per sopravvivere nei filatoi e nelle
officine dovevano lavorare i padri, la madri e i figli, anche se an-
cora bambini. Le colate del ferro liquefatto negli altiforni faceva
respirare aria rovente. La lanuggine sospesa nell’aria delle filande
intasava specialmente i deboli polmoni dei bambini. Lo strepitio
dei telai e della macchine intontiva e ubriacava. Una quantità
impressionante di bambini moriva senza aver mai saputo cosa
volesse dire giocare.
Andò a verificare
Ludovico, ragazzo intelligente e sensibile, sentiva le discussioni
dei “rivoluzionari” (a cui apparteneva suo fratello Giovanni) sui
privilegi da abbattere, sulla giustizia da realizzare. Ma il grande
privilegio della ricchezza non veniva mai messo in discussione, e
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di giustizia realizzata ne vedeva molto poca in giro. Ludovico
volle verificare di persona la situazione. Depose gli abiti eleganti
ed entrò nelle officine degli operai, provò quei mestieri, cercò di
parlare con i lavoratori. Cominciava a capire, provandola sulla
sua pelle, la fatica che abbrutisce. Vedeva con i suoi occhi i giova-
nissimi, ubriachi di lavoro, seguire gli atteggiamenti degli adulti
corrotti e sprezzanti di ogni onestà. Sentiva che per un cristiano
la situazione era intollerabile. Bisognava assolutamente affrontare
la miseria dovunque fosse, e vincerla. Ma non sapeva cosa fare.
Decise di diventare prete. Senza stemma nobiliare, senza eredi a
cui trasmettere palazzi e ricchezze, avrebbe distribuito la sua parte
di eredità a tante famiglie misere. Questo non sarebbe bastato, ma
Dio gli avrebbe indicato la strada per proseguire nella realizza-
zione di una vera giustizia. Disse la prima Messa il 21 febbraio
1807, e pochi mesi dopo lesse il libro dello Schedoni. Gli parve
di aver trovato la strada per affrontare in maniera più efficace
il problema della povertà sociale: creare scuole dove dare gratui-
tamente ai giovani poveri una buona istruzione e insegnar loro
un buon mestiere. Sarebbe stata la strada per la quale Ludovico
Pavoni avrebbe camminato per tutta la vita.
Prima che le fabbriche li ingoiassero
Cominciò dando una mano al prete Guzzetti, che radunava in
quattro punti della città chiamati ‘oratori’ i ragazzetti miseri, e
cercava di insegnare loro a pregare e a leggere prima che le
fabbriche ingoiassero molti di loro. Nel 1808 don Ludovico aprì
un ‘oratorio’ suo, alla chiesa di S. Orsola. Raccolse i ragazzini più
rozzi, scalzi, dal fisico stentato. Ma nel 1810 Napoleone emanò
un decreto che soppresse tutti gli ordini religiosi, tranne quelli
delle suore che si dedicano all’educazione delle ragazze. Cento
case religiose e scuole, su centosette, dovettero chiudere. Il nuovo
vescovo di Brescia, Mons. Nava, guardava con simpatia l’oratorio
di don Ludovico, e temeva che un giorno o l’altro, per una deci-
sione dell’autorità politica, dovesse anch’esso chiudere. Chiamò
don Ludovico e lo nominò “segretario del Vescovo”. Avrebbe così
potuto continuare la sua opera in favore dei ragazzi miseri, ma
avrebbe avuto un incarico che lo avrebbe difeso da ogni provvedi-
mento politico. È il vescovo stesso ad esortarlo: “Va’, sono tempi
brutti. Chiama gli inesperti, raduna i bisognosi, salvali”. All’ora-
torio di don Ludovico si raduna ormai una vera turba di ragazzi
cenciosi e affamati. Oltreché della preghiera e del cibo, don Ludo-
vico comincia a interessarsi del loro lavoro. Poiché non può aprire
una scuola, porta i più svegli e i più bisognosi presso suoi amici,
perché diano loro da lavorare senza fiaccarli. Alcuni anni dopo
le cose sono profondamente mutate. Napoleone è stato sconfitto e
confinato nella sperduta isola di Sant’Elena. A Brescia muore
il prete Guzzetti, lasciando allo sbando i tanti ragazzi del suo
oratorio presso la chiesa di S. Barnaba. Mons. Nava nel febbraio
del 1818 chiama don Ludovico e gli dice: “Da questo momento
non sei più il mio segretario, ma il Rettore di S. Barnaba. Perché
100
abbia uno stipendio da spendere per i tuoi ragazzi poveri, ti
nomino anche Canonico”.
La strada non è una buona maestra
L’oratorio di S. Barnaba prende nuova vita. Accanto alla chiesa,
don Ludovico compra tre stanzoni per ospitare i ragazzi orfani,
che alla sera non sanno dove andare a dormire. I primi suoi pic-
coli ospiti sono sette. Poi ne arrivano altri, tanti altri. Non tutti
sono “bravi ragazzi”. Alcuni bestemmiano, litigano, sono disob-
bedienti e testardi. Don Ludovico ricorda ai suoi aiutanti (che
formano ormai con lui una famiglia religiosa): “Vengono dalla
strada, e la strada non è mai una buona maestra. Tocca a noi farli
buoni”. Al mattino, dopo che hanno pregato con lui, li accom-
pagna da padroni onesti, che insegnano un mestiere senza sfrut-
tarli. Nel 1821 don Ludovico fa un decisivo passo avanti: apre per
i suoi ragazzi una scuola e tre laboratori per i mestieri di fabbro,
falegname e calzolaio. Tre anni dopo riesce ad aprire il labora-
torio che più ha desiderato: la tipografia. Nel 1831 don Ludovico
scrive il “Regolamento” del suo istituto. Perché le sue opere non
abbandonino i poveri per rivolgersi ai benestanti (cosa purtroppo
frequente negli istituti religiosi) fissa le tre categorie di ragazzi
che potranno essere accettati nelle sue opere: gli orfani, i figli di
madre vedova, i giovani “veramente abbandonati dai loro geni-
tori”. Le colonne del suo sistema educativo saranno: la Religione,
l’amore, l’educazione della volontà. In quegli anni nelle scuole
si usa tranquillamente il bastone e la sferza. Don Ludovico esige
per i ragazzi rispetto e amore.
La piaga antica dei sordomuti
Nelle valli bresciane esiste una piaga antica: quella dei sordomuti.
Nel 1840, nel paese di Seiano, don Ludovico prepara la sua prima
scuola per loro. Come sempre si fa muratore. Nelle pause medita
sul Vangelo. È il nutrimento del suo spirito, gli dà la forza per
continuare a lavorare per Gesù che soffre la fame e l’ignoranza nei
suoi giovani. Il 12 giugno 1847 giunge l’approvazione del Papa
per la “Religiosa Congregazione dei Figli di Maria Immacolata”.
Don Ludovico e i suoi diventano “religiosi”, cioè consacrati a Dio.
Le 10 giornate di Brescia
Ma all’orizzonte c’è di nuovo la guerra: la prima guerra d’indipen-
denza italiana per due anni porterà distruzioni e lutti nell’Italia
del nord. Il 24 marzo 1849, mentre a Brescia stanno per iniziare le
“10giornate” che copriranno la città di gloria e di rovine, don Ludo-
vico mette in salvo i suoi ragazzi. Li fa uscire in piena notte, sotto
una pioggia diluviante, nemmeno un’ora prima che gli Austriaci
inizino il bombardamento sulla città. In quella notte tremenda,
don Ludovico riesce a salvare i suoi ragazzi, parte nella casa di
sua sorella Paolina, parte nella casa di Seiano. Ma lui non ce la fa.
Una broncopolmonite se lo porta via il 1° aprile. È la domenica
delle Palme, mancano sette giorni alla Pasqua.
101
Capitolo 3
La Rivoluzione industriale e
il prezzo umano del benessere
1. COMINCIANO AD ESISTERE LA “FABBRICA” E GLI “OPERAI”
Nel 1769, a Glasgow in Gran Bretagna, mister James Watt inventò la “mac-
china a vapore”. Essa sfruttava una nuova energia: quella del calore. Una sola
macchina di Watt (potenza 100 cavalli-vapore) sviluppava una forza pari a quella
che prima producevano 880 uomini. Una filanda, impiegando solo 750 lavoratori
radunati sotto alcuni capannoni, produceva tanto filo quanto prima avrebbero
potuto produrre 200 mila lavoratori. Cominciarono così ad esistere la “fabbrica” e
gli “operai”. La produzione facilitata delle fabbriche abbassa di colpo il prezzo dei
tessuti e ne sviluppa enormemente il mercato. Negli stessi anni si verifica un fortis-
simo aumento nell’utilizzazione del ferro (per la produzione di macchine, telai, fer-
rovie) e nell’utilizzazione del carbone (che permette la propulsione delle macchine
a vapore). Si costruiscono su larga scala ferrovie e battelli a vapore.
Per la contemporanea, progressiva vittoria della medicina e dell’igiene sulle più
micidiali malattie come la peste e il vaiolo, la popolazione in Europa ha una crescita
imponente: da 180 milioni nel 1800 a 260 milioni nel 1850. La moltiplicazione
veloce delle fabbriche (cioè l’industria) e l’abbassamento dei prezzi mette in crisi gli
artigiani. In campagna arrivano le prime macchine a vapore, che rendono inutile
il lavoro di tanti salariati. Una fiumana di gente emigra in città in cerca di lavoro.
Le fabbriche acquistano una fisionomia precisa: centri dove un grande numero di
lavoratori compiono lo stesso lavoro alle dipendenze di un padrone. Sorgono così in
Inghilterra le città del carbone, le città del ferro, le città delle industrie tessili. È la
rivoluzione industriale. Nata in Inghilterra, passa rapidamente in Francia, Germania,
Belgio, Olanda, Italia del Nord, Stati Uniti d’America. Essa è uno dei più grandi e
radicali cambiamenti che si sono verificati nella storia dell’uomo. Essa “invase il
globo, sconvolse l’esistenza e travolse le strutture di tutte le società umane esistenti
nel giro di sette o otto generazioni (150/200 anni). La scoperta di Watt fu seguita
da tutta una serie di invenzioni analoghe che permisero di sfruttare nuove energie: il
petrolio, la dinamite, l’elettricità, l’atomo” (Carlo M. Cipolla). I risultati industriali
furono enormi, impensabili, tanto che si può affermare: nel 1850 il passato non è più
passato, è morto. L’umanità si sviluppò in maniera esplosiva: 750 milioni di persone
nel 1750, un miliardo e 200 milioni nel 1850, due miliardi e mezzo nel 1950, 6 mi-
liardi nel 2003. Il benessere che la rivoluzione industriale diffuse non era mai stato
102
raggiunto prima. Totali e drastici cambiamenti si verificarono nelle abitudini, idee,
credenze, istruzione, famiglia. Problemi enormi furono posti alle nuove generazioni:
armi sempre più terribili, inquinamento, crescita incontrollata della popolazione
terrestre...
2. IL COSTO UMANO DEL BENESSERE
L’enorme progresso materiale ebbe però, specialmente nei primi cento anni,
un pauroso costo umano: “Una piccolissimo numero di straricchi – dirà papa Leone
XIII della Rerum Novarum – ha imposto uno stato di quasi schiavitù all’infinita
moltitudine dei proletari”(RN 2). È il “buco nero” della “questione operaia”. Nelle
città industriali si forma una classe nuova, quella dei proletari, che non ha altre
ricchezze al di fuori delle proprie braccia e dei propri figli (= la prole).
Le condizioni dei proletari sono spaventose. Nel 1850 metà della popolazione
inglese è ormai ammassata nei centri cittadini. Le ‘case’ degli operai sono tante
volte cantine, in ognuna delle quali si ammassa tutta la famiglia, senza luce, fetide
per l’umidità e gli scoli. Nelle fabbriche nessuna misura igienica, nessun regola-
mento, tranne quello imposto dal padrone che punta solo al massimo guadagno.
3. L’AGONIA DEI FANCIULLI TORTURATI
Il salario esiguo permette un nutrimento sufficiente solo alla persona che
lavora. Devono quindi lavorare in fabbrica (se vogliono mangiare) anche le donne,
i ragazzi, i bambini. Si consuma così nel silenzio quella che Bertrand Russel
chiamerà “l’agonia dei fanciulli torturati”. La fatica, le malattie (specialmente la
tubercolosi), l’impossibilità di dormire rendono la vita di questi piccoli sventurati
molto breve. Il grande capitale, che avrebbe donato benessere e cultura all’Europa,
si costruisce con il sangue dei fanciulli.
Le pagine con cui B. Russel documenta questo vero genocidio (nell’opera
Storia delle idee del secolo XIX) sono sconvolgenti. Riassumo: “I bambini, a
Londra, venivano ‘affittati’ a centinaia nei rioni popolari. Portati alla stazione
venivano stipati nei vagoni e spediti a lavorare nelle filande del Lancashire. Molti
di essi camminavano appena. Il lavoro durava dalle 5 del mattino alle 9 di sera.
Il lavoro della tessitura lo facevano le macchine. E per badare a una macchina
non occorreva un uomo, bastava un bambino. Cadevano dal sonno, dalla stan-
chezza nella solitudine delle fabbriche buie. Le malattie stroncavano i piccoli
lavoratori”.
In Francia, Belgio, Germania intorno al 1850 si consuma lo stesso genocidio.
Una statistica rivela che a Nantes (in Francia) 66 bambini su 100 muoiono prima
dei 5 anni. La durata media della vita di un operaio è di 17-19 anni. Nell’Italia del
103
Nord (dove l’industria tessile comincia nel 1817 e quella meccanica nel 1846)
le condizioni sono identiche.
Sulla vita negli stabilimenti tessili della Lombardia, R. Morando scrive: “Nei
filatoi di seta, grandi stabilimenti che occupavano da 100 a 200 individui, si veri-
ficava il massimo impiego dei fanciulli. Le mansioni cui venivano adibiti era di
tale indole macchinale da ridurre in breve tempo all’ebetismo quei poveri esseri. Il
lavoro si protraeva d’inverno per 13 ore, e nell’estate per 15 o 16... Gli ambienti
umidi e malsani, il levarsi di gran mattino, il lungo permanere in posizioni inco-
mode, provocavano con la massima frequenza indurimenti ghiandolari, scrofola, e
tumori freddi. Oltre 15 mila fanciulli, in Lombardia, consumavano così il fiore della
vita”.
In questi decenni, prima e dopo la Rerum Novarum e l’enunciazione della Dottri-
na sociale della Chiesa (di cui parleremo nella parte seguente), sorge una numerosis-
sima schiera di cristiani che danno battaglia al capitalismo disumano. Da Giovanni
Bosco a Luigi Orione, da Leonardo Murialdo a Eugenia Ravasco la storia del lavoro
umano è punteggiata da silenziosi ‘salvatori’ che chiedono allo Stato di intervenire,
e intanto in nome di Dio cercano di strappare i giovani dalle fabbriche, danno loro
apprendimento e istruzione, li aiutano a diventare onesti cittadini e buoni cristiani.
E quando lo sviluppo delle comunicazioni permette agli Europei di scoprire
che le condizioni disumane della vita e del lavoro si estendono a immense zone
geografiche che vengono chiamate sbrigativamente “terzo mondo” la battaglia
per la vita e la giustizia sociale in quelle terre viene combattuta da nuovi silenziosi
‘salvatori’. Essi sono i missionari sacerdoti e religiosi, e i tanti cristiani laici volon-
tari, coperti dal silenzio dei nostri giornali e delle nostre televisioni, ma benedetti
dai poveri della terra e dal Dio del Cielo.
Si presentano in questa terza parte le figure di una ventina di questi “salvatori
di giovani” attraverso la scuola e il lavoro.
Figure di riferimento:
– Don Bosco, santo (1815-1888) fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria
Ausiliatrice (FMA)
– Luigi Maria Monti, beato (1825-1900) Fondatore dei Figli dell’Immacolata
Concezione (Concezionisti)
– Leonardo Murialdo, santo (1828-1900) Fondatore dei Giuseppini
– Maria Domenica Mazzarello, santa (1837-1881) Confondatrice delle Figlie
di M. Ausiliatrice
– Giovanni Piamarta beato (1841-1913), fondatore della Congregazione della
Sacra Famiglia di Nazareth
– Eugenia Ravasco, beata (1845-1900) Fondatrice delle Figlie dei Sacri Cuori di
Gesù e di Maria
– Annibale di Francia, santo (1851-1927) Fondatore dei Rogazionisti e delle
Figlie del Divin Zelo
104
– Bakhita Giuseppina, santa (1869-1947) Canossiana. Da schiava a serva dei
bambini
– Fratel Teodoreto Garberoglio, venerabile (1871-1954) Fondatore dell’ ‘Unione
dei Catechisti di Gesù Crocifisso e di Maria Immacolata’ e dei Centri di forma-
zione professionale “Casa di Carità” Arti e Mestieri
– Luigi Orione, santo (1872-1940) Fondatore della Piccola Opera della Divina
Provvidenza
– Don Giovanni Calabria, santo (1873-1954) fondatore dei Poveri Servi e delle
Povere Serve della Divina Provvidenza.
– Don Alberiore, beato (1884-1971) Fondatore della Famiglia Paolina
– Massimiliano Kolbe, santo (1864-1941) Francescano conventuale, Fondatore
di una città di lavoratori
– Attilio Giordani, servo di Dio (1913-1972) Impiegato alla Pirelli e apostolo tra
i ragazzi
– Alberto Marvelli, beato (1918-1946) Ingegnere, lavoratore accanto ai lavoratori
– Don Lorenzo Milani (1923-1967) Prete e maestro
– Don Luigi Giussani (1922-2005) Fondatore di Comunione e Liberazione
– Teresa di Calcutta, beata (1919-1997) Fondatrice delle Missionarie della Carità
– Padre Erminio Giovanni Crippa (1921-2000). Fondatore dell’API-COLF.
– Carlo Urbani (1956-2003) Laico volontario dei Medici senza Frontiere e del-
l’Organizzazione Mondiale della Sanità
– Anna Lena Tonelli (1943-2003) Volontaria missionaria laica.
105
DON BOSCO, SANTO
Collocazione storica (1815-1888)
Patronati Patrono degli educatori, editori, apprendisti, e scolari
Si ricorda come Fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausilatrice
La vita in un frammento “Buoni Cristiani e Onesti Cittadini”
Cenni biografici Un sogno a nove anni
Giovanni Bosco nel 1824 aveva appena nove anni, era orfano
di padre, e in una notte fece un sogno misterioso. Lo raccontò
lui stesso nelle sue Memorie. Gli sembrò di vedere una turba
di ragazzi che giocavano e bestemmiavano. Si era lanciato nel
mezzo, e a schiaffi e pugni aveva cercato di farli tacere. Ma un
uomo venerando dal volto luminoso gli aveva detto: “Non con le
percosse, ma con la mansuetudine e la carità dovrai acquistarti
questi tuoi amici. Parla loro della bruttezza del peccato e spiega
la preziosità dell’amicizia con il Signore”. Confuso e spaventato,
Giovanni gli aveva domandato chi fosse. E si sentì rispondere:
“Io sono il Figlio di Colei che tua mamma ti insegnò a salutare
tre volte al giorno. Il mio nome domandalo a mia Madre”. Ac-
canto a lui, in quel momento, Giovanni vide una Donna maestosa,
rivestita di un manto splendente. Ella fece un gesto, e tutti quei
ragazzi si mutarono in un gregge di capretti, cani, gatti, orsi,
animali feroci. Un altro gesto, e tutti quegli animali si cambiarono
in agnelli mansueti, che correvano e saltellavano intorno a quel-
l’Uomo e a quella Donna. Giovanni era tutto confuso, ma la
Donna gli disse: “Ecco il tuo campo. Ecco dove dovrai lavorare.
Renditi umile, forte e robusto. E il cambiamento che hai visto
succedere in questi animali, tu lo farai per i miei figli”. Insieme a
sua madre Margherita, Giovanni pensò a lungo a quel sogno, e
sembrò a tutti e due che Dio lo chiamasse a diventare sacerdote, e
a dedicare la vita ai ragazzi sbandati, senza affetto, avviati per una
cattiva strada. Aiutato da sua madre, Giovanni affrontò fatiche e
sacrifici incredibili per diventare prete. Subito dopo si stabilì a
Torino per «dedicare la vita ai ragazzi poveri e abbandonati». Fin
dalle prime domeniche andò per la città, per farsi un’idea delle
condizioni dei ragazzi. Ne rimase sconvolto. Le periferie erano
zone di miseria e di desolazione. Giovani vagavano per le strade,
disoccupati, intristiti, pronti a qualunque avventura pur di guada-
gnare qualche soldo.
Un mercato dove si vendono ragazzi
Accanto al mercato generale della città, a Porta Palazzo, scoprì un
luogo dove «si vendevano i ragazzi»: i padroni passavano, e sce-
glievano tra i tanti quelli che potevano servire alla loro fabbrica,
ai loro cantieri, con salari bassissimi. L’impressione più sconvol-
gente don Bosco la provò entrando nelle prigioni. Nelle sue Me-
morie scrisse: “Vedere un numero grande di ragazzi tra i 12 e i 18
anni, sani, robusti, intelligenti, vederli là oziosi, tormentati dalle
cimici e dai pidocchi, senza pane e senza una parola buona, mi
106
fece inorridire”. Nelle sue Memorie don Bosco continua: “Molti
di quei giovani, quando riacquistavano la libertà, erano decisi a
vivere in maniera diversa, migliore. Ma dopo poco tempo fini-
vano di nuovo dietro le sbarre. Cercai di capire la causa, e con-
clusi che molti erano di nuovo arrestati perché si trovavano ab-
bandonati a se stessi. Pensavo: Questi ragazzi dovrebbero trovare
fuori un amico che si prenda cura di loro, li assista, li istruisca, li
conduca in chiesa nei giorni di festa. Allora non tornerebbero a
rovinarsi”. È di qui che parte la grande missione di don Bosco.
Avvicinò il primo ragazzo immigrato l’8 dicembre 1841, festa
della Madonna Immacolata. Tre giorni dopo attorno a lui erano in
nove, tre mesi dopo venticinque, nell’estate ottanta. Dà loro pane,
amicizia e catechismo. Tra un manicomio e un cimitero abbando-
nato nasce il suo Oratorio. Per i ragazzi, rumorosi e fracassoni,
don Bosco non trova un posto stabile. Deve vagare per la periferia
nord di Torino, finché trova una tettoia tra i prati. Ai suoi ragazzi
dedica la settimana: cerca lavoro per chi non ne ha, condizioni
migliori per chi è sfruttato, fa scuola dopo il lavoro ai più intelli-
genti. Alcuni ragazzi, però, alla sera non sanno dove andare a dor-
mire. Finiscono sotto i ponti o negli squallidi dormitori pubblici.
Don Bosco affitta e poi compra una casa, chiama dalla campagna
sua madre, e comincia e dare ospitalità ai più miseri.
Il ragazzo portato dalla pioggia
Il primo è un ragazzo bagnato di pioggia come un pulcino. È arri-
vato dalla Valsesia e non sa proprio dove andare. Dorme rannic-
chiato presso il focolare acceso di don Bosco. Nel 1852 i ragazzi
a cui don Bosco dà cibo, scuola e alloggio sono 35. Dieci anni
dopo saranno 600. Raggiungeranno il numero di 800. Ragazzi po-
veri vogliono dire pane e minestra, abiti e libri, chiese edifici
sempre più vasti. I soldi, per tutta la vita di don Bosco, saranno
il problema più drammatico. Eppure ce la farà: “La Provvidenza
a volte si fa un po’ aspettare, ma arriva sempre”. Tra quei primi
ragazzi poverissimi, quasi tutti orfani, qualcuno gli chiede di “di-
ventare come lui”. Si chiamano Giuseppe Buzzetti, Michele Rua,
Giovanni Cagliero, Giovanni Battista Francesia, Paolino Albera...
Si riuniscono insieme e si danno il nome di «Salesiani», pren-
dendo il nome da san Francesco di Sales, il santo della bontà e
della dolce pazienza (“Così bisogna comportarsi tra i ragazzi”,
diceva don Bosco ai suoi collaboratori). Loro scopo: dedicare la
vita ai ragazzi poveri e sbandati, come ha fatto don Bosco. Non
cercano denaro né carriera, ma la salvezza dei giovani.
Gli anni di mamma Margherita
La prima opera alla quale mettono mano sono i “laboratori per
giovani apprendisti”. Il primo maestro nel microscopico labora-
torio dei calzolai è don Bosco stesso, che ha imparato a risuolare
le scarpe quando aveva 14 anni. Poi si organizza il laboratorio dei
sarti, dove la prima maestra è la sua anziana mamma Margherita
venuta dalla collina del Becchi a dargli una mano e a fare da
107
mamma a quei suoi primi ragazzi. Poi vengono i laboratori dei
legatori, dei falegnami, dei tipografi, dei fabbri. Gli oratori, le
scuole, i laboratori salesiani, le scuole agricole, le scuole profes-
sionali si allargano a macchia d’olio in Italia, Spagna, Francia,
Belgio. I primi missionari salesiani li trapiantano nell’America
del Sud. E dovunque si realizza il miracolo: ci sono giovani che
dicono ai figli di Don Bosco: “Voglio diventare come voi. Non mi
interessa far denaro o far carriera, voglio dedicare la vita a salvare
i ragazzi poveri e sbandati”. Nasce così la grande famiglia dei
figli di Don Bosco, chiamata “Congregazione Salesiana”. Poi Don
Bosco fonda, insieme a Maria D. Mazzarello, una seconda Con-
gregazione: le “Figlie di Maria Ausiliatrice” (FMA), che fanno tra
le ragazze il bene che i Salesiani fanno tra i ragazzi. E finalmente
Don Bosco inventa la famiglia dei “Cooperatori Salesiani”: tutte
le persone che, vivendo nelle loro famiglie, vogliono far del bene
ai giovani seguendo lo stile di Don Bosco. Tra essi ci sono anche
i “benefattori di Don Bosco”: quelli che aiutano con la preghiera e
con i beni materiali le opere salesiane. Don Bosco, il “povero
prete di Valdocco”, è ormai conosciuto da tanta gente. È cono-
sciuto e ammirato specialmente per la sua maniera di educare
i giovani, che in tutte le istituzioni educative si tenta ormai di
imitare.
Qual era esattamente il suo sistema educativo? Davanti a
questa domanda che molti gli rivolgevano, Don Bosco si scher-
miva, diceva sorridendo: “Neppure io lo so. Tiro su i ragazzi
come mia madre tirava su me e i miei fratelli”. Sistema familiare,
quindi. Ma nella primavera del 1877, pressato da molte parti,
specialmente dai Francesi presso i quali le sue opere si stavano
moltiplicando, Don Bosco tentò di esporre in alcune pagine le
linee essenziali del suo sistema educativo. Lo chiamò “Sistema
Preventivo”.
Ecco le parole principali scritte da lui:
Esso consiste nel far conoscere le prescrizioni e i regolamenti di
un istituto, e poi sorvegliare in modo che gli allievi abbiano
sempre sopra di loro l’occhio vigile del Direttore o degli assi-
stenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni
evento, diano consigli ed amorevolmente correggano, che è
quanto dire: mettere gli allievi nella impossibilità di commettere
mancanze. Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la
religione, e sopra l’amorevolezza; perché esclude ogni castigo
violento e cerca di tenere lontano gli stessi leggeri castighi.
La pratica di questo sistema è tutta appoggiata sopra le parole di
S. Paolo che dice: “La carità è benigna e paziente; soffre tutto,
ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo”. Perciò soltanto
il cristiano può con successo applicare il sistema Preventivo.
Ragione e Religione sono gli strumenti di cui deve costantemente
far uso l’educatore, insegnarli, egli stesso praticarli se vuol
essere ubbidito ed ottenere il suo fine.
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1. Il Direttore deve essere consacrato a’ suoi educandi... Si trovi
sempre coi suoi allievi tutte le volte che non sono obbligatoria-
mente legati da qualche altra occupazione.
2. I maestri, i capi d’arte, gli assistenti devono essere di moralità
conosciuta. Studino di evitare come la peste ogni sorta di affe-
zione od amicizie particolari cogli allievi... Si faccia in modo
che gli allievi non siano mai soli. Per quanto è possibile gli
assistenti li precedano nel sito dove devono raccogliersi...
3. Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piaci-
mento. La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatrino, le
passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina,
giovare alla moralità e alla sanità... Fate tutto quello che
volete – diceva il grande amico della gioventù S. Filippo Neri –,
a me basta che non facciate peccati.
4. La frequente confessione, la frequente comunione, la messa
quotidiana sono le colonne che devono reggere un edificio edu-
cativo, da cui si vuol tener lontano la minaccia e la sferza. Non
mai obbligare i giovanetti alla frequenza de’ santi Sacramenti,
ma soltanto incoraggiarli e porgere loro comodità di approfit-
tarne...
L’educatore, tra gli allievi, cerchi di farsi amare, se vuole farsi
temere.
“Dite ai miei ragazzi”
Don Bosco morì il 31 gennaio 1888. Ai Salesiani che lo veglia-
vano, mormorò nelle ultime ore: “Vogliatevi bene come fratelli.
Aiutatevi, sopportatevi come fratelli. Fate del bene a tutti, del male
a nessuno... Dite ai miei ragazzi che li aspetto tutti in paradiso”.
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LUIGI MARIA MONTI, BEATO
Collocazione storica (1825-1900)
Patronati
Si ricorda come Fondatore dei Figli dell’Immacolata Concezione (Concezionisti)
La vita in un frammento “Prega e cura, prega e guarisci, prega e sii di conforto al prossimo
nel momento più delicato della vita, nell’ora in cui il male corpo-
rale inaridisce le anime e rischia di farle allontanare da Dio”
Cenni biografici Un bambino gli gettava le braccia al collo, i malati lo fissavano
Il 9 novembre 2003, in una Piazza San Pietro gremitissima e inon-
data di sole, Giovanni Paolo II proclamò cinque nuovi beati. Tra
essi Luigi Maria Monti, il fondatore dei Figli dell’Immacolata
Concezione. La sua figura austera e dolce campeggiava in un
grande dipinto a colori, che diceva a tutti la doppia missione
cristiana per cui era vissuto: un bambino bisognoso gli gettava le
braccia al collo, alcuni malati adagiati intorno fissavano fiduciosi
il suo volto.
Luigi Maria Monti, laico consacrato a Dio, nella sua vita era stato
chiamato “padre”, per la venerazione di cui veniva circondato.
Era nato a Bovisio, piccolo paese dell’alto milanese, nel 1825.
Era l’ottavo figlio di Angelo e Teresa Monti, modesti contadini.
Giovane ardente di vita, cresceva nella fede comunicatagli dai
genitori, e viveva con loro i valori umani e cristiani di austerità,
generosità e operosità. Orfano di padre a 12 anni, diventa arti-
giano del legno per sostenere la mamma e i fratelli.
Attratti dalla sua bontà, dopo il lavoro, diversi coetanei artigiani e
contadini si riuniscono nella sua bottega, trascorrendo il tempo in
preghiere, letture della vita dei santi, tutto in sana e santa allegria.
È una vera “comunità cristiana locale”, che la gente del posto
chiama scherzando “la compagnia dei frati”.
Ma è l’anno 1851, ed è finita da poco (con il disastro della bat-
taglia di Novara) la prima guerra d’indipendenza italiana. Gli
Austriaci che occupano la Lombardia vedono cospirazioni dap-
pertutto. Qualche maligno soffia nelle loro orecchie che nella bot-
tega del Monti si riunisce una “società di cospiratori”. La polizia
irrompe durante una riunione e arresta Monti e quindici suoi com-
pagni. Per 72 giorni subiscono il “carcere preventivo”, mentre la
polizia indaga. Alla fine vengono liberati come onesti cittadini
che non hanno mai cospirato contro nessuno. Nel 1852 Luigi
Maria si trasferisce a Brescia per entrare nella Congregazione dei
Figli dell’Immacolata fondata da Ludovico Pavoni cinque anni
prima. Vi rimane sei anni come novizio. Fu un periodo di matura-
zione e di riflessione. Fece esperienza come educatore, dedican-
dosi ai poveri figli del popolo, e si specializzò come infermiere,
in cui manifestò dedizione eroica.
Si chiuse nel lazzaretto
Quando nel 1854 scoppiò a Brescia il colera, si chiuse volontaria-
mente con due confratelli nel lazzaretto e vi rimase per tre mesi, a
110
completa disposizione dei colpiti. Uscì solo alla fine della pesti-
lenza per non contagiare nessuno.
Nel dicembre del 1854, papa Pio IX da Roma proclamò “dogma
di fede” l’Immacolata Concezione di Maria. Luigi Maria, insieme
al giovane e abile infermiere Cipriano Pazzini, furono sollecitati
dal loro direttore spirituale a recarsi a Roma, nell’ Ospedale Santo
Spirito.
Il direttore sapeva che la cura degli infermi in quel grande ospe-
dale non era buona. Avrebbero dato vita a una unione per il servi-
zio degli infermi, che avrebbe chiamato “Congregazione dei Figli
dell’Immacolata Concezione”.
Luigi Maria Monti ubbidì. Giunse a Roma nel 1858 (aveva 33 anni)
e si inserì nell’ospedale come umile infermiere.
Venti lunghi, faticosi anni
“Fu in quel luogo di disperate sofferenze che, di fatto, iniziò
il cammino di Luigi Monti sulla strada della carità e del servizio
all’uomo malato, fu lì che egli diede vita alla famiglia religiosa
dei Figli dell’Immacolata Concezione a testimoniare la filiale
accettazione di quel dogma che papa Pio IX aveva da poco pro-
mulgato sulla purezza totale della Madre Celeste.
Dalle corsie del Santo Spirito agli ospedali di Orte, Nepi, Civita-
castellana, Capranica, Luigi Monti per ben venti lunghi e faticosi
anni si fece Infermiere di Dio, Apostolo della Carità, testimone
d’amore al servizio della sofferenza. Diventò operatore sanitario
a tempo pieno. Visse, dormì, si nutrì accanto ai suoi assistiti, ne
condivise i loro problemi al punto di seguirli anche una volta
dimessi dalla corsia ospedaliera.
La città di Roma e il territorio della Provincia di Viterbo lo videro
sempre pronto ad accorrere dove il fratello malato chiamava, dove
la sua opera risultava indispensabile. È pienamente convinto che
il malato, il corpo del malato sofferente siano la stessa persona
di Cristo, tanto che trovandosi nella necessità di scegliere tra un
rosario in cappella e un malato da soccorrere non ebbe mai
dubbio alcuno. Fu l’amico e il servo degli infermi, fu l’infermiere
di Dio, fu l’interprete del Vangelo della sofferenza. Ma non
dimenticò mai di aggiornarsi a livello professionale. Studiò ana-
tomia e farmacia per preparare giuste ricette per i suoi malati.
Ma la ricetta più bella non veniva, come ebbe a dire lo stesso
Monti, dal retrobottega di una qualunque farmacia, ma dal cuore di
Gesù. Ecco la sua prescrizione: “Per godere di buona salute di
anima e di corpo, prendete radici di fede, verdi fronde di speranza,
rose di carità, viole di umiltà, gigli di purità, assenzio di contri-
zione, legno della Croce. Legate tutto in un fascetto col filo della
rassegnazione. Mettetelo a bollire sul fuoco dell’amore, nel vaso
dell’orazione, con vino di santa allegrezza e con acqua di tempe-
ranza, ben chiuso col coperchio del silenzio. Lasciatelo la mattina
nel sereno della meditazione. Prendetene una tazza mattino e sera,
e così godrete buona salute”. È un infuso, quello del beato Luigi
Maria Monti, che non ha date di scadenza” (G. Cristofani).
111
Nel 1877 Pio IX lo nomina Superiore Generale della sua Congre-
gazione, che silenziosamente ed efficacemente si sviluppa nei
luoghi di sofferenza. “Padre” Monti si sforza di donare ad essa
il suo spirito. Ripete ai suoi figli spirituali: “Cercare sempre tra
le pieghe di un dolore fisico il tormento di un’anima”, “Prima di
tutto viene il malato”. Il motto di san Benedetto, “Prega e lavora”,
fu tradotto da Luigi Monti come “Prega e cura, prega e guarisci,
prega e sii di conforto al prossimo nel momento più delicato della
vita, nell’ora in cui il male corporale inaridisce le anime e rischia
di farle allontanare da Dio”. Lo scrisse chiaramente nelle Regole
che volle lasciare ai suoi figli, ma prima di scriverlo con le parole
lo testimoniò con la sua vita, passata a fianco della povertà e della
sofferenza.
Le malattie dei pastori
Nel 1877 decise di comprare una casa e un vigneto nell’agro
romano in via Boccea, da destinare al riposo dei suoi figli spiri-
tuali. Attorno vivevano famiglie di pastori, molto sovente colpite
da malattie della pelle per il mestiere che facevano. I suoi figli
spirituali, invece di riposarsi, cominciarono a curare le malattie
dei pastori.
Oggi, per la costante e progressiva attività dei “Concezionisti”
(come vengono chiamati gli appartenenti alla sua Congregazione)
sorge l’Istituto Dermopatico dell’Immacolata, uno dei più insigni
centri del mondo per la cura delle malattie della pelle.
Un giorno del 1882, all’Ospedale di Santo Spirito, ricevette la
visita di un frate certosino, suo compaesano, che gli presentò
quattro ragazzetti. Erano suoi nipoti, ed erano diventati improvvi-
samente orfani di entrambi i genitori. Il frate non sapeva dove
collocarli. Luigi Maria Monti li prese con sé, sentendo rinascere
l’antica tenerezza verso i ragazzi abbandonati che aveva provato
nell’opera fondata da Ludovico Pavoni.
Ritornano gli orfani
Nel 1883 si teneva il Capitolo generale dei Figli dell’Immacolata
Concezione. Egli chiese e ottenne dai suoi figli che la Congre-
gazione assumesse anche questa seconda finalità apostolica: l’ac-
coglienza degli orfani di padre e di madre, perché trovassero nelle
loro comunità una seconda famiglia. Nel 1886, tornato in Lom-
bardia, “Padre” Monti aprì a Saronno la prima casa per gli orfani.
Essa è oggi la sede centrale di tutta la sua opera.
Luigi Maria Monti andò incontro a Dio il 1° ottobre 1900. Nei
decenni che seguirono, i suoi figli spirituali realizzarono opere per
i malati e gli orfani in Italia e in tutto il mondo: dalla cura dei
lebbrosi in Camerun alle scuole di lavoro per gli orfani in India.
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LEONARDO MURIALDO, SANTO
Collocazione storica (1828-1900)
Patronati
Si ricorda come Fondatore dei Giuseppini
La vita in un frammento “Fare e tacere”
Cenni biografici Votacci sui compiti
Il ricco e nobile banchiere torinese Murialdo ebbe nove figli. Il
penultimo di essi, Leonardo, a soli 8 anni fu mandato a Savona,
nella celebre scuola degli Scolopi, in faccia allo splendido mare
ligure. L’aria di mare gli fece bene. Ma la compagnia di alcuni
compagni maliziosi, quando giunsero gli anni difficili dell’adole-
scenza, lo fecero entrare in crisi.
Dai 14 ai 15 anni cominciarono ad arrivare votacci sulle pagine dei
compiti. La mamma, che credeva di averlo collocato in un luogo
sicuro per la sua crescita cristiana, ricevette lettere allarmanti dalla
direzione della scuola. Nelle sue “Memorie”, Leonardo scriverà:
“Voi mi avete ricolmato, o mio Dio, di beni naturali e spirituali. E
io vi abbandonai tanto presto. Presso i quindici anni io ero già
peccatore e gran peccatore”.
A 15 anni la mamma lo esortò a tornare a Torino. La fine delle
“cattive compagnie” e l’affetto sereno di sua madre lo rimisero
sulla buona strada. Un giorno, mentre pregava la Madonna nella
bella chiesa di S. Dalmazzo, sentì prepotente la chiamata del
Signore a diventare sacerdote. Ottenne la laurea in teologia presso
la Regia Università di Torino, e fu ordinato sacerdote nel 1851.
Fianco a fianco con don Bosco
Dedicò i primi 14 anni del suo sacerdozio interamente all’aposto-
lato tra la gioventù povera e abbandonata della sua Torino. In parti-
colare, dal 1857 (aveva 29 anni) al 1865 collaborò con Don Bosco
accettando la direzione dell’Oratorio di S. Luigi presso la stazione
ferroviaria di Porta Nuova. In quegli anni una manciata di santi
(donCafasso, donBorel, donBosco, la marchesaBarolo, donCocchi)
operava in Torino tra i giovani lavoratori poverissimi, che l’espe-
rienza delle prime fabbriche portava all’abbandono della fede.
Per aiutare più concretamente i giovani del suo Oratorio (che in
certe domeniche raggiungeva il numero di 500), don Leonardo
tirò su uno stanzone, lo divise in due, e lo fece servire da aula sco-
lastica per un centinaio di ragazzi. Ad essi forniva i libri, e molte
volte anche il necessario per mangiare e vestirsi.
La città, governata da Camillo Cavour, vedeva crescere in maniera
esplosiva la sua popolazione, specialmente nei quartieri popolari.
Dai 137 mila abitanti del 1848 ai 220 mila del 1864. Occorrevano
iniziative nuove, per non perdere cristianamente il mondo operaio.
A esplorare in Francia
Nel 1865 don Leonardo lanciò il progetto di una “Unione di operai
cattolici”, e cominciò a un più ampio movimento associativo.
113
A Torino si sapeva che in Francia (dove la rivoluzione industriale
era arrivata in pieno) diverse personalità cattoliche lavoravano
con iniziative diverse nel mondo operaio. Con il consenso e l’ap-
poggio degli altri “operatori sociali”, don Leonardo nel 1866 partì
per Parigi e, per un anno, fu ospite del celebre Seminario di San
Sulpizio. “Entrò in contatto con le maggiori figure del cattolice-
simo sociale francese, dal De Melun, al Mermillod, al Maignen,
ricevendone stimoli e suggestioni importanti per il suo progetto
di associazionismo operaio. Passò quindi in Inghilterra, dove fu
ospite del torinese Faà di Bruno. Fu molto attento a quanto avve-
niva di nuovo nel cattolicesimo europeo” (B. Gariglio).
Nell’anno passato nel Seminario parigino non fu soltanto “osser-
vatore” dei fenomeni sociali. Egli si mise alla scuola spirituale
del santo rettore, padre Icard. Sotto la sua direzione spirituale
sviluppò “un senso vivo del primato della vita di fede e di ado-
razione, un tono di distacco, un’austerità che però era temperata
dalla dolcezza appresa alla scuola di Don Bosco” (D. Barsotti).
Ritornato dall’Inghilterra nel novembre 1866, fu quasi costretto ad
assumere la direzione dell’opera degli Artigianelli, nata dalla vulca-
nica attività di don Cocchi “per accoglierei fanciulli poveri e abban-
donati”, diretta in quel momento da padre Berizzi, e carica di debiti.
Nell’opera erano sorti laboratori interni, diventati vere scuole pro-
fessionali. Don Leonardo aveva aiutato finanziariamente l’opera,
ma non se la sentiva di assumere la direzione di quella complessa
comunità di maestri e di giovani, e insieme farsi carico del pesantis-
simo mutuo che la direzione aveva contratto per la costruzione del
fabbricato e l’acquisto delle macchine per i laboratori. “Accettare
quell’impegno voleva dire gettare via il proprio patrimonio, e com-
promettere il buon nome della sua famiglia” (G. Pettinati).
“Provvisorio” per 34 anni
Padre Berizzi, per farlo accettare, gli assicurò che avrebbe cercato
un altro direttore. Lui doveva ricoprire la carica solo provvisoria-
mente. Don Leonardo finì per accettare, ma quel provvisoriamente
durò 34 anni, cioè tutta la sua vita.
Da questo momento l’attività di don Leonardo, anche se mescolata
nella vita di tutti i giorni, si svolge su due fronti distinti: la condu-
zione paterna della sua opera con la progressiva nascita della
sua Congregazione, e la sua azione nel più vasto campo sociale
con la nascita delle “Unioni operaie” e del giornale “La Voce del-
l’Operaio”.
Accettata “provvisoriamente” la nuova carica, don Murialdo ab-
bandonò il palazzo della sua famiglia e visse tra i 180 artigianelli.
Fece vita comune con loro e con i maestri. Già don Berizzi aveva
costituito una “sezione di allievi-maestri” scegliendoli tra i gio-
vani migliori.
Il Murialdo scrisse per loro e per i fratelli laici che insegnavano
nei laboratori un regolamento, e li raccolse tutti nella “Compagnia
di San Giuseppe”. Non era una Congregazione di consacrati, ma
la preparava. L’idea di diventare il fondatore di una Congrega-
114
zione lo spaventava. Prima di decidersi pregò a lungo, pellegrinò
ai santuari della Consolata, di Lourdes, di La Salette. Chiese il
consiglio del suo “direttore spirituale” di San Sulpizio. Padre
Icard nel 1871 venne a fargli visita. Vide l’Opera degli Artigia-
nelli, parlò con lui e con i suoi collaboratori, e alla fine concluse
che la Congregazione si doveva fondare. “Io fondatore di una
Congregazione? – esclamò don Leonardo –. Ma per questo il Si-
gnore ha sempre scelto dei santi!” Padre Icard sorrise e rispose:
“Ecco una buona occasione per diventarlo!”.
Il 19 marzo 1873, vinta ogni esitazione, don Murialdo fece i primi
voti religiosi. Nasceva la Pia Società di San Giuseppe. Non era
molto numerosa: i sacerdoti erano solo tre. E don Murialdo non
desiderava che si allargasse molto. Pensava che la sua azione
dovesse limitarsi all’Opera degli Artigianelli. Ma i disegni del
Signore erano diversi. I “Giuseppini”, durante la sua vita, allarga-
rono il loro ministero a una Casa-Famiglia in Torino, alle scuole
di Venezia, Oderzo (Treviso), Vicenza, Bassano del Grappa,Rove-
reto, Correggio, Reggio Emilia, Zara e Carpi.
Don Murialdo parlava poco della sua opera. La sua parola d’or-
dine era Fare e tacere.
Arriva la Rerum Novarum
Sul piano sociale la sua azione fu molto efficace. Nel 1871 riuscì
a realizzare l’idea di una Unione di Operai cattolici. In dieci anni
essa creò nella sola Torino 25 sezioni con 5 mila iscritti, ed estese
la sua attività a molte opere assistenziali: la Cassa di Mutuo soc-
corso (1871), il Collocamento operaio (1876), la Biblioteca circo-
lante (1878), i Magazzini Alimentari (1882), la Cassa Pensioni e
Previdenza per vecchi inabili e infortunati sul lavoro (1888),
scuole feriali e festive, il “Giardino festivo” (dopolavoro festivo
con cappella, bar e giochi di società).
Sollecitò e guidò varie petizioni al Governo Italiano per la tutela
del lavoro dei minori, perché venisse proibito per loro il lavoro
notturno e limitato quello diurno.
Dopo la pubblicazione della Rerum Novarum di Leone XIII nel
1891, intensificò la sua azione sociale. Le Unioni Operaie si diffu-
sero in Piemonte e in Liguria.
Ispirò la nascita del primo Segretariato del popolo in Torino
(1995) dove gli operai venivano aiutati nei problemi del lavoro.
Dal 1883 pubblicò La Voce dell’Operaio, che oggi continua come
Voce del Popolo. Fu il primo periodico cattolico italiano rivolto a
un pubblico operaio.
Negli ultimi anni della sua vita non diminuì la sua attività reli-
giosa e sociale, ma si sentì oppresso dal debito enorme che faceva
rischiare la bancarotta all’Opera degli Artigianelli.
Don Murialdo fu visto alle porte delle chiese, insieme ai suoi
artigianelli, tendere la mano per chiedere l’elemosina.
Solo nel 1897 la generosissima eredità del conte Roero di Gua-
rene saldò il debito.
Tre anni dopo poté morire in pace.
115
MARIA DOMENICA MAZZARELLO, SANTA
Collocazione storica (1837-1881)
Patronati
Si ricorda come Confondatrice delle Figli di Maria Ausiliatrice
La vita in un frammento “Un’ora in meno su questa terra, un’ora di più vicino al paradiso”
Cenni biografici Il tifo sulla colline
Nel 1860, tra i calori dell’estate, sulle colline di Mornese esplose
il tifo e la paura. Il tifo si comunica da una persona all’altra come
l’influenza, e a quei tempi era una malattia sovente mortale. Le
famiglie colpite erano abbandonate da tutti, quelle sane sbarravano
le porte.
In una famiglia, che porta il cognome Mazzarello, sono colpiti
tutti. Qualcuno sta morendo. Don Pestarino, un prete che dà una
mano al parroco del paese, va da una famiglia di parenti, anch’essa
di cognome Mazzarello. Vi abita una giovane cristiana di 23 anni,
primogenita di dieci figli. Le chiede di andare a dare una mano
nella casa dei malati. Maria Domenica (questo il suo nome) esita,
si consulta con suo padre, poi accetta. Nella casa torna l’ordine e la
pulizia, cibo caldo e medicine sono pronti alle ore stabilite.
Ma quando la salute sembra tornata per tutti, il tifo si abbatte su
Maria Domenica. In pochi giorni è in fin di vita. Al medico, che la
sta imbottendo di medicine, dice: “Basta così. Ora ho solo più bi-
sogno che Dio venga a prendermi”. Ma la sua strada, nei disegni
di Dio, è ancora lunga. La grave malattia ha rotto qualcosa nel suo
fisico robusto. Non se la sente più di tornare a lavorare nei campi.
Da cinque anni Maria Domenica fa parte della “Pia Unione delle
Figlie di Maria SS. Immacolata”, un gruppo di giovani cristiane
che prega insieme e fa apostolato nella parrocchia. Tra quelle gio-
vani Maria ha un’amica con cui non ha segreti. Si chiama Petro-
nilla. Maria le confida che ha deciso di mettersi alla scuola del
sarto del paese, per fare la sarta, ma anche per insegnare il me-
stiere alle ragazze del paese. “Mi piacerebbe che venissi anche tu.
Staremmo insieme, vivremmo come in una famiglia”.
Passa un anno, e Maria e Petronilla hanno impiantato un piccolo la-
boratorio di sartoria ai margini del paese. Una decina di bambine
vanno a imparare a cucire. Ma ecco una novità che sconvolge tutto.
Nell’inverno 1863 bussa alla porta un venditore ambulante, ri-
masto vedovo con due bambine, otto e sei anni. Chiede che le ten-
gano con loro di giorno e di notte, perché deve andare in giro col
suo carretto. Le bambine sono lì, quattro occhi spauriti. Petronilla
prende per mano la prima, Maria prende in braccio la seconda.
Accendono un gran fuoco nel camino. Così, senza nessun piano
prestabilito, il primo laboratorio di sartoria si trasforma in casetta
per bambine povere. Appena nel paese si diffonde la voce, ven-
gono in molti a portare un fascio di legna, un paio di coperte,
mezzo sacco di farina per far polenta. Portano anche altre bam-
bine che hanno bisogno di una casa. E arrivano anche alcune
amiche, che vengono a condividere la loro missione materna.
116
Quando il campanile batte le ore
E cominciano quei piccoli gesti che diverranno col tempo compo-
nenti robuste dello “spirito di Mornese”. Prima di cominciare il
lavoro si recita insieme un’Ave Maria. Quanto il campanile batte
le ore, Maria dice: “Un’ora di meno su questa terra, un’ora di più
vicino al paradiso”. Ed esorta le sue bambine a offrire il lavoro al
Signore: “Ogni punto, un atto di amor di Dio”.
Anche alla domenica, Maria e le sue amiche vogliono far del bene
a tutte le ragazze del paese. Nasce così un oratorio festivo, con le
ragazzine che giocano spensierate, vanno insieme alla Messa, nel
pomeriggio fanno liete passeggiate.
Sull’orientamento della minuscola opera, e specialmente su Maria
Domenica, sulla sua maturazione cristiana, è decisiva la presenza
di don Domenico Pestarino, per ventisette anni suo confessore e
direttore spirituale.
Il modesto laboratorio-ospizio acquista col passare del tempo pro-
porzioni sempre più vaste. Questo è dovuto specialmente all’ar-
rivo a Mornese di don Bosco. Egli a Torino sta fondando la Con-
gregazione Salesiana, e ha accettato tra i suoi membri lo stesso
don Pestarino. “Fin al primo incontro (con don Bosco) – scrive P.
Cavaglià – Maria Domenica avvertì una sintonia spirituale e pe-
dagogica. In quello stesso anno il gruppo di Maria Domenica
iniziò a gravitare sempre più intorno alla figura del santo dei gio-
vani. Questi, rilevata la consistenza spirituale e pedagogica del
piccolo gruppo di educatrici, lo scelse per dare origine a un Isti-
tuto religioso impegnato nell’educazione femminile.
Il 15 agosto 1872, le prime quindici giovani, che il fondatore
volle chiamare “Figlie di Maria Ausiliatrice”, emisero i voti reli-
giosi. Alla fondazione e al primo consolidamento del nuovo Isti-
tuto, Maria Domenica diede il suo apporto discreto, ma singolare
ed efficace, contribuendo alla formazione delle prime educatrici, e
caratterizzando in modo personale la spiritualità e la metodologia
educativa adottata...
Il “sistema preventivo” praticato da don Bosco era già stato per
anni compreso e vissuto da Maria Domenica nel suo quotidiano
rapporto con le ragazze, tanto da divenire per lei connaturale.
“Operando come superiora generale nella prima casa dell’Istituto
a Mornese e poi a Nizza Monferrato, dove nel 1879 venne trasfe-
rita la casa-madre, Maria Domenica lasciò un’impronta spirituale
e pedagogica decisiva. Aveva incontrato le ragazze nella rassegna-
zione di piccoli orizzonti culturali e le aveva sospinte a scelte au-
daci fino a varcare i confini della nazione, realizzando così l’i-
deale missionario. Suor Maria Domenica, infatti, nei primi anni
dell’Istituto, vide partire numerose sue figlie per la Francia, l’U-
ruguay e l’Argentina dove, a ritmo continuo, venivano fondate
istituzioni educative”.
La bimba con piedi, calze e scarpe incollate
Il fatto di essere superiora generale non fece mai perdere a suor
Maria Domenica il senso delle proporzioni. Continuò ad assistere
117
le ragazzine più piccole in camerata, con occhio amoroso e at-
tento. Una bimba a cui i geloni avevano incollato insieme piedi,
calze e scarpe, s’infilò nel letto con scarpe e tutto. Madre Mazza-
rello se ne accorse. Non disse niente. Scese in cucina e tornò con
un catino di acqua tiepida, garza e cotone. Portò tutto silenziosa-
mente accanto al letto della bambina, e le sussurrò: “Adesso met-
teremo a posto i tuoi piedini. Non aver paura, non ti farò male”.
Nel gennaio 1881 le suore cominciarono a notare che la salute
della Madre stava declinando, anche se aveva soltanto 44 anni.
Qualcuna le sussurrò che doveva badare di più alla salute, ma
lei sorridendo rispose: “È meglio per tutte che me ne vada. Così
faranno superiora una più abile di me”.
Il crollo avvenne mentre stava accompagnando un gruppo di
missionarie in partenza per l’America del Sud. Una pleurite grave
con febbre alta la inchiodò al letto per quaranta giorni. Tornò alla
casa madre pallida e sfinita. Ringraziò delle premure dicendo: “In
questo mondo, qualunque cosa avvenga, non dobbiamo né ralle-
grarci né rattristarci troppo. Siano nelle mani di Dio, che è nostro
padre, e dobbiamo essere sempre pronte a fare la sua volontà”.
La fine si annunciò ai primi giorni di maggio. Volle ancora parlare
con le sue suore. Disse: “Vogliatevi bene. Tenetevi sempre unite.
Avete abbandonato il mondo. Non fabbricateneve un altro qui
dentro. Pensate al perché siete entrate in Congregazione”.
Stava male, ma non volle rattristare nessuno. Si sforzò addirittura
di cantare.
Dio le venne incontro all’alba del 14 maggio 1881. Riuscì a mor-
morare: “Arrivederci in cielo”. Aveva 44 anni.
Sulla spiritualità di questa giovane suora, vissuta in un ambiente
non culturalmente ricco, consumata dalla povertà e dal lavoro,
sono state fatte profonde riflessioni. Riporto poche righe: “Quella
di Maria Domenica Mazzarello non è la spiritualità della ‘monaca
di casa’, sia pure impegnata in opera parrocchiali, ma quella
di chi ha fatto dell’educazione cristiana della donna una scelta
di vita. Per lei vivere è fare del bene alle giovani. Si tratta di una
spiritualità semplice, teoricamente non elaborata, ma vissuta e
insegnata in modo vitale e pratico. Essa è fondata sui princìpi
cristiani condensati nel catechismo” (P. Cavaglià).
118
GIOVANNI PIAMARTA, BEATO
Collocazione storica (1841-1913)
Patronati
Si ricorda come Fondatore della Congregazione della Sacra Famiglia di Nazareth
La vita in un frammento “Io morirò qui dove sono, in mezzo ai miei ragazzi”
Cenni biografici Fare il materassaio a nove anni
A 9 anni gli morì la madre, e il nonno materno lo avviò al me-
stiere di materassaio. Fu un’infanzia dura la sua, e un’adolescenza
difficile. Per sue fortuna incontrò un prete dalla fede profonda,
don Pancrazio Pezzana, che in lui non vide solo gli atteggiamenti
sgarbati, ma un’anima preziosa da salvare, e delle ottime doti
per metterlo allo studio. Don Pezzana se lo fece amico, gli fece
scuola, e scoprendo sotto la scorza dura un cuore puro e cristal-
lino, gli propose di entrare in Seminario. Fu duro masticare gram-
matiche, ma aveva i denti buoni e la volontà più buona ancora.
E il 24 dicembre 1865 Giovanni Piamarta fu ordinato sacerdote.
Nella chiesa di S. Alessandro, in Brescia, divenne parroco don
Pancrazio Pezzana, che nel 1870 lo chiese al Vescovo come diret-
tore dell’oratorio. “Furono i tredici anni più radiosi del suo apo-
stolato – scrive Alberto Nodari –.
La sua attività era dedicata soprattutto alla gioventù, cogliendo
risultati mirabili. Dai suoi ragazzi seppe farsi amare come un
fratello e rispettare e venerare come un padre”. Uno studioso della
sua vita però aggiunge: “Durante quel periodo prese coscienza
della situazione di disagio materiale e spirituale in cui venivano a
trovarsi numerosi giovani impegnati nelle prime fabbriche della
nascente industria bresciana. Sradicati dal loro ambiente paesano
e agricolo, inseriti nel mondo del lavoro senza una preparazione
professionale e un aiuto morale, essi erano facile preda dello
sfruttamento, e le loro convinzioni religiose entravano in una
gravissima crisi”.
La sensibilità umana e l’impegno sacerdotale portò don Giovanni
Piamarta a pensare di far qualcosa di concreto non solo per i gio-
vani del suo oratorio, ma per tutti i giovani bresciani che affronta-
vano il mondo del lavoro: un Istituto Artigianelli con scuole che li
preparassero ad affrontare la nuova situazione. Viveva a Brescia
un intelligente prelato, Mons. Pietro Capretti. A lui si rivolgevano i
giovani sacerdoti per avere consiglio nelle loro difficoltà. Ascoltò
più volte don Giovanni, e gli parve che il suo progetto fosse molto
valido.
Ma nel 1885 il Vescovo chiamò don Piamarta e gli affidò una dif-
ficile parrocchia della “bassa bresciana”, Pavone Mella. Era una
zona trascurata da molto tempo. La gente era ostile ai preti e alla
Chiesa. Rifiutava di mandare i bambini al catechismo e viveva in
maniera molto poco cristiana. Per quattro anni don Piamarta spese
tutte le sue energie per quella popolazione. Ma umanamente par-
lando furono quattro anni di fallimenti. A questo punto intervenne
Mons. Capretti. Si recò dal Vescovo, gli espose le difficoltà in
119
continua crescita della gioventù operaia, e gli illustrò il progetto
di don Piamarta. Era il caso di lasciare a Pavone Mella quel gio-
vane prete che stava per essere sommerso dallo scoraggiamento,
o era meglio richiamarlo a lavorare nel “suo” campo?
“Eccellenza, no!”
Brescia aveva già conosciuto una istituzione di difesa e di educa-
zione nel settore di giovani lavoratori: quella di Ludovico Pavoni.
Ma i dolorosi avvenimenti della guerra l’avevano mutilata.
Il Vescovo accettò che don Piamarta ritentasse l’esperienza con il
suo Istituto Artigianelli. Mons. Capretti, di famiglia ricca, comprò
sul colle di S. Giulia un terreno con alcune case. L’Istituto Arti-
gianelli fu aperto lì, con la celebrazione della santa Messa, il 3 di-
cembre 1886. Don Piamarta ne divenne il direttore.
Nonostante la generosità di Mons. Capretti, le difficoltà economi-
che si fecero presto sentire. I ragazzi erano tanti e poveri. Occor-
reva fornirli di tutto, dal cibo ai libri, e occorreva dare stipendi
ai maestri. Il Vescovo analizzò con don Giovanni la situazione, la
valutò poco sicura, e gli propose di chiudere. Don Piamarta ascoltò
con animo sereno le parole del suo Vescovo, ma poi con forza
disse: “Eccellenza, no. L’opera è necessaria ai giovani. Io me ne
prendo tutta la responsabilità, e ho fiducia che Dio ci aiuterà. Io mo-
rirò qui dove sono, in mezzo ai miei ragazzi”. Il Vescovo fu colpito
da quella forte fiducia, e concluse: “Dio ti ascolti e ti assista”.
Da quel momento don Piamarta non fu soltanto il direttore, ma il
responsabile unico dell’opera. Ogni rischio di fallimento ricadeva
solo su di lui. Egli divenne veramente “padre” dei suoi ragazzi e di
quell’opera che a Brescia ancor oggi viene chiamata “Artigianelli”.
Negli anni che seguirono, Dio ascoltò veramente quel prete e i
suoi ragazzi. Dal 1888 il moto ascendente dell’Istituto non si
fermò più, e rese un vero servizio ai giovani del mondo operaio
bresciano. Sul colle di S. Giulia i fabbricati si moltiplicarono e
poterono accogliere un numero sempre maggiore di laboratori. La
preparazione degli insegnanti e la perfezione delle macchine poté
rendere sempre migliore l’educazione e l’istruzione degli allievi.
Intanto un nuovo problema si affacciava nel mondo del lavoro. Le
industrie della città inducevano sempre più i giovani contadini
ad abbandonare i campi. La campagna, coltivata con metodi anti-
quati e da contadini sempre più vecchi, era ormai in piena crisi.
Le famiglie contadine impoverivano sempre più.
Don Piamarta, che era stato parroco nella “bassa”, sentiva il
problema in tutta la sua urgenza. Insieme a un altro sacerdote,
Giovanni Bonsignori, pensò a una Scuola Pratica di Agraria per
insegnare ai giovani non a fuggire dalla terra, ma a coltivarla con
metodi razionali e scientifici.
Un podere con case e stalle
Nel febbraio 1885 don Piamarta comprò a Remedello Sopra un
podere di 140 ettari, con case e stalle. Nel novembre dello stesso
anno don Bonsignori vi cominciò la Scuola Pratica di Agraria.
120
Al Congresso degli Studi Sociali tenuto a Padova nel 1896 (la
Rerum Novarum era stata pubblicata da appena cinque anni) l’ini-
ziativa fu presentata e ammirata dagli specialisti e dal gran pub-
blico.
Attorno a don Piamarta, intanto, si è creata una comunità di per-
sone che ne condividono gli ideali e lo stile di vita. A questo punto,
dopo aver pregato ed essersi consigliato, egli pensa seriamente ad
assicurare ad essa una continuità, perché gli uomini passano, ma il
bene bisogna continuare a farlo. Pensa a una famiglia religiosa
nuova, “una famiglia composta di sacerdoti e laici che attendono
alla educazione e all’istruzione professionale dei ragazzi”. Una
vera comunità religiosa, nella quale tutti i membri cerchino di
seguire seriamente la strada del Vangelo vivendo tutta la sostanza
della vita religiosa, ma senza voti. Non una Congregazione ma una
Pia Società.
Il 25 maggio 1902 la Pia Società della Sacra Famiglia di Nazareth
ottiene la prima approvazione del Vescovo di Brescia. Il 23 dicem-
bre 1908 riceve l’approvazione definitiva.
Tre anni dopo, don Piamarta completa la realizzazione del suo
progetto: insieme a madre Elisa Baldo dà inizio alla “Pia Società
delle Ausiliatrici”. Sono le sorelle che condividono l’impegno
sociale e pastorale di don Piamarta, e partecipano al servizio dei
giovani. Prendono il nome di Povere Serve della Sacra Famiglia
di Nazareth.
L’11 gennaio 1910, a 69 anni, don Piamarta fu paralizzato da
un primo ictus. Appena con difficoltà si riprese, si preoccupò di
concludere ogni pratica e di definire ogni progetto sospeso. Voleva
essere pronto all’incontro del suo Signore, al quale avrebbe reso
conto dei talenti da Lui ricevuti.
Un secondo ictus lo raggiunse a Remedello.
Si spense il 25 aprile 1913.
Il 15 maggio 1939, la “Pia Società” viene mutata dalla Santa Sede
in “Congregazione”. I confratelli che fino allora erano legati solo
da una promessa, emettono i voti di povertà, castità e obbedienza.
Il 12 ottobre 1997, in piazza S. Pietro, Giovanni Paolo II proclamò
Giovanni Piamarta “beato”.
In quel giorno furono pure proclamate le radici della sua spiritua-
lità:
Da una profonda vita di unione con Dio gli derivarono una carità
senza confini verso tutte le miserie del mondo. Per alleviarle fu
tenace nel volere le sue realizzazioni. Fu un apostolo incompara-
bile nel formare persone di ogni genere, ma soprattutto quei gio-
vani che furono tutta la ragione della sua vita. E la sua fu educa-
zione essenziale, sobria ma salda, che partiva dalle virtù umane
– soprattutto sincerità e parsimonia – per portare le anime sulla
via del sacrificio e della fortezza, a saper gustare le cose di Dio.
121
EUGENIA RAVASCO, BEATA
Collocazione storica (1845-1900)
Patronati
Si ricorda come Fondatrice delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria
La vita in un frammento “Eccomi, Signore. Per tuo amore farò del bene a tutti quelli che
incontrerò”
Cenni biografici Papà e mamma sparivano e riapparivano: una confusione
Figlia di banchieri, banchiera essa stessa, giocò tutta la sua vita
sulla promessa di Gesù: “Chi avrà abbandonato fratelli e sorelle,
padre e madre, case o campi per mio amore, riceverà cento volte
di più, e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,29).
Sua madre era giovane e bella quando lei nacque a Milano, quinta
di sei figli. Suo padre invece, il ricchissimo banchiere Francesco
Matteo Ravasco, era già vecchio di 63 anni. La felicità, per quella
bimba, durò un tempo brevissimo. La mamma nel dare alla luce
Elisa, sua ultima bambina, morì. “Mammina” di Eugenia divenne
zia Marietta, che lei non riuscì mai a distinguere bene dalla sua
mamma vera. Poi sparì il papà che lasciò Milano e tornò a Ge-
nova con il figlio più grande. Quindi ci fu un viaggio, ricomparve
papà e sparì la “mammina”, perché papà Francesco aveva deciso
di portare a Genova la sua famiglia. E per Eugenia (7 anni) furono
giorni di pianto disperato perché aveva perso la sua “mammina”.
Ma nella nuova città c’era un’altra zia che aveva figli piccoli,
Eugenia si trovò in una nuova, grande famiglia, e ritornò serena e
contenta. Quando ebbe dieci anni sparì per sempre papà, morto
di vecchiaia a 73 anni. Le lasciava un grande patrimonio e un po’
di confusione in testa. Ambrogio (19 anni) sentì moltissimo la
morte del padre, diventò apatico e ribelle.
Eugenia invece crebbe tranquilla e vivace nella famiglia degli zii.
Studiava, imparava a cucire e a ricamare, accompagnava la zia nella
chiesa e rimaneva incantata davanti al tabernacolo “dove c’è Gesù”.
Lo zio Luigi (diventato suo tutore) aveva assegnato alla nipote un
piccolo fondo, da gestire come voleva, ma di cui rendere conto
alla fine di ogni mese. La voce più alta nel bilancio di Eugenia
era sempre quella delle “elemosine”. La zia le aveva insegnato
che Gesù è nel tabernacolo, ma è anche nei poveri, nei bisognosi,
in quelli che soffrono. Eugenia sentiva compassione verso di loro.
Man mano che cresceva la colpivano specialmente le ragazze
della sua età, malvestite, poco pulite, che vedeva azzuffarsi e
picchiarsi nelle viuzze strette.
A 17 anni Eugenia riceve una grazia preziosa. Incontra in confes-
sionale un prete di fede grande e robusta, don Salvatore Magna-
sco. Diventerà Arcivescovo di Genova, e sarà per molti anni il suo
direttore spirituale. Sarà da lui accompagnata in modo discreto e
forte sulla via della carità e della santità.
Eugenia s’è fatta una ragazza bella, matura, istruita. Sotto la guida
dello zio amministra ormai lei stessa il patrimonio della sua fami-
glia.
122
Sposare il marchese?
Gli zii pensano al suo futuro. Tra i giovani che vorrebbero
sposarla, c’è il marchese Giovanni B. De Ferrari. Le famiglie si
incontrano. Ma Eugenia, che manifesta sempre più un tempera-
mento forte e libero, ha altri pensieri.
Quando compie 18 anni, sorprendendo tutti, chiede e ottiene
l’“emancipazione legale”. È un provvedimento che la rende libera
di disporre del suo patrimonio. E prega ardentemente il Signore di
indicarle la strada che dovrà percorrere nella vita.
Il 31 maggio 1863 (ha compiuto 18 anni da cinque mesi) entra
nella chiesa di S. Sabina per pregare davanti al tabernacolo. C’è
un prete che sta predicando. Le prima parole che Eugenia riesce a
percepire sono queste: “Non ci sarà proprio nessuno, dunque, che
vorrà dedicarsi totalmente a fare il bene per amore del Cuore
di Gesù?”. Sente quelle parole come rivolte a lei personalmente, e
inginocchiandosi davanti al tabernacolo dice: “Eccomi, Signore.
Per tuo amore farò del bene a tutti quelli che incontrerò”.
Nell’ospedale di Pammatone e nell’ospizio dei Cronici, è tradizione
che i giovani della migliore aristocrazia genovese portino generose
offerte e prestino servizio di volontariato. Eugenia ed Elisa vanno a
prestare servizio di carità. Eugenia offre anche la sua collaborazione
all’opera di S.Dorotea come assistente alle bambine del rione, e di-
venta insegnante di catechismo nella sua parrocchia del Carmine.
Fino a questo momento, Eugenia non è diversa da molte ragazze
cristiane delle ricche famiglie genovesi. Ma ora fa un passo in avan-
ti, un passo decisivo: apre la sua casa per dare istruzione e laborato-
rio di cucito e ricamo a quelle “ragazze del popolo malvestite e
poco pulite” che ha visto azzuffarsi e picchiarsi nelle viuzze strette.
I parenti protestano come per una stranezza. Le signore del suo ceto
cominciano a chiamarla “fanatica”. Ma lei parla col suo direttore
spirituale, lascia dire e tira dritto. Le cose lentamente cambiano.
Ci sono altre ragazze che vogliono unirsi a lei nel dedicarsi alle
ragazze abbandonate a se stesse, esposte ad ogni pericolo e igno-
ranti delle cose di Dio. Lei ci pensa. E intanto prega, si nutre del-
l’Eucarestia e della Parola di Dio nella Messa quotidiana.
Nel 1867 (a 22 anni) fa il voto privato di verginità, scegliendo per
sempre come suo sposo Gesù. Quando nel 1868 muore la sua
amatissima sorella Elisa (che si è sposata da appena tre anni),
rompe gli indugi e accetta in casa sua Adele, Carla ed altre
giovani che formano con lei l’“Associazione per il bene”. Hanno
l’approvazione e la benedizione di Mons. Magnasco, appena
diventato Vescovo Ausiliare di Genova.
Eugenia ha 23 anni, e con l’aiuto delle nuove venute allarga il
cerchio del bene: iniziano le scuole, le associazioni, le classi di
catechismo, gli oratori. L’Associazione diventa poco per volta
la “Congregazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria”.
Attaccata velenosamente dalla stampa laicista
La spiritualità che Eugenia dà alla sua Congregazione si addensa
su alcuni capisaldi: spirito di preghiera e di raccoglimento, fede
123
che si traduce in opere concrete, fare delle giovani delle “oneste
cittadine e delle sante per il Cielo”, avere una profonda compren-
sione per i limiti umani.
Il sistema educativo è quello preventivo, diffuso da don Bosco.
Nel 1878 Eugenia, che ha già fondato diverse scuole elementari,
si impegna in un’opera grande. Mentre i Governi dominati dalla
massoneria sono impegnati nella progressiva laicizzazione del-
l’Italia, e fanno azioni apertamente ostili verso il Papa e verso la
Chiesa, lei in apre in Genova una Scuola Magistrale “Normale”
Femminile, per preparare maestre cristiane. Per questo è attaccata
velenosamente dalla stampa laicista. Ma in quella Scuola non
si formano solo “maestre cristiane”, nascono anche nuove e
numerose vocazioni.
La sua Congregazione è approvata dalla Chiesa nel 1882, e due
anni dopo Eugenia, con le prime 18 suore, pronuncia i voti di
perpetua consacrazione al Signore.
Nel 1892, un anno dopo la pubblicazione della Rerum Novarum
di Leone XIII, che invita i cattolici a impegnarsi fortemente per
i lavoratori, Eugenia affronta notevoli sacrifici e umiliazioni per
costruire, in piazza Carignano, la “Casa delle giovani operaie”.
E nel 1898 (a 53 anni) sempre nello spirito della Rerum Novarum,
fonda l’associazione S. Zita per l’assistenza e la promozione delle
ragazze lavoratrici. Nell’anno 1900, logorata dal lavoro instanca-
bile per gli altri, Eugenia può dire: “Eccomi, Signore. Per tuo
amore ho fatto del bene a tutti quelli che ho incontrato”.
Si spegne il 30 dicembre, a 55 anni. Saluta la sue consorelle con
le parole: “Vi lascio tutte nel Cuore di Gesù”.
124
ANNIBALE DI FRANCIA, SANTO
Collocazione storica (1851-1927)
Patronati
Si ricorda come Fondatore dei Rogazionisti e delle Figlie del Divin Zelo
La vita in un frammento “Dove abiti?” (rivolto ad un mendicante), gli diede l’elemosina e
gli disse:”Verrò a trovarti”
Cenni biografici Disse al mendicante: “Verrò a trovarti”
Aveva 26 anni e non era ancora prete quando incontrò casualmente
il mendicante Francesco Zancone. Era sano e ancora giovane, ep-
pure tendeva la mano piagnucolando, ed era ridotto in uno stato
miserabile. Gli chiese: “Dove abiti?”. Si sentì rispondere: “Alle-
case Avignone”. Gli diede l’elemosina e gli disse: “Verrò a tro-
varti”. Annibale Di Francia mantenne la parola. Ai margini della
città trovò le file di casette solo con pianterreno, che il marchese
Antonio Avignone aveva fatto edificare, e affittava per due o
tre soldi al giorno ai mendicanti di Messina. Era uno dei quartieri
più sottosviluppati. Poche centinaia di uomini, donne e bambini vi
vegetavano nel sudiciume e nella promiscuità. Era un dominio
incontrastato delle organizzazioni malavitose e degli sfruttatori
di prostitute. Tutto vi era permesso.
Dopo che fu ordinato prete, padre Annibale chiese al suo vescovo
il permesso di tentare qualcosa di bene tra quelle case. Il vescovo
dubitava che si riuscisse a far qualcosa, ma lo lasciò tentare. Tutti
i giorni padre Annibale (di famiglia benestante e di mezza nobiltà)
si recò tra quella gente. Gli interessavano soprattutto i bambini,
che rischiavano di perdersi in quel “mare di fango”.
Affittò alcune casette, una la trasformò in chiesa, e vi organizzò il
catechismo serale per bambini e bambine. Dopo i bambini cercò
di attirare le loro famiglie, facendole tornare alla confessione e
alla Comunione. Trovò molte difficoltà.
Questo suo tentativo di cominciare una bonifica cristiana del
quartiere Avignone non fu apprezzato, anzi fu ostacolato dai
poveri stessi, e da alcuni che sembravano i capi del quartiere. Uno
gli disse: “Padre, ve ne potete andare. Per convertire tutta questa
razza di gente ci vogliono due Cappuccini, con tanto di barba.
Non è roba vostra”.
In realtà quell’insegnamento del catechismo che faceva lenta-
mente riscoprire agli emarginati la loro “dignità”, non era gradito
ai notabili della città. Essi radicavano il loro potere e il loro van-
taggio economico nello sfruttamento di quell’insieme di poveri
disgraziati senza occupazione, sempre disposti ad eseguire i loro
desideri per campare. Se alla scuola di padre Annibale avessero
scoperto di avere dei diritti, si sarebbero rifiutati di venir trattati
come “merce”. Ecco perché lo ritenevano un inopportuno, un
insensato.
Padre Annibale andò a consultare padre Ludovico da Casoria,
esponendogli ciò che cercava di fare e le difficoltà che incontrava.
Il santo francescano gli disse: “Solo quando avrete accolto un
125
povero, e l’avrete nutrito, pulito e vestito dalla testa ai piedi, e
l’avrete soccorso almeno per un mese, solo allora potrete parlargli
di confessione”.
Il lavoro, primo passo verso la dignità
Padre Annibale capì che doveva cominciare una bonifica “umana”,
prima di passare a quella cristiana. Inizialmente ebbe l’aiuto del
fratello Francesco, diventato anch’egli prete.
In alcune casette prese in affitto allestì dei laboratori. Il lavoro,
intuì don Annibale, doveva essere il primo passo per ridonare
dignità a quei mendicanti e ai loro figli, il primo coefficiente della
moralità.
Le statistiche del tempo ci dicono che in Sicilia, su una popola-
zione di 2.392.414 abitanti, ben 1.112.776 erano senza una profes-
sione. I politici non affrontavano il problema. Molti preti “erano
più amanti dei quieto vivere che del bene dei fedeli” (G. Pettinati).
“Il metodo pedagogico del Di Francia, per cui tutti i suoi assistiti
erano impegnati in un lavoro e mai lasciati nell’ozio e nell’inatti-
vità, ebbe la sua importanza in un periodo in cui nel Sud tutti
erano convinti che la cosiddetta questione meridionale si sarebbe
potuta risolvere solo con i “sussidi” dello Stato, mentre, invece,
era necessaria l’opera degli stessi meridionali per costruire un
avvenire diverso” (P. Borzomati).
Accanto ai primi laboratori, padre Annibale aprì un orfanotrofio
per le bambine e le orfane, e dopo un anno un orfanotrofio ma-
schile per “ributtanti e discoli monelli”, come lui li chiamò.
Se non avesse avuto radici ben fondate nelle fede e nella preghiera,
non avrebbe mai avvertito l’esigenza di donarsi con amore ai dere-
litti. Padre Annibale Di Francia, infatti, non sentiva un amore istin-
tivo verso i derelitti. Parlando degli orfani “ributtanti e discoli”
confidò al canonico Celona: “Essi mi ripugnano immensamente, e
mi furono per tanti anni di una sofferenza continua, indescrivibile”.
Eppure la sua fede e il suo amore per quei poveretti in cui vedeva
l’immagine del Cristo povero e sofferente fu così profondo che
il vescovo di Oria, Antonio Di Tommaso, poté testimoniare: “Si
vede che per lui stare a pregare dinanzi al tabernacolo, o predi-
care, o confessare, o spidocchiare un povero ributtante, o dare da
mangiare o vestire un fanciullo derelitto è la stessa cosa”.
Di Francia ebbe bisogno di collaboratori. Chiese l’aiuto di alcune
congregazioni, ma ebbe esito negativo.
“Pregate quindi il padrone della messe”
Sin dall’adolescenza, prima ancora di leggerlo nel Vangelo, intuì
la necessità e l’urgenza di chiedere al Signore gli operai per la
messe delle anime. Sin da allora si trovò impegnato in prima
persona a far conoscere il divino comando di Gesù: Pregate il
padrone della messe perché mandi gli operai nella sua messe!
Rivolse allora incessantemente, e fece rivolgere dai suoi orfani,
una preghiera continua al Signore perché mandasse buoni operai
alla sua Chiesa.
126
Ripeteva a chiunque incontrava le parole latine del Vangelo:
“Rogate ergo dominum messis, ut mittat operarios in messem
suam”, “La messe è molta ma gli operai sono pochi. Pregate
quindi il padrone della messe affinché mandi operai alla sua
messe”. Quando ebbe la possibilità di aprire il laboratorio di tipo-
grafia nel 1885, la prima preghiera che fece stampare cominciava
con quelle parole: “Rogate ergo dominum messis...”.
Nel 1887 fondò personalmente una congregazione religiosa fem-
minile, le “Figlie del Divino Zelo”,e dieci anni dopo quella maschi-
le, i Rogazionisti (da quella loro costante preghiera “Rogate...”)
del Cuore di Gesù.
Malgrado defezioni tra i suoi figli e le sue figlie, le due congrega-
zioni, sapientemente da lui guidate, si svilupparono e svolsero
un’opera attenta e attuale.
La devozione della gente meridionale, colorita e rumorosa, cospar-
sa di processioni e di luminarie, non piaceva a molti vescovi man-
dati dal nord, che ne diffidavano. Padre Annibale invece, nato a
Messina, la viveva e la “evangelizzava”. Affermava che occorreva
solo interiorizzarla, renderla un mezzo per annunciare il Regno di
Dio.
Il terremoto
Un terrificante terremoto, il 28 dicembre 1908, trasformò Messina
in un tappeto di rovine. Fece 80 mila vittime. Tra esse 13 Figlie
del Divino Zelo.
Padre Annibale vide le sue opere distrutte, ma badò specialmente
ai suoi orfani, che trasferì a Oria (Brindisi) ben accolto del ve-
scovo Di Tommaso.
Nella penisola, pur tra pungenti sofferenze, padre Annibale poté
fondare altre opere. Le sue figlie e i suoi figli si fecero carico di
orfanotrofi maschili e femminili, di tipografie e di altre fondazioni
professionali. Furono, come il loro fondatore, dei “contemplativi
itineranti” al servizio degli emarginati, impegnati ad assicurare ai
giovani un mestiere e un avvenire meno incerto.
Don Annibale morì il 1° giugno 1927.
Il Santo don Orione, quando lo seppe, disse: “È morto il San Vin-
cenzo della Sicilia”.
Lo studioso Pietro Borzomati termina un suo denso studio su
di lui con queste parole: “Annibale Di Francia fu un prete del
Mezzogiorno, che si distinse dalla maggioranza dei suoi confra-
telli per esemplarità di vita e impegno per il bene comune. Egli
avversò ogni alleanza con quel nobilato interessato a strumenta-
lizzare la Chiesa e le sue istituzioni... Dopo la sua morte, grazie
alle due congregazioni da lui fondate e rimaste sempre fedeli
al suo messaggio, i suoi progetti ebbero una felice attuazione
proprio nelle località del mondo fortemente sottosviluppate”.
127
GIUSEPPINA BAKHITA, SANTA
Collocazione storica (1869-1947)
Patronati
Si ricorda come Canossiana. Da schiava a serva dei bambini
La vita in un frammento Vedendo il sole, la luna e le stelle, dicevo tra me: Chi è mai il
Padrone di queste belle cose? E provavo una voglia grande di
vederlo, di conoscerlo e di prestargli omaggio”
Cenni biografici Una bambina rapita e venduta schiava
La “grande storia” di Bakhita cominciò nel centro dell’Africa. La
dettò lei stessa – su comando della sua superiora – nel 1910, cioè
quando aveva circa quarant’anni.
Era la storia di una bambina rapita e venduta come schiava.
“La mia famiglia – raccontò – era formata da mio papà, mia
mamma, tre fratelli e tre sorelle. Io ero gemella di una sorella. Da
quando fui rapita non seppi più nulla di loro”. Non ricordava né il
suo nome, né l’anno in cui era nata. Il trauma del rapimento aveva
cancellato ogni ricordo preciso, come un colpo di straccio da una
lavagna.
Da nomi sparsi che apparivano all’improvviso nei vari racconti
si è potuto ricostruire che nacque nelle vicinanze di un monte
(Agilere), nella regione di Darfur, presso il villaggio di Ogossa.
Apparteneva quindi alla nazione del Sudan, vicino alla frontiera
del Ciad, dove le bande degli schiavisti arabi scendevano regolar-
mente dal nord a far razzia nei villaggi senza difesa.
Piccola schiava
Aveva otto o nove anni, Bakhita, quando una mattina usci con una
compagna a raccogliere piccoli cespi di erba gir-gir, di cui tutti
i ragazzini erano ghiotti. Ed ecco sbucare due uomini stranieri
alti e robusti. Lasciarono andare la ragazza più grande, poi uno
impugnò un grosso coltello, lo puntò alla schiena di Bakhita e
le intimò: “Vai avanti. Se gridi sei morta”. La bambina, tremante
dalla paura, ubbidì. Da quel momento era diventata una piccola
schiava. Bakhita percorse a piedi scalzi qualcosa come 600 chi-
lometri. Un’impresa tremenda per una ragazzina. Fu durante le
prime ore di quella marcia che uno dei due energumeni le do-
mandò: “Come ti chiami? Qual è il tuo nome?”. Paralizzata dalla
paura, la bambina non rispose. Allora il negriero, ridendo, disse:
“Bakhita, la chiameremo Bakhita”, che nella lingua locale signi-
fica “fortunata”.
“Ero stanca morta – racconta –. Avevo i piedi e le gambe sangui-
nanti”.
All’alba arrivarono al villaggio dei due negrieri. Chiusa a chiave
in un ripostiglio della casa, stette lì più di un mese. Una mattina
il padrone la vendette a un mercante di schiavi che passava con
la sua carovana diretto a un lontano mercato. Incatenati c’erano
tre uomini e tre donne, libera da catene una bambina più o meno
dell’età di Bakhita. Fu la sua prima compravendita. Ne avrebbe
128
contate sei. Tra le due fanciulle fu subito amicizia. Si consolavano
a vicenda, e sognavano di fuggire insieme per tornare a casa.
L’occasione si presentò dopo una settimana. Erano in sosta ed era
sera. Mentre le fanciulle dovevano dare da mangiare a un mulo, i
padroni si allontanarono per cenare. Gli altri erano legati, loro no.
“Uno sguardo all’intorno e via di corsa verso l’aperta campagna,
con la sola velocità delle nostre povere gambe – narra Bakhita –.
Tutta la notte fu una continua e trepidante corsa dentro i boschi e
per il deserto. Ansanti e trafelate sentivamo nel buio i ruggiti delle
fiere. Al loro approssimarsi, saltavamo sugli alberi per salvarci”.
L’uomo cattivo che le vendette
Il giorno dopo vedono una casupola, un uomo sbarra loro la
strada. Chiede dove vadano. “A casa”. “E dov’è la vostra casa?”.
Indicano la parte dove tramonta il sole: “Là”. “Venite a mangiare.
Poi vi porterò io a casa”.
A Bakhita sembra di sognare. Che abbiano trovato una persona
buona? S’inganna amaramente. Vengono vendute a un mercante di
schiavi che passava con la sua carovana di neri incatenati a due a
due.La carovana sostò a El Obeid,uno dei grandi mercati di schiavi.
Bakhita e la sua piccola amica furono comprate da un ricco arabo,
che le regalò alle sue figlie. Queste le trattavano bene, ma un loro
fratello era violento e crudele. Un giorno Bakhita, nell’eseguire
un comando, lasciò cadere per terra un vaso che si ruppe. Quel
giovinastro fu preso dalla furia. Impugnò lo scudiscio e la per-
cosse fin quasi ad ammazzarla. Bakhita rimase più di un mese sul
suo povero giaciglio.
Tre mesi dopo fu venduta, perché il figlio del ricco arabo non la
voleva più vedere. La comprò un ricco generale turco, che la mise
al servizio di sua madre e di sua moglie. Erano donne viziate e
crudeli, sempre con la frusta in mano. Bakhita con altre giovani
schiave doveva vestirle, profumarle e obbedire a ogni loro cenno.
Guai a tardare di un secondo: le frustate arrivavano inesorabili.
Era norma che, a una certa età, gli schiavi venissero tatuati se-
condo la fantasia delle padrone. Il giorno fissato arrivò.
Racconta Bakhita: “Viene una donna esperta in questa crudele
arte. Si fa portare un piatto di farina bianca, uno di sale e un
rasoio. Ordina alla prima di noi tre di distendersi per terra e a due
schiave di tenerla ferma. Allora si curva su di lei e comincia a fare
sul corpo di quella disgraziata una sessantina di segni fini. Poi
prende il rasoio e incide un taglio su ogni segno che aveva trac-
ciato. La poverina geme, il sangue stilla da ogni taglio. Finita
questa operazione, prende il sale e con forza stropiccia ogni ferita
perché vi entri e ne tenga i labbri aperti. Che spasimo! Tremava
tutta l’infelice, e io pure. Portata via la prima sul suo giaciglio,
viene il mio turno... Mi pareva di morire a ogni momento, special-
mente quando mi stropicciò col sale... Per più di un mese tutte
e tre fummo condannate a stare là, distese sulla stuoia... Posso
proprio dire che non sono morta per un miracolo del Signore che
mi destinava a migliori cose”.
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Il generale turco, dopo mesi di lontananza, decise di tornare in
patria. Lui, la sua famiglia, i suoi schiavi lasciarono il Kordofan
(di cui El Obeíd era il capoluogo) e a dorso di cammello giunsero
a Khartum, la capitale del Sudan.
Comprata da un console italiano
Lì il generale vendette i suoi schiavi. Bakhita fu comprata dal
console italiano Calisto Legnani. Per due anni Bakhita rimase
tra le domestiche del console.
Il nuovo padrone era assai buono: non ebbi rimproveri, né casti-
ghi, né percosse, sicché non mi pareva vero di godere tanta pace”.
È da notare che negli anni di schiavitù e nei due anni di servizio al
console, Bakhita non sentì mai parlare di Dio, di Gesù Cristo,
della Madonna. Nel 1885 il console fu richiamato in Italia per
gravi affari e Bakhita, pensando che non avrebbe trovato mai più
un padrone così buono, lo pregò di condurla in Italia con lui.
Col console viaggiava anche un suo amico, Augusto Michieli. Al-
l’arrivo a Genova c’erano ad aspettarli alcuni amici del Console e
la signora Maria Turina, moglie del Michieli. Quando la signora
Turina si accorse di Bakhita, si lamentò col marito perché non
aveva portato con sé una “moretta”, e tanto disse che il Console si
trovò quasi costretto a cederle Bakhita.
“Coi miei nuovi padroni ci avviammo a Mirano Veneto, dove per
tre anni fui la bambinaia della loro figliolina”. I nuovi padroni
erano praticamente atei. Alla loro bambina avevano comunque in-
segnato il “Padre Nostro”, l’“Ave Maria” e il “Gloria”. La bimba
insegnò le preghiere anche alla sua mammina nera, per recitarle
poi insieme.
Nessuno delle due capiva il significato di quello che dicevano, ma
Bakhita le ripeteva anche da sola durante il giorno, e vi trovava
una strana dolcezza.
Dopo tre anni, la famiglia Michieli-Turina decise di stabilirsi a
Suakin, in Africa, dove Michieli, ritornatovi quasi subito, aveva
aperto un grande albergo. Più volte andarono e tornarono dal con-
tinente nero per i preparativi.
Nel frattempo ottennero che Bakhita fosse ospitata presso l’Isti-
tuto dei Catecumeni delle Suore Canossiane a Venezia. La signora
Turina, lasciandola, le disse: “Questa è ora la tua casa”.
Il sovrintendente ai beni della famiglia, il signor Illuminato Chec-
chini, profondamente cristiano, regalò alla giovane nera un croci-
fisso d’argento. “Nel darmelo lo baciò con devozione – ricorda
Bakhita –, poi mi spiegò che Gesù, Figlio di Dio, era morto per
noi. Io non sapevo chi fosse, ma spinta da una forza misteriosa lo
strinsi a me. Nascostamente lo guardavo... Venni affidata a suor
Marietta. Ella mi domandò se volevo diventare cristiana. Aven-
dole risposto che lo desideravo, s’illuminò di gioia... Quelle sante
madri mi fecero conoscere quel Dio che fin da bambina sentivo
in cuore. Ricordavo che, vedendo il sole, la luna e le stelle, le bel-
lezze della natura, dicevo tra me: Chi è mai il padrone di queste
belle cose?”.
130
Prima della partenza definitiva per l’Africa, la signora Turina
voleva riprendere Bakhita con sé. Disse con durezza alle suore
che si opponevano: “È mia schiava! Essa mi appartiene, e nes-
suno può costringermi a darle la libertà”. Dovettero far intervenire
il Procuratore del Re. Egli sentenziò: “Siamo in Italia, dove la
schiavitù non esiste ed è proibita. Solo la fanciulla può dirmi cosa
desidera fare in piena libertà”. Bakhita disse: “Io voglio bene alla
signora, ma io non uscirò di qui, perché non voglio perdere il
buon Dio”. E scoppiò a piangere.
Il Procuratore in nome della legge la dichiarò libera. Era il 29 no-
vembre 1889.
Le bimbe la credevano sporca
Il 9 gennaio 1890 Bakhita riceve il battesimo, la prima Comu-
nione e la Cresima.
Ha ormai superato i 20 anni quando domanda dì entrare definiti-
vamente tra le Suore Canossiane. Va e rimane a Schio per 50 anni,
cioè la vita intera, chiamata da tutti “Suor Moretta”.
Nei primi tempi, quando fu incaricata di badare all’ asilo che sor-
geva presso il convento, ci fu per lei qualche momento di mortifi-
cante sofferenza. In quegli anni, quasi nessuno in Italia aveva in-
contrato una persona di pelle nera. I bambini (che “suor Moretta”
adorava) scambiavano il nero delle sue mani e della sua faccia
con lo sporco. Una bambina si spostava se lei accennava a sfio-
rarle la testa con una mano. “Non ho le mani sporche, sai – le di-
ceva sorridendo dolcemente –, solo che il sole africano mi ha fatto
diventare nera”. Un’altra bimba, con l’ingenua crudeltà dei suoi
pochi anni, le disse: “Sei tutta sporca. Domani ti porterò il sapone
per lavarti”. E lei: “È il Signore che mi ha fatto proprio così. Ri-
cordati, toseta, che questo non xe el nero che sporca. Quelo che
sporca a xe il pecato nell’anima, e ti sta atenta a no farlo mai”.
Anche una sua giovane consorella, che istintivamente identificava
i “neri” con i “selvaggi”, incontrandola di sera in un corridoio
buio, rabbrividì. Riconosciutala, subito le chiede scusa: “Mi per-
doni, madre. Ma è così nera!”. Bakhita sorrise: “Ma l’anima è
bianca. E poi al buio non è bianca nemmeno lei!”.
Le volevano bene gli abitanti di Schio, che le affidavano i loro
bambini e la consideravano una santa. Già anziana, possedeva
soltanto la corona e il crocifisso. Aveva un amore tenerissimo per
la Madonna, Immacolata e Addolorata. Recitava in continuazione
il Rosario. Una consorella che l’assisteva le domandò quanti ne
recitasse al giorno, e lei rispose: “Non lo so. Li conta il Padrone,
e anche la Madonna lo aiuta a contarli, perché il rosario è della
Madonna”.
Dio le venne incontro l’8 febbraio 1947. Giovanni Paolo II, di-
chiarandola santa, la proclamò “sorella universale”.
131
FRATEL TEODORETO GARBEROGLIO, VENERABILE
Collocazione storica (1871-1954)
Patronati
Si ricorda come Fondatore dell’“Unione dei Catechisti di Gesù Crocifisso e di
Maria Immacolata” e dei Centri di formazione professionale
“Casa di Carità Arti e Mestieri”
La vita in un frammento “Per salvare le anime e per formare nuove generazioni, si devono
aprire Case di Carità, per far imparare ai giovani Arti e Mestieri.
Lo vuole il Signore”
Cenni biografici Suonava la chitarra e amava le tortore
Alla fine dell’estate del 1887, dal paese di Vinchio partì per Torino
un ragazzotto di 16 anni. Andava a diventare Fratello delle Scuole
Cristiane. Si chiamava Giovanni Garberoglio e aveva quattro
buone qualità: era un suonatore di chitarra, allevava le tortore,
andava a Messa tutti i giorni con la madre, e aveva la passione di
fare il catechismo.
Nel noviziato (tempo di formazione) per dire a tutti che comin-
ciava una vita nuova, cambiò il nome di Giovanni in Teodoreto,
un nome greco molto usato dai primi cristiani che vuol dire
“Dono di Dio”. Fu un anno di raccoglimento e di studio, in cui
Giovanni si radicò nella consacrazione al Signore.
Terminato l’anno di formazione, i Superiori lo richiamarono a
Torino. Vi sarebbe rimasto per tutta la vita.
Lo mandarono insegnante nella casa religiosa di S. Pelagia. Era
la sede centrale delle scuole elementari gratuite dei Fratelli in
Piemonte. Vi viveva un grande numero di giovani Fratelli che
ogni mattina sciamava nelle numerose sedi periferiche, affollate
di ragazzini del popolo. Si chiamavano “Scuole della Regia Opera
della Mendicità Istruita” (ROMI).
Teodoreto di anno in anno si rivela un ottimo maestro e un ottimo
religioso. E i Superiori gli affidano incarichi di sempre maggiore
responsabilità.
Nel 1910, a 39 anni, Fratel Teodoreto è nominato Direttore della
Scuola di S. Pelagia.
Da quel giorno, egli deve fare oggetto delle sue sollecitudini non
più solamente i bambini, ma i tanti Fratelli che vivono nella casa.
Scrive al Superiore: “Il peso impostomi dall’obbedienza non è
piccolo. Ma vedo che non sono solo a portarlo, anzi Gesù lo porta
tutto lui”.
Anni dopo, qualcuno ricordava: “Tutti eravamo contenti nella sua
Comunità. Egli non si imponeva a nessuno, e anzi, il bello sta qui,
che le cose pareva corressero bene da sole”.
In quegli anni lo scontro tra Chiesa e Stato era durissimo. Dominato
dai massoni (come oggi si può leggere nei documenti) il Governo
tentava di eliminare la religione cattolica dall’Italia. Uno dei tanti
modi era eliminare le scuole cristiane. Scrive Fratel Teodoreto:
“Nell’anno scolastico 1911-12 mi trovavo nel grave pericolo di
veder tolta alla nostra scuola la ‘parificazione legale’, e con essa il
132
diritto di far dare in casa gli esami ai mille e cinquanta alunni delle
scuole elementari”.
Il frate cuoco che parla con il Signore
Ed ecco inserirsi nella sua vita un elemento nuovo, che la cam-
bierà notevolmente. Scrive: “Nel novembre 1911, si presentò a
me una terziaria francescana che mi diede un foglio con sopra
una Preghiera-Consacrazione a Gesù Crocifisso. Mi disse che
era stata scritta da un frate che parlava familiarmente con Gesù.
E aggiunse: ‘Se ha bisogno di qualche grazia importante, reciti
quotidianamente questa Consacrazione e vedrà la sua efficacia’.
La misi subito alla prova, e la ‘parificazione legale’, contro ogni
previsione, fu confermata in brevissimo tempo”.
A questo punto, in Teodoreto nacque il desiderio di conoscere
quel frate privilegiato da Dio, e riuscì ad incontrarlo.
Si chiamava frate Leopoldo (il nome civile era Luigi Musso), ed
era il cuoco cinquantenne e umilissimo del convento francescano
di S. Tommaso, in via Pietro Micca, a Torino. Affermava che,
mentre pregava, il Signore aveva la bontà di parlargli, di indi-
cargli le cose che doveva fare. Da alcuni suoi confratelli era
considerato un “visionario”. I Superiori, per evitare ogni accusa di
superstizione, cercavano di tenerlo isolato. Fratel Teodoreto si
incontrò con lui il 30 ottobre 1912, e ne ebbe un’impressione
straordinaria. Tornò diverse volte a incontrarlo.
Sotto la sua ispirazione, diede corso a tre opere, il cui progetto
portava nel cuore da tempo: un istituto di perfezione per laici, la
formazione professionale e religiosa dei lavoratori, l’animazione
di ogni opera nell’amore di Gesù Crocifisso.
Il 23 aprile 1913 raduna il primo nucleo di allievi delle scuole, in-
citandoli ad una vita profondamente cristiana, anche dopo gli anni
di scuola, e a diffondere nel mondo l’Adorazione a Gesù Croci-
fisso per nostro amore.
Il gruppo si ingrandisce quasi prodigiosamente e, il 18 gennaio
1915 (mentre è in corso la terribile prima guerra mondiale), Papa
Benedetto XV manda a Fratel Teodoreto una sua foto con queste
parole: “Preghiamo il Signore di colmare di grazie il direttore e gli
ascritti alla Pia Unione del SS.mo Crocifisso, perché i sacerdoti
con la voce e con l’esempio, e i secolari con la santità della vita
debbono sempre predicare, come esorta san Paolo, Gesù Cristo
crocifisso”.
Nel 1917 l’Unione è presente in 15 parrocchie di Torino. Alcuni
elementi tra i migliori vengono mandati da Fratel Teodoreto nei
paesi della cintura torinese a fare il catechismo ai più piccoli, e
l’associazione assume la forma definitiva dell’”Unione Catechisti
di Gesù Crocifisso e di Maria Immacolata”.
Aiutata dai Fratelli delle Scuole Cristiane, questa Unione di laici si
diffonde rapidamente con sedi a Biella, Vercelli, Parma, Piacenza,
Milano, Massa, Roma, Genova, Napoli, Catania. Attualmente, oltre
che a Torino, annovera sedi anche in Africa e nell’America del
Sud. Fratel Teodoreto fa in maniera che fin dall’inizio i catechisti
133
siano diplomati dall’Ufficio Catechistico Diocesano, si mettano a
disposizione dei parroci per i catechismi domenicali e quaresimali,
e soprattutto siano i maestri amorosi e competenti di catechismo
nelle scuole operaie festive, serali e diurne.
Nel 1948 l’Unione Catechisti viene approvata come “Istituto
Secolare”, uno dei primi ad essere sorti. Esso si compone di
“Catechisti Consacrati” che seguono i consigli evangelici con i
voti di povertà, castità e obbedienza, e attendono, nelle ore libere
dalle loro professioni, alle opere di apostolato; e di “Catechisti
Associati” che, da sposati o orientati al matrimonio, vivono lo
spirito dell’Istituto. Questo spirito è “essere santi, e annunciare il
Signore con la presenza e la parola in tutti i settori: dalla famiglia
al lavoro, dall’impegno sociale a quello politico, dall’insegna-
mento scolastico e professionale al soccorso dei poveri, dall’inse-
gnamento catechistico all’orientamento vocazionale”.
Fratel Teodoreto ha sviluppato l’intuizione del suo fondatore,
S. G.B. de la Salle, della consacrazione mediante la missione del-
l’insegnamento, estendendola a quella della consacrazione ope-
rando nel mondo.
Casa di Carità
L’opera che ha segnato il vertice dell’attività cristiana di Fratel
Teodoreto è la Casa di Carità Arti e Mestieri. Anche questa fu
ispirata dall’umilissimo Fra’ Leopoldo.
Il 24 novembre 1919, appena terminata la terribile prima guerra
mondiale che aveva portato violenza e scristianizzazione in tutta
l’Europa, egli scriveva semplicemente, attribuendo questa dichia-
razione a Gesù Crocifisso: “Per salvare le anime, per formare
nuove generazioni, si devono aprire Case di Carità, per far impa-
rare ai giovani Arti e Mestieri. Lo vuole il Signore”.
E Teodoreto ne comincia la realizzazione.
Nel 1920 i Catechisti, insieme ai Fratelli di S. Pelagia, iniziano
corsi serali di tipo professionale.
Nel 1925 i Catechisti aprono un’altra scuola professionale per gli
operai giovani e grandi, completamente gratuita. Funziona nelle
domeniche, perché negli altri giorni gli operai lavorano 10 ore al
giorno. I primi insegnanti sono Catechisti, professori universitari,
professionisti, che prestano la loro opera domenicale gratuita-
mente.
“In pochi anni – ricordava Fratel Teodoreto – quella Scuola Fe-
stiva si sviluppò tanto da obbligare i Catechisti a cercare un locale
più ampio per contenere tutti i giovani che insistevano per esservi
iscritti”.
In pochi anni gli alunni-operai salirono da 370 a 800. Era il 1939,
e si dovette costruire una casa ancora più grande, con tante spese
e tanta fiducia nella Provvidenza. Oltreché festiva, la scuola
divenne prima serale e poi diurna.
Attualmente in Piemonte comprende 13 sedi, oltre la partecipa-
zione in due Centri professionali, tra cui il CFP - Casa di Carità
che fa formazione ai carcerati in 13 case circondariali (una mis-
134
sione che risale al de La Salle). E si è trapiantata in Veneto, Sar-
degna, Perù.
Questo spirito missionario anima ancor oggi l’opera: attraverso la
formazione professionale cerca di infondere nei giovani i valori
cristiani, che li guideranno nella professione e nella vita.
La sua proposta formativa, basata sul lavoro come forma di cul-
tura, è l’annuncio evangelico insegnando il lavoro.
Il 13 maggio 1954 Fratel Teodoreto se ne andò silenziosamente
con Dio.
Il 3 marzo 1990 fu dichiarato Venerabile.
Le sue opere continuano ad essere il buon lievito evangelico che
cerca di fermentare cristianamente il mondo, in particolare quello
del lavoro, animandolo nell’amore al Crocifisso e all’Immacolata.
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LUIGI ORIONE, SANTO
Collocazione storica (1872-1940)
Patronati
Si ricorda come Fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza
La vita in un frammento “La vita è un combattimento il cui premio è il cielo”
Cenni biografici Sotto l’ombrellone, a selciare le strade
Nell’ottobre del 1886 entrò nell’Oratorio di don Bosco a Valdocco
in Torino, un ragazzino di Pontecurone (Alessandria), figlio di un
povero selciatore di strade. Si chiamava Luigi Orione.
Quando aveva solo dieci anni, per aiutare la famiglia poverissima,
aveva lasciato la scuola e si era andato a inginocchiare vicino al
papà, nella sabbia umida, a mettere l’una accanto all’altra le pietre
che selciavano le strade delle città. Bisognava ordinarle, e spin-
gerle nel terreno con piccoli colpi di un martello di legno. Era un
lavoro pericoloso per tutti, specialmente per i ragazzi, perché
l’umidità della sabbia dai ginocchi saliva in tutto il corpo, e faceva
ammalare e morire di artrite. Eppure bisognava farlo per tirare
avanti la famiglia.
Anche quando pioveva, e attraverso le pietre ruscellava l’acqua,
rannicchiato sotto un grande ombrellone Luigi Orione metteva le
pietre nel terreno e le picchiava delicatamente col martello di
legno.
Un giorno, mentre lavorava così sotto l’ombrello, sì fermò vicino
a lui un mendicante smunto e tremante. Mentre l’acqua gli rigava
la faccia, tese la mano e disse: “La carità, per amor di Dio”. Luigi,
10 anni, fu come ipnotizzato da quella miseria. Si alzò, andò a
prendere il panino che aveva ravvolto nella giacca perché non si
bagnasse, e lo diede a quel poveretto. Poi gli tenne l’ombrello
aperto sulla testa. E siccome, mangiando, il povero aveva ripreso
ad andare per la sua strada, Luigi si mise a seguirlo sempre
tenendo l’ombrello aperto. Aveva fatto duecento metri, quando
il padre gli gridò: “Luigi! Ma dove vai?”. Il ragazzino fu come
ridestato da quel richiamo, e chiedendo scusa al mendicante tornò
indietro. “Ma dove stavi andando?” gli domandò il padre irritato.
Luigi non rispose. Non sapeva. Ma dietro quei sotto-poveri sareb-
be andato per tutta la vita.
Siccome era molto buono, il parroco l’aveva fatto accettare dai
francescani di Voghera. Ma si era ammalato e aveva dovuto tor-
nare a casa. Allora il parroco si era rivolto a Don Bosco, e Luigi
era stato accettato nella scuola di Valdocco, a Torino.
Il ragazzino e il vecchio prete
Quando Luigi arrivò, don Bosco era vecchio e stava vivendo gli
ultimi bagliori della sua vita. Consumato dai viaggi e dai debiti,
scendeva raramente tra i suoi ragazzi. Camminando adagio scher-
zava, domandava, rispondeva, s’interessava di tutti. Aveva un sor-
riso e un amore che nessuno avrebbe mai dimenticato. Luigi
rimase affascinato, incantato da don Bosco. Appena lo vedeva da
136
lontano, lo salutava gridando, agitando il suo berretto, e gli cor-
reva vicino.
Tra il vecchio settantunenne e i1 ragazzino di Pontecurone era
scattata una scintilla che avrebbe bruciato nel cuore di Luigi per
tutta la vita.
Aveva un grande desiderio, Luigi: confessarsi da don Bosco, e
decise di prepararsi seriamente. Prese uno dei cartelli appesi vicino
ai confessionali (che allora esistevano, ed elencavano tutti i peccati
possibili per aiutare la gente a fare un buon esame di coscienza).
Per essere sicuro di confessarsi bene, ricopiò tutti i peccati, si ac-
cusò di tutto. Riempì tre quaderni di peccati. A una sola domanda
rispose di no: “Hai ammazzato?”. “No – scrisse – questo no”.
Coi quaderni ben stretti in tasca andò da don Bosco, attese il suo
turno, e s’inginocchiò. Don Bosco lo guardò, gli sorrise con
amore e con un pizzico di allegria: “Bravo, Luigi. Sono contento
che sei venuto. E adesso dammi ì tuoi peccati”. Luigi cadde dalle
nuvole. Come sapeva don Bosco che...
Ad ogni modo tirò fuori il primo quaderno. Don Bosco lo prese,
lo stracciò e lo gettò nel cestino. Poi sempre sorridendo: “E
adesso dammi anche gli altri”. Luigi tirò fuori anche gli altri due.
Fecero la stessa fine.
A questo punto don Bosco gli sorrise con un affetto che Luigi non
avrebbe mai dimenticato, e disse: “La tua confessione è fatta. Non
pensare mai più a quello che hai scritto. E ricordati che noi due
saremo sempre amici. Sempre amici”.
Quando, dopo una notte passata a pregare e a piangere sulla
tomba di don Bosco, capì che lui lo voleva a capo di una Congre-
gazione per i ragazzi sotto-poveri, gli obbedì.
Entrò in seminario, ma nel 1892 suo padre morì. La sua povera
mamma non aveva certo i soldi per pagare la retta del seminario.
Luigi si diede da fare e ottenne il posto di aiuto-sacrestano nel
duomo di Tortona. Gli danno un piccolo mensile (22 lire) e gli
permettono di dormire in una stanzetta ricavata sopra la volta del
duomo.
Un giorno, in sacrestia, il chierico Orione incontra un ragazzo,
Mario Ivaldi, che piange. Disturbava durante l’ora di catechismo,
e il viceparroco gli ha dato un ceffone e l’ha cacciato fuori. Luigi
lo calma, lo fa salire nella stanzetta sul voltone del duomo, e
riprende il catechismo interrotto. Poi gli mette in mano una man-
ciata di fichi secchi e di carrube (le caramelle dei poveri), e gli dà
l’appuntamento per il giorno dopo: “Vedrai che getteremo una
buona semente per te e per me”.
Il giorno dopo Mario ritorna, ma non è più solo. Porta amici.
Orione mette a disposizione ciò che ha: la sua stanzuccia, alcuni
attrezzi di ginnastica, costruisce persino un’altalena. Dieci, venti,
trenta ragazzi. Un putiferio indiavolato tra i voltoni del duomo.
Grida, corse, capriole. Il baccano fa saltare i nervi a certi canonici
che vogliono star tranquilli. Cominciano voci cattive, velenose:
“Quel chierico che gira per Tortona con bande di ragazzi, sarà a
posto nella testa?”.
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Orione viene sfrattato coi suoi ragazzi. Si riuniscono in una piaz-
zetta, dove giocano, cantano, pregano. Il Vescovo, a cui piace il
chiasso vivo dei ragazzi, non li sente più. Chiede notizie. È infor-
mato dello sfratto e chiama il suo chierico: “Luigi, tu hai bisogno
di un posto per i tuoi ragazzi, e io ho un giardino che non serve a
niente. Te lo regalo. Fanne un oratorio”.
Orione balla dalla gioia: ha il luogo e il permesso di fare il primo
oratorio della diocesi di Tortona. Se ci fosse qui Don Bosco a
vederlo...
“Ci vogliono soldi, molti soldi”
Nel 1893 Luigi Orione ha 23 anni, e gliene mancano ancora due
per diventare prete. Ma tra i suoi ragazzi c’è già qualcuno che gli
dice: “Mi piacerebbe diventare come te, diventare chierico, prete
per i ragazzi poveri”.
Diventare come lui vuol dire entrare in seminario, pagare una
retta mensile: cosa che nessuna famiglia di quei ragazzi può per-
mettersi. Orione pensa: “Perché non aprire una casa, una scuola
per i ragazzi poveri che vogliono diventare preti?”.
Ne parla col Vescovo che gli sorride: “Ma lo sai cosa ci vuole per
aprire e mandare avanti una scuola come la pensi tu? Ci vogliono
soldi, molti soldi. Tu non ce li hai, io non ce li ho. Quindi...”.
Orione è testardo: “Lei mi dia soltanto l’approvazione e la benedi-
zione. Al resto penserà la Provvidenza”. Il Vescovo gli dà sempre
l’una e l’altra. E sorride: “Vediamo cosa combinerai”.
Orione ne combina tante di cose. Dopo due ore ha affittato una
casa per la prima scuola, ha pagato il fitto per un anno, ha accet-
tato i primi due ragazzi.
E con un crescendo incredibile durante la sua vita fonderà due-
cento case: centri di formazione professionale, scuole agricole,
scuole apostoliche, orfanotrofi, case di riposo, missioni, eremi-
taggi... “Evangelizzare i poveri, i piccoli e gli afflitti da ogni male
e dolore” sarà la strada sua e dei suoi.
Nello stesso giorno in cui dice la sua prima Messa (13 aprile
1895) consegna l’abito da chierico ad alcuni dei suoi ragazzi.
Nasce così la sua Congregazione: la Piccola Opera della Divina
Provvidenza.
Egli sentiva “l’importanza vitale del rapporto della Chiesa con il
mondo operaio. La sua congregazione si radicò nei sobborghi
più poveri ai margini delle grandi città industriali, con l’impegno
di vivere piccola e povera tra i piccoli e i poveri, sperimentando
la fraternità con gli operai e i lavoratori più umili” (A. D’Angelo).
Don Orione se ne andò, quasi in punta di piedi, nella sera del 12
marzo 1940.
L’infermiere che lo assisteva lo aveva appena sentito mormorare:
“Gesù, Gesù”.
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DON GIOVANNI CALABRIA, SANTO
Collocazione storica (1873-1954)
Patronati
Si ricorda come Fondatore dei Poveri Servi e delle Povere Serve della Divina
Provvidenza
La vita in un frammento “Non ci si fa religiosi per avere un posto, ma per essere sempre
all’ultimo posto”
Cenni biografici Sfrattati dalla soffitta
Nacque a Verona in una povera soffitta, dove alloggiavano papà
Luigi ciabattino, mamma Angela lavandaia e due fratellini. So-
pravvivevano perché aiutati dalla Conferenza di San Vincenzo.
Anche da quella soffitta la famiglia Calabria fu sfrattata, e il
parroco don Scapini non ci pensò due volte, e li ospitò in due
locali che ricavò dal “matroneo” della sua chiesa.
Mentre Giovanni frequentava le elementari, suo papà morì, e
dovette interrompere la scuola per dare una mano alla famiglia.
Ma don Scapini, che vedeva ogni giorno la sua bontà e il suo im-
pegno, lo preparò per gli esami di ammissione al liceo vescovile.
Vedeva in lui una buona vocazione sacerdotale. Il liceo dovette
interromperlo per il servizio militare.
Quando tornò ebbe la grazia di incontrare in confessionale il
carmelitano padre Natale di Gesù, che per quarant’anni sarebbe
stato la sua guida spirituale forte e dolce.
Aveva 24 anni quando, in una fredda notte del novembre 1897,
trovò accovacciato davanti alla sua porta un bambino fuggito da
un campo di zingari. Lo fece entrare nella sua casa. Subito dopo
diede ospitalità a un altro ragazzo, orfano di 13 anni, che non
sapeva dove sfuggire al freddo. Li fece ospitare in un istituto della
città, e quella fu la prima volta che pensò di dedicare la vita ai
ragazzi abbandonati.
Nei quattro anni di studi teologici che lo prepararono a diventare
prete, trovò molte difficoltà. Era ammirato da tutti i suoi profes-
sori per la bontà e lo spirito di preghiera, ma agli esami aveva voti
scarsi. Davanti alla perplessità dei professori, il Vescovo, Cardi-
nale Bacilieri, disse: “Abbiamo fatto tanti preti dotti. Proviamo a
farne uno santo”.
Nel 1901, mandato vicario nella parrocchia di S. Stefano, co-
minciò a raccogliere gli spazzacamini che scendevano in città
dalle campagne vicine per guadagnarsi il pane con quel duro
mestiere. Nella piccola casa che abitava con la mamma in Vicolo
Fontanelle ospitò i primi fanciulli poveri.
Sei anni dopo, trasferito come rettore alla chiesa di S. Benedetto
al Monte nel centro di Verona, si occupò dei soldati di leva, degli
ammalati nell’ospedale militare, e specialmente gettò le basi del-
l’Opera con cui voleva prendersi cura in modo stabile e completo
dei ragazzi abbandonati. La chiamò “Casa Buoni Fanciulli”.
Il numero dei ragazzi in necessità crebbe in poco tempo, e la “Casa”
dovette essere trasferita nel 1908 a S. Zeno in Monte. Si unirono a
139
lui dei laici desiderosi di condividere la sua esperienza di povertà e
assistenza ai ragazzi abbandonati. Tra di loro si chiamavano Fratelli.
Sorse così il primo nucleo della Congregazione che porta il nome
di “Poveri Servi della Divina Provvidenza”. Don Calabria non si
considerò mai il fondatore, ma il “custode”.
La formazione dei giovani era da lui curata quotidianamente con
il metodo familiare di Don Bosco, chiamato “sistema preventivo”,
in cui lui credeva a occhi chiusi.
“Per essere all’ultimo posto”
Nel 1910 diede inizio, con lo stesso spirito, al ramo femminile
della sua Congregazione, le “Povere Serve della Divina Provvi-
denza”. La formazione che egli diede a queste “sorelle” (come le
chiamava) si può sintetizzare in queste sue parole: “Dobbiamo
ricordarci che ci si fa religiosi non per il nostro comodo, ma per
servire Gesù nella persona dei poveri, e per obbedire a Gesù nella
persona dei superiori. Non ci si fa religiosi per avere un posto, ma
per essere sempre all’ultimo posto”.
L’anno dopo (aveva 38 anni), il Vescovo lo dispensò da ogni altro
ministero nella diocesi: poteva dedicarsi totalmente alle sue fon-
dazioni.
Egli ebbe un momento di smarrimento. Si sentiva “uno strumento
povero e inetto nelle mani di Dio”. Non si sentiva capace di por-
tare avanti quelle opere. Un altro avrebbe fatto molto meglio di
lui. Ma padre Natale, con cui si consigliò, gli disse con decisione
che quella era la volontà di Dio. Era quindi inutile ripensarci.
Da quel momento fino alla morte, don Calabria “ubbidì alla
volontà di Dio”.
Accanto alle scuole fece nascere laboratori professionali, e le sue
opere si moltiplicarono: Vicenza, Este, Santuario della Madonna
di Campagna, Verona colle Nazareth (dove si preparavano i futuri
sacerdoti). Nuove case si aprirono ancora a Roma, Verona, Milano,
Ferrara.
Egli considerava come “sua ricchezza” e come suo “fondo di
cassa” i ragazzi abbandonati che venivano raccolti nei suoi isti-
tuti. Riponeva la sua fiducia solo in Dio.
Teneva i collegamenti con i suoi religiosi non solo girando per
le varie case, ma spedendo frequenti lettere circolari. In esse si
coglieva e si coglie ancor oggi il suo spirito. Si legge: “L’Opera
sarà tanto più cara a Dio quanto più sarà umile e nascosta”. “Uno
dei più grandi pericoli per noi saranno i troppi soldi, i troppi
mezzi. Gesù non ha detto ‘Senza denari e senza mezzi non potete
far nulla’. ma ‘Senza di me non potete far nulla”. “Sarete ricchi se
sarete poveri, grandi se sarete piccoli”.
Don Calabria, che nella giovinezza aveva sentito tanto il bisogno
di essere consigliato, negli anni dopo la seconda guerra mondiale
divenne una delle persone più consultate. Anche Vescovi, Cardi-
nali, Superiori religiosi chiedevano il suo consiglio. Un suo libro,
Apostolica vivendi forma, divenne uno dei volumi più letti dalle
persone religiose.
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L’ultima malattia lo fece soffrire moltissimo. Le sue ultime parole
furono: “Sento il Signore che mi viene incontro”. Era il 4 dicem-
bre 1954.
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DON ALBERIONE, BEATO
Collocazione storica (1884-1971)
Patronati
Si ricorda come Fondatore della Famiglia Paolina
La vita in un frammento “Usare i mezzi più celeri e più efficaci per la diffusione della
parola di Dio”
Cenni biografici 80 alunni in prima elementare
Nell’aula di prima elementare di Cherasco c’era una folla di 80
alunni, ma la maestra Rosa Cardone vi regnava sorridente e tran-
quilla come una regina.
Un giorno domandò al suo piccolo esercito: “C’è qualcuno che ha
pensato a cosa farà da grande?”. I piccolini in grembiule nero la
guardarono sbalorditi: “da grande” era una stagione così lontana...
Ma un affarino di sette anni si alzò e dichiarò con tranquilla sicu-
rezza: “Io mi farò prete, signora maestra”.
Si chiamava Giacomino Alberione. Non era, il suo, un entusiasmo
improvviso e passeggero. Era una decisione, che non ebbe mai né
crisi né tentennamenti.
29 giugno 1907. Prima Messa di don Giacomo. Sull’immaginetta-
ricordo ha scritto le parole che Dio rivolse ad Abramo: “Esci dal
tuo paese, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre”. Michele e
Teresa, i genitori contadini, le leggono con un po’ di apprensione.
Che il loro figlio voglia partire missionario? Don Giacomo sorride
nel rassicurarli. Vuol essere missionario, certo, ma senza salire su
una nave o su un aereo. Missionario qui.
23 anni. Mons. Giuseppe Re, vescovo di Alba, affida al giovanis-
simo prete la direzione spirituale del seminario e il settimanale
della diocesi, la “Gazzetta di Alba”. Don Giacomo per la prima
volta si trova tra le mani un giornale. Ne esamina a fondo tutti i
meccanismi, poi (è la sua prima decisione) stabilisce di miglio-
rarne la stampa e di lanciarlo con più decisione. Contrae un debito
di 70 lire. Il lavoro della tipografia pesa sempre di più sul mo-
desto bilancio del giornale. Don Alberione pensa di reclutare tra i
giovani poveri della città e della diocesi dei giovani che credano
nella diffusione della stampa cristiana come in una missione, a cui
si può dedicare la vita come a un ideale.
Il 20 agosto 1914 entrano nella casa di don Alberione due ragazzi,
che cominciano a lavorare accanto ai tipografi come apprendisti.
In pochi anni i giovani crescono di numero, diventano parecchie
decine. Don Alberione costruisce una casa per loro.
Durante i gelidi inverni di Alba, i ragazzi calzano pesanti zocco-
loni che rimbombano sui selciati e sui marciapiedi. Gli albesi sen-
tendoli passare li chiamano “L’Ordine degli Zoccolanti”. È il
primo nome che si appiccica addosso alla sua opera. Lui sorride,
lascia dire e tira avanti.
1920. Alba assiste impressionata al boom di don Alberione. Quel
Pretino che parla poco, sorride sempre e sa fare sul serio, ha
acquistato un ampio prato alla periferia della città. Vi costruisce
142
una casa capace di ospitare 100 ragazzi, con aule scolastiche,
ampi cortili per correre e giocare, saloni per i pasti e per gli studi,
una chiesa grandiosa. Ad un certo punto le fornaci dei dintorni
non hanno più mattoni da vendere al prete e lui si costruisce una
fornace tutta sua. In un locale vastissimo arrivano le macchine
tipografiche comprate a Sesto San Giovanni.
Un romanziere in casa
Dalla nuova tipografia non esce più soltanto la “Gazzetta d’Alba”,
ma Vangeli, catechismi, libri di vita cristiana e i celebri romanzi
di Ugo Mioni, il quale è andato addirittura a stabilirsi ad Alba per
sfornare a getto continuo le sue pagine avventurose.
È in questi anni che don Alberione dà un nome alla sua famiglia.
La chiama “Pia Società San Paolo” dal nome dell’apostolo che
divulgò il Messaggio cristiano in tutto l’Occidente con grande
energia e lavoro instancabile.
Ma ora che la tipografia produce con ritmo crescente, don Albe-
rione si trova davanti al grande problema che ogni industria tipo-
grafica deve affrontare e risolvere, se non vuoi morire. Non basta
stampare. Occorre vendere, divulgare. I libri e le riviste non de-
vono finire in magazzino: devono essere portate a contatto col
pubblico, entrare nelle case, nelle famiglie.
Don Alberione risolve il problema con un’intuizione genialissima,
che però fa storcere il naso a un sacco di gente. Fonda una fami-
glia di religiose e le manda di casa in casa con la borsa piena
di libri e di giornali. Nascono così le “Figlie di San Paolo”. Un
lavoro duro, faticoso, a volte umiliante, che occorre reggere con
fede e preghiera.
Molte persone per bene si scandalizzano a vedere le suore in un
simile mestiere. Mandano lettere accorate e preoccupate al pretino
di Alba. Lui, al solito, lascia dire e tira avanti. Dice alle suore e
ai suoi religiosi: “Fate, fate, fate. Non abbiate paura. Niente è
impossibile se la vostra disponibilità è totale. Dovete imparare
dalla gente comune. La gente comune deve lavorare per vivere,
deve faticare, deve guadagnarsi il pane”.
Ai suoi preti che scendono in tipografia dice: “Non crediate che
il vostro lavoro non sia sacerdotale. Le tipografie sono le nuove
chiese, le macchine da stampa i nuovi pulpiti”.
Nel 1931 lanciò la rivista che avrebbe riscosso il maggior suc-
cesso, Famiglia Cristiana. Dopo qualche alto e basso, essa è oggi
la più diffusa rivista cristiana d’Italia. Ha superato il milione
di lettori.
Non tutte le iniziative del pretino piemontese furono successi.
Dottrina e fatti, una rivista di pensiero cui don Alberione teneva
molto, morì dopo pochi anni. Nemmeno la produzione di film
propri, in cui i Paolini si gettarono coraggiosamente, ebbe suc-
cesso. Don Alberione dovette riconoscere di essersi avventurato
in quel campo tremendamente minato con eccessiva ingenuità,
totalmente privo di quella raffinata malizia commerciale che è
necessaria per sfondare. Ma non si arrese. Si limitò ad acquistare
143
e a distribuire film prodotti da altri, e considerati cristianamente
costruttivi, alle sale parrocchiali. Non tutto andò liscio, ma fu un
servizio prezioso.
“È bene che i debiti ci siano sempre”
Per il denaro, don Alberione aveva idee molto concrete. Quando
gli parlavano della grandiosità dei suoi impianti editoriali, citava
un documento conciliare “Inter Mirifica”: “Sarebbe vergognoso
per i figli della Chiesa tollerare che la parola della salvezza resti
inceppata e impedita dalle difficoltà tecniche e dalle spese, certo
ingentissime, che questi strumenti richiedono”. E aggiungeva: “Il
denaro dobbiamo usarlo, ma non lasciarci mai dominare da lui.
Occorre stare attenti all’economia, usare tutti i mezzi per impedire
la passività. D’altra parte è bene che i debiti ci siano sempre. Non
dobbiamo accumulare, ma reinvestire sempre in opere di aposto-
lato”.
Don Alberione volle opere grandi, esplosive, ma lui si nascose.
Pochissimi lo conoscevano. I giornali parlarono raramente di lui.
“Lo vedo ancora nell’Aula del Concilio Vaticano Il – racconta
padre Baragli – nella tribuna dei Padri Generali. Arrivare quando
la tribuna era ancora semideserta, tirar fuori dalla borsa nera la
cotta, indossarla e sedersi al suo posto, all’angolo destro della
tribuna. Pregare raccolto durante la Messa, ascoltare in silenzio le
discussioni, di tanto in tanto prendere qualche nota. A seduta inol-
trata, spesso dei vescovi, per lo più del Terzo Mondo, salivano
dalla navata in tribuna a confabulare con l’uno o con l’altro dei
capi delle famiglie religiose. Sollecitavano, penso, aiuti per i loro
ospedali, orfanotrofi, scuole... Ma non cercavano né notavano, nel
suo angolino, don Alberione. Nella grande piazza, i fotografi spa-
ravano i loro flash sul flusso policromo dei vescovi, e lasciavano
passare inosservato il vecchio prete, un po’ curvo, che li seguiva
appartato”.
Nelle “Regole” che don Alberione scrisse per i Paolini si legge:
“Usare i mezzi più celeri e più efficaci per la diffusione della
parola di Dio”.
Questi mezzi, per il pretino piemontese, erano tutti gli audiovisivi,
anche quelli che venivano ancora guardati con sospetto dagli altri
preti. Stampa, cinema, televisione, radio, dischi.
Fu il primo a mettere il telefono ad Alba. Fu tra i primi a com-
prare una rotocalco. Appena la TV arrivò nelle famiglie italiane,
impose l’acquisto di 20 televisori per la sua casa, e si stupì che si
tardasse ad eseguire il suo ordine: “Dobbiamo conoscere in fretta
questo nuovo mezzo per usarlo alla diffusione del Regno di Dio”.
Ma chi credesse che per questo ideale don Alberione spingesse i
suoi figli spirituali a un attivismo sfrenato, sbaglierebbe di grosso.
“Dobbiamo fondare il nostro lavoro sulla preghiera e sulla morti-
ficazione”, diceva. E ripeteva le raccomandazioni del documento
pontificio sui mezzi di comunicazione sociale: “Il sacerdote deve
conoscere tutti i problemi che il cinema, la radio e la televisione
propongono alle anime dei fedeli, ma quando ne usi per sé, il suo
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esempio di prudenza, di temperanza e di senso di responsabilità
riesca di edificazione a tutti i fedeli”.
Egli voleva attuare per i suoi figli il difficile equilibrio che Cristo
domandò al Padre per i suoi Apostoli: “Non ti chiedo di toglierli
dal mondo, ma che restino nel mondo senza essere del mondo”.
Il Papa entrò nel piccolo studio
Da parte sua, don Alberione pregava con la tenacia e l’instancabi-
lità dei santi.
Si alzava abitualmente alle 4,30; e quando gli altri iniziavano la
loro giornata, aveva già dedicato alla preghiera alcune ore.
Volle che un gruppo di suore, le “Pie Discepole del Divin Maestro”,
si avvicendassero giorno e notte davanti all’Eucaristia, a pregare
per la Famiglia Paolina e specialmente per i sacerdoti.
Negli ultimi quattro anni della sua vita, un accentuato declino
fisico lo sigillò ancor più nel suo silenzio. La corona del rosario
passava e ripassava instancabilmente tra le sue dita, mentre l’in-
debolimento della vista, dell’udito, della stessa parola, lo accom-
pagnavano lentamente verso l’ultimo giorno.
In quei lunghi giorni di silenzio scrisse il suo testamento spiri-
tuale, semplice e limpido come la sua vita. Dice tra il resto: “Cari
Membri della Famiglia Paolina, ci separiamo temporaneamente,
in fiducia di riunirci eternamente tutti. Ringrazio tutti e tutte della
pazienza usata con me; chiedo perdono di quanto non fatto o fatto
male. Sono tuttavia sicuro che tutto l’indirizzo dato all’Opera è
sostanzialmente conforme a Dio e alla Chiesa”.
Paolo VI andò a visitarlo negli ultimi tempi, e si meravigliò della
povertà che riempiva il piccolo studio, dove don Alberione si
stava preparando all’incontro con Dio.
Si spense il 26 novembre 1971, all’improvviso, senza disturbare
nessuno, senza interrompere nemmeno per un giorno l’attività
delle grandi opere da lui fondate, che ormai marciavano senza
di lui. Queste grandi opere testimoniano per lui, davanti al mondo
e davanti a Dio.
Il piccolo prete piemontese fu sepolto come il buon chicco di
frumento. Ma i frutti, attorno a lui, erano già maturati per il
Regno di Dio.
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MASSIMILIANO KOLBE, SANTO
Collocazione storica (1864-1941)
Patronati
Si ricorda come Francescano conventuale, Fondatore di una città di lavoratori
La vita in un frammento “Chiedo di prendere il posto di quel prigioniero”
Cenni biografici Due corone di fiori per un ragazzo
“Una sera era già l’ora di cena, e il mio bambino non tornava.
Papà a tavola, era buio. Avevamo quasi finito, quando entrò Rai-
mondo, stracciato e sporco. Papà esplose: È questa l’ora di tornare
a casa? Conciato come un figlio di nessuno! Bella consolazione
dai a tua madre!. Raimondo ascoltò a capo chino, poi sgattaiolò
nella stanza da letto. Il giorno dopo, mentre me lo vedevo accanto
mogio mogio, mi lasciai sfuggire: Bambino mio, chissà cosa
faremo di te!. Raimondo scoppiò a piangere e scappò nella stanza.
Lo intravidi poco dopo inginocchiato davanti all’altarino della
Madonna. Per qualche giorno rimase così, pensieroso. Allora gli
domandai decisa: Che cosa capita? Hai ancora il broncio per la
sgridata di papà?. Fece di no con la testa. Poi disse esitante:
Mamma, quando mi hai detto: “Che cosa faremo di te?”, io sono
andato dalla Madonna, e le ho detto quasi le stesse parole: “Cosa
sarà di me?”. E la Madonna ha aperto le mani e mi ha mostrato
due corone: una di fiori bianchi e una di fiori rossi. Mi ha sorriso
e mi ha chiesto quale volevo. Non sapevo quale scegliere, e allora
le ho prese tutte e due. Poi ho di nuovo visto la Madonna solo
come si vede nel quadro. Non invento nemmeno una parola, mam-
ma”. Non ho mai raccontato a nessuno, nemmeno a suo padre,
queste cose. Ma ora che so com’è morto, credo che occorra rac-
contarle a voi, suoi confratelli”.
Questa lettera la scrisse la mamma di padre Massimiliano Kolbe,
quando apprese che suo figlio era stato martirizzato nel campo
di eliminazione di Auschwitz.
Giulio Kolbe e Maria Dobrowska avevano messo su famiglia nel
villaggio di Zdunska-Wola. Divisero uno stanzone in due con una
tenda: da una parte due telai presi in affitto e un angolo riservato
alla cucina; dall’altra parte i letti, l’armadio e un altarino con il
quadro della Madonna nera di Czestochowa. Quando nacquero
Francesco e Raimondo, la loro culla fu messa accanto ai telai, e
la mamma cantò loro la ninna nanna facendo scorrere su e giù
la spola, con le mani bianche e veloci.
Nell’ottobre del 1911, Giulio Kolbe accompagna alla scuola france-
scana di Leopoli Francesco di quindici anni e Raimondo di tredici.
Vanno a studiare, e anche a pensare che cosa faranno nella vita.
Nell’ottobre del 1911, Raimondo e Francesco, col permesso dei
genitori, fanno domanda di entrare nell’Ordine francescano.
Raimondo ha diciassette anni. La sera del 4 settembre assume
il suo nuovo nome, il nome religioso con cui verrà chiamato per
tutta la vita: Massimiliano.
Fra’ Massimiliano, il 28 aprile 1918, è ordinato sacerdote.
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Una città di lavoratori
A 40 chilometri da Varsavia, padre Kolbe fonda nel 1927 una città-
convento. La chiama Niepokalanow (= città dell’Immacolata).
In poco tempo diventa il primo centro editoriale della Polonia.
Pubblica un giornale cattolico, il “Maly Dziennik” che vende 250
mila copie giornaliere.
Ma in Germania è diventato dittatore il disumano nazista Adolf
Hitler. Egli vuole conquistare la Polonia per farne la base di par-
tenza per una gigantesca guerra contro la Russia. Dichiara guerra
alla Polonia il 1° settembre 1939. In quattro settimane la Polonia
è conquistata. La prima mossa per ridurre la Polonia in schiavitù
sarà l’eliminazione di tutta la classe intellettuale, che potrebbe
persuadere il popolo a opporre resistenza.
Il 7 febbraio 1941 anche padre Kolbe è arrestato e la sua città
chiusa. Portando il suo povero saio francescano, padre Kolbe deve
salire su un treno di carri-bestiame. Ventiquattro ore di viaggio
massacrante. Poi, la notte del 28 maggio, le portiere vengono
aperte con fragore.
Gli “abili al lavoro” dovettero percorrere di corsa i due chilometri
che li separavano dal campo di Auschwitz, la località che i
polacchi chiamano Oswiecim. A questi uomini viene tolto tutto,
anche il nome. Il nome di padre Kolbe, d’ora innanzi, sarà 16.670.
Finché vivrà porterà il marchio tatuato sul braccio sinistro con
un timbro a spilli e inchiostro di china.
Ad Auschwitz si lavora dall’alba al tramonto. Si va in colonna
ordinata, a passo veloce. Si torna quasi a passo di corsa. Legato al
carro con altri sacerdoti polacchi del blocco 14, padre Massimiliano
trascinò di corsa pesantissimi carichi di ghiaia, abbatté alberi,
trascinò tronchi e rami per sentieri accidentati, barcollando sotto
pesanti fardelli. Al tempo della mietitura, in lunghe file i prigionieri
venivano trasportati lontano dal campo, a lavorare nelle fattorie.
Gettandosi tra le messi alte, con la forza della disperazione, un
prigioniero fuggì. Quando alla sera fu fatto l’appello, e uno non
rispose, quelli del blocco 14 tremarono. “Per ogni fuggitivo, dieci
pagheranno con la vita”. Era una delle leggi di Auschwitz, appli-
cata alla lettera.
I prigionieri del blocco 14 furono lasciati in piedi, rigidamente
sull’attenti, fino a notte alta. Solo allora fu permesso di rientrare
nelle baracche. Al mattino, primo appello. Il fuggitivo non era
riapparso. Tutti senza eccezione, rimasero in piedi, sull’attenti.
Erano forse le diciannove quando arrivò, col solito codazzo di
aiutanti e di leccapiedi, il lagerfhurer Fritsch. Le sue parole cad-
dero in un silenzio di tomba.
Dieci pagheranno con la vita
“Il fuggitivo non è stato ritrovato. Dieci di voi, quindi, pagheranno
con la vita”.
Passò davanti ai prigionieri: levava la mano, segnava col dito a
caso: “Quello, quello”. L’aiutante segnava a matita i numeri dei
destinati a morire.
147
Il decimo fu il sergente polacco Francesco Gajowniczek. Inebetito
dalla disperazione, mormorò singhiozzando: “Mia moglie... I miei
figli...”. In quell’attimo, un uomo esce dalle file dei risparmiati. È
un gesto che gli può costare la vita.
Fritsch ha fatto un balzo indietro e ha gridato: “Cosa vuole questo
sporco polacco? Chi è?”. “Sono un sacerdote cattolico – risponde
in perfetto tedesco l’uomo uscito dalle file – chiedo di prendere il
posto di quel prigioniero” e con la mano indica Gajowniczek.
Fritsch ha un attimo di esitazione, poi accetta. I dieci condannati
andarono a morire nel bunker della fame. Era un sotterraneo dove,
in celle buie, venivano ammassati senza acqua né cibo coloro che
dovevano morire.
Bruno Borgowiec, un interprete polacco che dovette scendere
ogni giorno insieme alle guardie tedesche per controllare il com-
portamento dei morenti, ha dichiarato: “Mentre in precedenza il
comportamento dei condannati era stato quasi sempre uno spetta-
colo di disperazione, questa volta accaddero cose che stupirono
anche gli aguzzini germanici. Raccolti attorno a padre Kolbe, i
condannati pregavano, a volte addirittura cantavano canti polacchi
alla Madonna. Le guardie dovettero più volte ordinar loro di
tacere, perché dalle altre celle, altri condannati si univano al coro”.
Le voci si affievolivano di giorno in giorno. Chi moriva era trasci-
nato via. Padre Kolbe confortò tutti fino all’ultimo momento.
Il suo volto era calmo, lo sguardo azzurro incredibilmente sereno,
e un giorno uno degli aguzzini dovette gridargli, profondamente
turbato: “Non guardarmi così, prete della malora!”.
Dopo due settimane, padre Kolbe era ancora vivo insieme ad altri
tre prigionieri. Bisognava liberare la cella per altri condannati.
Il 14 agosto, vigilia dell’Assunzione della Madonna al Cielo,
entrò in cella l’infermiere tedesco Bock. Si avvicinò ai quattro
prigionieri e praticò nel braccio di ognuno un’iniezione mortale.
Ultimo era padre Kolbe, appoggiato al muro, in preghiera.
Quando Bock si avvicinò, tese il braccio. Il corpo di padre Kolbe
fu gettato nel forno crematorio con quello dei suoi compagni. Le
sue ceneri furono mescolate a quelle di altri tre milioni di vittime
e sparse nella campagna di Auschwitz, che ad ogni primavera si
copre di fiori rossi e di fiori bianchi.
148
ATTILIO GIORDANI, SERVO DI DIO
Collocazione storica (1913-1972)
Patronati
Si ricorda come Apostolo tra i ragazzi
La vita in un frammento “Continua Tu”
Cenni biografici Col pallone tra i piedi
Papà Arturo Giordani viene dal Friuli. Fuochista e poi macchi-
nista nelle ferrovie. Nelle ore libere dalla scuola, i ragazzi corrono
per strade e sterpaglie.
Attilio è un ragazzo sano, svelto, col pallone tra i piedi appena
può. Finite le elementari, papà Arturo lo manda a frequentare i
tre anni della scuola tecnica. E intanto scopre l’oratorio.
Pochi in Milano, dove tutti lavorano intensamente per farsi “la gra-
na”, apprezzano i Salesiani che in periferia “perdono il loro tempo
in mezzo ai ragazzi”, stanno con loro, li assistono nei giochi, orga-
nizzano le passeggiate, li educano al teatro, li richiamano nei litigi, li
istruiscono col catechismo, li formano nella confessione. Attilio in-
vece vi trovò un pezzo di paradiso. Ricordava: “Mi divertivo un
mondo sulla giostra, sul passo volante, col pallone, al teatro. Quan-
do c’erano grandi feste don Acerbi non ci lasciava mai mancare la
colazione. In chiesa spiegava la dottrina a tutti; a chi sapeva rispon-
dere dava sempre qualche cosa: una volta io guadagnai una noce...”.
A 17 anni diventa lavoratore in una ditta di prodotti farmaceutici,
e lì si misura con la fatica quotidiana e con la realtà del mondo del
lavoro: è una vita dura, non gratificante e neppure retribuita in
modo adeguato; ma Attilio la vive con serenità.
E nello stesso anno diventa all’Oratorio un brillantissimo delegato
aspiranti dell’Azione Cattolica. “Ogni mattina – ricorda un suo
aspirante di allora – lo aspettavo con altri in via Solferino davanti
alla scuola Frisi: lui arrivava veloce sulla bici e a noi, appena
scesi dal tram, in dieci minuti di tempo, dopo la visita alla chiesa
vicina, dava i suggerimenti per la nuova giornata perché fossimo
nella scuola gli amici di tutti, l’aiuto di tutti, i portatori di gioia,
i ‘raggi scuola’”.
Dalla farmaceutica, Attilio passa alla Pirelli: impiegato in ammi-
nistrazione. I colleghi lo ricordano come lavoratore serio, sempre
pronto a dare una mano. Trascorreva i giorni di ferie portando con
sé in montagna gruppi di ragazzi, componeva canti, dialoghi,
scherzi, scenette, organizzava grandi giochi nei boschi, gite in
bicicletta e a piedi, lotterie e banchi di beneficenza, cacce al
tesoro attraverso le vie della parrocchia, le olimpiadi per ragazzi
nei cortili dell’oratorio, il Rarà (raduno ragazzi).
Giordani era una festosa girandola di iniziative, che sorgevano
quasi spontanee e irresistibili dalla sua fantasia, ma che richiede-
vano pazienza e abnegazione superlative per la loro realizzazione.
E al sacrificio chiamava tutti, in forma allegra ma decisa.
Quando ideò il primo concorso aspirantistico, lanciò nel suo lom-
bardo schietto lo slogan: “Su l’Everest se va no in caruseta”.
149
Vagonate di allegria
“Era il piazzista imbattibile di quella merce rara che si chiama
‘letizia’” – ricorda un suo ragazzo –. Attilio smerciò vagonate di
letizia soprattutto fra i ragazzi, sia nell’età giovanile, sia nell’età
adulta, sempre gratis”.
Quando, al Vigorelli, gli conferirono il premio al “migliore dele-
gato aspiranti d’Italia”, e nel discorso esaltarono i suoi “sacrifici”,
lui ci tenne a precisare che non gli risultava di aver compiuto
sacrifici. “Fare il delegato Aspiranti – disse – e vivere tra i ragazzi
è sempre stata per me la cosa più piacevole”.
1940. Per l’Italia iniziano i cinque anni della seconda guerra mon-
diale. Attilio Giordani li farà tutti e cinque, sul fronte greco-alba-
nese, in Francia, poi come clandestino tra le montagne lombarde.
In questi anni lo accompagnano due pensieri: i suoi ragazzi e
Noemi Davanzo, la sua dolcissima fidanzata. Le scrive quasi tutti
i giorni. Una riga condensa tutto: “La mia felicità, con l’aiuto del
Signore, sarai tu”.
Quando arriva la pace ed ha sposato la sua Noemi, all’Oratorio
comincia una stagione diversa. Intorno ci sono le macerie dei
bombardamenti che hanno violentato in maniera paurosa la città.
I ragazzi smunti e pallidi con la fame portano nel sangue il seme
della violenza. Per questi ragazzi Attilio inventa la “Crociata della
Bontà”: un gioiello pedagogico che coinvolge tutto il quartiere:
giovani e famiglie, parrocchia e scuole, sani e ammalati, bambini
e anziani. È una rivincita sulla violenza, un rilancio in grande stile
dello spirito evangelico: amore e bontà. Attilio lo voleva far
capire a tutti: la stagione della guerra e della violenza era finita, e
doveva finire per tutti. Solo la bontà insegnata da Gesù può cam-
biare il mondo. “Con questa crociata – ricorda un protagonista –,
Attilio ci fece incontrare i poveri, gli ammalati, i vecchi, gli emar-
ginati, i barboni: tanti fratelli che non sapevamo di avere, e che
pure stavano alla nostra porta aspettando la nostra bontà”.
Inventata a Milano, nell’oratorio salesiano, la “Crociata della
Bontà” venne trapiantata con risultati straordinari in tutta Italia e
all’estero. Il Patriarca di Venezia, che diverrà poi Papa Giovanni
XXIII, disse: “La Crociata della Bontà ha avuto una penetrazione
nei bambini e una risonanza nei fedeli quale non avrei potuto
immaginare”.
Sarebbe grave errore considerare Attilio un adulto “scappa di
casa”, un papà che preferisce l’oratorio alla famiglia. I tre figli
che allietarono la sua casa (Pier Giorgio, Maria Grazia, Paola)
parlano così del loro papà e della loro mamma: “Quando papà
entrava in casa, era tutto nostro; non portava in casa le tensioni
di fuori. Era sereno, disponibile, non chiuso; era qualcosa di ‘no-
stro’”. “Ciò che mi dava una pace enorme – dice Maria Grazia –
era sapere che qualunque cosa io avessi fatto nella vita, giusta o
sbagliata, in casa non mi sarebbe stato tolto niente, sarei stata ac-
cettata con lo stesso amore e la stessa comprensione. Il sapere che
qualcuno ti capisce sempre, dà tranquillità”. “Un problema da me
vissuto – ricorda ancora Maria Grazia – era già capito prima che
150
lo esprimessi. Papà e mamma non forzavano perché mi aprissi
con loro, e io sentivo che essi mi capivano, mi erano vicini, ave-
vano fiducia, aspettavano... In casa ho sempre sentito questo
ambiente di amore, di amore vissuto, di accettazione sempre”.
Stava male se non poteva dividere
“Non abbiamo mai visto nostro padre accumulare denari – ricor-
dano insieme i figli –. Stava male se non poteva dividere con altri
ciò che aveva. Ci ripeteva: Diamo... Noi si va avanti lo stesso...
Il Signore ci penserà”.
La contestazione giovanile esplose dura nei primi anni ‘70. I gio-
vani volevano cambiare la società attraverso la violenza. Nasce in
questo tempo, nell’ambiente salesiano, l’Operazione Mato Grosso,
che vuole sì “cambiare la società”, ma attraverso l’impegno e il sa-
crificio personale. Quei giovani, a cui si uniscono i figli di Attilio,
cercano azioni impegnative verso i fratelli più poveri, azioni che
assorbono menti e mani. Attilio osserva e incoraggia quel desiderio
di “fare” e non solo di discutere, quel bisogno di verificare il pro-
prio cristianesimo in atti concreti di servizio.
Nel primo gruppo che parte per la zona brasiliana poverissima di
Poxoreu, Mato Grosso, c’è il suo Pier Giorgio, universitario.
Vanno a spendere le vacanze scolastiche per costruire un “centro
sociale” tra giovani poveri di tutto. Nel gruppo che parte nel 1972
c’è anche papà Attilio (59 anni), che va a spendere le ferie e
alcuni mesi di aspettativa dalla Pirelli, con le figlie Maria Grazia e
Paola, e con la moglie signora Noemi. È una decisione limpida,
coerente, come tutte le decisioni della sua vita: “Vado a fare l’ora-
torio tra i ragazzi di Poxoreu”. L’unica cosa che l’avrebbe fermato
era un “no” della sua Noemi. Non si sentiva di sacrificarla. Ma lei
disse “sì”, diventando “la mamma dei volontari e delle volontarie
dell’Operazione Mato Grosso”.
Aereo. Poi jeep traballante sulla stradina di terra rossa che porta a
Poxoreu, la frontiera tra il benessere e la miseria. Qui approdano i
garimpeiros che si rompono la schiena a setacciare le sabbie dei
fiumi in cerca del diamante, il garimpo. E nelle capanne affollate
di bambini, con il pavimento di terra e i muri di fango, si ammuc-
chia la miseria e la disperazione.
Attilio si fa crescere la barba, che risulta imprevedibilmente tutta
bianca, e inizia l’oratorio salesiano tra nugoli di ragazzi, con lo
spirito di sacrificio e la letizia di sempre. “Qui i ragazzi si diver-
tono con poco: domenica scorsa un gioco semplicissimo per le
strade ha entusiasmato i piccoli e anche i diciottenni che ci hanno
aiutato”, scrive.
Vede gli enormi problemi
Attilio guarda con orgoglio la sua Noemi e i suoi “ragazzi” che
s’impegnano seriamente per i poverissimi e gli ammalati. Scrive
al suo parroco: “Noemi si è insediata in cucina, e con i mezzi che
ha riesce a far contenti i commensali. Maria Grazia è nel gruppo
che va per le capanne dove sono gli ammalati. Paola si è inserita
151
bene con le bambine. Per i giochi viaggiamo in tandem: io urlo,
faccio segni, e lei spiega. Il mio impegno è con i ragazzi dagli 8
ai 13 anni. Partite accanite a campo minato, bandiera, staffetta”.
Sotto l’ottimismo di sempre, vede gli enormi problemi. Continua
a scrivere: “La gente di qui è povera in tutti i sensi. Non c’è il
senso del risparmio: quel poco che avanza, quando c’è, serve
specie per le ragazze a comprare il vestitino dai colori vivaci. Già
le piccolissime si laccano le unghie, cercano di sfoggiare. Non
sanno concepire una vita diversa. Non è un lavoro facile l’educa-
zione, dove la famiglia non dà nulla e la scuola dà poco. Le fami-
glie regolari non sono tante: sovente ci si mette insieme e si
fabbricano bambini: dieci, dodici; qualche volta il marito parte
per ignota destinazione abbandonando donna e figli, e formerà
un altro gruppo. Pochi anni fa si regolavano i conti con la pistola
alla mano; parecchi bambini hanno perso il padre in una rissa. Si
fatica a far loro capire che si deve convivere in un mondo più
umano”.
Il 18 dicembre di quel 1972, in una riunione, parlò con entusia-
smo del dovere di dar la vita per gli altri. A un tratto si sentì venir
meno. Sussurrò al figlio: “Continua tu”. Lo fecero distendere su
un tavolo. Gesù era lì, e lo chiamava attraverso i battiti impazziti
del cuore devastato. Faceva freddo a Milano, quando arrivò la
bara del signor Attilio.
Millecinquecento persone lo attendevano. Ognuno, tra le mani,
aveva un cartoncino giallo: l’addio accorato degli amici. Si
leggeva: “Carissimo Attilio, siamo in tanti che avremmo dovuto
rispondere alle tue ultime lettere, in tanti che volevano augurarti
un Natale felice. Quando toccava a te il discorso, ci mettevi
dentro tanto di quell’humor che ci cacciavi via tutto il magone
che avevano addosso. Non ti è mai piaciuta la tristezza, il pessi-
mismo. Hai sempre creduto alla vita, hai sperato nella Risur-
rezione. Sei stato educatore di molti ragazzi perché eri il loro
amico. E questa tua amicizia non la dicevi, ma la vivevi, cinquan-
tenne, giocando al calcio, cantando e scherzando. Non sei mai
stato una ‘persona seria’, un uomo convenzionale e artefatto.
Ti sei interessato delle nostre piccole cose, della nostra famiglia,
e per noi hai buttato via il tuo tempo senza chiedere stipendio né
riconoscenza”.
A quella gente sbigottita, quasi incredula, che fissava i resti mor-
tali di una persona tanto cara, il parroco disse: “A ciascuno di noi
Attilio ripete la frase che, morendo ha detto al figlio: Continua tu”.
152
ALBERTO MARVELLI, BEATO
Collocazione storica (1918-1946)
Patronati
Si ricorda come Lavoratore accanto ai lavoratori
La vita in un frammento “I poveri passino subito, gli altri abbiano la cortesia di aspettare”
Cenni biografici “È passato Gesù che aveva fame”
Alberto nasce il 21 marzo 1918, secondo di sei fratelli. A Rovigo
papà è direttore di banca. Famiglia cristianissima. Qualche volta i
ragazzi, tornando affamati dalla scuola, dovevano accontentarsi
della minestra. “E il secondo?” chiedevano ansiosi. E la mamma:
“È passato Gesù che aveva fame, e gli ho dato quello che c’era”.
Nella famiglia Marvelli i poveri sono Gesù.
Da Rovigo la famiglia Marvelli si trasferisce a Modena, ad An-
cona, e di qui, nel 1931, definitivamente a Rimini, seguendo papà
nei suoi impegni finanziari. Alberto ha una salute buona e robusta,
un temperamento impetuoso e ardente, ma anche una serietà che a
tratti fa pensare a un uomo adulto. Il ginnasio è superato felice-
mente tra tirate di studio e gare sportive clamorose.
A 15 anni si iscrive al liceo classico, ma proprio in quei mesi la
famiglia è colpita in modo durissimo: muore papà. Nell’ottobre
del 1933, l’anno della morte del padre, Alberto inizia il suo diario.
Si assiste attraverso quelle righe alla sua crescita di uomo e di cri-
stiano. I libri che legge, medita, e a tratti trascrive su quelle pa-
gine sono il Vangelo e l’Imitazione di Cristo.
Un pensiero che ricopia e sottolinea è questo: “È vera ogni morti-
ficazione che spezza ciò che è da spezzare e fortifica ciò che è da
fortificare”. Fissa un “piccolo schema” rigido e forte, come le ner-
vature d’acciaio che reggono il cemento armato: “1. Alla mattina
preghiera, e se è possibile, un po’ di meditazione. 2. Una visita gior-
naliera in chiesa e il più possibile frequentare i Sacramenti. Oh, se
mi riuscisse di comunicarmi tutti i giorni! 3. Recitare ogni giorno
il santo Rosario. 4. Non cercare in nessun modo occasioni di male.
5. Alla sera, preghiera, meditazione, esame di coscienza. 6. Vincere
i difetti più grossi: la pigrizia, la gola, l’impazienza, la curiosità
e tanti altri. 7. Invocare l’aiuto di Gesù in ogni momento difficile.
Se non dovessi mantenerlo, infliggermi una qualche pena fisica”
(Diario,p.16).Questo programma Alberto lo attuerà per tutta la vita.
Immaginare però Alberto chiuso in se stesso, arroccato sulla
difesa, sarebbe un errore totale. Egli viveva nel mondo, in mezzo
agli altri, nel tran-tran di una attività da sfinimento, aiutava tutti e
“irradiava Cristo” su tutti. “Io vedo camminare Alberto Marvelli
per le strade della nostra piccola città – scrive una sua amica –
ancora studente con la cartella dei libri come quando veniva al
Liceo, e lo vedo correre in bicicletta, occuparsi all’Associazione
di Azione Cattolica (della quale fu, per tanto tempo, presidente).
Quel suo sorriso pensoso, luminoso, incantevole”.
Gli è maestra silenziosa la madre, un po’ mamma di tutti i ragazzi
della parrocchia, instancabile nella Conferenza di San Vincenzo.
153
Studente-pendolare
Tra i 60 candidati alla maturità classica si classifica secondo. Il
1° dicembre 1936 (a 18 anni) inizia il primo anno di ingegneria
all’Università di Bologna: inizia il via vai di studente-pendolare
tra Rimini e Bologna. Studio e apostolato in entrambe le città.
La donna di servizio della zia che lo ospita a Bologna testimo-
nierà con le parole dei semplici: “Lo vedevo di giorno e di notte
ammazzato di lavoro per l’università e l’apostolato. Qualche volta
lo trovavo addormentato sui libri e con la corona in mano. Al mat-
tino lo vedevo in chiesa alle 6 per Messa e Comunione”.
Benigno Zaccagnini, che gli diventò amico a Bologna, ricordava:
“Aveva un candore che incantava anche chi non condivideva
le sue idee. Era circondato dalla simpatia di tutti. Non ho forse
conosciuto nessuno così naturalmente umano e insieme così uma-
namente cristiano”.
Mentre Alberto sta terminando l’università, sull’Europa scoppia
il ciclone della seconda guerra mondiale.
Nel giugno 1940 Mussolini fa scendere in guerra l’Italia a fianco
della Germania di Hitler. Laureando in ingegneria, dall’agosto
al novembre 1940 Alberto è a Milano, impiegato nella fonderia
Bagnagatti, sotto i primi bombardamenti. L’industriale Bagnagatti
testimonierà: “Trascorse presso di me alcuni mesi. Famigliarizzò
subito con tutti i dipendenti e particolarmente con i più giovani e
i più umili. S’interessò dei bisogni familiari degli operai e mi pro-
spettò le particolari necessità di ognuno, sollecitando gli aiuti che
riteneva opportuni. Visitava gli ammalati, incitava gli apprendisti
a frequentare le scuole serali. Infondeva in tutti un immediato e
vivo senso di simpatia e cordialità”.
Questi primi mesi di guerra hanno tracciato la strada che Alberto
seguirà fino alla sua ormai vicina e imprevedibile morte: spen-
dersi tutto per chi gli sta attorno e soffre dell’immane ciclone
che travolgerà in cinque anni gran parte dell’Italia, e ogni giorno
trovare la forza di ricominciare nell’Eucaristia e nella medita-
zione.
30 giugno 1941. Alberto sì laurea in ingegneria industriale col
massimo dei voti, e subito dopo parte per il servizio militare.
È destinato a una caserma di Treviso. Ed è qui che si compie il
“miracolo” di Marvelli.
Don Zanotto, parroco, ha scritto: “Quando l’ing. Marvelli arrivò
a Treviso, nella caserma di duemila soldati tutti bestemmiavano e
la malavita imperversava. Dopo qualche tempo nessuno più be-
stemmiava, dico proprio nessuno, nemmeno i superiori”.
300 bombardamenti su Rimini
Nel settembre 1943 Alberto è a casa. L’Italia cerca di tirarsi fuori
dalla guerra firmando un armistizio con Inghilterra e Stati Uniti
(gli Alleati). Ma la guerra non finisce. I Tedeschi invadono
l’Italia, considerano gli Italiani dei traditori. E gli Alleati intensi-
ficano i bombardamenti sulle nostre città. Il 1° novembre Rimini
è investita dal primo bombardamento aereo. Ne subirà trecento.
154
Occorre fuggire lontano, nella libera Repubblica di San Marino.
In poche settimane, quel francobollo di territorio sicuro passa da
14 mila a 120 mila abitanti. Alberto vi porta la sua famiglia. Ar-
riva reggendo la cavezza di un asino. Sul carro è la mamma. Il
fratello Giorgio e la sorella Geltrude spingono biciclette cariche di
cibo con cui sopravvivere. Vengono accettati in uno dei cameroni
del collegio Belluzzi. Altre famiglie sono nei magazzini della Re-
pubblica, moltissime altre si ammucchiano nelle gallerie ferro-
viarie.
È facilissimo, in questi momenti, chiudersi in se stessi, pensare
alla sopravvivenza dei propri cari e basta. Alberto è invece al
centro dell’assistenza, a disposizione di tutti. Scrive la sua amica
Massani: “Al mattino, nella chiesa zeppa di sfollati, serviva la
Messa e si comunicava. Poi via, andare incontro a tutti i biso-
gnosi. C’era da andare qua e là, nelle gallerie da dove la gente
non osava uscire”. Aggiunge Domenico Mondrone: “Ogni giorno
faceva chilometri di strada in bicicletta raccogliendo roba da man-
giare. Talvolta tornò a casa con il tascapane forato dalle schegge
di granate che scoppiavano da ogni parte”.
21 novembre 1944. Gli Alleati entrano in Rimini. Tutto intorno
sono paesi e boschi che bruciano. Alberto torna con la famiglia.
La sua casa è occupata da ufficiali inglesi. I Marvelli si sistemano
alla meglio nello scantinato. In quel terribile inverno (l’ultimo di
guerra) Alberto fu il servo di tutti. Il Comitato di Liberazione gli
affidò l’ufficio alloggi, il comune gli affidò il genio civile per la
ricostruzione, i poveri assediavano in permanenza le due stan-
zucce del suo ufficio”. Alberto diceva: “I poveri passino subito,
gli altri abbiano la cortesia di aspettare”.
L’anno 1946 fu mangiato giorno per giorno da infinite necessità,
tutte urgenti. Alberto faceva la Comunione, poi era a disposizione.
La sera del 5 ottobre cenò in fretta accanto alla mamma, poi uscì.
A 200 metri da casa sua, un camion alleato correndo a velocità
pazzesca lo investì.
Due ore dopo moriva. Aveva 28 anni. Quando la sua bara passò
per le strade, i poveri piangevano e mandavano baci.
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DON LORENZO MILANI, PRETE
Collocazione storica (1923-1967)
Patronati
Si ricorda come Maestro ed educatore
La vita in un frammento “I care” (io mi prendo cura)
Cenni biografici Un monumentale panino imbottito di prosciutto
Lo ricordava con rossore. Era stato anche lui un signorino, uno
studente aristocratico, raffinato. La mazzata la ricevette in pieno
viso un giorno del 1942 nella sua Firenze.
Attraversava un dedalo di viuzze attorno a Palazzo Pitti. Era il
terzo anno della seconda guerra mondiale. La città era assediata
dalla fame, una fame atroce che aggrediva soprattutto i quartieri
più poveri, dove i bimbi crescevano scheletriti. Lorenzo, era il
suo nome, addentava con appetito un monumentale panino bianco
imbottito di prosciutto e camminava. Dall’alto di una finestra
una popolana fiorentina lo vide. “Non si mangia il pane bianco
nelle strade dei poveri”, gli gridò con l’impeto di una profetessa.
Lorenzo restò fulminato. “Da allora decisi di ascoltare i poveri”,
disse.
L’anno dopo, a vent’anni, entrò nel seminario di Firenze. A venti-
quattro (nel 1947) era prete.
In quegli anni di durissimo dopoguerra fu mandato curato e poi
parroco nella parrocchia operaia di S. Donato a Prato. Era un
periodo di vaste agitazioni popolari, culminate con le lotte per la
salvezza dell’acciaieria “Pignone” e della “Galileo”. Le sue prese
di posizione di cristiano e di cittadino, le sue iniziative a favore
dei lavoratori e dei figli dei lavoratori, furono giudicate dai
benpensanti come “comuniste”, e don Milani fu denunciato al suo
Arcivescovo. Egli, dopo il 1958, credette bene di allontanarlo da
Prato e sostanzialmente di esiliarlo come priore di Sant’Andrea a
Barbiana, sperduto borgo rurale sulle colline del Mugello.
Don Milani si trovò così a vivere tra i più poveri dei poveri: i
boscaioli del Mugello. Mancava la strada, mancava la luce,
l’acqua. Un paese dimenticato da Dio e dagli uomini. Don Milani
si guardò subito attorno. Vide ragazzini smagriti lavorare con il
forcone dalle quattro del mattino a notte fonda per sconcimare
stalle di trentasei mucche, boscaioli murati vivi in una ignoranza
millenaria, contadini che non avevano fatto che la terza elemen-
tare e sapevano a stento leggere e far la firma. E sotto quei volti
duri, bulinati dalla fatica, una ricchezza di sentimenti autentici, di
senso concreto della vita, un coraggio disumano nell’affrontare
la fatica quotidiana dura come la pietra.
Disse a se stesso: “Devo fare qualcosa per questi ragazzi. Non
posso permettere che questi giovani figli di Dio restino condan-
nati a sconcimare stalle per tutta la vita mentre gli altri ragazzi
diventano geometri, medici, ingegneri. Aprirò una scuola”.
“Quante parole possiedi? – chiese ruvido al primo boscaiolo che
incontrò –. Al massimo 250. Il tuo padrone ne possiede non meno
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di 1.000. Questa è una delle ragioni per cui lui resta padrone e
tu povero e servo. Se tuo figlio possederà più parole, starà alla
pari con lui: non potrà più dire cose che lui non capisce. Non lo
potrà più ingannare e rubare. Potrà leggere e scrivere come tutti
i padroni, fare un lavoro diverso da quello che fai tu: leggere,
scrivere, lavorare e aiutare gli altri”.
Il montanaro comprò una pila per la notte
Quel montanaro dal volto duro comprò una pila per la notte, un
gavettino per la minestra e un paio di stivaloni per la neve. E ac-
compagnò il suo ragazzo alla scuola di quel prete. Impiegarono
due ore per aprirsi la strada con la roncola e la falce. Il ragazzo
aveva undici anni.
La scuola di don Milani fu per tanti ragazzi boscaioli e contadini
una sfida quotidiana alla paura, alla neve, al freddo. Era una
scuola strana: né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi
tavoli di legno pesante intorno a cui si faceva scuola, e si man-
giava a mezzogiorno una zuppa nei gavettini. Mancavano i libri:
ce n’era uno per ogni materia e basta. Quando i più grandi ave-
vano imparato qualcosa, la insegnavano ai piccoli.
Grande importanza alle lingue moderne: dopo i tre anni della
media, don Milani li spedisce fuori dei loro boschi, a Parigi, a
Londra. Sa che i suoi ragazzi si sentiranno sperduti nelle immense
metropoli e li segue giorno per giorno con lettere appassionate,
cariche di interesse, di affetto: “Non mi dici nulla di te – scrive a
Edoardo che è a Londra. – Ti ho già detto venti volte che voglio
una vera lettera privata. Come vivi? tentazioni? occasioni? tri-
stezza? nostalgia? voglia di tornare? voglia di stare? abitudine?
amicizie? noia? voglia di cambiar lavoro? confessione? comu-
nione? messa? affetto per me? rabbia con me che ti ci ho man-
dato? fedeltà ai principi di Barbiana? fumo? vino? strettezze di
quattrini? fame? voglia di pastasciutta? difficoltà di lingua? trionfi
linguistici? malattie? sonno? pericoli? disperazione? speranza?
fede? ateismo?”. Non si scrive così quando non si ama sincera-
mente.
Don Milani ha un’idea delle materie scolastiche originale, viva:
non gli importa che i suoi ragazzi sappiano se Saturno è padre
o figlio di Giove. Gli interessa che conoscano il contratto dei
metalmeccanici. E soprattutto che sappiano esprimersi, parlare,
discutere, valutare. Si arrabbia quando minacciano di bocciare
i suoi ragazzi in ginnastica perché non sanno giocare a basket,
ma sanno arrampicarsi come scoiattoli su una quercia, buttare
giù un ramo di due quintali a colpi d’accetta e trascinarlo sulla
neve fino a casa. Nella storia non gli interessa che si parli di
re, di generali, ma delle sofferenze e delle lotte dei popoli e dei
lavoratori. Si arrabbia perché si danno sei righe a Gandhi e
pagine intere alle battaglie di Napoleone. La geografia deve
aprire i ragazzi ai problemi della fame che torturano due terzi
dell’umanità, del razzismo che divide come un solco la società
moderna.
157
I negri italiani sono la povera gente
erché, diceva don Milani ai suoi ragazzi, non c’era soltanto il raz-
zismo dei negri messi sotto i piedi dai bianchi. C’era un razzismo
nascosto ma brutale anche nella nostra società: i negri italiani
erano i contadini, i manovali, i montanari, la povera gente. E lo
dimostrava cifre alla mano, le cifre che i suoi ragazzi erano andati
a scovare negli archivi. Quei numeri dimostravano la “strage dei
poveri” nella scuola italiana.
Su 100 ragazzi che si perdevano tra la quinta elementare e la
prima media e non proseguivano a studiare, 79 erano figli di
contadini, 16 di operai e soltanto 1 era figlio di signori. Nel pane
che tutti mangiavano c’era dentro un po’ della fatica analfabeta
di questi 79 ragazzi, diceva amaramente don Milani.
Su 100 giovanotti che arrivavano alla laurea, quanti erano i figli
dei contadini? Pochissimi, due o tre. Quasi tutti gli altri erano
figli di papà dal portafoglio robusto. “È questo il nostro razzismo,
gridava don Milani, e dobbiamo lottare per dare a tutti i ragazzi
italiani una vera uguaglianza, non quella scritta a parole nella
Costituzione, ma quella che permetta ai figli dei contadini e dei
montanari di arrivare sui banchi dell’università come i figli di
papà, non uno più e non uno meno.
I ragazzi di Don Milani scrivono insieme un libro che sarà pubbli-
cato nel 1967 e diventerà famoso in tutto il mondo: Lettera a una
professoressa. In quelle pagine denunciano con violenza il per-
sistente e diffuso classismo della scuola italiana. Scrivono tra il
resto: “In Africa, in Asia, nell’America Latina, nel Sud dell’Italia,
nei campi, perfino nelle grandi città milioni di ragazzi aspettano
di essere fatti uguali agli altri. Timidi come me, cretini come
Sandro, svogliati come Gianni. Il meglio dell’umanità”.
Michele, un ragazzo di Barbiana spedito da don Milani in Ger-
mania a Stoccarda, dove lavora presso la Mercedes, gli parla di un
suo compagno di lavoro, operaio come lui, un piccolo indiano,
timido, che quasi si vergogna di apparire in mezzo agli altri. “Tu
potevi rispondergli subito – gli scrive per espresso don Milani –
Non sei tu che devi vergognarti in Germania. I tedeschi ci hanno
regalato Hitler e i suoi campi di sterminio. Voi indiani ci avete
regalato Gandhi e la sua non-violenza. Tu dunque in Europa devi
venire come un missionario tra i barbari”.
È specialmente quando pensa alla guerra che don Milani diventa
verde. A Barbiana non c’è ancora la strada, non c’è la luce, non c’è
l’acqua. Ma, dice lui con un lampo negli occhi, è dal 1861 che su
per i sentieri scoscesi arrivano le cartoline-precetto che sradicano i
montanari dai loro boschi e te li portano nel mezzo di una mischia,
moschetto in mano, ad ammazzare e ad essere ammazzati.
Decine di lettere furiose
Don Milani prese le difese degli “obiettori di coscienza”, di quei
giovani cioè che in quel tempo (con grave scandalo dei benpen-
santi) rifiutavano di fare il servizio militare per non uccidere, e
chiedevano che venisse sostituito con un servizio civile anche più
158
lungo presso le zone sottosviluppate del Paese, negli ospedali, nei
ricoveri, durante le alluvioni, i terremoti.
Oggi tutto questo è pacifico, ma in quegli anni arrivarono a Bar-
biana decine di lettere furiose. Veniva chiamato “traditore della
patria”. Fu addirittura messo sotto processo per essersi schierato
apertamente nel 1965 contro la guerra in polemica contro cappel-
lani militari della Toscana. Il processo si celebrava a Roma. Ma
don Milani era ormai ammalato di leucemia.
Da Barbiana il 18 ottobre 1965 scrisse con i suoi ragazzi una
vibrante Lettera ai giudici, una difesa appassionata che attacca e
travolge ogni militarismo. “La Chiesa – scriveva – non ha mai
ammesso che in guerra fosse lecito uccidere civili. Ora abbiamo
letto un articolo del premio Nobel Max Born. Dice che nella
prima guerra mondiale i morti furono 5% di civili, 95% militari.
Nella seconda 48% civili, 52% militari. In quella di Corea 84%
civili, 16% militari. Sappiamo tutti che i generali studiano la
strategia d’oggi con la misura del megadeath (grande morte -
un milione di morti), cioè che le armi attuali mirano direttamente
ai civili e che forse si salveranno soltanto i militari. Dunque il
cristiano deve “obiettare” anche a costo della vita. A una guerra
simile il cristiano non può partecipare neanche come cuciniere. È
noto che l’unica “difesa” possibile in una guerra di missili atomici
sarà di sparare circa 20 minuti prima dell’”aggressore”. Ma in
lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non
difesa. Oppure immaginiamo uno Stato onestissimo che per sua
“difesa” spari 20 minuti dopo. Cioè che sparino i suoi sommergi-
bili, unici superstiti di un paese ormai cancellato dalla geografia.
Ma in lingua italiana questo si chiama vendetta, non difesa. A più
riprese gli scienziati ci hanno avvertiti che è in gioco la soprav-
vivenza della specie umana. E noi stiamo qui a questionare se al
soldato sia lecito o no distruggere la specie umana?”.
Il processo si chiude in prima istanza con l’assoluzione di don
Milani. Ma su ricorso del Pubblico Ministero viene riaperto, e lo
scritto di don Milani è condannato il 28 ottobre 1968.
Quando la notizia della condanna giunse a Barbiana, i suoi ragaz-
zi corsero da don Milani. Il Priore riposava ormai da sedici mesi
nel suo camposanto, sul Mugello grande. Era morto il 27 giugno
1967, a 44 anni, divorato dalla leucemia e dalla cattiveria di tante
persone perbene.
159
DON LUIGI GIUSSANI, PRETE
Collocazione storica (1922-2005)
Patronati
Si ricorda come Fondatore di Comunione e Liberazione
La vita in un frammento “L’educatore affida qualcosa di se stesso alla creatività dell’altro”
Cenni biografici I ragazzi sul pianerottolo
Nel febbraio 2004, papa Giovanni Paolo II scrive una lettera cor-
diale e fraterna a don Luigi Giussani. Lo ringrazia a nome della
Chiesa dei 50 anni di attività tra i giovani per la diffusione della
fede cristiana. Quella lettera metteva il sigillo papale all’opera di
don Gius (come lo chiamavano i suoi ragazzi), che non sempre
aveva raccolto simpatie all’interno della Chiesa. Perché la lettera
del Papa era stata scritta nel febbraio 2004?
Me lo narrò lui stesso.
Nel febbraio 1954 ero insegnante di Religione al liceo Berchet. E
notai, durante un intervallo, che si riuniva su uno dei pianerottoli
delle scale un gruppo di ragazzi. Parlavano tra loro affiatati e in-
fervorati, ogni giorno sempre gli stessi. Chiesi chi fossero, e mi fu
risposto: i comunisti. La cosa mi colpì. Mi domandai: “E come
mai i cristiani non sono almeno altrettanto capaci di quell’unità
che Cristo indica come la più immediata e visibile tra le caratte-
ristiche di chi crede in lui?”. Tornavo a casa rimuginando questo
fatto, incollerito di quella incapacità. Per strada (potrei citare il
nome della via) raggiunsi quattro ragazzi che parlavano tra loro.
Chiesi loro: “Siete cristiani?” Un po’ straniti della domanda ina-
spettata, mi risposero “Sì”. “Ah, siete cristiani” risposi io “E in
scuola chi si accorge che lo siete? Nelle assemblee scolastiche
sono presenti e lottano soltanto i comunisti e i fascisti. E i cri-
stiani?”. La settimana dopo, questi quattro si presentarono in
assemblea, e fecero un intervento cominciando con le parole:
“Noi cristiani...”. Da quell’istante, in quella scuola, per dieci
anni almeno, non ci fu argomento più infuocato che la Chiesa e il
Cristianesimo.
In quei dieci anni, dal 1954 al 1964, don Gius fu insegnante di
Religione in quel liceo, e attorno a lui nacque il movimento che
fu chiamato “Gioventù Studentesca”. Ma nel 1968 tutto entrò in
crisi. Don Gius non era più insegnante di Religione. “Gioventù
Studentesca” si lasciò travolgere dalla contestazione sociale
violenta.
Nasce “Comunione e Liberazione”
Dal 1964 don Giussani è docente di Introduzione alla Teologia al-
l’Università Cattolica di Milano. E dice, con quel suo linguaggio
denso: “Feci quel che potevo per contribuire a ricoagulare liceisti,
universitari, persone adulte, a tenerli fedeli all’essenza del fatto
cristiano, accompagnandoli per la strada dura e umile del distacco
dall’immediato fluire degli avvenimenti. Un vasto impegno so-
ciale e politico sarebbe stato opportuno ed autentico soltanto in
160
forza di un maturo sviluppo della propria identità cristiana”. Alla
fine del 1969 questo movimento nuovo comincia a chiamarsi
“Comunione e Liberazione” (CL). “È un movimento ecclesiale il
cui scopo è: l’educazione cristiana matura dei propri aderenti; la
collaborazione alla missione della Chiesa in tutti gli ambiti della
società contemporanea. Nasce dalla convinzione che l’avveni-
mento cristiano, vissuto nella comunione, è il fondamento del-
l’autentica liberazione dell’uomo”.
Il nocciolo del Cristianesimo
Sono stato a intervistare don Giussani nella piccola casa in cui
aveva residenza, in una via quasi periferica di Milano. Ho pre-
muto il campanello e lui mi ha ricevuto in uno stanzino povero
e piccolo, reso ancora più piccolo da scaffali e pile di libri. Ha
risposto a tutte le mie domande con la sua voce cartavetrata.
Gli domandai, tra il resto, come gli era venuta l’idea di farsi prete.
E lui mi ricordò sua madre, con cui camminava nella penombra
dell’alba per recarsi alla messa mattutina. Vedendo l’ultima stella
del mattino che brillava mentre spuntava l’aurora, a un tratto som-
messamente esclamò: “Com’è bello il mondo, e com’è grande
Dio!”.
Mi ricordò suo padre, socialista anarchico, che lo aveva educato
a chiedersi sempre il perché delle cose, e che stimava profonda-
mente i preti.
“Sono entrato in Seminario che avevo appena 10 anni. Non so
come. Mi era venuta quell’idea. La mia famiglia aveva molta
stima dei preti, forse perché, grazie a Dio, nella nostra parrocchia
di Desio c’erano state figure di preti eccellenti. Quella decisione
fu come un seme iniziale che si sviluppò lentamente ma inesora-
bilmente. Non ho mai avuto momenti di desiderio di ritorno”.
Gli domandai quale era per lui l’identità del prete, e lui: “Per me e
per ogni prete è la consapevolezza di essere Cristo che continua la
sua missione”.
Gli posi a un tratto la domanda-chiave, che doveva farlo pronun-
ciare su un punto in cui molti cristiani di valore non erano d’ac-
cordo con lui. Gli dissi: “Diversi cristiani le rimproverano di avere
un piglio da Cristoforo Colombo: come lui ha scoperto l’America,
lei ha scoperto l’essenza del Cristianesimo. Che cos’è per lei l’es-
senza, il nocciolo del Cristianesimo?”. E lui sorridendo: “È una
grossa malignità quella che dicono. Io non ho scoperto niente. Il
Vangelo è lì, aperto da 2000 anni, per dire a tutti che cos’è il Cri-
stianesimo. Il nocciolo del Cristianesimo è l’“avvenimento”. Due-
mila anni fa, in una singola persona, Dio ha cominciato a cammi-
nare accanto all’uomo. Ecco l’avvenimento. Il divino ha comin-
ciato ad essere compagnia quotidiana dell’uomo. All’inizio questo
avvenimento era uno, una persona singola, Gesù Cristo. Ma Cristo,
nel tempo e nello spazio, si è dilatato, è diventato un popolo: ecco
l’avvenimento che continua nella storia. Ci sono in giro due grossi
equivoci sull’essenza del Cristianesimo. Il primo è vederlo come
una ‘dottrina’, e quindi come un apprendimento teologico. Questa
161
riduzione intellettualistica favorisce a ridurre il Cristianesimo a
una delle tante religioni nate dall’uomo. Non è più l’avvenimento
determinato da Dio che è entrato nella storia umana. È una reli-
gione e basta. Il secondo equivoco è il ‘moralismo’. Il Cristiane-
simo ridotto a suggerimenti di determinati atteggiamento morali,
magari riguardanti la sessualità, o riguardanti la giustizia sociale.
L’atteggiamento etico-morale è una conseguenza del Cristiane-
simo, ma non è il Cristianesimo”.
I rami robusti
Attualmente CL è presente in circa 70 Paesi di tutti i continenti.
Non c’è nessun tesseramento, ma solo la libera partecipazione.
Strumento fondamentale di formazione è la catechesi settimanale
chiamata “Scuola di comunità”.
Dal tronco di CL, con lo scorrere degli anni, nascono rami robu-
sti. A metà degli anni ’70 nascono i primi gruppi di “Fraternità di
CL”: sono ex universitari che desiderano approfondire, attraverso
una vita in comunione, l’appartenenza alla Chiesa dentro le
responsabilità della vita adulta. La “Fraternità” verrà dichiarata
nel 1982 “Associazione di Diritto Pontificio”.
Verso la fine degli anni ’70 si afferma sempre più la “Scuola di
Comunità”, come momento fondamentale di incontro e di cate-
chesi.
Nel 1980 si svolge la prima edizione del “Meeting per l’amicizia
tra i popoli” a Rimini. La kermesse si ripete ogni anno fino a oggi,
radunando migliaia e migliaia di persone da tutti i Paesi del mondo,
altissime autorità, gesti artistici e culturali di grande qualità.
A metà degli anni ’80 la presenza di CL nelle Università si con-
cretizza con proposte di aiuto: alle matricole nell’orientarsi nello
studio, agli studenti nell’aiutarli nel cercare alloggio, e a tutti con
varie iniziative culturali e sociali.
Nel 1985 inizia la “Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San
Carlo Borromeo”. Sarà riconosciuta “Società apostolica di diritto
pontificio” nel 1999.
Nel 1986 giovani laureati e adulti di CL danno vita a una “inizia-
tiva nel solco della Dottrina Sociale cattolica”. È la “Compagnia
delle Opere”.
Nel 1988 viene riconosciuta come associazione privata di diritto
pontificio “Memores Domini”. Essa raccoglie aderenti a CL che
scelgono di dedicarsi totalmente a Dio vivendo un cammino di
castità, povertà e obbedienza.
Don Gius va incontro a Dio nella sua modestissima abitazione
di Milano il 22 febbraio 2005.
162
TERESA DI CALCUTTA, BEATA
Collocazione storica (1910-1997)
Patronati
Si ricorda come Fondatrice delle Missionarie della Carità
La vita in un frammento “Per aiutare i poveri non venite a Calcutta. La vostra Calcutta cer-
catela lì dove vivete”
Cenni biografici Agnes frequentava la parrocchia, e a 15 anni entrò nel gruppo
“Sodality”. Nelle riunioni leggevano le vite dei santi e le vicende
dei missionari, e decidevano le “opere buone” da fare lungo la
settimana.
La ragazzina era nata il 26 agosto 1910 a Skopje, in una famiglia
albanese. Papà e mamma le avevano comunicato una fede cri-
stiana robusta e serena.
Una domenica pomeriggio, il gruppo parrocchiale di Agnes si in-
contrò con alcuni missionari arrivati dal Bengala. “Ci descrissero
in modo meraviglioso le loro esperienze con gli indiani, special-
mente i bambini” ricordava Madre Teresa.
Da quel giorno cominciò a pensare che, tra quei missionari,
avrebbe potuto esserci anche lei. Si confidò col parroco, che
tagliò corto: “Pensaci. Intanto continua a far bene la catechista tra
i bambini”.
Al compimento del 18° anno, Agnes disse al parroco: “Ci ho
pensato tre anni. Ho proprio voglia di partire missionaria”. Lui le
rispose: “Se la tua è vera vocazione di Dio, devi sentire un senso
di gioia profonda”. “Lo sento, disse Agnes, anche se ho un po’
di paura a dirlo a mia mamma”. Quando glie lo disse, la donna
rimase esitante. Poi la raggiunse in camera sua ed ebbero un
lungo colloquio. Pregarono insieme. Le ultime parole che mamma
Loke le disse prima di uscire dalla stanza furono: “Metti la tua
mano nella mano di Gesù, e seguilo fino in fondo”.
Chiede di essere accettata dalle “Suore di Loreto” che lavorano
nel Bengala (vastissima regione est dell’India, gravitante attorno
all’immensa città di Calcutta).
Il suo itinerario è: Dublino (presso la Casa Madre delle Suore),
per imparare bene l’inglese; Daryeeling, ai piedi dell’Himalaya
per i due anni di noviziato; Calcutta, scuola di Entally.
Qui arriva dopo aver cambiato il nome civile “Agnes” in quello
religioso “Teresa”. Da questo momento sarà per tutti “Madre
Teresa”. Diventa insegnante di catechismo, geografia e storia.
Da 2 a 4 milioni di morti
Ma la grande città di Calcutta, nel corso degli anni, fu devastata
da molti, tristi avvenimenti.
Nel 1941, durante la terribile guerra tra Giappone e Inghilterra-
Stati Uniti, Calcutta fu bombardata.
Nel 1942 ci fu una grave carestia in tutta la regione intorno.
La gente si rovesciò a Calcutta. Cercava cibo e moriva di fame.
I morti furono da due a quattro milioni. Le ragazze venivano alla
163
scuola delle suore con lo stomaco gonfio di acqua, l’unica cosa
che le madri davano loro come colazione. Svenivano in classe.
Madre Teresa, diventata direttrice della scuola, girò molte volte
per la città in cerca di cibo, ma si trovava ogni volta circondata
da folle misere, lebbrosi, mamme con bimbi morenti in braccio,
ammalati febbricitanti distesi sui marciapiedi. Tornava dicendo
alle consorelle: “C’è Gesù che agonizza su ogni marciapiede della
città”.
Negli anni seguenti, crebbero come funghi mostruosi nella città
gli slums, le baraccopoli dove vivevano e morivano i sottopoveri.
A centro metri dalla scuola iniziava lo slum di Motijheel: un
insieme di baracche tenute in piedi a forza di fango, paglia e juta.
Bambini giocavano tutti nudi, testine rasate e piedini nello scolo
della fogna. Intere famiglie avevano trasformato alcuni metri qua-
drati nella loro casa. Il braciere era la loro cucina, uno straccio
serviva di giorno da stuoia, di notte da coperta, quando si scate-
nava il monsone da parapioggia.
Nello slum vivevano sani accanto ai lebbrosi, vivi accanto ai
morenti. I bambini erano numerosi come le mosche, e morivano
come le mosche.
Madre Teresa si sentì chiamata da Dio ad uscire dalla sua scuola
e a mettersi per le strade a servire con le sue mani i più poveri,
i lebbrosi, i moribondi. Chiese il permesso alla sua Superiora,
all’Arcivescovo, e dopo aver imparato alcune nozioni di medicina
e di pronto soccorso, nel 1948 andò negli slums.
La veste normale delle donne indiane è il sari, una striscia di
stoffa lunga sei metri, che nella forma più povera è cotonina
bianca con qualche ornamento di colore sui bordi. Madre Teresa
decide di vestirsi così, con bordi colorati d’azzurro. Cominciò con
una scuoletta. In uno spiazzo tra le capanne avvicinò sorridendo
alcuni bambini. E propose loro: “Giochiamo?”. Con il loro aiuto
sgombrò lo spiazzo dai rifiuti e disse: “Giochiamo all’alfabeto”.
Non aveva lavagna, gesso, banchi. Con un bastoncino tracciò
sulla terra, cantilenando, alcune lettere dell’alfabeto bengalese. E
i bambini accoccolati intorno, vinti dal suo sorriso, cantilenarono
insieme con lei. Poi con altri bastoncini rigarono anche loro la
terra, imitando i disegni della suora. Col permesso delle mamme,
Madre Teresa li portò poi dove c’era dell’acqua pulita, e li fece la-
vare ben bene, tra spruzzi e risate. Poi disse una breve preghiera,
che i piccoli ascoltarono con la mani giunte davanti alla faccia,
all’indiana. Nei giorni seguenti il numero dei bambini aumentò
sempre più. Per il pasto di mezzogiorno la Madre si portava il
“tiffin”, il panino-pasto di mezzogiorno dei poveri. Nel pomerig-
gio si sedeva accanto a qualche malato, entrava in qualche capan-
na, aiutava le mamme a far pulizia e a lavare i bambini. In pochi
giorni ebbe moltissimi amici.
La sua prima lebbrosa
Quasi subito incontrò il parroco della zona. Scrisse: “Si mostrò
molto contento di vedermi. E a prova della sua stima mi diede
164
cento rupie”. Con quella buona somma di denaro “ho preso in af-
fitto due stanze per dieci rupie al mese da adibire rispettivamente
a scuola e a dispensario”. Era il 27 dicembre 1948.
Nella stanza-scuola si ammucchiarono i suoi scolaretti. Nella
stanza adibita a dispensario, il 14 gennaio 1949 ospita la sua
prima lebbrosa. Scrisse: “Che spettacolo terribile. La famiglia
l’ha cacciata a causa della malattia. Dato che non ha più le dita,
cucinare le riesce molto difficile”.
Appena si sparge la voce che vicino alla scuoletta di Madre
Teresa funziona anche un dispensario, i malati arrivano a decine,
fanno lunghe code. Tra le ragazze che erano sue scolare nelle
scuola delle suore, la voce si sparse veloce come il vento: “Madre
Teresa è andata nello slum. Vive tra i poveri e i lebbrosi”. E capitò
ciò che nessuno aveva previsto.
Qualcuna disse: “Vado anch’io”. La prima fu Subashini Das, una
ragazza piccolina dagli occhi luminosi. Aveva sentito Madre
Teresa dire tante volte: “Gesù è in agonia nei poveri. Dobbiamo
fare qualcosa per Lui”. Das arrivò il 19 marzo, due mesi soltanto
dopo che Madre Teresa aveva cominciato a “fare qualcosa per
Gesù in agonia”.
Due settimane dopo arrivò una seconda sua alunna, Magdalena
Pattin, seguita quasi immediatamente da una terza e una quarta:
Dorothy e Mary Margaret.
Il padre gesuita, Van Exem, che seguiva l’azione di Madre Teresa
per ordine dell’Arcivescovo, capì che stava cominciando qualcosa
di grande, e trovò un alloggio per la Madre e le prime quattro
alunne in una casa del cristiano Michel Gomes.
Mese dopo mese, in silenzio il gruppetto si ingrandiva. Dovettero
darsi un nome, e si chiamarono “Missionarie della carità”. Ogni
volta che l’alba rigava i vetri delle finestre, le prime Missionarie
della Carità partecipavano alla santa Messa di padre Van Exem,
e poi sciamavano per gli slums.
Si moltiplicavano le scuolette e i dispensari. Madre Teresa gui-
dava un terzetto di suore con un carretto. Si fermavano ad ogni
deposito di immondizie. Frugavano, e spesso trovavano qualche
fagottino vivo, palpitante: un neonato che una mamma aveva
abbandonato perché incapace di nutrirlo. Li portavano nei loro
dispensari, dove avrebbero strillato e succhiato il latte delle ca-
prette, comprate e allevate proprio per questo.
La casa dei morenti e quella dei bambini
Gli anni scorrono, e i centri-rifugio iniziati da Madre Teresa si
moltiplicano.
Nell’agosto 1953, l’ufficiale sanitario Ahmad mette a disposi-
zione due saloni presso le rive del Gange, perché la Madre vi
ricoveri i lebbrosi e i morenti che raccoglie in città. Sono saloni
destinati ai pellegrini del vicino tempio della dea Kalì, e i fanatici
indù fanno una mezza rivolta. Ahmad dice calmo: “Mandate vo-
stra madre a curare i moribondi, e noi manderemo via la suora”.
Nessuno si presenta e la Madre è lasciata in pace. Essa ribattezza
165
il luogo Nirmal Hriday (Luogo dei cuori puri). Vi appende un
Cristo crocifisso con le gambe mutilate e un cartello: Let My
Hands Heal Thy Broken Body, Lascia che le mie mani curino il
tuo corpo spezzato.
Dopo aver aperto il rifugio per i morenti, Madre Teresa aprì la
“Casa dei Bambini”, che in hindi fa “Shishu Bhavan”. Lo aprì al
n. 78 di Circular Road, vicinissimo alla Casa Madre delle Missio-
narie della Carità che esse avevano aperto, dopo essere state ospiti
dei Gomes per due anni. I bambini sono sempre stati la delizia
di Madre Teresa, che li chiamava “il sorriso di Dio”.
“Shishu Bhavan è una casa allegramente caotica – scrive la Zam-
bonini che ha vissuto lì qualche giorno –. La animano gli strilli
dei neonati, le grida dei bambini più grandicelli che si rincorrono
nei cortili, l’affaccendarsi delle ragazze incinte cacciate dalle fa-
miglie e qui accolte in attesa di partorire; l’arrivo di coppie senza
figli che chiedono di adottare un bambino... Funziona da pronto
soccorso, centro di accoglienza dei neonati abbandonati, farmacia
diurna e notturna, mensa popolare, ufficio per le pratiche del-
l’adozione, consultorio di maternità”.
Nel 1961 Madre Teresa cominciò a realizzare un sogno che aveva
accarezzato a lungo: portare i lebbrosi fuori della città, tra il
verde, con casette preparate per loro e le loro famiglie, campi da
coltivare, laboratori dove esercitare un mestiere, centri sanitari
specializzati: una cittadella tutta per loro.
Ci vollero sette anni di fatica e di denaro per strappare dalla
giungla la splendida cittadella che si ammira oggi. Sono in piena
attività le scuole, i laboratori di tipografia, meccanica e falegna-
meria. Ci sono piccole fabbriche di scarpe e sandali, di garze e
cotonina per sari (le Missionarie comprano qui i loro sari).
Mentre gli anni passavano, le Missionarie aprivano centri in tutto
il mondo: dagli Stati Uniti al Vaticano.
Nel 1979 fu assegnato a Madre Teresa di Calcutta il Nobel per la
pace.
Nel 1986, dandole la mano, entrò nella “Casa dei morenti” di Cal-
cutta il papa Giovanni Paolo II, si mise un grembiule e imboccò
con lei i lebbrosi.
Dio le venne incontro il 5 settembre 1997. Aveva detto ai giovani
di tutto il mondo: “Non venite a Calcutta. La vostra Calcutta cer-
catela lì dove vivete”.
166
PADRE ERMINIO GIOVANNI CRIPPA, PRETE
Collocazione storica (1921-2000)
Patronati
Si ricorda come Fondatore dell’API-COLF
La vita in un frammento “Pregherò per quelle che pregano,pregherò per quelle che non
pregano. In fondo non ho amato che voi non sono vissuto che per
voi.”(rivolgendosi alle COLF e alle assistenti domiciliari nel suo
testamento spirituale)
Cenni biografici L’Italia nella guerra e nel dopoguerra
Negli anni 1941-42-43 l’Italia, gettata nella seconda guerra mon-
diale, ha soldati che muoiono sui fronti dell’Africa, della Russia,
della Grecia.
Le sue città sono sottoposte a massicci bombardamenti. Per tutti
aumenta la povertà, la scarsità del cibo.
Nel seminario minore dei Padri Dehoniani, a Pagliare (Ascoli
Piceno), c’è un giovane educatore di vent’anni, intelligente e ga-
gliardo, che in mezzo ai giovanissimi seminaristi diffonde allegria,
ottimismo. Anche se il pane è scarso, con lui i ragazzi ridono, gio-
cano e studiano.
Erminio Giovanni Crippa (questo è il suo nome) ha la straordi-
naria abilità di trasmettere agli altri la cultura con chiarezza ed
entusiasmo, riuscendo a suscitare sempre interesse nei suoi ascol-
tatori. Nel 1945 la guerra finisce.
Erminio diventa sacerdote nel 1947, e cerca di vivere con cristia-
no ottimismo quel tempo durissimo. L’Italia uscita dalla guerra si
trova in una situazione disastrosa sia dal punto di vista materiale
sia dal punto di vista morale.
I marciapiedi brulicano di ragazzi orfani di guerra e “figli della
guerra” (soldati americani o tedeschi avevano avuto “storie d’a-
more” con ragazze italiane sfinite dalla fame, attirate più dalle
stecche di cioccolato e dalle scatolette di carne che dall’amore.
Con la fine della guerra, i soldati erano tornati in patria, le ragazze
si erano trovate con in braccio un figlio che non sapevano come
mantenere). I “figli della guerra”, insieme agli orfani, sono finiti
sulla strada. Cattiva maestra, la strada.
Davanti a questa situazione, padre Enrico Agostini dello Studen-
tato Missioni di Bologna lancia l’idea di fondare accanto allo Stu-
dentato un centro che accolga quei ragazzi, e con scuole e labora-
tori offra loro la possibilità di costruirsi un avvenire sicuro. L’idea
è bella, ma i soldi mancano. Mentre si inizia con fiducia nella
Provvidenza il “Villaggio del fanciullo”, padre Crippa è inviato
per due volte in America, a raccogliere fondi. Ha imparato un
inglese fluente parlando con i soldati americani, ed ha una ma-
niera di avvicinare la gente che suscita simpatia ed entusiasmo.
Torna entrambe le volte con fondi molto consistenti. Il Centro può
presto ospitare un centinaio di ragazzi e prepararli in “Scuole di
Arti e Mestieri” ad essere fabbri, falegnami, meccanici, tipografi,
odontotecnici.
167
Le ‘serve’ venute dalla campagna
Padre Crippa fu nominato Direttore dell’opera per sei anni. Ma
il tempo degli “orfani di guerra” con gli anni passava, e invece le
richieste per ospitare orfani non diminuivano, anzi si moltiplica-
vano e giungevano da tutta l’Italia.
Padre Crippa esaminò con attenzione e delicatezza la situazione,
e si accorse che diversi ragazzini accolti come orfani, sono in
realtà figli “irregolari” di ragazze che a quel tempo venivano
chiamate “serve” o “domestiche”. Ragazze di 12-14 anni, prove-
nienti dalla campagna o dalle montagne, venivano messe a servi-
zio presso fattori di campagna o notabili di città. “Ragazze sarde,
trentine, friulane, bergamasche, calabresi e siciliane – scrive Gio-
vanni Celi – lasciavano le loro case per vivere nella solitudine af-
fettiva, di scarso o nessun livello scolastico e si lasciavano tentare
alla prima dimostrazione di affetto. Spesso, ad abusarne, erano gli
stessi datori di lavoro o i figli di questi ultimi.
Da una statistica del 1956 risulta che a Roma su 90 ragazze
madri nell’età compresa tra i 18 e i 29 anni, 64 lavoravano come
“domestiche”, e quasi tutte erano analfabete e provenienti da
fuori città.
Ispirandosi al suo Santo fondatore, Leone Dehon, padre Crippa
si sentì spinto a dedicarsi appena possibile a sradicare la causa
sociale che creava gli orfani a cui si stava dedicando. Finiti i sei
anni di direzione del “Villaggio”, padre Crippa con l’appoggio dei
suoi Superiori dedicò gli anni 1956-57 a studiare le condizioni
delle “domestiche” girando in lungo e in largo l’Italia, e visitando
i “Gruppi-ACLI-Domestiche” (GAD). Le sue conclusioni princi-
pali furono: 1) bisogna partire dall’istruzione, l’ignoranza è la
madre di tutte le schiavitù; 2) è necessario risolvere il problema
psicologico che fa delle “domestiche” delle persone di serie B;
3) è necessario che siano le “domestiche” ad assumersi respon-
sabilità di autopromozione, sganciandosi da ogni paternalismo e
senza delegare ad altri i loro problemi.
Nel volumetto che pubblicò,Perché ci muoviamo, indicò con chia-
rezza le mete verso cui bisognava camminare: albo professionale
per dare dignità professionale; competenza; assistenza sociale per
pensione e assistenza mutualistica (cose impensabili per quegli
anni).
Nominato vice-assistente nazionale delle ACLI, si dedicò comple-
tamente alle lavoratrici della casa, che dal 1964 poterono abban-
donare definitivamente l’appellativo di “serve” e di “domestiche”
per quello di Collaboratrici Domestiche (COLF). La lotta contro
l’ignoranza, padre Crippa la iniziò decisamente con due corsi di
6 giorni ciascuno a Cevo di Valsaviore per il nord, e a Pompei per
il sud. Argomenti: Storia del movimento operaio - Nozioni fonda-
mentali della Dottrina Sociale della Chiesa - Come vincere la
claustrazione dovuta alla “convivenza” con i datori di lavoro
- Spiritualità nel lavoro della Colf - Solidarietà tra le Colf - Pro-
getti di legge per cambiare la situazione e arrivare a un Contratto
Nazionale di Lavoro.
168
Corsi di alfabetizzazione per le etiopi
Grande e insostituibile appoggio nella sua missione a favore delle
Colf, padre Crippa lo trovò nella collaborazione delle Suore, in
particolare delle Religiose di Maria Immacolata, delle Figlie di
Maria Ausiliatrice, delle Suore Francescane. Queste ultime ten-
gono a Milano i primi corsi di alfabetizzazione per le donne etiopi
ed eritree.
In campo legislativo la prima legge in favore delle Colf è appro-
vata il 2 aprile 1958: il rapporto tra datore di lavoro e Colf è non
di semplice esecuzione materiale di lavoro come in fabbrica, ma
di fiducia, con tutte le conseguenze legali. Seguono le conquiste
della pensione, della tutela contro le malattie e degli assegni fami-
liari.
Quando nel 1971 le ACLI (sotto il pontificato di Paolo VI) attra-
versano un periodo di crisi, le dirigenti delle Colf si riuniscono e
l’11 novembre costituiscono l’API-COLF (Associazione Profes-
sionale Italiana delle Collaboratrici Familiari). Essa viene rico-
nosciuta come Associazioni Ecclesiale dalla CEI, e padre Crippa
viene nominato Primo Consulente Ecclesiastico di essa. Lo sarà
fino al 1991, al compimento del 70° anno di età.
Sotto la sua “consulenza” vengono firmati i primi Contratti Col-
lettivi di Lavoro delle Colf. Il momento più grande l’API-COLF
lo vive il 29 aprile 1978. In occasione del loro Decimo Con-
gresso, novemila Colf sono ricevute da Papa Giovani Paolo II che
parla loro ricordando le tappe del cammino dell’Associazione
verso il pieno riconoscimento della loro dignità umana e cristiana.
Padre Crippa continua a scrivere articoli, libri, e anche dispense
che vengono utilizzate nelle scuole professionali della sua Asso-
ciazione. Insignito dal Papa con la medaglia d’oro come Beneme-
rito della Chiesa, padre Crippa passa gli ultimi anni nella Casa
Serena dell’Associazione, assistito amorevolmente dalle sue col-
laboratrici. Nel suo testamento spirituale scrive:
“Il Sacro Cuore sia la pietra del mio riposo.
Le Colf e le assistenti domiciliari siano
come sono state in vita scritte nel mio cuore,
siano certe che ogni mattino le benedirò dal cielo
e guarderò nelle famiglie dove lavorano.
Pregherò per quelle che pregano
pregherò per quelle che non pregano.
In fondo non ho amato che voi,
non sono vissuto che per voi”.
Padre Erminio Giovanni Crippa andò incontro a Dio il 24 aprile
2000.
169
CARLO URBANI, MEDICO
Collocazione storica (1956-2003)
Patronati
Si ricorda come Volontario dei medici senza Frontiere e dell’Organizzazione mon-
diale della Sanità
La vita in un frammento “La maggior parte dei bambini del mondo aspettano un piatto
di riso. Qui da noi aspettano l’ultimo Game Boy. Cresceranno
così i nostri figli?”
Cenni biografici Il coronavirus della SARS
Nel 2001 Carlo Urbani, vicepresidente internazionale di “Medici
senza frontiere”, vive con la sua sposa e i tre figli ad Hanoi
(Vietnam). È stato nominato “esperto” per l’Oriente dall’Organiz-
zazione Mondiale della Sanità (OMS), quella catena invisibile
e inestimabile che circonda il pianeta Terra, e lo difende dalle epi-
demie dovunque esse sorgano.
Carlo è stato nominato “esperto per la regione del Pacifico occi-
dentale”, e assiste Vietnam, Laos e Cambogia nella lotta contro le
malattie parassitarie che fanno silenziose stragi di bambini.
Negli ultimi giorni del febbraio 2003 risponde a una chiamata del-
l’ospedale di Hanoi. I medici segnalano la presenza di un malato
colpito da un virus sconosciuto, con sintomi simili all’influenza.
Carlo si reca all’ospedale e visita subito il paziente. Non ha il
virus dell’influenza, e neppure quello della polmonite. Si tratta di
una malattia nuova, strana. Carlo osserva il malato giorni e giorni,
documenta ogni suo cambiamento e soprattutto organizza i con-
trolli in tutto l’ospedale. Deve contrastare questa strana malattia
che tende a diffondersi con rapidità.
Finalmente la identifica: è una forma atipica di polmonite, epi-
demica, diffusa da un coronavirus ribelle a ogni antibiotico. La
SARS (come egli la chiama) può costituire una seria minaccia per
la popolazione della Terra se non viene rapidamente isolata. Mette
con urgenza in allerta l’OMS. Mentre altri focolai della SARS
vengono segnalati a Hong Kong, nelle province interne della
Cina, a Taiwan, a Singapore e in Canada. L’ospedale vietnamita
di Hanoi, dove lavora Carlo Urbani, su sua richiesta viene posto
totalmente in quarantena. Misure immediate vengono prese negli
aeroporti internazionali. In molte parti del mondo si diffonde
il panico. L’epidemia mortale viene bloccata grazie a una catena
strettissima di sorveglianza, specialmente negli aeroporti dove tutti
i passeggeri devono sottoporsi a visita medica. Carlo Urbani non
può rallegrarsene.
Colpito dallaSARSche ha individuato per primo,muore a Bangkok
il 29 marzo.
L’agenzia ANSA lancia il primo flash alle 12,50 del 29 marzo
2003: “Virus misterioso: medico italiano morto a Bangkok -
Un medico di 46 anni, Carlo Urbani, originario di Castelplanio
(Ancona), è morto questa mattina per una sospetta polmonite ati-
pica. Il medico si trovava sul luogo per conto dell’Organizzazione
170
Mondiale della Sanità. Da una decina di giorni si stava occu-
pando proprio della sindrome SARS”.
Nelle redazioni dei giornali si esamina la cartina dell’Umbria per
trovare questo paese, Castelplanio, 1500 abitanti tra centro e fra-
zioni sparse nella Vallesina. I giornalisti salgono lassù per cercare
notizie di questo “sconosciuto Carlo Urbani”. Il sindaco, alle loro
domande, risponde: “Il dottor Urbani è un nostro compaesano. Ha
dedicato se stesso alla causa dei più poveri e più deboli. Siamo or-
gogliosi che una persona come lui abbia fatto sapere al mondo
che esistono dei bravi italiani. I tre figli del medico, Tommaso,
Luca e Maddalena, sono già da due settimane qui a Castelplanio.
Stanno bene. Dopo l’inizio della malattia, non hanno più rivisto il
padre. La moglie Giuliana arriverà lunedì, e poco dopo un aereo
porterà in Italia la salma di Carlo”.
“Avevo 15 anni quando mi sono innamorata di lui”
I rintocchi lenti delle quattro campane della chiesa annunciano,
nel mattino di mercoledì 2 aprile, il ritorno del dottore che ha
girato il mondo per aiutare gli ultimi. Durante l’austero funerale,
la moglie Giuliana dice dal pulpitino anche a nome dei figli:
“Carlo ci ha insegnato che la vita, quella di tutti, va rispettata.
Ringrazio Dio di avermi fatto incontrare un marito come lui”.
Accompagnato dal piccolo organo che Carlo suonava da giovane,
il coro che lui aveva messo insieme canta parole che Carlo ha
scritto sulla carta e detto con la vita: “Che cosa resterà di te? Ciò
che hai seminato: un pane condiviso e dato in povertà”.
Una decina di giorni dopo, tornato tutto alla calma, Giuliana
Chiorrini racconta suo marito Carlo, con pudore: “Avevo quindici
anni quando mi sono innamorata di lui. Ma lo conoscevo da
sempre, perché qui in centro a Castelplanio eravamo 350 abitanti.
E Carlo organizzava tutto, dai campeggi alla raccolta di medici-
nali per Mani tese, dalla squadra di pallavolo alle vacanze per
bambini handicappati, mi piaceva, e a quindici anni ho capito che
anche lui cominciava a interessarsi di me. Era il 1980. Lui era già
‘grande’, aveva 24 anni, stava finendo l’università. Io avevo
appena cominciato le magistrali a Fabriano per diventare maestra
alla scuola materna. Non stava fermo un attimo. Organizzava il
coro in chiesa e suonava l’armonium, dirigeva il giornalino del
nostro gruppo. Per farla corta, mi sono innamorata. Non era bel-
lissimo, ma era davvero un tipo interessante. Mi piaceva la sua
voglia di essere utile, di darsi da fare. E allo stesso tempo, sembra
incredibile, riusciva a essere schivo, a non mostrarsi. Un amore
a Castelplanio non si può tenere nascosto. Per questo Carlo ha
cominciato a venire a casa mia, come fidanzato. Era un ragazzo
serio, ma sapeva vivere momenti di gioia intensa, condividendola.
Si emozionava davanti a un tramonto. E voleva che io fossi lì
con lui, per vivere insieme quel momento bello. Ci siamo sposati
l’8 ottobre 1983”.
Intanto Carlo si è laureato ad Ancona (1981) e specializzato in
malattie infettive e tropicali a Messina (1983).
171
Volontario in Europa
Nel 1987 nasce il primo figlio, Tommaso. Carlo è medico di base
a Castelplanio e specialista in malattie infettive ad Ancona.
In quello stesso 1987 ottiene il consenso di Giuliana e si reca per
un mese come medico volontario in Etiopia. Torna con una forte
impressione, che giorno dopo giorno comunica a Giuliana: “La
maggior parte dei bambini del mondo aspettano un piatto di riso.
Qui da noi aspettano l’ultimo Game Boy. Cresceranno così i no-
stri figli?”. Cominciò a collaborare con Medici senza frontiere.
Ferie e tempi di riposo passati con loro in Africa. “Tornava stanco
ma realizzato” ricorda Giuliana. Ma non viveva “con la testa al-
trove”. “Quando era qui ce l’avevo solo per me. Con i bambini
era un padre bravissimo”.
Nel 1995 Giuliana dà alla luce il secondo figlio, Luca.
Nel 1996 Carlo confida a Giuliana: “Se partissimo tutti insieme,
sarebbe utile anche per i nostri figli vedere che il mondo non
è solo Castelplanio, e che molti bambini non hanno un pugno
di riso per saziare la fame. Diventerebbero più sensibili, intelli-
genti...”. “E così – conclude Giuliana –, alla fine siamo partiti”.
1996-1997, missione per un anno in Cambogia, a Phnom Penh.
Tommaso ha 9 anni, Luca poco più di uno. Tommaso va alla
scuola francese. Nella capitale della Cambogia la vita è poveris-
sima. Nella casetta non hanno la TV. “Si viveva con poco eppure
si stava bene”.
Tornando a Castelplanio, Tommaso parla francese fluente, ha
mille cose da raccontare, e Carlo viene nominato presidente dei
MSF italiani.
Nel 1999, come vice-presidente internazionale, va a ritirare il
Nobel per la Pace assegnato ai MSF.
6 gennaio 2000. Mentre Carlo e Giuliana, davanti alla chiesa
di Castelplanio, insieme a decine di bambini liberano nell’aria
palloncini bianchi e colorati con un messaggio di pace, arriva
l’invito. Tre anni ad Hanoi con la famiglia, come “responsabile
dell’OMS contro le malattie parassitarie per Vietnam, Laos e
Cambogia”.
Giuliana dà alla luce Maddalena il 6 maggio. All’inizio di giugno
Carlo parte. Due mesi dopo lo segue Giuliana con i figli. “La casa
è molto bella – scrive Giuliana di laggiù –. Tommaso e Luca fre-
quentano scuole francesi, Maddalena è all’asilo nido vietnamita,
e parla solo in vietnamita!”.
Anni di lavoro duro, di vita piena e serena. Nel 2003 si pensa al
rientro in Italia. Invece arriva la SARS, Carlo riesce a dare l’allar-
me al mondo e muore.
Ciò che resta di lui ritorna in volo Bangkok-Roma, poi in un’au-
toambulanza dei MSF sulla piazzetta della chiesa di Castelplanio,
dove ci sono tanti amici che piangono e battono le mani.
172
ANNALENA TONELLI, VOLONTARIA
Collocazione storica (1943-2003)
Patronati
Si ricorda come Volontaria missionaria laica
La vita in un frammento “Volevo solo seguire Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così
fortemente: Lui e i poveri in Lui”
Cenni biografici I bassifondi della sua città
Iniziò dedicandosi ai bambini del brefotrofio della sua città, Forlì.
Annalena Tonelli era una fresca ragazza di 19 anni dagli occhi az-
zurri, in quel 1962. E per sei anni lavorò così, con un gruppo di
amiche, mentre si laureava in legge all’Università di Bologna.
Scriverà: “Ero ancora una bambina quando scelsi di essere per gli
altri: i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati. Così sono
stata e confido di continuare ad essere. Volevo solo seguire Gesù
Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in
Lui”.
Poi cominciò a pensare ai poveri del Terzo Mondo. Davanti ai
bambini che la guardavano con occhi immensi e doloranti dalle ri-
viste missionarie, dai telegiornali, si sentì in colpa di stare troppo
bene. Fondò con le sue amiche, coinvolgendo tutte le parrocchie
di Forlì, il “Comitato per la lotta contro la fame nel mondo”, e co-
minciò a preparare la sua partenza per l’Africa. I suoi familiari
non erano d’accordo, ma lei stava per compiere 25 anni, e non le
pareva di fare “un colpo di testa”. Era il 1968 quando partì.
Molti giovani dell’occidente sentivano in quegli anni il disagio di
vivere in un mondo troppo ingiusto, troppo spaccato tra ricchi e
poveri. Scaricavano il disagio in assemblee, cortei, sparatorie per
le strade, attentati terroristici. Lei lo scaricò salendo su una nave e
recandosi a vivere tra quei Somali che vivevano nel nord-est del
Kenya, una popolazione straziata dalla fame.
Scriverà: “Dio mi aveva portato lì, e vi rimasi nella gioia e nella
gratitudine. Ero partita decisa a gridare il Vangelo con la vita sulla
scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esi-
stenza”. Lo griderà per 35 anni.
Cominciò come insegnante nella missione di Karima. Salvatore
Baldazzi, missionario della Consolata, aveva dato vita a una
“Città delle ragazze” (Girl’s Town), per ragazzine rese orfane
dalla carestia e dalla guerra.
In quello stesso anno dall’Italia giunse Maria Teresa, anche lei cri-
stiana decisa a spendere la vita per Gesù e per i poveri. Annalena e
Maria Teresa iniziarono a vivere insieme, formando una micro-
comunità. Voleva curare gli ammalati, ma era laureata in legge e
non in medicina. Diventò così insegnante. Dedicava parte del suo
tempo allo studio della lingua locale, alle tradizioni di quel popolo.
Si lasciò coinvolgere dall’insegnamento, convinta che la cultura è
forza di liberazione. I suoi alunni avevano più o meno la sua età.
All’inizio diffidavano di lei perché era donna (quindi non degna né
di ascolto né di rispetto),bianca (quindi di razza inferiore),cristiana
173
(temuta perché i cristiani cercano di rubarti la fede in Allah), e poi
non sposata in un mondo in cui la verginità è un non-valore.
S’innamorò di un bambino che stava morendo
In pochi giorni cambiarono atteggiamento. E in pochi mesi furono
concentrati sui programmi, con puntuali interrogazioni ed esami.
I risultati furono molto buoni, tanto che vari studenti di allora
oggi occupano importanti posti nei ministeri governativi e nelle
attività private del Paese.
Nei primi giorni in cui faceva l’insegnante, Annalena conobbe un
bambino che stava morendo di sickle cell (anemia falciforme) e
fame. “Me ne innamorai – scrisse –. Giurai a me stessa che l’avrei
salvato. Gli donai il sangue e supplicai gli studenti di fare altret-
tanto. Uno di loro lo donò, e dopo di lui tanti altri, vincendo le
chiusure di un mondo che ignorava la solidarietà. Quel bambino
fu salvato dal nostro amore”.
Era il tempo di una grave carestia. Vide tanta gente morire di
fame. Dopo il primo bambino, attorno a lei se ne raggrupparono
altri quattordici. Non sapevano cos’era una “straniera”. Avevano
fame di cibo e di affetto, e Annalena glie ne dava. I bambini orfa-
ni continuavano ad arrivare. Tra essi c’erano malatini che avevano
bisogno di cure urgenti.
Pur continuando ad insegnare, Annalena e Maria Teresa aprirono
un “Centro” di cura e riabilitazione per bambini ciechi, sordi,
epilettici, poliomielitici... Scrisse alle sue amiche romagnole che
nel Centro c’era bisogno di medicine, ma c’era soprattutto biso-
gno di “mamme”. Arrivarono.
La micro-comunità si allargò accogliendo cinque ragazze che ave-
vano lasciato tutto per diventare “mamme a tempo pieno”.
Poi Annalena scoprì i tubercolotici, rifiutati e abbandonati da tutti.
La tubercolosi è presente da secoli in mezzo ai Somali. Pratica-
mente, tutto quel popolo ha i germi della malattia, ma solo in poche
persone si sviluppa. Annalena ne scoprì una vera colonia nell’ospe-
dale di Wajir, un villaggio del Nord Est, e divenne la loro madre.
Non sapeva niente di medicina, ma presto avrebbe conseguito i
diplomi di “controllo della tubercolosi” a Nairobi e di medicina
tropicale in Inghilterra. Dopo aver conseguito il primo diploma a
Nairobi, cominciò a passare all’ospedale di Wajir molto tempo.
Quelli che erano alla fine, volevano morire stringendole la mano.
Nel 1976 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) chiese
ad Annalena di diventare la responsabile di un progetto-pilota per
la cura e il controllo della tubercolosi in mezzo ai nomadi malati
di tubercolosi. Essi cominciarono ad arrivare con la carovana dei
cammelli. Smontavano le stuoie, le corde, e costruivano le capan-
ne per farsi curare.
“Noi abbiano la fede, voi avete l’amore”
Fu il capolavoro dell’amore di Annalena e delle sue compagne.
Il metodo inventato da loro chiamato DOTS (Breve Terapia sotto
Diretta Osservazione) è stato diffuso in tutta l’Africa.
174
Annalena ricordava: “Fu una grande avventura d’amore, un dono
di Dio. Contemporaneamente lavoravo nel Centro per i bambini
assieme alle mie compagne che si erano unite a me, tutte volon-
tarie senza stipendio, tutte per i poveri e per Gesù Cristo. Era-
vamo una famiglia. Accoglievamo ogni bambino da curare, riabi-
litare, e creature particolarmente ferite: ciechi, sordomuti, handi-
cappati fisici e mentali. I bambini crescevano con noi, mamme a
tempo pieno. Fu grazie al ‘Centro per i bambini’ che la gente co-
minciò a dire che forse anche noi, io e le mie compagne, saremmo
andate in Paradiso. Un vecchio capo, che ci ammirava molto, sen-
tenziò: Noi musulmani abbiamo la fede, voi avete l’amore. Do-
vremo fare come fate voi”.
Nel 1984 le autorità tentarono di commettere un genocidio a
danno di una tribù di nomadi del deserto. 50mila persone dove-
vano sparire nel nulla. Un migliaio fu eliminato subito. A questo
punto, Annalena si mise in contatto con i giornali e la BBC. Narrò
tutto, ci furono corrispondenze indignate sui grandi giornali del
mondo, e il genocidio cessò. Ma Annalena era ormai sulla lista
nera. Sfuggì miracolosamente a due attentati. Fu aggredita e pic-
chiata. Poi venne arrestata e portata davanti a un tribunale mili-
tare. Era il 1986, e fu espulsa dal Kenya. Oltrepassò il confine,
andò verso nord, e finì per stabilirsi a Borama, nel Somaliland,
uno stato pieno di gente somala non riconosciuto dall’ONU.
Ricominciò da capo, con una scuoletta di alfabetizzazione. Poi la
scuola si aprì ai bambini malati: sordi, ciechi, epilettici. Divenne
anche un piccolo ospedale. Annalena chiedeva all’OMS e veni-
vano specialisti che eliminavano cataratte, e i bambini tornavano
a vedere, intervenivano su otiti trascurate, e i bambini tornavano a
sentire. Gli epilettici (creduti indemoniati) venivano portati in ca-
tene, sporchi dei loro escrementi. Dopo giorni di cure e di amore,
si liberavano loro stessi dalla catene, cominciavano a lavarsi,
prendevano da soli i farmaci e poco alla volta tornavano normali.
La gente venerava Annalena.
Ma giunse il maledetto 11 settembre 2001 con l’abbattimento
delle torri gemelle di New York. Seguirono i maledetti bombarda-
menti americani sull’Afghanistan. Il clima verso i bianchi cambiò
radicalmente. Anche Annalena fu additata dai fondamentalisti
islamici come “diavolo bianco”.
In quel clima avvelenato, un ragazzo armato di fucile entrò nel-
l’ospedale e le sparò tre colpi alla testa. Annalena aveva 60 anni.
Era il 5 ottobre 2003.
175
Capitolo 4
Il pensiero dei Papi
Davanti alle situazioni disumane create dalla Rivoluzione industriale, le
persone oneste si ribellano. Mentre si attende che gli Stati intervengano con leggi
che stabiliscano una maggior giustizia sociale in campo cattolico, laici, preti e
vescovi (non tutti però) danno vita a migliaia di iniziative di “pronto intervento” e
di “protesta”. Ne cito alcune.
Nel 1833 il giornalista cattolico Ozanam dà vita a Parigi alle “Conferenze di
San Vincenzo”. Negli anni seguenti l’arcivescovo di Parigi, Mons. Affre, organizza
i suoi preti in aiuto dei lavoratori. Nel 1841 (come abbiamo detto) don Bosco e con
lui il Murialdo e altri sacerdoti aprono a Torino oratori, case, scuole, mense per i
giovani lavoratori. Nel 1842 il vescovo di Spira (Renania) interviene pesantemente
presso le autorità politiche perché affrontino la situazione. Nel 1845 il vescovo
di Annecy in Savoia (dove è aperto il più grande cotonificio del Regno) denuncia a
Carlo Alberto le “condizioni disumane dei lavoratori”.
Emmanuel W. Ketteler, vescovo di Magonza dal 1850 e deputato al Parla-
mento tedesco, chiama il suo governo a discutere un complesso di leggi in favore
dei lavoratori, che vanno dal diritto di unione degli operai al diritto di sciopero,
dalla proibizione del lavoro in fabbrica per fanciulli e donne all’assistenza medica
gratuita. Nel 1871 nasce in Francia l’Opera dei circoli operai. In Belgio A. Porter
crea le basi della Dottrina sociale cristiana con famose lezioni universitarie sui
diritti degli operai. Dal 1884 l’Unione internazionale di Friburgo (Svizzera) orga-
nizza Congressi scientifici per promuovere scambi di idee e di esperienze sociali
fra i cattolici dei vari Paesi. Negli USA si affermano i Knights of labour, associa-
zione operaia cattolica che tutela i diritti dei lavoratori. Nel 1890, in Germania,
nasce il Volksverein di F. Brandts, una delle più solide organizzazioni operaie
cristiane dell’Europa.
Accanto ai cristiani agiscono socialisti, comunisti e anarchici. La prima enun-
ciazione violenta delle loro intenzioni è il Manifesto dei comunisti scritto da
K. Marx nel 1848, che comincia con le parole: “Proletari di tutto il mondo,
unitevi!”. L’ideologia marxista-comunista sarà la base della disastrosa esperienza
della rivoluzione comunista. Essa inizierà nel 1917 nella Russia ad opera di Lenin
e si estenderà a quasi metà del mondo.
Molti cattolici, che lavorano tumultuosamente per la giustizia sociale, sentono
sempre più la necessità di coordinare la loro azione e il loro pensiero. Molti
Vescovi pensano che per fissare le linee-guida dei cristiani occorra un intervento
ufficiale del Papa.
176
1. LEONE XIII. IL PAPA DELLA RERUM NOVARUM
A Roma è papa Gioacchino Pecci, che porta il nome di Leone XIII. Egli è nato
a Carpineto Romano (Roma) dalla famiglia dei conti Pecci. Avviato al sacerdozio e
alla carriera diplomatica, viene ordinato prete a 27 anni, consacrato Vescovo e
inviato come Nunzio Apostolico in Belgio nel 1843 a 33 anni.
In Belgio rimane tre anni. Deve risolvere intricati problemi diplomatici. Ma
“pesano non poco nella maturazione del futuro pontefice i problemi della miseria
operaia, e la conoscenza diretta dell’azione politica e sociale condotta dai cattolici
nella vita politica del loro Paese” (F. Malgeri in Dizionario Biografico degli Italiani).
Richiamato in Italia e fatto Arcivescovo di Perugia, “la sua preoccupazione
principale fu di preparare un clero capace di affrontare i nuovi compiti che i muta-
menti politici e sociali imponevano”. La rivoluzione industriale, che aveva inve-
stito le nazioni occidentali e anche l’Italia del Nord, per decenni non toccò il
Centro e il Sud italiani, perché in essi non nacque nessuna industria. Solo intorno al
1870 si cominciò ad intravedere per tutta la penisola un futuro industriale. In quegli
anni (1870-78), gli ultimi che passò a Perugia come Arcivescovo e Cardinale,
Gioacchino Pecci “manifestò particolare attenzione ai problemi sociali e alla
questione operaia”.
Nel 1878 muore Pio IX, e Gioacchino Pecci diviene Papa col nome di Leone
XIII. I problemi che deve affrontare sono molto spinosi, primo fra tutti quello dello
Stato Pontificio, che è stato conquistato dall’esercito italiano nel 1870. Leone XIII
(da più di mille anni) è il primo Papa che non ha un territorio proprio, che si sente
“prigioniero” in quella Roma che per tanti anni è stata la città del Papa. Il primo
problema che lo assorbe è l’“indipendenza” del Papa.
Poi, tra le tante questioni che sono sottoposte alla sua attenzione, c’è la “que-
stione operaia”. Il Papa deve pronunciarsi? O deve lasciare il compito di coordinare
l’azione sociale dei cattolici ai Vescovi delle singole nazioni? Papa Leone esamina
a lungo, forse troppo a lungo il problema. Consulta gli studiosi della questione
sociale, i Vescovi e gli uomini della Chiesa che sono sui luoghi della battaglia
sociale (i cardinali Manning e Newman inglesi, il cardinale Gibbons statunitense,
i cardinali Zigliara e Mazzella italiani, il gesuita padre Liberatore, gli studiosi laici
delle Scuole Cattolico-Sociali di Liegi e di Friburgo). Leone XIII si convince che il
problema drammatico della giustizia sociale è ormai un problema che coinvolge
tutto il mondo occidentale. E il Papa deve intervenire come capo della Chiesa
universale.
1.1. Rerum Novarum
Il 15 maggio 1891 Leone XIII pubblica l’enciclica (= lettera papale) Rerum
Novarum, che ha nel mondo un’eco vastissima. L’enciclica traccia in maniera
decisa la strada per la quale i cattolici si batteranno per la giustizia sociale. È la
sintesi dell’azione e del pensiero sociale che i cattolici hanno elaborato e seguito
177
negli ultimi 50 anni, ed è il primo documento che presenta ufficialmente la
Dottrina Sociale della Chiesa. Ne faccio qui una breve sintesi.
Il Papa inizia delineando la squallida condizione dei fratelli proletari, e le
colpe dei padroni disumani: “Un piccolissimo numero di straricchi ha imposto uno
stato di quasi schiavitù all’infinita moltitudine dei proletari” (RN 2).
Passa quindi a indicare i principi e i fondamenti della giustizia sociale. Ecco
i sei principi fondamentali:
1) Tutti gli uomini hanno diritto alla proprietà privata di beni economici. Ma
la proprietà privata ha una “funzione sociale”: opportune leggi devono far sì
che la ricchezza non sia concentrata nelle mani di pochi, ma sia al servizio
di tutta la società.
2) I Cristiani condannano il collettivismo e il socialismo che vogliono abolire la
proprietà privata, e la vogliono abolire con la violenza. La proprietà privata
deve rimanere come garanzia della dignità di ogni persona.
3) Il lavoro umano non è una merce che come le altre merci si può vendere e
si può comprare. Il capitalismo che sostiene una simile idea, riduce l’uomo
a livello degli animali. Il lavoro è un’espressione della persona umana, e la
ricompensa di questo lavoro deve dare all’uomo la possibilità di vivere come
persona, dotata di una famiglia, di bisogni culturali e spirituali.
4) Il compito dello Stato non è solo quello di proteggere la proprietà privata, ma
anche quello di tutelare le classi più deboli, con una legislazione sociale che
impedisca ogni sfruttamento della persona umana.
5) Quando l’azione degli individui e delle società private non è sufficiente a pro-
teggere la famiglia, l’infanzia, la moralità pubblica, lo Stato deve intervenire
per una efficace azione preventiva.
6) I Cristiani condannano la lotta di classe, ma riconoscono il diritto dei lavora-
tori a riunirsi in associazioni per difendere i loro diritti e rivendicare una vita
più umana e più giusta.
Destarono una grande impressione le parole con cui il Papa illustrava il
3° principio: “Dei capitalisti, poi, e dei padroni, questi sono i doveri: non tenere gli
operai in luogo di schiavi, rispettare in essi la dignità dell’umana persona, nobili-
tata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede non è il lavoro che
degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere con l’opera pro-
pria onestamente; quello che è veramente indegno dell’uomo è di abusarne come di
cosa a scopo di guadagno. (...) Defraudare la dovuta ricompensa è colpa così
enorme che grida vendetta davanti a Dio. Ecco, la ricompensa degli operai... che fu
defraudata da voi, grida. E questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli
eserciti (Gc 5,4). Da ultimo è dovere dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi
dell’operaio né con violenza né con frodi né con usure palesi o nascoste; questo do-
vere è tanto più rigoroso, quanto è più debole e mal difeso è l’operaio e più sacro-
santa la sua piccola sostanza” (RN nn. 17-18).
178
Centro di tutta la Rerum Novarum è “il rispetto dell’uomo e della sua dignità”.
Sarà sempre il centro della Dottrina Sociale della Chiesa.
1.2. Sette encicliche e un libro sviluppano il messaggio di Leone XIII
Nei 100 anni che seguirono la Rerum Novarum, man mano che mutavano i
tempi e le situazioni, i Papi scrissero sette nuove encicliche sociali. Esse aggiorna-
vano e sviluppavano il messaggio di Leone XIII. Indicavano ai cristiani nuove vie
per continuare a promuovere i diritti del lavoro e dei lavoratori.
Il 15 maggio 1931 Pio XI pubblicò Quadragesimo anno.
Giovanni XXIII pubblicò Mater et Magistra il 15 maggio 1961.
Paolo VI pubblicò Populorum progressio il 26 marzo 1967 e Octogesima
adveniens il 14 maggio 1971.
Giovanni Paolo II pubblicò tre encicliche sociali: Laborem exercens (1981),
Sollicitudo rei socialis (1987), Centesimus annus (1991).
La Rerum Novarum e le sette encicliche sociali che l’hanno seguita costitui-
scono la “Dottrina Sociale della Chiesa”. Essa è condensata nel libro pubblicato
dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace: “Compendio della Dottrina
Sociale della Chiesa”, (Libreria Editrice Vaticana, 2004).
Nelle pagine che seguono, presento le figure dei due ultimi Papi, Giovanni
Paolo II e Benedetto XVI. Poi, dal Compendio della Dottrina Sociale, trascriverò
in linguaggio facilissimo, il fondamentale capitolo sesto, “Il lavoro umano”.
2. GIOVANNI PAOLO II. IL PAPA CHE FU OPERAIO
1940, secondo anno della devastante seconda guerra mondiale. La Polonia è
occupata dalle armate tedesche di Hitler.
Lo studente universitario Karol Wojtyla (20 anni) lavora alla cava di pietre di
Zakrzòwek. Scriverà: “Per evitare la deportazione in Germania, nell’autunno del
1940 cominciai a lavorare come operaio in una cava di pietre collegata con la fab-
brica chimica Solvay gestita dai tedeschi. Ricordo il ritmo uguale dei martelli, le
scariche elettriche che tagliavano le pietre... Ero presente quando, durante lo
scoppio di una carica di dinamite, le pietre colpirono un operaio e lo uccisero. Ne
rimasi profondamente sconvolto. Sollevarono il corpo, da lui ancora emanava fa-
tica e un senso di ingiustizia”. Vide poco dopo la moglie distrutta dal dolore, il viso
attonito del loro bambino.
Karol aveva perso sua madre quando aveva 9 anni. Il 18 febbraio 1941, una
giornata di freddo polare, “tornando dal lavoro trovai mio padre morto... Lo
scoppio della guerra mi aveva sradicato dagli studi e dall’ambiente universitario.
La morte di mio padre mi staccò dall’ultima persona della mia famiglia. Mi sentivo
sradicato dal terreno sul quale fino a quel momento era cresciuta la mia umanità. E
in quei momenti si manifestava sempre più una luce: il Signore vuole che diventi
179
sacerdote. Era come un’illuminazione interiore, che portava in sé la gioia e la sicu-
rezza di una vocazione. Questa consapevolezza mi riempì di una grande pace inte-
riore”.
Il suo Arcivescovo, Adam Sapieha, punto di riferimento per la gente sofferente
della sua città, lo accettò tra i suoi seminaristi clandestini. Gli consigliò di conti-
nuare il lavoro da operaio, e contemporaneamente lo inserì in una rete di studi (con
un professore che gli faceva scuola nel tempo libero) e di aiuto cristiano ai ricercati
dai tedeschi, rifugiati nei sotterranei dell’Arcivescovado.
Nella notte del 18 gennaio 1945 i russi “liberarono” Cracovia dai tedeschi.
Sapieha disse a Karol: “Ti ordinerò prete al più presto. Poi ti manderò a Roma a
studiare per due anni presso il Papa”.
2.1. A imparare l’italiano dai ragazzini di Roma
L’ordinazione sacerdotale avvenne il 1° novembre 1946. In quello stesso no-
vembre don Karol partiva per Roma. Andava a imparare teologia nei grandi atenei
romani, e lingua italiana negli oratori della città. Quella lingua popolare e scanzo-
nata che gli sarebbe servita un giorno, quando si sarebbe affacciato alla balconata
di San Pietro, divenuto Papa Giovanni Paolo II.
La Polonia è in quegli anni schiacciata dall’Armata Rossa e da un governo co-
munista e ateo, imposto dalla Russia.
Don Karol torna in patria nel 1949.
Nel 1951 (ha 31 anni) si laurea e abilita all’insegnamento presso l’Università
di Cracovia. Subito diventa insegnante nel seminario della sua città. Nel 1954
(mentre il governo arresta sacerdoti e vescovi, e condanna il cardinale Wyszynski
a residenza coatta) come libero cittadino concorre e vince la cattedra di filosofia
all’Università di Lublino. Il suo successo tra gli studenti universitari è notevole.
Quel suo “sereno entusiasmo di essere prete” calamita intorno a lui molti giovani.
A Cracovia diventa assistente degli studenti e dei laureati.
Nel settembre 1958 don Karol (38 anni) è fatto Vescovo ausiliare di Cracovia.
Diventa rapidamente il Vescovo dei giovani e dei lavoratori. Organizza venti centri
di vita cattolica studentesca, frequentati da 15 mila giovani. Il programma è
intenso: studio serio della Bibbia, severe giornate di ritiro e di preghiera, tempo
libero dedicato a gare sportive sui campi verdi, sui monti, sui laghi.
Nell’ottobre 1962 il Vescovo Wojtyla è a Roma con tutti i Vescovi del mondo
per iniziare il Concilio Vaticano II, che rinnoverà il volto della Chiesa. Quando
compie 43 anni, il Papa lo nomina Arcivescovo di Cracovia. Quando ne compie 47
lo fa Cardinale. Karol è uno dei più giovani Cardinali della Chiesa.
Quando ha una giornata libera, la passa coi giovani. Quando lo fanno Cardi-
nale e gli chiedono che regalo vuole, risponde: “Se proprio volete, compratemi un
nuovo sacco a pelo. Quello che uso è tutto strappato”.
Nel 1978 muoiono due Papi: Paolo VI in agosto, Giovanni Paolo I (che gli è
appena succeduto) in settembre.
180
2.2. Papa Giovanni Paolo II
La sera del 16 ottobre Karol Wojtyla viene eletto Papa, ha 58 anni e prende
il nome di Giovanni Paolo II. Alla folla che gremisce piazza San Pietro e al miliardo
e mezzo di persone che lo guardano sugli schermi della televisione quasi grida:
“Aiutate il Papa a servire l’uomo e l’umanità intera. Non abbiate paura! Aprite, anzi
spalancate le porte a Cristo. Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i
sistemi economi come quelli politici, i vasti campi della cultura, della civiltà, dello
sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa ‘cosa è dentro l’uomo’. Solo lui lo sa”.
Nel giugno del 1979, con il permesso concesso di malavoglia dal governo
comunista, il Papa fa il suo primo viaggio in Polonia, la sua patria. È un trionfo per
lui e per i cristiani: da un Paese oppresso per 34 anni dal comunismo ateo che ha
cercato con ogni mezzo di sradicare la fede cristiana, è venuto il nuovo Papa, e le
folle cristiane della Polonia gli decretano un trionfo oceanico, seguito in televisione
da tutto il mondo. Per il comunismo è un colpo mortale. Dirà Gorbaciov, ultimo
presidente della Russia comunista: “Tutto ciò che è accaduto nell’Europa dell’Est
in questi ultimi anni (cioè il crollo inaspettato del comunismo) non sarebbe stato
possibile senza la presenza di questo Papa”.
Da questo momento la vita del Papa si riempie di avvenimenti previsti e non
previsti. Con una serie di 248 viaggi in 129 nazioni diverse, porta la parola di Gesù
in gran parte del mondo.
Il 21 maggio 1981, in Piazza San Pietro, il misterioso Alì Agca gli spara tre
colpi di rivoltella. Il Papa rimane in fin di vita per diverso tempo. Organizzato dai
servizi segreti dell’Est, quell’attentato è ancora avvolto nel mistero, ma molti vi
hanno letto l’estremo tentativo del comunismo di eliminare il suo grande nemico.
Nel novembre 1989 insieme a tutto il mondo occidentale, il Papa vede in tele-
visione la demolizione del “muro di Berlino”, inizio dello sgretolamento del comu-
nismo in tutti i Paesi dell’Est, tra cui la sua Polonia. Un operaio di Mosca davanti
alle telecamere, agita un cartello dove è scritto il motto di Marx corretto dopo 141
anni: “Proletari di tutto il mondo, perdonateci!”.
Il Papa vede però con pena nascere in Occidente, dopo la minaccia del comu-
nismo, un consumismo egoista e pagano che cerca di “materializzare” il mondo,
mentre i più poveri e i più deboli sono emarginati.
2.3. Sette orizzonti per l’umanità
Nel centenario della Rerum Novarum, Giovanni Paolo II scrive l’enciclica
Centesimus annus, in cui richiama energicamente i cristiani e tutte le persone di
buona volontà a realizzare un ordine nuovo di giustizia sulla Terra.
La Centesimus annus (1991) è la terza enciclica sociale di Giovanni Paolo II.
L’hanno preceduta la Laboren exercens (1981) e la Sollecitudo rei socialis (1987).
In queste tre encicliche, specialmente nella terza, il Papa spinge la famiglia umana
verso sette nuovi orizzonti. Eccoli:
181
1) Giustizia sociale. La produzione economica non è il bene supremo. Il bene
supremo è la dignità della persona umana. Occorre quindi preoccuparsi dei
bisogni di tutti: disoccupati, malati, handicappati, masse miserabili del Terzo
Mondo. Questo è, per i Cristiani e le persone di buona volontà, il nuovo con-
cetto di “giustizia sociale”.
2) Solidarietà. La grande famiglia umana è una. Siamo membri del grande corpo
dell’umanità: o funzioniamo tutti insieme o non funzioniamo affatto. Dob-
biamo quindi considerare gli interessi di tutti come “nostri interessi”. Questo
significa “sentirsi solidali”.
3) Destinazione universale delle risorse terrestri. Dalla solidarietà, pensata spe-
cialmente alla luce della fede (che ci dichiara fratelli) deriva la destinazione
universale delle risorse a disposizione di tutta l’umanità. Alla luce di questo
principio, le risorse non-rinnovabili della Terra (il petrolio, il patrimonio
forestale, l’acqua del mare, l’aria dell’atmosfera) devono essere considerate
patrimonio di tutta l’umanità. È un’idea audace, ma la sola che può salvare il
mondo da catastrofi future.
4) Scelta preferenziale della Chiesa per i poveri. Fondata sulla tenerezza speciale
di Gesù e dei profeti per i poveri, ripresa nel Concilio Vaticano II, questa
preferenza non significa esclusione di nessuno, ma un’attenzione concreta e
speciale verso i fratelli e le sorelle più fragili.
5) Promozione della pace. La Dottrina Sociale della Chiesa non si riduce ai pro-
blemi economici e sociali. Solo una pace giusta può garantire la vita umana
sulla Terra. La Chiesa contemporanea riconosce il diritto alla legittima difesa,
ma sottolinea con vigore che la guerra è il mezzo più barbaro e più inefficace
per risolvere i conflitti. Occorrono mezzi non violenti: negoziati, mediazione
dell’ONU.
6) Dignità di ogni essere umano. La Chiesa cattolica si impegna con ogni energia
alla difesa dei diritti umani, contro ogni forma di razzismo, di violenza, di
sfruttamento.
7) Ecologia. L’ecologia è diventata una delle più grandi preoccupazioni del
mondo. Quando Dio ha detto alle prime persone umane: “Sottomettete la terra”
(Genesi 1,28), non ha detto “Distruggetela”. Ha detto “Governatela, gestitela”.
Qualunque altra interpretazione è aberrante. Dobbiamo non solo salvaguardare
la Terra, ma trasmetterla migliorata alle generazioni che seguiranno.
Nelle meravigliose “Giornate mondiali della gioventù”, Giovanni Paolo II
radunò intorno a sé milioni di giovani, a Manila e a Parigi, a Roma e a Toronto.
Disse loro: “Voi siete la nuova generazione del mondo. Voi lo costruirete nella
giustizia e nell’amore”.
Scosso, e negli ultimi tempi devastato dal morbo di Parkinson, sentì dal letto
dove moriva i canti e le chitarre dei “suoi” giovani affollati in piazza San Pietro,
e sorrise per l’ultima volta. Poi, raccolto in Dio, disse in un soffio brevissimo
182
“Amen”. Terminava così una vita simile a una preghiera, durata 85 anni. Era la sera
del 2 aprile 2005.
3. BENEDETTO XVI. GUARDIAMO AI SANTI
Joseph Ratzinger nacque a Marktl am Inn, paesino della Baviera, il 16 aprile
1927. Il giorno dopo era domenica di Pasqua, e fu battezzato solennemente nella
chiesa parrocchiale. Era il terzo figlio di Joseph, commissario della gendarmeria, e
di Maria Peintner (italiana altoatesina), che lavorava come cuoca ed aveva una fede
cristiana solida come le montagne. Fece lei per prima scuola di catechismo a
Georg, Maria e Joseph, i suoi tre bambini.
Joseph scriverà: “Ricordo sempre con grande affetto la profonda bontà di mio
padre e di mia madre, bontà che significa anche capacità di dire ‘no’, perché una
bontà che lascia correre tutto non fa bene”.
Quando il papà viene trasferito per motivi di lavoro nella cittadina di Traun-
stein, sul confine dell’Austria, la famiglia lo segue. Joseph ha 11 anni quando il go-
verno della sua nazione, in mano al dittatore nazista Hitler, scatena la prima clamo-
rosa persecuzione contro gli ebrei. Il ragazzino rimase sbigottito davanti alle deva-
stazioni portate senza motivo contro i negozi degli ebrei. Scriverà: “La Chiesa era
il luogo delle nostre speranze. Essa era il polo di opposizione all’ideologia distrut-
tiva della dittatura nazista”.
Nel 1939, a dodici anni, Joseph entra nel Seminario minore. Gli è nato nel
cuore il desiderio di diventare prete.
Nello stesso anno, il 1° settembre, Hitler getta la Germania (di cui la Baviera è
una regione) nella Seconda guerra mondiale. I primi mesi vedono vittorie brillanti
dell’esercito tedesco, ma poi le cose cambiano. Nel 1943 la Germania subisce
sconfitte pesanti sul fronte russo, e i soldati tedeschi uccisi sono un numero
enorme. Hitler ordina l’arruolamento dei giovanissimi.
Joseph Ratzinger ha appena compiuto i 16 anni quando in Seminario arriva
anche per lui l’ordine di arruolamento. Deve presentarsi “nel cortile davanti alla
scuola per essere trasportato insieme agli altri al posto di combattimento”. Riceve
la divisa militare ed è assegnato alla difesa antiaerea. Per due anni il giovanissimo
Joseph Ratzinger lavora come soldato nelle retrovie.
Nell’aprile del 1945 la Germania di Hitler vive gli ultimi giorni prima della
sconfitta. Joseph, ferito, ha una grossa bendatura al braccio. È molto vicino a casa,
e poiché nessuno gli dà ordini, decide di tornare in famiglia.
Pochi giorni dopo i soldati americani occupano la Baviera. Rastrellando le case
arrestano il soldato Ratzinger e lo portano in campo di prigionia tra il filo spinato.
Vi rimane solo per 15 giorni, poi torna in famiglia ringraziando Dio di aver
attraversato la guerra senza aver mai dovuto sparare un colpo. Nel novembre di
quel 1945 è di nuovo in Seminario, a riprendere i suoi studi.
183
Viene ordinato Sacerdote il 29 giugno 1951, a 24 anni.
Continua gli studi di teologia all’Università di Frisinga, dove si laurea nel
1953 e raggiunge la libera docenza nel 1957. Nei vent’anni seguenti (1957-1977)
ha una vita serena di docente universitario e di scrittore di libri di teologia. Rivela
un’intelligenza profonda e ordinata, un talento veramente raro. Nel 1959 è chia-
mato a insegnare all’Università di Bonn, e il Cardinale di Colonia lo chiama a
partecipare, come suo “consigliere teologico”, al Concilio Vaticano II. Dal 1966
insegna alla famosa e antica Università di Tubinga, e dal 1969 a quella di Rati-
sbona. Diventa uno degli ingegni più conosciuti e ammirati in Germania. Il suo
libro “Introduzione al Cristianesimo” diventa il catechismo degli intellettuali che
vogliono avvicinarsi seriamente alla religione cristiana.
Papa Paolo VI, negli anni del Concilio, ha ammirato la sua intelligenza pro-
fonda e ordinata. Vicino alla morte, vuole mettere nei punti chiave della Chiesa per-
sone sagge e sicure nella fede. Nel 1977, un anno prima di morire, nomina Joseph
Ratzinger Arcivescovo di Monaco di Baviera, e un mese dopo lo crea Cardinale.
Per Ratzinger, uomo di studio che ormai ha compiuto 50 anni, è una nomina
inaspettata e una responsabilità completamente nuova. Tuttavia obbedisce. Monaco
è una diocesi con un milione e mezzo di cristiani, e Ratzinger sarà il loro Arci-
vescovo a servizio pieno.
Nell’agosto-settembre del 1978 muoiono a Roma due Papi: Paolo VI e Gio-
vanni Paolo I. Ratzinger partecipa a entrambi i conclavi. La sera del 16 ottobre
viene eletto il Cardinale di Cracovia Karol Wojtyla, che prende il nome di Gio-
vanni Paolo II.
Nel 1981 il nuovo Papa chiama Ratzinger a dirigere l’organismo più delicato
del governo centrale della Chiesa: la Congregazione per la difesa della fede. Dopo
soli quattro anni deve lasciare i cristiani di Monaco, con cui ha ormai stretti vincoli
di amicizia. Ma come sempre obbedisce al Papa e si trasferisce a Roma.
Per 24 anni egli vive a fianco del Papa, e lo aiuta nel compito più importante di
ogni successore di Pietro: essere maestro nella fede di tutti i cristiani del mondo.
Accenno all’opera principale che in questo campo compie Ratzinger. Dopo il Con-
cilio Vaticano II (terminato nel 1965) è rimasta una certa confusione nella mente di
molti fedeli. Su molte verità della fede, ci sono dei teologi che pensano e insegnano
cose diverse. Il peccato originale, l’Immacolata Concezione della Madonna, l’in-
fallibilità del Papa, la presenza reale di Gesù nell’Eucarestia, e tante altre verità,
persino la Risurrezione di Gesù che nella Sacra Scrittura è detta “fondamento della
nostra fede”, sembrano diventati argomenti di libera discussione.
3.1. Il Catechismo della Chiesa Cattolica
Il Cardinale Ratzinger, in stretta collaborazione col Papa, raduna silenziosa-
mente il parere di tutti i Vescovi del mondo (i Successori degli Apostoli), presiede
una commissione di teologi esperti e saggi, e traccia con loro il Catechismo della
Chiesa Cattolica, dove ogni verità della fede è annunciata e insegnata con l’auto-
184
rità del Papa. È un lavoro formidabile, che confluisce in un libro di 788 pagine e
viene pubblicato nel 1992. Da questo momento, chiunque voglia sapere che cosa
insegna la fede cristiana sull’Eucarestia, la Madonna, il Giudizio di Dio, il Para-
diso, lo Spirito Santo, il matrimonio, la sofferenza... trova la risposta nelle pagine
del Catechismo della Chiesa Cattolica, ordinate dall’intelligenza profonda e lim-
pida del cardinale Ratzinger.
Giovanni Paolo II, dopo un lungo pontificato durato 25 anni, si spegne il
2 aprile 2005. Il Cardinale Ratzinger, che ha ormai 77 anni, partecipa al terzo con-
clave della sua vita, e viene eletto Papa il 19 aprile 2005.
Prende il nome di Benedetto XVI, e si presenta ai cristiani di tutto il mondo
con queste semplici parole: “Dopo il grande Papa Giovanni Paolo II, i signori
cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”.
È il 265° Papa nella storia della Chiesa.
3.2. Il punto sulla Dottrina Sociale
Nella sua prima enciclica, “Dio è amore”, pubblicata nel Natale 2005, ha dedi-
cato alcune pagine a fare il punto sulla Dottrina Sociale della Chiesa. Ecco la pagina
principale:
Il sorgere dell’industria moderna ha dissolto le vecchie strutture sociali e con la massa
dei salariati ha provocato un cambiamento radicale nella composizione della società,
all’interno della quale il rapporto tra capitale e lavoro è diventato la questione decisiva,
una questione che sotto tale forma era prima sconosciuta. Le strutture di produzione e
il capitale erano ormai il nuovo potere che, posto nelle mani di pochi, comportava per le
masse lavoratrici una privazione di diritti contro la quale bisognava ribellarsi.
È doveroso ammettere che i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente
che il problema della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo.
Non mancarono pionieri: uno di questi fu, ad esempio, il Vescovo Ketteler di Magonza.
Come risposta alle necessità concrete sorsero pure circoli, associazioni, unioni, federa-
zioni e soprattutto nuove Congregazioni religiose, che nell’Ottocento scesero in campo
contro la povertà, le malattie e le situazioni di carenza nel settore educativo.
Nel 1891 entrò in scena il magistero pontificio con l’Enciclica Rerum Novarum di Leone
XIII. Vi fece seguito, nel 1931, l’Enciclica di Pio XI Quadragesimo anno. Il beato Papa
Giovanni XXIII pubblicò, nel 1961, l’Enciclica Mater et Magistra, mentre Paolo VI nel-
l’Enciclica Populorum progressio (1967) e la Lettera apostolica Octogesima adveniens
(1971) affrontò con insistenza la problematica sociale, che nel frattempo si era acutizzata
soprattutto in America Latina. Il mio grande Predecessore Giovanni Paolo II ci ha lasciato
una trilogia di Encicliche sociali: Laborem exercens (1981), Solecituto rei socialis (1987)
e infine Centesimus annus (1991).
Così nel confronto con situazioni e problemi sempre nuovi, è venuta sviluppandosi una
dottrina sociale cattolica, che nel 2004 è stata presentata in modo organico nel Com-
pendio della dottrina sociale della Chiesa, redatto dal Pontificio Concilio Iustitia et Pax.
Il marxismo aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la
panacea (= rimedio universale) per la problematica sociale: attraverso la rivoluzione e
la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione – si asseriva in tale dottrina –
doveva improvvisamente andare tutto in modo diverso e migliore. Questo sogno è
svanito.
185
Nella situazione difficile nella quale oggi ci troviamo anche a causa della globalizzazione
dell’economia, la dottrina sociale della Chiesa è diventata un’indicazione fondamentale,
che propone orientamenti validi ben al di là dei confini di essa: questi orientamenti – di
fronte al progredire dello sviluppo – devono essere affrontati nel dialogo con tutti coloro
che si preoccupano seriamente dell’uomo e del suo mondo (...).
Il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica. Uno Stato
che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe a una grande banda di ladri, come
disse S. Agostino (Deus caritas est, nn. 26-28).
187
Appendice
Dal Compendio Dottrina Sociale della Chiesa
Tratto da: BOSCO T., I Cristiani e il lavoro, ELLEDICI, 2006, 123-153.
Capitolo sesto del Compendio Dottrina Sociale della Chiesa
IL LAVORO UMANO
I. Ciò che insegna la Bibbia
A. COLTIVARE E CUSTODIRE LA TERRA
Dio creatore del mondo - Invito a lavorare - Dominare significa coltivare e
custodire - Dio ha creato ogni cosa a vantaggio della persona umana.
(255) La Bibbia presenta Dio come Creatore di tutte le cose.
Egli forma la persona umana simile a sé.
La invita a lavorare la terra e a custodire il giardino dell’Eden nel quale l’ha posta.
(Vedi narrazione nel capo 2 della Genesi).
Al primo uomo e alla prima donna Dio dà il compito di sottomettere la terra e di
dominare gli altri esseri viventi.
Ma il dominio della persona umana sugli altri esseri viventi non deve essere quello
di un tiranno prepotente. Al contrario le persone umane devono coltivare e custo-
dire i beni creati da Dio. (Vedi Gen. 2). Uomini e donne non hanno creato questi
beni, ma li hanno ricevuti come doni preziosi di Dio. Egli li ha affidati alla loro
responsabilità.
Coltivare la terra significa non abbandonarla a se stessa.
Esercitare dominio su di essa significa averne cura, come un governante si prende
cura della sua gente, come un pastore ha cura del suo gregge.
Dio, nel suo progetto, ha voluto che le cose da lui create – frutto della sua bontà –
siano a vantaggio della persona umana. Il poeta che ha scritto le preghiere che noi
chiamiamo “salmi”, esclama con stupore davanti alla grandezza che Dio ha dato
alla persona umana: “Che cosa è mai la persona umana? Che cosa ha di così grande
per far sì che Tu lo abbia nella tua mente e te ne prenda cura? L’hai fatto di poco
inferiore agli angeli, lo hai incoronato di gloria e di onore. Gli hai dato potere sulle
opere delle tue mani, hai posto tutto sotto il suo dominio” (Salmo 8).
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Il lavoro non è punizione né castigo - Il peccato fu il desiderio di avere il
dominio assoluto di ogni cosa - La colpa non cambia il progetto di Dio.
(256) Il lavoro è la condizione normale dell’uomo. Non è né punizione né maledi-
zione. Nel racconto della Bibbia si parla infatti del lavoro umano prima che si parli
del primo peccato umano. Esso diventa fatica e pena a causa della colpa di Adamo e
di Eva, che interrompono il loro rapporto di fiducia e di amicizia armoniosa con Dio.
La proibizione fatta loro da Dio di mangiare i frutti “dell’albero della conoscenza
del bene e del male” (Vedi Genesi 2,17) ricorda alla persona umana che essa ha ri-
cevuto tutto da Dio come un dono. Ricorda che essa continua ad essere una crea-
tura, non il Creatore.
Proprio questa tentazione che la Bibbia ricorda con le parole messe in bocca al
serpente: “diventerete simili a Dio”, ha provocato il peccato di Adamo e di Eva
(Vedi Genesi 3). Essi vollero avere il dominio assoluto di tutte le cose, ribellandosi
alla volontà del Creatore. Da allora la terra si fa avara, ingrata, sordamente nemica.
Solo con il sudore della fronte sarà possibile trarne fuori il cibo. Il progetto di Dio
rimane però intatto, nonostante la ribellione delle prime creature umane. Il com-
pito grande della persona umana, chiamata a coltivare e a custodire le creature di
Dio, rimane inalterato.
Il lavoro va onorato, non idolatrato - Dio, non il lavoro, è il fine della vita
umana - L’esigenza di giustizia viene prima dell’esigenza del guadagno.
(257) Il lavoro deve essere onorato perché, come dice la Bibbia nel libro dei Pro-
verbi, “mani pigre fanno impoverire, mani laboriose fanno arricchire”. Il lavoro
procura condizioni decorose di vita, è strumento valido contro la povertà.
Ma non si deve fare del lavoro un idolo, cioè di farne lo scopo della vita. È Dio,
non il lavoro, la fonte e il fine della vita umana. Chi è veramente sapiente ha come
principio fondamentale il timore di Dio.
Se Dio è il fine della vita umana, l’esigenza della giustizia deve venire prima
dell’esigenza del guadagno. Lo afferma la Bibbia ancora nel libro dei Proverbi:
“Avere poco ma rispettare il Signore è meglio che possedere molte ricchezze ma
non aver pace” (15,16). “Meglio poco, ma onestamente, che molto, ma ingiusta-
mente” (16,8).
Il riposo del sabato è comandato da Dio - È un tempo di ricordo e di ringra-
ziamento - È un baluardo contro la schiavitù del lavoro - È possibilità di par-
tecipare al culto di Dio.
(258) Il punto più alto di ciò che insegna la Bibbia sul lavoro è il comandamento
del riposo nel giorno di sabato. Alla persona umana obbligata a lavorare dalle ne-
189
cessità della vita, il giorno settimanale di riposo fa alzare la testa verso la libertà
piena, quella che ci attende nella casa di Dio oltre la vita.
Il riposo dà alle persone umane la possibilità di ricordare e rivivere le grandi
opere di Dio: dalla Creazione alla Redenzione realizzata da Gesù. Dà il tempo e la
possibilità di riconoscere se stessi come opera di Dio, di ringraziarlo della vita che
ci ha dato, dell’esistenza che ci dà.
Il riposo del sabato è un baluardo contro la tentazione di diventare schiavi del
lavoro voluto da noi o dai nostri padroni, contro ogni forma di sfruttamento aperta
o camuffata.
Il riposo del sabato è stato voluto da Dio perché è possibilità di partecipare al
culto di Dio, è difesa del povero, è protezione contro ogni forma di degenerazione
antisociale del lavoro. Il riposo sabbatico, leggiamo nel libro biblico dell’Esodo,
poteva durare un anno intero. Era un esproprio dei frutti della terra a favore dei
poveri e una soppressione dei diritti di proprietà dei padroni della terra: “Per sei
anni coltiverai la tua terra e ne raccoglierai i frutti. Ma nel settimo anno non la
lavorerai e la lascerai incolta. Quel che vi crescerà, lo mangeranno i poveri del tuo
popolo e quel che rimane sarà divorato dalle bestie selvatiche. Devi fare lo stesso
per le tua vigna e per il tuo oliveto” (23,10). Questa usanza nasceva da un’intui-
zione profonda: l’accumulazione delle proprietà da parte di alcuni, può diventare
una sottrazione (un furto) nei riguardo di altri.
B. GESÙ L’UOMO DEL LAVORO
Gesù insegna ad apprezzare il lavoro - Condanna il servo poltrone - Afferma:
“L’operaio ha diritto al suo salario”.
(259) Gesù, nella sua predicazione, insegna ad apprezzare il lavoro. Ma prima
ancora di cominciare a predicare, “diventato simile a noi in tutto, dedicò la maggior
parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale, nella bottega di Giu-
seppe a cui stava sottomesso, presso un banco di carpentiere” (Giovanni Paolo II).
Gesù condanna il comportamento del servo poltrone, che va a nascondere sotto
terra il talento ricevuto dal padrone (Vangelo di Luca 2). Loda invece il servo fidato
e prudente che il padrone, arrivando, trova intento a svolgere bene i suoi compiti
(Vangelo di Matteo 24). Egli descrive la sua missione in questo mondo usando
la parola “operare”. Dice: “Il Padre mio opera senza interruzione, e così faccio
anch’io” (Vangelo di Giovanni 5). Descrive i suoi discepoli come “operai che lavo-
rano nel campo a raccogliere la messe del Signore” (Vangelo di Matteo 9). Questo
campo è l’umanità da evangelizzare.
Per questi operai vale la norma generale che “l’operaio ha diritto al suo salario”
(Vangelo di Luca 10). Essi possono giustamente abitare nelle case in cui sono
190
accolti, e mangiare e bere quello che viene loro offerto (Vangelo di Luca 10). Gesù
insegna a non diventare servi del lavoro - I tesori della terra si consumano, quelli
del cielo sono perenni - Il lavoro non deve preoccupare.
(260) Nella sua predicazione Gesù insegna alle persone umane a non diventare
servi, schiavi del lavoro. Devono preoccuparsi prima di tutto della loro anima. Lo
scopo della loro vita non è guadagnare tutto il mondo (Marco 8).
Infatti, i tesori della terra si consumano, mentre quelli del cielo sono perenni. In
questi devono mettere la loro mente e il loro cuore (Matteo 6).
Il lavoro non deve dare affanno. La persona umana, se si lascia preoccupare e
agitare da tante cose, rischia di non cercare il Regno di Dio e la sua giustizia
(Matteo 6). Di questo la persona umana ha veramente bisogno. Tutto il resto, com-
preso il lavoro, trova il suo posto, il suo senso, il suo valore solo se si realizza
il Regno di Dio e si compie la giustizia voluta da lui. Gesù lavora - Insegna che il
sabato si deve dedicare a Dio e agli altri - Il lavoro permette di fare festa, pregu-
stando il Sabato eterno di Dio.
(261) Durante la sua missione terrena, Gesù lavora instancabilmente. Compie
opere potenti per liberare le persone umane dalla malattia, dalla sofferenza e dalla
morte.
L’Antico Testamento aveva indicato il sabato come il giorno della liberazione.
Ma esso veniva osservato solo in maniera formale, e veniva quindi svuotato del suo
vero significato. Gesù sottolinea il suo vero significato: “Il sabato è stato fatto per
l’uomo, e non l’uomo per il sabato!” (Marco 2).
Egli compie guarigioni in quel giorno di riposo.
Con questi gesti di misericordia compiuti nel sabato, Egli proclama che il sabato
è suo, e vuole che questo giorno non sia dedicato al lavoro, ma a Dio e agli altri.
Liberare dal male, manifestare la propria fraternità e condividere i propri beni è
dare al sabato (e al lavoro che l’ha preceduto) il significato più alto. Il sabato infatti
deve permettere alle persone umane di pensare e di incamminarsi verso il Sabato
eterno, che celebreremo nella Casa del Padre. Il giorno di riposo diventa così anche
giorno di festa, quella festa alla quale tende ogni cuore umano.
Il lavoro che precede il sabato, e che con i suoi frutti permette di fare festa,
permette quindi alle creature umane di orientarsi, di tendere verso quella festa
senza fine che sarà il Sabato eterno di Dio. L’attività umana arricchisce e trasforma
l’universo - L’universo non è un frutto del caos, ma un insieme ordinato e armonico
- Il lavoro umano si trasforma in servizio a Dio.
(262) L’attività umana arricchisce e trasforma l’universo. Essa può e deve
far emergere le meraviglie nascoste nel creato. Il Vangelo di Giovanni (capo 1,3)
191
afferma che queste meraviglie sono state create da Dio per mezzo del Verbo, cioè
del suo Figlio (...).
L’universo non è quindi un ammasso frutto del caos, ma un ‘cosmo’, cioè un
insieme ordinato e armonico. Le persone umane devono scoprire il suo ordine,
assecondarlo e portarlo alla perfezione (...).
Il lavoro umano si trasforma in servizio alla grandezza di Dio quando mette in
luce, con una progressione crescente, le “infinite ricchezze di Cristo” presenti nella
creazione.
Il lavoro è una componente fondamentale della vita - È mezzo per diventare
veri Cristiani - È manifestazione della piena umanità.
(263) Il lavoro è una componente fondamentale della vita umana. La persona
che lavora partecipa non solo all’opera divina della creazione, ma anche alla reden-
zione operata da Gesù. Chi porta la stancante fatica del lavoro in unione con Gesù,
coopera con Lui alla sua opera che redime il mondo, cioè che lo salva dal male.
Chi lavora in unione con Lui si fa suo discepolo, portando la Croce ogni giorno
nell’attività che deve compiere.
Il lavoro, pensato e realizzato così, è un mezzo per diventare santi, cioè veri
Cristiani.È pure un mezzo per dare un’anima, uno spirito cristiano alle realtà terrene.
Pensato e realizzato così, il lavoro diventa manifestazione della piena umanità
della persona umana, che vive nella storia ma è orientata verso la Patria divina
che verrà. La sua azione libera e responsabile testimonia la sua intima relazione
con Dio Creatore, di cui compie l’opera sulla terra. Ogni giorno combatte contro il
peccato che cerca di sfigurare l’opera di Dio, e si guadagna il pane con il sudore
della fronte.
C. IL DOVERE DI LAVORARE
Non siamo esonerati dal lavoro - Nessuno deve vivere a spese degli altri -
Vivere il lavoro con gli stessi atteggiamenti di Gesù.
(264) Anche se siamo consapevoli della brevità della vita, non siamo esonerati
dai nostri impegni nella vita di ogni giorno, tanto meno dal lavoro. Esso è una com-
ponente fondamentale della vita umana, pur non essendo lo scopo della vita.
Nessun cristiano, per il fatto di appartenere a una comunità fraterna e soli-
dale, deve sentirsi in diritto di non lavorare e di vivere a spese degli altri. Ce lo
ricorda l’apostolo Paolo nelle sue Lettere ai Tessalonicesi. Egli continua: tutti
devono farsi “un punto d’onore” nel “lavorare con le proprie mani in maniera da
non aver bisogno di nessuno”, e tutti devono essere solidali anche materialmente,
condividendo i frutti del proprio lavoro con “chi si trova in necessità”.
192
San Giacomo, nella sua Lettera che nella Bibbia viene subito dopo le Lettere di
Paolo, difende i diritti dei lavoratori sfruttati: “Voi non avete pagato gli operai che
mietono nei vostri campi: questa paga rubata ora grida al cielo, e le proteste dei vo-
stri contadini sono arrivate fino agli orecchi di Dio, il Signore onnipotente” (capo 5).
I credenti devono vivere il loro lavoro con gli stessi atteggiamenti di Gesù, e
renderlo una testimonianza cristiana di fronte a chi non crede.
I Padri della Chiesa consideravano il lavoro come “un’attività umana” - Me-
diante il lavoro, la persona umana governa il mondo - Il Cristiano è chiamato
a lavorare anche per aiutare le persone più povere.
(265) I pagani che vivevano al tempo di Gesù, consideravano il lavoro come
“un’attività degli schiavi”. I primi grandi scrittori cristiani chiamati Padri della
Chiesa, invece, lo consideravano “un’attività umana”, e onoravano il lavoro in ogni
sua espressione.
La persona umana, mediante il lavoro, governa il mondo insieme con Dio,
insieme a Lui ne è il signore (cioè il padrone), e compie cose buone per sé e per gli
altri. L’ozio fa male alla persona umana, l’attività invece fa bene al suo corpo e al
suo spirito.
Il Cristiano è chiamato a lavorare non solo per procurarsi il pane, ma anche
per aiutare le persone più povere. Il Signore comanda di dare ad esse da mangiare,
da bere, da vestire, di dar loro accoglienza, cura e assistenza (Vangelo di Matteo
25). Sant’Ambrogio afferma che ogni lavoratore è la mano di Gesù che continua a
creare e a fare del bene.
Il lavoro rende più bello il creato - Suscita energie sociali e comunitarie - Si
trasforma in preghiera.
(266) Con il suo lavoro e la sua laboriosità, la persona umana partecipa alla
saggezza e all’arte divina: rende più bello il creato, il cosmo già originato dal Padre.
Suscita inoltre quelle energie sociali e comunitarie che alimentano il bene
comune soprattutto a vantaggio dei più bisognosi.
Il lavoro umano, vissuto cristianamente e con occhio attento alla carità, diventa
occasione di contemplazione, si trasforma in preghiera, in dominio forte degli
istinti, in serena speranza del giorno senza tramonto. (...)
II. Il Papa come profeta, parla nella Rerum novarum
La storia umana è un cammino tra conquiste e sfruttamenti - La “rivoluzione
industriale” porta profondi cambiamenti al lavoro - Nella “rivoluzione indu-
193
striale” c’è il buco nero dello sfruttamento - Papa Leone XIII indica le linee
di soluzione.
(267) La storia umana è un cammino continuo verso il progresso. Essa ha visto
esaltanti conquiste del lavoro, ma anche sfruttamento di tanti lavoratori e offese
verso la loro dignità. Il periodo che scorre dalla fine del 1700 ai giorni nostri, e
che vede la nascita e lo sviluppo delle fabbriche, viene chiamata “rivoluzione in-
dustriale”. In questo periodo la Chiesa ha visto la situazione tragica dei lavoratori,
e il Papa e i Vescovi sono tornati ad essere Profeti che parlano a nome di Dio. Per
difendere la persona umana che lavora, hanno affermato con forza le verità e i
diritti che devono essere rispettati in ogni tempo e in ogni luogo. Nei secoli pre-
cedenti, l’umanità ricavava i mezzi della sua sussistenza dal lavoro agricolo.
La sua vita era segnata dal ritmo regolare delle stagioni e degli anni. Il Magistero
della Chiesa (= il Papa e i Vescovi) portavano il Vangelo a questa grande società
agricola. Con il nascere e il progredire della Rivoluzione Industriale, il
Vangelo doveva essere annunciato a una gente che cambiava rapidamente. Essa
viveva in un ambiente tumultuoso, segnata da eventi nuovi (lotte sociali, emigra-
zioni, guerre...). La vita umana veniva trasformata dalla tecnica in maniera che
mai prima si era pensato. Il popolo di Dio guidato dai suoi pastori (cioè la
Chiesa) dovette affrontare il grande e urgente problema della questione
operaia, cioè lo sfruttamento dei lavoratori. Questo sfruttamento era la conse-
guenza della organizzazione del lavoro inventata dal capitalismo. Inoltre le gravi
ingiustizie esistenti nel mondo del lavoro venivano usate dal comunismo e dal
socialismo come uno strumento per portare alla rivoluzione. Questo era un se-
condo problema che la Chiesa doveva affrontare. Davanti a questi due gravi
problemi, papa Leone XIII fu il profeta che diede al popolo di Dio le verità e le
riflessioni contenute nella sua lettera-enciclica “Rerum Novarum”. (I Papi scri-
vono i loro grandi pronunciamenti in lettere scritte in latino, chiamate Encicliche.
Esse prendono come titolo le prime due parole latine con cui iniziano. Le prime
due parole della Enciclica di Leone XIII sono “Rerum novarum”, e così l’Enci-
clica di Leone XIII fu chiamata e si chiama ancora). La RN è un’appassionata
difesa della dignità dei lavoratori - Le iniziative che cercarono di dare un
volto cristiano alla società - Una notevole spinta al miglioramento del mondo
del lavoro.
(268) La Rerum Novarum è prima di tutto un’appassionata difesa della dignità dei
lavoratori. A questa dignità dei lavoratori il Papa collega:
– l’importanza del diritto alla proprietà privata,
– l’importanza della collaborazione tra le varie classi,
– l’importanza dei diritti dei deboli e dei poveri,
– l’importanza dei doveri dei lavoratori e dei datori di lavoro,
– l’importanza del diritto di associazione.
194
Gli orientamenti indicati dal Papa diedero forza alle iniziative che cercavano
di dare un volto cristiano alla vita sociale. Nacquero e si rafforzarono così nume-
rose iniziative di grande valore civile:
– unione e centri di studi sociali,
– associazioni, società operaie,
– sindacati, cooperative,
– banche rurali, assicurazioni,
– opere di assistenza.
Tutto questo diede una notevole spinta:
– alle leggi riguardanti il lavoro, per la protezione degli operai e specialmente
delle donne e dei fanciulli,
– all’istruzione,
– al miglioramento dei salari e dell’igiene (dei luoghi di lavoro).
A partire dalla RN, il popolo cristiano approfondisce i problemi del lavoro -
Giovanni Paolo II invita a considerare il lavoro “attività della persona” - Il la-
voro condiziona lo sviluppo della famiglia e della società.
(269) A partire dalla Rerum Novarum, il popolo cristiano con i suoi pastori (= la
Chiesa) non ha mai cessato di approfondire e affrontare i problemi del lavoro
umano. La “questione sociale”, intanto, si è estesa ad ogni popolo e ad ogni na-
zione. Il papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica “Laborem exercens”,
spinge la riflessione cristiana a considerare sempre più il lavoro non solo come un
oggetto, ma come “attività della persona umana”. Afferma che è necessario riflet-
tere in profondità sui significati e sui doveri che emergono nella nostra mente
quando consideriamo il lavoro come “attività della persona umana”. Dice: “Sor-
gono sempre nuovi interrogativi e problemi, nascono sempre nuove speranze, ma
anche timori e minacce connesse con questa fondamentale dimensione dell’umano
esistere, con la quale la vita dell’uomo è costruita ogni giorno, dalla quale essa at-
tinge la propria specifica dignità, ma nella quale è contemporaneamente contenuta
la costante misura dell’umana fatica, della sofferenza e anche del danno e dell’in-
giustizia che penetrano profondamente la vita sociale, all’interno delle singole Na-
zioni e sul piano internazionale”.
III. LA DIGNITÀ DEL LAVORO UMANO
A. IL LAVORO PUÒ ESSERE VISTO
COME “OGGETTIVO” E COME “SOGGETTIVO”
Il lavoro può essere considerato come un oggetto - Il lavoro deve essere consi-
derato specialmente come attività umana - La distinzione tra lavoro oggettivo
e lavoro soggettivo è fondamentale.
195
(270) Il lavoro può essere considerato come un oggetto (= lavoro oggettivo). In
questo caso per lavoro intendiamo l’insieme delle attività, risorse, strumenti e
tecniche di cui la persona umana si serve per produrre, per “dominare la terra” (per
usare l’espressione del primo libro della Bibbia). Tutto questo viene chiamato “la
dimensione oggettiva del lavoro”. Ma il lavoro deve essere considerato special-
mente come l’attività della persona umana (= lavoro soggettivo). La persona
umana infatti è un essere dinamico, capace di compiere azioni varie che insieme
formano il lavoro. Tutto questo viene chiamato “la dimensione soggettiva del
lavoro”. Queste diverse attività fanno parte della “vocazione” data da Dio alla
persona umana. Scrive il papa Giovanni Paolo II: “L’uomo deve soggiogare la
terra, la deve dominare, perché come ‘immagine di Dio’ è una persona, cioè un
essere soggettivo capace di agire in modo programmato e razionale, capace di deci-
dere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come persona, l’uomo è quindi soggetto
del lavoro”. Il lavoro come oggetto (= dimensione oggettiva del lavoro) varia
continuamente. I modi di lavorare dipendono infatti dalle condizioni della tecnica,
della cultura, della società, della politica. Il lavoro come attività della persona
(= dimensione soggettiva del lavoro) ha un valore stabile. Il suo valore infatti
non dipende dall’attività in cui la persona umana è impegnata, né dai risultati che
raggiunge. Dipende solo ed esclusivamente dal fatto che chi lavora è una persona,
cioè un essere dotato di dignità. La distinzione tra lavoro oggettivo e lavoro sog-
gettivo è fondamentale per comprendere il valore e la dignità del lavoro umano.
I sistemi economici e sociali devono essere organizzati rispettando la dignità della
persona e i suoi diritti. Il lavoro umano ha una dignità particolare - Il materia-
lismo e l’economicismo riducono il lavoro a strumento di produzione - La
dimensione soggettiva del lavoro deve prevalere su quella oggettiva.
(271) Il lavoro, come attività della persona umana, ha una dignità particolare:
questa dignità impedisce che venga considerato come una semplice merce o uno dei
tanti elementi dell’organizzazione produttiva. Indipendentemente dal suo maggiore
o minore valore oggettivo, il lavoro è un’attività della persona umana. Il materia-
lismo (che considera la persona come pura materia organizzata) e l’economi-
cismo (che considera come unici valori quelli dell’economia: produrre, vendere,
guadagnare), presenti nella società attuale in forme più o meno visibili, tentano di ri-
durre il lavoratore a uno dei tanti strumenti della produzione, a semplice forza-la-
voro, con valore soltanto materiale. Questi modi di pensare snaturano profonda-
mente il lavoro umano, lo privano del suo aspetto più nobile e profondamente
umano. La persona è la misura della dignità del lavoro. Afferma Giovanni Paolo II:
“Non c’è infatti alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo valore etico, il quale
senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è
una persona”. La dimensione soggettiva del lavoro deve prevalere su quella ogget-
tiva. È una persona umana quella che lavora. Questo fatto determina il valore più
alto del lavoro. Se manca questa convinzione, se non si vuole riconoscere questa
196
dignità, il lavoro perde il suo significato più vero e profondo. Quando questo si
verifica (e si verifica purtroppo molte volte e in molti luoghi), l’attività lavorativa
e le stesse tecniche utilizzate diventano più importanti della persona umana stessa.
Da alleate si trasformano in nemiche della sua dignità. Il lavoro ha come fine la
persona umana - Il lavoro è per la persona, e non la persona per il lavoro.
(272) Il lavoro non solo è attività della persona, ma ha come fine la persona
umana. Qualunque sia l’oggetto del lavoro umano, il suo fine dev’essere il bene
del soggetto che lo compie. Non può certo essere ignorato l’oggetto che il lavoro
deve produrre, ma questo oggetto deve servire al bene della persona. Si può quindi
affermare con verità che il lavoro è per la persona, e non la persona per il la-
voro. Papa Giovanni Paolo II afferma ancora: “Lo scopo del lavoro, di qualunque
lavoro eseguito dall’uomo – fosse pure il lavoro più ‘di servizio’, più monotono
nella scala del comune modo di valutazione, addirittura più emarginante – rimane
sempre l’uomo stesso”. Il lavoro ha come fine anche il bene della società umana
- Occorre tenere presente il valore sociale del lavoro.
(273) Il lavoro ha come fine anche il bene della società umana. Il lavoro di una
persona umana, infatti, si intreccia naturalmente con quello di altre persone. “Oggi
più che mai – afferma Giovanni Paolo II – lavorare è un “lavorare con gli altri e per
gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno”. Anche i frutti del lavoro danno occa-
sione di scambi, di relazioni, di incontri. Per avere una giusta idea del valore del
lavoro, occorre quindi tenere conto del suo valore sociale: “poiché se non sussiste
un corpo veramente sociale e organico, se un ordine sociale e giuridico non tutela
l’esercizio del lavoro, se le varie parti le une dipendenti dalle altre, non si collegano
fra di loro e mutuamente non si compiono, se, quel che è di più, non si associano
quasi a formare una cosa sola, l’intelligenza, il capitale, il lavoro, l’umana attività
non può produrre i suoi frutti, e quindi non si potrà valutare giustamente né retri-
buire adeguatamente, dove non si tenga conto della sua natura sociale e indivi-
duale” (Papa Pio XI, Quadragesimo anno).Il lavoro è un dovere della persona
umana - Il lavoro è un obbligo morale verso il prossimo - Noi siamo i costrut-
tori del futuro umano.
(274) Il lavoro è anche “un obbligo cioè un dovere dell’uomo” (Giovanni Paolo
II). La persona umana deve lavorare sia perché il Creatore glie l’ha ordinato, sia
perché ogni persona ha esigenza di mantenersi e di svilupparsi. Il lavoro è quindi
un obbligo morale verso il prossimo, che è in primo luogo la propria famiglia, e
poi anche la società a cui si appartiene, la Nazione di cui si è cittadini, l’intera fa-
miglia umana di cui facciamo parte. Noi siamo eredi del lavoro delle generazioni
che ci hanno preceduto, e insieme siamo costruttori del futuro di tutte le persone
che vivranno dopo di noi. Il lavoro ci rende simili al Dio Creatore – La persona
umana non è “il padrone dell’universo”.
197
(275) Il lavoro ci rende simili a Dio Creatore, ci fa creature fatte a sua immagine
e somiglianza. Scrive Giovanni Paolo II: “Diventando – mediante il lavoro –
sempre più padrone della terra, e confermando – ancora mediante il lavoro – il suo
dominio sul mondo visibile, l’uomo, in ogni caso ed in ogni fase di questo pro-
cesso, rimane sulla linea di quell’originaria disposizione del Creatore, la quale resta
necessariamente e indissolubilmente legata al fatto che l’uomo è stato creato, come
maschio e femmina, ‘a immagine di Dio’”. Questo fatto dà al lavoro umano una
qualità fondamentale: nell’universo l’uomo non è il padrone, ma colui al quale
l’universo è stato affidato. È colui che con il proprio lavoro deve lasciare nelle cose
l’impronta del Creatore, di cui è l’immagine.
B. I RAPPORTI TRA LAVORO E CAPITALE
Il lavoro è superiore al capitale - Con la parola “capitale”, si indicano diverse
realtà - Occorre riflettere sui rapporti tra lavoro e capitale.
(276) Il lavoro, come attività di una persona, è superiore ad ogni elemento di
produzione. Questo vale specialmente nei riguardi del capitale. Oggi, con la pa-
rola “capitale”, si indicano diverse realtà. Talvolta indica i mezzi materiali di
produzione nell’impresa. Altre volte indica le somme di denaro impegnate in una
iniziativa produttiva o in operazioni nei mercati borsistici. Si parla anche (in modo
non del tutto appropriato) di “capitale umano”, per indicare le “risorse umane”,
cioè le persone umane stesse in quanto capaci di sforzo lavorativo, di conoscenza,
di creatività, di intuizioni nel campo del lavoro, di intesa reciproca in quanto
membri di un’organizzazione. Si parla di “capitale sociale” quando si indica lo
sforzo di collaborazione di un insieme di persone che investono insieme con fi-
ducia reciproca. Questa molteplicità di significati ci invita a riflettere su cosa
può significare, oggi, il rapporto tra lavoro e capitale. Priorità del lavoro sul capi-
tale e necessità di collaborazione - Tra lavoro e capitale ci deve essere comple-
mentarità - Ci sono stati tempi in cui lavoro e capitale erano due classi sociali.
(277) La dottrina sociale della Chiesa ha approfondito i rapporti tra lavoro e
capitale, e ha messo in evidenza sia la priorità del lavoro sul capitale, sia la ne-
cessaria collaborazione di entrambi (= complementarità). Il lavoro ha una natu-
rale priorità sul capitale. “Questo principio riguarda direttamente il processo stesso
di produzione, in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria,
mentre il “capitale”, essendo l’insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno
strumento o la causa strumentale. Questo principio è verità evidente, che risulta da
tutta l’esperienza storica dell’uomo”. Esso “appartiene al patrimonio stabile della
dottrina della Chiesa” (Giovanni Paolo II). Tra lavoro e capitale ci deve essere
complementarità: è lo stesso processo produttivo a dimostrare
– la necessità della loro reciproca compenetrazione,
198
– l’urgenza di dare vita a sistemi economici nei quali la lotta tra lavoro e capitale
venga superata.
Ci sono stati tempi in cui, all’interno di un sistema meno complesso di quello
di oggi, il “capitale” e il “lavoro salariato” non erano solo due fattori produttivi, ma
due classi sociali. La Chiesa affermava che entrambi erano legittimi: “né il capitale
può stare senza il lavoro, né il lavoro senza capitale” (Leone XIII). È una verità che
vale anche oggi, perché “è del tutto falso ascrivere o al solo capitale o al solo la-
voro ciò che si ottiene con l’opera unita dell’uno e dell’altro; ed è del tutto ingiusto
che l’uno arroghi a sé quel che si fa, negando l’efficacia dell’altro” (Pio XI). Nei
rapporti tra lavoro e capitale, la risorsa principale è la persona - Il mondo del
lavoro sta scoprendo il valore del “capitale umano” - Oggi la dimensione sog-
gettiva del lavoro prevale su quella oggettiva.
(278) Nei rapporti tra lavoro e capitale (soprattutto di fronte alle imponenti
trasformazioni dei nostri tempi) si deve ritenere che la “risorsa principale”, “il
fattore decisivo” in mano alla persona umana è la persona stessa. “L’integrale
sviluppo della persona umana nel lavoro non contraddice, ma piuttosto favorisce la
maggiore produttività ed efficacia del lavoro stesso” (Giovanni Paolo II).
Il mondo del lavoro, infatti, sta scoprendo sempre più il valore del “capitale
umano” costituito:
– dalle conoscenze dei lavoratori,
– dalla loro disponibilità a tessere relazioni,
– dalle creatività,
– dall’imprenditorialità di se stessi,
– dalla capacità di affrontare consapevolmente il nuovo, di lavorare insieme, di
raggiungere obiettivi comuni.
Si tratta di qualità prettamente personali, che appartengono più alla persona umana
che agli aspetti tecnici, operativi del lavoro stesso. Per tutto questo è necessaria
una prospettiva nuova nei rapporti tra lavoro e capitale. Contrariamente a
quanto accadeva nella vecchia organizzazione del lavoro, in cui il lavoratore finiva
per diventare servo della macchina, oggi la dimensione soggettiva del lavoro tende
ad essere più decisiva ed importante della dimensione oggettiva. Il rapporto tra
lavoro e capitale diventa spesso conflitto - Ieri il conflitto nasceva dal voler
dare ai lavoratori il salario minimo - Oggi il conflitto ha aspetti nuovi.
(279) Il rapporto tra lavoro e capitale diventa spesso conflitto, che assume ca-
ratteri nuovi con il mutare delle prospettive sociali ed economiche. Ieri, il conflitto
tra capitale e lavoro era originato soprattutto “dal fatto che i lavoratori mette-
vano tutte le loro forze a disposizione del gruppo degli imprenditori, e che questo,
guidato dal principio del massimo profitto della produzione, cercava di stabilire il
199
salario più basso possibile degli operai” (Giovanni Paolo II). Attualmente, il con-
flitto presenta aspetti nuovi e, forse, più preoccupanti. I progressi scientifici e
tecnologici e la mondializzazione dei mercati (di per sé fonte di sviluppo e di pro-
gresso) espongono i lavoratori al rischio di essere sfruttati dagli ingranaggi dell’e-
conomia e dalla ricerca sfrenata di produttività. Non è superata l’alienazione sul
lavoro e nel lavoro - Esistono nuove forme sottili di lavoro sfruttato - Anche
nei nuovi lavori possono esserci elementi alienanti.
(280) È sbagliato ritenere che il superamento della dipendenza del lavoro dalla
materia sia capace di per sé di superare l’alienazione (= la perdita della pro-
pria personalità) sul lavoro e nel lavoro. Ancora persistono tante sacche di non
lavoro, di lavoro nero, di lavoro minorile, di lavoro sottopagato, di lavoro sfruttato.
Ma occorre pensare anche alle nuove forme, molto più sottili, di sfruttamento
dei nuovi lavori:
– il super-lavoro,
– il lavoro-carriera che talvolta ruba spazio a dimensioni umane necessarie alla
persona,
– l’eccessiva flessibilità del lavoro che rende precaria e a volte impossibile la
vita familiare,
– la modularità lavorativa che rischia di avere pesanti ripercussioni sulla propria
esistenza e sulla stabilità della famiglia.
La persona umana è alienata (= perde la propria personalità) quando la pro-
duzione è considerata più importante della persona. Ma anche nei nuovi lavori
immateriali, leggeri, qualitativi più che quantitativi, ci possono essere elementi di
alienazione “a secondo che cresca... il suo isolamento in un complesso di relazioni
di esasperata competitività e di reciproca estraniazione” (Giovanni Paolo II).
C. IL LAVORO, MOTIVO VALIDO DI PARTECIPAZIONE
Il rapporto tra lavoro e capitale porta anche alla partecipazione - Il lavoro è
motivo valido di partecipazione - È indispensabile trovare modi di partecipa-
zione.
(281) Il rapporto tra lavoro e capitale si esprime anche attraverso la parteci-
pazione dei lavoratori alla proprietà, alla gestione dell’azienda, ai suoi frutti.
Questa è un’esigenza troppo spesso trascurata. Occorre invece valorizzarla al mas-
simo. “Ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al
tempo stesso ‘com-proprietario’ del grande banco di lavoro, al quale s’impegna in-
sieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare,
per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita a una ricca
gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali: corpi che go-
dano di un’effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri, che perseguano i
200
loro specifici obiettivi in rapporti di leale collaborazione vicendevole, subordinata-
mente alle esigenze del bene comune, e che presentino forma e sostanza di una
viva comunità, cioè che in essi i rispettivi membri siano considerati e trattati come
persone e stimolati a prendere parte attiva alla loro vita” (Giovani Paolo II). Nella
nuova organizzazione del lavoro, il sapere conta più della sola proprietà dei
mezzi di produzione. Quindi il lavoro, espressione della personalità del lavoratore,
è motivo valido di partecipazione. È indispensabile puntare su questo stato delle
cose per valutare la giusta posizione del lavoro nel processo produttivo, e per tro-
vare modi di partecipazione in sintonia con la soggettività del lavoro nelle situa-
zioni concrete.
D. RAPPORTO TRA LAVORO E PROPRIETÀ PRIVATA
La Chiesa espone quale deve essere il rapporto tra lavoro e capitale - “I beni
sono per il benessere di tutti” è il primo principio - Quando il possesso dei
mezzi di produzione diventa illegittimo.
(282) La Chiesa, nel suo insegnamento sociale, espone anche quale deve essere
il rapporto tra capitale e lavoro nei riguardi della proprietà privata, del suo uso e
dei suoi diritti. Il diritto alla proprietà privata è preceduto dal principio che i beni
sono per il benessere di tutti. La proprietà privata non deve costituire un impedi-
mento al lavoro e allo sviluppo degli altri. La proprietà, che si acquista anzitutto
mediante il lavoro, deve servire al lavoro. Questo vale specialmente per il possesso
dei mezzi di produzione. Ma vale anche per i beni del mondo finanziario, del
mondo tecnico, intellettuale, personale. I mezzi di produzione “non possono es-
sere posseduti contro il lavoro, non possono essere posseduti per possedere”
(Giovanni Paolo II). Il loro possesso diventa illegittimo quando la proprietà “non
viene valorizzata o serve ad impedire il lavoro di altri, per ottenerne un guadagno
che non nasce dall’espansione globale del lavoro e della ricchezza sociale, ma piut-
tosto dalla loro compressione, dall’illecito sfruttamento, dalla speculazione e dalla
rottura della solidarietà nel mondo del lavoro” (Giovanni Paolo II). Il sistema eco-
nomico deve essere organizzato al servizio della persona - Le nuove cono-
scenze e le nuove tecnologie sono nuove “proprietà” - Esse non devono allar-
gare il fossato tra sviluppo e sottosviluppo.
(283) La proprietà privata e pubblica, e i vari meccanismi del sistema econo-
mico devono essere organizzati per un’economia al servizio della persona
umana. Devono contribuire ad attuare il principio della “destinazione universale
dei beni”. In questa prospettiva diventa importante il problema della proprietà
e dell’uso delle nuove tecnologie e delle nuove conoscenze. Esse costituiscono,
nel nostro tempo, un’altra forma di proprietà privata, non meno importante
della proprietà della terra e del capitale. Queste risorse, come tutti gli altri beni,
hanno una “destinazione universale”. Anch’esse devono essere inserite in un in-
201
sieme di norme giuridiche e sociali che garantiscano il loro uso secondo giustizia e
nel rispetto dei diritti della persona umana. Le nuove scoperte e le nuove tecno-
logie, per le loro enormi potenzialità, possono dare un contributo decisivo al pro-
gresso sociale. Se però rimangono accentrate nei Paesi più ricchi o nelle mani di ri-
stretti gruppi di potere, rischiano di causare disoccupazione e di allargare il fossato
tra zone sviluppate e zone di sottosviluppo.
E. IL RIPOSO FESTIVO
Il riposo festivo è un diritto - La domenica è il giorno del Signore - Le legittime
dispense non devono far male.
(284) Il riposo festivo è un diritto. La Bibbia afferma che Dio “cessò nel settimo
giorno da ogni lavoro”. Anche le persone umane, create a Sua immagine, devono
godere di sufficiente riposo e tempo libero che permetta loro di curare la vita fami-
liare, culturale, sociale e religiosa. A ciò contribuisce l’istituzione della domenica,
il giorno del Signore. I credenti, durante la domenica e negli altri giorni festivi “di
precetto”, devono astenersi da “lavori o attività che impediscano il culto dovuto a
Dio, la letizia propria del giorno del Signore, la pratica delle opere di misericordia e
la necessaria distensione della mente e del corpo” (Catechismo della Chiesa Catto-
lica). Necessità familiari o esigenze di utilità sociale possono legittimamente dis-
pensare dal riposo domenicale, ma non devono diventare abitudini che fanno male
alla vita di famiglia, alla vita religiosa e alla salute. Le autorità pubbliche devono
garantire il tempo festivo - I cristiani devono volere leggi che riconoscano la
domenica - Ogni cristiano deve rispettare negli altri le esigenze della festa.
(285) La domenica è un giorno da santificare con una carità operosa. Occorre
riservare attenzione alla famiglia e ai parenti, come anche ai malati, agli infermi,
agli anziani. Non si devono dimenticare quei “fratelli che hanno i medesimi bisogni
e i medesimi diritti e non possono riposarsi a causa della povertà e della miseria”
(Catechismo della Chiesa Cattolica).
(286) Le autorità pubbliche hanno il dovere di vigilare affinché ai cittadini non
sia sottratto, per motivi di produttività economica, un tempo destinato al ri-
poso e al culto divino. I datori di lavoro hanno lo stesso obbligo nei confronti
dei loro dipendenti. I cristiani si devono adoperare perché le leggi riconoscano
le domeniche e le altre solennità cristiane come giorni festivi, nel rispetto della
libertà religiosa e del bene di tutti. “Spetta a loro offrire a tutti un esempio pub-
blico di preghiera, di rispetto e di gioia. Spetta a loro difendere la loro tradi-
zioni come un prezioso contributo alla vita spirituale della società umana”
(Catechismo della Chiesa Cattolica). Ogni cristiano dovrà “evitare di imporre,
senza necessità, ad altri ciò che impedirebbe loro di osservare il giorno del Si-
gnore” (Catechismo della C.C.).
202
IV. IL DIRITTO AL LAVORO
A. IL LAVORO È NECESSARIO
Il lavoro è un diritto fondamentale e un bene per la persona umana - La
Chiesa insegna il valore del lavoro anche perché è necessario - La disoccupa-
zione è una vera calamità sociale.
(287) Il lavoro è un diritto fondamentale e un bene per la persona umana. È un
bene utile, degno della persona umana, perché è adatto ad esprimere e ad accre-
scere la dignità umana. La Chiesa insegna il valore del lavoro anche perché è ne-
cessario
– per formare e mantenere una famiglia,
– per aver diritto alla proprietà,
– per contribuire al bene comune della famiglia umana.
Le conseguenze morali che la questione del lavoro porta nella vita sociale
spinge la Chiesa a indicare la disoccupazione come una vera calamità sociale,
soprattutto per le generazioni giovani. Il lavoro è un bene per tutti - Ogni si-
stema economico deve ricercare la piena occupazione - Chi orienta la politica
economica ha gravi responsabilità.
(288) Il lavoro è un bene per tutti. Deve essere disponibile per tutti coloro che ne
sono capaci. La “piena occupazione” si deve quindi ricercare in ogni sistema
economico che vuole essere orientato alla giustizia e al bene comune.
Non può considerarsi giusta e costruttrice di pace sociale una società
– nella quale il diritto dal lavoro è vanificato o sistematicamente negato,
– nella quale la politica economica non permette ai lavoratori di raggiungere li-
velli soddisfacenti di occupazione.
Le persone e le istituzioni che orientano a livello nazionale o internazionale la
politica del lavoro e dell’economia (chiamate “datore indiretto di lavoro”)
hanno ruoli importanti e gravi responsabilità. Come si può giudicare una società -
Forti ostacoli nella realizzazione umana - Il dramma dei disoccupati e dei sot-
toccupati.
(289) Una società si può giudicare “orientata verso il bene” e “proiettata verso
il futuro” nella misura in cui offre soprattutto prospettive di lavoro.
Forti ostacoli sulla strada della realizzazione umana e professionale (soprat-
tutto dei giovani) sono:
– l’alto tasso di disoccupazione,
– i sistemi di istruzione superati,
– la difficoltà nell’accedere alla formazione e al mercato del lavoro
203
Il disoccupato e il sottoccupato subiscono profonde conseguenze negative nella
loro persona. Rischiano di essere posti ai margini della società, di diventare vit-
time dell’esclusione sociale. Questo è un dramma che colpisce in genere giovani e
donne, lavoratori meno specializzati, disabili, immigrati, ex-carcerati, analfabeti, e
tutti quelli che trovano maggior difficoltà nella ricerca di un lavoro. Mantenere
l’occupazione dipende sempre più dalle capacità professionali - La necessità di
cambiare impiego esige riqualificazione - L’itinerario lavorativo esige nuove
forme di sostegno.
(290) Mantenere l’occupazione dipende sempre più dalle capacità professio-
nali del lavoratore. Il sistema di istruzione non deve quindi trascurare la forma-
zione umana e tecnica, necessaria per svolgere con profitto le mansioni richieste.
La sempre più diffusa necessità, nell’arco della vita, di cambiare varie volte
impiego, impone al sistema educativo di favorire un aggiornamento e una riqualifi-
cazione permanenti. I giovani devono diventare capaci di assumersi con respon-
sabilità il compito di affrontare i rischi legati ad un contesto economico mobile e
spesso imprevedibile. È altrettanto indispensabile l’offerta di opportune occasioni
formative agli adulti in cerca di riqualificazione, e ai disoccupati.
In generale l’itinerario lavorativo delle persone deve trovare nuove forme con-
crete di sostegno, nuove possibilità di formazione, così che sia meno difficile at-
traversare fasi di cambiamento, di incertezza, di precarietà.
B. IL RUOLO DELLO STATO E DELLA SOCIETÀ CIVILE
NELLA PROMOZIONE DEL DIRITTO AL LAVORO
Lo Stato è chiamato in causa dai problemi dell’occupazione - Deve sollecitare la
creazione di opportunità di lavoro - Deve assecondare l’attività delle imprese.
(291) I problemi dell’occupazione chiamano in causa le responsabilità dello
Stato. Ad esso compete il dovere di promuovere politiche positive del lavoro. Esse
devono sollecitare la creazione di opportunità lavorative all’interno del terri-
torio nazionale favorendo il mondo produttivo. Il dovere dello Stato non con-
siste tanto nell’assicurare direttamente il diritto al lavoro di tutti i cittadini,
mortificando così la libera iniziativa. Consiste piuttosto nell’“assecondare l’at-
tività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimo-
landola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi” (Gio-
vanni Paolo II). Il mercato del lavoro ha raggiunto dimensioni planetarie - Dar vita
a trattati, accordi, che salvaguardino il diritto al lavoro - Le organizzazioni sinda-
cali hanno compiti importanti.
(292) Il mercato del lavoro e le relazioni economico-finanziarie hanno rapida-
mente raggiunto dimensioni planetarie. Questo fenomeno esige che gli Stati pro-
muovano una efficace collaborazione internazionale. Si deve dar vita a trattati,
204
accordi, piani di azione comune che salvaguardino il diritto al lavoro a livello
nazionale e internazionale anche nei momenti più critici. Occorre essere consape-
voli che il lavoro umano è un diritto, e che da esso dipendono la giustizia so-
ciale e la pace civile. Le organizzazioni sindacali e le organizzazioni internazio-
nali hanno compiti importanti in questo campo. Esse devono collegare la loro
azione, e impegnarsi a tessere “una trama sempre più fitta di disposizioni giuri-
diche che proteggono il lavoro degli uomini, delle donne, dei giovani, e gli assicu-
rano una conveniente retribuzione” (Papa Paolo VI). È importante che esista “li-
bertà di auto-organizzazione” - Numerose iniziative hanno già realizzato
forme di partecipazione - Esse sono attente all’istruzione, alla salute, ai servizi
sociali.
(293) Oggi, come ai tempi della “Rerum Novarum”, è importane che esista
nella società “libertà di auto-organizzazione”. Esempi significativi di auto-
organizzazione sono le numerose iniziative che già hanno realizzato forme di par-
tecipazione, di cooperazione e di autogestione. Esse testimoniano la fusione di
energie solidali, a livello imprenditoriale e sociale. Esse si pongono sul mercato
come un ventaglio di attività lavorative che hanno un’attenzione particolare
alla maniera in cui vengono prodotti i beni ed erogati i servizi. Esse sono
attente all’istruzione del lavoratore, alla tutela della sua salute, ai servizi sociali
di base, alla cultura. Le iniziative di quello che viene chiamato “terzo settore” for-
mano un fenomeno sempre più rilevante nello sviluppo del lavoro e dell’economia.
C. LA FAMIGLIA E IL DIRITTO AL LAVORO
Il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare - Famiglia e lavoro
sono strettamente interdipendenti - La politiche del lavoro devono favorire il
nucleo familiare.
(294) Il lavoro è “il fondamento sul quale si forma la vita familiare. Essa è un
diritto naturale e una vocazione dell’uomo” (Giovanni Paolo II). Il lavoro assicura i
mezzi di sussistenza, e garantisce l’educazione dei figli.
La famiglia e il lavoro, nella vita della grande maggioranza delle persone, sono
strettamente interdipendenti. Ed è finalmente ora che venga loro data una consi-
derazione maggiore, che tenga conto della realtà che li vede uniti insieme. Occorre
che si smetta di considerare la famiglia come “un fatto privato”, e il lavoro come
“un fatto economico”.
È necessario che le imprese, le organizzazioni professionali, i sindacati e lo
Stato si rendano promotori di politiche del lavoro che non penalizzino, ma fa-
voriscano il nucleo familiare dal punto di vista occupazionale. Infatti la vita fa-
miliare e il lavoro si condizionano a vicenda:
205
– il pendolarismo, il doppio lavoro, la fatica fisica e psicologica riducono il
tempo dedicato alla vita familiare;
– le situazioni di disoccupazione hanno ripercussioni materiali e spirituali sulle
famiglie;
– le tensioni e le crisi familiari influiscono negativamente sugli atteggiamenti e
sul rendimento in campo lavorativo.
D. LAVORO MINORILE
Il lavoro minorile è una violenza - Il contributo del lavoro dei bambini al
bilancio familiare - La Chiesa denuncia l’aumento dello sfruttamento dei
minori.
(296) Il lavoro minorile assume forme intollerabili, e costituisce un tipo di vio-
lenza meno appariscente di altre, ma non per questo meno terribile. Questa
violenza, al di là di tutte le implicazioni politiche, economiche e giuridiche, è prima
di tutto un problema morale. Già papa Leone XIII scriveva: “Quanto ai fanciulli, si
badi a non ammetterli nelle officine prima che l’età ne abbia sufficientemente svi-
luppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano
simili all’erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossi-
bile la stessa educazione dei fanciulli” (Rerum Novarum).
Siamo tutti consapevoli che, almeno per ora, in certi Paesi il contribuito
portato dal lavoro dei bambini al bilancio familiare e alle economie nazionali è
irrinunciabile, e che alcune forme di lavoro svolte a tempo parziale, possono essere
fruttuose per i bambini stessi. Ma la Chiesa denuncia l’aumento dello “sfrutta-
mento lavorativo dei minori in condizioni di vera schiavitù” (Giovanni Paolo
II). Tale sfruttamento costituisce una grave violazione alla dignità umana di cui
ogni individuo è dotato “per piccolo o apparentemente insignificante che sia in ter-
mini di utilità” (Giovanni Paolo II).
E. L’EMIGRAZIONE E IL LAVORO
L’immigrazione può essere una risorsa per lo sviluppo - L’arrivo dei migranti
è spesso percepito come una minaccia. Ma essi rispondono a una domanda di
lavoro.
(297) L’immigrazione può essere non un ostacolo ma una risorsa per lo svi-
luppo. Nel mondo si aggrava lo squilibrio tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Lo svi-
luppo delle comunicazioni riduce rapidamente le distanze e favorisce le migra-
zioni di persone in cerca di condizioni migliori di vita. Esse vengono dalle zone
meno favorite della terra. Il loro arrivo nei Paesi sviluppati è spesso percepito
come una minaccia da chi, dopo decenni di crescita economica, ha raggiunto
206
elevati livelli di benessere. Ma gli immigrati, nella maggioranza dei casi,
rispondono a una domanda di lavoro che senza di loro rimarrebbe senza
risposta. Essi si inseriscono in settori e in territori dove la manodopera locale è
insufficiente, o non è disposta a fornire il proprio lavoro. Non si devono sfruttare
gli stranieri - È indispensabile regolamentare i flussi migratori - Va incorag-
giato il diritto delle famiglie a ricongiungersi - Si deve favorire il lavoro degli
stranieri nel loro Paese d’origine.
(298) Le istituzioni dei Paesi ospiti devono vigilare con attenzione. Non si deve
verificare lo sfruttamento degli stranieri. I diritti dei lavoratori devono essere
assicurati a tutti senza distinzione, sia alla manodopera nazione che a quella
straniera, una condizione indispensabile perché gli inserimenti avvengano con
rispetto della dignità dovuta alla persona umana, è la regolamentazione dei
flussi migratori. Essa deve essere fatta con giustizia ed equilibrio. Gli immi-
grati devono essere accolti come persone. Con le loro famiglie devono essere aiu-
tati a integrarsi nella vita sociale. Quindi va rispettato e incoraggiato il diritto delle
famiglie a ricongiungersi. Nei limiti del possibile si devono favorire le condizioni
che rendono possibile il lavoro di queste persone nei loro Paesi di origine.
F. IL MONDO AGRICOLO E IL DIRITTO AL LAVORO
Il lavoro agricolo ha importanza crescente - Si deve superare la tendenza a
considerarlo un “residuo” del passato - Occorrono politiche agricole e ambien-
tali efficienti.
(299) Il lavoro agricolo merita una particolare attenzione. Nei sistemi economici
di molti Paesi esso ha un posto importante nella vita sociale, culturale ed economica.
Ha una importanza crescente nella salvaguardia dell’ambiente naturale, e deve af-
frontare problemi numerosi nell’economia sempre più globalizzata. “Sono dunque
necessari cambiamenti radicali e urgenti per ridare all’agricoltura – e agli uomini dei
campi– il giusto valore coma base di una sana economia, nell’insieme dello sviluppo
della comunità sociale” (Giovanni Paolo II). Profondi e radicali mutamenti sociali
e culturali stanno avvenendo nell’agricoltura e nel mondo rurale. Politiche agri-
cole e ambientali efficienti devono vincere la tendenza a considerare il mondo agri-
colo come un “residuo” di un mondo sorpassato, degno solo di un atteggiamento as-
sistenziale. Si tratta invece di elaborare prospettive per un’agricoltura moderna,
in grado di avere un ruolo significativo nella vita sociale ed economica. In alcuni
Paesi è indispensabile la riforma agraria - Il latifondo improduttivo è ostacolo
grave allo sviluppo economico - La riforma agraria è un obbligo morale.
(300) In alcuni Paesi è indispensabile la riforma agraria, con una ridistribu-
zione della terra. Questo aiuterà a superare la situazione di latifondo impro-
duttivo, condannato dalla Dottrina Sociale della Chiesa.
207
Il latifondo improduttivo è un ostacolo grave allo sviluppo economico. “I Paesi
in via di sviluppo possono contrastare efficacemente l’attuale processo di concen-
trazione della proprietà della terra se affrontano alcune situazioni che si connotano
come veri e propri nodi strutturali. Tali sono le carenze e i ritardi a livello legisla-
tivo in tema di riconoscimento del titolo di proprietà della terra e in relazione al
mercato del credito; il disinteresse per la ricerca e la formazione in agricoltura; la
negligenza a proposito di servizi sociali e di infrastrutture nelle aree rurali” (Ponti-
ficio Consiglio della Giustizia e della Pace).
La riforma agraria non è quindi soltanto una necessità economica, ma un
obbligo morale. Se non si fa la riforma agraria, vengono ostacolati in questi Paesi
i benefici portati dall’apertura dei mercati, e vengono annullate le occasioni di
crescita ottenute dalla globalizzazione.
V. I DIRITTI DEI LAVORATORI
A. DIGNITÀ DEI LAVORATORI E RISPETTO DEI LORO DIRITTI
I diritti del lavoratore sono fondati sulla sua dignità superiore - Elenco di
alcuni di questi diritti - Questi diritti sono spesso violati, fino a condizioni
disumane.
(301) I diritti del lavoratore, come tutti i diritti umani, sono fondati sulla
natura della persona umana e sulla sua dignità superiore.
Il Papa e i Vescovi, come maestri di vita cristiana e umana (= Magistero della
Chiesa) hanno elencato alcuni di questi diritti, desiderando che essi vengano
riconosciuti dalle leggi di tutte le Nazioni:
– diritto a un giusto salario,
– diritto al riposo,
– diritto “ad ambienti di lavoro ed a processi produttivi che non rechino pregiu-
dizio alla sanità fisica dei lavoratori e non ledano la loro integrità morale”
(Giovanni Paolo II),
– diritto che la personalità del lavoratore sia rispettata sul luogo di lavoro, “senza
essere violata in alcun modo nella propria coscienza o nella propria dignità”
(Giovanni Paolo II),
– diritto dei lavoratori disoccupati e delle loro famiglie a una sovvenzione indi-
spensabile per la sussistenza,
– diritto alla pensione,
– diritto all’assicurazione per la vecchiaia, la malattia, gi incidenti collegati al
lavoro,
– diritto a provvedimenti sociali durante la maternità,
– diritto di riunione e di associazione.
208
Questi diritti vengono spesso violati. È diffuso il triste fenomeno del lavoro sotto-
pagato, privo di sicurezza, del lavoratore che non ha rappresentanti dei suoi diritti.
Spesso accade che le condizioni di lavoro per uomini, donne e bambini (spe-
cialmente nei Paesi in via di sviluppo) siano talmente disumane da offendere la
loro dignità e da rovinare la loro salute.
B. IL DIRITTO ALLA GIUSTA RICOMPENSA E
ALLA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO
Il mezzo più importante perché ci sia giustizia sul lavoro è la ricompensa - La
ricompensa deve garantire dignitosamente la vita al lavoratore e ai suoi -
Perché la ricompensa sia giusta non basta un semplice accordo.
(302) Il mezzo più importante per realizzare la giustizia sul lavoro è la ricom-
pensa. Il “giusto salario è il frutto legittimo del lavoro” (Catechismo della Chiesa
Cattolica). Chi lo rifiuta, o non lo dà puntualmente, o non lo dà in giusta propor-
zione al lavoro svolto, commette un’ingiustizia grave.
Il salario è il mezzo che permette al lavoratore di disporre dei beni della terra.
“Il lavoro va ricompensato in misura tale da garantire all’uomo la possibilità di
disporre dignitosamente la vita materiale, sociale, culturale e spirituale sua e dei
suoi, in relazione ai compiti e al rendimento di ognuno, alle condizioni dell’azienda
e al bene comune” (Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes 67).
Per giudicare “giusta” la ricompensa del lavoro non basta il semplice accordo
tra il lavoratore e il datore di lavoro. La ricompensa concordata “non deve essere
inferiore al sostentamento” (Rerum Novarum) del lavoratore: la giustizia naturale
viene prima ed è superiore alla libertà del contratto.
Il benessere non si misura dai beni prodotti, ma anche dal modo in cui ven-
gono prodotti - Una giusta distribuzione del reddito deve basarsi sulla giustizia
sociale.
(303) Il benessere economico di un Paese non si misura solo dalla quantità di
beni prodotti. Occorre tenere anche conto del modo in cui essi vengono prodotti e
del grado di giustizia nella distribuzione del reddito. Essa dovrebbe consentire a
tutti di avere a disposizione ciò che serve allo sviluppo e al perfezionamento della
propria persona. Una giusta distribuzione del reddito deve essere basata non
solo sulla giustizia commutativa, ma anche sulla giustizia sociale. Oltre al
valore oggettivo delle prestazioni lavorative, quindi, si deve prendere in considera-
zione la dignità umana delle persone che le compiono. Un benessere economico
autentico si raggiunge anche attraverso efficaci politiche di ridistribuzione del red-
dito. Esse devono tener conto delle condizioni generali, e considerare concreta-
mente i meriti e i bisogni di ogni cittadino.
209
C. IL DIRITTO ALLO SCIOPERO
La dottrina sociale cristiana riconosce legittimo lo sciopero - Lo sciopero è una
delle conquiste più travagliate dei sindacati - Lo sciopero deve essere un mezzo
di lotta pacifico.
(304) La dottrina sociale cristiana riconosce legittimo lo sciopero, “quando
appare lo strumento inevitabile, o quanto meno necessario, in vista di un vantaggio
proporzionato” (Catechismo della Chiesa Cattolica), dopo che tutti gli altri modi
di superare i conflitti di lavoro si sono rivelati inefficaci.
Lo sciopero è una delle conquiste più travagliate dei sindacati. Può essere defi-
nito: il rifiuto definitivo e concordato dei lavoratori di svolgere la loro opera. Lo
scopo dello sciopero è: ottenere migliori condizioni di lavoro e miglioramenti nella
condizione sociale dei lavoratori mediante questa pressione sul datore di lavoro,
sullo Stato e sull’opinione pubblica.
Lo sciopero assume l’aspetto di un ultimatum (Giovanni Paolo II). Tuttavia
deve essere un mezzo di rivendicazione e di lotta per i propri diritti sempre
pacifico. Esso diventa “moralmente inaccettabile allorché è accompagnato da vio-
lenze oppure gli si assegnano obiettivi non direttamente connessi con le condizioni
di lavoro o in contrasto con il bene comune”(Catechismo della Chiesa Cattolica).
VI. SOLIDARIETÀ TRA I LAVORATORI
A. L’IMPORTANZA DEI SINDACATI
La Chiesa riconosce il ruolo fondamentale dei sindacati - I sindacati sono
un elemento indispensabile alla vita sociale - Il riconoscimento dei diritti dei
lavoratori rimane un problema difficile.
(305) Il Magistero della Chiesa (= il Papa e i Vescovi) riconosce il ruolo fonda-
mentale dei sindacati dei lavoratori. Essi hanno diritto di esistere perché i lavora-
tori hanno diritto a formare associazioni che difendano i loro interessi vitali. I sin-
dacati “sono cresciuti sulla base della lotta dei lavoratori, del mondo del lavoro e,
prima di tutto, dei lavoratori industriali, per la tutela dei loro giusti diritti nei con-
fronti degli imprenditori e dei proprietari dei mezzi di produzione” (Giovanni
Paolo II). Le organizzazioni sindacali realizzano il loro scopo servendo il bene
comune. Partecipano alla costruzione dell’ordine sociale e della solidarietà, e
sono quindi un elemento indispensabile alla vita sociale. Il riconoscimento dei di-
ritti del lavoro è da sempre un problema di difficile soluzione. Si deve risolvere,
infatti, dentro condizioni storiche, politiche ed economiche diverse e complesse.
Ancora oggi questo problema non è del tutto risolto. Ciò rende attuale e necessaria
la solidarietà tra i lavoratori.
210
I rapporti tra capitale e lavoro devono essere di collaborazione - I sindacati sono
i protagonisti della lotta per la giustizia sociale - Il sindacato è anzitutto strumento
di solidarietà e giustizia.
(306) La dottrina sociale della Chiesa insegna che, nel mondo del lavoro, i rap-
porti tra lavoratori e datori di lavoro devono essere di collaborazione. L’odio e le
lotte per l’eliminazione di una parte sono metodi inaccettabili. Nel processo di produ-
zione, infatti, sono indispensabili sia il lavoro sia il capitale. Alla luce di questa realtà,
la dottrina sociale “non ritiene che i sindacati costituiscano solamente il riflesso della
struttura di classe della società, e che siano l’esponente della lotta di classe, che ine-
vitabilmente governa la vita sociale” (Giovanni Paolo II). I sindacati sono i protago-
nisti della lotta per la giustizia sociale, per i diritti delle persone che lavorano
ognuna nella sua professione. “Questa ‘lotta’ deve essere vista come un normale ado-
perarsi ‘per’ il giusto bene; ...non è una lotta ‘contro’ gli altri” (Giovanni Paolo II).
Il sindacato è anzitutto strumento di solidarietà e di giustizia. Non può quindi
abusare degli strumenti di lotta. Par la sua natura deve
– evitare la tentazione del corporativismo;
– sapersi autoregolamentare;
– valutare le conseguenze delle proprie scelte rispetto al bene comune.
Il sindacato ha compiti difensivi e rivendicativi - Ha pure quello di educare la
coscienza sociale dei lavoratori - I sindacati non sono partiti politici.
(307) Il sindacato ha compiti difensivi e rivendicativi.
Ma ha pure lo scopo di collaborare a organizzare il giusto ordine nella vita
economica, e di educare la coscienza sociale dei lavoratori. I lavoratori devono
sentirsi parte attiva dello sviluppo economico e sociale e nella costruzione del bene
comune. Ognuno deve contribuirvi secondo le sue capacità e le sue attitudini. Il
sindacato e le altre associazioni di lavoratori, devono collaborare con le altre
parti sociali e devono interessarsi alla gestione dello Stato.
Le organizzazioni sindacali hanno il dovere di influire sul potere politico, per sensi-
bilizzarlo ai problemi del lavoro e per impegnarlo alla realizzazione dei diritti dei la-
voratori. Tuttavia i sindacati non sono “partiti politici” che lottano per avere in
mano la direzione dello Stato. Non devono neppure essere sottoposti alle decisioni
dei partiti politici o avere con loro legami troppo stretti: “in una tale situazione essi
perdono facilmente il contatto con ciò che è il loro compito specifico, che è quello di
assicurare i giusti diritti degli uomini del lavoro nel quadro del bene comune dell’in-
tera società, e diventano, invece, uno strumento per altri scopi” (Giovanni Paolo II).
B. NUOVE FORME DI SOLIDRIETÀ
La globalizzazione spinge i sindacati a rinnovarsi - Occorre ampliare l’azione
211
di solidarietà - Bisogna riscoprire il valore soggettivo del lavoro.
(308) La globalizzazione economico-finanziaria sempre più rapida, spinge i
sindacati a rinnovarsi. Devono agire in forme nuove. Occorre ampliare l’azione
di solidarietà in modo che siano tutelati non solo i lavoratori tradizionali, ma anche:
– i lavoratori con contratti atipici o a tempo indeterminato,
– i lavoratori minacciati di disoccupazione dalle fusioni delle imprese a livello
nazionale e internazionale,
– i disoccupati, gli immigrati, i lavoratori stagionali,
– coloro che, per mancanza di aggiornamento professionale, sono stati allonta-
nati dal mondo del lavoro, e non vi possono far ritorno senza riqualificazione.
Di fronte ai cambiamento avvenuti nel mondo del lavoro, si deve riscoprire
il valore soggettivo del lavoro (= attività di una persona fornita di dignità
superiore). Sarà così più facile riscoprire e rifondare, meglio che in passato, la
solidarietà: “Bisogna continuare a interrogarsi circa il soggetto del lavoro e le con-
dizioni in cui egli vive”. Per questo “sono necessari sempre nuovi movimenti di
solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro”
(Giovanni Paolo II). Le associazioni dei lavoratori assumano maggiori respon-
sabilità - Influiscano sulla trasformazione delle condizioni sociali, politiche -
Superare il modello attuale “salario-impresa”.
(309) Progettando nuove forme di solidarietà, le associazioni dei lavoratori
devono assumere sempre maggiori responsabilità.
Devono influire non solo sui meccanismi tradizionali della ridistibuzione della
ricchezza, ma anche sulla produzione della ricchezza stessa.
Devono influire sulla trasformazione delle condizioni sociali, politiche e cultu-
rali in maniera che esse rendano possibile la realizzazione del diritto al lavoro
a tutti coloro che vogliono lavorare, nel rispetto della loro dignità.
Occorre superare gradualmente il modello attuale basato sul binomio “sa-
lario-grande impresa”. Questo porterà ad un aggiornamento delle norme e dei
sistemi di sicurezza sociale dai quali i lavoratori sono stati finora protetti. In questo
cambiamento dovranno essere salvaguardati i loro diritti fondamentali.
VII. LE REALTÀ NUOVE DEL MONDO DEL LAVORO
A. STIAMO VIVENDO UN’ETÀ DI PASSAGGIO EPOCALE
L’organizzazione del lavoro sta vivendo la globalizzazione - La proprietà è
lontana dalle conseguenze sociali delle sue decisioni - È necessario globalizzare
i diritti fondamentali dei lavoratori.
212
(310) L’organizzazione del lavoro sta vivendo profondissimi cambiamenti. Uno
dei cambiamenti fondamentali e stimolanti è la globalizzazione.
Questo fenomeno permette di sperimentare nuove forme di produzione. Si possono
dislocare in luoghi diversi gli impianti, i centri direzionali, i mercati di consumo.
Le realtà che permettono questi cambiamenti sono due:
– le comunicazioni divenute straordinariamente veloci, senza limiti di spazio e di
tempo;
– il trasporto delle persone e dei mezzi in ogni parte del mondo divenuto relati-
vamente facile.
Tutto questo ha una conseguenza fondamentale sulla produzione: la proprietà
è sempre più lontana e indifferente alle conseguenze sociali delle sue decisioni.
La globalizzazione in sé non è né buona né cattiva, ma diventa buona o cattiva
dall’uso che se ne fa.
È quindi necessario che la tutela dei lavoratori, i loro diritti essenziali, la giu-
stizia siano anch’essi globalizzati, cioè estesi a tutto il mondo.
La frammentazione - Le sue conseguenze notevoli sulla vita
(311) Un’altra caratteristica molto importante della nuova organizzazione del
lavoro è la frammentazione. Per avere la massima efficienza e il massimo risul-
tato, il ciclo produttivo viene diviso in piccoli frammenti. Lo spazio e il tempo in
cui si svolge il ciclo produttivo sono trasformati. E quindi la struttura stessa del
lavoro cambia in maniera radicale.
Tutto questo ha conseguenze notevoli sulla vita delle singole persone, delle fa-
miglie, delle comunità umane. Esse vengono sottoposte a cambiamenti radicali
sul piano materiale, culturale, umano. Milioni di persone sono coinvolte in questo
fenomeno, a livello mondiale e a livello locale. Qualunque sia la loro professione,
la loro condizione sociale, la preparazione culturale, non sfuggono a questo feno-
meno. È in atto una seconda rivoluzione industriale che coinvolge tutti i settori pro-
duttivi, in tutti i continenti, in tutti i gradi di sviluppo. Come la prima rivoluzione
industriale (= la nascita della fabbrica, il sorgere della classe operaia) sta portando
cambiamenti radicali nella vita dei lavoratori. E questo attraverso la riorganizza-
zione e la regolazione del tempo, e con i cambiamenti nell’uso dello spazio. Questa
seconda rivoluzione industriale è una sfida decisiva che chiama tutti (anche a
livello etico e culturale) a un rinnovamento profondo nella tutela del lavoro, La
situazione nuova esige maggior flessibilità - Occorre maggiore sensibilità
morale, culturale, progettuale
(312) La globalizzazione dell’economia si accompagna con la liberalizzazione
dei mercati, con la concorrenza aperta, con la crescita di imprese specializzate
nel fornire prodotti e servizi. Tutto questo richiede maggior flessibilità
213
– nel mercato del lavoro;
– nell’organizzare e gestire i processi produttivi.
Occorre maggiore sensibilità morale, culturale, progettuale
– nel valutare questa delicata materia,
– nell’orientare l’azione sociale e politica in questa economia e in questi mercati
nuovi.
Occorre pure tener presente che spesso è il cambiamento del lavoro a provocare
il cambiamento del mercato del lavoro.
I servizi e le attività informatiche crescono in maniera più rapida - Le innovazioni
tecnologiche creano nuove professioni - Le forme nuove di lavoro sono più difficili
da tutelare.
(313) Nei Paesi più sviluppati il lavoro sta passando da un’economia che ha il
suo centro nell’industria a un’economia che ha il suo centro nei servizi e nelle
innovazioni tecnologiche. Sta accadendo infatti che i servizi e le attività infor-
matiche crescono in maniera più rapida rispetto ai settori chiamati “primo” e
“secondo” (= agricoltura e industria). Le conseguenze sono enormi
– nell’organizzazione della produzione e degli scambi,
– nell’attività dei lavoratori,
– nei sistemi di protezione sociale.
Sta pure accadendo che le innovazioni tecnologiche creano professioni nuove nel
campo del lavoro, mentre altre professioni scompaiono. In questo periodo di trans-
izione avviene un continuo passaggio di lavoratori dall’industria ai servizi. Quel
mondo del lavoro caratterizzato dalla grande fabbrica e dalla classe operaia si rim-
picciolisce, mentre cresce il numero di chi lavora nei settori dei servizi della per-
sona, di chi fa lavori part-time, lavori interinali, lavori “atipici”. Queste ultime
forme di lavoro non possono essere considerate né lavori dipendenti né lavori in-
dipendenti. Sono quindi più difficili da tutelare nei loro diritti. Stiamo assistendo
al passaggio tra due generi di lavoro - Occorre armonizzare la difesa dei lavo-
ratori con le nuove esigenze - L’insicurezza e la precarietà investono anche i
Paesi in via di sviluppo.
(314) Questo periodo di transizione segna il passaggio tra due generi di lavoro.
Dal lavoro dipendente con posto fisso a tempo indeterminato, a un lavoro com-
posto da diverse attività lavorative. Si passa da un mondo di lavoro compatto, defi-
nito e riconosciuto, a un insieme di lavori che costituiscono un mondo lavorativo
variegato, fluido, ricco di promesse, ma anche carico di interrogativi preoccupanti.
Il lavoratore si trova davanti a una crescente incertezza sulla sua occupazione, da-
vanti a fenomeni di disoccupazione causati dalla stessa struttura del lavoro, davanti
alla insufficienza degli attuali sistemi di sicurezza sociale.
214
Occorre armonizzare la difesa del lavoratore e dei suoi diritti con le esigenze
della concorrenza, della continua innovazione tecnologica, della complessità dei
finanziamenti.
L’insicurezza e la precarietà non riguardano solo i lavoratori che vivono nel
Paesi sviluppati. Investono anche i Paesi in via di sviluppo e sulla via del cambia-
mento. Questi Paesi sono le zone economicamente non avanzate del nostro pianeta.
Esse devono affrontare nello stesso tempo due diversi e gravi problemi:
– il cambiamento dei modelli economici e produttivi;
– le difficili esigenze della globalizzazione.
Il mondo del lavoro di questi Paesi, investito dai vasti e radicali cambiamenti,
è in una situazione drammatica. È infatti spesso privo di leggi, di tempi di for-
mazione, di assistenza sociale.
Si sta verificando il fenomeno del “decentramento produttivo” - Molte attività
fino a ieri dipendenti, si realizzano in forme nuove - Tuttavia si moltiplicano i
casi di trattamento ingiusto.
(315) Molte attività fino a ieri concentrate nelle grandi aziende, sono svolte
oggi da aziende più piccole. È il fenomeno del “decentramento produttivo”.
Questo decentramento dà vigore e nuovo slancio alle imprese piccole e medie. Ac-
canto all’artigianato tradizionale, emergono nuove imprese costituite da piccole
unità produttive. Esse operano in attività che vengono decentrate dalle grandi
aziende, e in settori moderni di produzione.
Molte attività che ieri erano svolte da lavoratori dipendenti, oggi vengono
realizzate in forme nuove. Queste aziende medio-piccole favoriscono il lavoro
indipendente, e hanno un tasso più alto di responsabilità e di rischio. Il lavoro nelle
aziende medie e piccole, il lavoro artigianale, il lavoro indipendente possono essere
un’occasione per rendere più umano l’ambiente di lavoro. I lavoratori, in queste
piccole comunità di lavoro, possono stabilire relazioni tra persone, possono avere
più iniziativa, più partecipazione all’impresa. Tuttavia si moltiplicano i
casi di trattamento ingiusto, di lavoro mal pagato, di occupazione non sicura in
non pochi di questi settori. Nei Paesi in via di sviluppo si sviluppa il “lavoro
sommerso” - Esso produce numerosi posti di lavoro in un’economia disordi-
nata - Il reddito è sovente insufficiente alla sussistenza.
(316) In questi ultimi tempi, nei Paesi in via di sviluppo, si è sviluppato il
“lavoro sommerso”. Un elevato numero di persone, cioè, deve lavorare senza re-
gole che tutelino la dignità dei lavoratori, e quindi in condizione di grande disagio.
Queste attività creano numerosi posti di lavoro tra i lavoratori locali, privi di
specializzazione, in uno sviluppo disordinato dell’economia. I livelli di produtti-
215
vità, di reddito e di tenore di vita sono estremamente bassi, sovente insufficienti
a garantire il livello di sussistenza dei lavoratori e delle loro famiglie.
B. LA DOTTRINA SOCIALE E LE REALTÀ NUOVE
Di fronte alle realtà nuove, la dottrina sociale richiama 4 principi:
– i cambiamenti non sono inevitabili,
– l’arbitro è sempre la persona,
– le realtà nuove devono aiutare la crescita della persona,
– occorre riaffermare la “dimensione soggettiva” del lavoro.
(317) Di fronte a queste realtà nuove, che dice la Chiesa?
– Innanzitutto raccomanda di non considerare questi cambiamenti come “avve-
nimenti necessari, inevitabili”.
– L’arbitro e il fattore decisivo di questa fase di cambiamento è sempre la
persona umana. Essa resta la vera protagonista del suo lavoro.
– La persona umana deve gestire in modo creativo e responsabile le “realtà
nuove”, in maniera che esse aiutino la crescita della persona, della famiglia,
della società e della famiglia umana.
– È illuminante per tutti il richiamo della Chiesa alla “dimensione soggettiva”
del lavoro, che deve avere sempre la priorità. Il lavoro umano “proviene im-
mediatamente da persone create ad immagine di Dio e chiamate a prolungare,
le une CON e PER le altre, l’opera della creazione sottomettendo la terra”
(Catechismo della Chiesa Cattolica).
Le interpretazioni economicistiche sono già superate - Esse non capiscono i
bisogni umani profondi - La persona umana segue un impulso che la spinge
sempre “al di là”.
(318) Oggi sono prevalenti le interpretazioni meccanicistiche ed economici-
stiche della vita produttiva. Ma sono già superate dalle analisi scientifiche dei pro-
blemi del lavoro. Queste interpretazioni sono assolutamente incapaci di interpretare
i problemi del lavoro. Ogni giorno, oggi più di ieri, i fatti dimostrano che il lavoro
serve all’umanità in quanto è un’attività libera e creativa della persona umana.
Occorre superare senza indugio le dottrine teoriche e i criteri operativi che
sono incapaci di riconoscere i bisogni umani concreti e pressanti. Essi si esten-
dono ben al di là dei bisogni soltanto economici. La Chiesa sa, e da sempre in-
segna, che la persona umana (diversamente dagli altri esseri viventi) ha bisogni che
non si riducono all’AVERE. La sua natura e la sua vocazione tendono alle realtà
trascendenti (= che non sono solo materia).
La persona umana, col suo lavoro, si dedica alla trasformazione delle cose
innanzitutto per soddisfare i suoi bisogni materiali. Ma lo fa seguendo un
216
impulso che la spinge sempre al di là dei risultati raggiunti, alla ricerca di ciò che
può soddisfare le sue profonde e ineliminabili esigenze interiori.
Il lavoro cambia, ma non le esigenze umane - Più profondi sono i cambia-
menti, più deciso sarà l’impegno - Le istituzioni indichino le strade.
(319) Nella storia umana, le forme in cui si esprime il lavoro cambiano, ma non
cambiano le esigenze perenni della persona umana che lavora. Queste esigenze
perenni si possono riassumere così: rispetto dei diritti umani. C’è il rischio che
questi diritti umani siano negati. Quindi occorre costruire nuove forme di soli-
darietà: i lavoratori sono interdipendenti tra loro. Quanto più profondi sono i
cambiamenti, tanto più dev’essere decisivo l’impegno per tutelare la dignità del
lavoro. Si devono rafforzare, con intelligenza e volontà, le istituzioni che riguardano
il lavoro.
Esse devono tracciare le strade percorrendo le quali si possano conciliare:
– l’economia locale e quella globale,
– l’economia “vecchia” e quella “nuova”,
– l’innovazione tecnologica e la salvaguardia del lavoro umano,
– la crescita economica e il rispetto dell’ambiente.
Il compito degli scienziati e degli uomini di cultura - Il loro contributo molto
importante per trovare soluzioni giuste - Il grave compito di interpretare i
fenomeni sociali.
(320) Gli scienziati e le persone di cultura sono chiamati a contribuire alla
soluzione dei problemi del lavoro, difficili e in certe zone drammatici. Il loro con-
tributo a trovare soluzioni giuste è molto importante. Essi devono mettere in
evidenza le occasioni favorevoli e i rischi che sono presenti nei cambiamenti. Ma
soprattutto devono suggerire le linee di azione da seguire perché il cambiamento
avvenga nel modo più favorevole alla famiglia umana. Essi hanno il grave com-
pito di interpretare i fenomeni sociali, con intelligenza e amore alla verità,
senza cadere in interessi personali o di gruppo. Il loro contributo è un punto di rife-
rimento essenziale per chi deve agire concretamente nelle politiche economiche.
È urgente uno sviluppo globale e solidale - Gli squilibri vanno affrontati met-
tendo al primo posto la persona.
(321) Le attuali trasformazioni profonde del lavoro umano rendono urgente
uno sviluppo globale e solidale che coinvolga tutte le zone del mondo, com-
prese quelle meno favorite. Per le zone meno favorite, l’inizio di un vasto pro-
cesso di sviluppo solidale non è solo la condizione per creare nuovi posti di lavoro,
ma è la condizione perché interi popoli riescano a sopravvivere. “Occorre globaliz-
zare la solidarietà” (Giovanni Paolo II). Nel mondo del lavoro ci sono squilibri
217
economici e sociali. Vanno affrontati mettendo al primo posto la dignità della
persona umana che lavora, e ristabilendo la giusta gerarchia dei valori.
Si devono considerare con attenzione le nuove situazioni - L’universalità è una
propensione della persona, non delle cose - Gli aspetti negativi della globaliz-
zazione non devono mortificare quelli positivi.
(322) È necessario considerare con attenzione le nuove situazioni del lavoro
nella globalizzazione. Occorre valorizzare la inclinazione naturale della persona
umana a stabilire relazioni. L’universalità è una propensione della persona
umana, non delle cose. La globalizzazione può avere come causa strumentale
la tecnica, ma la sua causa ultima è l’universalità della famiglia umana. Anche il
lavoro, quindi, ha una sua dimensione universale, perché fondato sulle relazioni
umane.
Le tecniche (specialmente quelle elettroniche) hanno esteso a tutto il pianeta le
relazioni riguardanti il lavoro, e hanno impresso così alla globalizzazione un ritmo
molto accelerato.
Il fondamento ultimo di questo dinamismo è la persona che lavora: l’elemento sog-
gettivo prevale sempre su quello oggettivo. Anche il lavoro globalizzato ha quindi
la sua origine dall’essere opera della persona umana incline alle relazioni.
Gli aspetti negativi della globalizzazione del lavoro non devono mortificare
le sue qualità positive. Essa dà la possibilità di iniziare un umanesimo del lavoro
a livello planetario, una solidarietà del lavoro a livello mondiale. Se lavora in un
simile ambiente, vasto come il mondo ma solidale, la persona umana capisce
sempre più la sua vocazione all’unità e alla solidarietà.
219
CONCLUSIONI
Come detto nell’introduzione, questo volume nasce dall’esperienza e si propone
come strumento per realizzare ulteriori esperienze.
Si tratta di una proposta aperta a ulteriori sviluppi. Il proposito è divulgare suc-
cessive edizioni di questo manuale, arricchite da nuovi materiali. Pertanto, l’invito
che rivolgiamo ai lettori è di far pervenire alla Sede Nazionale del CNOS-FAP os-
servazioni sui materiali qui riprodotti, ma soprattutto altri materiali che possano
aiutarci ad arricchire questa raccolta.
Ci auguriamo che la “bussola”, le schede di sintesi qui offerte e i documenti al-
legati nel CD risultino utili per la pianificazione e l’attivazione di interventi
educativi con gli allievi della formazione professionale, così che nei nostri Centri si
possa continuare ad erogare una formazione integrale della persona.
221
INDICE
PRESENTAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
Parte I
PER ORIENTARSI TRA LE “BUONE PRATICHE”
PREMESSA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
Capitolo 1
Progetti nell’area dell’Educazione alla Convivenza Civile: esperienze, riflessioni
e suggerimenti operativi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11
1. Testimoni privilegiati ascoltati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
2. Fonti web utilizzate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
3. Mappa dei concetti e delle parole chiave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17
4. Schede dei progetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
4.1. Strutturati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
1) Accoglienza stranieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
2) Adotta un diritto umano umano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
3) Caro amico ti scrivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19
4) Diversamente: comunicare è conoscere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19
5) Educare alla solidarietà - Scoprire il volontariato . . . . . . . . . . . . . . . . . 20
6) Educazione al senso civico e legale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20
7) Educazione alla cittadinanza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20
8) Educazione alla cittadinanza. Progetto provinciale . . . . . . . . . . . . . . . . 21
9) Educazione alla pace . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21
10) Educhiamoci alla legalità e alla solidarietà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22
11) I.M.I.G - Identità- Multiculturalità - Interdipendenza - Globalizzazione 22
12) L’Europa per noi europei, l’Europa per gli altri . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
13) Manifestare la Pace . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
14) Parole che uniscono, parole che dividono. Progetto di educazione alla
legalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24
15) Prevenire i conflitti interculturali educando alla solidarietà . . . . . . . . . 24
16) Studenti e docenti in formazione. Percorsi di formazione per attivare
politiche di partecipazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25
222
17) Tempo dell’educazione alla cooperazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25
18) Viaggio alla scoperta del Governo del mondo tra Istituzioni e cittadi-
nanza attiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26
19) Vivere l’amicizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26
20) Volontariato ed educazione alla solidarietà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27
4.2. Altri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27
21) Abbiamo riso per una cosa seria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27
22) Berlino città della memoria e della cultura europea . . . . . . . . . . . . . . . 28
23) Cinque passi per un mondo più giusto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28
24) Cultura dell’incontro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29
25) E se scoppiasse la pace? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29
26) Educazione interculturale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29
27) Il progetto della Memoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30
28) Incontri. Percorso a schede sul dialogo interreligioso . . . . . . . . . . . . . 31
29) “Io ci sono stato” I giorni della memoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31
30) L’Islam in occidente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
31) Multilingue e Multiculture . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32
32) Non di solo rito... Le religioni nei luoghi di socializzazione . . . . . . . . 33
33) Responsabilità di tutti... protagonismo dei giovani . . . . . . . . . . . . . . . 33
34) Roma-Auschiwitz. Mai più . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33
Capitolo 2
Educazione professionale: esperienze, riflessioni e suggerimenti operativi . . . . 35
1. Testimoni privilegiati ascoltati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37
2. Fonti web utilizzate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37
3. Mappa dei concetti e delle parole chiave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38
4. Schede dei progetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
4.1. Strutturati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
1) Alternanza scuola-lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
2) Laboratorio d’impresa “White Eagles – Edizioni musicali S.p.A.” .
Costruzione e gestione di un’impresa in ambiente protetto . . . . . . . . . . 39
3) Laboratorio dell’integrazione tra scuola e mondo del lavoro . . . . . . . . . 40
4) Simulimpresa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40
5) Tutto il resto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41
4.2. Altri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41
6) Consumattori. Campo estivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41
7) Evangelizzazione nella FP . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41
8) Guarda dove vai. Campo estivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42
9) Il lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42
10) Il tempo di vita e il tempo di lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43
11) La disoccupazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43
12) Scuola al gusto di Yogurt . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44
223
Capitolo 3
Progetti nell’area dell’Educazione religiosa: esperienze, riflessioni e suggerimenti
operativi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45
1. Testimoni privilegiati ascoltati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
2. Fonti utilizzate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
3. Mappa dei concetti e delle parole chiave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48
4. Schede dei progetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49
4.1. Strutturati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49
1) I personaggi famosi dell’Antico e del Nuovo Testamento . . . . . . . . . . . 49
2) In ascolto dei giovani nei loro ambienti di vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49
3) L’uomo secondo il cristianesimo. Pace, solidarietà e mondialità . . . . . . 50
4) Progetto educativo dell’Istituto “Massimiliano Massimo” . . . . . . . . . . . 50
5) Progetto scolastico dell’IRC . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50
6) Tutti i prezzi della nostra vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51
7) Vero... su bianco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51
4.2. Altri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52
8) CFP: luoghi d’incontro fra culture diverse. Quale proposta di fede? . . . 52
9) Dispensa di cultura religiosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52
10) Gli adolescenti chi sono? Cosa vogliono? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53
11) Il creato nelle mani dell’uomo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53
12) La legge: libertà nella prospettiva dell’altro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
13) La storia delle origini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
14) Un esempio di vita cristiana - Perché la sofferenza . . . . . . . . . . . . . . . 54
15) Una festa speciale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55
Capitolo 4
Progetti nell’area dell’Educazione Salesiana: esperienze, riflessioni e suggerimenti
operativi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57
1. Testimoni privilegiati ascoltati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59
2. Fonti web utilizzate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60
3. Mappa dei concetti e delle parole chiave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60
4. Schede dei progetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61
4.1. Strutturati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61
1) Progetto Educativo-Pastorale Salesiano (PEPS) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61
2) Una comunità a colori. Percorsi d’integrazione dei minori stranieri . . . . 61
4.2. Altri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62
3) Amatevi come io vi amo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62
4) Drug Stop . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62
224
5) In-Tessuti di Vita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63
6) Io sono il Signore Dio tuo e non avrai altro Dio fuori di me . . . . . . . . . 63
7) Progetto della comunità formatrice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63
8) Progetto della Comunità Salesiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64
9) Sentirsi a casa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64
10) Un possibile itinerario per lo sviluppo della proposta per giovani/ragazzi 65
Parte II
I CRISTIANI E IL LAVORO
PREMESSA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69
1. Fonti web utilizzate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69
2. Mappa dei concetti e delle parole chiave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70
Capitolo 1
L’Europa tra il 400 e il 500. Le devastanti invasioni barbariche e la luminosa
figura di San Benedetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71
1. Nel 167 i popoli germani varcano il Danubio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71
2. Roma saccheggiata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72
Capitolo 2
L’Europa e l’Italia tra il 1500 e il 1600. Dalle corporazioni alla grave crisi del
1500 e 1600 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77
Capitolo 3
La Rivoluzione industriale e il prezzo umano del benessere . . . . . . . . . . . . . . . . 101
1. Cominciano ad esistere la “fabbrica” e gli “operai” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101
2. Il costo umano del benessere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102
3. L’agonia dei fanciulli torturati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102
Capitolo 4
Il pensiero dei Papi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 175
1. Leone XIII. Il Papa della Rerum Novarum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 176
1.1. Rerum Novarum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 176
1.2. Sette encicliche e un libro sviluppano il messaggio di Leone XIII . . . . . . . 178
225
2. Giovanni Paolo II. Il Papa che fu operaio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178
2.1. A imparare l’italiano dai ragazzini di Roma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179
2.2. Papa Giovanni Paolo II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 180
2.3. Sette orizzonti per l’umanità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 180
3. Benedetto XVI. Guardiamo ai Santi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 182
3.1. Il Catechismo della Chiesa Cattolica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183
3.2. Il punto sulla Dottrina Sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 184
APPENDICE - Dal Compendio Dottrina Sociale della Chiesa . . . . . . . . . . . . . . . . . 187
CONCLUSIONI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219
INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 221
227
Pubblicazioni 2002-2008
nella collana del CNOS-FAP e del CIOFS/FP
“STUDI, PROGETTI, ESPERIENZE PER UNA NUOVA FORMAZIONE PROFESSIONALE”
ISSN 1972-3032
1. Nella sezione “studi”
1) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XIV seminario di formazione europea. La formazione professionale
per lo sviluppo del territorio. Castel Brando (Treviso), 9 - 11 settembre 2002, 2003
2) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XV seminario di formazione europea. Il sistema dell’istruzione e
formazione professionale nel contesto della riforma. Significato e percorsi, 2004
3) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVI seminario di formazione europea. La formazione professionale
fino alla formazione superiore. Per uno sviluppo in verticale di pari dignità, 2005
4) CIOFS/FP (a cura di), Atti del XVIII seminario di formazione europea. Standard formativi nel-
l’istruzione e nella formazione professionale. Roma,7-9 settembre 2006, 2007
5) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Opportunità occupazionali e sviluppo turistico dei territori di Cata-
nia, Noto, Modica, 2004
6) CIOFS/FP SICILIA (a cura di), Vademecum. Strumento di lavoro per l’erogazione dei servizi orien-
tativi, 2003
7) CNOS-FAP (a cura di), Gli editoriali di “Rassegna CNOS” 1996-2004. Il servizio di don Stefano
Colombo in un periodo di riforme, 2004
8) COLASANTO M. (a cura di), Il punto sulla formazione professionale in Italia in rapporto agli
obiettivi di Lisbona, 2008
9) COLASANTO M. - R. LODIGIANI (a cura di), Il ruolo della formazione in un sistema di welfare attivo,
2007
10) D’AGOSTINO S. - G. MASCIO - D. NICOLI, Monitoraggio delle politiche regionali in tema di istruzio-
ne e formazione professionale, 2005
11) DONATI C. - L. BELLESI, Giovani e percorsi professionalizzanti: un gap da colmare? Rapporto fina-
le, 2007
12) DONATI C. - L. BELLESI, Ma davvero la formazione professionale non serve più? Indagine conosci-
tiva sul mondo imprenditoriale (in stampa)
13) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione
della FPI secondo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto finale, 2002
14) MALIZIA G. - V. PIERONI (a cura di), Ricerca azione di supporto alla sperimentazione della FPI se-
condo il modello CNOS-FAP e CIOFS/FP. Rapporto sul follow - up, 2003
15) MALIZIA G. - V. PIERONI, Follow-up della transizione al lavoro degli allievi/e dei percorsi triennali
sperimentali di IeFP, 2008
16) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP
del CNOS-FAP e del CIOFS/FP della Sicilia. Rapporto di ricerca, 2007
17) MALIZIA G. - V. PIERONI, Le sperimentazioni per la formazione iniziale del diritto-dovere nei CFP
del CNOS-FAP e del CIOFS/FP del Lazio. Rapporto di ricerca, 2007
18) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione
professionale, 2004
19) MALIZIA G. (coord.) - D. ANTONIETTI - M. TONINI (a cura di), Le parole chiave della formazione
professionale. II edizione, 2006
20) MALIZIA G. et alii, Diritto-dovere all’istruzione e alla formazione e anagrafe formativa. Problemi e
prospettive, 2007
21) MALIZIA G. et alii, Stili di vita di allievi/e dei percorsi formativi del diritto-dovere, 2007
228
22) NICOLI D. - G. MALIZIA - V. PIERONI, Monitoraggio delle sperimentazioni dei nuovi percorsi di
istruzione e formazione professionale nell’anno formativo 2004-2005, 2006
23) NICOLI D. - R. FRANCHINI, Costruzione dell’identità personale e sociale negli adolescenti e nei
giovani. La proposta dell’Istruzione e formazione professionale, 2007
24) NICOLI D., La rete formativa nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP, 2007
25) PELLEREY M., Processi formativi e dimensione spirituale e morale della persona. Dare senso e
prospettiva al proprio impegno nell’apprendere lungo tutto l’arco della vita, 2007
26) PELLEREY M., Studio sull’intera filiera formativa professionalizzante alla luce delle strategie di
Lisbona a partire dalla formazione superiore non accademica. Rapporto finale, in stampa
27) PIERONI V. - G. MALIZIA (a cura di), Percorsi/progetti formativi “destrutturati”. Linee guida per
l’inclusione socio-lavorativa di giovani svantaggiati, 2005
28) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, 2004
29) RUTA G., Etica della persona e del lavoro, Ristampa 2007
2. Nella sezione “progetti”
30) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi.
Un approccio metodologico e proposte di strumenti, 2003
31) ASSOCIAZIONE CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodo-
logico e proposte di strumenti, 2003
32) BALDI C. - M. LOCAPUTO, L’esperienza di formazioni formatori nel progetto integrazione 2003. La
riflessività dell’operatore come via per la prevenzione e la cura educativa degli allievi della FPI,
2008
33) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La corresponsabilità CFP-famiglia: i genitori nei CFP. Esperienza
triennale nei CFP CNOS-FAP (2004-2006), 2006
34) BECCIU M. - A.R. COLASANTI, La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi, 2003
35) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati.
Comunità professionale alimentazione, 2004
36) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati.
Comunità professionale aziendale e amministrativa, 2004
37) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati.
Comunità professionale commerciale e delle vendite, 2004
38) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati.
Comunità professionale estetica, 2004
39) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati.
Comunità professionale sociale e sanitaria, 2004
40) CIOFS/FP - CNOS-FAP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati.
Comunità professionale tessile e moda, 2004
41) CIOFS/FP (a cura di), Un modello per la gestione dei servizi di orientamento, 2003
42) CIOFS/FP BASILICATA, L’orientamento nello zaino. Percorso nella scuola media inferiore. Diffu-
sione di una buona pratica, 2004
43) CIOFS/FP CAMPANIA (a cura di), OrION tra orientamento e network, 2004
44) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), L’accoglienza nei percorsi formativo-orientativi. Un approccio
metodologico e proposte di strumenti, 2003
45) CIOFS/FP PIEMONTE (a cura di), Le competenze orientative. Un approccio metodologico e
proposte di strumenti, 2003
46) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati.
Comunità professionale elettrica e elettronica, 2004
47) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati.
Comunità professionale grafica e multimediale, 2004
229
48) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati.
Comunità professionale legno e arredamento, 2005
49) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati.
Comunità professionale meccanica, 2004
50) CNOS-FAP - CIOFS/FP (a cura di), Guida per l’elaborazione dei piani formativi personalizzati.
Comunità professionale turistica e alberghiera, 2004
51) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida
alla compilazione delle unità didattiche, 2003
52) CNOS-FAP (a cura di), Centro Risorse Educative per l’Apprendimento (CREA). Progetto e guida
alla compilazione dei sussidi, II edizione, 2006
53) CNOS-FAP (a cura di), Guida per la fruizione delle risorse formative CNOS-FAP, in stampa
54) CNOS-FAP (a cura di), Proposta di esame per il conseguimento della qualifica professionale.
Percorsi triennali di Istruzione formazione Professionale, 2005
55) COMOGLIO M. (a cura di), Prova di valutazione per la qualifica: addetto ai servizi di impresa.
Prototipo realizzato dal gruppo di lavoro CIOFS/FP, s.d.
56) D’AGOSTINO S., Apprendistato nei percorsi di diritto-dovere, 2007
57) FONTANA S. - G. TACCONI - M. VISENTIN, Etica e deontologia dell’operatore della FP, 2003
58) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, 2003
59) GHERGO F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo. Una proposta di percorsi per la
creazione di impresa. II edizione, 2007
60) MALIZIA G. - V. PIERONI - A. SANTOS FERMINO, Individuazione e raccolta di buone prassi mirate al-
l’accoglienza, formazione e integrazione degli immigrati, in stampa
61) MARSILII E., Dalla ricerca al rapporto di lavoro. Opportunità, regole e strategie, 2007
62) MARSILII E., Guida per l’accompagnamento al lavoro dipendente, 2003
63) NICOLI D. - G. TACCONI, Valutazione e certificazione degli apprendimenti. Ricognizione dello stato
dell’arte e ricerca nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP. I volume, 2007
64) NICOLI D. (a cura di), Il diploma di istruzione e formazione professionale. Una proposta per il
percorso quadriennale, 2005
65) NICOLI D. (a cura di), Linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema dell’istru-
zione e della formazione professionale, 2004
66) NICOLI D. (a cura di), Sintesi delle linee guida per la realizzazione di percorsi organici nel sistema
dell’istruzione e della formazione professionale, 2004
67) NICOLI D., Linee guida per i percorsi di istruzione e formazione professionale, in stampa
68) NICOLI D., Valutazione e certificazione degli apprendimenti. Ricognizione dello stato dell’arte e
ricerca nella pratica educativa della Federazione CNOS-FAP. II volume, 2008
69) POLACEK K., Guida e strumenti di orientamento. Metodi, norme ed applicazioni, 2005
70) RUTA G. (a cura di), Vivere in... 1. L’identità. Percorso di cultura etica e religiosa, 2007
71) RUTA G. (a cura di), Vivere... Linee guida per i formatori di cultura etica e religiosa nei percorsi di
Istruzione e Formazione Professionale, 2007
72) TACCONI G. (a cura di), Insieme per un nuovo progetto di formazione, 2003
73) VALENTE L. - D. ANTONIETTI, Quale professione? Strumento di lavoro sulle professioni e sui per-
corsi formativi, 2003
74) VALENTE L. (a cura di), Sperimentazione di percorsi orientativi personalizzati, 2005
3. Nella sezione “esperienze”
75) ALFANO A., Un progetto alternativo al carcere per i minori a rischio. I sussidi utilizzati nel Centro
polifunzionale diurno di Roma, 2006
76) CIOFS/FP PUGLIA (a cura di), ORION. Operare per l’orientamento. Un approccio metodologico
condiviso e proposte di strumenti, 2003
230
77) CNOS-FAP (a cura di), Educazione della persona: una “bussola” per orientarsi tra buone
pratiche, (in stampa)
78) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 1. Guida per l’accoglienza, 2003
79) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 2. Guida per l’accompagnamento in
itinere, 2003
80) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 3. Guida per l’accompagnamento fina-
le, 2003
81) CNOS-FAP PIEMONTE (a cura di), L’orientamento nel CFP. 4. Guida per la gestione dello stage,
2003
82) COMOGLIO M. (a cura di), Il portfolio nella formazione professionale. Una proposta per i percorsi
di istruzione e formazione professionale, 2006
83) MALIZIA G. - D. NICOLI - V. PIERONI, Una formazione di successo. Esiti del monitoraggio dei
percorsi sperimentali triennali di istruzione e formazione professionale in Piemonte 2002-2006.
Rapporto finale, 2006
84) NICOLI D. - COMOGLIO M., Una formazione efficace. Esiti del monitoraggio dei percorsi sperimen-
tali di Istruzione e Formazione professionale in Piemonte 2002-2006, 2007
85) TONIOLO S., La cura della personalità dell’allievo. Una proposta di intervento per il coordinatore
delle attività educative del CFP, 2005
Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma
Tel. 06.78.27.819 - Fax 06.78.48.333 - E-mail: tipolito@pcn.net
Dicembre 2008