Cervelli in fuga. È la formula usata per descrivere la migrazione di tanti giovani italiani, ad alto profilo professionale e scientifico, verso altri Paesi - non solo europei - dove possono trovare l’occupazione e il riconoscimento, che, invece, non ottengono da noi. Si tratta di una formula efficace e, per questo, ricorrente, nel linguaggio comune oltre che nella pubblicistica. Tuttavia, ammetto che non mi piace.
Come ho già scritto e argomentato sulla Repubblica (4.11.2013). Perché i cervelli, nei Paesi liberi, sono liberi. E oggi possono sconfinare ovunque, grazie alle nuove tecnologie della comunicazione. Che mettono “in rete” idee, competenze, opinioni. Difficile confinarli e costringerli. I cervelli.
L’unica gabbia che possa imprigionarli è il loro corpo. Se i “cervelli” se ne vanno dall’Italia è perché fuggono dal loro “corpo” (sociale). Troppo vecchio per permettere loro di esprimersi. O almeno: di “operare”. Di utilizzare la loro opera. L’Italia è un Paese vecchio. Il più vecchio d’Europa. Dopo la Germania, che, però, può permettersi di invecchiare perché attira i giovani migliori dagli altri Paesi. Compreso il nostro. E li trattiene, li utilizza al meglio. Mentre i nostri giovani se ne vanno, noi non ci accorgiamo di invecchiare.
Perché siamo sempre più vecchi. Così ci immaginiamo giovani, sempre più a lungo. Fino a 40 anni. E rifiutiamo di invecchiare. Secondo gli italiani – come ho già scritto altre volte – per dirsi vecchi occorre, infatti, aver superato 84 anni (indagini Demos). Considerata la durata media della vita, dunque, in Italia ci si rassegna a essere vecchi solo dopo la morte. Intanto, i giovani, in Italia, diminuiscono.
Sono sempre di meno. Come i figli. Il tasso di fecondità per donna è 1,4. Fra i più bassi al mondo. Se il nostro declino demografico si è interrotto, da qualche anno, è per il contributo fornito dagli immigrati. Che, tuttavia, non hanno modificato la nostra autopercezione. Noi continuiamo a invecchiare e a far pochi figli, mentre Loro sono giovani e fecondi. In altri termini, abbiamo riprodotto i confini al nostro interno nei confronti degli Altri. Gli immigrati, infatti, restano Stranieri, anche quando sono italiani, da più generazioni.
Anche quando diventano ministri…
Così invecchiamo senza accorgercene e senza accettarlo. Investiamo le nostre risorse nell’assistenza e nella sanità, com’è giusto. Molto meno nella scuola, nella formazione, nell’università (da qualche tempo ho cominciato a scriverla con l’iniziale minuscola). Cioè, nei giovani. Nei figli. Nel futuro. A loro – ai figli e ai giovani – ci pensano gli adulti. In fondo, quasi 8 italiani su 10 tra 18 e 38 anni (e quasi 3, fra 30 e 34 anni) risiedono con i genitori (Istat, 2011). Sottolineo: non “vivono” ma “risiedono”. Cioè: fanno riferimento a un’abitazione e a una famiglia, per affrontare una biografia sempre più precaria e intermittente. I dati, a questo proposito, sono espliciti e crudi.
L’Italia è il Paese con il più alto tasso di disoccupazione giovanile in Europa. Oltre il 40% (fra 15 e 24 anni), in ulteriore crescita nel 2013. Nelle regioni del Mezzogiorno raggiunge quasi il 50%. Non solo, l’Italia è anche il Paese dei Neet. Quelli che non studiano e non lavorano. Circa 2 milioni: il dato peggiore, nei Paesi dell’Ocse, dopo il Messico. I giovani: una generazione precaria e disoccupata. Sono pochi e non scendono più in piazza, come un tempo. Così, non hanno peso politico.
I genitori, sempre più anziani, non sopportano questi figli senza futuro. Ma in fondo, anche se in modo inconsapevole, non ne sono del tutto dispiaciuti. Perché, senza di loro, i figli non potrebbero affrontare un percorso tanto precario. Ma se i figli (unici) si staccassero dalla famiglia troppo presto e in modo definitivo, loro - i genitori - resterebbero soli. Per questo, si instaura un legame di reciproca dipendenza e complicità. I giovani se ne vanno, ma ogni tanto ritornano. A casa, dai genitori. Da cui dipende la loro condizione fragile. I genitori li lasciano andare, ma li attendono. Per paura della solitudine.
Così, i giovani, peraltro sempre più adulti (la sociologia delle generazioni ha coniato, al proposito, il neologismo “giovani adulti”. Quasi un ossimoro per definire coloro che hanno 30-35 e perfino 40 anni), emigrano. Se ne vanno altrove. Di certo, non debbono affrontare l’esodo drammatico dei disperati che partono dai Paesi dell’Africa e del Medio Oriente, stipati nei barconi. Per fuggire dalla guerra e dalla povertà. I “nostri” giovani se ne vanno con il sostegno delle famiglie. Addestrati da periodi di studio all’estero (Erasmus e Master), trascorsi durante e dopo l’università.
Cercano e spesso trovano occupazione. In alcuni casi, di livello elevato. Perché i “giovani cervelli”, in Italia, sono formati da un sistema scolastico e universitario che, nonostante gli sforzi per logorarlo, ancora resiste. E produce laureati e post-laureati di qualità. Apprezzati. Fuori dall’Italia. Così si spiega la crescita continua degli italiani che si trasferiscono all’estero. Quasi 80mila, nel 2012, secondo le stime ufficiali (dati AIRE elaborati da Radio 24). Di fatto, circa il doppio.
Al loro interno, i giovani – più o meno adulti – sono in aumento e pesano per circa il 45%. Se ne vanno, prevalentemente, in Europa (Germania e Gran Bretagna, anzitutto), ma anche in America Latina, negli Usa, in Australia. Non è una “fuga”, ma la ricerca di lavoro e di esperienza, in un mondo dove i confini sono sempre più aperti – soprattutto per chi non proviene dai Paesi poveri. Un mondo dove i “cervelli” sono sempre ben accolti.
Questo è il problema, per l’Italia. Non che i nostri “cervelli” se ne vadano. Ma poi che non ritornino. E poco si faccia per farli rientrare. O per attirarne altri, di eguale qualità e competenza. Perché noi importiamo lavoratori a bassa qualificazione. Ed esportiamo i nostri figli, dopo che hanno concluso o comunque sviluppato il loro percorso di studi. Perdiamo i giovani e i cervelli. Perché siamo incapaci di offrire loro un destino coerente con le loro attese e le loro competenze.
Così è comprensibile, perfino conseguente, che quasi tutti i giovani (8 su 10, dati Demos) siano convinti che, per fare carriera, occorra partire. Dall’Italia. Un Paese vecchio. Che maschera l’età e le rughe in modo artefatto – e un po’ patetico. E lascia partire i giovani, senza farli tornare. Illudendosi di fermare il tempo. Di non invecchiare. Mentre, così, nasconde soltanto il futuro. Per recuperare l’avvenire, il nostro Paese dovrebbe – anzi, deve – recuperare la gioventù. Non perché solo i giovani siano capaci di innovare. E i vecchi non siano in grado di spingere e di orientare il cambiamento.
Però, è indubbio che un Paese vecchio abbia un futuro più corto. Un domani più limitato. Mentre la presenza dei giovani allarga e allunga le prospettive. L’orizzonte. Perché i giovani hanno il futuro davanti a sé. Mentre i vecchi, gli anziani come me, ce l’hanno dietro le spalle. Per questo, l’Italia, nonostante tutto, deve diventare un “Paese per giovani”. Che non costringe i propri giovani a restare. Ma, piuttosto, come ho già ripetuto, rende vantaggioso, anche per loro, rientrare. O per altri giovani, di altri Paesi, magari ad alto livello di formazione, venire da noi.
Diventando “un Paese per giovani”. Sicuramente, è difficile intraprendere la strada della “ripresa demografica”. In Italia la riduzione della natalità, come avviene dovunque, è strettamente connessa agli indici di sviluppo, di crescita del benessere e della ricchezza. La relativa ripresa demografica degli ultimi anni, da noi, è sostenuta dagli immigrati. Anche per questo sarebbe, anzi, è importante (come è avvenuto in altri Paesi) favorire l’integrazione delle persone e delle famiglie che sono giunte da noi, in misura ampia e crescente, negli ultimi dieci anni. Soprattutto i giovani che sono nati in Italia. I “nuovi italiani”. Integrarli, garantire loro cittadinanza, è giusto. Ma è anche utile.
Per fermare il declino. Per ritrovare il futuro. Trattarli come stranieri non può che renderci stranieri a noi stessi. Perché stiamo diventando sempre più estranei rispetto al mondo. Il mondo globale, ma anche locale. Il mondo intorno a noi, che scandisce la nostra vita quotidiana. Stranieri: perché fatichiamo a comprendere i cambiamenti, sempre più rapidi e violenti. Che avvengono, vicino e lontano da noi. Anche perché le distanze, ormai, sono sempre meno significative. Tutto è qui. Tutto è ora.
Il problema è che, mentre ci interroghiamo e discutiamo – anche aspramente – sui diritti di cittadinanza degli immigrati e dei loro figli, gli immigrati e i loro figli hanno cominciato a emigrare, di nuovo. Altrove. In altri Paesi, dove c’è più lavoro e più accoglienza. Verso gli stessi Paesi dove si sono diretti i nostri figli, che non rientrano più. Così, oltre al cervello rischiamo di perdere anche il futuro.
Per paura degli Altri. Mentre dovremmo avere paura soprattutto di Noi.
Ilvo Diamanti
(articolo tratto da la Rivista del Banco Popolare)