Nel linguaggio comune, erroneamente, si tendono a considerare impresa e azienda come sinonimi. Giuridicamente, invece, sono termini con significati diversi. Il “Codice civile” non definisce l’impresa, ma l’imprenditore come chi “esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi” (art. 2082). Di conseguenza l’impresa è definibile come un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Il “Codice civile” definisce, invece, l’azienda come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (art. 2555). L’azienda è quindi l’insieme degli strumenti utilizzati per svolgere l’attività imprenditoriale. Nello svolgere la sua attività, l’impresa impiega i fattori produttivi (capitale, mezzi di produzione, materie prime e risorse umane) secondo modalità razionali finalizzate al raggiungimento del suo scopo secondo i criteri di efficacia, economicità e professionalità. Sono fattori costitutivi dell’impresa l’elaborazione di un progetto più o meno dettagliato che indica i passi e le risorse necessari al perseguimento dei propri output, il controllo dei requisiti di qualità e di etica imprenditoriale coerenti con la sensibilità e le norme del contesto, l’assunzione del rischio in quanto una parte del successo è connesso a condizioni imprevedibili, la necessità di produrre un introito superiore all’ammontare delle spese di produzione, il reinvestimento di una quota rilevante del profitto per mantenere ed accrescere la qualità del prodotto-servizio e per il perseguimento continuo dell’innovazione pena la fuoriuscita dal mercato, infine per l’aggiornamento e il perfezionamento continuo dei saperi e delle competenze delle risorse umane coinvolte. Il presidio di questi fattori avviene sotto la responsabilità di un imprenditore. Questa figura, che può essere personale o anonima, individuale e associata, assume in sé i caratteri dell’ideazione, della coesione, del rischio e della decisione. Ciò comporta la distinzione tra il principio della partecipazione di tutti i lavoratori alla vita dell’impresa e la responsabilità che ricade – compresi i suoi rischi – sulla figura dell’imprenditore o del detentore delle quote di capitale investite nell’impresa stessa. Com’è noto, l’Italia è uno dei Paesi con maggior numero di imprese e quindi di imprenditori. La rilevazione ISTAT del 2021 contava 4.540.634 imprese italiane, la cui componente preponderante, superiore ai 4,3 milioni di unità, è costituita dalle microimprese – quelle inferiori a 10 dipendenti e con un fatturato o bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro – a prevalenza commerciali, mentre le piccole e medie imprese (da 10 a 249 occupati, con fatturato o bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro) ammontano a 221.381 unità. La quota rimanente è costituita dalle grandi imprese. Dopo una lunga fase di espansione, a partire dal 2011 vi è stato un calo di unità economiche, particolarmente accentuato durante la pandemia; a partire dal 2023 questa tendenza ha registrato un rallentamento. I fallimenti sono dovuti specialmente all’aumento dei costi delle materie prime, inflazione ed instabilità economico-politica. Ma sullo sfondo si coglie anche il fattore generazionale: molti piccoli esercizi commerciali e laboratori artigianali faticano a coprire le spese e sono guidati da figure anziane che non vengono sostituite al momento del ritiro dall’attività. Una caratteristica peculiare dell’economia italiana è data dalla rilevanza della famiglia, la cui intraprendenza va oltre la dimensione antropologica divenendo un fattore decisivo dell’intero sistema economico. Questo fattore presenta anche un risvolto critico, visto che circa l’80% delle imprese familiari fallisce prima dell’ingresso della terza generazione. È in continua crescita l’area delle imprese i cui titolari sono di origini straniere. Alla fine del 2022 queste erano circa 650mila unità, poco più del 10% dell’intera imprenditoria del Paese. Tre sono le spinte che sostengono questo trend: il dinamismo anagrafico che si contrappone all’età media elevata dei titolari di imprese avviate da persone di origine italiana; inoltre la grande propensione imprenditoriale degli stranieri che per una quota rilevante consentono di garantire la continuità di esercizi commerciali e laboratori i cui titolari intendono ritirarsi dall’attività; infine la possibilità di inserimento entro reti di relazioni di natura etnica che fungono da garanzia rispetto ai rischi cui possono incorrere le attività isolate, ma che nel contempo possono costituire un limite per la libertà di iniziativa. Visto l’importante contributo occupazionale delle imprese, anche sotto l’impulso dei fondi comunitari si sono intensificati negli ultimi anni gli interventi a sostegno della creazione d’impresa: a) interventi di natura finanziaria, cfr. in particolare la Legge n. 44/86 e successive modificazioni, la Legge n. 236/93, entrambe gestite dalla Società per l’Imprenditorialità Giovanile (IG) e la Legge n. 215/92 sulla IG; a queste si aggiungono numerosissimi provvedimenti regionali; b) interventi di formazione: le Regioni inseriscono nei loro piani di corsi dedicati all’imprenditorialità; analogamente le Camere di Commercio offrono corsi di preparazione alla creazione d’impresa; nelle scuole superiori sono inseriti programmi di simulazione della creazione d’impresa (come il progetto IG studenti); c) interventi di assistenza tecnica, per supportare la nascita della nuova imprenditorialità; d) sostegno alle di impresa specie tra gli studenti universitari. Per creare una nuova iniziativa economica è necessario produrre un progetto di impresa (Business Plan) realistico, sostenibile e – se possibile – innovativo. Si tratta del documento che disegna il cammino di una nuova entità imprenditoriale traducendo l’idea di fondo (Business Idea) - che indica il settore, il tipo di prodotto-servizio offerto, le caratteristiche peculiari che la contraddistinguono dai concorrenti - in un piano di realizzazione concreta. Tale progetto richiede: a) uno studio o un'analisi di fattibilità in grado di fornire una serie di dati di natura economico-aziendale, sui quali tracciare linee guida per la costituzione dell'attività; b) un piano finanziario che renda possibile la dotazione del capitale di avvio dell’ di impresa; c) un piano in cui si indicano le tappe del rientro dell’investimento iniziale e il tempo in cui è prevista una gestione economica positiva. È bene che il progetto di impresa preveda tre scenari: ottimistico, intermedio e pessimistico, avendo definito in anticipo le strade da perseguire nei tre casi differenti. Ciò richiede una capacità di lettura della realtà e di revisione del progetto via via che si procede nella sua implementazione. Lungo la vita dell’impresa emerge più volte la necessità di revisione del Business Plan, specie in corrispondenza di varie tipologie di crisi: di leadership, finanziarie, di riconversione, di fusione, di successione, e naturalmente anche di crescita. Il progetto di impresa viene sempre più frequentemente assunto come strategia formativa da parte di scuole, CFP e ITS, secondo tre formule: simulazione, laboratori reali (Service Learning), impresa formativa. Per la gestione degli aiuti connessi ai finanziamenti, lo Stato opera attraverso la IG. Questa, che fa capo al Ministero del Tesoro, svolge tutte le funzioni e i compiti necessari per sostenere l’intero processo di creazione d’impresa, inoltre promuove e finanzia anche forme di lavoro autonomo attraverso il “prestito d’onore”. Da menzionare anche l’attività dei BIC (Business Innovation Center), che hanno la mission di sviluppare la cultura imprenditoriale e stimolare la creazione di nuove imprese. I BIC, promossi dalla Commissione Europea, Direzione Generale Politica Regionale, sono istituiti in molte Regioni con la formula della S.p.A. Sono molte anche le iniziative di assistenza promosse dagli enti locali. In molti Comuni medio-grandi, ad esempio, è stata attivata la costituzione del cosiddetto sportello unico, un ufficio apposito al quale ci si può rivolgere per espletare tutte le pratiche burocratiche accessorie necessarie per iniziare una nuova attività senza doversi perdere nei meandri della Pubblica amministrazione. Da menzionare, infine, le numerose iniziative di accompagnamento alla imprenditorialità realizzate all’interno di progetti integrati di formazione o da parte di strutture orientative. È attiva anche l’iniziativa “Nuove imprese a tasso zero” con il nuovo incentivo denominato “ON – Oltre Nuove imprese a tasso zero”; essa mira a sostenere su tutto il territorio nazionale la nascita e lo sviluppo di micro e piccole imprese a prevalente o totale partecipazione giovanile o femminile. Ad esse vengono offerti programmi di finanziamento agevolato a tasso zero, a copertura delle spese ammissibili non superiori a 1.500.000 euro entro i tre anni di attività; oltre questa data, e non oltre i 5 anni, tale importo non può superare i 3 milioni di euro. I programmi debbono essere realizzati entro 24 mesi dalla data di stipula del di finanziamento. È in corso, da parte degli organismi politici nazionali e sovranazionali, una forte spinta affinché le imprese assumano un profilo sempre più accentuato di responsabilità etica, favorendo un cambiamento di identità delle stesse, sempre più lontana da quella liberista sostenuta da Milton Friedman, esponente della cosiddetta “scuola di Chicago” e premio Nobel per l’economia nel 1976. Nel breve saggio apparso sul New York Times Magazine del 13 settembre 1970 con il titolo, divenuto famoso, The Social Responsibility of Business Is to Increase ITS ProfITS, egli afferma che «[…] esiste una e una sola responsabilità sociale dell’impresa: usare le sue risorse e impegnarsi in attività finalizzate ad aumentare il più possibile i suoi profitti a patto di rispettare le regole del gioco, cioè operando in libera e aperta concorrenza senza inganno né frode», aggiungendo inoltre che scopo degli azionisti consiste nel «[…] fare più soldi possibile nel rispetto delle regole fondamentali della società in cui vivono, sia quelle incorporate nelle sue leggi, sia quelle dettate dai suoi costumi etici» (Debenedetti 2021, pp. 282 e 273). Un ampliamento dello spazio degli interessi delineati da Friedman è quello proposto da Michael Porter il quale ha introdotto a questo proposito il concetto di “catena del valore”. Secondo questo Autore, il valore di un’i. non è dato esclusivamente dalla cura dei prodotti-servizi, ma dalla catena dei fattori che concorrono a renderli valore per i clienti-utenti. Secondo il suo modello, la catena di valore prevede 5 attività primarie: la creazione fisica del prodotto, la commercializzazione, la consegna e l’assistenza post-vendita. Occorre fare in modo che ognuna di queste attività produca valore che si accumula passo passo fino a rappresentare un beneficio complessivo per i destinatari. Se, ad esempio, l’impresa non cura in modo adeguato l’assistenza post-vendita e si concentra solo sulla commercializzazione dei prodotti, i clienti-utenti preferiranno passare a concorrenti che offrono un servizio migliore nonostante il prezzo più elevato. L’intento di una catena del valore consiste quindi nel creare un vantaggio competitivo per l’azienda, aumentando la produttività e allo stesso tempo mantenendo i costi ragionevoli. Ogni componente dell’impresa deve partecipare attivamente ad una “catena” più ampia tenendo conto non solo del proprio ambito circoscritto, ma divenendo consapevole del legame che insiste con gli altri. È per questo che si dice “far bene l’impresa richiede di guardare oltre la propria impresa”. Ma a cambiare radicalmente, rispetto ai lontani anni ‘70, sono proprio i costumi etici indicati da Friedman: da allora si è ampliata l’area della sensibilità etica dei cittadini – con forte accentuazione per i paesi più sviluppati – secondo una progressione delle cure di cui l’impresa è tenuta a farsi carico oltre quelle previste nell’epoca classica - etica economica, tutela della salute e della sicurezza, rispetto dei diritti dei lavoratori e libertà sindacale. I passi di questa crescita di ambiti di responsabilità dell’ impresa sono: la tutela della , il riconoscimento e la valorizzazione delle competenze dei lavoratori e il rispetto dei loro diritti formativi, l’ e quindi la non discriminazione dei collaboratori e dei candidati ai ruoli lavorativi, la cura del benessere dei lavoratori tramite il welfare aziendale, la tutela dell’ambiente naturale, la lotta contro l’evasione e l’elusione, la lotta contro la corruzione, la correttezza nelle relazioni con altri paesi e regioni del mondo, la correttezza nelle pratiche di . Si fanno interpreti di questa tendenza Michael Porter e Mark Kramer che nel 2011 hanno affermato che compito dell’impresa è creare “valore condiviso”. Riflettendo sulla condizione “sotto assedio” del capitalismo, essi scrivono sulla Harvard Business Review che l’impresa deve concorrere al progresso economico nella forma del progresso sociale. Il termine bandiera di questa stagione è purpose, una parola che Giorgio Donna ha tradotto efficacemente con buona causa, riferito ad un’impresa che intende esplicitamente, e costantemente, contribuire a migliorare il mondo, ampliando l’area dei propri stakeholder anche alla comunità più ampia ed all’ecosistema. È tramite l’acronimo ESG (Environment, Social, Governance) che viene indicato il profilo di un’attività economica che rispetti il criterio della sostenibilità. L’Unione europea nel 2011 ha definito la responsabilità sociale dell’impresa (RSI) come una "responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società". Il suo presupposto necessario consiste nel rispetto della legislazione e dei contratti collettivi tra le ; partendo da ciò, per soddisfare pienamente le esigenze insite nel proprio profilo di responsabilità, le imprese «[…] devono avere in atto un processo per integrare le questioni sociali, ambientali, etiche, i diritti umani e le sollecitazioni dei consumatori nelle loro operazioni commerciali e nella loro strategia di base in stretta collaborazione con i rispettivi interlocutori» . Ciò richiede che la loro strategia sia integrata tramite due obiettivi chiave: agire in vista della creazione di un valore condiviso tra i proprietari /azionisti, gli altri stakeholder interessati agli effetti della sua azione economica ed alla società più ampia; avere consapevolezza, prevenire e mitigare i possibili effetti avversi della propria attività. Tutto questo corrisponde anche alla via intrapresa dalla nuova scuola economica, ben rappresentata dal Manifesto sottoscritto da oltre 150 ricercatori delle facoltà economiche, che propongono in cinque punti un nuovo modo di pensare il rapporto tra la loro scienza e la realtà, basato su un importante principio etico: perseguire una creazione di valore che rispetti le leggi di natura, in primo luogo l’imperativo categorico della salvaguardia della specie, quello proposto di Hans Jonas, il filosofo tedesco considerato uno dei fondatori del pensiero ecologico. Il manifesto riconosce la perdita del valore delle teorie economiche che pure hanno portato alle conquiste del passato, in quanto rischiano di diventare ostacoli alla comprensione dei problemi e delle opportunità del presente. Esse portano con sé tre errori: l’idea della disponibilità illimitata della “risorsa natura”, la concezione dell’i. come organismo estraneo al contesto e orientato unicamente al profitto, il concetto di ricchezza come possibilità di consumo. Inoltre, non considerano la potenzialità dell’insieme di fattori individuali, collettivi e politici che entrano in gioco nel definire ciò che è davvero “valore” per una comunità inclusiva, giusta ed attenta all’equilibrio ecologico. Il cambio di paradigma riguarda: in primo luogo, il superamento della figura dell’homo oeconomicus proiettato unicamente al perseguimento dell’utilità materiale e psicologica, a favore della superiorità della razionalità sociale e dell’arte delle relazioni, in quanto siamo cercatori di senso, quell’alimento che fonda la fiducia, ovvero il valore che sta alla base della nostra società e quindi anche dell’i. e del lavoro; al secondo posto troviamo l’abbandono dell’idea secondo cui il termine “impresa” è da attribuire solo a quella realtà che considera suoi interlocutori unicamente i soggetti portatori di interessi (stakeholder), proponendo invece una pluralità di imprenditori e di forme di i. più ambiziosi che guardano all’impatto sociale della propria opera e non solo al profitto; si propone poi di andare oltre l’uso del PIL come unico indicatore di benessere per adottare indicatori più “fini” come la soddisfazione e la ricchezza di senso della propria vita; al quarto posto troviamo il superamento della concezione secondo cui l’individuo agisce esclusivamente in rapporto alle strutture del mercato, per valorizzare la sussidiarietà ovvero il vasto mondo comunitario e sociale nel quale viviamo relazioni di solidarietà: si tratta della attiva che considera la partecipazione e il essenziali per la soluzione dei problemi e la sopravvivenza della democrazia; infine, si mette sotto accusa l’ di de-responsabilizzazione valoriale che ha caratterizzato il mondo accademico, che si vuole sostituire con l’interdisciplinarietà e la “terza missione”, un termine con il quale si sostiene lo stretto legame tra , ricerca e ricadute sociali che da esse derivano. In questo modo la ricerca può assumere un carattere generativo, specie nel campo dell’economia. Una componente decisiva del cambiamento in atto circa la natura e lo scopo dell’impresa è riferita alla Economia green, l’espressione con la quale si indica una svolta radicale dell’indirizzo dell’economia, sulla base del principio della sostenibilità ecologica e della riduzione dell’impronta ambientale dell’attività umana. la Commissione Europea la definisce come «[…] un’economia che genera crescita, crea lavoro e sradica la povertà investendo e salvaguardando le risorse del capitale naturale da cui dipende la sopravvivenza del nostro pianeta». Essa comprende a) il campo energetico con la riduzione dell’uso del carbone e del petrolio e suoi derivati, e contemporaneamente l’aumento del ricorso alle energie rinnovabili come eolico e solare fotovoltaico, ma comprendendo anche il biogas e altre tecnologie a basse emissioni, incluso il nucleare dove accettabile; b) la progressiva eliminazione dei motori termici negli autoveicoli sostituiti da quelli elettrici; c) l’economia circolare con il riciclo dei rifiuti urbani e speciali ed il riuso degli scarti; d) la biochimica per una maggiore trasformazione dei prodotti con materiali biodegradabili e compostabili; e) la dematerializzazione finalizzata alla progressiva riduzione della componente fisica dei prodotti e degli impianti; f) l’agricoltura biologica e la sana alimentazione; g) la cura del territorio a partire dalla pianificazione e dalla prevenzione degli eventi distruttivi; h) le pratiche di lavoro tramite l’utilizzo più intenso dello smart working; i) la riduzione dei consumi tramite la diminuzione dei voli, l’abbassamento dei limiti di velocità in autostrada e il controllo delle temperature negli edifici; j) infine la ricerca nel campo delle tecnologie CCS di cattura e stoccaggio di CO2 così da sottrarla alla quota rilasciata in atmosfera. L’insieme di questi ambiti chiarisce come l’economia green non comprende soltanto un cambiamento relativo alle politiche di i. ed ai fattori tecnologici, ma anche comportamenti e stili di vita dei singoli e delle varie formazioni sociali di cui essi fanno parte. Anche la gestione delle risorse umane è soggetta ad una spinta al mutamento che va oltre le tecniche psicosociali e il welfare aziendale. Si stanno infatti moltiplicando i segnali che rendono problematica la gestione delle risorse umane, mettendo in crisi le due modalità più diffuse: quello in uso nelle piccole e piccolissime organizzazioni che, per reperire il nuovo personale, preferiscono affidarsi alle reti delle parentele e delle dirette, mentre per la gestione dei collaboratori applicano lo schema della tradizionale “bottega artigiana”, ovvero un misto di spirito di squadra e paternalismo; quello in uso nelle medie e grandi organizzazioni il cui metodo per la gestione dei nuovi ingressi consiste, per la prima selezione, nel ricorso alle agenzie di ricerca del personale mentre per i colloqui di assunzione operano tramite il proprio ufficio delle risorse umane; per la gestione del personale in servizio è soprattutto quest’ultimo ad essere impegnato, avvalendosi del supporto di singoli professionisti o di società di consulenza. Notiamo in primo luogo la crescente difficoltà nella fase di individuazione dei candidati che compongono la “rosa” entro cui l’impresa può selezionare le persone più confacenti ai ruoli lavorativi di cui ha necessità. Tra le pratiche di ingresso, colpiscono le priorità delle condizioni poste dai candidati, in testa alle quali – naturalmente dopo la retribuzione - troviamo l’importanza crescente del fattore “orario” seguita dalla “distanza dal luogo di residenza”, a segnalare il desiderio di preservare dagli impegni di lavoro il proprio mondo familiare e quello degli interessi individuali. Troviamo poi il fenomeno delle autodimissioni da parte di collaboratori competenti e bene inseriti che in parte sono legate ad una migliore offerta da parte di un’altra impresa, ma che spesso riguardano persone che non hanno la certezza di un nuovo posto più vantaggioso e che rivelano piuttosto un’insoddisfazione esistenziale che l’impresa non aveva colto, ma spesso neppure monitorato. Colpisce infine la crescente turbolenza relazionale che ha invaso i luoghi di lavoro, segno della diffusione nella vita quotidiana delle imprese di problematiche legate alla cultura dell’io. La crisi dei processi usuali di reclutamento basati sul dominio della domanda, e il debole senso di appartenenza all’organizzazione di una parte crescente del personale, stanno portando le imprese ad un maggiore impegno riguardo ai fattori sensibili del lavoro: i valori, le relazioni, lo stile di collaborazione, il senso di benessere. Emerge una polarizzazione dei comportamenti: mentre alcune imprese puntano soprattutto sulla retribuzione e sui benefITS, altre – avvantaggiate da una leadership carismatica e da una identità distintiva – agiscono soprattutto sul valore sociale ed ecologico dei propri prodotti o servizi, sul sentimento di appartenenza, lo spirito di squadra ed il coinvolgimento dei collaboratori nelle scelte. Soprattutto questo secondo gruppo sta indicando la direzione di un nuovo paradigma organizzativo basato su scopi significativi da perseguire, rapporti più autentici, senso di comunità, il modello dell’auto-organizzazione. Sono imprese che concepiscono se stesse come un luogo di lavoro dotato di un’anima, che punta a mobilitare forze “naturali” capaci di superare la separazione tra i diversi frammenti dell’io ed a recuperare il senso umano del lavorare insieme. Tramite le regole esplicite, le modalità di risoluzione dei conflitti, i processi di lavoro, le modalità di incontro, gli spazi di riflessione, gli ambienti fisici, si sollecita l’espressione delle personalità coinvolte e la pienezza individuale e collettiva e si combatte il turnover. È in atto una sorta di che mira a reinventare l’organizzazione partendo non più dai processi formali, ma dalle dinamiche esistenziali delle persone. Nel tentativo di elaborare un nuovo paradigma, si fa strada l’intento di sollecitare uno stadio più profondo di consapevolezza del lavoratore, a partire da quesiti che lo interpellano specie nei momenti di transizione che segnano la sua carriera: questa decisione mi sembra buona? sono veramente me stesso se la prendo? è in linea con ciò che voglio realizzare? con essa posso dire di essere al servizio del mondo? Bibliografia Abell f.D., Strategia duale: dominare il presente, anticipare il futuro, Il sole 24 ore media & impresa, Milano, 1997. Debenedetti F., Fare profitti – Etica dell’impresa, Venezia, Marsilio, 2021. Montefinale A. (Ed.), Creare la propria impresa: guida operativa per il neo-imprenditore, Enfapi - Sogea, Roma, 1990. Salani P.M., Dall'idea all'impresa: come diventare imprenditore, Acropoli, Roma, 1991. Assefor, Il neo-imprenditore: manuale operativo per mettersi in proprio, Assefor, Rimini, 1991. De benedettis A. - Mingolla G. - Scaccheri A. (cur.), Come fare un business plan, Franco Angeli, Milano, 1993. Elvy B.H., Mettersi in proprio senza capitali: 100 nuove idee e opportunità, come valutarle e selezionarle, F. Angeli, Milano, 1994. Laloux F., Reinventare le organizzazioni. Come creare organizzazioni ispirate al prossimo stadio della consapevolezza, Guerini, Milano, 2022. Porter M., Competitive Advantage: Creating and Sustaining Superior Performance, NY, Free Press, 1985. Ghergo F., Guida per l’accompagnamento al lavoro autonomo, Tipografia Pio XI, Roma, 2003. Roberts J., L’impresa moderna, Il Mulino, Bologna, 2006.

Footer: in quest'area va inserito il testo con le specifiche di gestione del glossario