Argomento: 
Data: 
5 Dicembre 2008
Descrizione breve: 
Viene studiata e analizzata la situazione sociale italiana.
Contenuto nascosto: 
Il Rapporto Annuale 2008 42° Rapporto sulla situazione sociale del paese Giunto alla quarantaduesima edizione, il Rapporto Censis prosegue l’analisi e l’interpretazione dei più significativi fenomeni socioeconomici del Paese. Le Considerazioni generali introducono il Rapporto ribadendo la fragilità della nostra struttura socioculturale e il moltiplicarsi di piccole e grandi paure. Al tempo stesso, i caratteri originari del nostro sistema di convivenza ci aiutano a fronteggiare la crisi in corso, mentre si intravedono i tratti di una seconda metamorfosi silenziosamente in marcia. Nella seconda parte, La società italiana al 2008, vengono affrontati i temi di maggiore interesse emersi nel corso dell’anno: le reazioni e difese dal grande crack, il cammino verso la seconda metamorfosi della società italiana, le persistenti vulnerabilità interne del sistema. Nella terza e quarta parte si presentano le analisi per settori: la formazione, il lavoro, il welfare e la sanità, il territorio e le reti, i soggetti economici, i media e la comunicazione, le politiche pubbliche, la sicurezza e la cittadinanza. Schede:  Considerazioni generali  La società italiana al 2008  Processi formativi  Lavoro, professionalità, rappresentanze  Il sistema di welfare  Territorio e reti  I soggetti economici dello sviluppo  Comunicazione e media  Governo pubblico  Sicurezza e cittadinanza Dicembre 2008 2 Considerazioni generali L'Italia in marcia verso la seconda metamorfosi La «segnatura» della crisi c'è stata, ma apre a un adattamento innovativo della società Roma, 5 dicembre 2008 Alla crisi ci crediamo e non ci crediamo. Per alcuni si sfiammerà presto, per altri il tracollo durerà a lungo. Questa diversa percezione riflette l'assenza di una consapevolezza collettiva, a conferma del fatto che restiamo una società «mucillagine». Come affermato lo scorso anno, il contesto sociale è condizionato da una soggettività spinta dei singoli, senza connessioni fra loro e senza tensione a obiettivi e impegni comuni. Questa regressione antropologica, con i suoi pericolosi effetti di fragilità sociale, è visibile nel primato delle emozioni, nella tendenza a ricercarne sempre di nuove e più forti, al punto che «la violenza o lo stravolgimento psichico si illudono di avere un bagliore irripetibile di eternità, mentre nei fatti sono solo passi nel nulla». È stato l'anno delle paure. Su questa base si sono moltiplicate piccole e grandi paure (i rom, le rapine, la microcriminalità di strada, gli incidenti provocati da giovani alla guida ubriachi o drogati, il bullismo, il lavoro che manca o è precario, la perdita del potere d'acquisto, la riduzione dei consumi, le rate del mutuo). In un anno elettorale, la politica ha trovato vantaggioso enfatizzare le paure collettive e le promesse di securizzazione (dai militari per le strade alla social card per i meno abbienti), con ciò finendo per generare una più profonda insicurezza, una ulteriore sensazione di fragilità. La crisi finanziaria internazionale: la «segnatura» c'è stata. La crisi ci ha segnato, ed è verosimile attendersi per il prossimo anno ulteriori fasi di flessione. Ma ha determinato un salutare allarme collettivo. Si tratta ora di vedere se il corpo sociale coglierà la sfida, se si produrrà una reazione vitale per recuperare la spinta in avanti, sebbene siano in agguato le «italiche tentazioni alla rimozione dei fenomeni, alla derubricazione degli eventi, all'indulgente e rassicurante conferma della solidità di fondo del sistema». Non basta una reazione puramente adattiva. Rispetto a una crisi che ci segna in profondità, sarebbe deleterio adagiarsi sulla speranza che tutto si risolverà nella dinamica della lunga durata, grazie alle furbizie adattive che ci contraddistinguono da decenni e secoli. Rischieremmo che «la lunga durata diventi luogo del rattrappimento e della rinuncia ad un ulteriore sviluppo». Rischieremmo: l'appiattimento su parole d'ordine non più universalmente condivise (il mercato, l'occidentalizzazione, la globalizzazione, l'Europa allargata); di continuare a vivere individualisticamente; l'acutizzarsi di un disagio sociale legato all'esaurimento delle sicurezze di base garantite da un welfare oggi in crisi e dalle attuali prospettive o paure di impoverimento; gli effetti ulteriori degli squilibri antichi della nostra società (il sottosviluppo meridionale, l'inefficienza dell'amministrazione pubblica, il drammatico potere della criminalità organizzata). Rischieremmo forse un collasso per implosione su noi stessi, per cui non possiamo lasciar cadere la sfida, l'allarme, la paura che la contingenza attuale ci propone. Verso una seconda metamorfosi. Le difficoltà che abbiamo di fronte possono avviare processi di complesso cambiamento. Attraverso un adattamento innovativo (exaptation, per usare un termine mutuato dalla biologia), cioè non automatico ma reso vitale e incisivo da fattori esogeni e leve di trasformazione, possiamo spingerci verso una seconda metamorfosi (dopo quella degli anni fra il '45 e il '75) che forse è già silenziosamente in marcia. La nostra seconda metamorfosi sarà il risultato della combinazione dei «caratteri antichi della società» con i processi che fanno da induttori di cambiamento. Tra questi vi sono: la presenza e il ruolo degli immigrati, con la loro vitalità demografica e la moltiplicazione emulativa di spiriti imprenditoriali; l'azione delle minoranze vitali già indicate lo scorso anno, specialmente dei player nell'economia internazionale; la crescita ulteriore della componente competitiva del territorio (dopo e oltre i distretti e i borghi, con le nuove mega conurbazioni urbane); la propensione a una temperata 3 gestione dei consumi e dei comportamenti; il passaggio dall'economia mista pubblico-privata a un insieme oligarchico di soggetti economici (fondazioni, gruppi bancari, utilities); l'innovazione degli orientamenti geopolitici, con la minore dominanza occidentale e la crescente attenzione verso le direttrici orientali e meridionali. Mercato largo, economia aperta, policentrismo decisionale. Le classi dirigenti (non solo quella politica) tendono invece ad automatismi di segno opposto: accorciano i raggi delle decisioni, le riservano a sfere di responsabilità molto ristrette, le rattrappiscono al breve termine, se non addirittura al presente. «In poche stanze si possono prendere provvedimenti e iniziative planetarie, ma poi la realtà segue opzioni, comportamenti, paure di tipo diffuso, su cui sarebbe deleterio avviare una rincorsa punto per punto (una Cig qua, una rottamazione là) che non riuscirà mai a far recuperare una dinamica fatta da tanti soggetti, l'unica dimensione di cui abbiamo bisogno per uscire collettivamente dalla crisi». Per la società italiana resta l'imperativo: «mercato largo, economia aperta, policentrismo decisionale». 4 La società italiana al 2008 Aciclicità dell'economia e temperanza nei consumi sono la risposta italiana alla crisi Internazionalizzazione permanente, nuovi italiani, mega cities, donne e cultura digitale i fattori trainanti della metamorfosi Roma, 5 dicembre 2008 – Le strategie cautelative delle famiglie. Ben il 71,7% degli italiani pensa che il terremoto dei mercati finanziari potrà avere ripercussioni dirette sulla propria vita, solo il 28,3% dichiara che ne uscirà indenne. Nonostante le preoccupazioni, il 37% degli italiani pensa che la crisi potrebbe migliorarci, costringendoci a rivedere i nostri difetti; il 30,3% dichiara più cinicamente che, come sempre, ci scivolerà tutto addosso; e il 32,8% crede, più pessimisticamente, che la crisi farà emergere egoismi e interessi personali esasperati. Ciò che preoccupa di più tra i possibili effetti del credit crunch è il rischio di dover rinunciare in futuro al tenore di vita raggiunto (il 71,1% degli italiani). Se dalle aspettative, in gran parte condizionate dal quotidiano cannoneggiamento di notizie e prese di posizione ufficiali sulla recessione, si passa a valutare il numero di famiglie effettivamente interessate da fattori critici, lo scenario diventa più realistico. L’11,8% delle famiglie italiane (circa 2,9 milioni) possiede azioni e/o quote di Fondi comuni, soggette quindi all’alta volatilità del mercato borsistico; l’8,2% (circa 2 milioni) ha un mutuo per l’abitazione, ma solo 56.000 hanno saltato qualche pagamento e 193.000 hanno molta difficoltà a pagare le rate (250.000 famiglie nel complesso); il 12,8% (circa 3,1 milioni) usufruisce del credito al consumo. Tra le strategie per affrontare il difficile momento, il 33,9% degli italiani dichiara che intende risparmiare di più, cautelandosi rispetto agli imprevisti; il 25,2% sembrerebbe non avere altra strada che un significativo taglio dei consumi; in pochi si dichiarano confusi e incerti sul da farsi (9,6%), oppure orientati a lavorare di più (7,4%) o a barcamenarsi cercando di spendere di meno (8,6%); solo il 3,8% dichiara che sarà costretto a intaccare i risparmi messi da parte e lo 0,5% che si indebiterà. La temperanza nei consumi garantisce il buon vivere. Sempre più orientati alla liquidità, in fuga dal risparmio gestito, gli italiani ritengono che in questa fase i soldi vadano tenuti in contanti (29,3%), in depositi bancari e/o postali (23,4%) o, al limite, vadano usati per cogliere una buona occasione sul mercato immobiliare in rallentamento (22,2%). Se proprio si deve investire, è meglio ricorrere agli inossidabili titoli di Stato (16,4%). La propensione alla cautela, spesso tacciata di arretratezza o chiusura all’innovazione, si sta dimostrando una polizza contro l’erosione delle risorse familiari. Infatti, per quanto riguarda i consumi, stime del Censis fissano in oltre 5,5 milioni gli «indenni», vale a dire gli italiani che spenderanno allo stesso modo usufruendo di un ampio paniere di beni e servizi (8 su 13 tipologie di consumo); all’estremo opposto, sono poco più di 880 mila i «penalizzati», che dovranno tagliare radicalmente i consumi rinunciando a gran parte delle spese. Mentre sono decisamente elevate le quote di italiani che definiscono irrinunciabili (mantenendo la spesa almeno agli attuali livelli) singoli settori di consumo: il cellulare (quasi il 59% degli attuali utilizzatori, oltre il 69% tra i più giovani, in totale 26,8 milioni di persone), una vacanza l’anno di almeno una settimana (53,7%, 21,1 milioni), l’automobile (50%, oltre 17,8 milioni), gli alimenti della propria dieta quotidiana (quasi il 48%, 23,2 milioni), le spese per le attività sportive e per il fitness (47,8%, 10,1 milioni), il parrucchiere e l’estetista (41%, quasi 18 milioni). Le spese per il dentista e le visite mediche specialistiche sono giudicate irrinunciabili dall’85,8% degli italiani. Quote inferiori, ma comunque significative, difenderanno l’abitudine di cenare al ristorante almeno una volta al mese (33,6%, 11,9 milioni di persone), le spese legate a hobby personali (35,9%, 9,3 milioni), l’acquisto di almeno alcuni capi di abbigliamento di qualità e/o firmati (25,1%, 8,4 milioni). L’aciclicità del nostro sistema economico ci difende dal grande crack. In Italia quasi il 21% del valore aggiunto prodotto deriva dal settore manifatturiero, più del Regno Unito (16,6%) e della Francia (14,1%). Il 27,6% proviene dal sistema finanziario (banche, assicurazioni e altri soggetti di intermediazione), meno che nel Regno Unito (33,8%), in Francia (33,3%) e Germania (29,2%). Nei primi sette mesi dell’anno, inoltre, hanno 5 continuato a crescere le esportazioni dei principali comparti manifatturieri: +31% i prodotti petroliferi raffinati, +11% quelli alimentari, +5,5% la meccanica. La struttura finanziaria delle imprese e il loro rapporto con il sistema bancario restano solidi. La dotazione in strumenti liquidi (biglietti, depositi e titoli di Stato prontamente liquidabili) è consistente, 252 miliardi di euro nella prima parte del 2008, oltre 1 miliardo in più rispetto alla fine del 2007. L’indebitamento delle imprese, cresciuto negli ultimi trimestri, a metà del 2008 resta al 75% del Pil (era il 68% a fine 2006), molto più basso che in Francia, Regno Unito e Spagna, dove si supera da tempo il 100%. Sempre più player globali. L’industria italiana ha seguito un doppio binario di riposizionamento a livello globale: ha progressivamente accentuato la direzione orientale e mediterranea delle esportazioni, e ha esteso oltre il made in Italy la capacità di intercettare la domanda mondiale di beni. Nel periodo 2005-2007 il valore esportato dal made in Italy verso i Paesi dell’Unione europea è cresciuto dell’8,4%, ma spiccano i dati relativi ai Paesi di recente adesione, come la Polonia (+41,1%) e la Repubblica Ceca (+19,4%), e poi India (+61,6%), Egitto (+60,1%), Russia (+48,2%), Cina (+27,5%), Brasile (+25,9%). L’export dell’intero manifatturiero mostra livelli di crescita in valore anche superiori a quelli del made in Italy (+15,4% contro +12,2% a livello mondiale). Da immigrati a nuovi italiani. Uno dei tratti principali della «seconda metamorfosi» italiana è costituito dalla presenza numerosa e attiva di nuovi cittadini che, pur nella diversità di provenienze, culture e linguaggi, hanno assunto ruoli, comportamenti e percorsi di vita non dissimili da quelli degli italiani. Solo vent’anni fa gli stranieri residenti erano appena lo 0,8% della popolazione, nel 1998 erano 1 milione di persone, mentre oggi sono ben 3,4 milioni. Ci avviamo a raggiungere la soglia del 6% della popolazione complessiva, ma nel Centro-Nord siamo già oltre: a Milano, ad esempio, a più del 13%, a Torino e Firenze al 9%. Si affermano modalità di integrazione tipiche del nostro modello di sviluppo: nella dimensione familiare e in quella micro-imprenditoriale. Oggi sono 1.367.000 le famiglie con capofamiglia straniero (il 5,6% del totale); aumentano i matrimoni con almeno uno sposo straniero (oltre 34.000, pari al 14% del totale); cresce il numero delle nascite di figli di stranieri (64.000, l’11,4% del totale dei nati in Italia, erano 33.000 nel 2003); la fecondità delle donne straniere (2,50 figli per donna) è doppia di quella delle italiane (1,26) e si attesta su valori simili a quelli dell’Italia del baby boom. Il numero di alunni stranieri presenti nelle scuole cresce al ritmo di 60/70.000 l’anno; appena dieci anni fa erano circa 60.000 (lo 0,7% del totale), oggi sono più di 500.000 (il 5,6% del totale, che sale al 6,8% nella scuola primaria). Nel 2007 le micro-imprese gestite da immigrati hanno raggiunto le 225.408 unità, con 37.531 imprese di extra-comunitari avviate nel corso dell’anno (+8% rispetto all’anno prima). Convivere nelle mega cities. L’Italia delle «cento città» si sta trasformando nell’Italia delle mega conurbazioni urbane. Se ne possono distinguere 14: due «mega regioni», quella lombarda e quella veneta, composte da diverse province; sei aree metropolitane (Torino, Roma, Verona, Napoli, Palermo e Cagliari); quattro sistemi lineari costieri (ligure, alto-adriatico, basso-adriatico, della Sicilia orientale); due «aste territoriali» (quella emiliana e quella toscana). Le grandi aree metropolitane e le mega conurbazioni urbane rappresentano il 17% della superficie del Paese, vi risiedono 36,4 milioni di abitanti (il 61% della popolazione), vi sono insediate il 63% delle attività industriali e terziarie e il 71% delle imprese del terziario avanzato. Se nei comuni con più di 250.000 abitanti le imprese attive nell’industria e nei servizi sono cresciute del 14,1% negli ultimi sette anni, nel territorio circostante ormai inglobato (i comuni di prima e seconda cintura) la crescita è stata rispettivamente del 17,4% e del 19,1%. Mezzogiorno: due territori, una nazione. Due Italie sempre più lontane, a causa delle marcate differenze fra Nord e Sud, compongono una nazione con deprimenti valori medi dei principali indicatori rispetto agli altri grandi Paesi europei. È questa la principale vulnerabilità del sistema che procede verso una silenziosa metamorfosi. L’Italia del Centro-Nord ha un Pil pro-capite (29.445 euro) più elevato di Regno 6 Unito (29.140 euro), Germania (28.068 euro), Francia (27.593 euro) e Spagna (26.519 euro). La nazione Italia, invece, ha il valore più basso per lo scarso apporto meridionale, dove il Pil pro-capite scende a 17.046 euro. Nell’export di beni, sempre pro-capite, siamo già secondi solo alla Germania, ma l’Italia del Centro-Nord supererebbe la media dell’Europa a 27 con 7.835 euro per abitante. Nel Mezzogiorno i diplomati sono il 44,3% della popolazione di 25-64 anni, 39 punti in meno della Germania (83,2%) e 23 punti in meno della Francia (67,4%). I rischi del lavoro all’ingrosso. Si conferma l’aumento degli impieghi atipici, che oggi si attestano all’11,9% dell’intera occupazione. Ma il lavoro a tempo indeterminato rimane la modalità contrattuale privilegiata come garanzia di lavoro (è l’opinione del 42,5% degli italiani) e quella che dà maggiore soddisfazione (66,1%). Il lavoro a tempo determinato, le prestazioni occasionali e le collaborazioni sono ritenute utili per offrire occupazione dal 41,9% degli italiani, ma se si parla di soddisfazione del lavoratore la percentuale crolla al 12,9%. Dal 2004 al 2007 le persone che non cercano lavoro perché temono di non trovarlo sono aumentate del 22,8%; coloro che non hanno un lavoro e che sono disponibili a lavorare sono diminuiti del 23,5%. Cresce cioè una sorta di scoraggiamento nei confronti della possibilità di occuparsi che coinvolge quasi 1 milione 400 mila persone. 7 Processi formativi Roma, 5 dicembre 2008 – Università: scenari e strategie per un malato cronico. Nonostante i diversi interventi di riforma dell’università, tarda ad essere attuato un sistema di ripartizione dei finanziamenti che prescinda dal criterio della spesa storica, per premiare invece i risultati conseguiti dai singoli atenei; non sono state introdotte modalità di reclutamento dei docenti scevre da influenze clientelari o localistiche; gli auspicati processi di semplificazione dell’offerta corsuale e di razionalizzazione delle sedi periferiche procedono in modo stentato. Tra il 1999 e il 2007 il numero di comuni sede di strutture e corsi universitari è aumentato del 26,5%; i corsi di laurea triennali sono passati dai 3.565 del 2004-2005 ai 3.922 del 2007-2008 (+10%); nell’a.a. 2006-2007 la quota di docenti a contratto titolari di insegnamenti ufficiali ha sfiorato il 60% (era il 38% nell’a.a. 2001-2002); le iscrizioni alle lauree specialistiche sono in crescita esponenziale (+31,8% nel triennio 2005-2007). Resta difficile declinare il tema dell’autonomia se non si correla con l’autofinanziamento: il finanziamento del fondo ordinario pesa per il 58,2% delle entrate degli atenei statali, le tasse universitarie incidono per il 12,1%. Scuola secondaria di II grado: come e dove intervenire. Tra i dirigenti scolastici delle scuole secondarie di II grado sembra diffuso un atteggiamento di cauto ottimismo sulla capacità di tenuta del sistema scolastico pubblico: il 39,8% dei presidi dichiara di essere ottimista, contro il 26,1% di «disorientati», il 14,1% di «sfiduciati», l’11,5% di pessimisti e appena il 2,4% di demotivati. Il 62,2% dei dirigenti scolastici ritiene che gli studenti arrivino impreparati dalle medie (il ciclo che avrebbe più bisogno di un ripensamento complessivo); il 48,4% lamenta l’assenza di un serio sistema di valutazione degli insegnanti; il 45,9% indica nell’individualismo professionale dei docenti uno degli ostacoli al miglioramento delle performance della scuola. Tra le soluzioni auspicate dai presidi: un modello organizzativo che permetta alle scuole di gestire autonomamente il budget (61,6%), l’adozione di meccanismi meritocratici nella gestione delle risorse umane (45,8%), l’ampliamento delle ore di servizio degli insegnanti e una maggiore flessibilità (41%). L’orientamento passa per Internet e attraverso le relazioni informali. Sono quasi 26.000 le strutture che erogano servizi di informazione e orientamento alla formazione e/o al lavoro in Italia: un arcipelago composito di soggetti afferenti al sistema scolastico (58,8%), ai servizi pubblici e privati per il lavoro (16,9%), alla formazione professionale (14,9%), al terzo settore (4,1%), al sistema dell’alta formazione (3,1%) e ai servizi socio-sanitari (2,3%). Ma tale offerta si rivela scarsamente capace di soddisfare le aspettative delle diverse tipologie di destinatari: per il 57,7% degli studenti di 14-19 anni l’orientamento fornito dalla scuola media è generico; il 38,9% dei giovani in uscita dalla scuola secondaria di II grado dichiara di aver acquisito informazioni su opportunità di studio e lavoro dopo il diploma soprattutto attraverso la ricerca personale, tramite la consultazione di riviste e giornali (88,4%) e di Internet (77,4%). Tra gli adulti di 25-70 anni il 56% non sa indicare organizzazioni pubbliche o private nel proprio territorio che offrono attività di formazione, il 73% ha deciso per proprio conto di partecipare ai corsi di formazione frequentati, il 22,2% non è in grado di indicare enti a cui potrebbe rivolgersi per avere informazioni, il 26,8% si limita ai soli centri pubblici presenti sul proprio territorio. Internet (53%) e la rete delle relazioni informali (familiari, amici, colleghi di lavoro: 41,1%) svolgono un ruolo determinante per i cittadini con 18 anni e oltre alla ricerca di informazioni sui corsi di formazione di loro interesse. Tira anche l’export della conoscenza. La bilancia dei pagamenti tecnologica italiana (che rappresenta il trasferimento internazionale di tecnologia non incorporata in beni fisici) ha realizzato anche nel 2007 un risultato positivo, portando a 817 milioni di euro il saldo fra incassi e pagamenti, rispetto ai 780 milioni del 2006. La componente che contribuisce in maniera più rilevante a questo traguardo è data dai servizi a contenuto tecnologico, tra cui principalmente gli studi tecnici e le attività di engineering. Altra voce che contribuisce alla performance positiva è l’attività di ricerca e sviluppo finanziata 8 dall’estero, con un saldo di 347 milioni di euro. Dal lato degli incassi, fatto 100 il volume complessivo, si ricava una distribuzione fra Unione europea e Paesi non comunitari che assegna alla prima il 55,3% degli oltre 4 miliardi di euro esportati (pari quindi a 2,3 miliardi) e ai secondi poco meno del 45% (circa 1,9 miliardi). Dal lato dei pagamenti, la quota relativa all'Unione europea sale al 67,9%, mentre la componente extra-Ue si ferma al 32,1%. 9 Lavoro, professionalità, rappresentanze Roma, 5 dicembre 2008 – I fattori in bilico nel mercato del lavoro. Nei primi due trimestri del 2008 si registra un aumento delle persone in cerca di occupazione pari al 20,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La mancanza di lavoro colpisce soprattutto soggetti precedentemente occupati (+27,9%) e persone in cerca di prima occupazione (+5,8%). Dal 2004 al 2007 il tasso di attività femminile è passato dal 50,6% al 50,7%, il tasso di occupazione dal 45,2% al 46,6%, il tasso di disoccupazione dal 10,5% al 7,9%. Siamo ancora lontani dai livelli del Nord Europa, e le donne rischiano di essere le più colpite dalla possibile crisi occupazionale. Inoltre, nel 2007 si è registrato un aumento della frequenza dei conflitti di lavoro (passati da 545 casi a 654) e del coinvolgimento dei lavoratori (416.249 nel 2006, 882.097 nel 2007, con 6 milioni 322 mila ore di lavoro perse rispetto a 3 milioni 144 mila dell’anno precedente). La flessibilità come male minore. Il lavoro di per sé non garantisce più livelli assoluti di sicurezza, se è vero che anche chi occupa posizioni elevate nella stratificazione professionale e reddituale teme per la propria stabilità. Per l’84,7% delle persone in età attiva l’impoverimento individuale non è gonfiato dal ceto politico, ma è una situazione reale. È di questo parere soprattutto chi appartiene alle fasce di reddito medio-basso (87,3%), ma anche chi occupa livelli di qualifica alti o svolge un lavoro autonomo. L’aspetto su cui c’è maggiore consenso è la difficoltà di crescita dei redditi da lavoro (94,4%), che si lega a doppio filo alla possibilità di mantenere lo stesso tenore di vita di soli tre anni fa (94,4%). La flessibilità continua a crescere: +3,6% dal 2004 al 2007, arrivando a interessare l’11,9% degli occupati. L’identikit dell’occupato atipico: giovane (ma non solo, visto che il 9% delle persone con contratto flessibile hanno 34-44 anni) e donna (il 52,2% del totale). L’arcipelago del lavoro pubblico. I lavoratori a tempo indeterminato nelle amministrazioni pubbliche sono 3.366.467, in calo di circa 26 mila unità rispetto al 2006. La scuola, il Servizio sanitario nazionale, le Regioni e le autonomie locali occupano nell’insieme quasi 7 dipendenti pubblici su 10 (2.343.850 unità). Il personale pubblico si concentra principalmente in Lombardia (12,5%), Lazio (11,9%) e Campania (10%). A causa del blocco delle assunzioni, dal 2004 il ricorso al lavoro flessibile nelle amministrazioni pubbliche è aumentato del 7,4%. Soprattutto in alcuni comparti: il Servizio sanitario nazionale (+35%) e le Regioni a statuto speciale e le Province autonome (+28,8%). L’aumento non ha interessato invece le Università (-13,8%), i Ministeri (-14,2%) e soprattutto la Presidenza del Consiglio (-81%). La socialità a basso regime delle donne imprenditrici. L’imprenditoria femminile (il 25% delle imprese italiane) cresce a ritmi più sostenuti di quella maschile. 7 donne su 10 hanno creato l’impresa da sole, non solo per necessità di lavorare o per non far chiudere l’attività di famiglia, ma anche per seguire una propria vocazione. Ma l’interazione fra le imprenditrici e il livello comunitario più prossimo, ossia il sistema di sviluppo locale, è molto bassa: solo il 6,3% comprende gli altri imprenditori nei propri circuiti relazionali, solo il 4,7% entra in contatto con le organizzazioni di categoria. La ritrovata fiducia per le professioni intellettuali. Il mercato è già una dimensione integrante della professione di avvocato. Al cliente interessa che il professionista sia competente, affidabile e che possa risolvere il suo problema. La chiarezza sulle tariffe praticate è ritenuta medio-alta nella maggioranza dei casi, e solo il 17,9% la considera scarsa; solo il 6,3% di chi ha cambiato avvocato lo ha fatto perché la parcella era troppo cara; il 58,1% ritiene che la giustizia non costa tanto per colpa degli avvocati, smentendo un radicato luogo comune; per l’87,3% dei clienti non è vero che se un avvocato pratica tariffe troppo basse vuol dire che non è bravo. 10 Il sistema di welfare Roma, 5 dicembre 2008 – Poca tutela per le famiglie con figli. Sono oltre 11,4 milioni le famiglie con figli in Italia, con una riduzione di quasi il 2% dal 2001, mentre un calo più brusco riguarda quelle con 2 figli (-4,9%) e quelle con 3 o più figli (-5,3%). Spicca invece il balzo della tipologia più vulnerabile, le famiglie monogenitoriali (+11,3%). Le famiglie con figli fino a 3 anni sono 1,6 milioni, il 14% circa del totale di quelle con figli. La capacità ricettiva dei servizi per la prima infanzia (pubblici e convenzionati) può essere stimata intorno all’11% della domanda (oltre il 9% negli asili, il 2% negli altri servizi) con oscillazioni regionali molto ampie. Considerando gli asili nido comunali, la spesa media sostenuta dai comuni per ciascun bambino è poco meno di 600 euro al mese (valore che oscilla tra 890 euro in Valle d’Aosta e 283 euro in Basilicata). La quota a carico delle famiglie è pari mediamente al 40% (con un massimo del 56% in Basilicata e un minimo del 17% in Campania). La spesa media mensile sostenuta dalle famiglie è di 285 euro al mese (406 euro in Trentino Alto Adige, 118 euro in Calabria). Il 23% delle domande presentate finisce però in lista di attesa. Considerando l’affido non inferiore a tre ore quotidiane, le madri lavoratrici con figli fino a 3 anni ricorrono nel 52,3% dei casi ai nonni, nel 27,8% agli asili pubblici o privati, nel 9,2% alle baby sitter, nel 7,3% all’altro genitore, nel 3,4% a parenti e amici. Quindi le soluzioni familiari coprono il 63% delle esigenze. Il 28% delle madri lavoratrici rinuncia all’idea di mandare i figli all’asilo: il 19,5% afferma che non ci sono posti disponibili, il 17,4% che non ci sono asili nel comune di residenza, per il 7,1% gli orari sono scomodi, per il 4,8% l’asilo è troppo distante. Donazione e trapianto: quando funziona la rete dei servizi. Sul diritto di scegliere l’interruzione delle cure dei malati terminali si dichiara favorevole il 49,9% degli italiani. La donazione e il trapianto di organi in Italia rappresentano un caso di eccellenza a livello internazionale. Il tasso di donatori effettivi ci colloca al terzo posto tra i grandi Paesi europei. I trapianti sono passati da 2.162 nel 1999 a 3.043 nel 2007 (+40,7%). Il 70% dei donatori segnalati (le persone in condizione di morte encefalica in terapia intensiva) è diventato donatore effettivo. Ma le regioni meridionali sono ancora un nodo critico: nel 2007 hanno fatto registrare 27,5 donatori per milione di abitanti contro i 37,3 della media nazionale. Italiani maturi nel rapporto con i farmaci. Il rapporto tra italiani e farmaci sembra avviato verso una nuova maturità in termini di consapevolezza e capacità di fruizione, come esito della rinegoziazione dell’intera gamma delle strategie di tutela della salute, nelle quali il farmaco conquista sempre maggiore centralità. L’80% degli italiani ritiene che i farmaci aiutino a convivere con le patologie croniche (+26% rispetto al 2002), il 76% li considera strumenti per il miglioramento della qualità della vita (+15,7%), il 54% ne sottolinea il contributo nella sconfitta delle malattie mortali (+14%). Rispetto ai propri genitori, il 54% degli italiani si sente più informato sulle corrette modalità di assunzione, oltre il 52% ritiene di avere più dimestichezza su quando e come utilizzarli, più del 51% conosce meglio i rischi di un eccessivo consumo e degli effetti collaterali. Inoltre, il 56,6% è favorevole a un allargamento dei soggetti preposti alla vendita dei farmaci, ma ritiene essenziale la presenza di un esperto, mentre il 30,4% pensa che i farmaci vadano venduti esclusivamente in farmacia. Trent’anni di Servizio sanitario nazionale: come è cambiata l’Italia e la salute degli italiani. Tra il 1978 e il 2008 la spesa sanitaria è aumentata del 138,3% in termini reali, un incremento doppio rispetto alla crescita del Pil. Le dinamiche demografiche e i progressi delle tecnologie hanno accompagnato le trasformazioni delle esigenze di salute dei cittadini, parallelamente agli interventi nella gestione organizzativa e finanziaria dell’offerta (su tutti, l’aziendalizzazione e la regionalizzazione). All’avvio nel 1978 del Servizio sanitario nazionale, universale e pubblico, è seguita negli anni ’80 la mutazione culturale della domanda, legata al netto miglioramento della salute degli italiani, alla quale risponde però un sistema di offerta con nodi critici sempre più evidenti. Nel decennio successivo prosegue il diffondersi della cultura della salute e si consolida la consapevolezza nei cittadini dei nessi tra benessere, stili di vita e comportamenti 11 preventivi. Gli anni ’90 hanno visto forti mutamenti dell’offerta, con la razionalizzazione e il taglio della spesa, in particolare di quella farmaceutica pubblica. Con la devolution si apre una sfida durissima per le implicazioni finanziarie e le nette differenziazioni regionali. Il fragile pilastro della previdenza complementare. Dopo il +43% del 2007, nei primi sei mesi del 2008 il numero di iscritti alla previdenza complementare è tornato a un risicato +3,8%. Quali motivazioni spingono ad aderire ai Fondi pensione? Per il 34,2% conta la fiducia nel soggetto di offerta, per poco meno del 29% il contributo da parte dell’azienda, per il 28% il buon rendimento, per il 19,2% i costi di gestione bassi rispetto ad altre forme di investimento. Oltre il 64% degli intervistati si aspetta rendimenti certi anche se bassi. Tra chi invece decide di non aderire ai Fondi pensione emerge che il 23,6% non ha fiducia negli strumenti della previdenza complementare, il 16,6% non vuole impegnarsi in scelte che considera irreversibili per il futuro. Contano poi la percezione di essere poco informati (38,5%), la scarsa trasparenza sugli esiti dei versamenti (22,8%) e l’insicurezza sulla restituzione di quanto versato (21,4%). 12 Territorio e reti Roma, 5 dicembre 2008 – Gli italiani e la città: nella dimensione urbana lo spirito della modernità. Le città sono universalmente riconosciute come i luoghi dove si esprime al massimo livello la modernità di un Paese. Il primo elemento di modernità è la capacità di offrire buone e diversificate opportunità di studio e lavoro (40%); poi viene la dimensione culturale, con le grandi attrezzature come musei, gallerie, auditorium, biblioteche (33%); al terzo posto i servizi di trasporto (26,4%); seguono le opportunità commerciali e di intrattenimento (23,4%), spazi verdi e impianti sportivi (19%). Al crescere del livello di istruzione dei cittadini aumenta la convinzione che la dimensione urbana è connessa ai processi di sviluppo socioeconomici più che alla riproduzione di criticità sociali: lo pensa il 70% dei cittadini laureati e il 55% di chi ha un basso titolo di studio. Il 45,2% degli italiani considera la bellezza del centro storico come la qualità principale della propria città, segue il «carattere» degli abitanti (20,4%), poi la solidità economica e la propensione imprenditoriale (10,8%), in pochi invece individuano nella buona amministrazione il punto di forza della città (8,3%). La questione abitativa e il ruolo delle aziende territoriali per la casa. Le 108 aziende territoriali per la casa (ex Iacp) gestiscono un patrimonio immobiliare di circa 940.000 alloggi, di cui soli 768.000 in locazione. Si tratta di uno stock ridotto se confrontato con quello di altri Paesi europei: in Francia l’edilizia sociale riguarda circa 3,9 milioni di alloggi, nel Regno Unito 2,7 milioni di alloggi sono gestiti dalle amministrazioni comunali e 2,2 milioni dalle Housing Associations. Un fenomeno meno diffuso di quel che si crede è l’abusivismo, a livelli fisiologici in gran parte del Paese (0,1-0,3%). In qualche città del Nord raggiunge l’1%, come nel caso di Brescia o Trento, mentre in una realtà complessa come Milano sale al 5%. La morosità è un problema critico nelle grandi città: il rapporto tra mancati introiti per morosità e ricavi da canoni in città come Bergamo, Brescia, Parma, Venezia, Firenze e Bologna si attesta su valori intorno al 5%, mentre a Cagliari ha raggiunto il 44%, a Palermo il 35%, a Torino e Genova il 32%, a Roma e Napoli il 30%, a Bari il 23%, a Milano il 19%. Torino-Lione: dagli scontri di piazza alla concertazione sulle strategie di sviluppo. Nel corso del 2008 si è registrato un forte progresso nella definizione degli interventi relativi alla linea ferroviaria Torino-Lione. L’obiettivo è di aprire i cantieri entro il 2013 per non perdere i 671,8 milioni di euro del cofinanziamento europeo. L’esito cui è approdato l’Osservatorio tecnico, che risponde a un tavolo istituzionale presso Palazzo Chigi, fa riferimento alla necessità di investire contestualmente sul trasporto locale e la riqualificazione territoriale, con il coinvolgimento degli enti territoriali nel processo decisionale, nel controllo dell’attuazione e nel monitoraggio degli effetti degli interventi. Parallelamente la Provincia di Torino ha promosso l’elaborazione di un Piano strategico del territorio interessato (ben 70 comuni) orientato sulle comuni prospettive di sviluppo, promuovendo una concertazione con i diversi comuni, le Comunità montane e i rappresentanti delle forze economiche e sociali, secondo una logica policentrica, una visione sovralocale e in termini di priorità strategiche. Il sistema portuale come impresa e come leva dello sviluppo territoriale. Il settore portuale in senso stretto, ovvero l’insieme delle attività di logistica portuale e i servizi ausiliari dei trasporti marittimi, unitamente alle attività dei soggetti istituzionali di governance dei porti (Autorità portuali e Capitanerie di porto), ed escludendo gli altri comparti economici che pure gravitano sull’area portuale, genera un contributo al Pil superiore a 6,8 miliardi di euro, con una occupazione diretta di circa 40.000 addetti e una occupazione complessiva, tra unità di lavoro dirette e indirette, di 71.000 posti di lavoro. La produttività del lavoro nel settore logistico portuale (72.000 euro circa di valore aggiunto per addetto) risulta elevata e in crescita rispetto al passato. Considerando anche la produzione delle imprese cantieristiche insediate nell’area portuale, si arriva rispettivamente a 105.000 posti di lavoro e quasi 21 miliardi di euro di contributo al Pil nazionale. La rassicurazione alimentare: i «frutti del territorio» rimuovono paure e incertezze. 13 Da alcuni decenni, mentre aumentano le spese familiari per la casa, i trasporti, le comunicazioni, i servizi in genere, l’incidenza della spesa alimentare si riduce (18,8% e 15% se si escludono le bevande alcoliche). Mentre il 22% dei consumatori europei (con punte del 30- 40% nel Nord Europa) dichiara di aver cambiato recentemente il proprio stile alimentare, gli italiani si collocano all’ultimo posto con il 15%. Aumenta dell’11,7% nel periodo 1995-2005 l’abitudine degli italiani di fare una colazione adeguata, in cui si beve latte e/o si mangia qualcosa (il 78,5% degli italiani); si diffondono i «fuori pasto» (il 40% degli italiani fa abitualmente uno spuntino a metà mattina o a metà pomeriggio); si «ricalibra» sulla cena il soddisfacimento della dimensione conviviale, utilizzando sempre più spesso la pausa pranzo per la cura degli interessi della persona (shopping, fitness, Internet, ecc.); diviene sempre più gettonato il cibo pronto (piatti preparati, verdure in busta, surgelati, ecc. rappresentano il 24% del fatturato dell’industria alimentare). 14 I soggetti economici dello sviluppo Roma, 5 dicembre 2008 – Consumi, mutui e indebitamento: dentro e oltre la crisi delle famiglie. Nel 2008 i consumi hanno subito una flessione in termini reali, diminuendo dello 0,2% e dello 0,6% rispettivamente nel primo e nel secondo trimestre. Non sorprende che il 44,7% delle famiglie (era il 27% nel 2007) sia pessimista per l’immediato futuro, mentre il 17,4% è incerto e disorientato. Il 76% dei consumatori ha acquistato prodotti di marca commerciale, il 54,3% ne ha intensificato l’acquisto negli ultimi tempi, il 72% ricorre a prodotti in offerta speciale. Altri comportamenti sono espressione di un adattamento rapido ai tempi di crisi: il 53% si reca presso i mercati rionali per l’acquisto di prodotti alimentari, il 48,8% va all’hard discount. Il livello di indebitamento delle famiglie è aumentato negli ultimi tre anni, attestandosi attualmente al 48,5% del reddito disponibile (nel 2004 si era poco al di sotto del 40%), rimanendo comunque a livelli più bassi della media dei Paesi dell’area dell’euro (in Francia, Spagna e Regno Unito le passività finanziarie delle famiglie superano il valore del reddito disponibile). Quasi il 60% delle famiglie con mutuo (oltre 2,8 milioni) non ha difficoltà nel pagamento delle rate, il 29,1% (circa 838.000) ha qualche difficoltà ma senza rischi di insolvenza, il 9,7% (circa 279.000) ha notevoli difficoltà, mentre il 2,8% (circa 81.000 famiglie) non riesce a rispettare le scadenze. Le nuove forme dell’internazionalizzazione. L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di Pmi esportatrici. Sono circa 200.000 (5.800 quelle che hanno avviato direttamente attività economiche all’estero) e nel 2007 hanno esportato beni e servizi per 448 miliardi di euro, pari a più del 21% dell’export totale e al 29,2% del Pil. Si tratta soprattutto di prodotti manifatturieri (l’80%, 359 miliardi di euro). Le macchine industriali e gli apparecchi meccanici valgono da soli un quinto dell’intero commercio nazionale di beni oltre confine. Nei settori del made in Italy l’Italia detiene ancora una quota significativa del commercio mondiale: il 13,6% nelle calzature e prodotti in cuoio, il 12% nei prodotti in pelle, l’11,1% nei mobili, il 7,1% nei prodotti tessili, il 6,1% nell’abbigliamento, il 5,4% nella gioielleria e nell’oreficeria, il 38% nelle piastrelle in ceramica, il 19% nelle pietre da taglio e da costruzione. L’innovazione multiforme per affrontare le crisi del mercato. Tra il 2000 e il 2007 sono state concesse agevolazioni alle imprese con risorse nazionali e regionali per 70,7 miliardi di euro, dei quali 17,4 miliardi (il 24,7% degli incentivi) per attività di ricerca e sviluppo tecnologico e 38,7 miliardi (54,9%) per il rinnovo di macchinari, attrezzature e immobili. Gli investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle imprese mostrano però un cronico ritardo dell’Italia rispetto agli altri Paesi industrializzati: lo 0,5% del Pil, meno che in Germania (1,8%), Francia (1,3%), Regno Unito (1,1%), mentre in Svezia e Finlandia si è ben al di sopra del 2%. Tuttavia una minoranza vitale di aziende ha attivato un percorso di innovazione basato sul miglioramento della struttura organizzativa e delle prassi gestionali, in particolare di quelle commerciali e distributive. Una indagine Censis su un campione di aziende manifatturiere con meno di 20 addetti rileva l’orientamento del 28,7% delle imprese a innovare attraverso l’ampliamento della gamma dei prodotti e del 24,7% attraverso il miglioramento della funzione logistica. Un’altra indagine Censis su un campione di aziende manifatturiere e di logistica con più di 20 addetti rivela che il 56,2% delle imprese investirà nel potenziamento della funzione commerciale, il 48,3% nell’ampliamento della gamma dei prodotti, il 43% nel miglioramento della funzione finanziaria. I sentieri dell’innovazione nel sistema agricolo italiano. In Italia esistono circa 1,7 milioni di aziende agricole, di cui soltanto il 32,5% supera la soglia dei 10.000 euro di fatturato. Si tratta di 550.000 imprese che da sole realizzano il 91,5% della produzione e il 92,7% del fatturato del comparto. Secondo una indagine Censis su un campione di imprese agricole, il 66% sperimenta nuove tecniche colturali, il 23% punta alla diversificazione delle varietà, l’11% incrementa le superfici coltivabili. Le aziende gestiscono queste operazioni autonomamente (41%) o attraverso consorzi e cooperative (25%), il 21% cede il prodotto a industrie di trasformazione. Ad esportare è il 40,7%. Il 73% opera 15 attraverso un marchio proprio, aziendale o consortile. Le aziende della filiera dei prodotti di qualità Dop e Igp sono 75.448, aumentate di 12.909 unità tra il 2006 e il 2007 (+20,6%). L’imprenditorialità emergente dei migranti. Gli stranieri titolari d’impresa sono 290 mila, pari al 19,2% degli occupati di nazionalità estera (in pratica, un lavoratore migrante ogni 5 svolge un’attività autonoma) e all’8,4% di tutte le imprese attive. I comparti prevalenti sono commercio (38,4%) e costruzioni (31%, con un incremento del 128% tra il 2003 e il 2007). Tra il 2006 e il 2007 il numero di imprese con titolare straniero è cresciuto del 10,2% e l’incremento complessivo nel periodo 2003-2007 è stato del 65,5%. Ma permangono alcuni ostacoli allo sviluppo di élite imprenditoriali straniere capaci di collocarsi su segmenti di alto livello, come la scarsa dimestichezza con gli strumenti finanziari e creditizi italiani. Circa il 30% degli imprenditori stranieri non ha rapporti con le banche (il 52% nel commercio), soltanto il 15% investe con continuità, il 27% lo fa solo occasionalmente, solo il 6% ha rapporti con due o più banche. Ma sono meno dell’8% gli imprenditori stranieri (5% tra quelli italiani) che incorrono in situazioni di sofferenza, con 6 o più rate scadute e non pagate. La rete degli interporti per una logistica efficiente. Dei 29 interporti previsti, 18 sono attivi, 6 sono in fase di completamento e 5 rimangono ancora ad uno stadio di progettazione. La rete nazionale degli interporti attiva 1,6 miliardi di euro di valore aggiunto, con 1.021 aziende insediate (soprattutto operatori della logistica), più di 19.500 addetti e un indotto stimato in oltre 20.000 posti di lavoro. Tra il 2005 e il 2007 le tonnellate di merci trattate hanno avuto in ogni struttura incrementi a due cifre percentuali, superando in molti casi il 20%. Nel 2006, con un sistema interportuale solo parzialmente operativo, è stato possibile trasferire da strada a rotaia un totale di 22 milioni di tonnellate di merci. Si stima, pertanto, che il sistema interportuale consenta un risparmio per la collettività superiore a 100 milioni di euro all’anno. 16 Comunicazione e media Roma, 5 dicembre 2008 – La rivoluzione digitale verso la moltiplicazione e integrazione dei media. La televisione tradizionale generalista può dirsi ancora una solida realtà in Italia, dove è seguita abitualmente (frequenza settimanale di almeno tre volte) dall’85,6% dei cittadini, e in Francia, dove l’utenza si attesta al 91% (in Gran Bretagna scende al 79,3% e in Germania al 49,7%). Tuttavia, il 20,6% degli italiani guarda abitualmente la Tv satellitare e il 7,7% usa il digitale terrestre. Il 41,6% degli italiani usa il telefonino nelle sue funzioni di base, contro un 29,4% che utilizza abitualmente apparecchi che permettono le funzioni più sofisticate. Cresce l’uso dello smartphone tra gli uomini (il 31,7% contro il 27,3% delle donne) e soprattutto tra i soggetti più istruiti (il 37,7% rispetto al 20,2% dei meno istruiti). Poco più della metà degli italiani legge abitualmente quotidiani acquistati in edicola, e la quota dei lettori della free press si attesta a circa il 18%. La medialità dei giovani europei oltre l’omologazione. Il balzo in avanti nell’uso di Internet da parte dei giovani italiani tra 14 e 29 anni è stato enorme: tra il 2003 e il 2007 l’utenza complessiva (uno o due contatti la settimana) è passata dal 61% all’83%, e l’uso abituale (almeno tre volte la settimana) dal 39,8% al 73,8%. Il cellulare è usato praticamente da tutti i giovani (il 97,2%), il 74,1% legge almeno un libro l’anno (esclusi ovviamente i testi scolastici) e il 62,1% più di tre libri. Il 77,7% dei giovani legge un quotidiano (a pagamento o free press) una o due volte la settimana (il 59,9% nel 2003), mentre il 57,8% legge almeno tre giornali la settimana. La flessione che si registra nell’uso della televisione tradizionale rispetto al 2003 (dal 94,9% all’87,9%) è ampiamente compensata dall’incremento conosciuto in questi anni dalla Tv satellitare (dal 25,2% al 36,9% dei giovani). Vizi e virtù della Tv generalista. Solo il 37,4% degli spagnoli ritiene che la Tv generalista sia vecchia e inutile, percentuale che scende al 31,6% in Francia, al 31% in Gran Bretagna, al 28,8% in Italia e al 18,9% in Germania. Sono altri i problemi con cui devono confrontarsi i canali generalisti. Il loro difetto peggiore per spagnoli (86,8%) e italiani (73,1%) è la volgarità. Inoltre, per l’82,6% degli spagnoli e l’82% degli italiani i Tg messi in onda dai canali televisivi generalisti sono troppo legati al potere politico, mentre in Francia il valore scende al 69,9%, per diminuire ancora al 49,5% in Gran Bretagna e al 40,1% in Germania. Solo il 30,7% degli spettatori italiani ritiene che i Tg siano effettivamente rispettosi del pluralismo, in Spagna il 44,5%, in Francia il 55,3%, in Gran Bretagna il 61,2% e in Germania il 64,2%. La forza del localismo della comunicazione. Ci si informa usando un menù assortito che va dalle Tv ai quotidiani, dai periodici ai portali Internet, alle emittenti locali. Si contano a livello locale 538 Tv, 1.244 radio, 133 quotidiani regionali e provinciali (quasi 2,6 milioni di copie medie giornaliere, considerando solo le testate rilevate dall’Ads). Per il 35% dei cittadini il Tg regionale della Rai è la principale fonte informativa sulla propria città e il territorio, al secondo posto si collocano i quotidiani locali (25%), seguono le televisioni e le radio locali (15,4%), poi la cronaca locale presente nelle pagine dei quotidiani nazionali (11,9%). L’ambigua deriva della comunicazione nella dialettica politica. La televisione è il principale strumento utilizzato per formarsi un’opinione sull’offerta politica in campagna elettorale (il 78,3% degli elettori, in crescita rispetto alla precedente tornata elettorale del 2006). Segue la carta stampata (20,8%). I rapporti non mediati, come il confronto con familiari e parenti (16,7%), la partecipazione diretta a incontri politici, comizi e assemblee (9,8%), o anche le discussioni con amici e colleghi (9,2%), sono canali preferenziali per quote via via decrescenti di elettori. Internet è la fonte informativa per una fetta ancora minoritaria del corpo elettorale (7,6%, in crescita rispetto alla precedente rilevazione), con un livello di importanza assimilabile ai tradizionali volantini e materiali di propaganda dei partiti, e maggiore di quella attribuita a un altro mezzo tradizionale come la radio (6,3%, in netta 17 flessione rispetto al 13% registrato alle elezioni del 2006). Nel complesso rapporto tra potere politico e media, si nota anche che nell’ultima legislatura si contano 64 deputati giornalisti (la quarta professione rappresentata alla Camera, dopo avvocati, dirigenti e imprenditori, prima dei funzionari di partito) e 28 giornalisti senatori (la sesta professione attualmente rappresentata al Senato): praticamente c’è un giornalista ogni dieci parlamentari. Ma si registra anche un pericoloso crollo della fiducia nei media (senza eccezioni per nessun mezzo), più bassa in Italia che negli altri Paesi europei. La stampa gode della fiducia del 36% dei cittadini (il valore medio in Europa è pari al 44%); la televisione è il mezzo di cui gli italiani si fidano di meno (solo il 35% la ritiene affidabile, valore che sale al 53% nella media europea); si fida della radio il 42% degli italiani (è il mezzo di comunicazione considerato più attendibile, ma con un consenso comunque inferiore al 61% medio europeo); infine, Internet è pienamente apprezzata dal 35%. I media come «fabbrica della paura». Secondo una indagine realizzata dal Censis in dieci metropoli del mondo, solo un quarto del campione (25,8%) sostiene che la propria paura deriva dall’individuazione di un rischio effettivo che si possano verificare eventi indesiderati. Il 25,6% dichiara che la paura deriva dal fatto che giornali e televisioni non parlano d’altro. Interrogati su quali sono i soggetti responsabili dell’aumento dell’insicurezza, il 20,4% afferma che il circuito informativo- mediatico cavalca le paure, attraverso la presentazione selettiva delle notizie, per catturare l’audience. Prima, però, vengono i politici, ritenuti tra coloro che più fomentano le paure per distogliere l’attenzione dai problemi reali, favorire il consenso, legittimare il proprio ruolo (la pensa così il 29,6%). In particolare, quasi un romano su due (47,8%) imputa ai media la responsabilità di creare allarme sociale, più di un quarto (28,6%) alla politica, mentre i gruppi terroristici vengono indicati solo dal 7%. Il ruolo dei media viene sottolineato da quote rilevanti di intervistati anche a Parigi (27%) e New York (22,2%), mentre chiamano in causa soprattutto la politica gli abitanti di Parigi (il 31,9% indica al primo posto proprio i politici), San Paolo (49,4%), Tokyo (37,3%) e Mosca (23,8%). 18 Governo pubblico Roma, 5 dicembre 2008 – Politiche 2008: vincono le intese territoriali, ma cresce la voglia di Stato. Le elezioni 2008 hanno dato voce alla voglia di governo degli italiani. Il fattore che più ha inciso sulla scelta elettorale è stata la volontà di ridurre la litigiosità della politica e le divisioni che impediscono a chi vince di governare e di decidere (per il 27,4% degli elettori), segue l’onestà dei candidati (23,5%), la loro capacità di tutelare gli interessi dell’elettore (18,7%), l’identificazione con valori e ideali (17,5%), l’avversione alla concentrazione del potere in un unico partito o leader (14,6%), l’avversione per uno o più personaggi politici (13,9%). Malgrado la competizione elettorale si sia fortemente giocata sulla dimensione locale, con il prevalere di temi territoriali (i rifiuti, l’immigrazione, la sicurezza), emerge la domanda di un ruolo forte dello Stato. Passa infatti dal 33,3% del 2001 al 46,1% del 2006, fino al 47,5% del 2008 la quota di elettori che ritengono occorra dare più potere allo Stato centrale (le Regioni passano dal 39% del 2001 al 28,4% del 2008, Comuni e Province si fermano al 24,1%). Cresce dal 56,2% delle precedenti elezioni al 63% la percentuale di elettori che esprimono una valutazione positiva sulla riduzione delle tasse. L’approccio inverso all’incolumità personale. Mentre il luogo di lavoro e la strada mancano ancora di presidi efficaci per garantire la piena sicurezza dei cittadini, tutte le attenzioni si concentrano sulla criminalità. Nel 2007, a fronte dei 627 omicidi commessi nel nostro Paese, si sono verificati 1.170 morti sul lavoro e 5.131 decessi per incidenti stradali: il rischio di mortalità su strada è 8 volte superiore a quello dipendente da comportamenti criminosi. Tra i principali Paesi europei, l’Italia registra la più bassa incidenza di omicidi rispetto alla popolazione (1,12 ogni 100 mila abitanti, contro 1,48 nel Regno Unito e 1,39 in Francia) e negli ultimi anni (tra 2000 e 2006) ha avuto, dopo la Germania (-24,3%), la contrazione più significativa del fenomeno (-18,9% contro -16,4% in Francia, -14,1% in Spagna e -10,1% nel Regno Unito). Al contrario, in Italia si contano 2,6 morti sul lavoro ogni 100 mila occupati (al netto dei morti in itinere, ovvero deceduti nel tragitto casa-lavoro o in strada durante l’esercizio dell’attività lavorativa) contro i 2 in Francia, 1,8 in Germania, 1,4 nel Regno Unito. Nel 2007 i decessi sulle strade italiane (5.131) sono stati più numerosi che in Paesi anche più popolosi del nostro, come Regno Unito (3.058), Francia (4.620) e Germania (4.949). Siamo il Paese con la più alta incidenza di morti su strada ogni 100 mila abitanti (8,61 contro 8,44 in Spagna, 7,25 in Francia, 6,02 in Germania, 5 nel Regno Unito). Tutti i grandi Paesi, inoltre, hanno visto ridurre sensibilmente il numero delle vittime della strada tra 2000 e 2007 (-42,8% in Francia, -34% in Germania, -33,8% in Spagna) mentre l’Italia ha registrato il miglioramento meno marcato (-27,3%). Ripensare le strategie di rappresentanza a Bruxelles. Gli italiani che considerano che l’appartenenza all’Europa porta un vantaggio al nostro Paese hanno toccato il minimo storico, passando dal 51% del 2000 al 37% della primavera 2008. Gli euroentusiasti sono invece aumentati nella media dell’Ue dal 47% al 54%. L’Italia non ha saputo approfittare appieno delle opportunità offerte dall’unificazione. Nell’ambito del 6° Programma quadro di ricerca e sviluppo, ad esempio, malgrado l’elevato numero di progetti presentati con almeno un partecipante italiano (12.060), solo 2.314 sono stati ammessi a finanziamento, con un tasso di successo tra i più bassi d’Europa (19%). Dopo il Belgio, il nostro è il Paese con la più alta rappresentanza di funzionari in sede europea (2.578 pari al 10,5% del totale), senza però un’adeguata capacità di incidere sul processo decisionale: sono solo 152 i funzionari italiani che occupano posizioni apicali, come direttori generali o capi unità (il 5,9% del totale dei funzionari italiani presenti a Bruxelles), un numero di gran lunga inferiore a quello di Francia (223), Belgio (181) e Germania (173). Le politiche del turismo al giro di boa. La difficile congiuntura economica rischia di vanificare i deboli segnali di ripresa che il mercato turistico italiano aveva mostrato in quest’ultimo biennio. Il 2008 sembrerebbe chiudersi all’insegna della staticità, e anche le prospettive per il 2009 appaiono incerte. Secondo un’indagine Censis condotta ad ottobre 2008, il 25,6% delle famiglie pensa che nel 2009 dovrà 19 rinunciare ad andare in vacanza, mentre il 20,6% ha previsto di ridurre le spese destinate a questa voce del bilancio familiare. Dal 1990 al 2007 i flussi turistici internazionali sono più che raddoppiati a livello mondiale, ma in Italia l’aumento è stato più debole (+63,6%), con una quota del mercato mondiale diminuita dal 6,1% al 4,8%. Politiche per lo sport: il passaggio di logica che serve. Tra società sportive e organizzazioni territoriali (del Coni, delle Federazioni sportive, delle discipline associate, ecc.) si arriva a una rete di quasi 95.000 punti di offerta dislocati capillarmente su tutto il territorio italiano (un centro ogni 631 abitanti). Quello sportivo è il sistema d’offerta più ampio e ramificato in Italia, più delle tabaccherie (73 mila), dei bar (62 mila), delle scuole o delle banche. Per la stragrande maggioranza degli italiani, sport è sinonimo di benessere fisico (81,4%), divertimento (38,6%), competitività (16,5%), socialità e rapporto con gli altri (15,9%). In pochi associano la parola a un disvalore, come i guadagni troppo elevati (11,9%) o il doping (8,7%). I due nuovi fenomeni sono: la femminilizzazione dello sport (nel 1995 la pratica sportiva interessava il 18,6% delle donne, nel 2008 il 25,1%) e l’accesso allo sport delle generazioni più adulte (passa dal 12,6% al 21,7% la quota di sportivi di 55-59 anni, dal 9% al 17,9% quella di 60-64 anni). 20 Sicurezza e cittadinanza Roma, 5 dicembre 2008 – Contraffazione: pochi rischi e tanti soldi. Si stima che la «fattura» della contraffazione a livello mondiale valga 200 miliardi di dollari. Ma la cifra aumenta di centinaia di miliardi se si includono i prodotti distribuiti entro i confini nazionali, la merce contraffatta non riconosciuta dalle autorità doganali e i prodotti digitali distribuiti illegalmente via Internet. Nel 2007 in Italia sono stati sequestrati 87 milioni di beni contraffatti. I prodotti di abbigliamento sono quelli maggiormente colpiti (il 21% dei prodotti sequestrati dalle forze dell’ordine e il 33,6% di quelli trattenuti dalla dogane), seguiti da giocattoli, prodotti elettrici ed elettronici, pelletteria, pezzi di ricambio, orologi. A fronte di 61.365 operazioni condotte, 39.066 hanno avuto come esito un sequestro; i soggetti denunciati sono stati 14.318, gli arrestati 1.522. Da quando l’Agenzia delle dogane ha adottato sistemi automatizzati di sdoganamento e di presentazione di istanza di tutela da parte delle imprese, l’efficacia dei controlli è passata dal 20,4% di positività del 2000 al 36,1% del 2006. Il sistema di tracciabilità del farmaco, poi, partito nel 2003, ha azzerato i furti e le vendite di prodotti contraffatti. L’aggravarsi delle incombenze delle polizie locali. Le polizie locali hanno assunto il ruolo di regolatore della vita di tutti i giorni integrando la funzione di tutela dell'ordine pubblico svolta dalle forze di polizia, ponendo però tre questioni: il coordinamento, le dotazioni e la formazione necessaria. Secondo un’indagine del Censis svolta in Campania, in 186 comuni della regione (il 36,5% del totale, e la quota sale al 53% tra quelli che hanno meno di 5.000 abitanti) la polizia municipale rappresenta l’unico presidio di pubblica sicurezza, il 71% dei comandi di polizia locale dispone di armi e di questi il 69,9% svolge regolarmente esercitazioni. La corruzione, problema sommerso e mai sopito. In Italia il livello di corruzione percepita, non solo è molto elevato e in crescita di anno in anno, ma è più vicino a quello dei Paesi in via di sviluppo che a quello dei Paesi avanzati. Siamo al 55° posto su 180 nella graduatoria del livello di corruzione percepita, lontanissimi da Germania (7° posto), Regno Unito (9°) e Francia (11°). Il bullismo visto dai genitori. Secondo un’indagine del Censis, il 22,3% delle famiglie denuncia frequenti atti di bullismo nelle classi frequentate dai figli, il 27,6% episodi isolati, mentre il 50,1% non rileva il problema. Nel 28,7% dei casi i genitori segnalano offese ripetute ai danni dell’alunno, nel 25,9% scherzi pesanti e umiliazioni, nel 24,6% episodi di isolamento, nel 21,7% botte, calci e pugni. I furti di oggetti personali si verificano nel 21,4% delle classi. Le famiglie non imputano alla scuola e agli insegnanti la responsabilità degli atti di intimidazione e violenza che si verificano, perché sono consapevoli dell’insufficienza degli strumenti a disposizione della scuola per contrastare il fenomeno, tant’è che richiedono la presenza di figure professionali specifiche e il ricorso a sanzioni disciplinari più severe. Il rischio di disperdere l’integrazione degli immigrati nella scuola. Circa un terzo dei docenti della scuola dell’obbligo dichiara di operare in realtà scolastiche in cui esistono specifiche modalità di rapporto con le famiglie degli alunni di origine immigrata: per il 36,2% la scuola si adopera per un coinvolgimento dei genitori nella scelta della classe in cui inserire il minore, per il 33,6% c’è la predisposizione da parte della scuola di fogli informativi plurilingue, per il 31,6% ci sono attività didattico-culturali dedicate alle famiglie straniere, per il 27,1% la scuola si attiva per coinvolgere le famiglie di immigrati già iscritti come tutor per agevolare i rapporti con i nuovi arrivati e le loro famiglie. Quasi la metà delle scuole (49,8%) si avvale della figura del mediatore linguistico-culturale nella fase di accoglienza del bambino e della famiglia straniera. Di fronte alle carenze dell'istituzione scolastica, in alcuni casi è il singolo docente a sopperire con la propria iniziativa personale: il 52,9% dei docenti dichiara di attivarsi autonomamente per coinvolgere la famiglia nel percorso formativo del minore. 21 Matrimoni misti: luci e ombre di un fenomeno emergente. Nell’arco di un decennio i matrimoni con almeno un coniuge straniero sono triplicati, passando dagli 11.993 del 1996 agli attuali 34.439, pari al 14% del totale dei matrimoni celebrati in Italia. I matrimoni misti, ovvero tra un cittadino italiano e uno con cittadinanza estera, sono 24.020 (19.029 con sposo italiano, 4.991 con sposa italiana), cioè il 9,8% del totale dei matrimoni registrati. Ma le coppie miste vanno incontro alla separazione più precocemente delle altre (la durata media della convivenza coniugale è di 9 anni contro i 14 degli italiani). Inoltre, tra il 2001 e il 2006 si registra una crescita del 42% nel numero delle separazioni delle coppie miste, mentre per le coppie con stessa cittadinanza l’aumento è del 3,2%. CENSIS: 42° Rapporto sulla situazione sociale del paese 2008