La sociologia del lavoro, secondo la definizione che ne dà Gallino, «[…] studia, da un lato le variazioni dell’organizzazione, della qualità, del valore del in differenti settori produttivi - industria, agricoltura, amministrazioni, ecc. - e professionali, mettendole in rapporto col variare del modo di produzione, della tecnologia, della struttura tecnica ed economica delle aziende, del tipo e grado di organizzazione sindacale dei lavoratori, delle forme di dominio politico ed economico, della composizione biosociale della popolazione (piramide d’età, sesso, scolarità, ecc.); dall’altro lato, gli effetti che i suaccennati aspetti del lavoro hanno sulle collettività dei lavoratori, sulla stratificazione sociale, sull’uso del tempo libero, sull’estensione della civiltà, infine sulla qualità della vita» (Gallino, 1993, p. 389). A partire dagli anni ‘90, nel nostro Paese ma non solo, alle discipline socio-lavoriste è riconosciuto il fatto di aver acquisito piena maturità e legittimazione, tanto dal punto di vista scientifico e accademico, quanto sotto il profilo politico e istituzionale. Il contesto in cui si muove la disciplina, tuttavia, continua a permanere problematico proprio in virtù delle profonde trasformazioni che interessano il suo oggetto di studio. Un criterio utile per orientarsi nel vasto campo delle prospettive analitiche e dei materiali prodotti dalla riflessione sociologica sul lavoro in Italia prevede di organizzare la letteratura intorno ad alcuni filoni tematici principali (Colasanto, 2002). Il primo filone di analisi riguarda l’organizzazione del lavoro e le nuove forme di regolazione. In esso confluiscono anzitutto gli studi di quegli Autori che si sono occupati della trasformazione del sistema produttivo delle aziende seguita alla crisi del modello fordista, e dunque all’emergere di nuovi paradigmi post-fordisti. Anche da ciò deriverebbe l’importanza attribuita al tema - che ha progressivamente assunto un ruolo sempre più centrale - della partecipazione dei lavoratori nell’ e delle forme che essa assume. Nel corso del decennio ’90, accanto alla valorizzazione del lavoro umano si pongono tuttavia processi sempre più marcati di precarizzazione delle posizioni lavorative. La flessibilità del lavoro - ma anche delle stesse dimensioni strutturali dell’impresa - è intesa come risposta e capacità di adattamento alle modificazioni del rapporto tra domanda e offerta, tra consumo e produzione. L’accento sulla flessibilità spinge alcuni Autori ad interessarsi degli inediti scenari del lavoro autonomo, entrato ormai in quella che è stata definita come una seconda generazione, determinata non tanto dalla libera scelta degli individui, quanto della nuova domanda di lavoro proveniente proprio dalle imprese ristrutturate alla luce dei differenti modelli di uscita dai sistemi di produzione fordisti. La precarietà che ne deriva riporta in auge anche il tema delle risorse umane, della loro e del ruolo che a proposito di questa svolge la . Il secondo filone di analisi prende in considerazione le nuove politiche dell’occupazione, e si compone soprattutto di quelle riflessioni in merito alla disoccupazione italiana che invitano a superare letture riduzionistiche del e a porre in evidenza le peculiarità di quella merce sui generis rappresentata dal lavoro. Un terzo filone, al quale ricondurre la più recente letteratura socio-lavorista, fa capo ai contenuti del lavoro, con particolare riguardo al tema della conoscenza e della professionalità, e scaturisce dalla presa d’atto dell’importanza delle competenze di tipo motivazionale, cognitivo e relazionale che le occupazioni ad elevato contenuto professionale oggi richiedono. Tale attenzione sfocia nello studio delle libere professioni e dei lavoratori “della conoscenza”, e trova un rinnovato fuoco di interesse per il concetto di gruppo professionale, anche per via del suo stretto legame con il tema della stratificazione sociale; dall’altro, tende a superare ogni interpretazione del lavoro di tipo deterministico (su base tecnologica o ideologica) per valorizzare gli aspetti di senso: così, Arendt (il lavoro come azione che valorizza le dimensioni soggettive in contrapposizione al lavoro come opus); e così soprattutto Donati (il lavoro come relazione, che acquista significato nel rapporto che si stabilisce tra soggetti, oltre ogni lettura meramente economicistica, legata a transazioni di puro mercato). Un quarto filone di analisi, infine, pone attenzione al rapporto tra lavoro e mutamento della società, portando in evidenza le basi sociali del processo di transizione ed in particolare il ruolo in esso giocato dalle società locali. La consistente - e certamente non conchiusa - riflessione sviluppatasi in proposito anche a partire dalla valorizzazione dei concetti sviluppati dalla cosiddetta “nuova sociologia economica”, oltre ad aver approfondito tematiche ad essa legate - come ad es. quella delle caratteristiche e della funzione del lavoro degli immigrati - ha contribuito ad elaborare letture più articolate dell’economia e della società italiana e della loro trasformazione. Accanto all’affermarsi della sociologia del lavoro come disciplina specialistica, va ricordato anche il contributo degli studi sociali – con intersezioni tra la sociologia, l’antropologia e la filosofia - che si sono occupati del sistema dei significati che il lavoro in quanto esperienza vissuta da parte dei soggetti che la compiono, visti in riferimento al passaggio storico che stiamo vivendo. Proponiamo due autori che esprimono le due posizioni opposte che caratterizzano l’attuale dibattito: sul versante critico troviamo Zygmunt Bauman, teorico della società liquida, e la sua tesi del lavoratore “campeggiatore”. Egli pone l’accento sulla sostituzione dell’etica del lavoro con l’estetica dei consumi, un movimento che indica una fuoriuscita dell’individuo da una qualsiasi dedizione che non sia quella strumentale, in quanto secondo l’Autore il futuro del lavoro sarà non di chi “prende casa” in un ruolo entro un’organizzazione stabile, bensì del campeggiatore precario e mercenario. Egli, infatti, afferma: «Una volta ricondotto a un orizzonte di breve respiro l’utilizzo della forza lavoro, in quanto defraudato di ogni prospettiva di stabilità (per non dire garantita) e reso dunque episodico, e abolite (o modificate a partita ancora in corso) praticamente tutte le regole del gioco delle promozioni e dei licenziamenti, appare difficile che i sentimenti di lealtà e impegno reciproco possano diffondersi e radicarsi. A differenza dei tempi della dipendenza reciproca di lunga durata, manca ora lo stimolo a interessarsi seriamente, per non dire criticamente, della saggezza di una situazione che in ogni caso è destinata ad essere transitoria. Il luogo di lavoro assomiglia più a un campeggio, in cui si piantano le tende per poche notti e che si può abbandonare in ogni momento» (Bauman 2004, p. 36); Richard Sennett, analizzando le trasformazioni del capitalismo della flessibilità, coglie l’importanza di un investimento del lavoratore sul sentimento dell’onore, così come accadeva nella grande tradizione artigiana. Il capitalismo fluido ha portato allo sviluppo di un modo di lavorare senza tener conto della qualità. La carriera è scomparsa, sostituita da una traiettoria evanescente, frammentaria, che rende difficile per i dipendenti definire con precisione la propria identità. Diventa oltretutto sempre più complicato descrivere la propria . Occorre quindi aiutare l’individuo a ritrovare il rispetto di sé e degli altri, quel sentimento che è scomparso e che per altro le politiche pubbliche fondate sulla compassione e sull’assistenza non sono riuscite a ristabilire. Ciò passa in particolare attraverso il riconoscimento del lavoro ben fatto. Una delle soluzioni possibili risiede nella riabilitazione del concetto di mestiere secondo il principio dell’artigianato: valorizzare il significato del lavoro, piuttosto che la remunerazione che ci si può attendere da esso, riabilitare il concetto di lavoro ben svolto per il semplice piacere di svolgerlo bene, indipendentemente dal concetto di performance o di retribuzione. Soltanto questo impegno disinteressato dà un significato alla vita. L’orgoglio per il lavoro eseguito permette inoltre di tessere all’interno dell’azienda dei rapporti sociali durevoli. E ciò è tanto più necessario se si considera che si lavora sempre più a lungo e si ha sempre meno tempo per allacciare rapporti disinteressati, dentro e fuori l’ambito lavorativo. Attualmente, assume sempre più importanza, nelle ricerche e nelle analisi dei sociologi, il fenomeno delle “grandi dimissioni” accanto a quello del neoruralismo, ambedue manifestazioni dell’irruzione nelle organizzazioni di lavoro della cultura dell’io. Le prime sono forme nuove di uscita dal lavoro, che stanno assumendo dimensioni rilevanti, visto che nel 2022 vi sono state 269mila dimissioni in più rispetto al 2021, con una crescita del 13,9%, seguita nel 2023 da un’uguale tendenza sia pure con un lieve rallentamento. Si tratta di dimissioni in buona parte non legate all’avanzamento di carriera, quanto alla ricerca di un posto di lavoro più soddisfacente dal punto di vista sia del benessere visto come buon clima nei rapporti di lavoro con colleghi e superiori sia del valore sociale dei prodotti/servizi offerti. Il neoruralismo è la tendenza – che in parte risulta intrecciata a quella precedente – di persone che svolgono attività di lavoro poco significative a cambiare radicalmente la propria vita dedicandosi all’agricoltura, all’allevamento ed alle attività didattiche e di che si svolgono in questi settori, mosse dal desiderio di un lavoro più vicino alla natura, con scopi buoni, e quindi con maggiori possibilità di incontri umani arricchenti e soprattutto potendo godere alla fine della giornata di maggiore gusto per ciò a cui si sono dedicati, e di un arricchimento della stima di sé. Bibliografia Accornero A., Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, Bologna, Il Mulino, 2006. Arendt H., Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1964. Bauman Z., Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, Troina (EN), 2004. Colasanto M., La sociologia del lavoro in Italia: elementi per una riflessione, in Bonazzi G. - La Rosa M. - Pulignano V. (cur.), Sociologia del lavoro e studi organizzativi. Lo stato del dibattito in Italia ed in Gran Bretagna, Collana “Sociologia del Lavoro”, voll. 86-87, FrancoAngeli, Milano, pp. 191-208, 2002. Gallino L., Lavoro, Sociologia del lavoro, in Id. Dizionario di sociologia, Torino, Utet, pp. 389-398, 1993. Donati P., Il lavoro che emerge, Bollati Boringhieri, Torino, 2001. Zucchetti E., La disoccupazione. Letture, percorsi, politiche, Milano, Vita e Pensiero, 2005. Sennet R., L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli, 2008.

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