L'economia del bene comune (EBC) è un movimento socioeconomico e politico fondato dall'economista austriaco Christian Felber. Secondo i dati di uno studio del Comitato Economico e Sociale Europeo del 2017 sull’Economia Sociale, in Europa il movimento Economia del Bene Comune godrebbe del sostegno di oltre 100 gruppi locali e di 2000 tra imprese, università, amministrazioni locali e varie organizzazioni sociali. L'idea di base del modello dell'Economia del Bene Comune è che l'economia deve essere al servizio dei cittadini, ossia del bene comune. L'Economia del Bene Comune si fonda su valori che tutti riconoscono come universali: la dignità umana, la solidarietà, la sostenibilità ambientale, la giustizia sociale, la trasparenza e la partecipazione democratica. Il modello proposto da questa nuova economia è interdisciplinare e applicabile a tutti i tipi di imprese e organizzazioni. Il citato studio del CESE non riporta invece alcuna nota sull’Economia Civile (EC) che non si presenta come una delle forme dell’economia sociale ma come un paradigma dell’economia tout-court. Ripercorrendo le tappe della vicenda storico-economica italiana, l’economista Luigino Bruni afferma che: «L’Italia è stata capace di sviluppo economico e civile quando si sono create quelle condizioni culturali e istituzionali che hanno consentito la coltivazione delle virtù della creatività e quindi dell’innovazione; abbiamo invece smesso di crescere come Paese quando è prevalsa la logica del piagnisteo, della ricerca e del mantenimento di rendite di posizione, quando abbiamo guardato l’altro come un rivale da battere e non come un partner per crescere insieme». È questa la prospettiva dell’EC. come ebbe modo di riconoscere, anche se con altre parole, Joseph A. Schumpeter: «Dire economia nel Settecento significa necessariamente dire Italia». Infatti: «Tutte le grandi capitali dell’illuminismo italiano furono centri vitali e importanti dell’elaborazione della nascente scienza dell’economia. Tra tutte Napoli e Milano assumono un ruolo di primo piano […] Una stagione breve, ma che creò l’ambiente culturale nel quale riapparvero i temi tipici dell’umanesimo e in cui in particolare fiorì la tradizione napoletana dell’economia civile. «L’economia nasce nel Settecento italiano come “Scienza della pubblica felicità”». Siamo nel Regno di Napoli e la speranza comune è quella di una nuova stagione «[…] di vita buona, di benessere, di civiltà, di felicità, di pubblica felicità». L’aggettivo “pubblica” davanti a “felicità” racchiude un insegnamento dell’abate salernitano Antonio Genovesi (1713-1769), comunemente ritenuto il fondatore dell’EC, per il quale o lo sviluppo vede il contributo di tutti e la conseguente felicità viene goduta insieme oppure si resta bloccati in trappole di povertà. Genovesi sviluppa la sua produzione scientifico-culturale contemporaneamente a quella di Adam Smith. Che i due si conoscessero personalmente pare poco probabile, mentre che Genovesi abbia potuto conoscere almeno la Teoria dei sentimenti morali di Smith sarebbe invece plausibile. È comunque il pensiero di Smith che viene affermandosi: felicità, anche se pubblica, appare concetto inafferrabile e gli studiosi vanno sempre più concentrandosi sull’ “utilità individuale” che della prima sarebbe un accettabile indicatore. Sappiamo che l’economia si sviluppò successivamente lungo il percorso tracciato da Adam Smith e che le parole care alla tradizione civile, oltre a “commerciare” e “interessi” anche e soprattutto “fiducia”, “incivilimento”, “reciprocità”, “felicità”, “creatività”, “intelligenza”, furono in qualche modo messe a lato, se non proprio abbandonate, dalla scienza triste. Un dato appare certo: se esiste una via italiana ai temi di cui sopra, il punto di partenza sta nel considerare preminente proprio il tema della “pubblica felicità” piuttosto che quello dell’“utilità individuale”. Perché il pensiero economico che inizia con Genovesi, erede della tradizione civile medievale che risale a Francesco d’Assisi e Tommaso d’Aquino e che poi prosegue con gli umanisti civili del Quattrocento ed arriva al Settecento riformatore, ha alla base «[…] la visone del mercato come una forma di amicizia» dove «la reciprocità è l’elemento tipico della socialità umana». Proprio per questo le parole chiave su cui il mercato stesso viene costruito sono «reciprocità, amicizia, mutua assistenza o fraternità». Per Genovesi quindi più che cercare il proprio interesse, l’utilità individuale, ogni agente economico deve tenere presente «la reciproca obbligazione di soccorrerci nei nostri bisogni». Elemento importante per costruire la «pubblica fiducia» è la «fede pubblica» quella «corda» (fides in latino significa appunto anche corda) che è «[…] il vincolo delle famiglie unite in vita compagnevole». Un altro cardine della tradizione italiana (e napoletana) di EC è poi il tema del premio alla virtù piuttosto che quello della pena inflitta per i “delitti”. Nel 1769, il discepolo di Antonio Genovesi ed esponente dell’illuminismo napoletano Giacinto Dragonetti (1738-1818), scrisse il Trattato delle virtù e dei premi proprio per affrontare il tema del premio alla virtù. Nella sua breve opera, lo studioso partiva dall’amara constatazione che «[…] gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù» e dal presupposto che il premio alla virtù «[…] è il vincolo necessario per legare l’interesse particolare col generale, e per tenere gli uomini sempre intenti al bene». Il Settecento conosce anche una tradizione lombarda e milanese di economia civile che vede in Pietro Verri, Cesare Beccaria, Gian Domenico Romagnosi e Carlo Cattaneo i suoi più illustri esponenti. Scrive Bruni che «[…] ai milanesi stanno particolarmente a cuore due temi della tradizione civile: il ruolo delle giuste leggi per la pubblica felicità, e l’importanza attribuita alla creatività e intelligenza della persona nella creazione del valore dei beni». Le due scuole insieme ponevano quindi enfasi sulla socialità umana (maggior peso del tema nella tradizione napoletana) e sul valore della persona umana situata al centro della società e dell’economia (tradizione lombardo-milanese”). Insomma: «L’economia civile italiana aveva tenuto assieme il valore assoluto della persona e il valore, anche questo assoluto, della socialità; nel suo sviluppo successivo la scienza economica non è più riuscita in questo, e ha generato approcci individualisti o comunitaristi, dove l’uno è alternativo all’altro, ancora oggi». Tutto ciò non passa nel mainstream per una serie di motivi messi bene in luce sempre da Luigino Bruni: per «[…] l’ambigua posizione di Genovesi all’interno della chiesa cattolica» che lo rende non abbastanza cattolico per alcuni e non abbastanza laico per altri; per la stroncatura che Francesco Ferrara fece degli economisti classici italiani e che scoraggiò a seguirne le orme i loro successori dell’Otto e Novecento; per «[…] la formazione poco filosofica e storica e più tecnica, o applicata, dei protagonisti del pensiero cooperativo tra Otto e Novecento che di fatto operò un effetto cortina nei confronti del passato». Come un fiume carsico questa tradizione sembra quindi sparire ma ogni tanto riaffiora in superficie. Lo ha fatto scrivendo la storia del movimento cooperativo, come ha ben documentato lo stesso Bruni. Lo ha fatto ancora per certi versi con la fondazione della moderna ragioneria da parte di Fabio Besta e con la “rifondazione” della stessa disciplina nella più moderna “Economia aziendale” da parte del più insigne allievo di Besta, Gino Zappa (1879-1960), fino ad arrivare per questo filone al toscano Carlo Masini (1923-1998), a lungo docente alla Bocconi di Milano, che dedica il suo “Lavoro e Risparmio”, sul quale hanno studiato generazioni di aziendalisti, «[…] a chi nella ricerca della verità o nell’azione coerente dona sé stesso per il “bene comune”» e che definisce l’economia di azienda «disciplina del gruppo delle scienze della persona umana» che «ha per oggetto gli ordinamenti economici degli istituti che costituiscono la società civile». Ancora persona e ancora socialità, dunque, pur nell’apparente sterilità del calcolo ragionieristico-aziendale. Le acque di questo fiume sono riaffiorate anche con Achille Loria (1857 – 1953), altro insigne studioso italiano che ha decisamente puntato il dito contro l’economia della rendita. Senza avere la pretesa di essere esaustivi ma seguendo almeno qualcun’altra delle riemersioni, ritroviamo questa tradizione, poco dopo Loria, in Luigi Einaudi (1874-1961). Quest’ultimo ci aiuta a mettere in evidenza un altro aspetto di questa “via italiana” che risiede nell’indicare l’importanza delle motivazioni e della intenzionalità dell’azione economica volta a costruire il bene comune piuttosto che la felicità dei partecipanti al mercato. A differenza della tradizione di origine inglese che vede nella smithiana “mano invisibile” il meccanismo capace di assicurare il bene di tutti gli attori che, agendo per il proprio tornaconto, realizzano così inconsapevolmente anche quello di tutti gli altri secondo il principio dell’eterogenesi dei fini. Avvicinandoci ai nostri giorni ritroviamo le acque di questo fiume nella produzione di Giacomo Becattini (1927 – 2017) per il quale lo sviluppo economico di un particolare territorio si spiega con «[…] l’esistenza di un sistema di rapporti sociali consentaneo ante litteram all’industrializzazione». Questa “via italiana” al mercato si esprime oggi soprattutto negli studi di Luigino Bruni e di Stefano Zamagni, che molto hanno prodotto su questi temi a partire dal loro Economia civile. Efficienza, , felicità pubblica e dei loro colleghi più vicini alla tradizione dell’EC ed alla Scuola di Economia Civile di Firenze guidata dall’urbanista Elena Granata, siano essi “economisti” o “aziendalisti”: Sabrina Bonomi, Alessandra Smerilli, Giuseppe Argiolas, Benedetto Gui, Davide Maggi, Giuseppe Notarstefano, Vittorio Pelligra, Pier Luigi Porta (1945-2015), Renato Ruffini e molti altri. La sua manifestazione più recente è probabilmente dovuta all’economista “civile” Leonardo Becchetti, che oltre ad aver ideato il Festival Nazionale dell’Economia Civile che si tiene ogni anno a Firenze, ha recentemente raccolto oltre trecento colleghi economisti, non solo italiani, che si ispirano al paradigma dell’EC, nella formulazione di “Piano B” dallo stesso Becchetti definito “uno spartito per rigenerare l’Italia”.

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