Fenomeno di autoreclusione giovanile in cui l’unica possibilità di sopravvivenza sembra essere quella di isolarsi dalla società e di ritirarsi completamente nella propria stanza. La parola hikikomori è la forma contratta di shakaiteki hikikomori, forma sostantivata di due verbi: hiku (tirare dentro) e komoru (isolarsi, chiudersi, nascondersi). Tale termine è stato coniato agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso dallo psichiatra giapponese Saito Tamaki per indicare un fenomeno socialmente preoccupante emerso in Giappone circa dieci anni prima. Si trattava di una volontaria reclusione di alcuni soggetti che decidevano di chiudersi completamente nella loro stanza per lunghi periodi di tempo, addirittura anni, rifiutando qualsiasi forma di contatto con il mondo esterno. Dal Giappone tale fenomeno ben presto si diffonde poi in Corea e in Cina, e negli ultimi decenni anche negli Stati Uniti, in Australia e in Europa. Gli hikikomori possono essere definiti tali solo nel momento in cui manifestano ritiro sociale da almeno 6 mesi, precedente fobia scolare, talvolta dipendenza da Internet, inversione del ritmo circadiano (ritmo giorno-notte) ed eccessiva timidezza. Accanto a loro, ci sono anche degli hikikomori che vivono un isolamento volontario ibrido, cioè non escono mai di casa, ma parlano con i familiari e trascorrono del tempo fuori dalla propria stanza oppure escono di casa solo se accompagnati dai genitori o se stimolati a farlo, ma mai di propria iniziativa. Indipendentemente dalla forma di reclusione, quando cominciano l’isolamento, tutti gli hikikomori sono accomunati dal desiderio di rompere completamente i rapporti con il mondo esterno, compresi i familiari. Gli studi sull’argomento mettono in evidenza che l’esigenza di autorecludersi è determinata dall’interazione di molteplici variabili contestuali e individuali che agiscono a diversi livelli e in tempi differenti fungendo da veri e propri fattori di rischio, cioè da elementi che anticipano, facilitano e generano un esito indesiderato. Dal punto di vista contestuale, l’hikikomori si configura come un fenomeno prodotto socialmente e derivante da un malfunzionamento del sistema comunicativo tra società, famiglia, scuola e individuo. In particolare, sembrerebbe che i soggetti decidano di autorecludersi perché si sentono incapaci di soddisfare le aspettative provenienti dalla società, dalla famiglia e dalla scuola. In relazione alle variabili individuali, invece, sembrerebbe che alcune peculiarità proprie dell’individuo, nel momento in cui entrano in una spirale negativa e interagiscono con specifiche caratteristiche sociali, familiari e scolastiche, potrebbero creare una condizione di vulnerabilità che spingerebbe alcuni soggetti verso comportamenti tendenti all’isolamento. Tra le variabili individuali ritroviamo: pensieri disfunzionali, alti livelli di ansia, bassa autostima, scarso senso di autoefficacia, attribuzioni di causa dei fallimenti tendenzialmente interna e strategie di coping disfunzionali. L’interazione tra variabili individuali e contestuali crea una sorta di circolo vizioso in cui il mantenimento di ciascuna condizione contribuisce al consolidamento di tutte le altre attraverso un meccanismo di retroazione negativa. Da queste brevi considerazioni deriva che l’implementazione di una qualsiasi azione educativa di prevenzione e d’intervento deve tenere conto della necessità di lavorare su più fronti: soggetto, famiglia e scuola. Nei Paesi colpiti dal fenomeno dell’hikikomori, per i più svariati motivi, non esistono specifici protocolli di prevenzione e di intervento da seguire poiché si tratta di una condizione relativamente nuova che si sta cercando di inquadrare e seguire nel miglior modo possibile. Ciò che emerge, però, è che la famiglia e la scuola dovrebbero assumere il ruolo di agenti di cambiamento ed educare i ragazzi ad essere competenti a livello cognitivo, sociale ed emotivo al fine di renderli capaci di instaurare adeguate relazioni con gli altri e con l’ambiente circostante. Ciò perché il clima familiare e quello scolastico, così come le dinamiche che si dipanano al loro interno, giocano un ruolo significativo nel potenziare un o viceversa nel prevenirlo e ridurlo. Bibliografia Saito T., Hikikomori: adolescence without end, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1998. Ricci C., Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, Milano, FrancoAngeli, 2008. Sagliocco G. (a cura di), Hikikomori e adolescenza. Fenomenologia dell’autoreclusione, Milano-Udine, Mimesis, 2011. Ricci C., La volontaria reclusione. Italia e Giappone: un legame inquietante, Roma, Aracne, 2014. Bagnato K., L’hikikomori: un fenomeno di autoreclusione giovanile, Roma, Carocci, 2017. Crepaldi M., Hikikomori. I giovani che non escono di casa, Roma, Alpes Italia, 2019. Vicari S. – M. Pontillo, Adolescenti che non escono di casa. Non solo hikikomori, Bologna, Il Mulino, 2022. IDENTITA’ PERSONALE, PROFESSIONALE, SOCIALE (Mario Becciu) Identità Personale. Una chiarificazione terminologica in relazione ai singoli aspetti dell’identità è necessaria prima di definire, differenziare e approfondire ciascuno dei tre termini rappresentati nel titolo. Con il termine identità, intendiamo ciò che un soggetto è, lo rende unico e lo differenzia totalmente da chiunque altro. È la risposta che ognuno di noi dà alla domanda: “Chi sono io?”. È un termine onnicomprensivo che in letteratura psicologica è stato da sempre utilizzato per indicare la componente soggettiva con le varie esperienze, valori, passioni e tratti di personalità, ma anche le caratteristiche di genere e quelle sociali. In tempi più recenti si è avvertita la necessità di meglio elaborare e differenziare tale costrutto a motivo della sua complessità e delle sue differenti sfaccettature. Quando si parla di identità personale, si intende rappresentare soprattutto la componente psicologica soggettiva con i suoi aspetti cognitivi ed intrapsichici di tipo affettivo ed emotivo. Tale percezione di sé favorisce un senso di coerenza e di continuità spazio-temporale che ne alimenta il senso di unicità e di irripetibilità. L’autore che più di tutti in ambito psicologico ha lavorato sul concetto di identità è Erik Erikson (1968), psicoanalista e studioso di età evolutiva, le cui teorie spiegano come l’identità si formi attraverso il processo di esplorazione e integrazione delle esperienze vissute nell’intero arco di vita. La teoria dello sviluppo psicosociale di Erikson sottolinea il ruolo cruciale dell’interazione tra individuo e società nello sviluppo dell’identità personale. Contrariamente alla visione di Sigmund Freud, che attribuiva un’enorme importanza ai fattori psicosessuali, Erikson ha evidenziato l’influenza delle esperienze sociali, culturali e interpersonali. Una importante distinzione va fatta tra il costrutto di personalità e quello di identità. Concordiamo con Caprara (2003) nel definire la personalità come un’organizzazione tendenzialmente stabile di schemi cognitivi, emotivi e sociali che si delinea attraverso l’interazione di componenti biologiche, psicologiche e sociali. Tonolo (1999) quando parla di identità la intende, invece, come un processo evolutivo che promuove la consapevolezza della propria struttura, la pianificazione delle proprie tendenze operative e la partecipazione nella definizione di sé stessi nel proprio contesto. Facilmente si può desumere che in tale costrutto è racchiuso un concetto dinamico, molto più di quanto non lo sia il costrutto della personalità individuale, in progress, mai del tutto definito una volta per sempre, con una accentuazione temporale che lo sottopone a continui cambiamenti, pur nella stabilità della percezione di sé, dovuti al fluire delle esperienze di vita nell’incontro con i contesti relazionali, sociali e culturali. Tuttavia, è soprattutto in età adolescenziale che si assiste ai processi maggiormente coinvolti nel cambiamento dell’identità personale. Non a caso viene definita l’età della costruzione dell’identità sia per i cambiamenti somatopsichici, sia per quelli psicosociali con la polarizzazione di nuovi legami di appartenenza al gruppo dei pari, sia per le modifiche a livello cognitivo con i processi di integrazione tra il cervello limbico e quello razionale (Siegel, 2021), sia per l’adesione a nuovi paradigmi valoriali non più condizionati dai processi di identificazione parentale. Il concetto di identità personale non coincide con il “Concetto di Sé”, ma lo ingloba. Sono strettamente connessi seppur differenti. Mentre il concetto di sé si riferisce soprattutto agli aspetti cognitivi, all’immagine che ognuno ha di sé, il costrutto dell’identità personale è molto più ampio poiché annovera al suo interno anche gli aspetti biologici, psicoaffettivi, emozionali, culturali e sociali che rendono ciascuno di noi unici e irripetibili. In letteratura, troviamo anche il costrutto dell’Autostima personale. Esso si riferisce, specificatamente, ad una componente valoriale e valutativa di sé stessi. In base alla propria gerarchia di valori, ognuno esprime un giudizio sulle singole caratteristiche di sé e a seconda del posto che tale caratteristica occupa nella gerarchia valoriale personale, potremmo avere un giudizio di tipo realistico (quando si hanno prove di evidenza provenienti dal mondo esperienziale sulla fondatezza di tale valutazione), non accurato per difetto (quando l’individuo si sottovaluta rispetto a quanto si può evidenziare nella vita reale) o per eccesso (quando il giudizio positivo si sé stessi è realisticamente esagerato e non validato dalla realtà). Identità professionale. Il concetto di identità professionale, parte centrale del concetto di identità personale soprattutto in età giovanile e adulta, riguarda l’insieme dei processi che contribuiscono a definirci come soggetti impegnati a costruire il nostro progetto formativo, scolastico, professionale. Tale concetto viene a formarsi grazie alle autorappresentazioni che si sviluppano attraverso il processo di socializzazione nel contesto di (Polmonari, 1979). L’Identità Professionale andrebbe letta in una prospettiva interazionista che vede il soggetto impegnato in un continuo scambio processuale e dinamico con il contesto sociale. Infatti, tale costrutto è legato, da una parte, alle attitudini, , , , competenze e valori professionali dell’individuo, dall’altra, al sistema sociale che valorizza o meno il soggetto tramite l’offerta di percorsi formativi, l’inserimento lavorativo, la crescita professionale, la realizzazione di sé grazie al proprio progetto di vita professionale. Pertanto, la I. Prof. deve tanto alle differenti opportunità di crescita che il mondo del lavoro può offrire a ciascuno. In effetti, nel momento in cui l’individuo si inserisce in uno specifico contesto professionale interiorizza norme e valori che contribuiscono alla della propria identità professionale. Secondo Pellerey (2021) la formazione dell’identità professionale è conseguente all’insieme di esperienze a valenza positiva e negativa che l’individuo sperimenta lungo il e di inserimento lavorativo. Secondo l’autore, il percorso di sviluppo dell’identità professionale avviene grazie alla crescita in sei specifiche dimensioni: percepirsi competenti a livello professionale; saper esplorare scelte sia in rapporto a sé stessi sia al proprio ruolo lavorativo; saper prendere decisioni nel contesto professionale; saper confermare le proprie scelte; saper gestire le transizioni; saper cambiare le proprie scelte al mutare delle condizioni lavorative. Tali conferiscono al soggetto stabilità personale e professionale, autodeterminazione e . Un interessante filone di riflessione attuale concerne anche il ruolo che l’identità professionale può ricoprire per il benessere soggettivo e la qualità di vita individuale. Esso influenza, infatti, sia il senso di significato che ognuno dà alla propria esistenza, sia la qualità delle relazioni personali, la felicità personale e il senso di scopo. Secondo alcuni psicologi dell’età evolutiva, il lavoro sta all’adulto come il gioco sta al bambino. Con tale affermazione si intende evidenziare la centralità del ruolo della per gli equilibri psichici del soggetto e per il suo benessere soggettivo. Identità Sociale. Quando parliamo di identità sociale, parte fondamentale dell’identità professionale facciamo riferimento alla convinzione che un soggetto ha di appartenere ad un gruppo o ad una determinata categoria sociale. Questa identità è influenzata da vari fattori, tra cui la cultura, la lingua, la religione, la nazionalità e l’appartenenza a gruppi specifici. Tale senso di appartenenza sviluppa nel soggetto comportamenti di rispetto e difesa verso gli altri appartenenti al gruppo sociale grazie ad un processo di interiorizzazione di valori e norme che definiscono il gruppo e i suoi membri come unici e diversi dagli altri. Essa risulta essere influenzata da vari fattori, tra cui la cultura, la lingua, la religione, la nazionalità. In sintesi, possiamo affermare che l’identità sociale è la componente del Concetto di Sé relativa a tutto ciò che descrive sé stessi come appartenenti a dei gruppi sociali. Questo avviene sia per processo di categorizzazione (classificare mentalmente sé stessi e gli altri in base a categorie sociali rilevanti), sia per processi di identificazione (tramite l’adozione di norme, valori e comportamenti del gruppo di appartenenza), sia, infine, tramite processi valutativi (attivazione del confronto del proprio gruppo con altri gruppi sociali). Le componenti personali maggiormente coinvolte nella costruzione dell’identità sociale sono di natura cognitiva (come il processo di categorizzazione e di confronto) che di natura emozionale (orgoglio, senso di appartenenza, vergogna). Bibliografia Caprara G.V., Personalità. Determinanti, dinamiche, potenzialità. Raffaello Cortina, 2002. Erikson E.H., Gioventù e crisi d’identità, Armando, 1968. Erikson E.H. et al., Armando, 2018. Marraffa M. – C. Meini, L’identità personale, Carocci, 2016. Pellerey M., L’identità professionale oggi. Natura e costruzione, FrancoAngeli, 2021. Polmonari A., Identità sociale e identità personale, Giovannini D. (a cura di) Identità personale, teoria e ricerca, Zanichelli, pp. 1-11, 1979. Siegel D.J., La mente relazionale, Raffaello Cortina, 2021. Tonolo G., Adolescenza e identità, Il Mulino, 1999.
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