Deriva dal latino cum petere, un’espressione che indica la qualità posseduta da un individuo che regge il confronto con qualcuno; inoltre, si riferisce anche ad una cerchia di persone, chiamata comunità professionale, che esprime un dominio in ordine ad uno specifico campo di sapere come nel caso della medicina oppure dell’insegnamento. In termini sintetici, per competenza si intende una qualità della persona, in forza della quale essa è in grado di affrontare efficacemente un’area di problemi connessi ad un particolare ruolo o funzione. Questa definizione evita di trattare la competenza come un oggetto, per collocarla invece nel vivo dell’azione sociale e delle dinamiche di relazione, scambio e riconoscimento che gli sono proprie. Per tale motivo, è preferibile parlare di “persona competente” piuttosto che di competenza. La persona competente è tale quando è ritenuta, da figure legittimate ad esprimere un giudizio (esperti, insegnanti, utenti…), in grado di mobilitare le risorse possedute (, , ) al fine di condurre un compito-problema verso una soluzione positiva. La competenza non è pertanto riducibile né a un sapere, né a ciò che si è acquisito con la formazione. Essa è una dotazione del soggetto umano in un contesto definito, e ne realizza le potenzialità. É interessante ricordare come l’espressione competenza, così come viene utilizzata attualmente, ha avuto origine nel Canada quando, alla fine della Seconda guerra mondiale, con il ritorno dei militari alla vita civile si è posto il problema di come riconoscere la preparazione che essi avevano acquisito nei diversi ambiti (logistica, , meccanica, elettronica…), al fine del loro inserimento nella vita civile. Essi erano infatti portatori di un sapere dimostrato, ma non avevano potuto, a causa della guerra, acquisire un titolo di studio, visto che il criterio sino ad allora imperante prevedeva per l’accesso a qualsiasi ruolo il possesso di un diploma risultante dall’aver frequentato con successo un percorso degli studi formalmente riconosciuto. Da qui l’idea di utilizzare il termine competenza per indicare l’equivalenza tra una padronanza acquisita in modo non formale tramite percorsi di formazione gestiti da organismi che non rilasciano titoli di studio (come nel caso dei reparti della logistica militare) o informale tramite l’ diretta sotto la guida di una figura senior. L’espressione competenza ha visto una decisa diffusione a partire dagli anni ‘70 quando, a seguito delle innovazioni tecnologiche ed organizzative connesse all’automazione, ha preso inizio un grande processo di trasformazione del che ha portato ad una drastica riduzione di figure di lavoratori prettamente esecutivi dedicati a porzioni del processo produttivo o amministrativo secondo l’impostazione del lavoro a frammenti di derivazione tayloristica, essendo tali figure progressivamente sostituite da lavoratori in grado di operare in un contesto complesso, sapendo affrontare i problemi che emergono in un ambiente in cui l’area delle mansioni routinarie era sempre più gestita dalle macchine e successivamente dagli elaboratori elettronici. Dalle declaratorie basate su qualifiche composte da mansioni, si è quindi passati a ruoli definiti in base a profili professionali che indicano i compiti e appunto le competenze necessarie alla loro positiva gestione. Infatti, in un contesto sempre più complesso, le attività di cui si occupano i lavoratori ai vari livelli non possono essere ridotte a sequenze prestabilite ma - specie in presenza di imprevisti e di progetti innovativi - richiedono una capacità del soggetto, in stretta cooperazione entro il team di appartenenza, di saper orchestrare le risorse disponibili, ed acquisirne di nuove, per giungere ad un risultato corrispondente a criteri di qualità, seguendo un percorso non prestabilito, quindi relativamente libero, purché quell’esito venga giudicato idoneo allo scopo atteso. L’espressione competenza, oltre ad essere dotata di un’intrinseca complessità poiché riguarda ambiti differenti di sapere e di azione, è anche oggetto di un intenso dibattito teorico che ha provocato varie interpretazioni, che possiamo ricondurre a tre grandi modelli di pensiero: a) coloro che considerano la competenza in chiave formale e prestazionale, ovvero come un costrutto determinato dalla composizione (che si può conoscere previamente e quindi programmare) di un insieme di conoscenze, abilità e comportamenti che consentono alla persona di sviluppare performance controllabili e valutabili; b) coloro che concepiscono la competenza come la caratteristica di un’organizzazione innovativa, basata sul modello della learning organization, partecipando alla vita della quale l’individuo viene stimolato ad apprendere divenendo così competente; c) coloro che, infine, - come detto in avvio - intendono la competenza come la caratteristica di una persona, posta in un particolare contesto, che è in grado di mobilitare le risorse possedute (capacità, conoscenze, abilità) al fine di assumere in carico i compiti-problema che via via emergono. La prima posizione (ISFOL, 1997) intende piegare le tradizionali programmazioni didattiche per contenuti e verifiche spostando l’attenzione dei docenti verso i risultati tangibili del processo di , sostanzialmente assunti come performance o comportamenti conformi alle esigenze dell’organizzazione. Il suo limite sta nel fatto che tali esigenze vengono assunte in modo assoluto e normativo, giungendo a definire repertori rigidi di unità formative capitalizzabili la cui reale rispondenza rispetto alle specifiche esigenze delle organizzazioni di lavoro appare dubbia, giungendo a delineare una sorta di neo-addestramento di stampo tayloristico anche se aperto a fattori spesso difficilmente definibili quali le cosiddette metacompetenze. La seconda posizione accentua l’assunto delle moderne teorie organizzative che abbandonano le tradizionali visioni funzionaliste ed organiciste per giungere a concepire le organizzazioni come insiemi olografici che, similmente al cervello umano, sono in grado di assorbire in ogni loro componente tutti gli elementi necessari ad affrontare compiti nuovi e imprevedibili. Tale visione concepisce l’individuo come un fattore assimilato ad un’organizzazione, legato da una relazione asimmetrica nella quale è quest’ultima a svolgere la funzione docente. Nella terza prospettiva, la competenza non è più ridotta ad una performance, ma viene concepita come una qualità della persona posta in modo attivo e responsabile di fronte ad un contesto che ne sollecita l’intraprendenza. Le Boterf (1998, p. 173) scrive a questo proposito: «In molti casi la nozione di competenza che viene utilizzata nei progetti risale a quella della fine degli anni ‘60: una somma di sapere, saper fare e saper essere. In realtà le competenze sono qualcosa di più complesso […]. La competenza è una costruzione: è il risultato di una combinazione appropriata di svariate risorse. Per questo è opportuno distinguere: le risorse necessarie alla costruzione delle competenze; le competenze propriamente dette, che si esprimono in termini di attività o pratiche professionali e corrispondono a ‘schemi’ specifici di ciascuna persona; le prestazioni (performances) che costituiscono i risultati verificabili delle azioni poste in essere (indicatori di qualità, tassi di soddisfazione della clientela, quantità di prodotti, tasso di valore aggiunto, quantità degli scarti, …). Le risorse derivano da un duplice equipaggiamento al quale la persona può ricorrere per costruire le sue competenze: il suo equipaggiamento personale (conoscenze, abilità savoir-fare, attitudini, esperienze, ecc.) e l’equipaggiamento che le viene dall’ambiente in cui vive (reti di rapporti umani, strumenti, banche dati, ecc.). Non esiste un rapporto puntuale fra ciascun elemento delle risorse e ciascuna competenza. La stessa risorsa può servire ad una pluralità di competenze. Ed esistono svariati assi per queste combinazioni, attorno ai quali si costruiscono le competenze. La capacità di combinare queste risorse è la competenza di una persona di costruire le competenze che le sono necessarie. Si tratta di una capacità molto complessa, una sorta di ‘scatola nera’ difficilmente accessibile e si trova nel cuore dell’autonomia di un individuo». Vista la complessità del termine competenza, risulta decisivo il dispositivo cui si fa riferimento. A livello istituzionale europeo si assume il modello delle Competenze chiave, una dizione che trae origine da un documento redatto nel 2002 da un gruppo di esperti nominati dalla Commissione europea dal titolo: “Le competenze chiave in una società fondata sulla conoscenza: un primo passo sulla via della loro selezione, della loro definizione e della loro descrizione”. Il documento faceva seguito al vertice di Lisbona del 2000 e al Consiglio europeo del febbraio del 2001, secondo il quale le competenze di base costituivano uno dei tre obiettivi prioritari, sui tredici individuati. Il gruppo ha ritenuto preferibile parlare di “competenze chiave” per molteplici ragioni, tra le quali il fatto che per molte persone il qualificativo “di base”, ricopre un insieme limitato di competenza di lettura, di scrittura e di calcolo, e ciò dà luogo spesso a confusione nei dibattiti, mentre il termine “chiave” è più dinamico e non presenta questo connotato. A conclusione dei suoi lavori, questo gruppo di esperti nel 2004 giungeva alle seguenti indicazioni: le competenze chiave rappresentano un insieme di conoscenze, abilità e atteggiamenti trasferibili e multifunzionali, di cui tutti gli individui hanno bisogno per un completamento e sviluppo personale, l’ sociale e il lavoro. Queste competenze dovrebbero essere sviluppate al termine della scuola o della formazione obbligatoria, e dovrebbero agire come fondamento delle ulteriori acquisizioni come componente dell’apprendimento che si colloca lungo tutto l’arco della vita. Per giungere a tale esito il gruppo aveva individuato tre criteri: compiutezza personale ed evoluzione durante tutta la vita; inclusione nella società; capacità di inserimento professionale. Inoltre, si riconosce che il concetto di competenza implica allo stesso tempo conoscenze, abilità e disposizioni interne stabili, che siano trasferibili e in qualche misura polivalenti. Nel caso delle competenze chiave, queste dovrebbero costituire un bagaglio trasferibile e polivalente necessario al compimento o allo sviluppo personale, come anche all’inclusione e all’impiego di ognuno, che si suppone essere state acquisite alla fine del periodo di scolarità o della formazione obbligatoria e che costituiscono il fondamento dell’ e della formazione lungo tutta la vita. In questo contesto sono stati individuati otto ambiti di competenze chiave (naturalmente per ciascun ambito si è giunti a una serie di esplicitazioni più dettagliate di competenza): Ambito della comunicazione nella lingua madre; Ambito della comunicazione in ; Ambito della matematica e scientifico di base; Ambito delle competenze digitali; Ambito dell’apprendere ad apprendere; Ambito delle competenze interpersonali e civiche; Ambito dell’imprenditorialità; Ambito dell’espressione culturale. Dalle indagini promosse nell’UE negli anni 2004-05 appariva una sostanziale convergenza nel considerare le seguenti competenze chiave: competenza linguistica (literacy); competenza matematica (numeracy); tecnologie della comunicazione e dell’informazione; lingue straniere; competenza scientifica; competenze trasversali; competenze sociali. Verso la fine del 2005 veniva pubblicato dall’OCSE un rapporto che faceva il punto sulla questione delle competenze essenziali del cittadino rileggendole sotto la dizione di “competenze chiave”. In tale documento si evidenziavano tre fondamentali criteri per selezionarle e definirle: importanza dei benefici economici e sociali che ne derivano; ampiezza dello spettro di contesti nei quali si manifestano tali benefici; universalità di tali benefici, nel senso che non sono limitati a specifiche categorie di persone. L'aggregazione proposta per combinare tra loro le competenze individuate su tale base utilizza concetti di interazione e di riflessività. Le categorie individuate sono le seguenti: 1) Agire in modo autonomo; 2) Servirsi di strumenti in maniera interattiva; 3) Interagire in gruppi socialmente eterogenei. Alcuni contributi francesi hanno sottolineato un peculiare concetto di competenza chiave, mettendo in evidenza soprattutto la dimensione del “saper essere”. Evéquoz (2004), in particolare, ha sviluppato un’analisi sistematica delle competenze chiave richieste da un cittadino e da un lavoratore sulla base di una definizione comprensiva di competenze che suona così: «[…] capacità di una persona di agire con iniziativa e responsabilità in una situazione data, in funzione della prestazione attesa e mettendo in moto le sue risorse interne». Ne è derivato un quadro di riferimento o referenziale abbastanza elaborato che comprende sei ambiti generali nei quali viene definita una competenza, che poi è articolata secondo capacità specifiche e indicatori della presenza di tale capacità. Le sei e sono: a) Trattare l’informazione; b) Organizzare; c) Risolvere problemi; d) Lavorare in équipe; e) Inquadrare; f) Comunicare. Una competenza può essere dunque definita “chiave” se essa svolge un ruolo centrale nella crescita personale, culturale, sociale e professionale dei soggetti in formazione. La condizione essenziale perché tale ruolo possa essere messo in atto è che esse possano progressivamente irrobustirsi ed essere utilizzabili in contesti sempre più complessi e meno familiari. è questa una concezione delle competenze chiave che possiamo definire dinamica, in contrasto con una possibile interpretazione riduttiva di tipo statico, assimilabile ad una piattaforma che può anche apparire solida, ma che in realtà risulta chiusa in se stessa, intesa come “tassello” indispensabile per poter impostare la costruzione dell’edificio conoscitivo progettato, che però presenta solo un legame labile, e ridotto ad una sorta di funzionalismo meccanico, con gli elementi che compongono tale piattaforma. In altre parole, una competenza acquisita in un processo formativo scolastico o di può essere considerata una competenza chiave, quando gli elementi che la costituiscono (conoscenze concettuali, abilità operative intellettuali e pratiche, disposizioni interne stabili) sono aperti a un loro sviluppo e approfondimento. Tali elementi, cioè, costituiscono un patrimonio personale posseduto a un livello di comprensione, stabilità e utilizzabilità così da poter essere valorizzato nei processi di trasferimento e adattamento in altri contesti diversi o più impegnativi. Ma sin qui stiamo parlando di costrutti di competenza elaborati entro consessi di specialisti e tradotti in dispositivi metodologici da adottare da parte degli attori dei sistemi di , istruzione, formazione e lavoro. Com’è noto, il passaggio dall’elaborazione alla cosiddetta fase di implementazione non consiste mai in un mero adattamento al contesto di un dispositivo prodotto da un’equipe di esperti, ma si presenta come il tentativo di immissione di un fattore estraneo ad un sistema sociale complesso che, in quanto tale, “pensa” questa operazione alla luce del sistema di significati preesistente e del modo condiviso di lettura dei problemi ivi presenti. È facile, quindi, che nel passaggio all’applicazione reale si creino fenomeni definiti eterogenesi dei fini, che consistono nel fatto che le condotte reali assumono una curvatura o intenzionalità che modifica anche radicalmente lo scopo per cui tale dispositivo è stato originariamente pensato. È estremamente utile, pertanto, dopo aver approfondite le dimensiono teoriche e metodologiche della competenza, una riflessione su come il modello delle competenze ha impattato con il contesto italiano e quale itinerario ha seguito la sua applicazione. L’adozione nel nostro Paese della “ delle competenze” è avvenuta in gran parte a partire dagli anni ‘90 sulla spinta della politica europea dell’istruzione e della formazione sopra presentata. Da allora, ogni norma, accordo, indicazione o linea guida riguardante il sistema educativo, ma anche quello del lavoro, ha fatto sistematicamente riferimento a questo modello. Ciò ha aumentato la sua importanza, ma ha anche suscitato un ampio dibattito nel quale sono emerse posizioni fortemente discordanti. I dispositivi elaborati nel contesto europeo, in base al costrutto di competenza possono essere riassunti nei seguenti due: Il primo concepisce la competenza come “cittadinanza attiva” e si riferisce ai requisiti propri di un soggetto che desidera contribuire in maniera efficace a una cultura della democrazia e a vivere insieme in pace in società democratiche e culturalmente diverse. Ciò risulta chiaro nella seguente specificazione delle sue finalità: «[…] mobilitare e utilizzare valori, atteggiamenti, attitudini, conoscenze pertinenti e/o una comprensione, per rispondere in modo appropriato ed efficace alle esigenze, alle sfide e alle opportunità che si presentano in situazioni democratiche e interculturali. La competenza è vista come un processo dinamico in cui un individuo mobilita e utilizza un insieme di risorse psicologiche in modo attivo e flessibile per affrontare situazioni nuove o impreviste» (Consiglio d’Europa 2016, p. 6). Il secondo pensa la competenza come il fondamento di un dispositivo di descrizione dei requisiti delle persone, in modo da renderne esplicite le padronanze variamente acquisite. Il caso più rilevante riguarda EQF (European Qualification Framework), una griglia di conversione e lettura che consente di mettere in relazione e posizionare, in una struttura a otto livelli, i diversi titoli (qualifiche, diplomi, certificati ecc.) rilasciati nei Paesi comunitari tramite un confronto basato sugli esiti di apprendimento rappresentati nella forma di un costrutto culturale entro cui convergono conoscenze ed abilità. Tale sistema prevede cinque finalità: illustra in modo univoco i risultati dell’apprendimento, facilitando e potenziando la libera circolazione delle persone nello spazio comune europeo; pone al centro dell’apprendimento la competenza intesa come “la capacità dimostrata di utilizzare le conoscenze, le abilità e le attitudini personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello e/o personale, secondo i due criteri base di responsabilità e autonomia”; propone una relazione “attiva” tra competenze, abilità e conoscenze, esibite tramite evidenze tali da dimostrare che il soggetto sa agire e reagire sapendo mobilitare in modo pertinente ed appropriato ciò che sa e sa fare; valorizza tutti i (learning outcomes) variamente ottenuti - attraverso percorsi formativi formali, non formali e informali - articolati in otto diversi livelli; rappresenta la struttura di base per una certificazione riconosciuta non solo dagli organismi formativi ma anche dal sistema dei servizi per il lavoro e delle imprese, in riferimento al percorso di accrescimento delle c. lungo tutto il corso della vita. Occorre ricordare che il periodo in cui vengono applicati nel contesto italiano i dispositivi fondati sul nuovo paradigma delle competenze è fortemente segnato dalla crisi del sistema educativo, e da un dibattito spesso lacerante tra innovatori e tradizionalisti fortemente in disaccordo sulle cause, le responsabilità e soprattutto le terapie volte al superamento della stessa. In altri termini, la scuola e gli altri organismi formativi, compresi anche quelli aziendali, erano alla ricerca di un’alternativa alla didattica ordinaria, in riferimento al suo essere basata su un programma composto da unità progressive e lineari, centrate sul trasferimento negli alunni di conoscenze ed abilità, un approccio sempre meno in grado di suscitare le motivazioni e l’attenzione necessaria ad una progressione positiva dei percorsi degli studi. In tal modo, in un primo tempo i fautori della linea dell’innovazione hanno visto nella prima accezione di competenza come finalità generale dell’educazione, la possibilità di fare della didattica delle competenze un’alternativa della didattica delle discipline, accusata di mirare esclusivamente alla trasmissione e ripetizione di “nozioni”, sostenendo la superiorità dell’approccio per competenze in quanto questo attribuisce alla lo scopo di verificare non solo ciò che uno studente sa, ma ciò che “sa fare con ciò che sa”, fondato su una prestazione reale e adeguata dell’apprendimento. Ma nel corso degli anni questa prospettiva “paradigmatica” ha mostrato alcuni importanti limiti: il riduzionismo applicato al sapere, che si esprime attraverso «[…] la tendenza a reificare, materializzare e classificare fenomeni complessi trattandoli come se fossero entità concrete». (Cepollaro 2008, p. 77); Il funzionalismo che guarda alle conoscenze come mere risorse incorporate in prodotti, sottovalutando così la dimensione epistemica e quelle poetica, estetica e spirituale, ma anche il vasto campo dell’intelligenza intuitiva; la standardizzazione dei processi di apprendimento entro unità formative prestabilite e “capitalizzabili”, creando un sistema che finisce per formare negli studenti un teso all’adempimento piuttosto che a concentrare l’attenzione sull’apprendimento espansivo, che consiste nella capacità del soggetto nell’andare oltre l’informazione data, “attraversando i confini” e mostrando di sapere affrontare problemi nuovi e costruire nuovi modi di soluzione degli stessi. Dalla riflessione critica sulle esperienze applicative di tale modello è emersa nel tempo una preferenza per la seconda concezione della competenza, intesa non più come risposta totalizzante alle questioni connesse alla crisi dell’educazione, ma più realisticamente come dispositivo di accountability che consente di mettere in evidenza il valore sociale del sapere acquisito dalle persone in rapporto alle aree di compiti connesse alla ed al lavoro. Allo stesso tempo, i tentativi di risposta alla crisi hanno attribuito sempre maggiore rilevanza alle c competenze trasversali (competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare; competenza in materia di cittadinanza; competenza imprenditoriale; competenza in materia di consapevolezza ed espressione culturali) in quanto dotate di un respiro più profondo sul piano culturale e nel contempo più espressivo del mondo personale dello studente. La coscienza circa il valore della profondità culturale è anche merito delle ricerche ed elaborazione di OCSE e UNESCO che, avendo riconosciuto gli effetti distorsivi dell’immissione di una didattica genericamente “attiva” ed eccessivamente schiacciata sulla realtà, e vedendo gli effetti negativi prodotti da curricoli “larghi un chilometro ma profondi un centimetro”, hanno sostenuto la necessità di un recupero selettivo dei nuclei del sapere e di una didattica orientata alla profondità dello stesso. Accanto a ciò viene avanzato un giudizio fortemente critico circa la presenza nella comunità degli insegnanti di un disaccordo spesso radicale circa i fondamenti e gli scopi dell’azione educativa, fattore che riduce drasticamente l’efficacia in termini di apprendimenti e di maturazione personale degli studenti. La ricerca di una maggiore personalizzazione della didattica è segnalata dall’ampia diffusione di temi quali , non cognitive skill, , life skill, disposizioni personali, competenze trasversali, che possono essere considerati tentativi orientati a rendere significativa l’ degli studi in termini di educazione morale e di formazione della personalità. Bibliografia Ajello A.M. (Ed.), La competenza, Il Mulino, Bologna, 2002. Cepollaro g., Le competenze non sono cose. Lavoro, apprendimento, gestione dei collaboratori, Guerini e Associati, Milano, 2008. Consiglio d’europa (2016), Competenze per una cultura della democrazia. Vivere insieme in condizioni di parità in società democratiche e culturalmente diverse. Sintesi, Council of Europe Publishing F-67075 Strasbourg Cedex, 2016. Engeström y., Developmental Work Research. Expanding Activity Theory in Practice, ICHS, Berlino, 2005. Evequoz g., Les compétences clés, Ed. Liaisons, Paris, 2004. Isfol, Unità capitalizzabili e crediti formativi. 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