Il Rapporto Annuale 2011
45° Rapporto sulla situazione sociale del paese
Giunto alla 45ª edizione il Rapporto Censis interpreta i più significativi fenomeni socio-economici
del Paese in una difficile congiuntura. Le «Considerazioni generali» introducono il Rapporto
sottolineando come la società italiana si è rivelata fragile, isolata, eterodiretta. Ma al di là del
primato degli organismi apicali del potere finanziario, il passo lento del nostro sviluppo segue una
solida traccia: valore dell’economia reale, lunga durata, relazionalità e rappresentanza.
Nella seconda parte, «La società italiana al 2011», vengono affrontati i temi di maggiore interesse
emersi nel corso dell’anno: quel che resta del modello italiano, le cause del ristagno economico,
come ridare forza al potenziale di crescita.
Nella terza e quarta parte si presentano le analisi per settori: la formazione, il lavoro e la
rappresentanza, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti e i processi economici, i media
e la comunicazione, il governo pubblico, la sicurezza e la cittadinanza.
Schede:
1. Considerazioni generali
2. Italia in sospensione, ma di fronte all’emergenza c’è una responsabilità collettiva
pronta a entrare in gioco
3. Processi formativi
4. Lavoro, professionalità, rappresentanze
5. Il sistema di welfare
6. Territorio e reti
7. I soggetti economici dello sviluppo
8. Comunicazione e media
9. Governo pubblico
10. Sicurezza e cittadinanza
Dicembre 2011
1. Considerazioni generali
Prigionieri dei poteri finanziari, che fanno rigore ma non sviluppo
La società è fragile, isolata e eterodiretta. Ma il passo lento del nostro sviluppo segue una solida
traccia: valore dell’economia reale, lunga durata, articolazione socio-economica interna,
relazionalità, rappresentanza.
Roma, 2 dicembre 2011
Fragili, isolati e etero diretti
In questi mesi la società italiana si è rivelata fragile, isolata e eterodiretta. Nel picco della crisi
2008-2009 avevamo dimostrato una tenuta superiore a tutti gli altri, guadagnandoci una good
reputation internazionale. Ma ora siamo fragili a causa di una crisi che viene dal non governo della
finanza globalizzata e che si esprime sul piano interno con un sentimento di stanchezza collettiva e
di inerte fatalismo rispetto al problema del debito pubblico. Siamo isolati, perché restiamo fuori dai
grandi processi internazionali (rispetto all’Unione europea, alle alleanze occidentali, ai mutamenti
in corso nel vicino Nord Africa, ai rampanti free rider dell’economia mondiale). E siamo
eterodiretti, vista la propensione degli uffici europei a dettarci l’agenda. I nostri antichi punti di
forza (la capacità di adattamento e i processi spontanei di autoregolazione nel welfare, nei consumi,
nelle strategie d’impresa) non riescono più a funzionare. «Viviamo esprimendoci con concetti e
termini che nulla hanno a che fare con le preoccupazioni della vita collettiva (basti pensare a quanto
hanno tenuto banco negli ultimi mesi termini come default, rating, spread, ecc.) e alla fine ci
associamo ‒ ma da prigionieri ‒ alle culture e agli interessi che guidano quei concetti e quei
termini».
Una dialettica politica prigioniera del primato dei poteri finanziari
Era prevedibile che la verticalizzazione e la personalizzazione del potere coltivate negli ultimi
vent’anni avrebbero impoverito nel tempo la nostra forza di governo. Si è così creato un deficit
politico che ha favorito una logica di polarizzazione decisionale: in basso vince il primato del
mercato, in alto il primato degli organismi apicali del potere finanziario. «Ognuno per sé e
Francoforte per tutti» sembra il messaggio corrente. «Ma una società complessa come la nostra non
può vivere e crescere relegando milioni di persone a essere una moltitudine egoista affidata a un
mercato turbolento e sregolato, e affidando la tenuta dell’ordine minimale a vertici e circuiti
finanziari ristretti e non sempre trasparenti». Oggi la dialettica politica sembra prigioniera del
primato, anche lessicale, della regolazione finanziaria di vertice, che però può esprimere solo una
dimensione di controllo, non di evoluzione e crescita. È illusorio pensare che i poteri finanziari
disegnino sviluppo. «Perché lo sviluppo si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive,
quindi soltanto se si è in grado di fare governo politico della realtà».
Per uscire dalla crisi, coltivare la lunga durata della nostra linea evolutiva
Il solido «scheletro contadino», metafora in cui ritroviamo l’origine della nostra cultura di continuo
adattamento, resta il riferimento della nostra evoluzione sociale. Siamo ancora una realtà in cui vige
il primato dell’economia reale, nonostante l’attuale trionfo dell’economia finanziaria. La nostra
crescita dell’ultimo mezzo secolo è stata il frutto di processi di sviluppo della soggettività
individuale (iniziativa imprenditoriale di piccola e media dimensione, vitalità delle diverse realtà
territoriali, coesione sociale, forza economica e finanziaria delle famiglie, diffusa
patrimonializzazione immobiliare, radicamento sul territorio del sistema bancario, responsabile
copertura pubblica e privata dei bisogni sociali): fattori ancora essenziali per superare la
congiuntura negativa e il declinismo. «Potremo superare la crisi attuale se, accanto all’impegno di
difesa dei nostri interessi internazionali, sapremo mettere in campo la nostra vitalità, rispettarne e
valorizzarne le radici, capirne le ulteriori direzioni di marcia».
Una forte articolazione socio-economica interna
«La vitalità è sempre tesa al molteplice e la lunga durata si associa progressivamente ai processi di
articolazione». Così, alla crisi non ha corrisposto una reazione omogenea, ma una risposta articolata
e differenziata. Ci sono le «minoranze attive» che restano fedeli alla sfida imprenditoriale, ma non
riescono a trainare il resto della società; i «borghigiani», che hanno scelto di perseguire una più alta
qualità della vita; il «ceto medio», impaurito dalla prospettiva di uscire dalla fascia intermedia della
composizione sociale; la parte marginale della società, resa ancora più fragile dalla crisi. Nel
prossimo futuro potrebbero essere incubati germi di tensione sociale e di conflitto a causa della
tendenza all’aumento delle diseguaglianze e dei processi che creano emarginazione.
Lo sviluppo delle relazioni
Il disinnesco delle tensioni passa attraverso l’arricchimento dei rapporti sociali. La lunga durata
porta infatti alla differenziazione dei soggetti e dei loro comportamenti, ma la società è fatta di
relazioni fra soggetti. È nel binomio «più articolazione, più relazione» che la società italiana può
riprendere respiro. Lo si vede nella ricerca di nuovi format relazionali: l’esplosione dei tanti social
network, la diffusione di aggregazioni spirituali, la crescita di forme amicali collettive (le crociere,
le movide, le sagre), lo sviluppo di aggregazioni capaci di supplire alle carenze del welfare pubblico
(asili nido, mense scolastiche, esperienze mutualistiche), la partecipazione comunitaria a livello di
quartiere urbano o di area agricola, i borghi risistemati e le medie città di antico prestigio, la tenuta
di tutti i soggetti intermedi portatori di interessi o di istanze civili.
La difesa e valorizzazione della rappresentanza
Un sistema che vive nel quotidiano svolgersi dell’articolazione e delle relazioni esprime il bisogno
di sedi e meccanismi di rappresentanza, dove le parti possono contribuire ai processi decisionali ai
vari livelli. «Il vuoto lasciato nella fascia intermedia della società dalla polarizzazione fra il mercato
(e il soggettivismo etico che esso produce) e la verticalizzazione finanziaria (e i suoi spazi astrali,
ma non trasparenti) può essere riempito soltanto dalla rappresentanza». Senza il funzionamento
della rappresentanza, sociale e politica, la società sarebbe priva di vitalità dialettica e dinamica
sociale, oltre che di un indispensabile tessuto socio-politico intermedio.
2. Italia in sospensione, ma di fronte all’emergenza c’è una responsabilità collettiva pronta a
entrare in gioco
Cede la forza della famiglia, risparmio in pericolo, formazione fuori centro, crollo della
produttività. Ripartire dall’economia reale, sfruttare l’eccellenza territoriale, allargare l’influenza
geoeconomica.
Roma, 2 dicembre 2011
Quel che resta del modello italiano. Identità plurime e interessi: gli italiani in recupero di
serietà
In tempi difficili come quelli attuali, c’è una responsabilità collettiva pronta a entrare in gioco che,
come spesso è accaduto nei passaggi chiave della storia nazionale, può essere decisiva nel
fronteggiare le difficoltà. Il 57,3% degli italiani è disponibile a sacrificare il proprio tornaconto
personale per l’interesse generale del Paese (anche se, di questi, il 45,7% limita la propria
disponibilità ai soli casi eccezionali). L’identità italiana è per sua natura molteplice: il 46% dei
cittadini si dichiara «italiano»; i «localisti» sono il 31,3% e si riconoscono nei Comuni, nelle regioni
o nelle aree territoriali di appartenenza; i «cittadini del mondo», che si identificano nell’Europa o
nel globale, sono il 15,4%; i «solipsisti», che si riconoscono solo in se stessi, sono il 7,3%. Ancora
oggi i pilastri del nostro stare insieme fanno perno sul senso della famiglia, indicata dal 65,4% come
elemento che accomuna gli italiani. Seguono il gusto per la qualità della vita (25%), la tradizione
religiosa (21,5%), l’amore per il bello (20%). Cosa dovrebbe essere messo subito al centro
dell’attenzione collettiva per costruire un’Italia più forte? Per più del 50% la riduzione delle
diseguaglianze economiche. Moralità e onestà (55,5%) e rispetto per gli altri (53,5%) sono i valori
guida indicati dalla maggioranza degli italiani. Ed emerge la stanchezza per le tante furbizie e
violazioni delle regole. L’81% condanna duramente l’evasione fiscale: il 43% la reputa moralmente
inaccettabile perché le tasse vanno pagate tutte e per intero, per il 38% chi non le paga arreca un
danno ai cittadini onesti.
L’erosione del modello di sviluppo fondato sulla famiglia
Il modello italiano della famiglia polifunzionale inizia a mostrare segni di debolezza, con
riferimento alla patrimonializzazione e alla solidarietà intergenerazionale. È vero che all’82% di
famiglie italiane proprietarie della loro abitazione corrispondono percentuali molto più basse negli
altri Paesi europei: nel Regno Unito si raggiunge il 70% circa, quasi il 60% in Francia e il 45% in
Germania. L’attivo finanziario delle famiglie, al netto dei debiti, ammonta al 175% del Pil, quota
maggiore che in Francia (131,5%), Germania (125,2%), Spagna (77,5%). Ma in valore assoluto c’è
stata una erosione significativa di questo patrimonio, passato dai 3.042 miliardi di euro del 2006 a
2.722 miliardi (-10,5% in valori correnti, -16,3% in valori reali). Se all’inizio degli anni ’80 il
reddito da lavoro, soprattutto dipendente, era il 70% del reddito familiare complessivo, nel 2010
tale quota si è ridotta fino al 53,6%.
La reputation all’estero meglio dell’autostima italiana
Siamo uno dei Paesi al mondo dove è più forte lo scarto tra quello che all’estero si pensa di noi e la
reputazione che noi stessi attribuiamo all’Italia. Nella classifica della percezione internazionale ci
collochiamo in 14ª posizione, prima di Regno Unito, Spagna, Francia e Stati Uniti. Perdiamo 2
posizioni rispetto al 2009, nulla di paragonabile al downgrading di Spagna, Irlanda e Grecia, che
hanno perso rispettivamente 5, 6 e 7 posizioni. L’Italia si colloca in alto per lo stile di vita,
l’ambiente, la relazionalità, mentre non primeggia per il livello avanzato dell’economia o per i
fattori di sostegno allo sviluppo. Ma nella classifica della reputazione interna del proprio Paese, il
nostro posizionamento è decisamente peggiore: eravamo al 26° posto su 33 Paesi esaminati nel
2009, scivoliamo fino al terz’ultimo posto su 37 Paesi nel 2011.
La rivincita della razionalità sull’emozione
Da una recente ricerca del Censis sulla popolazione con più di 50 anni emergono le basi profonde
dell’identità: al primo posto l’esperienza del singolo (44,6%), seguita dall’eredità culturale familiare
(43,2%) e dal carattere (42,3%), mentre raccolgono percentuali irrisorie categorie come la classe
socio-economica (4,5%), l’appartenenza religiosa (3,7%), politica (1,1%), etnica (0,2%). Dopo anni
di emotività confusa, il primato della ragione e dell’esperienza si traduce anche in un nuovo
atteggiamento verso la politica. Gli eccessi del passato danno meno presa all’adesione per simpatia,
fascinazione e carisma. Si chiede una classe dirigente di specchiata onestà sia in pubblico che in
privato (59%), che i leader siano preparati (43%), illuminati da saggezza e consapevolezza (42,5%).
Le cause del ristagno economico. Il deficit di classi dirigenti
Nel nostro Paese i vertici decisionali si sono ridotti di oltre 100.000 unità tra il 2007 e il 2010,
passando da 553.000 a 450.000, cioè dal 2,4% al 2% del totale degli occupati. Sono una fascia
sociale fortemente maschilizzata: le donne sono solo un quinto del totale e la loro incidenza tende a
diminuire (dal 21,4% al 20,1%). Gli under 45 rappresentano meno del 40% (mentre sono quasi il
60% degli occupati totali). La quota dei laureati (36,4%) è poco più del doppio di quella riferita
all’occupazione totale, ma decisamente inferiore a quella delle professioni specializzate. Poche
donne, età media elevata, qualificazione formativa non eclatante: tre caratteristiche che, insieme alla
contrazione della dimensione complessiva, indicano che la debolezza delle classi dirigenti è un
fenomeno attribuibile non esclusivamente ai comportamenti dei vertici più elevati, ma che si
estende all’intero strato sociale di riferimento, il cui isterilimento è più grave dell’inadeguatezza
delle leadership apicali, perché riduce le stesse possibilità di ricambio.
La parabola declinante della produttività
Mentre nell’ultimo decennio gli occupati sono aumentati del 7,5%, il Pil è cresciuto in termini reali
solo del 4%. Germania e Francia hanno registrato una crescita del Pil rispettivamente del 9,7% e
dell’11,9%, che si è accompagnata a incrementi occupazionali rispettivamente del 3% e 5,1%.
Anche un Paese come la Spagna, che nel decennio è stato protagonista di un boom occupazionale
senza precedenti (+14,5%), ha visto aumentare il Pil in misura più sostenuta dell’Italia (+22,7%). Si
è ridotta la nostra capacità di generare valore. La produttività oraria è andata progressivamente
calando. Nel 2000, fatto 100 il livello di produttività medio europeo, l’Italia presentava un valore
pari a 117, sceso nel 2010 a 101, molto lontano da quello dei nostri principali competitor: 133 la
Francia, 124 la Germania, 108 la Spagna, 107 il Regno Unito. Tale dinamica è stata condizionata
dalla qualità della crescita occupazionale degli ultimi anni, con un aumento dei lavori a bassa o
nulla qualificazione a scapito di quelli più qualificati. Dei 309.000 nuovi posti di lavoro nell’ultimo
quinquennio (saldo tra posti persi e creati), 297.000 hanno riguardato figure professionali addette
alle vendite e 226.000 lavori non qualificati. Ai vertici della piramide sono diminuiti dell’11,5% gli
imprenditori e le figure dirigenziali, mentre sono aumentati solo debolmente i liberi professionisti
(+2,7%), le figure tecniche intermedie (+3,8%) e quelle amministrative (+0,4%). Nell’ultimo
quinquennio il valore della produzione industriale si è ridotto in modo omogeneo (-10% circa) in
tutti i principali Paesi europei (ad eccezione della Germania), ma è cresciuto quello dei servizi
(+7,8% nella media Ue). A trainare è stata la crescita delle attività di intermediazione finanziaria e
creditizia e dei servizi alle imprese: +10,5%. Ma in Italia il valore aggiunto dei servizi è invece
aumentato pochissimo (+1,3%), con una flessione nel commercio e turismo (-2,4%) e una crescita
inadeguata nel terziario avanzato, settore chiave dell’economia globale: +3,5% contro +6,4% in
Francia, +10,9% nel Regno Unito, +11,2% in Spagna, +12,2% in Germania.
Un sistema formativo fuori centro
L’iscrizione alla scuola superiore è un fenomeno generalizzato, ma il tasso di diploma non riesce a
superare la soglia del 75% dei 19enni. Se poi circa il 65% dei diplomati tenta ogni anno la carriera
universitaria, tra il primo e il secondo anno di corso quasi il 20% abbandona gli studi. Il tasso di
occupazione per i laureati è del 76,6%, all’ultimo posto tra i Paesi europei (media Ue 27: 82,3%).
Con la crisi, l’appetibilità e la richiesta di laureati nel mercato del lavoro è addirittura diminuita. E
difficilmente i giovani sono chiamati a coprire ruoli di responsabilità in tempi brevi, iniziando i
percorsi professionali, nella maggioranza dei casi, al di sotto delle loro competenze: il 49,2% dei
laureati 15-34enni e il 46,5% dei diplomati al primo impiego risultano sottoinquadrati.
Segnali di deterioramento nei servizi
I cittadini e le imprese si trovano a fare i conti con un sistema dei servizi che mostra evidenti
segnali di criticità. Il trasporto pubblico locale soffriva già di una grave inadeguatezza dell’offerta.
Tra il 2007 e il 2010 i passeggeri trasportati dai bus urbani sono aumentati dell’1,8%, mentre i
posti/km offerti sono diminuiti del 2,5%; nelle ferrovie regionali e metropolitane +10,2% di
passeggeri e -0,8% di posti. Ma nel 2011 il trasporto pubblico ha subito mancati trasferimenti in
attuazione dell’accordo Stato-Regioni, con queste ultime costrette ad aumentare le tariffe e a ridurre
i servizi. Nel triennio 2008-2011 la scuola ha subito una riduzione di circa 57.000 docenti, a fronte
di 76.000 alunni in più. E le risorse per l’attuazione dei Piani di offerta formativa si sono ridotte dai
48 milioni di euro del 2010-2011 ai 12 milioni dell’anno scolastico in corso. Nel comparto
sicurezza si risente del taglio ai fondi per la manutenzione dei veicoli della polizia e per il
carburante, scesi da 80 a 40 milioni di euro. Nelle politiche sociali si assiste alla riduzione tra il
2009 e il 2011 del 65,6% del Fondo nazionale per le politiche sociali e all’azzeramento del Fondo
nazionale per la non autosufficienza.
Ridare forza al potenziale di crescita. Mettere a frutto la ricchezza familiare
Il rapporto tra la ricchezza netta delle famiglie e il reddito disponibile è elevato e in crescita: era
pari a 7,4 volte nel 1999 ed è salito a 8,8 volte. Ma l’afflusso di nuove risorse è in forte
restringimento, perché nell’ultimo quinquennio la propensione al risparmio delle famiglie si è
ridotta. Nel 2010 il valore dei servizi resi alle famiglie dalle abitazioni di proprietà direttamente
abitate ha raggiunto i 125 miliardi di euro, corrispondenti al 12,3% del reddito disponibile e
all’8,1% del Pil. Cresce il valore dello stock di abitazioni possedute, stimato in oltre 4.800 miliardi
di euro, con un incremento che sfiora il raddoppio (+93% nominale) nell’arco di un decennio. Una
quota di questo incremento è attribuibile all’effetto dei prezzi, ma una quota rilevante è il risultato
della scelta delle famiglie di destinare all’investimento in abitazioni una parte consistente dei propri
risparmi. Ulteriori 1.000 miliardi di euro sono rappresentati dalle altre attività reali (oggetti di
valore, terreni, fabbricati non residenziali e beni produttivi). Le attività finanziarie si aggirano
intorno ai 3.600 miliardi di euro. La ricchezza netta complessivamente posseduta dalle famiglie è
così cresciuta del 22% in termini reali nel decennio 1999-2009.
La forza dell’export per la ripresa industriale
In un quadro economico stagnante, le esportazioni sono una delle poche variabili in crescita: +15%
nel 2010 e +16% nel primo semestre del 2011. Il saldo della bilancia commerciale nel
manifatturiero è in attivo a metà del 2011 per oltre 10 miliardi di euro. A gennaio del 2011 l’indice
del fatturato industriale è cresciuto in termini tendenziali del 5% in Italia e del 14% sull’estero, a
luglio del 6% in Italia e del 10% sull’estero. Gli stessi distretti industriali registrano dalla metà del
2010 un incremento delle esportazioni: +16,3% tendenziale nel primo trimestre del 2011 e +12,9%
nel secondo trimestre.
Allargare l’influenza geoeconomica italiana
La ripresa dalle pesanti conseguenze della crisi finanziaria può avvenire anche attraverso una
progressiva riconfigurazione della mappa della presenza italiana all’estero. Oggi l’interscambio
dell’Italia con i Paesi del Mediterraneo, dei Balcani e del Golfo ha una dimensione di 55 miliardi di
euro, di cui le esportazioni sono pari a 30 miliardi. Ma anche Paesi come il Messico, il Perù, la
Corea del Sud e la Malesia, la cui accessibilità è valutata in 10-16 ore di aereo, segnalano ulteriori
opportunità che finora sono state sottostimate, viste le attese di crescita e il peso relativamente
ridotto del nostro export in quelle zone.
L’eccellenza dell’economia di territorio: food e buon vivere
Sull’agricoltura la crisi ha avuto un impatto minore rispetto al resto del sistema economico. Tra il
primo semestre del 2008 e il primo semestre del 2011 la flessione del valore aggiunto agricolo è
limitata allo 0,9%, a fronte del -13,8% dell’industria e del -1,5% dei servizi. Tra il 2000 e il 2010 la
dimensione media delle aziende è aumentata del 44,4% (da 5,5 a 7,9 ettari di superficie agricola
utilizzata). C’è stata una forte contrazione nel numero delle microimprese (508.000 in meno quelle
con una superficie inferiore a un ettaro: -50,2%), mentre è cresciuto il segmento delle imprese con
più di 20 ettari (13.000 aziende in più: +10,7%). Ed è migliorata la produttività: le giornate di
lavoro per azienda sono aumentate del 16,7% (da 141 a 165) e le giornate di lavoro per persona del
10,9% (da 64 a 71). L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari di
qualità con denominazione protetta: 219, il 22,1% di tutti quelli riconosciuti in ambito comunitario.
Ai marchi Dop e Igp associati a prodotti ortofrutticoli, formaggi, oli e preparazioni di carni, si
affiancano le 518 denominazioni in ambito vinicolo (56 Docg e 339 Doc, per un totale di 215.000
ettari di vigne e 158.000 produttori, e 123 Igt, per 147.000 ettari e 159.000 produttori).
Valorizzare il contributo degli immigrati
Sono oltre 4,5 milioni gli stranieri che vivono in Italia, e le previsioni dicono che nei prossimi 10
anni arriveranno a 7 milioni. Quelli che lavorano regolarmente sono più di 2 milioni, impiegati
prevalentemente nei servizi (59,4%), nell’industria (19,5%), nelle costruzioni (16,7%), in
agricoltura (4,3%). I titolari di impresa nati all’estero mostrano, anche in questi anni di crisi, una
vitalità sconosciuta ai nostri connazionali: dal 2009 al 2011 sono aumentati del 10,7%. Attualmente
rappresentano il 10,7% dei piccoli imprenditori, ma a Prato sono il 38,9%, a Firenze il 21,5%, a
Milano il 20%, a Trieste il 18,6%, a Roma il 16,9%. Particolarmente presenti in alcuni settori: le
costruzioni (il 20,2% degli imprenditori attivi) e il commercio al dettaglio (18,1%). E le donne sono
protagoniste: oltre 77.000 imprenditrici straniere (il 21,8% del totale).
Nuovi format relazionali
Oggi sono profondamente cambiate le tipologie familiari. Nell’ultimo decennio l’Italia ha perso
739.000 coppie coniugate con figli (-8%), sono aumentare di 274.000 unità le coppie non coniugate
con figli, le famiglie monogenitoriali (345.000 in più: quasi +19%) e i single (quasi 2 milioni in più:
+39%) Una pluralità di reti relazionali tiene insieme la società italiana. Le reti di prossimità: il
43,4% degli italiani definisce il vicinato una comunità in cui tutti si conoscono, si frequentano e si
aiutano. Le reti dell’aiuto: svolge attività di volontariato oltre il 26% degli italiani (più di 13 milioni
di persone, per oltre 351 milioni di ore mensili), di cui il 76% con regolarità, e più del 32% degli
italiani (15 milioni) dichiara di aver fatto donazioni a organizzazioni. Le reti che creano servizi
suppletivi rispetto al welfare tradizionale: quasi 6 milioni di persone sono coinvolte in forme di
mutualità in sanità, con circa 10 milioni di beneficiari. Le reti di relazionalità di tipo conviviale:
sono circa 11.700 le iniziative locali come sagre, feste, manifestazioni di vario tipo che si svolgono
annualmente nel nostro Paese, e 7,1 milioni di persone tra 18 e 44 anni frequentano locali almeno
un paio di volte la settimana. Le reti basate su piattaforme tecnologiche: i social network
coinvolgono il 31% degli italiani, sono 16 milioni gli utenti di Facebook, 6 milioni utilizzano Skype
(di cui 1,6 milioni tutti i giorni), 1,1 milioni Twitter.
3. Processi formativi
Roma, 2 dicembre 2011
Giovani e dispersione scolastica: meno abbandoni, più differenziazioni territoriali, più
scoraggiamento
Ancora lontani dall’obiettivo europeo di giungere nel 2020 a una media del 10% di early school
leavers, in Italia tale fenomeno si sta però lentamente riducendo. Nel 2010 la quota di giovani 18-
24enni in possesso della sola licenza media e non più inseriti in percorsi formativi è scesa dal 19,2%
al 18,8%, con varia intensità in tutte le aree del Paese, ad eccezione del Centro che rimane l’area
dove tale indicatore è più contenuto (14,8%). Per il fenomeno dei giovani Neet, ovvero dei giovani
che non studiano e non lavorano, l’Italia detiene un ben triste primato a livello europeo. La quota di
Neet 15-29enni ha ripreso a crescere con l’inizio della crisi economica, attestandosi nel 2010 al
22,1% rispetto al 20,5% dell’anno precedente.
La debolezza strutturale della filiera professionalizzante
L’ultima riforma del sistema scolastico ha dato un nuovo slancio agli istituti tecnici che, supportati
anche da un attivo interessamento da parte della rappresentanza imprenditoriale, registrano nel
corrente anno scolastico un incremento dello 0,4% di iscrizioni al primo anno rispetto al 2010-2011
(dati riferiti alla sola scuola statale). Il rinnovato appeal non si estende agli istituti professionali, che
nello stesso periodo hanno perso il 3,4% di neoiscritti. Nel 2011 le richieste di personale con la sola
qualifica professionale sono aumentate, passando dall’11,7% del totale nel 2010 al 13,5%. Ma i
giovani che si rivolgono ai percorsi triennali di istruzione e formazione professionale costituiscono
solo il 6,7% del totale degli iscritti al secondo ciclo di istruzione, pari a circa 38.000 studenti.
Quale futuro per l’educazione degli adulti?
La partecipazione all’apprendimento permanente della fascia di popolazione italiana compresa tra
25 e 64 anni sembra aver interrotto il trend di sia pur moderata crescita, attestandosi nel 2009 al 6%
e risalendo debolmente l’anno successivo al 6,2%, a fronte di una media europea del 9,1% nel 2010
e della soglia del 15% posta dalla strategia Europa 2020. Tra il 2009 e il 2011 la quota di risorse
assegnate della legge 440 del 1997 si è ridotta del 43,9%. L’istruzione degli adulti sembra essere
stata relegata a un ruolo sempre più marginale: la relativa voce di spesa è diminuita di ben 72 punti
percentuali, passando dai 16 milioni di euro del 2009 ai 4,4 milioni del 2011.
Dati e fatti, poco noti, dell’università italiana
Le risorse intercettate dai dipartimenti e dai centri di ricerca italiani nel triennio 2008-2010
evidenziano un buon dinamismo: sono state raccolte risorse complessive superiori ai 550 milioni di
euro. L’86,6% delle risorse proviene dalla partecipazione a bandi di gara europei (VI e VII
Programma Quadro), mentre il restante da finanziamenti di organismi internazionali o dal mondo
privato. Sugli oltre 3.000 dipartimenti esistenti, circa un terzo in ciascuno degli anni considerati ha
generato opportunità di fund raising in partenariato per i grandi bandi europei o lavorando
direttamente sul mercato. Quasi il 20% delle risorse acquisite nel triennio 2008-2010 afferiscono
all’area delle scienze mediche (18,7%), al secondo si posiziona l’area ingegneristica e architettura
con il 17,3%, al terzo i saperi delle scienze di base (matematica, fisica, ecc.: 15,9%) e al quarto
l’area dell’ingegneria industriale e dell’informazione (15,6%). All’ultimo posto, con oltre 4 milioni
di euro, si collocano le scienze giuridiche (0,8%).
Luci e ombre della mobilità
La partecipazione italiana alla mobilità transnazionale necessita di essere ulteriormente spinta e
agevolata. Il 12,1% dei giovani di età compresa tra 15 e 35 anni che dichiarano di aver soggiornato
o di essere all’estero per istruzione e formazione è al di sotto della media europea (15,4%) di oltre 3
punti percentuali, posizionandosi al quart’ultimo posto della graduatoria europea. Il valore è ben
lontano dal 27,8% e dal 23,6% di austriaci e svedesi. Se mediamente il 65,7% dei giovani europei e
delle loro famiglie ha finanziato la propria mobilità con fondi privati o con risparmi personali, ciò è
avvenuto nel 68,7% dei casi in Italia e addirittura in misura superiore al 70% negli altri principali
Paesi presi a confronto: Regno Unito (71,1%), Germania (72,3%) e Francia (72,4%).
4. Lavoro, professionalità, rappresentanze
Roma, 2 dicembre 2011
Il futuro incerto della ripresa occupazionale
La frenata della crisi nel 2010 (bruciati 153.000 posti di lavoro, contro i 380.000 del 2009) e i dati
positivi per il 2011 (+0,4% gli occupati nel primo semestre) fanno sperare in una chiusura d’anno
con segno positivo. Viene meno la capacità di tenuta dell’occupazione a tempo indeterminato. Dopo
due anni di tendenziale stabilità, si riduce dell’1,3% nel 2010 e dello 0,1% nel primo semestre del
2011. Si segnala però una crescita significativa del lavoro a termine (+1,4% nel 2010 e +5,5% nei
primi sei mesi del 2011) e del lavoro autonomo (dopo cinque anni di contrazione, nel 2010 c’è una
prima tiepida crescita: +0,2%). La crisi ha colpito il mercato del lavoro in modo molto differenziato.
Tra il 2007 e il 2010 è aumentata l’occupazione straniera (quasi 580.000 lavoratori in più, di cui
circa 200.000 nell’ultimo anno, con un incremento complessivo del 38,5%), mentre quella italiana
ha registrato la perdita di 928.000 posti di lavoro (-4,3%), di cui 335.000 nell’ultimo anno. I più
colpiti sono stati i giovani. Tra il 2007 e il 2010 il numero degli occupati è diminuito di 980.000
unità, e tra i soli italiani le perdite sono state oltre 1.160.000. Di contro, nelle generazioni più
mature i livelli occupazionali non solo sono stati salvaguardati, ma sono addirittura aumentati:
+7,2% l’occupazione tra i 45-54enni e +12,9% tra i 55-64enni.
Il doppio binario della sostituzione nel lavoro manuale
Mentre il mercato è sempre più incapace di garantire sbocchi professionali, i mestieri manuali
sembrano non conoscere crisi. Terreno d’occupazione per 8.383.000 lavoratori (il 36% del totale
degli occupati), anche nel 2011 sono stati i più richiesti. A fronte di quasi 600.000 assunzioni
previste dalle aziende, ben 264.000 (il 44,4%) hanno interessato lavori di tipo manuale: artigiani e
operai specializzati (20,3%), operai conduttori di macchine e impianti (11,7%), mestieri non
specializzati (12,4%). Lavoratori in campo edile (per il 2011 sono previste circa 57.000 assunzioni,
il 9,6% del totale), addetti alle pulizie (44.000), meccanici e montatori (17.000), magazzinieri
(11.000): sono queste le professioni più ricercate dalle aziende, per le quali tuttavia le imprese
lamentano difficoltà di reperimento, visto che sarebbero circa 50.000 (il 19% del totale) le posizioni
di lavoro considerate di difficile copertura. È così che negli anni è avvenuto un vero e proprio
processo di sostituzione tra italiani e stranieri in molte professioni manuali. Tra il 2005 e il 2010, a
fronte di un crollo dei lavoratori italiani occupati in professioni manuali (-842.000, -11%), si
registra un aumento praticamente identico dei lavoratori stranieri (+725.000, +83,8%), la cui
incidenza passa dal 10,2% al 19% del totale.
Giovani al centro della crisi
In Italia l’11,2% dei giovani di 15-24 anni, e addirittura il 16,7% di quelli tra 25 e 29 anni, non è
interessato né a lavorare né a studiare, mentre la media europea è pari rispettivamente al 3,4% e
all’8,5%. Di contro, da noi risulta decisamente più bassa la percentuale di quanti lavorano: il 20,5%
tra i 15-24enni (la media Ue è del 34,1%) e il 58,8% tra i 25-29enni (la media Ue è del 72,2%). A
ciò si aggiunga che tra le nuove generazioni sta progressivamente perdendo appeal una delle figure
centrali del nostro tessuto economico, quella dell’imprenditore. Solo il 32,5% dei giovani di 15-35
anni dichiara di voler mettere su un’attività in proprio, meno che in Spagna (56,3%), Francia
(48,4%), Regno Unito (46,5%) e Germania (35,2%).
Il ciclo inverso del sommerso
A partire dal 2008, a fronte di un calo generalizzato dell’occupazione regolare (-4,1%), quella
informale è aumentata dello 0,6%, portando il lavoro sommerso al 12,3% del totale nel 2010 (era
l’11,6% nel 2003). Tra il 2008 e il 2010 nell’industria (settore che ha registrato le maggiori perdite
occupazionali) c’è stata una contrazione del 10,5% del lavoro regolare e una crescita di quello
sommerso del 5,5%. Il livello di irregolarità è passato dal 17,9% al 18,7% nel settore del
commercio, delle riparazioni e del turismo, e dall’8,8% al 9,6% nei servizi immobiliari e avanzati
alle imprese.
La mobilità che non c’è, questione di cultura e non di regole
I giovani sono oggi i lavoratori su cui grava di più il costo della mobilità in uscita. Nel 2010, su 100
licenziamenti che hanno determinato una condizione di inoccupazione, 38 hanno riguardato giovani
con meno di 35 anni e 30 soggetti con 35-44 anni. Solo in 32 casi si è trattato di persone con 45
anni o più. L’Italia presenta un tasso di anzianità aziendale ben superiore a quello dei principali
Paesi europei. Lavora nella stessa azienda da più di dieci anni il 50,7% dei lavoratori italiani, il
44,6% dei tedeschi, il 43,3% dei francesi, il 34,5% degli spagnoli e il 32,3% degli inglesi. Tuttavia,
solo il 23,4% dei giovani risulta disponibile a trasferirsi in altre regioni o all’estero per trovare
lavoro.
Orari e clima di lavoro in tempo di crisi
Nell’ultimo triennio i tempi di lavoro si sono sempre più ridotti, passando dalle 40 ore settimanali
del 2007 alle 39 del 2010. È cresciuto significativamente anche il ricorso al part time, aumentato
nello stesso arco di tempo dell’8,7%, portando l’incidenza di questa formula occupazionale dal
13,6% del 2007 al 15% del 2010. A crescere è stata soprattutto la quota di part time involontario: la
maggioranza (il 49,3%) è costretta a lavorare part time perché non trova un lavoro full time, mentre
solo per il 40,2% si tratta di una scelta volontaria.
5. Il sistema di welfare
Roma, 2 dicembre 2011
La sanità e il rischio di una sostenibilità solo finanziaria
Nel periodo 2001-2010 le Regioni con Piano di rientro hanno registrato un incremento della spesa
del 19% contro il +26,9% del resto delle Regioni. Nel 2006-2011 hanno subito una riduzione della
spesa in termini reali dello 0,6%, mentre le altre Regioni hanno avuto un aumento di oltre il 9%.
Spicca il contenimento della spesa in Sicilia (-10% nel periodo 2006-2010), Abruzzo (-4,4%), Lazio
(-3%) e Campania (-1,9%), che hanno siglato i rispettivi Piani di rientro nel 2007. Ma la cura a cui è
sottoposto il Servizio sanitario non sta generando effetti positivi secondo i cittadini. Nell’ultimo
biennio i dati dell’indagine Forum per la Ricerca Biomedica-Censis indicano che è solo l’11% a
ritenere migliorato il servizio sanitario della propria regione, quasi il 29% ha registrato un
peggioramento e circa il 60% una sostanziale stabilità. Il futuro della sanità per i cittadini è segnato
da alcune paure: un’accentuazione delle differenze di qualità tra le sanità regionali (35,2%), che
l’interferenza della politica danneggi la qualità della sanità (35%), che i disavanzi rendano
indispensabili robusti tagli all’offerta (21,8%), che non si sviluppino le tipologie di strutture e
servizi necessarie, come l’assistenza domiciliare territoriale (18%), che l’invecchiamento della
popolazione e la diffusione delle patologie croniche producano un intasamento delle strutture e dei
servizi (16,3%).
Salute, il genere conta
Le donne dichiarano condizioni di salute buone in quote sistematicamente inferiori ai maschi,
mentre più spesso affermano di soffrire di due o più malattie croniche. La maggiore consuetudine
tra donne e malattia ha a che vedere anche con l’impegno nel lavoro di cura, visto che i caregiver
sono soprattutto donne. Nel caso dell’ictus si arriva al 75,7% dei casi, con importanti differenze di
età, laddove i pazienti maschi hanno più spesso caregiver mogli (54,3%), mediamente più anziane,
mentre le pazienti donne sono assistite per lo più dai figli (55,9%). Le caregiver mogli tendono a
sobbarcarsi il carico assistenziale da sole, e ne pagano spesso il prezzo in termini di problemi
psicologici e di salute, mentre le figlie trovano con maggiore frequenza sollievo e aiuto da una
badante.
Comuni sull’orlo del default sociale
6,7 miliardi di euro è il valore degli interventi e servizi sociali comunali, ai quali si aggiunge la
compartecipazione degli utenti (circa 1 miliardo l’anno) e la quota a carico del Servizio sanitario
(circa 1,1 miliardi l’anno), per un totale di spesa pari a poco più di 8,7 miliardi di euro, pari a circa
il 10% del totale della spesa per tutte le politiche socio-assistenziali. Ma in tre anni i fondi sociali
nazionali sono stati tagliati in misura consistente: il Fondo nazionale per le politiche sociali è
passato dal 2008 al 2011 da 929,3 milioni di euro a meno di 220 milioni, il Fondo per la non
autosufficienza nel 2011 non è stato finanziato, con un taglio netto di 400 milioni di euro. Chi
subirà gli impatti dei tagli? In primo luogo l’utenza: oltre il 40% delle risorse per il sociale dei
Comuni è impiegato per famiglie e minori, il 21,2% per gli anziani, una quota simile per i disabili e
il 7% circa per la lotta alla povertà. Ma anche gli occupati nel sociale, perché il 48,5% della spesa
comunale per i servizi sociali è impiegato per affidare i servizi all’esterno, a cooperative sociali e
altri soggetti del terzo settore. Va ricordato che nel periodo 2006-2010 si è avuto un aumento di
oltre 505.000 famiglie in condizione di deprivazione (+14,6%), che ora sono 4 milioni; è aumentato
di oltre 1 milione (sono 4,1 milioni in totale) il numero di famiglie che hanno intaccato il
patrimonio o contratto debiti; le coppie con figli in povertà assoluta sono aumentate di 115.000
nuclei (+37%) e sono ormai oltre 424.000; le monogenitoriali in povertà assoluta sono aumentate di
65.000 nuclei (+72,3%) e sono salite a 154.000; le famiglie numerose in povertà assoluta con 5 e
più componenti sono aumentate di 43.000 unità (+41,6%) e sono ora 147.000.
I bisogni dei migranti e l’innovazione del welfare
È di quasi 3 miliardi di euro la spesa pubblica per la sanità ascrivibile a prestazioni erogate agli
immigrati, pari a circa il 2,8% del totale della spesa sanitaria pubblica nel 2010. Tra il 2009 e il
2010 i migranti richiedenti sono cresciuti del 22%, più del doppio rispetto agli italiani (+9,7%).
Sono gli asili nido e la scuola le prestazioni che i migranti (44,8%) chiedono in misura maggiore
rispetto agli italiani (30,3%). L’Emilia Romagna è la regione in cui è più alta la quota di migranti
che nel 2010 hanno fatto richiesta di prestazioni del welfare (il 18,6% del totale della popolazione
Isee). Tra le province spiccano Bolzano (quasi il 41%), Mantova (35,6%), Modena (34,8%), Brescia
(31,5%), Piacenza (30,7%), Arezzo (30,7%) e Parma (30,3%).
Dall’esclusione al disincanto: il disinvestimento dei giovani
Le donne italiane sono tra quelle che fanno figli più tardi (l’età media al parto di 31,1 anni rilevata
in Italia rappresenta una delle età più avanzate in Europa al 2008), mentre il tasso di fertilità totale
pone il Paese vicina al fondo (20ª posizione su 27) della graduatoria Ue. Non accennano ad
arrestarsi la diminuzione dei matrimoni (-6,5% nel 2009 rispetto all’anno precedente) e l’aumento
dell’età media in cui gli italiani lo contraggono per la prima volta (33 anni gli uomini e 29,9 le
donne, circa 2 anni in più rispetto al 2000). L’indagine del Censis del 2011 sulla sregolazione delle
pulsioni rileva un diffuso consenso tra i giovani per modelli di successo e di riuscita sociale avulsi
dal merito e dalla cultura del lavoro. Ed è il 38,2% dei 15-30enni italiani a ritenere che l’università
rappresenti un’opzione non attraente (il dato più alto in Europa). Tra giovani destinati a vivere un
perpetuo presente, ad andare in crisi è lo stesso concetto di investimento sociale, se la società non è
in grado di garantire ritorni a fronte di scelte e percorsi proiettati al futuro.
Perché non decolla la previdenza integrativa
Circa l’80% delle famiglie italiane manifesta l’intenzione di non aderire a schemi previdenziali
integrativi in futuro, e in circa un caso su dieci non sanno proprio di cosa si tratti. Tra i capofamiglia
occupati, una delle ragioni che viene indicata con maggiore frequenza (31,6%) è il costo in
relazione allo stipendio disponibile, mentre la necessità di integrare la propria contribuzione
previdenziale viene rifiutata dal momento che si pagano già i contributi obbligatori dal 30,4%. La
rimozione del problema, o la dilazione a un futuro indefinito del momento in cui bisognerà
affrontare la questione, rappresenta la motivazione citata con maggiore frequenza dai capofamiglia
under 40 (il 39,7% contro la media del 20,4%).
6. Territori e reti
Roma, 2 dicembre 2011
La perdurante crisi dell’economia delle costruzioni
Nel 2011 l’economia delle costruzioni e dell’immobiliare ha visto peggiorare gran parte degli
indicatori fondamentali. Per il 2011 si evidenzia una ulteriore contrazione degli investimenti
complessivi in costruzioni (-4%), dopo un 2010 anch’esso in netto calo (-6,4%). Sono in crisi le
nuove costruzioni residenziali (-5,9% in termini reali su base annua), per le quali si prevede un
andamento negativo anche nel 2012, con un ulteriore calo del 5,3%. Gli investimenti in
manutenzione straordinaria nel settore residenziale sono gli unici a registrare una crescita, anche se
modesta (+0,5% nel 2011), per un aumento complessivo negli ultimi quattro anni dello 0,4%.
Complessivamente, per gli investimenti in abitazioni (nuovo e recupero) si segnala una flessione
cumulata, nell’arco del quinquennio 2008-2012, del 18,2% in termini reali. Il settore soffre per la
crisi della finanza pubblica, che riduce il mercato delle infrastrutture, e per la stretta creditizia.
Anche in relazione a prezzi che rimangono abbastanza stabili, neanche il settore immobiliare offre
segnali di ripresa: in calo anche il secondo trimestre del 2011 (il quarto consecutivo con segno
negativo). Considerando il solo settore residenziale, negli ultimi 12 mesi (luglio 2010-giugno 2011)
il numero complessivo degli scambi si attesta sulle 595mila unità. Si tratta di un lieve decremento (-
4%) rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente, ma di una differenza considerevole (-21%)
rispetto al periodo luglio 2007-giugno 2008, quando furono scambiate circa 755mila abitazioni.
Dalla retorica ai fatti: trasformare la città esistente
La quota di edifici con più di 40 anni, soglia temporale oltre la quale si rendono indispensabili
interventi di manutenzione consistenti, sta crescendo progressivamente. Oggi il 55% delle famiglie
occupa un alloggio realizzato prima del 1971 e poco meno del 40% risiede in un’abitazione
costruita nel periodo della ricostruzione e del primo boom edilizio (1946-1971). È un patrimonio
(circa 10 milioni di alloggi) che non rispetta le qualità tecnologiche oggi richieste a un immobile
(fino alla metà degli anni ’70 in Italia non è stata varata nessuna norma sul risparmio energetico) e
che, in ragione della sua avanzata obsolescenza, rischia di perdere parte del suo valore.
La crisi dello spazio pubblico accentua il malessere urbano
Il diffuso malessere dei cittadini delle principali metropoli trova ragione in due elementi principali:
il senso di insicurezza e la difficile gestione della vita quotidiana. Dipende dalla frammentazione
del tessuto relazionale, dal degrado territoriale, dallo scadimento dell’etica civica e dalla debolezza
dell’azione pubblica di contrasto. Gran parte delle criticità sono riconducibili al modello di
mobilità, oneroso in sé e in grado di produrre un impatto profondo sugli altri fattori urbani. Le
condizioni delle strade comunali sembrano peggiorare ulteriormente: ne lamentava il problema il
43,2% dei cittadini nel 2001, il 50,9% nel 2009.
Il nuovo interesse per gli spazi collettivi
Nel panorama degli spazi collettivi, la piazza (o il giardino pubblico) rimane il luogo dove gli
anziani si incontrano con maggiore frequenza (27,5%). Al secondo posto si colloca il bar (27,1%). Il
mercato e il supermercato o la parrocchia vengono dopo, utilizzati soprattutto dalla componente
femminile. Dopo anni di disattenzione, si osserva un ritorno di interesse per lo spazio pubblico che
trova le sue radici in un recupero di alcuni aspetti della tradizionale vita comunitaria. Ad esempio, si
stima che in Italia si organizzino ogni anno circa 15mila sagre con circa 4,5 milioni di partecipanti.
Le infrastrutture tra ritardi, penuria di risorse e contrasti locali
Il ritardo infrastrutturale e la debolezza istituzionale nel farvi fronte sono elementi che non
consentono all’economia nazionale una crescita della propria capacità competitiva. Gli investimenti
fissi lordi delle amministrazioni pubbliche italiane sono scesi dal 2,5% del Pil nel 2009 al 2,1% nel
2010. In futuro diminuiranno ancora: l’1,5% nel 2012 e l’1,4% nel 2013, secondo il Def del 2011.
Le infrastrutture «strategiche» della legge obiettivo sono 390, per un costo complessivo di 367
miliardi di euro. Dal 2004 a oggi sono passate da 228 a 390 e il loro costo complessivo è cresciuto
del 57,4%. Le risorse a copertura dei progetti sono però pari a circa 150 miliardi di euro a fronte di
un fabbisogno di 367,4 miliardi. Le opere portate a compimento rappresentano, in termini di valore,
solo il 9,3% dell’intero programma. Le opere in corso sono il 9,9% e quelle contrattualizzate il
10,2%.
L’immobilità urbana: patologia incurabile o terreno di scelte coraggiose?
L’arretratezza dei nostri sistemi urbani in tema di mobilità è l’aspetto più emblematico della sfida
attuale che comporta la sostenibilità urbana. Le città italiane, quelle grandi ma in parte anche quelle
medie, sono gravemente malate di traffico. Paghiamo lo scotto di investimenti mancati nella fase di
crescita delle nostre città, che si sono sviluppate sulla base di una spinta alla proliferazione edilizia
priva di un progetto a medio-lungo termine. La dotazione di reti di trasporto collettivo su ferro è
sottodimensionata rispetto alla domanda, e i mezzi di cui disponiamo viaggiano in condizioni di
frequente sovraffollamento, scoraggiando così l’ampliamento dell’utenza. Rispetto alle principali
città europee, le nostre città si caratterizzano negativamente in termini di estensione e volume di
utenza della rete metropolitana: Londra 402 km, Madrid 293 km, Parigi 1,5 miliardi di passeggeri
l’anno, a fronte degli 83 km di Milano e i 39 di Roma, per 331 milioni di passeggeri l’anno a Roma
e 328 milioni a Milano. E gli autobus nelle città italiane viaggiano a una velocità commerciale di
12-13 km/h, ben più bassa della media europea (20 km/h).
La mobilità ciclabile: una fenomenologia in crescita trainata dalla domanda
Nel nostro Paese la bicicletta copre non più del 4% della domanda complessiva di mobilità.
Nonostante ciò, nell’ultimo decennio si è registrato un aumento significativo delle persone che
raggiungono almeno la loro destinazione abituale in sella a una bicicletta almeno 3 o 4 volte la
settimana. Erano il 6,8% della popolazione nel 2002, hanno raggiunto il 13,5% nel 2007, oggi si
attestano sul 18,7%. Si tratta di percentuali ancora molto basse se confrontate con quelle del Nord
Europa, dove la media si aggira intorno al 30%. Circa 10,5 milioni di italiani dichiarano di usare
occasionalmente la bicicletta e la quota sul totale della popolazione è passata in cinque anni dal
16,9% al 23,5%. La ridestinazione di parti della viabilità oggi dedicate esclusivamente al traffico
motorizzato, la realizzazione di «dorsali ciclabili» di attraversamento e di ciclostazioni in prossimità
delle aree ferroviarie centrali favorirebbero lo sviluppo ulteriore della mobilità ciclabile.
7. I soggetti economici dello sviluppo
Roma, 2 dicembre 2011
Economia in bilico tra creazione e distruzione di valore
Le forti tensioni sul mercato del debito sovrano pongono ormai da mesi il Paese lungo un sentiero
tortuoso caratterizzato non solo dalla mancata crescita dei fondamentali, ma anche da uno scontro
tra finanza ed economia reale. Le performance a sei mesi (maggio-ottobre 2011) dei titoli azionari
alla Borsa di Milano indicano una perdita complessiva di valore del 24%. Eppure l’economia reale
dà segnali diversi. Nel primo semestre del 2011 le esportazioni italiane sono aumentate del 16%. Il
saldo con l’estero del manifatturiero è in attivo per più di 34 miliardi di euro, mostrando una
discreta capacità competitiva. Sebbene la quota italiana del commercio mondiale sia scesa
nell’ultimo anno dal 3% al 2,9%, nei primi due trimestri del 2011 l’indice del fatturato dell’industria
è aumentato del 7% trainato soprattutto dalle vendite all’estero. E anche il risultato di gestione delle
principali banche italiane è cresciuto del 6,3% su base annua e l’utile netto dell’8,5%.
Il fenomeno reti d’impresa: modello aperto e polifunzionale
Il 2011 si chiude con quasi 150 Contratti di rete attivi. Si tratta di uno dei pochi strumenti di
innovazione nel campo delle politiche a sostegno del tessuto produttivo. Tra la fine del 2010 e il
settembre del 2011 sono stati stipulanti, in media, 12 contratti al mese. Complessivamente, la parte
più consistente (il 48%) riguarda aziende localizzate al Nord, ma anche al Sud esistono casi
interessanti di collaborazione. L’elemento di maggiore rilievo è il carattere polifunzionale degli
accordi e la molteplicità dei settori produttivi coinvolti. La maggior parte delle aziende opera nel
manifatturiero (il 46%), ma le imprese dei servizi sono comunque più di un quarto, seguite
dall’edilizia (il 14% delle imprese partecipanti). Si configura così un modello aperto di rete, non
solo per la varietà dei comparti, ma anche per i molti casi di «meticciato», ovvero di incontro fra
imprese con specializzazioni e competenze diverse.
Il nuovo ciclo espansivo dei distretti produttivi
Nel primo semestre del 2010 e nel primo del 2011 l’incremento tendenziale dell’export dei 140
principali distretti industriali è stato rispettivamente del 6,2% e del 14,5%. Nei primi sei mesi
dell’anno hanno registrato i maggiori incrementi dell’export: le macchine tessili di Brescia (+54%),
la meccanica strumentale di Vicenza (+42%), i metalli di Brescia (+37%), la metalmeccanica di
Lecco, le macchine per imballaggio di Bologna e le macchine per la ceramica di Modena e Reggio
Emilia, tutte con variazioni superiori al 25%. Pur restando il territorio europeo (in particolare
Germania e Francia) l’area in cui i distretti registrano le maggiori quote di mercato, è nelle
economie emergenti che la crescita dell’export distrettuale cresce a ritmi molto sostenuti: +35,8% in
Cina nel primo semestre del 2011, +21% in Russia.
Il valore del mare nel sistema economico italiano
Il cluster marittimo contribuisce alla formazione del Pil con una quota del 2,6% (pari a 39,5 miliardi
di euro) e assorbe il 2% dell’occupazione. Il valore delle esportazioni è di 9,7 miliardi di euro (il
3,3% dell’export nazionale). Grazie al carattere complesso e multiforme, il cluster marittimo ha
attraversato la fase di crisi iniziata nel 2008 attivando strategie di riposizionamento dinamico, che
consentono oggi di riprendere la marcia. Ma è necessario un piano organico, fattibile e con
finanziamenti certi, di interventi sulle infrastrutture materiali e di collegamento terra-mare.
Il ciclo evanescente dei risparmi
La propensione al risparmio delle famiglie italiane, che a metà degli anni ’90 era superiore al 20%
del reddito disponibile e a metà dello scorso decennio oscillava ancora tra il 15% e il 17%, ha subito
una progressiva contrazione, attestandosi oggi su un ben più modesto 11,3%. Per ogni famiglia i
risparmi accumulati su base trimestrale sono passati dai 1.860 euro di fine 2005 a poco più di 1.200
euro alla metà del 2011: una flessione complessiva del 34,5% in cinque anni e mezzo. Nella prima
parte dell’anno, soltanto il 28,2% delle famiglie italiane è stato in grado di mettere da parte una
quota del proprio reddito mensile, il 53% è andato in pari tra quanto speso e quanto guadagnato, il
18,8% non è riuscito a coprire per intero le necessità di consumo.
8. Comunicazione e media
Roma, 2 dicembre 2011
Palinsesti «fai da te» nell’era della personalizzazione dei media
Nel 2011 l’utenza complessiva della televisione – che resta sempre il mezzo più diffuso nel
panorama mediatico italiano – rimane sostanzialmente invariata: il 97,4% della popolazione. Ma è
avvenuto un ampio rimescolamento al suo interno, dipendente in larga misura dalla progressiva
diffusione sul territorio nazionale del segnale digitale terrestre, responsabile di un nuovo impulso
impresso ai canali e ai programmi tv. L’utenza della tv digitale terrestre è aumentata di oltre 48
punti percentuali tra il 2009 e il 2011 arrivando al 76,4% della popolazione, ovviamente a scapito
della tv analogica (-27,1%). La tv satellitare mantiene costante la quota dei suoi telespettatori (il
35,2% degli italiani), dopo il significativo incremento registrato tra il 2007 e il 2009. La web tv
aumenta la sua utenza di ulteriori 2,6 punti percentuali nell’ultimo biennio (l’utenza complessiva
sale al 17,8%), mentre la mobile tv rimane a livelli bassi, relegata a un pubblico saltuario e di
nicchia (0,9%). Soprattutto i giovani (14-29 anni) diversificano ampiamente le possibilità attraverso
le quali seguire le trasmissioni televisive: il 95% utilizza la televisione tradizionale (analogica o
digitale terrestre), il 40,7% la web tv, il 39,6% la tv satellitare, il 2,8% l’iptv, l’1,7% la mobile tv.
Anche l’ascolto della radio in generale rimane complessivamente stabile, sempre a livelli molto alti
di utenza (otto italiani su dieci). Si rafforza l’autoradio, con il 65,2% di ascoltatori, incrementando
nell’ultimo biennio di 1,4 punti percentuali la sua utenza. Rimane costante l’ascolto della radio via
Internet (8,4%) o tramite il cellulare (7,8%), ed è in lieve flessione l’uso del lettore mp3 come radio
(14,8%), soppiantato in molti casi dall’utilizzo degli smartphone. Si conferma il periodo di grave
crisi attraversato dalla carta stampata. I quotidiani a pagamento (47,8% di utenza) perdono il 7% di
lettori tra il 2009 e il 2011 (complessivamente -19,2% rispetto al 2007). La free press cresce di poco
(+1,8%, salendo al 37,5% di utenza). I periodici resistono, specie i settimanali (28,5% di utenza),
grazie agli sforzi di innovazione e di marketing, a cominciare dagli allegati venduti unitamente ai
rotocalchi. Si tratta di media soprattutto per donne: più di una su tre legge i settimanali, mentre solo
un uomo su cinque fa altrettanto. Tengono anche i libri, con il 56,2% di utenza, ma il dato si spacca
tra il 69,5% dei soggetti più istruiti (diplomati e laureati) che hanno letto almeno un libro nel corso
dell’ultimo anno, contro il 45,4% delle persone meno scolarizzate. Gli e-book ancora non
decollano: 1,7% di utenza. Stabile la lettura delle testate giornalistiche on line (+0,5%, con
un’utenza del 18,2%), che però non si possono più considerare le versioni esclusive del giornalismo
sul web, perché i diversi portali d’informazione on line contano oggi un’utenza pari al 36,6% degli
italiani. Per l’uso del telefono cellulare si rileva in generale una flessione (-5,5% complessivamente
tra il 2009 e il 2011), complici gli effetti della crisi. Ed è in atto una migrazione dell’utenza dagli
apparecchi basic (-8%), con funzioni limitate alle sole telefonate e all’invio e ricezione degli sms,
agli apparecchi smartphone (+3,3%, con un’utenza che sale complessivamente al 17,6% e al 39,5%
tra i giovani). È bene qui rimarcare che questi dati non rilevano il possesso dell’apparecchio, bensì
ne misurano l’utilizzo effettivo. Infine, va sottolineato il dato di crescita proprio dell’utenza del
web, che nel 2011 supera finalmente la fatidica soglia del 50% della popolazione italiana,
attestandosi per l’esattezza al 53,1% (+6,1% rispetto al 2009). Il dato complessivo si fraziona tra
l’87,4% dei giovani e il 15,1% degli anziani (65-80 anni), tra il 72,2% dei soggetti più istruiti e il
37,7% di quelli meno scolarizzati. Tutti i dati confermano l’affermazione progressiva di percorsi
individuali di fruizione dei contenuti e di acquisizione delle informazioni da parte dei singoli, con
processi orizzontali di utilizzo dei media in base a palinsesti multimediali personali e autogestiti,
basati sulla integrazione di vecchi e nuovi media. È l’utente a spostarsi all’interno dell’ampio e
variegato sistema dei mezzi di comunicazione per scegliere il contenuto che più gli interessa
secondo le modalità e i tempi che più gli sono consoni: ognuno si costruisce una nicchia di consumi
mediatici e palinsesti «fatti su misura».
Internet contro la marginalità informativa
Nel mondo dell’informazione la centralità dei telegiornali è ancora fuori discussione, visto che
l’80,9% degli italiani li utilizza come fonte principale. Tra i giovani, però, il dato scende al 69,2%,
avvicinandosi molto al 65,7% riferito ai motori di ricerca su Internet e al 61,5% di Facebook. Per la
popolazione complessiva, al secondo posto si collocano i giornali radio (56,4%), poi la carta
stampata con i quotidiani (47,7%) e i periodici (46,5%). Dopo ci sono il televideo (45%), i motori di
ricerca come Google (41,4%), i siti web d’informazione (29,5%), Facebook (26,8%), i quotidiani on
line (21,8%). Nel caso delle tv all news (16,3% complessivamente) risultano discriminanti l’età (il
dato sale al 20,1% tra gli adulti) e il titolo di studio (il 21,7% tra i diplomati e laureati). Le app per
smartphone o tablet arrivano al 7,3% di utenza e Twitter al 2,5%. A fronte della parte di popolazione
che usa molte fonti informative, ci sono poi quelli che non si informano affatto (il 10,2% dell’intera
popolazione), oppure ricorrono solo ai telegiornali o a un mix di media tutto affidato alla ricezione
audiovisiva passiva (telegiornale, giornale radio, televideo) (10,1%). La situazione complessiva del
nostro Paese può essere riassunta in questo modo: ogni dieci italiani, ce n’è uno che non si informa,
uno che accede solo a tg e gr, tre che hanno un ventaglio più ampio di fonti da cui sono escluse però
quelle che hanno a che fare con Internet, infine cinque che usano più o meno tutte le fonti
intrecciandole in vari modi.
La politica, star della tv
Quando va in onda un talk show politico, davanti alla televisione si siede il 49,8% degli italiani.
L’altra metà (esattamente il 50,2%) cambia canale o spegne il televisore. L’utente tipo dei talk show
politici è di sesso maschile (52,9%), ultrasessantacinquenne (56,7%), residente in un Comune di
medio-grandi dimensioni (57,1%), del Centro Italia (60,2%). Il livello d’istruzione non sembra una
discriminante fortemente significativa, in questo caso: tra i meno scolarizzati prevalgono i no con il
51,5% delle risposte, mentre tra i più istruiti s’impongono i sì con il 51,3%. Quasi il 70% dei
giovani tra i 14 e i 29 anni non li segue affatto.
I ritardi della rivoluzione digitale
L’Italia continua a rimanere indietro rispetto a molti Paesi dell’Unione europea, sia per quel che
riguarda la diffusione dell’accesso a Internet, sia per la qualità della connessione. Il nostro Paese si
colloca al ventunesimo posto in entrambi i casi: per quanto riguarda l’accesso a Internet da casa, tra
le famiglie che hanno almeno un componente tra i 16 e i 64 anni si raggiunge il 59% (rispetto alla
media europea del 70%). L’accesso mediante banda larga registra invece un tasso di penetrazione
del 49% rispetto alla media europea del 61%.
9. Governo pubblico
Roma, 2 dicembre 2011
Il recupero dell’e-government
L’Italia è tra i Paesi europei con le migliori performance relativamente alla disponibilità on line di
alcuni servizi pubblici fondamentali, come il registro automobilistico e la dichiarazione dei redditi.
Abbiamo toccato il vertice della classifica con una performance del 100% di fronte a una media
europea che si ferma all’82%. L’incremento rispetto all’anno precedente è di 31 punti percentuali.
Ma solamente il 17% dei cittadini italiani ha fruito di servizi on line della Pubblica
Amministrazione negli ultimi tre mesi. Siamo penultimi in Europa, davanti alla Grecia, e
lontanissimi dalla Norvegia (quasi il 70% della popolazione). La situazione migliora nel caso delle
imprese: l’84% utilizza Internet per interagire con la Pa, meno del 96% della Norvegia, ma più del
67% di Spagna e Inghilterra.
La riduzione del carico amministrativo sulle imprese
Il ritardo nei pagamenti della Pubblica Amministrazione è stimato per l’Italia in 100 giorni, contro
una media europea di 25. Il costo di start up di un’impresa è pari al 18,5% del reddito pro-capite in
Italia, il 5,5% in Europa. E le imprese italiane sopportano un carico di costi amministrativi pari a 70
miliardi di euro l’anno, quasi 5 punti percentuali di Pil. Gli interventi di semplificazione
amministrativa avviati di recente dal Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione
dovranno portare a una riduzione per un importo superiore a 11 miliardi di euro in aree di
competenza statale come il lavoro, la previdenza (ad esempio, la tenuta dei libri paga e le denunce
contributive mensili), il fisco (dichiarazioni annuali e comunicazione Iva, dichiarazioni dei sostituti
d’imposta). Un’ulteriore riduzione di costi potrebbe poi derivare da interventi in aree di competenza
delle Regioni e degli enti locali. Su questo versante il risparmio per il sistema produttivo sarebbe
pari a 5,3 miliardi di euro, portando il contenimento del carico amministrativo per le imprese a circa
16 miliardi di euro.
Parlamenti in crisi d’identità
Delle 197 leggi approvate nel corso dell’attuale Legislatura, ben 163 sono state proposte dal
Governo e solamente 34 dal Parlamento. Siamo passati dal 77% di leggi approvate su iniziativa
governativa nella XIII Legislatura al 78,4% nella XIV, fino al picco dell’88,4% nella XV
Legislatura. La capacità propositiva delle Camere appare in affanno. Delle 6.567 proposte di legge
presentate nel corso dell’attuale Legislatura, ben 6.018 (il 91,6%) erano di iniziativa parlamentare,
ma poi solamente 34 sono state trasformate in leggi dello Stato, con una percentuale di successo che
si ferma allo 0,56%: vale a dire una legge ogni 200 proposte legislative. E l’attività di controllo del
Parlamento sul Governo è esercitata con sempre maggiore difficoltà: solo il 37% delle
interrogazioni parlamentari ha ricevuto una risposta. La retorica antipolitica ha buon gioco e molte
carte da giocare: degli attuali 24 ministri in carica, 22 sono parlamentari, così come 4 viceministri,
33 sottosegretari, 11 presidenti di Provincia, 3 assessori provinciali, 17 consiglieri provinciali, 22
sindaci, 11 assessori comunali e 41 consiglieri comunali.
Democrazia partecipativa: antidoto alla logica Nimby
L’Italia è un Paese sempre più in stallo sul fronte delle grandi opere. Nel 2010 i progetti contestati
ammontavano a 320, raddoppiati in cinque anni: erano 104 nel 2005, 171 nel 2006, 193 nel 2007,
264 nel 2008, 283 nel 2009. Le cause sono molteplici, ma tutte si possono riassumere in una
carenza di informazione e di dialogo con le comunità interessate. Se ne può uscire con un
cambiamento di approccio da parte di tutte le parti in causa, all’insegna del dialogo, di
un’informazione chiara e corretta, della partecipazione.
10. Sicurezza e cittadinanza
Roma, 2 dicembre 2011
La criminalità oltre l’emotività
Negli ultimi tre anni la criminalità in Italia è in calo: si è passati dai 2.933.146 reati denunciati nel
2007 ai 2.621.019 del 2010. L’Italia presenta un quoziente di 45,1 reati denunciati per mille abitanti,
inferiore alla media europea di 57,1 per mille e alla gran parte dei Paesi europei. Resta però alto il
sentimento di paura nei contesti urbani di dimensioni maggiori. In una classifica guidata da
Stoccolma, Roma si trova al 21° posto, con il 78,9% della popolazione che si sente tranquilla nella
zona in cui vive (tre anni fa la quota era più alta: l’86%). Migliori di quelli di Roma, i dati di
Berlino (98,5%), Parigi (93,3%), Londra (91%) e Madrid (90,5%).
Le tante forme della violenza quotidiana
Una indagine del Censis fotografa bene un clima sociale in cui si afferma con forza la primazia
dell’io e la convinzione che le regole abbiano un peso relativo. L’85,5% degli italiani si arroga il
diritto di essere il giudice unico dei propri comportamenti, affermando il primato della coscienza
individuale. Il 67,6% ritiene che le regole non devono soffocare la libertà personale. Una libertà che
può arrivare anche all’utilizzo delle cattive maniere per difendersi da quello che si considera un
sopruso (la pensa così il 51,4%). Anche perché, se non ci si fa rispettare, non si riuscirà mai a
ottenere il rispetto altrui (secondo il 70,7%). Aumenta così il conflitto. Tra il luglio 2010 e il giugno
2011 si sono svolte 241 manifestazioni di piazza con disordini, il 53,5% in più rispetto all’anno
precedente, con un totale di 556 persone ferite, 1.486 denunciati e 100 arrestati.
Evoluzione della contraffazione e misure di contrasto
Degli oltre 56.000 sequestri effettuati da Guardia di Finanza e Agenzia delle Dogane negli ultimi tre
anni (quasi 175 milioni di pezzi sequestrati), il 57,6% ha riguardato accessori (il 36,7% dei
sequestri, oltre 43 milioni di pezzi) e capi di abbigliamento (il 20,9%, oltre 37 milioni di pezzi).
Seguono i sequestri di calzature (il 14,5%, oltre 11 milioni di pezzi), occhiali (il 6,2%, 2,5 milioni di
pezzi), orologi e gioielli (il 5,9%, oltre 2 milioni di pezzi) e apparecchiature elettriche (il 4,2%, 3,5
milioni di pezzi). I sequestri di giochi e giocattoli sono stati l’1,7% del totale, per un numero però
molto elevato di pezzi (oltre 23 milioni). Cosmetici e profumi rappresentano appena lo 0,3% dei
sequestri, con il ritiro però di oltre 5 milioni di pezzi. La domanda di prodotti falsi si mantiene
elevata nel tempo. Anche se tra gli italiani prevale chi ritiene che comprare oggetti falsi sia un reato
(40%) o una fregatura (35%), circa un quarto dei consumatori non condanna l’acquisto di prodotti
contraffatti, il 16% ritiene che sia un diritto del consumatore poter scegliere, così come avere
prodotti «di marca» a costi contenuti (9%). E sono prodotti nei quali ci si imbatte quotidianamente,
basta anche solo uscire di casa: per la maggior parte vengono acquistati infatti sulle bancarelle
(65,2%), in spiaggia (16,8%) o nei negozi (15,3%).
Le prospettive di mobilità economica e sociale degli immigrati
Da una recente indagine del Censis emerge che per gli immigrati vivere in Italia è una scelta di vita
solida e soddisfacente. Il 54% ritiene che il nostro sia uno dei Paesi al mondo in cui si vive meglio e
il 72,4% pensa che da qui a dieci anni non lascerà l’Italia. Anzi, il 45,8% prevede di acquistare una
casa e il 16,4% di ristrutturare quella in cui vive. Lo studio viene visto come lo strumento più
importante per garantire un percorso di crescita ai giovani. Il 98,4% degli immigrati farà studiare i
propri figli. Solo il 19,9% pensa che studieranno il minimo indispensabile (la quota è del 29,5% tra
gli italiani), mentre il 75,8% vorrebbe che prendessero una laurea (il 64,5% tra gli italiani).
L’Italia vista dai nuovi italiani
A dispetto della crisi economica, per i nuovi italiani nel 2020 il nostro sarà sicuramente un Paese
più benestante: ne è convinto il 65% degli immigrati. Secondo il 53,6% le industrie manifatturiere
diminuiranno, ma l’Italia rappresenterà sempre di più un polo di attrazione per i turisti (79,2%) e si
servirà sempre di più di energie alternative (83,8%). L’82,6% pensa che il numero degli stranieri
continuerà ad aumentare e il 73,8% che la società italiana sarà sempre più aperta al mondo. Per il
68,2% saremo più solidali, più giusti secondo il 64,6%, e si costruiranno più reti di relazioni
personali, di vicinato, di amicizia, che avranno per protagonisti anche gli immigrati (62,7%).
CENSIS: 45° Rapporto sulla situazione sociale del paese 2011