Per e.p. si intende l’insieme delle convinzioni e delle norme morali, che regolano l’esercizio della professione e che sono considerate, in una data società, come universalmente vincolanti per coloro che esercitano tale professione.
L’idea di una qualche forma di e.p., cioè del fatto che anche l’esercizio della professione, così come molti altri settori dell’esistenza (famiglia, sessualità, vita sociale), sia soggetto a norme etiche e impegnato nella realizzazione di valori morali, è presente nella società da quando esistono le professioni. Il famoso giuramento di Ippocrate può essere considerato come una prima testimonianza di vero e proprio codice di e.p.
1. Le professioni liberali. Medicina e avvocatura sono state a lungo, non solo le più prestigiose tra le professioni liberali, ma anche quelle meglio provvedute di una specifica e.p., regolata in appositi "codici di deontologia" e imposta coattivamente dalla specifica corporazione o "ordine", cui i professionisti appartenevano e cui erano vincolati. Tali codici tracciavano spesso un profilo ideale della professione, e costituivano come una specie di atto di fede e. del rispettivo ordine professionale. E si capisce il perché: l’esercizio di queste professioni era particolarmente gravido di conseguenze sociali e quindi carico di responsabilità. Queste forme di e.p. erano peraltro, prevalentemente se non proprio esclusivamente, orientate a proteggere gli interessi di quelli che potremmo considerare i clienti del libero professionista, cui il professionista era legato da uno specifico contratto. Questi codici si ispiravano quindi a una certa idea di "giustizia commutativa" e fissavano con tutta la precisione possibile i doveri che il professionista si assumeva nei confronti del cliente, per il solo fatto di accettare di lavorare per lui. Essi obbligavano il professionista ad assumere come propri gli specifici interessi del cliente e quindi a svolgere il suo compito con competenza e diligenza ("secondo scienza e coscienza" come recitava una formula tradizionale), a conservare rigorosamente il cosiddetto "segreto professionale", a rispettare la specifica dignità e libertà del cliente. Va detto, peraltro, che queste "professioni alte" hanno sempre goduto di una certa separatezza nei confronti del restante organismo delle professioni, e i loro codici di deontologia professionale, pur ispirandosi a principi e a una visione dell’uomo e del mondo sostanzialmente coincidenti con quelle del proprio tempo e del proprio ambiente culturale, non hanno avuto in passato un grande influsso sulla morale comune e sul significato etico della professionalità in generale. Il loro stesso carattere elitario impediva che esse diventassero una specie di modello normativo o di paradigma interpretativo, per la morale p. in quanto tale.
2. Le professioni moderne. Ma l’affacciarsi sulla scena della società moderna di professioni di grandissimo impatto sociale, politico o economico, come quelle di operatore della comunicazione sociale o di specialista della tecnica, o di imprenditore o di esperto finanziario, ha allargato l’interesse per l’e.p. ad ambiti nuovi, coinvolgendo interessi sociali di grande rilevanza. Si è sviluppato un dibattito sempre più aperto e coinvolgente, e sono nate nuove corporazioni e nuovi codici di deontologia p.: ultimo in ordine di tempo quello dell’imprenditore, ancora allo stato nascente ma estremamente significativo per l’abbandono, che esso sembra comportare, di una certa concezione liberistica dell’e., dell’economia e della funzione del "profitto" nell’ambito dell’ impresa. Appare ormai chiaro che, all’interno della società complessa in cui viviamo, caratterizzata dalla organizzazione tecnologica della produzione dei beni e dei servizi e dalla presenza di un mercato globale, si fa sempre più strada l’idea che una qualche forma di e., riguardante l’esercizio della professione, interessi tutto quanto l’organismo delle professioni, e quindi tutto il complesso sistema con cui gli uomini, utilizzando competenze professionali diversissime e svolgendo compiti diversi ma complementari, producono insieme la smisurata quantità di beni e di servizi utili, di cui abbisogna oggi l’umanità per la sua sopravvivenza e per lo svolgimento della sua vita culturale e spirituale. Tale e. potrebbe essere pensata (e naturalmente praticata) anzitutto come regola del giusto "rendersi utile" di ogni uomo agli altri uomini, in cambio dei servizi e dei beni ricevuti dalla società globale. Questa prima regola introduce naturalmente il discorso sulla giustizia. Si tratterebbe ancora anzitutto della giustizia commutativa, cioè di quella forma di giustizia che regola gli scambi. L’esercizio di una professione o di un qualunque mestiere ha una specifica dimensione contrattuale: comporta, infatti, la cessione, da parte dell’operatore professionale, di una parte significativa del proprio tempo, ingegno, fatica, per produrre, o contribuire a produrre, una specifica forma di utilità per i fruitori del proprio lavoro. In cambio colui che svolge una professione riceve a sua volta una qualche forma di compenso in termini di reddito, riconoscimento, garanzie di sicurezza economica e stato sociale.
3. La giustizia. La giustizia commutativa impone agli scambisti la norma di un giusto rapporto di scambio, quindi di una giusta retribuzione economica, di un adeguato riconoscimento e stato sociale. Ma la struttura piramidale dell’organismo delle professioni fa sì che normalmente la fatica, il carattere subordinato, i pericoli per la salute e perfino per la vita che certi lavori comportano per chi li esercita siano spesso inversamente proporzionati ai riconoscimenti economici e sociali del lavoro e al posto occupato nella società da chi compie tali lavori. La sproporzione che il potere contrattuale dei diversi partecipanti a quello che potremmo chiamare il contratto globale di lavoro nella nostra società rende praticamente impossibile il superamento di queste sperequazioni, attraverso il semplice incontro-scontro della domanda e dell’offerta di lavoro. Si apre quindi il problema di una ulteriore forma di giustizia, quella che potremmo chiamare giustizia sociale, proprio perché riguardante la giustizia dell’insieme dell’organismo delle professioni cioè della società stessa. La formaz. delle nuove leve della professione dovrà quindi comprendere una forma di educ. morale che, mentre valorizzi le capacità autorealizzatrici delle specifiche professioni, apra nello stesso tempo i futuri operatori professionali a quella specifica sensibilità di giustizia sociale che li renda capaci di farsi carico della promozione delle professioni meno valutate, meno protette, meno facilmente autorealizzanti, superando le facili tentazioni dell’egoismo corporativo.
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G. Gatti
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